Sindacato
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Associazione di lavoratori o di datori di lavoro costituita per la
tutela di interessi professionali collettivi. Nel linguaggio
economico e finanziario, coalizione di imprese.
Il sindacalismo è la dottrina e prassi politico-economica, di varia
matrice ideologica e culturale, finalizzata all’organizzazione dei
lavoratori in sindacato.
1. Il sindacalismo
Nato in seno al movimento operaio e affermatosi progressivamente in
tutti i paesi sviluppati a partire dalla prima fase della loro
industrializzazione moderna, il sindacalismo si è
variamente configurato, nelle diverse aree geografiche, sulla base
delle differenti situazioni politico-economiche, ma anche in
relazione ai rapporti con i partiti politici operai.
La prima espressione teorica si definì, tra il 1850 e la fine del
19° sec., nelle trasformazioni del tradeunionismo inglese. La teoria
del sindacalismo tradeunionistico postulava una concezione
dicotomica della struttura sociale ed economica e fu organicamente
esposta negli scritti di S. e B. Webb, venendo a costituire il
maggior punto di riferimento per tutte le altre riflessioni sul s.
che si diffusero in Francia e poi in Germania. L’attività sindacale
era ridotta a mezzo per trasferire e far maturare tra i lavoratori
una coscienza politica che trovava nel partito e negli intellettuali
il naturale e superiore bacino di formazione e di elaborazione. Sul
piano teorico, le concezioni comuniste del s. che si diffusero
successivamente si possono considerare una variante della concezione
del rapporto partito-s. tipica della teoria della socialdemocrazia
tedesca.
Radicalmente diverso, il sistema del sindacalismo rivoluzionario
formulato in Francia soprattutto da G. Sorel, che ebbe larga
diffusione in altri paesi e un originale radicamento negli USA,
vedeva il s. come unico agente del superamento del sistema di
produzione capitalistico e dell’organizzazione del potere nelle
forme dello Stato liberale. Ancora all’interno della concezione
della separazione degli interessi tra lavoratori e classe borghese
si collocò la dottrina del sindacalismo riformista, che però era
contraria alla rottura del sistema capitalistico, ritenuto
modificabile con una pressione graduale dei lavoratori. Su
presupposti ideologici completamente diversi si collocò, invece, il
sindacalismo corporativista, sia cattolico sia fascista, che muoveva
dal principio della possibilità e della necessità di realizzare la
collaborazione tra le classi (➔ corporativismo). Con la diffusione
del capitalismo fordista (➔ Ford, Henry) e con l’affermazione in
Occidente, dopo il 1945, dei principi politico-costituzionali dello
Stato democratico, la riflessione sul rapporto tra imprenditoria e
lavoratori è ricaduta prevalentemente nell’ambito delle cosiddette
relazioni industriali.
2. S. e relazioni industriali
Un sistema di relazioni industriali basato su un’espressione
relativamente libera delle forze sindacali e su un ampio intervento
dello Stato in campo economico e sociale cominciò a svilupparsi a
partire dagli anni 1920. Esso comportava, fra l’altro, il
riconoscimento reciproco, da parte dei lavoratori e degli
imprenditori, delle rispettive rappresentanze, la definitiva
stabilizzazione della procedura contrattuale, l’assunzione da parte
dell’autorità pubblica di funzioni di arbitrato nei conflitti di
lavoro e di indirizzo nell’evoluzione dei rapporti tra dinamica
contrattuale, strategia imprenditoriale e politica economica e
occupazionale. Questo sistema, intimamente connesso con il fenomeno
del fordismo, si fondava sull’accresciuto potere d’acquisto dei
salari e sul conseguente incremento della domanda: si delineava così
un comune interesse dei lavoratori e degli imprenditori allo
sviluppo della produzione e, pur rimanendo materia di conflitto la
definizione delle condizioni salariali, normative e occupazionali,
si configurava la possibilità di uno scambio tra incrementi di
produttività e aumenti retributivi. Questo modello di relazioni
industriali, la cui diffusione si accompagnò all’integrazione del
movimento operaio nei sistemi politici occidentali e
all’introduzione del welfare state, è stato rimesso in discussione,
a partire dagli anni 1970, con l’emergere della crisi fiscale dello
Stato e dei limiti ecologici dello sviluppo, in concomitanza con un
netto rallentamento della crescita economica internazionale. Si è
aperta così una nuova fase, genericamente definita postfordista, che
ha contribuito a ridefinire in modo sostanziale spazi e ruoli del
movimento dei lavoratori e del sindacato. In particolare, i processi
di decentramento produttivo, di mondializzazione dell’economia, di
aumento della flessibilità nell’organizzazione del lavoro, connessi
anche con l’avvento dell’informatica, hanno ridotto la
concentrazione operaia nelle grandi industrie e favorito la
diffusione di condizioni lavorative precarie, mentre si è verificata
una notevole crescita della disoccupazione tecnologica. In un tale
contesto, che ha esercitato effetti negativi sul potere contrattuale
dei lavoratori, a una diminuzione dell’intervento pubblico
nell’economia si è accompagnata una tendenza al ridimensionamento
del ruolo del s. e della funzione mediatrice dello Stato.
3. Il movimento sindacale in Italia
Le origini. - L’associazione organizzata dei lavoratori volta alla
tutela degli interessi economici (di gruppo, di categoria, di
classe) costituì anche in Italia il nucleo originario del moderno
sindacato. Nel corso del 19° sec., dopo la dissoluzione delle
vecchie corporazioni di arti e mestieri, i lavoratori si vennero
associando all’interno di un vasto movimento solidaristico il cui
centro era costituito dalle Società di mutuo soccorso. A partire
dagli anni 1880, la crisi sociale nelle campagne e lo sviluppo
dell’industrializzazione favorirono l’avvento di una diversa forma
di organizzazione dei lavoratori: le leghe di miglioramento e di
resistenza. Tali organismi si ispiravano ai principi dai quali
avrebbero tratto origine le stesse strutture sindacali:
l’esclusivismo di classe, in quanto le leghe tutelavano solo i
lavoratori manuali ed erano costituite e dirette solo da essi; la
resistenza sul piano economico, poiché avevano il compito di
difendere i lavoratori dalle azioni unilaterali dei padroni circa il
salario, l’orario e le condizioni di lavoro; il ricorso ordinario
allo sciopero sia come strumento di difesa sia come mezzo di
pressione e di sostegno per le proprie azioni. Ordinate sulla base
di uno statuto, in genere per mestieri, le leghe si affermarono
nelle città e nelle campagne, dove assunsero una fisionomia
fortemente politicizzata, come nel caso dei Fasci siciliani e del
movimento bracciantile in Puglia e nella pianura Padana. A fianco
delle leghe, che nonostante la presenza al loro interno di varie
posizioni politiche si mantenevano sostanzialmente autonome dai
partiti, venne costituendosi, in quegli anni, un’altra importante
forma di organizzazione e di rappresentanza dei lavoratori: la
federazione di mestiere. Fin dal 1872, nei settori a più elevato
contenuto professionale quali quelli dei tipografi, dei ferrovieri e
degli edili, si era affermata l’organizzazione di tipo federale, che
raggruppava tutti i lavoratori di una stessa categoria. Scopo
primario delle federazioni era quello di rendere omogenea la
condizione di lavoro attraverso la stipula di convenzioni o
contratti collettivi, la cui validità era estesa a tutti i
lavoratori del mestiere, superando le primitive forme di accordo
individuale e informale con il padrone. Negli anni 1890 si
affermarono nuove strutture sindacali, le Camere del lavoro. Da una
iniziale impostazione di pura assistenza nell’intermediazione tra
domanda e offerta di lavoro, esse vennero via via trasformandosi in
organismi di rappresentanza politica e sindacale di tutto il
movimento dei lavoratori su un determinato territorio. Agli inizi
del Novecento le Camere del lavoro e le federazioni di mestiere si
coordinarono al fine di superare i contrasti che spesso nascevano
circa la direzione degli scioperi, dando vita al Segretariato
centrale della resistenza (1902-06). Nel 1906 la nascita della
Confederazione Generale del Lavoro (CGdL) completò l’edificio
organizzativo e istituzionale del s. italiano.
Il s. confederale e quello fascista. - Protagonista della lotta
politica, crocevia di tutte le correnti ideologiche del movimento
operaio, il s. confederale accettò l’ideologia socialista e
stabilizzò i rapporti con i partiti sulla base del principio, tipico
della Seconda Internazionale, dell’autonomia intesa come divisione
dei rispettivi compiti. La CGdL contribuì a generalizzare il sistema
della contrattazione collettiva del lavoro, elaborò la prima forma
di sindacalismo industriale come superamento di quello di mestiere e
rappresentò sul piano generale il lavoro nelle relazioni con le
associazioni padronali. Negli anni 1910 il s. confederale subì una
duplice scissione: nel 1912 si formò l’Unione Sindacale Italiana
(USI) di ispirazione sindacalista rivoluzionaria, mentre nel 1919 le
forze sindacali di ispirazione cattolica diedero vita a un organismo
di livello confederale, la Confederazione Italiana Lavoro (CIL). Una
genesi del tutto propria ebbe nel 1922 la Confederazione dei
sindacati fascisti, nata dall’iniziativa di quei settori che non si
ritenevano adeguatamente rappresentati dal sindacalismo classista
operaio e bracciantile. Nel volgere di pochi anni il s. fascista
riuscì a imporsi come s. di Stato, sfruttando soprattutto la
distruzione violenta del leghismo e delle strutture sindacali
confederali da parte dello squadrismo, nonché la disponibilità della
Confindustria e degli ambienti economici a liberarsi, dopo la
tensione degli anni 1919-20, dei consigli di fabbrica e del s.
libero. Nel 1927 i dirigenti riformisti confederali furono indotti a
proclamare l’autoscioglimento della CGdL e da quel momento il s.
italiano si ridusse al solo s. fascista, unico, obbligatorio, con
poteri pubblici, facoltà contrattuali, senza diritto di sciopero né
di rappresentanza operaia, con dirigenti nominati dall’alto. Nel
1928 lo ‘sbloccamento’ del s. diede vita a sei diverse
confederazioni per grandi comparti, all’interno dei quali operavano
poi le singole federazioni di categoria, mentre sul piano
territoriale agivano le unioni provinciali.Il dopoguerraCaduto il
fascismo, la costituzione della Confederazione Generale Italiana del
Lavoro (CGIL) diede vita, tra il 1944 e il 1948, a un’inedita
esperienza di s. unitario, al cui interno confluirono cattolici,
comunisti, socialisti, anarchici e indipendenti. Sul piano
organizzativo la CGIL si appoggiò sul tessuto delle ricostituite
Camere del lavoro, mentre le federazioni riconquistarono un ruolo
centrale solo a partire dalla metà degli anni 1950. Dopo la
scissione nel 1948, alla CGIL, divenuta espressione delle sole
componenti comunista e socialista, si aggiunsero l’Unione Italiana
del Lavoro (UIL), costituita dalle correnti repubblicana e
socialdemocratica (1949), e la Confederazione Italiana Sindacati
Lavoratori (CISL), d’ispirazione cattolica (1950). Nel 1950 nacque
la Confederazione Italiana Sindacati Nazionali Lavoratori (CISNAL,
di cui è erede l’UGL, Unione Generale del Lavoro, fondata nel 1996),
legata al Movimento sociale italiano, e nel 1957 la Confederazione
Italiana Sindacati Autonomi Lavoratori (CISAL), punto di riferimento
per tutta l’area del sindacalismo autonomo. Per quasi due decenni il
s., pur contribuendo all’inserimento delle masse nella vita
nazionale e al consolidamento delle istituzioni democratiche, rimase
politicamente debole e diviso, mentre le relazioni industriali
vedevano una sostanziale contrapposizione tra le associazioni
padronali e la CGIL in particolare, spesso isolata dalla pratica
seguita da CISL e UIL degli accordi separati. La forte ripresa della
conflittualità operaia verificatasi dalla fine degli anni 1960, in
particolare nelle grandi industrie meccaniche, generò un profondo
rinnovamento del s. in senso classista e unitario: a una
significativa conquista legislativa, lo Statuto dei lavoratori del
1970, si accompagnò l’affermazione dei consigli di fabbrica,
inseriti nelle strutture sindacali e dotati di poteri
rappresentativi e contrattuali. Contemporaneamente fu avviato un
processo unitario che culminò nella costituzione della Federazione
CGIL-CISL-UIL (1972). I rinnovi contrattuali del 1973 e l’accordo
del 1975 per l’unificazione del punto di contingenza segnarono la
maggiore espansione delle conquiste economiche dei lavoratori,
mentre il s. diveniva un importante interlocutore nella definizione
della politica economica del governo. Negli anni successivi, l’avvio
di profondi mutamenti nel sistema produttivo, le conseguenze della
crisi economica internazionale e gli sviluppi della situazione
politica interna indussero le confederazioni all’adozione di una
linea più moderata in campo salariale e rivendicativo, sancita in
particolare dalla conferenza sindacale dell’EUR (1978).
Contemporaneamente, di fronte alle tensioni suscitate dai gravi
episodi di terrorismo verificatisi a partire dal 1969, si accentuava
l’impegno del s. in difesa delle istituzioni. Dagli anni 1970Il
disegno di stabilizzare il sistema politico e quello delle relazioni
industriali con un s. forte, autorevole e rappresentativo si arenò
sul finire degli anni 1970, quando riemersero nella federazione
unitaria prospettive divergenti. Queste si accentuarono nei primi
anni 1980 in relazione alle crescenti pressioni volte a
ridimensionare il meccanismo della scala mobile. In particolare, il
diverso atteggiamento assunto dalla CGIL, da un lato, e da CISL e
UIL, dall’altro, nei confronti del taglio di alcuni punti di
contingenza, deciso dal governo Craxi nel 1984, portò alla rottura
della Federazione unitaria. Negli anni successivi il s. entrò in una
fase critica caratterizzata da incertezze di linea, ricorrenti
dissensi tra le confederazioni e al loro interno, e un calo di
consensi fra i lavoratori. Si diffondeva intanto, soprattutto in
alcuni settori del pubblico impiego, dei servizi e dei trasporti, un
sindacalismo autonomo di base (COBAS) con un forte spirito
rivendicativo e conflittuale. Tali fenomeni sono proseguiti negli
anni 1990, mentre i problemi posti dai processi di ristrutturazione
del sistema produttivo e di mondializzazione dell’economia (compresi
quelli connessi con il programma di integrazione europea),
dall’inasprirsi della concorrenza internazionale, dalla crescita del
debito pubblico e dalla crisi fiscale dello Stato hanno indotto il
s. a un’ulteriore revisione della propria strategia. Oltre ad
accentuare la politica di moderazione salariale (concordando, fra
l’altro, nel 1992 l’abolizione totale della scala mobile), CGIL,
CISL e UIL si sono mostrate disponibili ad accettare una limitazione
dei tradizionali strumenti di regolazione pubblica del mercato del
lavoro, una maggiore flessibilità del lavoro nelle aziende, una
regolamentazione del diritto di sciopero nei pubblici servizi, una
trasformazione in senso privatistico del rapporto di lavoro dei
dipendenti pubblici, una diminuzione della copertura pensionistica
pubblica e lo sviluppo di forme integrative private;
contemporaneamente sono stati rafforzati i vincoli imposti alla
contrattazione aziendale e di categoria dalle trattative
‘triangolari’, a livello confederale, tra sindacati, associazioni
padronali e governo. Questa politica sindacale ha suscitato proteste
e dissensi anche all’interno delle confederazioni. Gli anni 2000
hanno visto l’inasprimento di tali polemiche fra le tre
confederazioni sindacali, anche a causa della firma di accordi
separati.
4. S. di comodo
Si dicono s. di comodo (o s. gialli nel linguaggio comune)
associazioni sindacali costituite e sostenute dai datori di lavoro e
dalle loro associazioni. L’esistenza di tali organizzazioni è
vietata dalla legge in quanto comprime la libertà sindacale e ne
limita gli spazi per un’attività e un’organizzazione effettivamente
genuina. I modi in cui i datori di lavoro sostengono i s. di comodo
sono molteplici e difficilmente tipizzabili. L’esperienza offre una
serie di esempi, che vanno dal finanziamento vero e proprio al più
semplice, e meno grave, favoreggiamento, che comporta maggiori
problemi per l’individuazione da parte del giudice. Ciò che comunque
deve essere individuato, e che il nostro ordinamento ritiene
strumento antigiuridico, è il rapporto di asservimento del s. di
comodo al datore di lavoro. In caso di violazione di tale divieto da
parte del datore, il giudice eventualmente adito dovrà inibire il
comportamento, interdicendo l’azione di sostegno, ma non potrà
disporre lo scioglimento dell’organizzazione costituita.
5. S. di imprese
S. commerciali Intese miranti a incettare un prodotto o una materia
prima per speculare sul rialzo del prezzo (dette anche rings). S.
industriali (o, più propriamente, di produzione) Intese tendenti a
sospendere per un certo periodo la concorrenza tra imprese dello
stesso ramo (più note sotto il nome di cartelli o consorzi) e
accordi che sboccano in forme più accentuate di concentrazione
industriale in senso orizzontale o verticale (tra imprese cioè
similari o tra imprese collegate da complementarità o
strumentalità), dando vita in modo permanente a complessi economici
(gruppi o trust) volti a rafforzare l’efficienza produttiva e a
ridurre i costi di produzione.
Nella pratica finanziaria, s. azionari, accordo fra gruppi di
azionisti, di maggioranza o di minoranza, di una società per azioni,
che si obbligano reciprocamente ad assumere un atteggiamento
uniforme nelle assemblee sociali. La liceità dei s. azionari, che
una volta era posta in dubbio, è ora pienamente riconosciuta, anche
se tuttora manca una specifica disciplina legislativa e se si
riconosce la necessità di particolari limitazioni, soprattutto
temporali. Gli scopi dei s. azionari sono raggiunti o mediante
l’impegno reciproco dei partecipanti al s. di votare in assemblea
secondo le decisioni prese, oppure conferendo la procura a un
mandatario comune; una particolare specie di s. azionari è il s. di
blocco, con il quale i partecipanti si obbligano a non vendere le
proprie azioni oppure a venderle soltanto a un altro partecipante al
sindacato. S. di difesa Associazione in partecipazione tra banche o
imprese finanziarie che si propone di agevolare, animando il
mercato, le contrattazioni di un certo numero di titoli che per il
loro frazionamento in più mani hanno un mercato debole, oppure di
ostacolare manovre di accaparramento degli stessi da parte di
speculatori.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)
di Gino Giugni
Sommario: 1. Introduzione. 2. Le origini. 3. I modelli di
sindacalismo. 4. I modelli organizzativi. 5. I modelli di azione. 6.
Le dottrine. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Sindacato e sindacalismo sono essenzialmente un prodotto della
storia. Nessuna definizione basata sulla conoscenza a priori
potrebbe spiegare le ragioni per cui un'aggregazione coalizzante di
interessi economici ha potuto acquistare un'identità specifica e
differenziale e acquisire un senso linguistico riconosciuto e
riconoscibile. L'autotutela di soggetti attivi nei ruoli
socioeconomici, in effetti, è fenomeno non ignoto neppure
nell'antichità. E, come è ben risaputo, le organizzazioni dei
produttori conobbero una fase altamente evoluta nel basso Medioevo,
fino a costituire una delle strutture portanti nelle attività
industriali e commerciali. Esse tuttavia non assunsero mai la
designazione di 'sindacati', anche se dal punto di vista linguistico
portarono il segno di esperienze affini. Questo può dirsi per le
Trade Unions delle origini (v. Commons e altri, 1918), associazioni
di artigiani via via evolutesi in unioni di mestiere, per i
syndicats (termine che in origine indicava l'assistenza in giudizio,
e successivamente si estende al gruppo di interessi organizzati: v.
Reynaud, 1975), per le Gewerkschaften, per i gremios come in America
Latina vengono spesso indicati i sindacati. Pur nella varietà dei
termini - che in fondo, in misura superiore, si riflette anche
nell'uso di una parola analoga come 'sciopero' e di quelle
equivalenti, ancor più segnate da origini autoctone - l'omogeneità
dei designati non è altro che il riflesso di un fenomeno che, anche
se con sfasature temporali, si afferma e si consolida quasi dovunque
dalla seconda metà del XIX secolo.
È il dato storico, pertanto, che attribuisce a questa varia
terminologia un significato omogeneo. Ma il dato storico di
riferimento altro non è a sua volta che l'esperienza del lavoro
operaio e, solo più tardi, quella degli impiegati o 'colletti
bianchi', fino a comprendere tutta l'area del lavoro dipendente o
subordinato. Diversamente, l'aggregazione sociale degli imprenditori
- e a fianco a essa, ma in molti casi prima di essa, quella del
lavoro autonomo, self-employed e privo di collaboratori subordinati
- segue linee di sviluppo diverse, che talora trovano il referente
nel termine 'sindacale', mentre altre volte si identificano in modi
diversi e volutamente inconfondibili (associazioni di imprenditori,
patronats e così via).
Nel linguaggio del diritto del lavoro, anche internazionale, si
afferma una designazione simmetrica, per la quale è sindacato la
stessa controparte, e cioè l'organizzazione dei datori di lavoro: si
veda, in proposito, oltre ai numerosi documenti internazionali, lo
stesso art. 39 della Costituzione italiana.
Dal punto di osservazione prescelto emerge inoltre come il lavoro
operaio, man mano che assume valore di massa, distinguendosi dal
lavoro domestico, artigianale e di campagna, si identifichi
soprattutto con quello risultante dalla concentrazione dei mezzi di
produzione e del lavoro nella manifattura, e dalla conseguente
formazione di una solidarietà di interessi percepiti come comuni. Il
tutto, naturalmente, ha sullo sfondo il dato di origine, che è
costituito dalla rivoluzione industriale. Ai margini di questo
nucleo duro si formano a loro volta nuclei di solidarietà
collettiva, portatori eventuali di analoghe capacità di antagonismo:
sotto tale luce il sindacalismo del lavoro autonomo, ma soprattutto
quello contadino, può assumere tratti imponenti.
L'antagonismo degli interessi appare così come l'humus che
fertilizza l'esperienza del sindacato. A esso, per un uso
linguistico ormai consolidato in vari ambienti di ricerca, si è
convenuto di attribuire la designazione di 'conflitto industriale'
(v. Dahrendorf, 1959), anche se e dove il conflitto sia stato
preceduto da manifestazioni di analoga natura in altri settori, come
in quello, più antico, dell'agricoltura, o sia seguito e fiorito in
aree di sviluppo sindacale più recente, come quelle terziarie.
L'antagonismo degli interessi organizzati rientra in vari capitoli
delle scienze sociali: da quello dell'economia, dove il conflitto si
polarizza sui rapporti di proprietà (Karl Marx), a quello della
sociologia sotto la specie del conflitto di autorità (v. Dahrendorf,
1959), a quello del diritto, che ha visto la rigogliosa fioritura
del diritto del lavoro (v. soprattutto Kahn-Freund, 1977).
2. Le origini
Prodotto dell'industrialismo, il fenomeno sindacale appare nello
scenario storico in tempi diversi, pur se abbastanza ravvicinati. Le
origini, non quelle remote o anticipatorie, bensì quelle segnate da
indizi di significativa rilevanza, vengono normalmente individuate
nei primi decenni del XIX secolo in Inghilterra, dove erano
nettamente più avanzati lo sviluppo dell'industria organizzata in
forma manifatturiera e quello, coevo, della classe operaia. Una
delle conseguenze più visibili è data dallo stesso processo
legislativo: già nel 1824 il Parlamento effettuò un primo, moderato
intervento di liberalizzazione rispetto al preesistente apparato
repressivo, con il Combination of workmen act (v. Wedderburn,
1986³). Seguirono nei vari paesi, anche se a ritmo più lento, altri
interventi legislativi di graduale liberalizzazione. Agli inizi
l'unionismo appare in genere fortemente intrecciato con forme di
solidarismo mutualistico (v. Webb e Webb, 1897). In Italia
l'unionismo decollò in un forte intreccio con il movimento
cooperativo soprattutto di origine agricola: la fase di esplosione
organizzativa che ebbe luogo nei due decenni antecedenti la grande
guerra si svolse all'insegna del motto: Resistenza (cioè lotta
rivendicativa), mutualità, cooperazione (v. Zangheri, 1997). Dal
canto suo il movimento sindacale inglese, di cui è giocoforza far
ulteriore menzione in ragione del primato detenuto per lungo tempo,
tendeva già a consolidarsi nella seconda metà del XIX secolo, e a
formare un fitto reticolo di contrattazione collettiva (v. Webb e
Webb, 1897) che diventerà anzi una delle strutture portanti della
democrazia britannica (v. Laski, 1950), anche se fortemente
indebolita, a distanza di vari decenni, dall'avvento del lungo
regime conservatore.
È all'inizio del XX secolo infine che, in contiguità di tempo con
altri paesi tra i quali l'Italia, nasce il Trade Unions Congress, e
cioè la confederazione generale, un modello che, pur nella varietà
di sistemi, avrà una diffusione generale.Il decollo industriale è
anche alla base della formazione del movimento sindacale
nordamericano, sebbene appaia più tardivo (ne fa tuttavia menzione
già Tocqueville) e si sviluppi tra enormi difficoltà ambientali:
l'ostilità delle classi proprietarie, piccole e grandi,
l'opposizione del ceto politico, la cultura della frontiera e la
turbinosa mobilità sociale, la resistenza del sistema giuridico e
del ceto giudiziario (v. Commons e altri, 1918). È solo con il New
Deal e con la legislazione da esso introdotta (v. Barenberg, 1993),
nonché con il decennio a esso successivo, che il sindacalismo
americano acquisterà un ruolo anche politico di primissimo piano,
che peraltro solo due decenni dopo avrebbe ceduto il passo a un
clamoroso declino tuttora in atto.
Nei paesi eurocontinentali le vicende del sindacato appariranno
alterne. La linea di sviluppo in atto in Italia, ma soprattutto in
Germania sotto la spinta della socialdemocrazia, verrà spezzata
dall'avvento delle dittature; ma nel periodo successivo in ambedue i
paesi si avrà una lunga fase di prosperità, protrattasi fino a oggi.
Il sindacalismo in Francia presenterà invece una ininterrotta
continuità, sebbene a basso livello di potenza organizzativa e di
influenza politica.
È nelle democrazie scandinave invece che si registra, a partire
dagli anni della 'grande depressione', una dirompente crescita che
si intreccerà in modo pressoché continuativo con una lunga stabilità
politica e con una rapida formazione del Welfare State, avvenuta
sotto la guida socialdemocratica. Tra i paesi ad alta
industrializzazione appare notevole, dopo la seconda guerra mondiale
e sotto l'influenza del New Deal, lo sviluppo del sindacato in
Giappone, pur nel quadro di un orientamento culturale di tipo
collaborativo nei confronti dell'impresa, e in ispecie di quella di
grandi dimensioni. Un caso del tutto peculiare, fuori dal contesto
dei paesi ad alta industrializzazione, è costituito dall'Argentina,
dove, in circostanze politiche affatto particolari, si afferma un
forte movimento sindacale, con caratteristiche 'protette' in sede
politica e legislativa, ma comunque con un solido radicamento
sociale.
3. I modelli di sindacalismo
Adottando ora una prospettiva strutturale sincronica, il sindacato
ci appare costruito su tre modelli, di cui il secondo è il più
ricorrente.
1. Il modello di antagonismo al sistema, il più frequente alle
origini, oggi costretto in un'area molto ridotta in Europa, è ancora
ricorrente nei paesi in via di sviluppo. L'orientamento teso ad
accettare il sistema dell'economia capitalistica è già presente fin
dalle origini nell'ambito americano e, nei comportamenti, in quello
britannico, e in genere nei paesi ad alta industrializzazione, anche
se associato con spinte ideali verso alternative di sistema. Lo
stesso antagonismo ideale d'altronde si stempera via via in una
prassi compositiva dominata dalla contrattazione, e, di pari passo,
in un riformismo politico che conduce all'accettazione anche formale
dell'economia di mercato. Un caso tipico, fino alla caduta del Muro
di Berlino, fu quello della componente comunista del sindacalismo
italiano, gradatamente ma pienamente inseritasi nella prassi
compromissoria contrattuale, fino a immedesimarsi nei valori e nella
dottrina relativi pur restando fedele, nei principî, all'obiettivo
finale della 'fuoruscita dal capitalismo' (v. Proposta..., 1977).
Tale sdoppiamento dei fini, quelli immediati e quelli a lungo
termine, emerge via via, ancorché in modo meno netto, nei movimenti
sindacali che, come quello francese o quello spagnolo, appaiono più
in sintonia con le vicende del comunismo internazionale. Ma se, più
in generale, lo sdoppiamento dei fini si presenta allo stadio
iniziale della storia dei movimenti sindacali di impronta
socialdemocratica o confessionale, nella seconda metà del XX secolo
l'area degli obiettivi finali appare sempre più ridotta a un ideale,
oggetto di omaggio verbale e di funzioni rituali.Alla fine del
secolo apparirebbe sufficiente uno sguardo agli Atti della
Confederazione Internazionale dei Sindacati dei Lavoratori -
un'associazione molto composita, e anche molto poco influente sui
comportamenti nazionali - per rendersi conto del fatto che il crollo
del comunismo ha sgomberato l'intero campo. Le sole eccezioni sono
costituite dai pochi movimenti sindacali integrati nei regimi
comunisti sopravvissuti. Al contrario, l'antagonismo si mantiene
elevato, anche se ridotto allo stadio clandestino o quasi, dove il
sistema economico è connivente con regimi politici autoritari: ed è
quanto è avvenuto, specie negli anni settanta e ottanta, nelle
dittature militari sudamericane, e avviene oggi nei rigogliosi
regimi repressivi asiatici.
2. Nettamente prevalente è il modello conflittuale. Esso si esprime
nella forma del conflitto di autorità (v. Dahrendorf, 1959), che può
anche contenere, come parte rispetto alla totalità del fenomeno e
della sua rappresentazione, la contestazione del sistema, anche se
più verbale che reale. Il conflitto di autorità è profondamente
radicato nell'esperienza relazionale della vita di lavoro. Esso può
coinvolgere tutti i livelli: partendo dal basso, nelle sedi dove si
svolgono anche le più elementari forme di vita di relazione da cui
possono nascere forme capillari di resistenza, spontanea ovvero
organizzata, fino ai vari livelli dell'organizzazione produttiva e,
in estensione orizzontale, nelle comunità territoriali, fino alla
sede statuale. Sotto tale aspetto potrà, in contraddizione solo
apparente, porsi all'origine di forme di cogestione o concertazione,
ciascuna al suo proprio livello, fondate peraltro sulla
potenzialità, anche se non sull'attualità o effettività del
conflitto.
3. Un terzo modello, ma forse e in prevalente misura, allo stato
ipotetico, è quello partecipativo. Esso ha radici consolidate, ma
quasi integralmente di origine ideologica, derivate da influenze
confessionali. Inoltre, può presentare coincidenze o sovrapposizioni
con le ideologie della collaborazione di classe e con l'esperienza
fattane nell'ambito degli Stati corporativi, dove tuttavia la realtà
conflittuale esisteva allo stato latente o negli interstizi delle
strutture formali, pur costruite sul principio collaborativo. Il
sindacalismo partecipativo è invece un fenomeno tardo-industriale.
La tipologia dell'organizzazione del lavoro, superato o ridotto a
ristretto ambito il modello tayloristico (v. Piore e Sabel, 1984),
suggerisce politiche mirate all'integrazione collaborativa, che
attenua l'antagonismo conflittuale facendo emergere invece aree di
contatto sociale (lavoro di gruppo, dissoluzione della gerarchia,
perseguimento della 'qualità totale': v. Barenberg, 1994) e/o di
convergenza di interessi (salario collegato alla produttività o
redditività, superamento del salario, partecipazione agli utili o al
capitale: v. Weitzman, 1984).
4. I modelli organizzativi
L'identità del sindacato può essere rilevata in vario modo. Il modo
più diretto è quello derivato dalla scelta del modello
organizzativo, ma non perché esso risponda a un criterio più
elementare: al contrario, nell'esperienza del sindacato, il modo di
organizzarsi appare determinato da una serie complessa di fattori
che si basano su scelte ideologiche, di dottrina, di struttura
economica e giuridica. In esso, in altre parole, si riflette la
realtà vivente del sindacato.
La scelta di questo punto di vista fornisce un'ampia gamma di
alternative: il sindacato di mestiere (craft unionism); il sindacato
industriale; il sindacato professionale o, secondo una terminologia
più rispondente, occupational; il sindacato generale; il sindacato
aziendale. Si tratta di termini a volte ripresi dall'inglese e non
sempre riconducibili con esattezza all'uso italiano.Il sindacalismo
di mestiere trae origine dall'esperienza dei paesi a più avanzato e
antico sviluppo industriale, ed è proprio infatti dell'Inghilterra e
degli Stati Uniti. Ne sono esempi, tra i più antichi, i sindacati
che organizzarono i vari mestieri dell'industria tipografica, e che
furono tra gli antesignani anche perché, a differenza di molti
altri, avevano la piena padronanza dell'alfabeto e pertanto dei vari
strumenti di comunicazione e di propaganda. Tra i carpenters
(falegnami) americani o i vari mestieri della stampa in Inghilterra
o i cappellai o i tipografi italiani si inseriva perciò una gamma
amplissima e articolata di organizzazioni, che costituì il nucleo
forte della prima fase del sindacalismo, tuttora operante specie in
aree di più radicata tradizione, come nel Regno Unito.
Il sindacalismo di mestiere fa leva sulla solidarietà di interessi
quale si forma, in modo quasi naturale, nel posto di lavoro e nella
collocazione sul mercato del lavoro stesso. Esso infatti, secondo
una tesi sviluppata già nei primi decenni di riflessione teorica (v.
Perlman, 1928), è costruito in termini di difesa della propria
posizione nel mercato e ha come destinatario la manodopera in
possesso di cognizioni e di pratica del mestiere. Tipico del
sindacato di mestiere è il forte senso di appartenenza, che si
esprime attraverso simboli, tradizioni e folklore in parte di antica
origine - il compagnonnage - e in denominazioni come le
'fratellanze' o le 'logge': la stessa massoneria presenta, alle
origini, radici di appartenenza professionale. Da questo punto di
vista la solidarietà sindacale, espressa in questi contenuti e con
queste forme, appartiene più alla natura della Gemeinschaft, o della
comunità, che non a quella della Gesellschaft, vale a dire
dell'associazione per il semplice perseguimento, anche transitorio,
di uno scopo comune.
L'aspetto caratterizzante del sindacato di mestiere consiste perciò
nella sua percezione di essere una comunità partecipativa incentrata
sulla autodifesa del posto di lavoro: quella che il più autorevole
interprete di questa realtà definì come job consciousness (v.
Perlman, 1928). È facile da intendere come, fin dalle sue origini,
la job consciousness conducesse all'adozione di pratiche
restrittive, in parte derivate dalle antiche pratiche di
acquisizione di un mestiere attraverso lunghi periodi di
apprendistato non retribuito.
Il sindacalismo industriale risponde a un criterio storicamente più
avanzato nel tempo. Esso riflette su larga scala l'avvento di una
forma di organizzazione del lavoro ispirata al metodo tayloristico e
legata alla produzione di massa. E, soprattutto, il sindacalismo
industriale è quello che, aprendo la porta a tutti gli strati della
manodopera, allarga le sue file al lavoro non specializzato e crea
un mercato del lavoro unificato: ed è questa infatti la
discriminante innovativa, che segna anche una profonda
trasformazione dell'esperienza sindacale. La produzione di massa, in
altre parole, genera un sindacalismo di massa. Ma anche questa
affermazione non va intesa in senso assoluto, perché potrebbe
condurre a una sopravvalutazione del dato strutturale. Lo sviluppo
del sindacalismo industriale, infatti, venne anche influenzato dalla
diffusione di forme di solidarismo, in larga parte generate dalle
appartenenze politiche, prime tra tutte naturalmente quelle di
impronta socialista.
E infatti molte organizzazioni industriali come quelle dei
metallurgici o dei meccanici assumono presto identità che vanno ben
oltre i confini dei singoli mestieri: possono essere ricordate la IG
Metall in Germania o la FIOM in Italia, o i vari esempi di
amalgamation tra crafts diversi in Gran Bretagna, che danno vita a
un sindacalismo a impronta classista o tendenzialmente
tale.L'affermazione di questi centri di solidarietà avviene in molti
casi senza profonde lacerazioni, quasi come un processo naturale di
espansione. Dove invece il conflitto assume caratteri tali da
provocare una profonda divaricazione è negli Stati Uniti degli anni
trenta. È in questo paese infatti che il contrasto tra il più
tradizionale modello del sindacato di mestiere e quello, in larga
parte innovativo, del sindacato industriale conduce a una vera e
propria scissione tra la vecchia American Federation of Labor, che
intende rimanere negli argini dei mestieri, e il Congress of
Industrial Organizations, scissione avvenuta nel 1935 e ricomposta
venti anni dopo nella Confederazione unitaria che porta appunto il
nome delle due sigle (AFLCIO) e che opera ormai in un contesto
misto, dove vede anzi la prevalenza del modello più moderno.Il
sindacato professionale o, con terminologia di uso più recente,
quello occupazionale, è in ultima analisi un contenitore analogo a
quello del craft: solo che in luogo dell'operaio di mestiere
organizza ceti professionali.
A questa categoria appartengono perciò i sindacati degli impiegati,
solo molto raramente integrati con quelli operai, come
eccezionalmente avviene in Italia, più frequentemente associati su
base orizzontale (così in Svezia o in Austria, oppure in Italia
prima e durante il fascismo) o infine organizzati in simmetria con
l'organizzazione operaia, ma separatamente da essa. Analoga
caratteristica è quella delle sempre più diffuse unioni di categorie
di medio o alto livello professionale: dalle varie professioni
presenti nel settore terziario, tra le quali la potente Federazione
francese dell'insegnamento, fino alle organizzazioni 'orizzontali'
che attraversano tutte le aree produttive, ma limitatamente a una o
più specialità. Meritano menzione, naturalmente, i sindacati dei
'quadri' o quelli degli impiegati superiori o dei dirigenti, o le
varie organizzazioni professionali operanti nel settore pubblico, o
infine i sindacati delle categorie emergenti (piloti) o con radici
tradizionali (ferrovieri di macchina). Trattasi di un campo in piena
espansione che cresce in concomitanza con l'espansione del
terziario, anche se a ritmi notevolmente diseguali. Va comunque
tenuto presente che è questa l'area dove lo sviluppo organizzativo e
il proselitismo in molti casi riescono a compensare le diminuzioni
numeriche proprie dell'area più tradizionale.
Il sindacato generale è in realtà un sindacato intercategoriale, che
porta peraltro il segno di un'origine da o una preferenza per una o
più categorie specifiche. Si tratta di un fenomeno tipico dei paesi
anglosassoni: rientrano in esso i Teamsters americani,
organizzazione tra le più forti, che partiva dall'area degli addetti
ai trasporti su strada, ma si estese largamente nei settori terziari
e acquistò una cattiva fama per effetto di collusioni con la
malavita, ormai peraltro del tutto recise. In Gran Bretagna la
Transport and General Workers' Union era e permane aperta a un'ampia
gamma di attività. E, sia pure con radici molto diverse, si può
affermare che appartengono al modello del sindacato generale anche
quelli, tipici dei paesi latini, delle Camere o delle Bourses del
lavoro. E infine, sempre ragionando in termini di simmetria
geometrica e sia pure con una certa forzatura, appartengono all'area
del sindacalismo generale le confederazioni generali, conosciute
pressoché dovunque, anche se con funzioni variabili: da quelle di
puro coordinamento, come negli Stati Uniti e in misura maggiore nel
Regno Unito, fino alle confederazioni dei paesi latini, fortemente
centralizzate ma a loro volta coesistenti in una relazione di
concorrenza politica o anche confessionale (Olanda). Il pluralismo
sindacale, pur essendo foriero di profonde influenze sui contenuti e
sull'azione dei sindacati, dal punto di vista della struttura
organizzativa si risolve in gran parte in una riproduzione di
modelli omogenei tra loro.
L'ultimo tra i modelli organizzativi qui presi in considerazione è
quello del sindacato aziendale. Esso ha un posto nella storia dei
movimenti sindacali più come rappresentativo di una fase di sviluppo
che non come un sistema attestato. Il sindacato aziendale infatti fa
la sua apparizione nelle prime fasi della storia dei vari sindacati,
ma la tendenza che si afferma molto presto è verso l'accorpamento in
unità operanti che passano i confini aziendali. Il consolidamento
del modello può avvenire in due direzioni alternative. La prima è
quella di una sfida antagonista al sindacato extra-aziendale, sia
esso di mestiere sia industriale. È il caso delle company unions, o
sindacati 'gialli', conniventi con la direzione - in una distinzione
che può essere in effetti molto permeabile -, che ebbero uno
sviluppo particolare negli Stati Uniti dopo la prima guerra
mondiale, tanto da indurre il legislatore, durante il New Deal, a
introdurre un divieto legale. Esso vige tuttora ed è consolidato da
un'esplicita condanna da parte delle normative internazionali sul
lavoro. Diverso è il caso della struttura sindacale aziendale
esclusiva, che può presentare radici forti come in Giappone o essere
comunque indotta dalle politiche adottate da grandi imprese,
segnatamente da quelle a dimensioni sovranazionali, specie se
operanti in siti isolati: è quanto è avvenuto in molti paesi
dell'America Latina, tra i quali il Brasile. Costituisce poi un
ulteriore dato di complicazione l'accavallarsi di questa struttura
rappresentativa con quella, di portata di gran lunga più generale,
delle rappresentanze elettive (v. sotto).
L'esistenza di un canale di rappresentanza diverso, anche se non
necessariamente alternativo al sindacato, appare così frequente da
essere ritenuta un dato normale (v. Rogers e Streeck, 1995). Così è
nella maggior parte dei paesi eurocontinentali, mentre il single
channel domina nelle aree anglosassoni, e in particolare nel Regno
Unito e negli Stati Uniti. Il canale della rappresentanza diretta si
forma in genere attraverso elezioni aperte a tutti e regolate per
legge (Germania) oppure per via contrattuale (Italia). Talvolta la
rappresentanza ha caratteri misti, elettorale e di designazione
sindacale (Italia). Le ragioni di questo dualismo non sono
riducibili a una sola. Nella fase iniziale dell'esperienza
sindacale, la rappresentanza diretta nacque per una esigenza di
normale sviluppo. Ma, a determinare la formazione della doppia
rappresentanza concorse il pluralismo sindacale, con la conseguente
utilità di ritrovare nel luogo di lavoro un'aggregazione in grado di
gestire la funzione quotidiana della rappresentanza dei lavoratori.
E certamente fu lo stesso pluralismo a porre in essere un deficit di
rappresentanza da parte del sindacato, che venne compensato dalla
rappresentanza elettiva.
Nel complesso, comunque, si può affermare che, nei vari paesi,
risulta abbastanza stabilizzato un equilibrio tra i due canali,
fondato principalmente sulla devoluzione della funzione contrattuale
ai sindacati e di quella di gestione alla rappresentanza diretta.
L'equilibrio è risultato meglio tarato dove, come in Germania, la
tradizione dei Betriebsräte, fortemente radicata fin dai tempi di
Weimar, a partire dal periodo postnazista ha tratto beneficio dalla
condizione di unità sindacale, per cui la distinzione tra i due
canali è risultata di fatto come una divisione di compiti di natura
prevalentemente funzionale. La rappresentanza diretta è conosciuta,
nell'esperienza italiana, come consiglio di fabbrica e, oggi, come
rappresentanza sindacale unitaria (RSU), che peraltro svolge
funzioni in larga parte coincidenti con quelle del sindacato in
senso proprio, anche se non ne ripete la struttura e le competenze.
5. I modelli di azione
I modelli di azione del sindacato sono strettamente coniugabili con
i modelli di organizzazione prima esaminati, ma assumono
naturalmente identità proprie. Tali identità sono riconducibili a:
a) i mezzi di azione diretta;
b) la contrattazione;
c) l'azione politica e di gruppo di pressione;
d) la concertazione o scambio politico.
A. L'azione diretta è stata fin dalle origini una delle espressioni
più originali dell'esperienza sindacale, tanto che venne posta la
domanda se fosse nato prima il sindacato o l'azione diretta, e in
particolare lo sciopero (v. Kahn-Freund, 1954). In effetti, lo
sciopero e, con esso, le altre forme di resistenza collettiva furono
e restano tuttora gli strumenti per eccellenza della formazione di
identità collettive. Nel loro consolidarsi essi diedero e tuttora
danno luogo alla formazione di organizzazioni di resistenza, quali
possono manifestarsi episodicamente o in contesti di solidarismi
allo stato nascente, fino a dar vita alla formazione di stabili
strutture organizzative; nelle forme più clamorose, la formazione di
organizzazioni di resistenza può addirittura segnare un trapasso di
regime: il caso più famoso fu, nel 1980, la nascita del sindacato
Solidarność.
La libertà di sciopero d'altronde, oggetto dovunque di legislazioni
repressive, si affermò all'incrocio tra i due secoli come una forma
espansiva dell'idea stessa di libertà, quasi un'affermazione di
dovuta coerenza con i principî del liberalismo politico. Non fu
peraltro una conquista facile: l'affermazione del principio si trovò
a contrastare severamente con gli interessi delle classi dominanti,
per cui questa forma di libertà incontrò forti opposizioni, anche in
contraddizione con gli stessi principî ispiratori del
costituzionalismo liberale. Infatti, la libertà di sciopero venne
pienamente riconosciuta in Germania solo dopo la 'grande guerra', e
incontrò dure resistenze negli Stati Uniti fino agli anni del New
Deal. A sua volta, il divieto dell'azione diretta fu il primo a
comparire quasi immediatamente all'affermarsi delle dittature di
impianto fascista o comunista.L'impiego dell'azione diretta come
mezzo di pressione è effetto della percezione di uno squilibrio
sociale, e d'altronde la stessa tipologia dell'azione diretta può
non esaurirsi nello sciopero, anche se questo è il mezzo più
frequente e caratterizzante. L'azione sindacale, che talvolta
scavalca lo stesso sindacato, si articola variamente: dalle varie
forme di sciopero, alcune delle quali di incerta legittimazione
anche a fronte del riconoscimento giuridico del relativo diritto,
fino al boicottaggio delle merci e all'occupazione del luogo di
lavoro, mentre d'altro canto la parte antagonista dispone di un
mezzo che può essere di attacco o di difesa, la serrata, non ammessa
però da tutti gli ordinamenti. In ogni caso, anche in quest'ultimo,
l'azione è collettiva: persino nel caso della serrata del singolo
imprenditore, essa è collettiva dal lato della controparte.
B. Strumento ancor più tipico dell'esperienza sindacale è comunque
il contratto collettivo. Sia pure con estensione e profondità
variabili, l'impiego di tale strumento presenta un carattere
pressoché universale; e anzi, anche nei regimi esclusi dall'area
delle libertà sindacali compare quasi sempre un riconoscimento del
contratto collettivo, se non altro come strumento di decentramento
della normazione statale. Il contratto collettivo, che può essere
regolato in modo più o meno intenso dalla legge - tra le rare
eccezioni, il Regno Unito e, in parte, l'Italia (v. Giugni, 1986) -,
viene stipulato normalmente tra sindacati e imprenditori, singoli o
associati, e presenta una tipologia molto varia, fortemente
condizionata dalle esperienze nazionali, risultando rarissimo
l'impiego di tale strumento sul piano sovranazionale (Trattato di
Maastricht, 1992). L'ampiezza e la penetrazione capillare del
fenomeno sono ormai tali che esso può essere qualificato come una
delle strutture portanti delle costituzioni materiali, mentre il suo
porsi in modi reiterati e a cadenze prevedibili rende plausibile la
costruzione a 'sistema' (v. Dunlop, 1958).
I contratti si distinguono anzitutto per le materie trattate, per le
aree di riferimento, per i livelli e per gli effetti. Riguardo alle
materie, va ricordato che il fenomeno contrattuale ha le sue radici,
fin dagli inizi, nel salario, strettamente collegato a sua volta con
l'orario e la durata del lavoro: lo stesso nome del contratto
collettivo si afferma dopo designazioni (concordato di tariffa,
Tarifvertrag, wage agreement) riferite soprattutto al salario. In
seguito i contratti assumono gradatamente contenuti sempre più
complessi, fino a configurarsi come veri e propri codici di
categoria. A essi si aggiungono clausole dirette a regolare le
relazioni tra le parti (clausole di pace, procedure per la
contrattazione, strutture collaborative di vario tipo), il cui
sviluppo, accentuatosi negli ultimi tempi, ha contribuito a
configurare la contrattazione come un'organizzazione dei rapporti
sociali di natura particolarmente complessa.
Le aree di riferimento o di copertura, indicate anche come 'unità
contrattuali', riflettono, a loro volta, in larga misura il modello
organizzativo del sindacato (v. cap. 4). Al sindacato di mestiere o
occupazionale corrisponde il contratto di mestiere, anche se
frequente è la combinazione di più unità che trattano
congiuntamente. Il sindacato industriale genera naturalmente il
contratto di unità industriale, che peraltro può coesistere con
unità di mestiere o occupazionali minori: così avviene, per esempio,
nelle ferrovie italiane. I livelli di contrattazione, a loro volta,
vengono identificati in relazione territoriale oppure, ed è un
aspetto di particolare importanza nella struttura del sistema, in
relazione alla natura dell'unità organizzativa (impresa o azienda) o
a divisioni di essa.
La distribuzione delle competenze in ragione dei livelli è uno degli
aspetti più caratterizzanti per i vari sistemi nazionali:
contrattazione nazionale, territoriale, aziendale, di reparto
possono escludersi fra loro, o combinarsi e integrarsi
reciprocamente. Quest'ultimo è il modello prevalente in Europa, pur
con tonalità molto diverse, mentre negli Stati Uniti ha sempre
prevalso il modello aziendale.Quanto infine agli effetti del
contratto collettivo, essi si collocano nell'intricato quadro della
disciplina legale. La linea di tendenza che risulterebbe prevalere,
secondo quest'ultima, sarebbe quella dell'efficacia aperta alle sole
imprese e ai lavoratori aderenti alle organizzazioni stipulanti, ma
è non meno frequente la generalizzazione degli effetti con adeguati
meccanismi giuridici (quali la recezione in legge o equivalente).
Nella logica propria delle relazioni sindacali, infatti, la rete di
solidarietà naturale che si stringe intorno ai lavoratori induce
tendenzialmente a un'applicazione generale.
C. L'azione politica e di gruppo di pressione. Fin dalle origini il
movimento sindacale si è trovato coinvolto, in via diretta o in via
indiretta, nell'agone politico. La lotta per l'esistenza e il
riconoscimento legale e quella per il suffragio universale
condussero a forme di convergenza o di affiancamento, anche quando
non erano il prodotto di una predeterminata e permanente scelta
politica. La famosa sentenza sul caso Taff Vale del 1901 spinse le
Trade Unions a darsi una rappresentanza nel Parlamento, dalla quale,
poco più tardi, sarebbe nato il Labour Party.
Nell'insieme, i modelli di comportamento del sindacato in rapporto
all'azione politica si assestarono su quattro schemi, per quanto
attiene, naturalmente, ai soli paesi con regimi di libertà
sindacale.
1. Il modello del business unionism o, come viene con ampia
approssimazione definito, tradeunionista. Esso - e l'esempio più
importante viene dagli Stati Uniti - esclude totalmente il rapporto
organico con i partiti politici, adottando il criterio di alleanze
elettorali mobili, anche se orientate, sebbene con fasi alterne, a
favore del partito democratico. Il principio è: reward your friends,
punish your enemies.
2. Il modello laburista, formatosi in modo empirico, come si è
detto, in Gran Bretagna, ma diffuso, anche se con notevoli varianti,
nei paesi del Commonwealth. Tuttavia, specie nel paese di origine,
il modello si compattò fino a una integrazione organica del
sindacato nel partito, che solo negli ultimi anni ha cominciato a
rendersi più elastica.
3. Sensibilmente diverso, invece, appare il modello di rapporti tra
sindacato e partiti 'di classe', in origine di forte integrazione ma
poi attenuato, fino a che, nel 1907, il Partito socialdemocratico
tedesco, allora un vero e proprio partito guida, proclamò
l'eguaglianza dei diritti tra partito, operante sul piano politico,
e sindacato, soggetto proprio della cosiddetta azione economica. La
dottrina leninista della 'cinghia di trasmissione' introdusse una
forte alterazione di tale divisione di compiti, ma venne
gradatamente abbandonata anche dai maggiori partiti comunisti
operanti nell'Occidente, e in particolare da quello italiano. Il
pluralismo sindacale, dove si affermò, a sua volta rifiutò il
rapporto di stabile alleanza tra partito socialista e sindacato, ma
nello stesso tempo indusse alla formazione di collateralismi con
altri partiti, e in particolare con quelli di ispirazione cristiana.
4. Una semplice menzione è sufficiente per il sindacalismo
rivoluzionario, che ebbe una grande influenza soprattutto nei paesi
mediterranei, ma che appare ormai pressoché scomparso. In sede
dottrinale, il sindacalismo rivoluzionario trasse ispirazione
soprattutto dall'opera di Georges Sorel (v., 1906) e da una nutrita
dottrina, fiorita soprattutto all'inizio del XX secolo, ma notevole
fu la sua influenza nelle lotte operaie e nel mondo agricolo. Esso
tendeva naturalmente a privilegiare il conflitto e, quantomeno nelle
sue forme più coerenti, a impedire o ostacolare la composizione
dello stesso, ritenendo l'azione del sindacato medesimo come una
preparazione rivoluzionaria, che lo stesso Sorel teorizzò nell'idea,
a sfondo utopistico, dello sciopero generale.L'azione come gruppo di
pressione si svolge soprattutto nei confronti degli organi pubblici,
locali o nazionali, e oggi, in misura considerevole, nei confronti
delle organizzazioni internazionali, ma specialmente di quelle
comunitarie. L'intervento del sindacato come lobby riveste una
particolare importanza in quanto sostituisce il ruolo che altrove è
proprio dei partiti fiancheggiatori.
D. La concertazione o scambio politico verrà descritta in seguito
(v. cap. 6). Essa ha trovato un'applicazione sistematica in paesi
minori, come l'Austria e, in modo meno sistematico, in Spagna e in
Italia. È evidente che la strategia della concertazione pone il
sindacato al più alto livello di partecipazione alle decisioni
politiche e, proprio per ciò, presenta un volto bivalente, potendo
anche apparire come una chiamata di corresponsabilità a cui non
sempre il sindacato, o parte di esso, o i suoi nuclei più militanti
sono o sono stati disponibili.
6. Le dottrine
L'esame delle dottrine sul sindacalismo deve essere condotto non
attraverso un confronto tra ideologie, bensì impiegando la dottrina
come strumento di interpretazione della realtà. Da questo punto di
vista è possibile sviluppare una sobria classificazione, fondata
appunto sulle dottrine che di volta in volta sono state o sono
impiegate ad assolvere questo compito.
I 'classici'. La prima interpretazione scientifica del sindacalismo
è stata quella elaborata in chiave di dottrina economica da Sidney e
Beatrice Webb. Il sindacalismo, nel quadro teorico delineato da tali
autori, viene costruito sull'accertata necessità di contenere la
pressione del mercato del lavoro (the higgling of the market)
sull'anello più debole della catena competitiva.
La concorrenza nel mercato del lavoro si presenta frammentata,
atomizzata e costretta in un circuito che tende inevitabilmente al
ribasso. Il fattore di equilibrio è la risultante dell'intervento di
tre linee di azione costituite da:
a) la restrizione degli accessi (the restriction of number), che è
la forma più antica di resistenza, propria delle organizzazioni di
mestiere, dove la restrizione viene praticata soprattutto attraverso
tecniche ferree di regolazione dell'apprendistato;
b) la regola comune (the common rule), per cui il mercato è aperto a
tutti, ma tutti devono sottoporsi a pari condizioni di lavoro e
retributive: in sostanza, è il metodo che si affermerà soprattutto
attraverso la contrattazione collettiva e che conserva a tutt'oggi
la sua vitalità;
c) l'intervento legislativo (the legal enactment), che impone a
tutti la regola comune, tenuto conto anche del fatto che nel Regno
Unito i contratti di lavoro non avevano e in parte non hanno tuttora
efficacia giuridica.
In conclusione, va dato atto che la dottrina dei coniugi Webb (v.,
1897), costruita sulle solide basi di una ricerca storica ed
empirica sulle pratiche dell'unionismo, ha creato le fondamenta per
la conoscenza dell'organizzazione e dell'azione sindacale e in
particolare della prassi della contrattazione collettiva.
La 'scuola del Wisconsin'. Alimentata dalle forti personalità di
John R. Commons (v. Commons e altri, 1918) e di Selig Perlman (v.,
1928), operò anch'essa nei primi decenni del secolo. Il campo di
osservazione e di invenzione teorica apparve radicato soprattutto
nell'esperienza nordamericana, fortemente atipica rispetto a quelle
europee. La dottrina di questa scuola interpretò in modo esatto le
ragioni del sindacalismo di mestiere, già quando individuò l'origine
dell'unionismo non nell'industrialismo incipiente, bensì nella
costrizione di un mercato del lavoro sottoposto alla pressione del
capitalismo mercantile e preindustriale. La solidarietà appariva
pertanto fin dagli inizi imperniata non sulla classe o su obiettivi
di trasformazione sociale, bensì sulla 'coscienza della scarsità' e
sulla conseguente resistenza collettiva ispirata dalla job
consciousness (v. cap. 4).
Il sindacato americano, correntemente definito come business
unionism, o 'sindacalismo del pane e burro', si plasma secondo
questo modello, che mantiene la sua continuità anche a fronte della
rivoluzione determinata dall'ascesa del sindacalismo industriale. Le
sue radici presentano caratteri di autoctonia, seppure intrecciati
in varia misura con l'influenza esercitata dagli intellettuali e con
le aspirazioni rivoluzionarie o riformiste da questi immesse nel
mondo del lavoro anche attraverso l'immigrazione; esso è stato
peraltro capace di una decisiva resistenza a fronte dei reiterati
tentativi di convogliare l'esperienza sindacale sul piano della più
ampia solidarietà di impronta laburista o socialista. Come negli
autori prima menzionati, e negli Stati Uniti in misura anche
maggiore, il baricentro dell'azione sindacale si pone
prevalentemente nella contrattazione collettiva, tenuto anche conto
dell'ostilità, storicamente comprovata, del sistema politico
americano per un riformismo sociale attuato per via legislativa.
Gli autori di ispirazione marxista. Le loro opere appartengono al
contesto dei classici, anche se meno netta, rispetto agli autori
prima menzionati, è la linea di demarcazione tra letteratura
scientifica e letteratura militante. Tre grandi filoni fanno capo
anzitutto, naturalmente, all'opera di Marx ed Engels, dove l'azione
sindacale è peraltro percepita come propedeutica a quella politica,
nei suoi aspetti di palingenesi rivoluzionaria. Non va comunque
trascurato il grande apporto alle scienze sociali, costituito
dall'analisi delle condizioni della classe operaia in Inghilterra
(v. Marx, 1867-1894), analisi che fu in un certo senso preparatoria
all'incipiente resistenza sindacale. Gli sviluppi della dottrina
marxista vengono dunque registrati in tre aree: la prima, propria
dell'anarcosindacalismo, generò, come sopra ricordato (v. cap. 5),
un movimento di grande impatto nei primi decenni del secolo e venne
fortemente influenzata da scrittori di grande rilievo (v. Sorel,
1906; v. Leone, 1910²; v. Labriola, 1926), non sempre risultati
estranei, per incroci paradossali, a influenze delle dottrine
fasciste; la seconda, attraverso l'impianto leninista, condusse alla
condanna ex cathedra del sindacalismo rivendicativo (v. Lenin,
1902); la terza, di cui fu protagonista il socialismo della Seconda
Internazionale, si rispecchiò nel modo più efficace nell'opera,
anch'essa militante ma rimasta minoritaria, di Eduard Bernstein (v.,
1899), mentre invece il parallelo riformismo della scuola fabiana,
di cui erano stati parte attiva gli stessi Webb, esercitò una
immediata e profonda influenza.
Gli economisti. La riflessione sull'esperienza sindacale si
approfondisce naturalmente nei decenni successivi, e riceve
un'impronta duratura dalle dottrine contemporanee. Tra queste
ultime, una posizione di rilievo acquista una ricerca avviata, da
autori di prevalente formazione economica, presso alcune prestigiose
sedi universitarie americane. L'opera conclusiva, scritta da quattro
autori (v. Kerr e altri, 1960), si presenta come una summa
conoscitiva costruita su un ambizioso obiettivo di sintesi orientato
in senso universalistico e in parte almeno metastorico. Il fenomeno
sindacale è inquadrato nell'ambito di una teoria generale delle
relazioni industriali, il cui oggetto viene isolato e identificato
nella rete delle regole (web of rules) che convogliano l'azione dei
tre attori, management, sindacato, governo. Esse operano in un
quadro di relazioni capaci di autosviluppo, pur essendo assoggettate
alle costrizioni individuate dagli autori nella tecnologia, nel
contesto economico e di mercato, nella distribuzione del potere. Il
fattore differenziale viene comunque identificato nella presenza,
combinata o alternativa, di cinque diverse élites dominanti:
feudale, coloniale, fascista, democratica occidentale, comunista. In
questo quadro concettuale le relazioni industriali - e in esse,
naturalmente, il sindacato - rivelano una innata tendenza a
uniformarsi. Segno di questa tendenza è la teoria del declino dello
sciopero (v. Ross e Hartmann, 1960), che tuttavia negli anni
sessanta avrebbe finito per ricevere una smentita clamorosa. La
teoria dei quattro autori fu coeva di un'opera, pubblicata da uno di
essi (v. Dunlop, 1958), che ottenne un notevole successo soprattutto
come referente di un modello di ricerca largamente impiegato.La
scuola di Oxford. La ricerca più feconda, dopo la fase iniziale di
impronta americana, si trasferisce nella 'scuola di Oxford' con
forti influenze dalla e nella London school of economics, già culla
del fabianismo.
La scuola di Oxford (v. Clegg e altri, 1980) può essere considerata
come la sede più influente dell'orientamento ispirato al pluralismo
istituzionale e a quello che fu definito laissez faire collettivo,
ed esprime in larga misura il clima dei decenni postbellici,
caratterizzati dalla piena occupazione e, ma soprattutto nel suo
principale referente geografico, da una accentuata conflittualità
prevalentemente di tipo unionista. Procedendo oltre i limiti teorici
degli Webb, che avevano indicato la legislazione come sbocco finale
dell'azione del sindacato, gli autori ora in esame, sulla scorta
dell'esperienza britannica, propongono la contrattazione come
modello tipico, destinato peraltro a esercitare una profonda
influenza ben oltre i confini geografici di tale esperienza.
Una forte influenza ebbe anche - e un forte impulso ricevette -
negli anni sessanta l'elaborazione del rapporto della Royal
Commission che prese il nome da lord Donovan, che costituì una base
anche teorica in cui trovarono assestamento i dati concreti
dell'esperienza sindacale di tale paese.Il sindacato appare
principalmente come agente del mercato del lavoro, che opera
attraverso lo strumento della contrattazione, controllando in forma
tendenzialmente monopolistica l'offerta di lavoro. In questo le
parti sociali assumono una funzione di 'legislatore' privato, ma
alla base della loro azione si pone il conflitto industriale, da
cui, a guisa di output, scaturisce la posizione delle regole (v.
Clegg, 1979).
I sociologi. Pur non approfondendo in modo specifico il tema del
sindacato e dell'azione sindacale, l'opera di Dahrendorf (v., 1959,
tr. it., pp. 430 ss.; v. Bendix e Lipset, 1968) ha esercitato una
profonda influenza, nel momento in cui ha individuato la radice del
conflitto industriale nel rapporto di autorità in luogo di quello di
classe. Questa infatti prescinde dalla fonte di investitura
dell'autorità stessa, si tratti della proprietà privata, dello
Stato, ovvero del management o di altra fonte. Il punto essenziale è
il conflitto di interessi, che, nella veste di conflitto
industriale, costituisce a sua volta il principale fattore genetico
del sindacato, la cui azione tende poi ad articolarsi in varie
forme; tra i meccanismi di democrazia industriale l'autore osserva
con particolare interesse quelli della cogestione in Germania. La
teoria di Dahrendorf ha dato come esito principale la separazione
del conflitto industriale dall'idea del conflitto di classe, e ha
localizzato il primo in un ambito specifico e proprio, generando
quindi ciò che è stato definito come 'isolamento istituzionale del
conflitto'.
Le dottrine pluralistiche e conflittualistiche furono sottoposte a
una dura prova quando, sul finire degli anni sessanta, riemersero
sia la dottrina marxista, sia l'antagonismo di classe anche
nell'ambito sindacale. Queste tendenze furono interpretate da
Pizzorno, che, sulla base di una rigorosa ricerca sull'autunno caldo
italiano (v. Pizzorno e altri, 1978), giunse a conclusioni teoriche
di rilievo. La reviviscenza conflittuale, dopo la profezia risultata
sbagliata del progressivo declino del conflitto, derivava secondo
Pizzorno dalla formazione, specialmente in Italia, in condizioni di
piena occupazione e con notevole ritardo storico, di un nuovo strato
di manodopera a bassa qualificazione, che fornì una forte spinta
verso la politicizzazione dell'azione sindacale. È in tale contesto
che si affermarono le nuove identità collettive, di cui l'analisi di
Pizzorno ha offerto una importante analisi. E con le nuove identità
collettive si affermano orientamenti egualitaristici e domande di
controllo sull'organizzazione del lavoro. In questo il sindacato
appare impegnato in un rapporto con la base, che si prospetta come
una riserva di militanza per il sindacato stesso.
Pur a fronte di condizioni ormai sensibilmente modificate, le
conclusioni di Pizzorno hanno fornito ulteriori e feconde chiavi
interpretative per il fenomeno sindacale. In particolare, esse sono
state sviluppate da Crouch (v. Crouch e Pizzorno, 1977), il quale
elabora la teoria dei 'cicli di militanza' che supera largamente i
limiti dell'osservazione condotta sugli anni della contestazione ed
estende il reperimento delle nuove identità collettive ben oltre le
aree del lavoro industriale, per investire il pubblico impiego e
parti del terziario, anche nelle componenti in genere identificate
come 'corporative'.
Lo scambio politico. Una più recente dottrina, anch'essa fondata
sull'osservazione empirica, inquadra l'esperienza sindacale
nell'ambito del modello neocorporativo o dello 'scambio politico'
(v. Schmitter, 1992; v. Tarantelli, 1986). Questa dottrina trae
alimento dalle esperienze di politica dei redditi compiute negli
anni settanta sotto la pressione della crisi petrolifera e del
conseguente esaurimento della fase di crescita che aveva dominato
gli anni postbellici. In essa sindacati, imprenditori e governo
definiscono obiettivi comuni che formano materia dello scambio, e
principalmente stabilità dei salari e dei redditi da lavoro in
contropartita con occupazione e politiche sociali. La strategia
neocorporativa conduce a una forte valorizzazione del sindacato e
della sua funzione rappresentativa. Il sindacato diviene agente o
soggetto politico, pur con un comportamento contrassegnato in genere
da una forte autonomia rispetto ai soggetti politici, governo,
parlamento e partiti. Ma tale scelta pone naturalmente gravi
problemi di rapporto con la base e con la militanza. In questo
senso, più che una dottrina del dover essere o comunque una
teorizzazione di stabili linee di tendenza, il neocorporativismo,
che assume aspetti vari nei diversi paesi, presenta anche, salvo
alcune eccezioni localizzate soprattutto in paesi di dimensioni
minori e con una forte coesione sociale, un notevole grado di
instabilità. Esso presenta un'immagine del sindacato come
organizzazione che, avendo come presupposto una solida democrazia
parlamentare, la integra con forme più o meno accentuate di
partnership sociale, sebbene molto raramente calate nella forma
istituzionale.
Il sindacato partecipativo. Le più recenti tendenze dell'esperienza
sindacale, che tuttora possiamo considerare in formazione e
certamente non consolidate da una dottrina compatta, emergono
soprattutto dai grandi mutamenti in corso nell'organizzazione del
lavoro e del mercato e sono indotte dal superamento delle forme di
produzione di massa e di organizzazione parcellizzata, che erano
state determinanti nella evoluzione del sindacalismo a partire dal
periodo fra le due guerre. La specializzazione flessibile, la lean
production, il lavoro di gruppo, tutto prelude a forme di
partecipazione che già sul terreno dell'organizzazione del lavoro
possono avere forte incidenza sui comportamenti dei lavoratori e, in
via mediata, sulle loro organizzazioni. Il nuovo modo di produzione
può porre in essere, come in effetti avviene, una sfida ai
comportamenti tradizionali del sindacato, e può addirittura minarne
le basi, oppure indurlo a cercare vie nuove capaci di interpretare
le nuove domande. È un'area tutta problematica, sovente inquinata da
improvvisazioni meramente verbali. La stessa terminologia
'partecipativa' risulta nell'insieme poco espressiva, perché il
tema, in realtà, appartiene già al XXI secolo, e non è in questa
sede, non dedicata ai futuribili, che può essere adeguatamente preso
in considerazione.E, procedendo oltre, la crescente utilizzazione di
forme salariali a partecipazione ha anch'essa una bivalenza,
apparendo pienamente integrabile nella prassi della contrattazione
collettiva, oppure orientabile allo scopo di liberare la direzione
dalla pressione antagonista del sindacato.
Sindacalismo
Enciclopedia del Novecento (1982)
di Giovanni Tarello
Sommario: 1. Gli usi del vocabolo ‛sindacalismo'. 2. Per un
censimento e una classificazione dei sindacalismi. 3. Primi decenni
del secolo. a) Il populismo russo come sindacalismo di ceto. b) Il
sindacalismo cattolico e quello dei nazionalisti come sindacalismo
corporativo. c) Il sindacalismo di mestiere. d) Il sindacalismo
riformista di classe. e) Il sindacalismo rivoluzionario di classe.
4. Tra le due guerre. a) Tendenza generale. b) Il sindacato organo
del partito. c) Il sindacato organo dello Stato. d) Il sindacalismo
contrattualistico. 5. Il secondo dopoguerra. a) Il sindacalismo
statunitense. b) Il sindacalismo dei paesi del Nord Europa. c) Il
sindacalismo dei paesi latini, con particolare riguardo al
sindacalismo italiano. □ Bibliografia.
1. Gli usi del vocabolo ‛sindacalismo'
Il vocabolo ‛sindacalismo', come i vocaboli che gli corrispondono
nelle altre lingue romanze (in particolare il francese
syndicalisme), designa da un lato il movimento effettivo
dell'associazionismo sindacale e tutta una varietà di fenomeni reali
costituiti dai sindacati - nella loro variegata articolazione
storica e ambientale - e dalla loro attività e azione; designa
inoltre, dall'altro lato, gli atteggiamenti ideologici, le dottrine
e le teorie proprie dell'associazionismo sindacale.
In questa seconda accezione esso designa in modo generico ogni
dottrina relativa ai fini, ai destini, alle possibilità dei
sindacati, ai modi in cui si debbono organizzare, ai modi ordinari e
straordinari in cui i fini debbono essere perseguiti.
Peraltro ‛sindacato' designa anche, in modo altrettanto generico,
ogni (effettiva o concepibile) organizzazione di gruppi economici,
individuati secondo le più diverse categorie concettuali analitiche
e ideologiche, come ad esempio il mestiere, il ceto, la
corporazione, la categoria, il settore, la classe.
Dalle precedenti osservazioni segue che il riferimento del vocabolo
‛sindacalismo' è reso indeterminato dal fatto che gli stessi
fenomeni e gli stessi fini e programmi appaiono talvolta inclusi e
talvolta esclusi, a seconda della prospettiva ideologica di chi usa
il vocabolo. Non solo, infatti, è condizionante l'ideologia
dell'utente del vocabolo quando questo è usato per designare
dottrine, ma l'ideologia è anche condizionante allorquando il
vocabolo è impiegato per designare associazioni reali, giacché il
soggetto o portatore di fini o programmi viene individuato mediante
concettualizzazioni ideologiche, quali sono in misura minore quelle
di ‛mestiere' e di ‛settore' e in misura massima quelle di ‛ceto',
di ‛corporazione' e in special modo di ‛classe'.
Non sorprende perciò che le tecnicizzazioni lessicali, i
restringimenti e le precisazioni del significato del vocabolo
‛sindacalismo' siano avvenute e avvengano solo entro comunità
ideologiche; che i significati cosiddetti ristretti o propri del
vocabolo siano sempre fortemente connotati e gergali; che l'aggiunta
o la sottrazione di aggettivi (ad esempio, dire ‛sindacalismo' o
‛sindacalismo rivoluzionario', dire ‛sindacalismo' o ‛sindacalismo
di mestiere', e così via) serva piuttosto a precisare la prospettiva
di chi parla che il fenomeno oggetto di discorso; che perciò gli usi
di ‛sindacalismo', da solo o con precisazioni aggettivali, quale
nome proprio di movimenti o fenomeni specifici e storicamente
determinati, siano sempre usi malfidati e aperti a ragionevoli
contestazioni.
Segue inoltre, dalle precedenti considerazioni, che anche la
semplice descrizione di eventi e atteggiamenti effettuali non può
prescindere da continui riferimenti al quadro concettuale ideologico
tanto dei protagonisti immediati degli eventi descritti quanto dei
vari gruppi di osservatori contestuali o successivi.
Fatte queste premesse, da un lato troppe e dall'altro lato
probabilmente troppo poche, noi faremo un primo censimento, il più
largo possibile, dei fenomeni e delle dottrine dell'associazionismo
di gruppi economici all'inizio di questo secolo.
Successivamente tracceremo una mappa delle linee di tendenza e di
sviluppo.
2. Per un censimento e una classificazione dei sindacalismi
Per procedere a un censimento dei movimenti sociali e degli
atteggiamenti ideologici riconducibili al sindacalismo
nell'accezione più generica del vocabolo, è opportuno stabilire
preliminarmente qualche criterio di classificazione. Infatti se
possediamo classificazioni entro cui collocare movimenti reali e
atteggiamenti ideologici, diviene più agevole, una volta collocati
nelle varie classi i fenomeni che si manifestano nel tempo e nello
spazio, individuare linee di tendenza del fenomeno complessivo nel
tempo o linee di tendenza in aree geografiche determinate. A tale
scopo sembra conveniente adottare criteri di classificazione
diversi, con riguardo ai diversi aspetti che i fenomeni sindacali
(anche nei profili ideologici) assumono nel contesto sociopolitico,
eventualmente in relazione ad altri fenomeni o strutture sociali
(come il diritto).
Un primo criterio di classificazione è quello che riguarda la base
che un sindacalismo aggrega (movimento reale) o si prefigge di
aggregare (atteggiamento ideologico). Da questo punto di vista noi
possiamo distinguere: a) il sindacalismo di ceto; b) il sindacalismo
di mestiere; c) il sindacalismo di corporazione; d) il sindacalismo
di settore; e) il sindacalismo di classe. Questa classificazione,
che fa riferimento a concetti ideologico-dottrinari utili a
individuare la base di aggregazione, è agevole riguardo agli
atteggiamenti ideologici ma è talvolta disagevole riguardo ai
movimenti reali.
Un secondo criterio di classificazione riguarda i fini che un
sindacalismo si propone. Come è evidente, anche questo secondo
criterio di classificazione è agevolmente impiegabile in relazione
agli atteggiamenti ideologici - in particolare dichiarati in
dottrine - e impiegabile molto meno agevolmente in relazione ai
movimenti reali. Da questo punto di vista possiamo distinguere: a)
il sindacalismo rivoluzionario; b) il sindacalismo riformista. Come
è ovvio, si intende per ‛rivoluzionario' quel sindacalismo che mira
a mutare radicalmente la società e i rapporti sociali, e per
‛riformista' quel sindacalismo che mira a mutare aspetti della
società e a introdurre riforme; come è evidente, il rivoluzionarismo
e il riformismo possono essere compatibili o incompatibili a livello
ideologico, a seconda delle dottrine, e anche, a livello di
movimenti e strategie reali, a seconda della situazione; altrettanto
evidente è che può darsi un movimento sostanzialmente rivoluzionario
il quale esprima un'ideologia riformista, nonché (caso più
frequente) viceversa.
Dal punto di vista dell'organizzazione che il movimento si dà o che
l'ideologia prospetta - terzo criterio di classificazione - possiamo
riferirci all'aggregazione di gruppi minuscoli in organizzazioni
minuscole e impenetrabili; alla aggregazione di gruppi minuscoli in
reti di accordi che coprono tendenzialmente tutto il movimento
sindacale nell'ipotesi di una solidarietà di interessi; infine
all'aggregazione secondo accordi atti a superare, in un ipotizzato
interesse comune, interessi di parte eventualmente conflittuali. Da
questo terzo punto di vista possiamo distinguere tra: a) il
sindacalismo atomistico; b) il sindacalismo federativo, che a sua
volta può distinguersi in federativo orizzontale e federativo
verticale; c) il sindacalismo corporativo. Come è evidente,
l'organizzazione è funzionale ai fini che il sindacalismo si propone
e ai mezzi che esso presceglie; ma si danno fenomeni di vischiosità
delle organizzazioni, tanto che queste talvolta restano in vita
anche col mutare dei fini e dei mezzi dando luogo a disfunzionalità.
Quarto possibile criterio di classificazione è quello che fa
riferimento all'esistenza e alla natura dei rapporti che
intercorrono (movimenti reali) o si vuole intercorrano
(atteggiamenti ideologici) tra un sindacalismo e altre forze - di
natura diversa - che operano nello stesso contesto politico
aggregando in tutto o in parte la stessa base soggettiva: come,
principalmente, i partiti. Da questo punto di vista distinguiamo: a)
il sindacalismo autarchico, che non ha né vuole avere collegamento
veruno con i partiti; b) il sindacalismo che genera partiti e se ne
avvale; c) il sindacalismo di partito, che è e vuole essere
dipartimento sindacale di un partito o la ‛cinghia di trasmissione'
di un partito. Come è evidente, in questa materia la divaricazione
tra realtà e ideologia può essere massima, così come possono darsi
situazioni di incompatibilità ideologica tra un partito e un
sindacato di fatto uniti da rapporti di interdipendenza.
Quinto possibile criterio di classificazione è quello che fa
riferimento ai rapporti tra sindacalismo e organizzazione giuridica
dello Stato. Da questo punto di vista le situazioni tipiche (reali o
proposte) sono quattro, e corrispondentemente possiamo distinguere
tra: a) sindacalismo illegalitario, che ammette o privilegia
l'azione sindacale che, dal punto di vista del diritto, è illegale;
b) sindacalismo legalitario, che non ammette l'azione sindacale
illegale; c) sindacalismo sostenuto, che accetta o pretende un
positivo sostegno dell'azione sindacale e dell'organizzazione
sindacale da parte della legge; d) sindacalismo istituzionale, che è
o aspira a essere un organo dello Stato con funzioni delegate di
normazione, giurisdizione e amministrazione.
3. Primi decenni del secolo
a) Il populismo russo come sindacalismo di ceto
Uno solo dei vecchi sindacalismi di ceto è ancora attivo all'inizio
del XX secolo. Si tratta del populismo russo (in russo
narodničestvo; gli aderenti narodniki), la cui base di aggregazione
dal punto di vista dell'ideologia - non peraltro della realtà
effettiva - era costituita dal ceto contadino, ceto che era dai
populisti considerato il punto di partenza e di arrivo di una
palingenesi sociale preconizzata, di carattere tanto politico quanto
religioso, e naturalmente rivoluzionaria. Alle spalle del populismo
vi era una lunga e aggrovigliata storia ideologica segnata, alle
origini, da personalità disparate quali A. I. Herzen, N. G.
Černyševskij, M. Bakunin, P. L. Lavrov, N. V. Čajkovskij, e una
ancor più aggrovigliata storia di azione rivoluzionaria. Tra i punti
salienti di tale storia, si può ricordare la fondazione della
società segreta Terra e Volontà (in russo Zemlja i Volja) nel 1876;
la formazione di una serie di movimenti politici - naturalmente
clandestini - che attorno al 1880 vennero ad aggregarsi attorno a un
partito populista, terrorista e rivoluzionario, denominato Volontà
del Popolo (in russo Narodnaja Volja), ed escludendo gli elementi
antiterroristi che confluirono in un movimento riformista, chiamato
Sezione Nera (in russo Čërnyj peredel), guidato da G. V. Plechanov e
destinato a trasformarsi nel Partito Socialdemocratico (1898); la
pubblicazione di una rivista culturale, ‟La ricchezza russa"
(‟Russkoe bogatstvo"), relativamente moderata nell'apparenza ma in
realtà punta emergente del movimento terrorista rivoluzionario
clandestino (apparsa nel 1876 continuerà sino al 1918). Il nocciolo
di questo retaggio storico, al di là delle molte varietà, era un
programma semplicistico: l'abbattimento violento dell'ordinamento
della proprietà e dello Stato, e la ridistribuzione delle terre ai
contadini non a titolo di proprietà individuale bensì a titolo di
godimento in forma comunitaria da parte di ciascuna comunità rurale
(obščina). Si trattava di un programma spiccatamente utopistico e
irrealistico, il cui orizzonte restava essenzialmente agrario
nonostante le prime manifestazioni di una industrializzazione che
produceva operai: come polemicamente e faziosamente non aveva
mancato di far rilevare Lenin fin dal 1894 con lo scritto Che cosa
sono gli ‛amici del popolo' e come lottano contro i
socialdemocratici. Tuttavia, nella situazione russa antecedente la
guerra, un simile programma basato su rivendicazioni di ceto, come
la riappropriazione della terra da parte dei contadini, oltre alla
forza di una tradizione letteraria e culturale nazionale aveva
quella di una relativa capacità di rispecchiare, in negativo, la
situazione esistente. È perciò comprensibile come questo programma
sia rimasto, sostanzialmente, quello del Partito Socialista
Rivoluzionario russo, fondato nel 1901, il cui credo si riassumeva
effettivamente (e non solo nelle caricature polemiche degli
avversari socialdemocratici) nello slogan ‟Rivoluzione agraria e
terrorismo", e come, invece, fuori dalla Russia e dai paesi slavi,
le influenze - che pure non mancarono - fossero destinate a essere
scarse.
La storia del Partito Socialista Rivoluzionario evidenziò - se ve ne
fosse stato bisogno - l'incompatibilità di un sindacalismo di ceto,
rivoluzionario, illegalitario, tanto con movimenti socialdemocratici
quanto, e ancor più, con la formazione di uno Stato sovietico. La
decisione dei bolscevichi al potere di concedere le terre ai
contadini trovò in un primo breve momento appoggio e fattiva
collaborazione nell'ala sinistra del Partito Socialista
Rivoluzionario guidato da M. Spiridonova; ma dopo la pace di
Brest-Litovsk, la costruzione di uno Stato totalitario respinse i
socialisti rivoluzionari in una opposizione che essi non potevano
concepire e praticare se non con i propri mezzi tradizionali, e cioè
la violenza terroristica e l'appello alla rivoluzione contadina
contro lo Stato burocratico e totalitario in formazione. Con l'ovvia
conseguenza che i bolscevichi trassero dalla contingente confluenza
dell'opposizione rivoluzionaria e della reazione bianca una conferma
e una riprova della vecchia tesi leninista sull'identità di
libertarismo anarchico contadino e reazione aristocratica: tesi
certo operativa in fatto di terrorismo psicologico, ma ridicola in
termini di realtà storica e di analisi ideologica.
b) Il sindacalismo cattolico e quello dei nazionalisti come
sindacalismo corporativo
Attivo nei primi due decenni del secolo è un sindacalismo di
ispirazione cattolica che individua la base associativa nelle
corporazioni, cioè in unioni organiche di tutti coloro, lavoratori e
datori di lavoro, che operano in una unità produttiva o in un
settore produttivo; unioni che ‛naturalmente' producono norme di
composizione degli interessi eventualmente conflittuali e che,
nell'ideologia più diffusa, dovrebbero essere dotate dal diritto o
dovrebbero dal diritto essere riconosciute titolari ‛naturali' di
poteri regolamentari e giurisdizionali.
Le più antiche espressioni, non ancora molto articolate, del
corporativismo cattolico, si possono rintracciare a partire dal
1870. In Germania idee corporativistiche specificamente cattoliche
furono espresse e messe in circolazione dal vescovo W. E. von
Ketteler, il quale riteneva che le idealità cristiane potessero far
superare gli egoismi individualistici. In Francia, soprattutto in
funzione antipositivistica e con notevoli sfumature conservatrici o
reazionarie, idee corporativistiche erano state fatte circolare dal
conte A. de Mun e dal marchese R. La Tour du Pin: il primo aveva
anche tentato di organizzare dei sindacati misti, cioè sindacati che
raggruppavano, per ciascuna professione, lavoratori e datori di
lavoro. Le idee che presiedettero ai tentativi del de Mun furono
piuttosto semplici, risolvendosi nel propagandare l'adempimento con
spirito cristiano dei doveri propri sia dei lavoratori che dei
datori di lavoro, e l'impostazione ‛secondo spirito di giustizia'
dei loro rapporti. Data la situazione politica francese, questi
movimenti assunsero atteggiamenti di sospetto nei confronti dello
Stato e si tennero in disparte nelle polemiche allora in corso sulla
‛legislazione sociale', né mostrarono propensione per richieste di
legislazione di sostegno o, tanto meno, di istituzionalizzazione. In
parte diversi i precedenti in Italia, ove il Congresso dei cattolici
italiani (Lucca 1887) aveva mostrato da un lato l'emergere di
concezioni articolatamente corporativistiche e dall'altro lato il
prevalere dell'opinione che i tempi non fossero maturi ancora per
proporre audaci (così parevano) esperimenti; ma subito dopo
l'enciclica Rerum novarum (15 maggio 1891) di Leone XIII indicava ai
cattolici, come strumenti per una società cristiana, oltre ai
sindacati (sodalitia) confessionali, proprio delle corporazioni
miste atte a procurare che ‟ordo alter accedat ad alterum". Sulla
base di siffatto autorevole incoraggiamento, al nuovo Congresso dei
cattolici italiani (Genova 1892) si fece gran parlare - quantunque
in modo molto vago - delle corporazioni medievali e si manifestò
grande favore per quelle che furono chiamate ‟rappresentanze di
interessi", contrapponendole alla ‟rappresentanza democratica"
(designata come ‟rappresentanza del numero volubile e artefatta")
nella prospettiva di una ‟società organica". In tal modo si venne a
fissare una prospettiva sostanzialmente istituzionalistica nel
corporativismo dei cattolici italiani.
All'inizio del secolo, nel 1903, si ebbe il punto più alto
dell'elaborazione dottrinaria: il manifesto di Giuseppe Toniolo e il
Congresso dei cattolici italiani che recepì il manifesto stesso.
Toniolo si proponeva di conciliare il sindacalismo cattolico
organizzato su base non corporativa, e cioè attraverso sindacati di
soli lavoratori (i cosiddetti ‛sindacati bianchi'), con la
concezione corporativistica oramai prevalente tra gli intellettuali
cattolici e incoraggiata dalle encicliche: sulla linea di questo
tentativo di conciliazione, egli proponeva sindacati paralleli non
corporativi alla base e organizzazione corporativa al vertice. Si
prospettavano perciò sindacati paralleli di lavoratori e di datori
di lavoro, che avrebbero poi trovato collegamento in ‛commissioni
miste', le quali unendosi a loro volta avrebbero dato luogo a
‛corporazioni' diverse secondo i settori professionali e produttivi,
ma tutte collegate tra loro al vertice. Tali corporazioni collegate
avrebbero avuto compiti giurisdizionali di soluzione dei conflitti
tra lavoratori e datori di lavoro, ricorrendo al principio cristiano
della ‛giusta mercede'. Questi atteggiamenti ideologici del Toniolo
e del Congresso dei cattolici italiani erano destinati a diventare
patrimonio comune del sindacalismo cattolico europeo. L'ispirazione
nettamente anticlassista e il favore per giurisdizioni di tipo
arbitrale saranno il contrassegno del sindacalismo dei cattolici,
anche se nella pratica le corporazioni cattoliche non si sarebbero
realizzate. Nel 1911 si costituì un vero e proprio sindacato dei
lavoratori cattolici, la Unione economico-sociale dei lavoratori
italiani, che fu il primo nucleo di quella che nel 1918 diverrà la
CIL.
Diverso esito ebbe un altro filone di sindacalismo corporativo,
quello dei nazionalisti italiani - in parte ispirato da quello
cattolico - destinato a fornire schemi concettuali al corporativismo
autoritario e istituzionalizzato del regime fascista. Anche il
corporativismo dei nazionalisti ebbe origine in una netta
contrapposizione ideologica alla concezione classista della società.
Nel 1909 il Gruppo nazionalistico di Torino si dava uno statuto nel
quale si poteva leggere che ‟la lotta di classe deve essere
contenuta entro i limiti della solidarietà nazionale". Alle spalle
di questa formulazione, oltre agli atteggiamenti del corporativismo
cattolico, stava una lunga tradizione di pensiero giuridico
italiano, impropriamente designato come ‛socialismo giuridico' e più
propriamente di indirizzo corporativistico, il cui messaggio può
vedersi nella seguente formulazione di Enrico Cimbali: ‟L'alto
ufficio di moderatore e pacificatore fra le classi sociali
contendenti compete, per sua natura, allo Stato, agente e organo
supremo dell'unità nazionale". Di ispirazione corporativistica e
autoritaria è l'ideologia del Movimento nazionalista italiano
(costituitosi a Firenze nel 1910), il cui esponente più importante è
Enrico Corradini, e del Gruppo tricolore (organizzato a Torino da
Mario Viana) che si qualificò ‛sindacalismo borghese': un insieme di
movimenti che confluiscono nel programma del Partito Nazionalista
Italiano col congresso di Milano del 1914, in cui prevale
l'impostazione di Alfredo Rocco. E nel 1914 che Rocco elabora la sua
dottrina corporativa, in cui il supporto dell'organo moderatore e
arbitro dei conflitti sociali è individuato nel principio di
‛interesse nazionale' che coincide senza residui con l'interesse
della produzione espresso dai capi della produzione stessa. Rocco
prospetta ‟corporazioni miste" che producano regole e norme atte a
disciplinare non già ‟un'assurda eguaglianza" bensì le differenze;
corporazioni che siano organi dello Stato, e a questo assicurino il
controllo della produzione configurando ‟gli intraprenditori e i
capitalisti come organi dell'interesse nazionale". Rocco auspica che
il nazionalismo ‟crei il movimento corporativista come la forma più
pura e più perfetta del sindacalismo nazionale".
Con le formulazioni nazionaliste il sindacalismo corporativo si
atteggia, prima della guerra, in senso nettamente istituzionale e
prefigura il sindacato-organo dello Stato che sarà tipico, tra le
due guerre, dell'organizzazione fascista.
c) Il sindacalismo di mestiere
Il sindacalismo di mestiere è stato, cronologicamente, il primo modo
di manifestarsi dell'associazionismo industriale con caratteri
difensivi, ed è rimasto tipico dell'esperienza dei paesi
anglosassoni anche in questo secolo. Alle spalle del sindacalismo di
mestiere sta tutta la lunga tradizione di esperimenti, variamente
compiuti da gruppi di lavoratori volti ad associarsi per contrastare
nei modi più vari gli effetti del libero mercato del lavoro. Nel
continente europeo la lontana origine di movimenti sindacalistici di
questo tipo va ricercata ad esempio nei movimenti per le Società di
mutuo soccorso e nel formarsi di Leghe di resistenza. Come è
evidente, nel sindacalismo di mestiere, almeno in una prima fase, si
organizzano solo gli strati superiori degli operai, che godono di
situazioni privilegiate o comunque forti sul mercato del lavoro, in
relazione al possesso di una professionalità tecnica elevata. In
questa prospettiva, appare scarsamente sorprendente che le
espressioni ideologiche dell'associazionismo di mestiere - di solito
non articolatissime - siano manifestazioni di difesa di tipo
‛proprietario' del ruolo e della professionalità, della ‛proprietà
del mestiere'; e che, d'altra parte, attorno al mestiere si formi
una forte coscienza di gruppo, una forte solidarietà e spirito di
unione.
Nel continente europeo, peraltro, ogni articolata espressione
ideologica di sindacalismo cessa di fare riferimento al ‛mestiere'
ben prima dell'inizio di questo secolo. Non così in Inghilterra e
negli Stati Uniti d'America, ove le espressioni ideologiche
dell'associazionismo operaio anche nei tempi più recenti portano, in
misura maggiore o minore, qualche carattere originario del
sindacalismo di mestiere.
In Inghilterra la forma del sindacalismo di mestiere è
originariamente la Trade Union, letteralmente ‛unione di commercio',
cioè unione di lavoratori con fini di rafforzamento della propria
posizione nel mercato. Le Unions mostrarono, sino dalla metà
dell'Ottocento, una serie di caratteri tipici: attività di
solidarietà e agitazione nelle singole unità produttive in
periferia; tendenza ad associarsi tra di loro al centro, per
funzionare come gruppo di pressione politico in favore di riforme;
assoluto disinteresse per le espressioni ideologiche complesse e per
ogni non sporadico collegamento con il movimento operaio
internazionale. L'elemento su cui è bene richiamare l'attenzione è
il secondo; a partire dal 1845 le varie Unions si raggrupparono in
associazioni nazionali (1845 mestieri riuniti, 1851 meccanici, e
così via), che ebbero dirigenti residenti a Londra, i quali si
collegarono tra loro in una Giunta delle Unions. Questa Giunta nel
1867 convocò una Conferenza delle unioni miste che chiese il
riconoscimento giuridico delle Unions. Si manifestò così, e si
cristallizzò, la scelta legalitaria, riformista, non aliena dal
chiedere una legislazione di sostegno, che avrebbe caratterizzato il
sindacalismo inglese. Anche sul piano politico le Unions
manifestarono presto il loro partecipazionismo, appoggiando
l'entrata di loro diretti rappresentanti operai nella Camera bassa
(furono due nel 1874, ben dieci nel 1886). Alla fine degli anni
ottanta si manifestò un allargamento dell'unionismo ai lavoratori
non specializzati, i quali diedero vita a molte Unions che divennero
presto simili alle precedenti Unions di mestieri specializzati, con
le quali si associarono.
Con un tale passato, le Trade Unions si affacciano al XX secolo come
un movimento sindacale organizzato in senso verticale con le
associazioni nazionali e in senso orizzontale, ai vertici, con le
associazioni interunionistiche; privilegia la contrattazione
economica, avvalendosi dell'arma dello sciopero, presso le unità
produttive o i luoghi geografici di produzione, di solito
circoscritto al mestiere, e privilegia al centro l'azione politica
in senso liberale e democratico; tende a essere legalitario
specialmente al vertice, ed è disposto ad accettare - e in qualche
caso a pretendere - una legislazione di sostegno; si esprime come
riformismo e tende a considerare apolitica la Union (lo slogan è:
‟No politics within the Union") mentre le associazioni delle Unions
possono esercitare pressioni politiche sul Parlamento.
È sulla base di quest'ultimo principio d'azione che, all'inizio del
secolo, le Unions esprimono un partito, il Partito Laburista, che
intendono come braccio politico dei sindacati e perciò dipendente da
questi. Il 27 febbraio 1900 le Unions si alleano con tre formazioni
politiche di sinistra, e precisamente la Federazione
Socialdemocratica (fondata da Hyndman), la Fabian Society (fondata
nel 1884), e il Partito Indipendente del Lavoro (fondato da J. K.
Hardie nel 1893), per costituire un blocco elettorale che venne
chiamato Labour representation committee; nelle successive elezioni
del 1906, questo blocco elettorale ottenne un ragguardevole successo
e, nello stesso anno, il comitato elettorale si trasformò in
partito, assumendo il nome di Labour Party. Per statuto, gli organi
direttivi del partito includevano rappresentanti delle Unions,
talchè il rapporto organico sindacato-partito e la dipendenza del
partito dal sindacato (più precisamente dalle associazioni
orizzontali di vertice) risultarono codificati: implicitamente
risultò codificata anche la scelta legalitaria, riformista, o
favorevole alla legislazione di sostegno delle espressioni centrali
di un sindacalismo che, alla base e in periferia, restava in gran
parte sindacato di mestiere, apolitico, e con finalità di difesa e
di rivendicazione economica di gruppi circoscritti dal mestiere o -
nel caso degli unskilled workers - dalla singola unità produttiva o
sede di lavoro (per esempio, docks di Londra, facchini di
Liverpool).
d) Il sindacalismo riformista di classe
Il sindacalismo riformista di classe costituisce, nei primi decenni
del secolo, il filone principale del sindacalismo europeo. Esso
costituisce la risultante di due tradizioni che si intrecciano
fittamente nella seconda metà del secolo precedente: da un lato la
tradizione, prevalentemente ideologico-dottrinaria, del socialismo
marxista, con la teorizzazione della divisione della società in
classi e l'individuazione della classe proletaria come soggetto
politico generale; dall'altro lato la tradizione, prevalentemente
pratica, dell'associazionismo sindacale operaio con fini di
resistenza economica e di contrattazione, su scala sempre più ampia,
delle paghe. Si tratta perciò di un sindacalismo per il quale la
base di aggregazione è la classe e il fine dell'azione sindacale è
la rivendicazione economica; un sindacalismo che intrattiene fitti
rapporti con formazioni politiche socialistiche, in particolare con
quelle di indirizzo riformistico; che tende a darsi organizzazioni
federative, sia orizzontali che verticali; che tende ad accettare, e
talvolta a pretendere, una legislazione di sostegno.
Storicamente, il sindacalismo riformista di classe si identifica con
il sindacalismo socialdemocratico dei paesi dell'Europa
continentale, e in particolare con gli atteggiamenti nei confronti
della natura e dei fini del sindacato elaborati dalla Seconda
Internazionale. Nel Congresso costitutivo della Seconda
Internazionale (Parigi, 14 luglio 1889) si fissò da un lato un
collegamento tra sindacati e partiti socialistici e un collegamento
internazionale orizzontale tra i partiti e i sindacati aderenti;
dall'altro lato si fissarono i punti programmatici basilari, che
caratterizzarono l'intero movimento in senso legalitario e
riformista. Si decise di sostenere in tutti i paesi un programma di
legislazione sociale a difesa del lavoro, e in particolare per la
giornata lavorativa di otto ore. Il programma del sindacalismo
socialista democratico venne poi precisandosi (non senza aspri
dibattiti) lungo il corso della Seconda Internazionale, specialmente
nei Congressi (del 1891 a Bruxelles, che espulse gli anarchici; del
1893 a Zurigo; del 1896 a Londra; del 1900 a Parigi; del 1904 ad
Amsterdam; del 1907 a Stuttgart; del 1910 a Copenhagen; del 1912 a
Basilea): ripudio dello sciopero generale e in genere delle armi
sindacali miranti a determinare crisi economica; conquista del
potere da parte del proletariato con strumenti di democrazia
parlamentare e perciò attraverso la conquista della maggioranza;
preparazione di quadri tecnici e amministrativi da parte dei
sindacati; antimilitarismo e antibellicismo (a partire dal Congresso
di Stuttgart). Ma, soprattutto, divenne caratteristica del
sindacalismo riformista di classe la propensione a vedere nella
contrattazione collettiva - contrapposta a quella individuale - del
salario e dell'orario lo strumento principale dell'elevazione della
situazione operaia e perciò l'arma principale del sindacalismo. Da
quest'ultimo punto programmatico derivò, per tutto il movimento, un
atteggiamento di estrema attenzione per l'organizzazione giuridica
dei vari paesi, dato che i modi e le forme - e le possibilità
operative - della contrattazione collettiva sono essenzialmente
determinate dal diritto; e derivò anche un'accentuazione del
programma federativo, con tensioni tra verticalismo e orizzontalismo
anche in rapporto alla situazione giuridica dei vari paesi.
Nel caso italiano, all'inizio del secolo la tendenza federativa ebbe
come esito la composizione e conciliazione delle tensioni tra
orizzontalismo e verticalismo. L'orizzontalismo era caratteristico
delle Camere del lavoro, che erano venute a organizzarsi a partire
dal 1891, dapprima sul modello delle Borse del lavoro francesi e
poco dopo differenziandosene attraverso l'accentuazione non solo
della funzione di collocamento (tipica delle Borse francesi) ma
anche di quelle rivendicative con connotati classisti. Il primo
Congresso federativo delle Camere del lavoro si tenne a Parma nel
1893, dominato dalle figure di O. Gnocchi Viani e A. Cabrini, e
decise di addivenire alla Federazione italiana delle Camere del
lavoro, la quale si diede uno statuto col quarto congresso (Reggio
Emilia, ottobre 1901). Le Camere del lavoro territoriali e a
prevalenza contadina (gran parte delle leghe contadine aderivano
alle Camere del lavoro) furono sin dall'inizio molto influenzate da
esponenti del sindacalismo rivoluzionario. Il verticalismo era
rappresentato dalle federazioni e sindacati di mestiere o, come si
incominciava a dire, ‛di categoria', tra cui primeggiava per
importanza la federazione dei metallurgici di chiara tendenza
riformista. Per iniziativa di questa federazione fu preparato un
Congresso per il coordinamento di tutto il movimento sindacale di
classe (esclusi cioè i sindacati bianchi), che si tenne a Milano,
nell'ottobre 1906, con la partecipazione di 58 Camere del lavoro e
14 federazioni (metallurgici, tessili, gasisti, muratori, litografi,
panettieri, infermieri, calzolai, ceramisti, stovigliai, lavoratori
dello Stato, lavoratori del legno, bottigliai, chimici e
ferrovieri): al congresso fu fondata la Confederazione Generale del
Lavoro, di cui fu segretario generale R. Rigola (sino al 1918,
quando fu eletto L. D'Aragona). Gli scopi statutari della CGL furono
del tutto aderenti all'indirizzo riformistico internazionale, e cioè
promuovere e coordinare ogni iniziativa legislativa a favore dei
lavoratori, sostenere il movimento di difesa economica dei
lavoratori in stretta relazione con le federazioni e anche con le
associazioni di società mutualistiche e cooperative, mantenere
collegamenti a questo fine con tutti i partiti che svolgessero
azione a favore della classe lavoratrice, escludendo rapporti
organici privilegiati con un singolo partito, indirizzare tutti gli
strumenti al miglioramento economico, morale e intellettuale dei
lavoratori, sviluppare i vincoli di solidarietà di classe sul piano
sia nazionale che internazionale. La CGL realizzò un effettivo
coordinamento tra orizzontalismo e verticalismo, in cui prevalse
l'elemento riformistico, legalitario, economistico e tendenzialmente
apolitico che era proprio delle federazioni verticali; gli elementi
rivoluzionari, peraltro, restarono nell'ambito dell'organizzazione,
tanto che sino al 1918 gli esponenti del sindacalismo
rivoluzionario, forti specialmente nelle Camere del lavoro, non si
scissero organizzativamente.
e) Il sindacalismo rivoluzionario di classe
Un importante atteggiamento ideologico, che all'inizio del secolo
ispirò larghi settori del movimento sindacale in Francia e in
Italia, è il cosiddetto ‛sindacalismo rivoluzionario'. Alcuni
aspetti dell'atteggiamento sindacalista rivoluzionario tendono a
manifestarsi, entro i movimenti politici e sindacali europei
continentali, in tutti i momenti di grave crisi delle istituzioni.
In quanto movimento sindacale effettivo, il sindacalismo
rivoluzionario ebbe il periodo di massimo sviluppo in Francia tra il
1905 e il 1908, e fissò il suo programma nel Congresso sindacale di
Amiens nel 1906; tale programma (conosciuto come Carta di Amiens)
contiene i punti qualificanti del movimento: 1) il sindacato è della
classe operaia e di tutta la classe operaia (dovere di ogni
lavoratore di appartenere al sindacato); 2) il sindacato non ha
rapporti con altre organizzazioni politiche ed è rispetto a esse
indifferente (il lavoratore sindacalizzato è libero di ogni azione
politica fuori dal sindacato ed è tenuto a sua volta a non
introdurre nel sindacato le opinioni che egli professa fuori); 3) il
sindacato tende a diventare organo della produzione e prefigura una
società sindacale (‟il Sindacato, che oggi è organizzazione di
resistenza sarà, nel futuro, l'organo della produzione e
riproduzione, momento dell'organizzazione sociale"); 4) strumento
essenziale dell'azione sindacale è lo sciopero generale.
In quanto ideologia, il sindacalismo rivoluzionario viene
ricondotto, generalmente, al pensiero politico di Georges Sorel.
Punto di partenza di Sorel è una concezione classista della società
(di chiara origine marxista) rigorosamente binaria: le classi sono
solo due, quella dei proletari e quella dei capitalisti. Da questa
premessa scaturisce la conseguenza che non vi sono mai interessi né
valori comuni alle due classi; l'azione degli organi della classe
proletaria non può avere fini parziali o circoscritti, e non può
trovare ‛alleati', ma deve essere totale e rivoluzionaria, mirando a
sostituire il potere proletario al potere capitalistico. Perciò il
sindacato, che è la società organica dei lavoratori, non può (se non
vuole tradire la sua natura) avere fini di resistenza, economici,
rivendicativi, ma deve avere fini politici generali. Il sindacato è
una società totale, la società totale dei lavoratori, con la sua
cultura e i suoi valori, le sue forme economiche e organizzative,
che sono prodotto autonomo e spontaneo dei lavoratori. La
rivoluzione (e l'azione sindacale, dato che sono la stessa cosa) è
possibile attraverso il blocco del meccanismo generale di
riproduzione capitalistica che si attua con lo sciopero generale: lo
sciopero generale dà il via allo spontaneismo eroico del popolo,
all'insurrezione popolare e, alla fine, all'espropriazione degli
espropriatori.
Indipendentemente dalla fortuna effettiva del movimento, e dalla
grande ma effimera influenza dell'ideologia soreliana in Francia e,
soprattutto, in Italia nei primi due decenni del secolo, è
necessario osservare come il sindacalismo rivoluzionario abbia messo
in circolazione un modello di sindacalismo che è perdurante nella
cultura europea continentale e che, in forme diverse, risorge
continuamente: il modello secondo cui solo il sindacato rappresenta
il lavoratore come salariato, solo esso esprime (autonomamente e
spontaneamente) i valori e l'organizzazione del mondo del lavoro. Il
sindacato è società totale che si contrappone allo Stato, non ha
alleati, non ha rapporti con partiti, ecc.
Come abbiamo visto, in Italia elementi di un'ideologia
sindacal-rivoluzionaria, molto vistosi nelle Camere del lavoro,
restano sino a tutto il periodo bellico, e precisamente sino al
1918, entro l'organizzazione della CGL. Alcuni esponenti del
sindacalismo rivoluzionario si sarebbero poi inoltrati per strade
corporativistiche, come A. De Ambris nell'esperienza fiumana di
D'Annunzio, e come F. Corridoni, E. Rossoni e M. Bianchi nel
corporativismo fascista.
4. Tra le due guerre
a) Tendenza generale
Tra le due guerre si manifesta, in ordine al sindacalismo, una
tendenza generale: la tendenza al depotenziamento politico del
sindacato e all'imbrigliamento delle potenzialità eversive che il
sindacalismo mostra rispetto ad altri soggetti politici. Questa
tendenza generale mostra facce diverse sia nella teoria che nella
pratica sindacale, in relazione ai contesti ideologici in cui la
teoria viene elaborata e alle situazioni politiche in cui il
sindacato si trova: ma la univocità di fondo, al di sotto delle
varianze imposte dai condizionamenti del contesto, è impressionante.
Se si assume come criterio di classificazione l'ideologia, le
varianti sono: a) la concezione del sindacato come organo del
partito; b) la concezione del sindacato come organo dello Stato; c)
la concezione del sindacato come strumento di contrattazione
esclusivamente economica e sprovvisto di fini politici generali.
b) Il sindacato organo del partito
La tendenza generale al depotenziamento politico del sindacato, che
prevale tra le due guerre, ha una delle più elaborate espressioni
ideologiche (che diviene prassi dei sindacati che l'adottano) nella
concezione leninista, e in generale comunista, delle funzioni del
sindacato e dei rapporti tra il sindacato e il partito.
Caratteristica del leninismo è la connotazione negativa di ogni
spontaneismo nel conflitto di classe e di ogni aggregazione,
nell'ambito del movimento dei lavoratori, che non sia saldamente
inserita nel movimento comunista, cioè sotto la guida e il controllo
dell'unico soggetto politico della classe, che è il partito. In base
a questa ideologia, dal punto di vista dei lavoratori (così come è
individuato nell'ideologia) tutto ciò che accade non solo ‛contro',
non solo ‛fuori da', ma semplicemente ‛senza' il partito, è non solo
‛errore' ma addirittura ‛tradimento' della classe operaia. In questo
modo tutta la fenomenologia sindacale viene spartita in due settori:
il primo settore, che corrisponde a tutto il sindacalismo non
comunista e non guidato o trainato dal sindacalismo comunista, è
visto come strumento del sistema capitalistico; il secondo settore,
che corrisponde al sindacato comunista o guidato da comunisti, è
visto come strumento al servizio della strategia del partito, e
perciò come non dotato di autonomia e fini propri, bensì malleabile
esecutore e veicolo (cinghia di trasmissione) di qualunque parola
d'ordine, anche contingente e temporanea, del partito.
Tale concezione del sindacalismo, evidentemente, comporta la più
grande diversificazione nella pratica, a seconda delle situazioni in
cui il partito si trova a operare. Nell'Unione Sovietica
l'organizzazione sindacale diviene tutt'uno, di fatto, con
l'organizzazione del lavoro e, dietro la facciata, il sindacato,
ormai compiutamente istituzionalizzato, diviene vero e proprio
organo dello Stato sovietico. Processo destinato a ripetersi, dopo
la seconda guerra mondiale, in tutte le democrazie popolari. Nei
paesi dell'Europa continentale non investiti dalla rivoluzione, la
concezione leninista del sindacato diede luogo, ispirandole, a
pratiche diverse in corrispondenza delle situazioni politiche. In un
primo momento, nell'ambito dei movimenti comunisti si manifestarono
tendenze al consiliarismo, cioè a strutture di democrazia di base
più o meno plastiche rispetto alle sedi e ai modi della produzione:
consiliarismo accettato in base alla prospettiva leninista solo in
quanto, e sino a quando, strumento della politica del partito, ma
ripudiato nella sua essenza autonomistica e spontaneistica. In
Italia i comunisti restarono nella CGL, come minoranza e in
opposizione alla dirigenza di L. D'Aragona, dall'ottobre 1918 allo
scioglimento avvenuto in pieno regime fascista il 4 gennaio 1927, e
ricostituirono una CGL clandestina, nel febbraio 1927, assieme ai
socialisti. Tale sindacato clandestino operò peraltro poco come
organismo del partito, e il suo carattere unitario fu il risvolto
sindacale di una delle prime espressioni di una strategia
dell'unitarismo propria del partito. Più tardi la strategia del
partito si espresse nella parola d'ordine ‟entrare nei sindacati
fascisti", di nuovo espressione di una linea nuova del Partito
Comunista in Italia.
Anche al livello dell'associazionismo internazionale il sindacalismo
comunista risentì delle differenziazioni che le diverse situazioni
politiche imponevano alla strategia del Partito Comunista. Cosicché
il legame associativo internazionale che fu deciso nel Secondo
congresso della Terza Internazionale (luglio-agosto 1920) e che
diede luogo alla cosiddetta Internazionale Sindacale Rossa (o
Profintern), restò molto evanescente: la politica
dell'Internazionale Sindacale Rossa era attestata sulla linea di far
rimanere i quadri sindacali comunisti entro le organizzazioni
sindacali esistenti nei vari paesi, creando in tali organizzazioni
dei nuclei comunisti, che lavorassero in stretto contatto con i
partiti comunisti (anche clandestini) al fine politico generale di
sostenere il movimento di classe internazionale e perciò -
concretamente - di aiutare il rafforzamento dell'Unione Sovietica.
In tal modo il Comitato d'azione sindacale internazionale restava
una mera facciata, mentre le strategie dei partiti comunisti,
plastiche rispetto alle varie situazioni nazionali, dettavano il
comportamento dei nuclei sindacali comunisti.
I fini sindacali di difesa economica dei lavoratori, in tal modo,
diventano strumentali e ancillari, rispetto ai fini politici
generali, nazionali e internazionali, dei partiti comunisti.
c) Il sindacato organo dello Stato
La tendenza a depotenziare il sindacato in senso politico,
riassorbendolo nel quadro di altri soggetti politici, trova l'esito
più compiuto nel corporativismo di Stato, che è proprio del regime
fascista in Italia. Le origini del processo che porta al
corporativismo di Stato vanno viste nell'ideologia sindacalista
corporativista dei nazionalisti, e in particolare di A. Rocco. Dopo
la guerra questi fece approvare dal Congresso nazionalista di Roma
un documento molto interessante, nel quale si prospettava
l'integrazione delle classi attraverso strumenti giuridici: si
trattava cioè di delineare la struttura giuridica di un
corporativismo autoritario. Il sindacato, non più di classe, doveva
diventare ‟attraverso una robusta disciplina di tutte le classi
produttrici, organizzazione integrale della produzione nazionale che
ne racchiude in sé tutti gli elementi: gli organizzatori, i tecnici,
i lavoratori manuali, uniti insieme dal legame indissolubile
dell'interesse comune"; in tal modo, anche ‟gli insopprimibili
organismi di classe, sottratti allo sfruttamento politico dei
demagoghi professionali, trovano un'automatica composizione e
disciplina, per assicurare la quale deve intervenire energicamente
lo Stato". Tale composizione automatica, con l'ausilio di un
intervento statale energico, avvenendo in forme giuridiche, avrebbe
assicurato anche la soppressione della democrazia bollata di
atomismo; infatti Rocco voleva ‟l'organizzazione legale delle classi
produttrici e la loro partecipazione, come tali, alla vita dello
Stato, eliminando il sistema democratico dell'atomismo
suffragistico". Un importante documento corporativista del periodo è
costituito dalla cosiddetta Carta del Carnaro, cioè dalla parte
sociale degli Statuti della Reggenza del Carnaro di Gabriele
D'Annunzio che è prevalentemente opera del sindacalista anarchico
Alceste De Ambris, poi esule antifascista, e che può ricondursi al
corporativismo politico e giuridico pluralistico. Dopo questo
episodio, la storia delle dottrine e delle istituzioni
corporativiste in Italia coincide con la storia delle dottrine e del
regime fascista.
Il corporativismo fascista, come dottrina, consiste in gran parte
nella giustapposizione del sindacalismo di Edmondo Rossoni e del
nazionalismo autoritario di Alfredo Rocco. Le istituzioni
corporative che progressivamente il regime fascista ha realizzato
sono state condizionate non solo dalla matrice dottrinaria
menzionata, ma anche, in larga misura, da ragioni politiche
contingenti e occasionali.
Durante il 1921 si erano creati sindacati (misti) fascisti, in modo
piuttosto vario. Nell'ottobre Rossoni aveva indetto un convegno a
Ferrara per costituire un'organizzazione comune. Lo statuto del PNF
del 27-12-1921 additava la corporazione come strumento della
solidarietà nazionale per lo sviluppo della produzione. Nel
Congresso di Bologna del gennaio 1922 si deliberò di ‟costituire in
Corporazioni nazionali facenti capo a un organismo centrale
dominante, l'Unione federale italiana delle Corporazioni, tutti quei
sindacati il cui programma e la cui attività si informano
sostanzialmente al programma e agli statuti del PNF". Si costituì
così la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali (che
erano la corporazione nazionale del lavoro industriale, la
corporazione nazionale del lavoro agricolo, la corporazione
nazionale delle classi medie e intellettuali e la corporazione
nazionale della gente di mare) e Rossoni ne divenne segretario. Idea
fondamentale di Rossoni era quella di un sindacato strumentalmente
misto, ideologicamente qualificato come fascista e politicamente
unico. La qualificazione ideologica, in sé piuttosto imprecisa
almeno nel 1922, si riassumeva nella caratteristica politica
dell'unicità. Unicità voleva dire anzitutto che non doveva essere
permesso altro sindacato oltre a quello fascista, e che il sindacato
fascista si proponeva non già di assorbire, bensì di distruggere
(non giuridicamente, ma di fatto) ogni altro sindacato. Nella
riunione convocata da Mussolini al Grand Hotel di Roma il 15
dicembre 1922, i convenuti presero atto dell'annuncio di Rossoni
secondo cui le corporazioni sindacali avrebbero assunto la
qualificazione di ‛corporazioni fasciste' per evitare ogni tentativo
di addivenire a un'unificazione sindacale entro un quadro
istituzionale giuridico. Identiche preoccupazioni muovevano Rossoni
durante i lavori della cosiddetta Commissione dei Diciotto (nominata
dal presidente del Consiglio il 31-1-1923 per studiare i ‟rapporti
fondamentali tra lo Stato e le forze che esso deve contenere e
garantire", al fine di preparare un progetto di riforma
costituzionale); egli non voleva il riconoscimento giuridico dei
sindacati per timore della pluralità sindacale entro gli organi di
diritto pubblico.
Tuttavia l'evolvere della situazione politica doveva modificare in
breve questo atteggiamento di Rossoni e del sindacato fascista.
Infatti l'alleanza tra fascismo e industriali portava come
conseguenza la permanenza dell'associazione degli industriali e la
riduzione nei fatti del sindacalismo fascista a organizzazione
poliziesca dei soli lavoratori. Con i due accordi tra Rossoni e gli
industriali, quello di Palazzo Chigi del 20 dicembre 1923 e quello
di Palazzo Vidoni del 2 ottobre 1925, le due parti contraenti, e
cioè la Confederazione delle corporazioni fasciste e la
Confederazione generale dell'industria italiana, si spartirono il
monopolio sindacale riconoscendosi reciprocamente rappresentanti
esclusivi dei lavoratori e dei datori di lavoro dell'industria. Il
progredire del corporativismo giuridico doveva passare attraverso
l'estinzione di fatto dei sindacati dei lavoratori non fascisti e la
fascistizzazione della Confindustria. Ciò che avvenne nei mesi
seguenti costituì il presupposto per il regime giuridico instaurato
nel 1926. Nel 1926 apparvero, contemporaneamente, una disciplina
giuridico-istituzionale e un documento ideologico, entrambi
corporativisti ed entrambi fascisti, ma piuttosto diversi tra loro.
Parte della confusione che ha regnato, e forse era all'inizio voluta
da Mussolini, circa la natura del corporativismo fascista, deriva da
questa diversità.
Si tratta da una parte di un complesso di leggi che andarono subito
in vigore (legge 3-4-1926, n. 563; R.D. 1-7-1926, n. 1130; R.D.
2-7-1926, n. 1131; circolare Rocco 26-4-1926 ai procuratori generali
delle Corti d'appello), e dall'altra parte della cosiddetta Carta
del lavoro, che era destinata ad acquistare vigenza come legge
dell'ordinamento dello Stato solo con la legge 30-1-1941. Le leggi
del 1926 prevedevano il riconoscimento giuridico (come persone
giuridiche) di associazioni sindacali o dei lavoratori o dei datori
di lavoro o dei liberi esercenti un'arte o una professione su base
geografica (dal comune all'intera nazione), su presupposti tali da
includere solo sindacati fascisti; i sindacati legalmente
riconosciuti avevano facoltà di imporre un contributo annuo ai
membri della rispettiva categoria anche non iscritti; avevano
presidenti o segretari, approvati con regio decreto su proposta del
ministro competente di concerto col ministro dell'Interno, e sempre
revocabili; potevano concludere contratti collettivi con le
controparti sindacali, e ai contratti era attribuita efficacia erga
omnes. Le associazioni sindacali non riconosciute potevano - secondo
la legge - continuare a esistere come associazioni di mero fatto
(mentre, nei fatti, la violenza fascista impediva loro ovviamente di
continuare a esistere). Le controversie relative ai rapporti
collettivi di lavoro, sia giuridiche (su contratti esistenti) sia
economiche, erano devolute a una magistratura speciale, cioè le
Corti d'appello funzionanti come ‛magistratura del lavoro', e per i
conflitti individuali questa magistratura funzionava da giudice
d'appello. Si elevarono lo sciopero e la serrata a reato, che
comportava per i capi e i promotori pene anche detentive.
Le corporazioni (non dotate di personalità giuridica in quanto
organi dello Stato) dovevano, con decreto del ministro per le
Corporazioni, stabilire organi di collegamento tra i sindacati.
Presso il Ministero delle Corporazioni doveva essere costituito il
Consiglio nazionale delle corporazioni. I dirigenti delle
associazioni e delle corporazioni non sarebbero stati eletti, ma
nominati dalle associazioni di grado superiore. Tutta questa
bardatura giuridica funzionava nei fatti solo nel senso di abolire
la libertà e pluralità sindacale e le libertà sindacali e di
sciopero, e nel senso di consentire l'efficacia erga omnes di
contratti collettivi elaborati tra associazioni sindacali
contrapposte, di cui quella padronale era in grado di imporre le
proprie condizioni.
La Carta del lavoro è invece un documento ideologico in cui si
proclama che ‟la Nazione italiana è un organismo avente fini, vita,
mezzi di azione superiori a quelli degli individui divisi o
raggruppati che la compongono. È una unità morale, politica ed
economica che si realizza integralmente nello Stato fascista" (art.
1); eleva il lavoro a dovere sociale (art. 2); consacra
l'organizzazione giuridica corporativa (artt. 3-6); qualifica
l'iniziativa economica privata come strumento dell'interesse
nazionale e la rende responsabile di fronte allo Stato,
funzionalizzando la proprietà e l'impresa (art. 7). Questo documento
ideologico per alcuni anni restò un semplice proclama, anche
ufficialmente.
L'organizzazione giuridica corporativa fu attuata compiutamente con
la legge 5-2-1934, n. 163, che istituì le corporazioni in numero di
ventidue e costituì il Consiglio nazionale delle corporazioni con
potere normativo in materie non disciplinate da leggi o regolamenti.
Successivamente le istituzioni corporative divennero elementi non
solo amministrativi, ma anche costituzionali dello Stato. Con la
legge 19-1-1939, n. 129, infatti, la Camera fu costituita dai
componenti del Consiglio nazionale delle corporazioni, dai
componenti del Gran Consiglio del fascismo e del Consiglio nazionale
del PNF. La già citata legge 30-1-1941 attribuì alla Carta del
lavoro carattere di espressione dei ‟principi generali
dell'ordinamento giuridico dello Stato" in modo che costituissero il
‟criterio direttivo per l'interpretazione e l'applicazione della
legge".
In effetti il Codice civile del 1942 si ispira, nel Libro del lavoro
e nella sua architettura, alle espressioni corporativistiche della
Carta del lavoro. In particolare, oltre al vero e proprio diritto
corporativo, vanno ascritte all'ispirazione corporativista le
discipline della proprietà e dei rapporti commerciali. Infatti la
disciplina della proprietà scompare per lasciare il posto, nella
stessa formulazione verbale, alla disciplina dei poteri del
proprietario; mentre alla disciplina dell'atto di commercio viene
sostituita la disciplina dell'imprenditore. In entrambi i casi si
tratta di uno spostamento della disciplina dal momento oggettivo al
momento soggettivo che, se sotto il profilo verbale si rifà a modi
espressivi precedenti la codificazione napoleonica, sotto il profilo
politico indica il diritto civile come disciplina dei rapporti tra
soggetti inquadrati in corporazioni. La persistente vigenza del
codice fascista, una volta travolto l'ordinamento corporativo,
costringe i giuristi a sforzi di ginnastica mentale per dimostrare
che la proprietà del codice del 1942 è simile a quella del vecchio
codice, e che la disciplina dell'impresa non risponde alla logica
della politica economica del fascismo.
Forme di reggimento corporativistico accentrato si ebbero, nel
periodo del trionfo effimero dei regimi fascisti in senso proprio,
in diversi paesi europei.
Sotto un certo aspetto, dottrine corporativiste circolarono nel
movimento nazista e qualche istituzione corporativa ebbe un ruolo
nella struttura del Terzo Reich: occorre tuttavia molta cautela nel
parlare a questo proposito di corporativismo senza altre
qualificazioni, perché si tratta di dottrine e di istituzioni
piuttosto lontane da quelle fasciste italiane (v.
nazionalsocialismo). Si tratta, in ogni caso, di dottrine e
istituzioni circoscritte all'organizzazione del lavoro industriale,
sulla linea della concezione organica dell'impresa che era
tradizionale nella cultura tedesca anche dell'Ottocento: ma, per
quanto concerne il concetto di ‛corpo', nella dottrina nazista
l'unico vero ‛corpo' politico e giuridico era costituito dalla
nazione tedesca e dal suo capo (Volk e Führer). L'organizzazione
nazista del lavoro iniziò nel 1933 con una lega politica tra
preesistenti associazioni di lavoratori e di datori di lavoro,
chiamata Fronte del lavoro. Nel 1934 si ebbe una importante legge
sulla organizzazione del lavoro nazionale, ispirata al principio
secondo cui i rapporti tra i lavoratori di ciascuna impresa
(Gefolgschaft) e il capo (Führer) dell'impresa stessa sono
improntati alla ‛fedeltà'; tale fedeltà era garantita dalla presenza
in ciascuna impresa di un ‛fiduciario per il lavoro' (Treuhänder der
Arbeit) di nomina politica. Con la ‛cooperazione' di quest'ultimo
organo venivano stipulati contratti di lavoro aziendali. Nel campo
della produzione agricola fu istituita, sempre nel 1934, una
corporazione nazionale mista comprendente tutti i fattori della
produzione, e denominata Reichsnährstand.
In Portogallo, dopo l'ascesa al potere di Salazar, nel 1934, fu
introdotto uno Statuto del lavoro nazionale che sotto veste di
istituire associazioni di categoria si limitava a proibire lo
sciopero e la serrata. Solo in senso molto lato si può parlare in
questo caso di istituzioni politiche e giuridiche corporative mentre
è palese che a un'ideologia genericamente corporativista autoritaria
si è ispirato anche il regime di Salazar.
In Spagna venne elaborata una ideologia corporativista da Gil
Robles, poi confluita con altri elementi a costituire l'ideologia
del regime di Franco. Sotto il profilo giuridico-istituzionale, sono
ispirate a principi corporativisti la Carta del 1938, detta Fuero
del trabajo, e la nuova Costituzione spagnola.
Un'ideologia corporativista di stampo fascista fu elaborata da
Manoilescu e presiedette al regime fascista instaurato dallo stesso
Manoilescu in Romania.
d) Il sindacalismo contrattualistico
La tendenza a considerare il sindacato sprovvisto di fini politici
generali, e a circoscriverne il funzionamento e i fini entro precise
coordinate istituzionali, si manifesta anche nei paesi anglosassoni,
quantunque in modi molto diversi da quelli del continente europeo.
Da un lato, nei paesi anglosassoni, le teorizzazioni e le dottrine
del sindacalismo sono andate nel senso di privilegiare finalità
economiche; dall'altro lato, la struttura che si sono dati i
sindacati in quei paesi è del tutto funzionale a operazioni di
contrattazione economica.
Sul versante ideologico vediamo come i maggiori teorici del
tradeunionismo inglese (la cui influenza fu massima tra le due
guerre), i coniugi Sydney e Beatrice Webb, concepiscono il sindacato
come strumento di difesa economica degli operai nell'ambito del
mercato, e assumono che l'azione sindacale sia delimitata da una
duplice compatibilità, quella con la produttività dell'impresa e
quella con lo sviluppo economico generale: concezione evidentemente
atta a delegittimare l'assunzione, da parte del sindacato, di fini
politici generali in conflitto con quelli di altri - e più rilevanti
- soggetti politici che dominano congiuntamente l'assetto del paese.
Negli Stati Uniti, dopo il New Deal, vediamo formarsi
quell'ideologia pancontrattualistica che troverà compiuta
espressione teorica - nel periodo successivo alla seconda guerra
mondiale - negli scritti di S. Perlman, che costituiscono
l'ideologia del cosiddetto business unionism.
In questa concezione, l'associazione sindacale nasce da una
mentalità sindacale operaia la cui caratteristica principale è la
consapevolezza della scarsità delle occasioni economiche (cioè, per
gli operai, i posti di lavoro); il fine del sindacato è quello di
monopolizzare la forza lavoro, a tutti i livelli (di azienda, di
località, di settore), per negoziare i massimi vantaggi ottenibili e
distribuire poi tali vantaggi - essenzialmente posti di lavoro e
condizioni economiche del lavoro - tra i propri associati.
Una simile concezione delegittima il sindacato come portatore di
interessi politici generali: la sola attività politica in senso
stretto che un sindacato così concepito può svolgere, senza
contraddire la propria ragion d'essere, è l'attività di gruppo di
pressione anche nelle sedi di decisione politica; come, ad esempio,
premere per commesse pubbliche a imprese fornitrici, in funzione
dell'ottenimento di più posti di lavoro o di migliori paghe nel
settore così favorito, ecc. In questa concezione, l'elaborazione di
programmi politici generali, anche in materia economica, è
addirittura repugnante alla natura del sindacato: cosicché la
delegittimazione del sindacato come soggetto politico è elemento
intrinseco dell'ideologia sindacale americana.
5. Il secondo dopoguerra
Nel secondo dopoguerra non è agevole, e probabilmente è impossibile,
trovare una linea di tendenza generale sia nelle proiezioni
ideologiche che nelle pratiche effettive del sindacalismo. Anzitutto
la divisione del mondo industrializzato in due blocchi,
caratterizzati da organizzazioni politiche radicalmente diverse, ha
determinato una profonda divaricazione tra le rispettive realtà
sindacali. Nell'Unione Sovietica permane la riduzione del sindacato
a vero e proprio organo del regime, dello Stato e del partito, e il
modello sovietico è stato replicato in tutte le democrazie popolari
dell'Europa Orientale senza apprezzabili novità, se si eccettua il
fenomeno, ancora in nuce e sui cui sviluppi non è ancora possibile
fare ragionevoli previsioni, del sindacato autonomo e spontaneo
polacco, chiamato Solidarność, il quale si colloca in evidente
contrasto con il modello organizzativo impostato sulla concezione
leninista del rapporto tra sindacato e partito. Nei paesi
dell'Occidente europeo si sono avute esperienze molto diverse, anche
in relazione alle molto differenziate situazioni politiche; sotto
taluni profili, come in particolare quello della pluralità e
concorrenzialità dei sindacati o dell'unità monopolistica
dell'organizzazione sindacale, potrebbero individuarsi, per periodi
determinati, linee di tendenza per gruppi di paesi, come da un lato
i paesi latini e dall'altro le socialdemocrazie nordiche e la
Germania Federale; o, al livello delle proiezioni ideologiche,
potrebbero individuarsi linee di tendenza all'accettazione o al
rifiuto di collaborazione di tipo cogestionario sulla dimensione di
impresa, per gruppi di paesi. La pluralità di punti di vista
partendo dai quali le esperienze reali e le proiezioni ideologiche
del sindacalismo lasciano individuare aree distinte, nell'Occidente
industrializzato, suggerisce di concentrare l'attenzione su tre
linee di tendenza corrispondenti al sindacalismo di tre gruppi di
paesi. E precisamente: il sindacalismo statunitense, il sindacalismo
dei paesi del Nord Europa, il sindacalismo dei paesi latini.
a) Il sindacalismo statunitense
Il sindacalismo statunitense, la cui più articolata proiezione
ideologica è, come si è ricordato, quella di S. Perlman, si
caratterizza dal punto di vista strutturale soprattutto per l'alto
grado di decentramento della sua azione, o - da altro punto di vista
- per il radicato atomismo del sindacato. Quantunque associati su
base federativa, i nuclei portanti del sindacato sono unità di
fabbrica e, molto spesso, di fabbrica e di mestiere. La necessità di
qualche struttura federativa, e il supporto delle grandi federazioni
(AFLCIO), non sono tanto costituiti dall'opportunità di condurre
politiche di vasto raggio o di organizzare l'amministrazione di
fondi sindacali (anche se queste opportunità giocano un ruolo),
bensì, principalmente, dal fatto che un gran numero di imprese
operano in settori industriali diversi talché la contrattazione di
impresa è inizialmente nella competenza disgiunta di sindacati
diversi: ciò comporta la necessità di una qualche struttura
federativa che consenta un'azione contrattuale unitaria per tutta
l'impresa; di qui un limite all'atomismo che peraltro rimane la
struttura portante di base.
Dal punto di vista dell'azione sindacale, il sindacato americano
privilegia il contratto collettivo e in particolare il contratto di
impresa. Il contratto è considerato il regolamento, a titolo
esclusivo, di tutto l'insieme delle condizioni di lavoro, comprese
quelle relative alle ferie, alle pensioni, alle assicurazioni contro
le malattie, ecc., cioè anche quegli aspetti che nella tradizione
organizzativa dell'Europa continentale sono stati oggetto di
amplissima legislazione. In tal modo il sindacato americano ha di
fatto assunto un atteggiamento di rifiuto non solo di ogni
istituzionalizzazione, ma anche di ogni legislazione in materia di
lavoro e addirittura di ogni legislazione sociale, per non parlare
di una legislazione di sostegno dell'azione sindacale. A sua volta,
questo atteggiamento del sindacato è stato determinante
nell'evoluzione del sistema giuridico statunitense, che è
caratterizzato da una quasi totale inesistenza di legislazione sul
lavoro e da una efficientissima strumentazione della rapida
esecutività di ogni azione legale fondata sul contratto.
Alla struttura marcatamente atomistica e al privilegiamento del
contratto di impresa vanno collegati gli altri aspetti peculiari del
sindacalismo americano. Il primo di questi aspetti è che il
sindacato americano rappresenta e assume di rappresentare solo gli
interessi dei propri associati, cioè non si pone come portatore di
un interesse extrassociativo, come l'interesse dei lavoratori non
sindacalizzati o l'interesse di tutti i lavoratori o l'interesse di
una collettività comunque individuata o tantomeno un interesse di
classe. Il secondo, direttamente dipendente dal primo, è
l'inesistenza di una linea di politica generale del sindacato, il
quale partecipa a tutti i livelli alla formazione di decisioni
politiche, ma solo in qualità di gruppo di pressione non diverso
dagli altri gruppi di pressione: di volta in volta il sindacato,
come nucleo o come federazione, eserciterà pressioni per un
programma autostradale, o per una pianificazione urbana, o per
sovvenzioni alle industrie acrospaziali, e così via, per consentire
migliori possibilità di contrattazione ai propri associati, perché
essi partecipino ai benefici di un'impresa o delle imprese di un
settore, ma sempre entro la prospettiva della contrattazione di più
paghe, più posti, migliori condizioni, e mai in funzione di un
programma politico generale. In questo quadro, il sindacalismo
americano è autarchico, cioè non ha collegamenti organici con
partiti politici, con i quali può però stabilire ragnatele di
rapporti clientelari in quanto gruppo di pressione; non è,
propriamente parlando, un sindacato ‛riformista' e non è nemmeno, in
senso politico, un sindacato ‛partecipazionista'. Anche se gli
effetti dell'azione sindacale sono talvolta di tipo corporativista,
il sindacalismo americano non può nemmeno dirsi ‛corporativista' in
alcuno dei significati abituali del vocabolo.
b) Il sindacalismo dei paesi del Nord Europa
Alcuni tratti comuni sono identificabili nelle organizzazioni
sindacali e nelle ideologie (implicite e in molti casi anche
esplicite) sui fini sindacali dei paesi del Nord Europa: cioè
Austria, Repubblica Federale Tedesca, Olanda, Belgio, Danimarca,
Svezia e Norvegia. I tratti comuni dei sindacalismi caratteristici
di questi paesi vanno, in parte, riferiti alla tradizione storica,
che è quella del sindacalismo socialdemocratico: ovunque i legami
con i partiti socialdemocratici, quantunque di solito non
istituzionalizzati, sono profondi; ovunque il sindacato si dà
strutture federative tanto orizzontali quanto verticali; ovunque il
sindacato è legalitario e riformista; ovunque il sindacato pretende
e promuove - peraltro in modi diversi nei diversi paesi -
legislazioni di sostegno; ovunque il movimento sindacale esprime nel
suo seno tendenze verso l'istituzionalizzazione giuridica; ovunque
si manifesta la tendenza del sindacato a partecipare a decisioni
economiche sia nazionali che di impresa in una prospettiva
sostanzialmente collaborativa, relegando il momento conflittuale
nelle procedure di elaborazione delle decisioni; ovunque gli esiti
dell'azione sindacale protratta per decenni hanno dato luogo a
quelle strutture politiche che, in questi ultimi anni, molti
studiosi designano compendiosamente (anche se con qualche equivoco)
come neocorporativismo.
È del tutto evidente che l'insieme di questi tratti comuni del
sindacalismo nordeuropeo, quantunque geneticamente riconducibile
alla tradizione del sindacalismo socialdemocratico, richiede - come
condizione di possibilità - un sindacato di fatto monopolista e non
una situazione di pluralità sindacale e di concorrenza tra sindacati
o tra federazioni o confederazioni di sindacati; questa condizione
di possibilità si è verificata nelle democrazie del Nord Europa, a
differenza di quanto è avvenuto nei grandi paesi latini, Francia e
Italia, nel secondo dopoguerra, e questa è probabilmente la seconda
ragione (dopo quella del collegamento del più grande sindacato dei
paesi latini con un partito comunista anziché con un partito
socialdemocratico) della diversa evoluzione dell'esperienza
sindacale nei due gruppi di paesi.
In linea generale si può dire che la tendenza del sindacalismo
nordeuropeo, tanto nei fatti quanto nelle proiezioni ideologiche,
sia riconducibile al modello seguente: 1) si accetta come fine
sindacale lo stabilimento di un alto grado di cooperazione del
sistema sindacale con altri soggetti politici, in particolare
sistema-Stato e sistema-imprese, nell'elaborazione delle politiche
economiche nazionali e nel sostegno della produzione; 2) si
promuove, a tutti i livelli, un alto grado di istituzionalizzazione
dei rapporti tra l'organizzazione sindacale e lo Stato, mediante la
creazione di organismi pubblici stabili con la partecipazione di
rappresentanti sindacali; 3) si stabilisce una dialettica tra
organizzazione sindacale e un partito politico, di solito quello
socialdemocratico, per cui il sindacato rafforza quel partito il
quale, a sua volta, promuove riforme legislative e amministrative
atte a potenziare e a moltiplicare gli organi pubblici a
rappresentanza sindacale, anche con l'effetto di limitare - di fatto
- i poteri del legislativo e del governo nonché del sistema dei
partiti. In tal modo si esprime una linea di tendenza che è, in
prospettiva, compiutamente corporativistica.
L'elemento su cui, nell'ambito del sindacalismo nordeuropeo, sembra
potersi tracciare una distinzione riguarda il rapporto di
integrazione decisionale del sindacato a livello di singola impresa.
Ad esempio il sindacalismo belga e quello olandese, che sono tra i
più ispirati da atteggiamenti partecipativi e di ‛collaborazione
economica', tendono verso forme neocorporativistiche solo a livello
di decisioni politiche macroeconomiche, in forma di consigli
paritetici, ma non hanno, né forse vogliono, esperienze di
cogestione a livello di impresa. Del tutto diverso è, a questo
proposito, l'atteggiamento del sindacalismo tedesco che, essendosi
trovato per ragioni storico-politiche, subito dopo la guerra, di
fronte a istituti cogestionari in un settore industriale rilevante,
li ha sostanzialmente fatti propri - sia pure non senza che si
sviluppassero tensioni - e ha incluso il potenziamento e la
diffusione della cogestione nel proprio quadro di riferimento
ideologico. La genesi dell'esperienza di cogestione germanica va
rintracciata in decisioni dell'autorità di occupazione inglese,
nella cui zona era la Ruhr, relative alla gestione delle imprese
carbosiderurgiche le cui dirigenze avevano sostenuto il regime
nazista: l'autorità inglese chiamò una rappresentanza operaia a
partecipare alle decisioni di impresa. Su questa base fu elaborata
una proposta di legge sulla co-decisione (Mitbestimmung) che fu
promulgata nel 1951 e che sanciva la presenza di una rappresentanza
dei lavoratori paritetica nei consigli d'amministrazione delle
società che esercitano imprese carbosiderurgiche (con l'aggiunta di
un membro esterno nominato di comune accordo da capitale e lavoro);
sanciva anche la presenza nella direzione aziendale, accanto al
direttore o ai direttori, di un ‛direttore del lavoro'
(Arbeitsdirektor) designato dal personale. Dopo la legge del 1951,
con leggi successive, la cogestione fu estesa ad altri settori
industriali. Non v'è dubbio che l'accettazione, da parte del
sindacato, dell'esperienza cogestionaria abbia rinforzato a sua
volta le tendenze ‛partecipative' già presenti nel sindacalismo
germanico: così come la stessa organizzazione giuridica, e la
cultura dei giuristi germanici, che tendono a privilegiare come
valore la ‛pace sociale' e a deprivilegiare come fatto patologico il
‛conflitto', hanno senza dubbio assecondato e agevolato il prevalere
nel sindacalismo germanico di uno spirito di collaborazione non solo
a livello di decisioni macroeconomiche e di assunzione di
responsabilità nell'elaborazione della politica economica nazionale,
ma anche a livello di impresa.
c) Il sindacalismo dei paesi latini, con particolare riguardo al
sindacalismo italiano
A differenza di quanto accade nei paesi del Nord Europa, nei paesi
latini che nel secondo dopoguerra hanno regimi democratici, la
Francia e l'Italia, esiste una pluralità di organizzazioni
sindacali. In Francia il sindacalismo dei lavoratori confluisce,
sostanzialmente, in due confederazioni orizzontali che sono
rispettivamente la Confédération Générale du Travail (CGT), di
ispirazione comunista e associata alla Federazione Sindacale
Mondiale, e la Section Française de l'Internationale Ouvrière
(SFIO). In Italia l'unità sindacale, che si era avuta durante la
lotta al fascismo, ebbe breve durata: su questa vicenda vanno
ricordati alcuni punti essenziali.
L'unità sindacale viene stabilita, sulla base di un'esigenza
scaturita dalla comune lotta antifascista, con il cosiddetto Patto
di Roma tra gli esponenti dei tre principali movimenti sindacali - e
cioè il sindacalismo comunista (firmatario G. Di Vittorio), il
sindacalismo socialista (firmatario E. Canevari) e il sindacalismo
democratico-cristiano (firmatario A. Grandi) -, patto che si
pretende firmato il 3 giugno 1944 (cioè ancora sotto l'occupazione
tedesca), ma in realtà firmato qualche giorno dopo, il 9 giugno. Con
tale patto si diede vita alla Confederazione Generale Italiana del
Lavoro (CGIL) che adottò un programma molto generico proprio perché
fosse unitario, proclamò la massima libertà di espressione al suo
interno, l'assoluta indipendenza da ogni partito, la disponibilità a
prendere tuttavia posizione su tutti i problemi politici che
interessano la generalità dei lavoratori e, con accordo politico
interno tra le componenti, si avviò verso una prassi di decisioni
prese su basi paritetiche.
Peraltro il carattere unitario della CGIL era profondamente
insidiato da una serie di realtà oggettive tanto interne alla
confederazione quanto esterne. Anzitutto, dal punto di vista
dell'ideologia sindacale dei quadri, le tre componenti divergevano
irrimediabilmente: a) le componenti comunista e socialista pensavano
in termini di sindacalismo di classe, mentre la componente
democratico-cristiana e specificamente cattolica rifiutava una
concezione classista della società e perciò un sindacato ‛di
classe'; le componenti comunista e socialista tendevano, allora, a
vedere come fine solo immediato del sindacato la rivendicazione e la
difesa economica dei lavoratori, e come fine ultimo la costruzione
di una società diversa, e molti quadri comunisti e socialisti non
escludevano, in prospettiva, lo strumento rivoluzionario, mentre la
componente democratico-cristiana aveva alle spalle una storia di
concezioni corporativistiche del sindacato e, parlando in
prospettiva di ‛partecipazione agli utili' e di ‛trasformazione del
proletario in proprietario', rifiutava in sostanza la finalizzazione
a radicali mutamenti della società; b) la componente comunista
accettava solo in funzione tattica la separazione del sindacato dal
partito, nel senso che il partito voleva che il sindacato fosse
unitario e la separazione costituiva il mezzo per ottenere un
sindacato unitario, ma al fine di portare tutto il sindacato
unitario sulle posizioni politiche del partito assecondandone le
azioni anche contingenti, mentre la componente socialista non aveva
nel suo bagaglio ideologico la stretta dipendenza del sindacato dal
partito, e la componente democratico-cristiana aveva già - e la
storia successiva lo mostra con chiarezza - la tendenza a esaltare
(contro le pretese del partito democristiano e anche in taluni
momenti contro i suggerimenti ecclesiali) l'autonomia del sindacato.
In secondo luogo, lo stato di inferiorità numerica della componente
democratico-cristiana nei settori industriali costituiva
un'oggettiva causa di malessere. In terzo luogo, il vizio di origine
dell'unità sindacale, di essere la proiezione sindacale di un
momento di collaborazione politica dei partiti nella Resistenza,
pesava sull'unità sindacale stessa rendendola sensibile alle
sollecitazioni provenienti dall'esterno, cioè da un contesto
politico in cui la collaborazione era destinata a venir presto meno.
L'unità sindacale venne meno quando, dopo lunghe polemiche, il 15
luglio 1948, gli undici membri democratico-cristiani del comitato
direttivo della CGIL si riunirono nella sede romana delle
Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani (ACLI) e diedero vita
a una nuova confederazione chiamata Libera Confederazione Generale
del Lavoro (LCGIL). Il 4 giugno 1949 i lavoratori socialisti
democratici (cioè aderenti al PSLI, nato con la scissione
socialista) e repubblicani diedero vita a un'altra confederazione,
la Federazione Italiana del Lavoro (FIL). Le due nuove
confederazioni si fusero il 1° maggio 1950, dando vita alla
Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (CISL), ma gran parte
della base della FIL contestò i dirigenti, specialmente per le
resistenze di molti lavoratori repubblicani e socialdemocratici a
riconoscersi in una organizzazione a prevalenza cattolica, e ancor
prima della fusione costituì, unendosi a un nuovo gruppo di espulsi
dalla CGIL, una terza confederazione, l'Unione Italiana del Lavoro
(UIL).
In tal modo, a partire dall'inizio del decennio cinquanta,
l'esperienza italiana è caratterizzata dalla presenza di tre
confederazioni, cioè di tre associazioni orizzontali a cui si
rapportano le rispettive federazioni verticali di settore, la CGIL,
la CISL e la UIL, che, concorrenziali tra di loro, danno vita a un
genere particolare di pluralismo sindacale, su cui torneremo tra
poco. A queste tre confederazioni si aggiunge, con scarsa
consistenza numerica e senza importanza politico-sindacale anche
perché costantemente emarginata dalle altre confederazioni, dalle
associazioni padronali e dal potere politico, la CISNAL, che si
collega al corporativismo fascista. Si sono inoltre avute, in tempi
diversi, associazioni di tipo confederale tra sindacati autonomi di
settore, o di particolari posizioni nel settore, che sono fiorite
soprattutto nel pubblico impiego.
Tuttavia si può dire che la storia del sindacalismo italiano in
questo secondo dopoguerra si risolve sostanzialmente, senza residui,
nella storia delle tre confederazioni menzionate per prime, sicché
occorre considerare attentamente la loro struttura.
Le tre principali confederazioni sono strutturate come
organizzazioni orizzontali di vertice rispetto alle unioni sindacali
provinciali (le unioni provinciali che fanno capo alla CGIL
conservano il nome tradizionale di Camera del lavoro); inoltre, sono
anche strutturate come vertice di un'articolazione verticale che
parte dai sindacati provinciali ‛di categoria', passa per le
federazioni ‛di categoria' e termina, appunto, nella confederazione.
In altre parole, la confederazione è il vero punto di contatto
dell'organizzazione orizzontale e di quella verticale, e tutta la
strutturazione con cui il sindacato italiano si presenta alle soglie
del decennio 1950-1960 è atta ad agevolare un modo di concepire il
sindacato per cui l'elemento trainante, l'elemento che elabora la
politica sindacale, è il vertice confederale: cioè atta a
prefigurare un sindacalismo orizzontale nazionale. Inoltre va
considerato il fatto che la divisione delle confederazioni sindacali
dei lavoratori si era verificata essenzialmente sulla base delle
ideologie politiche e partitiche dei dirigenti sindacali e degli
stessi lavoratori affiliati, tanto che le confederazioni non solo
aderivano a diverse associazioni internazionali (la CGIL alla
Federazione Sindacale Mondiale, la CISL alla CISL internazionale),
ma i rapporti con i partiti erano strettissimi (comunisti e
socialisti - questi ultimi integralmente, all'epoca del fronte
popolare e sino alla riunificazione socialista - nella CGIL, i
democratico-cristiani nella CISL, quasi tutti i socialdemocratici e
tutti i repubblicani nella UIL): anche sotto questo rispetto,
dunque, era sollecitata una concezione dell'attività sindacale come
guidata dai vertici e in funzione della politica generale nazionale.
A tutto ciò si aggiunga che, per tutto il primo decennio
considerato, il tasso di sindacalizzazione specialmente fuori
dell'industria metalmeccanica del triangolo industriale era
eccezionalmente basso, i quadri sindacali periferici molto sovente
scarsi, poco sperimentati e soprattutto presi di peso dai partiti e
messi a fare i sindacalisti, tanto che anche alle periferie della
struttura orizzontale e alla base di quella verticale l'elaborazione
di linee di attività sindacale, oltreché scoraggiata, era
contrastata dalla pigrizia della ‛disciplina di partito'.
A un analogo risultato porta la considerazione di quali erano, nel
decennio 1950-1960, gli sbocchi dell'attività sindacale. Nel periodo
della crisi post-bellica e della ricostruzione, le sole effettive
possibilità contrattuali erano offerte dalla contrattazione
nazionale dei minimi di categoria. Ciò dipendeva in parte dalla
strutturazione che si era dato l'associazionismo sindacale del
padronato: esso era organizzato, tradizionalmente, in confederazioni
orizzontali di vertice per grandi settori economici (Confindustria,
Confagricoltura, Confcommercio) le quali confederazioni, attraverso
sezioni distinte, trattavano contratti nazionali (metalmeccanico,
tessile, ecc.).
Da tutto questo insieme di fattori deriva che il sindacalismo
italiano nel dopoguerra sviluppò una concezione caratterizzata da
estrema politicizzazione e stretto collegamento con i partiti, da
assoluto verticismo orizzontale, da una visione dell'attività
contrattuale come limitata alla contrattazione nazionale dei minimi
in situazione di oggettiva debolezza, da inesistente - anche se non
colpevole - presenza sui posti di lavoro e scarso contatto con il
mondo del lavoro. La mobilitazione di massa, inoltre, da parte della
più grande confederazione, la CGIL, venne sovente sollecitata e
attuata per questioni del tutto irrelate alla difesa sindacale dei
lavoratori (contro l'entrata nella NATO, per protesta contro la
visita di Eisenhower, ecc.). A causa delle pesanti discriminazioni,
il solo punto veramente riconducibile a una strategia sindacale fu,
per la CGIL, la lotta contro la discriminazione del lavoratore, e
specialmente del sindacalista, nel lavoro e dal lavoro.
A questa situazione di fatto e a questa ideologia implicita
nell'azione sindacale si manifestò una reazione, prima a livello
delle elaborazioni ideologiche e successivamente a livello della
prassi, da parte delle dirigenze della CISL, nel periodo
intercorrente tra la fine degli anni cinquanta e l'autunno caldo del
1969. Si tratta di una nuova elaborazione ideologica, basata su
alcune ragioni attinenti al contesto sociopolitico. Anzitutto, le
dirigenze cisline divengono sempre più insofferenti delle pretese
che il partito democratico-cristiano e i governi
democratico-cristiani avanzano, di guidare l'azione sindacale della
CISL piegandola a ragioni di politica governativa contingente e
impedendo così un'efficace concorrenza, a livello puramente
sindacale, nei confronti del sindacato socialcomunista.
Su tale insofferenza si innesta tutta un'elaborazione dottrinale
relativa alla necessaria ‛autonomia' del sindacato dal partito e
all'incompatibilità tra cariche di partito e cariche di sindacato,
che viene a caratterizzare nettamente la CISL come sindacato
apartitico ed elaboratore di strategie sindacali irrelate alle
contingenze partitiche. In secondo luogo, le dirigenze cisline
abbandonano ogni richiamo alle ideologie corporativistiche
tradizionali del sindacalismo cattolico e accentuano le
caratteristiche del sindacato secondo precise finalità di difesa e
di progresso dei lavoratori essenzialmente sotto il profilo
economico. In terzo luogo, di fronte a uno sviluppo economico
notevole ma concentrato in alcune regioni del paese e in alcuni
settori dell'industria, le dirigenze cisline percepiscono che da un
lato, nelle zone favorite, i lavoratori possono ottenere attraverso
l'azione sindacale di più, e dall'altro lato la generalizzazione dei
vantaggi dei lavoratori favoriti a tutto il territorio nazionale e a
tutti i settori avrebbe determinato una crisi economica ovvero
innescato un processo di desindacalizzazione. Per uscire da simile
dilemma e offrire un'alternativa programmatica, rispetto a quella
del sindacato socialcomunista, le dirigenze cisline elaborarono la
strategia, e poi inaugurarono la prassi, del contratto collettivo di
impresa; in ciò furono agevolate da un parallelo manifestarsi di
propensione al contratto collettivo di impresa da parte del
sindacato dei datori di lavoro Intersind, che era venuto a
inquadrare le imprese a partecipazione statale del gruppo IRI (a
prescindere dal settore di produzione) dopo il distacco delle
partecipazioni statali dalla Confindustria.
Con il contratto collettivo di impresa si realizzò l'articolazione
della contrattazione collettiva, basata su due livelli, e cioè il
contratto nazionale di categoria e il contratto di impresa, con un
sistema di rinvii dall'uno all'altro e con un principio di
avvicinamento del sindacato alla singola impresa: articolazione
della contrattazione alla quale furono inevitabilmente trascinate
anche le altre confederazioni. In quarto luogo, le dirigenze cisline
manifestarono diffidenza e rifiuto rispetto allo strumento
legislativo, e in particolare di fronte a ogni legislazione di
sostegno, come corollario della divaricazione tra azione sindacale
autonoma articolata e contrattualista da un lato e azione partitica
dall'altro lato. Come è evidente, simile concezione e simile prassi
erano solidali con un adattamento alla situazione italiana del
modello contrattualistico americano secondo le teorizzazioni di
Periman lette attraverso gli occhiali del professor G. Giugni, che
fu il teorico e l'ispiratore di questa elaborazione strategica della
CISL anche attraverso la scuola quadri di questa confederazione in
Firenze. Il successo di questa linea comportò, per il sindacalismo
italiano, oltre all'articolazione della contrattazione, anche
un'accentuazione del verticalismo e dell'importanza delle
federazioni rispetto alle confederazioni.
Questo nuovo modello di sindacalismo sarebbe stato destinato a
realizzare da un lato una depoliticizzazione del sindacato rispetto
alla politica economica nazionale oggetto di deliberazione
parlamentare e dall'altro lato un'assunzione di responsabilità
economica, un atteggiamento di partecipazione e di collaborazione in
vista di vantaggi contrattati per i lavoratori a livello di impresa.
Tuttavia questa linea di sviluppo era destinata a essere interrotta
sul nascere dalla profonda modificazione del mondo del lavoro
avvenuta dopo il 1969. Un altro elemento ostativo della linea di
sviluppo del modello cislino era costituito dalla tendenza all'unità
sindacale che, per ovvie ragioni di aggregazione rivendicativa, era
venuta manifestandosi nelle tre confederazioni, con un processo di
intese progressive, a partire dal 1966: tendenza unitaria che era
destinata a rafforzarsi in seguito alle vicende dell'autunno caldo.
A partire dalla fine del 1966 si manifestano tra i lavoratori
dell'industria, prima sporadicamente poi con frequenza sino a
divenire generalizzati nel 1969, comportamenti di lotta sindacale
particolarmente duri e talora - come nel caso del sabotaggio e del
danneggiamento - palesemente illeciti, non solo al di fuori ma
contro la volontà delle centrali sindacali; su questi comportamenti
si innestano, in rapporto di interrelazione a doppio senso,
elaborazioni dottrinarie e predicazioni di movimenti intellettuali
di estrema sinistra che teorizzano l'‛autonomia dei comportamenti
della classe operaia' rispetto non solo allo Stato, ma anche ai
sindacati confederali, che vengono concepiti e additati come
strumenti della repressione di classe. Attorno al 1969 si generano
spontaneamente, all'interno delle singole unità produttive, nuove
entità sindacali come i delegati di linea, di squadra e di reparto,
e i comitati unitari di base: si tratta di una proliferazione di
forme di auto-organizzazione di base che non si inquadra nelle
organizzazioni sindacali esistenti. Le confederazioni e le
federazioni tentano di assumere il controllo di queste nuove entità
sindacali spontanee attraverso diversi strumenti, di cui il
principale è un'ulteriore articolazione della contrattazione
collettiva, attuata imponendo alla controparte nei contratti il
riconoscimento delle nuove unità di base e il rinvio a esse per
ulteriori livelli di microcontrattazione; e il sussidiario è la
spinta alla omogeneizzazione di queste unità sindacali di base in
una istituzione generalizzata che è il consiglio di fabbrica.
Ma la necessità di penetrare nella fabbrica induce il sindacalismo
confederale ad accettare la legislazione di sostegno del sindacato
che i successivi ministri del Lavoro Brodolini e Donat Cattin
venivano affannosamente preparando (con la consulenza di Gino
Giugni): si trattava dello Statuto dei lavoratori, legge 20 maggio
1970, n. 300, che tra l'altro prefigurava un'ulteriore entità
sindacale e cioè la ‛rappresentanza sindacale aziendale' (delle
confederazioni o di associazioni non confederali firmatarie di
contratti collettivi nazionali o provinciali).
Tutta questa serie di fenomeni, anche dopo spenta la carica
anarco-sindacalista e rivoluzionaria del 1969-1970, hanno
determinato conseguenze di notevole portata nel sindacalismo
italiano. In particolare un nuovo incremento del verticalismo e
l'articolazione sino a livello di fabbrica; inoltre la riassunzione,
da parte delle confederazioni e del vertice unitario delle tre
confederazioni, di fini di politica economica generale (casa,
trasporti, scuola, sanità, Mezzogiorno), anche per rispondere in
termini di politica economica generale alle dirompenti pressioni
della base sindacale. Dal punto di vista della sociologia delle
organizzazioni va inoltre rilevato come, a partire dal 1970 e con il
riassorbimento dei movimenti di base nelle confederazioni,
progressivamente il personale sindacale delle federazioni, a livello
di quadri intermedi, è venuto a essere formato in larga parte da
personale di origine anarco-sindacalista (quantunque riciclato),
tale da portare nel sindacato una mentalità diffusa favorevole a un
esasperato conflittualismo.
L'assunzione di fini di politica economica nazionale, da parte del
sindacalismo confederale, si è tradotta in forme e formule di tipo
vertenziale e conflittuale. In questo senso non può dirsi che il
sindacalismo italiano manifesti una tendenza verso modelli
neocorporativistici simili a quelli del sindacalismo nordeuropeo:
apparentemente, a partire dal 1970, i sindacati confederali
individuano nel governo non un interlocutore ma una ‛controparte'
verso cui avanzare rivendicazioni trasferendo la propria forza
contrattuale nel sistema politico ed esercitando, rispetto ad altri
soggetti politici, funzioni di supplenza ovunque possibile. In senso
diverso potrebbe essere valutata la sempre più massiccia
partecipazione del sindacato a organi amministrativi: la
partecipazione maggioritaria alla gestione dell'INPS, i
rappresentanti sindacali nei consigli d'amministrazione di aziende
statali (Poste e Telecomunicazioni, Ferrovie) e di enti
dell'amministrazione periferica. Si tratta, almeno nelle forme, di
una rete di canali di partecipazione del sindacato al controllo e
alla gestione della spesa pubblica, che esso cerca di potenziare e
di ampliare, tanto da dare l'impressione che si sia in presenza di
una vera e propria strategia di partecipazione collaborativa almeno
per quanto riguarda il settore pubblico dell'economia: peraltro la
strategia non è esplicitata e l'attività delle rappresentanze
sindacali negli organi di gestione sembra limitata da una visuale
ristretta alla considerazione degli interessi del personale degli
enti.
Il fiorire di sindacati autonomi, oramai non solo nel pubblico
impiego, che sono evidentemente portatori di interessi settoriali e
corporativi e non sono inclini a strategie di tipo
neocorporativistico, conforta l'impressione che il sindacalismo dei
paesi latini, e quello italiano in modo particolare, non si muova,
attualmente, verso schemi e modelli affini a quelli propri del
sindacalismo nordeuropeo.