Riformismo
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    In genere, ogni metodo d’azione politica che, ripudiando sia i
    sistemi rivoluzionari sia il conservatorismo, riconosce la
    possibilità di modificare l’ordinamento politico sociale esistente
    solo attraverso l’attuazione di organiche, ma graduali riforme. Si
    dice anche, in senso spregiativo, di una politica, sostanzialmente
    conservatrice, che si limita a marginali riforme in un dato sistema
    sociale, senza modificare le fondamentali strutture del sistema
    stesso. Storicamente il r. è legato all’affermazione del sistema
    parlamentare e alla convinzione che sia possibile realizzare una
    trasformazione sociale attraverso lo strumento legislativo.
    
    Il termine fu introdotto nel vocabolario politico in occasione della
    campagna condotta in Inghilterra, tra la fine del 18° e l’inizio del
    19° sec., per l’allargamento del suffragio elettorale, culminata nel
    Great reform bill del 1832. Ripreso successivamente nell’ambito del
    movimento socialista, assunse un significato più specifico, con
    particolare riferimento alla contrapposizione tra riforme e
    rivoluzione, nella prospettiva del superamento dei rapporti
    capitalistici di produzione e del corrispondente assetto politico.
    La corrente riformista, ossia la tendenza favorevole a un’azione
    gradualistica che privilegiava l’azione legale e le rivendicazioni
    immediate dei lavoratori, fu alla base dello sviluppo del movimento
    sindacale e politico di vari paesi europei.
    
    A partire dalla seconda metà del 20° sec., si definiscono riformisti
    i partiti socialdemocratici o socialisti che hanno abbandonato
    l’ideologia marxista e che si propongono quindi non di superare il
    capitalismo, ma di correggerne (attraverso vari strumenti) i
    difetti. 
    
    Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)
    
    di Zeffiro Ciuffoletti
    
    Sommario: 1. Definizione di riformismo. 2. Il riformismo dispotico
    illuminato. 3. Il riformismo liberal-radicale. 4. Il
    protoriformismo: associazionismo e democrazia. 5. Il riformismo
    cesaristico e il riformismo conservatore o dall'alto. 6. Socialismo
    e riformismo: l'antitesi ambigua fra riforme e rivoluzione. 7. Dalla
    'Progressive era' al 'New deal'. 8. Dal Welfare State al modello
    laburista. 9. La crisi del Welfare State e il ripensamento del
    riformismo. □ Bibliografia.
    
    1. Definizione di riformismo
    
    La tradizionale sequenza storica che i paesi dell'Occidente hanno
    conosciuto, in forme e tempi diversi - dallo Stato liberale, allo
    Stato democratico, allo Stato sociale -, è stata accompagnata nelle
    sue fasi cruciali e costruttive da politiche riformiste. Le riforme
    nel corso del tempo e nei vari paesi hanno caratterizzato, a volte
    in mezzo ad accesi confronti fra attori sociali, politici e
    istituzionali, le dinamiche della modernizzazione.
    
    Nell'uso corrente del termine 'riformismo', specialmente in sede
    politica e storiografica, si incontrano accezioni diverse e talora
    irriducibili. Insieme a una accezione positiva, la quale, mentre
    ripudia sia la prospettiva rivoluzionaria sia quella conservatrice o
    reazionaria, mira a promuovere il progresso della società attraverso
    riforme graduali dell'assetto politico, giuridico, economico e
    sociale, si incontra un'accezione negativa che vede nel riformismo
    l'attitudine deteriore ad adottare espedienti.
    Sempre su un piano generale, quindi, il riformismo viene inteso da
    un lato come una ideologia politica che non crede nell'efficacia dei
    cambiamenti traumatici e violenti, mentre preferisce un lento e
    progressivo cambiamento delle istituzioni e della società,
    dall'altro lato come un atteggiamento politico dettato da un
    pragmatismo di basso profilo morale, indifferente rispetto ai
    valori, se non addirittura capace di svuotare di significato le
    grandi scelte e di sconfinare nell'opportunismo.
    
    Non mancano, infine, usi diversi del termine riformismo. Si usa
    l'espressione riformismo dall'alto a proposito del dispotismo
    illuminato, ma si parla anche di riformismo liberaldemocratico, di
    riformismo cesaristico-bonapartista, o di riformismo
    socialdemocratico in riferimento a programmi e a misure di governo
    atti a produrre significativi mutamenti nell'assegnazione di risorse
    sociali e diritti di cittadinanza. Si tratta di usi parzialmente
    corretti del termine, non sempre in linea col progetto moderno
    iscritto nell'accezione positiva del riformismo, che invece
    comprende il coinvolgimento delle masse nel processo politico
    attraverso il principio della sovranità popolare. 
    
    L'accezione moderna e positiva del riformismo, quindi, rinvia "a una
    società caratterizzata non solo dal crescente protagonismo delle
    masse, in conseguenza delle fasi dello sviluppo politico designate
    dagli studiosi come costruzione della nazione, crisi di
    partecipazione e crisi di distribuzione, ma altresì da un avanzato
    processo di secolarizzazione, ovvero da una 'cultura civica' laica,
    individualistica, pluralistica, tollerante che relega a privacy fedi
    e credenze un tempo vincolanti per la sfera pubblica" (v.
    Cofrancesco, 1993, p. 737). In questo senso il riformismo appartiene
    alla sfera delle culture politiche liberaldemocratiche e
    socialdemocratiche, che rappresentano l'aspetto politico del
    processo di modernizzazione legato a sua volta
    all'industrializzazione, alla secolarizzazione e alla
    politicizzazione delle masse.
    
    2. Il riformismo dispotico illuminato
    
    Esiste tuttavia un legame di ordine filosofico che, al di là delle
    diverse situazioni storiche, si trova nelle accezioni positive del
    riformismo. Tale caratteristica comune può essere messa in luce
    proprio nell'individuazione dei principali assunti intellettuali
    relativi all'uomo e alla società che contraddistinguono le modalità
    d'azione del riformismo: il razionalismo e la fede nel progresso. Il
    razionalismo comporta il convincimento che tutte le consuetudini e
    le istituzioni possano venire legittimate solo tramite l'uso
    consapevole della ragione umana. L'idea del progresso, a sua volta,
    ripone fiducia nella perfettibilità dell'uomo, della società e delle
    istituzioni. Non a caso il manifestarsi del riformismo come
    riformismo illuminato coincide con l'affermarsi dell'illuminismo e
    con l'attività paternalisticamente sollecita dei sovrani
    settecenteschi. Sotto l'influenza delle dottrine illuministiche e
    con la diretta collaborazione o ispirazione di alcuni fra i maggiori
    intellettuali del tempo, elevati al rango di consiglieri, ministri o
    grands-commis, sovrani come Federico II di Prussia, Maria Teresa e
    Giuseppe II d'Austria, Pietro Leopoldo di Toscana, Caterina II di
    Russia e Carlo III di Napoli, progettarono o realizzarono vasti
    programmi di riforme, che introdussero elementi di razionalità e di
    modernità nei rispettivi Stati. Tali riforme miravano a sottomettere
    alla legislazione civile l'attività temporale della Chiesa, secondo
    i principî del giurisdizionalismo, a limitare i privilegi della
    nobiltà e del clero, ad affermare l'uguaglianza di tutti i sudditi
    di fronte allo Stato, concentrando tutti i poteri nelle mani del
    principe. Erano, tuttavia, riforme amministrative più che politiche,
    o politiche più che sociali (riforme fiscali, penali, provvedimenti
    per favorire la circolazione delle merci, abolizione dei dazi,
    istituzioni dei catasti, lotta contro i privilegi). Le diverse
    esperienze sottintendevano un ottimismo razionalistico basato sulla
    fiducia nella progressiva estensione dei 'lumi' e nel progresso
    tecnico-scientifico e spirituale. Non si trattava solo di correggere
    gli abusi e le degenerazioni, ma anche di andare oltre, accogliendo
    l'ispirazione dottrinaria di poter dedurre dalla formula universale
    della ragione astratta le norme per valutare la realtà, criticarla e
    trasformarla.
    
    Tutto un filone di pensatori liberali, da Hayek (v., 1952) fino a
    Hannah Arendt (v., 1958), ha mostrato come nel Settecento prenda
    corpo l''illusione' di estendere i metodi delle scienze naturali
    alle scienze sociali, con la pretesa di scoprire le leggi (naturali)
    dello sviluppo storico oppure l'ambizione di pianificare la società
    sul metro della ragione. Secondo questi pensatori l'esito storico di
    tale razionalismo, che trovò espressione nel radicalismo democratico
    e nel giacobinismo, fu l'autoritarismo e il totalitarismo (cfr. J.L.
    Talmon, The origins of totalitarian democracy, London 1952).La
    fiducia illuministica nel dispotismo riformatore si concretizzò nel
    Settecento nel quadro di profonde trasformazioni che investirono
    diversi campi, dall'economia alla cultura, dalla società allo Stato.
    Il superamento dell'economia mercantilistica con l'avvio della
    rivoluzione industriale costituisce il fenomeno più carico di
    conseguenze. Sul piano politico il passaggio dalle teorie
    dell'assolutismo al contrattualismo accompagna la transizione dal
    dispotismo arbitrario al dispotismo legale dei principi illuminati,
    fino all'emergere delle teorie liberali sulla divisione dei poteri e
    allo scoppio della Rivoluzione francese del 1789, con la quale
    prende corpo quella contrapposizione fra riforme e rivoluzione
    destinata a diventare una costante che accompagna in Europa il
    processo di democratizzazione.
    
    La Rivoluzione francese, aprendo la via alla mobilitazione e alla
    politicizzazione delle masse, fece saltare l'illusione del governo
    dei philosophes. L'illusione, cioè, di poter neutralizzare la
    politica e i conflitti di interessi e di valori contrastanti,
    mantenendo il monopolio della politica in mano ai 'sapienti' e ai
    'virtuosi', e nello stesso tempo trasformando i problemi pubblici in
    mere questioni tecnico-amministrative. La visione autoritaria della
    politica era in realtà presente sia nel riformismo dispotico
    illuminato dei principi, sia nel riformismo radicale dei giacobini.
    L'uno e l'altro metodo di governo miravano a neutralizzare dall'alto
    il conflitto proprio per l'incapacità di disciplinarlo tramite
    procedure, istituzioni e regole condivise. Il primo, evitando il
    coinvolgimento delle masse nel processo di riforma, il secondo
    trasformando il popolo concreto in una pura astrazione, una
    rappresentazione mitica della rivoluzione (v. Furet, 1978).
    
    Il riformismo dei despoti fu una risposta alla crisi dello Stato
    d'ancien régime, del quale accelerò la fine. Il riformismo radicale,
    a sua volta, utilizzando il mito della 'democrazia pura' o 'senza
    rappresentanza', lasciò ampio spazio a una oligarchia rivoluzionaria
    che in realtà pretese di decidere tutto alle spalle delle masse. 
    
    L'illusione di poter edificare la repubblica rappresentativa sulle
    rovine del Terrore giacobino e di stabilizzare la rivoluzione in una
    realtà istituzionale democratica, finì, come è noto, nel riformismo
    cesaristico di Napoleone Bonaparte, del quale Alexis de Tocqueville
    (L'ancien régime et la Révolution, 1856) sottolineò la
    continuità con la monarchia centralizzatrice di antico regime.
    "Tutto ciò che la rivoluzione ha fatto - scrisse Tocqueville - si
    sarebbe fatto, non ne dubito, senza di lei" (cfr. A. de Tocqueville,
    Frammenti storici sulla Rivoluzione francese, Milano 1943, p.
    98).Tuttavia proprio l'ambiguità del rapporto fra il riformismo dei
    despoti illuminati e il riformismo radicale si evidenzia con
    l'avvento del paradigma moderno della rivoluzione, come cesura
    radicale rispetto al passato; avvento di un'epoca totalmente diversa
    che segna la nascita dell'umanità redenta e dell''uomo nuovo'. Una
    visione della storia come processo escatologico, che si lega
    all'idea di una meta ultima da raggiungere gradualmente, per tappe
    rivoluzionarie successive. 
    
    Per questa via riformismo e rivoluzione si contrappongono e si
    incontrano. Per un lungo lasso di tempo, mentre la società viene
    solcata dai conflitti sociali del moderno sviluppo capitalistico e
    dalle ripercussioni politiche della Rivoluzione francese, strategie
    rivoluzionarie e tattiche riformistiche, mosse da istanze morali e
    filosofiche di comune derivazione illuministica, si contrappongono e
    si confondono.
    
    3. Il riformismo liberal-radicale
    
    Gli eventi rivoluzionari in Francia, l'esplosione del Terrore e poi
    il lungo periodo bellico dell'età napoleonica avevano bloccato non
    solo il riformismo illuminato nell'Europa continentale, ma anche
    ogni tentativo di riforma delle istituzioni politiche. Tuttavia i
    grandi motori della modernizzazione, l'industrializzazione e la
    secolarizzazione, generavano un dinamismo generale che dava luogo a
    conflitti sociali e di valori, corrosivi degli antichi equilibri
    politici e sociali. Le virtù tradizionali, valide nelle piccole
    società chiuse e omogenee (famiglia, villaggio, città-Stato), non
    erano più sufficienti a procurare il bene pubblico nelle grandi
    società aperte ed eterogenee. Non a caso uno dei più importanti
    sviluppi che accompagnarono la modernizzazione fu la creazione dello
    Stato-nazione. "Lo Stato-nazione fu anche un veicolo necessario
    perché si affermasse il moderno contratto al posto di vincoli
    feudali. Esso fornì il quadro di leggi e istituzioni capaci di
    sostenerlo" (v. Dahrendorf, 1988; tr. it., p. 37). La rivoluzione
    industriale e la Rivoluzione francese, sul piano sociale e su quello
    politico, esaltarono il ruolo della borghesia. Per utilizzare le
    nuove possibilità offerte dalla tecnologia e dalla divisione del
    lavoro "i primi imprenditori avevano bisogno di una forma di lavoro
    diversa dai tradizionali modelli di schiavitù. Avevano bisogno di
    lavoro salariato, e questo comportava contratti fra controparti
    uguali sul piano formale. Questo, a sua volta, presuppone diritti
    civili elementari per tutti. [...] Così, gli interessi economici e
    quelli politici della prima borghesia convergevano nella richiesta
    di un grande rinnovamento: la cittadinanza" (ibid., p. 10).
    
    In Inghilterra, il paese più avanzato nello sviluppo del
    capitalismo, questa situazione generò un movimento per le riforme
    che poté invocare a suo sostegno quel criterio dell'utilità che era
    tipico del costume inglese, ma che ora trovava nel padre
    dell''utilitarismo', Jeremy Bentham, uno dei teorici più agguerriti.
    In contrapposizione alla tradizione del giusnaturalismo, Bentham
    formulò il 'principio di utilità', secondo il quale l'unico criterio
    che doveva ispirare il buon legislatore era quello di emanare leggi
    che avessero per effetto la maggior felicità per il maggior numero
    di individui. Nella Introduction to the principles of morals and
    legislation (1789), Bentham aveva sostenuto che ogni atto era
    moralmente valutabile in rapporto alla misura di felicità che
    produceva. Persino il diritto di proprietà si giustificava solo in
    relazione alla massima felicità per il maggior numero di individui e
    quindi andava posto in relazione ad altri fini sussidiari
    (subordinate ends, buts subordonnées): sicurezza, eguaglianza,
    sussistenza e abbondanza. Spettava al legislatore trovare il giusto
    equilibrio fra questi fini in modo da favorire la massimizzazione
    del benessere e della felicità. Lo Stato doveva contribuire a
    orientare le scelte individuali (il "calcolo edonistico"
    individuale) verso il benessere comune. In questo modo si apriva un
    varco all'azione 'interventista' del governo ai fini della
    massimizzazione della felicità comune. Per realizzare questa
    politica occorreva liberare le istituzioni dagli interessi di parte
    e fondare lo Stato su principî democratici, agendo in base
    all'orientamento della maggioranza. In questo ambito va collocato
    l'uso benthamiano del termine 'reformer', nel senso di gradualismo
    teso ad "aumentare la somma totale del benessere degli individui che
    la [comunità] compongono".
    
    In Inghilterra l'incontro dell'utilitarismo con il movimento per la
    riforma radicale dell'ordinamento politico ed elettorale aprì la via
    a un liberalismo interventista e riformatore. Grazie a questo
    movimento, mentre in Francia scoppiava un'altra rivoluzione (luglio
    1830), le istituzioni inglesi trovavano in se stesse, e senza
    rotture rivoluzionarie, la forza di riformarsi e di adeguarsi alla
    realtà. Nel 1832, quando i tories più illuminati si accostarono alla
    linea dei whigs, la nuova legge elettorale (Reform act) fu approvata
    e finalmente, dopo il vasto movimento messo in piedi dai radicali, i
    rotten boroughs (borghi putridi) furono cancellati e i seggi furono
    ridistribuiti a favore delle nuove città industriali e degli
    interessi sociali emergenti. La vecchia Inghilterra
    agrario-mercantile cedeva spazio politico alla nuova realtà
    industriale. Da quel momento si andò consolidando in Inghilterra
    quel sistema politico 'bipartitico' destinato a rendere fisiologico
    il processo riformistico come continuo adeguamento delle istituzioni
    e delle leggi alla trasformazione della società, secondo la logica
    dell'alternanza dei due partiti in competizione e secondo la
    pressione dell'opinione pubblica.
    
    4. Il protoriformismo: associazionismo e democrazia
    
    In questo contesto anche l'idea socialista che nel continente si
    manifesta come utopia, ipotizzando modelli comunistici ancora legati
    a una visione prevalentemente agricola della società, in Inghilterra
    diventa tentativo empirico e concreto di riforma sociale. 
    
    Robert Owen, un industriale legato a Bentham, non si limitò a
    chiedere vaste riforme al governo per fronteggiare la crisi
    economica del 1816, ma passò alla realizzazione di stabilimenti
    industriali in grado di migliorare le condizioni dei lavoratori e di
    distribuire ad essi parte degli utili d'azienda. All'impresa
    capitalistica, fondata sul profitto, egli contrappose la
    cooperazione quale modello alternativo per la produzione e la
    distribuzione dei beni. Gli stessi operai si organizzarono e
    rivendicarono il diritto di associazione. Nel 1834 sorsero le Grand
    national consolidated trade unions e nel 1838 prese corpo il
    cartismo, un movimento in cui lavoratori ed esponenti radicali
    tentarono di mobilitare la classe operaia e l'opinione pubblica a
    favore di un vasto piano di riforme: suffragio universale maschile,
    voto segreto, uguaglianza dei collegi elettorali, indennità ai
    deputati, abolizione del requisito del censo per l'eleggibilità,
    elezioni annuali. Il movimento, sebbene diviso fra tattica
    riformistica mirante a uno sbocco parlamentare e tattica
    rivoluzionaria extraparlamentare, ebbe un vasto consenso, ma nelle
    sue espressioni politiche fu riassorbito nella logica riformistica
    del sistema, che, fra l'altro, portò alla protezione del lavoro
    infantile, alla riduzione dell'orario della giornata lavorativa e
    all'abrogazione delle Corn laws, che avevano mantenuto elevato il
    prezzo dei cereali e, quindi, del pane. Queste e altre riforme,
    unitamente al pragmatismo che animava la cultura politica inglese,
    fecero sì che l'isola restasse ancora una volta immune dallo spettro
    rivoluzionario che sconvolse la Francia e l'Europa continentale,
    dove le idee di nazione e di progresso avevano alimentato i
    movimenti dell'opinione pubblica e le aspirazioni democratiche,
    senza, peraltro, trovare uno sbocco politico istituzionale. 
    
    In Francia la politica del just-milieu, affermatasi con la
    Rivoluzione del 1830 e con la definitiva stabilizzazione della
    monarchia parlamentare e della sovranità della 'nazione', aveva
    portato alla riforma elettorale, ma dal sistema venivano ancora
    esclusi i ceti medi e popolari. Nella delicata fase di crescita
    della società industriale tutta una serie di proposte di riforma
    economica e politica della società si collegavano all'idea della
    democrazia e della repubblica, passando attraverso lo strumento
    dell'associazione teorizzata da Saint-Simon. Gli stessi seguaci di
    Fourier, sostenitore di una "réforme générale et non partielle"
    dell'intero sistema economico e sociale, polemizzavano con i
    repubblicani, affermando l'indivisibilità dei diritti civili e
    politici dai diritti sociali.L'attenzione si concentrava sulla
    società e sulle forme in grado di garantire l'osmosi tra Stato e
    società richiesta dalla democrazia. Il problema era quello di
    trovare una corrispondenza reale tra la volontà del demos e la
    volontà dei rappresentanti, e quindi, come offrire al popolo la
    possibilità di esprimersi e di partecipare realmente alla formazione
    della volontà generale. Il diffondersi dell'associazionismo
    consentiva di risolvere questo problema, superando il particolarismo
    e l'atomismo della teoria liberale, senza correre il rischio di
    annullare le specificità individuali. 
    
    L'associazionismo si presentava, infatti, non solo come uno
    strumento di solidarietà e di difesa di interessi che solo così
    potevano essere tutelati, ma anche come strumento di formazione di
    legami sociali e di maturazione del costume democratico. Philippe
    Buchez, Jean Reynard, Louis Blanc e Pierre Leroux, repubblicani e
    socialisti, erano tutti alla ricerca di una democrazia in grado di
    realizzare l'uguaglianza tramite l'associazione, come strumento
    capace di sostituire l'egoismo che animava la società del
    capitalismo concorrenziale con un nuovo spirito di solidarietà. La
    solidarietà, che legava i cittadini di uno Stato-nazione
    democratico, poteva trasformare i conflitti irriducibili della
    società individualistica ("la guerre de tous contre tous" di cui
    parlava Blanc) in contrasti di interessi, idee, sentimenti
    ricomponibili attraverso il confronto democratico.
    
    In Francia la pregiudiziale repubblicana poneva questo movimento
    fuori dal quadro istituzionale della Monarchia di luglio, ma non c'è
    dubbio che nel periodo 1848-1871 lo sviluppo democratico della
    società europea fu legato anche all'azione dell'associazionismo (v.
    Mastellone, 1986, pp. 101-172). Tocqueville, nel libro primo della Démocratie
      en Amerique (1835) si era soffermato sull'associazionismo
    negli Stati Uniti ed era ritornato sul tema nel libro secondo
    (1840). 
    
    Sull'associazionismo come via autonoma alla riforma della società si
    potevano incontrare sia i sostenitori di una democrazia riformatrice
    e socialista, sia i liberali più aperti alla democrazia. Un
    liberale-radicale, come John Stuart Mill, diffidente verso il
    socialismo, pur non escludendo in futuro la possibilità della
    realizzazione pratica dei sistemi collettivisti, nei Principles
      of political economy (1848) indicava come concreto obiettivo
    riformistico "non la sovvenzione del sistema di proprietà
    individuale, ma il suo miglioramento, e la piena partecipazione di
    ogni membro della comunità ai suoi benefici". 
    
    Persino Jean-Baptiste Andre Godin, ex operaio, poi fondatore del
    Familistére di Guise e deputato all'Assemblea Nazionale di
    Versailles, mentre a Parigi assediata prendeva corpo l'esperimento
    della Commune, arrivò a sostenere (Solutiones sociales,
    1871), che per ben due volte nel 1848 e nel 1871 la violenza della
    rivoluzione aveva interrotto la marcia armoniosa e progressiva
    dell'associazione. 
    
    L'idea del progresso, sostenuta dal positivismo, suggeriva risposte
    concrete per i problemi del governo e della vita sociale. Comte
    poneva alla sommità delle scienze la sociologia, che analizzava
    l'ordine sociale, la "statica", e indicava nel progresso la
    "dinamica" del corpo sociale. Applicando i principî scientifici alla
    politica si potevano assicurare le condizioni per l'evoluzione della
    società, superando le diseguaglianze sociali in vista del comune
    'progredire'. 
    
    Con il positivismo inglese di Herbert Spencer l'idea di evoluzione
    di Darwin trapassò dall'ambito biologico a quello
    dell'organizzazione sociale. Tocqueville come John Stuart Mill si
    era reso conto che, sotto la spinta del 'progresso', le grandi
    trasformazioni sociali e il processo di politicizzazione delle
    masse, portavano irresistibilmente verso la democrazia. Le riforme
    diventavano la via obbligata per uno sviluppo graduale delle
    istituzioni liberali, tale da non sacrificare all'uguaglianza la
    libertà individuale. La democrazia come uguaglianza delle
    condizioni, dei diritti e non dei beni, costituiva il cardine di una
    società nella quale tutti erano posti in grado di esprimere con il
    voto la loro opinione e nella quale la più ampia libertà di
    associazione costituiva una garanzia per le classi più deboli. 
    
    John Stuart Mill per respingere il dispotismo della società sugli
    individui, predicato dai socialisti, sosteneva l'esigenza
    dell'allargamento del suffragio ai ceti sociali fino ad allora
    esclusi, e auspicava l'intervento dello Stato per regolare i
    rapporti sociali, per migliorare le condizioni di vita delle masse e
    impedirne lo sfruttamento (On liberty, 1859, e Considerations on
    representative government, 1861).
    
    In questo clima, già profondamente segnato dalle lacerazioni della
    rivoluzione industriale, dallo sfruttamento della classe operaia e
    dalla separazione tra individuo e società, le riforme diventavano
    una via obbligata per i governi.
    
    L'Inghilterra di Gladstone vide la realizzazione di una serie di
    riforme che caratterizzarono l'età vittoriana. Nel 1867 il Reform
    bill concludeva una stagione di lotte del movimento operaio dopo la
    costituzione della Reform league del 1865. John Bright, che aveva
    guidato un ampio fronte radicale e democratico a favore della
    riforma elettorale, parlò di "salto verso la luce". Nel 1871 si
    arrivò alla legalizzazione delle Trade Unions, mentre altre riforme
    affrontavano questioni cruciali come la scuola e l'esercito.
    
    5. Il riformismo cesaristico e il riformismo conservatore o
    dall'alto
    
    Mentre in Inghilterra le riforme avevano garantito la transizione
    graduale dallo Stato liberale allo Stato democratico, in Francia il
    tentativo di imporre il processo di democratizzazione per via
    rivoluzionaria (1848) portò all'instaurazione di un nuovo regime
    cesaristico: il Secondo Impero di Napoleone III. Nel caso francese
    il presidente-Cesare attraverso una forma di democrazia
    plebiscitaria giustificava il proprio dominio con la legittimazione
    derivante dal consenso direttamente espresso dalle masse. In questo
    modo il suffragio universale, concesso per l'elezione della Camera,
    si accompagnò allo svuotamento dei poteri della rappresentanza,
    mentre l'esecutivo venne strettamente vincolato dalla volontà
    imperiale e il legislativo fu affidato ai 'tecnici' del Consiglio di
    Stato. Ancora una volta si tentava di neutralizzare la politica e i
    suoi conflitti spoliticizzando i problemi pubblici e trasformandoli
    in questioni tecnico-amministrative. Il cosiddetto 'cesarismo
    sociale' di Napoleone III, la sua sollecitudine per le masse, si
    tradusse in misure a favore dell'occupazione, in tolleranza attiva
    delle società di mutuo soccorso e dei sindacati operai e nel
    richiamo continuo alla solidarietà sociale nel superiore interesse
    della grandezza della nazione. Tuttavia, anche se Napoleone III
    concesse il diritto di sciopero nel 1864, i sindacati furono
    legalizzati soltanto vent'anni dopo, nel 1884. Il consenso di massa
    fu imposto d'altra parte anche con il controllo sulla stampa e la
    repressione dell'opposizione.
    
    Il riformismo conservatore, come quello del governo di Disraeli in
    Inghilterra e di Bismarck in Germania, sorgeva, anch'esso, dalla
    preoccupazione di salvaguardare una costruzione statuale forte e
    strutturata, messa in pericolo dalle crescenti rivendicazioni
    politiche e sociali delle masse. Il 'conservatorismo progressivo' di
    Disraeli che portò alla riforma elettorale del 1867, alla
    legislazione dello sciopero (1875), all'ampliamento delle competenze
    comunali, all'istruzione primaria obbligatoria, ecc., mirava a
    interessare le masse agli ambiziosi progetti preparati dalle élites
    di governo, ma provocava una inevitabile tensione fra diritto di
    cittadinanza e sistema di classe, fra entitlements e provisions, nel
    senso inteso da Ralf Dahrendorf. "Durante il governo di Bismarck,
    gli entitlements politici rimasero - scrive Dahrendorf -, a essere
    ottimisti, stabili e molto limitati; esistevano leggi che proibivano
    le organizzazioni socialiste. Allo stesso tempo, alle classi
    lavoratrici venivano dati certi entitlements sociali. Questi erano
    usati per controbilanciare gli altri, ed entrambe le cose erano
    nell'interesse di una classe dominante conservatrice, o meglio
    parafeudale" (v. Dahrendorf, 1988; tr. it., p. 63). La protezione
    del lavoro nazionale, che portò precocemente in Germania al varo di
    importanti riforme sociali, a partire dalle assicurazioni sociali
    obbligatorie degli operai dell'industria contro le malattie (1883),
    gli infortuni (1884), l'invalidità e la vecchiaia (1889), tramite
    l'intervento anche coattivo dello Stato, si inseriva nel quadro
    della più ampia strategia 'social-protezionistica' di difesa degli
    assetti proprietari esistenti, di contenimento e controllo delle
    conseguenze economiche e sociali più acute dell'industrializzazione
    e della depressione iniziata nel 1873.
    
    Il tentativo di sostituire l'assistenzialismo e le riforme dall'alto
    all'allargamento dei diritti di cittadinanza si rivelò, in generale,
    un espediente. La cittadinanza si dimostrò una forza più potente e
    il paternalismo assistenziale si rivelò incapace di assorbire i
    conflitti di classe. La risposta liberale nel suo antipaternalismo
    era la più idonea alla libera espressione della conflittualità
    sociale. Tuttavia per lo Stato liberale ottocentesco si poneva la
    necessità di aprirsi alla democrazia attraverso le riforme
    necessarie al buon funzionamento del sistema, dalla libertà di
    riunione e associazione alla libera organizzazione di gruppi
    d'interesse, di sindacati, di partiti, fino alla massima estensione
    dei diritti politici e alle riforme sociali. Proprio quando si
    trattò di passare dai diritti civili a quelli politici e poi da
    questi ai diritti sociali, i liberali si divisero e i nuovi partiti
    degli entitlements si affacciarono sulla scena politica, prima i
    democratici, poi i socialisti.
    
    6. Socialismo e riformismo: l'antitesi ambigua fra riforme e
    rivoluzione
    
    "Per quante definizioni si possano dare del socialismo del secolo
    scorso (ne sono state date centinaia), c'è almeno un criterio
    distintivo costante e determinante per distinguere una dottrina
    socialista da tutte le altre: la critica della proprietà privata
    come fonte principale di 'diseguaglianza fra gli uomini' (per
    riprendere il noto discorso di Rousseau) e la sua eliminazione
    totale o parziale come progetto di società futura" (v. Bobbio, 1988,
    p. 56). Da qui la critica alla democrazia formale che accomuna, per
    esempio, i primi comunisti come Babeuf e Buonarroti con il padre del
    socialismo scientifico Karl Marx, che proprio nel fallimento della
    Rivoluzione francese del 1848 vide la conferma delle tesi, a cui era
    giunto da alcuni anni, del riformismo come ipocrisia. 
    
    Nella Rivoluzione del 1848 andarono in frantumi non solo i progetti
    di 'solidarietà sociale' e i sentimenti di 'fraternità' che tanta
    parte avevano avuto nelle costruzioni teoriche del socialismo
    utopistico, ma anche le speranze riposte nella conquista del
    suffragio universale e nella democrazia. "Il suffragio universale -
    scrisse Marx nelle Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 -non
    era la bacchetta magica che pensavano i valentuomini repubblicani e
    semmai l'unico suo merito era quello di scatenare la lotta di classe
    [...] di spingere d'un colpo tutte le frazioni delle classi
    sfruttatrici alla sommità dello Stato e così di strappar loro la
    maschera dell'ipocrisia". La terribile 'disfatta di giugno' (1848)
    venne usata da Marx per dimostrare che il riformismo non poteva dare
    nessuno dei risultati benefici e perfino salvifici fino allora
    immaginati e sperati, anzi restava una pura astrazione fino a quando
    "il comunismo come soppressione positiva della proprietà privata"
    non avesse fornito "la vera risoluzione dell'antagonismo tra la
    natura e l'uomo, tra l'uomo e l'uomo, la vera risoluzione della
    contesa tra l'esistenza e l'essenza, tra l'oggettivazione e
    l'autoaffermazione, tra la libertà e la necessità, tra l'individuo e
    il genere" (cfr. K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del
      1844, Torino 1949, pp. 121-122). L'alienazione dell'uomo dalle
    cose e da se stesso, e quindi la sua perdita di 'socialità', erano
    il prodotto della proprietà privata e del capitalismo. Queste
    contraddizioni potevano essere eliminate solo con un'iniziativa
    rivoluzionaria, che lo stesso sviluppo del capitalismo, fino alle
    sue estreme conseguenze, rendeva ineluttabile.
    
    Nel socialismo scientifico di Marx ed Engels figurava una profonda
    contraddizione che consisteva nel tentativo di ridurre i problemi e
    i conflitti della modernizzazione e della società industriale, che
    discendeva dall'illuminismo e dalla razionalità scientifica, entro
    un modello 'comunitario' e 'organicistico' di società. 
    
    L'altro punto critico di inconciliabilità era legato alla previsione
    che nel corso storico, fatale e inarrestabile, del capitalismo si
    sarebbe arrivati alla scissione della società in due estremi: da una
    parte un ristretto pugno di capitalisti e dall'altra la stragrande
    maggioranza della società, sempre più proletarizzata e sempre più
    immiserita. Da qui l'esigenza inevitabile del cozzo di queste due
    classi da risolvere con la violenza rivoluzionaria.Via via che il
    marxismo si affermava nel movimento operaio e nel socialismo,
    l'attenzione si concentrava sempre più sulla rottura rivoluzionaria
    propugnata, sebbene in una prospettiva libertaria e volontaristica,
    anche dagli anarchici. 
    
    Tuttavia proprio dal seno dell'anarchismo e del socialismo marxista,
    che aveva fornito alla rivoluzione la sistemazione teorica più
    coerente con lo sviluppo del capitalismo e l'estensione del
    conflitto sociale, germinarono atteggiamenti riformistici. Il ciclo
    espansivo dell'economia europea centro-occidentale, iniziato dopo il
    1848, nonostante le fasi depressive, proseguì per tutto il secolo,
    tanto che tra il 1870 e il 1900 la produzione industriale
    quadruplicò in Germania, raddoppiò in Francia e crebbe del cinquanta
    per cento in Inghilterra. Tuttavia il capitalismo si concentrava ma
    non crollava; il proletariato cresceva ma i ceti medi solo in parte
    venivano proletarizzati, anzi nuovi ceti medi si formavano e
    crescevano. Il proletariato si organizzava nei primi sindacati e i
    partiti operai e socialisti se ne avvantaggiavano, lottando per i
    miglioramenti economici e per il riconoscimento dei diritti politici
    e di associazione. Al posto della rivoluzione, che si allontanava,
    si sviluppavano gli argomenti tipici del riformismo. Si ponevano,
    cioè, le condizioni oggettive per un riesame critico delle teorie e
    delle previsioni di Marx.
    
    Fu lo stesso Engels nell'Introduzione alla ristampa delle Lotte
      di classe in Francia dal 1848 al 1850 a valutare positivamente
    il progressivo aumento dei consensi elettorali ottenuti dal partito
    socialdemocratico tedesco dopo l'introduzione del suffragio
    universale voluto da Bismarck. "Avanzando di questo passo - scrisse
    Engels - per la fine del secolo avremo conquistato la maggior parte
    dei ceti medi della società, dei piccoli borghesi come dei piccoli
    contadini e saremo diventati nel paese la forza decisiva, alla quale
    tutte le altre dovranno richiamarsi, lo vogliano o meno [...] Noi, i
    'rivoluzionari', i 'sovversivi', prosperiamo molto meglio con i
    mezzi legali che con i mezzi illegali e con la sommossa".
    
    Negli ultimi decenni dell'Ottocento si manifestò una discrasia
    sempre più visibile fra teoria e prassi all'interno dei maggiori
    partiti socialisti europei. All'intransigenza teorica e al costante
    richiamo all'ortodossia marxista si accompagnò una prassi sempre più
    flessibile in rapporto al capitalismo e alla democrazia liberale.
    Una prassi che mirava a migliorare e riformare, anche radicalmente,
    ma non a distruggere l'ordinamento esistente e addirittura a
    riconoscerne i valori di fondo. Si cominciò a delineare quel
    dualismo fra 'programma minimo' e 'programma massimo', che di fatto
    ingabbiò il movimento socialista continentale in una logica
    immobilista, che spinse Max Weber a definire la socialdemocrazia
    tedesca un "gigante organizzativo" e un "nano politico", incapace di
    "integrarsi" e di assolvere una funzione nazionale di governo (cfr.
    M. Weber, Der Nationalstaat und die Volkswirtschaftspolitik,
    1895). 
    
    La preoccupazione dominante della dirigenza socialista era
    l'autoconservazione, l'accrescimento continuo dell'organizzazione e
    la conservazione della purezza ideologica in vista della 'battaglia
    finale'. La teoria marxista fungeva da puro fattore di "integrazione
    interna" (v. Ranieri e Minopoli, 1993, p. 66). Il profetismo
    catastrofico del marxismo di Erfurt fungeva da alibi alla chiusura
    prussiana delle classi dirigenti da un lato, e dall'altro assolveva
    la SPD da ogni responsabilità politica di governo. Come disse nel
    1904 Jean Jaurès in polemica con Bebel, il "rivoluzionarismo del
    partito tedesco" era di "parole e non di fatti".
    
    Le acute analisi di Max Weber si incrociarono con il revisionismo di
    Eduard Bernstein (v. Salvadori, 1981, pp. 316-322). Questi, venuto a
    diretto contatto nel suo lungo soggiorno inglese (1888-1901) con una
    cultura dichiaratamente gradualista e social-riformista, diede forma
    compiuta alla sua radicale revisione del marxismo, pubblicando sulla
    "Neue Zeit", tra il 1895 e il 1898, Die Voraussetzungen des
    Sozialismus und die Aufgaben der Sozialdemokratie (I presupposti del
    socialismo e i compiti della socialdemocrazia) e Wie ist
    wissenschaftlicher Sozialismus möglich? (È possibile il socialismo
    scientifico?), il saggio destinato a diventare la Bibbia del
    revisionismo.Il contatto con gli ambienti neokantiani aveva già
    orientato Bernstein, uno dei due pupilli del vecchio Engels, insieme
    con Kautsky, verso la definizione delle basi etiche e
    volontaristiche del socialismo di contro alle pretese scientifiche e
    deterministiche dell'ortodossia marxista, riaffermata nel programma
    di Erfurt.
    
    Le stesse critiche di Bernstein alle posizioni dello
    Staatssozialismus, cioè del riformismo come progressiva estensione
    del controllo statale nell'economia e nella politica sociale, erano
    diverse da quelle che gli ortodossi Kautsky, Bebel e Liebknecht
    utilizzarono in polemica con il leader del riformismo pratico e del
    gradualismo legalitario, il bavarese von Vollmar. Quelle di
    Bernstein erano le critiche di un riformismo di impronta liberale,
    avverso allo statalismo e alle nazionalizzazioni. Un riformismo
    socialista di impronta liberale, che si rafforzò, con il soggiorno
    inglese, nel contatto con una cultura empiristica e antidogmatica,
    tradizionalmente avversa alle sistemazioni ideologiche totalizzanti
    della cultura continentale. Si ponevano, così, le premesse di quella
    riflessione intorno al rapporto fra socialismo e liberalismo, che
    costituisce il dato più originale del revisionismo di Bernstein in
    vista di un socialismo fondato sull'"uguaglianza delle possibilità".
    In antitesi all'ideologia ufficiale, che aveva trasformato il
    socialismo in una religione terrena, il socialismo di Bernstein
    coincideva con il processo graduale di estensione dei diritti e di
    introduzione di elementi di regolazione sociale.
    
    Il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli operai
    passava non per la garanzia 'scientifica' della rivoluzione, ma
    attraverso una politica delle alleanze, l'ampliamento delle libertà
    formali, assicurate dalle istituzioni democratiche, e la continua
    correzione dell'assetto politico-sociale con elementi di socialismo.
    Lo scopo finale del socialismo - secondo Bernstein - "non è nulla.
    Il movimento è tutto". Il revisionismo bernsteiniano implicava il
    superamento dell'ispirazione classista della lotta dei lavoratori,
    che, invece, dovevano porsi all'avanguardia del movimento
    democratico e progressivo inteso a riformare la società borghese e a
    realizzare le promesse dell''89, abbandonando i miti palingenetici.
    "La democrazia - scrisse Bernstein nei Presupposti - è al tempo
    stesso mezzo e scopo. È il mezzo della lotta per il socialismo ed è
    la forma della realizzazione del socialismo".
    
    Bernstein fu accusato di abbandonare lo "scopo finale" e il
    revisionismo fu attaccato da tutto il fronte socialdemocratico
    europeo, da Kautsky a Turati, dalla Luxemburg ai menscevichi russi.
    'Revisionismo' e 'riformismo' si muovevano su piani diversi, l'uno
    teorico e l'altro pratico, ma mentre tutti i revisionisti erano
    riformisti, non tutti i riformisti erano revisionisti. Quello che
    prevalse fu un "riformismo dei mezzi o strumentale" (v. Settembrini,
    1982), nel quale, al di là della prassi riformista, restava l'idea
    della conquista dello Stato come preludio alla palingenesi totale.
    Tanto che i seguaci di Turati, il leader del riformismo socialista
    italiano, potevano dirsi "riformisti perché rivoluzionari e
    rivoluzionari perché riformisti" (1902). Il socialismo nella sua
    valenza riformista fu caratterizzato nei maggiori paesi europei,
    tranne in Inghilterra, da una prassi forte fondata su una teoria
    debole. Quei socialisti che cercarono di trovare una coerenza fra
    revisionismo e riformismo, come il francese Alexandre Millerand,
    autore de Le socialisme reformiste (1903), e l'italiano Ivanoe
    Bonomi, autore de Le vie nuove del socialismo (1906), furono bollati
    con l'accusa di 'ministerialismo'.
    
    7. Dalla 'Progressive era' al 'New deal'
    
    I problemi creati dal processo di concentrazione industriale e
    dall'urbanesimo fra la fine dell'Ottocento e i primi decenni del
    Novecento provocarono anche negli Stati Uniti un forte movimento
    politico riformatore di matrice liberale e liberista, che originò
    una legislazione antimonopolistica (Sherman antitrust act, 1890 e
    Clayton antitrust act, 1914). Gli enormi dislivelli di ricchezza, il
    degrado dei quartieri urbani poveri, le prevaricazioni degli
    apparati di partito, furono percepiti dai progressisti come fenomeni
    degenerativi dei tradizionali ideali americani di democrazia
    politica ed economica. Per restaurare il "governo del popolo" erano
    necessarie profonde riforme politiche e fra queste l'elezione
    diretta e popolare dei senatori, sancita nel 1913 con il XVII
    Emendamento alla Costituzione. 
    
    Durante la 'Progressive era', il periodo fra la fine dell'Ottocento
    e l'inizio del Novecento, in parte coincidente con la presidenza di
    Theodore Roosevelt, si registrarono profonde riforme a livello di
    amministrazione urbana e di singoli Stati, che toccarono anche la
    sfera sociale con la riduzione degli orari di lavoro, il salario
    minimo per le donne lavoratrici, le assicurazioni contro gli
    incidenti sul lavoro, l'abolizione del lavoro minorile. Prima dello
    scoppio della guerra mondiale, sembrava che nella vecchia Europa e
    negli Stati Uniti, sebbene in forme e modalità diverse, il
    riformismo s'imponesse come politica obbligata per contenere
    nell'alveo della democrazia le spinte e i conflitti di una società
    di massa, caratterizzata da grandi partiti politici, sindacati forti
    e agguerriti, organi di informazione pronti a recepire i bisogni
    delle masse. La politica delle riforme, nella loro doppia valenza di
    ampliamento dei diritti di cittadinanza e di orientamento regolatore
    delle dinamiche produttive e sociali, ebbe un'importanza centrale
    nel processo che conduceva le nazioni industriali dapprima al
    riconoscimento dei diritti civili e politici, e quindi al loro
    completamento attraverso certi diritti sociali. La guerra e le sue
    conseguenze - a partire dalla Rivoluzione d'ottobre -, il fascismo e
    poi il nazismo, alimentarono in Europa una forte pregiudiziale
    antiriformista. La spirale della violenza e del dispotismo degli
    opposti estremismi del comunismo e del fascismo, soffocò la
    democrazia in tutti i paesi dove aveva fragili basi e minore era
    stata la funzione di integrazione nazionale dei partiti socialisti.
    La critica al sistema liberaldemocratico e al riformismo sfociò nei
    totalitarismi, che hanno caratterizzato questo secolo. La crisi
    della socialdemocrazia accentuò la critica al riformismo e rilanciò
    il progetto rivoluzionario. Lenin bollò il riformismo come "una
    tentazione, nel movimento dei lavoratori, ostile al marxismo
    rivoluzionario e agli interessi del proletariato". Nella spirale
    della violenza e degli opposti estremismi del comunismo e del
    nazismo fu inghiottita anche l'ipotesi del riformismo statalista
    weimariano elaborato dal socialdemocratico Rudolf Wissel e da Rudolf
    Hilferding, teorico dell'austromarxismo e del 'capitalismo
    organizzato'.
    
    Negli anni venti e trenta anche l'ultima espressione di un
    riformismo statalista, che aveva cercato di identificare la
    socializzazione con la pianificazione statale piuttosto che con la
    democratizzazione, finì nella crisi della Repubblica di Weimar,
    lasciando aperta la via al totalitarismo nazista. Il 'socialismo
    liberale' (1929), antidirigista e intimamente democratico, di un
    antifascista come Carlo Rosselli poteva apparire, ormai, come
    un'eresia fondata sull'incontro tra gli ideali del socialismo e
    quelli propri della tradizione liberale, "dell'attuazione
    progressiva dell'idea di libertà e di giustizia".
    
    Solo negli Stati Uniti, davanti alla catastrofe del crollo della
    Borsa di New York nel 1929 e alla grave crisi depressiva che investì
    il capitalismo, il riformismo fu ampiamente assunto nella teoria
    economica e nella politica del New deal, quale elemento propulsivo e
    correttivo all'interno del sistema. Sulla linea già tracciata dagli
    economisti Thorstein Veblen e John Rogers Commons, che avevano
    criticato la pericolosa sfasatura fra i reali bisogni sociali e la
    sfrenata rincorsa al profitto, nonché con l'avallo scientifico
    offerto dalle indicazioni dell'economista inglese John Maynard
    Keynes, che si rivolse al neoeletto presidente degli Stati Uniti,
    Franklin Delano Roosevelt, con una Lettera aperta, si venne
    concretamente a manifestare l'idea di uno Stato attivamente
    riformatore e apportatore di benessere (Welfare State). Un gruppo di
    tecnici di valore (Brain trust) venne chiamato a elaborare un
    programma volto a sostituire l'indiscriminato e selvaggio liberismo
    con un sistema misto, dove lo Stato era spinto a svolgere un ruolo
    di sostegno e di intervento sul piano economico e sociale per
    regolare le dinamiche produttive in modo da riversarne i benefici
    anche sui ceti meno abbienti. Ancora una volta il riformismo si
    alimentava dell'ottimismo e della fiducia nel progresso e nella
    partecipazione, libera e consapevole, dei cittadini alle decisioni
    collettive attraverso le regole e le istituzioni della democrazia.
    Si formò, allora, mentre l'Europa era dominata dal confronto-scontro
    fra sistemi totalitari, il moderno paradigma del riformismo,
    incentrato sulla combinazione della logica keynesiana, basata sulla
    crescita della domanda interna, sul pieno utilizzo delle risorse e
    sull'intervento attivo della spesa pubblica, con i principî
    redistributivi e solidaristici del Welfare e la piena occupazione.
    
    8. Dal Welfare State al modello laburista
    
    Tuttavia anche in Europa i difficili problemi della riconversione
    dopo la prima guerra mondiale e ancor di più i traumi provocati
    dalla grande crisi del 1929 avevano dimostrato tutta l'insufficienza
    delle politiche tradizionali e la drammaticità sociale e politica
    degli effetti della crisi. L'intervento dello Stato sembrava lo
    strumento più idoneo per orientare le strategie dello sviluppo
    economico e per la realizzazione di un regime di pieno impiego della
    manodopera. Le politiche di pianificazione adottate dallo Stato
    sovietico e dallo statalismo autarchico dei regimi fascisti
    costituivano la variante totalitaria alle teorie adottate in alcuni
    paesi europei per affrontare la grande depressione. Solo in Svezia
    la socialdemocrazia cercò di coniugare una politica economica di
    chiara ispirazione keynesiana con una strategia riformatrice, mentre
    in Inghilterra si realizzò una certa convergenza fra le stesse
    teorie keynesiane e la tradizione laburista. Più contrastata fu la
    politica delle riforme di struttura proposta in Francia dai
    socialisti e dai comunisti nel 1936 dopo il successo del Fronte
    popolare; mentre in Belgio, il partito operaio guidato da De Man e
    Spaak, vide nel planismo, nella socializzazione delle industrie
    monopolistiche e delle banche, la chiave di volta per superare, da
    un lato, l'inerzia del riformismo tradizionale, e per giungere,
    dall'altro, a una revisione del marxismo. Il riformismo degli anni
    tra le due guerre si presentava in Europa quantomai eterogeneo e
    contraddittorio, non solo in relazione alle diverse esperienze
    nazionali, ma anche ai contrasti ideologici fra le diverse
    componenti della sinistra, dove i comunisti, pur avendo abbandonato
    la teoria del socialfascismo, s'erano trovati ad abbracciare, dopo
    la svolta del Comintern del 1934-1935, la politica dei Fronti
    popolari per motivi tattici e senza una reale convinzione
    riformista.
    
    Solo nel dopoguerra in Europa si cominciarono ad adottare politiche
    di programmazione economica e di estensione delle funzioni dello
    Stato nel quadro di un processo di estesa democratizzazione politica
    e di politiche di sviluppo. Il caso inglese si presentò, allora,
    come un punto di riferimento centrale del socialismo riformista
    europeo nel periodo della ricostruzione. I laburisti, saliti al
    potere nel 1945, ripresero i progetti della commissione Beveridge
    del 1942 per la creazione di un sistema di assicurazioni sociali e
    di un servizio collettivo di assistenza sanitaria. Il risoluto
    programma di riforme sociali, che ebbe come protagonista il premier
    Clement Attlee e il ministro della Sanità Axeurin Bevan, nel
    contesto di una politica che si richiamava alla teoria keynesiana
    della complementarità fra misure monetarie e misure fiscali, pose le
    fondamenta di un moderno Stato sociale. A questo modello si
    ispirarono, sia pure con diverse sfumature, alcuni partiti
    socialdemocratici nordeuropei a capo di governi monocolori o di
    coalizione. In particolare in Svezia si arrivò alla definitiva
    istituzionalizzazione del principio della concertazione fra capitale
    e lavoro in materia di formazione professionale e di condizioni di
    lavoro, e alla graduale estensione dell'intervento pubblico nei
    settori della comunicazione e delle risorse naturali. Anche in
    Norvegia e Danimarca i socialdemocratici adottarono politiche di
    perequazione fiscale e di costruzione di moderni sistemi di
    sicurezza sociale.
    
    Tutte le iniziative riformatrici e i progetti di programmazione
    formulati dai laburisti e dalle socialdemocrazie dell'Europa
    nordoccidentale, diventate ormai forze di riferimento anche dei ceti
    medi, obbedivano a modelli empirici e a criteri funzionali, come del
    resto avvenne in Olanda sotto l'influenza delle scelte socialiste
    ispirate agli orientamenti pragmatici della scuola di Tinbergen.
    
    A questo modello si richiamò anche la nuova socialdemocrazia
    tedesca, specialmente dopo il congresso di Bad Godesberg (1959), che
    portò all'abbandono esplicito di ogni legame con la tradizione
    marxista, ponendo la socialdemocrazia tedesca quale punto di
    riferimento riformatore nell'ambito del sistema capitalista. Ormai i
    socialdemocratici si ponevano il compito di controbilanciare
    l'economia di mercato, rinunciando a sostituirla e puntando, invece,
    alla difesa e allo sviluppo delle garanzie dello Stato sociale e
    della democrazia secondo il modello del Welfare State.
    
    Un modello nel quale si ritrovavano tutti i socialdemocratici che
    avevano abbandonato il marxismo, ma anche tutti i liberali che si
    riconoscevano nella tradizione per cui chiunque voleva uno Stato
    compiutamente liberale non poteva esimersi dal metter mano a riforme
    sociali. Una tradizione liberale che si era irrobustita teoricamente
    grazie alla critica del totalitarismo, a partire da pensatori come
    Karl Popper, teorico della "società aperta" (cfr. The open
      society and its enemies, London 1945), per il quale solo la
    democrazia può rendere efficace il controllo sui governanti e
    rendere possibile l'attuazione di riforme senza violenza.
    Nel secondo dopoguerra, accanto al paradigma riformistico del
    Welfare State, che, come si è visto, trovò un punto di riferimento
    centrale nel laburismo inglese durante il periodo della
    ricostruzione, si assistette a una rinascita del riformismo
    strumentale, ma su basi nuove, come variante occidentale del
    movimento comunista internazionale. Il riformismo strumentale
    manteneva la contrapposizione fra democrazia formale e democrazia
    sostanziale, e vedeva nella richiesta di riforme sempre più avanzate
    e di struttura lo strumento di lotta in grado di far scoppiare le
    contraddizioni delle società capitalistiche e l'inevitabile
    conflitto fra democrazia e capitalismo.
    
    9. La crisi del Welfare State e il ripensamento del riformismo
    
    L'esaurimento del socialismo e la scomparsa di ogni credibile
    alternativa teorica alla democrazia liberale costituiscono, oggi,
    una sfida per il riformismo, specialmente in presenza dell'offensiva
    neoliberale contro il Welfare State.
    
    Per quasi due secoli il riformismo ha cercato di contrastare
    l'estremismo rivoluzionario e lo spirito reazionario. Le due culture
    che più hanno agito nel dare forma e senso alla società moderna sono
    state il liberalismo e il socialismo, ma proprio queste due culture,
    quando si sono irrigidite nel dogmatismo ideologico, sono state
    fortemente divise e antagonistiche, quando, invece, si sono
    incontrate hanno alimentato il moderno riformismo.
    
    Alla fine del XX secolo la vera questione che si pone non è quella
    del rapporto fra liberaldemocrazia e socialismo, che ancora nel 1942
    un liberale come Joseph Schumpeter aveva sostenuto essere decisiva
    per le sorti dell'Occidente, bensì quella del rapporto fra
    democrazia e capitalismo. Dopo il crollo dei regimi comunisti
    dell'Est, i destini della modernità (il capitalismo e la democrazia)
    sono ormai inseparabili. Si tratta di capire se ci sia spazio per
    una concezione della democrazia che non sia totalmente subordinata
    al modello del mercato e alla sua logica concorrenziale. Non è
    difficile, tuttavia, constatare che se la libertà non esiste senza
    mercato, nessuna società democratica, a cominciare dalla più
    capitalistica (gli Stati Uniti), può funzionare senza una vasta rete
    di ridistribuzione sociale. Nel senso stretto, economico del
    termine, oggi non esistono più, né a Oriente né a Occidente, società
    puramente liberali o società puramente socialiste. Del resto nemmeno
    le riforme neoliberiste di Reagan e della Thatcher hanno prodotto il
    completo smantellamento del Welfare State.
    
    Il riformismo ha potuto agire meglio quando le istituzioni
    liberaldemocratiche hanno lasciato aperto il campo alla dialettica
    politica e sociale, e al cambiamento indotto dal processo di
    modernizzazione e dallo sviluppo dell'economia di mercato.
    L'accettazione della democrazia formale costituisce non solo il vero
    discrimine fra il riformismo forte e il riformismo strumentale, ma
    il banco di prova del riformismo possibile. Nuovi problemi e nuove
    emergenze, a partire dal rovesciamento del rapporto tra crescita
    economica e aumento degli occupati nell'industria, l'inizio della
    loro diminuzione da un lato e, dall'altro, il loro passaggio
    dall'area debole della società a quella protetta e del benessere
    ("la società dei due terzi"), impongono una seria revisione dello
    Stato sociale. 
    
    Si è interrotto il circolo virtuoso dello sviluppo economico e della
    progressiva estensione del Welfare, che ovunque ha prodotto deficit
    insostenibili e inefficienze, oltreché perdita del senso di
    responsabilità collettiva e individuale. I costi della solidarietà
    orizzontale sono stati scaricati, attraverso il deficit pubblico,
    sulle generazioni future. Inoltre la politica di inclusione nella
    cittadinanza non può più avere una dimensione esclusivamente
    nazionale, né può trascurare il fenomeno dell'immigrazione, ossia
    della presenza di vaste fasce sociali prive non solo di diritti
    sociali, ma di tutte le prerogative della cittadinanza, compresi i
    diritti politici (v. Zincone, 1992). 
    
    La sfida ambientale, il disordine internazionale, il declino
    demografico dei 'paesi ricchi' dell'Occidente, il sorgere di nuovi
    movimenti sociali e nuovi soggetti politici, la sfida della
    diversità etnica e culturale, richiedono una nuova definizione del
    riformismo e una nuova capacità progettuale. 
    
    La nota tesi di Keynes, secondo cui le idee finiranno per prevalere
    sugli interessi, dovrà cimentarsi in un contesto ancora più
    complesso e difficile per dimostrare che il Welfare State si può
    ancora oggi considerare l'acquisizione più alta della cultura
    riformista e l'artificio migliore, ancorché imperfetto, per ridurre
    sia il privilegio che la povertà.