Multiculturalismo

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Orientamento politico e sociologico volto a promuovere il riconoscimento e il rispetto dell’identità linguistica, religiosa e culturale delle diverse componenti etniche presenti nelle complesse società odierne.

1. Origine

All’origine del m. si possono individuare due ordini di fenomeni. Il primo è rappresentato dalle nuove ondate migratorie, le cui dinamiche, per ampiezza e celerità, si differenziano da quelle del passato e non consentono nella maggioranza dei casi un’integrazione-assimilazione (peraltro ormai contestata nel suo stesso significato e valore) delle comunità di immigrati nei paesi di destinazione. Il secondo fenomeno è costituito dalla nuova ‘politica culturale dell’identità’. Affermatasi principalmente negli Stati Uniti, essa può essere considerata una filiazione del movimento giovanile degli anni 1960 e delle mobilitazioni in favore dell’uguaglianza istituzionale, sotto il profilo della loro specifica identità, di determinati gruppi discriminati o marginalizzati (femministe, afroamericani e ispanici e, in seguito, gay e lesbiche).

2. Caratteristiche

Il m. ha gradualmente acquisito una propria fisionomia in relazione a vari tipi di problematiche: di quale riconoscimento si tratti, che cosa voglia dire pari dignità, se all’interno di un quadro liberale siano concepibili diritti sovraindividuali, a quali tipi di gruppi o comunità vadano accordati riconoscimento ed eventuali diritti collettivi. Le ragioni per le quali la convivenza di culture diverse genera effetti dirompenti e problemi inusitati sembrano legate al mutare di aspetti centrali della nostra cultura: l’identità dell’individuo viene ora vista come una rappresentazione che la persona fa di sé stessa a partire dall’interazione con altri con cui entra in rapporti significativi; inoltre, si è rafforzato il convincimento che rispettare l’individuo vuol dire rispettarlo con tutto ciò che lo fa essere ciò che è – la sua cultura, la sua comunità, la sua storia, la sua lingua – aprendo una nuova fase del modo di intendere la società. Quella contemporanea, cioè, non appare più come una comunità di individui, bensì piuttosto come una unione di comunità, una ‘unione sociale di unioni sociali’.

3. Diritti culturali

Sulla possibilità di riconoscere un gruppo o una comunità come soggetto di diritto è in corso un acceso dibattito. Una delle soluzioni più interessanti afferma che il diritto alla cultura rimane appannaggio dell’individuo, ma può essere legalmente esercitato solo se esiste un numero minimo di individui che richiedono di goderne. Riguardo al concetto di cultura si confrontano concezioni più ampie, che definiscono la cultura solo per contrasto con altri sistemi di oggettivazione di raggio più ristretto, e concezioni più limitate, secondo le quali il termine ‘cultura’ va riservato solo a quei sistemi di mediazione simbolica che hanno dimostrato di sapere integrare una società per un certo numero di generazioni. La proposta di W. Kimlicka (1995) è di utilizzare un concetto di ‘cultura societaria’ (societal culture), intesa come vocabolario descrittivo e valutativo condiviso da uno stesso gruppo per più generazioni. La cultura diventa sinonimo di nazione intesa come «comunità intergenerazionale, più o meno istituzionalmente completa, che occupa un certo territorio o patria, e condivide una lingua e una storia distinte».

Per quanto poi riguarda la nozione di eguale dignità, alcuni studiosi osservano che dal diritto al riconoscimento della eguale dignità di ogni cultura non discende alcun diritto a una presunzione di eguale valore, che è cosa ben diversa dalla eguale dignità; in positivo, invece, ne discenderebbero: a) il diritto a condurre senza interferenze uno stile di vita, con la sola limitazione del principio del danno ad altri; b) il diritto a eque opportunità di rappresentazione di tale stile di vita sui media; c) il diritto a un aiuto da parte dello Stato per attività culturali delle comunità etniche. In alcuni casi, la richiesta di diritti culturali si concreta nel diritto di una minoranza etnico-culturale all’autogoverno, ovvero a una autonomia giurisdizionale su un territorio in cui il gruppo in questione risulti maggioritario; in altri casi, i diritti culturali prendono la forma di una protezione giuridica della libera espressione di tratti culturali tipici di una minoranza; infine, detti diritti assumono la forma di una rappresentanza speciale in seno a istituzioni legislative, amministrative o educative.

Ci si interroga su cosa giustifichi l’introduzione dei diritti culturali all’interno del quadro normativo delle società democratiche contemporanee. Con l’eccezione dell’ipotesi centrata sui requisiti dell’identità, le più importanti giustificazioni finora addotte a sostegno dei diritti culturali hanno fatto riferimento soprattutto ai valori della libertà e dell’uguaglianza; altre giustificazioni si possono chiamare storiche, basate sulla necessità di onorare gli antichi trattati bilaterali fra nazioni che convivono all’interno del medesimo Stato, e altre ancora legano i diritti culturali al perseguimento del pluralismo e delle diversità come bene in sé. Nelle giustificazioni che fanno perno sul valore della libertà, il diritto alla cultura viene inteso come parte del più ampio e fondamentale diritto alla libertà, in perfetto accordo con il quadro teorico liberale: ogni individuo ha interesse e diritto a scegliere e cambiare i propri fini secondo la visione di ciò che gli appare in grado di migliorare la sua vita; tale diritto alla scelta può essere esercitato effettivamente solo se esiste una pluralità di opzioni praticabili e l’individuo possiede degli standard di valutazione delle opzioni. Proteggere il pluralismo delle appartenenze culturali significherebbe proteggere l’autonomia dell’individuo e la libertà di scelta ovvero le condizioni che la rendono possibile. Una società che non offre ai soggetti l’opzione di crescere dentro la propria cultura è una società che discrimina due classi di cittadini: da un lato coloro che, essendo già nati in un contesto culturale cosmopolita, beneficiano di una continuità culturale lungo l’intero arco della loro socializzazione, dall’altro lato coloro che sono condannati a un processo di riacculturazione che non hanno scelto. È tuttavia legittima anche la considerazione inversa: l’appartenenza stretta a una determinata cultura può comportare una chiusura nei confronti di una società e di una cultura cosmopolita.

4. Rischi del multiculturalismo

Molti anni prima che il termine m. si affermasse, R. Sennett (1977) aveva sviluppato una critica degli effetti distruttivi di quella che allora si chiamava identity politics, o, semplicemente, ‘nuovo modo di fare politica’, caratterizzata da intransigenza settaria e moralistica, unita all’inconcludenza che le deriva dalla mancata accentuazione del momento strategico. A parte alcuni ‘vizi dell’appartenenza’ e i rischi inerenti all’istituzionalizzazione di una sensibilità multiculturalista, il rischio maggiore insito nella prospettiva multiculturalista è forse quello di congelare ogni gruppo protetto nella sua configurazione attuale, inibendo processi di revisione interna della sua cultura. È stato osservato che considerare il gruppo nel suo complesso come soggetto di diritti culturali vuol dire dare per scontate le strutture esistenti e favorire le maggioranze interne. Tra i rimedi proposti contro questi rischi del m., uno in particolare è da segnalare: garantire all’individuo sempre e in qualunque caso il ‘diritto alla secessione’ ossia subordinare ogni misura protettiva dell’integrità di una cultura al dovere per la comunità in questione di lasciare i suoi membri liberi di allontanarsene senza subire vessazioni di sorta.


Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

di Bernard Valade


Sommario: 1. Gli orientamenti e la posta in gioco di un nuovo dibattito. 2. Multiculturalismo e diritti delle minoranze nella cultura anglosassone. 3. Il multiculturalismo tra universalismo e particolarismo. 4. Politiche e problemi delle identità culturali. 5. Conclusione. ▭ Bibliografia.

1. Gli orientamenti e la posta in gioco di un nuovo dibattito

Il 'multiculturalismo' rappresenta, nell'ambito delle scienze sociali, politiche e giuridiche, una problematica relativamente nuova. Comparso in Canada alla fine degli anni sessanta del Novecento, questo termine designa la coesistenza di più culture all'interno di uno stesso paese. Diventato di uso comune nel corso del decennio successivo, l'aggettivo 'multiculturale' si riferisce a fenomeni che riguardano molteplici e differenti culture. Fino a quel momento, le politiche di assimilazione e di integrazione messe in atto nel contesto nordamericano erano associate alla nozione di melting pot (crogiolo di razze) e alla lotta contro la discriminazione razziale. La tematica del salad bowl (macedonia o mosaico), nata in California negli anni ottanta, è decisamente più complessa: essa infatti assume una molteplicità di significati non riconducibili alla filosofia della discriminazione positiva (affirmative action), filosofia legata al rispetto dei valori propri delle culture minoritarie ( political correctness).

Sul piano sociologico, il multiculturalismo rinvia alle differenze culturali inerenti alla diversa origine degli individui che compongono una data società. I suoi interessi hanno a che vedere con affermazioni identitarie e con domande di riconoscimento - spesso simultaneamente - principalmente di ordine religioso, etnico, linguistico e nazionale. Il successo del multiculturalismo negli Stati Uniti si spiega col potere crescente dei cittadini di etnia ispanica i quali - mettendo in discussione la supremazia degli anglofoni - hanno finito col farsi promotori di una nuova teoria della legittimazione. Come osserva Jean-Loup Amselle (v., 2003), in Canada è stata proprio l'esistenza di una minoranza di francofoni - pronti a considerarsi i 'primi arrivati' - che vedevano messa in discussione l'antichità del proprio insediamento nel paese a favore degli Amerindi, a mandare in frantumi il patto giuridico su cui si fondava l'esistenza stessa della nazione canadese e a imporre il multiculturalismo. Oltre alla logica di anteriorità, chiamata in causa nelle controversie circa l'ordine di arrivo dei differenti gruppi nazionali su un determinato territorio, anche altre logiche contribuiscono a far emergere la problematica multiculturale: logiche di importazione (con l'immigrazione), di riproduzione (in particolare per quanto concerne le minoranze regionali) e soprattutto di produzione (all'interno dei numerosi paesi nei quali l'identità nazionale è ormai messa in discussione; v. Wieviorka, 1997).

Sul piano della politica pubblica, il multiculturalismo si propone di conciliare le esigenze di coesione sociale - alla quale ogni governo ha il dovere di contribuire - con le aspirazioni a conservare forme e pratiche culturali specifiche, espresse da gruppi di individui più o meno numerosi. Adottata da alcuni Stati per opporsi alla discriminazione e porre un freno ai danni subiti dalle minoranze, la politica ispirata al multiculturalismo tende a promuovere il riconoscimento dei particolarismi culturali e la lotta alle disuguaglianze, tentando al tempo stesso di risolvere le difficoltà sociali che affliggono i gruppi interessati: è quanto accade in Australia, in Svezia e in Canada. Non c'è tuttavia un consenso unanime sulle modalità con cui essa debba essere attuata; così negli Stati Uniti sono sorti in merito animati dibattiti ancor oggi attuali.
Il multiculturalismo è infine una filosofia politica, poiché implica un atteggiamento etico e una determinata visione del funzionamento della società. Un'idea del 'Noi' - inteso come gruppo e come società - collegata con la concezione del ruolo svolto dall'individuo nella collettività, è alla base tanto delle dottrine incentrate sull'universalismo, quanto di quelle basate sui particolarismi. Nella tradizione intellettuale anglosassone quest'idea costituisce il nucleo di due filosofie sociali, difese l'una dai liberals, l'altra dai communitarians. Di conseguenza, il multiculturalismo è pervaso da dinamiche conflittuali in cui la dimensione politica è onnipresente.

A questo proposito, peraltro, è opportuno anzitutto rilevare la molteplicità delle problematiche con le quali il multiculturalismo entra in rapporto. Se da un punto di vista formale il concetto ha a che fare in primo luogo con la teoria sociologica - che si occupa dell'influenza esercitata sull'individuo dall'ambiente culturale e dalle forme acquisite di comportamento -, d'altro canto esso si rifà anche a una concezione antropologica della cultura, intesa come insieme durevole di pratiche sociali divenute modi di vita di un'intera comunità. A dire il vero, il multiculturalismo non è investito dalla tensione tra natura e cultura, spesso chiamata in causa dagli antropologi, ma piuttosto è influenzato in modo vario da un'altra opposizione antropologica classica, quella tra cultura e civiltà: tale opposizione, molto debole se non del tutto assente nell'area nordamericana, sussiste ancora in area europea, dove si era creduto - a torto - che fosse definitivamente scomparsa. L'origine stessa del dibattito sulla contrapposizione cultura-civiltà - promosso da pensatori inglesi e italiani, ma soprattutto tedeschi e francesi - risale a una delle radici della modernità, cioè alla filosofia dei Lumi di quel XVIII secolo in cui cosmopolitismo, universalismo e individualismo avevano intrecciato in modi del tutto diversi la trama del tessuto sociale, prima che nel secolo successivo i liberalismi, i socialismi e i nazionalismi riannodassero i fili di quel tessuto in forme alternative.

È chiaro perciò quante, e di quale importanza, siano le problematiche affrontate dal multiculturalismo: le identità individuali e collettive, il sentimento di appartenenza, gli atteggiamenti nei riguardi dei valori, la differenza culturale e i connessi diritti, il destino dello Stato-nazione e delle passioni nazionaliste, le trasformazioni della cittadinanza in un mondo che riconosce il pluralismo culturale - temi che oggi vengono tutti ripensati in forme nuove. Ci si interessa pertanto - sia da un punto di vista teorico che secondo un approccio più legato al quotidiano - agli effetti dei flussi migratori, alla situazione delle popolazioni di immigrati, al posto delle minoranze in seno all'intera società, alla xenofobia e ai limiti delle crociate antirazziste, alla persistenza dei pregiudizi e alla complessità degli stereotipi sociali. Nel dibattito suscitato dal multiculturalismo, inoltre, rientra anche la riflessione sui pericoli del relativismo, l'ambiguità del comunitarismo, gli eccessi del politically correct. Aspetti che sono generalmente affrontati ricorrendo ai paradigmi di analisi elaborati dalla filosofia morale e politica di ispirazione liberale o comunitarista, e che vengono poi esaminati da un punto di vista giuridico in rapporto alla gestione pratica delle relazioni sociali.

Le due rassegne di studi realizzate da Will Kymlicka e Wayne Norman (v., 1994 e 2000) dimostrano l'estensione delle tematiche affrontate dal multiculturalismo nel corso degli ultimi due decenni. I lavori recensiti si riferiscono tutti a problemi emersi con la comparsa di società multiculturali, multinazionali e multietniche. Queste diverse determinazioni appaiono difficilmente dissociabili, tanto sono interconnessi i termini sui quali verte l'analisi: individuo e comunità, storia, cultura, identità, cittadinanza, differenza e diritti, ecc. Bisogna tuttavia ricordare che tali problemi si pongono in contesti specifici, dai quali traggono anche origine le rispettive e originali formulazioni; e che, ad esempio, la tensione tra multiculturalismo e appartenenza nazionale non è generalizzabile, tanto che in Canada sono le identità nazionali - francofoni del Québec e anglofoni canadesi - a essere in conflitto, non le identità etniche in seno alle due nazioni.

Ciò nonostante, considerata nel suo insieme, la problematica del multiculturalismo è stata oggetto, negli Stati Uniti, di interpretazioni che ogni analisi dedicata a un'esplicitazione del concetto può utilizzare come propri modelli. Queste interpretazioni innescano nuove riflessioni sulle più comuni rappresentazioni della democrazia e sui fondamenti, in genere nascosti, dello Stato-nazione - interpretazioni che in Europa trovano un campo di applicazione già delineato grazie a una storia più antica. La destabilizzazione dei modi di pensare il mondo, l'io e l'altro, la soggettività e la sua dimensione sociale, va in realtà ricondotta agli effetti congiunti della 'mondializzazione' e della 'individualizzazione': da una parte, le interazioni tra popoli appartenenti a civiltà diverse si moltiplicano e di conseguenza aumenta la percezione delle differenze tra i gruppi; dall'altra, l'emancipazione dalla tradizione, seguita alla dilatazione dell'individualismo moderno, ha destabilizzato lo stesso soggetto il quale, privo di punti di riferimento, non può che porsi la domanda 'chi sono?'. E questo riproporsi di un'esigenza identitaria a volte potrà condurre il soggetto a trovare una risposta nella ricomposizione di un mondo tradizionale e nel ripiegamento in seno a una comunità.

2. Multiculturalismo e diritti delle minoranze nella cultura anglosassone

Molti autori nordamericani hanno parlato del multiculturalismo adottando punti di vista diversi, ma tra coloro che hanno fornito contributi essenziali al dibattito è opportuno ricordare, oltre al già citato Kymlicka, Charles Taylor e Michael Walzer. Al primo si deve il classico Multicultural citizenship: a liberal theory of minority rights (1995) preceduto, nel 1989, da Liberalism, community and culture. Nello stesso anno (1989) Taylor pubblicava un'opera importante come Sources of the self. The making of the modern identity e un articolo sul dibattito 'liberal/communitarian' (v. Taylor, Cross-purposes..., 1989), cui vanno aggiunti un'opera di sintesi, The malaise of modernity (1991), e una serie di scritti sulla politica di riconoscimento, il principio d'identità collettiva, il nazionalismo e la modernità. Con Spheres of justice: a defense of pluralism and equality (1983) Walzer infine diede il via a una riflessione che sarebbe coerentemente proseguita nei testi dedicati al pluralismo e alla democrazia, alla tolleranza e alla critica 'comunitarista' del liberalismo.

C'è stato anche chi ha tentato di sintetizzare le argomentazioni sostenute da entrambi gli orientamenti nel dibattito fra liberali e comunitaristi. Kymlicka, pur essendo il miglior interprete di alcune posizioni difese dai filosofi liberali, prova a dimostrare che l'individualismo morale è compatibile con una politica di riconoscimento dei diritti collettivi (che egli accetta), mentre alcuni filosofi comunitaristi - come ad esempio Walzer - li negano. Dal canto suo Taylor, uno dei maggiori esponenti del pensiero comunitarista, porta avanti un'argomentazione simile a quella sviluppata dai liberali quando sostiene che gli individui esigono che le loro differenze vengano riconosciute come mezzo e condizione della libertà, giammai a danno della libertà individuale; lo stesso Taylor, peraltro, usa con cautela la nozione di diritti collettivi.

Quali che siano le sfumature con cui si presentano, le posizioni dei liberali e dei comunitaristi restano contrapposte. Secondo i liberali gli individui e i popoli possiedono un'identità antecedente alle finalità che li guidano; i diritti e le libertà individuali costituiscono dei principî comuni cui far ricorso nella gestione del pluralismo morale; esiste un primato del giusto sul bene; infine, lo Stato liberale ha un atteggiamento neutrale verso ogni concezione particolare del bene comune. Per i comunitaristi, invece, l'individuo è costituito dall'insieme dei progetti che si dà, e anche i popoli si definiscono e caratterizzano in rapporto a una concezione determinata del bene comune; diritti e libertà devono scaturire dalle finalità costitutive del soggetto e della società; il giusto non può avere il sopravvento sul bene; infine, lo Stato ha il dovere di occuparsi delle concezioni del bene comune.

Le varie tematiche del multiculturalismo - in particolare quella relativa alla rivendicazione dei diritti culturali, che ha fatto la sua comparsa in un contesto minoritario - hanno finito col riflettere questa divisione ideologica formulata in modo estremamente chiaro da Michel Seymour (v. Couture e altri, 1996). Così, in un'ottica liberale ci si limita a prendere in considerazione soltanto l'autonomia individuale, senza soffermarsi sui diritti minoritari rivendicati; quanto ai comunitaristi - per i quali gli individui sono il risultato di 'pratiche sociali' e fanno parte integrante di un sistema di statuti e ruoli -, essi hanno considerato la lotta a favore dei diritti delle minoranze come un mezzo per affermare i valori comunitari, vedendo in essa sia un'occasione per protestare contro l'erosione di tali valori da parte di una modernità devastatrice, sia un'opportunità per dimostrare che non è possibile ridurre gli interessi collettivi a interessi individuali. Ne è nato un movimento di tutela delle minoranze etno-culturali, nella convinzione che esse siano tutte impegnate a preservare forme di vita collettiva minacciate dall'individualismo liberale.

Kymlicka ha tentato di mettere in luce come questo dibattito sia in realtà superato. In effetti, se esistono ancor oggi gruppi che intendono restare al di fuori della modernità (i Menoniti, gli Amish, gli Ebrei hassidici, i seguaci del fondamentalismo islamico, quanti si professano fedeli a forme di integralismo cristiano, ecc.), moltissime minoranze non si propongono affatto di tramandare inalterati il loro modo di vita tradizionale e la mentalità ereditata dal passato. Anche se alcune si propongono di realizzare forme di secessione, il loro vero scopo non è quello di riportare in vita un gruppo comunitario. In Europa, in Canada, in Australia, i gruppi nati dall'immigrazione sono in gran parte integrati nella società democratica e intendono beneficiare dei vantaggi che questa offre loro: vogliono accedere all'istruzione e sfruttare i canali della mobilità sociale. Negli Stati Uniti gli Afro-americani non sono particolarmente interessati a riprodurre le forme di esistenza sociale del passato, e in molti altri paesi, come Spagna, Regno Unito e Canada, le minoranze nazionali (catalana, scozzese, québecoise) condividono i valori dei gruppi maggioritari.
L'opposizione tra maggioranze liberali e minoranze comunitariste va dunque ridimensionata, poiché è inesatto affermare che tutti i gruppi minoritari si contraddistinguono per il forte attaccamento alla tradizione e per l'ostilità verso i valori della società moderna. Inoltre, se spesso sui principî democratici è possibile raggiungere un accordo, è più difficile che ciò avvenga circa la loro applicazione all'interno di società multietniche, dove tutto ciò che riguarda la lingua, la nazionalità e l'identità culturale è fonte di conflitti. È necessario pertanto capire perché i gruppi minoritari - le cui rivendicazioni legate alla valorizzazione delle differenze etno-culturali diventano ogni giorno più pressanti - chiedono allo Stato la concessione di diritti complementari.

Rispondere a questa domanda porta a mettere in discussione l'ipotesi secondo cui lo Stato democratico liberale funziona in base a un principio di neutralità etno-culturale. Infatti, le istituzioni che si suppone siano neutrali rispetto alle differenze, in realtà non lo sono affatto; esse sono invece legate, in modo implicito o esplicito, agli interessi e alle strategie culturali di un gruppo maggioritario; sono, quindi, al servizio dell'affermazione di un'identità che ne esclude ogni altra. Così, ad esempio, la supremazia della maggioranza anglofona negli Stati Uniti è stata molto forte: una cultura che abbraccia l'intera società, concentrata su un territorio definito, trasmessa da una lingua comune, delineata da numerose istituzioni (come scuole e università, pubbliche amministrazioni, media, ecc.) domina tutte le altre, che finiscono col rimanere corpi estranei al suo interno. I mezzi usati per garantire questa supremazia, del resto, sono noti a tutti: si tratta delle politiche pubbliche progettate e realizzate in diversi ambiti, come l'uso della lingua ufficiale, l'immigrazione, la naturalizzazione, il sistema educativo, il mercato del lavoro.

Frutto di una politica di governo che punta al raggiungimento dell'integrazione sociale, la coesione linguistica e istituzionale così realizzata mostra senza dubbio aspetti positivi, che tuttavia non sembrano in grado di cancellare le facili accuse di etno-centrismo o di imperialismo culturale. Fra questi vantaggi è possibile citare l'eguaglianza delle opportunità, la solidarietà garantita dallo Stato attraverso la previdenza sociale, la partecipazione sociale resa possibile dall'uso di una lingua comune. Tra gli aspetti negativi bisogna ricordare i danni subiti dalle minoranze: da quelli che le colpiscono in modo diretto - derivati dall'aperta discriminazione razziale - a quelli indiretti, come ad esempio il prevalere dei simboli preferiti o degli 'eroi' esaltati dal gruppo maggioritario. Per le culture minoritarie che vengono in tal modo danneggiate, di conseguenza, i diritti culturali concessi non possono essere assimilati a privilegi, ma sono piuttosto delle riparazioni alle ingiustizie subite. Tuttavia, determinare quali siano tali diritti e a chi vadano attribuiti continua a essere un problema.

In effetti, non si tratta più di difendere gruppi minoritari minacciati da uno stile di vita che tende alla omologazione, ma di capire l'importanza, per gli individui che fanno parte di tali gruppi, dell'accesso alla propria cultura; solo così è possibile ammettere la legittimità di rivendicazioni relative all'appartenenza culturale e all'identità nazionale. In questa prospettiva liberale, il multiculturalismo prende atto del fatto che alcuni gruppi culturali minoritari aspirano a un riconoscimento e a una rappresentanza di solito non concessi dalla cultura sociale dominante. Un simile multiculturalismo rifiuta, a livello nazionale, ogni imposizione di identità comune, accettando che si faccia riferimento a un sistema simbolico distinto da quello del gruppo maggioritario; di conseguenza, autorizza l'espressione e la manifestazione pubbliche di tutte le forme più caratteristiche della differenza culturale. Questa prospettiva viene peraltro attuata in forme diverse: cambiamenti di legislazione, revisione dei programmi scolastici, formazione di lavoratori dotati di sensibilità sociale e attenti alle differenze culturali, ecc.

Il multiculturalismo 'liberale' sembra oggi la dottrina dominante nel pensiero anglosassone. Secondo i suoi sostenitori, a esso non si può opporre alcuna valida alternativa. In tali condizioni è ancora possibile proporre un modello di cittadinanza repubblicana unitaria, riaffermando che gli interessi considerati comuni sono più importanti delle identità che dividono? In molti hanno condannato la falsa neutralità di questo modello e, del resto, le stesse condizioni alla base del suo funzionamento sono ormai cambiate. Bisogna allora abbracciare le posizioni del postmodernismo, che ha sviluppato una critica radicale di tutti gli etno-centrismi, imperialismi, essenzialismi da cui sono state contaminate le norme liberali, esaltando la natura plurale della cittadinanza? Ma nel caso dei postmoderni, la volontà di diffusione delle idee non tiene affatto conto delle circostanze in grado di renderle effettive: così i modi indicati per realizzarle non differiscono molto, in realtà, da quelli tracciati dal multiculturalismo liberale.

3. Il multiculturalismo tra universalismo e particolarismo

La riflessione sul multiculturalismo, in parte piegata alle esigenze di funzionamento dello Stato-nazione, induce a prendere nuovamente in esame il paradossale rapporto esistente fra il processo di costruzione della nazione (nation building) e lo sviluppo del liberalismo. Al pensiero liberale, in effetti, sono associati valori universali, mentre il particolarismo è connesso alla politica di nation building. Ecco perché l'unione tra liberalismo e nazionalismo è problematica; essa richiede, a livello collettivo, di conciliare l'universalismo di principio con la volontà di autodeterminazione e, a livello individuale, di combinare il desiderio di identità e il bisogno di diversità evidenti nella ricerca di una 'identità differenziata'. Una qualche forma di solidarietà nazionale sta dunque alla base dello Stato liberale, proposto come modello di organizzazione politica e considerato culturalmente omogeneo.

Il nuovo modo di pensare la società come un'entità multiculturale finisce col mettere in questione il collegamento comunemente accettato fra Stato-nazione, liberalismo e individualismo morale. Oggi, infatti, l'esaltazione delle libertà individuali a scapito delle minoranze nazionali non è più possibile, almeno all'interno di società nelle quali le appartenenze culturali, a lungo mantenute nascoste, sono oramai oggetto di aperta rivendicazione. Dato che uno Stato può essere formato da una pluralità di culture, che implicano tutte una visione complessiva della società e aspirano a un riconoscimento completo, bisognerà chiedersi se gli Stati multinazionali siano davvero possibili e auspicabili. Prima ancora di porsi questa domanda, tuttavia, è necessario definire meglio in che modo il bisogno di appartenenza a una comunità si è affermato come bisogno fondamentale. In effetti ne conosciamo bene l'origine in ambito europeo, seguendo passo dopo passo le tormentate vicende del sentimento nazionale studiate da Federico Chabod (v., 1961), Pierre Renouvin (v., 1962), Ernest Gellner (v., 1983).

Johann Gottfried Herder fu il primo a insistere sul ruolo svolto dalle radici e dal suolo - non dal sangue e dalla razza - nella vita dei popoli. L'autore delle Ideen zur Philosophie der Geschichte (1784-1785 e 1791) si fa quindi interprete di un nazionalismo culturale in totale rottura con la concezione di civiltà universale, che presuppone, a suo parere, una nozione astratta e disincarnata di umanità: secondo Herder, infatti, i popoli sono espressione di culture e sistemi di valori diversi. In seguito, Alexander Herzen seguirà le indicazioni di Herder, diventando agli occhi degli slavi l'eroe del rifiuto populista della modernizzazione della cultura e il difensore delle tradizioni ancestrali dagli attacchi dei filo-occidentali; i suoi appelli alla tradizione, tuttavia, non oltrepasseranno l'ambito del socialismo utopico. Gli attacchi di Herder intendevano colpire l'universalismo cosmopolita della civiltà dei Lumi e, più precisamente, il concetto giuridico di nazione che nel XVIII secolo riuniva artificialmente in sé i tre principî di civiltà, legalità e carattere pubblico. Nella sua opera comincia a prender forma quella opposizione tra cultura e civiltà che Oswald Spengler sistematizzerà all'indomani della prima guerra mondiale.

La contrapposizione cultura/civiltà nasce nello stesso periodo in cui lo spazio europeo comincia a strutturarsi in nazioni culturalmente differenziate, politicamente divise e verticalmente integrate. In Germania tale dicotomia si sviluppa nel XIX secolo, all'interno di una cultura che rivendica la particolarità, l'originalità e la vitalità come aspetti che garantiscono un'identità nazionale di natura organica. Altrove - soprattutto in Francia - si ritiene invece che la civiltà rappresenti una cristallizzazione di elementi generali, comuni a diverse organizzazioni sociali razionalizzate, meccanizzate e dunque ormai prive di vita. La vocazione universalista della civiltà, unita all'idea di 'nazione civica' (concetto formulato in Francia da Ernest Renan nel 1882), finirà per scontrarsi con la linea etno-culturale rappresentata dall'idea tedesca di nazione etnica.

Più importante ancora degli antagonismi e delle contrapposizioni, comunque, è il fatto che in Francia come in Germania la promozione delle culture nazionali portata avanti dai nazionalismi doveva far fronte alla scomparsa di una comunità sociale, cui la cristianità aveva offerto, in passato, il modello. In Francia si tentò di colmare il vuoto creatosi dando nuovo vigore alla comunità politica (v. Nicolet, 1982), mentre in Germania fu promosso un rafforzamento della comunità culturale nata dall'unione tra Volkskultur e Gemeinschaft e con lo sviluppo di una scienza nazional-populista, la Volkskunde (v. Bausinger, 1971). A questo punto è possibile capire quale sia lo scenario storico al quale rinviano i movimenti xenofobi, identitari, settari, integralisti o fondamentalisti che si sviluppano nell'Europa di oggi, nella quale il progetto di un'integrazione orizzontale, realizzata attraverso numerose reti di scambi, prende il posto delle politiche di integrazione verticale sostenute sino a tempi recenti dallo sviluppo esacerbato di un sentimento nazionale rispetto al quale i movimenti che incentrano la propria attività sui diritti dell'uomo, le attività umanitarie, la cittadinanza e l'ecologia disegnano (o ridisegnano) le forme dell'universalismo.

A queste evoluzioni recenti è necessario aggiungere, in particolare nel caso della Germania, l'analisi dei rapporti creatisi tra la costituzione dell'identità nazionale e la costruzione della memoria collettiva (v. Assman, 1993). Gli usi e costumi del passato sono di nuovo posti in primo piano e un lavoro di recupero - sotto forma di riconoscimento talvolta retrospettivo - prende il via dalle rivendicazioni identitarie, dalle ingiustizie denunciate, dalle libertà reclamate: nasce così il primo abbozzo di una 'etica della ricostruzione' (v. Ferry, 1996). Tuttavia, non è difficile rendersi conto delle carenze e ambiguità cui oggi può andare incontro il semplice riconoscimento del pluralismo culturale, vale a dire di una pluralità di valori tutti egualmente autentici.

Come dottrina che vede nelle convinzioni morali, nelle rappresentazioni mentali e negli stili di vita dei gruppi l'espressione di una molteplicità di valori eterogenei e non ordinabili gerarchicamente in base a un criterio assoluto, il pluralismo culturale finisce sempre per scontrarsi con forme diverse di monismo. Al pluralismo culturale, per esempio, deve essere associata la nozione di 'pari rispetto', affinché la sua efficacia - in particolare politica - sia reale; e il 'pari rispetto' non potrà che essere una norma imposta dall'esterno. Aderire a ciò che esso implica e prescrive, tuttavia, non significa sempre - o, in ogni caso, non necessariamente - sconvolgere equilibri e alienarsi consensi storicamente consolidati. Così come oggi è inteso, il multiculturalismo fa al contrario risorgere quanto era da tempo sepolto nella coscienza collettiva; ma la sua ricomparsa si scontra con gli stereotipi nazionali e sociali, poiché esso ha in sé i germi della dissoluzione di quanto si riteneva per sempre stabilito e codificato.

Alla problematica del multiculturalismo inoltre si riallacciano i problemi posti dall'etnicità, considerati del tutto marginali sino a tempi recenti. Il ritardo della riflessione su tali problemi - ad esempio, su quello delle minoranze volutamente dimenticate - è sotto gli occhi di tutti, e l'accelerazione attuale del dibattito è ovviamente causata dall'estrema gravità che essi hanno assunto. L'integrazione culturale, praticata sia dagli Stati liberali che da quelli autoritari, oggi è oggetto di contestazione. Perciò non sembra più così 'normale' come un tempo che gli Stati occidentali multilingue abbiano profuso sforzi spesso considerevoli per integrare le proprie minoranze linguistiche nelle istituzioni che si servono di una lingua comune - quella del gruppo maggioritario. Eppure è ciò che essi hanno fatto ovunque, tranne che in Svizzera, paese in cui le minoranze francofone e di lingua italiana non sono state oggetto di una politica di assimilazione alla maggioranza di lingua tedesca.

Il caso francese illustra bene quanto sia difficile adattare i meccanismi di uno Stato repubblicano - vero e proprio meccanismo di assimilazione che ha funzionato a pieno regime sino all'inizio degli anni settanta - a una società etnicizzata. Eppure nel XVIII secolo, secondo la tesi di Henri de Boulainvilliers, la società francese fu profondamente segnata da una vera e propria guerra tra gli eredi di due razze - Franchi invasori, Galli autoctoni. L'immagine che la Rivoluzione del 1789 ce ne ha fornito è invece quella di un'entità formata da cittadini chiaramente eguali. In realtà, la popolazione francese era composta da strati differenti: classi-etnie primitive, gruppi di immigrati italiani e polacchi che si erano fusi alla collettività nazionale, minoranze etnico-religiose che avevano avuto un trattamento diseguale. Perciò, i gruppi musulmani, con le loro odierne rivendicazioni, chiedono solo di poter beneficiare delle concessioni fatte in passato agli ebrei e ai cristiani integralisti.

Il fatto che la "verità razziale (raciologique) dello Stato repubblicano" (v. Amselle, 2003, p. 122) si sia manifestata appieno nelle sue imprese coloniali, ci consente di capire i modi in cui esso gestiva i diversi "gruppi di popoli". Non appena lo Stato liberale comunitario prende il suo posto, fa il proprio esordio una 'società civile' che si assume il compito - attraverso le sue associazioni - di controllare le nuove classi pericolose, formate da Neri e da Beurs (figli di immigrati magrebini nati in Francia): ciò a riprova del fatto che la questione sociale si era ormai trasformata in questione etnica. Esaminando questa situazione, Jean-Loup Amselle conclude che lo Stato repubblicano francese è stretto nella contraddizione fra le sue esigenze di universalità e il suo radicamento gallo-cattolico. Inoltre, esso deve favorire lo sviluppo delle lingue regionali che minacciano le sue stesse fondamenta. Perciò "lo Stato repubblicano, al tempo stesso non abbastanza universalista e non abbastanza particolarista, [...] sembra accerchiato da ogni parte", e il modello da esso rappresentato è meno esportabile rispetto al modello multiculturalista nordamericano.

4. Politiche e problemi delle identità culturali

Ai dibattiti su universalismo e particolarismo e ad alcuni temi - come quelli relativi ai diritti collettivi rivendicati dalle minoranze - che danno corpo al multiculturalismo, si aggiunge il problema delle identità culturali. Taylor (v., 1992) collega alla nozione di identità le idee di autenticità (la fedeltà a se stessi), di riconoscimento (di quello che siamo), di differenza (nella rappresentazione di sé e degli altri) e di uguale dignità (con il diritto a pari rispetto). Questi termini e questi differenti aspetti, tuttavia, non vanno intesi nell'accezione straordinaria attribuita loro dall'ideale eroico di autocreazione sviluppato dall'individualismo romantico nel XIX secolo. Per la maggioranza degli individui, l'identità si forgia nel crogiolo della nazione, dell'etnia o della cultura, ma si forma anche in seno ad ambienti particolari. E, soprattutto, quell'identità si declina in vari modi: come appartenenza a un gruppo linguistico, nell'esser seguaci di una religione, nell'avere un determinato stato civile, ecc., cioè in una serie di identità pratiche, più o meno ben coordinate tra loro, che interagiscono con le identità degli altri individui di una collettività e che sono chiamate a diventare oggetto di reciproco riconoscimento.

Il 'mondo che abbiamo perduto' era caratterizzato da una relativa stabilità dei rapporti tra la dimensione individuale e quella collettiva. Quanto alle società contemporanee, sono teatro di uno sviluppo incessante di differenze identitarie prodotte da un movimento generale di distensione e decentramento. Al suo interno, perciò, si sviluppano continue lotte per liberarsi da un'identità imposta e ottenere il riconoscimento di un'identità che si è scelta. Queste lotte, intraprese da individui che si trovano a vivere in una situazione difficile (immigrati, rifugiati), da gruppi minoritari sotto il profilo linguistico, etnico, culturale e religioso, da popoli che si oppongono all'etno-centrismo e all'imperialismo culturale dell'Occidente, hanno come obiettivo il 'riconoscimento' in diverse forme: dalla richiesta di riconoscimento pubblico, giuridico e politico, alla richiesta di rappresentanza o di protezione. Le rivendicazioni alla base di tali lotte, inoltre, sono diversificate a seconda dei punti su cui vertono: il rispetto delle differenze identitarie inerenti a sfere culturali diverse, l'istituzionalizzazione di una cittadinanza multiculturale e multinazionale, l'attuazione di politiche di equità, la creazione di istituzioni distinte dai grandi apparati statali. Spesso esse si accompagnano a una denuncia della xenofobia, del razzismo e dell'emarginazione.

Sebbene qua e là siano stati messi in atto dispositivi in grado di soddisfare alcune di queste esigenze, come l'autonomia regionale o la sovranità condivisa (ad esempio, in Belgio e in Canada), per molto tempo l'esito consueto di queste lotte è stata la repressione, la conflittualità, l'assimilazione forzata. Ecco allora che la rinegoziazione rappresenta una soluzione alternativa per una politica dell'identità. Essa fa infatti appello al dovere di deliberazione collettiva, una necessità imprescindibile se si vuole far funzionare nel migliore dei modi il sistema dei rapporti sociali. Abbiamo insomma il dovere - che Kant ha formulato come imperativo categorico - di intenderci con coloro che ci vivono accanto e che non necessariamente condividono tutte le nostre convinzioni. La concertazione è funzione di un modo prudente e responsabile di agire, anche se è necessario distinguerne due diverse modalità: la concertazione necessaria all'interno del gruppo, che si fa interprete di una rivendicazione identitaria, e quella rivolta all'esterno, che punta a convincere la società maggioritaria.

James Tully (v., 1995) osserva inoltre che l'identità condivisa ha valore solo se declinata in un contesto democratico e dialogico. Democraticamente, e in base al principio di sovranità popolare, ciò che riguarda tutti deve essere discusso da tutti. La discussione sarà perciò aperta, e non si ridurrà a uno o più dialoghi a due voci. Nel corso di questi 'multiloghi' ci sforzeremo sempre di ascoltare l'altra parte - ubbidendo al precetto audi alteram partem - con l'intento di stabilire un rapporto nuovo, o rinnovato, di riconoscimento reciproco cui tutti possano aderire. Da tale modo di procedere deriverà una reciproca comprensione tra le identità interessate, vale a dire un accordo che - a partire da ragioni condivise - converge su un'identità multiculturale e multinazionale. Anche se in tempi brevi tali procedure non produrranno risultati concreti, come l'elaborazione di un'intesa formalizzata, questo atteggiamento faciliterà comunque una presa di coscienza del modo in cui le identità in discussione sono state costruite e trasmesse, acquisite o imposte. Inoltre, dando il loro contributo alla critica e al rovesciamento di stereotipi sempre presenti e condizionanti, queste discussioni sulle identità pratiche possono dar vita - in assenza di accordi nati da un riconoscimento reciproco - a un 'disaccordo ragionevole' (evitando in tal modo il confronto violento) o a compromessi atti a ridurre le tensioni.

La resistenza al riconoscimento delle differenze identitarie e alla rivendicazione dei diritti culturali è tuttavia piuttosto diffusa. Si teme infatti che le prime minaccino la coesione politica, mentre si diffida dei secondi perché sono apparsi in un contesto minoritario. Perciò un processo iniziato nel XVIII secolo con la conquista dei diritti civili, proseguito nel XIX secolo con l'accesso ai diritti politici e che sembrava compiuto nel XX secolo con la concessione dei diritti sociali, prosegue oggi con la rivendicazione dei diritti culturali. Contro tali rivendicazioni può esser fatta valere una 'retorica reazionaria' che Albert O. Hirschman ha descritto e criticato punto per punto. Ma poiché essa fa riferimento a un'entità nazionale-maggioritaria che non corrisponde all'ideale democratico, è difficile ricorrervi. Del resto, Patrice Meyer-Bisch (v., 1993) ritiene con valide argomentazioni che le autorità alla guida della società liberale avrebbero tutto da guadagnare se accettassero l'estensione della logica dei diritti dell'uomo all'ambito culturale, invece di occuparsi solo dei diritti civili e politici. Questa estensione servirebbe infatti a eliminare le ambiguità esistenti tra Stato monoculturale e multiculturalismo, individualismo e comunitarismo.

Il dibattito odierno relativo ai problemi che la gestione delle rivendicazioni identitarie pone alle regole comunitarie rimane nondimeno prigioniero di schemi mentali che ne cristallizzano i termini fondamentali. L'inclinazione prevalente è ancora verso l'essenzialismo, che consiste nel considerare le identità come insieme di caratteri costitutivi e invariabili. Vi è inoltre una forte tendenza a ipostatizzare la cultura: in quest'ottica essa si trasforma in un sistema chiuso di tradizioni etiche e intellettuali che ne garantiscono l'integrità. Ma l'identità, in realtà, si costruisce in modo dinamico, essendo radicata al tempo stesso in una natura umana universale e in una cultura particolare; essa unisce cioè aspetti ontologici - ai quali l'umanesimo ha contribuito a dar senso - e componenti che possono essere sottoposte a un'analisi culturalista, sicché non è possibile nessuna identificazione senza inculturazione. La cultura deve anche essere intesa nella sua duplice capacità di universalizzare e di particolarizzare; vedervi solo un sistema fisso di rappresentazioni equivale a mutilarla. Essa, che per molti aspetti è una sorta di 'dono dei morti', è anche un potenziale che il soggetto e la società in cui vive sono chiamati a sfruttare in modo originale.

Proprio in questo ambito si ritrovano i limiti di quasi tutte le analisi anglosassoni delle identità culturali. Gli autori di tali analisi - si tratti di Kymlicka o di Taylor - inscrivono le identità in questione unicamente in un quadro giuridico e politico, preoccupandosi soltanto della loro sistemazione all'interno dello spazio pubblico. Da un lato ci si preoccupa di valorizzare il soggetto individuale e delle condizioni per la sua realizzazione personale, senza prestare grande attenzione alla riproduzione di culture specifiche; dall'altro ci si sofferma in modo esclusivo sulla sopravvivenza di queste ultime. In tutti i casi, comunque - come nota Michel Wieviorka (v., 1998) -, non ci si interessa alla trasformazione delle appartenenze, all'emergere di nuove identità, ai processi di scomposizione e di ricomposizione che le caratterizzano. Anzi, proprio questo disinteresse, sottolinea Wieviorka, è ciò che rende possibile affrontare le identità in un'ottica politica e giuridica.

Eppure, nel mondo si verifica una continua mescolanza di culture, si susseguono fenomeni di incroci e contaminazione fra razze differenti. Serge Gruzinski (v., 1999) ha descritto questi fenomeni per il Messico e il Perù a partire dalla Conquista. John Francis Burke ne ha parlato invece in relazione alla zona al confine tra Stati Uniti e Messico, dove si intrecciano oggi "la cultura nordamericana protestante, capitalista, e la cultura cattolica, mediterranea, meridionale dell'America latina" (v. Burke, 1999, p. 131): prende forma in tal modo un nuovo mestizaje, nel quale si è totalmente Nordamericani e pienamente Messicani ma non esclusivamente l'uno o l'altro; si diviene al tempo stesso individui diversi e più ricchi, in virtù di una specie di visione culturale 'binoculare' imposta dall'obbligo di vivere all'interno di due culture. Ecco allora che le appartenenze e le identità culturali non devono essere considerate fossilizzate: da queste mescolanze, che spaventavano Arthur de Gobineau, ha sempre origine qualcosa di inedito. Anzi il meticciaggio, per esser più precisi, non si identifica né con l'ibridazione priva di consistenza storica, né con il cosmopolitismo, definito come adattamento egocentrico ed etno-centrico rispetto alla diversità culturale.

5. Conclusione

In conclusione, si può affermare che l'unità può e deve essere realizzata nella differenza, all'interno di contesti nazionali rifondati su nuove basi. Più di un esempio storico testimonia dell'efficacia di tale processo. Nel caso degli Stati Uniti, ad esempio, Michael Lind (v., 1995) ha individuato quattro momenti di rifondazione della nazione americana in cinquecento anni di storia, sempre in relazione con l'arrivo sul territorio di nuovi gruppi di origini differenti. Il risultato è che vi sono quattro differenti tipi di nazione americana, ciascuno dei quali accoglie e sintetizza le esperienze del precedente: l'Anglo-America, l'Euro-America, l'America multiculturale e infine la nazione culturale americana trans-razziale, che nasce nella seconda metà del XX secolo. Lind vede addirittura formarsi negli Stati Uniti una nuova 'etnicità americana', condivisa dai membri di una società dietro la cui diversità si cela una profonda coesione. Il multiculturalismo in senso proprio che ivi si sviluppa non implica affatto, come ha mostrato Raymond Boudon (v., 2000), un 'relativismo dei valori'. Al contrario, esso segna l'emergere di un nuovo contesto culturale del tutto unico, la cui particolarità è data dal riconoscimento della diversità di origini e tratti culturali dei cittadini che vivono insieme in un nuovo contesto nazionale.

La tesi dello 'scontro tra culture', del 'conflitto tra civiltà' alla quale Samuel Huntington ha legato il suo nome - e di cui si è fatto interprete in articoli, saggi e opere pubblicati negli anni novanta - non deve quindi essere interpretata in modo sbagliato. Quella tesi, infatti, si fonda su una constatazione difficile da smentire: che le tradizionali divisioni tra società ricche e povere e tra regimi democratici e autoritari, pur continuando a restare importanti, in futuro lo saranno meno rispetto alle divisioni e contrapposizioni di carattere culturale. Tuttavia, è proprio la rappresentazione delle differenze che sono all'origine di queste divisioni che sta per cambiare. A quanti ritengono che queste differenze siano radicali, qualcosa di irriducibile e 'insanabile', si oppongono infatti quanti hanno intenzione di 'sanarle' in modo positivo e pragmatico proprio nell'ambito del multiculturalismo, che induce a pensare altrimenti la pluralità dei mondi, l'identità e l'alterità.