Socialdemocrazia
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Nome assunto in Germania dal Partito socialista marxista tedesco
all’atto del suo distacco dal partito progressista e della sua
costituzione in partito autonomo (congresso di Lipsia, 1863). Per
estensione, nome dei partiti socialisti sorti in altri paesi sul
modello della s. tedesca.
Dopo la rivoluzione russa e la formazione dei partiti comunisti,
denominazione delle forze politiche e ideologiche socialiste in
quanto si contrappongono, accettando l’ordine legale delle
democrazie liberali, al metodo rivoluzionario comunista.
Dopo la Seconda guerra mondiale, per s. si intende il socialismo
riformista (quindi non più marxista), ispirato ai principi della
democrazia parlamentare, rispettoso dei diritti individuali di
libertà (inclusa la libertà di mercato) e fautore del welfare state,
per realizzare una maggiore equità sociale e correggere i ‘difetti’
del mercato.
Dizionario di Storia (2011)
Il nome s., assunto in Germania dal Partito socialista
tedesco al suo nascere, si è poi generalizzato a tutti i
partiti socialisti di altri Paesi che si sono formati su quel
modello dopo la fine della prima Internazionale.
Il movimento operaio tedesco, che già nel Congresso di Lipsia (1863)
aveva affermato la propria autonomia dalla sinistra borghese, si
configurò come un partito politico organizzato nel 1875, quando nel
Congresso di Gotha varie associazioni di lavoratori diedero vita al
Partito socialista dei lavoratori; dal 1890 esso assunse la
denominazione, tuttora vigente, di Partito socialdemocratico tedesco
(SPD). Il crescente influsso del marxismo si espresse nel programma
di Erfurt (1891), divenuto ben presto comune alle s. degli altri
Paesi: il partito, che propugnava la lotta di classe come mezzo per
l’emancipazione del proletariato, intendeva conquistare attraverso
l’azione politica le indispensabili condizioni di libertà e
l’attuazione dei suoi postulati nella legislazione sociale. Il
partito politico si assumeva la funzione direttiva del movimento
proletario, per guidarlo alla realizzazione delle finalità
socialiste.
Da questa sua funzione preminente e dal trasferimento dell’azione
sul terreno legale della lotta politica, nacquero via via i
contrasti tra le diverse tendenze interne che avrebbero travagliato
la vita del partito. Nel 1899, la pubblicazione de Die
Voraussetzungen des Sozialismus und die Aufgaben der
Sozialdemocratie di E. Bernstein avviò una profonda
revisione del pensiero marxista e spinse i socialdemocratici ad
abbandonare la prospettiva rivoluzionaria.
I contrasti tra riformisti e rivoluzionari precipitarono in
concomitanza dello scoppio della Prima guerra mondiale, quando i
partiti socialisti europei, salvo poche eccezioni, si schierarono a
fianco dello sforzo militare dei rispettivi Stati, sancendo di fatto
la crisi della seconda Internazionale (1889-1914).
Il conflitto fu l’occasione per l’individuazione, all’interno dei
differenti partiti socialisti, di minoranze rivoluzionarie che
cominciarono a organizzarsi a partire dal 1916 e che lo scoppio
della Rivoluzione russa contribuì a mobilitare: dallo sviluppo di
queste frazioni nacquero i nuovi partiti comunisti.
A partire da questo momento, s. divenne la denominazione delle forze
politiche e ideologiche socialiste che rifiutavano il modello
sovietico, pur rimanendo in genere ancorate al marxismo.
Dopo la Seconda guerra mondiale, per s. si intende il socialismo
riformista (quindi non più marxista), ispirato ai principi della
democrazia parlamentare, rispettoso dei diritti individuali di
libertà, inclusa la libertà di mercato, e fautore del welfare State,
per realizzare una maggiore equità sociale e correggere i «difetti»
del mercato.
Enciclopedia Italiana - V Appendice (1995)
di Leonardo Rapone
(XXXI, p. 987)
Esistono due diversi usi del termine s., che designa sia determinati
movimenti o partiti politici, sia una specifica teoria e prassi
politica. Nell'accezione partitica la s. s'identifica con le
organizzazioni denominatesi socialdemocratiche. Nella s. come
categoria politica rientrano invece, per l'ispirazione e i contenuti
della loro azione reale, anche partiti altrimenti denominati:
l'ampiezza d'applicazione del concetto politico di s. può essere
dunque soggetta a giudizi diversi, secondo i fattori considerati
costitutivi dell'identità socialdemocratica. Si deve ammettere,
tuttavia, che proprio perché ha carattere di categoria formatasi
attraverso l'interpretazione e la comparazione dei fenomeni
politici, il concetto di s. non implica un solo modello politico, ma
è compatibile con varie esperienze pratiche, entro un campo di
riferimenti comuni.L'avvento della socialdemocrazia. Quando, negli
ultimi decenni dell'Ottocento, diversi partiti che intendevano
organizzare politicamente il proletariato industriale iniziarono a
denominarsi socialdemocratici (il primo fu quello tedesco, fondato
nel 1869), l'espressione s. aveva un contenuto politico vago e
generico, limitandosi a rappresentare la volontà di andare oltre la
pura democrazia politica, verso una democrazia sociale
caratterizzata dall'attuazione di idealità socialiste variamente
intese. Malgrado il prevalente richiamo al marxismo, nei partiti
socialdemocratici coesistevano concezioni ideologiche e politiche
talvolta anche fortemente in contrasto, e in questa situazione al
termine s. non corrispondeva ancora una determinata visione degli
scopi della politica socialista (v. socialismo, XXXI, p. 990; App.
II, 11, p. 848). Vero è però che attraverso queste lotte
ideologiche, con lo sviluppo di tendenze riformiste nei partiti
d'ispirazione socialista, si posero le premesse di quelle che più
tardi furono identificate come politiche propriamente
socialdemocratiche. La gradualità degli obiettivi, la valorizzazione
delle conquiste parziali, la ricerca del consenso con mezzi legali,
l'adesione alle regole della democrazia − tutti elementi costitutivi
del riformismo socialista nell'età della Seconda Internazionale a
cavallo tra Ottocento e Novecento −, sono infatti un prerequisito di
qualsiasi strategia socialdemocratica.
Tra il riformismo socialista d'inizio Novecento e le successive
politiche socialdemocratiche intercorrono però due notevoli
differenze. Innanzitutto la diversa estensione dell'impegno
riformatore, che si esplicava allora soprattutto nel campo della
redistribuzione del reddito, mentre nel caso della s. in senso
proprio avrà applicazione anche sul versante del controllo del ciclo
economico e dello sviluppo. In secondo luogo il cambiamento
d'orizzonte delle politiche di riforma: mentre il primo socialismo
riformista (con l'eccezione del "revisionismo" di E. Bernstein in
Germania, che più anticipa taluni caratteri della moderna s.) ha
ancora lo sguardo rivolto al futuro, all'obiettivo della gestione
sociale dell'economia, con l'avvento della s. in senso proprio il
fulcro della politica costruttiva delle forze socialiste si sposterà
nel presente e le riforme saranno viste non più come tappe di
avvicinamento a una meta finale, ma come elementi costitutivi
dell'opera di realizzazione del socialismo. Insomma: perché dal
riformismo socialista potesse germinare davvero la s. era necessario
un nuovo concetto sia delle riforme sia del socialismo.
Fu dopo la rivoluzione bolscevica del 1917 in Russia che la nozione
di s. iniziò a caricarsi di significato e a individuare una
particolare impostazione della politica socialista, quella dei
partiti operai che non erano disposti ad attribuire valore normativo
all'esperienza russa e a riconoscersi nella precettistica leninista.
La decisione dei bolscevichi di mutare il nome del loro partito da
socialdemocratico in comunista (1918) fu l'evento simbolico di
questa evoluzione concettuale e, con la sua carica di rottura verso
ciò che la s. rappresentava, contribuì a dare sostanza politica a
quella che fino allora era stata soltanto una delle possibili
denominazioni dei partiti che si richiamavano al socialismo. Dopo
questa svolta, tuttavia, l'identità della s. si trovò fondata più su
una negazione − il rifiuto del comunismo e del modello sovietico −
che su un'ideologia e una strategia comuni: per tutto il periodo fra
le due guerre la s. costituì una realtà articolata e poliedrica, in
cui convivevano ispirazioni teoriche e realizzazioni pratiche
eterogenee e nazionalmente differenziate. A ciò si aggiunse la
diversità dei destini politici dei maggiori partiti socialisti:
alcuni travolti dall'avvento di regimi totalitari (Italia, Germania,
Austria); altri cimentatisi senza particolare successo alla guida
del governo dei rispettivi paesi (Regno Unito, Francia, Belgio);
altri ancora divenuti invece egemoni sulla scena politica nazionale
(Danimarca, Norvegia, Svezia).
In questa molteplicità di esperienze è però possibile seguire la
progressiva affermazione dei caratteri politici destinati col tempo
a costituire la sintesi socialdemocratica e a dotare finalmente il
nome di s. di un significato positivo sufficientemente definito. Il
processo si svolse lungo tre direttrici. In primo luogo s'impose
l'indissolubilità del nesso tra qualsiasi progetto di carattere
socialista e la democrazia politica, intesa non solo come via al
potere, ma come principio organizzatore di ogni futuro assetto della
società. In secondo luogo nei partiti socialisti ottenne crescenti
riconoscimenti il principio della coalizione con altre forze
politiche per lo svolgimento dei compiti di governo e si manifestò
la tendenza a una modificazione delle tattiche e dei linguaggi, in
modo da rendere possibile la rappresentanza non solo di particolari
interessi di classe ma di più vaste correnti popolari. Infine il
socialismo sentì il bisogno d'individuare criteri direttivi per una
politica economica di breve e medio periodo che consentisse di
operare all'interno del mercato senza soggiacere all'automatismo dei
suoi meccanismi spontanei. Quest'ultimo fu il banco di prova più
arduo, perché implicava la rinuncia, almeno tacita, all'idea che il
fine economico del socialismo fosse la collettivizzazione dei mezzi
di produzione e l'edificazione di una società altra e diversa da
quella basata sul mercato.
Alla fine della prima guerra mondiale l'obiettivo della
socializzazione dell'economia, sia pure al termine di un lungo
periodo di transizione, campeggiava ancora nei programmi dei partiti
socialisti, che però, allora come più tardi negli anni Venti, non
riuscirono a compiere alcun progresso in quella direzione e furono
perciò indotti a riflettere sulle possibilità di riforma e di
democratizzazione dell'economia senza passare preliminarmente
attraverso il mutamento del regime proprietario. La spinta decisiva
a questa elaborazione venne dalla grande crisi economica degli anni
Trenta, quando la necessità di rimedi d'immediata efficacia alla
stasi del ciclo produttivo e alla disoccupazione di massa divenne
impellente, mentre le tecniche per il trattamento della congiuntura
suggerite dall'ortodossia liberale si rivelavano inadeguate alla
gravità del momento.
Dopo che i partiti socialisti che per primi si erano trovati ad
affrontare la crisi da una posizione di governo (Germania 1928-30,
Regno Unito 1929-31) erano andati incontro a fallimenti che avevano
palesato i vuoti della loro cultura economica, giunse l'ora delle
soluzioni innovative. Quella di maggior successo fu la politica
anticrisi della s. svedese, che nel 1932 iniziò un'esperienza di
governo prolungatasi ininterrottamente fino al 1976. La novità
svedese consistette nel deliberato impiego delle risorse finanziarie
dello stato, anche attraverso deficit di bilancio, per l'attuazione
di vasti programmi di lavori pubblici destinati a ridurre la
disoccupazione e a suscitare la ripresa degli investimenti e del
mercato, con una funzione compensatoria rispetto all'inazione dei
soggetti economici privati. Questo fu il primo e più completo
esempio di applicazione delle tecniche economiche anticongiunturali
poi definite keynesiane, che in Svezia avevano una fonte
d'ispirazione autonoma nell'elaborazione della Scuola economica di
Stoccolma (soprattutto di G. Myrdal) e in alcuni contributi del
pensiero socialdemocratico. In particolare E. Wigforss aveva
dimostrato la necessità dell'intervento dello stato per alzare il
livello della domanda e sopperire all'incapacità del mercato di
assicurare il pieno impiego dei fattori produttivi. N. Karleby e O.
Undén, a loro volta, in base all'assunto secondo cui il diritto di
proprietà non costituisce un'entità unica e indivisibile, ma è
formato da un complesso di diritti che possono essere esercitati in
relazione all'oggetto del possesso, impostarono quella che diverso
tempo dopo, negli anni Sessanta, è stata definita la teoria del
socialismo funzionale, la quale sostiene che ognuna delle funzioni
in cui si articola la proprietà può essere singolarmente avocata o
regolata dallo stato per raggiungere finalità socialiste, senza
necessità di far ricorso a una socializzazione integrale.
Esperienze in parte simili a quella svedese furono realizzate in
Danimarca e in Norvegia, e iniziò così a delinearsi quel ''modello
scandinavo'' che tanta parte ha avuto nella storia della
socialdemocrazia. La conseguenza delle innovazioni teorico-politiche
degli anni Trenta, attraverso cui si posero le basi della s.
contemporanea, fu che il socialismo cominciò a presentarsi come un
problema non più tanto di proprietà quanto di controllo e di
gestione del processo economico. Il compromesso con lo sviluppo
capitalistico in seno a un'economia mista si avviò a diventare
l'orizzonte delle politiche socialdemocratiche, alle quali il
keynesismo fornì la più valida giustificazione teorica
dell'intervento pubblico a sostegno della domanda e
dell'occupazione.
Dalla seconda guerra mondiale a Bad Godesberg.
Nel quindicennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale
i nuovi caratteri della s. si consolidarono e si diffusero in gran
parte dell'Europa occidentale, anche se non vi fu uniformità tra le
diverse esperienze nazionali. A una questione fondamentale però −
quella dell'atteggiamento nei confronti del mercato e del rapporto
fra potere pubblico e iniziativa economica privata − i partiti
socialisti che andavano definendosi in senso socialdemocratico
finirono tutti per dare risposte che andavano verso la separazione
del concetto di socialismo da quello di socializzazione, secondo la
linea indicata dal rinnovamento teorico e politico che si era
verificato negli anni Trenta.
All'inizio del periodo postbellico il laburismo inglese parve
scegliere una via diversa da quella della s. svedese, dato che la
creazione di un settore economico pubblico, con il passaggio allo
stato di industrie e servizi di primaria importanza, fu parte
notevole, accanto allo sviluppo del Welfare State, dell'opera dei
governi presieduti da C.R. Attlee (1945-51); in Svezia, invece, i
socialdemocratici puntarono sull'attribuzione allo stato di poteri
di controllo che consentissero d'indirizzare il mercato verso
obiettivi definiti in sede politica, limitando non la proprietà
privata, ma le sue prerogative. Tuttavia anche le nazionalizzazioni
laburiste furono qualcosa di diverso dalla socializzazione
dell'economia immaginata dai socialdemocratici nel precedente
dopoguerra. Il loro ambito ideologico e culturale era costituito non
tanto dal marxismo, con il suo intento di "espropriazione degli
espropriatori" e di superamento del capitalismo, quanto dalle
dottrine dell'intervento pubblico e dell'economia programmata
fiorite durante la crisi degli anni Trenta; le nazionalizzazioni
nascevano perciò da un'ispirazione efficientistica e
razionalizzatrice e vanno considerate non come parte di un progetto
di transizione al socialismo, alla vecchia maniera, ma come uno dei
modi in cui si manifestava la dimensione nuova, politica e non
finalistica, del socialismo: la ricerca di un equilibrio fra stato e
mercato, fra potere politico e potere economico, per promuovere la
crescita produttiva e il benessere sociale. Fra la concezione
svedese delle funzioni economiche dello stato e quella laburista, fu
comunque la prima a fornire la traccia su cui si compì la
riconversione della s. europea, con una forte accelerazione negli
anni Cinquanta.
Il mutamento della costituzione ideale e politica dei partiti
socialisti va messo in relazione soprattutto con la crescita
sostenuta, a partire dagli anni del Piano Marshall (1948-52), delle
economie occidentali, da cui derivò un diffuso ottimismo sulle
possibilità di sviluppo del sistema di mercato e sulla funzione
stabilizzatrice delle tecniche anticicliche keynesiane. I partiti
socialisti rinunciarono in gran parte nei loro programmi alle forme
più accentuate di dirigismo economico (nazionalizzazioni o economia
di piano), a cui si erano ancora mostrati inclini nei primi tempi
del dopoguerra, tanto più che le dinamiche della guerra fredda (che
causarono in genere un inasprimento dell'ostilità della s. verso il
comunismo) contribuivano ad avvicinarli ai principi economici della
tradizione liberale e ad allontanarli da quanto poteva evocare
l'immagine del socialismo di stato e della pianificazione
autoritaria. Un sistema economico con un limitato settore pubblico e
per il resto imperniato sull'iniziativa privata, ma in cui andavano
separandosi le funzioni di proprietà e di gestione delle imprese (la
cosiddetta ''rivoluzione manageriale'') ed era accolto il principio
dell'intervento pubblico nella determinazione del volume della
domanda e dell'occupazione, pareva governabile con le politiche
monetarie e di bilancio e riformabile grazie agli effetti
redistributivi delle politiche fiscali e dei progressi del welfare
state (v. anche in questa Appendice). Sul piano teorico la
manifestazione più esplicita del revisionismo ideologico si ebbe nel
Regno Unito, con il libro di A. Crosland, The future of socialism
(pubblicato nel 1956), in cui si manifestava la più ampia fiducia
nella possibilità, attraverso l'azione di governo, di correggere gli
squilibri e le irrazionalità dello sviluppo capitalistico, di
scongiurare interruzioni della crescita produttiva, e anche
d'influire sulla ripartizione dei redditi: così riformato, il
capitalismo sarebbe stato una cornice idonea alla realizzazione dei
valori umanistici e degli ideali di giustizia e di progresso sociale
propri del socialismo.
Sul piano politico gli sviluppi più importanti si registrarono nel
Regno Unito, in Austria e in Germania. Tra i laburisti inglesi, dopo
i governi Attlee, si aprì un serrato dibattito sulla validità delle
nazionalizzazioni per il conseguimento dell'efficienza produttiva e
dei fini sociali del partito. La nuova leadership di H. Gaitskell si
mostrò assai cauta sull'opportunità d'incentrare anche in futuro i
programmi di governo sull'estensione della proprietà pubblica, anche
se la proposta di eliminare dallo statuto del partito la clausola
relativa all'appropriazione collettiva dei mezzi di produzione non
ebbe successo. In Austria l'aspetto notevole fu che il processo di
revisione trasformò profondamente proprio quello tra i movimenti
socialdemocratici che negli anni fra le due guerre più aveva cercato
di tenersi a distanza dal riformismo e di sperimentare la
possibilità di una sintesi di socialismo democratico e
rivoluzionario fondata su una compatta base ideologica (il
cosiddetto austromarxismo). Il superamento di queste posizioni
avvenne rapidamente a partire dal 1945, quando per i socialisti
austriaci s'iniziò un'esperienza di governi di coalizione che durò
ininterrotta fino al 1966: tracce di radicalismo − l'aspirazione a
una società senza classi, l'autorappresentazione del socialismo
democratico come terza via tra capitalismo e comunismo − si
conservarono nel nuovo programma del partito (1958), senza però che
ne risentisse una pratica di governo saldamente basata sul principio
della coesistenza con il mercato e del compromesso sociale con le
forze economiche private.
Il momento culminante di queste trasformazioni fu il congresso
tenuto nella cittadina tedesca di Bad Godesberg dal Partito
socialdemocratico tedesco (1959), in cui il più antico dei partiti
socialdemocratici, per decenni consideratosi l'interprete più
autentico della dottrina di Marx contro i revisionisti di destra e
di sinistra, si diede un nuovo programma, appositamente concepito
dai suoi autori (da ricordare soprattutto W. Eichler) per segnare il
distacco dalla tradizione marxista: l'impressione causata
dall'evento fu tale che "Bad Godesberg" è divenuto il termine
eponimo per indicare globalmente l'evoluzione dei partiti
socialdemocratici da partiti classisti e anticapitalisti in partiti
popolari, acquisiti ai valori dell'imprenditorialità e della libera
iniziativa economica. In effetti la peculiarità del testo di Bad
Godesberg non sta tanto nelle sue singole enunciazioni, a quel punto
già non più particolarmente originali − dall'abbandono delle
socializzazioni alla preminenza accordata ai temi della
distribuzione del reddito e del controllo sul potere economico,
dalla formulazione di un programma di liberazione in nome dei
diritti della persona umana alla definizione non teleologica del
socialismo come compito ininterrotto −, quanto nel suo carattere di
summa, di sistemazione degli elementi che venivano costituendo la
nuova identità della s. e che si erano progressivamente imposti
nell'esperienza di quasi tutti i partiti socialisti dell'Europa
settentrionale e occidentale (le sole eccezioni restavano il Partito
socialista francese e quello italiano, il primo dei quali era ancora
legato a una retorica classista e massimalista senza ormai più nessi
con la politica effettiva, mentre il secondo cominciava appena ad
aprirsi a una problematica riformista).
La lunghissima durata del potere socialdemocratico in Svezia
consente di guardare a questa esperienza come alla manifestazione
più compiuta e organica delle politiche socialdemocratiche scaturite
dal processo di revisione degli anni Trenta-Cinquanta. La
caratteristica del caso svedese sta nella particolare traduzione
pratica del principio dell'influenza sociale su un processo
economico governato dalle regole del mercato. Se il sistema
economico svedese è rimasto fondamentalmente capitalistico, allo
stato si è però deliberatamente assegnato il compito non solo di
concorrere a definirne le priorità, prima fra tutte la piena
occupazione, ma di compensare per quanto possibile l'effetto dei
principi del mercato. A questa funzione è stato destinato in
particolare il sistema di sicurezza sociale costruito negli anni
Quaranta-Cinquanta, notevole non solo per la sua ampiezza, ma anche
per il suo inquadramento ideologico. Nella prospettiva della s.
svedese le prestazioni dello stato sociale dovevano infatti tendere,
per qualità ed estensione, non solo ad assicurare una protezione ai
redditi più bassi, ma a porre sotto l'egida dello stato un'ampia
sfera dell'esistenza umana, sottraendola ai rapporti mercantili con
il loro corollario di competizione individualistica e di
differenziazione sociale, così da rinsaldare i legami di solidarietà
all'interno del mondo del lavoro e da mettere su un piede di
uguaglianza l'insieme dei cittadini.
Dall'attuazione di questa idea dello stato sociale è derivata una
combinazione originale di stato e mercato, definita dalla scienza
politica "capitalismo del welfare", che va al di là degli orizzonti
del keynesismo, proprio in quanto il settore pubblico, oltre a
sostenere lo sviluppo, ha assunto una funzione di contrasto, sul
piano dei valori, e di neutralizzazione, sul piano pratico, delle
forze operanti nell'ambito capitalistico. Va pure notato come la s.
svedese abbia conservato nel suo disegno politico e nella sua
dottrina il senso di una progressione storica di obiettivi, espressa
dalla sequenza di democrazia politica, democrazia sociale e
democrazia economica: una sequenza sostanzialmente inversa a quella
preconizzata dal socialismo classico, che poneva l'emancipazione
economica alla base del processo di liberazione sociale e politica,
ma che è indicativa della volontà di considerare la fase della
democrazia sociale, cioè la combinazione di pieno impiego e welfare,
come storicamente corrispondente a un equilibrio dei rapporti tra le
classi suscettibile di mutamenti a seguito di un accresciuto potere
di mobilitazione del movimento operaio.La socialdemocrazia come
forza e forma di governo.
Sotto il profilo della partecipazione al potere, gli anni Sessanta e
Settanta sono stati l'epoca aurea della s., grazie soprattutto al
suo affermarsi come forza di governo nel Regno Unito (governi
presieduti da J.H. Wilson, 1964-70 e 1974-76, e da J. Callaghan,
1976-79) e in Germania (prima come partner di una grande coalizione,
1966-69, poi con i governi di W. Brandt, 1969-74, e H. Schmidt,
1974-82), per non dire della prosecuzione delle esperienze
scandinave e della posizione di forza raggiunta dalla s. austriaca
con i governi dell'"era Kreisky'' (1970-83). La lunga crescita
economica del dopoguerra aveva suscitato attese di benessere e
favorito mutamenti di cultura e di mentalità che vennero a trovarsi
in sintonia con la prospettiva riformista di un impiego socialmente
equilibrato del potenziale produttivo e tecnologico delle moderne
società industriali: si posero così le premesse per la rottura degli
equilibri politici conservatori su cui lo sviluppo aveva fino allora
poggiato. Nel corso dell'opera di governo delle s. iniziarono però
anche a palesarsi difficoltà di applicazione degli schemi definiti
nella precedente fase revisionistica. La nuova identità
socialdemocratica si basava sul presupposto che il problema della
crescita produttiva non richiedesse soluzioni specifiche da parte
dei socialisti e che all'iniziativa pubblica spettasse d'intervenire
sul dinamismo autopropulsivo delle forze di mercato per correggerne
gli squilibri e orientarlo verso fini sociali. Il mantenimento di
alti tassi di sviluppo era essenziale per il successo di questa
impostazione.
La s. raggiunse invece l'apice della forza politica nello stesso
momento in cui le economie occidentali si avvicinavano di nuovo a
una fase di turbolenze e di depressione: inizialmente soprattutto
nel Regno Unito, poi, dopo lo shock petrolifero del 1973, in tutti i
paesi, essa fu chiamata a misurarsi con il governo non più dello
sviluppo, ma della crisi, e a cercare soluzioni che non potevano
essere trovate nel modello "Bad Godesberg", con il suo ottimismo
industrialista e la sua concezione lineare del progresso, tanto più
che, come terapia anticrisi, il keynesismo si rivelava troppo
oneroso per i bilanci statali e inadatto a fronteggiare la
contemporanea presenza di fenomeni recessivi e inflazionistici.
In questa nuova situazione la s. manifestò due diverse tendenze. Da
un lato essa avvertì su di sé la responsabilità di ridare efficienza
e competitività al sistema produttivo, di ristabilire condizioni
propizie alla redditività dell'investimento privato, anche a costo
di subordinare temi tradizionali del suo riformismo a nuove
priorità, come la ricostituzione dei margini di profitto, la
stabilità monetaria o il contenimento delle spese statali. Queste
scelte, la cui efficacia sul piano del rilancio economico fu
diseguale (modesta nel caso dei governi laburisti britannici,
notevolissima invece in Germania occidentale durante l'''era
Schmidt'', tanto che la s. tedesca poté proporsi a esempio sul piano
internazionale come artefice del Modell Deutschland), incisero
profondamente sulla soggettività socialdemocratica: la s. fu indotta
dall'emergenza produttiva e finanziaria a impostare la competizione
politica più sul piano dell'efficienza e della capacità di gestione
che su quello ideale e programmatico; il successo politico venne
misurato più con il metro delle grandezze economiche che con quello
del rapporto tra sviluppo ed equità sociale; il distacco dal
marxismo fu inteso come premessa all'emancipazione da ogni vincolo
ideologico o teoria critica della società. Restò così in subordine
l'aspirazione, pur presente nel revisionismo degli anni Cinquanta, a
identificare la s. con un nucleo di valori fondamentali, distintivi
di uno specifico progetto di riforma della società: il passaggio
della s. tedesca da Brandt a Schmidt fu il simbolo del superamento
pragmatico di Bad Godesberg.
Da un altro lato, però, in seno alla s. ripresero anche forza
indirizzi politici radicali, che talvolta − come nel caso del
programma laburista britannico del 1973 − rimasero allo stadio di
enunciazioni di principio, limitandosi a rivelare un divario acuto
tra orientamenti di partito e azione di governo, mentre in altri
casi diedero luogo a una laboriosa ricerca di nuovi campi su cui
condurre nel concreto l'iniziativa riformatrice. L'esempio più
significativo al riguardo fu offerto dalla s. svedese, al cui
interno sin dagli anni Sessanta si era avviata una riflessione sulle
diseguaglianze non colmate dalle politiche redistributive e di
welfare e sui limiti di un intervento pubblico che, attuandosi a
lato del mercato, lasciava alle decisioni del capitale privato la
determinazione delle linee e dei criteri dello sviluppo. Ne derivò
uno spostamento dell'azione di governo prima verso l'ambito della
democrazia industriale, con un rafforzamento del potere contrattuale
del sindacato nelle imprese e un ampliamento del campo delle materie
soggette a negoziato, poi verso l'obiettivo della democrazia
economica, intesa come partecipazione della collettività alle scelte
sulla destinazione dei profitti e sugli investimenti.
Il piano più ardito fu quello elaborato da R. Meidner (1976), che
prevedeva la creazione di ''fondi dei salariati'', amministrati dal
sindacato, a cui le imprese avrebbero dovuto trasferire annualmente
un ammontare di azioni, appositamente emesse, in proporzione ai
profitti conseguiti: nel giro di qualche decennio, secondo il ritmo
del processo di accumulazione, i fondi avrebbero potuto acquisire
posizioni di controllo nelle maggiori industrie del paese. In forme
diverse dalla socializzazione o dalla nazionalizzazione, l'obiettivo
di un mutamento dell'assetto proprietario tornava così al centro
della strategia della s. svedese. Presentato dal suo autore come
''terza via'' tra economia di mercato e collettivismo, il piano
Meidner, di fronte all'opposizione degli ambienti industriali, subì
però negli anni successivi un progressivo ridimensionamento, e ne fu
infine realizzata (1984) una versione attenuata, che ha imposto un
limite alle partecipazioni azionarie dei fondi, i quali, persa la
funzione di redistribuzione della proprietà, si sono configurati
prevalentemente come strumento di partecipazione sindacale alle
decisioni d'investimento. Per il fatto di essere stato concepito
nell'ambito del movimento socialista svedese, che vantava la più
lunga pratica di governo, il piano Meidner, malgrado le difficoltà
di attuazione, valse a dimostrare come nella s. rimanesse allo stato
latente una spinta verso mete di trasformazione assai più avanzate
di quelle conseguite nel quadro dei compromessi keynesiani. Non a
caso proprio nella seconda metà degli anni Settanta nell'ambito
della scienza politica si sviluppò un filone di studi in aperto
dissenso sia con le analisi che assimilavano i partiti
socialdemocratici al paradigma, proposto da O. Kirchheimer, del
partito pigliatutto, caratterizzato da indifferentismo ideologico ed
eclettismo programmatico, sia con la riproposta, in forme
teoricamente raffinate (L. Panitch, A. Przeworski), della tesi
radicale sui limiti invalicabili del riformismo. Tra i nuovi modelli
interpretativi che furono allora suggeriti, particolare interesse
suscitò quello elaborato da W. Korpi, che individuava nelle risorse
di potere accumulate dal movimento operaio attraverso decenni di
politiche riformatrici il fattore che, anziché all'integrazione nei
meccanismi sociali esistenti, poteva condurre verso mutamenti alla
base del sistema economico.
Un fattore comune alle diverse esperienze socialdemocratiche di
gestione del potere fu l'adozione di una specifica forma di governo,
nella quale la determinazione e l'attuazione di importanti scelte di
politica economica e sociale sono state demandate, istituzionalmente
o di fatto, alla contrattazione diretta tra le parti sociali e tra
queste e lo stato: si tratta di quel modello di formazione delle
decisioni politiche definito neocorporativo che proprio la s. ha
portato al suo sviluppo più compiuto. Essa infatti, scelta la via
del compromesso con il mercato, ha avuto bisogno sia di raggiungere
un modus vivendi con il capitale privato, rendendolo compartecipe di
decisioni fondamentali per l'esercizio dell'attività economica, sia
di evitare un inasprimento dei conflitti sociali che potesse
compromettere la continuità delle funzioni produttive. Nello stesso
tempo i governi socialdemocratici, in virtù sia dei legami ideali e
strutturali con il mondo del lavoro sia della possibilità di
garantire contropartite in termini di riforme e welfare (il
meccanismo dello scambio politico), hanno avuto le migliori chances
per ottenere dai sindacati quella moderazione dei comportamenti
rivendicativi essenziale al funzionamento del ''triangolo
neocorporativo'' (sindacati, industria, governo). Anche in questo
campo la s. svedese ha assolto una funzione di battistrada, con i
pionieristici accordi di base di Saltsjöbaden del 1938, che
dettarono le regole dello svolgimento delle relazioni industriali;
tuttavia è in Austria, con la messa in opera dopo la seconda guerra
mondiale della Sozialpartnerschaft, che si è attuato lo schema più
complesso e perfezionato di concertazione tra interessi organizzati
e di coinvolgimento di questi ultimi nel processo decisionale
pubblico.
La possibilità di coordinare il comportamento delle parti sociali e
di renderlo compatibile con gli obiettivi dell'azione di governo ha
ovunque contribuito in modo essenziale al successo delle politiche
socialdemocratiche. Al contrario là dove, come nel Regno Unito,
negli anni Sessanta e Settanta la gravità della situazione economica
e l'esiguità degli spazi di mediazione non hanno permesso il
consolidamento di una prassi neocorporativa e di un rapporto
fiduciario tra governi laburisti e Trade Unions, ciò ha compromesso
l'efficienza e la stabilità del potere della socialdemocrazia. La
natura dei rapporti tra governi a guida socialdemocratica e
movimento sindacale si è rivelata dunque un fattore decisivo.
Si deve tener conto, infatti, che sebbene la s. si sia scrollata di
dosso l'immagine di partito strettamente classista, il lavoro
salariato è rimasto il nucleo portante della sua base sociale e del
suo elettorato. Non solo, ma in tutti i paesi in cui i partiti
socialisti hanno assunto forma di s. si registra la presenza di un
sindacato unitario, largamente rappresentativo, storicamente unito
al partito socialista da legami privilegiati, più o meno
formalizzati. Ciò significa che la s. ha avuto accesso al potere
come mandataria innanzitutto di particolari interessi sociali e che
i suoi risultati politici sono dipesi dalla capacità di contemperare
la ricerca del compromesso con le forze economiche dominanti e
l'eventuale moderazione programmatica con il mantenimento della
rappresentanza di questi interessi e del consenso del mondo del
lavoro, espresso attraverso l'organizzazione sindacale. I
l meccanismo già ricordato dello scambio politico è stato il perno
di questo schema di relazioni tra governo e parti sociali, e questo
non solo nelle fasi di crescita economica, quando lo scambio tra
attenuazione del conflitto distributivo e sviluppo del welfare state
si è imposto senza particolari difficoltà e ha conferito ai paesi a
guida socialdemocratica la loro caratteristica immagine di isole di
pace sociale (ma di una pace sociale consentita non dalla
smobilitazione dell'organizzazione operaia, bensì dalla sua capacità
di far pesare la propria forza altrimenti che con la conflittualità
sindacale). Ancora dopo la crisi del 1973 i governi
socialdemocratici, tranne quello britannico, hanno generalmente
potuto far fronte all'emergenza economica senza compromettere i
legami con la loro base sociale (anche dove, come in Germania,
l'iniziale tensione riformatrice più si era appannata), assicurando
al sindacato la difesa dell'occupazione e degli standard di
sicurezza sociale, in cambio di un impegno alla moderazione
salariale nel quadro della lotta all'inflazione.
Alla lunga, però, i mutamenti verificatisi nell'economia
internazionale hanno esaurito le risorse della forma di governo
socialdemocratica. Sul finire degli anni Settanta le possibilità di
scambio politico tra governi e sindacati si sono fatte ovunque più
aleatorie, e qui sta una delle cause del successivo declino politico
della socialdemocrazia.
La crisi della socialdemocrazia.
Alla fine degli anni Settanta la s. è entrata in una crisi di cui
tuttora non s'intravedono gli sbocchi. Dei partiti socialdemocratici
classici, alcuni, a causa di tendenze elettorali negative, o sono
stati respinti all'opposizione (Regno Unito dal 1979, Repubblica
Federale di Germania e Danimarca dal 1982, ma la s. danese è tornata
nel 1993 alla guida di una coalizione) o non hanno più potuto
governare con l'autorevolezza di prima (Austria); altri (Norvegia,
Svezia) hanno alternato governo e opposizione, avendo comunque perso
la posizione dominante occupata per decenni. La crisi ha rivelato la
vulnerabilità della s. rispetto a una duplice sfida che le è stata
mossa sul piano intellettuale: da un lato dalla ripresa in forze di
ideologie liberistiche e individualistiche, dall'altro dalla
comparsa di un nuovo radicalismo, ispirato a valori
post-materialistici, estranei alla cultura tradizionale del
movimento operaio.
Alle difficoltà strutturali del welfare state, messe a nudo da una
congiuntura internazionale che impedisce di ricorrere come in
passato a politiche economiche espansive e al finanziamento pubblico
delle politiche sociali, si è aggiunta la sua delegittimazione
ideale da parte di un ethos capitalistico aggressivo, determinato ad
affermare la supremazia dell'iniziativa privata e a liberarla dai
vincoli della regolamentazione statale e della solidarietà sociale.
I processi di ammodernamento tecnologico nel campo della produzione
industriale hanno inoltre modificato i mercati del lavoro, creando
gravi problemi occupazionali, ridimensionando la funzione sociale
della classe operaia e quindi indebolendo sia la forza contrattuale
dei sindacati sia uno dei pilastri su cui aveva fino allora poggiato
la politica socialdemocratica. La ragione prima della crisi della s.
sta dunque nella divaricazione apertasi tra efficienza e
modernizzazione economica da un lato, sicurezza ed equità sociale
dall'altro.
La diffusione, soprattutto tra i giovani, di una cultura critica nei
riguardi dell'industrialismo e del progresso tecnologico in nome di
una nuova etica ambientale ha messo in discussione, d'altro canto,
un postulato classico di ogni teoria dell'azione politica del
movimento operaio, cioè il nesso tra sviluppo delle forze produttive
ed emancipazione sociale. La s. ha così perso consensi sia verso il
centro dello schieramento politico sia verso i movimenti ''verdi''
dell'alternativa ecologista. La sua capacità di unire attorno a sé
maggioranze sociali e politiche in grado di rivendicare e svolgere
funzioni di governo si è notevolmente ridotta. Nei paesi in cui ha
conservato malgrado tutto responsabilità di potere si è trovata
nell'impossibilità di tener fede alla sua tradizione di governo, ha
dovuto porre mano anch'essa alla riduzione dello stato sociale e non
è più riuscita come in passato a prospettare al sindacato valide
alternative alla conflittualità sociale. A osservatori e studiosi la
s. è così apparsa un fenomeno politico in esaurimento, svuotato di
senso in parte dai suoi stessi successi nella diffusione del
benessere, in parte dal declino cui è andato incontro il principio
redistributivo, non solo per difetto di risorse, ma anche per il
rafforzamento nelle società avanzate di spinte contrarie a ulteriori
sviluppi egualitari e assistenzialistici e rivolte invece
all'affermazione delle energie individuali: la metafora della "fine
del consenso socialdemocratico", coniata sin dal 1978 da R.
Dahrendorf, è divenuta così un topos del dibattito politico e
politologico.
Non che siano mancati i tentativi di rinnovamento, ma essi sono
risultati poco convincenti e, soprattutto, è mancata loro la
verifica del successo politico. In Svezia, sulla scia del piano
Meidner, si è battuta dopo il 1982 la strada di una parziale
socializzazione degli investimenti, il che non ha impedito uno
scadimento delle prestazioni economiche e un inasprimento delle
tensioni sociali, costati alla s. un nuovo allontanamento dal potere
dal 1991 al 1994. Nel Regno Unito la ricerca del nuovo ha
addirittura rischiato di produrre esiti catastrofici, allorché il
Partito laburista, passato sotto il controllo della sinistra di M.
Foot, ha assunto posizioni di radicalismo statalista e
anticapitalistico e ha subito per questo una scissione, con la
nascita (1981) di un partito espressamente denominatosi
socialdemocratico, che, se non ha poi avuto fortuna, inizialmente
parve però insidiare, alleato ai liberali, la posizione dei
laburisti in un sistema bipartitico come quello britannico. Seguì
una delle più gravi sconfitte elettorali della storia del laburismo
(1983), prima di un nuovo assestamento, sotto la guida di N. Kinnock
e più tardi di J. Smith, sulle più tradizionali basi del riformismo
moderato e del socialismo di mercato.
I propositi di revisione teorico-politica più originali sono stati
quelli dei socialdemocratici tedeschi. Con una netta sterzata
rispetto agli anni di Schmidt essi hanno ripreso a cimentarsi sul
terreno delle opzioni di principio e, avvertendo l'esigenza non
tanto di rimettere in discussione la revisione degli anni Cinquanta
quanto di adeguare il loro apparato concettuale alle trasformazioni
nel frattempo sopravvenute e alla percezione di problemi nuovi,
hanno elaborato un nuovo programma fondamentale, sostitutivo di
quello di Bad Godesberg. La peculiarità di questo documento,
approvato dal congresso di Berlino del 1989, consiste nel tentativo
di accordare le tematiche riformiste tradizionali in tema di
benessere, sicurezza sociale e occupazione con le istanze critiche
nei confronti della concezione industriale del progresso di cui è
portatrice la cultura verde e alternativa. L'ecologia è presentata
come "la base di un operare economico responsabile" e la protezione
dell'ambiente è inclusa nel concetto di "solidarietà sociale". Si
accoglie il principio che "non tutta la crescita è progresso", pur
affermandosi che l'innovazione tecnologica "è irrinunciabile per
ogni economia dinamica": la sintesi è costituita dall'obiettivo di
una crescita selettiva e qualitativa, in relazione alla quale
vengono anche ridefinite le finalità del governo dell'economia e del
controllo del mercato. Il programma, che si sofferma con forza anche
sugli squilibri tra il Nord e il Sud del mondo, rivela una
disposizione ideologica globalmente assai più critica rispetto a Bad
Godesberg nei confronti del capitalismo, la cui riforma è dichiarata
"insufficiente", mentre si afferma la necessità di "un nuovo ordine
economico e sociale" (e "la dottrina marxista della storia" torna a
essere annoverata tra le fonti intellettuali del partito). Concepito
in funzione della situazione politica nella Germania occidentale, e
in particolare della possibilità di una ricomposizione tra movimento
operaio tradizionale e nuovi movimenti, il programma di Berlino è
risultato però obiettivamente oscurato dalla repentina
riunificazione tedesca, e nella nuova situazione, caratterizzata da
tutt'altro genere di problemi, è finora mancata la possibilità di
saggiarne l'efficacia ai fini dell'affermazione di un nuovo modello
socialdemocratico di governo.
Al declino della funzione di governo della s. classica ha
corrisposto negli anni Ottanta l'ascesa dei partiti socialisti
dell'Europa latina e mediterranea (talvolta accomunati nella
definizione di ''socialismo meridionale'') a posizioni di potere mai
prima raggiunte. Questi partiti rappresentano un socialismo rimasto
a lungo estraneo alla vicenda propriamente socialdemocratica o per
autonoma scelta ideologica (nel caso dei socialisti francesi e
italiani) o per la particolare situazione dei paesi di appartenenza,
soggetti a regimi autoritari (Grecia, Portogallo, Spagna). Un
generale processo di revisione delle preesistenti tradizioni ideali
e politiche ha però preceduto o accompagnato il loro avvento alla
guida del governo (Francia e Grecia 1981, Spagna 1982, Italia e
Portogallo 1983), e anch'essi hanno finito per richiamarsi
all'esempio delle s. centro-settentrionali, e hanno abbracciato il
riformismo come idea regolatrice, sebbene nella concreta prassi di
governo ne abbiano poi interpretato in prevalenza la variante
pragmatista e stabilizzatrice. I socialismi meridionali,
avvicinatisi alla cultura politica del socialismo democratico in una
fase assai difficile dell'economia internazionale, non hanno infatti
potuto giovarsi, a differenza della s. classica, di un'intensa
crescita produttiva per ripartirne i benefici e promuovere
iniziative di welfare, e si sono soprattutto preoccupati di creare
condizioni idonee alla ripresa dell'investimento privato e
all'affermazione sul mercato internazionale.
L'esempio più significativo è quello del socialismo francese, giunto
al potere con un programma di nazionalizzazioni, di espansione dei
consumi e di redistribuzione del reddito e presto costretto, sotto
la pressione della crisi economica, a piegarsi alle necessità del
mercato e a imboccare la via del rigore. È comunque opinione
prevalente degli studiosi di scienza politica che al socialismo
meridionale difettino pur sempre alcuni elementi costitutivi della
s. in senso proprio, la quale, come si è visto, non è solo un corpo
di principi, ma anche una particolare forma di organizzazione e di
governo. I partiti socialisti meridionali sono prevalentemente
partiti di opinione e non hanno le caratteristiche del partito di
massa, radicato nel mondo del lavoro, intimamente collegato a un
potente e strutturato movimento sindacale, come nel caso della s.
classica.
Il Partito socialista italiano, in particolare, non ha mai neppure
avuto un seguito elettorale comparabile a quelli che hanno fatto la
fortuna politica della s. (e, restando all'Italia, il discorso vale
a fortiori per l'ancor più piccolo partito che sin dal 1947 affermò
di volersi porre sulla via del riformismo e che nel 1951 si denominò
Partito socialista democratico italiano). Di conseguenza il modello
neocorporativo di governo, imperniato sul rapporto contrattuale tra
esecutivo e sindacato, è rimasto fuori della portata del socialismo
meridionale; le stesse politiche di rigore da esso sovente attuate
si differenziano da quelle a cui i partiti centro-settentrionali
sono pur ricorsi, perché sono state frutto di iniziative autonome
dei governi, non di un patto con il lavoro organizzato; non hanno
quindi avuto contropartite e a volte hanno anzi imposto costi
sociali, soprattutto in termini di disoccupazione, senza riscontro
nell'esperienza della s. classica. Questi partiti sono stati perciò,
secondo i tempi e le situazioni, i partiti della transizione alla
democrazia, della modernizzazione produttiva, del risanamento
economico, della prosperità finanziaria, ma non hanno realizzato la
sintesi di cultura politica, di tecnica di governo e di concreto
movimento sociale che è peculiare della s. centro e nord-europea.
Anche la crisi che di recente ha colpito i socialismi meridionali
(alla fine del 1994 solo quello spagnolo e quello greco erano ancora
al potere, ma il primo era anch'esso in declino, mentre l'altro era
tornato al governo nel 1993 dopo un quadriennio di opposizione) ha
caratteri particolari rispetto a quella delle s.: più che
dall'impasse strutturale delle politiche riformiste o dalla
difficoltà di costruire alleanze sociali attorno alla tradizionale
base sociale della s., essa nasce dal rigetto da parte di
consistenti settori della società di uno stile di governo spesso
scaduto a mera gestione del potere, a socialist clientelism, senza
solidi riferimenti ideali e coerenze programmatiche.
Gli avvenimenti del 1989 nell'Europa orientale hanno segnato un
nuovo sviluppo nella crisi della s. che non è riuscita a trarre
benefici politici immediati dalla crisi del comunismo; la forza di
attrazione del suo messaggio ideale ha anzi risentito negativamente
del fallimento comunista, come se esso investisse anche ogni altra
tradizione germinata dalla radice del socialismo ottocentesco. Nei
paesi dell'Est i ricostituiti partiti socialdemocratici hanno
ottenuto modestissimi risultati elettorali, penalizzati dalla
tendenza a identificare la democrazia con il liberismo economico e a
diffidare di ogni interferenza dei poteri pubblici nelle relazioni
economiche e sociali. Gli sviluppi più recenti parrebbero poi
suggerire che ad avere più chances di espandersi sulla sinistra
della scena politica non sono i socialdemocratici della prima ora,
ma quelli ''del giorno dopo'', cioè i partiti ex comunisti
convertitisi al pluralismo politico ed economico. Nell'Europa
occidentale si è posto l'interrogativo se, dopo la fine del
socialismo di stato all'Est, il termine socialismo, pur tenendo
conto della sua evoluzione semantica, possa ancora rappresentare
l'insegna di una politica di progresso sociale. In seno alla s.
tedesca si è affacciata l'ipotesi che l'espressione "democrazia
sociale" sia più idonea a definire le prospettive reali dei partiti
socialdemocratici, e al riguardo è anche significativo che il
Partito comunista italiano, all'atto di separarsi dalla sua
tradizione dopo aver percorso un cammino che già lo aveva avvicinato
alla famiglia socialdemocratica, abbia scelto una denominazione
(Partito democratico della sinistra) che prescinde dal riferimento
al socialismo o alla socialdemocrazia. In Francia l'ex premier M.
Rocard ha proposto di fatto un'uscita dalla tradizione socialista,
auspicando un grande rimescolamento delle famiglie politiche dal
centro alla sinistra, un big bang che porti alla formazione di un
nuovo blocco progressista adeguato a una società in cui la
condizione del lavoro salariato non è più il centro delle
contraddizioni sociali.
In effetti dalla metà degli anni Settanta si è assistito a un
processo di decomposizione della base sociale della
socialdemocrazia. La s. ha avuto successo finché ha potuto
promuovere gli interessi dei salariati e nello stesso tempo
presentarsi come un partito i cui legami con la classe operaia non
solo non erano di ostacolo alla crescita economica, ma anzi
garantivano che, di fronte a un governo amico, il movimento
organizzato dei lavoratori si sentisse corresponsabile dello
sviluppo. Sono nate così le vaste alleanze sociali che hanno fatto
la forza della socialdemocrazia. Le cose sono mutate dacché la s. ha
visto ridursi la consistenza e l'identità di classe del proprio
principale gruppo sociale di riferimento, mentre in una nuova epoca
dell'economia internazionale andavano moltiplicandosi le occasioni
di conflitto tra gli interessi sociali deboli e quelle che
apparivano le esigenze di risanamento e di sviluppo delle economie
di mercato. Né l'accentuazione del pragmatismo né la svolta verso un
nuovo radicalismo si sono rivelate nell'immediato soluzioni
vincenti.
Sembra ora affermarsi nel socialismo democratico una maggiore
sensibilità per le diseguaglianze e gli squilibri che nascono e si
manifestano fuori dall'ambito delle relazioni economiche, così da
creare le condizioni di nuove alleanze sociali nella prospettiva di
un'espansione della democrazia, con la quale s'identificherebbe
senza più residui l'obiettivo di un nuovo ordine sociale. Ma
difficilmente la s. potrà attingere una nuova fase di espansione se
non offrirà anche soluzioni al problema dei vincoli economici, che
siano in linea con i suoi valori fondamentali, consentendole però
nello stesso tempo di tornare a presentarsi come partito dello
sviluppo.