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Enciclopedia online
Movimento politico e di idee che, sulla base delle fondamentali
affinità culturali e storiche che legano tra loro i popoli
d’Europa, tende a promuovere un progressivo avvicinamento tra i
vari Stati nazionali europei, fino alla costruzione di un’Europa
spiritualmente e politicamente unita.
Sebbene motivi che alludono a una civiltà europea come
unità culturale siano presenti già in D. Alighieri e
P. Dubois, soprattutto come lascito della tradizione cristiana
medievale, e ritornino con sempre maggior pregnanza politica fino
al 18° (Voltaire, I. Kant) e 19° sec. (G. Mazzini, C.
Cattaneo, V. Hugo), un movimento politico europeista trovò
spazio dopo la Prima guerra mondiale, anche se il nuovo ruolo
assunto dagli USA e quello della Società delle Nazioni,
oltre alla rivoluzione comunista e all’ascesa del fascismo, resero
difficile la progettazione di un’unità europea. Le
iniziative politiche non furono all’altezza della situazione: il
piano di A. Briand per la nascita degli Stati Uniti d’Europa e per
la formazione di una sorta di unione federale degli Stati europei
membri della Società delle Nazioni (1929) ebbe scarsa
rispondenza.
Mentre il progetto di un nuovo ordine fascista in Europa minacciava l’intero continente, una prospettiva politica europeista emerse proprio dall’interno dello schieramento delle nazioni e delle forze politiche in lotta con il nazifascismo, sia nella versione federalista (Manifesto per l’Europa libera e unita, 1941, di E. Rossi e A. Spinelli) sia in quella confederale, che suggestionò C. de Gaulle e W. Churchill, convinti che la fine della guerra avrebbe segnato anche la fine dei nazionalismi in Europa aprendo una nuova fase di cooperazione internazionale nella quale vi sarebbe stato spazio per gli Stati Uniti d’Europa come concerto di nazioni libere e indipendenti.
In realtà, l’Europa che emerse dalla Seconda guerra mondiale era profondamente segnata dagli equilibri tra le due superpotenze e divisa in zone d’influenza, al punto che le spinte unitarie (Movimento federalista europeo, 1943) ne rimasero in parte soffocate. Le pressioni per l’unificazione europea si manifestarono, sin dalla fine degli anni 1940, non tanto sul terreno politico quanto economico, lasciando prevalere una visione ‘funzionalista’ del processo di unificazione e privilegiando l’esigenza di allargare gli scambi e le intese commerciali e produttive attraverso molteplici organismi (Unione Europea).
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1993)
di Sergio Pistone
Sommario: 1. L'idea dell'unità europea fino allo scoppio
della prima guerra mondiale. 2. La nascita del movimento di
unificazione europea negli anni fra il 1914 e il 1948. a) La fine
dell'autonomia del sistema europeo degli Stati. b) Il federalismo
europeo. c) Il funzionalismo. d) Il confederalismo. 3. L'influenza
delle tre correnti dell'europeismo sul processo di unificazione
europea. a) Gli aspetti confederali dell'unificazione europea. b)
I risultati dell'approccio funzionalista. c) Il ruolo della
corrente federalista. □ Bibliografia.
1. L'idea dell'unità europea fino allo scoppio della prima
guerra mondiale
L'europeismo, inteso come movimento per l'unificazione europea,
è nato nell'epoca delle guerre mondiali e ha ottenuto i
suoi primi risultati concreti a partire dal 1948. Esso ha
però una plurisecolare preistoria nell'idea
dell'unità europea, il cui inizio viene generalmente
individuato negli scritti di Dante Alighieri (De Monarchia,
scritto fra il 1310 e il 1313) e di Pierre Dubois (De
recuperatione Terrae Sanctae, scritto dopo il 1308). Da allora,
fino all'epoca contemporanea, l'idea dell'unità europea ha
il suo filo conduttore nell'esigenza di dare una risposta a un
problema cruciale connesso con la formazione dei moderni Stati
sovrani, avvenuta fra la fine del Medioevo e l'inizio
dell'età moderna.
Da una parte gli Stati sovrani hanno rappresentato un decisivo
progresso, in quanto il monopolio tendenziale della forza ha
permesso all'autorità centrale dello Stato di eliminare
gradualmente l'anarchia feudale e di garantire, quindi, un
efficace ordinamento giuridico interno, che ha costituito la base
di un grandioso sviluppo economico, sociale e culturale.
Dall'altra, la sovranità statale assoluta ha significato la
crisi definitiva delle autorità universali della Chiesa
cattolica e dell'Impero e, di conseguenza, una situazione di
strutturale anarchia sul piano internazionale con implicazioni
chiaramente negative. Il meccanismo dell'equilibrio, che governa
il sistema europeo degli Stati, si è rivelato in effetti
capace di frustrare i tentativi egemonici messi in atto di volta
in volta dai più potenti Stati del continente, ma non di
impedire guerre periodiche, che sono diventate sempre più
distruttive (e hanno messo in pericolo il progresso e la forza
dell'Europa nel suo complesso) proprio perché lo Stato
sovrano moderno ha prodotto un rafforzamento ininterrotto della
potenza militare.
L'idea dell'unità europea, che propone il superamento
dell'anarchia internazionale, ha cercato precisamente di dare una
risposta a questo problema e non a caso essa ha avuto le sue
più significative espressioni in coincidenza con le
più gravi crisi del sistema europeo degli Stati.
Individuato il filo conduttore generale della storia dell'idea
dell'unità europea, occorre distinguere in essa due fasi:
dal Medioevo allo scoppio della Rivoluzione francese e da questa
al 1914. Nella prima fase le proposte di unità europea,
essendo emerse in tempi in cui non era ancora venuta all'ordine
del giorno della storia la realizzazione dei principî della
democrazia moderna, concepiscono l'unità non come un'unione
fra popoli visti come soggetti politici, bensì come
un'unione di principi, vuoi in forma imperiale, vuoi in forma di
lega priva di un sovrano superiore. Il momento di rottura rispetto
a questa impostazione è rappresentato da Immanuel Kant, il
quale, con il saggio Per la pace perpetua (1795), formulò
per la prima volta nella storia il progetto di una federazione dei
popoli, stabilendo un preciso legame fra la realizzazione del
regime democratico all'interno degli Stati (a cui lo scoppio della
Rivoluzione francese aveva dato un decisivo impulso storico) e la
necessità di superare l'anarchia nei rapporti interstatali
attraverso la creazione di un governo democratico soprannazionale.
Egli ebbe in effetti una chiara visione delle implicazioni
autoritarie dell'anarchia internazionale all'interno dello Stato,
implicazioni dovute al fatto che tale anarchia impone il primato
della sicurezza esterna dello Stato rispetto a ogni altra
esigenza.
Meno chiara fu invece la sua visione del sistema istituzionale
attraverso cui realizzare il governo democratico soprannazionale.
Infatti, pur parlando di 'federazione', Kant non ebbe una
conoscenza precisa dello Stato federale, il cui primo esempio
nella storia era stato realizzato qualche anno prima con la
Costituzione degli Stati Uniti d'America, redatta nel 1787 dalla
Convenzione di Filadelfia, e la cui teoria era stata elaborata da
Alexander Hamilton (The federalist, 1787-1788). La teoria dello
Stato federale avrà, come vedremo, un'importanza centrale
nel movimento per l'unificazione europea, in quanto questo tipo di
Stato, concentrando nel governo centrale solo le competenze
essenziali per il mantenimento dell'unità politica ed
economica e lasciando agli Stati federati un'amplissima autonomia,
rappresenta il sistema istituzionale che permette di organizzare
la partecipazione democratica su scala continentale e,
tendenzialmente, mondiale; permette cioè di unire le
democrazie evitando gli inconvenienti dello Stato accentrato.
Pur mancando in Kant una precisa concezione istituzionale del
federalismo, dopo di lui, anche se emergeranno ancora progetti di
leghe fra principi, diventerà progressivamente dominante
nell'idea dell'unità europea il principio dell'unione fra i
popoli e, quindi, il legame indissolubile fra democrazia e
unità europea, che costituirà una delle opzioni di
fondo destinate a caratterizzare l'europeismo contemporaneo.
Questo orientamento è chiaramente ravvisabile nei
principali esponenti dell'europeismo ottocentesco: Giuseppe
Mazzini, Carlo Cattaneo e Victor Hugo. Fino al 1914, tuttavia, il
discorso sull'unità europea non è destinato a
compiere grandi progressi in quanto nell'epoca della formazione e
dell'ascesa dei moderni Stati nazionali europei e dell'estensione
del dominio coloniale dell'Europa, diventa a poco a poco dominante
il nazionalismo.Questo orientamento esaspera i fattori di
divisione e di conflittualità fra gli europei non solo sul
piano politico, ma anche su quello spirituale; l'ideologia
nazionale rappresenta infatti le moderne nazioni come delle
comunità di sangue tendenzialmente incomunicabili fra loro
e indebolisce quindi l'idea di una comunanza culturale europea
legata all'universalismo cristiano e alla sua traduzione laica
nell'internazionalismo che caratterizza le grandi ideologie
politiche moderne: il liberalismo, la democrazia e il socialismo.
2. La nascita del movimento di unificazione europea negli anni fra
il 1914 e il 1948
a) La fine dell'autonomia del sistema europeo degli Stati
Il passaggio dell'europeismo dalla sfera del pensiero utopistico a
quella dell'azione politica effettiva ha la sua fondamentale
premessa storica nella crisi definitiva del sistema europeo degli
Stati manifestatasi nell'epoca delle guerre mondiali. Questo
sistema aveva già vissuto nel corso dell'età moderna
gravissime crisi, scatenate dalle mire egemoniche prima degli
Asburgo e poi della Francia e conclusesi con il ristabilimento di
un sempre precario equilibrio. Le guerre mondiali, dovute alla
spinta egemonica della Germania, rientrano in questa tendenza di
fondo della storia dell'Europa moderna, ma allo stesso tempo
conducono alla sua conclusione a causa delle loro specifiche
caratteristiche.
Esse hanno anzitutto un carattere paurosamente distruttivo, in
quanto sono combattute dai moderni Stati nazionali, capaci, con
gli strumenti offerti dal modo di produzione industriale, non solo
di produrre armi sempre più efficaci, ma anche di
mobilitare a fini bellici tutte le risorse materiali e le energie
spirituali delle società nazionali. Questa tendenza si
accentua ulteriormente in seguito all'affermarsi dei regimi
totalitari fascisti, i quali, portando all'estremo le
caratteristiche più negative del nazionalismo, si traducono
in un'esasperazione della distruttività materiale e morale
della guerra, che culmina nella pratica del genocidio sistematico.
Ancora più decisivo è il fatto che per la prima
volta l'Europa si dimostra incapace di ristabilire con le proprie
forze l'equilibrio. Se in effetti nella sconfitta dei precedenti
tentativi egemonici avevano avuto un ruolo decisivo potenze
relativamente marginali rispetto al sistema europeo, come
l'Inghilterra e la Russia, ma comunque facenti parte di esso, la
sconfitta del tentativo egemonico tedesco dipende in modo
determinante dalla forza di una potenza completamente esterna al
sistema europeo, come gli Stati Uniti d'America, e di una potenza,
come l'Unione Sovietica, che ha caratteristiche più
eurasiatiche che europee.
Inoltre, se le precedenti ricostituzioni dell'equilibrio europeo
avevano avuto come prezzo una lenta ma sistematica trasmigrazione
del potere dal centro del sistema verso le aree periferiche,
questa volta l'indebolimento dell'Europa raggiunge un grado tale
da condurre alla perdita della sua stessa autonomia e, quindi,
all'assorbimento del sistema europeo nel sistema mondiale degli
Stati fondato sull'equilibrio bipolare USA-URSS. Questa
situazione, che nel 1945 non era ancora percepita in tutta la sua
portata, si chiarifica in modo inequivocabile con la guerra fredda
e con la divisione dell'Europa nei due blocchi contrapposti,
egemonizzati rispettivamente dalla superpotenza americana e da
quella sovietica.
Proprio per queste caratteristiche, nel periodo fra il 1914 e il
1948 si realizza un salto qualitativo nello sviluppo storico
dell'idea dell'unità europea. Mano a mano che la
profondità della crisi del sistema europeo degli Stati si
delinea con sempre maggiore chiarezza, si moltiplicano le prese di
posizione a favore dell'unità europea con un crescendo
culminante nel periodo della Resistenza, durante la seconda guerra
mondiale, nel quale praticamente tutte le forze antifasciste, con
l'eccezione dei comunisti (allora strettamente subordinati alla
leadership sovietica, che rifiutava qualsiasi ipotesi di
unità europea), esprimono un orientamento europeistico. A
parte l'europeismo espresso dai partiti o da singole
personalità, emergono nell'epoca delle guerre mondiali le
prime concrete, anche se inefficaci, iniziative governative a
favore dell'unificazione europea e nascono le prime organizzazioni
aventi come unico obiettivo la lotta per l'Europa unita. Queste
organizzazioni si diffondono in tutta l'Europa occidentale nei
primi anni dopo il 1945 e diventano da allora una componente
permanente del panorama politico di questa parte del mondo.
L'elemento comune delle prese di posizione e delle iniziative
europeistiche nel periodo fra il 1914 e il 1948 è la
convinzione che l'eliminazione definitiva delle guerre in Europa
e, quindi, il passaggio dall'anarchia dei nazionalismi
contrapposti a una situazione duratura di pacifica collaborazione
fra gli Stati europei costituiscano la conditio sine qua non della
sopravvivenza o della rinascita dell'Europa come entità
autonoma e della ripresa non precaria del suo sviluppo civile e
democratico. In questo orientamento generale, la cui tendenza di
fondo si esprime nella formula "Unirsi o perire" coniata dal
ministro degli Esteri francese Aristide Briand nel 1929, si
delineano peraltro tre filoni principali ben distinti, che avranno
un'influenza effettiva sugli sviluppi concreti del processo
d'integrazione europea: il federalismo, il funzionalismo, il
confederalismo.
b) Il federalismo europeo
La corrente federalista è quella che ha avuto un ruolo
determinante nell'alimentare l'iniziativa dal basso, cioè
non governativa, a favore dell'unificazione europea e nello stesso
tempo ha fornito il contributo più rilevante alla
chiarificazione teorica delle ragioni che rendono necessaria
l'unificazione europea e delle strutture istituzionali sulla base
delle quali essa può essere concretamente realizzata.
Questa corrente ha tra i suoi principali esponenti Luigi Einaudi,
la scuola federalista inglese (che ha dato vita, con la fondazione
della Federal Union nel 1939, al primo movimento europeistico di
chiaro orientamento federalista e i cui rappresentanti più
validi sul piano intellettuale sono Lionel Robbins, lord Lothian e
Barbara Wooton), e infine i federalisti italiani guidati da
Altiero Spinelli.
Quest'ultimo gruppo, che è nato con la diffusione del
Manifesto per una Europa libera e unita (elaborato nel 1941
nell'isola di Ventotene - dove erano confinati numerosi
antifascisti - da Spinelli con la collaborazione di Ernesto Rossi
e di Eugenio Colorni) e che ha fondato nel 1943 a Milano il
Movimento Federalista Europeo, ha un'importanza centrale. Esso
infatti organizzò durante la guerra vari incontri fra i
resistenti europei di orientamento federalista - i quali avviarono
il processo che nel dopoguerra portò alla costituzione
dell'organizzazione continentale dei federalisti, cioè
dell'Unione Europea dei Federalisti - e divenne quindi il nucleo
direttivo della lotta federalista a livello europeo in tutto il
corso del dopoguerra.
L'elemento distintivo della corrente federalista è
costituito da una rigorosa e creativa utilizzazione degli
insegnamenti della teoria dello Stato federale nell'analisi delle
cause della crisi europea all'epoca delle guerre mondiali e
nell'indicazione delle possibili soluzioni. Questa corrente ha il
suo punto di partenza nelle critiche di Einaudi alla
Società delle Nazioni nel 1918, le quali ne individuano il
limite decisivo nel fatto di essere fondata sul mantenimento della
sovranità statale assoluta, da lui considerata come la
causa strutturale delle guerre. L'affermazione della
necessità di avviare rapidamente l'unificazione federale
europea si fonda su una visione originale (rispetto alle correnti
ideologiche dominanti) del corso storico, che individua nella
crisi dello Stato nazionale in Europa - cioè nella
contraddizione fra l'evoluzione del modo di produrre, che,
realizzando una crescente interdipendenza fra tutte le regioni del
mondo, spinge alla creazione di entità statali di
dimensioni continentali e, tendenzialmente, all'unificazione
politica del genere umano, e le dimensioni storicamente superate
degli Stati nazionali europei - la radice di fondo dei mali
dell'epoca, cioè delle guerre mondiali e del fascismo. In
sostanza, secondo questo punto di vista, le guerre mondiali
rappresentano il tentativo di dare una soluzione
imperial-egemonica al problema della decadenza dello Stato
nazionale in Europa. In questo quadro il totalitarismo fascista
appare, oltre che come la risposta antidemocratica di destra alla
situazione di caos economico-sociale emergente nei paesi in cui si
manifesta in modo più acuto il fenomeno generale della
crisi dello Stato nazionale, come la scelta dello strumento
indispensabile per una politica estera di esasperato
espansionismo, e lo stesso razzismo come l'ideologia funzionale al
disegno del dominio permanente di una nazione sulle altre nazioni
europee.
Le disastrose conseguenze del sistema delle sovranità
nazionali assolute indicano, secondo la corrente federalista, che
c'è ormai una inconciliabilità strutturale fra il
mantenimento di questo sistema e lo sviluppo in direzione della
libertà, della democrazia e della giustizia sociale. Di
conseguenza è indispensabile una unificazione europea, che,
per essere democratica ed efficace, deve avere carattere federale,
deve essere fondata cioè sul trasferimento della politica
estera, della difesa, della moneta e dei settori strategici della
politica economica a istituzioni soprannazionali, cioè a un
governo, a un parlamento e a una corte di giustizia comuni.
Soprattutto, la realizzazione della federazione europea diventa il
compito prioritario rispetto al perseguimento degli obiettivi
indicati dalle tradizionali correnti politico-ideologiche.
Viene pertanto superata l'impostazione propria
dell'internazionalismo, che vede la pace e l'unità nei
rapporti internazionali essenzialmente come una conseguenza
automatica dei successi delle lotte liberali o democratiche o
socialiste all'interno dei singoli Stati, e viene individuata - e
questa acquisizione è merito soprattutto dei federalisti
italiani - una nuova linea di divisione fra le forze del progresso
e quelle della conservazione. Essa non si identifica più
con la linea tradizionale della maggiore o minore libertà,
della maggiore o minore democrazia, della maggiore o minore
giustizia sociale da realizzare all'interno degli Stati, ma con la
linea che divide i difensori della sovranità nazionale
assoluta dai sostenitori del suo superamento attraverso una
federazione europea, che deve essere intesa come prima tappa in
direzione di una federazione mondiale.
La tesi della priorità dell'obiettivo di una federazione
europea rispetto a quelli indicati dalle altre correnti
ideologiche è integrata da una riflessione sulla strategia
della lotta federalista, sviluppata soprattutto da Spinelli, che
costituisce la ragione fondamentale per cui i federalisti italiani
hanno saputo in questo dopoguerra assumere nei momenti decisivi un
ruolo di guida delle forze federaliste di tutta Europa ed
esercitare un'effettiva influenza sullo sviluppo dell'integrazione
europea. Il nucleo centrale di questa riflessione è la
convinzione che i governi nazionali siano destinati a essere nello
stesso tempo gli attori principali dell'unificazione europea - non
potendo questa progredire in ultima analisi se non attraverso
decisioni dei governi democratici nazionali - e gli ostacoli al
suo raggiungimento, tendendo oggettivamente chi detiene il potere
nazionale a frenare un processo che implica il trasferimento di
una parte sostanziale di tale potere a istituzioni
soprannazionali.
Questa tendenza, viene precisato, è destinata a
manifestarsi in modo più intenso nei corpi permanenti del
potere esecutivo, quali la diplomazia e l'alta burocrazia civile e
militare, che nel personale relativamente transitorio, cioè
i capi di governo e i ministri. I primi infatti non solo sono i
naturali depositari delle tradizioni nazionalistiche, ma, nel caso
di trasferimenti di sovranità, subirebbero immediatamente
limitazioni sostanziali in termini di potere e di status. Per i
secondi la situazione è più complessa, in quanto
essi sono espressione di partiti democratici, che hanno nelle loro
piattaforme ideologiche una componente internazionalistica e
più o meno genericamente europeistica, e in quanto hanno un
rapporto diretto con l'opinione pubblica, la quale di fronte
all'esperienza delle catastrofi prodotte dai nazionalismi è
portata ad accogliere con crescente favore l'idea
dell'unità europea.
Da questo atteggiamento strutturalmente contraddittorio, anche se
interiormente articolato, dei governi nazionali di fronte al
problema dell'unificazione europea discendono due conseguenze
fondamentali per la lotta federalista. In primo luogo è
indispensabile l'esistenza di una forza federalista autonoma dai
governi e dai partiti nazionali, capace di sfruttare le
contraddizioni di fronte a cui i governi vengono a trovarsi a
causa della crisi storica degli Stati nazionali e
dell'inadeguatezza della politica di unificazione europea con cui
affrontano questa crisi, e in grado quindi di spingerli a fare
ciò che spontaneamente non farebbero. La forza federalista
deve avere come unico scopo la federazione europea e proporsi di
riunire tutti coloro che accettano questo obiettivo come
prioritario indipendentemente dai loro orientamenti ideologici;
deve avere una struttura soprannazionale, in modo da imporre un
programma e una disciplina comuni a tutti i federalisti d'Europa;
deve infine instaurare un rapporto diretto con l'opinione
pubblica, pur senza partecipare alle elezioni nazionali. In
secondo luogo la costruzione dell'Europa unita deve avvenire
attraverso una procedura costituente democratica, affidando
cioè l'incarico di definire le istituzioni comuni ai
rappresentanti del popolo, tramite la convocazione di un'assemblea
costituente europea, e non alle diplomazie nazionali, che
eserciterebbero fatalmente un ruolo frenante.
Per completare l'illustrazione della corrente federalista occorre
ancora aggiungere che di essa fa parte anche il 'federalismo
integrale', che si riallaccia agli insegnamenti di Pierre-Joseph
Proudhon e ha i suoi più importanti esponenti nel francese
Alexandre Marc, nello svizzero Denis de Rougemont e nell'olandese
Henri Brugmans. La caratteristica saliente di questo orientamento
è la tesi che le collettività tra cui realizzare
legami di tipo federale non devono essere soltanto quelle di
carattere territoriale, come gli Stati, le regioni e gli enti
locali minori, bensì anche quelle di carattere
funzionale-professionale. Il federalismo è cioè
inteso come principio generale di organizzazione di tutti gli
aspetti della vita sociale e non semplicemente delle istituzioni
politiche. Per quanto riguarda la lotta per la federazione
europea, questo orientamento non ha una sua specifica proposta
strategica, ma ha sempre oscillato, in sostanza, fra l'adesione
alla linea dei federalisti italiani e il sostegno dell'approccio
funzionalista.
c) Il funzionalismo
La seconda corrente dell'europeismo che emerge nel periodo fra il
1914 e il 1948 è quella del funzionalismo, che avrà
un'influenza particolarmente rilevante nel processo d'integrazione
europea, poiché ispirerà la creazione delle
Comunità europee. La teoria funzionalista dell'integrazione
soprannazionale ha in comune con quella federalista l'obiettivo
del superamento della sovranità assoluta, ma ritiene che,
per superare le resistenze nazionali, occorra scegliere la via
dello sviluppo graduale della cooperazione internazionale in
settori o funzioni limitati, ma via via più importanti
dell'attività statale, in modo da realizzare uno
svuotamento progressivo e quasi indolore delle sovranità
nazionali. I principi basilari di questa teoria sono stati
formulati per la prima volta dall'economista romeno David Mitrany
(A working peace system, 1943) attraverso una riflessione
sull'esperienza organizzativa internazionale realizzatasi con
istituzioni di carattere tecnico, quali l'Unione Telegrafica
Internazionale, l'Unione Postale Internazionale, la Croce Rossa
Internazionale, le istituzioni relative alla proprietà
letteraria e industriale, e così via.Secondo questo autore
l'integrazione delle attività umane al di là dei
confini statali può realizzarsi efficacemente solo tramite
la creazione di istituzioni di natura tecnica e non politica,
dotate di poteri limitati di carattere amministrativo o economico,
e con il compito di risolvere problemi specifici della
società internazionale. Il controllo di una funzione
dell'attività statale comporta di fatto il trasferimento di
una porzione della sovranità a tali istituzioni e
l'accumulazione nel tempo di tali trasferimenti parziali provoca,
alla fine, il trasferimento della stessa sede
dell'autorità.
Se a Mitrany si deve la prima formulazione teorica del
funzionalismo, è merito fondamentale di Jean Monnet la sua
traduzione in efficaci strumenti d'integrazione soprannazionale.
Anzitutto egli fu l'ideatore degli organismi specializzati creati
durante le due guerre mondiali per mettere in comune le risorse
economiche e militari degli Alleati e rendere così
più efficace il loro sforzo bellico. A questi organismi
soprannazionali furono delegate competenze molto ampie sul piano
economico e militare, ma essi le esercitavano nell'ambito delle
direttive politiche ricevute dai governi nazionali e, cessato lo
scopo per il quale erano stati creati, furono smantellati. Monnet
si rese conto che il metodo da lui applicato durante la guerra
avrebbe potuto essere applicato anche in tempo di pace e, in
particolare, che il metodo funzionalista, che era stato concepito
da Mitrany per far progredire l'integrazione mondiale ma non le
integrazioni regionali, poteva essere adattato all'integrazione
europea.
Concretamente il metodo da lui proposto nel dopoguerra consisteva
nell'affidare l'amministrazione di alcune attività
pubbliche a un'apposita amministrazione europea, la quale avrebbe
ricevuto le direttive comuni dagli Stati nazionali che le
avrebbero formulate in appositi trattati e in ulteriori decisioni
intergovernative; questa amministrazione avrebbe dovuto,
nell'ambito di tali direttive, essere separata e indipendente
dalle amministrazioni nazionali. Le politiche nazionali da mettere
in comune erano quelle destinate a produrre i più gravi
motivi di rivalità tra gli Stati europei e quindi quelle
relative al carbone e all'acciaio (allora considerati i due
prodotti base dell'economia dei paesi industrializzati). Mettere
la produzione e la distribuzione del carbone e dell'acciaio sotto
regole comuni, applicate da un'amministrazione soprannazionale,
avrebbe creato una solidarietà d'interessi così
profonda e così centrale nella vita economica da spingere
all'integrazione graduale del resto delle economie e,
successivamente, delle fondamentali attività statali.
L'unificazione realizzata dalle varie agenzie specializzate
intorno a interessi concreti e a burocrazie soprannazionali
efficienti avrebbe trovato alla fine il suo logico coronamento in
una costituzione federale.
Nel periodo che stiamo qui considerando il funzionalismo, a
differenza della corrente federalista, non ha dato vita a un
movimento politico, ma si è espresso essenzialmente
attraverso le iniziative individuali di Monnet, il quale divenne
dapprima un consulente della classe politica, fu quindi, durante
la seconda guerra mondiale, messo dagli Alleati a capo di una
delle agenzie soprannazionali da lui ideate, e occupò
infine nel dopoguerra l'importantissimo posto di capo del
Commissariat du Plan della Francia. Dopo la fondazione della
Comunità Europea per il Carbone e l'Acciaio, Monnet
esercitò la sua influenza nel processo d'integrazione
europea dapprima attraverso la posizione di presidente dell'Alta
Autorità della CECA e successivamente attraverso la
creazione nel 1955 del Comitato d'azione per gli Stati Uniti
d'Europa (cui aderirono i massimi dirigenti e personalità
di primo piano dei partiti e dei sindacati di orientamento
europeistico), comitato che contribuì in modo sostanziale
all'elaborazione dei Trattati di Roma e ai successivi sviluppi
dell'integrazione comunitaria, e cessò la sua
attività negli anni settanta.
d) Il confederalismo
La terza corrente dell'europeismo, nata nel periodo fra il 1914 e
il 1948, è rappresentata dal confederalismo. La sua opzione
fondamentale è un'unione europea fondata su meccanismi di
mera cooperazione intergovernativa, che lascino intatta la
sovranità statale assoluta, ma permettano ai governi
nazionali di raggiungere decisioni concordate in alcune materie
riconosciute di comune interesse. Alla base di questa impostazione
c'è una visione del mondo contraddittoria. Da una parte
c'è la percezione della novità della situazione
storica, che impone il superamento dei metodi tradizionali della
politica internazionale; dall'altra, c'è il condizionamento
della tradizione nazionalistica, che spinge a concepire gli Stati
nazionali forniti di sovranità assoluta come istituzioni
storicamente insuperabili.
Vi è quindi la consapevolezza che, nell'epoca dell'ascesa
degli Stati di dimensioni continentali, gli Stati nazionali
europei non sono più in grado di affrontare in modo isolato
e reciprocamente conflittuale i problemi di fondo e devono
abituarsi a cooperare stabilmente. Nello stesso tempo non si
comprendono le radici più profonde della crisi dello Stato
nazionale e, quindi, il fatto che l'unione europea deve essere
intesa solo come una tappa verso l'unione dell'intera
umanità e non come una via attraverso cui riprodurre su
più ampia scala le politiche fondate sull'egoismo
nazionale. Inoltre le proposte di unione non solo tengono fermo il
dogma dell'intangibilità della sovranità assoluta,
ma sono anche generalmente accompagnate, in modo più o meno
aperto, dall'idea del primato del rispettivo paese, da realizzarsi
però non attraverso il dominio militare, bensì
attraverso la guida di un concerto di nazioni indipendenti.
Non è casuale che questa corrente dell'europeismo annoveri
fra i suoi più importanti e convinti esponenti alcuni
statisti appartenenti ai più antichi e gloriosi Stati
europei, in particolare Winston Churchill, Aristide Briand e
Charles de Gaulle. E non è neppure casuale che l'idea di
una confederazione europea sia congeniale alle diplomazie
nazionali, le quali vedono appunto in essa una forma di
cooperazione internazionale che non intacca minimamente la
sovranità nazionale affidata alle loro cure e la base
materiale del loro status. Pur con i suoi limiti, il
confederalismo ha avuto comunque il merito di dare vita,
nell'epoca delle guerre mondiali, alle prime iniziative
europeistiche di alcuni governi, le quali, se pure non hanno avuto
alcun esito pratico, hanno rappresentato importanti precedenti a
cui hanno potuto richiamarsi le iniziative del secondo dopoguerra.
La prima di queste iniziative fu il Piano di unione europea
presentato nel 1929 di fronte all'assemblea della Società
delle Nazioni da Briand, che, boicottato dall'Italia fascista e
dalla Gran Bretagna, si arenò definitivamente in seguito
alla crisi e al crollo della Repubblica di Weimar. Il Piano Briand
ebbe come principale ispiratore Richard Coudenhove Kalergi (nato
nell'Impero austro-ungarico), che fondò nel 1923 il
movimento Paneuropa (che raggruppava alcuni uomini politici,
diplomatici e intellettuali) e che sostenne un progetto di
federazione europea così approssimativo da includere,
accanto agli Stati democratici, anche l'Italia fascista.
La seconda rilevante iniziativa europeistica in questa fase fu la
proposta di unione franco-britannica, lanciata da Churchill il 16
giugno 1940, nel momento in cui la Francia stava per capitolare di
fronte all'avanzata nazista, che non fu accolta in seguito al
prevalere in Francia delle forze favorevoli alla capitolazione.
Questa proposta, che ebbe come ispiratori Jean Monnet (in quel
momento a Londra per organizzare la cooperazione
economico-militare franco-britannica) e il movimento della Federal
Union, era molto più avanzata del Piano Briand, dal momento
che prevedeva organi comuni per la difesa, gli affari esteri, le
finanze e l'economia, l'associazione formale dei due parlamenti e
una comune cittadinanza.Tutto questo indica che l'imperativo
'Unirsi o perire' cominciava a condizionare ormai in modo incisivo
l'azione concreta dei governi. Occorre però sottolineare
che Churchill accolse i suggerimenti di Monnet e dei federalisti
britannici essenzialmente con l'intento tattico di rafforzare la
resistenza francese all'aggressione nazista, e diede alla proposta
un significato confederale e non federale. Ciò emerse
chiaramente già nei suoi successivi interventi su questo
tema durante la guerra, in particolare nel radio-messaggio del 21
aprile 1943, in cui propose la costituzione di un Consiglio
d'Europa (un'anticipazione dell'istituzione di carattere
confederale che sarebbe nata nel 1949).
Nell'immediato dopoguerra la corrente confederalista ebbe la sua
più importante espressione organizzativa nello United
Europe Movement, un'associazione di personalità fondata in
Gran Bretagna nel 1947, presieduta da Churchill e diretta da suo
genero Duncan Sandys. Questa associazione, in collaborazione con
l'UEF (Union Européenne des Fédéralistes) e
con tutte le più importanti associazioni europeistiche nate
in quegli anni, organizzò all'Aja dal 7 al 10 maggio 1948
il Congresso dell'Europa, presieduto da Churchill, a cui
partecipò un migliaio di delegati provenienti da diciannove
paesi dell'Europa occidentale. Oltre ai principali dirigenti dei
movimenti europeisti e a grandi personalità del mondo
economico, culturale e religioso, parteciparono alcuni tra i
più prestigiosi leaders politici europei, come Bidault,
Blum, Monnet, Reynaud, Ramadier, Schuman, De Gasperi, Adenauer,
Spaak, Van Zeeland. Il congresso dell'Aja, in cui fecero sentire
la propria voce le tre principali correnti dell'europeismo,
ottenne come risultato fondamentale la costituzione, che avvenne
l'anno successivo, del Consiglio d'Europa. Ma il suo risultato
più importante e duraturo fu la costituzione del Movimento
Europeo, che dal 1948 raggruppa in modo permanente tutte le
associazioni per l'unità europea assieme ai partiti e ai
sindacati di orientamento europeistico, con l'obiettivo di
stimolare i governi e di sollecitare il sostegno dell'opinione
pubblica nella costruzione dell'unità europea. Il Movimento
Europeo, occorre precisare, ebbe un orientamento fortemente
influenzato dalla corrente confederalista finché Duncan
Sandys fu presidente del suo Comitato esecutivo internazionale, ma
a partire dal 1950, quando Sandys fu sostituito da Spaak, espresse
in modo permanente una linea di sintesi, a volte organica a volte
conflittuale, fra federalismo e funzionalismo.
3. L'influenza delle tre correnti dell'europeismo sul processo di
unificazione europea
a) Gli aspetti confederali dell'unificazione europea
Analizzando ora il rapporto fra europeismo e processo di
unificazione, conviene partire dall'esame della corrente
confederalista, in quanto questa ha dato un'impronta predominante
alle prime istituzioni create per costruire l'unità del
continente. L'impulso determinante all'avvio di questo processo fu
dato dagli Americani, i quali, nel quadro della guerra fredda e
della formazione dei blocchi contrapposti, si resero conto che la
strategia più efficace di contenimento del comunismo
consisteva nel creare in Europa occidentale, attraverso il
superamento radicale dei nazionalismi, le premesse
economico-sociali e politiche di una sana democrazia. Per questo
essi subordinarono l'aiuto militare ed economico chiesto loro
dagli europei alla condizione che venisse dato avvio appunto
all'unificazione del continente. La risposta europea alle
sollecitazioni americane fu, dapprima, il Patto di Bruxelles, un
accordo di cooperazione militare stabilito nel marzo 1948 da Gran
Bretagna, Francia e paesi del Benelux (nel 1955 sarà
allargato alla Germania Federale e all'Italia e verrà
chiamato Unione Europea Occidentale, nel 1988 verrà
allargato a Spagna e Portogallo) che costituì la premessa
dell'istituzione, nel 1949, dell'Alleanza Atlantica. Nell'aprile
1948 fu quindi creata l'Organizzazione Europea di Cooperazione
Economica, incaricata di distribuire gli aiuti del Piano Marshall
ai paesi dell'Europa occidentale.
Entrambe queste istituzioni erano caratterizzate da una struttura
confederale particolarmente debole, perché la Gran
Bretagna, che ne fu con la Francia la principale fondatrice, non
era disposta ad andare al di là della cooperazione
intergovernativa fondata sulle deliberazioni unanimi. Per la
stessa ragione il principio confederale s'impose nell'istituzione
del Consiglio d'Europa, che coinvolse nel 1949 i principali paesi
dell'Europa occidentale e si estese poi progressivamente a quasi
tutta questa regione. Nonostante la loro debolezza strutturale,
l'OECE e il Consiglio d'Europa svolsero una funzione preparatoria
di una certa importanza. La prima avviò in effetti la
liberalizzazione degli scambi e la cooperazione monetaria in
Europa, mentre il secondo, che fu il primo organismo
internazionale a coinvolgere i parlamentari, costituì nei
suoi primi anni uno strumento utile per favorire i contatti fra
tutte le forze politiche europee e renderle quindi più
attente ai problemi dell'integrazione.
In seguito all'istituzione delle Comunità europee
l'influenza della corrente confederalista sul processo di
unificazione è stata indubbiamente ridimensionata. Essa si
è manifestata anzitutto nel ruolo centrale assegnato nel
sistema istituzionale comunitario al Consiglio dei ministri,
attraverso il quale i governi nazionali assommano nelle proprie
mani il potere legislativo comunitario e una notevole parte di
quello esecutivo: è una situazione che dà alle
Comunità una configurazione semiassolutistica, totalmente
in contrasto con i principi liberaldemocratici dominanti negli
ordinamenti costituzionali degli Stati membri. In secondo luogo il
confederalismo ha ottenuto una importantissima vittoria con il
'compromesso di Lussemburgo' del gennaio 1966. Da allora,
prendendo atto che il governo francese non era disposto ad
accettare una decisione a maggioranza del Consiglio dei ministri
considerata in contrasto con propri interessi vitali nazionali,
è invalsa in effetti la prassi di votare
all'unanimità anche nei casi in cui i trattati comunitari
prescrivono le deliberazioni a maggioranza. Il compromesso fu
imposto da de Gaulle, il quale negli anni sessanta divenne il
più prestigioso e coerente sostenitore dell'orientamento
confederalista. Nonostante il suo rifiuto del rafforzamento in
senso soprannazionale delle istituzioni comunitarie, egli svolse
però anche un ruolo positivo rispetto all'avanzamento
dell'integrazione economica, ritenendo che ciò fosse
indispensabile per il recupero dell'autonomia della Francia e
dell'Europa nel suo complesso rispetto all'egemonia degli Stati
Uniti e dell'Unione Sovietica. Sulla base di questa convinzione
decise nel 1963 di porre il veto all'ingresso britannico nella
Comunità, perché il suo allargamento prima del
completamento dell'unione doganale e di quella agricola avrebbe
portato alla trasformazione della Comunità stessa in una
grande zona di libero scambio e avrebbe bloccato il cammino verso
tappe più avanzate dell'integrazione europea e, quindi, la
stessa prospettiva di un'emancipazione dalla tutela americana.
Dopo l'uscita di scena di de Gaulle e l'ingresso nella
Comunità della Gran Bretagna, il ruolo di punta di lancia
della corrente confederalista è passato al governo di
questo paese, specialmente nel periodo in cui è stato
guidato dalla signora Margaret Thatcher. Ciò nonostante,
anche il governo britannico ha finito con l'accettare l'Atto Unico
Europeo, entrato in vigore nel 1987, con il quale sono stati
introdotti un, sia pure limitato, rafforzamento dei poteri del
Parlamento europeo e una prassi decisionale del Consiglio dei
ministri, per cui, pur non essendo stato formalmente abrogato il
'compromesso di Lussemburgo', le deliberazioni a maggioranza sono
diventate una componente significativa della vita comunitaria.
b) I risultati dell'approccio funzionalista
Le Comunità europee costituiscono il risultato fondamentale
dell'applicazione del metodo funzionalista alla costruzione
dell'unità europea. In esse infatti gli aspetti di
carattere confederale trovano un correttivo d'importanza decisiva
nei poteri della Commissione esecutiva (diventata unica in seguito
alla fusione degli esecutivi comunitari attuata nel 1967), nella
sua autonomia dai governi e nel principio dell'efficacia immediata
della normativa comunitaria all'interno degli ordinamenti
giuridici nazionali. La decisione dei governi di passare dalle
prime istituzioni europee di carattere puramente intergovernativo
alle ben più avanzate istituzioni comunitarie ha tratto un
impulso decisivo dalla questione tedesca. Già nell'ambito
del dibattito europeistico svoltosi durante la seconda guerra
mondiale si era ampiamente diffusa la convinzione che solo nel
quadro di una solida unificazione europea si sarebbe potuta
risolvere in modo efficace e definitivo la questione tedesca,
trasformare cioè le grandi potenzialità economiche e
organizzative di questo popolo da fattore di costante
preoccupazione per i vicini in fattore di progresso per tutti.
Questo orientamento non ebbe alcuna efficacia operativa fino a che
gli Americani accettarono la logica di una politica essenzialmente
punitiva nei confronti della Germania, ma la situazione
cambiò nel periodo della guerra fredda e della formazione
dei blocchi.
Un corollario fondamentale della strategia americana di
contenimento dell'URSS fu la decisione di procedere alla
ricostruzione economica e politica della Germania occidentale per
consolidare in un settore decisivo il blocco atlantico. Quando in
questo contesto fu decisa l'eliminazione dei controlli alleati
sull'industria pesante tedesca, il governo francese, con Schuman
agli Esteri, per evitare la rinascita di un'industria tedesca del
tutto autonoma (che implicava il pericolo di una rinascita del
nazionalismo tedesco), non vide altra strada che accettare la
proposta di Monnet (formulata nel maggio del 1950) di sottoporre a
un comune controllo europeo l'industria carbosiderurgica tedesca
insieme con quelle della Francia e degli altri Stati disponibili.
Dalla risposta positiva della Germania di Adenauer, dell'Italia di
De Gasperi e Sforza e del Benelux nacque la Comunità
Europea del Carbone e dell'Acciaio.
Gli aspetti soprannazionali caratterizzanti le istituzioni della
CECA dovettero essere accettati dai governi di questi paesi
perché, in caso contrario, non si sarebbe potuto realizzare
lo scopo primario dell'impresa, cioè la sottrazione del
settore carbosiderurgico all'esclusivo controllo tedesco. Proprio
per la necessaria presenza di aspetti soprannazionali, alla CECA
non aderirono la Gran Bretagna e i Paesi Scandinavi, e ciò
permise la nascita dell'Europa a sei, vale a dire di una
piattaforma fondata sulla riconciliazione franco-tedesca e su un
ruolo di guida di questi due paesi (elementi che furono poi
ulteriormente formalizzati e consolidati dal trattato
franco-tedesco del 1963): questa piattaforma rese possibili
ulteriori importanti sviluppi dell'integrazione a causa della
convergenza particolarmente forte tra gli interessi economici dei
Sei e il fatto che proprio essi avevano sperimentato nel modo
più drammatico le conseguenze della crisi dello Stato
nazionale in Europa.
Il successo della CECA ha reso possibile l'estensione del metodo
funzionalista al settore della produzione dell'energia atomica per
usi pacifici (con la Comunità Europea per l'Energia
Atomica, che ha ottenuto però scarsi risultati) e
soprattutto all'economia nel suo complesso, con la Comunità
Economica Europea (entrambe create con i Trattati di Roma del
1957). Quest'ultima ha ottenuto in questi anni risultati di
rilevanza storica. Ne è prova inequivocabile soprattutto il
fatto che le Comunità si sono gradualmente allargate fino a
comprendere dodici Stati; si sono realizzate associazioni con
altri Stati dell'Europa occidentale e con una sessantina di paesi
del Terzo Mondo, e, sulla base delle grandi aspettative suscitate
dall'impegno a completare il mercato unico interno entro il 1992,
altri Stati europei hanno espresso l'intenzione di aderire o di
associarsi alle Comunità. Non va inoltre dimenticato
l'allargamento del consenso interno all'integrazione cui oggi
aderisce anche la grande maggioranza delle forze di sinistra che
inizialmente erano contrarie all'unificazione europea. Infine i
cambiamenti epocali avvenuti nell'Est europeo negli anni
1989-1990, oltre a rendere possibile la riunificazione tedesca,
hanno aperto la strada all'estensione delle Comunità
all'Europa orientale.In effetti, dopo la dissoluzione del blocco
sovietico gli ex satelliti dell'URSS hanno manifestato
l'intenzione di aderire o di associarsi alle Comunità e la
stessa ex-Unione Sovietica, che era sempre stata contraria
all'integrazione europea, ha avviato una politica di crescente
cooperazione con le Comunità, nel quadro di una
riconciliazione tra Est e Ovest di cui è espressione
fondamentale l'istituzionalizzazione della Conferenza per la
Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Si tratta peraltro di
processi i cui esiti sono ancora incerti a causa
dell'instabilità connessa con la fine del bipolarismo e, in
modo particolare, a causa dei nazionalismi riemergenti che
rischiano di portare a una nuova 'balcanizzazione' l'Europa
orientale e la stessa ex-Unione Sovietica.
Il metodo funzionalista ha dunque avuto il merito decisivo di
rendere possibile un assai lento ma inarrestabile avanzamento
dell'integrazione europea, che la pura cooperazione
intergovernativa avrebbe invece condannato al ristagno. In tal
modo si sono potuti realizzare i grandi vantaggi connessi con la
graduale creazione di un vasto mercato continentale integrato. In
particolare, la grande crescita economico-sociale che ne è
derivata in Europa occidentale ha permesso di realizzare un salto
qualitativo nel tenore di vita delle masse e di colmare
praticamente il divario economico con gli Stati Uniti. Soprattutto
sono state poste le basi per una generale ripresa democratica,
nell'ambito della quale ha potuto verificarsi un fenomeno di
eccezionale valore storico: il superamento pacifico delle
dittature in Spagna, Grecia e Portogallo. Per contro non ha
trovato conferma nella realtà l'ipotesi di uno sviluppo
automatico dall'integrazione economica all'unità politica.
Si può quindi concludere che il funzionalismo, mentre
è parso adeguato a portare a maturità il problema
dell'unificazione politica, cioè del completamento
dell'unificazione europea, non sembra in grado con i suoi soli
strumenti di portarlo a soluzione.
c) Il ruolo della corrente federalista
Nell'illustrare l'influenza della corrente federalista sul
processo di integrazione europea occorre distinguere fra
l'influenza sul processo nel suo complesso e l'influenza su taluni
momenti specifici dello stesso.Per quanto riguarda il primo
aspetto, la corrente federalista ha mantenuto attiva nel corso
dell'intero processo d'integrazione la rivendicazione di una
costituzione federale europea, di una procedura costituente
democratica per realizzarla e, quindi, della partecipazione
popolare alla costruzione europea. Ciò è avvenuto,
oltre che attraverso un ruolo propositivo e di consulenza rispetto
alla classe politica, tramite campagne di mobilitazione
dell'opinione pubblica, che hanno coinvolto decine di migliaia di
enti locali e di articolazioni territoriali delle forze politiche
ed economico-sociali e milioni di semplici cittadini. Questa
attività non è servita solo a mantenere aperta la
prospettiva del completamento in senso democratico e federale
dell'integrazione europea, ma ha anche ottenuto risultati concreti
in ordine alla configurazione delle istituzioni comunitarie. Se in
esse, accanto agli aspetti confederali e a quelli derivanti
dall'approccio funzionalista, esiste anche un importante embrione
di carattere federale, come il Parlamento europeo con i suoi pur
chiaramente inadeguati poteri, ciò è dovuto
sicuramente anche all'attiva presenza del federalismo nel processo
d'integrazione.
Per quanto riguarda l'influenza della corrente federalista su
singoli momenti del processo di integrazione, occorre precisare
che essa si è basata sulla capacità di utilizzare
gli spazi aperti dagli sviluppi confederali e funzionali
dell'integrazione. In effetti i federalisti hanno sempre ritenuto
illusoria la convinzione che si potesse realizzare un'integrazione
graduale, ma duratura e completa, attraverso i meccanismi
comunitari, nello stesso tempo hanno però riconosciuto che
questo tipo d'integrazione è destinato a produrre delle
contraddizioni che possono favorire dialetticamente la lotta
federalista. Queste contraddizioni sono fondamentalmente due. Una
è rappresentata dalla precarietà e
dall'inadeguatezza dell'integrazione confederale-funzionale. Le
istituzioni comunitarie, proprio perché prive di un potere
democratico federale, sono destinate a incepparsi quando i
problemi da affrontare diventano troppo difficili, e a produrre
quindi una frustrazione delle aspettative alimentate dallo
sviluppo dell'integrazione nei momenti più facili, una
frustrazione che può essere trasformata in sostegno per
soluzioni più avanzate. L'altra e ancora più
importante contraddizione è costituita dal 'deficit
democratico', dal fatto cioè che vengono creati dei centri
di decisione a livello soprannazionale senza trasferire a tale
livello efficaci procedure di controllo democratico. Questa
situazione è destinata a produrre nei partiti e
nell'opinione pubblica di orientamento democratico un crescente
disagio, che può essere indirizzato verso l'idea di una
democrazia soprannazionale e di una costituente europea.
Questa impostazione ha permesso alla corrente federalista di
esercitare un'influenza decisiva sul processo d'integrazione
soprattutto in tre momenti. Il primo è stato quello delle
trattative sulla Comunità Europea di Difesa e sulla
Comunità Politica Europea nel periodo 1951-1954. In quegli
anni Altiero Spinelli, in quanto leader indiscusso del federalismo
europeo, riuscì a instaurare un rapporto estremamente
proficuo con De Gasperi e a convincerlo dell'assurdità del
progetto di creare un esercito europeo senza creare
simultaneamente uno Stato democratico europeo: di un progetto
cioè, che avrebbe trasformato di fatto i soldati europei in
truppe mercenarie al servizio degli Stati Uniti e avrebbe
comportato la messa in discussione di una delle più
importanti acquisizioni della tradizione liberaldemocratica, vale
a dire la subordinazione dell'esercito al governo democratico.
Facendo sue le considerazioni e le proposte federaliste, De
Gasperi riuscì a strappare a Schuman e a far accettare agli
altri ministri dell'Europa dei Sei la decisione, prevista all'art.
38 del progetto di trattato istitutivo della CED, di aggiungere
alla costruzione dell'esercito europeo quella della
Comunità politica.
Fu altresì dovuto in modo decisivo all'insistenza di
Spinelli la decisione di affidare l'elaborazione dello statuto
della Comunità politica all'assemblea allargata della CECA,
definita 'Assemblea ad hoc'. Questa elaborò un progetto con
forti elementi federali, che prevedeva in particolare l'elezione
diretta di un parlamento europeo fornito di poteri legislativi e
la realizzazione, oltre all'esercito comune, di un mercato comune
che avrebbe dovuto assorbire in sé la CECA. Questa impresa
non giunse in porto perché la mancata ratifica della CED da
parte del Parlamento francese fece cadere il connesso progetto di
una comunità politica. Questa sfortunata battaglia non
restò tuttavia senza esiti pratici sul processo
d'integrazione, perché pose le premesse per i Trattati di
Roma. I governi si trovarono infatti nella necessità di
dare una risposta almeno parziale alle grandi aspettative
suscitate nell'opinione pubblica dai progetti della CED e della
CPE e alla cocente delusione derivante dalla loro caduta, e
ciò contribuì in modo decisivo al rilancio europeo,
che, con la nascita della CEE, fece compiere un grande passo
avanti all'integrazione europea.
Il secondo importante momento d'influenza della corrente
federalista è costituito dall'elezione diretta del
Parlamento europeo, che ha potuto essere ottenuta grazie a una
sistematica e quasi ventennale campagna promossa dai federalisti.
La lotta per questo obiettivo si è fondata sulla
convinzione che, anche se si trattava di far eleggere direttamente
un parlamento privo di poteri sostanziali, il fatto stesso di
ottenere una legittimazione democratica diretta avrebbe reso
possibile la sua trasformazione in assemblea costituente di
diritto o di fatto. Si sarebbe infatti creata una situazione in
palese contrasto con quei principi liberaldemocratici che rendono
inconcepibile l'esistenza di un parlamento nato dall'esercizio
della sovranità popolare ma privo dei poteri deliberativi
indispensabili per tradurre in pratica il mandato ricevuto.
Ciò avrebbe fortemente indebolito le resistenze
nazionalistiche alla richiesta di attribuire al Parlamento europeo
il compito di elaborare un progetto di costituzione in grado
d'instaurare a livello comunitario un sistema di governo
democratico, corrispondente ai principi generali vigenti
nell'ordinamento costituzionale degli Stati membri.
D'altra parte, tale richiesta sarebbe stata sollevata con forza
dagli stessi parlamentari europei, anche in considerazione dei
loro concreti interessi di potere. Essi infatti, in vista della
propria rielezione o comunque del mantenimento del consenso
ottenuto dai rispettivi partiti, sarebbero stati costretti nella
loro grande maggioranza (l'eccezione essendo rappresentata dai
deputati appartenenti ai partiti programmaticamente
antieuropeisti) a cercare di ottenere i mezzi concreti per
realizzare i loro programmi e quindi a battersi per il
rafforzamento e la democratizzazione delle istituzioni
comunitarie.
Il terzo momento fondamentale dell'influenza federalista
sull'unificazione europea è infine costituito dal progetto,
di chiaro contenuto federale, di un trattato istitutivo
dell'Unione europea (TUE). L'elaborazione del TUE da parte del
Parlamento europeo e la sua approvazione a larga maggioranza, il
14 febbraio 1984, rappresentano l'autoassunzione da parte
dell'Assemblea di Strasburgo di un ruolo costituente e hanno avuto
come promotore e guida dell'intera iniziativa Spinelli, che ha
agito all'interno dell'Assemblea avendo all'esterno il pieno e
fattivo sostegno delle organizzazioni federaliste. Il TUE non
è stato per ora accettato dai governi, i quali hanno
preferito ripiegare su di una riforma molto più limitata
rappresentata dall'Atto Unico Europeo, che contiene l'obiettivo
ambizioso del completamento del mercato interno entro il 1992, ma
non ha trasformato le Comunità in un sistema istituzionale
realmente democratico ed efficiente. Se la lotta federalista
avviata dopo l'elezione diretta del Parlamento europeo non ha
ancora raggiunto l'obiettivo di una costituzione federale, essa ha
però influenzato in modo rilevante lo sviluppo
dell'unificazione europea. In effetti, se si è giunti,
superando forti resistenze provenienti soprattutto dal governo
britannico, a fissare in un nuovo trattato, e non in una semplice
dichiarazione di intenti, il progetto di completamento del mercato
interno, ciò è stato dovuto in modo decisivo
all'esigenza di venire incontro almeno parzialmente alle richieste
espresse dal Parlamento europeo con il TUE. L'Atto Unico Europeo,
dando un nuovo, forte impulso all'avanzamento dell'integrazione
europea, ha d'altra parte spinto i governi ad affrontare i
problemi dell'unione economica e monetaria e dell'unione politica,
e a convocare (nel dicembre 1990) due conferenze intergovernative
dirette alla realizzazione di questi obiettivi, resi necessari
anche dalle nuove responsabilità mondiali che l'Europa
è chiamata ad assumersi dopo la dissoluzione del sistema
bipolare. Se le conferenze intergovernative non realizzeranno
un'autentica riforma in senso democratico e federale delle
Comunità, il loro 'deficit democratico' si
accentuerà, e ciò non potrà non rafforzare la
richiesta del Parlamento europeo di un cambiamento più
profondo.
Per capire ciò che è in gioco nell'esito di questa
lotta, occorre sottolineare un punto d'importanza decisiva.
L'elezione del Parlamento europeo rappresenta il primo esempio
storico di estensione del diritto di voto sul piano dei rapporti
internazionali e cioè di intervento diretto del popolo in
una sfera della vita politica che è stata finora dominio
esclusivo della ragione di Stato, del confronto diplomatico e
militare tra gli Stati e delle manovre delle grandi imprese
multinazionali. Se questo primo embrione di democrazia a livello
internazionale si svilupperà in un compiuto sistema
democratico su scala europea, cioè in un sistema di tipo
federale, esso non mancherà di avere un grande valore di
esempio per altre regioni del mondo e in generale sta diventando
sempre più attuale per avviare la costruzione di procedure
di controllo democratico delle relazioni internazionali globali,
in modo da sottrarle progressivamente allo scontro fra gli egoismi
dei singoli Stati. Se invece questo embrione morirà, ne
deriveranno fatali contraccolpi, non solo rispetto allo sviluppo
dell'unificazione europea, ma anche rispetto al prestigio della
democrazia su scala mondiale.
Enciclopedia del Novecento (1977)
di Altiero Spinelli
Sommario: 1. La catastrofe del nazionalismo. 2. L'europeismo. 3.
Il federalismo europeo. 4. Il funzionalismo. 5. Il confederalismo.
6. Le superpotenze e l'Europa. 7. La diffusione dell'europeismo.
8. Tappe e cicli della costruzione europea. □ Bibliografia.
1. La catastrofe del nazionalismo
Nel periodo che va dalla Rivoluzione francese alla fine della
seconda guerra mondiale, la vita politica europea è stata
un crogiuolo di idee e esperienze politiche molteplici e profonde:
parallele, divergenti o convergenti, complementari o
contraddittorie. Sarebbe probabilmente vano tentare di ricondurre
a un unico comun denominatore i comportamenti politici che vanno
sotto il nome di liberalismo, democrazia, autoritarismo,
totalitarismo; capitalismo, socialismo, comunismo, sindacalismo;
conservatorismo, radicalismo; nazionalismo, internazionalismo,
ecc. Nei vari popoli e in momenti successivi della loro storia, la
presenza di questi comportamenti è stata diversa, la loro
intensità variabile, l'equilibrio reciproco spesso assai
delicato e complesso. Ma senza alcun dubbio, uno fra questi
comportamenti è stato alla lunga dominante in tutto questo
periodo, crescendo di importanza da un decennio all'altro, da una
crisi politica all'altra e diventando sempre più la
struttura fondamentale della politica europea, nella quale tutti
gli altri comportamenti e tutte le realizzazioni politiche hanno
finito per calarsi e adattarsi. Intendiamo parlare del
comportamento fondato sul principio dell'unità e
sovranità nazionale. Esso può essere così
formulato nei suoi aspetti essenziali: a) ogni nazione deve essere
unita in un solo Stato; b) ogni Stato deve essere l'espressione
politicà di una sola nazione; c) ogni Stato-nazione deve
essere sovrano nelle sue relazioni interne e esterne, deve
cioè essere all'origine di tutte le leggi cui i suoi
cittadini devono obbedire, e essere superiorem non recognoscens
rispetto a qualsiasi altro Stato o istituzione internazionale.
Per rendersi conto di quale sia stata la forza modellatrice di
questo principio basta osservare i cambiamenti che esso ha operato
nella struttura internazionale dell'Europa e in quella interna di
ogni singolo Stato durante questo periodo. Se si confronta la
geografia politica europea alla fine del XVIII secolo con quella
del 1938, subito dopo l'annessione della regione dei Sudeti alla
Germania, cioè del momento in cui il principio nazionale ha
raggiunto la sua realizzazione quasi perfetta, si vede che
all'inizio la maggior parte delle nazioni erano divise fra Stati
separati, o convivevano con altre nello stesso Stato, che anche
gli Stati più omogenei dal punto di vista nazionale avevano
un assai scarso senso di una loro identità nazionale, che
la sovranità di molti Stati era variamente limitata in un
quadro imperiale, e che tutto ciò non era sentito come
illegittimo o scandaloso. Centocinquanta anni dopo i due Imperi
multinazionali, asburgico e ottomano, ultime incarnazioni degli
Imperi romani d'Occidente e d'Oriente, erano scomparsi, le nazioni
delle marche occidentali dell'impero russo erano diventate
indipendenti, e l'Europa era composta di un insieme di Stati
grandi e piccoli, tutti pienamente sovrani, ciascuno coincidente
con una nazione. Naturalmente su quasi tutte le frontiere c'erano
mescolanze nazionali diverse, ma ogni Stato perseguiva con tenacia
una politica di denazionalizzazione e di assimilazione delle
proprie minoranze etniche. Sole eccezioni erano l'URSS, che era
riuscita a mantenere, rinnovandola, la struttura multinazionale
dell'Impero zarista, il Belgio che non era riuscito a fondere in
una le sue due nazioni, e - solo vero successo di un modello
politico alternativo - la Svizzera, che aveva saputo passare dal
regime delle quasi-sovranità cantonali a quello
dell'unità federale, evitando il contagio nazionalista.
Alla progressiva affermazione della sovranità degli
Stati-nazione verso l'esterno corrispondeva un crescente grado di
integrazione politica dei cittadini di ogni nazione nel loro
Stato. Politiche economiche assai coerenti avevano reso
interdipendenti fra loro le varie regioni e classi, come mai lo
erano state nel passato, e le relazioni economiche internazionali
dapprima assai liberali, erano diventate progressivamente sempre
più strettamente controllate dagli Stati, in modo da non
permettere che l'interdipendenza economica transnazionale andasse
oltre certi limiti giudicati pericolosi per la sicurezza
nazionale.
L'attività educativa nazionale, coinvolgendo tutti i
cittadini pochi anni dopo la loro nascita, e continuando in forme
molteplici durante tutta la loro vita, nella scuola, nel servizio
militare, nella stampa e poi nella radio, nella vita politica,
nelle misure di sicurezza sociale, era stata un immenso ‛lavaggio
dei cervelli' che aveva inculcato la supremazia dei valori della
propria nazione. L'apparato amministrativo dello Stato, preciso e
efficace, era penetrato progressivamente in tutte le
manifestazioni della vita nazionale, mantenendole unite e
convergenti. Interessi, ambizioni e paure di ogni singola nazione
non potendo, in un sistema di Stati sovrani, essere tutelati che
dalla potenza militare, una corsa agli armamenti nazionali si era
progressivamente sviluppata in Europa, facendo di essa il
più caotico ma anche di gran lunga il più possente
complesso di potenze militari esistente nel mondo.
Che questo sistema di forti e quasi mistiche integrazioni
politiche nazionali, di crescente - e anch'essa quasi mistica -
disintegrazione di ogni senso di solidarietà
transnazionale, dovesse concludersi in una catastrofe era, per
così dire, iscritto nelle cose e negli animi. Presi a uno a
uno nessuno dei numerosi motivi di conflitto esistenti fra gli
Stati europei era, nel 1914, così grave da giustificare una
guerra così generale e spietata come quella che
scoppiò allora. Ma ciascun motivo veniva a rafforzare la
tumida volontà di potenza che si era sviluppata negli
Stati-nazione europei, e che li spingeva a' dare prova della loro
potenza a se stessi e agli altri.
Nel 1914 ebbe così inizio la lunga guerra civile europea
che durò fino al 1945, si scandì nel conflitto
armato del 1914-1918, nell'interludio di rivoluzioni,
controrivoluzioni, tirannidi e crisi economico-sociali del
1919-1939, e nel secondo conflitto armato del 1939-1945.
Poiché l'Europa era allora il centro della potenza
militare, economica e politica del mondo, questo fu coinvolto
nelle due guerre, ed esse ebbero conseguenze immense non solo per
gli Europei, ma per l'umanità tutta intera.
La prima guerra mondiale, giustamente chiamata da Benedetto XV
l'‟inutile strage", mostrò a una minoranza europea
l'assurdità del sistema delle sovranità nazionali,
ma alla grande maggioranza dei popoli e delle forze politiche
impartì una lezione esattamente contraria. Avendo rivelato
la capacità dello Stato-nazione di organizzare in una
gigantesca macchina amministrativa e propagandistica tutte le
riserve umane e materiali della nazione e di ottenere lealismo e
abnegazione totali da parte dei suoi cittadini, la guerra aveva
esaltato il senso del valore supremo di questa struttura politica.
Il disfacimento dei tre Imperi, austriaco, turco e russo,
sembrò quasi una controprova della superiorità
politica degli Stati-nazione, i quali tutti, vincitori e vinti,
uscirono dalla prova col senso di aver superato con successo un
tremendo giudizio di Dio. L'Europa continuò ancora
imperterrita sulla via del nazionalismo. Nuovi Stati-nazione
sorsero dalle ceneri degli imperi multinazionali. Tutte le nazioni
svilupparono un culto quasi religioso dei milioni di morti di
questa insensata, ma gloriosa guerra. Alcune nazioni si
organizzarono in modo permanente in dittature totalitarie per
ricreare quella profonda comunione nazionale di intenti che c'era
stata durante la guerra. Tutti gli Stati affrontarono la grande
crisi economica iniziatasi nel 1929 instaurando piani economici e
monetari nazionali, incuranti delle ripercussioni che essi
avrebbero avuto sugli altri paesi ed in genere sulle relazioni
economiche internazionali.
E dopo 21 anni di tale intensa e crescente esperienza
nazionalista, si precipitarono nella seconda guerra mondiale,
portando a compimento la profezia del poeta austriaco Grillparzer:
‟ Von der Menschheit, durch die Nationalität, zur
Bestialität".
La seconda guerra mondiale fornì nel modo più
completo e più irrefutabile la dimostrazione, che la prima
non era riuscita a dare, dell'assurdità dell'Europa delle
sovranità nazionali. Lungi dal saper ripetere la prova di
potenza dell'altra volta, i superbi Stati-nazione caddero quasi
tutti, vergognosamente, l'uno dopo l'altro, sotto i colpi del
più potente fra loro, e, in mezzo a esplosioni di ferocia
che ben presto non conobbero più limiti, furono invasi e
sottomessi, fossero essi alleati o nemici, dalla Germania. Quelli
fra i loro cittadini che rifiutarono l'umiliante asservimento,
dovettero mettersi fuori della legge del proprio paese e di quella
del vincitore, cercando non più nell'autorità
tradizionale del loro Stato, ma nella loro coscienza individuale
le ragioni per continuare a battersi in bande di partigiani, non
solo contro l'invasore, ma anche contro i connazionali che
collaboravano con esso. La Germania stessa, dopo aver sottomesso
nel giro di pochi anni pressoché tutta l'Europa, ebbe
infine quasi rase al suolo le sue città e battuti i suoi
eserciti. Fu invasa, dovette arrendersi senza condizioni, vide
cancellate tutte le sue istituzioni politiche e amministrative, e
fu convertita dagli invasori in semplice territorio di occupazione
militare.
Alla fine della guerra, nella primavera del 1945, l'Europa era
coperta di macerie, colma di delitti e di odi, affamata, con i
campi impoveriti e gran parte delle officine distrutte o ferme, il
commercio dominato dal mercato nero, i poteri pubblici quasi
incapaci di mantenere l'ordine civile, occupata pressoché
completamente dalle truppe - ora liberatrici ora vincitrici - di
due nuove superpotenze, di dimensioni ben maggiori di quelle di
ciascun Stato europeo, entrambe nate in modi e tempi diversi
dall'espansione della civiltà europea, ma l'una - gli Stati
Uniti - del tutto extraeuropea e l'altra - l'URSS - solo
perifericamente e parzialmente europea.
2. L'europeismo
È stato necessario rievocare rapidamente il ciclo dello
sviluppo e della catastrofe dell'Europa degli Stati sovrani,
perché quella mutazione nella coscienza politica degli
Europei che porta il nome di europeismo emerse dalla meditazione
su questa esperienza. Che l'Europa, benché sempre divisa
politicamente, avesse una tal quale esigenza di unità, era
stato un sogno antico, che aveva, nel corso dei secoli, sedotto
alcuni poeti, pensatori, statisti, avventurieri politici, ma non
si era mai tradotta in realtà fuorché in modo
effimero e ripugnante quando, all'inizio ed alla fine dell'era dei
nazionalismi, due avventurieri politici, Napoleone e Hitler,
tentarono di realizzarla brutalmente fondandola sulla strapotenza
degli eserciti dello Stato, prima francese, poi tedesco, di cui
erano riusciti a impadronirsi.
L'europeismo si distingue dal sogno antico perché non
è l'aspirazione a un ordine nuovo da attendere in un futuro
imprecisabile, ma è il proposito di promuovere un'azione
politica attuale per realizzare l'unità a breve scadenza, e
per opera della generazione stessa che ha visto e sofferto la
crisi dell'ordine politico nazionale. Esso si distingue dalla
visione dell'unità imperiale militare perché si
propone di raggiungere l'unione non già mediante la forza e
la conquista da parte di uno Stato più forte, ma fondandosi
solo sul libero consenso di nazioni libere.
Alla fine della prima guerra mondiale il giovane conte austriaoc
R. N. Coudenhove Kalergi pensò per primo all'unità
europea come a un compito politico attuale. Le sue idee fecero
momentaneamente una certa presa superficiale nell'animo di qualche
raro statista, ed in particolare del francese A. Briand nel
momento in cui, verso la metà degli anni venti, egli
cercava assieme al suo collega tedesco G. Stresemann una
riconciliazione tra Francia e Germania. Fra i centri di studio e
propaganda sorti sulla scia dell'iniziativa di Kalergi, merita di
essere ricordata la Federal Union inglese, la quale, verso la fine
degli anni trenta, rifacendosi a un filone di meditazioni sul
quale si era già soffermato nel 1918 Luigi Einaudi, prese a
modello la costituzione federale degli Stati Uniti d'America e
promosse studi di notevole valore sulle possibili strutture di una
federazione europea.
Ma nell'interludio fra le due guerre il corso della storia europea
favorì troppo fortemente la recrudescenza del nazionalismo,
e Coudenhove Kalergi assieme agli altri rari seguaci dell'idea
degli Stati Uniti d'Europa rimasero profeti inascoltati in un
mondo nel quale ricominciavano fervidi i preparativi a un nuovo
cozzo armato fra le nazioni. Il seme non era tuttavia stato
gettato invano. L'europeismo rinacque durante il rovinoso crollo
di tutti gli Stati nazionali nella seconda guerra europea,
inizialmente nell'animo di alcuni che cominciarono allora a
meditare sull'avvenire guardando al di là dell'obiettivo
immediato della vittoria sul nazismo e della restaurazione
dell'indipendenza dei popoli europei; questa volta non è
rimasto un appello inascoltato, ma le sue vicende hanno inciso
profondamente sulla storia europea.
Fin dal suo nascere esso si è articolato in tre correnti
che hanno variamente contribuito e continuano tuttora a
contribuire all'effettivo processo di unificazione europea: il
federalismo, il funzionalismo, il confederalismo.
3. Il federalismo europeo
È nato durante gli anni più duri della guerra
nell'animo di alcuni uomini della resistenza, di vari paesi
d'Europa, che nelle prigioni, nei campi di concentramento, nelle
isole di confino, o nascosti alla macchia come partigiani o
cospiratori, senza conoscersi fra loro, poiché la loro
condizione era di una diaspora nell'illegalità,
contemplando la rovina vergognosa dei vecchi Stati e meditando su
quel che si sarebbe dovuto fare una volta abbattuta l'idra
nazista, non si contentarono di progettare restaurazioni
democratiche nazionali e riforme sociali ed economiche nazionali,
ma intravidero come impegno di lotta politica la costruzione di
una federazione europea.
Nella letteratura clandestina della resistenza di tutti i paesi
d'Europa appaiono qua e là, quasi come massi erratici,
affermazioni federaliste più o meno elaborate. Fra i vari
gruppi, quello che probabilmente pensò l'impegno
federalista con più chiara consapevolezza delle sue
implicazioni politiche, e che fu anche il promotore dei primi
incontri internazionali di federalisti delle varie resistenze
ancor prima della fine della guerra, fu un gruppetto di poco
più di un paio di antifascisti italiani, autori del
Manifesto per l'Europa libera e unita, più tardi chiamato
‛Manifesto di Ventotene', dal nome dell'isola di confino in cui fu
redatto.
Finita la guerra, la ricostruzione europea si sarebbe dovuta
fondare sul ristabilimento dei diritti e delle libertà
fondamentali dei cittadini di ogni Stato, su un ordine pacifico,
su una ricostruzione economica e sociale che mettesse fine alle
rovinose autarchie. Le altre attività pubbliche avrebbero
potuto e dovuto restare nel loro complesso di competenza dei
singoli Stati, ciascuno dei quali le avrebbe svolte secondo il
proprio genio; ma se la garanzia del rispetto delle regole di vita
democratica, la politica estera, la politica militare, la politica
economica e monetaria fossero tornate ad essere esercitate dai
singoli Stati in piena autonomia, l'avvenire dell'Europa sarebbe
stato la ripetizione esatta del passato. Questi grandi settori
dell'attività politica avrebbero però potuto essere
gestiti nell'interesse di tutti i popoli solo se essi fossero
stati sottratti alla sovranità dei singoli Stati e affidati
a istituzioni politiche democratiche comuni, cioè a un
governo, a un parlamento e ad una corte di giustizia comuni. I
cittadini sarebbero restati cittadini nazionali, tenuti al
rispetto delle leggi nazionali e dotati di diritti nazionali,
nell'ambito delle materie di competenza degli Stati nazionali.
Sarebbero stati invece cittadini europei, tenuti al rispetto delle
leggi europee e dotati di diritti europei, nell'ambito delle
materie di competenza federale.
Le disastrose conseguenze del sistema delle sovranità
nazionali che erano evidenti sotto gli occhi di tutti; la
necessità di stabilire con la Germania un rapporto nuovo
che non avrebbe potuto essere né quello temuto da tutti
della restaurazione di una Germania sovrana, né quello
politicamente e moralmente inaccettabile di una Germania dominata
dagli altri popoli; il fatto che la rovina economica di quasi
tutti i paesi aveva distrutto le vecchie economie nazionaliste e
ridotto provvisoriamente all'impotenza i gruppi economici
tradizionalmente interessati a mantenerle; il forte e generale
ribrezzo verso i regimi antidemocratici e verso le ideologie
nazionaliste; tutto ciò costituiva un insieme di
circostanze che offrivano alle forze politiche democratiche la
grande occasione per dare inizio alla ricostruzione dell'Europa,
non chiudendosi in una serie di ricostruzioni nazionali, ma
intraprendendo la costruzione delle nuovissime strutture politiche
federali europee.
Nella rinnovata vita democratica del dopoguerra i federalisti
europei, consapevoli della novità politica assoluta della
loro proposta, intendevano non accettare la vecchia linea di
divisione fra le forze della destra, tradizionalmente
conservatrice e liberale, e quelle della sinistra,
tradizionalmente riformatrice e socialista, ma promuovere la
formazione di una linea di divisione nuova fra coloro che
avrebbero anzitutto mirato alla restaurazione dei vecchi Stati
nazionali, con politiche più o meno liberali, più o
meno socialiste, e coloro che avrebbero mirato anzitutto a una
redistribuzione del potere governativo, legislativo e giudiziario
fra le nuove istituzioni federali e quelle antiche nazionali. Per
questo motivo i federalisti non fondarono un partito, ma un
movimento, che riunì in sé tutti i gruppi che si
erano venuti formando nei vari paesi, e prese il nome prima di
Union Européenne des Fédéralistes e poi di
Mouvement Fédéraliste Européen.
Non è difficile scorgere che le radici ideali dei
federalisti europei si trovavano nella grande corrente del
radicalismo democratico, che è stato sempre all'origine di
tutti i rinnovamenti delle democrazie moderne. La loro forza e la
loro debolezza erano quelle tipiche del radicalismo. La forza era
nella spregiudicatezza con cui si comportavano verso le
tradizioni, portandole dinnanzi al tribunale della ragione,
giudicandole in base alla loro razionalità e proponendo con
chiarezza le alternative. La loro debolezza era nel fatto che essi
non facevano di regola parte dell'establishment politico e non
disponevano perciò degli strumenti per mettere direttamente
in opera i loro progetti. Erano agitatori di idee e la loro
fortuna politica sarebbe dipesa essenzialmente dalla influenza che
avrebbero avuto sui detentori del potere. Avevano l'illusione,
caratteristica di tutti i portatori di idee nuove, che il momento
della realizzazione fosse imminente, legato al breve periodo
critico iniziale della ricostruzione del dopoguerra; si rendevano
scarsamente conto che il ritmo delle realizzazioni politiche
è assai più lento e più tortuoso di quello
della formulazione del pensiero. La penetrazione delle loro idee
sarebbe stata assai più difficile di quel che essi avevano
immaginato, ma la loro critica e il loro disegno, benché
ancora non realizzato, è rimasto sino ad oggi il lievito
fondamentale dell'europeismo.
4. Il funzionalismo
È stato probabilmente l'economista romeno Mitrany a
formulare per primo le idee di fondo della seconda corrente
dell'europeismo e a battezzarla con questo termine. Ma è
stato senza dubbio J. Monnet a darle il vigore di pro- poste
concrete e precise presentate nel momento più opportuno ai
governi che ne avevano bisogno.
Anche il funzionalismo è nato durante la seconda guerra
mondiale da una meditazione sui problemi di fronte ai quali gli
Stati europei si sarebbero trovati dopo la fine delle
ostilità. Ma mentre i federalisti avevano sviluppato i loro
progetti contemplando il crollo del sistema delle sovranità
nazionali e mettendo al centro del loro progetto la costruzione di
organismi politici europei da sovraordinare a quelli nazionali,
Monnet era partito nelle sue meditazioni da un'esperienza nuova di
cooperazione fra Stati, che era stata fatta già durante la
prima guerra mondiale e ripetuta con successo durante la seconda.
In entrambe gli Alleati avevano constatato che per utilizzare nel
modo più efficace le risorse materiali ed umane di cui
disponevano non bastava il forte controllo di ogni singolo Stato
sulle risorse nazionali, ma occorreva in alcuni campi un controllo
e una gestione comune per evitare che politiche diverse in
situazioni diverse nei singoli Stati alleati generassero
dispersione degli sforzi, e pericolosi divari fra paese e paese.
Avevano quindi impiantato agenzie specializzate, cui avevano
delegato il compito di dirigere, con autonomia di decisioni ed
entro i limiti dei mandati impartiti a esse, il controllo dei
cambi fra le loro monete, l'approvvigionamento delle materie prime
e dei rifornimenti alimentari fondamentali, le forniture delle
armi più importanti, giungendo fino a creare nella stessa
condotta delle operazioni belliche comandi supremi comuni. Queste
agenzie specializzate furono il prodotto dello spirito burocratico
razionalizzatore che presiedeva alla condotta delle guerre
moderne. Grandi amministratori erano ormai capaci di concepire e
realizzare apparati di amministrazione e di controllo per
operazioni gigantesche che coinvolgevano attività di vari
Stati; ed i governi alleati, spinti dalla gravità delle
circostanze, si indussero ad accettare in certi campi concreti il
principio della delega di certe competenze ad organi
sovranazionali. Ma si trattava sempre di organismi amministrativi
specializzati e con deleghe ben limitate. Il potere politico
restava tutto nelle mani dei governi nazionali, e queste agenzie
erano tutte concepite solo per le necessità e la durata
della guerra comune, dovendo cessare di esistere non appena questa
fosse finita.
J. Monnet, alto funzionario francese, che aveva fatto fra le due
guerre una vasta esperienza di organismi e consulenze
internazionali, e che durante la seconda guerra mondiale era stato
messo dagli Alleati a capo di una di queste loro agenzie, comprese
che il metodo avrebbe potuto essere applicato anche in tempo di
pace fra nazioni desiderose e bisognose di cooperare strettamente
fra loro. La sovranità degli organismi politici nazionali,
che i federalisti volevano prendere di petto direttamente, era
formalmente rispettata, nel pensiero di Monnet, il quale mirava a
individuare masse di interessi concreti, per i quali una gestione
comune sarebbe stata di tutta evidenza utile, e avrebbe
perciò potuto essere più facilmente delegata a una
amministrazione sopranazionale specializzata. Monnet era convinto,
come i federalisti, che la cooperazione intergovernativa non
avrebbe reso possibile la condotta di affari comuni, e voleva
anch'egli organi sovranazionali. Ma la sua esperienza di grande
tecnocrate gli faceva sentire come problema centrale la creazione
di amministrazioni sovranazionali, intorno alle quali si sarebbero
cristallizzati interessi concreti. Le istituzioni politiche erano
in fondo per lui sovrastrutture, superflue per avviare la
costruzione europea e che sarebbero state aggiunte solo a cose
fatte.
Ancora durante la guerra egli aveva individuato nel carbone e
nell'acciaio quelli che erano allora e tutto faceva pensare che
sarebbero rimasti a lungo - i due prodotti base dell'economia di
tutti gli Stati industriali europei.
Le politiche nazionali del carbone e dell'acciaio erano state
vigorosi strumenti di potenza militare nazionale dei principali
Stati europei, in particolare della Germania, e grande motivo di
rivalità specialmente tra Francia e Germania, fra le quali
si dividevano i grandi bacini carboniferi e di minerale di ferro
posti a destra e a sinistra del Reno. Mettere la produzione e la
distribuzione del carbone e dell'acciaio europeo sotto regole
comuni, applicate da una amministrazione sovranazionale comune,
non solo avrebbe posto fine a quelle politiche nazionali, ma
avrebbe anche creato una comunità di interessi così
potente e così centrale nella vita economica da tirarsi
dietro il resto delle economie nel senso della loro integrazione.
Altre agenzie specializzate sarebbero allora sorte man mano, e
l'unità si sarebbe fatta intorno a interessi concreti e ad
uffici efficienti, coronandosi alla fine con istituzioni politiche
federali.
Il punto debole del funzionalismo era quello di tutte le
concezioni tecnocratiche. Scambiava l'efficienza esecutrice del
potere amministrativo con la creatività del potere
politico. Un'amministrazione è sempre necessaria per
realizzare un piano politico, ma tende per sua natura a
irrigidirlo e a concepirlo come qualcosa di concluso in sé,
quindi incapace di generare nuovi piani. Nessuna agenzia
settoriale europea avrebbe avuto una forza trascinante per il
resto delle economie e della società europea, ove fossero
mancati impulsi politici nuovi provenienti dal di fuori
dell'agenzia stessa. Ma Monnet era convinto che i governi
sarebbero stati obbligati dalla forza delle cose a produrre tali
nuovi impulsi.
In questa prospettiva la sua impostazione era destinata ad essere
molto più facilmente accettabile di quella federalista per
molti statisti, poiché proponeva l'estensione di esperienze
che essi già conoscevano per averle fatte, e che non
esigevano decisioni radicali di natura costituzionale. Il disegno
funzionalista sarebbe stato anche molto più congeniale ai
funzionari delle amministrazioni nazionali, perché parlava
il loro stesso linguaggio tecnocratico e faceva appello ai loro
metodi di lavoro, per costruire l'unità. Last but not
least, Monnet occupò, alla fine della guerra, il posto
importantissimo di capo del Commissariat du Plan della Francia,
che lo rese influente ed ascoltato tanto presso l'amministrazione
quanto presso i ministri della Repubblica.
5. Il confederalismo
Il tema dell'unità europea non si pose solo a radicali
della resistenza antifascista e ad alti amministratori di agenzie
specializzate internazionali degli Alleati. Lo sentirono anche
alcuni statisti di grandi Stati europei, che la guerra e il
dopoguerra mettevano dinnanzi a problemi del tutto nuovi. Che
ruolo dare ai loro paesi nella prossima costruzione della pace?
Che relazione stabilire con la Germania dopo averla vinta? Come
comportarsi verso Stati Uniti e Unione Sovietica, che sempre
più apparivano come le nuove potenze mondiali destinate a
dominare la scena internazionale, ed in particolare quella
europea, nel prossimo futuro? Come rimettere in sesto
economicamente e politicamente non questo o quel paese, ma
l'Europa nel suo insieme, nella quale quasi ogni ordine
tradizionale era crollato?
I due statisti che più profondamente pensarono a tutto
ciò furono Winston Churchill, il primo ministro inglese che
aveva assunto la guida del paese nel momento più minaccioso
della sua storia, quando l'Inghilterra si trovò solitaria e
male armata di fronte ad un nemico che aveva occupato già
quasi tutta l'Europa, e Charles de Gaulle, il generale francese
che dopo la resa del suo governo aveva deciso di essere lui stesso
per virtù carismatica, l'incarnazione e l'unica
rappresentanza legittima del più antico Stato del
continente. Entrambi credevano fortemente in una sorta di primato
del proprio paese, in una responsabilità speciale, storica
e politica, che esso aveva avuto nel passato ed avrebbe dovuto
continuare ad avere nell'avvenire rispetto all'Europa. Ma entrambi
vedevano questa vocazione nazionale non come una vocazione di
dominio militare, bensì di guida in un concerto di nazioni
indipendenti e libere.
Churchill non era rimasto insensibile all'idea dell'unità
europea sin dalla fine della prima guerra mondiale, e fu in un
certo senso il primo prestigioso araldo di questa unità
durante la seconda guerra e subito dopo, quando le idee dei
federalisti e di Monnet erano ancora in gestazione e
pressoché clandestine. Nell'estate del 1940, nel momento in
cui la Francia stava per crollare, Churchill, ascoltando i
suggerimenti di Monnet, ed ispirandosi alle idee allora correnti
in Gran Bretagna dei federalisti inglesi, propose al governo
francese, rifugiato a Bordeaux dopo la caduta di Parigi, di unire
i due Stati in uno solo, fondendo i due governi e i due
Parlamenti, dando un'unica cittadinanza ai due popoli, e
continuando uniti la guerra. L'immaginosa e quasi poetica
proposta, assai più radicale di quelle federaliste, era il
tentativo improvvisato di dare una risposta adeguata alla sfida
drammatica di Hitler, e non ebbe seguito, perché nel
governo francese prevalsero i fautori della resa. Ma era stata un
segno precursore: il tema dell'unità europea poteva
giungere ed era di fatto giunto sul tavolo di statisti nazionali,
quantunque la loro naturale missione fosse quella di preservare e
sviluppare la sovranità nazionale.
Dopo la fine della guerra, Churchill tornò con tutta la sua
autorità sul tema dell'unità. Nel suo discorso del
19 settembre 1946 a Zurigo proclamò la necessità di
una stretta cooperazione fra tutte le nazioni europee, fossero
esse state alleate o nemiche, per costruire una specie di Stati
Uniti d'Europa, e mise in moto quello che sarebbe diventato
rapidamente il Movimento europeo, nel quale confluirono statisti,
parlamentari, rappresentanze di partiti e di associazioni
professionali, militanti federalisti. La smagliante e immaginosa
oratoria churchilliana indusse molti a credere che egli si fosse
fatto promotore di un'azione di unificazione di tipo federale, ma
in realtà Churchill era uomo più di grandi visioni
che di precisi progetti, e nel parlare di Stati Uniti d'Europa
aveva voluto presentare un mito più che una precisa
proposta federale. In realtà egli pensava solo a una forte
e continua collaborazione fra Stati, cioè a una
confederazione. Se parlando dei rapporti fra Francesi e Tedeschi
egli insisteva, sia pure in termini vaghi, sulla necessità
di una reale unione fra queste due nazioni, la vera natura del suo
pensiero si manifestava quando doveva pensare in particolare alla
Gran Bretagna. La voleva, sì, presente e autorevole nel
consesso delle nazioni europee, ed era assolutamente convinto che
ne avrebbe in qualche modo assunto la guida, ma non intendeva
affatto aprire il varco ad alcuna limitazione della sua
sovranità.
Il Movimento europeo, suscitato dalle sue parole, prese molto
più sul serio la loro parte mitologica ed ebbe
perciò presto l'impressione di essere stato tradito da lui,
quando egli dovette mostrare il fondo reale del suo pensiero. Ma
l'appello del grande statista inglese, che mostrava in modo
grandioso i termini della situazione europea e la meta da
raggiungere, pur restando vago, non impegnativo e aperto a
qualsiasi pragmatica mossa iniziale dei governi, ebbe una
risonanza profonda in molti statisti e in una gran parte degli
uomini politici dell'immediato dopoguerra. Costoro sentivano
riecheggiare nelle parole di Churchill il senso che ciascuno di
loro aveva della precarietà delle avvenute restaurazioni
nazionali e della necessità di tener testa insieme ai
pericoli di una contagiosa decomposizione politica ed economica.
Ciascuno poteva inoltre mettere in quell'appello una speranza di
collaborazione più o meno avanzata con gli altri Stati
d'Europa, senza dover troppo precisarne forme e contenuti. Anche
quando, più tardi, le idee funzionalistiche e
federalistiche cominciarono a farsi strada nell'animo di parecchi
statisti, esse si sovrapposero, per così dire, come strati
alluvionali successivi ad un atteggiamento di fondo che continuava
ad essere quello della cooperazione di tipo confederale.
Ciò che era confuso, approssimativo e coesistente con idee
diverse nello spirito di Churchill e di molti statisti, era invece
chiaro e preciso nel pensiero di de Gaulle, per il quale il punto
di partenza delle meditazioni europee non fu, come per Churchill,
la effettiva guida di uno Stato, ma la visione intellettualmente
ed eticamente ambiziosa di un uomo che era convinto di portare in
sé l'avvenire nazionale del proprio paese, ma che non
disponeva ancora di alcun potere governativo reale da
amministrare. La sua fede politica fondamentale e la sua cultura
politica erano quelle del più puro nazionalismo. La Francia
era per lui il paese scelto da Dio per le più grandi e
gloriose imprese. E poiché era ora caduta, e la sua
vocazione si esprimeva quasi solo nella sua persona, tanto
più intensamente egli pensava al momento in cui essa
sarebbe tornata ad essere una delle grandi potenze che stavano ora
combattendo contro la Germania.
Durante il suo soggiorno nelle colonie, che grazie al predominio
anglo-americano sui mari non erano cadute in mano alle potenze
dell'Asse, aveva avuto netto il senso che l'epoca degli imperi
coloniali volgeva al termine e che anche la Francia avrebbe dovuto
liquidare in un modo o nell'altro il suo. Per tornare ad essere
una grande potenza mondiale essa avrebbe dovuto ormai affermarsi
in Europa, e poiché le nuove grandi potenze mondiali
avevano ben altre dimensioni demografiche, economiche e militari
che non la Francia, il ruolo di questa avrebbe dovuto essere
quello di polo intorno a cui si sarebbero uniti gli altri Stati
d'Europa. Egli pensava ad una confederazione di Stati, ciascuno
dei quali avrebbe conservato la sua sovranità, ma che
sarebbero stati legati fra loro in un patto di concertazione
permanente delle loro politiche. Aveva un'intelligenza troppo
chiara per non comprendere che una confederazione è per
definizione condannata all'impotenza e alla disintegrazione se
è un patto fra Stati più o meno uguali fra loro,
ciascuno geloso della propria autonomia. Sola confederazione
vitale è quella nel cui seno c'è una potenza la cui
egemonia politica e morale sia riconosciuta ed accettata dagli
altri paesi associati. Ma per l'appunto la provvidenza aveva
creato in Europa una nazione - quella francese - più
perfetta delle altre, più solida, più sicura della
propria identità, più consapevole della sua
vocazione universale; e intorno ad essa o nazioni minori, o
nazioni, come l'Italia e la Germania, politicamente poco mature,
malsicure, bisognose di avere fuori di sé un polo di
riferimento. La Germania inoltre avrebbe potuto forse tornare a
dissolversi in più Stati, che in modo naturale, come
nell'epoca della grandezza della monarchia francese, avrebbero
ruotato intorno alla Francia. Unico Stato europeo che, avendo un
passato e una vocazione di gloria nazionale analoga a quella della
Francia, avrebbe potuto contenderle la posizione preminente che de
Gaulle le assegnava nell'Europa unita, era la Gran Bretagna; per
questo motivo l'Inghilterra doveva restare nel suo disegno fuori
dall'unione. Non era essa del resto tesa tutta verso gli oceani e
non aveva relazioni speciali con gli Stati Uniti?
Poiché la Francia usciva dalla guerra solo apparentemente
come paese vincitore, e nessun altro paese le riconosceva un ruolo
di supremazia, c'era qualcosa di donchisciottesco nella visione di
de Gaulle. Ma era sentita da lui con vigore e passione, e anche se
il confederalismo esercitò la sua influenza nel primo
quindicennio del dopoguerra nella più vaga forma
churchilliana, la più vigorosa e coerente visione gaullista
era destinata a esercitare un'influenza maggiore nel corso
successivo degli avvenimenti.
6. Le superpotenze e l'Europa
Contrariamente a quanto era avvenuto alla fine della prima guerra
mondiale, quando gli Stati europei ebbero la piena
possibilità di procedere alla ricostruzione del loro
sistema internazionale senza subire condizionamenti e interventi
esterni, alla fine del secondo conflitto l'Europa non poté
fare da sé. Le prime fondamenta della ricostruzione europea
furono infatti poste, e in modo durevole, dai veri vincitori,
cioè dagli Stati Uniti d'America e dall'Unione Sovietica.
Lo spirito missionario, rispettivamente democratico e comunista,
che era una componente assai forte della politica estera delle due
nuove grandi potenze; la diffidenza di entrambe per quel che
avrebbe potuto esplodere ancora una volta da una Europa
abbandonata a se stessa; e infine la forte diffidenza di ciascuna
di esse verso le intenzioni e i piani dell'altra, si sommarono
insieme in modo tale che l'occupazione militare di quasi tutto il
continente europeo da parte delle loro truppe divenne il punto di
partenza di una divisione profonda dell'Europa in due parti.
Salvo un tentativo, presto abbandonato, di amministrazione diretta
da parte dei vincitori delle zone in cui era stata divisa la
Germania, le restaurazioni istituzionali, politiche, economiche e
sociali furono ovunque compiute dalle forze politiche indigene dei
vari paesi liberati dal dominio nazista. Ma ovunque le
restaurazioni avvennero all'ombra delle forze americane a
Occidente e sovietiche a Oriente; ovunque le potenze dominanti non
esitarono a far valere la loro autorità e ad adoperare gli
strumenti d'intervento di cui disponevano - e che erano
notevolmente diversi nei due casi - per favorire sviluppi che
fossero conformi all'idea che esse si facevano dell'avvenire
dell'Europa.
Poiché la guerra era stata condotta all'insegna della
liberazione delle nazioni oppresse dal nazismo, il primo atto
delle restaurazioni fu la ricostituzione di Stati-nazione fondati
su principi democratici. Spostamenti notevoli di frontiere ci
furono solo fra URSS, Polonia, Cecoslovacchia e Germania, ma
poiché insieme ai cambiamenti di frontiera furono spostate
anche le popolazioni, il risultato fu in genere una compattezza
territoriale delle nazioni tedesca, polacca e ceca ancor maggiore
di quella precedente. La sola nazione che in questa ricostruzione
ebbe un destino diverso dalle altre poiché perse la sua
unità politica, fu quella tedesca, la quale, essendo stata
assegnata in parte alla zona di influenza sovietica, in parte a
quella americana, restò divisa in ragione degli opposti
sviluppi delle due zone e dovette infine essere riorganizzata in
due Stati separati.
Nell'Europa orientale sotto l'influenza sovietica tutti i paesi
persero nel giro di pochi anni le improvvisate istituzioni
democratiche, trasformandosi in Stati comunisti, fortemente
dipendenti dall'URSS, chiusi in sé, e soprattutto chiusi
verso l'Occidente. A partire da questo momento la problematica
interna, politica, militare ed economica dell'Europa orientale
diventò del tutto distinta da quella dell'Europa
occidentale. È assai probabile che l'europeismo si sarebbe
diffuso anche nei paesi dell'Europa orientale, se essi avessero
avuto un tipo di sviluppo analogo a quello dell'Europa
occidentale. Ma non si possono fare che supposizioni. Essendo
stati assorbiti nell'assai diversa esperienza comunista, questi
paesi non hanno potuto in alcun modo partecipare al moto verso
l'unificazione.
In Europa occidentale invece le restaurazioni democratiche si
consolidarono, anche qui in misura non lieve grazie all'intervento
americano, il quale prese la forma, prima di un sostanzioso aiuto
economico che contribuì a far sormontare il difficile
periodo iniziale della ricostruzione; e poi di una forte e
impegnata protezione militare che diede un senso di sicurezza a
paesi ancora deboli, malsicuri e timorosi del minaccioso,
misterioso ed enorme vicino orientale.
Il primo tratto della nuova Europa non è quindi stato
quello di una Europa in cerca di unione, ma quello di due Europe
con diverse strutture ideologiche, politiche, sociali ed
economiche, ciascuna costituente una tal quale rozza forma di
unione, correntemente chiamata blocco, sotto l'egemonia di una
delle grandi superpotenze.
Fino ad oggi l'Europa orientale non è riuscita a modificare
sostanzialmente questa iniziale forma di unione. Il cosiddetto
‛campo socialista' continua ad essere tenuto insieme dal
predominio militare sovietico, che si è espresso nel corso
degli anni in più di un intervento dell'Armata Rossa, e
dalla fedeltà ideologica verso il partito sovietico dei
partiti comunisti che gestiscono il potere nazionale. Ogni altra
forma di solidarietà è stata vista con sospetto
dall'URSS e non ha potuto di fatto svilupparsi.
Quale che fosse inizialmente la dimensione geografica che gli
europeisti avevano data al loro sogno di unione, la realtà
politica della seconda metà degli anni quaranta
stabilì in maniera incontrovertibile che l'europeismo
poteva essere un tema politico attuale solo per l'Europa
occidentale.
Intorno all'egemonia americana si sviluppò, in America e in
Europa, la concezione di una unione o comunità atlantica,
che avrebbe dovuto unire le democrazie dei due bordi dell'oceano,
superando il quadro dell'europeismo. Poiché l'Alleanza
atlantica aveva effettivamente questa dimensione geografica,
poiché la guerra fredda con l'Unione Sovietica dava
consistenza all'Alleanza, inducendola a creare comandi supremi e
infrastrutture militari comuni, e poiché nel seno
dell'Alleanza c'era un potere centrale egemonico capace di fungere
da federatore, l'atlantismo parve a non pochi una prospettiva
più realista dell'europeismo, anzi quest'ultimo
sembrò loro ridursi a una versione propagandistica, ad uso
degli Europei, dell'atlantismo. In realtà l'idea di una
comunità atlantica, reale e istituzionalizzata, non fu mai
più che un fronzolo retorico dell'Alleanza atlantica, e non
divenne mai oggetto di alcuna seria azione politica, né
americana né europea. La politica americana e gli
europeisti si incontrarono invece in un lungo periodo di alleanza
politica proprio sul tema dell'unità europea.
Per gli europeisti la presenza americana in Europa era sentita
come l'utile ombrello protettivo, che sarebbe stato a lungo
indispensabile perché permetteva agli Europei di
concentrarsi nel difficile compito della costruzione della
unità, senza dover subito affrontare da soli problemi come
quello della difesa comune e dell'ordine monetario mondiale,
cioè problemi che esigevano un grado assai avanzato di
unione politica. Ma nel corso del suo sviluppo, l'Europa unita
avrebbe dovuto riassumere progressivamente responsabilità
politiche per ora gestite o controllate dagli Americani e
trasformare l'attuale dipendenza in una partnership. De Gaulle,
che risentiva in modo assai intenso questa dipendenza, avrebbe
voluto scrollarla via rapidamente e rimproverava perciò
costantemente tutti gli europeisti di volere non un'Europa
europea, ma un'Europa atlantica. Gli europeisti a loro volta
rimproveravano a de Gaulle di fare dell'antiamericanismo verbale,
di pretendere un'indipendenza totale in un momento in cui questa
non era ancora nè possibile nè utile, ma soprattutto
lo accusavano di condannare, con la sua visione confederale,
l'Europa a perdurare nell'impotenza e quindi nella dipendenza.
Per la politica americana, l'europeismo apparve sin dal- l'inizio
una prospettiva da sostenere a fondo, perché conforme nello
stesso tempo allo spirito missionario democratico, caratteristico
della coscienza politica statunitense, e agli interessi americani.
Nell'unione europea gli Americani vedevano infatti l'applicazione
al vecchio continente del principio stesso dell'unione federale
fra vari Stati su cui era fondata la loro Costituzione, e che essi
consideravano come il miglior metodo per superare i nazionalismi
europei. Ma i motivi della simpatia americana per l'unità
sovranazionale non erano solo di natura ideologica. Nel momento
stesso in cui si impegnava a fondo nell'aiuto economico alla
ricostruzione dell'Europa occidentale e assumeva
responsabilità pesanti nell'organizzazione della sua
difesa, il governo di Washington sentiva che gli Stati europei, se
avessero continuato a ispirarsi a ideologie e politiche
nazionaliste, non avrebbero potuto evitare la rinascita delle loro
reciproche rivalità, e la presenza americana in Europa
avrebbe rischiato di essere un lavoro di Sisifo, nel quale
l'impegno sarebbe stato crescente e i risultati del tutto
aleatori. Contrariamente all'Unione Sovietica, la quale
applicò rigorosamente nella sua zona di influenza il
principio del divide et impera, gli Stati Uniti puntarono quindi
sulla prospettiva di un'Europa occidentale unita, mostrando con
ciò di preferire un alleato forte, e perciò stesso
più indipendente, a un insieme mal connesso di dipendenze e
di protettorati.
Questa coincidenza di prospettive fra la politica americana e
quella dell'europeismo giovò molto, inizialmente, alle
fortune di quest'ultimo, mostrando agli statisti europei un
cammino che aveva il doppio vantaggio di andare nel senso del
ritrovamento dell'indipendenza e di godere nello stesso tempo
dell'appoggio e della comprensione della grande potenza
protettrice, la quale a più riprese mostrò di essere
disposta a fare e dare più per un'Europa che si avviasse
verso l'unione che per un'Europa che intendesse restare divisa.
7. La diffusione dell'europeismo
Questo insieme di circostanze interne ed esterne in cui l'Europa
venne a trovarsi nella seconda metà degli anni quaranta
costituì un terreno politico assai favorevole al
diffondersi dell'europeismo e alla sua trasformazione da visione
intellettuale in componente permanente della vita politica
dell'Europa occidentale. La mutazione innovatrice che si
verificò allora nella coscienza politica di molti Europei
si è rivelata, col passare degli anni e dei decenni, un
fenomeno non effimero. Se l'europeismo fosse stato solo una moda,
o una risposta di emergenza data a una situazione di emergenza,
esso si sarebbe dissolto rapidamente, poiché le condizioni
interne ed esterne dell'Europa negli attuali anni settanta sono
assai diverse da quelle di trent'anni prima. Non pochi
pubblicisti, rimasti più o meno inconsapevolmente
prigionieri di vecchie categorie politiche, hanno effettivamente
considerato l'europeismo una moda e, pur adeguandovisi nei momenti
dei suoi maggiori successi, si sono periodicamente affrettati a
proclamarlo superato ogni volta che qualche situazione è
cambiata o che qualche imprevista difficoltà è
sorta. L'europeismo ha invece mostrato di essere un vero e proprio
abito politico e dottrinale, un modello di azione politica capace
di offrire un'interpretazione e una soluzione ai problemi di
un'Europa nella miseria e di un'Europa nel benessere, di un'Europa
nell'impotenza politica e di un'Europa ridivenuta fattore
importante della politica mondiale, di un'Europa nella guerra
fredda e di un'Europa nella coesistenza pacifica, di un'Europa
completamente dipendente dall'America e di un'Europa che con
l'America ha un contenzioso assai complesso.
Fin dal momento iniziale della sua diffusione, i promotori delle
sue diverse correnti ebbero una consapevolezza assai chiara delle
diverse logiche istituzionali e politiche implicite in ciascuna di
esse, e svilupparono assai vivaci polemiche fra di loro. Ma
nell'opinione pubblica, anche in quella dei politici e dei
pubblicisti, che avrebbe dovuto essere più avvertita, i
tratti caratteristici delle varie correnti si diluivano e
confondevano in un sentimento indistinto della necessità di
una nuova forma di solidarietà e di unione fra i popoli
democratici del vecchio continente. Era ovunque assai forte la
repulsione contro il nazionalismo - il proprio non meno che quello
degli altri - che tanti mali aveva prodotto. L'europeismo era
sentito come una prospettiva nuova ed esaltante in larghi strati
della gioventù più politicizzata. Affermazioni
europeiste, più o meno precise, apparvero quindi con
frequenza crescente nelle dichiarazioni programmatiche di molti
partiti e governi.
Questa diffusione non fu tuttavia uguale in tutti i paesi e in
tutti i partiti dell'Europa occidentale. Ebbe un terreno
più favorevole nelle nazioni che avevano avuto l'esperienza
dell'umiliazione totale dei loro Stati, e che necessariamente
riponevano una assai minor fiducia nella restaurazione delle
tradizionali sovranità nazionali. L'europeismo si diffuse
con relativa facilità, come si può ben comprendere,
in Germania e in Italia, che dal loro sfrenato nazionalismo
avevano raccolto amarissimi frutti, nonché in Olanda,
Belgio e Lussemburgo, che avevano constatato il valore nullo della
sovranità dei loro piccoli paesi. Ma un'esperienza simile
aveva fatto anche il più antico Stato europeo, modello di
tutti gli altri Stati-nazione d'Europa, la Francia. Benché,
grazie alla tenace ed abile politica di prestigio di de Gaulle,
fosse apparentemente risorta, non solo come Stato vincitore, ma
addirittura come uno dei quattro grandi del dopoguerra, accanto
agli Stati Uniti, all'URSS e alla Gran Bretagna, e benché
de Gaulle, divenuto capo del governo provvisorio della
liberazione, avesse concepito tutta la politica estera della
Francia come una progressiva restaurazione del rango di grande
potenza mondiale, troppo grande era la discrepanza fra questa
visione e la realtà, perché la classe politica
francese potesse accettarla. Messo da parte il capo della
liberazione, le forze politiche francesi che assunsero la
direzione della Quarta Repubblica si orientarono assai presto
verso una politica estera europeista, vedendo in essa la sola
possibilità di mettere su basi nuove le relazioni future,
soprattutto con la Germania.
L'europeismo rimase tuttavia sempre in Francia più
contestato che tra i suoi vicini, a causa delle assai più
antiche e radicate tradizioni di grande nazione sovrana, e fu
quindi più esitante e più lacerato da
contraddizioni. Ciononostante l'europeismo francese ha avuto
permanentemente una posizione centrale in tutta la costruzione
europea perché il recente passato fascista e nazista
impediva al governo italiano, ed ancor più a quello
tedesco, di avere iniziative autorevoli, mentre limiti analoghi
erano imposti a Belgio e Olanda perché troppo piccoli. La
Francia invece, non avendo le tare storiche dei suoi vicini
d'oltre Reno e d'oltre Alpe, possedeva un'autorità morale e
un peso politico che dava automaticamente ad ogni sua iniziativa
una forte presa sulla realtà internazionale. Si aggiunga
che essendo solo apparentemente uno dei grandi, essa si trovava
facilmente dinnanzi a situazioni in cui i veri grandi prendevano o
minacciavano di prendere decisioni concernenti l'Europa, e quindi
anche la Francia stessa, senza tener molto conto della sua voce.
Iniziative ispirate all'europeismo coincidevano quindi spesso per
la Francia con esigenze di puntigliosa affermazione nazionale
verso i grandi della politica mondiale.
Assai più lenta fu invece la diffusione dell'europeismo
nelle nazioni che erano uscite dalla guerra avendo potuto
preservare la loro indipendenza nazionale e avendo quindi
conservato una maggiore fiducia nel loro Stato. Era questo il caso
soprattutto della Gran Bretagna, che aveva anch'essa un'antica
tradizione di potenza nazionale, simile a quella della Francia, e
che non poteva non pensare con fierezza alla recente prova
vittoriosa del suo popolo e del suo Stato. Alla fine del conflitto
il suo governo disponeva di un controllo così efficace sul
paese, da potersi accingere a profonde e ordinate riforme sociali,
che contribuirono per alcuni anni a far sentire altezzosamente
agli Inglesi la differenza fra la loro situazione e quella del
caotico continente. La classe politica inglese nelle sue varie
componenti non restò del tutto sorda all'europeismo, ma si
avvicinò ad esso con cautela, cercando a lungo di
accettarne solo la versione confederalista, cioè la
semplice cooperazione intergovernativa, e adoperando la sua
influenza in ripetuti tentativi di freno delle iniziative
sovranazionali. Con una dozzina d'anni di ritardo sui paesi
dell'Europa continentale, anche l'Inghilterra si è tuttavia
aperta all'europeismo. Il successo della Comunità
Economica, il timore di restare esclusa dalla ulteriore
costruzione europea, lo svanire delle ‛relazioni speciali' con gli
Stati Uniti, hanno spinto il governo inglese ad adottare la
politica della costruzione europea, e ad impegnarvisi con vigore e
tenacia.
Anche fra le forze politiche predominanti nei vari paesi la
penetrazione dell'europeismo fu varia: più rapida fra i
partiti di ispirazione cattolica; più lenta, ma infine
quasi generale fra quelli socialisti e liberali. I due grandi
partiti comunisti occidentali, l'italiano e il francese, dapprima
fortemente ostili, perché orientati sulla prospettiva
dell'espansione sovietica, hanno cominciato recentemente ad
assumere un atteggiamento, più positivo il primo, meno
negativo il secondo, parallelamente al loro progressivo distacco
dalla dipendenza ideologica da Mosca e al loro inserimento nel
sistema democratico dei loro paesi.
Una simile diffusione di simpatie europeiste si è
verificato in quasi tutte le organizzazioni professionali,
industriali, commerciali, agricole e operaie.
Poiché fino ad oggi mancano ancora quelle istituzioni e
procedure rappresentative popolari al livello europeo, che sono
necessarie perché sentimenti europei si trasformino in
forze e pressioni politiche attive, il diffondersi progressivo
dell'europeismo da un paese all'altro, da un partito all'altro, da
un gruppo sociale all'altro non si è ancora mai tradotto in
tensioni politiche popolari, in campagne elettorali, in formazioni
di maggioranze e minoranze intorno a precisi programmi.
Poiché è restato informe, il favore popolare ha
finora contribuito alla costruzione europea solo dando agli uomini
al governo una notevole sicurezza di poter contare su una larga
anche se passiva simpatia popolare ogni volta che hanno preso
iniziative europeiste, e alle opposizioni un tacito avviso a non
impegnarsi troppo o troppo irrevocabilmente nelle loro polemiche
antigovernative nel senso dell'antieuropeismo.
In questo clima, l'azione europea è cominciata
perché alcuni statisti, posti di fronte ai gravi problemi
della ricostruzione e dello sviluppo dei loro paesi, hanno
scoperto la prospettiva esaltante di un avvenire diverso da quello
del passato, hanno sognato di realizzarlo, hanno saputo cogliere
se non tutte almeno alcune occasioni favorevoli, ed hanno
cominciato a tradurre questa visione non solo in dichiarazioni
astratte e in fugaci atti politici europei, ma in istituzioni.
L'azione europea non ha incontrato come ostacolo fondamentale il
nazionalismo aperto ed esasperato degli anni venti e trenta; esso
infatti era stato travolto nell'ignominia durante la guerra, e
quando ora riappare non si presenta come antieuropeo, ma in genere
come sostenitore della concezione confederalista, tende
cioè ad assumere anch'esso atteggiamenti europeistici.
L'avversario permanente, tenace, proteiforme e sempre rinascente,
della costruzione europea è costituito dal fatto che in
ognuno dei nostri paesi, in ogni governo, in ogni amministrazione,
in ogni corrente politica, in ogni associazione professionale, in
ogni università, insomma in tutti gli Europei e in ogni
loro istituzione c'è l'abitudine - radicata al punto da
essere ormai quasi un riflesso condizionato - a concepire leggi,
costumi, solidarietà, interessi, attività politiche,
entro le tradizionali e ben note categorie dello Stato-nazione.
L'operosità conforme a quest'abitudine dà a chi vi
si trova impegnato un senso di pienezza e di sicurezza, di fronte
al quale l'operosità europea si regge, in chi vi si dedica,
perché sorretta da una visione politica molto stimolante,
ma appare, e finora è, fatalmente lacunosa, incerta sul da
fare, priva di tutte quelle regole ben note e di quei riferimenti
tradizionali che limitano, sì, la libertà effettiva
di chi agisce, ma gli danno anche tranquillità e sicurezza.
L'operosità europea non si muove fra istituzioni
consolidate, ma deve costruirle e consolidarle; non si esprime in
alternative politiche ben delineate ed esprimentisi in precisi
partiti europei, ma deve scoprirle; non ha nemmeno un suo
linguaggio politico già formato, ma deve inventarlo.
Le forze politiche che hanno assunto la direzione dei paesi
europei occidentali dopo la guerra sono state in genere sensibili
alla mutazione europeista; ed alcuni fra i loro capi - Churchill,
Schuman, De Gasperi, Adenauer, Spaak, Bevin sono stati per alcuni
anni fra i corifei se non del pensiero, per lo meno dell'azione
europea. Ciononostante per tutti costoro ricostruire lo
Stato-nazione significava muoversi nel noto, mentre costruire
l'Europa significava muoversi nell'ignoto o quanto meno
nell'oscuro e nell'enigmatico. Ciò spiega come sia
regolarmente accaduto fino ad oggi che gli statisti nazionali
abbiano compiuto, o almeno tentato, imprese europee in circostanze
eccezionali, ma la pienezza del loro lavoro politico sia stata
dedicata non alla costruzione dell'Europa, bensì alla
restaurazione dei vecchi Stati-nazione.
Sviluppo nazionale e costruzione europea sono senza alcun dubbio
complementari; ma solo fino a un certo punto, fino a quando
cioè si giunga dinnanzi a un qualche complesso di problemi,
per il quale occorre decidere se affrontarlo sul piano nazionale,
con strumenti nazionali o su quello europeo con strumenti europei,
perché nei due casi i risultati sono differenti. Oltre
questo punto le due attività diventano alternative: l'una
limita l'altra, talvolta la soffoca del tutto; le conseguenze
dell'una sono diverse da quelle dell'altra.
Tuttavia la vita politica europea ha avuto proprio questo
andamento paradossale e contraddittorio: da una parte
restaurazione degli Stati-nazione, e perciò anche delle
categorie politiche ed economiche nazionali, dei miti e
tabù nazionali; dall'altra instaurazione di istituzioni e
politiche comuni, quindi prospettive, responsabilità e
solidarietà nuove. Se la costruzione europea si
ridurrà a una sovrastruttura delle restaurazioni nazionali,
superficiale, fragile, e perciò effimera, o se queste
finiranno per piegarsi e subordinarsi all'instaurazione europea,
è un problema che sarà deciso non da ragionamenti,
ma da una lotta politica ancora aperta.
8. Tappe e cicli della costruzione europea
Il corso effettivo della costruzione europea si è ispirato
e continua ad ispirarsi alle tre correnti dell'europeismo. In
questa o quella congiuntura ha predominato l'una o l'altra di
esse, ma in ciascun tentativo, accanto al tratto centrale
derivante da una di queste tendenze, si nota in generale la
presenza delle altre, ora come freno, ora come realizzazione
collaterale o quanto meno come aspirazione non ancora tradotta in
realtà, ma esprimentesi in simboli verbali o istituzionali.
Nei primi due anni successivi alla guerra, scesa la cortina
politica, economica e militare fra Europa occidentale democratica
ed Europa orientale comunista, si definì la cornice
geografica entro la quale si sarebbe successivamente svolta
l'impresa europea per tutto un lungo periodo storico che è
ancor lungi dall'esser concluso.
Fra il 1947 e il 1950 la scena europea fu dominata dalla
propaganda di Churchill e dalle iniziative del ministro inglese
Bevin. All'ombra della retorica churchilliana gli statisti
britannici, consapevoli del prestigio morale di cui il loro paese
godeva in Europa, utilizzarono con decisione i fremiti europeisti
del continente, e l'atteggiamento filoeuropeistico degli Americani
per proporre legami europei di tipo confederale sotto la guida
britannica. Il patto militare di Bruxelles, l'OECE, il Consiglio
d'Europa, furono le realizzazioni successive di questa azione.
Poiché però l'egemonia inglese era più una
illusione delle classi dirigenti inglesi che una realtà,
queste organizzazioni si rivelarono tutte assai poco efficaci.
Nell'Assemblea parlamentare consultiva del Consiglio d'Europa,
unico organo per sua natura non intergovernativo, ma prefigurante
un istituto di tipo federale, si delineò un vivace
tentativo di rivendicare poteri ‛limitati ma reali'; ma il
dibattito finì nel nulla. Durante questo periodo, le
tendenze federaliste e funzionaliste rimasero completamente
all'ombra del confederalismo di Churchill e di Bevin.
Nel 1950-1951 emersero le prime iniziative funzionaliste. Sotto
l'ispirazione di Monnet, il ministro francese degli esteri Schuman
propose la creazione di un mercato comune dell'acciaio e del
carbone, sotto il controllo di un'alta autorità
sovranazionale, e pochi mesi dopo il ministro francese della
difesa Pleven propose la creazione di un esercito comune europeo
organizzato, armato e amministrato da una Commissione
sovranazionale. A queste proposte la Gran Bretagna rifiutò
di associarsi, ma il governo francese, consapevole che al di fuori
di soluzioni sovranazionali si sarebbe necessariamente dovuto
accettare la restituzione alla Germania della sovranità
sulla sua industria carbo-siderurgica e autorizzarla ad avere di
nuovo forze armate nazionali, si decise a procedere nelle sue
iniziative anche senza gli Inglesi. Lunghi e complessi negoziati
diplomatici ebbero inizio per tradurre i due progetti in trattati
internazionali. Il piano Schuman della Comunità Eupea del
Carbone e dell'Acciaio fu ratificato nel corso del 1952 ed
entrò in vigore nell'estate dello stesso anno. Il suo
tratto centrale era costituito dall'Alta Autorità, organo
sovranazionale d'amministrazione delle regole del mercato comune
carbo-siderurgico. Ma accanto ad essa il confederalismo dei
governi aveva collocato un Consiglio di ministri nazionali, dotato
di potere politico di controllo, e le esigenze federaliste diffuse
avevano ottenuto che ci fosse una Assemblea parlamentare comune
eletta dai parlamentari nazionali, e una Corte di giustizia
europea che avrebbe vegliato al rispetto del diritto comunitario.
Nel 1952-1953 il punto di vista federalista venne fuori
dall'oscurità dei piccoli movimenti d'opinione, e si impose
all'attenzione dei ministri e delle loro diplomazie. L'intrinseca
difficoltà di creare un esercito comune, senza che ci fosse
un potere politico comune cui un tale esercito sarebbe
appartenuto, costrinse i governi dei sei paesi ad accogliere,
almeno in parte, le richieste federaliste. Nel settembre del 1952,
senza attendere la ratifica del trattato che avrebbe instituito la
Comunità Europea di Difesa (CED), i sei governi affidarono
ad una Assemblea parlamentare europea ad hoc, derivata da quella
della CECA, il mandato di redigere il progetto di statuto di una
comunità politica, riconoscendo che si trattava di una
costruzione non diplomatica, ma costituzionale, e da affidare
quindi non ad una tradizionale conferenza intergovernativa delle
diplomazie nazionali, ma ad una rappresentanza delle forze
politiche popolari. Sei mesi dopo il progetto di statuto nel
quale, sia pure in modi contradditori, molte esigenze federaliste
furono accolte, era pronto, e fu consegnato dall'Assemblea ai
ministri dei sei paesi.
Nel 1954 la resistenza congiunta delle tradizioni nazionaliste di
larghi strati di destra e di sinistra della classe dirigente
francese, portò alla caduta della CED, e insieme ad essa
anche della comunità politica.
Malgrado la grave sconfitta così subita, l'europeismo
mostrò di essere ormai una categoria ineliminabile della
vita politica europea, e rinacque dalle sue stesse ceneri. Mentre
la CECA cominciava quietamente ad impiantare il mercato comune del
carbone e dell'acciaio, cominciò un nuovo ciclo di azione
europea, ancora una volta con un piano confederale inglese. Nel
1954-1955, il governo Eden risuscitò dall'oblio il Patto di
Bruxelles e riuscì a realizzare, al posto della CED,
l'Unione Europea Occidentale (UEO), cui avrebbe partecipato ormai
anche la Repubblica Federale Tedesca, per coordinare le politiche
di difesa. Poiché però, ancora una volta, il governo
inglese risultò organicamente incapace di esercitare alcuna
azione di guida, anche l'UEO mostrò la stessa inconsistenza
politica delle altre costruzioni confederali di quattro o cinque
anni prima.
Con la Conferenza di Messina del 1955 ebbe inizio un nuovo impulso
funzionalista. Monnet propose una nuova autorità
specializzata per lo sviluppo dell'energia atomica. I governi
olandese e belga proposero di estendere il metodo di Monnet non
solo a questo o a quel settore dell'economia, ma a tutto il
mercato dei vari paesi, allo scopo di avanzare verso
un'unificazione economica globale. Fra il 1955 e il 1958 i sei
governi elaborarono, ratificarono e infine misero in opera la
Comunità Europea dell'Energia Atomica e la Comunità
Economica Europea, correntemente chiamate EURATOM e Mercato
Comune.
Ancora una volta la caratteristica fondamentale delle due nuove
comunità consisteva nell'accettazione da parte dei sei
Stati di alcuni precisi scopi da raggiungere in comune e
nell'attribuzione a un corpo amministrativo sovranazionale del
compito di vegliare alla realizzazione degli impegni presi. Ma se
questo schema poteva bastare per la CECA e l'EURATOM, era
insufficiente per la Comunità a competenze più
generali. Regole e direttive per realizzare il Mercato Comune nel
suo insieme potevano essere fissate inizialmente solo in parte. La
loro successiva elaborazione e adozione fu quindi affidata a un
meccanismo istituzionale nel quale alla Commissione - organo
sovranazionale - era riconosciuto il compito di redigere e
proporre le misure necessarie, mentre al Consiglio dei ministri -
organo intergovernativo - era riservato il diritto di decidere
circa la loro adozione. Al Parlamento europeo era attribuito un
compito poco più che consultivo.
A partire dal 1958 la Comunità a competenza più
generale - la CEE - sotto l'impulso animatore della sua
Commissione, riuscì a realizzare in modo sostanzioso, anche
se non del tutto completo, gli scopi che gli Stati avevano
iscritto nel Trattato e si erano impegnati a realizzare in un
dodicennio detto di transizione: l'unione doganale, un insieme non
indifferente di regole comuni sulla concorrenza, una
organizzazione comunitaria dei mercati agricoli, una notevole
mobilità della mano d'opera attraverso le frontiere, un
embrione di politica sociale e dei trasporti comune. Inoltre
condusse un grosso negoziato internazionale per la riduzione dei
dazi industriali (noto col nome di Kennedy round). Infine
riassorbì in un unica amministrazione le due
comunità specializzate, la CECA e l'EURATOM. Questa serie
di successi indusse la Gran Bretagna e altri Stati dell'Europa del
nord a rimeditare sul loro iniziale rifiuto e a chiedere
formalmente di diventare anch'essi membri di pieno diritto della
Comunità.
Accanto ai successi si sono però anche venuti accumulando
ritardi, difficoltà, insuccessi, che hanno mostrato nei
fatti i limiti del metodo funzionale. Mentre nessuno con- testa
più l'utilità di una burocrazia europea autonoma,
prosegue nella Comunità e intorno ad essa il dibattito
circa la sua anima politica. De Gaulle, tornato a capo dello Stato
francese quasi contemporaneamente all'entrata in vigore della
Comunità Economica, ha contestato a lungo ogni suo sviluppo
sovranazionale, e per due volte ha chiuso la porta ad ogni suo
allargamento geografico, esigendo che ogni decisione della
Comunità fosse presa all'unanimità dai governi, soli
veri depositari delle sovranità, e sottintendendo che alla
Francia spettava una funzione di guida. Dalla parte opposta,
Commissione e Parlamento europeo hanno costantemente riaffermato
la sterilità del metodo della cooperazione intergovernativa
e la necessità di dare alla Comunità un autentico
governo federale ed un Parlamento europeo, eletto direttamente,
dotato di poteri legislativi e di controllo reali.
Questo dibattito, che continua anche dopo la scomparsa di de
Gaulle e che è lungi dall'essere concluso, non si svolge
più in una sfera puramente concettuale, come negli ormai
lontani anni quaranta, ma ha luogo intorno a istituzioni ormai
esistenti e a politiche in atto o in formazione.
Fare l'Europa negli anni settanta significa infatti: a) tradurre
l'adesione dell'Inghilterra e degli altri nuovi Stati membri della
Comunità allargata da adesione formale in realtà
uguale a quella che già lega i sei Stati fondatori; b)
passare dall'unione doganale all'unione monetaria ed economica, il
che implica una programmazione economica assai complessa; c)
affrontare con personalità politica propria e quindi con
una voce unica le responsabilità che la Comunità ha
ormai nel mondo e che implicano relazioni nuove, differenti da
quelle avute fino ad oggi, tanto con gli Stati Uniti, quanto con
l'URSS e con i paesi in via di sviluppo.
Qualsiasi accurata meditazione sul sistema istituzionale attuale
della Comunità mostra che esso è incapace di
affrontare con successo questi compiti, e che quindi si impone un
trasferimento di competenze governative e legislative dagli Stati
membri alle istituzioni della Comunità. Ma la riluttanza
delle vecchie macchine amministrative e politiche persiste.
Questa battaglia simultanea intorno alla politica che l'Europa
deve fare e alle istituzioni di cui si deve armare per farla
è il punto cui oggi è giunto l'europeismo.
Enciclopedia del Novecento II Supplemento (1998)
di Antonio Giolitti e Sergio Romano
Il processo istituzionale di Antonio Giolitti
Sommario: 1. Problemi e tendenze del decennio 1984-1994. 2. Verso
la riforma del Trattato CEE. 3. L'Atto Unico europeo e il Rapporto
Delors. 4. Per un'Europa più ampia e più unita. 5.
Il Trattato di Maastricht. 6. I problemi della nuova Unione e la
prospettiva dell'allargamento. 7. I problemi istituzionali della
nuova e allargata Unione Europea. □ Bibliografia.
1. Problemi e tendenze del decennio 1984-1994
Nel decennio 1984-1994 che qui prendiamo in considerazione -
facendo seguito agli articoli pubblicati precedentemente in questa
opera: v. europeismo, voll. II e VIII - si possono distinguere,
per effetto della caduta del muro di Berlino, due fasi esattamente
corrispondenti a due quinquenni. Nonostante tale distinzione, la
continuità dell'impulso ideale e politico che si usa
designare con la parola ‛europeismo' risulta, nel corso
dell'intero decennio considerato, sempre prevalente ed evidente e
ha, per così dire, anche una sua configurazione
istituzionale e personale nella figura di Jacques Delors,
ininterrottamente presidente della Commissione della
Comunità Europea e poi della Unione Europea (UE) dal
gennaio 1985 al gennaio 1995.
Il Consiglio europeo riunito nei giorni 25 e 26 giugno 1984 a
Fontainebleau, sotto la presidenza francese, si era occupato
soprattutto di problemi di finanziamento e di bilancio della
Comunità. Esso, tuttavia, aveva anche preso in esame lo
stato dei negoziati con Spagna e Portogallo per la loro adesione
alla Comunità: un terzo ‛allargamento', dopo le adesioni di
Regno Unito, Irlanda, Danimarca e poi Grecia. Dieci anni dopo,
come vedremo, il problema dell'‛allargamento' assumerà un
peso e una dimensione di portata storica, epocale. Gli ‛atti di
adesione' vennero firmati il 12 giugno 1985 a Madrid per la Spagna
e a Lisbona per il Portogallo; il 1° gennaio 1986 i due paesi
diventarono membri a pieno diritto della Comunità Europea.
Contemporaneamente al processo di allargamento si delineavano
anche una prospettiva e un impegno di ‛approfondimento' della
Comunità: e vedremo che tutto il corso del decennio qui
considerato sarà dominato dalla dialettica e dal ‛combinato
disposto' di quelle due dinamiche - in profondità e in
estensione - dell'europeismo. All'inizio del 1984, il 14 febbraio,
il Parlamento europeo aveva infatti approvato un Progetto di
trattato della Unione Europea, del quale fu promotore e
protagonista Altiero Spinelli. Si manifestava, con tale
iniziativa, una inversione di tendenza rispetto ai segnali di
affievolimento che si potevano cogliere nelle vicende
dell'europeismo all'inizio degli anni ottanta. Contro quella
tendenza il Parlamento europeo, sollecitato dall'iniziativa
instancabile di Spinelli, proponeva un rafforzamento dei suoi
poteri, una ridefinizione dei ruoli e dei poteri del Consiglio e
della Commissione, nonché l'introduzione e l'applicazione
di quel criterio di ‛sussidiarietà' che, come vedremo,
assumerà grande rilievo nel Trattato di Maastricht.
Da quel progetto scaturì poi il cosiddetto ‛Atto Unico'
europeo, firmato il 17 febbraio 1986 da nove Stati membri e il 28
febbraio da Italia, Grecia e Danimarca, che avevano atteso i
risultati (favorevoli) del referendum danese: esamineremo in
seguito il contenuto di tale Atto, che delineava l'effettiva prima
riforma dei Trattati di Roma (istitutivi della Comunità
Economica Europea - CEE - e della Comunità Europea per
l'Energia Atomica - EURATOM). L'iniziativa era partita,
formalmente, dal Consiglio europeo di Milano (28-29 giugno 1985)
con due deliberazioni: 1) convocare una conferenza
intergovernativa incaricata di predisporre un progetto di trattato
‟su una politica estera e una politica di sicurezza comuni"; 2)
procedere alle modifiche del Trattato CEE necessarie
all'attuazione degli adeguamenti istituzionali riguardanti il
processo decisionale del Consiglio, il potere esecutivo della
Commissione, i poteri del Parlamento, oltre che l'estensione delle
competenze a nuovi settori di attività.
2. Verso la riforma del Trattato CEE
La nuova Commissione presieduta da Delors esordì con il
proposito, preannunciato dal presidente nel suo discorso di
presentazione al Parlamento (il 14 gennaio 1985), di perseguire
l'abbattimento ‟di tutte le frontiere all'interno dell'Europa
entro il 1992". Intraprese quindi senza indugio l'elaborazione e
stesura di un ‛Libro Bianco sul completamento del mercato
interno', che venne presentato, nel giugno successivo, al
Consiglio europeo riunitosi a Milano e da questo approvato. Esso
costituiva un programma globale, scandito da un calendario
articolato e vincolante, per l'abolizione entro il 1992 delle
frontiere geografiche, tecniche e fiscali.
Con tale iniziativa la Commissione dava vigorosa e solenne
espressione all'esigenza - tradotta più volte in pressanti
e formali proposte della Commissione al Consiglio nel corso dei
primi anni ottanta - di eliminare barriere e intralci che ancora
ostacolavano la completa realizzazione del ‛mercato comune'. Nel
giugno 1984 aveva infatti trasmesso al Consiglio un documento che
costituiva un vero e proprio programma mirante alla eliminazione,
nel corso di due anni, di tutti gli ostacoli alla libera
circolazione dei capitali, dei servizi, delle attività
delle imprese e delle persone. Un comitato ad hoc, nominato dal
Consiglio (denominato poi Comitato Dooge, dal nome del suo
presidente) presentò un rapporto al Consiglio europeo di
Dublino nel dicembre 1984, nel quale si sollecitava la creazione
di un vero e proprio mercato interno europeo ‟come tappa
essenziale verso l'obiettivo finale della Unione Economica e
Monetaria".
Ma la portata storica del Consiglio europeo di Milano del giugno
1985 non fu dovuta soltanto all'approvazione di quel Libro Bianco.
Per iniziativa congiunta del cancelliere Kohl e del presidente
Mitterrand esso deliberò la convocazione di una conferenza
intergovernativa per la riforma del Trattato CEE, con il duplice
mandato di preparare un progetto di trattato su ‟una politica
estera e una politica di sicurezza comuni" e di procedere alle
modifiche del Trattato necessarie all'attuazione degli adeguamenti
istituzionali riguardanti il processo decisionale del Consiglio,
il potere esecutivo della Commissione e i poteri del Parlamento, e
anche lì - va notato - il Consiglio non faceva alcun
riferimento al Progetto di trattato sulla Unione Europea approvato
dal Parlamento.
La portata e l'ambizione del Libro Bianco sopra citato appaiono in
chiara evidenza nel rapporto presentato da un ‛gruppo di esperti
indipendenti', presieduto da Tommaso Padoa-Schioppa, incaricato
dalla Commissione, nell'aprile 1986, di ‟studiare le conseguenze
economiche di due decisioni prese dal Consiglio europeo nel 1985:
l'allargamento della Comunità alla Spagna e al Portogallo e
la creazione di un mercato europeo senza frontiere interne entro
l'anno 1992". Dalla ‛lettera di trasmissione' di quel rapporto si
può ricavare una nitida rappresentazione sintetica della
portata dei problemi e delle soluzioni da adottare. Vi si prevede
che ‟nel 1992 un'area di 320 milioni di consumatori e produttori,
nella quale i beni, i servizi e i fattori della produzione
circoleranno liberamente, costituirà un avanzamento
sostanziale, in termini di efficienza, benessere e influenza nelle
questioni economiche mondiali, rispetto al mercato del 1985, assai
più ristretto e diviso da innumerevoli barriere interne.
Questo progresso, però, avrà profonde conseguenze
per le due funzioni della politica economica che, in ogni sistema
e anche in quello comunitario, integrano e completano la politica
di allocazione delle risorse e interagiscono con questa. Tali
funzioni sono la stabilizzazione dell'economia e la
ridistribuzione del reddito". Inoltre, viene richiamata
l'attenzione su due tensioni che si manifesteranno con evidenza e
a volte con drammaticità negli anni successivi: ‟da un
lato, la completa liberalizzazione dei movimenti di capitale non
è compatibile con il regime di stabilità dei tassi
di cambio e di considerevole autonomia nella condotta delle
politiche monetarie nazionali; dall'altro, la completa apertura
del mercato interno di una Comunità allargata avrà
effetti distributivi più forti e più laceranti di
quelli manifestatisi negli anni sessanta, quando l'integrazione
commerciale procedette fra paesi meno eterogenei e in un contesto
di crescita economica più rapida". E in effetti tale
previsione può valere come descrizione di quanto si
verificò negli anni successivi. Perciò veniva
raccomandata, da quel ‛gruppo di esperti', ‟una strategia
sistematica, rivolta congiuntamente alle tre funzioni della
politica economica: l'integrazione dei mercati, la stabilizzazione
dell'economia e l'equa distribuzione dei benefici". E questi sono
tre ordini di problemi con i quali si cimenteranno le istituzioni
comunitarie nel corso del decennio che qui stiamo considerando:
come prevedeva quasi contemporaneamente anche un altro rapporto
elaborato sempre per incarico della Commissione da un gruppo di
esperti ‛indipendenti' e anch'esso presieduto da un economista
italiano, Luigi Spaventa, sul ‟futuro delle finanze comunitarie",
presentato nel settembre 1986.
3. L'Atto Unico europeo e il Rapporto Delors
Nel settembre del 1985 ebbe inizio la Conferenza intergovernativa
deliberata dal Consiglio europeo di Milano; l'accordo finale venne
raggiunto nel Consiglio europeo di Lussemburgo il 17 dicembre, con
l'approvazione dell'‛Atto Unico europeo' che entrò in
vigore il 1° luglio 1987, dopo il deposito degli atti di
ratifica da parte di tutti gli Stati membri.
La distanza di ben due anni - dal 1985 al 1987 - tra il
raggiungimento dell'accordo e l'inizio della sua applicazione
è chiara indicazione della complessità e lentezza,
non soltanto procedurali, cui è costretto il faticoso
percorso dell'europeismo: e tuttavia quell'Atto Unico, pur con i
suoi limiti, apriva la strada a ulteriori riforme e progressi,
instaurava procedure atte a facilitare le decisioni per le misure
previste dal Libro Bianco.
La novità più importante dell'Atto Unico era quella
riguardante la ‛cooperazione politica'. Questo termine aveva avuto
fino ad allora il significato ben delimitato di una procedura di
cooperazione, tra i singoli governi nazionali e non tramite le
istituzioni comunitarie, su problemi di politica estera (tranne
quelli concernenti la difesa). Con l'Atto Unico quella procedura
veniva trasferita nell'ambito delle istituzioni comunitarie ed
estesa anche alla difesa: anzi, vi si dichiarava che ‟una
più stretta cooperazione anche riguardo ai problemi della
sicurezza europea" avrebbe contribuito ‟allo sviluppo di una
identità dell'Europa in materia di politica estera". Ma a
questa proclamata ambizione non corrispondevano adeguate
innovazioni sul terreno istituzionale e procedurale: l'obiettivo
dell'unione politica - rispetto al quale la politica estera e di
sicurezza comune rappresentava un primo passo - postulava invece
l'impianto di nuove istituzioni o almeno di istituzioni
sostanzialmente rinnovate e potenziate.
La Commissione assumeva di fronte al Parlamento, prima ancora
dell'entrata in vigore dell'Atto Unico, l'impegno di ‟portare
l'Atto Unico al successo": così si intitolava infatti il
programma di lavoro che, a nome della Commissione, Delors
presentò al Parlamento il 18 febbraio 1987 e al Consiglio
europeo di Bruxelles il 29 giugno. Dall'Atto Unico il programma
della Commissione faceva derivare - come dichiarò lo stesso
Delors - ‟l'obbligo di realizzare simultaneamente il grande
mercato senza frontiere, una maggiore coesione economica e
sociale, una politica europea della ricerca e della tecnologia, il
rafforzamento del sistema monetario europeo, la creazione di uno
spazio sociale europeo, azioni significative in materia di
ambiente".
Approvato quasi all'unanimità dal Parlamento nel novembre
successivo, quel programma passò all'esame del Consiglio, e
cioè di varie riunioni di Consigli dei ministri e di
Consigli europei (di capi di Stato e di governo), accompagnate dal
lavoro della Commissione che traduceva gli orientamenti in
specifiche proposte e quindi in decisioni. Particolarmente
importante fu la decisione, adottata nel giugno 1988 ad Hannover
dal Consiglio europeo, di affidare a un comitato - presieduto da
Delors - l'incarico di studiare e proporre il percorso che doveva
condurre all'unione economica e monetaria, cioè un
rapporto, detto ‛rapporto Delors', che venne puntualmente
presentato al Consiglio europeo riunito a Madrid nei giorni 26-27
giugno 1989.
Quel rapporto è certamente, per il suo contenuto e anche
per la sua data, un documento di particolare importanza nella
storia della Comunità Europea e quindi nella vicenda
dell'europeismo. Precedendo di meno di cinque mesi la caduta del
muro di Berlino, tale rapporto assumeva, di fatto, il significato
di un progetto mirante a creare, con l'‛approfondimento', le
condizioni per l'‛allargamento' della Comunità. Esso si
articolava in tre fasi: completamento del mercato interno e
rimozione degli ostacoli alla integrazione finanziaria;
formulazione e approvazione del nuovo Trattato; unione monetaria,
fino alla creazione della moneta comunitaria unica. Era il
percorso che doveva condurre, nel 1992, al Trattato di Maastricht,
seguito poi da un nuovo importante rapporto della Commissione,
noto come Libro Bianco di Delors, nel 1993.
Pochi giorni prima del Consiglio europeo di Madrid, nei giorni
15-18 giugno, era stato nuovamente eletto - per la terza volta a
suffragio universale - il Parlamento europeo.
4. Per un'Europa più ampia e più unita
L'anno 1989, con il crollo del muro di Berlino, chiudeva un'epoca
e ne apriva una nuova (un ‟nuovo inizio", come si usò
dire). In meno di un anno la Germania era unificata. Appena un
anno dopo si disfacevano il Partito Comunista dell'Unione
Sovietica e la stessa URSS. Ne derivò un'accelerazione del
cammino intrapreso verso l'Unione economica e monetaria europea.
Ma cominciò anche a porsi l'interrogativo geopolitico:
quale Europa? Un'Europa più ampia, e però anche - e
prima ancora - un'Europa più saldamente e profondamente
unita, capace di sostenere l'espansione geografica? Si profilava
quella che doveva essere l'alternativa, la rincorsa o meglio la
dialettica di ‛approfondimento' e/o ‛allargamento': questione
centrale nel dibattito, nelle iniziative e nelle decisioni del
primo quinquennio degli anni novanta.
La riunificazione della Germania faceva balzare in primo piano,
finalmente, il problema e l'obiettivo della unificazione
‛politica' dell'Europa, a cominciare dalla unione in materia di
politica estera e sicurezza. Ciò comportava - come ebbe a
dire allora, con lungimiranza, François Mitterrand - un
‟glissement vers le fédéral", cui peraltro si
opponeva ostinatamente il governo britannico guidato da Margaret
Thatcher. Il danno causato dal ritardo nel procedere su questa via
apparve evidente, di lì a poco, con la manifesta impotenza
e inerzia dell'Europa di fronte all'aggressione dell'Iraq contro
il Kuwait (la cosiddetta crisi e poi guerra del Golfo) e
più tardi, in modo clamoroso e scandaloso, di fronte alla
catastrofe iugoslava.
Nel 1990 due Consigli europei, tenutisi a Roma nei giorni 29-30
ottobre e 14 dicembre, stabilivano le direttive per le due
conferenze intergovernative incaricate di tracciare il percorso
verso il compimento dell'unione economica e monetaria e
dell'unione politica, indicando gli obiettivi generali della
politica estera e di sicurezza comune e le competenze e funzioni
attribuite alle istituzioni comunitarie. Ma il segno più
evidente dell'inizio della nuova epoca era ben percepibile
nell'attenzione che il Consiglio europeo di dicembre dedicava alle
relazioni con l'Unione Sovietica e con i paesi dell'Europa
centrale e orientale.
Laboriosi e complessi furono i negoziati in seno alle due
conferenze intergovernative nel corso del 1991. Il negoziato
più arduo era certamente quello concernente la difesa
europea comune, a proposito della quale occorre qui ricordare
l'esistenza dell'Unione Europea Occidentale (UEO) costituita nel
1954 dai sei paesi fondatori della Comunità, ai quali si
aggiunsero in seguito Regno Unito, Spagna e Portogallo. L'accordo
sul nuovo trattato venne finalmente raggiunto nel Consiglio
europeo tenutosi nei giorni 9 e 10 dicembre 1991 a Maastricht, la
città olandese nel cui nome si sente ancora l'eco della sua
origine come fortilizio a difesa del ponte romano della Mosa, ad
Mosam traiectum. Nella stessa città il 7 febbraio 1992 il
Trattato venne firmato dai ministri degli Esteri e delle Finanze
degli Stati membri.
5. Il Trattato di Maastricht
Il Trattato di Maastricht è stato ampiamente e
ripetutamente presentato, illustrato e commentato come una
costruzione ‛a tre pilastri', che si trovano disegnati a grandi
linee già nel secondo articolo (art. B), con l'enunciazione
dei seguenti fondamentali obiettivi:
‟- promuovere un progresso economico e sociale equilibrato e
sostenibile, segnatamente mediante la creazione di uno spazio
senza frontiere interne, il rafforzamento della coesione economica
e sociale e l'instaurazione di un'unione economica e monetaria il
cui esito finale sia una moneta unica, in conformità delle
disposizioni del presente trattato;
- affermare la sua identità sulla scena internazionale,
segnatamente mediante l'attuazione di una politica estera e di
sicurezza comune, ivi compresa la definizione a termine di una
politica di difesa comune che potrebbe, successivamente, condurre
a una difesa comune;
- rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini
dei suoi Stati membri mediante l'istituzione di una cittadinanza
dell'Unione;
- sviluppare una stretta cooperazione nel settore della giustizia
e degli affari interni".
Vediamo allora come si configurano più precisamente e
operativamente i tre pilastri, secondo i successivi articoli del
Trattato.
Il primo è quello della Comunità Economica (CE), che
unifica le tre Comunità preesistenti (CEE, CECA, EURATOM)
sotto la guida - anzi si potrebbe dire sotto il governo - del
Consiglio, del Parlamento e della Commissione. Viene ipotizzato
uno sviluppo graduale che dovrà condurre alla completa
fusione nella Unione Economica e Monetaria (UEM), con banca
centrale europea e moneta unica, secondo un calendario la cui data
finale si collocherà, a seconda della velocità del
processo d'integrazione, tra il 1° giugno 1997 e il 1°
gennaio 1999. Questa operazione viene qualificata come ‛federale'
in virtù del cosiddetto ‟principio della
sussidiarietà" enunciato nell'art. 3B, Titolo II, del
Trattato, secondo il quale ‟nei settori che non sono di sua
esclusiva competenza la Comunità interviene soltanto se e
nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono
essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono
dunque [...] essere meglio realizzati a livello comunitario".
Fermo restando questo principio, il Trattato amplia e rafforza le
competenze della Comunità specialmente in materia di
ricerca e sviluppo tecnologico, di ambiente, di legislazione
sociale, di promozione culturale.
Il secondo pilastro è costituito dalla Politica Estera e di
Sicurezza Comune (PESC), ‟istituita e disciplinata" - come
annuncia l'art. J - dal Titolo V, artt. J1-J7. In realtà in
questi articoli la PESC è proiettata nel futuro, non ancora
istituzionalizzata. Soggetti attivi sono, nel corso di tutto il
Titolo V, gli ‟Stati membri" che ‟si informano reciprocamente e si
concertano in sede di Consiglio", il quale ‟ogniqualvolta lo
ritenga necessario, definisce una posizione comune" (art. J2).
È affermata, peraltro, la volontà di coordinamento
delle politiche nazionali e di ricerca di posizioni comuni in seno
alle organizzazioni internazionali; per la difesa è
istituito un legame organico tra Unione Europea e UEO, alla quale
- in quanto ‟parte integrante" dello sviluppo dell'Unione Europea
- viene richiesto ‟di elaborare e di porre in essere le decisioni
e le azioni della Unione aventi implicazioni nel settore della
difesa" (art. J4/2). Ma tutte le disposizioni attinenti alla PESC
‟potranno essere rivedute - dispone ancora l'art. J4, comma 6 - in
base a una relazione che il Consiglio presenterà al
Consiglio europeo nel 1996 contenente una valutazione dei
progressi attuati e dell'esperienza acquisita sino a quel
momento".
Il terzo pilastro consiste nella ‟cooperazione intergovernativa"
in funzione della ‟cittadinanza europea" istituita con l'art. G/C
del Titolo II: in pratica riguarda principalmente la libera
circolazione delle persone attraverso le frontiere degli Stati
membri (come già a suo tempo convenuto tra Francia,
Germania e Benelux con l'Accordo di Schengen del 1985) e
perciò la responsabilità giudiziaria e di polizia in
tale ambito. L'esilità di questo pilastro risulta
particolarmente evidente al confronto con il Progetto di
costituzione della UE che il Parlamento europeo ha votato nel
febbraio 1994, approvando così il rapporto presentato dal
deputato belga Fernand Herman (aderente al Partito Popolare
Europeo), dove va subito notata e sottolineata l'attribuzione alla
Corte di giustizia della competenza a pronunciarsi ‟su qualsiasi
ricorso presentato da un privato, inteso ad accertare la
violazione da parte dell'Unione di un diritto dell'uomo garantito
dalla Costituzione" (art. 38 del Progetto).
Dal punto di vista istituzionale il Trattato di Maastricht va
incontro in misura assai cauta e limitata all'esigenza di colmare
il cosiddetto ‛deficit democratico': esigenza che si traduce in
primo luogo nella proposta di estendere e rafforzare le
competenze, le funzioni e i poteri del Parlamento europeo al
riguardo. Tuttavia sul terreno della Unione Economica e Monetaria
l'estensione dei poteri del Parlamento è rilevante e
configura entro certi limiti un ruolo di ‛co-decisione'.
Importante è anche il conferimento al Parlamento del potere
d'investitura della Commissione, già esercitato nei
confronti della Commissione nominata all'inizio del 1995. Ma in
materia di politica estera e di sicurezza comune, il Parlamento,
oltre a essere informato e consultato, può perfino
‟rivolgere interrogazioni o formulare raccomandazioni al
Consiglio. Esso procede ogni anno a un dibattito sui progressi
compiuti nell'attuazione della politica estera e di sicurezza
comune" (Titolo V, art. J7). Sostanzialmente identiche sono le
disposizioni concernenti il ruolo del Parlamento riguardo alla
‟cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni"
(Titolo VI, art. K6).
Sempre rispetto alla suddetta esigenza democratica è
importante - e promettente - l'istituzione del Comitato delle
Regioni, con funzioni soltanto consultive, che però aprono
canali di partecipazione più articolata e decentrata.
La Commissione presieduta da Delors collaborò attivamente e
pochi giorni dopo la firma del Trattato inviò al Consiglio
una comunicazione intitolata Dall'Atto Unico al dopo Maastricht: i
mezzi per realizzare le nostre ambizioni, alle quali, tuttavia,
non giovarono certo le resistenze e le esitazioni che si
manifestarono clamorosamente, in Danimarca con l'esito negativo
del referendum sul Trattato (poi superato con una ratifica
ottenuta al prezzo di alcune deroghe concesse a quello Stato), e
in Francia, con un esito del referendum, che, anche se positivo,
metteva in evidenza una vasta opposizione nell'opinione pubblica
di quel paese.
Il contributo più sostanzioso fornito dalla Commissione al
consolidamento della Unione Europea fondata a Maastricht lo si
trova nel Libro Bianco sulla strategia a medio termine per la
crescita, la competitività e l'occupazione, presentato
dalla Commissione al Consiglio europeo di Bruxelles il 10 dicembre
1993. Al centro vi è il problema della occupazione.
Già nel par. 3 dell'introduzione il Libro Bianco avverte
che l'Unione Europea si trova di fronte a una ‟disoccupazione di
massa" che investe 17 milioni di persone, pari all'11% della
popolazione attiva: impressionante aumento rispetto ai 12 milioni,
pari all'8%, del 1990; esso enuncia e illustra, per far fronte a
questa situazione ‟drammatica" e ai ‟problemi strutturali" che la
determinano, una ‟strategia di crescita" animata da un energico
‟spirito di solidarietà" e articolata in una serie di
precise proposte in materia soprattutto di ‟ricerca e innovazione,
organizzazione del lavoro, qualità dei prodotti, nuovi
mercati, iniziative nei settori dei trasporti, dell'energia, delle
telecomunicazioni", associate a ‟nuove politiche" di educazione e
formazione, miranti a un ‟nuovo modello di sviluppo economico".
Ma l'iniziativa della neonata UE per l'attuazione del Libro Bianco
tarda ad avviarsi, anche a causa delle difficoltà di ordine
soprattutto finanziario che affliggono gli Stati membri, a
cominciare dall'Italia, oppressa da un crescente debito pubblico
che l'ha costretta a uscire temporaneamente dallo SME (Sistema
Monetario Europeo), mentre avrebbe dovuto incamminarsi verso la
moneta unica europea. Tarda pure l'avvio di una politica estera di
difesa comune, che viene demandato alla Conferenza
intergovernativa indetta per il primo semestre del 1996, durante
il turno di presidenza del governo italiano. Quindi i propositi e
gli impegni di ‛approfondimento' della Unione Europea si
proiettano su tempi ben più lunghi di quelli auspicati e
annunciati. E ciò anche a causa dei concomitanti problemi
di ‛allargamento' ai paesi dell'Europa centrale e orientale.
6. I problemi della nuova Unione e la prospettiva
dell'allargamento
Può considerarsi una diretta conseguenza del Trattato di
Maastricht l'accordo - firmato a Porto il 2 maggio 1992 - che la
nuova Unione Europea stabiliva con i sette paesi della
Associazione Europea di Libero Scambio (EFTA, European Free Trade
Association): Austria, Finlandia, Islanda, Liechtenstein,
Norvegia, Svezia, Svizzera. Era il preludio a quel processo di
‛allargamento' della UE che si prospettava in combinazione con il
cosiddetto ‛approfondimento' avviato con il Trattato di
Maastricht. E in queste due parole si trovano fin da allora
sintetizzati i problemi, i propositi e gli sviluppi che dominano
la storia dell'europeismo degli anni novanta.
L'Accordo di Porto con i sette paesi dell'EFTA, mirante alla
creazione di uno ‟spazio economico europeo", apriva la strada ai
negoziati per l'adesione all'Unione Europea di (secondo l'ordine
cronologico delle domande formalmente presentate da ciascuno
Stato) Austria, Svezia, Finlandia, Norvegia, mentre quella della
Svizzera rimaneva bloccata dall'esito negativo del referendum del
6 dicembre 1992. Nel luglio 1990 avevano presentato domanda di
adesione la Repubblica di Cipro e la Repubblica di Malta.
Ma evidentemente il problema e la prospettiva dell'allargamento
assumevano nuova dimensione e portata storica in seguito
all'abbattimento del muro di Berlino e al disfacimento dell'Impero
sovietico. E tuttavia l'attività delle istituzioni della
nuova Unione Europea nel suo primo anno di vita (è entrata
formalmente in vigore il 1° novembre 1993) è dominata
dai problemi di messa in opera del Trattato, tra i quali va
acquistando un peso sempre maggiore - e drammatico - quello
dell'occupazione e, su un altro terreno, quello della
capacità operativa della progettata unione politica e di
difesa, messa subito a dura (e negativa) prova dalla catastrofe
iugoslava.
Il problema preliminare per l'allargamento dell'Unione Europea ai
paesi dell'Europa centrale e orientale era quello di creare le
condizioni economiche e politiche per consentire la graduale
integrazione nel tessuto economico e politico del mondo
occidentale e in particolare la loro transizione verso l'economia
di mercato. A tal fine sono stati stipulati, nel corso degli anni
1991-1992, accordi di ‛associazione', prima con Ungheria, Polonia
e Cecoslovacchia (l'accordo con quest'ultimo paese è stato
in seguito sostituito da due accordi distinti con la Repubblica
Ceca e con la Slovacchia) e poi con Romania e Bulgaria. Accordi di
cooperazione sono stati stipulati nel 1992 anche con i tre paesi
baltici, Estonia, Lettonia e Lituania.
Il quadro complessivo dei problemi e anche dei risultati di tale
intreccio di rapporti nella prospettiva dell'allargamento è
stato presentato in termini chiari ed esaurienti al Consiglio
europeo di Corfù (nei giorni 24-25 giugno 1994), che
può considerarsi quasi il punto d'arrivo del decennio che
qui abbiamo preso in esame. Seguendo l'ordine cronologico delle
domande di adesione, quel Consiglio constatava: 1) che l'adesione
di Cipro e Malta poteva considerarsi ormai ‟prossima"; 2) che ‟gli
accordi europei con l'Ungheria e la Polonia sono ora in vigore" e
che i due paesi ‟hanno presentato rispettivamente il 31 marzo e il
4 aprile 1994 la domanda per diventare membri della UE"; 3) che
per quanto riguarda la Turchia sarà perseguito il
‟completamento della unione doganale prevista dall'accordo di
associazione del 1964"; 4) che, come ha stabilito il Consiglio
europeo di Copenaghen del giugno 1993, ‟i paesi associati
dell'Europa centrale e orientale che lo desiderino possono
diventare membri dell'Unione Europea non appena saranno in grado
di soddisfare agli obblighi che ne derivano", parallelamente al
‟dialogo politico che dovrebbe essere pienamente ed efficacemente
attuato in via prioritaria"; 5) che va perseguita la conclusione
di accordi di associazione con gli Stati baltici in preparazione
della ‟successiva adesione alla Unione"; 6) che ‟proseguiranno i
contatti con la Slovenia al fine d'instaurare le migliori
condizioni per una cooperazione accresciuta con tale paese".
Intanto le domande di adesione di Austria, Finlandia e Svezia sono
state accolte (la Norvegia è assente perché il
referendum sull'adesione ha dato esito negativo) e i tre nuovi
membri hanno partecipato al Consiglio europeo tenutosi a Cannes
nei giorni 26-27 giugno 1995. Riunitosi per la prima volta con
quindici membri, questo Consiglio ha accolto, nella sua seconda
giornata, i rappresentanti dei nuovi paesi associati: sei
dell'Europa centrale e orientale (Ungheria, Polonia, Romania,
Bulgaria, Slovacchia e Repubblica Ceca), tre baltici (Lettonia,
Lituania, Estonia) e i rappresentanti di Malta e Cipro, candidati
all'adesione.
Ma l'attenzione di quel Consiglio si è rivolta anche verso
Sud, sollecitando ‟i paesi dell'Unione Europea e i loro partners
nel Mediterraneo a cooperare maggiormente affinché il
bacino del Mediterraneo diventi una zona di scambi e di dialogo
che garantisca la pace, la stabilità e il benessere di
quanti vivono sulle sue sponde"; perché ‟una politica di
cooperazione ambiziosa al Sud costituisce il complemento della
politica di apertura all'Est e conferisce coerenza geopolitica
all'azione esterna dell'Unione Europea". La Conferenza
ministeriale euromediterranea (convocata a Barcellona il 27 e 28
novembre 1995) doveva costituire ‟un'occasione senza precedenti
per i paesi dell'Unione Europea e i loro partners nel Mediterraneo
occidentale e orientale di definire insieme le loro relazioni
future".
Viene così accolta la proposta avanzata dalla Commissione
il 19 ottobre 1994 nella sua ‛comunicazione' al Consiglio e al
Parlamento europeo su Una politica mediterranea più
incisiva per l'UE: instaurazione di un nuovo partenariato
euromediterraneo. Le tappe del percorso per raggiungere tale
obiettivo sono così indicate: prima, una ‟zona di libero
scambio sostenuta da un cospicuo aiuto finanziario"; seconda, una
‟più intensa cooperazione politica ed economica"; per
giungere, terza tappa, a una vera e propria ‟associazione"; e per
creare finalmente una ‟zona euromediterranea di pace e
stabilità". È evidente il ruolo di iniziativa e di
guida di cui l'Italia si trova di fatto investita, data la sua
posizione centrale nel Mediterraneo e considerato l'interesse suo
preminente alla instaurazione di quella ‟pace e stabilità".
7. I problemi istituzionali della nuova e allargata Unione Europea
Col negoziato per l'adesione dei quattro paesi dell'EFTA si
è aperto il dibattito sui problemi istituzionali derivanti
già da questo ulteriore allargamento e a maggior ragione da
quello ancor più ampio e variegato che si prospettava. I
precedenti allargamenti si erano effettuati in dimensioni e con
gradualità tali da consentire adeguamenti di facile
applicazione al quadro istituzionale esistente prima di
Maastricht. Ma già a Maastricht, oltre alla prevista
conferenza intergovernativa del 1996 per verificare lo stato di
attuazione del Trattato e intraprendere le opportune revisioni,
una ‛dichiarazione' indicava la scadenza del giugno 1994 per la
revisione del numero dei componenti della Commissione e del
Parlamento in conseguenza dell'unificazione della Germania e del
previsto ingresso dei paesi dell'EFTA. E nel dicembre del 1993
un'altra ‛dichiarazione' del Consiglio europeo riunito a Bruxelles
annunciava e disponeva che la Conferenza intergovernativa
convocata per il 1996 ‟oltre all'esame della funzione legislativa
del Parlamento europeo e agli altri punti stabiliti nel Trattato
della Unione Europea, avvierà l'esame del problema del
numero dei membri della Commissione e della ponderazione dei voti
degli Stati membri in sede di Consiglio. Esaminerà inoltre
le misure necessarie ad agevolare i lavori delle istituzioni e a
garantirne l'efficace funzionamento".
Tre mesi dopo, i dodici paesi della Unione pre-allargamento, in
una riunione informale del Consiglio Affari generali tenutosi a
Ioánnina (sotto la presidenza greca, 26-27 marzo)
giungevano alla decisione - con quello che fu poi chiamato il
‟compromesso di Ioánnina" - di invitare il Parlamento, il
Consiglio e la Commissione a elaborare relazioni riguardo alla
messa in opera del Trattato di Maastricht, da trasmettere a un
gruppo di lavoro composto da rappresentanti dei ministri degli
Esteri, istituito dal Consiglio europeo di Corfù nel giugno
1994 e incaricato di elaborare proposte di riforma delle
istituzioni europee per la prevista Conferenza intergovernativa
del 1996. Il singolare ricorso al ‛compromesso' in luogo della
decisione, dovuto soprattutto a esigenze e obiezioni avanzate dal
governo britannico, è chiaramente indicativo della
complessità e difficoltà di trovare soluzioni
istituzionali adeguate ai problemi derivanti dall'intreccio di
‛approfondimento' e ‛allargamento' dell'Unione.
Di fronte a tali problemi e prospettive, che si proiettano sulle
sorti e sul ruolo dell'Europa alla fine di questo secolo, il
progetto di riforma - anzi, di nuovo impianto istituzionale -
più organico e lungimirante è certamente quello del
Progetto Herman approvato dal Parlamento europeo (v. cap. 5). Esso
potrebbe davvero inaugurare una nuova epoca per l'europeismo,
rendendone protagonisti non più gli Stati nazionali, ma i
cittadini d'Europa. Questo è il significato profondamente
innovativo del passaggio dal Trattato alla Costituzione come base
giuridica e progettuale dell'Unione: all'origine e a fondamento,
non più la volontà, le esigenze e convenienze degli
Stati nazionali sovrani, bensì i diritti e i doveri dei
cittadini europei. Quindi un impianto istituzionale non più
prevalentemente intergovernativo, ma interamente sovranazionale e
capace di realizzare, finalmente, il proposito federalista che ha
sempre animato l'europeismo.