Diritti naturali

www.treccani.it


Diritti dei quali ogni individuo è titolare fin dalla nascita, che trovano la loro legittimazione non nel fatto di essere riconosciuti e accettati da un governo che li concede, ma nel fatto di essere costitutivi della natura stessa dell'uomo (per es. diritto alla vita, alla libertà personale). Ai governi spetta il compito di dare veste giuridica a tali diritti per garantirne l'effettivo rispetto.

Giusnaturalismo


Dizionario di filosofia (2009)

 Der. della locuz. lat. ius naturale «diritto naturale».

Corrente filosofico-giuridica fondata sul presupposto dell’esistenza di un diritto naturale, sulla cui struttura dovranno essere modellati i diversi diritti positivi. In partic., il termine si riferisce alla corrente di pensiero avviata da Althusius e Grozio all’inizio del Seicento, sviluppata da Hobbes, Pufendorf e Thomasius, e assimilata dal contrattualismo di Locke e di Rousseau e dal razionalismo kantiano. Con questo specifico significato storico il termine viene spesso utilizzato.

Per g. si intende, quindi, non già una singola concezione del diritto, quanto piuttosto una molteplicità di dottrine, spesso in contrasto tra loro. Tali diverse dottrine hanno tuttavia in comune la duplice tesi secondo cui: (1) accanto al diritto ‘positivo’, cioè posto, creato dagli uomini, esiste altresì un diritto non positivo, implicito nella ‘natura’ (in un qualche senso di questa parola: natura come creazione divina, natura come cosmo, natura razionale specificamente umana); (2) il diritto naturale è un diritto ‘giusto’, assiologicamente superiore a quello positivo, di modo che il diritto positivo merita obbedienza se, e soltanto se, è conforme al diritto naturale.

La concezione giusnaturalistica presuppone che vi siano norme, le quali non dipendono dalla volontà, ma semplicemente dalla conoscenza: nel senso che le norme del diritto naturale possono essere ricavate dalla conoscenza della natura, sono quindi frutto di conoscenza, non di volontà. Di conseguenza, l’esistenza delle norme è indipendente da atti normativi umani, ossia da atti di volontà. Tale concezione presuppone il rifiuto della ‘legge di Hume’, in virtù della quale non si possono inferire conclusioni normative da premesse conoscitive, non si può cioè ricavare il dover essere dall’essere.

Al g. si oppone il positivismo giuridico o giuspositivismo, cioè la concezione secondo la quale non esiste un diritto che non sia ‘positivo’, prodotto dagli uomini; parlando di diritto, quindi, si fa riferimento soltanto a norme create dagli uomini.

La dottrina del diritto naturale nell’antichità e nel Medioevo.

L’idea di un diritto originario comune all’umanità intera, rispetto al quale i differenti diritti positivi rappresentano una derivazione (e in certi casi una deviazione), risale all’antichità greca e romana, e si riscontra durante il Medioevo fino alla tarda scolastica. Nel mondo antico, simbolo della rivendicazione dell’esistenza e della superiorità di un diritto naturale rispetto alle norme poste dagli uomini è Antigone, che nella tragedia di Sofocle si oppone alla decisione del re di Tebe e dà sepoltura al fratello in nome di una legge di giustizia non scritta, ma più alta. In un ambito più specificamente filosofico, i sofisti distinguono tra giusto per convenzione e giusto per natura, ma intendono quest’ultimo in modi diversi: per Callicle è la legge del più forte; per Ippia, Antifonte e Alcidamante è ciò che è conforme alla natura razionale degli uomini, di cui proclamano la naturale eguaglianza.

Aristotele distingue tra diritto naturale e diritto legale (o positivo): il primo è quello che è in vigore dappertutto (ha validità universale, indipendentemente dai luoghi) e non dipende dalle nostre opinioni (è sottratto al giudizio degli uomini); il secondo è quello che riguarda azioni originariamente indifferenti, ma che, una volta poste, diventano obbligatorie (Etica nicomachea, 1134 b). Quindi il primo indica azioni buone o cattive in sé, e dunque vincolanti; il secondo riguarda le azioni libere (per es., sacrificare a Zeus una capra o due pecore), la cui regolamentazione è affidata al diritto positivo prodotto dai governanti.

Il concetto di diritto naturale è però sviluppato soprattutto dagli stoici, per i quali la natura è retta da un’immanente legge razionale (Logos). La loro dottrina fu divulgata da Cicerone in pagine che esercitarono un’influenza enorme. Nel De re publica Cicerone riconosce l’esistenza di una legge vera perché conforme alla ragione, immutabile, universale ed eterna, che l’uomo non può violare se non calpestando la propria natura di essere razionale. Questo passo, ripreso e diffuso da Lattanzio, influenzò profondamente il pensiero cristiano di cultura latina. L’idea di un diritto naturale dettato dalla ragione suscitò però non pochi problemi di ordine teologico (per es., in Agostino) per la difficoltà a far coesistere una legge naturale e una legge rivelata, e perché, ammettendo nell’uomo la presenza di una legge morale autonoma, si poneva un limite alla necessità della grazia per la salvezza.

È con Tommaso d’Aquino che si giunge a una sistemazione definitiva (Summa theologiae, Prima Secundae, q. 90 e segg.). Tommaso distingue tra quattro forme di leggi: aeterna, naturalis, humana e divina. La legge eterna coincide con la ragione di Dio che governa il mondo; la legge naturale è «partecipatio legis aeternae in rationali creatura», è cioè la scintilla di razionalità presente nella mente dell’uomo, il modo in cui l’ordine cosmico si manifesta in quel particolare aspetto che è la razionalità della creatura umana. La legge naturale può essere compendiata in un solo precetto generalissimo da cui discendono tutti gli altri («bene faciendum, male vitandum»). Tutti i particolari precetti che l’uomo deri­va da questo (o per conclusionem, cioè per deduzione logica, o per determinationem, cioè per applicazione agli specifici casi concreti) costituiscono la legge umana («lex humanitus posita»). Un posto a parte ha, infine, la legge divina, cioè rivelata attraverso le Sacre scritture. Tutta la sfera della condotta umana è dunque posta sotto la direzione della legge naturale: se la legge posta dall’uomo discorda da essa «non erit lex, sed legis corruptio» (q. 95). La corrispondenza del diritto positivo al diritto naturale è dunque condizione della sua validità.

Il g. di Tommaso divenne la base del g. cattolico, ed è tuttora al centro della dottrina giuridico-politica cattolica. Il razionalismo del g. cattolico fu fortemente contrastato dalle correnti volontaristiche, e in partic. da Guglielmo di Occam per il quale il diritto naturale è certamente dettato dalla ragione, ma questa è soltanto lo strumento di una notifica con la quale la volontà divina si afferma sull’uomo, e in qualsiasi momento Dio può modificare a suo arbitrio ciò che è giusto; tesi questa poi sviluppata dalla Riforma protestante. Tra volontarismo e razionalismo tentarono una mediazione i teologi giuristi spagnoli della seconda scolastica, tra i quali Fr. Suárez.

La grande stagione del giusnaturalismo moderno.

Nel Seicento l’idea di un diritto naturale si secolarizza, acquistando un significato antiecclesiastico e antiteologico. Traendo forza dalla critica rinascimentale dell’autorità, il g. moderno intende infatti fondare il diritto su basi razionali e immanentistiche, indipendentemente da qualsiasi verità teologica e rivelata. Storicamente l’esigenza di universalità dei giusnaturalisti fu generata, per contrasto, dalle guerre di religione del Cinque e Seicento, che spingevano a cercare nuove basi per la convivenza dei popoli, venuto meno l’universalismo cattolico. Rispetto alla dottrina medievale, inoltre, il g. moderno pone l’accento sull’aspetto soggettivo del diritto naturale, ossia sui diritti innati degli individui.

Caposcuola del g. moderno è considerato l’olandese Grozio che definisce la sua dottrina in polemica contro le ali estreme del calvinismo di impronta rigidamente volontarista (in Olanda, il partito dei gomaristi). Nella sua opera De iure belli ac pacis (1625) Grozio, affrontando il tema del diritto internazionale, cerca il fondamento di un ordine che possa essere riconosciuto come valido da tutti i popoli e permetterne così la coesistenza pacifica, e lo individua nel diritto naturale. Questo consiste nei dettami della retta ragione, la quale ci fa riconoscere se una determinata azione, a seconda che sia o no conforme alla natura razionale, ha in sé la qualità di necessità morale, e quindi deve essere perseguita, o se invece deve essere evitata (I, X, 1). Il diritto naturale, che discende dalla natura razionale e sociale dell’uomo, per la sua validità è indipendente non solo dalla volontà di Dio, ma anche dalla sua esistenza (sarebbe valido «etiam si daremus Deum non esse», Prolegomeni, 11). Questa affermazione (che in realtà riecheggia formule della tarda scolastica) divenne celeberrima e in età illuministica apparve come un annuncio della nuova cultura laica.
Il modello giusnaturalistico.

Tratto caratteristico del g. secentesco è il metodo razionalistico; al di là delle differenze dottrinali, tutti i pensatori condividono l’esigenza di trasformare politica e diritto in una scienza dimostrativa: a tal fine occorre emanciparsi dall’autorità di Aristotele e seguire invece il metodo della scienza. Bisogna dunque prendere a esempio la geometria (cioè partire da assiomi o verità autoevidenti riguardanti l’uomo e le sue necessità fondamentali, e procedere secondo un’ordinata catena di deduzioni), oppure acquisire il metodo analitico-sintetico della fisica. Già Grozio aveva distinto una «via a posteriori», basata sull’esame empirico e sul confronto, e una «via a priori» (De iure belli ac pacis, I, XII, 1), e aveva invitato a seguire l’esempio dei matematici (Prolegomeni, 58); ma è soprattutto Hobbes che nella prefazione al De cive (1642) propone di studiare lo Stato come un orologio, cioè come un meccanismo da smontare nei suoi componenti (gli individui con i loro istinti, in primis quello alla vita) e da ricomporre in una nuova unità (lo Stato ideale). E nel Leviatano (1651) definisce le leggi naturali come «conclusioni o teoremi» tratti dalla ragione in merito a quello che si deve fare o evitare.

Questo programma ha un preciso risvolto polemico, messo bene in luce da Pufendorf, il grande sistematizzatore e divulgatore delle tematiche giusnaturaliste in opere (De iure naturae et gentium, 1672, e De officio hominis et civis, 1673) che ebbero vastissima diffusione: si tratta di rifiutare l’argomento del consensus gentium: Cicerone aveva infatti sostenuto che «In ogni cosa il consenso di tutti i popoli è da considerarsi legge di natura» (Tusculanae disputationes, I, 13-14). Ma il metodo della collazione e del confronto tra le leggi, le abitudini e le credenze dei vari popoli, oltre a essere impraticabile per la casistica infinita da esaminare, porta a relativizzare e non a definire valori assoluti, che possano costituire il fondamento di un’ordinata coesistenza tra uomini e tra popoli. La storia appare, infatti, ai giusnaturalisti non già maestra di vita, bensì teatro della follia degli uomini; nello stesso tempo viene rifiutato il principio d’autorità: non Aristotele, né Cicerone, né la Chiesa, bensì solo la ragione umana può indicare il percorso da seguire. Di conseguenza, anche il modello di Stato che viene elaborato è puramente razionale.

Oltre ad alcuni giuristi filosofi (quali Grozio, Pufendorf, Thomasius, Wolff, Barbeyrac e Burlamaqui), sono giusnaturalisti alcuni tra i massimi pensatori dell’età moderna: Hobbes, Spinoza, Locke, Rousseau (che però sottopone il g. a una serrata critica), Kant. Costoro condividono un modello teorico fondato su tre elementi: lo stato di natura (la condizione prepolitica in cui vivono gli individui, liberi ed eguali, soggetti al solo diritto naturale); il patto, o contratto, come strumento per far sorgere lo Stato (contrattualismo); e lo stato civile o politico, nel quale le leggi civili sostituiscono le leggi naturali, modellandosi su di esse, e vengono fondate le istituzioni giuridico-politiche. Tale modello è fondamentalmente dicotomico: l’uomo vive prima nello stato di natura, poi nella società civile.

Particolare è il caso di Rousseau, che propone un modello non dicotomico ma triadico, delineando un diverso percorso, che dallo stato di natura (stato di felicità e innocenza, da cui l’uomo è uscito con l’istituzione della proprietà privata e stipulando un patto iniquo) porta alla società civile (stato di decadenza), iniqua perché basata su un patto di sopraffazione, e infine alla repubblica (stato di rinascita), cioè alla società di eguali che nascerà dal patto equo (il contratto sociale). Il modello giusnaturalistico classico propone una concezione atomistica e individualistica dello Stato, in quanto il punto di partenza è dato dagli individui nello stato di natura, considerati come entità autonome, ciascuno portatore di un pacchetto di diritti e di doveri che – al momento del patto – saranno ceduti in proporzioni più o meno grandi e che lo Stato sarà tenuto a rispettare. Proprio perché il punto di partenza è dato da individui liberi e uguali, che decidono volontariamente di mettere un limite all’illimitata libertà naturale per vivere pacificamente e in condizioni di maggiore sicurezza, il fondamento di legittimazione dello Stato non può che essere il consenso, espresso attraverso il patto, di coloro che saranno poi chiamati a obbedire alle leggi civili. Lo stato di natura come stato di libertà e di uguaglianza, e tuttavia già regolato dalle leggi di ragione, è dunque la necessaria premessa dell’ipotesi contrattualistica che fonda lo Stato sul consenso: senza la legge naturale (e in partic. quella che impone pacta sunt servanda) sarebbe impossibile un adempimento dei patti e quindi la costituzione della società civile.

Le varianti.

Ogni giusnaturalista, tuttavia, declina in modo differente il modello, a seconda della propria concezione antropologica (che emerge dalla descrizione dello stato di natura) e politica: Hobbes teorizza uno Stato assoluto, Locke e Kant uno Stato liberale, Rousseau uno Stato democratico.

Per Hobbes il diritto di natura è esplicazione di libertà egoistica (la vita è il sommo bene, per il raggiungimento del quale tutto è concesso), e di conseguenza affermazione di potenza di ciascuno contro tutti, per cui è sinonimo di ius in omnia e porta inevitabilmente al conflitto; lo stato di natura non è dunque altro che uno stato di guerra universale e perpetua («bellum omnium contra omnes»). La pace potrà sorgere solo mettendo fine a tale stato grazie a un pactum subiectionis, in virtù del quale gli individui – sulla base di un calcolo utilitaristico – convengono tra loro con patto irrevocabile di trasferire tutti i loro diritti naturali (escluso il diritto alla vita) senza condizioni alla persona del sovrano, la cui volontà è fonte esclusiva e misura del diritto. In tal modo il diritto naturale scompare per diventare lex civilis, la quale ha per fine la conservazione dell’ordine interno e la difesa esterna, cioè la sicurezza dello Stato personificato nel sovrano. Una volta creato lo Stato, sarà compito del sovrano, detentore di un potere unico e unitario, interpretare a suo arbitrio la legge di natura, e al suddito spetterà un’obbedienza assoluta, anche per quanto riguarda lo ius circa sacra (Hobbes propone una Chiesa di Stato).

Pufendorf nega che lo stato di natura sia uno stato di guerra (l’uomo nello stato di natura può ascoltare non solo la voce delle passioni, ma anche la ragione che gli suggerisce di non limitarsi a un punto di vista egoistico e autoreferenziale), ne fa però uno stato di miseria e di insicurezza. L’uomo naturale è dominato da due sentimenti contraddittori: l’amor di sé (istinto di conservazione) e la consapevolezza della propria fragilità (imbecillitas); l’insufficienza delle proprie forze lo spinge a cercare gli altri e a diventare socievole (non nasce sociale, ma associabile), per condurre una vita comoda è infatti necessario ricorrere all’aiuto degli altri per procurarsi quello che ciascuno da solo non ha la capacità e il tempo di produrre.

Anche per Spinoza (Tractatus theologico-politicus, 1670, cap. 5° e Tractatus politicus, post. 1677, cap. 2°) il diritto naturale è «ipsa naturae potentia» concessa a ogni essere ai fini della sua conservazione, e gli uomini, essendo soggetti alle passioni, «sono tra loro naturalmente nemici». L’esperienza dei mali induce gli esseri dotati di ragione a crearsi un ordine civile, nel quale le esigenze dell’individualità e della socialità si esplicano sotto l’egida dello Stato nei limiti imposti dalla salus publica; fine dello Stato è però permettere a tutti la libertà di pensare con la propria testa, e quindi garantire la massima tolleranza.

Per Locke, che affronta questi temi nei giovanili Saggi sulla legge naturale (scritti tra il 1660 e il 1664) e nel Secondo trattato sul governo civile (1690), il diritto naturale si identifica con il diritto inalienabile dell’uomo alla vita, libertà e proprietà. Tale diritto è superiore alla legge civile, che a esso dovrà ispirarsi; se questo non avvenisse, infatti, il potere dei governanti risulterebbe illimitato e irresponsabile. Lo stato naturale è, almeno inizialmente (cioè fino a quando la proprietà è ristretta nei limiti del consumo individuale) uno stato di pacifica socialità e di mutua benevolenza, nel quale gli uomini si riconoscono liberi e uguali, e ognuno in relazione ai propri bisogni si costituisce una proprietà mediante il lavoro e l’occupazione della terra comune. Gli uomini, però, agiscono anche in base ad altri impulsi, passionali e irrazionali; si aprono così conflitti, che nello stato di natura non possono essere risolti a causa della mancanza di un tribunale al di sopra delle parti. Inoltre, con l’introduzione della moneta, vengono a cadere i limiti della proprietà basati sull’uso personale e sorgono forti differenze sociali. A garanzia dei propri diritti naturali gli uomini convengono quindi di creare lo Stato e a esso affidano il potere coattivo e punitivo che ciascuno esercitava per sé stesso nello stato di natura. Se, dunque, gli individui entrano nella società civile per ottenere una più efficace tutela dei propri diritti naturali, il rispetto di tali diritti costituirà un preciso limite giuridico all’esercizio del potere sovrano, e la loro violazione un legittimo motivo di resistenza.

Rousseau, nel Discorso sull’origine della disuguaglianza (1754), sottopone i concetti di diritto di natura e stato di natura a un durissimo attacco: lo stato di natura descritto dai giusnaturalisti è soltanto una proiezione della realtà contemporanea in un passato remotissimo: essi credevano di descrivere l’uomo naturale, e descrivevano invece l’uomo che avevano sotto gli occhi, trasformato e corrotto; in partic. lo stato di guerra descritto da Hobbes come stato dei primitivi rapporti tra gli uomini traccia un quadro sicuramente veritiero di tali relazioni, ma come si manifestano nella moderna società civile basata sulla proprietà privata e sulla divisione del lavoro, che hanno prodotto dipendenza reciproca e sopraffazione dei più forti sui più deboli. Se invece spogliamo l’uomo da tutte le sovrastrutture prodotte dalla storia e dalla vita in società, possiamo ipotizzare un originario stato di innocenza e di semplicità, in cui l’uomo, privo di ragione e di linguaggio, viveva una vita solo sensibile in totale isolamento, guidato dall’amor di sé (positivo istinto di sopravvivenza) e dalla pietà naturale. Il diritto inteso in rapporto a un uomo individualisticamente determinato ha storicamente generato rapporti fondati sulla forza e sull’arbitrio, in primo luogo la proprietà privata fonte di disuguaglianza. Il diritto ‘giusto’ deve invece essere il prodotto di un atto collettivo, quel contratto sociale con il quale ciascuno cede al corpo comune tutti i propri diritti naturali e individuali, rinunciando a vivere secondo le leggi della propria natura empirica. I diritti naturali individuali si trasformano così, per la mediazione dello Stato, in diritti del cittadino, e come tali acquistano valore universale e morale.

Kant (Metafisica dei costumi, 1797, Dottrina del diritto) fa coincidere il diritto naturale con il diritto dei privati: il diritto naturale, infatti, regola i rapporti tra gli individui già prima dell’istituzione dello Stato, e in esso un posto particolare ha l’istituto della proprietà; regola anche quella forma primitiva e naturale di società che è la famiglia, e altre associazioni private. Tali diritti naturali, però, nello stato di natura sono soltanto provvisori, in quanto non garantiti da una forza in grado di intervenire in caso di violazione. Anche lo stato di natura è quindi uno stato provvisorio, instabile e incerto, in cui l’uomo non può continuare a vivere. È dunque necessario (anzi per Kant è un vero e proprio dovere morale, scevro da connotazioni utilitaristiche), trasformare tali diritti da provvisori in perentori (aggiungere cioè l’elemento della coazione), e quindi uscire dallo stato di natura ed entrare in una società civile che possa garantire il mio e il tuo esterni. Compito dello Stato sarà dunque quello di permettere la libera realizzazione degli obiettivi che ciascuno si pone nel corso della propria vita, facendo in modo che la libertà dell’uno non ostacoli la libera realizzazione dei piani dell’altro. Di conseguenza, fine dello Stato sarà la produzione di un diritto positivo, unica condizione che permetta la coesistenza degli arbitri. Una volta istituito lo Stato, il legislatore sarà chiamato a operare come se il suo potere provenisse da un contratto originario: il patto è infatti solo un’idea regolativa, e non un fatto storico a cui far riferimento per giudicare la legittimità del potere sovrano.

Al cittadino non viene concesso un diritto di resistenza, perché la resistenza a una legge, sia pure ingiusta, avrebbe luogo secondo una massima che, universalizzata, distruggerebbe la possibilità stessa di una costituzione civile (la quale deve avere a proprio fondamento la sovranità). Al cittadino rimane però un’altra via per dissentire: esercitare la libertà di penna e mobilitare l’opinione pubblica (dovere di obbedienza assoluta nelle azioni, diritto della massima libertà nei pensieri). Kant, come tutti i giusnaturalisti, vede nelle relazioni internazionali un esempio concreto di stato di natura e, nel saggio Per una pace perpetua (1795), applica lo schema giusnaturalistico al problema della pace. Propone infatti un trattato o convenzione tra gli Stati per regolare i rapporti internazionali mediante regole condivise e mettere fine a tutte le guerre. Condizione essenziale, però, è che tali Stati siano a regime repubblicano, che per Kant è l’opposto non del regime monarchico, bensì di quello dispotico; in tali Stati deve cioè trovare piena applicazione il principio della separazione fra potere esecutivo e potere legislativo.

Alla fine del Settecento, l’idea centrale del g. moderno – l’esistenza di diritti individuali innati che qualsiasi Stato è tenuto a rispettare – trovò la propria consacrazione nella Dichiarazione d’indipendenza (1776) e nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (1789) che inaugurarono rispettivamente le rivoluzioni americana e francese. Tuttavia, il momento della massima diffusione delle idee giusnaturalistiche, non solo tra i protagonisti del dibattito filosofico ma presso larghi strati dell’opinione pubblica occidentale, segnò anche l’inizio del loro tramonto. Sul piano filosofico, il g. verrà infatti combattuto da tutti quei sistemi che negheranno la credenza in un ordine razionale universale, dato una volta per sempre (dall’empirismo di Hume all’utilitarismo di Bentham), nonché dallo storicismo di Hegel, fino a Marx.

 Sul piano giuridico, il g. verrà eclissato dalle grandi codificazioni dell’età napoleonica; il g. moderno si trasforma in giuspositivismo nel momento in cui ha raggiunto il suo obiettivo: la codificazione delle leggi di natura e dunque il pieno riconoscimento dei diritti innati dell’individuo. Funzione storica del g. è stata quindi quella di affermare i limiti del potere dello Stato: dall’esigenza di uno Stato limitato dalla legge naturale sono sorti il costituzionalismo moderno e lo Stato di diritto, in opposizione alla teoria del diritto divino dei re e all’assolutismo monarchico. Conclusasi la grande stagione giusnaturalistica, il secolo successivo, l’Ottocento, rappresentò il secolo d’oro del positivismo giuridico, con la piena affermazione della sua tesi centrale, e cioè il riconoscimento di positività, imperatività (o normatività), statualità, sistematicità, coerenza e completezza come caratteristiche essenziali del diritto. Il trionfo, dunque, del principio di effettività (cioè l’idea che un ordinamento è giuridico se è efficace) su quello di giustizia (una legge è tale per il suo contenuto di giustizia) sostenuto dai giusnaturalisti.

La rinascita del giusnaturalismo nel Novecento.

Il g. è riapparso nel sec. 20°. Subito dopo la Seconda guerra mondiale, infatti, il dibattito fra filosofi del diritto si svolse sotto il segno della ‘rinascita del diritto naturale’, come reazione allo statalismo dei regimi totalitari. Giuridicamente, i regimi fascisti erano stati considerati come la necessaria conseguenza del positivismo giuridico, interpretato come quella concezione del diritto secondo cui non vi è altro diritto che il diritto positivo, inteso come l’insieme delle norme poste e rese efficaci dal potere politico effettivamente dominante in un determinato territorio. Dietro l’apparente neutralità di questa teoria si scorgeva l’ideologia secondo cui ogni norma posta dallo Stato, per il solo fatto di essere posta, è anche giusta, e quindi deve essere obbedita in quanto tale, cioè indipendentemente dal suo contenuto. Le conseguenze di tale ideologia erano state la negazione di ogni diritto di resistenza alla legge ingiusta e quindi l’acquiescenza a ogni forma di potere (in partic. al fascismo e al nazismo); se ne deduceva di conseguenza che il diritto di resistenza alla legge ingiusta poteva essere fondato soltanto sul riconoscimento di una legge superiore al diritto positivo e da questo indipendente, cioè il diritto naturale.

Ispirato in parte al principio di un diritto naturale vigente fra gli uomini indipendentemente da ogni statuizione fu il Tribunale militare internazionale di Norimberga (1945-46) contro i criminali di guerra; nelle nuove costituzioni (Francia, Italia, Germania, ecc.) furono riaffermati solennemente i diritti inviolabili della persona umana di origine giusnaturalistica; il 10 dic. 1948 l’Organizzazione delle Nazioni Unite emanò la prima Dichiarazione universale dei diritto dell’uomo, che estendeva a tutta l’umanità le dichiarazioni nate alla fine del Settecento dalle teorie del diritto naturale.

Il primo autorevole interprete di questo rivolgimento fu G. Radbruch (in Gesetzliches Unrecht und übergeseztliches Recht, 1946; e Vorschule der Rechtsphilosophie, 1948; trad. it. Propedeutica alla filosofia del diritto), il quale sostenne che il positivismo giuridico era colpevole di aver ridotto il diritto alla forza e che in casi estremi d’ingiustizia, come alcune leggi naziste, la legge ingiusta non deve essere considerata giuridica né dal cittadino né dal giudice. In questo ambito di riflessioni, H. Rommen, esponente del g. cattolico tradizionale, pubblicò nel 1947 la seconda ed. di Die ewige Wiederkehr des Naturrecht (trad. it. L’eterno ritorno del diritto naturale) e nel 1951 H. Welzel pubblicò una storia del diritto naturale, in cui lo ius naturae viene considerato, in polemica contro il positivismo giuridico e il formalismo da esso derivato, come un’etica materiale della giustizia (Naturrecht und materiale Gerechtigkeit; trad it. Diritto naturale e giustizia materiale).

Al di là di positivismo e giusnaturalismo si veniva configurando anche la posizione di Hart in The concept of law (1961; trad. it. Il concetto del diritto), dove, pur riaffermando l’autonomia del diritto rispetto alla morale, l’autore lascia spazio a un «contenuto minimo del diritto naturale», fondato su alcuni caratteri irriducibili dell’uomo come essere biologico e come essere sociale.

La seconda ripresa novecentesca del g. si è avuta con la «nuova dottrina del diritto naturale» di J. Finnis (Natural law and natural rights, 1980; trad. it. Legge naturale e diritti naturali). Finnis riprende un’esigenza che era già stata avanzata, anche se in una diversa prospettiva, da L. Strauss (Natural right and history, 1953; trad. it. Diritto naturale e storia). Strauss aveva polemizzato contro tutte le teorie relativistiche e storicistiche, che, sostenendo che non esistono valori assoluti ma solo storici, avrebbero aperto la strada al nichilismo e all’oscurantismo, e sarebbero state causa dell’avvento degli Stati totalitari; il g. si pone quindi come difesa dell’individuo contro l’ordine imposto dal potere politico. Per Finnis, al di là di un ritorno al g. in reazione al formalismo del positivismo giuridico, la dottrina del diritto naturale va considerata in positivo come risposta alla profonda necessità dell’uomo di reagire allo scetticismo e al relativismo etico. La problematica della legge naturale è dunque in buona misura ineliminabile, e la si ritrova continuamente sotto altri nomi e altre vesti.

***
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1994)

di Norberto Bobbio

Giusnaturalismo e giuspositivismo

Sommario: 1. Origine della distinzione fra diritto naturale e diritto positivo. 2. Vari criteri di distinzione: antichità, Medioevo, età moderna. 3. Giusnaturalismo e positivismo giuridico nei loro reciproci rapporti. 4. In quale senso si può parlare di una scuola del diritto naturale. 5. Principali caratteristiche del positivismo giuridico. 6. Il dibattito attuale. □ Bibliografia. 

1. Origine della distinzione fra diritto naturale e diritto positivo

La storia del pensiero giuridico occidentale, dai Greci sino a oggi, è dominata dalla distinzione fra due specie di diritto: il diritto naturale e il diritto positivo. Da questa distinzione traggono il nome le rispettive scuole o dottrine del giusnaturalismo e del positivismo giuridico (o giuspositivismo).

Il diritto naturale, contrapposto al diritto positivo, riceve il suo significato dal termine 'natura', intesa originariamente e prevalentemente come l'insieme degli enti che hanno in se stessi, secondo la definizione di Aristotele (Metafisica, 1015 a), il principio del loro movimento, nascono, si sviluppano, in conformità a leggi non poste né modificabili dall'uomo. A questi si contrappongono gli enti prodotti dal fare dell'uomo. Quando, agli albori della riflessione dell'uomo sul mondo che lo circonda, questi comincia a prendere coscienza della sua posizione nell'universo, scopre che la prima e più evidente distinzione tra gli enti che gli è dato osservare è fra quelli che sono esistiti prima dell'apparizione dell'uomo sulla terra e continueranno a esistere anche quando l'uomo non esisterà più, come il sole, le stelle, la terra, il mare, le piante, e quelli che esistono solo in quanto esiste l'uomo che li ha prodotti, come le case, le armi, gli utensili, gli indumenti. Tutti i concetti antitetici a quelli di natura hanno sempre la stessa ragione d'essere e la stessa funzione conoscitiva: contrapporre un universo che l'uomo produce e in quanto produce è in grado di riprodurre, manipolare, distruggere, all'universo che l'uomo trova già fatto al di fuori di sé e alle cui leggi gli è necessario sottostare. Così si contrappongono le cose naturali alle cose artificiali prodotte dall'arte o dalla tecnica. Ma tra le cose artificiali ci sono anche i costumi e le regole sociali, che infatti cambiano secondo i tempi e i luoghi. Di qua l'ulteriore distinzione fra ciò che è per natura e ciò che è per convenzione. Usando la terminologia oggi corrente, secondo cui all'universo della natura si contrappone l'universo della cultura, la distinzione tra le due specie di diritto si risolve nella distinzione fra il diritto che appartiene all'universo della natura e il diritto, chiamato in seguito diritto positivo, che appartiene all'universo della cultura.

Quando i Greci si posero il problema del diritto, come anche quello del linguaggio, lo posero in questi termini: il diritto è per natura o per convenzione? Questa domanda voleva dire che, oltre le cose che non possono essere considerate se non naturali, come la montagna o il bosco, e altre cose che non possono essere considerate se non artificiali, come la freccia e la statua, vi erano anche cose come il diritto, e in generale le regole della convivenza, la cui appartenenza all'una o all'altra categoria non era così evidente, apparendo le regole consuetudinarie, che allora erano molto più numerose di adesso, naturali, e le regole poste da un legislatore o dalle assemblee popolari, artificiali. La risposta fu che il diritto è tanto naturale quanto convenzionale. Da questa risposta è nata la grande dicotomia che, pur attraverso mille peripezie, interpretazioni molteplici e controverse, rapporti reciproci ora pacifici ora antagonistici, è arrivata sino a noi.

Dopo l'avvento del cristianesimo, prevalendo una visione religiosa del mondo e dell'uomo, la natura, considerata come il prodotto della potenza creatrice di Dio, rappresenta ancora una volta l'universo degli enti non prodotti dall'uomo che, in quanto tale, si contrappone ai prodotti delle arti e delle convenzioni umane. Il diritto naturale diventa allora o il diritto iscritto da Dio nel cuore degli uomini o la legge rivelata nei Testi Sacri o la legge comunicata da Dio agli uomini, esseri razionali, attraverso la ragione.All'inizio dell'età moderna, quando per natura si intende l'universo regolato da leggi universali nella loro estensione spaziale e temporale, e necessarie, quindi immodificabili dall'uomo, il diritto naturale viene interpretato come l'insieme delle regole di condotta che possono venir dedotte da quest'ordine e sono conoscibili attraverso la ragione.In conclusione, dopo il diritto naturale-consuetudinario, la cui origine si perde nella notte dei tempi, degli antichi; dopo il diritto naturale-divino degli scrittori medievali, nell'età moderna il diritto naturale-razionale rappresenta la nuova raffigurazione di un diritto non prodotto dall'uomo, e che, proprio per la pretesa di essere sottratto ai mutamenti della storia, pretende anch'esso di avere validità universale e quindi maggiore dignità del diritto positivo. 

2. Vari criteri di distinzione: antichità, Medioevo, età moderna

La più antica e celebre distinzione tra diritto naturale e diritto positivo è in Aristotele: "Del giusto politico ci sono due specie, quella naturale e quella legale. È naturale il giusto che ha dovunque la stessa potenza e non dipende dal fatto che venga o non venga riconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è del tutto indifferente che sia in un modo piuttosto che in un altro, ma che non è più indifferente, una volta che è stato stabilito" (Eth. Nic., 1134 b). Il diritto naturale vi è definito attraverso due caratteristiche: 1) è dappertutto, il che vuol dire che la sua potenza, ovvero la sua validità e la sua efficacia, sono universali, al pari del fuoco, come si legge poco più oltre, che brucia ovunque nello stesso modo; 2) vale indipendentemente dal fatto che sia o che non sia riconosciuto, il che significa che vale oggettivamente. Il diritto positivo, che qui viene chiamato legale, cioè posto per legge, è caratterizzato non attraverso l'antitesi alla prima caratteristica, anche se si può sottintendere facilmente che esso non vale "dappertutto", ma varia da luogo a luogo, bensì in base alla seconda: accanto alle azioni regolate dal diritto naturale, e quindi non dipendenti dal nostro giudizio e, in quanto tali, buone o cattive in se stesse, vi è l'ampia sfera delle azioni indifferenti che sono libere, ma diventano obbligatorie o proibite in quanto così sia stabilito da una legge posta da un'autorità superiore, cioè da una legge che oggi chiamiamo 'positiva'. L'esempio che lo stesso Aristotele adduce dopo la definizione è chiaro: sacrificare a Zeus una capra o due pecore è un'azione indifferente prima che sia stata emanata da quella certa autorità, in quel certo luogo e in un certo momento del tempo, una legge che imponga un tipo di sacrificio piuttosto che un altro.

Tra i passi introduttivi del Digesto, che propongono preliminari distinzioni fra varie specie di diritto, il più noto è quello di Paolo (D., 1, 1, 11) che così si esprime : "Jus pluribus modis dicitur: uno modo, cum id quod semper aequum et bonum est jus dicitur, ut est jus naturale, altero modo, quod omnibus aut pluribus in quaque civitate utile est, ut est jus civile". Qui i criteri di distinzione sono di nuovo due, ma diversi da quelli aristotelici: 1) il diritto naturale è universale, però non rispetto ai luoghi (il "dappertutto" di Aristotele) ma rispetto al tempo ("semper"), mentre, per contrasto, il diritto, non ancora detto positivo, civile, cioè relativo a una civitas, è mutevole di tempo in tempo; 2) in quanto il diritto naturale è ispirato al buono e al giusto e il diritto civile all'utile di una determinata città, ciò che li distingue è un criterio di valore, cioè il diverso bene dall'uno e dall'altro tutelato, rispettivamente, la giustizia e l'utilità, due beni spesso in contrasto, uno universale, l'altro particolare, per cui non sempre è utile ciò che è giusto, e non sempre è giusto ciò che è utile.

La prima volta, pare, che il diritto contrapposto al diritto naturale viene chiamato 'positivo', non più 'legale', come in Aristotele, non più 'civile', come nel Digesto, è in un passo del Dialogus inter philosophum, judaeum et christianum di Abelardo: "Jus aliud naturale, aliud positivum dicitur", ove il diritto positivo viene definito, in contrasto con quello naturale, "illud quod ab hominibus institutum", sia attraverso una consuetudine ("aut sola consuetudine"), cioè come il diritto che i giuristi definivano abitualmente 'non scritto', sia attraverso l'autorità di un dettame scritto ("aut scripti auctoritate"). Il criterio fondamentale della distinzione è in questo caso quello che è andato, come vedremo, prevalendo: il diritto positivo è il diritto posto dagli uomini in contrasto con il diritto non posto dagli uomini, che a questi viene imposto da qualcuno o qualcosa che li trascende, Dio o la natura, dove Dio rappresenta il creatore, la natura la realtà da Dio creata.

Che col cristianesimo il contrasto fra diritto naturale e diritto positivo si risolva in quello tra il diritto posto da Dio, o rivelato per suo tramite attraverso la natura, e il diritto posto dagli uomini è detto chiaramente nel Decretum Gratiani (XII secolo), nella cui prima Distinctio, intitolata De jure naturae et constitutionis, si legge: "Jus naturale est quod in Lege et in Evangelio continetur", dove per Lex s'intende il Vecchio Testamento e per Evangelium il Nuovo. In tal modo la legge naturale viene interamente identificata coi dieci comandamenti e coi precetti morali predicati da Cristo. Di particolare importanza per la secolare controversia tra giusnaturalisti e positivisti è l'affermazione esplicita, che non si trova né nel passo aristotelico né in quello del giurista romano Paolo, della superiorità del diritto naturale sul diritto positivo: "Dignitate vero jus naturale simpliciter praevalet consuetudini et constitutioni", donde la conseguenza di enorme importanza pratica, come si può bene immaginare, che qualsiasi consuetudine o legge scritta contraria al diritto naturale deve essere considerata invalida ("vana et irrita sunt habenda").

La concezione classica e insuperata del giusnaturalismo cristiano, cui hanno continuato a ricollegarsi anche scrittori moderni e contemporanei, è quella che san Tommaso espone in alcune quaestiones della Summa theologica (Prima Secundae, 90, e ss.). Vi sono definite quattro forme di leggi: eterna, naturale, umana, divina. Mentre la legge eterna è la ragione divina che governa il mondo e la legge divina è la legge data direttamente da Dio agli uomini in circostanze eccezionali - ma né l'una né l'altra qui ci interessano - la legge naturale e la legge umana corrispondono alla distinzione fra diritto naturale e diritto positivo. La prima è definita: "Partecipatio legis aeternae in rationali creatura", vale a dire è la manifestazione dell'ordine cosmico creato da Dio in quel particolare prodotto della creazione che è l'uomo, essere dotato di ragione, cioè di una facoltà che gli permette di giudicare liberamente del bene e del male. Consta di un solo precetto generalissimo: "Bonum faciendum et male vitandum". La seconda, che Tommaso chiama anche "humanitus posita", consta dei precetti che l'uomo con la sua ragione ricava dal precetto generale allo scopo di regolare caso per caso la sua vita di relazione. Il passaggio dalla legge naturale alla legge umana può avvenire in due modi: per conclusionem, cioè nello stesso modo con cui si traggono logicamente conclusioni necessarie da principî evidenti (ad esempio, la norma positiva di non dire falsa testimonianza si deduce dalla legge naturale generalissima che prescrive di dire la verità); per determinationem, quando la legge umana stabilisce come una legge naturale generale debba essere applicata (per esempio, la legge naturale stabilisce che i delitti debbono essere puniti, ma è solo la legge umana che stabilisce la misura e le modalità della punizione).

Rispetto alla definizione aristotelica, per cui diritto naturale e diritto positivo si estendono su due sfere diverse della condotta umana, la sfera delle azioni moralmente obbligatorie e quella delle azioni moralmente indifferenti, la definizione di Tommaso parte dalla considerazione che l'intera sfera della condotta umana cade sotto il dominio della legge naturale, e il diritto positivo altro non è che uno svolgimento interno della massima generale del diritto naturale allo scopo di adattarla ai casi concreti.Per quel che riguarda il problema assiologico del rapporto fra diritto naturale e diritto positivo, il pensiero di Tommaso è destinato a diventare il punto di riferimento dei giusnaturalisti successivi, quasi un ipse dixit ripetuto all'infinito ogniqualvolta si è voluto affermare, insieme con la superiorità del diritto naturale su quello positivo, l'invalidità di una legge positiva contraria alla legge naturale: la legge umana è vera e propria legge, cioè ha vigore di legge, solo in quanto deriva dalla legge di natura. Se non concorda con essa, "non erit lex sed legis corruptio" (Summa theol., q. 95, art. 2). Ciò vuol dire che per una legge positiva la conformità alla legge naturale è condizione di validità.Per comune opinione, se pure più volte contestata, il giusnaturalismo moderno viene fatto cominciare da Ugo Grozio. Per il quale, a fondamento della distinzione, sta la contrapposizione tra ragione e volontà. Il diritto naturale consiste in dettami della retta ragione, la quale ci fa conoscere che le azioni sono naturalmente buone o turpi secondo che siano o non siano conformi alla stessa natura razionale dell'uomo, e quindi sono obbligatorie o illecite per se stesse. Il diritto naturale si differenzia non solo dal diritto umano, ma anche dal diritto divino, che, come il diritto umano volontario, non comanda o vieta azioni che siano di per se stesse obbligatorie o illecite, ma le rende illecite col vietarle e obbligatorie col prescriverle. È immutabile al punto che non può essere modificato neppure da Dio. In opposizione al diritto naturale razionale c'è il diritto volontario positivo, che si distingue a sua volta nel diritto civile, che riceve forza dal potere civile o politico, in un diritto meno esteso che è il diritto familiare, e in uno più esteso che è il diritto delle genti, che solo molto più tardi sarà chiamato diritto internazionale.

Riassumendo, i diversi criteri di distinzione fra i due diritti, rilevati in questo breve excursus storico, si possono fissare nei seguenti punti: 1) rispetto al soggetto o all'autore dell'uno o dell'altro, il diritto naturale deriva da Dio o dalla natura, mentre il diritto positivo deriva da un legislatore umano; 2) rispetto al fondamento il primo è razionale, il secondo è volontario, onde l'uno viene conosciuto attraverso la ragione, il secondo empiricamente attraverso le dichiarazioni espresse da un'autorità costituita oppure attraverso il manifestarsi di una volontà tacita; 3) riguardo al contenuto, ossia ai comportamenti dall'uno e dall'altro regolati, quelli regolati dal diritto naturale sono buoni o cattivi in se stessi, quelli regolati dal diritto positivo sono buoni in quanto comandati, cattivi in quanto proibiti; 4) rispetto alla loro estensione, il diritto naturale è universale nello spazio e immutabile nel tempo, mentre il diritto positivo vale in uno spazio circoscritto e muta nel tempo.Questi criteri di distinzione sono cumulativi, non si escludono a vicenda. È conveniente considerarli tutti insieme anche se non è detto che tutti insieme siano parimenti accolti da tutti gli autori. 

3. Giusnaturalismo e positivismo giuridico nei loro reciproci rapporti

Dal contrasto fra le due specie di diritto deriva il contrasto fra le dottrine che hanno preso il nome di giusnaturalismo e positivismo giuridico, contrasto che ora può essere definito in questo modo. Per giusnaturalismo si intende quella corrente di pensiero giuridico che ha costantemente, se pure interpretate in diversi modi, queste due caratteristiche: 1) esistono tanto il diritto naturale quanto il diritto positivo; 2) il diritto naturale è assiologicamente superiore al diritto positivo. Per positivismo giuridico s'intende quella corrente di pensiero giuridico che non ammette l'esistenza di un diritto naturale accanto al diritto positivo e sostiene che non esiste altro diritto che il diritto positivo. Si osservi l'asimmetria delle due definizioni: mentre il giusnaturalismo afferma l'esistenza di entrambi i diritti ma insieme la differenza di grado, il positivismo giuridico afferma del diritto positivo rispetto al diritto naturale non la superiorità ma la esclusività. Il giusnaturalismo è dualistico, il positivismo giuridico è monistico.

Contrariamente a quello che di solito si ritiene, giusnaturalismo e positivismo giuridico non sono le sole possibili concezioni generali del diritto. Se ne possono ipotizzare altre tre: 1) diritto naturale e diritto positivo esistono entrambi ma in rapporto di indipendenza reciproca o di indifferenza: quando Aristotele, come si è detto, afferma che nel giusto politico una parte è naturale e un'altra legale, distingue e delimita due sfere normative diverse per l'ambito e il fondamento di validità, ma non necessariamente contrapposte e tanto meno escludentisi a vicenda; 2) esiste solo il diritto naturale e il diritto positivo è una derivazione del primo attraverso l'autorità di un legislatore legittimo: in una posizione di questo genere si può far rientrare la teoria di Tommaso per cui il diritto umano procede da quello naturale; 3) diritto naturale e diritto positivo esistono entrambi, ma il secondo è superiore al primo: rientrano in questa concezione, che si può chiamare di positivismo aperto o limitato, quegli autori che ammettono il diritto naturale ma non gli riconoscono altra funzione che quella di integrare il diritto positivo in caso di lacuna, così che il diritto naturale viene espulso dal sistema e vi rientra solo eccezionalmente, come una specie di serbatoio di riserva per le decisioni del giudice.

Nella contrapposizione tra i due diritti non entra soltanto, come si è visto sinora, la differenza dei due aggettivi, naturale e positivo, ma anche il diverso significato che ha nelle due espressioni il termine 'diritto'. La definizione che ne dà il giusnaturalismo è una definizione persuasiva, ovvero una definizione che contiene un giudizio di valore, per cui 'diritto' è l'insieme delle norme buone o giuste che regolano, o dovrebbero regolare, la convivenza degli uomini, e se non sono buone o giuste non meritano il nome di diritto. Secondo il positivismo giuridico, invece, è diritto l'insieme delle norme che regolano di fatto, indipendentemente dalla loro qualità morale, una determinata società storica. Un termine di valore come 'buono' o 'giusto' non è in questo caso un elemento della definizione. Ciò che fa essere diritto l'insieme delle norme che regolano di fatto una determinata società è la sua validità, la conformità di queste norme a una costituzione, scritta o non scritta, la quale a sua volta trae il proprio fondamento ultimo dall'essere abitualmente ubbidita e, quindi, efficace.

Questa precisazione serve a spiegare le ragioni principali del contrasto perenne tra giusnaturalisti e positivisti, contrasto particolarmente intenso nei momenti di trapasso da un vecchio a un nuovo ordinamento, per cui, da un lato, è empiricamente osservabile che il nuovo diritto nasce da un fatto, dall'altro, il vecchio viene delegittimato pur avendo avuto anch'esso in un fatto precedente la causa ultima della propria legittimità. Questa legittimazione puramente fattuale condurrebbe a insanabili aporie che, secondo i giusnaturalisti, possono essere risolte soltanto attraverso una concezione del diritto per cui non basta, affinché si possa parlare nel senso eulogico della parola 'diritto', che sia valido ed efficace, ma è necessario anche che sia giusto, e quindi può accadere che il vecchio ordinamento, pur essendo stato abitualmente ubbidito e considerato per un certo periodo valido ed efficace, non possa più essere considerato tale in tutti quei casi in cui i principî universali del diritto naturale non siano stati rispettati. 

Da questo punto di vista il vecchio diritto può essere considerato non più diritto, così come il nuovo può essere considerato non ancora diritto, in attesa che la legittimazione secondo il fatto sia in qualche modo corroborata da una legittimazione secondo il valore. Dall'altra parte, dalla parte dei positivisti, si controbatte sostenendo che una cosa è il giudizio morale, altra cosa il giudizio di stretto diritto, e che, se è vero che l'uno non esclude l'altro, è altrettanto vero che la definizione persuasiva di diritto propria del giusnaturalismo conduce ad aporie altrettanto gravi, come quella di non rispecchiare ciò che avviene di fatto nella pratica dei tribunali dove il giudice dello Stato moderno giudica secondo il diritto che è, non secondo quello che deve essere.

La definizione asettica di diritto, propria dei positivisti, serve poi a spiegare che cosa si intende dire quando si afferma che il positivismo giuridico è quella concezione del diritto per cui esiste soltanto il diritto positivo. S'intende dire che per il positivismo giuridico è diritto nel senso proprio della parola soltanto l'insieme delle norme di un ordinamento valido ed efficace, e il diritto naturale non è, secondo questa definizione, diritto in senso proprio, e può essere ritenuto tutt'al più come un diritto in fieri, l'esigenza di un diritto che sarebbe bene diventasse valido ed efficace, ma che il solo fatto di essere affermato come esigenza non impedisce che sia valido ed efficace un diritto che questa esigenza non soddisfa. Il giurista che rifiuta di riconoscere al diritto naturale il carattere di diritto in senso proprio non si pronuncia sull'esistenza o meno di ciò che viene chiamato diritto naturale, ma semplicemente constata che, posto che esista, non è diritto alla stessa stregua del diritto positivo. Ciò che secondo un positivista manca al diritto naturale è l'effettività. E il diritto naturale non è effettivo perché è disarmato. Ma nel momento in cui viene armato, vale a dire viene a far parte di un ordinamento in cui può essere fatto valere mediante la coazione, diventa diritto positivo.

Come tutti i giusnaturalisti, Kant distingue lo stato di natura retto soltanto dalle leggi naturali dallo stato civile regolato dal diritto positivo. Chiama il primo "provvisorio", il secondo "perentorio". Sulla scia di Kant si può dire che ciò che distingue il diritto positivo dal diritto naturale è la perentorietà.Storicamente, giusnaturalismo e positivismo giuridico si rincorrono l'un l'altro dall'inizio dell'età moderna in poi. Quando il secondo sembra trionfare, il primo rinasce.

Alla fine della prima guerra mondiale, Julien Bonnecase, condannando tutta la scienza giuridica tedesca che aveva subordinato il diritto alla forza, attribuisce la vittoria degli Alleati al non avere tradito l'idea eterna del diritto naturale (cfr. La notion de droit en France au dix-neuvième siècle, Paris 1919); non altrimenti negli stessi anni Ernst Troeltsch, considerando l'idea del diritto naturale la più alta espressione del pensiero politico europeo, rimproverava alla filosofia tedesca di aver esaltato la forza dopo aver abbandonato la fede in quell'idea. Alcuni anni dopo, il più illustre filosofo del diritto "rancese, François Gény, tesseva l'elogio dell'"rréductible droit naturel", contro gli stessi giuristi francesi infetti di positivismo. Gustav Radbruch, relativista nel suo trattato di filosofia del diritto del 1932, si converte al giusnaturalismo dopo la catastrofe della Germania nella seconda guerra mondiale, scrivendo che "dopo un secolo di positivismo giuridico è potentemente risorta l'idea di un diritto al di sopra della legge commisurate al quale anche le leggi positive possono rappresentarsi come torto legale" (cfr. Propedeutica alla filosofia del diritto, Torino 1959, p. 233). In Italia, Carlo Antoni pubblicò un'opera dal titolo La restaurazione del diritto naturale (Venezia 1959), in cui rivendicò il valore del giusnaturalismo al di là delle critiche con cui aveva cercato di demolirlo lo storicismo, di cui egli era stato, sulle orme del suo maestro Benedetto Croce, seguace: "L'idea del diritto di natura altro non significa che l'esigenza di un'azione dell'Universale ideale morale sulla legislazione positiva" (p. 36).

Di fronte a una dottrina che continua a rinascere si è tentati di dire che non è mai morta. Ma vi è chi ha sostenuto la tesi secondo cui tutta la storia del pensiero giuridico si può concepire come un perpetuo avvicendarsi di età giusnaturalistiche e di età positivistiche. Nella imponente opera Political theory (Princeton 1959) Arnold Brecht distingue, dai Greci ai giorni nostri, otto fasi, quattro di splendore del giusnaturalismo - l'antichità greca e romana, i filosofi scolastici e san Tommaso, l'idealismo tedesco, l'età contemporanea dopo la seconda guerra mondiale - e quattro di eclissi - Patristica, l'età da Bodin a Hobbes, l'empirismo inglese e il positivismo ottocentesco. Quanto sia meccanica, e inaccettabile nella sua meccanicità, questa sequenza, è superfluo sottolineare. Ma è un'ulteriore prova, posto che ce ne fosse ancora bisogno, del rilievo che nella storia del pensiero giuridico occidentale occupa, come si diceva all'inizio, il contrasto fra diritto positivo e diritto naturale. 

4. In quale senso si può parlare di una scuola del diritto naturale?

Per quanto l'idea del diritto naturale risalga all'età classica, come si è visto, quando si parla di scuola del diritto naturale ci si riferisce alla riviviscenza che questa antica e ricorrente idea ebbe all'inizio dell'età moderna e alla sua indiscussa preponderanza nel XVII e XVIII secolo. Secondo una tradizione che già si era consolidata nella seconda metà del XVII secolo attraverso Samuel Pufendorf, Jean Barbeyrac suo traduttore, e Cristiano Thomasius (Paulo plenior historia juris naturalis, 1711), la scuola del diritto naturale avrebbe avuto una precisa data di inizio con l'opera di Ugo Grozio (1583-1645), De jure belli ac pacis (1625). Meno certa la data della fine, anche se non esiste alcun dubbio sugli eventi che l'hanno determinata, primo fra tutti la creazione delle grandi codificazioni, specie quella napoleonica, che posero le basi per il rinvigorimento di un atteggiamento di ossequio alle leggi stabilite, e sul piano filosofico la nascita dello storicismo giuridico e con particolare riguardo alla Germania, il paese dove la scuola del diritto naturale aveva trovato la sua patria di adozione, la scuola storica del diritto di Friedrich Karl von Savigny (1779-1861). Volendo scegliere una data del punto di arrivo si potrebbe prendere in considerazione il 1802, anno di pubblicazione dello scritto giovanile di Hegel, Über die wissenschaftlichen Behandlungsarten des Naturrechts, in cui le filosofie del diritto precedenti, da Grozio a Fichte, sono sottoposte a una critica radicale.

Nelle storie della filosofia del diritto ottocentesche, a cominciare da quella più nota di Friedrich Julius Stahl, Die Philosophie des Rechts nach geschichtlicher Ansicht (1830 e 1837, tradotta in italiano nel 1853), quando si parla della scuola di diritto naturale non ci si riferisce soltanto alla scuola accademica tedesca che va da Pufendorf a Wolff attraverso Thomasius e giunge sino a Kant, ma si tende ad abbracciare un campo molto più vasto comprendente quasi tutti i maggiori filosofi dell'epoca: Pufendorf si ricollega a Hobbes; Barbeyrac tiene conto di Locke; entrambi conoscono Spinoza. Nella seconda edizione del De jure naturae et gentium, Pufendorf tiene conto del De legibus naturae di Richard Cumberland (1672). Leibniz critica Pufendorf con un celebre libello: Monita quaedam ad Samueli Pufendorfii principia (1706). Locke ha letto e apprezza Pufendorf. Rousseau, come è stato ampiamente documentato, ha studiato i maggiori trattatisti del diritto naturale, e menziona, criticandolo, Grozio all'inizio del Contratto sociale. Al di fuori della scuola tedesca sono da ricordare almeno i Principes du droit naturel del ginevrino Jean-Jacques Burlamaqui (1694-1748), che Rousseau conosce e utilizza. Nella storia di Stahl vengono esposte in successione le opere dei seguenti autori: Grozio, Hobbes, Pufendorf, Thomasius, Wolff, Kant, Fichte.

Quando la scuola era ormai giunta alla fine, gli epigoni ne hanno distinto varie fasi. Il kantiano Gottfried Hufeland nei suoi Lehrsätze des Naturrechts (1790) ne propone un periodizzamento destinato ad aver fortuna: 1) età dei precursori, che giunge sino a Grozio; 2) età della formazione, comprendente i tre grandi, Grozio, Pufendorf e Thomasius; 3) età della scuola costituita, che comincia dagli allievi di Thomasius e giunge sino a Kant.Sotto la stessa etichetta si sogliono adunare autori diversi: grandi filosofi come Hobbes, Locke, Leibniz, Kant, che si sono occupati anche di diritto; giuristi-filosofi, come Pufendorf, Thomasius e Wolff; professori universitari, autori di trattati per la scuola che nessuno dopo la loro morte ha mai più letto; e un grande scrittore politico, ma non solo politico, come Rousseau. Eppure, nonostante la disparità degli autori raggruppati sotto lo stesso 'ismo', non si può dire che di una scuola del diritto naturale si sia parlato a capriccio. Prescindendo dall'elemento comune e ovvio, che è l'aver creduto nell'esistenza del diritto naturale e di non aver mai dubitato, a differenza dei loro avversari, che il diritto naturale sia diritto a pieno titolo, anzi, a titolo più pieno, giacché il diritto positivo trae da esso la propria legittimità, le divergenze da autore a autore - per cui Pufendorf critica Hobbes, ma, come è stato recentemente dimostrato, ne è anche in gran parte un seguace, Leibniz, come si è detto, e anche Wolff criticano Pufendorf - non cancellano l'intento comune, ancorché attuato in modi diversi, che permette una considerazione unitaria dei vari autori, e rivela un filo rosso che lega l'uno all'altro.

L'idea prevalente che li ha ispirati, per cui si può parlare a buon diritto di 'scuola', è la costruzione di un'etica razionale, separata dalla teologia, e capace di per se stessa, proprio perché fondata su un'analisi e una critica razionali dei fondamenti, di garantire meglio della teologia, smarritasi in contrasti di opinione insolubili, l'universalità dei principî che debbono reggere la condotta umana. L'affermazione di un diritto universale attraverso la ragione, nei limiti della sola ragione, rappresenta storicamente il tentativo di dare una risposta rassicurante sia alle conseguenze corrosive che i libertini avevano tratto dalla crisi dell'universalismo religioso, sia agli eccessi della casistica che aveva a poco a poco messo in discussione la portata universale delle regole generali e così alimentato lo scetticismo morale. Non vi è giusnaturalista che non prenda preliminarmente posizione di fronte al pirronismo in morale, a ciò che oggi chiameremmo il relativismo etico, il weberiano "politeismo dei valori". Nella introduzione alla traduzione francese del Pufendorf (1706), uno scritto che può essere considerato come il manifesto della scuola, Barbeyrac, dopo aver citato un celebre passo di Montaigne che mette in dubbio il diritto naturale non essendovi legge naturale che non sia stata ignorata da una o più genti, reagisce citando un passo di Fontenelle: "Su tutto ciò che riguarda la condotta degli uomini, la ragione ha decisioni molto sicure: il guaio è che non la si consulta". Era dunque venuto il momento, in un mondo dilaniato dalle guerre religiose, di imparare una buona volta a consultarla. La nuova scienza della morale, nascente col proposito di applicare allo studio dell'uomo e alla sua condotta il metodo razionale che aveva dato sorprendenti risultati nello studio della natura, doveva servire a riporre su basi incrollabili le regole della convivenza tra gli uomini.

Nei Prolegomeni al De jure belli ac pacis Grozio rende omaggio al modo di procedere dei matematici affermando che intende comportarsi come loro, i quali, esaminando le figure, fanno astrazione dai corpi reali (§ 58). Nel capitolo primo dell'opera, dopo aver detto che si può provare che una regola è di diritto naturale a priori o a posteriori, vale a dire dimostrando che è conforme alla natura razionale dell'uomo o mostrando attraverso l'osservazione storica che è accolta presso tutti i popoli, aggiunge che questa seconda via offre minore certezza della prima (XII, 1).

Già nella lettera dedicatoria del De cive, Hobbes, convinto che il disordine della vita sociale dipenda dalle dottrine erronee degli antichi e dei seguaci delle sette alimentate dai demagoghi, sostiene che i malanni di cui soffre l'umanità sarebbero eliminati "se si conoscessero con egual certezza le regole delle azioni umane come si conoscono quelle delle grandezze in geometria". Secondo Hobbes, le leggi di natura non sono altro che conclusioni tratte dalla ragione in merito a quello che si deve o non si deve fare. Nell'opera maggiore, Leviathan, egli precisa: "conclusioni o teoremi".Nel campo delle scienze morali aveva dominato a lungo incontrastata l'opinione di Aristotele, secondo cui in tali scienze non si può raggiungere la stessa certezza che nelle scienze fisiche: "Sarebbe altrettanto sconveniente esigere dimostrazioni da un oratore che accontentarsi di probabilità nei ragionamenti di un matematico" (Eth. Nic., 1904 b). Pufendorf, che può rivendicare il titolo di fondatore della scuola ben più di Grozio, si rende conto che per fondare una scienza della morale occorre sgombrare il campo dalla perniciosa autorità di Aristotele. Le regole della condotta possono essere conosciute con certezza quando si abbandoni il terreno infido delle leggi positive, che cambiano da paese a paese, e si consideri la natura dell'uomo, i suoi bisogni, le condizioni obiettive della sua esistenza, le sue inclinazioni.
Negli stessi anni Spinoza compone l'Ethica geometrico more demonstrata. E nel Tractatus politicus scrive che si è dedicato alla politica "allo scopo di dimostrare con argomenti certi e irrefragabili, ovvero di dedurre dalla condizione stessa della natura umana, quei principî che si accordano perfettamente alla pratica", e per procedere in questa indagine scientifica con la stessa libertà di spirito con la quale usiamo applicarci alla matematica, "mi son fatto uno studio di non ridere né piangere sulle azioni umane" (I, 4).

Anche Locke, nell'Essay concerning human understanding, persegue l'ideale di un'etica dimostrativa, il che non era sfuggito al Barbeyrac, e pone la morale tra le scienze suscettibili di dimostrazione, onde "da proposizioni evidenti di per se stesse, mediante conseguenze necessarie, non meno incontrastabili di quelle matematiche, si potrebbero trovare le misure del giusto e dell'ingiusto, se alcuno volesse applicare a queste scienze la medesima imparzialità e attenzione che pone nelle altre" (IV, 3, 18).
Proprio in virtù della sua autorità di grande logico e di grande matematico, tutto ciò che ha scritto Leibniz sul metodo della giurisprudenza dà la piena misura della prevalente concezione matematizzante della scienza del diritto. La teoria del diritto è, secondo Leibniz, una di quelle scienze che non dipendono da esperimenti, ma si svolgono attraverso definizioni, scienze che egli chiama necessarie o dimostrative, tali cioè che "non dipendono dai fatti ma unicamente dalla ragione".
Infine Wolff (1679-1754), proprio all'inizio della sua grande opera, Jus naturale, methodo scientifica pertractatum, in otto volumi apparsi tra il 1740 e il 1748, non esita ad affermare che tutto ciò che ne forma oggetto deve essere dimostrato, perché, se è vero che la scienza consiste nell'habitus demonstrandi, il diritto naturale o si vale della "methodus demonstrativa o non è scienza" (I, 2).Non c'è miglior prova di questo ideale comune a tutti i seguaci della scuola di una scienza dimostrativa del diritto che il concorde rifiuto dell'argomento del consensus, secondo cui ciò che è di diritto naturale si potrebbe anche ricavare empiricamente dall'osservazione di ciò che è comune a tutti i popoli. Grozio, come si è detto, antepone il metodo a priori a quello a posteriori. L'inadeguatezza della ricerca del consenso come prova di un diritto per natura è affermata sia da Hobbes sia da Pufendorf. Alla stessa critica Locke dedica uno dei suoi saggi giovanili sulla legge naturale, il quinto, intitolato: La legge di natura non può essere conosciuta sulla base del consenso universale degli uomini (cfr. Essays on the law of nature, Oxford 1954, pp. 160-189). 

5. Principali caratteristiche del positivismo giuridico

Se di unità della scuola del diritto naturale si può parlare, questa riguarda il metodo, ma l'unità riguardante il metodo non implica anche l'unità riguardo ai contenuti, vale a dire riguardo alle regole che si possono ricavare e sono state di fatto ricavate dall'osservazione della natura umana. Nella prefazione al Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes, Rousseau, a proposito di ciò che si deve intendere per 'natura', ha scritto: "Ce n'est point sans surprise et sans scandale qu'on remarque le peu d'accord qui règne sur cette importante matière entre les divers auteurs qu'en ont traité". Per renderci conto della perplessità di Rousseau, che scrive queste parole quando la scuola si sta estenuando, basti pensare a certe famose contese: se lo stato di natura sia di pace o di guerra, che divide Pufendorf da Hobbes; se l'istinto fondamentale della natura umana sia favorevole o contrario alla società, che divide Hobbes da Grozio; se l'uomo naturale sia debole o insicuro, come voleva Pufendorf, o forte e sicuro come lo aveva immaginato Rousseau.

Si pensi anche alla varietà delle opinioni sulla legge naturale fondamentale, che era per Hobbes la pace, per Pufendorf la socialità, per Cumberland la benevolenza, per Thomasius la felicità, per Wolff la perfezione. Se una delle principali esigenze di una società ben costituita è la certezza del diritto, si deve riconoscere che una società regolata dal solo diritto naturale, assoggettabile a tante interpretazioni diverse, sarebbe stata, qualora fosse stata possibile, una società in cui gli individui sarebbero vissuti nella massima incertezza. Non era del resto Hobbes giunto alla conclusione che dove vigono soltanto le leggi naturali gli uomini precipitano nello stato di guerra di tutti contro tutti?Il positivismo giuridico nasce storicamente non solo dalla critica teorica delle idee giusnaturalistiche, secondo cui esiste ed è conoscibile una legge naturale universale, critica proveniente sia dallo storicismo in Germania sia dall'utilitarismo in Inghilterra sia dal positivismo filosofico in Francia, ma anche dall'esigenza pratica di garantire la certezza del diritto, che solo la volontà di un potere superiore, capace di emanare leggi e di farle rispettare con la forza, può assicurare.

Non a caso, proprio da Hobbes, che aveva immaginato lo stato di natura come lo stato di guerra perpetua, nasce già tutta spiegata la teoria del positivismo giuridico. In uno scritto degli ultimi anni, A dialogue between a philosopher and a student of the common laws of England (1666), egli fa dire a uno dei due interlocutori, il Filosofo, contro l'altro che difende il diritto comune inglese che pretende di essere fondato sulla ragione: "Auctoritas non veritas facit legem". E poco dopo lo stesso Filosofo definisce il diritto in questo modo: "Diritto è ciò che colui o coloro i quali detengono il potere sovrano ordinano ai suoi o ai loro sudditi, proclamando in pubblico e in chiare parole quali cose essi possono e quali non possono fare". Non si sarebbe potuto esplicare con maggiore chiarezza il senso della definizione tradizionale del diritto positivo: "Jus positivum quia positum est".Il positivismo giuridico si afferma attraverso la formazione dello Stato moderno che sorge sulle rovine della società feudale pluralistica, e che a poco a poco assume, insieme con il monopolio della forza legittima su un determinato territorio, anche quello della produzione giuridica attraverso la continua emanazione di norme in forma di legge, che diventano la fonte primaria del diritto, cui vengono subordinate tutte le altre fonti tradizionali: la consuetudine, la giurisdizione, la giurisprudenza intesa come il diritto prodotto dai giuristi e il diritto ricavabile dall'osservazione della natura delle cose, il diritto naturale appunto. La consuetudine ha vigore solo in quanto sia riconosciuta dalla legge; il diritto dei giuristi ha valore solo consultivo; il giudice si trasforma a poco a poco in funzionario dello Stato e, in quanto tale, secondo la famosa espressione di Montesquieu, è la "bouche de la loi"; il diritto naturale entra in scena soltanto in caso di lacuna della legge scritta.

La monopolizzazione della produzione giuridica da parte dello Stato ha la sua massima espressione nelle codificazioni dei primi anni del XIX secolo, di cui è prototipo il Codice Napoleone del 1804. Esso rappresenta la più compiuta espressione dell'onnipotenza del legislatore e da esso nasce in Francia l'École de l'éxégèse, che ha per suo motto la frase di un giurista del tempo: "Non conosco il diritto civile, io insegno il Codice Napoleone", ed è caratterizzata dalla completa subordinazione del giurista e del giudice alle leggi poste dal potere politico. Nel primo celebre trattato di diritto civile del tempo, uscito in cinque volumi tra il 1835 e il 1844, di Charles Aubry e Frédéric Charles Rau, il cui motto è "Tutta la legge, null'altro che la legge", del diritto naturale si dice che "non costituisce un corpo completo di precetti assoluti e immutabili", e che questi precetti sono in se stessi tanto vaghi che solo il diritto positivo può renderli effettivi determinandoli.

In Germania si manifestarono nello stesso periodo tendenze verso la codificazione di cui si fece portavoce il celebre giurista A. F. Thibaut (1774-1840) con un saggio Sopra la necessità di un diritto civile generale della Germania (1814), che suggerisce ai principi tedeschi di farsi promotori di codici valevoli per tutta la Germania. Contestata dal Savigny nello scritto uscito subito dopo, Della vocazione del nostro tempo per la legislazione e la giurisprudenza, il quale sostiene che in un'epoca di decadenza della civiltà giuridica la codificazione è dannosa perché ne perpetua i tristi effetti, l'opera del Thibaut rimase inascoltata. Il Codice civile tedesco sarà emanato, dopo l'unificazione, soltanto nel 1901.
Nonostante la nascita del positivismo teorico in Inghilterra attraverso Hobbes, il diritto inglese ha continuato a essere prevalentemente non legislativo e per tradizione creato dai giudici attraverso l'istituto del precedente obbligatorio. Non vi è stata né allora né poi una codificazione. Ma all'inizio del secolo scorso, per l'influenza delle idee illuministiche, Jeremy Bentham (1748-1832) si propose in un primo tempo la riorganizzazione sistematica del diritto inglese nei suoi vari rami, in polemica con il Blackstone che nei suoi celebri Commentaries on the common law of England considerava il sistema giuridico inglese un diritto perfetto in quanto attuava compiutamente il diritto naturale. In una seconda fase progettò un Digesto del diritto inglese che avrebbe dovuto contenere le regole di diritto comprendenti i principî dell'ordinamento giuridico del paese. Nella terza e ultima fase, dal 1811 in poi, progettò una completa codificazione, battezzata in un primo tempo Pandikaion, in un secondo tempo Pannomion, che avrebbe dovuto avere validità universale e pertanto da estendersi a tutto il mondo civile. Le caratteristiche di questo codice universale avrebbero dovuto essere l'utilità, in conformità del principio utilitaristico della maggiore felicità per il maggior numero, la completezza, la conoscibilità da parte di tutti i cittadini, la giustificabilità attraverso l'esplicitazione dei motivi (la ratio juris) di ogni disposizione. Dall'Inghilterra ci è pervenuta anche la prima grande opera teorica del positivismo giuridico, The philosophy of positive law di John Austin (1790-1859). In essa il diritto viene definito: "Comando generale e astratto posto da un sovrano in una società politica indipendente", ove per sovrano si intende un potere che ottiene obbedienza abituale da parte dei suoi destinatari e nello stesso tempo non ha al di sopra di sé alcun potere al quale debba ubbidire.

La teoria del positivismo giuridico, quale si è venuta sviluppando e perfezionando durante il secolo scorso, dominandone il pensiero giuridico, si può riassumere in questi punti principali.
Per quel che riguarda il modo di conoscere il diritto, vale a dire la natura e la funzione della scienza giuridica, il diritto è un fenomeno sociale, un mero fatto, che deve essere studiato come lo scienziato della natura studia la realtà naturale, cioè prescindendo da qualsiasi giudizio di valore. Non spetta al giurista dichiarare che cosa è giusto e ingiusto, ma solo esporre attraverso l'interpretazione ciò che le leggi stabiliscono. Sono dunque diritto per il giurista positivo le norme che sono poste da un'autorità legittima e sono abitualmente ubbidite.

Affinché siano abitualmente ubbidite, la maggior parte delle norme che compongono un ordinamento giuridico, e lo stesso ordinamento nel suo complesso, debbono essere fatte valere in ultima istanza con la forza. Ciò che contraddistingue le norme giuridiche dalle norme morali e da quelle sociali è la loro coercibilità, il che ha per conseguenza la presenza, accanto alle norme di condotta o primarie, di norme dette secondarie, rivolte ai giudici cui spetta il compito di indurre i destinatari all'osservanza o punire l'inosservanza con sanzioni, che vanno dall'annullamento dell'atto antigiuridico alla punizione dell'atto illecito. È stato sostenuto (Hart) che la struttura tipica dell'ordinamento giuridico rispetto ad altri sistemi di norme, è di essere composto da un insieme di norme primarie e secondarie.
Rispetto alle fonti del diritto, ossia rispetto alle diverse maniere con cui vengono prodotte le norme, il positivismo giuridico dà la preminenza alla legge, come espressione della volontà del sovrano, sia monocratico o policratico, democratico o autocratico, su ogni altra fonte: la consuetudine, di cui si ammette quella secundum legem e quella praeter legem, e si espunge quella contra legem che avrebbe effetto abrogativo; la giurisdizione, salvo i casi specificamente ammessi di giudizio di equità, dati cioè in virtù del potere discrezionale del giudice.Rispetto alla natura delle norme, prevalente è nella teoria del positivismo giuridico la considerazione della norma come un comando, cioè come una proposizione prescrittiva forte che implica da parte del destinatario l'obbligo di osservarla, e, in caso di inosservanza, una conseguenza sgradita che funge da intimidazione preventiva e da punizione successiva.

Le norme giudicate vigenti su un determinato territorio e rivolte a un determinato gruppo umano costituiscono un insieme, se non proprio un sistema, un ordinamento, i cui caratteri fondamentali sono l'unità, che fa risalire le norme singole di grado in grado dalle norme inferiori a quelle superiori, sino alla norma prima, detta fondamentale (Kelsen) o di riconoscimento (Hart); la completezza, in conseguenza della quale il giudice può e deve, e deve perché può, sempre desumere una regula decidendi esplicitamente o implicitamente mediante il ricorso all'analogia o ai principî generali, per risolvere qualsiasi caso; la coerenza, secondo cui due norme antinomiche non possono essere entrambe valide, e per risolvere l'antinomia al giurista sono offerte alcune massime generali come lex posterior derogat anteriori, lex superior derogat inferiori, lex specialis derogat generali.Infine l'attività propria del giurista è l'interpretazione vincolata da alcune regole che inibiscono la creazione di norme nuove, se non nei casi in cui lo stesso ordinamento lo prevede, contrariamente a ciò che viene sostenuto dalle teorie, di tempo in tempo ricorrenti, del diritto libero o della libera ricerca del diritto. 

6. Il dibattito attuale

Il momento culminante della fortuna del positivismo giuridico è rappresentato dagli ultimi decenni del secolo scorso, quando la filosofia dominante del tempo era il positivismo, ancorché il positivismo giuridico sia indipendente dal positivismo filosofico. Uno dei testi più rappresentativi del positivismo, insieme giuridico e filosofico, è comunemente considerato Jurisprudenz und Rechtsphilosophie (1892) di Karl Magnus Bergbohm (1849-1927), che contiene una critica serrata del diritto naturale. Con l'affermazione del positivismo giuridico nasce la teoria generale del diritto ovvero lo studio dei concetti giuridici fondamentali tratti dal diritto positivo e presuntivamente validi per ogni ordinamento giuridico. Ne è un prototipo Rechtsnorm und subjectives Recht (1878) di August Thon (1839-1912). Si apre anche la via allo studio del rapporto tra diritto e società da cui nascerà la sociologia del diritto, ma è già esemplare, come anticipazione di questo modo di accostarsi allo studio del diritto positivo, la grande opera di Rudolf von Jhering (1818-1892), Der Zweck im Recht, il cui primo volume esce nel 1877, il secondo nel 1883.

Come si è già detto, l'esigenza di un diritto che trascende il diritto positivo si fa sentire nei momenti di grande crisi morale e sociale: così è nel primo e nel secondo dopoguerra. Ma paradossalmente proprio intorno alla metà del secolo, nonostante la restaurazione del diritto naturale da più parti proclamata, e in diretta opposizione a essa, è apparsa l'opera di Hans Kelsen, che può essere considerata come la più rigorosa ed esclusiva teoria del positivismo giuridico. Per Kelsen infatti il diritto positivo, che è un diritto prodotto dalla volontà umana, si contrappone al diritto naturale che trae origine o da Dio o dalla natura o dalla ragione, ed è valido solo in quanto è, o si considera, giusto. Il diritto di cui si debbono occupare i giuristi è soltanto il primo. Inoltre, due sono le specie di sistemi normativi, statici e dinamici: i primi sono composti di norme che si deducono logicamente le une dalle altre, i secondi, da norme che si producono le une dalle altre mediante delegazione da un potere superiore a uno inferiore, in base cioè a un principio di autorità. Il diritto appartiene, secondo Kelsen, alla seconda specie. Ancora una volta: "Auctoritas non veritas facit legem". Al positivismo giuridico appartiene anche la teoria di Hart, se pur con un limite. Egli definisce correttamente il positivismo giuridico affermando che non è in alcun modo una verità necessaria che le leggi riproducano o soddisfacciano certe esigenze della morale, anche se nella realtà esse spesso lo abbiano fatto. Il limite consiste in quello che egli chiama il "contenuto minimo del diritto naturale", costituito da norme che ogni organizzazione sociale deve contenere per essere vitale, e che derivano da caratteri universali degli esseri umani: per fare un esempio, le norme che limitano l'uso della violenza sono rese necessarie dal fatto che gli uomini sono vulnerabili, giacché, qualora gli uomini perdessero la loro vulnerabilità reciproca, sparirebbe qualsiasi ragione di un precetto come 'non uccidere'.

Anche in Italia, dove le opere di Kelsen e di Hart hanno avuto larga diffusione, il dibattito pro e contro il positivismo giuridico si accese negli anni prima e dopo il 1960, concludendosi con il libro di Uberto Scarpelli Cos'è il positivismo giuridico (v., 1965), in cui, rifiutata l'interpretazione prevalente di esso come movimento all'interno della scienza del diritto, se ne sostiene un'interpretazione politica, secondo cui, una volta definito il diritto positivo come diritto volontario, composto principalmente di norme generali e astratte, tendenzialmente coerente e completo, ai fini della sua attuazione coercibile, il positivismo giuridico costituisce per il giurista una scelta politica, la scelta di un ordinamento che attraverso la distinzione tra diritto e morale assicura, insieme con la certezza del diritto, la sicurezza dell'individuo e con la sicurezza la sua libertà. Due anni dopo una discussione sulle tesi di Scarpelli ha rappresentato la più alta fiammata di un fuoco destinato a spegnersi presto (Tavola rotonda sul positivismo giuridico, Pavia, 2 maggio 1966): le ragioni del positivismo giuridico, così com'era stato concepito sino allora, sono state messe in questione non dalla solita rinascita del diritto naturale, ma da profondi mutamenti dello Stato di diritto e della società sottostante, che hanno a poco a poco resa sempre più inadeguata la raffigurazione dello Stato legislatore e del giudice-esecutore, sulla quale si era venuta formando dall'inizio del secolo scorso la teoria giuspositivistica.

Se di una crisi del positivismo giuridico si può parlare, questa nasce all'interno stesso della dottrina, di fronte alla quale non si erge più un nuovo o rinnovato giusnaturalismo, ma se mai si affaccia una nuova concezione del diritto positivo, costretto per il mutamento dei modi di produzione del diritto ad abbandonare o attenuare alcune delle tesi più tipiche, trasformatesi in dogmi, come quelle dell'onnipotenza del legislatore, dell'unità, completezza, coerenza dell'ordinamento, della validità formale delle norme, della imperatività e coattività del diritto.

Questa correzione del positivismo giuridico è stata avviata da Ronald Dworkin, allievo di Hart, che in Taking rights seriously (London 1977; tr. it., Bologna 1982) critica la tesi positivistica del diritto come insieme di regole (rules), mentre i criteri con cui i giudici stabiliscono diritti e doveri, assolvono o condannano, sono anche altri, come i principî (principles), che non hanno per contenuto una determinata condotta da comandare, vietare o permettere, ma esprimono un'esigenza generale di giustizia, come, per addurre l'esempio stesso di Dworkin, che nessuno deve trarre profitto dal proprio illecito. Mentre le regole sono applicabili nella forma del tutto o niente, il principio non indica conseguenze giuridiche che seguono automaticamente. Più che di un'alternativa al diritto positivo si tratta di un allargamento dell'area dei criteri in base ai quali i giudici rendono giustizia, un allargamento, tra l'altro, che abbraccia principî generalissimi della condotta, di cui lo stesso positivismo giuridico non ha mai rifiutato di tenere conto, se pure in ultima istanza.

A mettere in questione il positivismo giuridico in senso stretto è sopraggiunta infine la formazione di un numero crescente di Stati a costituzione rigida, in cui principî generali, ispirati ai grandi ideali della libertà e della giustizia, sono stati costituzionalizzati e come tali sono diventati per i giuristi criteri di valutazione al di sopra delle leggi ordinarie. Però, in quanto tali principî ideali sono entrati a far parte di costituzioni scritte, sono diventati anch'essi diritto positivo nel senso comune di questa parola. Cade del positivismo giuridico tradizionale anche il valore che pretendeva di essere assoluto, della certezza (cfr. G. Zagrebelski, I diritti fondamentali oggi, in "Materiali per una storia della cultura giuridica", XXII, 1 giugno 1992, pp. 202-203). Ma anche sotto questo aspetto più che della rinascita di un nuovo giusnaturalismo si dovrebbe parlare, in forma ancora vaga che attende di essere precisata in seguito alle trasformazioni in corso delle società politicamente ed economicamente più avanzate, di postpositivismo, dove il 'post' sta a indicare per ora semplicemente che l'antico dibattito tra giusnaturalisti e positivisti non può più essere posto nei termini abituali, ma attende nuovi protagonisti e nuove idee.