Regionalismo

 

Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)

di Luciano Vandelli

Sommario: 1. Introduzione: le ambiguità del termine. 2. Regionalismo e federalismo. 3. Stato regionale e Stato federale. 4. Regionalismo e regionalizzazione: a) la situazione italiana; b) le soluzioni europee. 5. Caratteri culturali, fisici e demografici delle regioni. 6. Le forme istituzionali delle regioni: a) il riconoscimento costituzionale delle autonomie regionali; b) autonomie regionali e poteri legislativi; c) autonomie regionali e poteri amministrativi. 7. Stato regionale e Stato federale nelle esperienze europee. 8. Prospettive del regionalismo. □ Bibliografia.

1. Introduzione: le ambiguità del termine

Inteso genericamente quale dottrina, tendenza o atteggiamento connesso a un'area territoriale variamente contraddistinta da elementi geografici, storici, economici, sociali, istituzionali, il 'regionalismo' riflette pienamente le ambiguità del sostantivo da cui trae origine; anzitutto per quanto concerne le dimensioni e la collocazione stessa di tale area in rapporto alla delimitazione degli Stati nazionali.

'Regione', in effetti, è un termine non raramente riferito ad ambiti assai estesi, che ricomprendono una pluralità di Stati. Così è, ad esempio, in espressioni quali 'regione europea', 'mediorientale', 'araba' e simili; ambiti cui corrispondono, in molti casi, specifiche organizzazioni sovranazionali o internazionali (Unione Europea, Lega Araba, Associazione tra le nazioni del Sudest asiatico, ecc.). In un'accezione di questo tipo il termine è diffuso particolarmente nelle discipline economiche, ove ad aree multistatali vengono correttamente riferite espressioni quali 'economia regionale', 'sviluppo regionale', 'distribuzione regionale', 'politiche regionali', 'analisi regionale', ecc. (v. Isard, 1960 e 1975).

Dal lato opposto, non mancano situazioni in cui per regione si intende una realtà di dimensione assai contenuta, che si colloca - quale livello intercomunale - all'interno delle articolazioni provinciali di uno Stato. È questo, in particolare, il caso dei Paesi Bassi, ove da tempo va sviluppandosi un rilevante dibattito sulle inadeguatezze strutturali delle tradizionali circoscrizioni provinciali, ritenute troppo vaste, e dove, dunque, si è presentata come centrale l'individuazione di nuovi livelli intermedi tra il comune e la provincia; livelli che, appunto, vengono qui indicati con il termine 'regioni'.

Tanto l'una accezione (regione come dimensione ultrastatale) quanto l'altra (regione come dimensione infraprovinciale) sono notevolmente distanti dall'uso più comunemente accettato, dominante nel dibattito giuridico-istituzionale e - ciò che più conta - fatto proprio dalla Carta costituzionale italiana, così come da numerose costituzioni e legislazioni (particolarmente in Europa: dalla Carta costituzionale della Seconda Repubblica spagnola, del 1936, alle recenti revisioni della Costituzione belga) nonché, negli ultimi decenni, dall'ordinamento comunitario (si veda, in particolare, il Trattato di Maastricht).

Pur con varietà di modelli e di forme, i dati desumibili da diverse e autorevoli fonti di diritto attribuiscono, in modo specifico e univoco, un significato più circoscritto e preciso al termine 'regione', identificandola con l'articolazione territoriale più vasta all'interno dello Stato. Un'articolazione cui, in un'ampia serie di ordinamenti, corrisponde uno specifico assetto istituzionale, dotato di organi democraticamente espressi dalla corrispondente collettività, di poteri amministrativi e, in molti casi, anche legislativi, di un'autonomia garantita dalle ingerenze degli organi dello Stato stesso.

2. Regionalismo e federalismo

Le ambiguità che contrassegnano il 'regionalismo' sono, del resto, tutt'altro che estranee alle vicende del termine 'federalismo', del quale si sono classificate molte decine di significati (cfr. W.H. Stewards, Concepts of federalism, Boston 1984; K.C. Wheare, Federal government, Oxford 1946).

Così, nella filosofia politica, sono di grande rilievo le concezioni federalistiche orientate in una direzione globalizzante e palingenica, come ricerca di una forma di organizzazione del potere finalizzata alla pace, al primato del diritto, all'emancipazione umana. In questa direzione muove anzitutto il pensiero di Kant (Idea di una storia universale da un punto di vista cosmopolitico, 1784; Per la pace perpetua, 1795), ove la federazione mondiale, strumento essenziale per la realizzazione della libertà e dell'eguaglianza di tutti gli uomini, diviene lo sbocco del processo storico di una progressiva pacificazione dei gruppi umani in conflitto attraverso la loro unificazione.

La teoria federalistica della pace trova, del resto, riflessi importanti nel pensiero contemporaneo: ad esempio, in certi filoni delle tendenze europeiste, secondo cui la federazione europea "segna una tappa nella storia: l'avvio del superamento della divisione del mondo in Stati sovrani, che si concluderà con il raggiungimento della pace perpetua, attraverso la federazione mondiale" (v. Levi, 1994, p. 42). Secondo le accezioni più diffuse nel dibattito attuale, tuttavia, il riferimento al 'federalismo' prescinde totalmente da prospettive cosmopolitiche, ovvero le colloca sullo sfondo di un contesto che pone comunque al centro dell'attenzione il tema della forma territoriale dello Stato. Anche in questo caso sono univoche le indicazioni desumibili da numerose costituzioni: a partire da quella degli Stati Uniti, proseguendo per quelle canadese, australiana, indiana, austriaca, sino alla Legge fondamentale di Bonn del 1949 o alla revisione costituzionale belga del 1980. Domina, anche qui, un'ampia varietà di modelli e di forme, ma sempre all'interno di una problematica che attiene comunque a un assetto strutturale dello Stato, articolato in due livelli fondamentali tra cui sono ripartiti i poteri, secondo criteri stabiliti dalla Costituzione.In questa prospettiva 'federalismo' si configura come termine strettamente contiguo a 'regionalismo', al punto da sollevare questioni di fondo sulla reale possibilità di distinguere i due concetti sulla base di criteri scientificamente fondati.

3. Stato regionale e Stato federale

Il dibattito su questi aspetti è tutt'altro che recente; i dubbi, in realtà, risalgono al periodo stesso in cui si iniziò a teorizzare la configurabilità della forma regionale come "tipo intermedio di Stato fra l'unitario e il federale", un'impostazione che in Italia fu definita e sostenuta da G. Ambrosini (v., 1933).
Secondo questa impostazione, lo Stato regionale si differenzierebbe dal federale per il fatto che, "pur essendo dotate di diritti propri, le regioni non riescono ad assumere la qualità e dignità degli Stati membri di uno Stato federale [...]; d'altra parte, appunto perché dotate di diritti propri, si differenziano nettamente dalle consimili collettività territoriali (province o regioni), anche fortemente decentrate, degli Stati unitari".

In quest'ultimo caso, in effetti, si realizzerebbe un semplice "decentramento autarchico" che "implica sempre [...] l'idea di trapasso, di trasferimento, di delegazione di poteri e implicitamente perciò della revocabilità di essi"; mentre, a proposito dello Stato regionale, "si deve invece parlare di autonomia, perché si tratta di riconoscimento o di conferimento irrevocabile di poteri in favore degli enti di cui trattasi, i quali così finiscono di essere dotati di poteri propri, di natura costituzionale, in quanto affermati in modo speciale dalla Costituzione e posti sotto la speciale garanzia di essa [...]. In questo sistema la regione ha anzitutto un diritto che può chiamarsi diritto dell'esistenza; diritto che non compete alle collettività consimili esistenti nel seno degli Stati unitari. Lo stesso è a dirsi della competenza" (v. Ambrosini, 1957, pp. 5-7).

Che criteri di classificazione di questo tipo avessero in sé "qualcosa di arbitrario" fu avvertito dallo stesso Ambrosini (ibid., p. 9); tuttavia, la formula ebbe fortuna, trovando numerosi e autorevoli giuristi disposti a impegnarsi nella ricerca di parametri idonei a distinguere, in forma scientificamente ineccepibile, lo Stato regionale dal federale, così come da quello unitario. Parametri che, di volta in volta, vennero individuati in aspetti diversi: ad esempio, nella partecipazione degli Stati-membri alla formazione della volontà centrale, particolarmente attraverso un senato composto da rappresentanti degli stessi Stati, oppure nel riconoscimento a ciascuno Stato-membro della potestà costituente: elementi, questi, presenti nel modello federale, ma assenti negli Stati regionali, in cui le regioni prive di rappresentanza a livello nazionale sarebbero rette sempre da un ordinamento costituzionale ottriato, cioè dettato dagli organi costituzionali dello Stato, cui viene riservata, tra l'altro, la definizione delle competenze regionali.

Ma la ricerca, alla luce della grandissima varietà di caratteri che le concrete esperienze andavano sviluppando, si è presentata assai travagliata, portando spesso alla contestazione dell'ipotesi da cui aveva tratto origine. In questo senso è significativa, ad esempio, l'evoluzione del pensiero di C. Mortati. Dopo aver fatto riferimento, ai fini di una definizione dello Stato federale e di una sua distinzione da quello regionale, a un'ampia serie di elementi classici (formazione delle regioni per volontà dello Stato e non per accordo di carattere internazionale; mancanza nelle regioni della potestà di darsi un proprio ordinamento e di modificarlo; assenza di partecipazione delle regioni all'attività legislativa dello Stato; criterio di ripartizione delle competenze; emarginazione delle regioni dalla potestà giurisdizionale e dall'ordine pubblico; ecc.), Mortati raggiunse in seguito la convinzione che, in definitiva, le differenze tra Stato federale e Stato regionale, che non siano di ordine meramente quantitativo, "si esauriscono nella partecipazione al potere di revisione costituzionale, che è consentito agli Stati-membri e non alle regioni. Differenza, come si vede, troppo esigua per giustificare l'attribuzione di una qualifica statuale all'ente che sia in possesso di quel potere" (cfr. C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova 1957⁷, vol. II, pp. 801-802, e 1976⁹, vol. II, p. 1514).

Ora, a vent'anni di distanza da queste considerazioni, si potrebbe aggiungere che la stessa gamma delle forme di coinvolgimento di regioni o di Stati-membri nei procedimenti di revisione costituzionale si presenta estremamente varia e sfumata; e le forti asimmetrie, che la diffusione di sistemi decentrati va fantasiosamente evidenziando (come si vedrà nei capitoli seguenti), aumentano le perplessità su ogni tentativo di schematizzazione qualitativa, sulla base di modelli differenziati secondo criteri rigorosi e universalistici. E non a caso, recenti analisi tendono ad accomunare modello federale e modello regionale, quali espressioni di "un'unica forma organizzativa che comporta un decentramento dello Stato unitario tramite la necessaria presenza di autonomie territoriali e politiche" (v. de Vergottini, 1992, p. 859).
Fortemente problematica sotto il profilo giuridico, la distinzione tra modelli federali e modelli regionali diviene, poi, nebulosa nell'ambito complessivo delle scienze sociali. Non a caso un autorevole studioso del federalismo ha accomunato nella generica espressione non-accentramento i vari sistemi in cui "il potere è così diffuso da non poter essere legittimamente accentrato o concentrato senza violare la struttura e lo spirito della Costituzione" (v. Elazar, 1968, p. 97), e non a caso va diffondendosi il termine mesogovernment in grado di includere indubbiamente fenomeni che si estendono dai Länder ai Cantoni, dalle Comunidades autónomas alle Regioni, ecc.

Quanto alle discipline economiche, la distinzione tra Stati contrassegnati da federalismo e Stati caratterizzati da regionalismo risulta sostanzialmente marginale, se non del tutto indifferente (v. Brancati, 1995).

Significativa, del resto, è la fortunata espressione 'federalismo fiscale', che fa riferimento al "funzionamento degli Stati dotati di una pluralità di livelli di governo, siano o non siano definiti federali secondo i canoni di diritto pubblico" (v. Osculati, 1994) e alle tendenze favorevoli a spostare l'asse del prelievo fiscale dal centro alla periferia (cfr., ad esempio, il cosiddetto 'Libro bianco Tremonti', La riforma fiscale, Ministero delle Finanze, 1994; v. Brancati, 1995, p. 53). Il più noto studio dedicato in questi anni, in Italia, al federalismo fiscale fa significativamente riferimento, nel sottotitolo, all'"autonomia municipale" (v. Tremonti e Vitaletti, 1994).In realtà, ad accomunare complessivamente i modelli 'federali' e quelli 'regionali' sono gli obiettivi sostanziali da essi perseguiti, anche e specificamente nella fase attuale; obiettivi che attengono particolarmente a esigenze che possiamo così elencare.

1. Trovare punti di riferimento istituzionali meno vasti e distanti dalle richieste dei cittadini di quanto non siano gli Stati; è un'aspirazione che assume oggi un particolare rilievo, dinnanzi alla crisi della sovranità statale, in un quadro contrassegnato da elementi di sovranazionalizzazione (particolarmente in ambito europeo) e di globalizzazione. La connessione tra 'continentalizzazione' e 'regionalizzazione' è stata spesso sottolineata: "L'autonomia delle regioni nella Comunità Europea e la creazione di un'Europa politicamente più unita - rilevava, ad esempio, il documento approvato dall'Assemblea delle regioni d'Europa il 30 ottobre 1987 - costituiscono due aspetti complementari e convergenti di una medesima evoluzione politica".

2. Dare risposta, in questa prospettiva, alla crisi dello Stato nazionale e alla sempre più evidente inadeguatezza (o impraticabilità) di ogni soluzione che tende a tenere in un unico centro il potere democratico: identificando livelli istituzionali dotati di caratteristiche demografiche, territoriali, finanziarie sufficientemente ampie da consentire il governo dei problemi che presenta un'area vasta, ma anche sufficientemente vicine ai cittadini da consentire circuiti più funzionali di partecipazione e di responsabilizzazione.

3. Trovare soluzioni adeguate per le istanze e peculiarità locali, garantendo le minoranze, prevenendo o tenendo sotto controllo i contrasti territoriali, costituendo istituzioni in grado di contemperare e bilanciare gli interessi delle distinte aree territoriali e, in definitiva, superando fenomeni di campanilismo esasperato.In sostanza, alla base delle istanze federalistiche o di quelle regionalistiche vi sono i medesimi criteri di autogoverno, efficienza, trasparenza, responsabilità e adattabilità alle specifiche esigenze e preferenze dei cittadini.

4. Regionalismo e regionalizzazione

Il 'regionalismo' si distingue dalla 'regionalizzazione', secondo alcuni autori (v., ad esempio, Petschen, 1992, pp. 17 e 29), per il fatto che la seconda, quale fenomeno 'dall'alto' con prevalenti connotazioni economiche e amministrative, tende a caratterizzarsi come pianificazione e ordinamento del territorio stabiliti dai poteri statali, mentre il regionalismo si identifica con la tendenza dei popoli, 'dal basso', a ottenere maggiori attribuzioni politiche per ragioni antropologiche, storiche e culturali. In realtà, i diversi aspetti e le diverse motivazioni sono fortemente connessi nei due concetti che, in definitiva, si distinguono semplicemente per la loro natura intrinseca: nel caso del regionalismo si tratta di una tendenza, di una proposta, di un'idea favorevole al riconoscimento o al potenziamento delle realtà regionali (tendenza che può essere sostenuta dai popoli, ma anche da espressioni dei poteri statali, e che può essere motivata dai più diversi argomenti); si configura, invece, una situazione di regionalizzazione in presenza della concreta istituzione di regioni nell'ordinamento di un determinato paese.

a) La situazione italiana

Se già le fasi centrali del Risorgimento erano state contrassegnate dalla presenza di importanti istanze federalistiche, da quelle liberali, progressiste e repubblicane di Cattaneo a quelle neoguelfe di Gioberti, all'epoca dell'unificazione non rimase estraneo un rilevante dibattito sul regionalismo. Così, nel 1861, Giuseppe Mazzini (Dell'unità italiana, in Scritti politici editi e inediti, vol. II, Imola 1907, p. 333) richiamava con forza la necessità di creare le regioni, quali zone intermedie accomunate "dai caratteri territoriali secondari, dai dialetti e dal predominio delle attitudini agricole, industriali o marittime"; indicando i vantaggi del sistema regionale nel fatto che, tra l'altro, "spegnerebbe il localismo gretto, darebbe all'unità forze sufficienti per tradurre in atto ogni processo possibile nella loro sfera, e farebbe più semplice e spedito assai l'andamento, oggi intricatissimo e lento, della cosa pubblica".In questa direzione, del resto, si orientano le proposte elaborate dal ministro dell'Interno Farini e dal suo successore Minghetti, deliberate dal Consiglio dei ministri, sotto la presidenza di Cavour, il 31 marzo dello stesso anno. In questo disegno le regioni si configuravano sia come circoscrizioni dell'amministrazione periferica dello Stato, sia come enti autarchici, e precisamente come consorzi obbligatori tra province, dotati di una commissione composta da membri nominati, al proprio interno, dai consigli provinciali. Il progetto, peraltro, sollevò rilevanti resistenze del Parlamento, che lo respinse, optando decisamente per un'estensione all'intero territorio italiano del modello accentrato di amministrazione già adottato in Piemonte con la legge comunale e provinciale (la cosiddetta legge Rattazzi) del 1859.

Questo modello era destinato a perdurare a lungo, mentre le proposte favorevoli al regionalismo restavano in posizione marginale nel dibattito politico. D'altronde, col trascorrere del tempo, esse venivano assumendo valenze diverse: e se all'epoca dell'unificazione amministrativa la regionalizzazione poteva essere finalizzata a graduare, senza traumi, il trapasso da sette legislazioni a una, vent'anni dopo, compiuta quella unificazione "con molti spostamenti e molti dolori", alle regioni si poteva guardare come a un fondamentale perno di decentramento delle funzioni dello Stato e di redistribuzione della spesa pubblica (cfr. le considerazioni dello stesso Minghetti in I partiti politici e l'ingerenza loro nella giustizia e nell'amministrazione, Bologna 1881).

Ancora fortemente minoritario alla fine del secolo, il regionalismo trovava peraltro sostegno da parte di voci significative e autorevoli che, riprendendo i valori della tradizione repubblicana, della sinistra liberale, del socialismo, si connettevano (particolarmente con Gaetano Salvemini: cfr. Scritti sulla questione meridionale, Torino 1955) alle analisi e agli obiettivi propri del meridionalismo.
Sulla base di questi diversificati punti di riferimento, le tendenze regionalistiche assumevano nel primo dopoguerra il senso di una forte prospettiva di revisione complessiva dell'assetto dello Stato. E a questa prospettiva si ispirava nettamente il programma del Partito Popolare Italiano del 1919. Centrale è, in questo, il ruolo di Luigi Sturzo, convinto sostenitore (come scriveva nella relazione al Congresso di Venezia del 23 ottobre 1921; v. Santarelli, 1970, p. 121) di un ente regionale "elettivo, rappresentativo, autonomo-autarchico, amministrativo-legislativo [...] concepito come una unità convergente non divergente dallo Stato".

Ma è soltanto con la fine del rigido centralismo che aveva caratterizzato il ventennio fascista che la questione si propone in termini concreti: dapprima in alcune situazioni specifiche, ove già nel 1944-1945 si affermano peculiari forme di governo regionale (cfr., in particolare, per la Sardegna, il decreto legislativo luogotenenziale del 28 dicembre 1944, n. 417; per la Valle d'Aosta il decreto legislativo luogotenenziale del 7 settembre 1945, n. 545; per la Sicilia lo Statuto approvato con il regio decreto legislativo del 15 maggio 1946, n. 455), quindi in seno all'Assemblea costituente, ove il principio regionalistico fu oggetto del dibattito più prolungato e tormentoso.

In tale confronto le diverse opzioni convivono, spesso, all'interno delle medesime aree politico-culturali, e l'evolversi degli eventi generali (a partire dalla estromissione delle sinistre dal governo) comporta non secondari mutamenti di posizioni; sì che la definizione di questa parte della Carta costituzionale risulterà incerta fino alle ultime fasi dei lavori costituenti. Il risultato è un compromesso, che alterna a spunti fortemente avanzati il mantenimento di meccanismi ereditati dalla tradizione dello Stato accentrato, o significativi silenzi.Il riconoscimento costituzionale delle autonomie regionali è comunque sancito: le regioni, enti territoriali esponenziali dotati di un'organizzazione legittimata dall'elezione in via diretta, sono titolari di poteri di rango anche legislativo, in una serie di materie elencate dalla Costituzione stessa. E, se non manca una rilevante gamma di interventi di controllo da parte di organi statali, la Corte costituzionale si configura come supremo garante del rispetto delle sfere di autonomia costituzionalmente stabilite.
D'altronde, le alternative discusse nei lavori costituenti si erano concentrate essenzialmente sulle cosiddette regioni 'a statuto ordinario', definite nel numero di 15; per le rimanenti (Sicilia, Sardegna, Valle d'Aosta, Trentino-Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia), l'Assemblea costituente si trovava talora di fronte a vincoli di carattere internazionale e, comunque, a forme di autonomia già riconosciute. Forme che, in definitiva, era chiamata solo a confermare, demandando a singoli statuti speciali (approvati, subito dopo la Costituzione, con le leggi costituzionali 2-5 del 1948, mentre per il Friuli-Venezia Giulia occorrerà attendere la legge costituzionale n. 1 del 1963) la disciplina degli aspetti che per le rimanenti regioni venivano stabiliti direttamente nella Costituzione.

Le disposizioni di quest'ultima, del resto, erano destinate a rimanere a lungo inattuate: mentre le regioni ad autonomia speciale avviavano la propria esperienza in una situazione di isolamento, prevaleva decisamente un clima di complessiva sfiducia e disattenzione per la questione regionale, che venne superato soltanto alla fine degli anni sessanta, in un quadro di forte tensione riformatrice. Una tensione che portò il Parlamento, superando l'ostruzionismo delle forze antiregionaliste, ad approvare le indispensabili leggi di disciplina elettorale (legge n. 108 del 1968) e finanziaria (legge n. 281 del 1970), avviando così una 'fase costituente' delle regioni ordinarie che si sarebbe compiuta con la prima elezione dei consigli regionali (avvenuta il 6 giugno 1970), con l'approvazione degli statuti (maggio-luglio 1971) e con l'emanazione dei decreti di trasferimento delle funzioni in precedenza esercitate dai ministeri (gennaio 1972).

Basati su interpretazioni fortemente riduttive delle materie costituzionalmente spettanti alle regioni, questi decreti lasciarono peraltro profondamente insoddisfatte le forze regionaliste, dando luogo a lunghe e complesse polemiche che portarono, tra il 1975 (legge n. 382) e il 1977 (decreto delegato n. 616), a un sostanziale ridisegno delle funzioni regionali in una nuova, aggiornata interpretazione della Costituzione.In questo (inadeguato) quadro normativo, e in un contesto di diffusa inefficienza amministrativa, la regionalizzazione ha dato luogo a un'esperienza complessivamente deludente o, comunque, fortemente variegata (v. Putnam e altri, 1985; v. Putnam, 1993).

Con ciò, peraltro, le istanze del regionalismo italiano non si sono esaurite; e infatti hanno ripreso fiato alla fine degli anni ottanta puntando ormai a una revisione della stessa Costituzione.

b) Le soluzioni europee

Nell'intera Europa il regionalismo può vantare, in varie situazioni, tradizioni tutt'altro che recenti. Ma se da lungo tempo si possono registrare istanze e proposte volte a un riconoscimento delle realtà regionali, la regionalizzazione è invece un fenomeno che soltanto recentemente si è affermato su un'area assai estesa.I percorsi e i contenuti degli interventi sui governi locali realizzati negli ultimi decenni sono in realtà fortemente differenziati, ma complessivamente contrassegnati dalla tendenza a un decentramento articolato sulla base di enti territoriali autonomi di livello regionale. Rispetto a questa impostazione assumono dunque una propria peculiarità le trasformazioni che, pur in presenza di istanze e tradizioni regionalistiche, hanno seguito vie diverse. Tra questi casi spetta un rilievo particolare alla Gran Bretagna: paese che ha inteso rispondere alle proprie, consistenti esigenze regionali, non attraverso autonomie a largo raggio, ma mediante specifiche articolazioni degli apparati del governo centrale.

Si collocano dal lato opposto sistemi definiti come federali - quali la Repubblica Federale Tedesca, la Confederazione Elvetica, l'Austria - ove i poteri si presentano tradizionalmente ripartiti, su base territoriale, tra lo Stato centrale e i Länder o Cantoni.

A questi sono venuti via via ad affiancarsi altri soggetti di autonomia territoriale (regioni, comunità autonome, ecc.), in un processo che, pur nella varietà delle realizzazioni, è segnato da parallelismi importanti. Anche nella cronologia, che segna il suo momento centrale di impulso all'inizio degli anni settanta: in Italia - come si è visto - con l'istituzione delle regioni ordinarie, in Belgio con una revisione della Costituzione del 1831 che si proponeva un complessivo rinnovamento dello Stato, basato su una duplice articolazione di tipo linguistico-culturale, ricomprendente tre comunità (francese, olandese, tedesca), e di tipo economico-territoriale, ricomprendente tre regioni (vallone, fiamminga, bruxellese).

Alla seconda metà degli stessi anni settanta (vale a dire durante la fase in cui le regioni italiane ricevevano il più importante complesso di trasferimenti, con il decreto del presidente della Repubblica n. 616) risalgono poi i disegni autonomistici - connessi a processi di democratizzazione quasi coevi - adottati in Portogallo e in Spagna. La Costituzione portoghese del 1976 fonda la propria impostazione regionale su una netta distinzione tra il regime riservato al territorio insulare (Azzorre e Madera) e quello concernente il territorio continentale. Nel primo vengono previste regioni autonome, dotate di rilevanti poteri legislativi; per il continente, invece, regioni amministrative. In qualche misura ritoccato per effetto della revisione costituzionale del 1982 (che, tra l'altro, istituisce un Tribunale costituzionale, competente in ordine ai conflitti tra Stato e regioni), il disegno costituzionale è stato rapidamente attuato nelle isole, mentre la ripartizione del territorio continentale in regioni amministrative ha incontrato difficoltà di fondo.

Seguendo concezioni alquanto diverse, la Costituzione spagnola del 1978 ha costruito il proprio disegno di regionalizzazione sancendo il principio dell'autonomia delle 'comunità autonome', ma demandando alle collettività locali e ai loro rappresentanti non solo l'iniziativa per accedere all'autonomia, ma anche, in sostanza, la scelta del tipo di aggregazione territoriale. Tra le comunità autonome, del resto, alcune (Catalogna, Paese Basco, Galizia e le altre in cui l'iniziativa fosse approvata, con referendum, dalla maggioranza assoluta della popolazione) potevano assumere immediatamente, nei rispettivi statuti, funzioni in qualunque materia non esplicitamente riservata allo Stato, mentre le altre avrebbero potuto disporre di competenze più limitate. In concreto, il disegno è stato realizzato, nel quinquennio successivo alla Costituzione, con l'istituzione di 17 comunità autonome, di cui soltanto 4 configurano autonomie di primo livello, anche se le rimanenti hanno ricevuto di recente un considerevole ampliamento delle proprie funzioni.

In Francia l'istituzione di enti territoriali regionali si colloca nell'ambito delle riforme di decentramento avviate nel 1982. Ritoccata nel 1986 (ma sostanzialmente confermata, in questi anni, da maggioranze di segno contrapposto), la riforma francese evidenzia sul versante regionale una notevole cautela rispetto agli orientamenti prevalsi nei paesi vicini (essendo, anzitutto, assai lontana dal delineare una potestà legislativa regionale). Eppure, sotto vari profili, la configurazione di questo nuovo livello, caratterizzato da una propria organizzazione di governo che si basa su un consiglio elettivo e su un presidente espresso dal consiglio stesso, ha introdotto novità tutt'altro che marginali.

Ora, è il 'federalismo' che sembra segnare gli anni novanta, con l'importante estensione, a seguito dell'unificazione tedesca del 3 ottobre 1990, del sistema istituzionale tracciato dalla Legge fondamentale di Bonn, la quale viene a disciplinare gli assetti dei cinque Länder costituiti nel territorio orientale della Germania; ma soprattutto con la nuova revisione costituzionale adottata in Belgio il 5 maggio 1993, che prosegue il peculiare percorso autonomistico belga sfociando in una soluzione che si definisce esplicitamente come federale.

5. Caratteri culturali, fisici e demografici delle regioni

Nell'identificazione e nella delimitazione delle regioni, realizzata nelle varie esperienze, si alternano e si sovrappongono criteri assai diversi, che si ispirano variamente al tipo di regionalismo che ne sta alla base.

Così, possono distinguersi diverse concezioni della regione: dalla regione naturale o geografica, contrassegnata da specifici caratteri fisici (evidenti, particolarmente, nel caso delle isole), alla regione amministrativa, intesa quale delimitazione del territorio ispirata a esigenze di razionalità negli assetti degli apparati e degli interventi amministrativi; dalla regione economica, finalizzata alla pianificazione e allo sviluppo di zone aggregate per caratteristiche e potenzialità economiche, alla regione sociologica, ove prevale la considerazione dell'elemento umano. Elemento, quest'ultimo, che assume particolare evidenza nella regione culturale, dotata di specifiche identità di gruppi linguistici, etnici o religiosi, o (se si vuole sottolineare distintamente questo profilo, generalmente coincidente con il precedente) nella regione storica, corrispondente a 'nazioni senza Stato', ma che in altre epoche lo furono (come Scozia, Bretagna, o Corsica), o che comunque a lungo e con forza aspirarono a esserlo (come Galles, Fiandre, Catalogna, Paese Basco).

Nell'esperienza concreta è certamente vero che, ad esempio, criteri economici e amministrativi hanno esercitato una influenza prevalente nella regionalizzazione francese, mentre criteri storici e linguistici hanno condizionato la regionalizzazione belga; ma in realtà all'interno di ogni paese europeo si sono variamente amalgamati e sovrapposti diversi elementi. D'altronde, alla grande varietà di criteri e di concezioni fa riscontro un'amplissima differenziazione nelle dimensioni demografiche e territoriali adottate. Così, le 22 regioni francesi presentano generalmente un'estensione tra 10.000 e 45.000 km², mentre scendono attorno agli 8.000 due regioni storiche: Alsazia e Corsica. Quest'ultima, insieme al Limousin, costituisce un'eccezione anche in termini demografici, contando un numero di abitanti notevolmente inferiore a quello delle altre (che si aggira tra 1.500.000 e 5.000.000, con la sola, vistosa eccezione dell'Île-de-France, che comprende la grande agglomerazione parigina).

Molto superiori risultano le differenze nelle situazioni in cui fattori storici e sociali hanno esercitato un'influenza più incisiva. È questo, ad esempio, il caso delle 17 comunità autonome spagnole: delle quali tre (Castiglia-La Mancia, Castiglia-Leon, Andalusia) hanno un'estensione imponente (tra i 79.000 e i 94.000 km²), mentre, dal lato opposto, sei non raggiungono gli 8.000 (di queste, Baleari, Cantabria e La Roja si aggirano attorno ai 5.000). Non minore risulta lo scarto in termini demografici: dagli oltre 6 milioni di abitanti di Catalogna e Andalusia, sino al mezzo milione di Cantabria e Navarra e ai 260.000 della Rioja.
Queste notevoli differenze possono richiamare la situazione tedesca, nella quale quattro dei 16 Länder (Sassonia, Bassa Sassonia, Baden-Württemberg, Baviera) si aggirano tra i 5 e gli 11 milioni di abitanti, uno (Renania settentrionale-Westfalia) sfiora i 17 milioni, segnando un divario rilevantissimo rispetto ai 600.000 di Brema. Un divario non inferiore, del resto, sussiste in termini di estensione: dai 4-700 km² dei Länder corrispondenti ad aree metropolitane (Berlino, Brema, Amburgo), sino agli oltre 70.000 della Baviera.

La soluzione della città-regione è stata adottata anche per Bruxelles, comportando anche qui una enorme distanza tra l'estensione di questa (162 km²) e il territorio delle altre regioni belghe (Fiandre, oltre 13.000 km²; Vallonia, quasi 17.000).Rispetto a questi casi, i criteri adottati dalla Costituzione italiana sembrano segnare una situazione intermedia: se sei regioni (Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Toscana, Sicilia, Sardegna) superano i 22.000 km², quelle dal territorio più circoscritto (Molise, Valle d'Aosta) si aggirano fra i 3 e i 4.000. Queste stesse regioni presentano le dimensioni più ridotte anche in termini demografici (rispettivamente 300.000 e 110.000 abitanti, mentre 9 regioni hanno una popolazione tra i 4 e i 9 milioni).

6. Le forme istituzionali delle regioni

Se la presenza di significativi poteri territoriali su vaste aree sembra accomunare gli assetti adottati dai grandi Stati europei, non è agevole identificare ulteriori elementi unificanti nei disegni istituzionali, e le modulazioni concrete dei tipi di organizzazione, di funzionamento, di riparto delle competenze, ecc., evidenziano una notevole varietà di soluzioni che riguarda anche elementi di fondo, quali: a) la previsione nella Costituzione dell'autonomia regionale e delle relative garanzie; b) il riconoscimento di poteri legislativi in capo alle istituzioni regionali, e i criteri di riparto di tali poteri tra queste ultime e il legislatore statale; c) l'estensione tendenzialmente generale delle funzioni amministrative, con attribuzione dei compiti di gestione - di regola - anche nelle materie riservate alla legislazione dello Stato, privo in via di massima di propri apparati periferici.

a) Il riconoscimento costituzionale delle autonomie regionali

Il riconoscimento esplicito delle autonomie regionali in disposizioni di rango costituzionale è fortemente diffuso in Europa: dalle Costituzioni che risalgono al dopoguerra (quali quella italiana e la Legge fondamentale di Bonn), a quelle approvate negli anni settanta (con la fine dei regimi autoritari nella penisola iberica), fino alla revisione della Costituzione belga del 1980.
In questo si distingue nettamente la situazione francese: le regioni sono state istituite sulla base di un generico riferimento costituzionale ad altre "collettività territoriali", oltre ai comuni e ai dipartimenti. Così, in Francia (diversamente da quanto avviene negli altri paesi) sono gli enti locali minori a essere tutelati a livello costituzionale, mentre le regioni sono previste - e dunque garantite - semplicemente sul piano della legislazione ordinaria.

b) Autonomie regionali e poteri legislativi

Se l'assenza di poteri legislativi distingue nettamente solo la situazione delle regioni francesi e di quelle continentali portoghesi, nei sistemi a legislazione decentrata sussistono tuttavia differenziazioni non trascurabili, anzitutto in ordine agli schemi seguiti per definire il riparto delle competenze legislative regionali da quelle statali: dal criterio (adottato, ad esempio, dalla Costituzione italiana) che si basa sull'espressa elencazione delle materie attribuite alla competenza legislativa regionale a quello (previsto dalla Costituzione spagnola) articolato sulla determinazione, da parte della Costituzione, di limiti di materia entro i quali gli statuti individuano le competenze spettanti a ciascuna comunità autonoma, sino al sistema (proprio di Azzorre e Madera) che riconosce ai legislatori autonomi la potestà di legiferare nelle materie di interesse specifico per le regioni che non siano riservate alla competenza statale.
Così, nessuno dei processi di regionalizzazione sviluppati negli anni settanta e ottanta ha seguito il modello di un riparto basato sulla determinazione espressa delle materie riservate alla competenza dello Stato, demandando la competenza generale alle autonomie regionali; prospettive in questa direzione si vanno invece aprendo nella fase attuale: nella riforma ora approvata in Belgio, per esempio, così come nel progetto di revisione costituzionale in discussione in Italia.

c) Autonomie regionali e poteri amministrativi

Quanto agli assetti dell'amministrazione, è da rilevare che i processi di regionalizzazione si sono sviluppati, negli ultimi decenni, in un'area europea direttamente influenzata dalla tradizione amministrativa francese, contrassegnata da un radicato sdoppiamento tra 'decentramento' e 'deconcentrazione', sì che il trasferimento di funzioni in capo a enti territoriali autonomi non esclude la presenza, in periferia, di (consistenti) uffici statali.In definitiva, nessuno di questi paesi ha affidato alle regioni, in via generale, l'attività amministrativa di esecuzione della legislazione statale, secondo il modello della cosiddetta 'esecuzione federale', tipico in Europa del sistema tedesco. Tuttavia sviluppi in questa direzione sono discussi in alcuni paesi, quali Spagna o Italia, e si sono verificati in varie situazioni significativi ridimensionamenti degli apparati periferici statali. Da ultimo, poi, con la legge sull'amministrazione territoriale del febbraio 1992, il legislatore francese ha inteso valorizzare il livello regionale; ma si tratta di una valorizzazione del tutto distinta da quella tedesca, così come da quella spagnola o italiana, in quanto punta essenzialmente su una ridistribuzione di funzioni nell'ambito dell'amministrazione dello Stato e, dunque, su un potenziamento del ruolo del prefetto di regione. Complessivamente, il rilievo che in Francia conservano l'amministrazione dello Stato e la deconcentrazione, in rapporto a quello attribuito alle autonomie locali e al decentramento, costituisce un elemento del tutto peculiare.

7. Stato regionale e Stato federale nelle esperienze europee

La varietà di forme assunte nelle situazioni accennate rende, dunque, eccessivamente semplificante e incerto ogni richiamo a classificazioni che, abbandonato ormai ogni carattere di precisione scientifica, assumono nel dibattito politico valenze fortemente simboliche ma contenuti spesso indecifrabili; l'analisi delle esperienze concrete sembra evidenziare con forza come la distinzione tra Stato regionale e Stato federale si mostri ora eccessivamente rigida per cogliere le implicazioni e le sfumature di situazioni sempre più complesse.
È sufficiente richiamare gli elementi utilizzati, nel corso di una lunga e ampia elaborazione, per tracciare una linea di demarcazione tra regionale e federale, per sottolinearne l'inadeguatezza: dalla presenza (o assenza) di una camera delle autonomie all'attribuzione della competenza generale-residuale (a favore del centro o degli enti regionali), dalla concentrazione (o dalla ripartizione) di funzioni considerate strettamente connesse alla sovranità (in materia di relazioni internazionali, ordinamento della giustizia, diritto penale, pubblica sicurezza) sino al coinvolgimento (o meno) nei procedimenti di revisione costituzionale.In effetti, su ciascuno di questi punti le esperienze realizzate, particolarmente in Europa, presentano una gamma assai variegata di soluzioni, senza che la classificazione 'regionale' o 'federale' dello Stato consenta di identificarne i caratteri fondamentali.

Lo stesso riferimento all'origine degli assetti autonomistici (in seguito a processi di unificazione, negli Stati federali, di decentramento, in quelli regionali), è divenuto ben poco risolutivo, se si è affermata, ad esempio in Belgio, una distinzione tra un federalismo di tipo 'centripeto' e uno di tipo 'centrifugo': senza che la distinzione storica implichi, in definitiva, alcuna conseguenza sugli ordinamenti giuridici.E proprio la soluzione recentemente adottata in Belgio offre un esempio efficace delle peculiarità e delle varietà di moduli che uno Stato può assumere nel plasmare i propri assetti. Uno Stato che, dunque, si classifica come 'federale'; che peraltro mantiene un sistema amministrativo ancora fortemente connotato da tratti ereditati dalla tradizione rivoluzionario-napoleonica; che, come si è accennato, affianca a una articolazione territoriale (le regioni vallona, fiamminga, bruxellese), un'articolazione di tipo linguistico-culturale (le comunità francese, olandese, tedesca), distinguendo e giustapponendo un 'federalismo regionale', da un lato, e un 'federalismo comunitario', dall'altro; che, ancora, conferisce in sostanza il ruolo predominante alla comunità nel Nord, alla regione nel Sud; che, nel bipartire rigorosamente la composizione dei fondamentali organi federali (parlamento, governo, Cour d'arbitrage) fra rappresentanti valloni e fiamminghi, "corrisponde piuttosto all'immagine di un sistema confederale, nel quale i rappresentanti delle diverse componenti nel sistema di cooperazione non sono responsabili che nei confronti della popolazione della rispettiva entità" (v. K. Rimanque, in Delpérée, 1993, pp. 31-35). Così, è perfettamente comprensibile che si parli di "un federalismo alla belga, dissimile da tutti gli altri", e che ci si chieda se "non sarà forse proprio per questo, per il fatto di presentarsi o essere percepito come tale, che esso può sembrare equilibrato, cioè tagliato su misura?" (v. H. Simonard, in Delpérée, 1993, p. 57).

Domanda, questa, che ben potrebbe ripetersi altrove perché, in definitiva, la situazione belga non rappresenta l'eccezione, ma piuttosto il caso più marcato della fantasiosa plasmabilità che lo Stato composito va assumendo. In realtà, si può dire che ogni Stato regionalmente articolato ha elaborato un proprio sistema; sì che, nell'ambito europeo, coesistono attualmente tanti modelli di regione quanti sono gli Stati regionalizzati. Sono significativi, in questo contesto, gli stessi sforzi terminologici effettuati per definire le nuove realtà, parlando non solo di Stati federali o regionali, ma anche di modelli quasi-federali, federalizzabili, federo-regionali, ecc.: la varietà delle situazioni ben si presta a sviluppare l'inventiva, e le definizioni poco incidono sulla sostanza delle cose. E se si presta attenzione ai dati sostanziali di fondo, è assai dubbio che il grado di autonomia effettiva di cui godono, ad esempio, il Paese Basco o la Catalogna sia inferiore a quello consentito ai Länder dello Stato federale austriaco.

Così, lo stesso termine 'federalismo', se sul piano politico, culturale o economico, può costituire un assioma che non richiede dimostrazioni, sul piano giuridico-istituzionale si stempera in una varietà di contenuti che stentano ad assumere contorni definiti. Del resto, già Luigi Sturzo parlava di una "federalizzazione regionale" (La regione, 1901). In un quadro dominato dall'asimmetria, dunque, ogni tentativo di classificazione, di definizione di categorie, di ricostruzione di modelli rischia di risultare artificioso, rigido e, in definitiva, scarsamente utile. Ciò che, invece, può forse presentare una qualche utilità è tentare di individuare, senza alcuna pretesa di generalizzazione, qualche elemento che possa consentire di sottolineare le affinità e le differenze di maggiore rilievo.In questa prospettiva, se si ritiene necessario raggruppare queste esperienze in termini significativi e per caratteri sufficientemente omogenei, si possono forse più utilmente operare alcune differenziazioni basate su dati di fondo, quali quelli sopra richiamati. Si possono distinguere, ad esempio, in riferimento al potere legislativo, a seconda che il parlamento nazionale mantenga o meno il monopolio della produzione legislativa, i sistemi a decentramento (anche) legislativo dai sistemi a decentramento (esclusivamente) amministrativo. I primi sono necessariamente sistemi ad autonomie previste a livello costituzionale (Repubblica Federale Tedesca, Italia, Belgio, Spagna, Azzorre e Madera); i secondi possono esserlo (Portogallo, per quanto concerne le regioni amministrative) o non esserlo (Francia).In riferimento al potere amministrativo, si possono distinguere, a seconda che lo Stato mantenga o meno l'esecuzione delle proprie leggi, i sistemi a decentramento amministrativo generale (con affidamento complessivo di tale esecuzione alle amministrazioni delle autonomie territoriali, come nella Repubblica Federale Tedesca) dai sistemi a decentramento e deconcentrazione. In quest'ultimo gruppo rientra la gran parte delle esperienze regionali europee, anche se non mancano (ad esempio in Spagna, o nella stessa Italia) proposte in senso diverso.

Anche le caratteristiche ora accennate, del resto, devono essere collocate nell'ambito di processi in continua evoluzione. A un esame in prospettiva diacronica le singole situazioni considerate evidenziano, in più di un caso, tendenze ad aggiustamenti graduali: ad esempio, partendo da schemi costituzionali essenziali, che lasciano a sviluppi ulteriori la sostanziale conformazione delle autonomie, oppure intervenendo ripetutamente (sia con ritocchi alla Costituzione, sia sul piano della legislazione ordinaria) per rafforzare, completare e rimodulare i poteri regionali, che paiono così soggetti a progressive mutazioni istituzionali anche in aspetti di grande importanza.Si tratta di tendenze non isolate: sotto questi profili il caso spagnolo o quello belga non costituiscono, forse, che gli esempi più manifesti e perspicui.Le esperienze recenti, dunque, richiamano in modo suggestivo approcci dinamici nello studio delle autonomie, intese come caratteristica di ordinamenti che, situati all'interno di altri ordinamenti, assumerebbero nei confronti di questi ultimi posizioni mutevoli nel tempo, essendo fondate su equilibri in continuo aggiustamento.

8. Prospettive del regionalismo

Neppure nelle prospettive attuali, del resto, gli itinerari del regionalismo possono considerarsi definiti e conclusi. In vari paesi, in effetti, è in corso un dibattito incentrato su proposte di una nuova valorizzazione dei livelli regionali; anche se, in diverse realtà, il termine 'regionalismo' tende a essere emarginato o del tutto respinto come secondario (è quanto si verifica, ad esempio, in Belgio o in Spagna: v. Petschen, 1992, p. 29), in quanto collegato a esperienze ritenute deludenti, dalle quali si intendono prendere le distanze.
Tendenze in questa direzione, in particolare, sono rilevanti nel dibattito italiano, dove si preferisce qualificare come 'federaliste' prospettive e ipotesi che frequentemente non si differenziano da quelle 'regionaliste', semplicemente al fine di sottolineare un atteggiamento critico nei confronti della realtà esistente e, dunque, un'esigenza di netta discontinuità. Esigenza, questa, in realtà diffusamente condivisa dalle stesse prospettive 'regionaliste', così come sono diffusamente condivise alcune proposte di una sostanziale revisione costituzionale, a partire da quelle che tendono a invertire il criterio di riparto delle attribuzioni sostituendo all'attuale elencazione delle materie demandate alle regioni (essendo riservate allo Stato tutte le funzioni residue: art. 117 della Costituzione) la determinazione costituzionale delle materie statali, con il riconoscimento alle regioni della competenza residuale. Quest'ultima proposta è già stata recepita nel corso dell'XI legislatura dai risultati della Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, che significativamente affermava di voler adottare un "regionalismo di ispirazione federalista".

Così, in definitiva, il termine 'federalismo' finisce per differenziarsi nettamente da 'regionalismo' soltanto se riferito ad alcune ipotesi tendenti a ripartire il territorio italiano in tre grandi repubbliche. Si tratta tuttavia di ipotesi tuttora alquanto confuse, sostenute da una parte ben circoscritta dello schieramento politico, spesso con evidenti valenze provocatorie.Ipotesi di riassetto territoriale sono state avanzate, d'altronde, anche da qualche autorevole centro di ricerca, come la Fondazione Agnelli, che, sulla base di argomentazioni approfondite ma legate essenzialmente a esigenze di riequilibrio finanziario e demografico, ha proposto un riassetto basato su 12 grandi regioni (v. Fondazione Agnelli, 1993 e 1994; v. Pacini, 1994): esso dovrebbe fondarsi su processi di riaccorpamento volontario, che peraltro sono oggi assai poco realistici e lontani dal senso di appartenenza e di identità delle popolazioni.

Ma, anche a prescindere dalle ipotesi che implicano un ridisegno territoriale, il dato di fondo che emerge con evidenza nel dibattito italiano - in sintonia con quanto si verifica in varie situazioni europee - è il diffondersi di tendenze al rafforzamento delle autonomie regionali, con un significativo riequilibrio di poteri tra queste e lo Stato. Nel quadro di queste tendenze le distinzioni reali non possono tracciarsi sulla base di una (inesistente) antinomia federalismo/regionalismo. Le contrapposizioni più rilevanti e sostanziali riguardano, semmai, le concezioni di un federalismo (o regionalismo) duale, basato essenzialmente sulle garanzie di non ingerenza tra Stato e autonomie e su funzioni rigidamente separate, e le prospettive di un federalismo (o regionalismo) cooperativo o solidale, con una forte valorizzazione dei momenti di collaborazione, di compartecipazione e di codecisione tra i vari livelli, in un quadro condizionato dall'obiettivo fondamentale di garantire comunque a tutti i cittadini un medesimo nucleo di condizioni di vita. Ulteriori, non indifferenti, distinzioni concernono le concezioni sulla collocazione dei poteri locali nell'ambito dei nuovi poteri regionali, a proposito della quale si distinguono impostazioni di stampo tradizionale, che risolvono il problema del riordino dello Stato italiano pressoché esclusivamente sul piano dei livelli più alti (Stato-regioni), e tendenze a costruire il processo federalistico come un processo 'dal basso', che prende avvio e si basa sulle autonomie più vicine ai cittadini.