Governo
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Enciclopedia delle Scienze Sociali (1994)
di Giovanni Bognetti
Sommario: 1. I termini 'esecutivo' e 'governo' nel linguaggio della
scienza giuridica e politologica. 2. La divisione liberale dei
poteri e le caratteristiche del potere esecutivo. 3. Esempi di
esecutivi nell'età liberale. 4. Le democrazie del XX secolo e la
conversione dell'esecutivo in 'potere governante' o 'governo'. 5.
Esempi di governi nelle democrazie contemporanee. 6. L'attuale crisi
dello Stato e l'esigenza di un forte 'potere governante'. 7. Il caso
anomalo dell'ordinamento costituzionale italiano.
1. I termini 'esecutivo' e 'governo' nel linguaggio della scienza
giuridica e politologica
Il termine 'governo' è attualmente adoperato dalla dottrina
giuridico-costituzionalistica e politologica dell'Europa
continentale per designare due distinte realtà istituzionali.
Esso ricorre, in primo luogo, nell'espressione 'forme di governo':
in questo caso il termine sta a indicare l'insieme delle autorità
che costituiscono l'apparato dello Stato esercitante funzioni di
imperio. Tale apparato può organizzarsi, appunto, in forme distinte,
a seconda della natura degli organi che lo compongono e a seconda
dei rapporti che si istituiscono tra loro (forme di governo a poteri
concentrati - come era nei vecchi Stati assoluti e in quelli
comunisti, fascisti e in generale autoritari del XX secolo - o a
poteri divisi; forme di governo monarchiche o repubblicane; forme di
governo parlamentari o presidenziali; e via dicendo).
Nel linguaggio europeo-continentale, tuttavia, il termine 'governo'
è usato molto più spesso in un significato più specifico e più
ristretto: il preciso significato, del resto, con cui il termine
quasi esclusivamente compare, per esempio, nei testi delle carte
costituzionali oggi in vigore in Italia, Francia, Spagna, Germania.
In questo secondo senso 'governo' (nelle varie versioni delle lingue
neolatine; Regierung in tedesco) designa, nel quadro di un sistema
di poteri divisi, quel particolare organo che sta a capo della
pubblica amministrazione e si distingue dagli altri poteri dello
Stato (legislativo, giudiziario, ecc.) per le peculiari funzioni che
esercita come componente della complessiva macchina statale (cioè
del 'governo' nel senso largo del termine, in quanto insieme di
tutti i poteri).
Va segnalato il fatto che, nel linguaggio giuridico e politologico
corrente negli Stati Uniti, il termine 'governo' (government) non
ricorre invece altro che nel primo dei due significati testé
menzionati. A indicare il potere che dirige le attività
amministrative dello Stato si usa colà esclusivamente (a parte la
qualifica ufficiale di colui che presiede l'organo: presidente o
governatore) il termine 'esecutivo' (executive). A questi usi
linguistici si accosta anche la terminologia prevalente in Gran
Bretagna: ove semmai il corrispondente del governo-organo del
linguaggio europeo-continentale può all'incirca rinvenirsi nel
termine 'gabinetto' (cabinet).
Nell'Europa continentale, naturalmente, non è ignota l'espressione
'esecutivo', applicata a designare il governo-organo, uno dei poteri
dello Stato. Ma l'uso di quel termine è meno frequente che nei paesi
di lingua inglese, e certo è oggi molto meno frequente che in
passato. Anche sul continente europeo, infatti, durante tutta la
prima fase dell'affermarsi del modello classico di Stato liberale, e
cioè tra la fine del Settecento e il 1850, il potere che presiede
alle attività amministrative veniva regolarmente denominato, dalla
dottrina costituzionalistica, 'l'esecutivo', ed 'esecutiva' era la
funzione da esso espletata; mentre il termine 'governo' non era mai
praticamente utilizzato per designare l'organo del potere esecutivo
e veniva invece riservato - come oggi negli Stati Uniti - a
significare l'insieme delle autorità statali. Ma dopo quella prima
fase gli usi linguistici mutarono decisamente.
Le ragioni del trapasso, avvenuto sul continente europeo, del
termine 'governo' a un prevalente senso ristretto e specifico,
combaciante col concetto di uno solo dei poteri dello Stato, e della
parallela tendenziale refrattarietà del linguaggio dei paesi
anglosassoni ad accettare un tale trapasso, sono molteplici e
complesse.In estrema sintesi possiamo dire che esse hanno a che fare
con la profonda trasformazione subita, nel corso di due secoli,
dalle funzioni del potere che sta a capo della pubblica
amministrazione; trasformazione che ha reso in certo senso
anacronistica la designazione di quel potere come 'esecutivo'.
La dottrina giuridica e politologica e il linguaggio ufficiale delle
costituzioni del continente europeo hanno avvertito acutamente
l'anacronismo di chi continua a indicare con una terminologia
inadeguata una realtà tanto nuova e diversa, e hanno perciò scelto
per designare quest'ultima un vecchio termine - 'governo' -
opportunamente e intelligentemente piegato a significare una realtà
più ristretta (utilizzando ormai per lo più, a indicare il complesso
delle autorità pubbliche, i termini 'Stato apparato' o 'Stato'
senz'altro). In Gran Bretagna e in America, viceversa, nel
linguaggio del diritto e della scienza politica la designazione
delle autorità come 'Stato' non ha avuto ingresso, e anche il
'potere esecutivo' non ha mutato nome, quantunque il termine
'esecuzione' ormai non porti più con sé, anche in quegli ambienti,
le implicazioni concettuali che vi aveva originariamente.
In questo articolo descriveremo in maniera succinta il processo
attraverso il quale, nella storia costituzionale dei paesi
occidentali, il potere esecutivo nel corso di circa due secoli è
divenuto, da un punto di vista sostanziale e al di là delle varie
vicende terminologiche, il 'governo', ossia tendenzialmente un
autentico 'potere governante' collocato al centro del sistema dei
distinti poteri in cui si articola lo Stato apparato.
2. La divisione liberale dei poteri e le caratteristiche del potere
esecutivo
La denominazione 'esecutivo' riferita al potere che dirige le
attività amministrative dello Stato ha la sua origine e la sua
spiegazione nel quadro della teoria della divisione dei poteri che
ha informato di sé le esperienze costituzionali degli Stati
dell'Occidente durante l'età liberale.
Lo Stato moderno ha la sua origine nelle vicende storiche del
Rinascimento e della Riforma, in quanto rompe gli assetti
pluralistici del sistema politico dell'Europa medievale nella
direzione di una radicale semplificazione dei centri esercitanti
funzioni autoritarie. La società civile tra il XVI e il XVIII secolo
rimane ancora per lo più una società rigidamente suddivisa in ceti e
articolata in corporazioni chiuse; ma il potere di imperio si
concentra ormai quasi tutto - secondo il modello tipico dello Stato
dell'epoca - nelle mani di un sovrano, che lo esercita tramite
apparati burocratici, dopo aver rivendicato a sé le frazioni d'esso
prima largamente distribuite tra molteplici articolazioni
politico-sociali inferiori (o anche superiori, come nel caso
dell'Impero).
La tassonomia delle funzioni dello Stato in questo periodo varia a
seconda delle versioni che ne danno gli scrittori contemporanei di
cose politiche, ma in nessuna d'esse figura una 'funzione esecutiva'
tra quelle fondamentali dello Stato. Altri sono i diversi compiti
perseguiti dalle attività statali, generalmente riconosciuti come
tali. In termini riassuntivi può dirsi che al sovrano, nel modello
di questo Stato, spetta la funzione di garantire la giustizia sui
territori soggetti alla sua giurisdizione (funzione che include,
accanto all'attività di risoluzione delle controversie tra i sudditi
secondo diritto, anche quella di rinnovare il diritto mediante una
nuova normazione - un compito quest'ultimo che il sovrano assolve
ormai in piena libertà, poiché solo eccezionalmente ha bisogno del
consenso di corpi rappresentativi dei ceti); la funzione del
mantenimento dell'ordine pubblico; la funzione dell'imporre e
riscuotere tributi e del battere moneta; quella di un variabile, ma
a volte intenso, controllo dell'economia; quella della tutela della
religione di Stato; quella di fare la guerra, la pace, i trattati,
mantenendo forze armate stanziali; e altre ancora.
E in tutte queste funzioni il sovrano - che è in genere un monarca
ereditario - esercita avvalendosi di uffici organizzati in distinte
amministrazioni, che dipendono tutte da lui e che formano, insieme,
il suo 'governo'. Il quale, nei suoi vari rami, opera godendo di
ampie, discrezionali prerogative e senza precisi vincoli di legge
che il sovrano non possa, se lo ritiene necessario per il benessere
dello Stato, superare.La comparsa del concetto di 'esecuzione'
interviene solo quando l'ideologia liberale gradualmente impone
negli ordinamenti occidentali, in luogo della precedente
concentrazione del potere, lo schema opposto della 'divisione dei
poteri'.
Tale schema non viene elaborato allo scopo di costruire un potere
capace di sottrarsi all'accusa di essere in generale arbitrario e
tirannico. Esso matura invece come modello organizzativo dello Stato
richiesto rigorosamente da un preciso ideale di società civile: una
società civile composta di individui titolari di diritti inviolabili
di libertà in ogni settore della vita collettiva; una società
civile, dunque, capace di autodeterminarsi - così in campo economico
come in campo culturale e in ogni altro campo - senza interferenze
da parte dello Stato. Da questo punto di vista allo Stato compete
essenzialmente il solo compito di assicurare gli strumenti giuridici
onde l'autonomia della società possa spiegarsi indisturbata e in
tutta pienezza. A questo scopo, appunto, occorre che l'apparato
dello Stato si organizzi secondo la logica dei 'poteri divisi'.
La prima embrionale realizzazione di fatto della 'divisione dei
poteri' si ebbe in Inghilterra con la 'Rivoluzione gloriosa' del
1688. La prima organica teorizzazione d'essa fu opera, come è noto,
di Montesquieu. Ma le concrete attuazioni istituzionali dello schema
'divisorio' si moltiplicarono, in versioni diversificate, al di qua
e al di là dell'Atlantico, a mano a mano che l'idea liberale della
società civile autonoma si traduceva negli ordinamenti vincendo (a
volte dopo violenti conflitti) la resistenza degli istituti del
'regime antico'. Anche la teoria della 'divisione' venne col tempo
arricchendosi e perfezionandosi, tanto da costituire, a metà
dell'Ottocento, un modello che, nei suoi principî fondamentali,
veniva accettato quasi universalmente come schema di organizzazione
indispensabile agli apparati autoritativi di ogni Stato libero e
progredito.
Tale modello può descriversi, sommariamente, nel modo che segue. Al
fine di garantire la sicurezza dell'individuo e delle sue libertà il
modello identifica tre fondamentali funzioni dello Stato. La prima è
quella di fare norme che definiscano con precisione le libertà e i
diritti degli individui, conferendo loro certezza positiva (funzione
legislativa). La seconda funzione consiste nel curare, nel rispetto
delle norme previamente stabilite e in adempimento dei comandi da
esse dati, l'attuazione concreta di taluni interessi comuni
all'intera collettività (funzione esecutiva). La terza funzione
riguarda la risoluzione - sempre sulla base delle norme prestabilite
- delle controversie relative alla loro eventuale avvenuta
violazione, con corrispettiva applicazione di sanzioni (funzione
giurisdizionale).
Il modello liberale di divisione dei poteri postula che le tre
funzioni fondamentali siano attribuite tendenzialmente in esclusiva
ciascuna a un organo o a un gruppo di organi distinti (anche se
tollera che organi di un gruppo possano in certi casi partecipare o
interferire nello svolgimento di una funzione diversa da quella loro
propria). Sulla base del modello si formano perciò, nell'ambito
degli organi statali, tre distinti poteri: il legislativo,
l'esecutivo, il giudiziario, ciascuno deputato essenzialmente allo
svolgimento di una delle funzioni fondamentali.
Lo schema liberale esige che almeno un organo del legislativo sia
espressione - per via di elezioni - della società civile (ove si
assume siano presenti le forze, soprattutto di estrazione borghese,
ideologicamente favorevoli agli ideali di libertà individuale:
ideali di cui pertanto il legislativo diviene, tra i poteri dello
Stato, il primo e basilare presidio). Esige inoltre, con riguardo al
giudiziario, che esso sia pienamente indipendente dagli altri due
poteri ed esperto nelle tecniche del rigoroso e apolitico ragionare
giuridico (al fine di garantire la stretta legalità e l'imparzialità
delle sue pronunce, condizione perché gli individui si sentano
sicuri nei loro diritti).
La divisione liberale dei poteri, nella formulazione più coerente e
matura, vorrebbe che l'esecutivo fosse nella realtà quanto più
possibile vicino a quel che il suo nome designa: un 'esecutore' di
comandi posti dal legislativo, di norme dettate a specifica tutela
dei diritti dell'individuo. Questi diritti sono il perno attorno a
cui deve ruotare tutta l'organizzazione dello Stato. Perciò il
modello in linea di massima non vede di buon occhio l'esistenza di
un esecutivo che, nel perseguimento di interessi collettivi,
disponga di ampi poteri discrezionali, capaci di incidere sui
diritti soggettivi individuali e di interferire con essi. La
realizzazione, attraverso determinate attività amministrative, di
interessi pubblici può produrre interferenze di quel genere. Ma si
tratta di contenerne al minimo il numero e di circoscriverne al
massimo la portata attraverso opportune normative stabilite dal
legislatore, affinché la funzione esecutiva non venga meno al
precipuo carattere che la sua denominazione esprime.
In verità il modello liberale, dovendo distribuire fra i tre poteri
in cui ha articolato le strutture dello Stato tutte le funzioni di
questo, assegna all'esecutivo anche la maggior parte dei compiti
relativi alla gestione della politica estera (conclusione dei
trattati, conduzione della guerra, ecc.). In questo settore, non
potendosi predeterminare precise regole di condotta, all'esecutivo
non è certo dato di comportarsi come un mero 'esecutore', quale
tendono a ridurlo o vorrebbero ridurlo le norme poste dal
legislativo nel settore dell'amministrazione interna. Senonché, la
riconduzione della politica estera sotto la generale categoria della
'funzione esecutiva' non smentisce l'ispirazione che s'è detto
sottostare al modello liberale di divisione dei poteri. È nel
settore dell'amministrazione interna che i diritti delle persone
possono subire immediate e dirette limitazioni ed è lì che occorre
che l'attività amministrativa sia genuina 'esecuzione'. Il nome
della funzione può venire esteso senza danno anche ad aspetti delle
attività di quel potere che, a rigore, presentano caratteri di
amplissima e irriducibile discrezionalità. Ma tali caratteri non
riguardano il regime dei diritti dei cittadini, il vero valore di
cui si preoccupa la logica del modello.
Basta quel che s'è detto per far capire che nelle prospettive di
questo schema organizzativo il legislativo occupa idealmente la
posizione centrale nella costellazione dei tre poteri. Tocca a esso
stabilire le norme che assicurano il rispetto delle giuste
aspettative degli individui: norme generali, formanti tra loro un
sistema coerente, da mutarsi solo di rado e dopo attenta
ponderazione, norme che condizionano strettamente l'azione degli
altri due poteri. Questi ultimi tendono a essere in certo qual modo
poteri subordinati. Lo è il giudiziario, in quanto chiamato a
decidere situazioni contenziose avvalendosi delle norme poste dal
legislativo, senza potervi derogare. Ma lo è anche l'esecutivo che,
nel servire interessi pubblici, deve attenersi a norme di legge che
stringono da presso i suoi poteri e dettano precise procedure da
seguire e precisi risultati da raggiungere. L'inosservanza di quelle
norme produce l'invalidità dell'atto amministrativo, accertabile dai
giudici ordinari o da giudici speciali; mentre anche sul terreno
della politica estera non mancano mai del tutto al legislativo i
mezzi per far valere indirettamente, in qualche misura, la sua
volontà.
3. Esempi di esecutivi nell'età liberale
Il modello di divisione dei poteri che abbiamo evocato costituisce
un 'ideal-tipo' di marca weberiana: cioè uno schema di valori e di
principî istituzionali, verso cui più o meno gravitano
nell'Ottocento tutti i maggiori ordinamenti politico-giuridici
dell'Occidente senza peraltro mai incorporarlo in sé perfettamente.
La misura in cui l'incorporazione interviene varia da ordinamento a
ordinamento e in alcuni finisce per essere anche abbastanza
limitata. Inoltre, la divisione liberale dei poteri si veste nei
diversi ordinamenti di forme istituzionali particolari,
differenziabili tra loro per tipi (le distinte, note 'forme di
governo' caratteristiche dell'epoca liberale).
In rapporto a questa complessa fenomenologia varia anche il ruolo
che in ciascun ordinamento svolge in concreto l'esecutivo. Il quale
in qualche caso si accosta molto o addirittura moltissimo all'ideale
di quel potere strettamente subordinato al legislativo che abbiamo
tratteggiato; in altri casi, pur rimanendo soggetto alla legge,
conserva o acquisisce invece una sua rilevante autonomia.
Soggetto alla legge, ma pure dotato di una forte, indipendente
iniziativa e di vasti poteri, non solo nel campo della politica
estera ma anche in quello della politica interna, è l'esecutivo
delle cosiddette monarchie limitate o 'costituzionali pure', quali
esistono, per esempio, nella Gran Bretagna del primo Settecento e
nella Francia del periodo della Restaurazione. Qui l'esecutivo è
rappresentato da un monarca che, titolare della funzione esecutiva,
deve agire con la controfirma di ministri, i quali però egli nomina
e revoca a sua incondizionata volontà. Le profonde aderenze di cui
la Corona dispone nella società civile, e le sue ampie prerogative
che la legge non ha ancora sistematicamente ristrette e
disciplinate, le consentono di condurre una politica propria, spesso
in controtendenza rispetto a quella del legislativo e capace di
tenerle testa.
Analoga situazione si riscontra - quando ormai i tempi non
sembrerebbero più propizi e altrove l'era delle monarchie organi di
politica attiva è già finita - nei grandi ordinamenti d'area
germanica nella seconda metà dell'Ottocento e fino alla prima guerra
mondiale (gli Imperi d'Austria-Ungheria e di Germania).
Molto più vicini al modello ideale sono in genere gli esecutivi
delle forme di 'governo parlamentare', il cui prototipo è offerto
dalla storia costituzionale inglese tra il secondo Settecento e il
primo Ottocento. Il prototipo ebbe peraltro ben presto svariate
imitazioni altrove (più o meno felici). Sono l''esecutivo', in
queste 'forme di governo', i ministri: i quali sulla carta
continuano a essere nominati da un monarca (o da un presidente della
Repubblica) ma, dovendo godere della 'fiducia' del legislativo (il
parlamento), sono in sostanza scelti (e all'occorrenza licenziati)
da quest'ultimo. Il capo dello Stato è in genere divenuto, in tale
quadro, un mero organo di garanzia costituzionale, politicamente
'neutralizzato'.
La realizzazione più compiuta e davvero esemplare della forma di
governo parlamentare, e insieme dello schema liberale della
divisione dei poteri, si ebbe nella Gran Bretagna della regina
Vittoria, a metà del XIX secolo. Ivi l'esecutivo (il 'gabinetto')
poté venir a ragione riguardato addirittura come una delle molte
'commissioni' (committees) che il Parlamento organizzava nel suo
seno: come la "commissione parlamentare deputata all'esecuzione" (v.
Bagehot, 1867). D'altra parte, in conformità al modello, minimi
erano allora i poteri discrezionali di interferenza sui diritti
soggettivi dei singoli posseduti dall'esecutivo: un grande giurista
dell'epoca - Dicey (v., 1885) - giunse persino a sostenere che
nell'ordinamento non ve n'era traccia, e che ciò rappresentava la
caratteristica della rule of law, gloria della costituzione inglese.
Un'altra, sia pur diversa e meno rigorosa versione dell'esecutivo
quale longa manus del parlamento e genuino 'esecutore', fu
sperimentata nella Terza Repubblica francese.
Minore subordinazione al parlamento può riscontrarsi nell'esecutivo
delle forme di governo repubblicano-presidenziali proprie
dell'epoca. In proposito occorre peraltro fare una distinzione.
Negli ordinamenti di debolissimo impianto liberale (come quelli
sudamericani) è la stessa divisione dei poteri che spesso vacilla, e
in quei casi il presidenzialismo si converte non di rado in aperta
dittatura. Negli Stati Uniti - unico serio esempio del tipo - le
cose vanno altrimenti. Negli ultimi decenni dell'Ottocento, eccetto
che nei pochi e brevi periodi di guerra o di emergenza, il
presidente non è per nulla il protagonista della politica. Chi
decide veramente è il Congresso, e il presidente, sulla scia delle
decisioni di quello, 'esegue'. Tanto è vero che, verso la fine del
secolo, Wilson (il futuro presidente) potrà definire la forma di
governo americana, che gli europei già chiamavano presidenziale,
"governo del Congresso". Lo studioso della politica, operante sul
luogo, aveva una più penetrante percezione della realtà del sistema:
il quale rispondeva anch'esso, in sostanza, alle esigenze della
tipica divisione liberale dei poteri.
4. Le democrazie del XX secolo e la conversione dell'esecutivo in
'potere governante' o 'governo'
Al fine di ricevere un'applicazione anche solo parziale - quale
sovente ebbe negli ordinamenti ottocenteschi - l'ideale liberale
della divisione dei poteri abbisognava però dell'esistenza di un
presupposto per essa indispensabile: che lo Stato nei suoi rapporti
con la società civile non fosse uno Stato 'interventista', che
rimanesse uno Stato 'piccolo'. Tale esso rimase in pratica in tutto
l'Occidente fin verso l'inizio del Novecento. Poi i suoi rapporti
con la società civile mutarono e in questo secolo, più o meno
dappertutto, la sua intromissione in varia guisa nella vita della
società e nel mercato ha prodotto una sua metamorfosi interna e ha
fatto nascere lo Stato 'sociale'.
A torto si è negato a volte che sia possibile identificare un tipo
di Stato 'sociale', dotato di un suo distinto sistema di valori e di
una sua intrinseca logica. Esso in verità esiste e si colloca a
mezzo tra il tipo di Stato liberale e il tipo di Stato socialista:
uno Stato disposto a correggere sistematicamente la dinamica
spontanea della società e del mercato per fini di sviluppo economico
e per fini di equità e di eguaglianza, ma senza giungere alla
soppressione, e nemmeno a una compressione avvilitrice,
dell'iniziativa privata. Altresì a torto si è voluto a volte
classificare il tipo dello Stato contemporaneo come Stato
'pluriclasse', in contrapposizione a quello liberale ottocentesco,
'monoclasse' per natura. Le due qualifiche potrebbero al massimo
andar bene per l'Europa, dove il suffragio universale fu introdotto
solo a partire da circa cent'anni fa. Ma gli Stati Uniti conobbero
il suffragio maschile fin dal periodo jacksoniano (quello femminile
risale al 1920) e restarono ciò nondimeno uno Stato liberale fino al
1937. La verità è che alle origini dell'odierno Stato
'interventista', che ha soppiantato quello liberale, stanno
piuttosto due altri fattori: l'industrializzazione integrale dei
processi di produzione della ricchezza, col congiunto diffondersi di
un alto grado di benessere che esige protezione, e la ripresa in
forza di sentimenti di solidarietà, dopo un periodo - l'Ottocento -
di intenso individualismo.
Che lo Stato 'interventista' e 'sociale' sia un tipo a parte,
distinto in particolare dallo Stato liberale, è confermato tra
l'altro proprio dall'abbandono, negli ordinamenti del nostro secolo,
dell'ideale liberale della divisione dei poteri. Non è che si sia
rinunciato senz'altro alla divisione dei poteri come tale (questa
rinuncia appartiene solo al modello dello Stato comunista nato dalla
Rivoluzione sovietica del 1917, oltre che a quello dei regimi
fascisti). Ma l'ideal-tipo della divisione dei poteri su cui
tendenzialmente si orientano le costituzioni occidentali dei nostri
giorni è una nuova e diversa cosa. È nient'altro che la necessaria
risposta, in termini di organizzazione dello Stato apparato, alle
esigenze dell'attuale, ampio 'interventismo' statale.
Nello schema liberale ideale la legislazione avrebbe per lo più
dovuto nascere in seno al legislativo, per iniziativa dei suoi
membri, o avrebbe dovuto almeno trovarvi una meditata elaborazione.
La legislazione nuova avrebbe dovuto essere rara e rare le norme
stabilite da una fonte diversa dalla legge. Tutto ciò è di fatto
incompatibile con i bisogni di uno Stato 'interventista', che deve
per necessità attuare i suoi interventi attraverso un flusso ampio e
continuo di nuova normazione. La quale, per la sua varietà e mole,
non può più passare tutta attraverso atti del legislativo e deve
venir largamente decentrata: occorre farne delega all'organo supremo
dell'esecutivo ma anche, in larga misura, a organi più o meno
distaccati e autonomi della pubblica amministrazione.
Inoltre, la normazione più importante, per cui si richiede ancora la
forma della legge, non può più venir affidata alla saltuaria
iniziativa dei parlamentari, ma deve nascere da un programma
organico, che assicuri la coerenza e l'efficacia degli interventi,
nonché, auspicabilmente, la loro compatibilità complessiva con gli
equilibri del sistema finanziario pubblico e dell'economia. Il
compito di formulare e di tradurre in atto un tale organico
programma non può in pratica venir assolto da altri che non sia il
vertice dell'esecutivo. Al quale occorre sia garantita una
prolungata, pluriennale stabilità e la capacità di ottenere dal
legislativo, almeno in linea di massima, la traduzione in legge di
tutte le misure del suo programma. Solo così diviene possibile per
il corpo elettorale (in regime di democrazia ormai piena e sovrana)
valutare a intervalli regolari la bontà e l'efficacia dei piani di
intervento e confermarli, ovvero deciderne la sostituzione con
altri.
Anche la pubblica amministrazione dell'età liberale deve mutar volto
nello Stato interventista. Non solo le esigenze degli interventi
impongono uno spettacolare dilatarsi delle dimensioni della
burocrazia.
L'articolazione interna dell'amministrazione deve complicarsi,
creando tra l'altro isole o settori slegati da una rigida
subordinazione gerarchica all'esecutivo. Né si può più perseguire
l'obiettivo liberale di ridurre al minimo i poteri amministrativi
discrezionali. Questi vanno anzi allargati, almeno là dove sono in
gioco solo rapporti economici, mentre all'amministrazione sarà dato
di curare gli interessi che le sono affidati - in misura crescente -
anche attraverso strumenti di diritto privato.L'interventismo dello
Stato genera esigenze di mutamento anche nel giudiziario. Molte
situazioni contenziose (la cui massa è ormai schiacciante) trovano
una soluzione quantomeno in prima istanza in organi amministrativi.
A fronte di un sistema normativo scaturente da molteplici fonti e in
continuo, rapido movimento, il compito del giudiziario non può più
ridursi a un'applicazione logico-meccanica delle norme, ma include
operazioni di sistemazione e adattamento, frutto, almeno in parte,
di autonoma creatività.
Dal quadro offerto balza agli occhi che nella nuova divisione dei
poteri è superata e abbandonata la distribuzione tendenzialmente
esclusiva fra i tre poteri tradizionali delle funzioni che il
modello liberale considerava fondamentali. Balza anche agli occhi
che i poteri non possono più propriamente essere solo tre. La
pubblica amministrazione acquista una parziale indipendenza da
quell'esecutivo sotto il cui assoluto controllo una volta si
trovava. Si aggiunga l'introduzione pressoché generalizzata di corti
costituzionali che garantiscono l'uniforme rispetto di alcuni valori
supremi messi in pericolo dalla mobilità del sistema normativo.
Balza infine agli occhi che la funzione e il ruolo essenziali
assegnati ai poteri all'interno dello Stato apparato vanno
seriamente ridefiniti in termini teorici rispetto alla definizione
che ne dava il modello liberale.
Nello Stato interventista compete oggi infatti al legislativo non di
esercitare l'attività normativa (che gli è in realtà largamente
sfuggita di mano), ma di esercitare il controllo sull'indirizzo
politico dell'esecutivo, per convalidarlo solennemente o, in via
eccezionale, per contrastarlo. Al giudiziario spetta non tanto la
decisione sulle situazioni contenziose (su cui ha perso
l'esclusiva), quanto dare almeno in ultima istanza l'imparziale
garanzia della corretta applicazione del sistema normativo (al cui
sviluppo contribuisce).
Forse la trasformazione di ruolo più imponente è però quella che ha
coinvolto l'esecutivo. Nello Stato interventista ben funzionante
esso funge veramente da 'potere governante'. Gli spetta di imprimere
l'indirizzo fondamentale al sistema politico-giuridico in movimento
e di assicurarne la 'governabilità', ossia la coerenza ed efficienza
del movimento. Stabile nella posizione istituzionale che gli è
assegnata, esso detta il programma e fa approvare la legislazione
principale onde si rinnova il sistema. È il più importante autore,
mediante regolamenti, della normazione secondaria. Sta tuttora a
capo di un'amministrazione che, pur nei suoi molteplici snodi, è
legata per tanti aspetti alle sue direttive. È inutile dire che
conserva, anzi addirittura rafforza, il tradizionale dominio nel
campo della politica estera. Si tratta dunque di un potere che può
venir considerato, in certo senso, il centro, il vero 'motore' della
macchina statale. Rispetto all'azione che esso vi svolge, le azioni
degli altri poteri (il legislativo, la magistratura costituzionale
e, a loro modo, il giudiziario e l'amministrazione) assumono ora la
funzione di 'freni': freni, si intende, operanti ciascuno in un
contesto particolare e con mezzi diversi. È comprensibile dunque che
nel linguaggio delle recenti costituzioni europeo-continentali si
sia scelto di chiamare 'governo' questo 'motore' della macchina
statale, per designare l'organo specifico a cui esse attribuiscono
tendenzialmente la suprema potestà di guida. Chiamare a tutt'oggi un
tale potere governante (come fanno molti studiosi, specialmente
anglosassoni) semplicemente 'l'esecutivo' può essere solo un vezzo
letterario, a fronte della nuova realtà. Oppure è il tacito,
comprensibile omaggio a una tradizione passata, a suo modo gloriosa.
5. Esempi di governi nelle democrazie contemporanee
Le linee che abbiamo tracciate della divisione dei poteri succeduta
a quella liberale non sono il prodotto di una mera riflessione su
come l'apparato autoritario di uno Stato 'interventista' e 'sociale'
dovrebbe organizzarsi in astratto. Esse rispecchiano, invece,
tendenze di fondo nell'evoluzione di tutti i maggiori ordinamenti
occidentali del nostro secolo (o quantomeno di quelli che appaiono
funzionare al meglio). Sono un condensato di fatti storici, appena
semplificati ad opera dell'analisi comparativa e razionalizzatrice.
Per ciò che concerne la trasformazione dell'esecutivo in 'potere
governante', la comparazione politico-giuridica mette in luce le
maniere diverse in cui, in ordinamenti con forme di governo
differenti, quella trasformazione, a dispetto degli ostacoli, è
riuscita a realizzarsi.
Le varie forme di governo conosciute in epoca liberale sono sovente
restate le stesse, almeno in superficie. Il 'centralismo' del
legislativo che tendenzialmente le caratterizzava ha però dato per
lo più luogo a un nuovo centralismo: quello del potere governante,
che si è affermato per vie spesso inattese.In Gran Bretagna il puro
parlamentarismo vittoriano è stato nel Novecento scalzato, di fatto,
dal 'regime del primo ministro': una forma - come è stato
icasticamente detto - di 'monarchia repubblicana'. A produrla sono
bastati (assieme al suffragio universale) un solido bipartitismo di
base e una legge elettorale che lo rende quasi inscalfibile (grazie
ai collegi uninominali e al turno unico delle elezioni), cui si
aggiunge una inflessibile disciplina di partito. L'elezione della
Camera dei Comuni si risolve da tempo nella semplice scelta popolare
tra due leaders. Il vincitore guida la nazione per un quinquennio,
seguito fedelmente dalla sua maggioranza parlamentare che ne
convalida in legge il programma di governo. Si dice, in proposito,
che in Gran Bretagna il Parlamento sia ormai ridotto a una 'camera
notarile di registrazione'; il voto di 'sfiducia' vi rimane una
possibilità, ma solo virtuale e di fatto mai utilizzata. Il
gabinetto e la pubblica amministrazione beneficiano inoltre di vasti
poteri di 'legislazione delegata' e di attività amministrativa
discrezionale.
In Germania il Grundgesetz del 1949 assegna al Cancelliere il potere
di dettare l'indirizzo politico e di comporre a suo giudizio il
governo. La nomina del Cancelliere non è un così immediato riflesso
del voto popolare per l'elezione del legislativo come in Gran
Bretagna, perché il sistema dei partiti non è rigidamente binario e
la legge elettorale è meno costrittiva. Tuttavia, se il Cancelliere
ha dietro di sé una coalizione di partiti che lo sostiene, questa è
abbastanza stabile, di solito, per assicurargli il potere per una
intera legislatura e per permettergli di governare in relativa
autonomia. Il governo è in genere energico, in quanto riesce ad
adeguare al suo volere legislazione e amministrazione. La
sostituzione del Cancelliere in corso di legislatura è fortemente
scoraggiata e resa difficile dall'obbligo del voto di sfiducia
'costruttivo'.
In Francia il passaggio dall'esecutivo al potere governante è stato
tormentato e per certi aspetti drammatico. Esso non si era ancora
verificato sotto la Quarta Repubblica. La Quinta Repubblica l'ha
realizzato, adottando la forma del 'semipresidenzialismo'. Il
presidente della Repubblica viene eletto per voto popolare diretto.
La sua elezione di solito trascina con sé quella di una maggioranza
d'eguale colore politico all'Assemblea Nazionale; ciò consente in
genere al presidente di esercitare di fatto - e con grande efficacia
- il potere di guida dello Stato sotto tutti i rispetti.
Formalmente, tuttavia, il primo ministro, nominato dal presidente, è
il titolare per Costituzione di molte parti della funzione
governativa e può venir dismesso da un voto di censura
dell'Assemblea. Ciò implica che, occasionalmente, se presidente e
Assemblea sono di colore politico diverso, il potere governante si
scinda, la funzione di indirizzo si divida tra presidente e primo
ministro, e la governabilità del sistema ne soffra un poco. Ma il
fenomeno accade per la verità di rado. Al potere governante (ossia
al presidente e al primo ministro) è conferita poi istituzionalmente
una larghissima porzione della potestà normativa, poiché la
Costituzione limita la competenza della legge fatta dal Parlamento a
un gruppo ristretto di materie e rimette tutte le altre al
regolamento governativo.
Nel nostro secolo, finalmente, il regime formalmente 'presidenziale'
degli Stati Uniti diviene presidenziale anche nei fatti. A partire
dagli anni trenta e col New Deal, il presidente diventa l'iniziatore
della gran parte della legislazione federale che introduce e
realizza, anche in America, lo Stato interventista. Al contempo,
vasti poteri normativi gli vengono delegati per legge (in parallelo
alla delegazione di analoghi poteri a molteplici 'agenzie
indipendenti', una branca semiautonoma della pubblica
amministrazione). Nel campo della politica estera finisce
l'isolazionismo tradizionale degli Stati Uniti e il presidente
diviene l'organo quotidianamente attivo di una superpotenza da cui
dipendono i destini del mondo: un arbitro che ne decide le scelte
con tale grado di libertà da suggerire a taluni la tesi che si è
ormai in presenza di una 'presidenza imperiale'. La qualifica è
senza dubbio eccessiva, anche se l'enorme crescita in statura
dell'istituto in tempi recenti è fuori questione. Va anzi detto che,
nel confronto con gli ordinamenti poco sopra nominati, quello degli
Stati Uniti conosce un legislativo che ha perso meno delle sue
antiche prerogative liberali: il Congresso, più di quegli altri
parlamenti, tende tuttora a correggere o addirittura talvolta a
bloccare i programmi politici del suo potere governante. Il
presidente, in altre parole, sta al centro del sistema, ma i 'freni'
applicabili alla spinta di quel 'motore' sono di notevolissima
forza.
6. L'attuale crisi dello Stato e l'esigenza di un forte 'potere
governante'
Sul finire del XX secolo molti danno ormai per esaurita la funzione
dello Stato come entità politico-giuridica capace di affermare una
sua coerente, imperativa volontà, a esclusione d'altre, sul
territorio soggetto alla sua giurisdizione. V'è del vero in questa
valutazione.
La tradizionale sovranità dello Stato subisce oggi una prima
limitazione per il fatto che operano dentro il suo ordinamento, e in
virtù di una regola che ormai molte costituzioni fanno propria, i
principî del diritto internazionale generale ai quali la legge
ordinaria non può derogare. Molto più intensa e pervadente è poi la
limitazione della sovranità statale quando lo Stato entra a far
parte di unioni sovranazionali particolari, il cui sistema normativo
esso riconosce dotato di un grado di validità superiore. È il caso
dell'Italia rispetto alla Comunità Europea, il cui diritto ha la
precedenza, per gli stessi giudici italiani, sul diritto nazionale.
Va anche menzionata la ormai diffusissima tendenza degli Stati a
'federarsi' al proprio interno: cioè a riconoscere competenze
crescenti, e non di rado esclusive, a entità territoriali regionali;
competenze che si traducono in sostanza in permanenti, forti
diminuzioni del potere d'imperio dell'ente politico centrale.In
questi fenomeni il depotenziamento della sovranità statale è
collegato a formali innovazioni, rispetto al passato, degli assetti
costituzionali.
Ma non meno rilevanti in ordine alla perdita di quota della libera
capacità decisionale dello Stato sono altri due fenomeni solo in
parte registrati dalle norme del diritto. La grande espansione della
pubblica amministrazione ha generato, oltre alle parziali autonomie
che l'ordinamento esplicitamente riconosce, centri di potere che è
molto difficile ricondurre a strumenti di fedele attuazione di una
volontà formatasi al centro. Quella stessa volontà poi, nella sua
fase di formazione, spesso non è più il prodotto di deliberazioni
prese in considerazione degli interessi generali in gioco. È invece
in misura crescente il risultato delle pressioni esercitate da
gruppi sociali organizzati per la difesa di interessi settoriali e
frazionari: pressioni dal cui casuale comporsi scaturiscono le
leggi. Quando ciò accade, hanno deciso i gruppi - non gli organi
statali costituzionali - e lo specifico contributo dell'istituzione
'Stato' alla vita della collettività viene in pratica vanificato.
Per non dire poi delle forze economiche internazionali, che sfuggono
largamente a ogni controllo dello Stato, tendente invano ad
imbrigliarle.
L'evoluzione degli aspetti politico-giuridici sembra dunque aver
dato vita, nel mondo attuale, a un pluralismo istituzionale e
sociale simile a quello che vigeva nell'Europa del Medioevo, dove,
come si sa, non v'era spazio per lo Stato inteso nel senso moderno
del termine. Quantunque il paragone non sia interamente infondato,
v'è in esso non poca esagerazione. Pur nel quadro pluralistico che
ne comprime più che in passato il ruolo e il potere, lo Stato
nazionale ha ancora oggi una funzione da svolgere. Nessun'altra
istituzione può, nella sfera rimasta di sua competenza, ora e
presumibilmente per il prossimo futuro, sostituirsi a esso. Spetta
allo Stato, sul fronte esterno, la conduzione di una politica
efficiente di relazioni internazionali e di difesa, per tutto ciò
cui non provvedano - e in genere non è poco - superiori organismi
internazionali. Spetta allo Stato, sul fronte interno, soprattutto
il governo sapiente di un'economia di solito indocile ad adeguarsi
ai canoni e ai valori del modello 'sociale'.
Detto questo, resta vero che il depotenziamento della sovranità e
gli ostacoli maggiori che si frappongono al corretto formarsi e
realizzarsi della volontà dello Stato rendono più difficile, e per
certi rispetti problematico, l'assolvimento dei compiti che ancora
gli sono affidati.
Ma, allora, proprio da queste considerazioni emergono ragioni
aggiuntive idonee a spiegare perché, nel nostro secolo, l'esecutivo
si sia trasformato in potere governante. E, per effetto di esse, si
scorge altresì meglio una verità pratica di grande importanza: solo
assicurando al potere governante, al governo, una capacità piena di
decisione e di guida si può sperare che i compiti dello Stato
contemporaneo vengano assolti.
Dominare una burocrazia sovraestesa e ridurre l'eccesso delle
domande sociali dentro i limiti di compatibilità con gli equilibri
dell'economia sono obiettivi che richiedono un forte potere di
decisione centrale, poggiante su una sicura base di legittimazione
popolare diretta e unitaria. Così come lo richiedono le difficili
scelte di una politica estera caratterizzata da problemi di
cooperazione e da sfide di concorrenza (tra le quali quelle ardue
derivanti dalla cosiddetta 'mondializzazione' dell'economia e
dall'incombere di potentati economici privati multinazionali). A
tutto ciò non possono bastare le mediazioni e le transazioni che
caratterizzavano, e tuttora spesso caratterizzano, la vita interna
dei parlamenti. Nel contesto di uno Stato 'piccolo' questi ultimi un
tempo trattenevano con le loro complicate procedure le spinte verso
'interventi' statali non strettamente necessari e verso nuove spese.
Oggi sono diventati tendenzialmente veicolo di quelle spinte, camere
di rappresentanza di interessi frazionari, organi inclini a
squilibrare i bilanci (almeno finché una serie di congegni,
istituzionali e non, li pieghi a collaborare con la politica di un
governo effettivamente capace di decidere gli indirizzi da seguire).
Oggi solo la presenza di un effettivo potere governante può
garantire che lo Stato non scompaia - secondo le scettiche
previsioni di molti - nelle pieghe di un pluralismo delle
istituzioni, dei gruppi e delle forze economiche, che minaccia di
soffocare del tutto la sua residua sovranità.
Non si tratta di auspicare un potere governante il cui comando non
incontri limiti e freni. Questi sono richiesti sia dai principî
costitutivi sostanziali dello Stato sociale sia, in particolare, dal
modello di divisione dei poteri che è correlativo a quel tipo di
Stato. Si tratta però di aver piena consapevolezza dell'esigenza
che, in uno Stato occidentale dei nostri giorni, un potere
governante deve esserci, e deve essere fornito di tutti gli
strumenti necessari a permettergli l'esercizio della sua funzione di
guida.
A offuscare questa consapevolezza operano di solito due
atteggiamenti dai quali bisogna guardarsi. Il primo è il nostalgico
rimpianto per una centralità del parlamento, che segnò un'epoca
importante nella storia del costituzionalismo occidentale ma che ora
non può più servire. Il secondo nasce dalla convinzione pessimistica
che non possa pensarsi un modello di Stato sociale dotato di una sua
propria logica e che comunque il proliferare disarticolato di
amministrazioni pubbliche e di gruppi sociali ed economici riottosi,
a cui da tempo assistiamo, sia un fenomeno non più assoggettabile a
un ordine razionale.
Soltanto al fine di sottolineare per contrasto la non illimitatezza
dei pur vasti poteri che si debbono attribuire nel modello 'sociale'
al potere governante, ricordiamo rapidamente le strutture di due
recenti diversi modelli in cui viceversa non esistevano
assolutamente freni interni capaci di contenere l'esercizio
arbitrario del potere di imperio dello Stato.
Nello Stato nazionalsocialista - che spinse all'estremo taluni
caratteri già prefigurati dal fascismo italiano - il capo dello
Stato, o Führer, era insieme supremo legislatore, esecutore e
giudice del suo popolo. Le articolazioni tradizionali dell'apparato
statale restavano meri, docili strumenti nelle sue mani, utili per
la più spedita attuazione della sua volontà e all'occorrenza
scavalcabili dal comando diretto proveniente da lui. Il modello
assegnava al Führer pieno dominio sui destini delle persone, essendo
state soppresse tutte le garanzie di libertà per l'individuo in
vista dell'affermazione della potenza del popolo (che doveva
mantenersi razzialmente puro) nell'agone politico internazionale,
ove in eterno si lotta per l'egemonia o, in alternativa, per la
sopravvivenza.
A sua volta il modello del socialismo sovietico - nato in Russia, ma
poi esportato con varianti presso altri popoli - muoveva
dall'esplicito, orgoglioso ripudio dell'idea stessa della divisione
dei poteri in quanto idea 'borghese'. Secondo il modello, tutte le
articolazioni dello Stato apparato dovrebbero far capo a un Soviet
Supremo o Assemblea Nazionale eletta dal popolo, che può in ogni
momento revocarne i vari membri. Tale Assemblea, in quanto
depositaria della sovranità popolare, potrebbe sempre disporre di
quelle articolazioni - legislative subordinate,
esecutivo-amministrative e giudiziarie - per piegarle, se occorre,
sia nella loro composizione sia nelle loro concrete attività, al
servizio degli interessi superiori che essa sola sa interpretare. In
tal modo l'Assemblea possiederebbe poteri sovrani in tutte le
direzioni e illimitati. In realtà, come è noto, si trattava di una
finzione. Dietro l'intera organizzazione statale stava il Partito
comunista, padrone totale di tutte le strutture dello Stato e vero e
unico decisore, fuori di qualsiasi vincolo di legge, di ogni
questione che a suo giudizio avesse rilievo politico. Il governo
effettivo - un governo non ostacolato da freni di qualsiasi tipo -
si incarnava in lui. Il modello assegnava al Partito - organizzato
come un corpo militare, con poteri dittatoriali al vertice - il
compito di trasformare la società russa, e via via le altre di tutto
il mondo, in società senza appropriazione privata di ricchezza e
senza classi, facendo così nascere l'uomo nuovo e facendo attingere
all'umanità intera il regno della perfetta e definitiva libertà.
Come è agevole capire, i fini dello Stato nel modello 'sociale' sono
differenti: al loro centro sta il benessere dell'individuo concreto,
con i suoi diritti fondamentali più o meno regolabili ma mai
sopprimibili per intero in vista di disumani sogni di egemonia
nazionale o di utopici, fanatici sogni di futura redenzione
universale. In conformità a ciò i molti poteri di cui deve disporre
in esso il potere governante non possono in alcun modo paragonarsi
allo sconfinato arbitrio del governo postulato da quegli altri due
modelli di Stato, protagonisti anch'essi, alla loro maniera (una
maniera tragica), della storia politica mondiale del XX secolo.
7. Il caso anomalo dell'ordinamento costituzionale italiano
Nella parabola storica del costituzionalismo occidentale, che
conduce, come si è visto, dall'esecutivo al potere governante, non
si iscrivono finora le vicende dello Stato italiano.
Nell'Italia monarchico-liberale l'esecutivo, in regime di 'governo
parlamentare', rientrava più o meno nelle regole (anche se di certo
non assurse mai alla perfezione liberale dell'esecutivo della Gran
Bretagna vittoriana). Superata l'esperienza fascista, caratterizzata
dalla assenza di libertà, la Costituzione democratica del 1948 e gli
eventi storico-politici successivi non seppero produrre un potere
governante.
La Costituzione contempla l'organo 'governo' (art. 92), che deve
godere della fiducia delle Camere (art. 94). Stabilisce poi che in
seno al governo il presidente del Consiglio definisce l'indirizzo
politico e, nei confronti dei ministri, garantisce l'unità
dell'indirizzo politico e amministrativo (art. 95). Senonché le
compagini governative, che si sono appoggiate sempre a coalizioni di
partiti, hanno avuto in genere una vita breve (in media, nell'arco
di oltre quarant'anni, una durata di meno di un anno). Sia per la
caducità dei ministeri, sia per i continui, latenti contrasti tra i
partiti della coalizione, almeno a partire dagli anni sessanta può
dirsi che nessun governo sia riuscito a impostare e a mandare a
effetto un programma suo, precisamente individuato. Di fatto, per
ciò che concerne la conduzione dell'economia, la carenza di una
ferma guida centrale si è tradotta, sul lungo periodo,
nell'incapacità dello Stato di selezionare le domande sociali e di
contenerne l'eccesso, e nella conseguente necessità di affidarsi a
una politica monetaria inflazionistica e a bilanci in crescente
disavanzo.
Le cause del mancato sviluppo di un potere governante
nell'ordinamento italiano sono complesse. Non si deve certo pensare
a un ritardo nell'affermarsi in Italia del modello 'interventista' e
'sociale': ché, anzi, sotto questo rispetto il nostro Stato
rappresenta, nel mondo occidentale, una delle versioni del modello
più intensamente caratterizzate da una larga componente
pubblicistica. Il fattore di maggior peso fu, probabilmente, la
presenza nel paese di un forte partito comunista, radicale
contestatore del capitalismo democratico. L'esigenza di escluderlo
da ogni possibile combinazione di governo, per non mettere in
pericolo principî fondamentali della Costituzione, rese impossibile
qualsiasi genuina alternanza di forze politiche al potere, e
costrinse gli altri partiti a coalizzarsi più o meno
permanentemente, pur perseguendo indirizzi politici diversi. Di qui
l'instabilità e la debolezza dei governi e il trasferirsi degli
effettivi poteri di decisione dalle strutture costituzionali dello
Stato alle segreterie dei partiti. Di qui anche, gradualmente,
l'estendersi di una indebita influenza dei partiti negli organi
della pubblica amministrazione e nei gangli del settore economico
controllato dallo Stato. Per non escludere del tutto l'opposizione
comunista dalla vita dello Stato, non si addivenne nemmeno a
quell'ampio trasferimento di poteri normativi dal Parlamento al
governo che è tipico della nuova divisione dei poteri. La
mini-legislazione continuò a essere fatta in Parlamento con
aggravamento del bilancio dello Stato e con altri effetti negativi.
La caduta del mito comunista, con le ripercussioni determinatesi
nella politica italiana, ha eliminato il pericolo di cui s'è detto e
dunque dovrebbe aver aperto la strada per lo sviluppo, anche in
Italia, di un effettivo potere governante, in conformità al modello
che ormai prevale in tutti gli altri Stati sociali, evoluti e ben
funzionanti. È questo uno degli argomenti che si agitano nel
vigoroso dibattito attorno alle riforme costituzionali a cui si
assiste in Italia agli inizi degli anni novanta.
Le esperienze straniere dimostrano che diversi sono i modi con i
quali si può pervenire alla formazione di un potere governante: è
dunque naturale che, essendo oggi l'obiettivo praticamente fuori
discussione (tutti o quasi tutti concordano ormai su di esso), la
disputa rimanga invece fervida quanto alle forme istituzionali che
meglio servirebbero per attuarlo.