Regimi politici
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)
di Leonardo Morlino
Sommario: 1. Definizione e realtà diverse. 2. Regimi democratici. 3.
Regimi non democratici. 4. Altri criteri di analisi. 5. Conclusioni.
□ Bibliografia.
1. Definizione e realtà diverse
Rispetto al suo uso limitato e derogatorio di senso comune o a
quello più strettamente giuridico, l'espressione 'regime politico'
ha ormai acquisito una propria autonomia e frequenza d'impiego,
differenziandosi con nettezza da 'governo', 'Stato' e 'sistema
politico'. Soprattutto nel linguaggio comune, con 'regime' si faceva
sempre riferimento a realtà politiche non democratiche, con
un'implicita valenza negativa. Ad esempio, regime era quello
fascista o quello nazista. Negli ultimi decenni e nell'uso
consolidato in scienza politica, il termine si riferisce a realtà
molto distanti, e non ha implicazioni negative. Nel linguaggio
giuridico con questo termine si usa intendere un insieme di norme e
istituti che regolano comportamenti e prevedono effetti in un certo
ambito o settore. Ad esempio, il regime del mercato mobiliare o
quello civilistico dei beni immobili. Ancora nel linguaggio
giuridico, il termine è stato usato anche con parziale riferimento
alla realtà politica sottostante. Ad esempio, Giannini (v., 1950, p.
II) considera regime il complesso dei principî fondamentali scritti
e non scritti, di carattere politico-giuridico che, formando un
sistema, stanno alla base della costituzione in un dato tempo e in
un certo paese.
Il significato proprio e più accettato di 'regime politico' non è
molto distante da quest'ultima accezione giuridica; e, al di là di
parziali differenze e di sovrapposizioni con altri termini nell'uso
di diversi autori, individua una realtà empirica più ampia rispetto
al governo, diversa da quella dello Stato, e più ristretta di quella
propria del sistema politico. Con regime politico, infatti, si
intende l'insieme di norme, regole non formalizzate, procedure che
stabiliscono diverse forme e modalità di regolazione delle domande e
distribuzione delle risorse, insieme alle relazioni con la società
(v. Easton, 1965, pp. 191-194; v. Fishman, 1990, p. 424). In
concreto, rientrano nel regime la costituzione con le sue regole
fondamentali, il governo, i corpi rappresentativi, se ve ne sono, e
i rapporti reciproci tra le diverse istituzioni, il sistema
elettorale, ma anche l'organizzazione politica della società civile,
quali partiti, associazioni con fini politici, gruppi d'interesse e
movimenti, e ovviamente le persone che coprono tutti i relativi
ruoli.
In questo senso, la struttura di direzione politica in senso più
stretto, appunto il governo, è solo una parte del regime politico,
anche se una delle più importanti. Non rientrano nell'ambito
connotativo del termine le strutture permanenti di autorità e le
persone che ricoprono i relativi ruoli, quali la polizia,
l'esercito, la magistratura, gli apparati burocratici a livello
centrale e locale. Queste identificano lo Stato. Un sistema
politico, inoltre, comprende regime e Stato, ma anche la comunità,
non ancora politicamente organizzata, che ne fa parte, ovvero tutti
i cittadini appartenenti a un certo paese indipendente. In questo
senso, mentre un regime può cambiare nel medio o breve periodo
quando cambiano alcune sue norme interne fondamentali - da certe
regole costituzionali al sistema elettorale alle modalità di
governo, ai rapporti tra governo e parlamento - uno Stato cambia
quando vengono modificati istituti, norme e caratteristiche di
funzionamento che riguardano i suoi apparati, mentre un sistema si
modifica parzialmente quando cambia il regime o lo Stato, ma si
trasforma completamente quando anche la composizione della comunità
politica, che fa riferimento a quel regime o Stato, muta.
La distinzione tra i diversi termini e il riferimento al cambiamento
politico consentono di evitare confusioni e sovrapposizioni di
significati, ma anche di inquadrare meglio il problema della
tipologia dei regimi politici. Infatti, proprio da alcune
trasformazioni politiche del secolo scorso e ancora di più di questo
secolo nascono sia l'esigenza delle distinzioni concettuali sopra
proposte, sia l'opportunità dell'analisi per tipi dei regimi
politici. Le trasformazioni profonde a cui si fa qui riferimento
vanno in tre direzioni. La prima riguarda il cambiamento epocale
costituito dal passaggio da una politica di élite a una politica di
massa: i rapporti faccia a faccia, dove gli aspetti più importanti
riguardano il chi governa e il come governare, si mutano in rapporti
tra attori individuali e collettivi (partiti, movimenti, gruppi) con
le proprie organizzazioni e interessi e con la necessità di fissare
altre regole relative, innanzitutto, ai meccanismi elettorali. In
questo senso, e ancor più precisamente, come è sottolineato da molti
autori (ad esempio v. Rokkan, 1970), l'introduzione del suffragio
universale e l'emergere dei partiti e dei sindacati rivoluziona la
politica. Vi è chi sostiene (v. Sartori, 1972) che a questo punto
torna in chiave diversa una seconda dimensione cruciale per la
politica, dimenticata e abbandonata dopo l'esperienza della polis
ovvero delle antiche città-comunità greche: dopo quella verticale o
di potere, di comando, esistente sin dall'antichità, la dimensione
che si aggiunge a definire l'ubiquità della politica è quella
orizzontale, della partecipazione, della diffusione, e appunto della
presenza e organizzazione delle masse in politica.
La seconda direzione di mutamento riguarda, innanzitutto,
l'ampliamento della prospettiva empirica. Il progressivo, enorme
sviluppo delle comunicazioni porta alla conoscenza più o meno
approfondita di altre realtà politiche, diverse dall'Europa
occidentale e dal mondo anglosassone. America Latina, Africa, Asia
si aprono in misura diversa all'osservazione dello studioso. Il
punto centrale è che nel giro di pochi decenni si passa dalla
possibilità di analizzare poche decine di regimi all'ambizione di
sistemare, conoscere, capire duecento regimi politici circa, quanti
sono cioè i paesi indipendenti alle soglie del terzo millennio.
Dall'inizio del secolo - ed è questa la terza direzione del
cambiamento -, ma soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, e poi
negli anni sessanta con l'imponente fenomeno della decolonizzazione
in Africa, nei decenni settanta-ottanta con i cambiamenti politici
nell'Europa meridionale (Spagna, Grecia e Portogallo) e in America
Latina (Brasile, Argentina, Cile, Perù e diversi altri paesi), alla
fine degli anni ottanta e nel decennio successivo con i cambiamenti
nell'Europa orientale, nel Sudafrica e nell'Estremo Oriente, emerge
e diventa imponente il fenomeno della democratizzazione, cioè della
creazione di numerose e nuove democrazie anche in contesti culturali
e sociali estranei e molto distanti da quelli in cui i regimi
democratici sono inizialmente sorti.
Dunque, le direzioni di cambiamento appena indicate, l'emergere
della politica di massa ovvero della dimensione orizzontale della
politica, l'allargamento delle possibilità di conoscenza ovvero
l'enorme ampliamento del referente empirico, ma anche i cambiamenti
in senso democratico degli ultimi cinquant'anni, spingono a
costruire tipologie di tali regimi, in cui si privilegiano le
esperienze democratiche anche rispetto ad altre fondamentali
esperienze di questo secolo. Di qui la piena giustificabilità del
fatto che la prima differenza sia solamente tra due genus, i regimi
democratici e quelli non democratici.
2. Regimi democratici
Iniziare con la definizione di regime democratico induce subito a
constatare che proprio per la complessità del referente empirico non
vi può essere un'unica definizione di democrazia. Infatti, a
proposito di questo regime alle definizioni empiriche si sono
aggiunte quelle che hanno privilegiato gli aspetti ideali o
normativi e quelle che proponevano l'analisi dei gradi di
democrazia, fino a raggiungere qualche centinaio di definizioni. Ad
esempio, Collier e Levitski (v., 1994) ne hanno trovate 350 circa,
considerando anche i sottotipi di regime democratico.
Si possono suggerire diverse definizioni a seconda delle regole e
istituzioni che si considerano centrali in un regime democratico. In
questa prospettiva, se ci si ferma sulle 'forme', sulle 'procedure'
caratterizzanti qualsiasi regime di questo tipo, le prime due
definizioni da suggerire discendono una dall'altra. Si può, così,
ricordare con Schumpeter (v., 1954; tr. it., p. 257) che "il metodo
democratico è lo strumento istituzionale per giungere a decisioni
politiche, in base al quale singoli individui ottengono il potere di
decidere attraverso una competizione che ha per oggetto il voto
popolare". Di conseguenza, come fa Sartori (v., 1969³, p. 105), si
può mettere l'accento sulla democrazia come "sistema etico-politico
nel quale l'influenza della maggioranza è affidata al potere di
minoranze concorrenti che l'assicurano" attraverso il meccanismo
elettorale. Dunque, democrazia come insieme di regole formalizzate
ovvero di procedure (democrazia procedurale) all'interno delle
quali, però, non ogni tipo di decisione può essere preso. In questo
senso, una maggiore attenzione alla sostanza delle decisioni e alla
genesi di un regime di questo tipo, come in Przeworski (v., 1986),
porta a definire la democrazia come quell'insieme di norme e
procedure che risultano da un accordo-compromesso per la risoluzione
pacifica dei conflitti sociali tra i diversi attori politicamente
attivi.
Anche questa definizione, però, come le precedenti pone problemi di
immediata rilevabilità empirica. Per sapere concretamente e più
rapidamente se un certo regime sia democratico occorre far ricorso
ad aspetti più immediatamente rilevabili come quelli suggeriti da
Dahl (v., 1970, p. 3), per il quale la più ampia partecipazione e la
possibilità di competizione politica in una democrazia si traducono
in: libertà di associazione e unione, libertà di pensiero, diritto
di voto, diritto dei leaders politici di competere per il sostegno
elettorale, fonti alternative di informazione, possibilità di essere
eletti a uffici pubblici, elezioni libere e corrette, esistenza di
istituzioni che rendono le politiche governative dipendenti dal voto
e da altre espressioni di preferenza. Le otto garanzie istituzionali
che assicurerebbero una democrazia possono essere ridotte per
giungere a una definizione empirica minima che renderebbe ancora più
semplice valutare l'esistenza di certi aspetti in regimi concreti.
Dunque, sono democratici tutti i regimi che presentano suffragio
universale, maschile e femminile, elezioni libere competitive
ricorrenti e corrette, più di un partito in competizione, e diverse
fonti alternative di informazione.
La necessità di proporre diverse definizioni suggerisce anche la
possibilità di elaborare numerosi sottotipi all'interno del genus
democratico a seconda degli aspetti che si vogliono mettere in
evidenza. Così, merita di essere citata la classica distinzione che
fa riferimento ai rapporti tra legislativo ed esecutivo, cioè la
distinzione tra regime presidenziale, con elezione diretta del capo
dello Stato e poteri autonomi di direzione dell'esecutivo non
dipendente dal parlamento (ad esempio, gli Stati Uniti), e regime
parlamentare, dove invece il capo dello Stato è una figura
prevalentemente rappresentativa e l'esecutivo dipende dalla fiducia
del parlamento (ad esempio, Italia, Svezia o Israele). Più
recentemente, Duverger (v., 1980) ha aggiunto il
semipresidenzialismo ad indicare paesi come Francia, Finlandia,
Portogallo e altri, dove il presidente è direttamente eletto a
suffragio universale (come il parlamento), ma il primo ministro e il
governo dipendono ancora dalla fiducia del parlamento. Tale
soluzione diarchica ha come conseguenza che il potere del presidente
può essere molto indebolito o annullato da un'opposizione coesa e
maggioritaria in parlamento che riesca a imporre un proprio primo
ministro, come è effettivamente accaduto in Francia negli anni
ottanta durante la presidenza di Mitterrand. Tale classe intermedia
è stata messa in discussione da diversi autori che ne hanno negato
l'autonomia: tutti i paesi, potenziali candidati per questa classe,
possono essere riclassificati e fatti rientrare in una delle due
classi precedenti a seconda dei momenti in cui sono considerati. La
maggioranza degli studiosi, però, ne ha riconosciuto l'autonomia,
oltre alla potenziale rilevanza anche per l'Italia (v. Ceccanti e
altri, 1996), sulla base dell'argomento che proprio questa
flessibilità, che consente di passare da un maggior potere del
presidente a una prevalenza del primo ministro e della sua
maggioranza parlamentare, conferisce identità distintiva al
semipresidenzialismo.
Per di più, è stata proposta anche un'altra categoria intermedia, il
semiparlamentarismo (v. Sartori, 1994, cap. 6), identificato con un
regime che abbia un capo dello Stato puramente rappresentativo e un
primo ministro molto forte che riesce a disciplinare e controllare
tutta l'attività parlamentare, in realtà attraverso il partito di
maggioranza, di cui quel primo ministro è il leader. Se l'esempio
più citato di semipresidenzialismo è la Quinta Repubblica francese,
quello più noto di semiparlamentarismo è il Regno Unito, ma anche
Germania, Spagna e Grecia rientrano in questo tipo. Qualche problema
di classificazione presenta Israele dopo l'introduzione (1992)
dell'elezione diretta del primo ministro, sperimentata per la prima
volta nel 1996. L'assetto istituzionale israeliano sembra così
essere passato da un parlamentarismo a un semipresidenzialismo forte
con un primo ministro sostenuto da una maggioranza parlamentare,
come ci si augura che avvenga grazie alla contemporaneità di
elezione del parlamento (la Knesset) e del primo ministro. Se, però,
la maggioranza parlamentare fosse diversa o cambiasse nel corso
della legislatura, l'esecutivo si troverebbe paralizzato, il capo
dello Stato acquisterebbe un maggiore potere di fatto, e si dovrebbe
ricorrere a nuove elezioni usando il potere di scioglimento (che il
primo ministro possiede) del parlamento. In questo senso, l'elezione
diretta del premier non ha la flessibilità del semipresidenzialismo
vero e proprio, come quello francese, né la possibilità di un
esecutivo controllato dal parlamento, come ad esempio il
presidenzialismo americano.
Numerose sono le tipologie più specificamente attente a determinati
aspetti, considerati fondamentali per la democrazia, come la
stabilità. Le più importanti, che fanno riferimento proprio a quel
fattore, sono quelle di Almond e Powell (v., 1966, pp. 329-342) e di
Lijphart (v., 1968). Nella loro elaborazione più compiuta, Almond e
Powell partono dal grado di differenziazione strutturale e dalla
cultura politica giungendo a tre diversi tipi di regimi democratici:
quelli con alta autonomia dei sottosistemi, dove i partiti, i gruppi
di interesse e i mass media sono relativamente differenziati fra
loro e vi è una cultura partecipante abbastanza omogenea; quelli con
limitata autonomia dei sottosistemi, dove le strutture tendono a
essere dipendenti le une dalle altre e vi è una cultura politica
frammentata, con profonde divisioni; e, infine, quelli con bassa
autonomia dei sottosistemi, dove vi è un attore (un partito)
dominante o egemonico, strutture meno differenziate e cultura
frammentata.
Questa tipologia è stata variamente criticata soprattutto per la
scarsa precisione della nozione di autonomia dei sottosistemi: in
sostanza, per un'estensione eccessiva del classico principio
liberale della divisione dei poteri a strutture informali, come
partiti, gruppi e media.Lijphart parte dalla tipologia almondiana
per fare un passo avanti, spezzando il determinismo che la
caratterizza. Infatti, egli mantiene uno dei due criteri, il grado
di frammentazione della cultura politica (omogenea o divisa), ma
sostituisce all'altro il comportamento delle élites (conflittuale o
tendente all'accordo) come variabile indipendente in grado di
garantire stabilità a società potenzialmente molto conflittuali. Il
tipo più importante, intorno a cui è costruita tutta la tipologia, è
la democrazia consociativa. Essa sorge in una società segmentata,
con profonde divisioni linguistiche, etniche, religiose o anche
sociali, ma guidata da élites consapevoli, altamente democratiche e
pragmatiche che riescono a giungere ad accordi-compromessi
reciprocamente soddisfacenti.
Gli altri tre tipi di democrazia che emergono dall'incrocio tra
cultura politica omogenea o frammentata ed élites disposte
all'accordo ovvero al conflitto sono: democrazia centrifuga, con una
cultura frammentata (e poco coesa) ed élites conflittuali, che
portano a immobilismo e instabilità (Italia, Quarta Repubblica
francese); democrazia centripeta, con cultura omogenea e normale
competizione-conflitto tra élites (Inghilterra, Paesi Scandinavi);
democrazia depoliticizzata, con élites tendenti all'accordo e una
cultura omogenea (Stati Uniti). La critica più rilevante a Lijphart
è che questa sua tipologia ignora del tutto l'impatto autonomo,
mostrato in diversi paesi, degli aspetti istituzionali (rapporti
legislativo-esecutivo e sistema elettorale).In anni più recenti è
cresciuta la consapevolezza che tale esercizio concettuale è solo
una prima utile ricognizione della realtà, ma che questo risultato
si paga con un'enorme perdita di informazioni. Si è, peraltro,
sempre meno disposti a sopportare tale costo quando l'oggetto
analizzato è un macrofenomeno su cui ormai esiste una rilevante
quantità di ricerche e conoscenze che non è più possibile ignorare.
Il problema, quindi, di differenziare tra i sistemi democratici è
stato affrontato seguendo due diverse strategie, rappresentate al
meglio, rispettivamente, dai lavori di Powell (v., 1982) e ancora di
Lijphart (v., 1984).
Powell identifica il problema della 'qualità' democratica col suo
rendimento, misurato da partecipazione elettorale, stabilità
governativa e ordine civile. Quindi, analizza gli effetti delle
condizioni socioeconomiche, degli aspetti istituzionali, del sistema
partitico sul rendimento democratico. L'analisi di Powell è basata
su misure e ricerche di relazioni e spiegazioni, ma finisce anche
con il considerare una molteplicità di problemi, che servono a
distinguere meglio un sistema democratico da un altro. Mentre si
possono sollevare fondati dubbi sulla definizione del rendimento
politico, la strategia applicata appare corretta: essa è
indubbiamente uno dei modi per descrivere e spiegare con maggiore
precisione le differenze tra le diverse democrazie.La strategia di
Lijphart è molto diversa, ma altrettanto - se non maggiormente -
proficua. Lo studioso olandese comincia con l'identificare due
principî di fondo di qualsiasi democrazia: vi sono regimi di tal
fatta fondati sul principio maggioritario e regimi fondati sulla
ricerca del consenso più ampio. Tali principî influenzano tutte le
dimensioni rilevanti in un assetto democratico: caratteristiche del
governo, rapporti esecutivo-legislativo, natura del legislativo,
numero dei partiti e divisioni partitiche rilevanti, sistema
elettorale, grado di centralizzazione nell'amministrazione,
caratteri della costituzione, esistenza di forme di democrazia
diretta.
Sulla base di queste dimensioni, Lijphart costruisce due modelli
'polari'. I caratteri del primo, il Westminster model o modello
maggioritario, sono: concentrazione del potere esecutivo in governi
formati da un solo partito e maggioranze risicate; fusione dei
poteri (legislativo ed esecutivo) e dominio del governo;
bicameralismo asimmetrico (una camera ha poteri maggiori
dell'altra); bipartitismo; sistema partitico con una sola dimensione
rilevante; sistema elettorale maggioritario (plurality, con collegi
uninominali e vittoria al candidato che raggiunge la maggioranza
relativa); governo centralizzato e unitario; costituzione non
scritta e sovranità parlamentare; esistenza esclusiva di forme di
democrazia rappresentativa (assenza di ricorso a consultazioni
dirette). Gli aspetti rilevanti del modello consensuale, invece,
sono: governi formati da più partiti e ampie coalizioni; separazione
formale e informale dell'esecutivo dal legislativo; bicameralismo
simmetrico e rappresentanza delle minoranze; sistema multipartitico;
sistema partitico con più dimensioni rilevanti, oltre alla divisione
tra destra e sinistra; sistema elettorale proporzionale;
decentramento e assetto federale; costituzione scritta e potere di
veto delle minoranze.
I vantaggi del modo di procedere di Lijphart sono evidenti. Rispetto
alle tipologie tradizionali, il numero di informazioni perdute è
notevolmente inferiore in quanto si considerano più dimensioni; si
possono combinare dati quantitativi con dati qualitativi,
guadagnando in rigore e precisione; infine, all'interno di ciascuna
dimensione si può vedere meglio come si caratterizza ciascun paese.
I difetti sono meno evidenti, ma ci sono. Innanzitutto, se il
problema è quello di accrescere le informazioni e dare un quadro più
completo, mancano almeno due dimensioni facilmente riconoscibili
come rilevanti in qualsiasi democrazia: il ruolo dei gruppi di
interesse nei confronti dei partiti e delle istituzioni, insieme
alle modalità di intermediazione degli interessi. La stessa
strategia concettuale, inoltre, finisce per appiattire sui due poli,
modello Westminster e modello consensuale, tutti i regimi. I poli
diventano, in realtà, due tipi solamente. Dunque, invece di
guadagnare in informazioni il risultato effettivo è esattamente
opposto.Vi possono essere almeno due maniere per superare i problemi
posti dalla tipologia di Lijphart, mantenendone certi vantaggi.
La prima è individuare uno spazio formato da almeno due criteri
base, uno dei quali si rifà in qualche modo agli aspetti sostanziali
sopra indicati. Questa è la via seguita da Karl e Schmitter (v.,
1991). Tale spazio bidimensionale è il risultato della collocazione
su un asse del principio dominante di aggregazione in un regime
democratico: attenzione al numero dei cittadini, e dei loro
rappresentanti, che sostengono una certa politica o un certo
candidato e sono tutti considerati uguali, ovvero attenzione
all'intensità delle preferenze dei cittadini (magari aggregate in
base alla classe, religione, nazionalità e altro). A tale criterio
presente anche in Lijphart (v., 1984), quando propone la distinzione
tra principio maggioritario e principio consensuale, Karl e
Schmitter aggiungono sull'altro asse la dimensione attinente
all'esistenza di uno Stato attivo e interventista oppure di uno
Stato con un ruolo molto più limitato che sostiene l'interazione
competitiva tra individui e istituzioni.
Emergono così quattro tipi 'angolari', che si pongono cioè agli
estremi dello spazio così definito: la democrazia corporativa, dove
intensità delle preferenze e ruolo dello Stato sono al centro del
regime; la democrazia consociativa, dove vengono ancora privilegiate
le intensità, ma lo Stato è assai meno attivo e interventista; la
democrazia populista, con un forte ruolo dello Stato e attenzione al
numero dei cittadini che sostengono certe soluzioni; e, infine, la
democrazia elettoralista, dove uno Stato non attivo si combina con
l'attenzione ai numeri elettorali. L'Austria aderisce al meglio al
primo modello, la Svizzera al secondo, il Brasile e il Portogallo al
terzo, e gli Stati Uniti al quarto. Tutti gli altri paesi si
collocano all'interno dello spazio individuato in posizioni
intermedie tra le due dimensioni indicate.
La seconda maniera di procedere per superare i problemi posti dalla
strategia bipolare di Lijphart è semplicemente quella di seguire il
percorso tradizionale di formulazione di una tipologia, ma con più
dimensioni e alla fine più tipi. A questo scopo è essenziale rifarsi
all'imponente letteratura uscita negli ultimi venti anni sugli
aspetti istituzionali delle democrazie (v. ad esempio Lijphart,
1992; v. Linz e Valenzuela, 1994; v. Sartori, 1994). Almeno una
lezione suggerita da questa letteratura è che regole elettorali (v.
Duverger, 1951; v. Rae, 1971; v. Bogdanor e Butler, 1983; v. Grofman
e Lijphart, 1986; v. Taagepera e Shugart, 1989; v. Sartori, 1994) e
norme di governo debbono essere viste come un tutto unico, un
sistema con le proprie caratteristiche. In questa prospettiva, i due
fattori basilari (sistema elettorale e relazioni tra governo e
parlamento) a cui questa letteratura fa riferimento possono essere
classificati e combinati nel modo seguente:
a1. Elezione diretta del presidente, capo dell'esecutivo
(presidenzialismo) e sistema elettorale maggioritario.
a2. Semipresidenzialismo e sistema elettorale maggioritario.
a3. Semiparlamentarismo e sistema elettorale proporzionale
rinforzato (cioè un sistema elettorale con collegi plurinominali,
alte soglie di accesso alla ripartizione dei seggi e, nell'insieme,
ridotta proporzionalità) o sistema elettorale maggioritario.
a4. Parlamentarismo e sistema elettorale proporzionale.
a5. Presidenzialismo e sistema elettorale proporzionale.Dove,
quindi, i quattro tipi istituzionali proposti tradizionalmente o più
recentemente dalla letteratura (presidenzialismo,
semipresidenzialismo, semiparlamentarismo, parlamentarismo) si
combinano con le due alternative elettorali essenziali (sistema
maggioritario con collegi uninominali, a uno o a due turni,
considerato quasi equivalente negli effetti bipolarizzanti a un
sistema a ridotta proporzionalità, e sistema elettorale ad alta o
molto alta proporzionalità nel passaggio dai voti ai seggi
parlamentari). Si può aggiungere che delle otto varianti
astrattamente possibili, solo le cinque sopra indicate sono
empiricamente rilevanti. E la variante apparentemente più strana,
cioè quella in cui presidenzialismo e sistema proporzionale per
l'elezione del parlamento sono combinate, è anche la soluzione
istituzionale più comune in America Latina (v. Jones, 1995).
Nell'ambito degli assetti istituzionali, andrebbe considerato un
terzo fattore, particolarmente rilevante, che aiuta a definire
meglio i modelli istituzionali risultanti stricto sensu. Si tratta
del grado di decentramento nella distribuzione dei poteri tra
governo centrale e governo locale. A questo proposito le principali
variabili da considerare sono: l'eguaglianza nella rappresentanza di
unità locali con territorio e popolazioni diverse, anche nelle
dimensioni, in un ramo del parlamento nazionale, cioè l'esistenza di
una camera che rappresenti le regioni o gli Stati federati;
l'autonomia legislativa e di esecuzione delle istituzioni locali
(regioni, comunità autonome, comuni) in settori diversi; e
soprattutto l'autonomia nell'imposizione fiscale. Forme e modalità
diverse di decentramento possono trovarsi in ciascuno dei cinque
tipi sopra indicati, arricchendo ulteriormente l'analisi.
Anche se non è sicuramente l'aspetto principale, come è stato
sostenuto, un secondo insieme molto importante di fattori che
aiutano a definire i tipi democratici è dato dal sistema partitico.
Alcuni autori affermano palesemente la connessione storica e logica
tra partiti e democrazia (v. ad esempio Pomper, 1992) o appunto
definiscono la democrazia con riferimento ai partiti (v. ad esempio
Sartori, 1993, p. 41). In quanto istituzioni intermedie, che si
vogliono radicare nella società civile e acquisire maggiore sostegno
(anche elettorale) a livello di massa (vote-seeking), che ricercano
e occupano con propri esponenti posizioni governative e
parlamentari, a livello centrale e locale (office-seeking), che al
tempo stesso propongono politiche e sono veicoli per prendere
decisioni e realizzare quelle politiche (policy-seeking) (v. Strom,
1990), magari contrastate da altri partiti di opposizione, i partiti
e il sistema partitico sono necessariamente il fulcro del
funzionamento reale di ogni democrazia. Partiti e sistema di
partito, dunque, possono essere visti in una varietà enorme di
momenti e funzioni, anche - ad esempio - nelle loro relazioni con la
burocrazia, la magistratura, o i militari, a livello di élites; o,
in una prospettiva maggiormente societaria, come 'trasmettitori
della domanda sociale' o 'delegati' e 'rappresentanti' dei diversi
settori sociali (v. Pizzorno, 1980, pp. 13 ss.); o ancora, in una
prospettiva istituzionale, si può vedere come la stessa
organizzazione partitica tenda ad acquisire autonomia e propri
interessi consolidati.
Il numero e la dimensione (elettorale e in termini di seggi
parlamentari) dei partiti in un dato sistema, alcuni specifici
aspetti organizzativi interni, soprattutto la coesione parlamentare
e il ruolo di uno o più leaders al loro interno, la composizione di
un certo governo (monocolore se formato da un solo partito, di
coalizione se da almeno due) e l'omogeneità/eterogeneità ovvero la
vicinanza/distanza dei partiti tra loro, innanzitutto per i partiti
che sostengono lo stesso governo, in termini di politiche sostenute
su tematiche diverse, sono gli aspetti principali che definiscono un
sistema partitico all'interno di una democrazia. Integrando alcuni
aspetti sopra indicati con la tipologia di Sartori (v., 1976), che
partendo dal riferimento al numero dei partiti e alla distanza
ideologica tra essi distingue tra bipartitismo, sistema con un
partito predominante, multipartitismo moderato, cioè con bassa
distanza ideologica tra gli stessi partiti, e multipartitismo
polarizzato, cioè con attori molto diversi e con ideologie distanti
tra loro, si può avere:
b1. Sistema a partito predominante, coeso, e governo monocolore.
b2. Sistema a partito predominante, con un forte leader, e governo
monocolore.
b3. Bipartitismo e governo monocolore.
b4. Multipartitismo omogeneo e governo di coalizione.
b5. Multipartitismo eterogeneo e governo di coalizione.
È ovvio che dietro ciascun caso vi sono diverse forme e gradi di
competizione, influenzati dalle regole elettorali che fissano
l'accesso all'arena politica dei partiti; dalle differenze tra i
principali partiti in termini di voti e seggi parlamentari; dalle
dimensioni della volatilità o fluidità elettorale, cioè dalla
facilità con cui un elettore sposta il proprio voto da un partito a
un altro; da altri aspetti della legge elettorale e del processo
decisionale parlamentare. Tuttavia, tali aspetti sono
sostanzialmente impliciti nella proposta sopra indicata, e ad essi
non è, dunque, necessario fare un riferimento preciso e diretto.
Esiste, infine, un terzo insieme di fattori che contribuiscono in
maniera molto rilevante a comprendere che cosa sia un regime
democratico, pur essendo di solito trascurato nelle analisi dei tipi
di regimi democratici. Ad eccezione di quelle di Lange e Meadwell
(v., 1985), che considerano il grado di contrattazione centralizzata
tra sindacati, associazioni imprenditoriali e governo, insieme al
ruolo dei sindacati, e in parte di Karl e Schmitter (v., 1991), non
vi sono quasi altre tipologie in cui si dia rilievo centrale alle
modalità dei rapporti tra partiti e associazioni di interesse.
Una maniera di illuminare tali rapporti consiste nel considerare
l'autonomia della società civile nelle sue diverse articolazioni -
in specie le diverse associazioni di interesse, economico o di altro
tipo - rispetto alle istituzioni pubbliche e alle élites partitiche;
ovvero, all'opposto, il controllo della società civile da parte
delle istituzioni e delle élites partitiche. In questo ambito, due
dimensioni più specifiche e connesse possono essere considerate: la
prima attinente al ruolo delle élites partitiche e dei partiti nei
confronti delle élites imprenditoriali, i sindacati, e altri gruppi
organizzati; la seconda, il grado in cui esistono élites attive non
organizzate, quali piccole, medie o anche grandi imprese private, e
una rete di associazioni intellettuali, religiose o di altro genere.
Un modo di analizzare le relazioni tra partiti ed élites
imprenditoriali, sindacati o altre associazioni di interesse è
quello di stabilire se i partiti, o il sistema partitico nel suo
insieme, svolgono un ruolo di gatekeeper nei confronti dei gruppi,
cioè se e fino a che punto i partiti di governo, quelli
d'opposizione (e il sistema partitico, nel suo complesso) riescono a
controllare l'accesso dei gruppi di interesse all'arena decisionale.
In questo senso particolare, dal punto di vista dei gruppi
l'intermediazione partitica è l'unico o almeno il miglior modo di
proteggere i propri interessi (v. Morlino, 1991).
Si possono individuare almeno tre possibili scenari nelle relazioni
tra partiti e gruppi, con o senza un ruolo diretto del settore
pubblico. Il primo, dominio o, in senso più forte, occupazione,
configura una situazione in cui il sistema partitico domina
largamente la società civile, gruppi di interesse compresi. In
realtà, i gruppi sono quasi organizzazioni collaterali dei partiti,
i quali hanno solide e autonome risorse di potere in termini di
ideologia e organizzazione interna. Questo accade soprattutto per i
sindacati e diverse altre organizzazioni, ma anche per deboli élites
imprenditoriali subordinate ai partiti.
Nella seconda possibilità, la neutralità, non vi sono legami precisi
e stabili tra gruppi e partiti. I gruppi di interesse sono
organizzati in misura diversa, sono attivi politicamente, e hanno
proprie autonome basi economiche e sociali. Parimenti, i partiti
possono usufruire di risorse autonome, anche organizzative, riescono
sostanzialmente a controllare il processo decisionale, anche
approfittando delle regole proprie di ogni democrazia, che
conferisce ai partiti una posizione centrale nel suo funzionamento.
Nel complesso, quindi, il sistema partitico riesce a svolgere un
ruolo di gatekeeper: gruppi e singoli individui sono portati, se non
costretti, a riferirsi alle élites partitiche per promuovere e
proteggere i propri interessi. In ogni caso, a differenza di quanto
accade nel dominio, non si fissano rapporti solidi tra un
particolare partito e uno o più gruppi di interesse. I gruppi
imprenditoriali sono in una posizione assai più indipendente e gli
stessi sindacati, malgrado tradizionali e forti legami di solito con
partiti di sinistra, hanno un proprio ambito di autonomia che li può
far trovare su posizioni diverse rispetto al proprio partito di
riferimento.
Nel terzo scenario, l'accesso diretto, i partiti (e le stesse élites
partitiche) sono superati e, sostanzialmente, tagliati fuori nel
funzionamento concreto del processo rappresentativo: non riescono a
svolgere alcun ruolo di intermediazione. I gruppi di interesse e le
élites imprenditoriali sono in grado di scavalcare i partiti grazie
alle relazioni personali con parlamentari, esponenti del governo,
burocrati, o in molti altri modi. I partiti hanno delle basi di
potere autonome molto deboli per mancanza di organizzazione o perché
le regole governative e parlamentari non le garantiscono loro, e in
questo senso non hanno neppure la possibilità di acquisire risorse e
rafforzarsi in qualche modo. In breve, non vi è nessun ruolo di
gatekeeping.
Se ovviamente disegnare solamente tre scenari è ancora una drastica
semplificazione del reale, può essere utile per precisare la
tipologia democratica che si sta proponendo. Altrettanto utile è
rilevare la connessione tra questi scenari e la seconda dimensione
sopra citata, l'esistenza di diverse élites, anche senza rilevanza
politica, e di diverse reti associative, gruppi di interesse
compresi. Infatti, questa dimensione è semplicemente l'altra faccia
della stessa medaglia. Né è particolarmente difficile controllare
empiricamente l'esistenza di una società con cittadini attivi e
partecipanti, diverse e variegate élites, giornali indipendenti e
diverse reti televisive, varie reti di associazioni più o meno
strutturate; in breve, con un alto grado di capacità associativa, e
mobilitativa, con risorse autonome, ma anche senza una diretta e
immediata rilevanza politica.
Nell'ipotesi di una società civile così sviluppata le relazioni tra
le élites partitiche e una tale società sarebbero di neutralità o
anche di accesso diretto a seconda dell'esistenza o meno di altre
condizioni, in specie di determinate regole di governo e di
autonomia del sistema partitico (v. oltre). Se, al contrario, la
società civile è scarsamente organizzata e senza risorse autonome,
innanzitutto economiche, allora la soluzione di dominio diventa la
più probabile.
Indubbiamente, tra i tre insiemi di fattori vi sono relazioni
complesse che in questa sede non è strettamente necessario
approfondire; tuttavia, per capire più a fondo il controllo
partitico della società civile, o il suo contrario, gli altri
fattori da considerare sembrano essere: 1) a livello statale, le
dimensioni del settore pubblico dell'economia e la misura
dell'intervento statale nei settori industriali e dei servizi, con
la limitazione, che ne deriva, delle regole di mercato; la
conseguente concreta eventualità che tutte le posizioni di comando
in quei settori siano il risultato di nomine partitiche, e che
quindi le élites partitiche sviluppino relazioni stabili e forti, ma
anche particolaristiche, attraverso la distribuzione delle risorse
economiche (finanziamenti, costruzione di infrastrutture, posti di
lavoro, e altro). In questa chiave, uno Stato con alcuni corpi
indipendenti, quali in particolare la magistratura, può consentire
alla società civile di sfuggire, magari parzialmente, al controllo
partitico dandole mezzi di difesa; 2) a livello di regime, le regole
elettorali e costituzionali che rafforzano il ruolo dei partiti nei
riguardi dei gruppi, quali i meccanismi elettorali che portano a una
netta riduzione del numero dei partiti oppure l'accentramento del
processo decisionale con il controllo del governo su di esso; 3) a
livello di sistema partitico, uno specifico sistema, e anzitutto un
sistema a partito predominante; 4) a livello di partiti, alcune
caratteristiche interne in grado di rafforzare il loro ruolo nei
confronti della società civile, quali la coesione soprattutto del
partito parlamentare ovvero un'organizzazione sviluppata, o ancora
un leader che controlli pienamente il partito; 5) a livello
socioculturale, la diffusione di ideologie forti che diano ai
partiti una posizione preminente nel dibattito pubblico.
Al contrario, un settore pubblico molto limitato, un processo
decisionale decentrato e, dunque, più facilmente permeabile dove si
creano molti spazi di azione per l'attività di pressione a livello
parlamentare, un sistema multipartitico eterogeneo, un'alta
frammentazione del sistema, e magari divisioni interne ai partiti
con strutture organizzative poco sviluppate e, infine, accentuata
deideologizzazione possono essere alla base di una società civile
autonoma, se questa ha un vivace pluralismo economico, culturale e
sociale.
Nell'insieme, dunque, si può configurare il controllo della società
civile nel caso di dominio partitico, ampio settore pubblico, spazio
limitato per il mercato e l'imprenditoria privata, società civile
dipendente e debolmente strutturata; l'autonomia nell'ipotesi
opposta di neutralità e accesso diretto con una società civile
complessa, articolata, strutturata e un settore pubblico molto
limitato a cui corrisponde un'iniziativa privata e un mercato
sviluppati. Ovviamente, tra i due casi estremi vi sono diverse
possibilità intermedie di semi-controllo o semi-autonomia, in cui il
ruolo di élites partitiche ben organizzate alla fine influenza e
prevale su una società civile non particolarmente autonoma e
sviluppata, o in cui una società civile più autonoma ed élites
politiche meno organizzate e forti consentono neutralità o accesso
diretto all'arena decisionale.
A questo punto si può ricostruire un quadro completo con i tre
macrofattori fin qui indicati. Ai fini della formulazione di una
tipologia democratica, la combinazione delle variazioni dei tre
macrofattori porta a diversi tipi o modelli di democrazia. Dunque,
una selezione che individui i tipi empiricamente più rilevanti è
opportuna per semplificare il quadro complessivo. In questo senso,
proprio i processi di democratizzazione negli ultimi decenni del XX
secolo, mostrano che man mano che la democrazia diventa un regime
sempre più accettato e sempre meno sfidato, i modelli maggioritari,
cioè i modelli di democrazia nei quali si presta più attenzione ai
processi decisionali e alla loro efficienza, acquistano una notevole
importanza empirica. Si può iniziare così dalla democrazia
maggioritaria classica, molto vicina al 'modello Westminster'
proposto da Lijphart (v., 1984). Quindi, caratterizzata da
semiparlamentarismo e sistema elettorale maggioritario (plurality, o
anche un proporzionale rinforzato), bipartitismo e governi
monocolori, ma anche da una società civile autonoma e ben sviluppata
con gruppi neutrali e, di massima, senza accesso diretto all'arena
decisionale. Nello stesso modello maggioritario si può far rientrare
l'ipotesi di un assetto presidenziale, sistema elettorale
maggioritario, bipartitismo con governi monocolori, e società civile
autonoma, con accesso diretto limitato o assente.Molto importanti
per numerosi casi di recente democratizzazione, dall'America Latina
all'Europa orientale, sono i due seguenti modelli: democrazia
plebiscitaria e democrazia maggioritaria forte. La prima è
caratterizzata da un assetto presidenziale, sistema elettorale
maggioritario, sistema a partito predominante, la presenza di un
leader forte, governo monocolore, e una società civile
fondamentalmente controllata o con limitati ambiti di autonomia. In
questo modello possono coesistere anche varianti con
presidenzialismo, sistema proporzionale, multipartitismo eterogeneo
e governi di coalizione. Con il loro assetto presidenziale diversi
paesi latinoamericani possono rientrare in questo modello. Il
secondo modello è il risultato di un'istituzione presidenziale, un
sistema elettorale maggioritario, o anche un assetto
semipresidenziale, ma sempre con un sistema elettorale
maggioritario, un sistema a partito predominante, con
caratteristiche di coesione interna, e governo monocolore, o anche
multipartitismo omogeneo e governo di coalizione, ma soprattutto una
società civile chiaramente controllata dalle élites partitiche.
Si può, inoltre, configurare una democrazia debolmente
maggioritaria, i cui elementi principali sono parlamentarismo e
sistema proporzionale, accompagnato da un sistema a partito
predominante e magari coeso o con un forte leader, un governo
monocolore, e una parziale autonomia della società civile ovvero un
parziale controllo delle élites partitiche. Può essere una
democrazia debolmente maggioritaria anche quel regime democratico
con assetto presidenziale e sistema elettorale proporzionale, ma con
tutte le altre caratteristiche inalterate.Le diverse varianti
maggioritarie possono essere affiancate da almeno due modelli in cui
il principio dell'efficienza e della maggioranza non prevalgono
affatto: la democrazia proporzionale e la democrazia conflittuale.
Il primo dei due modelli è la risultante di parlamentarismo e
sistema elettorale proporzionale, multipartitismo omogeneo e governi
di coalizione, insieme a una società civile autonoma e articolata o,
comunque, almeno parzialmente autonoma. Il secondo vede la
combinazione di parlamentarismo e sistema proporzionale, insieme a
multipartitismo eterogeneo, governi di coalizione e soprattutto una
società civile dominata o quasi dominata dai partiti ovvero dalle
élites partitiche. La tab. II presenta e riassume i diversi modelli.
3. Regimi non democratici
La difficoltà principale nel definire il regime autoritario e le
altre forme non democratiche, più o meno contigue, non sta, come nel
caso della democrazia, in una qualche tensione tra aspetti normativi
ed empirici, bensì in fattori tutti empirici: questa ampia categoria
dovrebbe comprendere le numerose varietà non democratiche e, al
tempo stesso, non dovrebbe essere tanto generale da avere scarsa
significatività o rilevanza. È, dunque, opportuno cominciare con il
dividere questa categoria in quattro sottotipi: oltre al regime
autoritario, il sottotipo più importante e con un maggior numero di
esempi, vanno considerati il regime totalitario, quello tradizionale
e l'ibrido istituzionale, che in particolare raccoglie tutti i casi
di regime nelle fasi di mutamento e che, dunque, presentano
caratteristiche dell'uno o dell'altro sottotipo, di solito per un
periodo di tempo limitato. Alla fine del XX secolo, a questi altri
sottotipi corrisponde indubbiamente un numero di casi inferiore.
Tuttavia, la ridotta quantità viene largamente compensata dalle
diversità istituzionali che emergono e dall'importanza dei paesi,
che soprattutto nel passato sono stati fatti rientrare in questi
sottotipi.
Cominciando dai regimi autoritari, numerosi sono stati i tentativi
di fornire definizioni adeguate (v. Bayart, 1976). Il principale
difetto di molti di essi sta nel generalizzare e cercare di rendere
applicabili a più casi modelli tratti da un'unica esperienza
storica. Ad esempio, Marx propone la categoria del bonapartismo;
Gramsci quella simile del cesarismo; altri autori usano espressioni
come neobismarckismo (v. Hermet, 1975), fascismo e diverse altre. La
proposta che è sembrata più convincente in quanto riesce a
conciliare meglio l'esigenza di una generalità significativa e
quella di una più ampia applicabilità sembra quella di Linz.
Elaborata più di venti anni fa e ormai ampiamente accettata, questa
definizione propone di considerare autoritario ogni "sistema
politico con pluralismo politico limitato e non responsabile, senza
una elaborata ideologia-guida, ma con mentalità caratteristiche,
senza mobilitazione politica estesa o intensa, tranne che in alcuni
momenti del loro sviluppo, e con un leader o talora un piccolo
gruppo che esercita il potere entro limiti formalmente mal definiti
ma in realtà abbastanza prevedibili" (v. Linz, 1964, p. 255).
Vengono così individuate cinque dimensioni o variabili rilevanti:
pluralismo limitato, mentalità caratteristiche, assenza di
mobilitazione politica, leader o piccolo gruppo che esercita il
potere, limiti formalmente mal definiti.
Innanzitutto, a livello di cittadini, l'aspetto più importante è il
livello di mobilitazione, ossia, specificando meglio, il quantum di
partecipazione di massa indotta e controllata dall'alto. Ai
cittadini non sono riconosciute né autonomia, né indipendenza; nelle
fasi di maggiore stabilità autoritaria, la politica dei governanti
sarà quella di mantenere la società civile fuori dall'arena
politica; in ogni modo, un pur basso livello di partecipazione, né
esteso né intenso, può essere voluto e controllato dall'alto. Questo
assetto ha almeno due implicazioni a livello di regime. Primo:
l'esistenza di efficaci apparati repressivi che siano in grado di
attuare le predette politiche di smobilitazione, quali i servizi di
sicurezza, autonomi o all'interno della struttura militare. Secondo:
la debolezza o l'assenza di strutture di mobilitazione, quali il
partito unico o istituzioni statali simili, cioè strutture in grado
di provocare e controllare, al tempo stesso, la partecipazione.
Ovviamente vi è anche un altro aspetto implicito da non dimenticare:
l'assenza di garanzie reali attinenti ai diversi diritti politici e
civili.
Centrale è, poi, il pluralismo limitato e non responsabile di tutti
gli attori politicamente rilevanti e attivi nel regime. Di
conseguenza, per ogni regime autoritario bisogna vedere quali siano
gli attori rilevanti, che si possono distinguere in attori
istituzionali e attori sociali politicamente attivi. I primi sono,
ad esempio, l'esercito, la burocrazia o una parte di essa,
l'eventuale partito unico; i secondi, la Chiesa, gruppi industriali
o finanziari, i proprietari terrieri, in qualche caso persino i
sindacati o strutture economiche transnazionali che hanno importanti
interessi nel paese. Infine, tali attori non sono politicamente
responsabili secondo il meccanismo tipico delle liberaldemocrazie di
massa, cioè attraverso elezioni libere, competitive, corrette.
Dunque, se 'responsabilità' vi è, questa viene fatta valere di
fatto, a livello di politica invisibile nelle contrattazioni che
vengono effettuate, ad esempio, tra militari e gruppi economici o
proprietari terrieri. Inoltre, le elezioni o altre forme di
democrazia che eventualmente possano esserci, quali le consultazioni
dirette attraverso referendum o plebisciti, non hanno significato
sostanziale e non sono caratterizzate da effettiva competizione.
Esse hanno soprattutto un significato simbolico di legittimazione,
espressione di consenso e sostegno a favore del regime da parte di
una società civile controllata e non autonoma. Questo non significa
affatto che le elezioni nei regimi autoritari non abbiano senso. Al
contrario svolgono diverse funzioni, di cui quelle sopra indicate
sono solo le più importanti (v. Hermet e altri, 1973).
La nozione di pluralismo limitato è stata criticata da alcuni
studiosi. L'argomento principale addotto è che il termine
'pluralismo' suggerisce una sorta di legittimità di attori diversi e
in questo senso avvicina il regime autoritario a quello democratico,
mentre trascura tutta la realtà caratterizzata da repressione e
impossibilità di espressione sia dei diritti civili e politici che
delle domande reali della società. Dunque, sotto questo profilo
parlare di pluralismo è sostanzialmente fuorviante. L'obiezione
viene superata sottolineando che il pluralismo di cui si tratta non
è quello illimitato proprio delle liberaldemocrazie di massa,
caratterizzato da competizione e garanzia reale di quei diritti
civili e politici. Con esso si vuole intendere solo che più di un
attore a livello di élite è rilevante per il regime in esame; e
proprio l'aggettivo 'limitato', infatti, sottintende l'esistenza di
controllo e repressione da parte dei governanti.
Il tentativo più importante, dopo quello di Linz, di definire un
regime autoritario (v. Rouquié, 1975) fa un passo avanti proprio
nella direzione del riconoscimento e dell'identificazione di una
pluralità di attori importanti. Partendo dall'analisi del concetto
di bonapartismo in Marx, Rouquié afferma: "sistema semi-competitivo
di tipo bonapartista [...] è il regime sostenuto da una burocrazia
civile e militare, relativamente indipendente dai gruppi sociali
dominanti, che si sforza di risolvere i conflitti che paralizzano la
classe dirigente depoliticizzando, in modo non violento (o non
terrorista), l'insieme delle classi della società" (v. Rouquié,
1975). In più rispetto a Linz, questa definizione nella sua seconda
parte attribuisce maggiore importanza alla funzione, all'impatto del
regime e alle politiche realizzate piuttosto che alle istituzioni.
Nella sua prima parte individua gli attori del regime, la burocrazia
civile e militare. In questo senso, alla fine individua solo un
sottotipo di regime autoritario (quello civile-militare) (v. fig.
2), non riuscendo così a coprire tutto l'ampio genus autoritario.
La nozione di pluralismo limitato acquista maggiore spessore e
significato se collegata a un altro concetto, quello di coalizione
dominante. Con tale espressione si vogliono indicare gli attori,
istituzionali e non, i quali formano l'alleanza, anche solo di
fatto, che mantiene più o meno stabile quello specifico
autoritarismo. Un'accurata individuazione di quale pluralismo
limitato e di quale coalizione dominante esistano in un certo regime
autoritario consente di analizzarne più approfonditamente i
sottotipi. Per di più, se il pluralismo sottintende la presenza di
più attori ovvero il fatto che non vi è un solo attore in grado di
monopolizzare tutte le risorse politicamente rilevanti, si può
capire meglio come in questo tipo di regime si sia creato anche uno
spazio oggettivo per le opposizioni. Sia lo stesso Linz (v., 1973)
che Germani (v., 1975) si sono fermati ad analizzare i diversi tipi
e forme di opposizione, semi-opposizione o anche pseudo-opposizione
che vi possono essere in quel regime: dall'opposizione attiva a
quella passiva, da quella legale a quella alegale e illegale. In
questo regime può essere perfino più conveniente tollerare un certo
grado di opposizione o mantenere una pseudo-opposizione che dà una
vernice liberale a quell'autoritarismo. La terza caratteristica
dell'autoritarismo riguarda il grado di elaborazione della
giustificazione ideologica del regime.
L'autoritarismo è contraddistinto dal fatto che la sua
legittimazione avviene sulla base di "mentalità", secondo
l'espressione mutuata dal sociologo tedesco Geiger, cioè
semplicemente sulla base di alcuni "atteggiamenti intellettuali",
alcuni valori generali, più o meno ambigui, sui quali è più facile
trovare un accordo tra gli attori diversi, con differenti
caratteristiche e interessi (v. Linz, 1975, pp. 266-269). Per essere
più precisi si tratta di valori, quali patria, nazione, ordine,
gerarchia, autorità, e altri. Non vi sono, cioè, elaborazioni
ideologiche articolate e complesse che giustificano e servono a
sostenere il regime.
A livello di strutture politiche, i "limiti formalmente mal
definiti, ma [...] abbastanza prevedibili" entro cui i governanti
autoritari esercitano il proprio potere contrastano con la "certezza
del diritto" prescrittivamente propria degli assetti democratici, e
consentono loro di esercitare il proprio potere con maggiore
discrezionalità. In altre parole, se, come suggerisce una
consolidata tradizione teorica, la legge è la principale difesa del
cittadino ed è all'origine stessa delle democrazie occidentali,
l'assenza di norme ben definite consente al contrario un controllo
della società civile e priva il cittadino di proprie sfere autonome
e garantite di fronte al potere autoritario.
L'ultima caratteristica fa riferimento alle "autorità", e più
esattamente al "leader o piccolo gruppo" al potere. Effettivamente
questi regimi sono caratterizzati da una notevole personalizzazione
del potere, dalla visibilità del leader, talora carismatico, oppure
di poche persone che detengono di fatto le leve del potere in quanto
sono presenti negli organi di vertice.
Definita la categoria centrale di riferimento, il principale passo
successivo è distinguere all'interno di tale tipo di regime, che
presenta un notevolissimo ambito di variazione. Va, però, precisato
che i criteri riguardanti l'esistenza di un leader o piccolo gruppo
e i limiti mal definiti al potere autoritario sono poco utili nel
distinguere tra gli autoritarismi, o anche tra i regimi non
democratici. Qualsiasi regime può avere di volta in volta un leader
o un piccolo gruppo al suo vertice potestativo senza che per questo
cambi il tipo di autoritarismo o serva a distinguere tra un regime
autoritario e un altro non autoritario, ma anche non democratico.
Parimenti, i limiti mal definiti sono anch'essi propri di tutti i
regimi autoritari e di molti altri non democratici. Questa
dimensione sembra piuttosto variare e dipendere dalle tradizioni
giuridiche del paese e dalla durata del regime. Restano, dunque, tre
dimensioni centrali - pluralismo limitato, mentalità
caratteristiche, mobilitazione politica - a cui va aggiunta una
quarta, molto rilevante in un'analisi che privilegi gli aspetti
politici: il grado di strutturazione del regime. Occorre, cioè,
controllare anche in che misura il regime autoritario crea e,
eventualmente, istituzionalizza nuove e diverse strutture politiche
caratterizzanti, quali il partito unico, i sindacati anche
verticali, distinte forme di assemblee parlamentari, sistemi
elettorali caratteristici, o, comunque, altri organi specifici e
diversi da quelli del regime precedente.
Anche le altre tre dimensioni principali necessitano di
precisazione. In quanto alla prima, non è rilevante solo il numero
di attori che costituiscono la cosiddetta coalizione dominante, ma è
importante indicare anche quali siano tali attori. La prima
dimensione riguarda dunque il tipo di coalizione dominante e gli
altri che la compongono: attori istituzionali (burocrazia, militari)
e/o politici (partiti, sindacati) e/o socioeconomici (gruppi
oligarchici di proprietari terrieri, diversi gruppi di imprenditori,
borghesia commerciale). In quanto alla seconda, non basta cercare di
fissare il grado di ideologizzazione. È indispensabile capire anche
quali valori servono a giustificare e legittimare il regime:
tradizionali, moderni, o quali altri. In quanto alla terza, benché
considerare il quantum di mobilitazione dall'alto (e la sua
possibile istituzionalizzazione) sia indubbiamente l'aspetto più
importante, è opportuno integrarla con l'indicazione delle
caratteristiche della mobilitazione soprattutto in relazione agli
altri tre aspetti sopra menzionati. La fig. 1 riassume e precisa i
quattro criteri e le loro specificazioni empiriche (v. anche
Morlino, 1986).
Tutte le dimensioni indicate sono in relazione, più o meno stretta,
tra loro. È così possibile ipotizzare due modelli autoritari polari
a cui corrispondono gli estremi di ciascuna dimensione. Il primo
polo può essere dato, per così dire, dall'autoritarismo perfetto
caratterizzato da: accentuato pluralismo di attori rilevanti,
assenza di ideologie, assenza di mobilitazione, scarsa
strutturazione caratteristica del regime. Il secondo polo configura
il quasi-totalitarismo, pur nell'ambito autoritario: forte presenza
del partito unico in posizione dominante, alto livello di
ideologizzazione, alta mobilitazione ed esistenza di istituzioni
caratteristiche del regime. Tra i due poli si situa una gamma di
configurazioni più specifiche sia se si tiene conto degli attori,
delle mentalità, della mobilitazione, sia se si riflette sulla
possibilità di combinazioni miste in cui, ad esempio, uno scarso
numero di attori rilevanti si combina con scarsa ideologizzazione,
bassa mobilitazione, inesistente strutturazione. L'ambito di
variazione tra autoritarismo e autoritarismo è così vasto e
variegato che rimane la necessità di delineare alcuni modelli
considerati più rilevanti, indicandone meglio le caratteristiche.
Le politiche attuate dal regime in settori diversi (industria,
agricoltura, istruzione o altro) e il grado di repressione che lo
contraddistingue non vanno considerate tra le dimensioni distintive
degli autoritarismi. Infatti, le politiche possono essere in buona
misura connesse alla coalizione dominante e alle mentalità
ideologiche che caratterizzano un certo regime autoritario. Il grado
di repressione può eventualmente dedursi dalla strutturazione del
regime e dal grado di mobilitazione dall'alto. In ogni caso,
politiche e forme o grado di repressione cambiano nell'ambito dello
stesso regime da un periodo all'altro. Dunque, sono meno utili a
capire gli aspetti strutturali e più stabili che definiscono un tipo
di autoritarismo e lo differenziano da un altro. Pur senza negarne
l'importanza in sé, non sono, quindi, dimensioni 'prime' non
riducibili e riconducibili ad altre; si tratta al contrario di
dimensioni (e variabili) sempre 'dipendenti' o secondarie. La fig. 2
propone sia le principali varianti autoritarie che gli altri tipi
non democratici (v. Morlino, 1986). A questo proposito, gli studi e
le ricerche sul totalitarismo sono numerosi e di notevole qualità,
data soprattutto l'importanza dei due paesi solitamente e
indiscutibilmente fatti rientrare in questa categoria, la Germania
nazista e l'Unione Sovietica stalinista. Ferma restante la
differenza, spesso trascurata, tra autoritarismo e totalitarismo, le
dimensioni che emergono dalla definizione di autoritarismo servono
bene a dare una prima indicazione sui regimi totalitari, che sono
così contraddistinti da: a) assenza di pluralismo e ruolo preminente
del partito unico, che è una struttura burocratica e gerarchizzata,
articolata attraverso una serie complessa di organizzazioni che
servono a integrare, politicizzare, controllare, spingere alla
partecipazione tutta la società civile; e, inoltre, subordinazione
di tutti gli altri possibili attori (dai militari alla burocrazia
civile, alla Chiesa) al partito unico, che quindi occupa una
posizione veramente centrale e determinante; b) un'ideologia
articolata e rigida, finalizzata alla legittimazione e al
mantenimento del regime e a dare contenuto alle politiche di
mobilitazione e alle stesse politiche sostantive; c) alta e continua
mobilitazione sostenuta dalla ideologia e dalle organizzazioni
partitiche e sindacali, anche esse subordinate al partito; d) un
piccolo gruppo o un leader al vertice del partito unico; e) limiti
non prevedibili al potere del leader e alla comminazione di
sanzioni.
Questi elementi non sono, però, sufficienti a caratterizzare il
totalitarismo. Oltretutto, vi è il problema di distinguere tra un
totalitarismo di destra e un totalitarismo di sinistra, proprio
tenendo presenti i due principali casi sopra citati. Sul primo
punto, allora, occorre precisare che "l'ideologia totalitaria è un
nucleo progettuale [...] di trasformazione totale della realtà
sociale" (v. Fisichella, 1976, p. 209). Inoltre, non basta
sottolineare le forme di accentuata repressione a cui fa ricorso
tale regime. Va specificato altresì che il terrore totalitario si
esprime anche nei riguardi di "nemici potenziali", di "nemici
oggettivi", di "autori di delitti possibili", di innocenti, di amici
e seguaci, cioè nei riguardi di tutti coloro che in un modo o
nell'altro, indipendentemente dalle loro intenzioni soggettive,
possono costituire un intralcio alle politiche del regime, o meglio
del leader, anche se si tratta di membri della stessa élite
dirigente; che tale terrore si sostanzia in una sorta di "universo
concentrazionista", caratterizzato sia dalla quantità di persone
coinvolte sia dall'essere "una struttura politica di sradicamento
del tessuto sociale", che fa sentire le sue conseguenze sull'intero
corpo sociale (ibid., pp. 61-94).
Queste considerazioni portano anche a notare che se nel regime
autoritario vi è una qualche prevedibilità della sanzione, al
contrario nel regime totalitario l'imprevedibilità è completa.
Infine, toccando quello che è l'aspetto più appariscente, il regime
totalitario presenta un alto grado di mobilitazione insieme agli
altri caratteri già detti, ma tali processi hanno come obiettivo una
profonda trasformazione, e in questo senso si può parlare di
"rivoluzione permanente" e di istituzionalizzazione del disordine
rivoluzionario: "la struttura organizzativa e la meccanica
funzionale dello Stato totalitario riproducono il medesimo principio
di disordine civile e di instabilità permanente" (ibid., p. 119). A
questo punto si possono considerare le differenze tra i due esempi
maggiori di totalitarismo, cioè tra Germania nazista e Unione
Sovietica stalinista. Questo problema è affrontato da diversi
autori, ad esempio da Talmon (v., 1952; tr. it., pp. 14-17). Non è
semplice tuttavia dare una risposta rigorosa e precisa. Si può
iniziare sottolineando le differenze tra le ideologie: nazionalista
quella nazista (o fascista), internazionalista quella sovietica; con
un contenuto e obiettivi di trasformazione profonda la seconda assai
più della prima; pronta a sottolineare il ruolo del leader e
dell'élite la prima rispetto alla seconda, che invece si presenta
come più 'democratica'; infine, l'accentuazione del razzismo nel
primo caso, invece assente nel secondo. Diverse altre differenze
possono essere evidenziate paragonando le principali strutture
portanti, ovvero i partiti unici rispetto alle diverse origini
sociali dei gruppi dirigenti, ovvero rispetto alla possibilità di
istituzionalizzare organizzazioni paramilitari (come nel caso
nazista ma non in quello sovietico).
Scendendo nei dettagli dei due diversi concreti regimi si potrebbero
individuare ancora altre differenze. Sicché al problema teorico
generale (differenza fra totalitarismo di destra e totalitarismo di
sinistra) una risposta rigorosa può essere data solo rispondendo
alla domanda: quali sono le differenze tra Germania nazista e Unione
Sovietica stalinista? Per alcune peculiarità rispetto ai regimi
autoritari e per la loro notevole distanza da quelli totalitari, un
cenno a parte meritano i regimi tradizionali, di cui restano
pochissimi casi. Ad esempio, due di questi potrebbero essere
l'Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti. La loro base di
legittimazione si intende bene se si pensa al patrimonialismo di cui
parla Weber e al ruolo di istituzioni come la monarchia. Le loro
caratteristiche sono meglio comprensibili nei due sottotipi. I
regimi sultanistici sono basati sul potere personale del sovrano che
tiene legati i suoi collaboratori con un rapporto fatto di paure e
ricompense; sono tipicamente regimi legibus soluti, dove le
decisioni arbitrarie del sovrano non sono limitate da norme, né
devono essere giustificate su base ideologica. Dunque, vi è un uso
del potere in forme particolaristiche e per fini essenzialmente
privati. In questi regimi l'esercito e la polizia giocano un ruolo
centrale, mentre evidentemente manca sia qualsiasi ideologia che una
qualche struttura di mobilitazione di massa, come è di solito il
partito unico. Si è, insomma, in un ambito politico dominato da
élites e istituzioni tradizionali.
Sono regimi tradizionali anche le oligarchie competitive. In esse
persistono elementi culturali tradizionali, e in particolare i
valori e le istituzioni religiose hanno notevole importanza.
Inoltre, nelle loro specie del caudillismo e del caciquismo, sono
caratterizzate da alleanze politiche tra le élites detentrici del
potere centrale e i bosses locali, che 'forniscono' voti in cambio
di protezione politica o semplicemente di non interferenza nel
governo locale, paternalistico e autoritario. La base economica è
prevalentemente - ma non esclusivamente - agraria (v. Linz, 1975,
pp. 252-264). Infine, si devono ricordare quei regimi che
configurano dei veri e propri ibridi istituzionali. Si tratta di
regimi non più completamente autoritari e non ancora pienamente
entrati nel genus democratico. Usando una terminologia nota nel
mondo iberico si potrebbe parlare anche di dictablandas e di
democraduras (v. Rouquié, 1975; v. O'Donnel e altri, 1986). Qui se
ne accenna proprio per il diffondersi di tale fenomeno nell'ambito
dei processi di democratizzazione degli anni ottanta e novanta, che
vedono la sempre maggiore affermazione - almeno a livello simbolico,
di propaganda e di accettazione verbale - delle democrazie di tipo
occidentale. Il fenomeno riguarda certe aree dell'America centrale,
dell'Africa e dell'Asia. È opportuno iniziare dal regime che ha
configurato un ibrido istituzionale del tutto speciale, la
democrazia razziale. In paesi come il Sudafrica o la Rhodesia del
Sud, prima che diventasse Zimbabwe, e prima delle trasformazioni in
direzione democratica sono convissuti principî e istituzioni
liberaldemocratiche per la minoranza bianca e principî autoritari
per la maggioranza negra, cui non veniva riconosciuta la
cittadinanza politica.Ibridi istituzionali o, meglio, regimi di
transizione in senso stretto sono tutti quei regimi preceduti da
un'esperienza autoritaria, cui faccia seguito un inizio di apertura,
liberalizzazione e parziale rottura della limitazione del
pluralismo. Questo significa che accanto ai vecchi attori del
precedente regime autoritario, appartenenti a una coalizione ormai
non più dominante né coesa, sono emerse chiaramente delle
opposizioni, grazie anche a un parziale, relativo riconoscimento dei
diritti civili. Tali opposizioni sono ammesse a partecipare al
processo politico, ma sostanzialmente escluse da ogni possibilità di
accedere al governo. Esistono, dunque, più partiti di cui uno resta
dominante-egemonico in elezioni semicompetitive, dove
contemporaneamente una forte, reale competizione vi è già tra i
candidati all'interno di quel partito. Gli altri partiti sono poco
organizzati, di recente creazione o ricreazione e scarso seguito. Vi
è una partecipazione reale, per quanto ridotta, non solo in periodo
elettorale.
Una legge elettorale fortemente distorcente provvede a mantenere un
enorme vantaggio nella distribuzione dei seggi al partito
dominante-egemonico, di solito piuttosto una struttura
burocratico-clientelare. Questo significa che ormai è assente
qualsiasi giustificazione del regime anche solo sulla base di valori
onnicomprensivi e ambigui. La mobilitazione autoritaria è, se vi è
stata, solo un ricordo del passato.
Assenti sono anche evidenti forme di repressione poliziesca - e
quindi, scarso è il ruolo dei relativi apparati. Complessivamente,
esiste una scarsa istituzionalizzazione e, soprattutto,
organizzazione dello 'Stato', se non un vero e proprio processo di
deistituzionalizzazione. I militari possono, però, mantenere un
ruolo politico evidente, pur se sempre meno diretto ed esplicito.
Per intendere meglio questo modello si può aggiungere che esso
scaturisce dal tentativo almeno provvisoriamente riuscito, messo in
atto dalla parte moderata degli attori governanti nel precedente
regime autoritario, di resistere alle pressioni interne ed esterne
alla coalizione dominante, di continuare a mantenere l'ordine e i
precedenti assetti distributivi, di soddisfare in parte - o almeno
mostrare di soddisfare - la domanda di trasformazione in senso
democratico voluta da altri attori, di cui si riesce a contenere
anche la partecipazione. Si possono avere diverse varianti di regimi
di transizione quanti sono i tipi autoritari sopra indicati. Finer
sembra voler cogliere questo fenomeno quando tratta delle
"democrazie di facciata" e delle "quasi-democrazie" (v. Finer, 1970,
pp. 441-531). Ma analizzando meglio questi due modelli, si vede che
il primo può essere ricondotto alla categoria dei regimi
tradizionali e il secondo rientra nel più vasto genus autoritario.
Infatti, esempi tipici di quasi-democrazie sono considerati il
Messico prima del 1976 o alcuni paesi africani retti da partiti
unici. I casi che si potrebbero fare rientrare in questo modello
sono numerosi e indicativi della sua potenziale rilevanza, a
cominciare proprio dal Messico, ma dopo il 1976.
4. Altri criteri di analisi
Un altro modo di discernere tra i diversi regimi politici è
affidarsi non ad analisi e tipologie qualitative, ma a indicatori e
misure quantitativi (v. Morlino, 1975; v. Bollen, 1980). Alcuni
autori, ad esempio, si sono concentrati sullo sviluppo democratico
come aspetto chiave da misurare e attraverso cui distinguere regimi
democratici da altri non democratici. La maggioranza di questi
autori, tuttavia, è partita dall'analisi dei meccanismi 'in entrata'
delle liberaldemocrazie ovvero di alcuni aspetti riguardanti le
strutture decisionali, partitiche, elettorali dei regimi
considerati. Al di là di diversi aspetti più strettamente tecnici,
il problema maggiore nell'uso di quegli indicatori e relative misure
è dato dalla trasformazione in numeri e, in questo senso, in
quantità di aspetti squisitamente qualitativi. Infatti, l'operazione
di traduzione da qualità a quantità è largamente affidata al
giudizio soggettivo dello studioso. Dunque, sotto questo profilo, le
manca quel requisito di replicabilità, indispensabile per essere
scientificamente corretta.
Senza entrare nei dettagli dei singoli tentativi, basterà ricordare
che gli indicatori e le misure di democrazia che hanno dato i
migliori risultati sono quelli che, restringendo la portata
dell''oggetto' da misurare, si sono fissati sul grado di rispetto e
garanzia reale dei diritti politici e civili. In questa ottica,
tutta 'liberale', il tentativo più sistematico, in quanto replicato
negli anni e condotto su tutti i paesi indipendenti nonché frutto di
analisi accurate della realtà di ciascun paese, sembra quello di
Gastil e della Freedom at Issue di New York. Gli indicatori di
diritti politici sono derivati dalla risposta ai seguenti quesiti:
1) le elezioni a suffragio universale provano l'esistenza di
competizione e opposizione significative; 2) l'opposizione ha vinto
recentemente le elezioni; 3) vi sono diversi partiti politici; 4)
esistono dei candidati indipendenti; 5) candidati e votazioni sono
autentici; 6) gli eletti hanno un effettivo potere; 7) i leaders al
potere sono stati eletti di recente; 8) ci sono autentiche votazioni
a livello locale; 9) il regime è libero dal controllo dei militari;
10) il regime è libero dal controllo straniero? Gli indicatori
dell'esistenza dei diritti civili vengono desunti dalla risposta ai
seguenti quesiti: 1) esiste un grado generalizzato di
alfabetizzazione; 2) esiste una stampa indipendente; 3) vi sono
tradizioni di libertà di stampa; 4) la stampa è libera da censura o
strumenti equivalenti; 5) fino a che punto la radio e la televisione
sono indipendenti; 6) hanno luogo discussioni pubbliche aperte; 7)
il giudiziario è realmente indipendente; 8) vi sono organizzazioni
private indipendenti? Sulla base delle risposte a queste domande
Gastil è riuscito a costruire due diverse scale che vanno da 1,
massimo di diritti politici ovvero massimo di libertà, a 7, minimo
di diritti o minimo di libertà, per i diversi paesi del mondo (v.
Gastil, 1980).
Ovviamente procedendo in questo modo si sono messi insieme regimi
politici che, sul piano empirico, si possono considerare democratici
e regimi che tali non sono. Esiste, quindi, il problema di fissare
la soglia al di sopra della quale un dato regime non può più essere
considerato una liberaldemocrazia. Il problema è stato risolto
decidendo di considerare ragionevolmente non democratici i paesi che
in entrambe le scale riportavano un punteggio superiore a 34, con
una fascia di casi intermedi intorno a quei punteggi. Anche la
soluzione di questo problema mostra esplicitamente i limiti dei
tentativi di misurazione, numerosi e ripetuti. Di essi, tuttavia,
quello di Gastil rimane il più significativo.
5. Conclusioni
La messa a punto analitica iniziale e lo spazio dedicato ai regimi
democratici, pur senza trascurare completamente le esperienze di
segno opposto, sono giustificati soprattutto dall'attenzione
prevalente data ai regimi successivi alla seconda guerra mondiale,
nella seconda metà del XX secolo. Il problema scientifico che sta
dietro un simile modo di procedere non è più, come è stato per molti
secoli almeno dopo Aristotele, individuare la migliore forma di
governo, e non è neppure compiere uno sforzo conoscitivo delle
realtà politiche vigenti in questi decenni. È, invece, in primo
luogo il tentativo di capire, se non dominare, il mutamento a
livello di macro-politica. Infatti, solo tipologie più accurate e
che richiedono più informazioni su un dato paese consentono di
rilevare meglio il passaggio da un regime a un altro, e soprattutto
da una democrazia a un'altra. In questo senso, i diversi autori si
sono cimentati in una sfida che può lasciare insoddisfatti per i
risultati raggiunti, ma che rimane la sfida intellettuale più
importante a cui rispondere in questo settore dell'analisi politica.