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Enciclopedia delle Scienze
Sociali (1994)
di Norberto Bobbio
Giusnaturalismo
e giuspositivismo
Sommario:
1. Origine della distinzione fra diritto naturale e diritto
positivo. 2. Vari criteri di distinzione: antichità, Medioevo, età
moderna. 3. Giusnaturalismo e positivismo giuridico nei loro
reciproci rapporti. 4. In quale senso si può parlare di una scuola
del diritto naturale. 5. Principali caratteristiche del
positivismo giuridico. 6. Il dibattito attuale. □ Bibliografia.
1. Origine
della distinzione fra diritto naturale e diritto positivo
La storia del pensiero giuridico occidentale, dai Greci sino a
oggi, è dominata dalla distinzione fra due specie di diritto: il
diritto naturale e il diritto positivo. Da questa distinzione
traggono il nome le rispettive scuole o dottrine del
giusnaturalismo e del positivismo giuridico (o giuspositivismo).
Il diritto naturale, contrapposto al diritto positivo, riceve
il suo significato dal termine 'natura', intesa originariamente e
prevalentemente come l'insieme degli enti che hanno in se stessi,
secondo la definizione di Aristotele (Metafisica, 1015 a), il
principio del loro movimento, nascono, si sviluppano, in
conformità a leggi non poste né modificabili dall'uomo. A questi
si contrappongono gli enti prodotti dal fare dell'uomo. Quando,
agli albori della riflessione dell'uomo sul mondo che lo circonda,
questi comincia a prendere coscienza della sua posizione
nell'universo, scopre che la prima e più evidente distinzione tra
gli enti che gli è dato osservare è fra quelli che sono esistiti
prima dell'apparizione dell'uomo sulla terra e continueranno a
esistere anche quando l'uomo non esisterà più, come il sole, le
stelle, la terra, il mare, le piante, e quelli che esistono solo
in quanto esiste l'uomo che li ha prodotti, come le case, le armi,
gli utensili, gli indumenti. Tutti i concetti antitetici a quelli
di natura hanno sempre la stessa ragione d'essere e la stessa
funzione conoscitiva: contrapporre un universo che l'uomo produce
e in quanto produce è in grado di riprodurre, manipolare,
distruggere, all'universo che l'uomo trova già fatto al di fuori
di sé e alle cui leggi gli è necessario sottostare. Così si
contrappongono le cose naturali alle cose artificiali prodotte
dall'arte o dalla tecnica. Ma tra le cose artificiali ci sono
anche i costumi e le regole sociali, che infatti cambiano secondo
i tempi e i luoghi. Di qua l'ulteriore distinzione fra ciò che è
per natura e ciò che è per convenzione. Usando la terminologia
oggi corrente, secondo cui all'universo della natura si
contrappone l'universo della cultura, la distinzione tra le due
specie di diritto si risolve nella distinzione fra il diritto che
appartiene all'universo della natura e il diritto, chiamato in
seguito diritto positivo, che appartiene all'universo della
cultura.
Quando i Greci si posero il problema del diritto, come anche
quello del linguaggio, lo posero in questi termini: il diritto è
per natura o per convenzione? Questa domanda voleva dire che,
oltre le cose che non possono essere considerate se non naturali,
come la montagna o il bosco, e altre cose che non possono essere
considerate se non artificiali, come la freccia e la statua, vi
erano anche cose come il diritto, e in generale le regole della
convivenza, la cui appartenenza all'una o all'altra categoria non
era così evidente, apparendo le regole consuetudinarie, che allora
erano molto più numerose di adesso, naturali, e le regole poste da
un legislatore o dalle assemblee popolari, artificiali. La
risposta fu che il diritto è tanto naturale quanto convenzionale.
Da questa risposta è nata la grande dicotomia che, pur attraverso
mille peripezie, interpretazioni molteplici e controverse,
rapporti reciproci ora pacifici ora antagonistici, è arrivata sino
a noi.
Dopo l'avvento del cristianesimo, prevalendo una visione religiosa
del mondo e dell'uomo, la natura, considerata come il prodotto
della potenza creatrice di Dio, rappresenta ancora una volta
l'universo degli enti non prodotti dall'uomo che, in quanto tale,
si contrappone ai prodotti delle arti e delle convenzioni umane.
Il diritto naturale diventa allora o il diritto iscritto da Dio
nel cuore degli uomini o la legge rivelata nei Testi Sacri o la
legge comunicata da Dio agli uomini, esseri razionali, attraverso
la ragione.All'inizio dell'età moderna, quando per natura si
intende l'universo regolato da leggi universali nella loro
estensione spaziale e temporale, e necessarie, quindi
immodificabili dall'uomo, il diritto naturale viene interpretato
come l'insieme delle regole di condotta che possono venir dedotte
da quest'ordine e sono conoscibili attraverso la ragione.In
conclusione, dopo il diritto naturale-consuetudinario, la cui
origine si perde nella notte dei tempi, degli antichi; dopo il
diritto naturale-divino degli scrittori medievali, nell'età
moderna il diritto naturale-razionale rappresenta la nuova
raffigurazione di un diritto non prodotto dall'uomo, e che,
proprio per la pretesa di essere sottratto ai mutamenti della
storia, pretende anch'esso di avere validità universale e quindi
maggiore dignità del diritto positivo.
2. Vari
criteri di distinzione: antichità, Medioevo, età moderna
La più antica e celebre distinzione tra diritto naturale e diritto
positivo è in Aristotele: "Del giusto politico ci sono due specie,
quella naturale e quella legale. È naturale il giusto che ha
dovunque la stessa potenza e non dipende dal fatto che venga o non
venga riconosciuto; legale, invece, è quello che originariamente è
del tutto indifferente che sia in un modo piuttosto che in un
altro, ma che non è più indifferente, una volta che è stato
stabilito" (Eth. Nic., 1134 b). Il diritto naturale vi è definito
attraverso due caratteristiche: 1) è dappertutto, il che vuol dire
che la sua potenza, ovvero la sua validità e la sua efficacia,
sono universali, al pari del fuoco, come si legge poco più oltre,
che brucia ovunque nello stesso modo; 2) vale indipendentemente
dal fatto che sia o che non sia riconosciuto, il che significa che
vale oggettivamente. Il diritto positivo, che qui viene chiamato
legale, cioè posto per legge, è caratterizzato non attraverso
l'antitesi alla prima caratteristica, anche se si può
sottintendere facilmente che esso non vale "dappertutto", ma varia
da luogo a luogo, bensì in base alla seconda: accanto alle azioni
regolate dal diritto naturale, e quindi non dipendenti dal nostro
giudizio e, in quanto tali, buone o cattive in se stesse, vi è
l'ampia sfera delle azioni indifferenti che sono libere, ma
diventano obbligatorie o proibite in quanto così sia stabilito da
una legge posta da un'autorità superiore, cioè da una legge che
oggi chiamiamo 'positiva'. L'esempio che lo stesso Aristotele
adduce dopo la definizione è chiaro: sacrificare a Zeus una capra
o due pecore è un'azione indifferente prima che sia stata emanata
da quella certa autorità, in quel certo luogo e in un certo
momento del tempo, una legge che imponga un tipo di sacrificio
piuttosto che un altro.
Tra i passi introduttivi del Digesto, che propongono preliminari
distinzioni fra varie specie di diritto, il più noto è quello di
Paolo (D., 1, 1, 11) che così si esprime : "Jus pluribus modis
dicitur: uno modo, cum id quod semper aequum et bonum est jus
dicitur, ut est jus naturale, altero modo, quod omnibus aut
pluribus in quaque civitate utile est, ut est jus civile". Qui i
criteri di distinzione sono di nuovo due, ma diversi da quelli
aristotelici: 1) il diritto naturale è universale, però non
rispetto ai luoghi (il "dappertutto" di Aristotele) ma rispetto al
tempo ("semper"), mentre, per contrasto, il diritto, non ancora
detto positivo, civile, cioè relativo a una civitas, è mutevole di
tempo in tempo; 2) in quanto il diritto naturale è ispirato al
buono e al giusto e il diritto civile all'utile di una determinata
città, ciò che li distingue è un criterio di valore, cioè il
diverso bene dall'uno e dall'altro tutelato, rispettivamente, la
giustizia e l'utilità, due beni spesso in contrasto, uno
universale, l'altro particolare, per cui non sempre è utile ciò
che è giusto, e non sempre è giusto ciò che è utile.
La prima volta, pare, che il diritto contrapposto al diritto
naturale viene chiamato 'positivo', non più 'legale', come in
Aristotele, non più 'civile', come nel Digesto, è in un passo del
Dialogus inter philosophum, judaeum et christianum di Abelardo:
"Jus aliud naturale, aliud positivum dicitur", ove il diritto
positivo viene definito, in contrasto con quello naturale, "illud
quod ab hominibus institutum", sia attraverso una consuetudine
("aut sola consuetudine"), cioè come il diritto che i giuristi
definivano abitualmente 'non scritto', sia attraverso l'autorità
di un dettame scritto ("aut scripti auctoritate"). Il criterio
fondamentale della distinzione è in questo caso quello che è
andato, come vedremo, prevalendo: il diritto positivo è il diritto
posto dagli uomini in contrasto con il diritto non posto dagli
uomini, che a questi viene imposto da qualcuno o qualcosa che li
trascende, Dio o la natura, dove Dio rappresenta il creatore, la
natura la realtà da Dio creata.
Che col cristianesimo il contrasto fra diritto naturale e diritto
positivo si risolva in quello tra il diritto posto da Dio, o
rivelato per suo tramite attraverso la natura, e il diritto posto
dagli uomini è detto chiaramente nel Decretum Gratiani (XII
secolo), nella cui prima Distinctio, intitolata De jure naturae et
constitutionis, si legge: "Jus naturale est quod in Lege et in
Evangelio continetur", dove per Lex s'intende il Vecchio
Testamento e per Evangelium il Nuovo. In tal modo la legge
naturale viene interamente identificata coi dieci comandamenti e
coi precetti morali predicati da Cristo. Di particolare importanza
per la secolare controversia tra giusnaturalisti e positivisti è
l'affermazione esplicita, che non si trova né nel passo
aristotelico né in quello del giurista romano Paolo, della
superiorità del diritto naturale sul diritto positivo: "Dignitate
vero jus naturale simpliciter praevalet consuetudini et
constitutioni", donde la conseguenza di enorme importanza pratica,
come si può bene immaginare, che qualsiasi consuetudine o legge
scritta contraria al diritto naturale deve essere considerata
invalida ("vana et irrita sunt habenda").
La concezione classica e insuperata del giusnaturalismo cristiano,
cui hanno continuato a ricollegarsi anche scrittori moderni e
contemporanei, è quella che san Tommaso espone in alcune
quaestiones della Summa theologica (Prima Secundae, 90, e ss.). Vi
sono definite quattro forme di leggi: eterna, naturale, umana,
divina. Mentre la legge eterna è la ragione divina che governa il
mondo e la legge divina è la legge data direttamente da Dio agli
uomini in circostanze eccezionali - ma né l'una né l'altra qui ci
interessano - la legge naturale e la legge umana corrispondono
alla distinzione fra diritto naturale e diritto positivo. La prima
è definita: "Partecipatio legis aeternae in rationali creatura",
vale a dire è la manifestazione dell'ordine cosmico creato da Dio
in quel particolare prodotto della creazione che è l'uomo, essere
dotato di ragione, cioè di una facoltà che gli permette di
giudicare liberamente del bene e del male. Consta di un solo
precetto generalissimo: "Bonum faciendum et male vitandum". La
seconda, che Tommaso chiama anche "humanitus posita", consta dei
precetti che l'uomo con la sua ragione ricava dal precetto
generale allo scopo di regolare caso per caso la sua vita di
relazione. Il passaggio dalla legge naturale alla legge umana può
avvenire in due modi: per conclusionem, cioè nello stesso modo con
cui si traggono logicamente conclusioni necessarie da principî
evidenti (ad esempio, la norma positiva di non dire falsa
testimonianza si deduce dalla legge naturale generalissima che
prescrive di dire la verità); per determinationem, quando la legge
umana stabilisce come una legge naturale generale debba essere
applicata (per esempio, la legge naturale stabilisce che i delitti
debbono essere puniti, ma è solo la legge umana che stabilisce la
misura e le modalità della punizione).
Rispetto alla definizione aristotelica, per cui diritto naturale e
diritto positivo si estendono su due sfere diverse della condotta
umana, la sfera delle azioni moralmente obbligatorie e quella
delle azioni moralmente indifferenti, la definizione di Tommaso
parte dalla considerazione che l'intera sfera della condotta umana
cade sotto il dominio della legge naturale, e il diritto positivo
altro non è che uno svolgimento interno della massima generale del
diritto naturale allo scopo di adattarla ai casi concreti.Per quel
che riguarda il problema assiologico del rapporto fra diritto
naturale e diritto positivo, il pensiero di Tommaso è destinato a
diventare il punto di riferimento dei giusnaturalisti successivi,
quasi un ipse dixit ripetuto all'infinito ogniqualvolta si è
voluto affermare, insieme con la superiorità del diritto naturale
su quello positivo, l'invalidità di una legge positiva contraria
alla legge naturale: la legge umana è vera e propria legge, cioè
ha vigore di legge, solo in quanto deriva dalla legge di natura.
Se non concorda con essa, "non erit lex sed legis corruptio"
(Summa theol., q. 95, art. 2). Ciò vuol dire che per una legge
positiva la conformità alla legge naturale è condizione di
validità.Per comune opinione, se pure più volte contestata, il
giusnaturalismo moderno viene fatto cominciare da Ugo Grozio. Per
il quale, a fondamento della distinzione, sta la contrapposizione
tra ragione e volontà. Il diritto naturale consiste in dettami
della retta ragione, la quale ci fa conoscere che le azioni sono
naturalmente buone o turpi secondo che siano o non siano conformi
alla stessa natura razionale dell'uomo, e quindi sono obbligatorie
o illecite per se stesse. Il diritto naturale si differenzia non
solo dal diritto umano, ma anche dal diritto divino, che, come il
diritto umano volontario, non comanda o vieta azioni che siano di
per se stesse obbligatorie o illecite, ma le rende illecite col
vietarle e obbligatorie col prescriverle. È immutabile al punto
che non può essere modificato neppure da Dio. In opposizione al
diritto naturale razionale c'è il diritto volontario positivo, che
si distingue a sua volta nel diritto civile, che riceve forza dal
potere civile o politico, in un diritto meno esteso che è il
diritto familiare, e in uno più esteso che è il diritto delle
genti, che solo molto più tardi sarà chiamato diritto
internazionale.
Riassumendo, i diversi criteri di distinzione fra i due diritti,
rilevati in questo breve excursus storico, si possono fissare nei
seguenti punti: 1) rispetto al soggetto o all'autore dell'uno o
dell'altro, il diritto naturale deriva da Dio o dalla natura,
mentre il diritto positivo deriva da un legislatore umano; 2)
rispetto al fondamento il primo è razionale, il secondo è
volontario, onde l'uno viene conosciuto attraverso la ragione, il
secondo empiricamente attraverso le dichiarazioni espresse da
un'autorità costituita oppure attraverso il manifestarsi di una
volontà tacita; 3) riguardo al contenuto, ossia ai comportamenti
dall'uno e dall'altro regolati, quelli regolati dal diritto
naturale sono buoni o cattivi in se stessi, quelli regolati dal
diritto positivo sono buoni in quanto comandati, cattivi in quanto
proibiti; 4) rispetto alla loro estensione, il diritto naturale è
universale nello spazio e immutabile nel tempo, mentre il diritto
positivo vale in uno spazio circoscritto e muta nel tempo.Questi
criteri di distinzione sono cumulativi, non si escludono a
vicenda. È conveniente considerarli tutti insieme anche se non è
detto che tutti insieme siano parimenti accolti da tutti gli
autori.
3. Giusnaturalismo
e positivismo giuridico nei loro reciproci rapporti
Dal contrasto fra le due specie di diritto deriva il contrasto fra
le dottrine che hanno preso il nome di giusnaturalismo e
positivismo giuridico, contrasto che ora può essere definito in
questo modo. Per giusnaturalismo si intende quella corrente di
pensiero giuridico che ha costantemente, se pure interpretate in
diversi modi, queste due caratteristiche: 1) esistono tanto il
diritto naturale quanto il diritto positivo; 2) il diritto
naturale è assiologicamente superiore al diritto positivo. Per
positivismo giuridico s'intende quella corrente di pensiero
giuridico che non ammette l'esistenza di un diritto naturale
accanto al diritto positivo e sostiene che non esiste altro
diritto che il diritto positivo. Si osservi l'asimmetria delle due
definizioni: mentre il giusnaturalismo afferma l'esistenza di
entrambi i diritti ma insieme la differenza di grado, il
positivismo giuridico afferma del diritto positivo rispetto al
diritto naturale non la superiorità ma la esclusività. Il
giusnaturalismo è dualistico, il positivismo giuridico è
monistico.
Contrariamente a quello che di solito si ritiene, giusnaturalismo
e positivismo giuridico non sono le sole possibili concezioni
generali del diritto. Se ne possono ipotizzare altre tre: 1)
diritto naturale e diritto positivo esistono entrambi ma in
rapporto di indipendenza reciproca o di indifferenza: quando
Aristotele, come si è detto, afferma che nel giusto politico una
parte è naturale e un'altra legale, distingue e delimita due sfere
normative diverse per l'ambito e il fondamento di validità, ma non
necessariamente contrapposte e tanto meno escludentisi a vicenda;
2) esiste solo il diritto naturale e il diritto positivo è una
derivazione del primo attraverso l'autorità di un legislatore
legittimo: in una posizione di questo genere si può far rientrare
la teoria di Tommaso per cui il diritto umano procede da quello
naturale; 3) diritto naturale e diritto positivo esistono
entrambi, ma il secondo è superiore al primo: rientrano in questa
concezione, che si può chiamare di positivismo aperto o limitato,
quegli autori che ammettono il diritto naturale ma non gli
riconoscono altra funzione che quella di integrare il diritto
positivo in caso di lacuna, così che il diritto naturale viene
espulso dal sistema e vi rientra solo eccezionalmente, come una
specie di serbatoio di riserva per le decisioni del giudice.
Nella contrapposizione tra i due diritti non entra soltanto, come
si è visto sinora, la differenza dei due aggettivi, naturale e
positivo, ma anche il diverso significato che ha nelle due
espressioni il termine 'diritto'. La definizione che ne dà il
giusnaturalismo è una definizione persuasiva, ovvero una
definizione che contiene un giudizio di valore, per cui 'diritto'
è l'insieme delle norme buone o giuste che regolano, o dovrebbero
regolare, la convivenza degli uomini, e se non sono buone o giuste
non meritano il nome di diritto. Secondo il positivismo giuridico,
invece, è diritto l'insieme delle norme che regolano di fatto,
indipendentemente dalla loro qualità morale, una determinata
società storica. Un termine di valore come 'buono' o 'giusto' non
è in questo caso un elemento della definizione. Ciò che fa essere
diritto l'insieme delle norme che regolano di fatto una
determinata società è la sua validità, la conformità di queste
norme a una costituzione, scritta o non scritta, la quale a sua
volta trae il proprio fondamento ultimo dall'essere abitualmente
ubbidita e, quindi, efficace.
Questa precisazione serve a spiegare le ragioni principali del
contrasto perenne tra giusnaturalisti e positivisti, contrasto
particolarmente intenso nei momenti di trapasso da un vecchio a un
nuovo ordinamento, per cui, da un lato, è empiricamente
osservabile che il nuovo diritto nasce da un fatto, dall'altro, il
vecchio viene delegittimato pur avendo avuto anch'esso in un fatto
precedente la causa ultima della propria legittimità. Questa
legittimazione puramente fattuale condurrebbe a insanabili aporie
che, secondo i giusnaturalisti, possono essere risolte soltanto
attraverso una concezione del diritto per cui non basta, affinché
si possa parlare nel senso eulogico della parola 'diritto', che
sia valido ed efficace, ma è necessario anche che sia giusto, e
quindi può accadere che il vecchio ordinamento, pur essendo stato
abitualmente ubbidito e considerato per un certo periodo valido ed
efficace, non possa più essere considerato tale in tutti quei casi
in cui i principî universali del diritto naturale non siano stati
rispettati.
Da questo punto di vista il vecchio diritto può essere considerato
non più diritto, così come il nuovo può essere considerato non
ancora diritto, in attesa che la legittimazione secondo il fatto
sia in qualche modo corroborata da una legittimazione secondo il
valore. Dall'altra parte, dalla parte dei positivisti, si
controbatte sostenendo che una cosa è il giudizio morale, altra
cosa il giudizio di stretto diritto, e che, se è vero che l'uno
non esclude l'altro, è altrettanto vero che la definizione
persuasiva di diritto propria del giusnaturalismo conduce ad
aporie altrettanto gravi, come quella di non rispecchiare ciò che
avviene di fatto nella pratica dei tribunali dove il giudice dello
Stato moderno giudica secondo il diritto che è, non secondo quello
che deve essere.
La definizione asettica di diritto, propria dei positivisti, serve
poi a spiegare che cosa si intende dire quando si afferma che il
positivismo giuridico è quella concezione del diritto per cui
esiste soltanto il diritto positivo. S'intende dire che per il
positivismo giuridico è diritto nel senso proprio della parola
soltanto l'insieme delle norme di un ordinamento valido ed
efficace, e il diritto naturale non è, secondo questa definizione,
diritto in senso proprio, e può essere ritenuto tutt'al più come
un diritto in fieri, l'esigenza di un diritto che sarebbe bene
diventasse valido ed efficace, ma che il solo fatto di essere
affermato come esigenza non impedisce che sia valido ed efficace
un diritto che questa esigenza non soddisfa. Il giurista che
rifiuta di riconoscere al diritto naturale il carattere di diritto
in senso proprio non si pronuncia sull'esistenza o meno di ciò che
viene chiamato diritto naturale, ma semplicemente constata che,
posto che esista, non è diritto alla stessa stregua del diritto
positivo. Ciò che secondo un positivista manca al diritto naturale
è l'effettività. E il diritto naturale non è effettivo perché è
disarmato. Ma nel momento in cui viene armato, vale a dire viene a
far parte di un ordinamento in cui può essere fatto valere
mediante la coazione, diventa diritto positivo.
Come tutti i giusnaturalisti, Kant distingue lo stato di natura
retto soltanto dalle leggi naturali dallo stato civile regolato
dal diritto positivo. Chiama il primo "provvisorio", il secondo
"perentorio". Sulla scia di Kant si può dire che ciò che distingue
il diritto positivo dal diritto naturale è la
perentorietà.Storicamente, giusnaturalismo e positivismo giuridico
si rincorrono l'un l'altro dall'inizio dell'età moderna in poi.
Quando il secondo sembra trionfare, il primo rinasce.
Alla fine della prima guerra mondiale, Julien Bonnecase,
condannando tutta la scienza giuridica tedesca che aveva
subordinato il diritto alla forza, attribuisce la vittoria degli
Alleati al non avere tradito l'idea eterna del diritto naturale
(cfr. La notion de droit en France au dix-neuvième siècle, Paris
1919); non altrimenti negli stessi anni Ernst Troeltsch,
considerando l'idea del diritto naturale la più alta espressione
del pensiero politico europeo, rimproverava alla filosofia tedesca
di aver esaltato la forza dopo aver abbandonato la fede in
quell'idea. Alcuni anni dopo, il più illustre filosofo del diritto
"rancese, François Gény, tesseva l'elogio dell'"rréductible droit
naturel", contro gli stessi giuristi francesi infetti di
positivismo. Gustav Radbruch, relativista nel suo trattato di
filosofia del diritto del 1932, si converte al giusnaturalismo
dopo la catastrofe della Germania nella seconda guerra mondiale,
scrivendo che "dopo un secolo di positivismo giuridico è
potentemente risorta l'idea di un diritto al di sopra della legge
commisurate al quale anche le leggi positive possono
rappresentarsi come torto legale" (cfr. Propedeutica alla
filosofia del diritto, Torino 1959, p. 233). In Italia, Carlo
Antoni pubblicò un'opera dal titolo La restaurazione del diritto
naturale (Venezia 1959), in cui rivendicò il valore del
giusnaturalismo al di là delle critiche con cui aveva cercato di
demolirlo lo storicismo, di cui egli era stato, sulle orme del suo
maestro Benedetto Croce, seguace: "L'idea del diritto di natura
altro non significa che l'esigenza di un'azione dell'Universale
ideale morale sulla legislazione positiva" (p. 36).
Di fronte a una dottrina che continua a rinascere si è tentati di
dire che non è mai morta. Ma vi è chi ha sostenuto la tesi secondo
cui tutta la storia del pensiero giuridico si può concepire come
un perpetuo avvicendarsi di età giusnaturalistiche e di età
positivistiche. Nella imponente opera Political theory (Princeton
1959) Arnold Brecht distingue, dai Greci ai giorni nostri, otto
fasi, quattro di splendore del giusnaturalismo - l'antichità greca
e romana, i filosofi scolastici e san Tommaso, l'idealismo
tedesco, l'età contemporanea dopo la seconda guerra mondiale - e
quattro di eclissi - Patristica, l'età da Bodin a Hobbes,
l'empirismo inglese e il positivismo ottocentesco. Quanto sia
meccanica, e inaccettabile nella sua meccanicità, questa sequenza,
è superfluo sottolineare. Ma è un'ulteriore prova, posto che ce ne
fosse ancora bisogno, del rilievo che nella storia del pensiero
giuridico occidentale occupa, come si diceva all'inizio, il
contrasto fra diritto positivo e diritto naturale.
4. In quale
senso si può parlare di una scuola del diritto naturale?
Per quanto l'idea del diritto naturale risalga all'età classica,
come si è visto, quando si parla di scuola del diritto naturale ci
si riferisce alla riviviscenza che questa antica e ricorrente idea
ebbe all'inizio dell'età moderna e alla sua indiscussa
preponderanza nel XVII e XVIII secolo. Secondo una tradizione che
già si era consolidata nella seconda metà del XVII secolo
attraverso Samuel Pufendorf, Jean Barbeyrac suo traduttore, e
Cristiano Thomasius (Paulo plenior historia juris naturalis,
1711), la scuola del diritto naturale avrebbe avuto una precisa
data di inizio con l'opera di Ugo Grozio (1583-1645), De jure
belli ac pacis (1625). Meno certa la data della fine, anche se non
esiste alcun dubbio sugli eventi che l'hanno determinata, primo
fra tutti la creazione delle grandi codificazioni, specie quella
napoleonica, che posero le basi per il rinvigorimento di un
atteggiamento di ossequio alle leggi stabilite, e sul piano
filosofico la nascita dello storicismo giuridico e con particolare
riguardo alla Germania, il paese dove la scuola del diritto
naturale aveva trovato la sua patria di adozione, la scuola
storica del diritto di Friedrich Karl von Savigny (1779-1861).
Volendo scegliere una data del punto di arrivo si potrebbe
prendere in considerazione il 1802, anno di pubblicazione dello
scritto giovanile di Hegel, Über die wissenschaftlichen
Behandlungsarten des Naturrechts, in cui le filosofie del diritto
precedenti, da Grozio a Fichte, sono sottoposte a una critica
radicale.
Nelle storie della filosofia del diritto ottocentesche, a
cominciare da quella più nota di Friedrich Julius Stahl, Die
Philosophie des Rechts nach geschichtlicher Ansicht (1830 e 1837,
tradotta in italiano nel 1853), quando si parla della scuola di
diritto naturale non ci si riferisce soltanto alla scuola
accademica tedesca che va da Pufendorf a Wolff attraverso
Thomasius e giunge sino a Kant, ma si tende ad abbracciare un
campo molto più vasto comprendente quasi tutti i maggiori filosofi
dell'epoca: Pufendorf si ricollega a Hobbes; Barbeyrac tiene conto
di Locke; entrambi conoscono Spinoza. Nella seconda edizione del
De jure naturae et gentium, Pufendorf tiene conto del De legibus
naturae di Richard Cumberland (1672). Leibniz critica Pufendorf
con un celebre libello: Monita quaedam ad Samueli Pufendorfii
principia (1706). Locke ha letto e apprezza Pufendorf. Rousseau,
come è stato ampiamente documentato, ha studiato i maggiori
trattatisti del diritto naturale, e menziona, criticandolo, Grozio
all'inizio del Contratto sociale. Al di fuori della scuola tedesca
sono da ricordare almeno i Principes du droit naturel del
ginevrino Jean-Jacques Burlamaqui (1694-1748), che Rousseau
conosce e utilizza. Nella storia di Stahl vengono esposte in
successione le opere dei seguenti autori: Grozio, Hobbes,
Pufendorf, Thomasius, Wolff, Kant, Fichte.
Quando la scuola era ormai giunta alla fine, gli epigoni ne hanno
distinto varie fasi. Il kantiano Gottfried Hufeland nei suoi
Lehrsätze des Naturrechts (1790) ne propone un periodizzamento
destinato ad aver fortuna: 1) età dei precursori, che giunge sino
a Grozio; 2) età della formazione, comprendente i tre grandi,
Grozio, Pufendorf e Thomasius; 3) età della scuola costituita, che
comincia dagli allievi di Thomasius e giunge sino a Kant.Sotto la
stessa etichetta si sogliono adunare autori diversi: grandi
filosofi come Hobbes, Locke, Leibniz, Kant, che si sono occupati
anche di diritto; giuristi-filosofi, come Pufendorf, Thomasius e
Wolff; professori universitari, autori di trattati per la scuola
che nessuno dopo la loro morte ha mai più letto; e un grande
scrittore politico, ma non solo politico, come Rousseau. Eppure,
nonostante la disparità degli autori raggruppati sotto lo stesso
'ismo', non si può dire che di una scuola del diritto naturale si
sia parlato a capriccio. Prescindendo dall'elemento comune e
ovvio, che è l'aver creduto nell'esistenza del diritto naturale e
di non aver mai dubitato, a differenza dei loro avversari, che il
diritto naturale sia diritto a pieno titolo, anzi, a titolo più
pieno, giacché il diritto positivo trae da esso la propria
legittimità, le divergenze da autore a autore - per cui Pufendorf
critica Hobbes, ma, come è stato recentemente dimostrato, ne è
anche in gran parte un seguace, Leibniz, come si è detto, e anche
Wolff criticano Pufendorf - non cancellano l'intento comune,
ancorché attuato in modi diversi, che permette una considerazione
unitaria dei vari autori, e rivela un filo rosso che lega l'uno
all'altro.
L'idea prevalente che li ha ispirati, per cui si può parlare a
buon diritto di 'scuola', è la costruzione di un'etica razionale,
separata dalla teologia, e capace di per se stessa, proprio perché
fondata su un'analisi e una critica razionali dei fondamenti, di
garantire meglio della teologia, smarritasi in contrasti di
opinione insolubili, l'universalità dei principî che debbono
reggere la condotta umana. L'affermazione di un diritto universale
attraverso la ragione, nei limiti della sola ragione, rappresenta
storicamente il tentativo di dare una risposta rassicurante sia
alle conseguenze corrosive che i libertini avevano tratto dalla
crisi dell'universalismo religioso, sia agli eccessi della
casistica che aveva a poco a poco messo in discussione la portata
universale delle regole generali e così alimentato lo scetticismo
morale. Non vi è giusnaturalista che non prenda preliminarmente
posizione di fronte al pirronismo in morale, a ciò che oggi
chiameremmo il relativismo etico, il weberiano "politeismo dei
valori". Nella introduzione alla traduzione francese del Pufendorf
(1706), uno scritto che può essere considerato come il manifesto
della scuola, Barbeyrac, dopo aver citato un celebre passo di
Montaigne che mette in dubbio il diritto naturale non essendovi
legge naturale che non sia stata ignorata da una o più genti,
reagisce citando un passo di Fontenelle: "Su tutto ciò che
riguarda la condotta degli uomini, la ragione ha decisioni molto
sicure: il guaio è che non la si consulta". Era dunque venuto il
momento, in un mondo dilaniato dalle guerre religiose, di imparare
una buona volta a consultarla. La nuova scienza della morale,
nascente col proposito di applicare allo studio dell'uomo e alla
sua condotta il metodo razionale che aveva dato sorprendenti
risultati nello studio della natura, doveva servire a riporre su
basi incrollabili le regole della convivenza tra gli uomini.
Nei Prolegomeni al De jure belli ac pacis Grozio rende omaggio al
modo di procedere dei matematici affermando che intende
comportarsi come loro, i quali, esaminando le figure, fanno
astrazione dai corpi reali (§ 58). Nel capitolo primo dell'opera,
dopo aver detto che si può provare che una regola è di diritto
naturale a priori o a posteriori, vale a dire dimostrando che è
conforme alla natura razionale dell'uomo o mostrando attraverso
l'osservazione storica che è accolta presso tutti i popoli,
aggiunge che questa seconda via offre minore certezza della prima
(XII, 1).
Già nella lettera dedicatoria del De cive, Hobbes, convinto che il
disordine della vita sociale dipenda dalle dottrine erronee degli
antichi e dei seguaci delle sette alimentate dai demagoghi,
sostiene che i malanni di cui soffre l'umanità sarebbero eliminati
"se si conoscessero con egual certezza le regole delle azioni
umane come si conoscono quelle delle grandezze in geometria".
Secondo Hobbes, le leggi di natura non sono altro che conclusioni
tratte dalla ragione in merito a quello che si deve o non si deve
fare. Nell'opera maggiore, Leviathan, egli precisa: "conclusioni o
teoremi".Nel campo delle scienze morali aveva dominato a lungo
incontrastata l'opinione di Aristotele, secondo cui in tali
scienze non si può raggiungere la stessa certezza che nelle
scienze fisiche: "Sarebbe altrettanto sconveniente esigere
dimostrazioni da un oratore che accontentarsi di probabilità nei
ragionamenti di un matematico" (Eth. Nic., 1904 b). Pufendorf, che
può rivendicare il titolo di fondatore della scuola ben più di
Grozio, si rende conto che per fondare una scienza della morale
occorre sgombrare il campo dalla perniciosa autorità di
Aristotele. Le regole della condotta possono essere conosciute con
certezza quando si abbandoni il terreno infido delle leggi
positive, che cambiano da paese a paese, e si consideri la natura
dell'uomo, i suoi bisogni, le condizioni obiettive della sua
esistenza, le sue inclinazioni.
Negli stessi anni Spinoza compone l'Ethica geometrico more
demonstrata. E nel Tractatus politicus scrive che si è dedicato
alla politica "allo scopo di dimostrare con argomenti certi e
irrefragabili, ovvero di dedurre dalla condizione stessa della
natura umana, quei principî che si accordano perfettamente alla
pratica", e per procedere in questa indagine scientifica con la
stessa libertà di spirito con la quale usiamo applicarci alla
matematica, "mi son fatto uno studio di non ridere né piangere
sulle azioni umane" (I, 4).
Anche Locke, nell'Essay concerning human understanding, persegue
l'ideale di un'etica dimostrativa, il che non era sfuggito al
Barbeyrac, e pone la morale tra le scienze suscettibili di
dimostrazione, onde "da proposizioni evidenti di per se stesse,
mediante conseguenze necessarie, non meno incontrastabili di
quelle matematiche, si potrebbero trovare le misure del giusto e
dell'ingiusto, se alcuno volesse applicare a queste scienze la
medesima imparzialità e attenzione che pone nelle altre" (IV, 3,
18).
Proprio in virtù della sua autorità di grande logico e di grande
matematico, tutto ciò che ha scritto Leibniz sul metodo della
giurisprudenza dà la piena misura della prevalente concezione
matematizzante della scienza del diritto. La teoria del diritto è,
secondo Leibniz, una di quelle scienze che non dipendono da
esperimenti, ma si svolgono attraverso definizioni, scienze che
egli chiama necessarie o dimostrative, tali cioè che "non
dipendono dai fatti ma unicamente dalla ragione".
Infine Wolff (1679-1754), proprio all'inizio della sua grande
opera, Jus naturale, methodo scientifica pertractatum, in otto
volumi apparsi tra il 1740 e il 1748, non esita ad affermare che
tutto ciò che ne forma oggetto deve essere dimostrato, perché, se
è vero che la scienza consiste nell'habitus demonstrandi, il
diritto naturale o si vale della "methodus demonstrativa o non è
scienza" (I, 2).Non c'è miglior prova di questo ideale comune a
tutti i seguaci della scuola di una scienza dimostrativa del
diritto che il concorde rifiuto dell'argomento del consensus,
secondo cui ciò che è di diritto naturale si potrebbe anche
ricavare empiricamente dall'osservazione di ciò che è comune a
tutti i popoli. Grozio, come si è detto, antepone il metodo a
priori a quello a posteriori. L'inadeguatezza della ricerca del
consenso come prova di un diritto per natura è affermata sia da
Hobbes sia da Pufendorf. Alla stessa critica Locke dedica uno dei
suoi saggi giovanili sulla legge naturale, il quinto, intitolato:
La legge di natura non può essere conosciuta sulla base del
consenso universale degli uomini (cfr. Essays on the law of
nature, Oxford 1954, pp. 160-189).
5. Principali
caratteristiche del positivismo giuridico
Se di unità della scuola del diritto naturale si può
parlare, questa riguarda il metodo, ma l'unità riguardante il
metodo non implica anche l'unità riguardo ai contenuti, vale a
dire riguardo alle regole che si possono ricavare e sono state di
fatto ricavate dall'osservazione della natura umana. Nella
prefazione al Discours sur l'origine et les fondements de
l'inégalité parmi les hommes, Rousseau, a proposito di ciò che si
deve intendere per 'natura', ha scritto: "Ce n'est point sans
surprise et sans scandale qu'on remarque le peu d'accord qui règne
sur cette importante matière entre les divers auteurs qu'en ont
traité". Per renderci conto della perplessità di Rousseau, che
scrive queste parole quando la scuola si sta estenuando, basti
pensare a certe famose contese: se lo stato di natura sia di pace
o di guerra, che divide Pufendorf da Hobbes; se l'istinto
fondamentale della natura umana sia favorevole o contrario alla
società, che divide Hobbes da Grozio; se l'uomo naturale sia
debole o insicuro, come voleva Pufendorf, o forte e sicuro come lo
aveva immaginato Rousseau.
Si pensi anche alla varietà delle opinioni sulla legge naturale
fondamentale, che era per Hobbes la pace, per Pufendorf la
socialità, per Cumberland la benevolenza, per Thomasius la
felicità, per Wolff la perfezione. Se una delle principali
esigenze di una società ben costituita è la certezza del diritto,
si deve riconoscere che una società regolata dal solo diritto
naturale, assoggettabile a tante interpretazioni diverse, sarebbe
stata, qualora fosse stata possibile, una società in cui gli
individui sarebbero vissuti nella massima incertezza. Non era del
resto Hobbes giunto alla conclusione che dove vigono soltanto le
leggi naturali gli uomini precipitano nello stato di guerra di
tutti contro tutti?Il positivismo giuridico nasce storicamente non
solo dalla critica teorica delle idee giusnaturalistiche, secondo
cui esiste ed è conoscibile una legge naturale universale, critica
proveniente sia dallo storicismo in Germania sia dall'utilitarismo
in Inghilterra sia dal positivismo filosofico in Francia, ma anche
dall'esigenza pratica di garantire la certezza del diritto, che
solo la volontà di un potere superiore, capace di emanare leggi e
di farle rispettare con la forza, può assicurare.
Non a caso, proprio da Hobbes, che aveva immaginato lo stato di
natura come lo stato di guerra perpetua, nasce già tutta spiegata
la teoria del positivismo giuridico. In uno scritto degli ultimi
anni, A dialogue between a philosopher and a student of the common
laws of England (1666), egli fa dire a uno dei due interlocutori,
il Filosofo, contro l'altro che difende il diritto comune inglese
che pretende di essere fondato sulla ragione: "Auctoritas non
veritas facit legem". E poco dopo lo stesso Filosofo definisce il
diritto in questo modo: "Diritto è ciò che colui o coloro i quali
detengono il potere sovrano ordinano ai suoi o ai loro sudditi,
proclamando in pubblico e in chiare parole quali cose essi possono
e quali non possono fare". Non si sarebbe potuto esplicare con
maggiore chiarezza il senso della definizione tradizionale del
diritto positivo: "Jus positivum quia positum est".Il positivismo
giuridico si afferma attraverso la formazione dello Stato moderno
che sorge sulle rovine della società feudale pluralistica, e che a
poco a poco assume, insieme con il monopolio della forza legittima
su un determinato territorio, anche quello della produzione
giuridica attraverso la continua emanazione di norme in forma di
legge, che diventano la fonte primaria del diritto, cui vengono
subordinate tutte le altre fonti tradizionali: la consuetudine, la
giurisdizione, la giurisprudenza intesa come il diritto prodotto
dai giuristi e il diritto ricavabile dall'osservazione della
natura delle cose, il diritto naturale appunto. La consuetudine ha
vigore solo in quanto sia riconosciuta dalla legge; il diritto dei
giuristi ha valore solo consultivo; il giudice si trasforma a poco
a poco in funzionario dello Stato e, in quanto tale, secondo la
famosa espressione di Montesquieu, è la "bouche de la loi"; il
diritto naturale entra in scena soltanto in caso di lacuna della
legge scritta.
La monopolizzazione della produzione giuridica da parte dello
Stato ha la sua massima espressione nelle codificazioni dei primi
anni del XIX secolo, di cui è prototipo il Codice Napoleone del
1804. Esso rappresenta la più compiuta espressione
dell'onnipotenza del legislatore e da esso nasce in Francia
l'École de l'éxégèse, che ha per suo motto la frase di un giurista
del tempo: "Non conosco il diritto civile, io insegno il Codice
Napoleone", ed è caratterizzata dalla completa subordinazione del
giurista e del giudice alle leggi poste dal potere politico. Nel
primo celebre trattato di diritto civile del tempo, uscito in
cinque volumi tra il 1835 e il 1844, di Charles Aubry e Frédéric
Charles Rau, il cui motto è "Tutta la legge, null'altro che la
legge", del diritto naturale si dice che "non costituisce un corpo
completo di precetti assoluti e immutabili", e che questi precetti
sono in se stessi tanto vaghi che solo il diritto positivo può
renderli effettivi determinandoli.
In Germania si manifestarono nello stesso periodo tendenze verso
la codificazione di cui si fece portavoce il celebre giurista A.
F. Thibaut (1774-1840) con un saggio Sopra la necessità di un
diritto civile generale della Germania (1814), che suggerisce ai
principi tedeschi di farsi promotori di codici valevoli per tutta
la Germania. Contestata dal Savigny nello scritto uscito subito
dopo, Della vocazione del nostro tempo per la legislazione e la
giurisprudenza, il quale sostiene che in un'epoca di decadenza
della civiltà giuridica la codificazione è dannosa perché ne
perpetua i tristi effetti, l'opera del Thibaut rimase inascoltata.
Il Codice civile tedesco sarà emanato, dopo l'unificazione,
soltanto nel 1901.
Nonostante la nascita del positivismo teorico in Inghilterra
attraverso Hobbes, il diritto inglese ha continuato a essere
prevalentemente non legislativo e per tradizione creato dai
giudici attraverso l'istituto del precedente obbligatorio. Non vi
è stata né allora né poi una codificazione. Ma all'inizio del
secolo scorso, per l'influenza delle idee illuministiche, Jeremy
Bentham (1748-1832) si propose in un primo tempo la
riorganizzazione sistematica del diritto inglese nei suoi vari
rami, in polemica con il Blackstone che nei suoi celebri
Commentaries on the common law of England considerava il sistema
giuridico inglese un diritto perfetto in quanto attuava
compiutamente il diritto naturale. In una seconda fase progettò un
Digesto del diritto inglese che avrebbe dovuto contenere le regole
di diritto comprendenti i principî dell'ordinamento giuridico del
paese. Nella terza e ultima fase, dal 1811 in poi, progettò una
completa codificazione, battezzata in un primo tempo Pandikaion,
in un secondo tempo Pannomion, che avrebbe dovuto avere validità
universale e pertanto da estendersi a tutto il mondo civile. Le
caratteristiche di questo codice universale avrebbero dovuto
essere l'utilità, in conformità del principio utilitaristico della
maggiore felicità per il maggior numero, la completezza, la
conoscibilità da parte di tutti i cittadini, la giustificabilità
attraverso l'esplicitazione dei motivi (la ratio juris) di ogni
disposizione. Dall'Inghilterra ci è pervenuta anche la prima
grande opera teorica del positivismo giuridico, The philosophy of
positive law di John Austin (1790-1859). In essa il diritto viene
definito: "Comando generale e astratto posto da un sovrano in una
società politica indipendente", ove per sovrano si intende un
potere che ottiene obbedienza abituale da parte dei suoi
destinatari e nello stesso tempo non ha al di sopra di sé alcun
potere al quale debba ubbidire.
La teoria del positivismo giuridico, quale si è venuta sviluppando
e perfezionando durante il secolo scorso, dominandone il pensiero
giuridico, si può riassumere in questi punti principali.
Per quel che riguarda il modo di conoscere il diritto, vale a dire
la natura e la funzione della scienza giuridica, il diritto è un
fenomeno sociale, un mero fatto, che deve essere studiato come lo
scienziato della natura studia la realtà naturale, cioè
prescindendo da qualsiasi giudizio di valore. Non spetta al
giurista dichiarare che cosa è giusto e ingiusto, ma solo esporre
attraverso l'interpretazione ciò che le leggi stabiliscono. Sono
dunque diritto per il giurista positivo le norme che sono poste da
un'autorità legittima e sono abitualmente ubbidite.
Affinché siano abitualmente ubbidite, la maggior parte delle norme
che compongono un ordinamento giuridico, e lo stesso ordinamento
nel suo complesso, debbono essere fatte valere in ultima istanza
con la forza. Ciò che contraddistingue le norme giuridiche dalle
norme morali e da quelle sociali è la loro coercibilità, il che ha
per conseguenza la presenza, accanto alle norme di condotta o
primarie, di norme dette secondarie, rivolte ai giudici cui spetta
il compito di indurre i destinatari all'osservanza o punire
l'inosservanza con sanzioni, che vanno dall'annullamento dell'atto
antigiuridico alla punizione dell'atto illecito. È stato sostenuto
(Hart) che la struttura tipica dell'ordinamento giuridico rispetto
ad altri sistemi di norme, è di essere composto da un insieme di
norme primarie e secondarie.
Rispetto alle fonti del diritto, ossia rispetto alle diverse
maniere con cui vengono prodotte le norme, il positivismo
giuridico dà la preminenza alla legge, come espressione della
volontà del sovrano, sia monocratico o policratico, democratico o
autocratico, su ogni altra fonte: la consuetudine, di cui si
ammette quella secundum legem e quella praeter legem, e si espunge
quella contra legem che avrebbe effetto abrogativo; la
giurisdizione, salvo i casi specificamente ammessi di giudizio di
equità, dati cioè in virtù del potere discrezionale del
giudice.Rispetto alla natura delle norme, prevalente è nella
teoria del positivismo giuridico la considerazione della norma
come un comando, cioè come una proposizione prescrittiva forte che
implica da parte del destinatario l'obbligo di osservarla, e, in
caso di inosservanza, una conseguenza sgradita che funge da
intimidazione preventiva e da punizione successiva.
Le norme giudicate vigenti su un determinato territorio e rivolte
a un determinato gruppo umano costituiscono un insieme, se non
proprio un sistema, un ordinamento, i cui caratteri fondamentali
sono l'unità, che fa risalire le norme singole di grado in grado
dalle norme inferiori a quelle superiori, sino alla norma prima,
detta fondamentale (Kelsen) o di riconoscimento (Hart); la
completezza, in conseguenza della quale il giudice può e deve, e
deve perché può, sempre desumere una regula decidendi
esplicitamente o implicitamente mediante il ricorso all'analogia o
ai principî generali, per risolvere qualsiasi caso; la coerenza,
secondo cui due norme antinomiche non possono essere entrambe
valide, e per risolvere l'antinomia al giurista sono offerte
alcune massime generali come lex posterior derogat anteriori, lex
superior derogat inferiori, lex specialis derogat generali.Infine
l'attività propria del giurista è l'interpretazione vincolata da
alcune regole che inibiscono la creazione di norme nuove, se non
nei casi in cui lo stesso ordinamento lo prevede, contrariamente a
ciò che viene sostenuto dalle teorie, di tempo in tempo
ricorrenti, del diritto libero o della libera ricerca del diritto.
6. Il
dibattito attuale
Il momento culminante della fortuna del positivismo
giuridico è rappresentato dagli ultimi decenni del secolo scorso,
quando la filosofia dominante del tempo era il positivismo,
ancorché il positivismo giuridico sia indipendente dal positivismo
filosofico. Uno dei testi più rappresentativi del positivismo,
insieme giuridico e filosofico, è comunemente considerato
Jurisprudenz und Rechtsphilosophie (1892) di Karl Magnus Bergbohm
(1849-1927), che contiene una critica serrata del diritto
naturale. Con l'affermazione del positivismo giuridico nasce la
teoria generale del diritto ovvero lo studio dei concetti
giuridici fondamentali tratti dal diritto positivo e
presuntivamente validi per ogni ordinamento giuridico. Ne è un
prototipo Rechtsnorm und subjectives Recht (1878) di August Thon
(1839-1912). Si apre anche la via allo studio del rapporto tra
diritto e società da cui nascerà la sociologia del diritto, ma è
già esemplare, come anticipazione di questo modo di accostarsi
allo studio del diritto positivo, la grande opera di Rudolf von
Jhering (1818-1892), Der Zweck im Recht, il cui primo volume esce
nel 1877, il secondo nel 1883.
Come si è già detto, l'esigenza di un diritto che trascende il
diritto positivo si fa sentire nei momenti di grande crisi morale
e sociale: così è nel primo e nel secondo dopoguerra. Ma
paradossalmente proprio intorno alla metà del secolo, nonostante
la restaurazione del diritto naturale da più parti proclamata, e
in diretta opposizione a essa, è apparsa l'opera di Hans Kelsen,
che può essere considerata come la più rigorosa ed esclusiva
teoria del positivismo giuridico. Per Kelsen infatti il diritto
positivo, che è un diritto prodotto dalla volontà umana, si
contrappone al diritto naturale che trae origine o da Dio o dalla
natura o dalla ragione, ed è valido solo in quanto è, o si
considera, giusto. Il diritto di cui si debbono occupare i
giuristi è soltanto il primo. Inoltre, due sono le specie di
sistemi normativi, statici e dinamici: i primi sono composti di
norme che si deducono logicamente le une dalle altre, i secondi,
da norme che si producono le une dalle altre mediante delegazione
da un potere superiore a uno inferiore, in base cioè a un
principio di autorità. Il diritto appartiene, secondo Kelsen, alla
seconda specie. Ancora una volta: "Auctoritas non veritas facit
legem". Al positivismo giuridico appartiene anche la teoria di
Hart, se pur con un limite. Egli definisce correttamente il
positivismo giuridico affermando che non è in alcun modo una
verità necessaria che le leggi riproducano o soddisfacciano certe
esigenze della morale, anche se nella realtà esse spesso lo
abbiano fatto. Il limite consiste in quello che egli chiama il
"contenuto minimo del diritto naturale", costituito da norme che
ogni organizzazione sociale deve contenere per essere vitale, e
che derivano da caratteri universali degli esseri umani: per fare
un esempio, le norme che limitano l'uso della violenza sono rese
necessarie dal fatto che gli uomini sono vulnerabili, giacché,
qualora gli uomini perdessero la loro vulnerabilità reciproca,
sparirebbe qualsiasi ragione di un precetto come 'non uccidere'.
Anche in Italia, dove le opere di Kelsen e di Hart hanno avuto
larga diffusione, il dibattito pro e contro il positivismo
giuridico si accese negli anni prima e dopo il 1960, concludendosi
con il libro di Uberto Scarpelli Cos'è il positivismo giuridico
(v., 1965), in cui, rifiutata l'interpretazione prevalente di esso
come movimento all'interno della scienza del diritto, se ne
sostiene un'interpretazione politica, secondo cui, una volta
definito il diritto positivo come diritto volontario, composto
principalmente di norme generali e astratte, tendenzialmente
coerente e completo, ai fini della sua attuazione coercibile, il
positivismo giuridico costituisce per il giurista una scelta
politica, la scelta di un ordinamento che attraverso la
distinzione tra diritto e morale assicura, insieme con la certezza
del diritto, la sicurezza dell'individuo e con la sicurezza la sua
libertà. Due anni dopo una discussione sulle tesi di Scarpelli ha
rappresentato la più alta fiammata di un fuoco destinato a
spegnersi presto (Tavola rotonda sul positivismo giuridico, Pavia,
2 maggio 1966): le ragioni del positivismo giuridico, così com'era
stato concepito sino allora, sono state messe in questione non
dalla solita rinascita del diritto naturale, ma da profondi
mutamenti dello Stato di diritto e della società sottostante, che
hanno a poco a poco resa sempre più inadeguata la raffigurazione
dello Stato legislatore e del giudice-esecutore, sulla quale si
era venuta formando dall'inizio del secolo scorso la teoria
giuspositivistica.
Se di una crisi del positivismo giuridico si può parlare, questa
nasce all'interno stesso della dottrina, di fronte alla quale non
si erge più un nuovo o rinnovato giusnaturalismo, ma se mai si
affaccia una nuova concezione del diritto positivo, costretto per
il mutamento dei modi di produzione del diritto ad abbandonare o
attenuare alcune delle tesi più tipiche, trasformatesi in dogmi,
come quelle dell'onnipotenza del legislatore, dell'unità,
completezza, coerenza dell'ordinamento, della validità formale
delle norme, della imperatività e coattività del diritto.
Questa correzione del positivismo giuridico è stata avviata da
Ronald Dworkin, allievo di Hart, che in Taking rights seriously
(London 1977; tr. it., Bologna 1982) critica la tesi positivistica
del diritto come insieme di regole (rules), mentre i criteri con
cui i giudici stabiliscono diritti e doveri, assolvono o
condannano, sono anche altri, come i principî (principles), che
non hanno per contenuto una determinata condotta da comandare,
vietare o permettere, ma esprimono un'esigenza generale di
giustizia, come, per addurre l'esempio stesso di Dworkin, che
nessuno deve trarre profitto dal proprio illecito. Mentre le
regole sono applicabili nella forma del tutto o niente, il
principio non indica conseguenze giuridiche che seguono
automaticamente. Più che di un'alternativa al diritto positivo si
tratta di un allargamento dell'area dei criteri in base ai quali i
giudici rendono giustizia, un allargamento, tra l'altro, che
abbraccia principî generalissimi della condotta, di cui lo stesso
positivismo giuridico non ha mai rifiutato di tenere conto, se
pure in ultima istanza.
A mettere in questione il positivismo giuridico in senso stretto è
sopraggiunta infine la formazione di un numero crescente di Stati
a costituzione rigida, in cui principî generali, ispirati ai
grandi ideali della libertà e della giustizia, sono stati
costituzionalizzati e come tali sono diventati per i giuristi
criteri di valutazione al di sopra delle leggi ordinarie. Però, in
quanto tali principî ideali sono entrati a far parte di
costituzioni scritte, sono diventati anch'essi diritto positivo
nel senso comune di questa parola. Cade del positivismo giuridico
tradizionale anche il valore che pretendeva di essere assoluto,
della certezza (cfr. G. Zagrebelski, I diritti fondamentali oggi,
in "Materiali per una storia della cultura giuridica", XXII, 1
giugno 1992, pp. 202-203). Ma anche sotto questo aspetto più che
della rinascita di un nuovo giusnaturalismo si dovrebbe parlare,
in forma ancora vaga che attende di essere precisata in seguito
alle trasformazioni in corso delle società politicamente ed
economicamente più avanzate, di postpositivismo, dove il 'post'
sta a indicare per ora semplicemente che l'antico dibattito tra
giusnaturalisti e positivisti non può più essere posto nei termini
abituali, ma attende nuovi protagonisti e nuove idee.