Partito

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Organizzazione che persegue l’obiettivo della gestione del potere politico mediante il processo di competizione elettorale ovvero – quando non entrano regole democratiche di competizione elettorale – attraverso la designazione diretta dei propri membri nei ruoli di governo.

DIRITTO

I p. sono associazioni private che hanno il monopolio di fatto delle elezioni politiche, attraverso le candidature. In ciò sta la loro natura ambivalente, in quanto, da un lato, hanno una connotazione privatistica di fondo, essendo associazioni non riconosciute, prive di personalità giuridica e con limitata autonomia patrimoniale, ma, dall’altro, svolgono una funzione pubblica. Il monopolio di fatto delle elezioni si riverbera anche sulla forma di governo, in quanto si possono classificare le forme di governo a seconda del numero dei p. che vi operano e del ruolo che ricoprono.

L’irrompere sulla scena politico-costituzionale dei p. è uno dei caratteri distintivi del passaggio dallo Stato liberale allo Stato democratico di massa. Nello Stato liberale i p. avevano rilevanza soltanto all’interno dell’organo rappresentativo, erano cioè essenzialmente dei gruppi parlamentari la cui organizzazione si riduceva a un comitato elettorale. Invece, con l’avvento dello Stato democratico, fondato sul suffragio universale, l’organizzazione dei p. non può più limitarsi al solo Parlamento ma deve estendersi a tutta la società, potendo tutti i cittadini influire direttamente sulla vita politica attraverso il voto. Un ulteriore impulso alla trasformazione dei p. fu dato dal cambio dei sistemi elettorali in gran parte dei paesi europei, con l’abbandono di formule elettorali maggioritarie e l’introduzione di formule elettorali non-maggioritarie (o proporzionalistiche). L’avvento dello Stato democratico ha comportato inoltre il processo di costituzionalizzazione dei p., e cioè il loro graduale inserimento nell’ambito dei documenti costituzionali, laddove lo Stato liberale li aveva sostanzialmente ignorati per tutto il 19° secolo.

In Italia, la Costituzione si occupa dei p. nell’art. 49 Cost., che sancisce il diritto dei cittadini di associarsi liberamente in p., al fine di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, nell’art. 98, co. 3, Cost., che prevede la possibilità di limitare con legge l’iscrizione di alcune categorie di impiegati pubblici (come magistrati, militari di carriera, funzionari e agenti di polizia, e rappresentanti diplomatici e consolari all’estero), e nella XII disp. trans. Cost., che vieta la ricostituzione del disciolto partito fascista. Per le funzioni pubbliche dei p., si è posto in primo luogo il problema del controllo sulle loro fonti di finanziamento per evitare i fenomeni di corruzione. A ciò si è cercato di ovviare con la l. 195/1974, che prevedeva, oltre a un rimborso delle spese elettorali, anche un finanziamento pubblico. Il finanziamento pubblico diretto fu abrogato da un apposito referendum, il 18 aprile 1993, ma rimase in vigore quella parte della legge che prevedeva i rimborsi delle spese elettorali. Quattro anni dopo il Parlamento reintrodusse una forma di finanziamento pubblico, con un contributo volontario pari allo 0,4% dell’IRPEF (l. 2/1997). Poi intervenne la l. 157/1999 che, abrogando la precedente, introdusse un sistema di rimborsi elettorali, a sua volta oggetto di referendum abrogativo nel maggio 2000 (ma la consultazione non superò il quorum di partecipazione). In virtù del combinato disposto della l. 157/1999 e della successiva l. 156/2002, è quindi prevista, allo stato attuale, la costituzione di fondi per le elezioni della Camera e del Senato, del Parlamento europeo e dei consigli regionali, nonché per comitati promotori di referendum. L’ammontare del rimborso per le elezioni viene determinato moltiplicando per un euro il numero di cittadini iscritti nelle liste elettorali per la Camera dei deputati, e viene poi distribuito (tra i p. che superino la soglia dell’1%) in proporzione ai voti conseguiti.

STORIA

1. I primordi

Nelle società tradizionali il diritto di esercitare l’autorità e la partecipazione alla lotta per la distribuzione dei diritti e degli obblighi si basavano su privilegi, frequentemente ereditari, o su immunità istituzionali. La Rivoluzione francese distrusse questo sistema, creando tra i cittadini un’astratta uguaglianza e affermando il principio che ogni potere legittimo deve fondarsi sulla volontà popolare, da esprimersi tramite rappresentanti. Le prime forme embrionali del moderno p. politico furono costruite da raggruppamenti instabili di parlamentari e, in occasione delle competizioni elettorali, da comitati che si formavano a sostegno delle loro candidature. Solo con l’allargamento del suffragio, e spesso come conseguenza di determinate procedure del sistema elettorale (per es., la registrazione degli elettori, lo scrutinio plurinominale, lo scrutinio di lista), si svilupparono i moderni p. politici. Nel definitivo assetto del sistema politico negli Stati occidentali, i p. che avevano ricevuto legittimazione andarono perdendo progressivamente le caratteristiche originarie di classe, di denominazione religiosa ecc., per assumerne altre connaturate con le diverse funzioni che storicamente si trovavano a svolgere sia in qualità di mediatori (al governo o all’opposizione) sia come rappresentanti (delle vecchie e delle nuove categorie e classi sociali, cui il p. si era rivolto per allargare la propria forza).

Nell’analisi storica si possono distinguere 3 fasi nel processo di formazione e trasformazione dei p. moderni. La prima riguarda la divisione politica avvenuta in seno alla classe dominante; la seconda riguarda la nascita dei p. di classe e la risposta venuta dai p. borghesi; la terza riguarda la collaborazione dei p. di classe alla gestione del potere in seno alla società capitalistica, nonché le trasformazioni dei p. di classe una volta raggiunto il potere per via rivoluzionaria.

2. La nascita dei p. moderni

Inizialmente il pensiero politico si pronunciò negativamente sull’esistenza dei raggruppamenti che preludono ai p. politici. T. Hobbes in Inghilterra li considerava ‘Stati nello Stato’ e quindi fonte di anarchia. Il pensiero rivoluzionario francese fu contrario ai corpi intermedi e la Dichiarazione dei diritti del 1789 sancì la libertà di opinione, ma non menzionava quella di riunione e di associazione. Negli Stati Uniti la Costituzione prevedeva che diventasse presidente il candidato che avesse riportato la maggioranza dei voti e vicepresidente il suo concorrente più prossimo. Tuttavia, si manifestarono ben presto differenziazioni di interessi che lo sviluppo economico tendeva a stabilizzare. In Inghilterra si fece strada una contrapposizione parlamentare tra whig e tory. Negli Stati Uniti la Costituzione fu emendata nel 1804, per riconoscere il principio delle candidature contrapposte alle cariche di presidente e vicepresidente. In Francia invece le divisioni politiche per lungo tempo non poterono avere piena espressione a causa delle limitazioni imposte dai regimi che si susseguivano.

Conservatori e liberali iniziarono in Inghilterra il loro processo di trasformazione in p. moderni con il primo allargamento del suffragio, nel 1832, quando il sistema elettorale consigliò la costituzione di società per la registrazione degli elettori. Queste diventarono poi macchine elettorali locali, raggruppate nell’Unione nazionale dei conservatori nel 1867 e nella Federazione nazionale dei liberali nel 1877. Negli Stati Uniti una nuova classe politica s’impose a quella dei federalisti attraverso modifiche istituzionali che attivavano gli strati inferiori della società. Sotto la presidenza Jefferson si realizzò il sistema del frazionamento del potere pubblico, cui era in larga misura possibile accedere per via elettiva; sotto la presidenza Jackson fu portato alle estreme conseguenze il sistema della divisione delle ‘spoglie’ (spoils system), secondo il quale era riconosciuto al presidente il diritto di nominare e revocare una parte consistente di funzionari pubblici. L’indebolimento dell’autorità lasciava spazio alla macchina dei partiti. Le sue funzioni riguardavano, fin d’allora, la soddisfazione dei bisogni privati, che non trovavano adeguata considerazione da parte della struttura pubblica, e l’attribuzione di privilegi politici che permettessero ai privati di acquisire vantaggi economici. Il sistema delle elezioni primarie dirette, che assunse rilievo giuridico alla fine del 19° sec., pose un limite all’arbitrio dei boss o capi in seno ai p., che aveva raggiunto l’apice dopo la sostituzione del metodo del caucus (riunione ristretta di notabili per designare i candidati del p.) con quello della convenzione (assemblea di delegati di primo grado o di grado superiore, eletti dagli elettori del p., per designare i candidati).

3. P. di classe e p. borghesi

Negli altri paesi il problema dell’integrazione si pose con il sorgere di nuove classi come prodotto dello sviluppo economico e con il loro organizzarsi. Quanto più erano lontane le prospettive di una piena legittimazione del ruolo politico delle nuove classi, tanto prima sembrava manifestarsi la loro autonomia politica. Nella Germania imperiale la socialdemocrazia tedesca si sviluppò negli anni intorno al 1860, in modo tale da rappresentare ben presto un modello organizzativo per i movimenti operai degli altri paesi. Al movimento operaio era permesso di esistere legalmente, con una propria identità politica, ma gli era impedito l’accesso ai centri di potere. I dirigenti socialdemocratici accettarono questa soluzione, mirando a salvaguardare innanzi tutto l’unità e la forza del movimento operaio. La struttura di base del p. fu la sezione. L’alternarsi di condizioni permissive e repressive da parte del sistema dominante favoriva all’interno del movimento socialista l’abitudine a una prassi moderata e nel contempo l’adesione a un’ideologia marxista radicale. Il rafforzamento del p. socialdemocratico fece sorgere uno strato di parlamentari e di funzionari che non vivevano più per, ma grazie al movimento operaio. Trasformatasi da mezzo in fine, l’organizzazione, che in periodi di relativa tranquillità riusciva a strappare importanti conquiste per il ceto operaio, rivelò la sua intrinseca debolezza nel periodo successivo alla Prima guerra mondiale. Situazioni analoghe si verificarono in altri paesi europei.

La strada che imboccarono le socialdemocrazie europee fu, negli anni 1920 e 1930, dove possibile, quella della collaborazione con i p. borghesi (governo MacDonald in Gran Bretagna, Repubblica di Weimar, fronti popolari). Altrove, invece, le difficoltà della classe dominante borghese nel controllo dello sviluppo dei rispettivi paesi, e le prospettive autoritarie di una parte di essa, impedirono quella soluzione, a causa dell’affermazione dei p. nazionalisti, fascisti, nazionalsocialisti. In una prima fase questi presentarono caratteristiche non di p. ma di movimento sociale. Una volta al potere, s’identificarono nel nuovo regime, diventando p. unici. Loro caratteristica, sul piano dell’organizzazione, fu di avere una struttura fortemente gerarchizzata, non elettiva, e di inquadrare le masse (anche militarmente) senza riconoscere loro alcun diritto a una partecipazione attiva ai processi decisionali del partito.

Una strada alternativa alla collaborazione con i p. borghesi fu indicata dalla Rivoluzione d’ottobre e dalla Terza internazionale, cui fecero capo fino al 1943 i p. comunisti di tutto il mondo. La vittoria in Russia andò all’ala bolscevica della socialdemocrazia, che aveva fatto propria la teoria del p. dei rivoluzionari di professione, enunciata da Lenin nel Che fare? (1902). Subito dopo, il p.-avanguardia fu trasformato in p.-massa, ma all’interno prevalse una pratica burocratico-autoritaria, che si rifletté anche sui p. comunisti degli altri paesi, i quali fecero propria la teoria staliniana della ‘costruzione del socialismo in un solo paese’ e furono condizionati dalle oscillazioni della stessa politica estera sovietica. Questa situazione fu modificata solo a partire dagli anni 1950, con l’avvio di una certa distensione internazionale, grazie agli avvenimenti interni al mondo comunista che ne scossero il monolitismo ideologico, e il riconoscimento da parte dell’URSS delle vie nazionali al socialismo. I rapporti internazionali influenzarono profondamente la linea e la stessa concezione organizzativa dei p. comunisti. Nel quadro della ripartizione mondiale delle zone d’influenza tra URSS e USA (1943-90), i p. comunisti, così strutturati, divennero in Europa orientale p. unici o egemoni, identificandosi con il regime; in Occidente si prodigarono per il mantenimento dell’unità antifascista, fonte della loro legittimazione.

Dopo la fase della guerra fredda, i maggiori p. comunisti dell’Occidente attenuarono progressivamente le caratteristiche di ‘organizzazione di combattimento’ e accentuarono quelle tradizionali dei p. di massa del movimento operaio. In concomitanza del crollo dei regimi socialisti nell’Est europeo (1989-90) alcuni di questi p. (tra cui l’italiano) sciolsero, anche nella denominazione, i legami con la tradizione comunista.

Alla fine del 20° sec. nei paesi democratici i p. si sono evoluti in formazioni di collegamento tra interessi e tradizioni, meno ideologiche e più orientate alla formulazione di un programma.

4. La partitocrazia

È un fenomeno di predominio, strapotere dei p. che tendono a sostituirsi alle istituzioni rappresentative nella direzione e nella determinazione della vita politica democratica dello Stato.

In questo senso, e in polemica con il consolidamento del sistema dei p. nella società italiana del dopoguerra,


Enciclopedia del Novecento (1980)

di Maurice Duverger

Partiti politici

Sommario: Introduzione. 2. Differenti tipi di partito. a) I partiti di quadri. b) I partiti di massa. 3. Le funzioni dei partiti. a) I partiti e il potere politico. b) La funzione rappresentativa. 4. Bipartitismo e pluripartitismo. a) Il pluripartitismo. b) Il bipartitismo. 5. Il partito unico. a) I partiti unici comunisti. b) I partiti unici fascisti. c) I partiti unici dei paesi in via di sviluppo. 6. Conclusione. □ Bibliografia.

1. Introduzione

I partiti politici sono raggruppamenti organizzati in vista della conquista e dell'esercizio del potere politico. Sono nati in Europa e negli Stati Uniti, nel XIX secolo, insieme alle procedure elettorali e parlamentari, e si sono sviluppati parallelamente a esse. Si sono in seguito diffusi, con un certo ritardo, in America Latina, dove il loro funzionamento è stato spesso falsato da interventi dell'esercito, che si riscontrano talvolta, ma più di rado, anche in Europa.

Nei vecchi regimi aristocratici e monarchici il gioco politico si svolgeva in circoli assai ristretti e opponeva dei clan raccolti intorno a qualche signore o personalità influente. Lo stabilirsi di regimi parlamentari e la comparsa dei partiti non hanno, inizialmente, affatto modificato questa situazione. Ai clan costituiti intorno a principi, duchi, conti o marchesi si sono aggiunti quelli costituiti intorno a banchieri, commercianti, industriali, uomini d'affari. Più esattamente: i clan della seconda categoria, emersi già nelle vecchie monarchie europee, si sono sviluppati a danno dei clan della prima categoria. Così, a regimi che poggiavano sui nobili sono succeduti regimi poggianti sui notabili. A questa prima tappa corrispondono i ‛partiti di quadri', così come funzionavano nel XIX secolo. In seguito, essi si sono più o meno trasformati. Soprattutto si sono sviluppati, accanto a essi, i ‛partiti di massa', aperti a un gran numero di cittadini che possono quindi partecipare attivamente alla vita politica. Così, per gradi, al parlamentarismo dei notabili subentra un parlamentarismo delle organizzazioni. Ciò corrisponde a un'evoluzione verso la democrazia, malgrado la struttura delle organizzazioni generi anche delle tendenze oligarchiche (v. sotto, cap. 3).

D'altra parte, il sistema dei partiti si è esteso nel XX secolo al mondo intero. In Africa si sono costituiti grandi partiti, che combinano talvolta un inquadramento di tipo moderno con uno sottostante - su base etnica o tribale - di tipo tradizionale: l'oligarchia dirigente, ad esempio, è formata appunto dai capi tradizionali. In certe regioni dell'Asia si è talvolta sviluppato un amalgama dello stesso genere, in cui l'appartenenza al partito coincide approssimativamente con l'appartenenza al gruppo religioso o alle confraternite rituali. Spesso i partiti del Terzo Mondo sono per metà politici e per metà militari: possono tanto partecipare alle elezioni e ai parlamenti quanto animare guerriglie e rivoluzioni. Alcuni decenni or sono, certi partiti socialisti e i partiti comunisti hanno avuto in Europa questa stessa caratteristica.

I partiti comunisti europei hanno del resto mostrato un'eguale attitudine a funzionare sia nell'ambito di democrazie pluralistiche (per es. in Italia, Francia e Finlandia) che in sistemi a partito unico di regimi dittatoriali. Ciò corrisponde a un'ulteriore estensione dell'ambito dei partiti. Nati, all'inizio, nel quadro della democrazia liberale, nel XX secolo essi sono stati utilizzati dalle dittature, nella forma di partito unico, quando esse a loro volta hanno utilizzato procedure elettorali e parlamentari stravolgendone il significato. I partiti tendono così a divenire un'istituzione che funziona in regimi diversissimi. Essi costituiscono una delle forme dello sviluppo generale delle organizzazioni che inquadrano grandi masse di uomini, sviluppo che è in corso da mezzo secolo.

2. Differenti tipi di partito

La distinzione fondamentale resta quella fra partiti di quadri e partiti di massa. Essa corrisponde tanto a due tipi di partiti quanto a due categorie di regimi democratici: quelli precedenti il 1914 si fondavano essenzialmente sui notabili, mentre quelli contemporanei si fondano su grandi organizzazioni. Tuttavia, attualmente, partiti di quadri e partiti di massa coesistono in numerosi paesi, in particolare in Europa occidentale, dove i partiti socialisti e comunisti si sono affiancati ai preesistenti partiti conservatori e liberali. D'altra parte, molti partiti si trovano a mezza strada tra la categoria dei partiti di quadri e quella dei partiti di massa.

a) I partiti di quadri

I partiti di quadri si sono sviluppati in Europa e in America nel XIX secolo. Se si fa eccezione per gli Stati Uniti d'America (e nemmeno per tutti), per la Francia dopo il 1848, e per l'Impero tedesco successivamente al 1871, nell'Ottocento il suffragio risulta limitato dal censo o dalla proprietà. Anche quando il diritto di voto ha una larga estensione, l'influenza politica appartiene essenzialmente a una parte assai ristretta della popolazione. Le masse popolari ne sono escluse, rimanendo spettatrici piuttosto che protagoniste della vita politica. Tuttavia, nell'ultimo decennio del secolo, si fa sentire il bisogno di allargare il gioco politico. Da ciò nascono i primi partiti di massa, di cui ci occuperemo più avanti. Ma ciò comporta anche la trasformazione di alcuni partiti di quadri (particolarmente negli Stati Uniti con lo sviluppo delle ‛primarie') o la comparsa di forme nuove di partiti, a mezza strada tra i partiti di quadri e quelli di massa (Partito Laburista in Gran Bretagna).

1. Il modello europeo. - I partiti europei del XIX secolo esprimono un conflitto fondamentale tra due classi (o gruppi di classi): da un lato l'aristocrazia, dall'altro la borghesia. La prima, formata da proprietari fondiari, s'appoggia sulle campagne, dove vivono contadini generalmente analfabeti, inquadrati da un clero tradizionalista. La seconda, costituita da industriali, commercianti, grossisti, banchieri e finanzieri, liberi professionisti, si appoggia sulla folla degli impiegati e degli operai delle città, tra i quali - inizialmente con lentezza - si svilupperà più tardi il socialismo. Ciascuno di questi due gruppi si esprime attraverso un'ideologia che corrisponde ai propri interessi, pur travalicandone talvolta i confini.

L'ideologia liberale è stata forgiata per prima, a partire dalla rivoluzione inglese del XVII secolo (Locke), e poi dai filosofi francesi del XVIII secolo. Richiedendo l'eguaglianza giuridica, ma accettando la diseguaglianza delle fortune, essa corrisponde agli interessi della borghesia che vuole distruggere i privilegi dell'aristocrazia e le regolamentazioni corporative. Essa esprime però, nell'idea egualitaria, e soprattutto nella sua rivendicazione della libertà, aspirazioni comuni a tutti gli uomini. L'ideologia conservatrice non giunge a definire temi così generali: sembra più egoisticamente legata agli interessi dell'aristocrazia. Tuttavia, mantiene a lungo un impatto popolare considerevole, presentandosi come l'espressione della volontà divina. E dunque fortemente legata alla religione. Nei paesi cattolici, in cui la religione poggia su un clero gerarchizzato e autoritario, i partiti conservatori sono spesso dei partiti clericali (Francia, Italia, Belgio, ecc.).

Partiti conservatori da una parte, partiti liberali dall'altra: queste sono le due forme principali dei partiti europei nel XIX secolo. Ogni categoria comporta talvolta delle divisioni interne tra moderati ed estremisti (ad esempio, ‛legittimisti' e ‛orleanisti' tra i conservatori francesi; oppure ‛giacobini' e ‛liberali' propriamente detti). Raramente si trova una terza categoria distinta dalle due precedenti: il caso più notevole è quello dei partiti agrari scandinavi, sorta di partiti liberali rurali. Essi corrispondono a una classe media rurale che poggia su una lunga tradizione: nelle assemblee dei vecchi regimi monarchici si trovavano in Svezia non tre stati - clero, nobiltà, borghesia - ma quattro: i contadini liberi avevano una rappresentanza separata.

Questi partiti si sviluppano attraverso una lotta violenta, molto più profonda di quella degli attuali partiti europei. Conservatori e liberali si sono gettati a vicenda in prigione, combattuti con le armi alla mano, si sono perfino massacrati, nella Rivoluzione francese del 1789, nella reazione del 1815, nelle rivoluzioni del 1830 e 1848, nella Comune del 1871 e infine nelle lotte quotidiane che non cessavano mai neppure tra l'una e l'altra di queste crisi eccezionali. La guerriglia rurale non ha uno spazio rilevante in questa lotta, nella quale spiccano invece le rivolte urbane e le cospirazioni. Alcuni partiti dell'Ottocento europeo sono, perciò, più o meno legati a movimenti clandestini, dei quali il più famoso, ma non l'unico, è la Carboneria italiana: la loro struttura e la loro composizione sociale assomiglia un po' a quella dei tupamaros uruguaiani.

Una tale situazione è però eccezionale. I partiti europei di quadri sono essenzialmente, nell'Ottocento, strumenti di azione elettorale e parlamentare. Una volta al potere, i loro dirigenti utilizzano il braccio secolare dell'esercito o della polizia, ma il partito in quanto tale non è generalmente adatto all'azione violenta. I comitati di base assicurano, sostanzialmente, il sostegno morale e il finanziamento materiale dei candidati alle elezioni e il collegamento permanente tra l'eletto e gli elettori. L'organizzazione nazionale si sforza di coordinare le iniziative nelle assemblee degli eletti del partito. In generale i comitati locali mantengono un'ampia autonomia, e lo stesso dicasi dei singoli deputati. La disciplina di voto stabilita nei partiti britannici che sono i più antichi, poiché il Parlamento di Londra funziona da più lunga data - non è affatto imitata sul continente.

2. Il modello americano. - In origine i partiti americani ottocenteschi non differiscono granché dai partiti europei di quadri, salvo che lo scontro fra di loro è meno violento e meno ideologico. Nell'America settentrionale la lotta fra aristocrazia e borghesia, fra conservatori e liberali, si è svolta nella forma di guerra di Indipendenza: la Gran Bretagna incarnava il potere monarchico e nobiliare, gli insorti la borghesia e il liberalismo. Certo, l'identificazione è sommaria, poiché si trovano nel Sud alcuni aristocratici, e soprattutto uno spirito aristocratico fondato sulla grande proprietà fondiaria schiavista e paternalista. In questo senso la guerra di Secessione potrebbe essere considerata come una seconda versione della lotta fra conservatori e liberali. Malgrado tutto gli Stati Uniti sono, fin dalla loro nascita, una civiltà essenzialmente borghese, senza privilegi nobiliari e senza nobili, fondata su un senso profondo dell'eguaglianza - che aveva stupito Tocqueville - e della libertà individuale. Federalisti e antifederalisti, repubblicani e democratici si collocano tutti nella famiglia liberale: hanno la stessa ideologia di fondo, lo stesso sistema di valori fondamentali. Differiscono solo per certi obiettivi pratici, relativamente secondari. Questa situazione spiega il conformismo americano. La civiltà degli Stati Uniti si è sviluppata a partire da un'unica ideologia fondamentale, mentre la civiltà europea si è sviluppata nel conflitto tra due ideologie fondamentalmente opposte.

Riguardo alla struttura, i partiti americani sono poco diversi, inizialmente, da quelli europei; sono anch'essi formati da comitati di notabili locali, i cui legami reciproci sono però, a causa della struttura federale, ancora più deboli che in Europa. A livello di ogni Stato il coordinamento dei comitati locali conserva ancora una sua efficacia che vien meno a livello nazionale. Una struttura più originale si svilupperà dopo la guerra di Secessione, sia nel Sud, con lo sfruttamento del voto dei Negri, sia sulla costa orientale, con l'organizzazione del voto degli immigrati. L'estrema decentralizzazione americana fa sì che un partito possa stabilire una semidittatura locale in una città o in una contea, dato che può, con le elezioni, conquistarvi tutti i posti chiave: non soltanto il municipio e il potere politico, ma la polizia, le finanze, la giustizia, ecc. Compaiono così, a partire dalla struttura tradizionale dei partiti di quadri, gli ‛apparati'.

Invece che da notabili, il comitato di partito è formato talora da avventurieri o da gangsters che nel potere cercano solo un'occasione di profitti materiali. Essi sono fortemente dominati dall'autorità di un boss. Agli ordini del comitato, la circoscrizione elettorale è attentamente suddivisa, ogni settore è sorvegliato da un agente del partito, il ‛capitano', che ha il compito di controllare il voto degli elettori. A questi vengono resi dei servizi materiali e distribuito qualche privilegio, contrattando la promessa dei loro voti. Possono così costituirsi dei blocchi di voti in grado di garantire la maggioranza. Detenendo allora la direzione dell'amministrazione, della polizia, della giustizia, delle finanze, ecc., si assicura l'impunità all'apparato e ai suoi clienti e si hanno i mezzi per sviluppare senza rischi la corruzione, i traffici illegali, la prostituzione, il gioco. Nel periodo successivo alla prima guerra mondiale, il proibizionismo diede nuovo impulso agli apparati.

Questa degenerazione del meccanismo dei partiti non aveva però solo aspetti negativi. L'emigrante europeo che sbarcava negli Stati Uniti sperduto, isolato, in un mondo immenso e diverso, trovava un appoggio nell'organizzazione politica. Essa lo aiutava a trovare lavoro e alloggio in cambio del suo fermo appoggio elettorale. In un regime capitalista puro, in cui non esistevano servizi sociali, gli apparati e i boss li hanno in qualche modo sostituiti, accollandosi funzioni indispensabili alla vita collettiva. Il costo morale e materiale del sistema restava evidentemente elevatissimo. D'altronde la componente socioassistenziale non è sempre presente: è difficilmente riscontrabile nei carpet-baggers della ricostruzione del Sud e manca del tutto nel gangsterismo del periodo proibizionista.

Alla fine del XIX secolo gli eccessi degli apparati e dei boss e l'eccessiva angustia dei partiti hanno dato impulso al movimento delle ‛primarie'. Si trattava di togliere ai notabili dei comitati il diritto di designare i candidati alle elezioni, facendo eleggere questi direttamente dall'insieme dei cittadini in un prescrutinio organizzato ufficialmente come lo scrutinio vero e proprio. Fra il 1900 e il 1920 la maggior parte degli Stati adotterà progressivamente questo sistema, sebbene in forme diverse. Nelle primarie ‛chiuse' l'elettore si iscrive in anticipo come democratico o repubblicano e designa i candidati del partito che ha scelto. Nelle primarie ‛aperte' decide di votare per i candidati dell'uno e dell'altro partito al momento del prescrutinio, e in modo anonimo. Nelle primarie senza schieramento l'elettore può designare il candidato di un partito per un incarico (ad es. senatore) e il candidato del partito opposto per un altro incarico (ad es. rappresentante, sceriffo, ecc.).

Le primarie senza schieramento tendevano a distruggere i partiti; le altre miravano, piuttosto, a democratizzarli, aprendoli ai cittadini nella speranza di controbilanciare così l'influenza dei comitati. In pratica, questo risultato non è stato conseguito che in scarsissima misura, e i comitati suddetti conservano l'ultima parola sulla selezione dei candidati alle primarie, cioè dei candidati alla candidatura. Nelle primarie chiuse l'iscrizione degli elettori somiglia un po' all'iscrizione ai partiti di massa (che in quella stessa epoca cominciano a svilupparsi in Europa): ma senza quote e, soprattutto, senza influenza sulla scelta dei dirigenti e sul loro indirizzo.

3. Il modello laburista. - Nella sua prima forma (1900), il Partito Laburista britannico costituisce un modello nuovo di partito di quadri, anello di congiunzione con i partiti di massa. Esso è formato dalla federazione di sindacati, di società mutue, di cooperative, di club di intellettuali. Alla base ogni organizzazione aderente invia i suoi rappresentanti al comitato laburista di circoscrizione. Lo stesso meccanismo funziona al vertice, per il Congresso nazionale e l'Esecutivo del partito.

In una tale organizzazione non esiste l'adesione individuale; il partito laburista raggruppa unicamente i rappresentanti di organizzazioni che gestiscono i fondi da queste versati, designano in comune i candidati del partito alle elezioni e controllano l'attività degli eletti. Siamo di fronte a un partito di tipo nuovo, che poggia non su singoli notabili, riuniti a causa della loro personalità, ma su ‛notabili organici', se così si può dire, cioè su rappresentanti di organizzazioni. Alcuni partiti democratico-cristiani - per esempio il Partito Cristiano Sociale belga tra le due guerre e il Partito Popolare austriaco - hanno una struttura analoga: essi sono una federazione di sindacati, di organizzazioni agricole, di movimenti delle classi medie, di associazioni padronali, e così via. Dopo il 1918 il Partito Laburista britannico ha istituito anche le iscrizioni dirette, sul modello dei partiti socialisti continentali: i rappresentanti degli iscritti individuali si aggiungono a quelli delle organizzazioni per formare i comitati del partito, il cui carattere intermedio tra i partiti di quadri e quelli di massa risulta così ulteriormente accentuato.

b) I partiti di massa

I partiti di quadri raggruppavano solo qualche migliaio di persone, notabili per situazioni personali o rappresentanti di organizzazioni. I partiti di massa riuniscono centinaia di migliaia di iscritti, a volte milioni. Le dimensioni stesse dell'organizzazione comportano una trasformazione della sua struttura: da gruppi spesso informali, con limiti imprecisi e criteri di adesione scarsamente definiti, si passa a comunità fortemente strutturate. Il numero degli iscritti non è tuttavia il criterio per la definizione dei partiti di massa, malgrado il loro nome. Essenziale è che essi facciano appello alle masse, anche se queste non sempre rispondono, vale a dire che cerchino di raggruppare non solo persone influenti, conosciute e rappresentative, ma tutti i cittadini che accettano di entrare nel partito. Un partito di massa che non riunisca che pochi aderenti è però tale solo potenzialmente; esso conserverà ciononostante caratteri diversi da quelli di un partito di quadri.

1. Il modello socialista. - E stato il movimento socialista dell'Europa continentale a ‛inventare' verso la fine dell'Ottocento il partito di massa, e questo per tre ragioni principali. In primo luogo, si voleva formare ideologicamente e inquadrare gli operai e i salariati, che l'industrializzazione rendeva sempre più numerosi e ai quali l'estensione del diritto di voto conferiva una grande importanza politica. S'intendeva così sostituire i partiti di notabili, corrispondenti a una classe politica ristretta, con grandi organizzazioni popolari che permettessero al massimo numero di cittadini di partecipare alla scelta dei candidati alle elezioni e dei dirigenti politici e quindi di esercitare su di loro un controllo permanente. E c'era infine il proposito di raccogliere i fondi necessari alla propaganda e alle campagne elettorali mobilitando in modo regolare le risorse di strati poveri ma assai numerosi.

Si domanda dunque a tutti coloro che simpatizzano per la dottrina e gli obiettivi di un partito di aderire esplicitamente alla sua organizzazione. Ogni iscritto paga una quota regolare, generalmente frazionata attraverso l'acquisto di una tessera annuale e di bollini mensili. I membri del partito, così definiti, si raggruppano in sezioni locali che si riuniscono una o più volte al mese: queste riunioni sono una sorta di scuola serale che permette di dare una formazione politica. Se gli iscritti sono numerosi, il partito perviene a costituire in questo modo una possente organizzazione, che gestisce fondi considerevoli e diffonde le sue idee in una parte notevole della popolazione. Nel 1913 il Partito Socialista tedesco supera il milione di iscritti.

Una simile organizzazione avrà necessariamente una forte struttura interna. Occorre una registrazione precisa degli iscritti, ci vogliono tesorieri per riscuotere le quote, segretari per convocare e animare le riunioni, un apparato gerarchico per coordinare l'azione di migliaia di sezioni locali. L'abitudine all'azione collettiva e alla disciplina di gruppo, più sviluppata fra gli operai, attraverso l'azione sindacale e gli scioperi, che tra la borghesia e l'aristocrazia, favorisce un siffatto sviluppo dell'organizzazione del partito e la sua centralizzazione. Il termine ‛sezione', utilizzato da certi partiti socialisti, esprime appunto questa situazione, che è diversa dalla decentralizzazione, in genere molto spinta, dei partiti di quadri.

Per forza di cose una struttura tanto vasta tende a dare una grande influenza ai responsabili ai diversi livelli, e a costituire così una sorta di cerchia interna che esercita grandi poteri: più avanti studieremo questa tendenza oligarchica (v. sotto, cap. 3, È b, 2). I partiti socialisti si sono sforzati di arginarla, elaborando procedure democratiche di scelta e di controllo dei dirigenti. A tutti i livelli i responsabili sono eletti dai membri del partito. Ogni gruppo di base designa delegati ai congressi regionali o nazionali e ciascuno dispone di un numero di mandati proporzionale al numero dei membri del gruppo. I congressi, attraverso votazioni ‛per mandati', designano i candidati del partito e i suoi organi direttivi e, per mezzo di ‛mozioni', fissano la linea di condotta che gli organi eletti dovranno applicare. Talvolta sono previsti referendum che permettano di conoscere l'opinione di tutti gli iscritti sulle questioni fondamentali. Questo tipo di organizzazione è stato combinato da alcuni partiti socialisti con il modello laburista. Così il Partito Laburista inglese dopo la prima guerra mondiale ha reclutato direttamente degli iscritti i cui rappresentanti si sono aggiunti a quelli dei sindacati, delle società mutue, delle cooperative, ecc., per formare i comitati di partito. In Scandinavia e in Belgio il partito è rimasto in teoria più indipendente dalle altre organizzazioni popolari, ma in pratica ha sviluppato con esse numerosi legami. D'altronde la maggior parte dei partiti di massa hanno creato delle organizzazioni parallele e collegate - di giovani, di donne, ecc. - che permettono loro di allargare la propria influenza.

Questo modello di partito di massa è stato imitato da numerosi partiti non socialisti. Alcuni dei vecchi partiti europei di quadri, conservatori o liberali, hanno cercato di trasformarsi seguendo questo schema, che è stato poi spesso ricalcato ancor più direttamente nell'organizzazione dei partiti democratico-cristiani. Nell'uno e nell'altro caso il successo è stato per lo più solo parziale. Le classi medie e la borghesia delle società industriali capitalistiche accettano meno degli operai organizzazioni rigide e disciplinate, la cui necessità appare loro meno evidente, sia che si tratti dell'educazione politica, sia delle elezioni.

Per ragioni inverse, l'imitazione del modello socialista ha sortito miglior successo nei paesi in via di sviluppo, anche se, data la permanenza di una struttura fortemente inegualitaria e dato che lo Stato e l'economia sono nelle mani di una ristretta oligarchia che domina su masse poco evolute, in realtà il sistema dei partiti di quadri - come già nell'Europa dell'Ottocento - corrisponde meglio alla situazione: la mobilitazione delle masse rimane cioè illusoria, giacché, in luogo di un'effettiva partecipazione, esse non svolgono nella vita del partito che un ruolo di comparse.

2. Il modello comunista. - I primi partiti comunisti hanno inizialmente adottato l'organizzazione dei partiti socialisti, dai quali erano derivati per scissione. A partire dal 1924, per decisione dell'Internazionale (Komintern), si sono tutti adeguati al modello sovietico, diventando partiti di massa basati sull'adesione del maggior numero possibile di cittadini, anche se la selezione era, ed è ancora talvolta, più severa (necessità di una presentazione e di un periodo di candidatura). Questi partiti hanno però sviluppato un nuovo sistema di inquadramento degli iscritti. Innanzitutto hanno sostituito ai gruppi di base territoriali, stabiliti cioè in relazione al domicilio (comitati dei partiti di quadri, sezioni socialiste), gruppi di base secondo il luogo di lavoro. La ‛cellula di fabbrica' è il primo elemento originale dei partiti comunisti. Essa riunisce tutti gli iscritti che dipendono da una stessa ditta o da uno stesso stabilimento o magazzino o, più in generale, da una stessa istituzione professionale (scuola, università, facoltà). L'inquadramento dei membri del partito è, in questo modo, più stretto, poiché la solidarietà del lavoro è in generale, nelle città e nelle società industriali, più forte di quella del domicilio.

Permangono, beninteso, anche le cellule territoriali, per raggruppare i lavoratori singoli e utilizzare le solidarietà di quartiere. Ma esse costituiscono, in qualche modo, una sopravvivenza. La priorità è data alle cellule di fabbrica, cui, se possibile, ci si deve iscrivere di preferenza. Il sistema si è rivelato assai efficace e altri partiti lo hanno imitato, generalmente senza successo. Un tale sistema spinge ogni cellula a occuparsi di problemi corporativi e professionali piuttosto che di problemi politici. D'altro canto questi gruppi di base, generalmente più piccoli e dunque più numerosi delle sezioni socialiste, tendono a ripiegarsi ciascuno su se stesso. Per resistere a questa pressione centrifuga è necessaria una struttura molto forte e una grandissima autorità degli organi direttivi.

Proprio questo è il secondo tratto originale dei partiti comunisti. Tutti i partiti di massa tendono a essere centralizzati. I partiti comunisti lo sono più degli altri e, in particolare, più dei partiti socialisti. Tuttavia questo centralismo è definito ‛democratico', perché la discussione è per principio libera e dev'essere sviluppata a tutti i livelli, prima che venga presa una decisione: dopo, tutti hanno il dovere di applicarla. Le tendenze e le frazioni, che hanno talvolta lacerato e paralizzato i partiti socialisti, sono proibite nei partiti comunisti, che riescono generalmente a conservare la loro unità. Secondo le circostanze e i paesi la regola è applicata con maggiore o minore elasticità (il Partito Comunista italiano è, in Occidente, il più elastico mentre il Partito Comunista francese è stato monolitico sotto Stalin e un po' meno in seguito).

L'altro tratto originale dei partiti comunisti è il ruolo importante che vi gioca l'ideologia. Naturalmente tutti i partiti hanno una dottrina o, quanto meno, una piattaforma. I partiti socialisti europei erano molto dottrinari prima del 1914 e tra le due guerre, prima di divenire più empirici, se non più opportunisti. Nei partiti comunisti l'ideologia occupa un posto molto più importante. La prima preoccupazione del partito è di dare ai suoi iscritti una formazione marxista, attraverso la sua stampa, i suoi opuscoli, i suoi seminari e le sue scuole. Nei giornali, nei discorsi e in tutti i testi del partito i problemi non sono presentati in modo isolato, ma in rapporto alla dottrina, che essi servono a illustrare. Il marxismo non riguarda solo la vita politica, ma costituisce una concezione generale del mondo, una filosofia. L'importanza dell'ideologia nei partiti comunisti conduce alcuni a parlare, a questo proposito, di ‛religioni secolari' e a compararli alle Chiese centralizzate, come la Chiesa romana. Ma si dimentica in questo modo che la dottrina comunista è essenzialmente materialistica e razionalistica: essa è basata infatti - o pretende di esserlo - sull'osservazione, sull'esperienza, sul ragionamento, non sulla fede.

3. Il modello fascista. - Nell'Europa occidentale, si è affermato tra le due guerre in due ondate successive - l'una negli anni venti e l'altra negli anni trenta - un nuovo modello di partito di massa: quello fascista. Sebbene i partiti fascisti si sforzino anch'essi, come quelli socialisti e comunisti, di ottenere l'adesione del maggior numero possibile di persone, essi non pretendono però di essere espressione delle masse popolari. La loro dottrina è autoritaria ed elitaria. Essi pensano che la società debba essere diretta dai più adatti, cioè i più capaci, che sono un piccolo numero. I dirigenti del partito costituiscono appunto questa élite, raggruppata sotto l'autorità assoluta del capo supremo; la folla dei militanti è fatta per obbedire e la struttura del partito ha lo scopo di assicurare l'obbedienza.

Tale struttura somiglia a quella degli eserciti, anch'essi organizzati per assicurare l'obbedienza rigorosa di grandi masse di uomini a un piccolo numero. Uniformi, gradi, comandi, saluti, sfilate, disciplina senza discussioni: ritroviamo nei partiti fascisti gli elementi che hanno fatto la forza dei soldati di Federico II, modello di tutti gli eserciti. La somiglianza poggia su un altro elemento: la dottrina fascista insegna che il potere dev'essere preso da minoranze organizzate che utilizzano la forza. Il partito è dunque una milizia, addestrata alla lotta fisica, all'uso delle armi e ai combattimenti nelle strade, che devono assicurargli la vittoria sulle folle amorfe.

La gerarchia è dunque di tipo militare, generalmente ricalcata direttamente su quella dell'esercito: consiste in una piramide la cui base è formata da gruppi assai piccoli che, uniti gli uni agli altri formano gruppi sempre più ampi. Così nei reparti d'assalto nazionalsocialisti (SA) si distinguevano: la squadra (Schar) composta da 4 a 12 uomini; il plotone (Trupp) comprendente da 3 a 6 squadre; la compagnia (Sturm) comprendente 4 plotoni; il battaglione (Sturmbann) comprendente due compagnie; il reggimento (Standarte) comprendente da 3 a 5 battaglioni; la brigata (Untergruppe) comprendente 3 reggimenti; infine la divisione (Gruppe) comprendente da 4 a 7 brigate. Secondo le necessità si poteva dunque disporre di truppe più o meno numerose da lanciare nello scontro.

Rimane, rispetto all'esercito, una differenza importante. L'esercito costituisce, in generale, un meccanismo di inquadramento essenzialmente materiale, malgrado l'importanza data al morale delle truppe. Le organizzazioni fasciste poggiano anche sullo sviluppo di un'adesione fanatica a dottrine semplicistiche e irrazionali, che fanno appello a passi oni elementari e violente: nazionalismo, razzismo, anticomunismo. I membri delle milizie sono soldati, ma della specie dei monaci-soldati o dei crociati. Non va comunque dimenticato che intorno alle milizie, nucleo essenziale del partito, si ammettono anche - analogamente a quanto avviene nei partiti socialisti e comunisti - iscritti ‛civili', che non hanno però alcuna importanza e non giocano alcun ruolo.

Partiti molto grossi, costituiti secondo questo modello, si sono sviluppati in Italia e in Germania tra le due guerre e sono riusciti a prendere il potere. Negli altri paesi dell'Europa occidentale le organizzazioni fasciste hanno avuto un'estensione minore, ma si sono viste sorgere pressappoco dappertutto nello stesso momento. Le nazioni meno sviluppate dell'Europa orientale e dell'America Latina sono state ugualmente toccate dal contagio. La vittoria degli Alleati nel 1945 e il crollo di Mussolini e di Hitler, come anche la rivelazione degli orrori nazisti, hanno fermato la spinta fascista e provocato il suo regresso. La costituzione di partiti-milizie, armati e fanatizzati, rimane tuttavia uno strumento sempre efficace a disposizione delle classi dominanti per lottare contro i movimenti rivoluzionari. In questo senso, ‟è ancora fecondo il ventre che generò l'immonda bestia" (B. Brecht).

3. Le funzioni dei partiti

Che siano conservatori o rivoluzionari, che riuniscano notabili o inquadrino masse, che funzionino in una democrazia pluralistica o in una dittatura monolitica, i partiti assolvono nell'insieme alla stessa funzione: la partecipazione all'esercizio del potere politico. Nei regimi liberali ciò comporta anche una funzione di opposizione, che è anch'essa un aspetto del potere, come hanno ben capito gli Inglesi che fanno del leader dell'opposizione un personaggio ufficiale; partecipazione e opposizione si alternano generalmente in una competizione permanente di cui le elezioni sono le manifestazioni decisive. Queste funzioni dei partiti di fronte al potere sono inseparabili dal loro carattere rappresentativo: essi sono o si presume siano espressione di certe categorie della popolazione, di cui sono i mediatori rispetto al potere politico.

a) I partiti e il potere politico

Conquista, partecipazione, opposizione: queste sono le tre funzioni essenziali dei partiti rispetto al potere politico. Esse li distinguono dai gruppi di pressione che tentano non di entrare in questa dialettica del potere, ma di agire sul potere dall'esterno, di ‛fare pressione' su di esso dal di fuori.

1. La lotta per il potere. - Si possono distinguere a questo riguardo i partiti rivoluzionari, che cercano di conquistare il potere con la violenza (complotti, guerriglia, ecc.), e i partiti legalitari, che agiscono essenzialmente nel quadro elettorale. La distinzione non è sempre facile perché gli stessi partiti utilizzano talvolta tutti e due i metodi, sia simultaneamente, sia successivamente, secondo le circostanze. Negli anni venti i partiti comunisti giocavano la partita elettorale pur sviluppando un'azione sotterranea di natura rivoluzionaria. Oggi, nell'Europa occidentale utilizzano esclusivamente metodi legali, ma sono obbligati, al contrario, a utilizzare l'azione rivoluzionaria nei paesi dove è loro impedito il fare altrimenti. Nel XIX secolo i liberali agivano allo stesso modo, impiegando talvolta tecniche di complotto (Italia, Austria, Germania, Russia, Polonia), talvolta la battaglia elettorale (Gran Bretagna, Francia, ecc.).

I metodi rivoluzionari sono di natura assai varia. I complotti clandestini, con i quali gruppi di minoranza, energici e armati, si impadroniscono dei centri nevralgici del potere, presuppongono governi monarchici o dittatoriali in cui le masse popolari non giochino che un debole ruolo. Gli attentati terroristici a carattere spettacolare possono servire a mobilitare i cittadini e a mostrare l'impotenza del potere. All'inizio del XX secolo i sindacalisti di sinistra caldeggiavano lo sci opero generale rivoluzionario: l'arresto totale di ogni attività, paralizzando completamente la società, avrebbe messo il governo in ginocchio. La guerriglia rurale è stata molto utilizzata nei paesi prevalentemente agricoli: essa ha dato la vittoria ai comunisti cinesi, i quali hanno cercato poi di generalizzare questa loro esperienza. La guerriglia urbana è servita di base ai rivoluzionari europei del XIX secolo, ed è praticata anche oggi nella forma del terrorismo.

I partiti rivoluzionari sono poco numerosi rispetto a quelli legalitari. La scheda elettorale è l'arma normale dei partiti nella lotta per la conquista del potere; d'altro canto è sul terreno elettorale che nasce originariamente il partito politico. In questo campo i partiti esercitano una triplice funzione: organizzano la propaganda, selezionano i candidati, partecipano al finanziamento della campagna. La prima funzione è la più evidente. Il partito dà innanzitutto al candidato la sua etichetta, che serve da biglietto da visita per gli elettori. Questi ultimi possono così meglio distinguere i candidati, dato che le promesse e le dichiarazioni, per lo più, si somigliano tutte e non significano granché: sapere che il tale è comunista, il tal altro è socialista, quello è fascista e quell'altro liberale è molto più istruttivo. Il partito fornisce inoltre al candidato i militanti che attaccano i manifesti, distribuiscono i volantini, organizzano le riunioni, vanno di porta in porta, e così via. Tuttavia, il ruolo dei partiti in questo campo si va indebolendo nelle nazioni industrializzate, dove i candidati fanno sempre di più ricorso ad agenzie di pubblicità.

La selezione dei candidati resta invece una funzione essenziale dei partiti, che la traducono in pratica in tre forme principali. Nei partiti di quadri, i candidati sono designati dai comitati di notabili che costituiscono il partito: è quello che gli americani chiamano il sistema del caucus. In generale il comitato locale svolge, a questo proposito, il ruolo principale. Tuttavia, in alcuni partiti (Partito Conservatore britannico, Unione dei Democratici per la Repubblica in Francia, ecc.) la designazione è accentrata da un caucus nazionale. Nei partiti di massa la designazione è fatta dagli iscritti, in congressi regionali o nazionali, seguendo il metodo all'apparenza democratico del voto per mandato (v. sopra, cap. 2, È b, 1): in realtà i comitati direttivi svolgono un ruolo essenziale, dato che, in genere, gli iscritti ratificano le loro scelte. Negli Stati Uniti, infine, il meccanismo delle primarie ha stabilito un terzo sistema di selezione dei candidati: la designazione da parte degli elettori del partito secondo diverse modalità (v. sopra, cap. 2, È a, 2). I vari metodi non differiscono molto quanto ai risultati. I dirigenti dei partiti giocano sempre il ruolo essenziale nella designazione dei candidati, il che introduce in certa misura, nel gioco democratico, un meccanismo oligarchico di cooptazione. I congressi dei partiti di massa e le primarie americane apportano solo qualche limitazione al potere dei comitati direttivi.

Infine, i partiti hanno un ruolo importante nel finanziamento delle elezioni. I partiti di quadri hanno sempre nei loro comitati qualche notabile influente presso gli uomini d'affari, incaricato di raccogliere i loro contributi, che costituiscono il grosso del finanziamento delle elezioni e, in generale, delle attività del partito. Nei partiti di massa, anziché ricavare in questo modo grosse somme da pochi singoli, si raccolgono somme piccole, regolarmente versate (ogni anno o ogni mese) da un gran numero di persone: abbiamo già visto che questo sistema è una delle basi fondamentali dei partiti di massa.

Qualche volta la legge interviene nel finanziamento delle elezioni e dei partiti. Vi sono anzitutto norme che limitano le spese elettorali e prevedono il controllo delle risorse dei partiti: in generale sono inoperanti, perché è facile aggirarle. Esistono poi norme che stabiliscono una partecipazione dello Stato alle spese elettorali attraverso l'erogazione di fondi pubblici. Inizialmente limitata alle spese elettorali e basata sull'eguaglianza dei candidati (Francia), questa partecipazione tende attualmente a divenire un finanziamento del partito stesso e a essere calcolata proporzionalmente ai suffragi ottenuti nell'ultima elezione legislativa (Scandinavia e Italia). Una simile evoluzione è conforme alla logica della democrazia liberale.

2. La partecipazione al potere. - Ci occuperemo in questo paragrafo solo delle funzioni dei partiti nei regimi pluralistici: il ruolo del partito unico nelle dittature è analizzato più avanti (v. sotto, cap. 5). Tali funzioni consistono essenzialmente nell'inquadrare l'azione parlamentare, ed eventualmente di governo, dei candidati eletti. Sotto questo aspetto, è fondamentale la distinzione fra partiti elastici e partiti rigidi. Nei primi l'azione del partito sui suoi eletti è molto debole: assicura il loro coordinamento attraverso riunioni periodiche in cui essi confrontano i rispettivi punti di vista e definisce le linee generali; si tratta però di linee fluide e sono poche le decisioni comuni prese in queste riunioni. Ciascun parlamentare conserva una grande libertà d'azione: negli interventi ai dibattiti, nella partecipazione al governo e soprattutto nell'esercizio del voto. Nelle assemblee contano dunque gli individui piuttosto che i partiti. Questo è il caso dei partiti statunitensi, della maggior parte dei partiti liberali e conservatori europei, dei partiti di quadri in generale.

I partiti rigidi sono assai differenti. Le decisioni fondamentali della vita parlamentare - partecipazione al governo, votazioni importanti e, in particolare, voto di fiducia o di censura - vengono prese dagli organi di partito e sono vincolanti per gli eletti sotto pena di gravi sanzioni (generalmente l'espulsione definitiva). La conseguenza è un capovolgimento nella natura delle assemblee, nelle quali non contano più gli individui, ma i gruppi disciplinati. Un tale sistema si è inizialmente affermato in Gran Bretagna, in cui i partiti conservatore e liberale del XIX secolo erano già rigidi, fatto eccezionale per dei partiti di quadri. Si è in seguito sviluppato con la crescita dei partiti socialisti che hanno tutti adottato una struttura rigida. Gli altri partiti di massa (comunisti, fascisti, ecc.) hanno seguito la stessa strada, e così pure i partiti democratico-cristiani e alcuni partiti conservatori e liberali.

Attualmente, la maggior parte delle democrazie dell'Furopa occidentale poggia su partiti rigidi. Un regime politico fondato su organizzazioni è qui subentrato a un regime fondato su notabili. Ciò ha reso i governi più stabili e più efficaci. Se il primo ministro inglese è sicuro di non essere rovesciato dal Parlamento, se riesce sempre a far votare i suoi progetti di legge dai deputati, non è solo per il fatto che un unico partito detiene la maggioranza, ma ancor più perché si tratta di un partito rigido, in cui cioè tutti i deputati votano secondo le consegne ricevute dai propri organismi direttivi, e in cui tali consegne dipendono largamente dal leader, che è appunto il primo ministro. Nel quadro del sistema americano del partito elastico, un governo parlamentare a Washington rischierebbe d'essere debole e instabile quanto quelli della Terza o della Quarta Repubblica Francese. Nel caso di maggioranze di coalizione, la rigidità dei partiti assicura la stabilità delle alleanze, come si può vedere in Scandinavia, nei Paesi Bassi, nella Repubblica Federale Tedesca.

Il carattere rigido dei partiti provoca talvolta un conflitto tra parlamentari e dirigenti interni . Nel Partito Conservatore e nel Partito Liberale britannici del XIX secolo il conflitto non esisteva poiché i parlamentari erano al tempo stesso i dirigenti interni: essi designavano il leader e prendevano le decisioni concernenti le votazioni e la partecipazione al governo. Nel Partito Laburista e nei partiti di massa il conflitto si sviluppa poiché esistono dirigenti interni distinti dai parlamentari: rappresentanti delle organizzazioni che costituiscono il partito nel primo caso, eletti dagli iscritti nel secondo. Di norma i comitati direttivi sono formati da una maggioranza di dirigenti interni: i parlamentari vi si trovano in minoranza. L'esercizio del voto e la partecipazione al governo sono così determinati dall'esterno, almeno parzialmente.

Il conflitto è tanto più grave in quanto riflette le differenze fra due comunità di base: quella degli elettori, che designano i parlamentari, e quella dei militanti, che designano i dirigenti interni. I primi sono naturalmente meno attaccati al partito, meno sensibili alla sua ideologia, più moderati e meno politicizzati di quanto lo siano i secondi. Così i conflitti tra parlamentari e dirigenti interni sono stati vivi in alcuni partiti socialisti europei tra il 1918 e il 1939, quando era sensibile lo scarto tra l'elettorato, già largamente integrato nel sistema capitalista, e gli iscritti, più fedeli all'ideale collettivista. Dopo il 1945 c'è stato un riavvicinamento tra iscritti ed elettorato, e i conflitti si sono smussati (salvo che in circostanze speciali: particolarmente il voto sulla Comunità Europea di Difesa da parte del Partito Socialista francese). In ogni modo si osserverà che il conflitto non opponeva la totalità dei parlamentari alla totalità dei dirigenti interni, ma nasceva dalla diversità degli orientamenti maggioritari in ciascuna delle categorie. D'altronde, nei partiti molto disciplinati e centralizzati - quali i partiti comunisti - simile conflitto non è mai esistito, non essendo contestata da parte dei deputati l'autorità dei dirigenti interni.

3. La funzione di opposizione. - Nelle democrazie pluraliste l'opposizione e la partecipazione al potere non sono radicalmente separate. Uno degli organi del potere, il parlamento, è anche il luogo privilegiato per l'esercizio dell'opposizione. La distinzione fra partiti elastici e partiti rigidi, che abbiamo appena ricordato, vale non solo per i partiti al governo, ma anche per quelli all'opposizione. I voti di censura o di sfiducia, i voti di rigetto dei progetti di legge o del bilancio, le interrogazioni ai ministri e al governo: in generale, tutta l'opposizione in seno al parlamento si svolge in modo diverso a seconda che sia esercitata da un partito elastico o rigido.

Sotto certi aspetti la differenza è addirittura maggiore all'opposizione che al governo. L'esercizio del potere, infatti, stabilisce una solidarietà fra quanti vi sono associati: costituisce per essi un cemento di unità. In un sistema di partiti elastici l'indisciplina è quindi più grave all'opposizione che al governo. Solo dei partiti rigidi possono costituire una forza d'opposizione sufficientemente solida per controbilanciare il potere. Al tempo stesso, la disciplina permette di dare all'opposizione il carattere di un'‛alternativa' alla maggioranza: lo sbocco del sistema è il ‛gabinetto ombra' inglese, che abitua gli elettori all'idea che è pronta una équipe di ricambio. Ciò tuttavia presuppone che l'opposizione sia formata da un solo partito o da una coalizione abbastanza ristretta: se è divisa fra un partito di estrema destra e un partito di estrema sinistra risulta paralizzata. Ma perfino in questo caso la disciplina dei partiti rigidi le conferisce minore debolezza.

I partiti sono, d'altro canto, gli organi che mantengono il contatto fra l'opposizione e l'opinione pubblica. Svolgono questo ruolo anche al governo, ma in tal caso esso è meno necessario, perché l'apparato dello Stato già consente il contatto. Dato che l'opposizione non dispone invece di nessuno strumento del genere, la funzione dei partiti è in questo caso essenziale; e rappresenta anzi una necessità in una democrazia pluralistica, dove i partiti d'opposizione, dando espressione alle proteste contro le decisioni del governo, svolgono un ruolo in certo modo affine a quello dei tribuni della plebe nella Repubblica romana. Ciò giustifica il fatto che i partiti di opposizione abbiano un ruolo quasi istituzionale, come in Gran Bretagna, e siano addirittura sovvenzionati dallo Stato - come tutti gli altri partiti - in alcuni paesi europei.

b) La funzione rappresentativa

I partiti non sono solo organizzazioni di natura tecnica per designare candidati, finanziare elezioni e inquadrare parlamentari. Sono anche raggruppamenti di uomini, sono collettività, comunità.

1. La comunità partitica. - A questo proposito si pongono problemi diversi: quello della comunità costituita dal partito stesso e quello della o delle categorie sociali di cui esso è espressione. L'uno e l'altro sono problemi assai complessi. I classici partiti di quadri raggruppano alcune migliaia di persone tramite una piramide di comitati locali e regionali riuniti in una federazione alquanto elastica. L'adesione ai comitati non riveste carattere formale e spesso è abbastanza difficile distinguere gli autentici membri del partito dalla clientela che gravita loro intorno. Ad ogni modo la comunità partitica è qui formata da professionisti della politica o comunque da persone molto interessate, che vi consacrano una parte notevole della loro attività. All'interno dei comitati, si formano naturalmente cricche intorno a questa o quella personalità; anche la ripartizione dell'autorità nell'insieme del partito avviene soprattutto secondo i clan costituiti intorno ai vari dirigenti nazionali, piuttosto che in modo formale organizzato.

Nei partiti di massa la comunità partitica è meglio delimitata e più rigorosamente organizzata. Uno specifico meccanismo permette di determinare chi è membro del partito e chi non lo è. Firmare una scheda di iscrizione significa entrare nella comunità. Per restarvi è necessario in seguito pagare regolarmente una quota. I confini del partito sono dunque, in teoria, esattamente definiti. In pratica le cose sono meno semplici. Molti iscritti non vanno quasi mai alle riunioni e hanno con il partito legami molto deboli: nei partiti socialisti, di solito, ciò avviene nella misura dei due terzi o dei tre quarti dei membri. Inversamente, certe persone formalmente non aderenti al partito, ne seguono tuttavia assai dappresso la vita, in particolare attraverso le organizzazioni annesse (movimenti giovanili, associazioni femminili, sindacati, club diversi, ecc.).

Comunque sia, quando un partito di massa ha successo rappresenta un'importante comunità: 800.000 membri per il Partito Socialdemocratico tedesco, 800.000 per il Partito Socialista svedese (cioè un decimo della popolazione), un milione di membri per il Partito Comunista italiano, 400.000 per il Partito Comunista francese, ecc. Per le loro dimensioni, tali collettività sono costrette - a differenza dei partiti di quadri - a darsi una struttura formale precisa e complessa, con gruppi di direzione ai vari livelli e responsabili incaricati delle diverse funzioni. All'interno della massa degli iscritti si costituisce così una cerchia ristretta di persone più direttamente associate alla vita del partito, cerchia che, nell'insieme, somiglia alla collettività di notabili che forma il partito di quadri.

Tutti i partiti includono, inoltre, una collettività più larga, quella dei loro elettori. In generale, nei paesi di solida democrazia, la maggioranza dell'elettorato resta stabile per un lungo periodo e i cambiamenti di orientamento riguardano solo una piccola minoranza. Perciò i partiti di quadri conoscono due gruppi concentrici: quello degli attivisti e quello degli elettori. Al contrario nei partiti di massa una terza cerchia si interpone fra le due precedenti: quella degli iscritti.

Sul terreno elettorale, s'incontra il problema delle categorie sociali di cui i partiti sono - o si ritiene siano - espressione. Per i marxisti la soluzione è relativamente semplice: i partiti sono gli strumenti politici delle classi sociali, che per il loro tramite agiscono nella vita politica. Non si tratta di una rappresentanza soggettiva, legata al fatto che gli elettori di una classe votano per un partito, quelli di un'altra classe per un altro partito e così via. Si tratta di una rappresentanza ‛oggettiva', legata al fatto che il partito esprime e difende gli interessi di una classe determinata: beninteso, nella misura in cui i membri di tale classe ne sono coscienti, appoggiano effettivamente il partito con i loro suffragi e la loro adesione. Ma anche se non ne sono coscienti e non appoggiano il partito, non per questo esso cessa di essere espressione della classe di cui difende gli interessi.

Questa teoria solleva numerose difficoltà, in particolare circa la definizione delle classi sociali e il criterio per determinare i loro interessi oggettivi. Non si deve tuttavia dimenticare che nell'Europa dell'Ottocento, in cui il marxismo è nato, i partiti si sono sviluppati essenzialmente dalle classi sociali: i conservatori esprimevano l'aristocrazia, i liberali la borghesia e i socialisti il ‛proletariato', anche se la determinazione di queste tre classi non era rigorosa, nè era del resto assoluta la loro corrispondenza con i partiti. D'altro canto, partiti che sembrano poggiare su categorie sociali diverse dalle classi si rivelano spesso, in realtà, basati proprio su di esse: per esempio, molti partiti religiosi o nazionalisti mascherano appunto la difesa di interessi di classe. Tuttavia certi partiti sono effettivamente espressione di gruppi differenti dalle classi: per esempio minoranze etniche o religiose, sette, e così via. D'altra parte, nelle società industriali le classi assumono una struttura molto complessa e fortemente diversificata: la corrispondenza tra esse e i partiti tende probabilmente ad attenuarsi.

Può inoltre accadere che il richiamo stesso esercitato da un partito divenga il fondamento di una comunità particolare. La visione idealista dei liberali del XIX secolo, secondo cui i partiti sono gruppi basati sulle dottrine cui si aderisce perché sono considerate giuste, è assai distante dalla realtà. Un'ideologia esprime in generale gli interessi e gli obiettivi di una categoria sociale, che le preesisteva e la utilizza nella propria rivalità con altre categorie sociali. Tuttavia, rimane vero che una parte degli iscritti e dei militanti di un partito lo ha scelto proprio sulla base di un atteggiamento ‛idealistico': il liberalismo e il socialismo, in particolare, hanno in questo modo esteso la loro influenza molto al di là delle classi di cui esprimono gli interessi. Infine, non è da dimenticare che l'adesione a un partito risulta talvolta da una tradizione familiare o locale, senza altri fondamenti: alcuni americani sono repubblicani o democratici di padre in figlio. Ciò appare come una degenerazione del sistema.

2. La tendenza oligarchica. - I partiti politici moderni costituiscono una delle forme dello sviluppo generale - in atto da circa un secolo e mezzo - delle organizzazioni che inquadrano grandi masse umane. Altre forme sono costituite dai sindacati operai, dagli eserciti, dalle chiese, dalle grandi aziende, dalle grandi amministrazioni ecc. Tutte le organizzazioni hanno come effetto la sottomissione - diretta o indiretta - di tutti gli uomini che inquadrano all'autorità di un gruppo dirigente: tendono così a porre una maggioranza sotto il controllo di una minoranza, secondo la ‛legge ferrea dell'oligarchia' formulata oltre mezzo secolo fa (1911) da R. Michels proprio a proposito dei partiti politici. Sennonché questi ultimi - e altre organizzazioni come i sindacati operai, alcuni movimenti contadini, ecc. - hanno anche lo scopo di permettere ai propri membri di esercitare realmente le loro prerogative di cittadini. I partiti politici e le altre organizzazioni dello stesso tipo poggiano dunque su una contraddizione di fondo: da un lato, sono necessari all'esercizio della democrazia, dall'altro, tendono a distruggerla o almeno a indebolirla.

Non vi è democrazia senza partiti politici. Perché i cittadini possano scegliere con cognizione di causa il loro deputato o il loro presidente è necessario che conoscano le tendenze e gli orientamenti dei diversi candidati. I programmi e le promesse di ciascuno non sono a questo proposito sufficienti: per ottenere il massimo dei suffragi tutti cercano di evitare gli argomenti scottanti, le scelte chiare, le questioni controverse; tendono tutti a parlare lo stesso linguaggio, cioè a camuffare il proprio pensiero. È solo il fatto che l'uno sia socialista, l'altro conservatore o liberale, l'altro comunista, che permette all'elettore di vederci un po' chiaro. In parlamento la disciplina di partito limita la possibilità degli eletti di mutare opinioni e politica, e garantisce una (relativa) continuità alla scelta fatta dagli elettori. Più in generale, i partiti permettono il dialogo politico, sintetizzando le differenti posizioni in gioco, delle quali ciascuno di essi è un incarnazione più o meno compiuta. Perfino il partito unico assicura un certo contatto tra il popolo e il potere, contatto inesistente nelle dittature senza partito.

Ma i partiti, come ogni altra organizzazione che inquadri degli uomini, tendono a manipolare i propri membri, a piegarli alle direttive definite dalla cerchia interna dei dirigenti, che tende anch'essa a sfuggire al controllo degli iscritti e a perpetuarsi attraverso il metodo della cooptazione. Nei partiti di quadri gli elettori sono manipolati da comitati in cui il potere è esercitato da un certo numero di personaggi, secondo il meccanismo dei clan che abbiamo descritto. Nei partiti di massa i dirigenti sono in teoria designati dai loro iscritti, ma di fatto vengono rielette sempre le stesse persone, che tengono solidamente in mano l'apparato e dispongono così di tutti i mezzi di manipolazione con cui perpetuare la propria posizione. Nè si tratta del resto di una manipolazione materiale - scrutini truccati ecc. - ma di una manipolazione morale: i dirigenti hanno i mezzi per conservare la fiducia degli iscritti.

Le democrazie pluralistiche poggiano dunque, più o meno, sulla competizione di oligarchie rivali. Nelle dittature l'apparato del partito rafforza l'autorità del capo e nel contempo lo mette in contatto con le masse. Tuttavia la tendenza oligarchica non può mai dispiegarsi liberamente. Perfino in un partito unico non è possibile ignorare totalmente l'opinione della base, e ancor meno è possibile nei partiti competitivi dei regimi liberali. La ‛legge ferrea dell'oligarchia' non funziona da sola, ma deve integrarsi sempre con la necessità di tener conto delle masse inquadrate nell'organizzazione. L'esperienza mostra che, se la manipolazione può essere spinta assai avanti quando l'inquadramento è monopolistico, essa resta più limitata in un sistema di inquadramento concorrenziale.

Ma, soprattutto, l'oligarchia che tende a costituirsi all'interno dei partiti è meno oligarchica, se possiamo dire così, delle oligarchie politiche precedenti, fondate sulla nascita o sul censo. La formazione dei partiti, e soprattutto dei partiti di massa, ha permesso l'emergere di élites politiche di più diretta derivazione popolare, attraverso procedure meno lontane dalla democrazia di quelle delle aristocrazie ereditarie. Ad ogni modo, nessuna democrazia moderna può funzionare senza partiti. Lo svilupparsi, al loro interno, di tendenze oligarchiche rivela semplicemente i limiti pratici di ogni regime democratico. Bisogna però prendere coscienza del fatto che questi limiti tendono a divenire più angusti a causa dell'evoluzione delle società moderne verso tecnostrutture che rafforzano la ‛legge ferrea dell'oligarchia'.

4. Bipartitismo e pluripartitismo

Bipartitismo e pluripartitismo sono le due varianti del sistema pluralistico che caratterizza le democrazie liberali. Il sistema pluralistico si oppone al partito unico, che costituisce la forma moderna delle dittature e che sarà studiato nel capitolo seguente. La distinzione fra bipartitismo e pluripartitismo non è sempre così chiara come si potrebbe credere. Esistono sempre, in un sistema bipartitico, piccoli partiti oltre ai due maggiori. Non se ne tiene però conto se non impediscono all'uno o all'altro dei due partiti maggiori di raccogliere da solo la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari. Questo è, ad esempio, il caso della Gran Bretagna. Ma si trovano anche situazioni intermedie: l'Austria e la Repubblica Federale Tedesca sono, ad esempio, attualmente vicine al bipartitismo senza poter essere completamente inserite in questa categoria. Vedremo d'altronde che la definizione di bipartitismo non è una faccenda meramente numerica; intervengono infatti anche altri elementi tra cui, in particolare, la disciplina interna.

a) Il pluripartitismo

Nei paesi anglosassoni vi è la tendenza a considerare il bipartitismo come normale e il pluripartitismo come eccezionale. Sembra vero piuttosto il contrario. Il bipartitismo, che funziona soprattutto in Gran Bretagna, negli Stati Uniti e in Nuova Zelanda (per limitarsi alle nazioni industriali), è molto più raro del pluripartitismo, che si estende a quasi tutta l'Europa occidentale, al Canada, all'Australia, al Giappone, a Israele, all'India, ecc.

1. Le basi sociali del pluripartitismo. - Il pluripartitismo sembra corrispondere meglio all'evoluzione delle forze sociali nelle nazioni industrializzate. Nell'Europa occidentale almeno tre grandi categorie di partiti si sono sviluppate a partire dall'inizio del XIX secolo: i partiti conservatori, i partiti liberali e i partiti socialisti. Ciascuna corrisponde nel contempo a una classe sociale, a un'ideologia politica e a un'organizzazione. Dopo la prima guerra mondiale sono emerse altre categorie di partiti, inizialmente con caratteristiche meno originali, dato che - piuttosto che categorie veramente nuove - erano il frutto di un frazionamento o di una trasformazione di partiti preesistenti. I partiti comunisti si sono in genere organizzati in seguito a scissioni di partiti socialisti preesistenti. Il fascismo è una forma nuova di conservatorismo. I partiti democratico-cristiani hanno cercato di raggruppare socialisti moderati, conservatori moderati e liberali.

A fianco di queste grandi formazioni di base - conservatori, liberali, socialisti, comunisti, democristiani, fascisti - si trovano, in taluni paesi, delle tendenze particolari. In Scandinavia si è sviluppato, a partire dal XIX secolo, un Partito Liberale Rurale, distinto sia dal Partito Conservatore che dal Partito Liberale propriamente detto: ciò corrisponde a una vecchia tradizione di rappresentanza contadina separata nelle assemblee degli stati. Nei Paesi Bassi la tendenza conservatrice fin dall'inizio si è scissa in due partiti, uno cattolico e l'altro protestante, mentre quest'ultimo si è in seguito diviso in ‛antirivoluzionari' e ‛cristiani storici'. In Francia, moderati ed estremisti hanno in genere costituito - all'interno di ogni categoria - partiti distinti: orleanisti e legittimisti, liberali e giacobini ecc. In numerosi paesi le minoranze etniche sono servite da base a partiti nazionalisti che si sono aggiunti agli altri partiti o ne hanno provocato la scissione.

Senza dubbio queste tendenze alla moltiplicazione dei partiti non devono essere esagerate. Per esempio, i tre grandi gruppi - conservatori, liberali e socialisti - non si sono semplicemente contrapposti gli uni agli altri. La lotta politica ha inizialmente posto in conflitto i primi due. La comparsa del socialismo ha sconvolto i termini dello scontro, spingendo a un ravvicinamento conservatori e liberali per la difesa comune della libera impresa e del capitalismo. La logica del sistema avrebbe dovuto portare alla fusione dei conservatori e dei liberali in un partito ‛borghese' avverso ai socialisti, cioè alla trasformazione di un bipartitismo in un altro. Ciò, come vedremo più oltre, è avvenuto in Gran Bretagna. Ma le organizzazioni resistono sempre alla pressione delle forze sociali che tendono a farle scomparire: alcuni partiti liberali indipendenti, benché ridotti e malgrado non corrispondano alle strutture e ai bisogni delle società attuali, sono riusciti a preservare la propria indipendenza, resistendo alle pressioni che li spingevano a fondersi con i vecchi partiti conservaton in una grande formazione del tipo dell'attuale Partito Conservatore inglese, o della Democrazia Cristiana tedesca o italiana.

2. Le basi tecniche del pluripartitismo. - Il processo di sviluppo delle società industriali, quale si è svolto in Europa, tendeva piuttosto a moltiplicare il numero dei partiti, secondo lo schema che abbiamo appena descritto. Intervengono però dei fattori tecnici che possono accelerare o frenare il processo in questione. Il più noto è il sistema elettorale. Nel 1951 si è cercato di riassumerne gli effetti attraverso queste tre formule: a) la rappresentanza proporzionale tende verso il pluripartitismo; b) il sistema maggioritario a un turno (anglosassone) tende verso il bipartitismo; c) il sistema maggioritario a due turni a un pluripartitismo temperato dalle alleanze. Riguardo al pluripartitismo, la prima formula è la più importante, visto che lo scrutinio maggioritario a due turni è assai raro e ha funzionato solo nell'Impero tedesco (1871-1914) e nella Francia della Terza (1871-1940) e della Quinta Repubblica (dopo il 1958).

Non si può dire che la proporzionale abbia realmente l'effetto di moltiplicare i partiti, come troppo spesso si sostiene. I partiti rappresentano forze sociali e una legge elettorale, o qualsiasi altro strumento tecnico, non può farli scaturire dal nulla. La verità è che la proporzionale non oppone alcun argine alla comparsa di nuovi partiti e non esercita alcuna pressione per la scomparsa di quelli vecchi. Si potrebbe dire che essa è neutra, passiva. Nei sistemi maggioritari i piccoli partiti sono sempre più o meno svantaggiati: ciò ostacola i nuovi venuti o i partiti in declino, e limita le scissioni e le spaccature dei partiti esistenti. La proporzionale ha così salvato dalla scomparsa il Partito Liberale belga, il Partito Liberale austriaco, il Partito Liberale tedesco; ha favorito la comparsa dei partiti fascisti nell'Europa degli anni 1920-1940, quella dell'MRP nella Francia del 1945, ecc.

Lo scrutinio maggioritario a due turni (sistema francese) è meno neutrale e meno passivo, ma è un poco svantaggioso per i partiti deboli. Tuttavia lascia loro grandi possibilità, attraverso il secondo turno, a condizione che siano disposti a entrare nelle alleanze elettorali. Grande è la differenza rispetto al meccanismo rigido del sistema maggioritario a un solo turno, che spinge molto energicamente nel senso del bipartitismo, come vedremo più avanti. Non si dimentichi, tuttavia, che l'analisi del sistema maggioritario a due turni è molto difficile a causa della sua rarità: le assemblee dell'Impero tedesco non avevano che scarsi poteri decisionali, e la Francia tra il 1871 e il 1939 e dopo il 1958 costituisce il solo esempio di nazione industriale moderna che adotti questo sistema elettorale.

Un altro fattore tecnico sembra sia costituito dalla stabilità o instabilità del regime politico. Nella Francia del XIX secolo, ad esempio, sembra che il frequente mutamento di regime costituisse un elemento supplementare di divisione politica, in aggiunta al gioco delle forze sociali che abbiamo descritto. Era possibile trovare così - tra il 1830 e il 1848 - conservatori contrari e conservatori favorevoli a Luigi Filippo, e - tra il 1851 e il 1870 - conservaton contrari e conservatori favorevoli a Napoleone III, come pure liberali favorevoli e liberali contrari. Fenomeni analoghi sembrano aver accresciuto il numero dei partiti tedeschi dopo la prima guerra mondiale, quando la contestazione della Repubblica di Weimar si aggiungeva - attraversandoli - agli altri conflitti politici. È d'altronde possibile discutere se si tratti di un dato ‛tecnico' o ‛politico', dal momento che la struttura e la natura di un regime, al di là dell'assetto tecnico dei poteri pubblici, mettono in gioco l'organizzazione fondamentale della società.

Lo stesso può dirsi di un altro fattore che favorisce il pluripartitismo: se, all'interno di un dato schieramento, c'è una forte ala estremista, sarà difficile che i moderati accettino di confluire con gli estremisti in un unico partito; prevarrà piuttosto la tendenza a formare due organizzazioni rivali. Così la forza dei ‛giacobini' tra i liberali francesi del XIX secolo ha contribuito a impedire il formarsi di un unico grande partito liberale come in Gran Bretagna. Ugualmente, la forza degli ultras tra i conservatori ha rappresentato un ostacolo allo sviluppo di un grande partito conservatore. Il fenomeno, beninteso, non è a senso unico: la divisione dei liberali ha a sua volta favorito in seguito il giacobinismo e quella dei conservatori l'oltranzismo.

3. Il funzionamento del pluripartitismo. - La distinzione tra pluripartitismo e bipartitismo è capitale, poiché corrisponde a quella fra due tipi di regimi politici occidentali. Alcuni pensano che, per la comprensione del funzionamento delle istituzioni politiche dell'Occidente, la distinzione fra regimi bipartitici e regimi pluripartitici sia più importante di quella fra regimi parlamentari e regimi presidenziali. In un regime bipartitico, in effetti, il governo dispone di una maggioranza sicura in parlamento, formata da un solo partito: vi sono dunque garanzie di durata e di efficienza. Oggi si tende a definire questo sistema ‛parlamentarismo maggioritario'. In un regime pluripartitico, al contrario, è assai raro che un partito disponga, da solo, della maggioranza parlamentare. Dovendo di conseguenza poggiare su coalizioni, caratterizzate inevitabilmente da una maggiore fragilità ed eterogeneità, i governi saranno meno forti e meno stabili. Si tende a definire questo sistema ‛parlamentarismo non maggioritario'.

In realtà, la distinzione fra parlamentarismo maggioritario e non maggioritario non coincide esattamente con quella fra bipartitismo e pluripartitismo. Innanzitutto, se entrambi i partiti sono elastici e non assoggettano a disciplina il voto dei loro deputati (come è il caso degli Stati Uniti), la maggioranza numerica di un unico partito non significa nulla: più avanti torneremo su questa situazione. Inoltre può succedere che anche in un sistema pluripartitico un partito detenga da solo la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari. Se si tratta di un fatto eccezionale - come nella Germania federale, in Italia e in Belgio nel corso di alcune legislature successive al 1945 - la logica del sistema permane immutata. Diversamente vanno le cose se una tale maggioranza si perpetua per un lungo periodo; si ha allora una situazione di partito dominante: questo è stato il caso dell'India dal 1950 al 1969.

Si noterà come si tratti di un paese dove non vigeva la proporzionale: ciò è importante, poiché il Partito del Congresso, non avendo mai ottenuto la maggioranza dei suffragi, poteva dominare in parlamento grazie al sistema maggioritario. Si noterà ancora come si tratti di un paese di recente indipendenza, in cui il partito dominante era stato l'animatore principale della lotta di liberazione ed era il solo che si presentasse come un partito nazionale, mentre i suoi avversari avevano un'influenza esclusivamente locale; fenomeni analoghi sono frequenti in situazioni simili (Africa del Nord, Africa Nera negli anni immediatamente successivi all'indipendenza). Comunque sia, il meccanismo del partito dominante ha dato all'India venti anni di stabilità politica, assicurando ai suoi governi durata e possibilità d'azione; tale meccanismo rappresenta una delle tecniche che permettono il funzionamento di un ‛parlamentarismo maggioritario' nel quadro del pluripartitismo. Dal 1962 vige in Francia un sistema abbastanza simile.

Situazioni del genere restano eccezionali. Di norma, solo una coalizione permette una maggioranza parlamentare nel quadro del pluripartitismo, e, ovviamente, tali coalizioni sono più eterogenee e più fragili del blocco formato da un solo partito. Tuttavia le situazioni variano notevolmente, secondo il grado di disciplina e di organizzazione dei partiti coalizzati. Quando si tratta di partiti elastici, poco disciplinati, i cui parlamentari votano ciascuno secondo la propria preferenza personale, la coalizione risulta assai debole, molto eterogenea e in genere poco durevole. L'instabilità e l'impotenza dei governi giungono allora al culmine. La Terza Repubblica francese fornisce un buon esempio di una tale situazione. Solo il Partito Socialista e quello Comunista erano disciplinati; ma il secondo non ha partecipato, prima del 1936, a nessuna coalizione e il primo - sempre prima del 1936 - formava solo una frazione del ‛cartello delle sinistre', in cui i radicali e i repubblicani del centro occupavano il posto principale.

Se invece i partiti alleati sono rigidi e disciplinati e, in particolare, se i loro parlamentari votano tutti nello stesso modo secondo le indicazioni degli organi direttivi - come nei partiti britannici, nei partiti socialisti europei, nei partiti comunisti, ecc. - la coalizione è molto più stabile e molto più coerente. Si può allora arrivare a un sistema assai vicino al bipartitismo nel caso si costituiscano due alleanze che si fronteggiano, una a sinistra e l'altra a destra, durante tutto il corso della legislatura. Questo tipo di coalizione prende il nome di ‛bipolarizzazione' e introduce, se così possiamo dire, una sorta di bipartitismo nel pluripartitismo. In Svezia, in Norvegia e in Danimarca si sta sviluppando da qualche anno un meccanismo del genere, che oppone da un lato i tre partiti cosiddetti ‛borghesi' - conservatore, liberale e agrario - e dall'altro il Partito Socialdemocratico, alleato, eventualmente, al Partito Comunista. La Repubblica Federale Tedesca si muove nella stessa direzione, con l'alleanza dei socialisti e dei liberali da un lato e la Democrazia Cristiana dall'altro.

Dopo il 1962 la Francia sembrava esitare tra un sistema bipolare di questo genere e una situazione di partito dominante. Alle elezioni legislative del 1962, del 1967 e del 1968 e alle elezioni presidenziali del 1965 si è assistito allo scontro tra la coalizione gollista (U.D.R., repubblicani indipendenti e una parte dei centristi) e la coalizione delle sinistre (radicali, socialisti, comunisti): solo alcuni gruppi del centro sono rimasti fuori da queste grandi alleanze, con notevoli perdite. Alle elezioni presidenziali del 1969 mancò invece l'alleanza delle sinistre (realizzatasi invece nelle elezioni successive e poi nuovamente entrata in crisi) e i radicali e i socialisti si batterono separatamente dai comunisti. Dato che socialisti e radicali rappresentavano insieme appena il 20% dei suffragi e il Partito Comunista poco di più (20-22%), nessuno dei due gruppi poteva fronteggiare da solo la maggioranza gollista: il blocco maggioritario assunse allora le vesti di partito dominante.

Al sistema di alleanze bipolari si oppone il sistema di alleanza centrista: in luogo della situazione caratterizzata dalla contrapposizione tra un'alleanza dei partiti di sinistra (compresi quelli di centro-sinistra) e un'alleanza dei partiti di destra (compresi quelli di centro-destra), può configurarsene un'altra, in cui centro-destra e centro-sinistra si alleano, respingendo le estreme all'opposizione. La Repubblica di Weimar offre un buon esempio di una tale strategia, dato che i governi si appoggiavano su una maggioranza formata dalla coalizione del centro cattolico e della socialdemocrazia, mentre i comunisti e i nazionalisti costituivano due opposizioni, una all'estrema sinistra e l'altra all'estrema destra. La Quarta Repubblica francese ha funzionato seguendo questo stesso schema dopo la rottura dell'alleanza delle sinistre (1947-1958).

Bipolarizzazione e centrismo non sono sempre così contraddittori come sembrano. La Francia della Terza Repubbuca ha talvolta visto simultaneamente all'opera entrambi i meccanismi, grazie al doppio gioco del Partito Radicale. Questi si alleava con i socialisti (e nel 1936 con i comunisti) per le elezioni, nel quadro di una coalizione di sinistra opposta a una coalizione di destra. Tendeva poi a rompere con i suoi alleati di sinistra avvicinandosi al centro-destra, per costituire un governo fondato su un'alleanza centrista. Questa dissociazione tra alleanze elettorali di tipo bipolare e alleanze di governo centriste raggiunse il culmine tra le due guerre, quando si stabilì una sorta di movimento oscillatorio: vinte le elezioni, grazie all'alleanza elettorale (1924, 1932,1936), le sinistre governavano per due anni, dopo di che il Partito Radicale rovesciava le alleanze e costituiva una coalizione centrista allargata verso destra, battezzata ‛Unione Nazionale' (1926, 1934, 1938). Un simile meccanismo ha fortemente contribuito al declino delle istituzioni parlamentari francesi alla vigilia della seconda guerra mondiale.

A ogni modo, le coalizioni centriste hanno il comune difetto di dare ai cittadini un senso di alienazione politica. Respingere le estreme in un'opposizione semipermanente non significa solo emarginare i più violenti, ma anche i più dottrinari e coloro che sembrano essere i più puri e i più disinteressati. Riunire gli altri in una coalizione di governo non significa solo associare i più moderati, ma anche i meno sensibili alle idee, i più pragmatici, i più affaristi. Ciò favorisce una sorta di dissociazione permanente tra la politica vissuta e la politica pensata. Uno dei vantaggi della bipolarizzazione o del bipartitismo sta nel fatto che i moderati di ciascuno schieramento sono costretti a collaborare con gli estremisti e viceversa: i primi ricevono dai secondi un impulso che impedisce loro di impantanarsi, i secondi sono costretti a tener conto della realtà concreta. Al contrario, nel centrismo i moderati perdono lo stimolo degli estremisti, che a loro volta possono più liberamente fissarsi in atteggiamenti rigidi e dottrinari. Bisogna aggiungere che il centrismo non offre ai cittadini nessun'altra possibilità concreta se non la propria perpetuazione, essendo impossibile un'alleanza delle due estreme. La partecipazione alle scelte dei governanti diviene in questo modo irreale, poiché il potere resta, per l'essenziale, nelle mani degli stati maggiori dei partiti del centro.

b) Il bipartitismo

La nozione di ‛bipolarizzazione', quale l'abbiamo appena precisata, mostra che non esiste una frontiera invalicabile tra pluripartitismo e bipartitismo: molti dei tratti della bipolarizzazione si trovano in regime di bipartitismo. In realta la bipolarizzazione è più vicina al bipartitismo di quanto non lo sia a un pluripartitismo fondato su alleanze centriste o su alleanze senza disciplina. D'altronde la nozione di bipartitismo è eterogenea quanto quella di pluripartitismo. Una distinzione fondamentale a questo riguardo è quella tra il bipartitismo di tipo americano e il bipartitismo di tipo britannico.

1. Il bipartitismo di tipo americano. - Gli Stati Uniti d'America hanno sempre conosciuto il bipartitismo: nella forma di una contrapposizione prima tra federalisti e antifederalisti, poi tra repubblicani e democratici. In varie fasi della storia americana si sono sviluppati movimenti in favore di un terzo partito, ma sono sempre falliti. L'elezione presidenziale sembra aver esercitato un ruolo importante nella formazione del bipartitismo. Il meccanismo di una votazione nazionale in un territorio tanto vasto necessitava di organizzazioni politiche molto grosse e, insieme, di una semplificazione delle scelte offerte all'elettore. La potenza e la popolarità del presidente ne facevano d'altro canto un leader nazionale, l'animatore del suo partito. Per scalzarlo bisognava opporgli un solo altro grande leader sostenuto anch'esso da una vasta organizzazione. La complessità del sistema elettorale americano costringeva d'altronde a costituire organizzazioni nazionali di tal fatta, per assicurarne il funzionamento.

Ciò spiega in parte perché i partiti statunitensi si distinguano da tutti gli altri partiti occidentali, e come mai non presentino analoghe connessioni con i grandi movimenti sociali e ideologici che da due secoli costituiscono, in Europa e in America, il terreno della lotta politica. Gli Stati Uniti non hanno conosciuto realmente il conflitto tra conservatori e liberali; né hanno conosciuto - come abbiamo già detto - lo sviluppo del socialismo e il suo conflitto con liberali e conservatori, donde la loro tendenza a unificarsi in un unico partito borghese. Nella storia degli Stati Uniti troviamo bensì partiti socialisti, ma si tratta di piccoli partiti che non incidono durevolmente sul gioco tra i due grandi. Il proletariato americano era, nel XIX secolo, formato essenzialmente da immigrati desiderosi di integrarsi nella nuova società, in cui trovavano una mobilità relativamente elevata, dato che ogni generazione di immigrati poteva salire nella scala sociale via via che nuovi arrivati la rimpiazzavano nelle mansioni più umili. L'esistenza all'Ovest di una riserva - ancora disponibile - di terre coltivabili aumentava le prospettive di mobilità e di elevazione sociale. Comunque sia, la coscienza di classe non si è sviluppata negli Stati Uniti con un'intensità tale da promuovere la formazione di grandi partiti socialisti o comunisti.

I partiti americani appaiono così, se paragonati agli altri movimenti politici europei e americani, come due varianti di un partito liberale. Coerentemente con tale caratteristica la loro ideologia, pur essendo più sviluppata di quanto comunemente si creda, rimane in genere abbastanza inespressa: non abbisogna, infatti, di una formulazione esplicita in quanto corrisponde all'ideologia latente di tutta la popolazione americana. In ognuno dei due partiti troviamo una vasta gamma di opinioni, che vanno dalla destra alla sinistra, come nella maggior parte dei partiti liberali del mondo: rivoluzionari due secoli fa, conservatori oggi, l'amalgama delle loro vecchie tradizioni e dei loro attuali interessi permette combinazioni svariatissime, adattabili a tutte le situazioni, a condizione, beninteso, di restare nel quadro della libera impresa. Dei partiti liberali i partiti americani hanno anche la struttura fluida e decentrata, l'assenza di disciplina e di apparato: tutte caratteristiche tipiche dei partiti di quadri ottocenteschi e che i partiti liberali hanno in maggioranza conservato. Il federalismo e il decentramento dei poteri accentuano negli Stati Uniti l'elasticità di struttura e la debolezza dell'impalcatura dei partiti. Se l'organizzazione è relativamente forte e omogenea su scala locale, è assai labile a livello di Stato e pressocché inesistente a livello nazionale. Si è potuto affermare che negli Stati Uniti non esistono due partiti, ma cento, ossia due per ogni Stato. Non bisogna tuttavia dimenticare che ogni partito ritrova la sua unità nazionale in occasione delle elezioni presidenziali e che la leadership del presidente dà al suo partito una relativa omogeneità. Quanto al funzionamento del governo, il tratto più importante dei partiti americani è la mancanza completa di qualsiasi disciplina di voto nelle Assemblee. Al Senato come alla Camera dei rappresentanti, questa disciplina non esiste né per i repubblicani né per i democratici. Ogni senatore e ogni rappresentante vota come ritiene opportuno, liberamente. Quasi in ogni votazione troviamo dei repubblicani schierati con i democratici e viceversa. In generale, si delinea un'alleanza tra repubblicani liberali e democratici liberali, di fronte a quella tra repubblicani conservatori e democratici conservatori: ma nemmeno questi due blocchi sono stabili e si modificano da una votazione all'altra.

Di conseguenza, ogni parlamentarismo maggioritario - malgrado il bipartitismo - è negli Stati Uniti impossibile. Dire che il presidente dispone della maggioranza al Congresso semplicemente perché il suo partito ha il maggior numero di seggi nelle due Camere, significa avanzare un argomento di scarso rilievo, dato che il suo partito non è quasi mai compatto nelle votazioni parlamentari. Per fare approvare il bilancio e i progetti di legge, il presidente degli Stati Uniti deve cercare pazientemente di raccogliere una maggioranza su ogni problema: faticosa tela di Penelope, da ricominciare ogni giorno. Se - per mantenersi al potere - il governo degli Stati Uniti avesse bisogno, come i governi parlamentari europei, della fiducia dei deputati, sarebbe probabilmente, data la mancanza di una maggioranza coerente, altrettanto instabile e debole quanto i ministeri della Terza e della Quarta Repubblica francese.

Si può dunque vedere che il numero - due o più di due - non è l'unico criterio per una classificazione dei sistemi di partito. Il criterio numerico è in realtà inseparabile dalla struttura interna dei partiti e, in particolare, dall'esistenza o meno di una disciplina di voto nelle assemblee. Da questo punto di vista il bipartitismo americano è uno pseudobipartitismo, poiché ogni partito è solo una cornice assai fluida all'interno della quale si fa pressappoco quello che si vuole. Diminuisce fortemente, allora, l'interesse a distinguere il dualismo dagli altri sistemi (tripartitismo, quadripartitismo, ecc.). La ragione essenziale che giustifica la classificazione del bipartitismo in una categoria a parte sta in realtà nella sua capacità di assicurare una maggioranza omogenea e stabile nell'ambito di un partito. Se la struttura dei partiti è tale da inficiare questa condizione, il concetto di bipartitismo perde la sua importanza.

Una classificazione esauriente dei sistemi dei partiti non dovrebbe, dunque, contrapporre il bipartitismo al pluripartitismo, ma il bipartitismo di tipo britannico al pluripartitismo e al bipartitismo di tipo americano (quest'ultimo essendo, per quanto riguarda le maggioranze parlamentari, in definitiva più vicino al pluripartitismo che al bipartitismo inglese). Beninteso, all'interno del pluripartitismo, la bipolarizzazione costituirebbe un sistema intermedio, abbastanza vicino al bipartitismo britannico. Tuttavia, non va dimenticato che il dualismo americano permette un'elezione presidenziale relativamente chiara malgrado la complessità del sistema elettorale: in questo esso si differenzia profondamente dal pluripartitismo.

2. Il bipartitismo di tipo britannico. - Il bipartitismo di tipo britannico funziona in Gran Bretagna e in Nuova Zelanda. In Australia è parzialmente alterato dalla presenza di un terzo partito - il Partito delle campagne - tra i liberali e i laburisti: una stretta alleanza tra il Partito Liberale e il Partito delle campagne introduce, tuttavia, una bipolalarizzazione abbastanza rigida. In Canada il bipartitismo originario, di liberali e conservatori, è stato modificato in profondità dalla presenza di un Partito Socialista e di un Partito ‛Creditista' (Social Credit: movimento separatista di destra) e più ancora dal problema del Quebec. Se il bipartitismo arretra così nel Commonwealth, nell'Europa continentale tende, al contrario, a svilupparsi: la Repubblica Federale Tedesca e l'Austria vi sono assai vicine e il Belgio non ne è molto distante.

In Gran Bretagna si sono succeduti due bipartitismi diversi: il bipartitismo di liberali e conservatori che vigeva prima del 1914, il bipartitismo di conservatori e laburisti che funziona dal 1935. Il periodo 1920-1935 ha costituito una fase intermedia fra l'uno e l'altro, una fase in cui Londra ha conosciuto un'instabilità politica abbastanza accentuata. Il Partito Conservatore britannico attuale è, in realtà, un partito liberale conservatore nato dalla fusione delle componenti essenziali dei due grandi partiti del XIX secolo. Anche se mantiene la denominazione di ‛conservatore', la sua ideologia è piuttosto improntata al liberalismo, sia politico che economico. Il piccolo Partito Liberale, rimasto fuori da questa fusione, rappresenta la frazione di sinistra del vecchio grande Partito Liberale. Lo stesso può dirsi degli altri grandi partiti conservatori europei (Democrazia Cristiana tedesca, Democrazia Cristiana italiana, Partito Cristiano Sociale belga) e degli altri piccoli partiti liberali. Va notato che in Canada il vecchio bipartitismo di conservatori e liberali sussiste tuttora e che un grande partito socialista non è riuscito finora ad affermarsi nel paese: situazione in cui la vicinanza degli Stati Uniti e lo sviluppo di una mentalità nordamericana hanno avuto probabilmente un certo peso.

Il bipartitismo di tipo britannico poggia dunque sull'evoluzione sociale e ideologica comune alla maggior parte dei paesi d'Europa e d'America: conflitto tra conservatori e liberali, sviluppo del socialismo, comparsa del comunismo e di altre tendenze politiche affermatesi dopo la prima guerra mondiale (democrazia cristiana, fascismo, ecc.). L'incidenza di un fattore tecnico, il regime elettorale, sembra a questo riguardo importante: il sistema maggioritario a un unico turno opponeva un ostacolo alla scissione dei partiti esistenti e alla proliferazione di piccoli gruppi nuovi mentre, al tempo stesso, accelerava l'eliminazione dei vecchi partiti quando s'indebolivano. Fino al 1914 il sistema elettorale gioca dunque in favore del bipartitismo esistente: frena lo sviluppo del socialismo. A partire dal 1920, quando i laburisti diventano il secondo partito, il sistema si rivolge contro i liberali, contribuendo a eliminarli.

Al tempo stesso esso protegge il Partito Socialista contro la tentazione di scissioni che - in un tale meccanismo elettorale - rischierebbero di distruggerlo: viene così innalzato un ostacolo allo sviluppo del comunismo. A destra un ostacolo analogo intralcia la comparsa di partiti fascisti. È ovvio che, se comunismo e fascismo avessero rappresentato in Gran Bretagna forze sociali importanti, avrebbero anche superato l'ostacolo, così come è avvenuto per il socialismo. Il sistema maggioritario a un unico turno non può mantenere il bipartitismo se l'evoluzione delle strutture della società tende a distruggerlo. Ugualmente, non vi è bisogno di sistema maggioritario a un unico turno perché vi sia un'evoluzione verso il bipartitismo, se le forze sociali spingono in questo senso, come nella Repubblica Federale Tedesca e in Austria. Resta il fatto che l'adozione del sistema maggioritario a un unico turno porterebbe a compimento e consoliderebbe questa evoluzione, stabilendo in questi due paesi un autentico bipartitismo, il che non si è ancora verificato.

Il bipartitismo di tipo britannico poggia su partiti rigidi, nei quali, cioè, regni una disciplina di voto nelle assemblee. In tutte le votazioni importanti (investitura, fiducia, censura, ecc.), tutti i deputati del partito sono costretti a votare compatti, seguendo rigorosamente le direttive stabilite in comune da essi stessi o decise dagli organismi dirigenti. Una relativa indisciplina è tollerata, talvolta, nella misura in cui non compromette l'azione del governo: si ammette che qualche membro del partito si astenga se l'astensione non modifica il risultato del voto. In tal modo il leader del partito di maggioranza, che è al tempo stesso primo ministro, è sicuro di restare al potere per tutta la durata della legislatura e di fare adottare dal parlamento tutti i progetti che ritiene importanti. Non esiste piu autentica separazione dei poteri tra esecutivo e assemblee: il governo e la maggioranza parlamentare formano un blocco omogeneo e solido, di fronte al quale l'opposizione può solo esprimere le sue critiche. Durante i quattro o cinque anni della legislatura la maggioranza al potere è onnipotente: solo le difficoltà interne alla maggioranza stessa possono limitare questa onnipotenza. Questo è il ‛parlamentarismo maggioritario'.

Stabili e forti, i governi di tal genere sono in pratica designati dai cittadini, come se uscissero da un'elezione presidenziale. Poiché ogni partito costituisce un'organizzazione disciplinata con un leader riconosciuto, che diventa primo ministro in caso di vittoria elettorale, le elezioni legislative designano in realtà non soltanto i deputati, ma anche il capo del governo. Basta seguire una campagna elettorale britannica per rendersene conto. In Inghilterra, nel 1970, ad es., si è votato Wilson o Heath quasi allo stesso modo in cui negli Stati Uniti si votava nel 1968 Humphrey o Nixon. La differenza è che, votando per mandare al governo l'uno o l'altro dei leaders, gli inglesi gli assicurano al contempo una maggioranza disciplinata che gli fornisce i mezzi per governare. Da tutto ciò risulta un sistema politico insieme stabile, forte e democratico: più democratico, più stabile e più forte che in ogni altra parte dell'Occidente.

Questo sistema presuppone, ovviamente, che i due partiti siano d'accordo sulle regole fondamentali della democrazia. Se si trovassero di fronte in Gran Bretagna, non un Partito Conservatore e uno Laburista, ma un partito comunista e un partito fascista, il bipartitismo non durerebbe a lungo: il vincitore si affretterebbe a sopprimere il proprio avversario e a governare da solo. Ma il meccanismo del bipartitismo britannico tende precisamente a ‛moderare' entrambi i partiti. Per vincere, i laburisti hanno bisogno di conquistare non i voti dei laburisti convinti, voti che avranno comunque, ma quelli degli elettori esitanti del centro, che decidono della vittoria a seconda che si riversino sull'una o sull'altra parte. Su questo stesso settore dell'elettorato, e per le stesse ragioni, anche i conservatori concentreranno i loro sforzi di persuasione. La conseguenza è che in entrambi i partiti prevarranno, di solito, le forze moderate e centriste: un buon leader laburista è ‛il più a destra degli uomini di sinistra'; un buon leader conservatore è ‛il più a sinistra degli uomini di destra'.

Un tal sistema, spingendo ognuno dei due partiti in direzione moderata, protegge contro l'avvento di forze estremiste. Esso non presenta però unicamente dei vantaggi. Tende naturalmente a sclerotizzare i partiti, riducendo all'impotenza i suoi elementi innovatori, obbligati perpetuamente a piegarsi davanti agli elementi più moderati per non impaurire il centro. Si può pensare che ciò sia comunque meglio che la tendenza all'astrattezza, che minaccia i piccoli partiti estremisti quando sono separati dalle masse moderate. Ad ogni modo, sembra che il rischio di sclerosi, nelle società industriali, riguardi oggi tutti i partiti, e non solo quelli che funzionano in regime di bipartitismo. Questo rischio è legato alla difficoltà di creare organizzazioni nuove capaci di farsi prendere sul serio da una frazione importante di cittadini, o di rinnovare le vecchie organizzazioni dominate dagli apparati in carica. Più oltre affronteremo di nuovo questo problema (v. sotto, cap. 6).

5. Il partito unico

Le dittature moderne hanno preso a prestito dalle democrazie pluraliste i partiti politici, nella forma però del partito unico. Il sistema si è sviluppato nell'URSS, a vantaggio del Partito Comunista, dopo la rivoluzione del 1917. Qualche anno più tardi è stato imitato dall'Italia fascista. Dopo il 1933 la Germania nazionalsocialista ha adottato il modello italiano, portandolo a un alto grado di perfezione tecnica. Dopo il 1945 le democrazie popolari d'Europa hanno imitato il modello sovietico. Alcuni anni più tardi la Cina, la Corea del Nord e il Vietnam del Nord hanno fatto la stessa cosa. Dal canto loro, un gran numero di paesi del Terzo Mondo, in particolare africani, hanno stabilito un regime di partito unico dopo l'indipendenza. Si è così indotti a distinguere tre tipi di partito unico: i partiti unici comunisti, i partiti unici fascisti e i partiti unici dei paesi in via di sviluppo.

a) I partiti unici comunisti

Nei paesi comunisti il partito unico è considerato come l'avanguardia della classe operaia e dei suoi alleati (contadini, intellettuali, ecc.), avanguardia che permette di costruire un regime socialista nella fase transitoria della cosiddetta ‛dittatura del proletariato'. Per comprendere esattamente il suo ruolo, bisogna sempre tenere a mente la concezione marxista dell'evoluzione dello Stato. Nei paesi fondati sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, lo Stato è un insieme di strumenti di coercizione (amministrazione, polizia, esercito, ecc.) al servizio della classe dominante che possiede i mezzi di produzione e si serve appunto dello Stato per mantenere il proprio dominio. La rivoluzione socialista consiste nel fatto che i lavoratori si impadroniscono dell'apparato statale e lo volgono a un diverso fine: la soppressione della proprietà privata dei mezzi di produzione e l'edificazione delle basi del socialismo. La resistenza delle vecchie classi dominanti e dei loro alleati esterni (paesi capitalisti) obbliga all'impiego di mezzi coercitivi, donde la necessità di una dittatura del proletariato. Ma questa dittatura è solo temporanea: una volta poste le basi del socialismo e sviluppata la società socialista, la Costrizione scomparirà poco a poco. Si giungerà alla ‛fase superiore del comunismo', caratterizzata dal deperimento dello Stato.

Il ruolo del partito comunista, in quanto partito unico, si situa nel quadro della dittatura del proletariato, di cui è lo strumento essenziale. Lo Stato è solo un insieme di mezzi a disposizione del partito, che costituisce il centro del potere. La gerarchia reale è quella del partito e non già la gerarchia ufficiale dello Stato. Il segretario generale del partito o primo segretario è il numero uno del regime. Prima del 1940 Stalin non era neppure ministro, ma il suo titolo di segretario generale indicava chiaramente che era il capo supremo dell'URSS e nessuno aveva dubbi al riguardo. Gli eccessi del ‛culto della personalità' hanno portato dopo di allora a modificare l'autorità in seno al partito, dove ci si è sforzati di stabilire una direzione collegiale. Ciò riguarda unicamente l'organizzazione interna del partito, non il suo ruolo nello Stato: che la direzione sia collegiale o personale, il partito resta il centro del potere politico.

In tutti i paesi comunisti la struttura del partito unico è destinata a permettere al partito sia di esercitare il suo ruolo direttivo nello Stato che di mantenere il contatto con le masse popolari. L'originalità del partito consiste nel fatto che non costituisce un'organizzazione tecnica dell'autorità come può esserlo, per es., una qualsiasi amministrazione - ma un'organizzazione dell'autorità che vuole esprimere le aspirazioni e la volontà della popolazione. I membri del partito fanno parte di questa popolazione, di cui sono gli elementi più attivi e più coscienti. Il contatto è assicurato da una rete ramificata di cellule del partito, che sono presenti ovunque. Così, se il circuito funziona bene in entrambe le direzioni, i dirigenti del partito stanno continuamente in sintonia con le masse, e le masse sono costantemente al corrente delle decisioni dei dirigenti. In pratica può succedere che il partito sia più o meno isolato, come nell'URSS ai tempi di Stalin, in Cecoslovacchia dopo il 1968, ecc.

Il partito non è solo uno strumento permanente di contatto tra il popolo e i dirigenti: è anche un elemento di propaganda o, più esattamente, di formazione. Si è già detto del ruolo fondamentale dell'ideologia nei partiti comunisti. Nel caso siano partiti unici, l'educazione ideologica della popolazione è uno dei loro compiti essenziali. Essi agiscono direttamente attraverso le scuole di quadri, le campagne d'informazione, i giornali, le riviste, le pubblicazioni, e con l'azione instancabile dei propri militanti, che hanno un po' il ruolo che in una religione ha il clero di fronte ai fedeli. Agiscono anche in modo indiretto, controllando la stampa, i libri, le associazioni di intellettuali, ecc. Il partito è così il guardiano dell'ortodossia del regime, un guardiano che pronuncia condanne e scomuniche. Vigila inoltre sulla fedeltà e sull'ortodossia dei suoi propri membri, sorvegliandone in primo luogo il reclutamento (obbligo di presentazione e di un periodo di candidatura) e, in seguito, decidendo su eventuali espulsioni. Talvolta hanno luogo ‛purghe' generali: cioè un controllo sistematico di tutti gli iscritti.

b) I partiti unici fascisti

In teoria i partiti unici fascisti assicurano le stesse funzioni di direzione dello Stato e di contatto con la popolazione garantite dai partiti unici comunisti. Al pari di questi, tendono a riunire un'élite, formata dalle persone più fedeli e devote al regime. Ma dietro questi tratti generali affini si celano enormi differenze. Lasciamo da parte il fatto che, in teoria, l'esistenza di partiti comunisti è limitata alla fase transitoria della dittatura del proletariato, mentre i partiti fascisti sono per loro natura permanenti: essi corrispondono infatti a una dittatura stabile, il cui indebolimento futuro non è nemmeno preso in considerazione. In pratica, tuttavia, l'avvento della fase superiore del comunismo e il deperimento dello Stato appaiono come obiettivi assai lontani e le dittature comuniste rischiano di durare a lungo: il che rende meno sensibile la loro differenza rispetto alle dittature fasciste.

Più importante è il fatto che i partiti unici fascisti svolgono nello Stato un ruolo minore dei partiti unici comunisti. In Italia, il Partito Nazionale Fascista non è mai stato l'elemento preponderante del regime, e la sua influenza è restata spesso abbastanza secondaria. Anche in Spagna, la Falange non ha mai svolto un grande ruolo. In Portogallo, l'Unione Nazionale era un'organizzazione molto debole perfino quando il regime di Salazar era all'apogeo. Solo in Germania il Partito Nazionalsocialista ha avuto nello Stato una grande influenza, che non va tuttavia esagerata: dopo la ‛purga' del giugno 1934, ad es., le SA furono confinate in un ruolo subalterno (il resto del partito non aveva mai contato molto). La dittatura, in conclusione, poggiava piuttosto sulle SS, che costituivano una formazione a parte in seno al partito, molto chiusa e dipendente direttamente dal Führer, e sulla Gestapo, che era un'organizzazione dello Stato e non del partito.

La differenza rispetto ai partiti comunisti non verte unicamente sull'importanza del ruolo del partito unico, ma sulla natura stessa di questo ruolo. I partiti unici fascisti sono essenzialmente milizie che sostengono il regime con la forza delle armi. Questa funzione corrisponde sia alla struttura di questi partiti sia alla filosofia dei regimi fascisti, che intendono essere delle dittature imposte alle masse dall'azione di una minoranza fortemente organizzata. Quello di un partito unico fascista è, dunque, un ruolo poliziesco e militare piuttosto che un ruolo di formazione ideologica. Il tipo di propaganda cui fa ricorso è assolutamente diverso da quello dei partiti comunisti, i quali conducono la loro opera di convincimento elaborando una dottrina razionale in cui ogni avvenimento particolare è collocato in un sistema esplicativo generale.

La propaganda fascista non mira a convincere col ragionamento. Essa fa piuttosto appello alle pulsioni irrazionali. Si fonda su miti elementari (la nazione, la razza, il sangue, l'elite, il capo, ecc.). Tende a imporre anzitutto il culto del capo, il solo che possa assicurare la grandezza della patria e al quale si deve un'obbedienza cieca e totale. Per il suo stile questa propaganda assomiglia a quella militare, che sviluppa pochi temi semplificati e mescola i sentimenti di fedeltà personale, di onore, di nazionalismo con la minaccia di sanzioni implacabili contro gli oppositori. La grande novità dei regimi fascisti, in questo campo, è consistita nell'utilizzare tecniche modernissime di propaganda radio, cinema, manifesti, slogan, ecc. per trasmettere messaggi il cui contenuto rimaneva assai elementare e meramente suggestivo.

Aggiungiamo infine che l'evoluzione dei partiti fascisti dopo la presa del potere li allontana dal ruolo di strumenti di contatto tra il popolo e il governo, ruolo in generale assegnato ai partiti unici e assunto dai partiti comunisti. In Germania come in Italia, si nota la tendenza del partito a chiudersi in se stesso, con l'eliminazione di ogni nuova adesione individuale. Il rinnovamento del partito viene allora assicurato essenzialmente dalle organizzazioni giovanili, i cui elementi più fidati, selezionati sin dalla più tenera età, entrano in blocco ogni anno nel partito nel corso di una solenne cerimonia. Il partito in questo modo tende a costituire un ‛ordine' chiuso, composto da un'élite di superuomini votati corpo e anima al capo supremo, per il quale costituiscono il più solido sostegno. Si tratta di formare un'oligarchia di tipo nuovo, piuttosto che un'avanguardia che abbia il compito di esprimere e illuminare le masse.

c) I partiti unici dei paesi in via di sviluppo

Certi partiti unici di paesi in via di sviluppo non differiscono dai partiti unici corrispondenti dei paesi industriali. Così il Partito Comunista della Repubblica Democratica del Vietnam, il Partito Comunista della Corea del Nord, assomigliano molto, per struttura e funzioni, ai partiti unici degli altri paesi comunisti. Troviamo tuttavia in alcuni paesi africani, asiatici o dell'America Latina, dei partiti unici con caratteristiche originali, che non assomigliano nè ai partiti comunisti nè a quelli fascisti, quali li abbiamo descritti. Era questo il caso del Partito Repubblicano del Popolo nella Turchia kemalista prima del 1950. È questo, oggi, il caso dell'Unione Socialista Araba Egiziana, del Neo-Destur tunisino, del Fronte di Liberazione Nazionale Algerino e di parecchi partiti dell'Africa Nera, divenuti partiti unici dopo una fase di partito dominante all'indomani dell'indipendenza.

Tutti questi paesi, più o meno, si autodefiniscono socialisti, o per lo meno progressisti, pur restando assai lontani dal comunismo, di cui sono talvolta nemici. Ataturk voleva ‛repubblicanizzare' la Turchia, e il suo Partito Repubblicano del Popolo, laico e democratico, presentava qualche somiglianza col Partito Radical-Socialista francese. Nasser e i suoi successori hanno voluto stabilire in Egitto un socialismo nazionale e moderato. In Tunisia il Neo-Destur è repubblicano più che socialista, e trae ispirazione più dal kemalismo che dal nasserismo. Nell'Africa Nera i partiti unici si proclamano spesso socialisti, ma raramente lo sono, salvo qualche eccezione. Tuttavia non si tratta di mero mimetismo; i partiti unici di questo tipo vogliono effettivamente trasformare la società modernizzandola: se non sono rivoluzionari, sono però riformisti e, di conseguenza, si collocano agli antipodi del fascismo, dittatura reazionaria.

I partiti unici in questione hanno in generale un'organizzazione meno rigida di quella dei partiti comunisti o fascisti. In Turchia il Partito Repubblicano del Popolo era un partito di quadri piuttosto che un partito di massa. In Egitto ci si è sforzati di organizzare un nucleo di quadri all'interno di uno pseudopartito di massa. Nell'Africa Nera si tratta in generale di veri partiti di massa, sebbene l'adesione sembri motivata soprattutto dall'attaccamento personale al leader e dai legami tribali, e l'impalcatura non sia sempre solida. Questa debolezza nell'organizzazione spiega il ruolo secondario che questi partiti unici svolgono nell'ambito dello Stato. Talvolta si ha l'impressione che essi ricoprano il ruolo di partiti unici senza però svolgerne realmente le funzioni. Essi non sono, in nessun modo, gli organi direttivi del regime, la cui forza ha altre basi.

Alcuni regimi si sforzano tuttavia di sviluppare al massimo il ruolo del partito, ravvicinando progressivamente le sue funzioni reali alle sue funzioni teoriche. A questo riguardo è molto interessante lo studio della politica di Kemal Atatùrk, alla quale assomiglia la politica di Nasser, che ha tentato di aumentare l'influenza dell'Unione Socialista Araba e di farne il pilastro essenziale del regime. Questo modo di procedere è molto significativo in quanto dimostra la volontà di passare da una dittatura arcaica, basata sull'esercito (Kemal, Nasser) o su tradizioni tribali (certi regimi africani) o sul prestigio personale del capo (Burghiba, ecc.) a una dittatura moderna, basata su di un partito unico organizzato. Non bisogna dimenticare che i regimi comunisti hanno fornito la prova che il sistema del partito unico permette di istituzionalizzare le dittature, facendole durare oltre la vita di un singolo uomo.

6. Conclusione

In Occidente si parla spesso del declino dei partiti politici. A dire il vero, opinioni del genere vengono espresse da molto tempo negli ambienti conservatori e corrispondono a una latente ostilità contro i partiti, accusati di dividere i cittadini, di pregiudicare l'unità nazionale, di favorire le promesse eccessive e la demagogia. In alcuni paesi europei - in Francia, ad es. - le organizzazioni politiche di destra rifiutano perfino il nome di partito e si definiscono ‛movimenti', ‛unioni', ‛federazioni', ‛centri', ecc. Detto questo, è incontestabile che i grandi partiti politici d'Europa e degli Stati Uniti appaiono oggi invecchiati, sclerotizzati, se si pensa a come si presentava la situazione all'inizio del secolo o all'indomani della prima guerra mondiale. Perfino partiti relativamente nuovi come la Democrazia Cristiana italiana o la Democrazia Cristiana tedesca - nate nel 1945 - danno un'impressione di logoramento.

In realtà, in rapporto al 1900, i partiti politici non sono in declino, ma piuttosto in espansione. All'inizio del secolo i partiti politici erano essenzialmente limitati all'Europa e all'America del Nord; altrove le organizzazioni politiche erano molto deboli o addirittura inesistenti. Oggi i partiti politici funzionano nel mondo intero o quasi. E anche in Europa e nell'America del Nord il numero dei cittadini inquadrati dai partiti è oggi, in generale, molto superiore a quanto non fosse prima del 1914. I partiti attualmente esistenti sono più numerosi, più potenti, meglio organizzati di un secolo o mezzo secolo fa. Nei paesi industriali, e soprattutto nell'Europa occidentale, sono divenuti meno rivoluzionari e il loro rinnovamento è stato insufficiente: questo spiega l'impressione di sclerosi e di logoramento alla quale abbiamo fatto cenno. Ma si tratta di un fenomeno limitato nello spazio e forse anche nel tempo.

D'altro canto, lo stesso sviluppo dei partiti, la loro tendenza a costituire grandissime organizzazioni comporta un senso di impotenza nei cittadini così inquadrati in queste vaste macchine. Che si tratti di partiti, di imprese, di amministrazioni, di sindacati, ecc., la reazione è analoga. La difficoltà di modificare i partiti esistenti quando hanno ormai raggiunto una tale struttura, la quasi impossibilità di creare nuovi partiti che abbiano una dimensione iniziale sufficiente: tutto ciò dà la stessa impressione di immobilismo dei grandi trusts industriali che hanno sostituito le piccole e medie imprese. La tecnostruttura politica ha le stesse conseguenze della tecnostruttura economica. In ambedue i casi non si tratta affatto di un declino, ma di un'evoluzione.

D'altronde, i partiti rimangono insostituibili per permettere le scelte degli elettori e assicurare un minimo di inquadramento degli eletti. Non si è ancora riusciti a immaginare qualcosa di meglio - o di meno peggio - per selezionare i candidati e organizzare la propaganda. Il sistema americano delle ‛primarie', sviluppato a partire dal 1900 per sostituire i partiti, può funzionare solo grazie a essi. L'idea di riunire i rappresentanti dei sindacati, delle organizzazioni professionali, dei club di intellettuali, delle associazioni locali, ecc., per scegliere i candidati alle elezioni porta solo a modificare le strutture dei partiti: l'organizzazione laburista inglese, per es., è nata su queste basi.

Nessuno pensa che una democrazia possa funzionare senza partiti politici: in ogni caso, finora nessuno ha proposto un modello di democrazia che possa funzionare senza partiti politici. Che lo ‛spazio' dei partiti nei paesi industriali vada diminuendo, che il dibattito fra loro si banalizzi, che riescano spesso a esprimere le principali tendenze in campo solo imperfettamente, sono tutti fatti che rispecchiano un indebolimento della democrazia più che un indebolimento dei partiti stessi; in realtà, l'una cosa non può essere separata dall'altra, poiché democrazia e partiti rappresentano le due facce della stessa medaglia.il termine fu introdotto nel dibattito politico da G. Maranini (Storia del potere in Italia, 1848-1967, 1967).


Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

di Gaetano Quagliariello

Partiti politici

Sommario: 1. Origini e sviluppi del moderno partito politico. 2. Il partito politico e i prodromi della 'terza ondata'. 3. Gli anni ottanta: la rivoluzione dei mass media. 4. La svolta del 1989 a Ovest. 5. La svolta del 1989 a Est. 6. Conclusioni. ▭ Bibliografia.

1. Origini e sviluppi del moderno partito politico

Nella riflessione che Alexis de Tocqueville svolse sui moderni partiti politici nel corso del suo viaggio in America, si rintraccia una significativa distinzione tra 'grandi' e 'piccoli' partiti. Questi aggettivi non si riferivano alle dimensioni. I grandi partiti, per Tocqueville, erano aggregazioni costruite intorno a principî politici condivisi; presupponevano, dunque, un'ideologia forte e strutturata, disprezzavano i particolarismi, anteponevano le ragioni della fede comune agli interessi dei singoli. I piccoli partiti, di contro, gli apparivano come formazioni a scarso contenuto ideologico, influenzate dalle personalità più che dalle idee, sensibili ai bisogni - anche e soprattutto materiali - dei loro membri (v. Tocqueville, 1831-1832; v. Matteucci, 1990).

Questa analisi contiene in sé gli elementi per fissare alcune distinzioni fondamentali nell'evoluzione storica dei partiti. Essa evidenzia, in particolare, il diverso sviluppo che i partiti ebbero nel mondo anglosassone e nell'Europa continentale, richiamando l'attenzione sul rapporto tra partiti e istituzioni. Tali elementi, però, furono ampiamente trascurati dagli scienziati politici che per primi analizzarono l'affermarsi dei partiti moderni e i loro effetti sullo svolgimento della vita politica, nonché sul funzionamento dei sistemi. Moisei Ostrogorski accomunò partiti inglesi e statunitensi in un'unica condanna, fondata sulla convinzione che lo sviluppo della 'macchina politica' sarebbe inevitabilmente entrato in conflitto con i principî e le istituzioni delle democrazie liberali. Per Ostrogorski (v., 1903) il rappresentante del popolo, un tempo libero e disinteressato nelle sue decisioni, era destinato ad assoggettarsi a un sistema dispotico e, a seguito di tale processo, alla politica come scontro di ideali sarebbe succeduto il primato della corruzione materiale e morale. Roberto Michels, dal canto suo, concentrò la propria attenzione sul Partito Socialdemocratico Tedesco. Egli ignorò il consiglio del suo maestro Max Weber di guardare anche, in chiave comparativa, ai partiti americani. Nei suoi scritti analizzò, così, la delusione del militante tradito dall'evoluzione dell'organizzazione alla quale aveva affidato le proprie speranze di cambiamento palingenetico. Il suo discorso risulta speculare a quello di Ostrogorski, anche se le conclusioni non sono molto diverse. Michels sottolineò i rischi ai quali sarebbero andati incontro i partiti rivoluzionari, che si sarebbero adattati a vivere all'interno di sistemi di tipo liberal-democratico e quindi si sarebbero inevitabilmente corrotti in senso oligarchico, rendendo fittizia la consistenza democratica del sistema (v. Michels, 1911).

Tra i grandi interpreti dei moderni partiti politici nella fase della loro affermazione, solo lo statunitense Abbot Lawrence Lowell mise l'accento sulle differenze tra 'modello anglosassone' e 'modello continentale', evidenziando come l'analisi della forma-partito fosse improponibile senza prendere in considerazione il nesso tra partiti e istituzioni. Secondo la sua ricostruzione (v. Lowell, 1889), i partiti negli Stati Uniti e in Gran Bretagna - seppure con tempi diversi e differenziandosi sotto l'aspetto strutturale - erano divenuti funzioni dei rispettivi sistemi politici in quanto si erano sottomessi a istituzioni condivise, animando una contesa per il governo del paese che presupponeva la regola dell'alternanza al potere. Sul continente, invece, il forte tasso di ideologia aveva spinto i partiti a ricercare l'affermazione dei propri ideali anche al prezzo di destabilizzare le istituzioni: l'origine dei moderni partiti politici europei fu, anzi, spesso legata all'obiettivo di rovesciare un equilibrio istituzionale non gradito. In ogni caso, i membri dei partiti continentali avvertivano quasi sempre l'appartenenza alla propria formazione come prevalente rispetto all'appartenenza a un sistema e ai valori sul quale esso si fondava (v. Lowell, 1896).

Questa distinzione tra i due modelli emerse chiaramente quando nell'Europa continentale si inaugurò la grande stagione del partito politico. Essa fu una conseguenza della prima guerra mondiale (1914-1918), in quanto rappresentò una risposta sia alla massificazione della vita politica, sia alla radicalizzazione dello scontro politico che seguirono a quell'evento. Il partito di massa si affermò, allora, in quanto ritenuto il portato obbligato del processo di modernizzazione della vita politica (v. Maier, 1975). All'interno di realtà nelle quali i compiti della politica e le risposte che si attendevano da essa andavano dilatandosi, il partito divenne l'elemento centrale della costruzione sia di sistemi politici che rimasero nell'alveo delle regole democratiche - pur ricercando una revisione degli originari schemi liberal-parlamentari -, sia di sistemi di tipo autoritario o totalitario (v. Quagliariello, 1996). Il partito ebbe un ruolo imprescindibile nella costruzione istituzionale del comunismo sovietico e del nazismo tedesco, e una funzione di formazione, mobilitazione e inquadramento nel fascismo italiano.

La diffusa convinzione evoluzionistica secondo la quale il partito di massa europeo, ritenuto più adeguato ai bisogni della modernità, era destinato ad affermarsi in ogni contesto politico, agevolò la conferma della sua centralità anche dopo la seconda guerra mondiale. Nell'immediato dopoguerra, il partito si presentò come il centro della vita politica nei grandi paesi continentali usciti sconfitti dal conflitto e investiti dalla transizione alla democrazia (come Germania e Italia), o comunque caratterizzati da una profonda crisi politico-istituzionale (come la Francia). Si ritenne che l'affermazione del partito di massa rappresentasse una garanzia di stabilità per i sistemi politici e che, per questo, dovesse essere tenuta nel debito conto nella fase di elaborazione delle nuove carte costituzionali. La rottura della coalizione bellica, l'alba della guerra fredda e la conseguente necessità di convivere con consistenti forze antisistema - che regolavano i loro comportamenti sulla base della considerazione prioritaria degli interessi internazionali dell'Unione Sovietica - giunsero tuttavia a smentire queste convinzioni. Se si presta attenzione ai tempi della ricostruzione istituzionale nei tre paesi citati, si deve, inoltre, notare che la nuova consapevolezza indotta dalla realtà della divisione dei blocchi li investì in momenti differenti della loro fase costituente. In Francia essa si presentò quando la Costituzione della IV Repubblica era già stata approvata. In Italia, invece, attraversò il periodo costituente cominciato prima dello scoppio della guerra fredda e conclusosi quando questa era, ormai, una realtà. In Germania, infine, la divisione del paese in zone di occupazione consentì nella parte occidentale di scrivere una carta costituzionale che tenesse conto del nuovo quadro internazionale e che, anche per questo, non affidò la stabilizzazione delle istituzioni esclusivamente alla centralità del partito politico di massa e all'accordo necessario tra i grandi partiti.

2. Il partito politico e i prodromi della 'terza ondata'

La nuova situazione europea fece sì che, dove la presenza di forti e radicati partiti antisistema non era stata neutralizzata a livello costituzionale, si cercasse di intervenire attraverso la modifica delle regole elettorali. L'obiettivo era quello di assicurare a coalizioni centriste la possibilità di governare, evitando così il ripresentarsi del 'male oscuro' proprio dei sistemi costruiti sulla centralità del partito, che si era già manifestato a Weimar dopo la prima guerra mondiale. Da quest'esigenza nacquero sia la legge elettorale degli 'apparentamenti', varata in vista delle elezioni francesi del 1951, sia la legge italiana che, nel 1953, prevedeva un forte premio per la coalizione che avesse superato la soglia del 50%. Queste nuove leggi elettorali sancirono la fine dell'illusione che un accordo permanente tra grandi partiti di massa potesse garantire la stabilità politica, e furono varate in una fase nella quale la forte mobilitazione che aveva fatto seguito alla guerra andava riassorbendosi. L'interazione tra questi due fenomeni segnò l'inizio di una lunga fase di declino del partito di massa, che fu più impetuoso ed evidente in Francia, dove la modifica del sistema elettorale aveva raggiunto il suo scopo immediato, più lento e nascosto in Italia, dove la riforma delle norme elettorali, a causa del mancato raggiungimento del quorum da parte della coalizione centrista, non determinò gli effetti auspicati dai suoi promotori.

L'inizio della lunga crisi del partito di massa europeo non fu, però, registrato con tempestività dagli studi dei politologi. Paradossalmente, il libro di Maurice Duverger (v., 1951), che nell'analisi della forma-partito accredita un paradigma evoluzionistico fondato sulla convinzione che il partito di massa risponda meglio ai problemi posti dalla modernità, risale proprio al 1951. In questo stesso torno di tempo, d'altro canto, persino la politologia statunitense fu attraversata da un'evidente propensione per il partito di massa. Il modello di riferimento prevalente dei politologi americani divenne quello dei più strutturati partiti inglesi e, nella letteratura scientifica, non era raro imbattersi in critiche al presunto carattere amorfo dei partiti statunitensi (v. Pizzorno, 1969).

Solo con gli anni sessanta si avviò una riflessione critica, nell'ambito politologico, sulla centralità del partito di massa. Le analisi di Stein Rokkan (v., 1970) sullo sviluppo politico, di Seymour Martin Lipset (v., 1960) e Daniel Bell (v., 1960), di Gabriel Almond sulla civic culture (v. Almond e Verba, 1963) e di David Easton (v., 1965) sull'approccio sistemico convergevano nell'allargare il quadro e nel suggerire di inserire lo studio sulla forma-partito in contesti più ampi che, utilizzando approcci comparativi, sapessero prendere in considerazione le istituzioni, le ideologie e le culture diffuse. Su questa linea, il saggio di Otto Kirchheimer (v., 1966) sul 'partito pigliatutto' (catch-all party) decretò la definitiva crisi del partito di massa come modello di riferimento. Poco dopo, persino in Italia - dove la maggiore centralità dei partiti aveva reso meno visibile la loro crisi - si iniziò a prescindere dallo schema duvergeriano, sia attraverso studi che auspicavano nuove forme di democrazia in grado di relativizzare il ruolo dei partiti (v. Farneti, 1971), sia tramite analisi che prendevano in considerazione i soggetti politici 'inferiori' al partito (le correnti, i notabili, le reti di rapporti interpersonali). Per un'interpretazione compiuta e coerente dei partiti differente da quella di Duverger, si è dovuti arrivare ai primi anni ottanta, con lo studio di Angelo Panebianco (v., 1982).

In questa fase, d'altro canto, in Europa si erano già verificate modifiche fondamentali dei sistemi politici, che gli analisti dei partiti non potevano fare a meno di considerare. In particolare, la transizione francese dalla IV alla V Repubblica (1958) era avvenuta, almeno apparentemente, contro i partiti e con l'intento di spostare il potere verso l'esecutivo, ricercando, per quest'ultimo, forme di legittimazione che non passassero obbligatoriamente attraverso i partiti. L'evoluzione di quel nuovo sistema politico mise però in evidenza che dei partiti non era possibile fare a meno. La previsione dell'elezione diretta del presidente della Repubblica nel 1962 e, ancor più, l'esito della prima sperimentazione di quell'ipotesi nel 1965 misero in luce che persino sistemi presidenziali o semipresidenziali non avrebbero potuto evitare di assegnare un ruolo importante ai partiti politici. Nel 1965, infatti, il tentativo del fondatore della V Repubblica, Charles de Gaulle, di trasformare l'elezione presidenziale in un dialogo esclusivo e privo di mediatori tra i candidati e gli elettori fallì (il fallimento fu sancito dal fatto che de Gaulle venne costretto al secondo turno dal candidato delle sinistre, François Mitterrand). Si comprese allora che anche nel nuovo sistema istituzionale, fondamentalmente diverso da quelli sorti in altri paesi europei all'indomani della guerra, vi sarebbe stato bisogno dei partiti, sebbene non si trattasse più dei vecchi partiti di massa, ma di organizzazioni al servizio del candidato-presidente. Prese allora avvio in Francia una profonda ristrutturazione della forma-partito, che portò alla nascita di una nuova forza a sinistra, dove il partito socialista di Mitterrand successe alla SFIO (Section Française de l'International Ouvrière), e all'edificazione di un vero e proprio partito gollista, che cercò di ovviare alla fragilità delle strutture preesistenti (v. Charlot, 1971). Da allora, il controllo di un'efficiente macchina partitica divenne un requisito quasi obbligatorio per prevalere in una competizione presidenziale. Si spiegano in tal modo sia le vittorie di uomini quali Georges Pompidou, Mitterrand e Jacques Chirac, sia le sconfitte di Valéry Giscard d'Estaing (nelle elezioni per ottenere un secondo mandato), Raymond Barre ed Edouard Balladur.

Nel decennio successivo, nel corso degli anni settanta, questa trasformazione dei partiti si rafforzò a seguito di un'evoluzione sociale che, per l'affermarsi delle logiche dell'età postindustriale, vide l'emergere di contesti sociali più frammentati e, anche per questo, maggiormente autonomi rispetto alla politica, caratterizzati da un minor grado di partecipazione e, infine, da una relativizzazione dell'importanza delle fratture che aveva segnato l'era dei partiti di massa.

Su un altro piano, però, la rilevanza del partito è stata rilanciata dall'avvio di quel ciclo di transizioni nelle quali Samuel Huntington (v., 1991) ha identificato l'esordio della cosiddetta 'terza ondata', che ha visto i regimi autoritari dell'Europa meridionale lasciare il posto all'edificazione di sistemi democratici. In Spagna, Grecia e Portogallo questa trasformazione si presentò con caratteri politici simili, anche in virtù delle analogie socio-economiche fra i tre contesti. Lo sviluppo economico di tali paesi, infatti, era stato caratterizzato da un lento processo di industrializzazione, che determinò un successivo, repentino passaggio da società agrarie a società in prevalenza terziarie. Il passaggio diretto, senza una fase di decantazione, dal primario al terziario favorì, così, l'emergere di tratti comuni nelle strutture sociali dei tre paesi. Essi mantennero una continuità di relazioni tipica delle società rurali, fondate sulla preminenza di legami parentali e rapporti individualistici di natura gerarchica, piuttosto che su collegamenti di tipo collettivo e orizzontale, portato della sedimentazione dei processi di industrializzazione. Le esperienze dittatoriali, inoltre, contribuirono ulteriormente a saldare l'intreccio e la sovrapposizione tra modernità sociale e tradizionalismo politico (v. Sapelli, 1996).

Queste caratteristiche sociali concorsero a far sì che, nel processo di transizione dai regimi autoritari a quelli democratici, il passato giocasse in ognuno di questi paesi un ruolo fondamentale: sia sotto forma di eredità storica della quale tenere comunque conto, sia per quanto concerne il recupero di uomini e strutture del periodo dittatoriale e predittatoriale. Esse aiutano anche a comprendere perché le prime transizioni della 'terza ondata' fossero caratterizzate da una precaria legittimità delle nuove istituzioni, dall'edificazione di fragili strutture amministrative, infine dall'incapacità delle classi politiche di dar vita a nuclei dirigenti autonomi da pressioni di tipo clientelare e, ancor di più, da quelle dell'esercito che, seppure con obiettivi antitetici, in tutti e tre i casi giocò un ruolo assolutamente centrale.

In contesti di questo tipo, si può comprendere perché la funzione dei partiti politici fosse fondamentale. Questi si strutturarono in sistemi partitici tra loro non omogenei: in Portogallo e in Grecia prevalse la tradizionale frattura destra/sinistra, che segnò in modo persistente lo spazio politico (anche se in Portogallo il successo del partito socialista di Mario Soares garantì la spinta centripeta, isolando a sinistra le tendenze più radicali); in Spagna, invece, la prima fase della transizione si compì sotto il segno dell'UCD (Unión de Centro Democrático), una coalizione di partiti formatasi per impulso del presidente del Consiglio in carica, Adolfo Suárez, che legò il suo ruolo al passaggio tra i regimi, declinando poi velocemente e irreversibilmente (v. Cotta, 1995; v. Pridham, 1996).

Nonostante queste differenze, si può affermare che in tutti e tre i casi i partiti furono le strutture in grado di mediare tra passato e presente, di assicurare rappresentatività alle opposizioni sorte nel corso dei regimi autoritari e, contemporaneamente, a quei segmenti di classe dirigente che abbandonarono gradatamente il vecchio regime, descrivendo così una parabola dalla dittatura alla democrazia che non conobbe soluzione di continuità. Essi furono anche gli organismi che, seppure con modalità diverse, si confrontarono con gli eserciti e che - prima che si compisse la fase del consolidamento - supplirono all'insufficiente legittimazione delle istituzioni e assorbirono le tensioni derivanti da tale situazione, rafforzando con ciò la convinzione che l'avvento del regime democratico non possa fare a meno dei partiti politici (v. Morlino, 1995).

3. Gli anni ottanta: la rivoluzione dei mass media

A partire dagli anni ottanta, per comprendere l'evoluzione organizzativa e programmatica dei partiti politici non è possibile fare a meno di considerare il rapporto triangolare che si è instaurato tra il sistema politico, quello dei media e l'opinione pubblica. La radio prima e poi la televisione, come è noto, cominciarono a influire sulla politica e sulle sue forme di organizzazione sin dagli anni trenta. Negli anni ottanta, però, la 'mediatizzazione' della politica e l'assunzione da parte del sistema politico di formati comunicativi massmediali - che inevitabilmente hanno trovato riflesso nel rapporto tra partiti ed elettori - sono divenuti elementi strutturali della storia dei partiti (v. Mazzoleni, 1999). In questa fase tre processi paralleli, originatisi in epoche diverse, hanno raggiunto un punto di connessione, finendo per rafforzarsi a vicenda. Innanzitutto, la televisione si è affermata definitivamente come il mezzo principale della comunicazione politica per la sua capacità di consentire il contatto visivo diretto degli uomini politici con milioni di cittadini-elettori. Inoltre, si sono avviate dinamiche di privatizzazione e deregulation dei sistemi radiotelevisivi che, dopo essere state una peculiarità del sistema politico americano (non a caso caratterizzato da partiti poco strutturati e con un debole profilo ideologico), sono divenute una caratteristica comune a tutti i paesi occidentali. Infine, si è affermato nella prassi giornalistica un atteggiamento critico e polemico rispetto alla politica ufficiale, riscontrabile nell'analisi così come nel modo di concepire le notizie, anch'esso ampiamente debitore dell'esempio americano.

L'avvento dell"era televisiva' ha determinato, come fenomeno complementare, la spettacolarizzazione e la personalizzazione del conflitto politico. David Altheide e Robert Snow (v., 1979) hanno evidenziato l'imporsi di una 'logica mediale' nella copertura dei fatti politici, che comporta il ricorso a forme di linguaggio imperniate sul sensazionalismo, l'utilizzo di tecniche di informazione frammentata al posto di analisi consequenziali e la preminenza degli aspetti 'coreografici', nonché di dettagli personalistici e spettacolari (v. Norris, 2000). Alcuni studiosi sono giunti a contrapporre la media logic alla party logic come forme conflittuali di costruzione della 'agenda politica' e di narrazione degli eventi (v. Mazzoleni, 1987). Nella realtà dei fatti, invece, la logica dei media e quella dei partiti hanno finito con l'interagire. I partiti politici europei - seppure con tempi differenti a causa di fattori legati sia alla struttura del sistema mediale (e dei rapporti tra soggetti politici e soggetti mediali), sia alle caratteristiche del sistema politico (presidenzialismo o parlamentarismo, legge elettorale proporzionale o maggioritaria, e così via) - hanno reagito alla 'terza era' della comunicazione politica in modo analogo (v. Norris, 2000). Fino agli anni settanta il mezzo televisivo è stato da loro considerato una sorta di 'vetrina' adatta a iniziative non primarie, specialmente nel campo della propaganda. A partire dagli anni ottanta, invece, e con più forza verso la fine del decennio, i leaders di partito hanno cominciato a considerare la televisione non più come uno strumento da tenere sotto controllo ed eventualmente sfruttare per iniziative secondarie, ma come l'arena principale nella quale sono chiamati a operare coloro i quali hanno come fine l'acquisizione del consenso. Contemporaneamente, e non certo casualmente, si è gradualmente sviluppato anche in Europa quel modello di 'campagna permanente', il cui effetto è di estendere e radicalizzare il conflitto per tutto il corso del ciclo politico-elettorale (v. Blumenthal, 1980). In tal modo, l'arte di governare ha finito con l'inglobare la promozione e la propaganda politica permanente; per l'opposizione, la spettacolarità dei motivi di contestazione dell'esecutivo in carica è divenuta più importante della loro ineccepibilità tecnica.

Come si è detto, anche il fenomeno della personalizzazione della politica risulta strettamente connesso con l'emergere della televisione come mezzo principale di comunicazione politica. La televisione, infatti, premia le performances dei singoli rispetto alle strutture politiche e conferisce significato anche a elementi accessori della personalità, come il bell'aspetto, l'eloquio semplice, il carisma mediatico (v. Cavalli, 1992; v. Calise, 1994). In tal modo, l'affermazione di personalità mediatiche, per molto tempo legata a particolari caratteristiche di personaggi storici come Charles de Gaulle (un vero precursore per l'utilizzo che seppe fare della radio e, a partire dagli anni sessanta, anche della televisione), è divenuta una costante della vita politica occidentale.

Va considerato, infine, che la mediatizzazione della politica ha favorito la diffusione nell'opinione pubblica di sentimenti antipartitici e persino antipolitici (v. Dalton e Wattenberg, 2000). L'affermazione negli anni ottanta dei movimenti della 'nuova politica', come i partiti verdi (v. Poguntke, 2000) e, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, di movimenti e partiti neopopulisti (v. Mény e Surel, 2000), è stata anche la conseguenza della semplificazione del messaggio politico imposta dai mass media, che ha inevitabilmente premiato le formazioni in grado di reagire al diffuso sentimento di distacco nei confronti della politics as usual e di incarnare nuove esigenze presenti nell'elettorato (v. Mair, 1997).

Questo insieme di fenomeni non poteva che ripercuotersi in modo significativo sui partiti: sui loro profili programmatico-culturali così come sulle logiche organizzative. Per quanto concerne il primo aspetto, il 'partito pigliatutto' - che, come si è detto, era stato preso in considerazione da Kirchheimer già negli anni sessanta - è divenuto, seppure con alcune varianti nazionali, il modello di partito 'convergente al centro' tipico di tutte le democrazie occidentali, assumendo la forma di un partito di professionisti della politica, costruito sull'obiettivo predominante di vincere le elezioni (v. Panebianco, 1982). Infatti, la necessità mediatica di dover comunicare all'intera opinione pubblica, e non più a fasce mirate di elettori, ha accelerato il processo di dismissione dei contenuti ideologici dei partiti, portandoli ad assumere profili programmatici sempre più generali e comprensivi (v. Wolinetz, 2002). Inoltre, i sondaggi, le analisi di mercato e in generale il marketing politico sono divenuti fattori in grado di condizionare i partiti non soltanto nel tempo limitato delle campagne elettorali, portando gli obiettivi e le affermazioni dei leaders ad adattarsi il più possibile e in forma permanente agli umori e ai desideri dell'opinione pubblica (v. Newman, 1999).

Per quanto concerne gli aspetti organizzativi, a questo punto non è difficile comprendere perché l'interazione tra media e politica abbia istituzionalizzato l'ascesa di partiti 'presidenziali', all'interno dei quali il leader deve anzitutto risultare un soggetto politico in grado di rappresentare efficacemente la propria immagine e quella della sua organizzazione attraverso i mezzi di informazione, subordinando a quest'esigenza le pratiche partecipative, di diffusione delle subculture e di approfondimento ideologico proprie dei vecchi partiti di massa. La politica mediatizzata, inoltre, accanto all'esplosione personalistica dei leaders a discapito della base dei militanti, ha favorito l'accentramento delle risorse economiche e dei processi decisionali nelle mani dei leaders di partito e del loro staff. Il capo del partito e, accanto a lui, la sua squadra di consulenti (in parte esterni allo stesso partito) esercitano un controllo pressoché totale sulla vita dell'organizzazione, definendone i tratti programmatici, l'immagine pubblica, i temi di campagna e le issues di governo; essi detengono in tal modo un vasto potere di indirizzo su una base militante priva di reali possibilità di controllo nella piramide organizzativa del partito. L'esempio di Tony Blair e del suo rapporto con il New Labour assume, a tal proposito, un significato paradigmatico (v. Farrell e Webb, 2000). Esso porterebbe a sostenere che l'antica legge ferrea dell'oligarchia, proposta da Michels nel lontano 1911 con riferimento ai partiti di massa, valga ancora oggi per i partiti dell'era della comunicazione. Con la differenza che le nuove oligarchie interne, in luogo di controllare la risorsa dell'ideologia per controllare la base militante, fondano oggi il loro potere sulla capacità di sfruttare i mass media e, in tal modo, di identificare l'immagine del leader con quella del partito. L'utilizzo politico dei nuovi media come Internet, pur avendo suscitato speranze riguardo a una possibile inversione di questa tendenza oligarchica a favore di un più ampio controllo interno, non sembra finora aver prodotto risultati apprezzabili sulle logiche di funzionamento interno dei partiti, poiché le potenzialità interattive di questi media sono state fino a oggi sfruttate molto più per scopi promozionali che non per implementare forme di democrazia e di controllo interno.

4. La svolta del 1989 a Ovest

L'evoluzione della società civile, prodottasi in Europa occidentale sin dalla fine degli anni sessanta, non ha potuto ricevere - sino agli anni ottanta - una piena traduzione a livello della politica, anche a causa della contrapposizione dei blocchi che caratterizzava lo scenario internazionale. La caduta del muro di Berlino, in tal senso, ha determinato lo sviluppo di processi già presenti allo stato embrionale, ma sino ad allora frenati dal persistere della guerra fredda con i suoi corollari di natura politico-ideologica.

Sul piano socio-economico, il crollo dell'Unione Sovietica ha reso possibile il pieno sviluppo di quelle dinamiche del sistema internazionale semplicisticamente riassunte nella categoria della globalizzazione: ovvero un grado di integrazione fino ad allora sconosciuto tra diversi sistemi economici, determinato dalla correlazione tra l'apertura dei mercati e la diffusione di tecnologie in grado di velocizzare gli scambi economici e di informazioni. Per quanto concerne la presente analisi, va sottolineato che quest'evoluzione ha una grande importanza nel restringere i confini delle scelte praticabili nell'ambito nazionale. Il ruolo crescente dell'economia finanziaria, in particolare, ha ridotto drasticamente le possibilità che paesi diversi compiano scelte e perseguano strategie differenti. Infatti, la sempre maggiore integrazione dei sistemi economici fa sì che le politiche non condivise dai mercati internazionali provochino l'immediata reazione dei medesimi, la quale determina conseguenze nei sistemi politici dei singoli Stati, mettendo in allarme l'opinione pubblica e generando una situazione di difficoltà per i governi (v. Reinicke, 1998).

In Europa tali dinamiche sono state ulteriormente rafforzate dall'avvio del processo di unificazione monetaria. A partire dal Trattato di Maastricht, i vincoli generali posti alle politiche finanziarie nazionali dal mercato internazionale si sono trasformati in vincoli specifici, fissati in sede negoziale e collegati a precisi meccanismi sanzionatori, il più efficace dei quali è rappresentato dall'esclusione dal processo di unificazione.

Le conseguenze di queste dinamiche economiche sulla politica e sui partiti sono state di grande momento. Abbiamo assistito a una graduale ma persistente riduzione dell'afflato ideologico della vita politica che, come si è detto, era già significativamente diminuito nel decennio che aveva preceduto la caduta del muro di Berlino. Subito dopo il 1989 i partiti, e in particolar modo quelli più connotati ideologicamente, cercarono di adattare, per quanto possibile, la loro identità tradizionale all'accettazione dei vincoli esterni imposti dai nuovi livelli di integrazione internazionale. In un secondo tempo, però, la difficoltà crescente di mantenere inalterata l'identità politica, soprattutto dove sono state effettuate scelte governative non coerenti con essa, ha costretto i partiti tradizionali a mettere in discussione una parte consistente del loro patrimonio identitario. Nei casi in cui questo processo si è compiuto, il partito si è ritrovato a dover privilegiare sempre più l'etica della responsabilità rispetto all'etica della convinzione. Tale dinamica ha favorito da un lato la nascita di movimenti 'globali', che si sottraggono alla dimensione politica nazionale e ai suoi vincoli, dall'altro lo sviluppo di movimenti etnici e locali, che rispondono al forte bisogno di recupero di identità secondo un criterio non più ideologico.

Il nesso tra la fine della guerra fredda e l'ulteriore assottigliamento dell'elemento identitario ha trovato immediatamente riflesso anche nel rapporto tra partiti e finanziamento della politica. Il controllo delle risorse, infatti, storicamente aveva rappresentato uno dei compiti più importanti del moderno partito di massa, rimanendo a lungo un motivo della sua forza. Il partito, sin dalla fase del progressivo ampliamento del suffragio, assunse i compiti propri del fornitore di mezzi materiali e di servizi per i suoi candidati, che si trovavano costretti ad affrontare campagne elettorali sempre più complesse e dispendiose, rivolte verso un numero crescente di potenziali elettori. Esso, inoltre, prima che fosse introdotta l'indennità parlamentare, in alcuni casi interveniva anche al termine del periodo elettorale, per sovvenzionare i propri rappresentanti e le loro famiglie. La circostanza aveva una giustificazione materiale di immediata comprensione, ma assumeva, al contempo, anche un significato ideale, in quanto realizzava forme di compensazione verso i meno abbienti, contribuendo così a rendere la politica un'attività alla quale avrebbe potuto accedere un numero crescente di individui. Con il trascorrere del tempo, i compiti di collettore di risorse del partito si sono dilatati e complicati. La politica è divenuta un'attività sempre più dispendiosa. Anche per questo, alle contribuzioni degli iscritti e dei simpatizzanti si sono aggiunti i proventi derivanti da pratiche di intermediazione lecite e illecite, il finanziamento pubblico e, nel corso della guerra fredda, anche le contribuzioni erogate da potenze straniere, che in alcuni contesti, tra i quali quello italiano, rivestivano un'importanza particolare (v. della Porta e Vannucci, 1999).

Ognuna di queste diverse forme di finanziamento presenta problematiche storiche, sociologiche e giuridiche peculiari. Esse, però, hanno anche un aspetto unificante. Per un partito di massa dotato di un profondo radicamento sociale e di una coerente ideologia è evidentemente più facile divenire canale di risorse lecite, in quanto può contare su una base ampia e motivata (v. della Porta e Vannucci, 1994). Esso, quantomeno in taluni contesti storici, si è trovato agevolato anche nell'intraprendere pratiche illecite, in quanto il perseguimento più efficace dei suoi fini ultimi, sostenuti da robusti substrati ideologici, rappresentava una potenziale giustificazione all'utilizzo di mezzi formalmente proibiti (v. Pizzorno, 1992). Ciò aiuta a comprendere perché, in particolare dopo il 1989 e la fine del grande scontro ideologico, il rapporto tra finanziamento della politica e corruzione dei partiti sia divenuto un problema che investe l'ordinamento democratico. Quando i 'grandi fini' hanno cominciato a risultare meno percepibili, l'opinione pubblica ha cessato di ritenere legittimo ogni mezzo di finanziamento e, anche per questo, in alcuni contesti - come l'Italia, il Giappone, la Francia, la Spagna e la Germania - sono scoppiati veri e propri scandali. I partiti, privi di giustificazioni ideologiche adeguate e di basi ampie di sostenitori, si sono trovati costretti ad alleggerire i propri compiti e funzioni e, con essi, le loro strutture organizzative. Quest'esigenza è stata ulteriormente accresciuta dalle nuove politiche di rigore finanziario caratteristiche degli anni novanta, che hanno imposto l'adozione di misure di finanza pubblica contraddistinte da maggiore responsabilità. Anche per questo, in diverse realtà nazionali la dipendenza dei partiti dal finanziamento pubblico - sia diretto, sia indiretto - è aumentata. Le legislazioni in materia sono state meglio definite, enfatizzando il rilievo pubblicistico proprio dei partiti e rendendo sempre più anacronistica una loro regolamentazione sotto il solo profilo privatistico (v. Lanchester, 2000).

Lo strutturarsi di una crescente dimensione sovranazionale, oltre a rappresentare un indiscutibile aspetto problematico per una forma-partito che si era consolidata nel tempo secondo un paradigma prettamente nazionale, apre anche un'opportunità da cogliere. Non va dimenticato, infatti, che la dimensione istituzionale nazionale riveste ancora un ruolo centrale nello sviluppo della politica e che, pertanto, i partiti nazionali esercitano un'essenziale funzione di presidio nella complessa attività di integrazione comunitaria europea. Al tempo stesso, lo sviluppo delle istituzioni europee e internazionali ha creato nuove arene politiche, che richiedono la crescita di soggetti in grado di operarvi. E tali soggetti possono essere i partiti stessi, in quanto sono in grado di adeguare la dimensione politica nazionale alle esigenze derivanti dallo sviluppo delle istituzioni sovranazionali. Questa peculiare collocazione, alla confluenza tra passato e futuro, prefigura un'ulteriore evoluzione dei partiti, i quali da un lato saranno chiamati a raccogliere le istanze presenti nelle società civili nazionali per trasferirle in sede sovranazionale, e dall'altro potranno compiere un'opera di orientamento dell'opinione pubblica del loro paese sulla base delle dinamiche presenti ai livelli superiori. In tal senso, l'attività di coordinamento transnazionale, che rappresenta un elemento tradizionale nella storia dei partiti, appare oggi qualcosa di qualitativamente diverso, come si evince agevolmente considerando l'interazione fra l'evoluzione delle istituzioni europee e quella dei soggetti politici che hanno dato loro corpo.

L'esistenza in seno alla Comunità Europea di partiti transnazionali (ovvero di strutture che federano formazioni nazionali differenti), infatti, non è una novità legata a quest'ultima fase dell'integrazione europea. Sin dalla nascita della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio), tra le cui istituzioni vi era l'Assemblea parlamentare composta da rappresentanti dei parlamenti nazionali, si era delineata una chiara tendenza a unire gli esponenti dei diversi partiti degli Stati membri in gruppi politicamente omogenei. Tutte le principali correnti politiche - prima cristiano-democratici, socialisti e liberali; successivamente nazionalisti, comunisti, ecologisti e autonomisti - ritennero opportuno sviluppare forme di raccordo transnazionali in seno alle istituzioni europee, nella consapevolezza che un'attività concepita solo a livello nazionale non fosse adeguata per rappresentare nell'arena europea le istanze delle loro famiglie politiche (v. Delwit e altri, 2001).

Nel 1979, l'elezione diretta a suffragio universale dei membri del Parlamento europeo ebbe un forte impatto su queste forme di accordo. Non a caso, infatti, proprio in previsione di quell'evento, i liberali diedero vita nel 1976 all'ELD (European Liberal Democrats - Liberaldemocratici Europei; con l'adesione del Partito Socialdemocratico Portoghese, sancita dal congresso di Catania del 10 e 11 aprile 1986, il nome del partito cambiò in ELDR, European Liberal, Democrat and Reform Party - Liberaldemocratici e Riformisti Europei), un vero e proprio partito politico di dimensioni continentali; egualmente i cristiano-democratici rafforzarono i legami tra i partiti nazionali in seno al gruppo parlamentare popolare e costituirono nel 1976 il PPE (Partito Popolare Europeo); e anche i socialisti, già dal 1973, si erano organizzati in una confederazione di partiti, la cui struttura appariva indubbiamente più solida e articolata rispetto a quella del vecchio gruppo parlamentare. In tal modo, le tre principali famiglie politiche europee si adeguarono alla mutata situazione dotandosi di strumenti politico-organizzativi che, da un lato, fungevano da veicolo del consenso in consultazioni elettorali le quali, pur essendo continentali, mantenevano una notevole rilevanza nazionale e, dall'altro, permettevano di interpretare una linea il più possibile comune a differenti partiti nazionali ideologicamente simili, nel seno di un organo che cominciava a disporre, seppur in misura limitata, di poteri legislativi.

La realtà dei primi nuclei di queste federazioni transnazionali interagì, negli anni successivi, con i mutamenti profondi che investirono sia i sistemi politici degli Stati membri, sia il quadro istituzionale comunitario. Tutte le preesistenti famiglie politiche hanno preso atto della mutazione del tessuto connettivo dei partiti continentali intervenuta a seguito delle trasformazioni storiche e istituzionali del quadriennio 1989-1992. In particolare, la caduta del muro di Berlino, la successiva dissoluzione dell'Unione Sovietica e la firma del trattato istitutivo dell'Unione Europea hanno completamente alterato gli equilibri politici preesistenti. In quasi tutte le formazioni si è verificato un sorprendente fenomeno di ibridazione tra culture politiche differenti. I principali partiti e gruppi parlamentari europei, infatti, per acquisire la consistenza numerica necessaria a esercitare una più forte influenza nel Parlamento europeo, hanno modificato la propria composizione accogliendo nuove componenti e, di conseguenza, mettendo in discussione programmi e orientamenti. Le ideologie tradizionali hanno cessato di designare confini invalicabili, mentre hanno assunto maggiore importanza gli accordi specifici su programmi contingenti. È accaduto così che il partito dei liberaldemocratici europei, l'ELDR, ha visto più volte cambiare i propri membri, accogliendo in diverse occasioni formazioni che poco avevano a che vedere con la cultura politica che da sempre contraddistingueva la famiglia liberale o perdendo intere delegazioni nazionali, migrate verso altri movimenti europei. I mutamenti più radicali, però, si sono verificati all'interno del Partito Popolare Europeo e del suo gruppo parlamentare. A guidare la trasformazione nel dopo-Maastricht è stato soprattutto l'allora cancelliere tedesco della CDU (Christlich-Demokratische Union) Helmut Kohl, convinto che il partito avrebbe dovuto aprirsi verso altre culture politiche, se voleva conservare la leadership numerica nel Parlamento europeo ed esercitare così la supremazia in un'Assemblea che, dopo l'entrata in vigore del trattato istitutivo dell'Unione Europea, poteva intervenire in maniera più efficace nel processo decisionale. L'elemento democratico cristiano non era più sufficiente e per questo, gradualmente, i cristiano-democratici europei si sono allontanati dalle proprie radici tradizionali di partito di centro riformista sul piano sociale e legato alla dottrina sociale della Chiesa sul piano economico, per diventare una formazione più eclettica, protesa verso il conservatorismo in campo politico e il liberalismo sul piano economico. Così si spiega l'apertura del PPE a movimenti distanti dalle tradizioni cristiane dell'Europa carolingia - quali i gollisti dell'RPR (Rassemblement pour la République, oggi UMP, Union pour un Mouvement Populaire) e i conservatori britannici (i quali, per il momento, hanno aderito solo al gruppo parlamentare e non anche al partito) - e a partiti di ispirazione prettamente liberale come Forza Italia o preminentemente conservatrice come il Partido Popular spagnolo. In tal modo il PPE si è trasformato in una forza moderata di centro-destra, nella quale sempre meno spazio trovano i singoli deputati e i partiti che invocano un ritorno alle origini e nella quale, al contrario, sempre più forti diventano le ragioni empiriche del bipolarismo, in ambito tanto europeo quanto nazionale.

Questo stesso processo di trasformazione ha interessato, seppure con modalità differenti, anche i socialisti europei. Essi, a partire dalla nascita effettiva del PSE (Partito dei Socialisti Europei) avvenuta nel 1992 per la necessità di rafforzare la struttura della confederazione, hanno progressivamente moderato la loro caratterizzazione ideologica di tipo socialdemocratico per sperimentare contaminazioni con altre culture politiche. Negli ultimi anni, in particolare, la convivenza nel PSE del New Labour di Blair, dei tradizionali partiti socialisti continentali guidati da quello francese, delle forze della socialdemocrazia scandinava e di un'esperienza come quella dei Democratici di Sinistra italiani, sorta dalle ceneri del più forte partito comunista occidentale, dimostra quanto l'omogeneità di valori e programmi non rappresenti più una preoccupazione rilevante nelle file del socialismo europeo. Non è un caso, d'altro canto, che, seppur per ragioni diverse, alcuni dei partiti membri del PSE ricerchino un confronto programmatico con i liberali dell'ELDR.

Questo generale processo di 'integrazione partitica europea' può essere interpretato solo come frutto della confluenza di due fenomeni distinti: da un lato, la radicale trasformazione (avvenuta dopo la fine della guerra fredda) del quadro politico dei diversi Stati che partecipano alla costruzione comunitaria, dall'altro la lenta ma progressiva acquisizione di nuovi poteri da parte del Parlamento europeo (in campo legislativo e, in special modo, in materia di bilancio; in altri e diversi settori, a causa dell'estensione della procedura di codecisione; e, infine, in campo istituzionale con l'approvazione della nomina, operata dal Consiglio europeo, del presidente della Commissione).

Qualora i risultati dei lavori della Convenzione e della successiva Conferenza intergovernativa dovessero conferire ulteriori poteri legislativi e di controllo al Parlamento europeo, non è difficile ipotizzare un rafforzamento del ruolo dei partiti politici e dei gruppi parlamentari nell'Unione e un graduale avvicinamento a una forma di bipolarismo europeo. Non mancano segnali in tal senso. Sotto il profilo politico vanno considerati i tentativi dei Verdi, dei conservatori nazionalisti e, addirittura, di alcune forze antieuropeiste di dare vita ad aggregazioni in vista delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo del 2004, per non restare esclusi da un processo che appare irreversibile. Dal punto di vista giuridico-costituzionale, va rilevato che già l'articolo 191 del trattato istitutivo della Comunità Europea assegnava ai partiti politici il compito di contribuire a esprimere la volontà politica dei cittadini. Questa formula è stata di recente rafforzata dal contenuto dell'articolo 12 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione e, ancor più, da un comma che il Trattato di Nizza (2001) ha aggiunto all'articolo 191, secondo il quale spetterà al Consiglio deliberare, a maggioranza, sullo statuto pubblico dei partiti e sulle fonti del loro finanziamento.

5. La svolta del 1989 a Est

Il XX secolo, che aveva visto i partiti di massa assurgere a elementi indispensabili della democrazia, si è chiuso, anche per quanto concerne i processi di democratizzazione, con un ridimensionamento del ruolo del partito politico. Il contributo dei partiti alla prima fase dei processi di transizione postcomunista può considerarsi non fondamentale, e solo in alcuni e ben individuabili casi comparabile a quello che essi ebbero nelle transizioni dall'autoritarismo alla democrazia caratteristiche degli anni settanta.

Nelle fasi iniziali delle transizioni di fine secolo, il termine 'partito' è stato per lo più evitato, per il riflesso negativo proveniente dai partiti comunisti, che avevano rappresentato le strutture portanti dei regimi appena sconfitti. Per le nuove aggregazioni sono state preferite denominazioni come 'movimento', 'alleanza', 'unione'. Ben oltre le questioni terminologiche, l'idealtipo dei primi partiti dell'era postcomunista può descriversi come una struttura organizzativa complementare a una o più personalità politiche di spicco, piuttosto che come un'istituzione indipendente. Questa struttura si caratterizza per la precaria adesione dei deputati e degli stessi dirigenti, e per un grado di obbligazione politica molto debole e intermittente. Il numero delle iscrizioni si è mantenuto poco elevato, e bassa è stata la percentuale dei cittadini che hanno visto nei partiti 'istituzioni di fatto' degne di una qualche fiducia. Molte formazioni hanno vissuto lo spazio di una legislatura e, per questo, pochi cittadini hanno potuto votare per una stessa forza politica in due elezioni successive.

La causa principale di questo sottosviluppo partitico va rintracciata nel carattere monistico dei regimi di tipo sovietico, al potere per un periodo compreso tra i quaranta e i settanta anni. Nella maggior parte dei paesi dell'area di influenza sovietica, fino al crollo dei regimi, mancarono spazi per l'espressione di una società civile autonoma e ancor più per lo sviluppo di forze di opposizione significative. Tale situazione ha determinato, nel corso delle transizioni, due fenomeni in apparenza opposti, ma riconducibili, in realtà, a cause largamente omogenee: un'estrema frammentazione partitica ovvero una prevalenza iniziale di formazioni che erano eredi dirette degli ex partiti comunisti.

Questo quadro generale presenta tuttavia alcune eccezioni. Una realtà sin dalle origini più favorevole a una trasformazione democratica fondata sui partiti è rintracciabile in quei paesi nei quali la società civile aveva avuto un certo grado di sviluppo della propria autonomia prima dell'avvento del comunismo, e che, proprio per questo, hanno conosciuto fenomeni di opposizione anche durante gli anni del regime comunista: Polonia, Ungheria e, in misura minore, Cecoslovacchia.

In Ungheria, in particolare, già le elezioni del 1990 produssero un governo stabile, restato in carica per l'intera legislatura (quattro anni), anche grazie a criteri rigorosi per l'accettazione delle candidature (v. Lewis, 2000). Solo in questo caso, tra tutti i paesi dell'area mitteleuropea, già le prime elezioni competitive sono state caratterizzate dalla presenza di partiti indipendenti con identità distinte. Molto più spesso, invece, anche in quest'area (Polonia e Cecoslovacchia), così come in molti altri paesi interessati dalla transizione (Lettonia, Slovenia, Croazia, Estonia, Moldavia), i primi scontri elettorali sono avvenuti tra forze comuniste e ampie ed eterogenee coalizioni anticomuniste. Si è trattato di uno scontro sul sistema, piuttosto che fra forze rappresentanti interessi definiti all'interno di un medesimo sistema condiviso. E, conseguentemente, le larghe coalizioni anticomuniste, una volta sconfitto il nemico comune, sono state investite da una profonda crisi di identità, che ha portato alla loro dispersione. Va rilevato, però, che, specialmente in quest'area centroeuropea, il succedersi delle competizioni elettorali ha portato a un certo consolidamento dei sistemi partitici, caratterizzato dal rafforzamento di formazioni regolarmente rappresentate in parlamento e dall'uscita di scena dei partiti marginali. Si è così osservata una riduzione della volatilità partitica, e l'affermarsi di dinamiche di alternanza stabili e riconoscibili. Dopo una fase iniziale nella quale, oltre che il nome, anche il modello tradizionale del partito è stato coscientemente respinto a favore di strutture più aperte e decentralizzate - strutture che avrebbero dovuto rendere possibile l'accostamento di forze eterogenee sotto un'unica etichetta - è prevalso a poco a poco un formato organizzativo più classico. Con la pratica politica ci si è resi conto della necessità della gerarchia e dell'organizzazione, per ottenere maggiore efficienza in campagna elettorale e maggiore coerenza in parlamento. In Cecoslovacchia, già nelle elezioni del 1992 cinque dei sei partiti principali apparivano "partiti sia di nome che per struttura interna e organizzazione" (v. Kostelecky, 2002, pp. 154-155). Anche in Slovacchia, verso il 1994 e a seguito delle ripetute vittorie elettorali di Vladimir Mečiar e del suo Movimento per la Slovacchia Democratica, il formato del partito organizzato è divenuto dominante. I partiti, inoltre, una volta conquistato un ruolo primario in parlamento, hanno avuto l'opportunità di definire le regole del gioco democratico in modo da rafforzare la loro centralità a svantaggio di movimenti, associazioni della società civile e gruppi locali di origine etnica. Ciò è stato fatto, innanzitutto, intervenendo nell'ambito della legislazione elettorale: si pensi, a tal proposito, alla progressiva modifica della legislazione relativa alle elezioni locali nella Repubblica Ceca, che ha imposto la raccolta di un numero sempre maggiore di firme per la registrazione delle liste in distretti sempre più ampi; oppure alla legge dell'inizio del 2000 sull'elezione dei parlamenti regionali dello stesso paese, che consente la partecipazione ai soli partiti nazionali (v. Agh, 1998, p. 105).

In molti paesi ex comunisti dell'area balcanica (Albania, Romania, Bulgaria ed ex Iugoslavia, a eccezione della Slovenia) e anche in alcuni paesi ex sovietici (Ucraina, Bielorussia, Moldavia), l'adozione di sistemi elettorali formalmente competitivi non ha impedito l'iniziale affermazione di situazioni semiautoritarie, caratterizzate da uno scarso pluralismo, nelle quali la scena politica è dominata da partiti legati al precedente regime comunista o da loro reincarnazioni di tipo nazionalista e populista. In Serbia, ad esempio, nel 1990 i comunisti ottennero il 78% dei voti, per essere poi confermati al potere nel 1992. E ancora nel 1997, il boicottaggio delle elezioni contro il regime di Slobodan Milošević da parte dell'opposizione democratica ha avuto un successo solo parziale. In Bulgaria un cambio di governo, con la conseguente vittoria elettorale delle forze anticomuniste, è avvenuto solo nel 1991, e in Albania non prima del 1992. Per Croazia e Slovenia, invece, le prime elezioni in condizioni di indipendenza, svoltesi nel 1992, hanno confermato la forza dei sentimenti nazionalistici (cosa che, in quello stesso anno, avvenne anche in Lettonia). Gli ex comunisti sono stati confermati al potere anche in Montenegro, e in Romania con l'FSN (Fronte di Salvezza Nazionale) di Ion Iliescu.

In Slovenia e nei paesi baltici i progressi sulla via della democratizzazione e della riforma economica sono stati più rapidi, ma non privi di difficoltà, legati come erano a fattori etnici che hanno giocato un ruolo importante specialmente in Estonia e Lettonia. In ogni caso, la Lituania è stata, nel dicembre del 1990, il primo paese ex sovietico a legalizzare il sistema pluripartitico e quello in cui, nelle elezioni del 1992, si è realizzata la prima alternanza democratica, con il ritorno al potere degli ex comunisti riformati (il Partito Laburista Lituano): dinamica, questa, poi ripetutasi anche in Ungheria, in Polonia e in molti altri paesi dell'area di influenza ex sovietica.

A parte va considerata, infine, la realtà della Russia postcomunista, dove lo sviluppo democratico - e soprattutto quello partitico - presentano delle peculiarità. La Russia, pur differenziandosi rispetto ad altri paesi ex sovietici (Kazachstan, Azerbaigian, Uzbekistan, Georgia, Armenia) che debbono considerarsi regimi puramente autoritari - e anche rispetto ai semiautoritarismi affermatisi in Ucraina, Bielorussia, Serbia e Albania - non ha seguito la stessa progressione dei paesi postcomunisti dell'Europa centro-orientale. In Russia non può ancora registrarsi una chiara tendenza verso il consolidamento del sistema partitico. Le elezioni della Duma del 1999 e gli sviluppi successivi hanno riaffermato alcuni tratti tipici del sottosviluppo partitico, caratteristico, come si è detto, della prima fase delle transizioni. In particolare, è stata confermata la propensione a un'elevata volatilità elettorale del sistema dal lato dell'offerta, con la creazione di nuove formazioni di considerevole successo - il partito filogovernativo Unità (Edinstvo), lo 'sfidante' Patria-Tutta la Russia (OVR, Otecestvo Vsya Rossija) del sindaco di Mosca, Yurij Lužkov, e l'Unione delle Forze di Destra (SPS, Sojuz Pravikh Sil) - cui è andata in totale oltre la metà dei voti. Il numero dei candidati indipendenti, dopo la riduzione prodottasi in occasione delle consultazioni del 1995, è tornato ai livelli del 1993, quando oltre il 50% degli eletti nei distretti uninominali non era formalmente collegato ad alcun partito. Si è confermata la schiacciante superiorità organizzativa del Partito Comunista della Federazione Russa (KPRF, Kommunisticeskaya Partija Rossijskoi Federatsii) rispetto a ogni altra formazione politica. Infine, a questa scarsa formalizzazione del partito è corrisposta una ancor più esigua rilevanza istituzionale. Il presidenzialismo russo ha infatti assunto un carattere marcatamente carismatico e 'al di sopra delle parti', la Duma ha un'influenza molto relativa sulla formazione del governo, con una tendenza a sottomettersi a quello che è stato definito il 'superpresidenzialismo' di Vladimir Putin (v. Fish, 2000).

Non per questo si può escludere che la situazione russa evolverà in futuro nello stesso senso dei paesi dell'Europa centro-orientale. In tale direzione è persino possibile rilevare alcuni sia pur flebili segnali. Una recente legislazione, in particolare, ha introdotto requisiti più rigorosi per la registrazione dei partiti, ai quali si richiede un maggiore sforzo di presenza in ambito regionale - ambito che, però, conserva una forte dose di indipendenza dall'arena politica principale. Il secondo presidente russo, inoltre, nonostante abbia rafforzato i caratteri carismatici del suo ruolo, sembra più incline del suo predecessore a considerare la funzione politica dei partiti, non celando le proprie simpatie per Edinstvo e per la recente unione di questo con l'OVR. Tali dinamiche potrebbero approdare a un sistema partitico stabile con una larga coalizione centrista e filogovernativa, che verrebbe sfidata da un'opposizione di sinistra formata sostanzialmente dai comunisti, e da un'ala di centro-destra costituita dall'unione, per ora in fieri, fra i liberali di SPS e di Yabloko.

In definitiva, il ruolo dei partiti nei nuovi processi democratici postcomunisti ha assunto caratteristiche eterogenee per diversi gruppi di paesi. Generalizzando, si può però affermare che i partiti e i sistemi di partito appaiono meno strutturati di quelli operanti nelle democrazie avanzate. Al modello classico del partito di massa si approssimano, e in modo parziale, i soli partiti ex comunisti, mentre la maggior parte degli altri ha pochi membri e fa affidamento su finanziamenti pubblici (e, se al governo, sul clientelismo) per sostenere le spese richieste dalla loro attività. Alcuni osservatori parlano, per questo, di diffusione in Europa centro-orientale del modello del 'partito di cartello' (v. Agh, 1998, p. 109; per il concetto di 'partito di cartello', v. Mair, 1997). L'affidamento ai fondi pubblici sembra, però, dovuto più alla debolezza della società civile e alla difficoltà dei partiti postcomunisti di identificare con precisione gruppi sociali di riferimento, che non al desiderio di indipendenza dalla società e alla volontà di sottrarsi a una genuina competizione elettorale escludendo 'nuovi ingressi', implicita nell'idea di cartello. L'analisi del rapporto tra processo di democratizzazione e sviluppo partitico spinge, dunque, a una riconsiderazione della sintesi storica proposta da Huntington con la formula 'terza ondata verso la democrazia'. Solo in alcuni paesi dell'ex blocco sovietico - in quelli dell'area centro-orientale e in alcune repubbliche baltiche - si è infatti realizzata una transizione di tipo pattizio, che lo stesso Huntington individua come caratteristica dell'ondata avviatasi negli anni settanta: in queste realtà il partito ha rappresentato il principale luogo dello 'scambio politico' e della 'contaminazione' tra vecchie e nuove élites, e, non certo casualmente, proprio in tali contesti ha finito con l'assumere un ruolo comparabile a quello che i partiti ebbero in Spagna, Portogallo e Grecia. In altre realtà, invece, in particolare nei paesi ex sovietici, la mancanza di partiti consolidati ha contribuito a uno sviluppo incerto del processo di transizione, che in molti casi risulta ancora sospeso tra democrazia e semiautoritarismo (v. McFaul, 2002).

6. Conclusioni

Il partito di massa come versione moderna del 'grande partito' tocquevilliano, protagonista della vita politica e delle transizioni democratiche nell'immediato dopoguerra, cominciò la sua trasformazione e il suo declino in Europa già negli anni cinquanta, quando si iniziò ad avvertire il problema delle forze antisistema, connesso alla rottura della coalizione internazionale prevalsa nella seconda guerra mondiale. Il partito, in questo nuovo scenario, non fu più in grado di rappresentare un elemento di stabilizzazione del complessivo equilibrio istituzionale e a tale sua incapacità si aggiunse, a partire dal decennio successivo, una crescente inadeguatezza a offrire risposte ai processi di autonomizzazione e secolarizzazione che stavano investendo le società civili dei paesi più avanzati.

Il caso dell'Italia, dove il partito mantenne una sua centralità fino alla fine degli anni settanta, va considerato in questo scenario un'eccezione, conseguenza della mancata modernizzazione del sistema istituzionale e della perdurante presenza di un forte e radicato Partito Comunista, al quale era interdetto, per il peso che i vincoli internazionali esercitavano sulle scelte degli elettori, l'accesso all'area del governo (v. Ignazi, 2002).

La nuova ondata di democratizzazione che ebbe inizio negli anni settanta sembrò rilanciare il ruolo dei partiti, i quali si trovarono a svolgere un'importante funzione di mediazione nell'ambito delle transizioni dell'Europa meridionale, avvenute, per lo più, attraverso degli accordi. Essi, anche per questo, ricevettero una disciplina costituzionale nell'articolo 51 della Costituzione portoghese del 1976 (poi modificata nel 1997) e nell'articolo 6 della Costituzione spagnola del 1978.

Questo nuovo protagonismo non deve far ritenere che in Occidente il processo di trasformazione della forma-partito e il declino della sua funzione sociale si arrestassero. Negli anni settanta, infatti, in Europa il processo di autonomizzazione della società civile dalla politica si fece più impetuoso e, inoltre, si accelerò il processo di 'mediatizzazione' della vita politica, che produsse le sue maggiori conseguenze nei decenni successivi, investendo appieno la realtà dei partiti. In Occidente, e segnatamente in Europa, negli anni ottanta si compì quella metamorfosi dei partiti, che poi la svolta storica del 1989 ha consentito di ultimare e consolidare. Il ruolo del leader si è affermato come preminente, è crollata la partecipazione dei militanti, i contenuti ideologici si sono affievoliti, i processi di centralizzazione dei meccanismi decisionali si sono perfezionati e pratiche fino ad allora sconosciute nell'orizzonte partitico - quali i sondaggi e il marketing - hanno assunto un'importanza crescente.

Tutto ciò è stato a più riprese e sotto diversi aspetti considerato come un pericolo per i regimi democratici occidentali. E la presunta minaccia del 'partito mediatico' nei riguardi della democrazia è stata avvertita come ancora più pericolosa quando, nel 1992, si è verificata negli Stati Uniti l'ascesa del movimento United We Stand America del magnate televisivo Ross Perot e, due anni più tardi, in Italia, seppure in un contesto completamente diverso, di Forza Italia, partito strettamente legato alla figura di Silvio Berlusconi, imprenditore di primo piano nel settore dei media. La sedimentazione di queste esperienze induce, però, a trarre conclusioni meno allarmanti. Innanzitutto, il fallimento dell'esperienza di Perot e, soprattutto, l'evoluzione organizzativa di Forza Italia mostrano che, se i mass media possono offrire una formidabile 'finestra di opportunità' per l'ascesa di un partito politico, il passaggio dallo 'stato nascente' dell'organizzazione alla sua istituzionalizzazione richiede a qualsiasi attore politico forme di radicamento più tradizionali (v. Poli, 2001). Inoltre, l'accrescersi delle opportunità di successo per nuove formazioni, come conseguenza di una maggiore influenza della comunicazione nelle dinamiche sociali, induce ad applicare all'analisi dei partiti la categoria della 'contendibilità', che la scienza economica da Schumpeter in poi ha utilizzato per spiegare alcuni meccanismi del mercato economico (v. Baumol e altri, 1982). La velocizzazione delle sfide politiche assicurate da strumenti che garantiscono un'ampia e immediata diffusione del messaggio politico (v. Rosanvallon, 1995) aumenta la 'contendibilità' della posizione preminente dei partiti consolidati, che in passato non poteva essere insidiata a causa di una necessaria sedimentazione di complessi processi organizzativi. Questa dinamica rende più difficile il consolidarsi di rendite di posizione e spinge, perciò, i partiti a prestare una maggiore attenzione alle volontà e alle intenzioni dell'opinione pubblica, con la conseguenza di accrescere il tasso di democrazia reale dei sistemi (v. Manin, 1995).

Quanto detto induce a ritenere che la svolta epocale del 1989 si inserisca a Ovest in un processo già in atto, amplificandone gli effetti. La novità di questa fase, piuttosto, è che l'analisi complessiva delle trasformazioni politico-istituzionali dei paesi ex comunisti ha ridimensionato l'importanza del partito nel passaggio alla democrazia. Mentre la considerazione delle transizioni del dopoguerra e di quelle degli anni settanta nell'Europa centromeridionale portava a pensare che il partito avesse un ruolo assolutamente centrale e difficilmente sostituibile (v. Morlino, 1995), nei paesi post-comunisti più avanzati le nuove regole del gioco democratiche hanno acquisito visibilità e legittimità prima (e quindi senza il bisogno) dell'emergere di partiti istituzionalizzati (v. Tóka, 1997).

Il contemporaneo ridimensionamento delle funzioni del partito a Ovest e a Est fa nascere il rischio che i due processi possano essere confusi e troppo frettolosamente sovrapposti. È senz'altro vero che sia in Occidente, sia nel mondo postcomunista i partiti tendono a essere più leggeri, a non avere un elettorato stabile di riferimento e, anche per questo, a subire forti sbalzi della propria forza elettorale. In Occidente, però, si è pervenuti a questo stato di cose per gli effetti del crescente benessere sociale portato dall'affermarsi della società postindustriale, per il conseguente allargamento della classe media e la correlativa erosione delle differenze di classe, per la crisi delle fratture politiche tradizionali e l'emergere di istanze postmateriali legate a condizioni o problemi specifici (come, solo per fare degli esempi, ecologismo o femminismo). Il sottosviluppo dei partiti dell'Europa postcomunista, invece, risulta piuttosto connesso all'ancora accentuata debolezza della società civile e alla sua limitata autonomia, alla scarsa differenziazione dei gruppi e degli interessi sociali, alla povertà di massa. Esso, in altri termini, va considerato come l'effetto paradossale di un 'residuo' del sistema di tipo sovietico che, per quanto concerne il partito politico, si risolve in una sorta di contrappasso. Tutto ciò non toglie che, nel processo di consolidamento delle forme della democrazia a Est, i partiti assai difficilmente passeranno per lo stadio del partito ideologico di massa. Essi, probabilmente, saranno portati a saltare una fase della loro evoluzione storica (circostanza che certamente renderà più complesso il definitivo affermarsi della democrazia) sia per l'influenza dei processi di integrazione europea in atto, che coinvolgono alcuni di quei paesi, sia per il rilievo che, anche in quei contesti, avranno le nuove sfide politiche globali.

La frammentazione della società civile da un lato, la globalizzazione dei conflitti dall'altro inducono a ritenere che i partiti tradizionali saranno sempre più surrogati da altre istituzioni di fatto, quali gruppi di interesse e associazioni di categoria (v. Schmitter, 1992), ovvero da movimenti che, per loro stessa natura, sono più portati a rappresentare istanze complessive. Sarebbe però un errore pensare per questo che il ruolo dei partiti si vada estinguendo (v. Antiseri, 1999): il passato recente dovrebbe rappresentare, in tal senso, una lezione.

Dopo il 1989 vi fu chi ritenne, seppure per poco, che il conflitto politico potesse estinguersi (v. Fukuyama, 1992). Dopo l'11 settembre 2001, invece, sono state rivalutate quelle analisi che prevedevano una generalizzazione del conflitto, a livello di scontro di civiltà (v. Huntington, 1996). Il partito, nell'uno e nell'altro caso, verrebbe a trovarsi in difficoltà al cospetto di una conflittualità eccessivamente indebolita o esasperata. In realtà, nella società globalizzata il conflitto, rispetto al passato, non si annulla né si generalizza, si articola solo in modo differente; e questa nuova articolazione passa anche attraverso istituzioni di diversi livelli (locale, nazionale, sovranazionale), dei quali i partiti restano funzione essenziale per rendere possibile, in un contesto divenuto più complesso, l'accountability e la responsiveness dei governanti verso i governati (v. Mainwaring, 1999; v. Kitschelt e altri, 1999).

Si può, dunque, concludere che ciò che i partiti stanno perdendo in termini di rappresentatività per la concorrenza di altri soggetti politici, lo guadagnano in termini di funzionalità istituzionale per la loro capacità di puntellare e mettere in contatto tra di loro differenti arene. All'alba del XXI secolo, i partiti sembrano sempre più somigliare ai 'piccoli partiti' intesi come mere funzioni delle istituzioni - dei quali Tocqueville, con malcelata preoccupazione, descriveva l'affermarsi nell'America dei primi decenni dell'Ottocento - che non ai 'grandi partiti' al servizio degli ideali che, seppure in forme diverse, dominarono a lungo la vita politica dell'Europa.