Europeismo

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Movimento politico e di idee che, sulla base delle fondamentali affinità culturali e storiche che legano tra loro i popoli d’Europa, tende a promuovere un progressivo avvicinamento tra i vari Stati nazionali europei, fino alla costruzione di un’Europa spiritualmente e politicamente unita.

Sebbene motivi che alludono a una civiltà europea come unità culturale siano presenti già in D. Alighieri e P. Dubois, soprattutto come lascito della tradizione cristiana medievale, e ritornino con sempre maggior pregnanza politica fino al 18° (Voltaire, I. Kant) e 19° sec. (G. Mazzini, C. Cattaneo, V. Hugo), un movimento politico europeista trovò spazio dopo la Prima guerra mondiale, anche se il nuovo ruolo assunto dagli USA e quello della Società delle Nazioni, oltre alla rivoluzione comunista e all’ascesa del fascismo, resero difficile la progettazione di un’unità europea. Le iniziative politiche non furono all’altezza della situazione: il piano di A. Briand per la nascita degli Stati Uniti d’Europa e per la formazione di una sorta di unione federale degli Stati europei membri della Società delle Nazioni (1929) ebbe scarsa rispondenza.

Mentre il progetto di un nuovo ordine fascista in Europa minacciava l’intero continente, una prospettiva politica europeista emerse proprio dall’interno dello schieramento delle nazioni e delle forze politiche in lotta con il nazifascismo, sia nella versione federalista (Manifesto per l’Europa libera e unita, 1941, di E. Rossi e A. Spinelli) sia in quella confederale, che suggestionò C. de Gaulle e W. Churchill, convinti che la fine della guerra avrebbe segnato anche la fine dei nazionalismi in Europa aprendo una nuova fase di cooperazione internazionale nella quale vi sarebbe stato spazio per gli Stati Uniti d’Europa come concerto di nazioni libere e indipendenti.

In realtà, l’Europa che emerse dalla Seconda guerra mondiale era profondamente segnata dagli equilibri tra le due superpotenze e divisa in zone d’influenza, al punto che le spinte unitarie (Movimento federalista europeo, 1943) ne rimasero in parte soffocate. Le pressioni per l’unificazione europea si manifestarono, sin dalla fine degli anni 1940, non tanto sul terreno politico quanto economico, lasciando prevalere una visione ‘funzionalista’ del processo di unificazione e privilegiando l’esigenza di allargare gli scambi e le intese commerciali e produttive attraverso molteplici organismi (Unione Europea).


Enciclopedia delle Scienze Sociali (1993)

di Sergio Pistone


Sommario: 1. L'idea dell'unità europea fino allo scoppio della prima guerra mondiale. 2. La nascita del movimento di unificazione europea negli anni fra il 1914 e il 1948. a) La fine dell'autonomia del sistema europeo degli Stati. b) Il federalismo europeo. c) Il funzionalismo. d) Il confederalismo. 3. L'influenza delle tre correnti dell'europeismo sul processo di unificazione europea. a) Gli aspetti confederali dell'unificazione europea. b) I risultati dell'approccio funzionalista. c) Il ruolo della corrente federalista. □ Bibliografia.

1. L'idea dell'unità europea fino allo scoppio della prima guerra mondiale

L'europeismo, inteso come movimento per l'unificazione europea, è nato nell'epoca delle guerre mondiali e ha ottenuto i suoi primi risultati concreti a partire dal 1948. Esso ha però una plurisecolare preistoria nell'idea dell'unità europea, il cui inizio viene generalmente individuato negli scritti di Dante Alighieri (De Monarchia, scritto fra il 1310 e il 1313) e di Pierre Dubois (De recuperatione Terrae Sanctae, scritto dopo il 1308). Da allora, fino all'epoca contemporanea, l'idea dell'unità europea ha il suo filo conduttore nell'esigenza di dare una risposta a un problema cruciale connesso con la formazione dei moderni Stati sovrani, avvenuta fra la fine del Medioevo e l'inizio dell'età moderna.

Da una parte gli Stati sovrani hanno rappresentato un decisivo progresso, in quanto il monopolio tendenziale della forza ha permesso all'autorità centrale dello Stato di eliminare gradualmente l'anarchia feudale e di garantire, quindi, un efficace ordinamento giuridico interno, che ha costituito la base di un grandioso sviluppo economico, sociale e culturale. Dall'altra, la sovranità statale assoluta ha significato la crisi definitiva delle autorità universali della Chiesa cattolica e dell'Impero e, di conseguenza, una situazione di strutturale anarchia sul piano internazionale con implicazioni chiaramente negative. Il meccanismo dell'equilibrio, che governa il sistema europeo degli Stati, si è rivelato in effetti capace di frustrare i tentativi egemonici messi in atto di volta in volta dai più potenti Stati del continente, ma non di impedire guerre periodiche, che sono diventate sempre più distruttive (e hanno messo in pericolo il progresso e la forza dell'Europa nel suo complesso) proprio perché lo Stato sovrano moderno ha prodotto un rafforzamento ininterrotto della potenza militare.

L'idea dell'unità europea, che propone il superamento dell'anarchia internazionale, ha cercato precisamente di dare una risposta a questo problema e non a caso essa ha avuto le sue più significative espressioni in coincidenza con le più gravi crisi del sistema europeo degli Stati. Individuato il filo conduttore generale della storia dell'idea dell'unità europea, occorre distinguere in essa due fasi: dal Medioevo allo scoppio della Rivoluzione francese e da questa al 1914. Nella prima fase le proposte di unità europea, essendo emerse in tempi in cui non era ancora venuta all'ordine del giorno della storia la realizzazione dei principî della democrazia moderna, concepiscono l'unità non come un'unione fra popoli visti come soggetti politici, bensì come un'unione di principi, vuoi in forma imperiale, vuoi in forma di lega priva di un sovrano superiore. Il momento di rottura rispetto a questa impostazione è rappresentato da Immanuel Kant, il quale, con il saggio Per la pace perpetua (1795), formulò per la prima volta nella storia il progetto di una federazione dei popoli, stabilendo un preciso legame fra la realizzazione del regime democratico all'interno degli Stati (a cui lo scoppio della Rivoluzione francese aveva dato un decisivo impulso storico) e la necessità di superare l'anarchia nei rapporti interstatali attraverso la creazione di un governo democratico soprannazionale. Egli ebbe in effetti una chiara visione delle implicazioni autoritarie dell'anarchia internazionale all'interno dello Stato, implicazioni dovute al fatto che tale anarchia impone il primato della sicurezza esterna dello Stato rispetto a ogni altra esigenza.

Meno chiara fu invece la sua visione del sistema istituzionale attraverso cui realizzare il governo democratico soprannazionale. Infatti, pur parlando di 'federazione', Kant non ebbe una conoscenza precisa dello Stato federale, il cui primo esempio nella storia era stato realizzato qualche anno prima con la Costituzione degli Stati Uniti d'America, redatta nel 1787 dalla Convenzione di Filadelfia, e la cui teoria era stata elaborata da Alexander Hamilton (The federalist, 1787-1788). La teoria dello Stato federale avrà, come vedremo, un'importanza centrale nel movimento per l'unificazione europea, in quanto questo tipo di Stato, concentrando nel governo centrale solo le competenze essenziali per il mantenimento dell'unità politica ed economica e lasciando agli Stati federati un'amplissima autonomia, rappresenta il sistema istituzionale che permette di organizzare la partecipazione democratica su scala continentale e, tendenzialmente, mondiale; permette cioè di unire le democrazie evitando gli inconvenienti dello Stato accentrato.

Pur mancando in Kant una precisa concezione istituzionale del federalismo, dopo di lui, anche se emergeranno ancora progetti di leghe fra principi, diventerà progressivamente dominante nell'idea dell'unità europea il principio dell'unione fra i popoli e, quindi, il legame indissolubile fra democrazia e unità europea, che costituirà una delle opzioni di fondo destinate a caratterizzare l'europeismo contemporaneo. Questo orientamento è chiaramente ravvisabile nei principali esponenti dell'europeismo ottocentesco: Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo e Victor Hugo. Fino al 1914, tuttavia, il discorso sull'unità europea non è destinato a compiere grandi progressi in quanto nell'epoca della formazione e dell'ascesa dei moderni Stati nazionali europei e dell'estensione del dominio coloniale dell'Europa, diventa a poco a poco dominante il nazionalismo.Questo orientamento esaspera i fattori di divisione e di conflittualità fra gli europei non solo sul piano politico, ma anche su quello spirituale; l'ideologia nazionale rappresenta infatti le moderne nazioni come delle comunità di sangue tendenzialmente incomunicabili fra loro e indebolisce quindi l'idea di una comunanza culturale europea legata all'universalismo cristiano e alla sua traduzione laica nell'internazionalismo che caratterizza le grandi ideologie politiche moderne: il liberalismo, la democrazia e il socialismo.

2. La nascita del movimento di unificazione europea negli anni fra il 1914 e il 1948

a) La fine dell'autonomia del sistema europeo degli Stati

Il passaggio dell'europeismo dalla sfera del pensiero utopistico a quella dell'azione politica effettiva ha la sua fondamentale premessa storica nella crisi definitiva del sistema europeo degli Stati manifestatasi nell'epoca delle guerre mondiali. Questo sistema aveva già vissuto nel corso dell'età moderna gravissime crisi, scatenate dalle mire egemoniche prima degli Asburgo e poi della Francia e conclusesi con il ristabilimento di un sempre precario equilibrio. Le guerre mondiali, dovute alla spinta egemonica della Germania, rientrano in questa tendenza di fondo della storia dell'Europa moderna, ma allo stesso tempo conducono alla sua conclusione a causa delle loro specifiche caratteristiche.

Esse hanno anzitutto un carattere paurosamente distruttivo, in quanto sono combattute dai moderni Stati nazionali, capaci, con gli strumenti offerti dal modo di produzione industriale, non solo di produrre armi sempre più efficaci, ma anche di mobilitare a fini bellici tutte le risorse materiali e le energie spirituali delle società nazionali. Questa tendenza si accentua ulteriormente in seguito all'affermarsi dei regimi totalitari fascisti, i quali, portando all'estremo le caratteristiche più negative del nazionalismo, si traducono in un'esasperazione della distruttività materiale e morale della guerra, che culmina nella pratica del genocidio sistematico.

Ancora più decisivo è il fatto che per la prima volta l'Europa si dimostra incapace di ristabilire con le proprie forze l'equilibrio. Se in effetti nella sconfitta dei precedenti tentativi egemonici avevano avuto un ruolo decisivo potenze relativamente marginali rispetto al sistema europeo, come l'Inghilterra e la Russia, ma comunque facenti parte di esso, la sconfitta del tentativo egemonico tedesco dipende in modo determinante dalla forza di una potenza completamente esterna al sistema europeo, come gli Stati Uniti d'America, e di una potenza, come l'Unione Sovietica, che ha caratteristiche più eurasiatiche che europee.

Inoltre, se le precedenti ricostituzioni dell'equilibrio europeo avevano avuto come prezzo una lenta ma sistematica trasmigrazione del potere dal centro del sistema verso le aree periferiche, questa volta l'indebolimento dell'Europa raggiunge un grado tale da condurre alla perdita della sua stessa autonomia e, quindi, all'assorbimento del sistema europeo nel sistema mondiale degli Stati fondato sull'equilibrio bipolare USA-URSS. Questa situazione, che nel 1945 non era ancora percepita in tutta la sua portata, si chiarifica in modo inequivocabile con la guerra fredda e con la divisione dell'Europa nei due blocchi contrapposti, egemonizzati rispettivamente dalla superpotenza americana e da quella sovietica.

Proprio per queste caratteristiche, nel periodo fra il 1914 e il 1948 si realizza un salto qualitativo nello sviluppo storico dell'idea dell'unità europea. Mano a mano che la profondità della crisi del sistema europeo degli Stati si delinea con sempre maggiore chiarezza, si moltiplicano le prese di posizione a favore dell'unità europea con un crescendo culminante nel periodo della Resistenza, durante la seconda guerra mondiale, nel quale praticamente tutte le forze antifasciste, con l'eccezione dei comunisti (allora strettamente subordinati alla leadership sovietica, che rifiutava qualsiasi ipotesi di unità europea), esprimono un orientamento europeistico. A parte l'europeismo espresso dai partiti o da singole personalità, emergono nell'epoca delle guerre mondiali le prime concrete, anche se inefficaci, iniziative governative a favore dell'unificazione europea e nascono le prime organizzazioni aventi come unico obiettivo la lotta per l'Europa unita. Queste organizzazioni si diffondono in tutta l'Europa occidentale nei primi anni dopo il 1945 e diventano da allora una componente permanente del panorama politico di questa parte del mondo.

L'elemento comune delle prese di posizione e delle iniziative europeistiche nel periodo fra il 1914 e il 1948 è la convinzione che l'eliminazione definitiva delle guerre in Europa e, quindi, il passaggio dall'anarchia dei nazionalismi contrapposti a una situazione duratura di pacifica collaborazione fra gli Stati europei costituiscano la conditio sine qua non della sopravvivenza o della rinascita dell'Europa come entità autonoma e della ripresa non precaria del suo sviluppo civile e democratico. In questo orientamento generale, la cui tendenza di fondo si esprime nella formula "Unirsi o perire" coniata dal ministro degli Esteri francese Aristide Briand nel 1929, si delineano peraltro tre filoni principali ben distinti, che avranno un'influenza effettiva sugli sviluppi concreti del processo d'integrazione europea: il federalismo, il funzionalismo, il confederalismo.

b) Il federalismo europeo

La corrente federalista è quella che ha avuto un ruolo determinante nell'alimentare l'iniziativa dal basso, cioè non governativa, a favore dell'unificazione europea e nello stesso tempo ha fornito il contributo più rilevante alla chiarificazione teorica delle ragioni che rendono necessaria l'unificazione europea e delle strutture istituzionali sulla base delle quali essa può essere concretamente realizzata. Questa corrente ha tra i suoi principali esponenti Luigi Einaudi, la scuola federalista inglese (che ha dato vita, con la fondazione della Federal Union nel 1939, al primo movimento europeistico di chiaro orientamento federalista e i cui rappresentanti più validi sul piano intellettuale sono Lionel Robbins, lord Lothian e Barbara Wooton), e infine i federalisti italiani guidati da Altiero Spinelli.

Quest'ultimo gruppo, che è nato con la diffusione del Manifesto per una Europa libera e unita (elaborato nel 1941 nell'isola di Ventotene - dove erano confinati numerosi antifascisti - da Spinelli con la collaborazione di Ernesto Rossi e di Eugenio Colorni) e che ha fondato nel 1943 a Milano il Movimento Federalista Europeo, ha un'importanza centrale. Esso infatti organizzò durante la guerra vari incontri fra i resistenti europei di orientamento federalista - i quali avviarono il processo che nel dopoguerra portò alla costituzione dell'organizzazione continentale dei federalisti, cioè dell'Unione Europea dei Federalisti - e divenne quindi il nucleo direttivo della lotta federalista a livello europeo in tutto il corso del dopoguerra.

L'elemento distintivo della corrente federalista è costituito da una rigorosa e creativa utilizzazione degli insegnamenti della teoria dello Stato federale nell'analisi delle cause della crisi europea all'epoca delle guerre mondiali e nell'indicazione delle possibili soluzioni. Questa corrente ha il suo punto di partenza nelle critiche di Einaudi alla Società delle Nazioni nel 1918, le quali ne individuano il limite decisivo nel fatto di essere fondata sul mantenimento della sovranità statale assoluta, da lui considerata come la causa strutturale delle guerre. L'affermazione della necessità di avviare rapidamente l'unificazione federale europea si fonda su una visione originale (rispetto alle correnti ideologiche dominanti) del corso storico, che individua nella crisi dello Stato nazionale in Europa - cioè nella contraddizione fra l'evoluzione del modo di produrre, che, realizzando una crescente interdipendenza fra tutte le regioni del mondo, spinge alla creazione di entità statali di dimensioni continentali e, tendenzialmente, all'unificazione politica del genere umano, e le dimensioni storicamente superate degli Stati nazionali europei - la radice di fondo dei mali dell'epoca, cioè delle guerre mondiali e del fascismo. In sostanza, secondo questo punto di vista, le guerre mondiali rappresentano il tentativo di dare una soluzione imperial-egemonica al problema della decadenza dello Stato nazionale in Europa. In questo quadro il totalitarismo fascista appare, oltre che come la risposta antidemocratica di destra alla situazione di caos economico-sociale emergente nei paesi in cui si manifesta in modo più acuto il fenomeno generale della crisi dello Stato nazionale, come la scelta dello strumento indispensabile per una politica estera di esasperato espansionismo, e lo stesso razzismo come l'ideologia funzionale al disegno del dominio permanente di una nazione sulle altre nazioni europee.

Le disastrose conseguenze del sistema delle sovranità nazionali assolute indicano, secondo la corrente federalista, che c'è ormai una inconciliabilità strutturale fra il mantenimento di questo sistema e lo sviluppo in direzione della libertà, della democrazia e della giustizia sociale. Di conseguenza è indispensabile una unificazione europea, che, per essere democratica ed efficace, deve avere carattere federale, deve essere fondata cioè sul trasferimento della politica estera, della difesa, della moneta e dei settori strategici della politica economica a istituzioni soprannazionali, cioè a un governo, a un parlamento e a una corte di giustizia comuni. Soprattutto, la realizzazione della federazione europea diventa il compito prioritario rispetto al perseguimento degli obiettivi indicati dalle tradizionali correnti politico-ideologiche.

Viene pertanto superata l'impostazione propria dell'internazionalismo, che vede la pace e l'unità nei rapporti internazionali essenzialmente come una conseguenza automatica dei successi delle lotte liberali o democratiche o socialiste all'interno dei singoli Stati, e viene individuata - e questa acquisizione è merito soprattutto dei federalisti italiani - una nuova linea di divisione fra le forze del progresso e quelle della conservazione. Essa non si identifica più con la linea tradizionale della maggiore o minore libertà, della maggiore o minore democrazia, della maggiore o minore giustizia sociale da realizzare all'interno degli Stati, ma con la linea che divide i difensori della sovranità nazionale assoluta dai sostenitori del suo superamento attraverso una federazione europea, che deve essere intesa come prima tappa in direzione di una federazione mondiale.

La tesi della priorità dell'obiettivo di una federazione europea rispetto a quelli indicati dalle altre correnti ideologiche è integrata da una riflessione sulla strategia della lotta federalista, sviluppata soprattutto da Spinelli, che costituisce la ragione fondamentale per cui i federalisti italiani hanno saputo in questo dopoguerra assumere nei momenti decisivi un ruolo di guida delle forze federaliste di tutta Europa ed esercitare un'effettiva influenza sullo sviluppo dell'integrazione europea. Il nucleo centrale di questa riflessione è la convinzione che i governi nazionali siano destinati a essere nello stesso tempo gli attori principali dell'unificazione europea - non potendo questa progredire in ultima analisi se non attraverso decisioni dei governi democratici nazionali - e gli ostacoli al suo raggiungimento, tendendo oggettivamente chi detiene il potere nazionale a frenare un processo che implica il trasferimento di una parte sostanziale di tale potere a istituzioni soprannazionali.

Questa tendenza, viene precisato, è destinata a manifestarsi in modo più intenso nei corpi permanenti del potere esecutivo, quali la diplomazia e l'alta burocrazia civile e militare, che nel personale relativamente transitorio, cioè i capi di governo e i ministri. I primi infatti non solo sono i naturali depositari delle tradizioni nazionalistiche, ma, nel caso di trasferimenti di sovranità, subirebbero immediatamente limitazioni sostanziali in termini di potere e di status. Per i secondi la situazione è più complessa, in quanto essi sono espressione di partiti democratici, che hanno nelle loro piattaforme ideologiche una componente internazionalistica e più o meno genericamente europeistica, e in quanto hanno un rapporto diretto con l'opinione pubblica, la quale di fronte all'esperienza delle catastrofi prodotte dai nazionalismi è portata ad accogliere con crescente favore l'idea dell'unità europea.

Da questo atteggiamento strutturalmente contraddittorio, anche se interiormente articolato, dei governi nazionali di fronte al problema dell'unificazione europea discendono due conseguenze fondamentali per la lotta federalista. In primo luogo è indispensabile l'esistenza di una forza federalista autonoma dai governi e dai partiti nazionali, capace di sfruttare le contraddizioni di fronte a cui i governi vengono a trovarsi a causa della crisi storica degli Stati nazionali e dell'inadeguatezza della politica di unificazione europea con cui affrontano questa crisi, e in grado quindi di spingerli a fare ciò che spontaneamente non farebbero. La forza federalista deve avere come unico scopo la federazione europea e proporsi di riunire tutti coloro che accettano questo obiettivo come prioritario indipendentemente dai loro orientamenti ideologici; deve avere una struttura soprannazionale, in modo da imporre un programma e una disciplina comuni a tutti i federalisti d'Europa; deve infine instaurare un rapporto diretto con l'opinione pubblica, pur senza partecipare alle elezioni nazionali. In secondo luogo la costruzione dell'Europa unita deve avvenire attraverso una procedura costituente democratica, affidando cioè l'incarico di definire le istituzioni comuni ai rappresentanti del popolo, tramite la convocazione di un'assemblea costituente europea, e non alle diplomazie nazionali, che eserciterebbero fatalmente un ruolo frenante.

Per completare l'illustrazione della corrente federalista occorre ancora aggiungere che di essa fa parte anche il 'federalismo integrale', che si riallaccia agli insegnamenti di Pierre-Joseph Proudhon e ha i suoi più importanti esponenti nel francese Alexandre Marc, nello svizzero Denis de Rougemont e nell'olandese Henri Brugmans. La caratteristica saliente di questo orientamento è la tesi che le collettività tra cui realizzare legami di tipo federale non devono essere soltanto quelle di carattere territoriale, come gli Stati, le regioni e gli enti locali minori, bensì anche quelle di carattere funzionale-professionale. Il federalismo è cioè inteso come principio generale di organizzazione di tutti gli aspetti della vita sociale e non semplicemente delle istituzioni politiche. Per quanto riguarda la lotta per la federazione europea, questo orientamento non ha una sua specifica proposta strategica, ma ha sempre oscillato, in sostanza, fra l'adesione alla linea dei federalisti italiani e il sostegno dell'approccio funzionalista.

c) Il funzionalismo

La seconda corrente dell'europeismo che emerge nel periodo fra il 1914 e il 1948 è quella del funzionalismo, che avrà un'influenza particolarmente rilevante nel processo d'integrazione europea, poiché ispirerà la creazione delle Comunità europee. La teoria funzionalista dell'integrazione soprannazionale ha in comune con quella federalista l'obiettivo del superamento della sovranità assoluta, ma ritiene che, per superare le resistenze nazionali, occorra scegliere la via dello sviluppo graduale della cooperazione internazionale in settori o funzioni limitati, ma via via più importanti dell'attività statale, in modo da realizzare uno svuotamento progressivo e quasi indolore delle sovranità nazionali. I principi basilari di questa teoria sono stati formulati per la prima volta dall'economista romeno David Mitrany (A working peace system, 1943) attraverso una riflessione sull'esperienza organizzativa internazionale realizzatasi con istituzioni di carattere tecnico, quali l'Unione Telegrafica Internazionale, l'Unione Postale Internazionale, la Croce Rossa Internazionale, le istituzioni relative alla proprietà letteraria e industriale, e così via.Secondo questo autore l'integrazione delle attività umane al di là dei confini statali può realizzarsi efficacemente solo tramite la creazione di istituzioni di natura tecnica e non politica, dotate di poteri limitati di carattere amministrativo o economico, e con il compito di risolvere problemi specifici della società internazionale. Il controllo di una funzione dell'attività statale comporta di fatto il trasferimento di una porzione della sovranità a tali istituzioni e l'accumulazione nel tempo di tali trasferimenti parziali provoca, alla fine, il trasferimento della stessa sede dell'autorità.

Se a Mitrany si deve la prima formulazione teorica del funzionalismo, è merito fondamentale di Jean Monnet la sua traduzione in efficaci strumenti d'integrazione soprannazionale. Anzitutto egli fu l'ideatore degli organismi specializzati creati durante le due guerre mondiali per mettere in comune le risorse economiche e militari degli Alleati e rendere così più efficace il loro sforzo bellico. A questi organismi soprannazionali furono delegate competenze molto ampie sul piano economico e militare, ma essi le esercitavano nell'ambito delle direttive politiche ricevute dai governi nazionali e, cessato lo scopo per il quale erano stati creati, furono smantellati. Monnet si rese conto che il metodo da lui applicato durante la guerra avrebbe potuto essere applicato anche in tempo di pace e, in particolare, che il metodo funzionalista, che era stato concepito da Mitrany per far progredire l'integrazione mondiale ma non le integrazioni regionali, poteva essere adattato all'integrazione europea.

Concretamente il metodo da lui proposto nel dopoguerra consisteva nell'affidare l'amministrazione di alcune attività pubbliche a un'apposita amministrazione europea, la quale avrebbe ricevuto le direttive comuni dagli Stati nazionali che le avrebbero formulate in appositi trattati e in ulteriori decisioni intergovernative; questa amministrazione avrebbe dovuto, nell'ambito di tali direttive, essere separata e indipendente dalle amministrazioni nazionali. Le politiche nazionali da mettere in comune erano quelle destinate a produrre i più gravi motivi di rivalità tra gli Stati europei e quindi quelle relative al carbone e all'acciaio (allora considerati i due prodotti base dell'economia dei paesi industrializzati). Mettere la produzione e la distribuzione del carbone e dell'acciaio sotto regole comuni, applicate da un'amministrazione soprannazionale, avrebbe creato una solidarietà d'interessi così profonda e così centrale nella vita economica da spingere all'integrazione graduale del resto delle economie e, successivamente, delle fondamentali attività statali. L'unificazione realizzata dalle varie agenzie specializzate intorno a interessi concreti e a burocrazie soprannazionali efficienti avrebbe trovato alla fine il suo logico coronamento in una costituzione federale.

Nel periodo che stiamo qui considerando il funzionalismo, a differenza della corrente federalista, non ha dato vita a un movimento politico, ma si è espresso essenzialmente attraverso le iniziative individuali di Monnet, il quale divenne dapprima un consulente della classe politica, fu quindi, durante la seconda guerra mondiale, messo dagli Alleati a capo di una delle agenzie soprannazionali da lui ideate, e occupò infine nel dopoguerra l'importantissimo posto di capo del Commissariat du Plan della Francia. Dopo la fondazione della Comunità Europea per il Carbone e l'Acciaio, Monnet esercitò la sua influenza nel processo d'integrazione europea dapprima attraverso la posizione di presidente dell'Alta Autorità della CECA e successivamente attraverso la creazione nel 1955 del Comitato d'azione per gli Stati Uniti d'Europa (cui aderirono i massimi dirigenti e personalità di primo piano dei partiti e dei sindacati di orientamento europeistico), comitato che contribuì in modo sostanziale all'elaborazione dei Trattati di Roma e ai successivi sviluppi dell'integrazione comunitaria, e cessò la sua attività negli anni settanta.

d) Il confederalismo

La terza corrente dell'europeismo, nata nel periodo fra il 1914 e il 1948, è rappresentata dal confederalismo. La sua opzione fondamentale è un'unione europea fondata su meccanismi di mera cooperazione intergovernativa, che lascino intatta la sovranità statale assoluta, ma permettano ai governi nazionali di raggiungere decisioni concordate in alcune materie riconosciute di comune interesse. Alla base di questa impostazione c'è una visione del mondo contraddittoria. Da una parte c'è la percezione della novità della situazione storica, che impone il superamento dei metodi tradizionali della politica internazionale; dall'altra, c'è il condizionamento della tradizione nazionalistica, che spinge a concepire gli Stati nazionali forniti di sovranità assoluta come istituzioni storicamente insuperabili.

Vi è quindi la consapevolezza che, nell'epoca dell'ascesa degli Stati di dimensioni continentali, gli Stati nazionali europei non sono più in grado di affrontare in modo isolato e reciprocamente conflittuale i problemi di fondo e devono abituarsi a cooperare stabilmente. Nello stesso tempo non si comprendono le radici più profonde della crisi dello Stato nazionale e, quindi, il fatto che l'unione europea deve essere intesa solo come una tappa verso l'unione dell'intera umanità e non come una via attraverso cui riprodurre su più ampia scala le politiche fondate sull'egoismo nazionale. Inoltre le proposte di unione non solo tengono fermo il dogma dell'intangibilità della sovranità assoluta, ma sono anche generalmente accompagnate, in modo più o meno aperto, dall'idea del primato del rispettivo paese, da realizzarsi però non attraverso il dominio militare, bensì attraverso la guida di un concerto di nazioni indipendenti.

Non è casuale che questa corrente dell'europeismo annoveri fra i suoi più importanti e convinti esponenti alcuni statisti appartenenti ai più antichi e gloriosi Stati europei, in particolare Winston Churchill, Aristide Briand e Charles de Gaulle. E non è neppure casuale che l'idea di una confederazione europea sia congeniale alle diplomazie nazionali, le quali vedono appunto in essa una forma di cooperazione internazionale che non intacca minimamente la sovranità nazionale affidata alle loro cure e la base materiale del loro status. Pur con i suoi limiti, il confederalismo ha avuto comunque il merito di dare vita, nell'epoca delle guerre mondiali, alle prime iniziative europeistiche di alcuni governi, le quali, se pure non hanno avuto alcun esito pratico, hanno rappresentato importanti precedenti a cui hanno potuto richiamarsi le iniziative del secondo dopoguerra.

La prima di queste iniziative fu il Piano di unione europea presentato nel 1929 di fronte all'assemblea della Società delle Nazioni da Briand, che, boicottato dall'Italia fascista e dalla Gran Bretagna, si arenò definitivamente in seguito alla crisi e al crollo della Repubblica di Weimar. Il Piano Briand ebbe come principale ispiratore Richard Coudenhove Kalergi (nato nell'Impero austro-ungarico), che fondò nel 1923 il movimento Paneuropa (che raggruppava alcuni uomini politici, diplomatici e intellettuali) e che sostenne un progetto di federazione europea così approssimativo da includere, accanto agli Stati democratici, anche l'Italia fascista.

La seconda rilevante iniziativa europeistica in questa fase fu la proposta di unione franco-britannica, lanciata da Churchill il 16 giugno 1940, nel momento in cui la Francia stava per capitolare di fronte all'avanzata nazista, che non fu accolta in seguito al prevalere in Francia delle forze favorevoli alla capitolazione. Questa proposta, che ebbe come ispiratori Jean Monnet (in quel momento a Londra per organizzare la cooperazione economico-militare franco-britannica) e il movimento della Federal Union, era molto più avanzata del Piano Briand, dal momento che prevedeva organi comuni per la difesa, gli affari esteri, le finanze e l'economia, l'associazione formale dei due parlamenti e una comune cittadinanza.Tutto questo indica che l'imperativo 'Unirsi o perire' cominciava a condizionare ormai in modo incisivo l'azione concreta dei governi. Occorre però sottolineare che Churchill accolse i suggerimenti di Monnet e dei federalisti britannici essenzialmente con l'intento tattico di rafforzare la resistenza francese all'aggressione nazista, e diede alla proposta un significato confederale e non federale. Ciò emerse chiaramente già nei suoi successivi interventi su questo tema durante la guerra, in particolare nel radio-messaggio del 21 aprile 1943, in cui propose la costituzione di un Consiglio d'Europa (un'anticipazione dell'istituzione di carattere confederale che sarebbe nata nel 1949).

Nell'immediato dopoguerra la corrente confederalista ebbe la sua più importante espressione organizzativa nello United Europe Movement, un'associazione di personalità fondata in Gran Bretagna nel 1947, presieduta da Churchill e diretta da suo genero Duncan Sandys. Questa associazione, in collaborazione con l'UEF (Union Européenne des Fédéralistes) e con tutte le più importanti associazioni europeistiche nate in quegli anni, organizzò all'Aja dal 7 al 10 maggio 1948 il Congresso dell'Europa, presieduto da Churchill, a cui partecipò un migliaio di delegati provenienti da diciannove paesi dell'Europa occidentale. Oltre ai principali dirigenti dei movimenti europeisti e a grandi personalità del mondo economico, culturale e religioso, parteciparono alcuni tra i più prestigiosi leaders politici europei, come Bidault, Blum, Monnet, Reynaud, Ramadier, Schuman, De Gasperi, Adenauer, Spaak, Van Zeeland. Il congresso dell'Aja, in cui fecero sentire la propria voce le tre principali correnti dell'europeismo, ottenne come risultato fondamentale la costituzione, che avvenne l'anno successivo, del Consiglio d'Europa. Ma il suo risultato più importante e duraturo fu la costituzione del Movimento Europeo, che dal 1948 raggruppa in modo permanente tutte le associazioni per l'unità europea assieme ai partiti e ai sindacati di orientamento europeistico, con l'obiettivo di stimolare i governi e di sollecitare il sostegno dell'opinione pubblica nella costruzione dell'unità europea. Il Movimento Europeo, occorre precisare, ebbe un orientamento fortemente influenzato dalla corrente confederalista finché Duncan Sandys fu presidente del suo Comitato esecutivo internazionale, ma a partire dal 1950, quando Sandys fu sostituito da Spaak, espresse in modo permanente una linea di sintesi, a volte organica a volte conflittuale, fra federalismo e funzionalismo.

3. L'influenza delle tre correnti dell'europeismo sul processo di unificazione europea

a) Gli aspetti confederali dell'unificazione europea

Analizzando ora il rapporto fra europeismo e processo di unificazione, conviene partire dall'esame della corrente confederalista, in quanto questa ha dato un'impronta predominante alle prime istituzioni create per costruire l'unità del continente. L'impulso determinante all'avvio di questo processo fu dato dagli Americani, i quali, nel quadro della guerra fredda e della formazione dei blocchi contrapposti, si resero conto che la strategia più efficace di contenimento del comunismo consisteva nel creare in Europa occidentale, attraverso il superamento radicale dei nazionalismi, le premesse economico-sociali e politiche di una sana democrazia. Per questo essi subordinarono l'aiuto militare ed economico chiesto loro dagli europei alla condizione che venisse dato avvio appunto all'unificazione del continente. La risposta europea alle sollecitazioni americane fu, dapprima, il Patto di Bruxelles, un accordo di cooperazione militare stabilito nel marzo 1948 da Gran Bretagna, Francia e paesi del Benelux (nel 1955 sarà allargato alla Germania Federale e all'Italia e verrà chiamato Unione Europea Occidentale, nel 1988 verrà allargato a Spagna e Portogallo) che costituì la premessa dell'istituzione, nel 1949, dell'Alleanza Atlantica. Nell'aprile 1948 fu quindi creata l'Organizzazione Europea di Cooperazione Economica, incaricata di distribuire gli aiuti del Piano Marshall ai paesi dell'Europa occidentale.

Entrambe queste istituzioni erano caratterizzate da una struttura confederale particolarmente debole, perché la Gran Bretagna, che ne fu con la Francia la principale fondatrice, non era disposta ad andare al di là della cooperazione intergovernativa fondata sulle deliberazioni unanimi. Per la stessa ragione il principio confederale s'impose nell'istituzione del Consiglio d'Europa, che coinvolse nel 1949 i principali paesi dell'Europa occidentale e si estese poi progressivamente a quasi tutta questa regione. Nonostante la loro debolezza strutturale, l'OECE e il Consiglio d'Europa svolsero una funzione preparatoria di una certa importanza. La prima avviò in effetti la liberalizzazione degli scambi e la cooperazione monetaria in Europa, mentre il secondo, che fu il primo organismo internazionale a coinvolgere i parlamentari, costituì nei suoi primi anni uno strumento utile per favorire i contatti fra tutte le forze politiche europee e renderle quindi più attente ai problemi dell'integrazione.

In seguito all'istituzione delle Comunità europee l'influenza della corrente confederalista sul processo di unificazione è stata indubbiamente ridimensionata. Essa si è manifestata anzitutto nel ruolo centrale assegnato nel sistema istituzionale comunitario al Consiglio dei ministri, attraverso il quale i governi nazionali assommano nelle proprie mani il potere legislativo comunitario e una notevole parte di quello esecutivo: è una situazione che dà alle Comunità una configurazione semiassolutistica, totalmente in contrasto con i principi liberaldemocratici dominanti negli ordinamenti costituzionali degli Stati membri. In secondo luogo il confederalismo ha ottenuto una importantissima vittoria con il 'compromesso di Lussemburgo' del gennaio 1966. Da allora, prendendo atto che il governo francese non era disposto ad accettare una decisione a maggioranza del Consiglio dei ministri considerata in contrasto con propri interessi vitali nazionali, è invalsa in effetti la prassi di votare all'unanimità anche nei casi in cui i trattati comunitari prescrivono le deliberazioni a maggioranza. Il compromesso fu imposto da de Gaulle, il quale negli anni sessanta divenne il più prestigioso e coerente sostenitore dell'orientamento confederalista. Nonostante il suo rifiuto del rafforzamento in senso soprannazionale delle istituzioni comunitarie, egli svolse però anche un ruolo positivo rispetto all'avanzamento dell'integrazione economica, ritenendo che ciò fosse indispensabile per il recupero dell'autonomia della Francia e dell'Europa nel suo complesso rispetto all'egemonia degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica. Sulla base di questa convinzione decise nel 1963 di porre il veto all'ingresso britannico nella Comunità, perché il suo allargamento prima del completamento dell'unione doganale e di quella agricola avrebbe portato alla trasformazione della Comunità stessa in una grande zona di libero scambio e avrebbe bloccato il cammino verso tappe più avanzate dell'integrazione europea e, quindi, la stessa prospettiva di un'emancipazione dalla tutela americana.

Dopo l'uscita di scena di de Gaulle e l'ingresso nella Comunità della Gran Bretagna, il ruolo di punta di lancia della corrente confederalista è passato al governo di questo paese, specialmente nel periodo in cui è stato guidato dalla signora Margaret Thatcher. Ciò nonostante, anche il governo britannico ha finito con l'accettare l'Atto Unico Europeo, entrato in vigore nel 1987, con il quale sono stati introdotti un, sia pure limitato, rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo e una prassi decisionale del Consiglio dei ministri, per cui, pur non essendo stato formalmente abrogato il 'compromesso di Lussemburgo', le deliberazioni a maggioranza sono diventate una componente significativa della vita comunitaria.

b) I risultati dell'approccio funzionalista

Le Comunità europee costituiscono il risultato fondamentale dell'applicazione del metodo funzionalista alla costruzione dell'unità europea. In esse infatti gli aspetti di carattere confederale trovano un correttivo d'importanza decisiva nei poteri della Commissione esecutiva (diventata unica in seguito alla fusione degli esecutivi comunitari attuata nel 1967), nella sua autonomia dai governi e nel principio dell'efficacia immediata della normativa comunitaria all'interno degli ordinamenti giuridici nazionali. La decisione dei governi di passare dalle prime istituzioni europee di carattere puramente intergovernativo alle ben più avanzate istituzioni comunitarie ha tratto un impulso decisivo dalla questione tedesca. Già nell'ambito del dibattito europeistico svoltosi durante la seconda guerra mondiale si era ampiamente diffusa la convinzione che solo nel quadro di una solida unificazione europea si sarebbe potuta risolvere in modo efficace e definitivo la questione tedesca, trasformare cioè le grandi potenzialità economiche e organizzative di questo popolo da fattore di costante preoccupazione per i vicini in fattore di progresso per tutti. Questo orientamento non ebbe alcuna efficacia operativa fino a che gli Americani accettarono la logica di una politica essenzialmente punitiva nei confronti della Germania, ma la situazione cambiò nel periodo della guerra fredda e della formazione dei blocchi.

Un corollario fondamentale della strategia americana di contenimento dell'URSS fu la decisione di procedere alla ricostruzione economica e politica della Germania occidentale per consolidare in un settore decisivo il blocco atlantico. Quando in questo contesto fu decisa l'eliminazione dei controlli alleati sull'industria pesante tedesca, il governo francese, con Schuman agli Esteri, per evitare la rinascita di un'industria tedesca del tutto autonoma (che implicava il pericolo di una rinascita del nazionalismo tedesco), non vide altra strada che accettare la proposta di Monnet (formulata nel maggio del 1950) di sottoporre a un comune controllo europeo l'industria carbosiderurgica tedesca insieme con quelle della Francia e degli altri Stati disponibili. Dalla risposta positiva della Germania di Adenauer, dell'Italia di De Gasperi e Sforza e del Benelux nacque la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio.

Gli aspetti soprannazionali caratterizzanti le istituzioni della CECA dovettero essere accettati dai governi di questi paesi perché, in caso contrario, non si sarebbe potuto realizzare lo scopo primario dell'impresa, cioè la sottrazione del settore carbosiderurgico all'esclusivo controllo tedesco. Proprio per la necessaria presenza di aspetti soprannazionali, alla CECA non aderirono la Gran Bretagna e i Paesi Scandinavi, e ciò permise la nascita dell'Europa a sei, vale a dire di una piattaforma fondata sulla riconciliazione franco-tedesca e su un ruolo di guida di questi due paesi (elementi che furono poi ulteriormente formalizzati e consolidati dal trattato franco-tedesco del 1963): questa piattaforma rese possibili ulteriori importanti sviluppi dell'integrazione a causa della convergenza particolarmente forte tra gli interessi economici dei Sei e il fatto che proprio essi avevano sperimentato nel modo più drammatico le conseguenze della crisi dello Stato nazionale in Europa.

Il successo della CECA ha reso possibile l'estensione del metodo funzionalista al settore della produzione dell'energia atomica per usi pacifici (con la Comunità Europea per l'Energia Atomica, che ha ottenuto però scarsi risultati) e soprattutto all'economia nel suo complesso, con la Comunità Economica Europea (entrambe create con i Trattati di Roma del 1957). Quest'ultima ha ottenuto in questi anni risultati di rilevanza storica. Ne è prova inequivocabile soprattutto il fatto che le Comunità si sono gradualmente allargate fino a comprendere dodici Stati; si sono realizzate associazioni con altri Stati dell'Europa occidentale e con una sessantina di paesi del Terzo Mondo, e, sulla base delle grandi aspettative suscitate dall'impegno a completare il mercato unico interno entro il 1992, altri Stati europei hanno espresso l'intenzione di aderire o di associarsi alle Comunità. Non va inoltre dimenticato l'allargamento del consenso interno all'integrazione cui oggi aderisce anche la grande maggioranza delle forze di sinistra che inizialmente erano contrarie all'unificazione europea. Infine i cambiamenti epocali avvenuti nell'Est europeo negli anni 1989-1990, oltre a rendere possibile la riunificazione tedesca, hanno aperto la strada all'estensione delle Comunità all'Europa orientale.In effetti, dopo la dissoluzione del blocco sovietico gli ex satelliti dell'URSS hanno manifestato l'intenzione di aderire o di associarsi alle Comunità e la stessa ex-Unione Sovietica, che era sempre stata contraria all'integrazione europea, ha avviato una politica di crescente cooperazione con le Comunità, nel quadro di una riconciliazione tra Est e Ovest di cui è espressione fondamentale l'istituzionalizzazione della Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa. Si tratta peraltro di processi i cui esiti sono ancora incerti a causa dell'instabilità connessa con la fine del bipolarismo e, in modo particolare, a causa dei nazionalismi riemergenti che rischiano di portare a una nuova 'balcanizzazione' l'Europa orientale e la stessa ex-Unione Sovietica.

Il metodo funzionalista ha dunque avuto il merito decisivo di rendere possibile un assai lento ma inarrestabile avanzamento dell'integrazione europea, che la pura cooperazione intergovernativa avrebbe invece condannato al ristagno. In tal modo si sono potuti realizzare i grandi vantaggi connessi con la graduale creazione di un vasto mercato continentale integrato. In particolare, la grande crescita economico-sociale che ne è derivata in Europa occidentale ha permesso di realizzare un salto qualitativo nel tenore di vita delle masse e di colmare praticamente il divario economico con gli Stati Uniti. Soprattutto sono state poste le basi per una generale ripresa democratica, nell'ambito della quale ha potuto verificarsi un fenomeno di eccezionale valore storico: il superamento pacifico delle dittature in Spagna, Grecia e Portogallo. Per contro non ha trovato conferma nella realtà l'ipotesi di uno sviluppo automatico dall'integrazione economica all'unità politica. Si può quindi concludere che il funzionalismo, mentre è parso adeguato a portare a maturità il problema dell'unificazione politica, cioè del completamento dell'unificazione europea, non sembra in grado con i suoi soli strumenti di portarlo a soluzione.

c) Il ruolo della corrente federalista

Nell'illustrare l'influenza della corrente federalista sul processo di integrazione europea occorre distinguere fra l'influenza sul processo nel suo complesso e l'influenza su taluni momenti specifici dello stesso.Per quanto riguarda il primo aspetto, la corrente federalista ha mantenuto attiva nel corso dell'intero processo d'integrazione la rivendicazione di una costituzione federale europea, di una procedura costituente democratica per realizzarla e, quindi, della partecipazione popolare alla costruzione europea. Ciò è avvenuto, oltre che attraverso un ruolo propositivo e di consulenza rispetto alla classe politica, tramite campagne di mobilitazione dell'opinione pubblica, che hanno coinvolto decine di migliaia di enti locali e di articolazioni territoriali delle forze politiche ed economico-sociali e milioni di semplici cittadini. Questa attività non è servita solo a mantenere aperta la prospettiva del completamento in senso democratico e federale dell'integrazione europea, ma ha anche ottenuto risultati concreti in ordine alla configurazione delle istituzioni comunitarie. Se in esse, accanto agli aspetti confederali e a quelli derivanti dall'approccio funzionalista, esiste anche un importante embrione di carattere federale, come il Parlamento europeo con i suoi pur chiaramente inadeguati poteri, ciò è dovuto sicuramente anche all'attiva presenza del federalismo nel processo d'integrazione.

Per quanto riguarda l'influenza della corrente federalista su singoli momenti del processo di integrazione, occorre precisare che essa si è basata sulla capacità di utilizzare gli spazi aperti dagli sviluppi confederali e funzionali dell'integrazione. In effetti i federalisti hanno sempre ritenuto illusoria la convinzione che si potesse realizzare un'integrazione graduale, ma duratura e completa, attraverso i meccanismi comunitari, nello stesso tempo hanno però riconosciuto che questo tipo d'integrazione è destinato a produrre delle contraddizioni che possono favorire dialetticamente la lotta federalista. Queste contraddizioni sono fondamentalmente due. Una è rappresentata dalla precarietà e dall'inadeguatezza dell'integrazione confederale-funzionale. Le istituzioni comunitarie, proprio perché prive di un potere democratico federale, sono destinate a incepparsi quando i problemi da affrontare diventano troppo difficili, e a produrre quindi una frustrazione delle aspettative alimentate dallo sviluppo dell'integrazione nei momenti più facili, una frustrazione che può essere trasformata in sostegno per soluzioni più avanzate. L'altra e ancora più importante contraddizione è costituita dal 'deficit democratico', dal fatto cioè che vengono creati dei centri di decisione a livello soprannazionale senza trasferire a tale livello efficaci procedure di controllo democratico. Questa situazione è destinata a produrre nei partiti e nell'opinione pubblica di orientamento democratico un crescente disagio, che può essere indirizzato verso l'idea di una democrazia soprannazionale e di una costituente europea.

Questa impostazione ha permesso alla corrente federalista di esercitare un'influenza decisiva sul processo d'integrazione soprattutto in tre momenti. Il primo è stato quello delle trattative sulla Comunità Europea di Difesa e sulla Comunità Politica Europea nel periodo 1951-1954. In quegli anni Altiero Spinelli, in quanto leader indiscusso del federalismo europeo, riuscì a instaurare un rapporto estremamente proficuo con De Gasperi e a convincerlo dell'assurdità del progetto di creare un esercito europeo senza creare simultaneamente uno Stato democratico europeo: di un progetto cioè, che avrebbe trasformato di fatto i soldati europei in truppe mercenarie al servizio degli Stati Uniti e avrebbe comportato la messa in discussione di una delle più importanti acquisizioni della tradizione liberaldemocratica, vale a dire la subordinazione dell'esercito al governo democratico. Facendo sue le considerazioni e le proposte federaliste, De Gasperi riuscì a strappare a Schuman e a far accettare agli altri ministri dell'Europa dei Sei la decisione, prevista all'art. 38 del progetto di trattato istitutivo della CED, di aggiungere alla costruzione dell'esercito europeo quella della Comunità politica.

Fu altresì dovuto in modo decisivo all'insistenza di Spinelli la decisione di affidare l'elaborazione dello statuto della Comunità politica all'assemblea allargata della CECA, definita 'Assemblea ad hoc'. Questa elaborò un progetto con forti elementi federali, che prevedeva in particolare l'elezione diretta di un parlamento europeo fornito di poteri legislativi e la realizzazione, oltre all'esercito comune, di un mercato comune che avrebbe dovuto assorbire in sé la CECA. Questa impresa non giunse in porto perché la mancata ratifica della CED da parte del Parlamento francese fece cadere il connesso progetto di una comunità politica. Questa sfortunata battaglia non restò tuttavia senza esiti pratici sul processo d'integrazione, perché pose le premesse per i Trattati di Roma. I governi si trovarono infatti nella necessità di dare una risposta almeno parziale alle grandi aspettative suscitate nell'opinione pubblica dai progetti della CED e della CPE e alla cocente delusione derivante dalla loro caduta, e ciò contribuì in modo decisivo al rilancio europeo, che, con la nascita della CEE, fece compiere un grande passo avanti all'integrazione europea.

Il secondo importante momento d'influenza della corrente federalista è costituito dall'elezione diretta del Parlamento europeo, che ha potuto essere ottenuta grazie a una sistematica e quasi ventennale campagna promossa dai federalisti. La lotta per questo obiettivo si è fondata sulla convinzione che, anche se si trattava di far eleggere direttamente un parlamento privo di poteri sostanziali, il fatto stesso di ottenere una legittimazione democratica diretta avrebbe reso possibile la sua trasformazione in assemblea costituente di diritto o di fatto. Si sarebbe infatti creata una situazione in palese contrasto con quei principi liberaldemocratici che rendono inconcepibile l'esistenza di un parlamento nato dall'esercizio della sovranità popolare ma privo dei poteri deliberativi indispensabili per tradurre in pratica il mandato ricevuto. Ciò avrebbe fortemente indebolito le resistenze nazionalistiche alla richiesta di attribuire al Parlamento europeo il compito di elaborare un progetto di costituzione in grado d'instaurare a livello comunitario un sistema di governo democratico, corrispondente ai principi generali vigenti nell'ordinamento costituzionale degli Stati membri.

D'altra parte, tale richiesta sarebbe stata sollevata con forza dagli stessi parlamentari europei, anche in considerazione dei loro concreti interessi di potere. Essi infatti, in vista della propria rielezione o comunque del mantenimento del consenso ottenuto dai rispettivi partiti, sarebbero stati costretti nella loro grande maggioranza (l'eccezione essendo rappresentata dai deputati appartenenti ai partiti programmaticamente antieuropeisti) a cercare di ottenere i mezzi concreti per realizzare i loro programmi e quindi a battersi per il rafforzamento e la democratizzazione delle istituzioni comunitarie.

Il terzo momento fondamentale dell'influenza federalista sull'unificazione europea è infine costituito dal progetto, di chiaro contenuto federale, di un trattato istitutivo dell'Unione europea (TUE). L'elaborazione del TUE da parte del Parlamento europeo e la sua approvazione a larga maggioranza, il 14 febbraio 1984, rappresentano l'autoassunzione da parte dell'Assemblea di Strasburgo di un ruolo costituente e hanno avuto come promotore e guida dell'intera iniziativa Spinelli, che ha agito all'interno dell'Assemblea avendo all'esterno il pieno e fattivo sostegno delle organizzazioni federaliste. Il TUE non è stato per ora accettato dai governi, i quali hanno preferito ripiegare su di una riforma molto più limitata rappresentata dall'Atto Unico Europeo, che contiene l'obiettivo ambizioso del completamento del mercato interno entro il 1992, ma non ha trasformato le Comunità in un sistema istituzionale realmente democratico ed efficiente. Se la lotta federalista avviata dopo l'elezione diretta del Parlamento europeo non ha ancora raggiunto l'obiettivo di una costituzione federale, essa ha però influenzato in modo rilevante lo sviluppo dell'unificazione europea. In effetti, se si è giunti, superando forti resistenze provenienti soprattutto dal governo britannico, a fissare in un nuovo trattato, e non in una semplice dichiarazione di intenti, il progetto di completamento del mercato interno, ciò è stato dovuto in modo decisivo all'esigenza di venire incontro almeno parzialmente alle richieste espresse dal Parlamento europeo con il TUE. L'Atto Unico Europeo, dando un nuovo, forte impulso all'avanzamento dell'integrazione europea, ha d'altra parte spinto i governi ad affrontare i problemi dell'unione economica e monetaria e dell'unione politica, e a convocare (nel dicembre 1990) due conferenze intergovernative dirette alla realizzazione di questi obiettivi, resi necessari anche dalle nuove responsabilità mondiali che l'Europa è chiamata ad assumersi dopo la dissoluzione del sistema bipolare. Se le conferenze intergovernative non realizzeranno un'autentica riforma in senso democratico e federale delle Comunità, il loro 'deficit democratico' si accentuerà, e ciò non potrà non rafforzare la richiesta del Parlamento europeo di un cambiamento più profondo.

Per capire ciò che è in gioco nell'esito di questa lotta, occorre sottolineare un punto d'importanza decisiva. L'elezione del Parlamento europeo rappresenta il primo esempio storico di estensione del diritto di voto sul piano dei rapporti internazionali e cioè di intervento diretto del popolo in una sfera della vita politica che è stata finora dominio esclusivo della ragione di Stato, del confronto diplomatico e militare tra gli Stati e delle manovre delle grandi imprese multinazionali. Se questo primo embrione di democrazia a livello internazionale si svilupperà in un compiuto sistema democratico su scala europea, cioè in un sistema di tipo federale, esso non mancherà di avere un grande valore di esempio per altre regioni del mondo e in generale sta diventando sempre più attuale per avviare la costruzione di procedure di controllo democratico delle relazioni internazionali globali, in modo da sottrarle progressivamente allo scontro fra gli egoismi dei singoli Stati. Se invece questo embrione morirà, ne deriveranno fatali contraccolpi, non solo rispetto allo sviluppo dell'unificazione europea, ma anche rispetto al prestigio della democrazia su scala mondiale.

Enciclopedia del Novecento  (1977)

di Altiero Spinelli

Sommario: 1. La catastrofe del nazionalismo. 2. L'europeismo. 3. Il federalismo europeo. 4. Il funzionalismo. 5. Il confederalismo. 6. Le superpotenze e l'Europa. 7. La diffusione dell'europeismo. 8. Tappe e cicli della costruzione europea. □ Bibliografia.

1. La catastrofe del nazionalismo

Nel periodo che va dalla Rivoluzione francese alla fine della seconda guerra mondiale, la vita politica europea è stata un crogiuolo di idee e esperienze politiche molteplici e profonde: parallele, divergenti o convergenti, complementari o contraddittorie. Sarebbe probabilmente vano tentare di ricondurre a un unico comun denominatore i comportamenti politici che vanno sotto il nome di liberalismo, democrazia, autoritarismo, totalitarismo; capitalismo, socialismo, comunismo, sindacalismo; conservatorismo, radicalismo; nazionalismo, internazionalismo, ecc. Nei vari popoli e in momenti successivi della loro storia, la presenza di questi comportamenti è stata diversa, la loro intensità variabile, l'equilibrio reciproco spesso assai delicato e complesso. Ma senza alcun dubbio, uno fra questi comportamenti è stato alla lunga dominante in tutto questo periodo, crescendo di importanza da un decennio all'altro, da una crisi politica all'altra e diventando sempre più la struttura fondamentale della politica europea, nella quale tutti gli altri comportamenti e tutte le realizzazioni politiche hanno finito per calarsi e adattarsi. Intendiamo parlare del comportamento fondato sul principio dell'unità e sovranità nazionale. Esso può essere così formulato nei suoi aspetti essenziali: a) ogni nazione deve essere unita in un solo Stato; b) ogni Stato deve essere l'espressione politicà di una sola nazione; c) ogni Stato-nazione deve essere sovrano nelle sue relazioni interne e esterne, deve cioè essere all'origine di tutte le leggi cui i suoi cittadini devono obbedire, e essere superiorem non recognoscens rispetto a qualsiasi altro Stato o istituzione internazionale.

Per rendersi conto di quale sia stata la forza modellatrice di questo principio basta osservare i cambiamenti che esso ha operato nella struttura internazionale dell'Europa e in quella interna di ogni singolo Stato durante questo periodo. Se si confronta la geografia politica europea alla fine del XVIII secolo con quella del 1938, subito dopo l'annessione della regione dei Sudeti alla Germania, cioè del momento in cui il principio nazionale ha raggiunto la sua realizzazione quasi perfetta, si vede che all'inizio la maggior parte delle nazioni erano divise fra Stati separati, o convivevano con altre nello stesso Stato, che anche gli Stati più omogenei dal punto di vista nazionale avevano un assai scarso senso di una loro identità nazionale, che la sovranità di molti Stati era variamente limitata in un quadro imperiale, e che tutto ciò non era sentito come illegittimo o scandaloso. Centocinquanta anni dopo i due Imperi multinazionali, asburgico e ottomano, ultime incarnazioni degli Imperi romani d'Occidente e d'Oriente, erano scomparsi, le nazioni delle marche occidentali dell'impero russo erano diventate indipendenti, e l'Europa era composta di un insieme di Stati grandi e piccoli, tutti pienamente sovrani, ciascuno coincidente con una nazione. Naturalmente su quasi tutte le frontiere c'erano mescolanze nazionali diverse, ma ogni Stato perseguiva con tenacia una politica di denazionalizzazione e di assimilazione delle proprie minoranze etniche. Sole eccezioni erano l'URSS, che era riuscita a mantenere, rinnovandola, la struttura multinazionale dell'Impero zarista, il Belgio che non era riuscito a fondere in una le sue due nazioni, e - solo vero successo di un modello politico alternativo - la Svizzera, che aveva saputo passare dal regime delle quasi-sovranità cantonali a quello dell'unità federale, evitando il contagio nazionalista.

Alla progressiva affermazione della sovranità degli Stati-nazione verso l'esterno corrispondeva un crescente grado di integrazione politica dei cittadini di ogni nazione nel loro Stato. Politiche economiche assai coerenti avevano reso interdipendenti fra loro le varie regioni e classi, come mai lo erano state nel passato, e le relazioni economiche internazionali dapprima assai liberali, erano diventate progressivamente sempre più strettamente controllate dagli Stati, in modo da non permettere che l'interdipendenza economica transnazionale andasse oltre certi limiti giudicati pericolosi per la sicurezza nazionale.

L'attività educativa nazionale, coinvolgendo tutti i cittadini pochi anni dopo la loro nascita, e continuando in forme molteplici durante tutta la loro vita, nella scuola, nel servizio militare, nella stampa e poi nella radio, nella vita politica, nelle misure di sicurezza sociale, era stata un immenso ‛lavaggio dei cervelli' che aveva inculcato la supremazia dei valori della propria nazione. L'apparato amministrativo dello Stato, preciso e efficace, era penetrato progressivamente in tutte le manifestazioni della vita nazionale, mantenendole unite e convergenti. Interessi, ambizioni e paure di ogni singola nazione non potendo, in un sistema di Stati sovrani, essere tutelati che dalla potenza militare, una corsa agli armamenti nazionali si era progressivamente sviluppata in Europa, facendo di essa il più caotico ma anche di gran lunga il più possente complesso di potenze militari esistente nel mondo.

Che questo sistema di forti e quasi mistiche integrazioni politiche nazionali, di crescente - e anch'essa quasi mistica - disintegrazione di ogni senso di solidarietà transnazionale, dovesse concludersi in una catastrofe era, per così dire, iscritto nelle cose e negli animi. Presi a uno a uno nessuno dei numerosi motivi di conflitto esistenti fra gli Stati europei era, nel 1914, così grave da giustificare una guerra così generale e spietata come quella che scoppiò allora. Ma ciascun motivo veniva a rafforzare la tumida volontà di potenza che si era sviluppata negli Stati-nazione europei, e che li spingeva a' dare prova della loro potenza a se stessi e agli altri.

Nel 1914 ebbe così inizio la lunga guerra civile europea che durò fino al 1945, si scandì nel conflitto armato del 1914-1918, nell'interludio di rivoluzioni, controrivoluzioni, tirannidi e crisi economico-sociali del 1919-1939, e nel secondo conflitto armato del 1939-1945. Poiché l'Europa era allora il centro della potenza militare, economica e politica del mondo, questo fu coinvolto nelle due guerre, ed esse ebbero conseguenze immense non solo per gli Europei, ma per l'umanità tutta intera.

La prima guerra mondiale, giustamente chiamata da Benedetto XV l'‟inutile strage", mostrò a una minoranza europea l'assurdità del sistema delle sovranità nazionali, ma alla grande maggioranza dei popoli e delle forze politiche impartì una lezione esattamente contraria. Avendo rivelato la capacità dello Stato-nazione di organizzare in una gigantesca macchina amministrativa e propagandistica tutte le riserve umane e materiali della nazione e di ottenere lealismo e abnegazione totali da parte dei suoi cittadini, la guerra aveva esaltato il senso del valore supremo di questa struttura politica. Il disfacimento dei tre Imperi, austriaco, turco e russo, sembrò quasi una controprova della superiorità politica degli Stati-nazione, i quali tutti, vincitori e vinti, uscirono dalla prova col senso di aver superato con successo un tremendo giudizio di Dio. L'Europa continuò ancora imperterrita sulla via del nazionalismo. Nuovi Stati-nazione sorsero dalle ceneri degli imperi multinazionali. Tutte le nazioni svilupparono un culto quasi religioso dei milioni di morti di questa insensata, ma gloriosa guerra. Alcune nazioni si organizzarono in modo permanente in dittature totalitarie per ricreare quella profonda comunione nazionale di intenti che c'era stata durante la guerra. Tutti gli Stati affrontarono la grande crisi economica iniziatasi nel 1929 instaurando piani economici e monetari nazionali, incuranti delle ripercussioni che essi avrebbero avuto sugli altri paesi ed in genere sulle relazioni economiche internazionali.

E dopo 21 anni di tale intensa e crescente esperienza nazionalista, si precipitarono nella seconda guerra mondiale, portando a compimento la profezia del poeta austriaco Grillparzer: ‟ Von der Menschheit, durch die Nationalität, zur Bestialität".

La seconda guerra mondiale fornì nel modo più completo e più irrefutabile la dimostrazione, che la prima non era riuscita a dare, dell'assurdità dell'Europa delle sovranità nazionali. Lungi dal saper ripetere la prova di potenza dell'altra volta, i superbi Stati-nazione caddero quasi tutti, vergognosamente, l'uno dopo l'altro, sotto i colpi del più potente fra loro, e, in mezzo a esplosioni di ferocia che ben presto non conobbero più limiti, furono invasi e sottomessi, fossero essi alleati o nemici, dalla Germania. Quelli fra i loro cittadini che rifiutarono l'umiliante asservimento, dovettero mettersi fuori della legge del proprio paese e di quella del vincitore, cercando non più nell'autorità tradizionale del loro Stato, ma nella loro coscienza individuale le ragioni per continuare a battersi in bande di partigiani, non solo contro l'invasore, ma anche contro i connazionali che collaboravano con esso. La Germania stessa, dopo aver sottomesso nel giro di pochi anni pressoché tutta l'Europa, ebbe infine quasi rase al suolo le sue città e battuti i suoi eserciti. Fu invasa, dovette arrendersi senza condizioni, vide cancellate tutte le sue istituzioni politiche e amministrative, e fu convertita dagli invasori in semplice territorio di occupazione militare.

Alla fine della guerra, nella primavera del 1945, l'Europa era coperta di macerie, colma di delitti e di odi, affamata, con i campi impoveriti e gran parte delle officine distrutte o ferme, il commercio dominato dal mercato nero, i poteri pubblici quasi incapaci di mantenere l'ordine civile, occupata pressoché completamente dalle truppe - ora liberatrici ora vincitrici - di due nuove superpotenze, di dimensioni ben maggiori di quelle di ciascun Stato europeo, entrambe nate in modi e tempi diversi dall'espansione della civiltà europea, ma l'una - gli Stati Uniti - del tutto extraeuropea e l'altra - l'URSS - solo perifericamente e parzialmente europea.

2. L'europeismo

È stato necessario rievocare rapidamente il ciclo dello sviluppo e della catastrofe dell'Europa degli Stati sovrani, perché quella mutazione nella coscienza politica degli Europei che porta il nome di europeismo emerse dalla meditazione su questa esperienza. Che l'Europa, benché sempre divisa politicamente, avesse una tal quale esigenza di unità, era stato un sogno antico, che aveva, nel corso dei secoli, sedotto alcuni poeti, pensatori, statisti, avventurieri politici, ma non si era mai tradotta in realtà fuorché in modo effimero e ripugnante quando, all'inizio ed alla fine dell'era dei nazionalismi, due avventurieri politici, Napoleone e Hitler, tentarono di realizzarla brutalmente fondandola sulla strapotenza degli eserciti dello Stato, prima francese, poi tedesco, di cui erano riusciti a impadronirsi.

L'europeismo si distingue dal sogno antico perché non è l'aspirazione a un ordine nuovo da attendere in un futuro imprecisabile, ma è il proposito di promuovere un'azione politica attuale per realizzare l'unità a breve scadenza, e per opera della generazione stessa che ha visto e sofferto la crisi dell'ordine politico nazionale. Esso si distingue dalla visione dell'unità imperiale militare perché si propone di raggiungere l'unione non già mediante la forza e la conquista da parte di uno Stato più forte, ma fondandosi solo sul libero consenso di nazioni libere.

Alla fine della prima guerra mondiale il giovane conte austriaoc R. N. Coudenhove Kalergi pensò per primo all'unità europea come a un compito politico attuale. Le sue idee fecero momentaneamente una certa presa superficiale nell'animo di qualche raro statista, ed in particolare del francese A. Briand nel momento in cui, verso la metà degli anni venti, egli cercava assieme al suo collega tedesco G. Stresemann una riconciliazione tra Francia e Germania. Fra i centri di studio e propaganda sorti sulla scia dell'iniziativa di Kalergi, merita di essere ricordata la Federal Union inglese, la quale, verso la fine degli anni trenta, rifacendosi a un filone di meditazioni sul quale si era già soffermato nel 1918 Luigi Einaudi, prese a modello la costituzione federale degli Stati Uniti d'America e promosse studi di notevole valore sulle possibili strutture di una federazione europea.

Ma nell'interludio fra le due guerre il corso della storia europea favorì troppo fortemente la recrudescenza del nazionalismo, e Coudenhove Kalergi assieme agli altri rari seguaci dell'idea degli Stati Uniti d'Europa rimasero profeti inascoltati in un mondo nel quale ricominciavano fervidi i preparativi a un nuovo cozzo armato fra le nazioni. Il seme non era tuttavia stato gettato invano. L'europeismo rinacque durante il rovinoso crollo di tutti gli Stati nazionali nella seconda guerra europea, inizialmente nell'animo di alcuni che cominciarono allora a meditare sull'avvenire guardando al di là dell'obiettivo immediato della vittoria sul nazismo e della restaurazione dell'indipendenza dei popoli europei; questa volta non è rimasto un appello inascoltato, ma le sue vicende hanno inciso profondamente sulla storia europea.

Fin dal suo nascere esso si è articolato in tre correnti che hanno variamente contribuito e continuano tuttora a contribuire all'effettivo processo di unificazione europea: il federalismo, il funzionalismo, il confederalismo.

3. Il federalismo europeo

È nato durante gli anni più duri della guerra nell'animo di alcuni uomini della resistenza, di vari paesi d'Europa, che nelle prigioni, nei campi di concentramento, nelle isole di confino, o nascosti alla macchia come partigiani o cospiratori, senza conoscersi fra loro, poiché la loro condizione era di una diaspora nell'illegalità, contemplando la rovina vergognosa dei vecchi Stati e meditando su quel che si sarebbe dovuto fare una volta abbattuta l'idra nazista, non si contentarono di progettare restaurazioni democratiche nazionali e riforme sociali ed economiche nazionali, ma intravidero come impegno di lotta politica la costruzione di una federazione europea.

Nella letteratura clandestina della resistenza di tutti i paesi d'Europa appaiono qua e là, quasi come massi erratici, affermazioni federaliste più o meno elaborate. Fra i vari gruppi, quello che probabilmente pensò l'impegno federalista con più chiara consapevolezza delle sue implicazioni politiche, e che fu anche il promotore dei primi incontri internazionali di federalisti delle varie resistenze ancor prima della fine della guerra, fu un gruppetto di poco più di un paio di antifascisti italiani, autori del Manifesto per l'Europa libera e unita, più tardi chiamato ‛Manifesto di Ventotene', dal nome dell'isola di confino in cui fu redatto.

Finita la guerra, la ricostruzione europea si sarebbe dovuta fondare sul ristabilimento dei diritti e delle libertà fondamentali dei cittadini di ogni Stato, su un ordine pacifico, su una ricostruzione economica e sociale che mettesse fine alle rovinose autarchie. Le altre attività pubbliche avrebbero potuto e dovuto restare nel loro complesso di competenza dei singoli Stati, ciascuno dei quali le avrebbe svolte secondo il proprio genio; ma se la garanzia del rispetto delle regole di vita democratica, la politica estera, la politica militare, la politica economica e monetaria fossero tornate ad essere esercitate dai singoli Stati in piena autonomia, l'avvenire dell'Europa sarebbe stato la ripetizione esatta del passato. Questi grandi settori dell'attività politica avrebbero però potuto essere gestiti nell'interesse di tutti i popoli solo se essi fossero stati sottratti alla sovranità dei singoli Stati e affidati a istituzioni politiche democratiche comuni, cioè a un governo, a un parlamento e ad una corte di giustizia comuni. I cittadini sarebbero restati cittadini nazionali, tenuti al rispetto delle leggi nazionali e dotati di diritti nazionali, nell'ambito delle materie di competenza degli Stati nazionali. Sarebbero stati invece cittadini europei, tenuti al rispetto delle leggi europee e dotati di diritti europei, nell'ambito delle materie di competenza federale.

Le disastrose conseguenze del sistema delle sovranità nazionali che erano evidenti sotto gli occhi di tutti; la necessità di stabilire con la Germania un rapporto nuovo che non avrebbe potuto essere né quello temuto da tutti della restaurazione di una Germania sovrana, né quello politicamente e moralmente inaccettabile di una Germania dominata dagli altri popoli; il fatto che la rovina economica di quasi tutti i paesi aveva distrutto le vecchie economie nazionaliste e ridotto provvisoriamente all'impotenza i gruppi economici tradizionalmente interessati a mantenerle; il forte e generale ribrezzo verso i regimi antidemocratici e verso le ideologie nazionaliste; tutto ciò costituiva un insieme di circostanze che offrivano alle forze politiche democratiche la grande occasione per dare inizio alla ricostruzione dell'Europa, non chiudendosi in una serie di ricostruzioni nazionali, ma intraprendendo la costruzione delle nuovissime strutture politiche federali europee.

Nella rinnovata vita democratica del dopoguerra i federalisti europei, consapevoli della novità politica assoluta della loro proposta, intendevano non accettare la vecchia linea di divisione fra le forze della destra, tradizionalmente conservatrice e liberale, e quelle della sinistra, tradizionalmente riformatrice e socialista, ma promuovere la formazione di una linea di divisione nuova fra coloro che avrebbero anzitutto mirato alla restaurazione dei vecchi Stati nazionali, con politiche più o meno liberali, più o meno socialiste, e coloro che avrebbero mirato anzitutto a una redistribuzione del potere governativo, legislativo e giudiziario fra le nuove istituzioni federali e quelle antiche nazionali. Per questo motivo i federalisti non fondarono un partito, ma un movimento, che riunì in sé tutti i gruppi che si erano venuti formando nei vari paesi, e prese il nome prima di Union Européenne des Fédéralistes e poi di Mouvement Fédéraliste Européen.

Non è difficile scorgere che le radici ideali dei federalisti europei si trovavano nella grande corrente del radicalismo democratico, che è stato sempre all'origine di tutti i rinnovamenti delle democrazie moderne. La loro forza e la loro debolezza erano quelle tipiche del radicalismo. La forza era nella spregiudicatezza con cui si comportavano verso le tradizioni, portandole dinnanzi al tribunale della ragione, giudicandole in base alla loro razionalità e proponendo con chiarezza le alternative. La loro debolezza era nel fatto che essi non facevano di regola parte dell'establishment politico e non disponevano perciò degli strumenti per mettere direttamente in opera i loro progetti. Erano agitatori di idee e la loro fortuna politica sarebbe dipesa essenzialmente dalla influenza che avrebbero avuto sui detentori del potere. Avevano l'illusione, caratteristica di tutti i portatori di idee nuove, che il momento della realizzazione fosse imminente, legato al breve periodo critico iniziale della ricostruzione del dopoguerra; si rendevano scarsamente conto che il ritmo delle realizzazioni politiche è assai più lento e più tortuoso di quello della formulazione del pensiero. La penetrazione delle loro idee sarebbe stata assai più difficile di quel che essi avevano immaginato, ma la loro critica e il loro disegno, benché ancora non realizzato, è rimasto sino ad oggi il lievito fondamentale dell'europeismo.

4. Il funzionalismo

È stato probabilmente l'economista romeno Mitrany a formulare per primo le idee di fondo della seconda corrente dell'europeismo e a battezzarla con questo termine. Ma è stato senza dubbio J. Monnet a darle il vigore di pro- poste concrete e precise presentate nel momento più opportuno ai governi che ne avevano bisogno.

Anche il funzionalismo è nato durante la seconda guerra mondiale da una meditazione sui problemi di fronte ai quali gli Stati europei si sarebbero trovati dopo la fine delle ostilità. Ma mentre i federalisti avevano sviluppato i loro progetti contemplando il crollo del sistema delle sovranità nazionali e mettendo al centro del loro progetto la costruzione di organismi politici europei da sovraordinare a quelli nazionali, Monnet era partito nelle sue meditazioni da un'esperienza nuova di cooperazione fra Stati, che era stata fatta già durante la prima guerra mondiale e ripetuta con successo durante la seconda.

In entrambe gli Alleati avevano constatato che per utilizzare nel modo più efficace le risorse materiali ed umane di cui disponevano non bastava il forte controllo di ogni singolo Stato sulle risorse nazionali, ma occorreva in alcuni campi un controllo e una gestione comune per evitare che politiche diverse in situazioni diverse nei singoli Stati alleati generassero dispersione degli sforzi, e pericolosi divari fra paese e paese. Avevano quindi impiantato agenzie specializzate, cui avevano delegato il compito di dirigere, con autonomia di decisioni ed entro i limiti dei mandati impartiti a esse, il controllo dei cambi fra le loro monete, l'approvvigionamento delle materie prime e dei rifornimenti alimentari fondamentali, le forniture delle armi più importanti, giungendo fino a creare nella stessa condotta delle operazioni belliche comandi supremi comuni. Queste agenzie specializzate furono il prodotto dello spirito burocratico razionalizzatore che presiedeva alla condotta delle guerre moderne. Grandi amministratori erano ormai capaci di concepire e realizzare apparati di amministrazione e di controllo per operazioni gigantesche che coinvolgevano attività di vari Stati; ed i governi alleati, spinti dalla gravità delle circostanze, si indussero ad accettare in certi campi concreti il principio della delega di certe competenze ad organi sovranazionali. Ma si trattava sempre di organismi amministrativi specializzati e con deleghe ben limitate. Il potere politico restava tutto nelle mani dei governi nazionali, e queste agenzie erano tutte concepite solo per le necessità e la durata della guerra comune, dovendo cessare di esistere non appena questa fosse finita.

J. Monnet, alto funzionario francese, che aveva fatto fra le due guerre una vasta esperienza di organismi e consulenze internazionali, e che durante la seconda guerra mondiale era stato messo dagli Alleati a capo di una di queste loro agenzie, comprese che il metodo avrebbe potuto essere applicato anche in tempo di pace fra nazioni desiderose e bisognose di cooperare strettamente fra loro. La sovranità degli organismi politici nazionali, che i federalisti volevano prendere di petto direttamente, era formalmente rispettata, nel pensiero di Monnet, il quale mirava a individuare masse di interessi concreti, per i quali una gestione comune sarebbe stata di tutta evidenza utile, e avrebbe perciò potuto essere più facilmente delegata a una amministrazione sopranazionale specializzata. Monnet era convinto, come i federalisti, che la cooperazione intergovernativa non avrebbe reso possibile la condotta di affari comuni, e voleva anch'egli organi sovranazionali. Ma la sua esperienza di grande tecnocrate gli faceva sentire come problema centrale la creazione di amministrazioni sovranazionali, intorno alle quali si sarebbero cristallizzati interessi concreti. Le istituzioni politiche erano in fondo per lui sovrastrutture, superflue per avviare la costruzione europea e che sarebbero state aggiunte solo a cose fatte.

Ancora durante la guerra egli aveva individuato nel carbone e nell'acciaio quelli che erano allora e tutto faceva pensare che sarebbero rimasti a lungo - i due prodotti base dell'economia di tutti gli Stati industriali europei.

Le politiche nazionali del carbone e dell'acciaio erano state vigorosi strumenti di potenza militare nazionale dei principali Stati europei, in particolare della Germania, e grande motivo di rivalità specialmente tra Francia e Germania, fra le quali si dividevano i grandi bacini carboniferi e di minerale di ferro posti a destra e a sinistra del Reno. Mettere la produzione e la distribuzione del carbone e dell'acciaio europeo sotto regole comuni, applicate da una amministrazione sovranazionale comune, non solo avrebbe posto fine a quelle politiche nazionali, ma avrebbe anche creato una comunità di interessi così potente e così centrale nella vita economica da tirarsi dietro il resto delle economie nel senso della loro integrazione. Altre agenzie specializzate sarebbero allora sorte man mano, e l'unità si sarebbe fatta intorno a interessi concreti e ad uffici efficienti, coronandosi alla fine con istituzioni politiche federali.

Il punto debole del funzionalismo era quello di tutte le concezioni tecnocratiche. Scambiava l'efficienza esecutrice del potere amministrativo con la creatività del potere politico. Un'amministrazione è sempre necessaria per realizzare un piano politico, ma tende per sua natura a irrigidirlo e a concepirlo come qualcosa di concluso in sé, quindi incapace di generare nuovi piani. Nessuna agenzia settoriale europea avrebbe avuto una forza trascinante per il resto delle economie e della società europea, ove fossero mancati impulsi politici nuovi provenienti dal di fuori dell'agenzia stessa. Ma Monnet era convinto che i governi sarebbero stati obbligati dalla forza delle cose a produrre tali nuovi impulsi.

In questa prospettiva la sua impostazione era destinata ad essere molto più facilmente accettabile di quella federalista per molti statisti, poiché proponeva l'estensione di esperienze che essi già conoscevano per averle fatte, e che non esigevano decisioni radicali di natura costituzionale. Il disegno funzionalista sarebbe stato anche molto più congeniale ai funzionari delle amministrazioni nazionali, perché parlava il loro stesso linguaggio tecnocratico e faceva appello ai loro metodi di lavoro, per costruire l'unità. Last but not least, Monnet occupò, alla fine della guerra, il posto importantissimo di capo del Commissariat du Plan della Francia, che lo rese influente ed ascoltato tanto presso l'amministrazione quanto presso i ministri della Repubblica.

5. Il confederalismo

Il tema dell'unità europea non si pose solo a radicali della resistenza antifascista e ad alti amministratori di agenzie specializzate internazionali degli Alleati. Lo sentirono anche alcuni statisti di grandi Stati europei, che la guerra e il dopoguerra mettevano dinnanzi a problemi del tutto nuovi. Che ruolo dare ai loro paesi nella prossima costruzione della pace? Che relazione stabilire con la Germania dopo averla vinta? Come comportarsi verso Stati Uniti e Unione Sovietica, che sempre più apparivano come le nuove potenze mondiali destinate a dominare la scena internazionale, ed in particolare quella europea, nel prossimo futuro? Come rimettere in sesto economicamente e politicamente non questo o quel paese, ma l'Europa nel suo insieme, nella quale quasi ogni ordine tradizionale era crollato?

I due statisti che più profondamente pensarono a tutto ciò furono Winston Churchill, il primo ministro inglese che aveva assunto la guida del paese nel momento più minaccioso della sua storia, quando l'Inghilterra si trovò solitaria e male armata di fronte ad un nemico che aveva occupato già quasi tutta l'Europa, e Charles de Gaulle, il generale francese che dopo la resa del suo governo aveva deciso di essere lui stesso per virtù carismatica, l'incarnazione e l'unica rappresentanza legittima del più antico Stato del continente. Entrambi credevano fortemente in una sorta di primato del proprio paese, in una responsabilità speciale, storica e politica, che esso aveva avuto nel passato ed avrebbe dovuto continuare ad avere nell'avvenire rispetto all'Europa. Ma entrambi vedevano questa vocazione nazionale non come una vocazione di dominio militare, bensì di guida in un concerto di nazioni indipendenti e libere.

Churchill non era rimasto insensibile all'idea dell'unità europea sin dalla fine della prima guerra mondiale, e fu in un certo senso il primo prestigioso araldo di questa unità durante la seconda guerra e subito dopo, quando le idee dei federalisti e di Monnet erano ancora in gestazione e pressoché clandestine. Nell'estate del 1940, nel momento in cui la Francia stava per crollare, Churchill, ascoltando i suggerimenti di Monnet, ed ispirandosi alle idee allora correnti in Gran Bretagna dei federalisti inglesi, propose al governo francese, rifugiato a Bordeaux dopo la caduta di Parigi, di unire i due Stati in uno solo, fondendo i due governi e i due Parlamenti, dando un'unica cittadinanza ai due popoli, e continuando uniti la guerra. L'immaginosa e quasi poetica proposta, assai più radicale di quelle federaliste, era il tentativo improvvisato di dare una risposta adeguata alla sfida drammatica di Hitler, e non ebbe seguito, perché nel governo francese prevalsero i fautori della resa. Ma era stata un segno precursore: il tema dell'unità europea poteva giungere ed era di fatto giunto sul tavolo di statisti nazionali, quantunque la loro naturale missione fosse quella di preservare e sviluppare la sovranità nazionale.

Dopo la fine della guerra, Churchill tornò con tutta la sua autorità sul tema dell'unità. Nel suo discorso del 19 settembre 1946 a Zurigo proclamò la necessità di una stretta cooperazione fra tutte le nazioni europee, fossero esse state alleate o nemiche, per costruire una specie di Stati Uniti d'Europa, e mise in moto quello che sarebbe diventato rapidamente il Movimento europeo, nel quale confluirono statisti, parlamentari, rappresentanze di partiti e di associazioni professionali, militanti federalisti. La smagliante e immaginosa oratoria churchilliana indusse molti a credere che egli si fosse fatto promotore di un'azione di unificazione di tipo federale, ma in realtà Churchill era uomo più di grandi visioni che di precisi progetti, e nel parlare di Stati Uniti d'Europa aveva voluto presentare un mito più che una precisa proposta federale. In realtà egli pensava solo a una forte e continua collaborazione fra Stati, cioè a una confederazione. Se parlando dei rapporti fra Francesi e Tedeschi egli insisteva, sia pure in termini vaghi, sulla necessità di una reale unione fra queste due nazioni, la vera natura del suo pensiero si manifestava quando doveva pensare in particolare alla Gran Bretagna. La voleva, sì, presente e autorevole nel consesso delle nazioni europee, ed era assolutamente convinto che ne avrebbe in qualche modo assunto la guida, ma non intendeva affatto aprire il varco ad alcuna limitazione della sua sovranità.

Il Movimento europeo, suscitato dalle sue parole, prese molto più sul serio la loro parte mitologica ed ebbe perciò presto l'impressione di essere stato tradito da lui, quando egli dovette mostrare il fondo reale del suo pensiero. Ma l'appello del grande statista inglese, che mostrava in modo grandioso i termini della situazione europea e la meta da raggiungere, pur restando vago, non impegnativo e aperto a qualsiasi pragmatica mossa iniziale dei governi, ebbe una risonanza profonda in molti statisti e in una gran parte degli uomini politici dell'immediato dopoguerra. Costoro sentivano riecheggiare nelle parole di Churchill il senso che ciascuno di loro aveva della precarietà delle avvenute restaurazioni nazionali e della necessità di tener testa insieme ai pericoli di una contagiosa decomposizione politica ed economica. Ciascuno poteva inoltre mettere in quell'appello una speranza di collaborazione più o meno avanzata con gli altri Stati d'Europa, senza dover troppo precisarne forme e contenuti. Anche quando, più tardi, le idee funzionalistiche e federalistiche cominciarono a farsi strada nell'animo di parecchi statisti, esse si sovrapposero, per così dire, come strati alluvionali successivi ad un atteggiamento di fondo che continuava ad essere quello della cooperazione di tipo confederale.

Ciò che era confuso, approssimativo e coesistente con idee diverse nello spirito di Churchill e di molti statisti, era invece chiaro e preciso nel pensiero di de Gaulle, per il quale il punto di partenza delle meditazioni europee non fu, come per Churchill, la effettiva guida di uno Stato, ma la visione intellettualmente ed eticamente ambiziosa di un uomo che era convinto di portare in sé l'avvenire nazionale del proprio paese, ma che non disponeva ancora di alcun potere governativo reale da amministrare. La sua fede politica fondamentale e la sua cultura politica erano quelle del più puro nazionalismo. La Francia era per lui il paese scelto da Dio per le più grandi e gloriose imprese. E poiché era ora caduta, e la sua vocazione si esprimeva quasi solo nella sua persona, tanto più intensamente egli pensava al momento in cui essa sarebbe tornata ad essere una delle grandi potenze che stavano ora combattendo contro la Germania.

Durante il suo soggiorno nelle colonie, che grazie al predominio anglo-americano sui mari non erano cadute in mano alle potenze dell'Asse, aveva avuto netto il senso che l'epoca degli imperi coloniali volgeva al termine e che anche la Francia avrebbe dovuto liquidare in un modo o nell'altro il suo. Per tornare ad essere una grande potenza mondiale essa avrebbe dovuto ormai affermarsi in Europa, e poiché le nuove grandi potenze mondiali avevano ben altre dimensioni demografiche, economiche e militari che non la Francia, il ruolo di questa avrebbe dovuto essere quello di polo intorno a cui si sarebbero uniti gli altri Stati d'Europa. Egli pensava ad una confederazione di Stati, ciascuno dei quali avrebbe conservato la sua sovranità, ma che sarebbero stati legati fra loro in un patto di concertazione permanente delle loro politiche. Aveva un'intelligenza troppo chiara per non comprendere che una confederazione è per definizione condannata all'impotenza e alla disintegrazione se è un patto fra Stati più o meno uguali fra loro, ciascuno geloso della propria autonomia. Sola confederazione vitale è quella nel cui seno c'è una potenza la cui egemonia politica e morale sia riconosciuta ed accettata dagli altri paesi associati. Ma per l'appunto la provvidenza aveva creato in Europa una nazione - quella francese - più perfetta delle altre, più solida, più sicura della propria identità, più consapevole della sua vocazione universale; e intorno ad essa o nazioni minori, o nazioni, come l'Italia e la Germania, politicamente poco mature, malsicure, bisognose di avere fuori di sé un polo di riferimento. La Germania inoltre avrebbe potuto forse tornare a dissolversi in più Stati, che in modo naturale, come nell'epoca della grandezza della monarchia francese, avrebbero ruotato intorno alla Francia. Unico Stato europeo che, avendo un passato e una vocazione di gloria nazionale analoga a quella della Francia, avrebbe potuto contenderle la posizione preminente che de Gaulle le assegnava nell'Europa unita, era la Gran Bretagna; per questo motivo l'Inghilterra doveva restare nel suo disegno fuori dall'unione. Non era essa del resto tesa tutta verso gli oceani e non aveva relazioni speciali con gli Stati Uniti?

Poiché la Francia usciva dalla guerra solo apparentemente come paese vincitore, e nessun altro paese le riconosceva un ruolo di supremazia, c'era qualcosa di donchisciottesco nella visione di de Gaulle. Ma era sentita da lui con vigore e passione, e anche se il confederalismo esercitò la sua influenza nel primo quindicennio del dopoguerra nella più vaga forma churchilliana, la più vigorosa e coerente visione gaullista era destinata a esercitare un'influenza maggiore nel corso successivo degli avvenimenti.

6. Le superpotenze e l'Europa

Contrariamente a quanto era avvenuto alla fine della prima guerra mondiale, quando gli Stati europei ebbero la piena possibilità di procedere alla ricostruzione del loro sistema internazionale senza subire condizionamenti e interventi esterni, alla fine del secondo conflitto l'Europa non poté fare da sé. Le prime fondamenta della ricostruzione europea furono infatti poste, e in modo durevole, dai veri vincitori, cioè dagli Stati Uniti d'America e dall'Unione Sovietica.

Lo spirito missionario, rispettivamente democratico e comunista, che era una componente assai forte della politica estera delle due nuove grandi potenze; la diffidenza di entrambe per quel che avrebbe potuto esplodere ancora una volta da una Europa abbandonata a se stessa; e infine la forte diffidenza di ciascuna di esse verso le intenzioni e i piani dell'altra, si sommarono insieme in modo tale che l'occupazione militare di quasi tutto il continente europeo da parte delle loro truppe divenne il punto di partenza di una divisione profonda dell'Europa in due parti.

Salvo un tentativo, presto abbandonato, di amministrazione diretta da parte dei vincitori delle zone in cui era stata divisa la Germania, le restaurazioni istituzionali, politiche, economiche e sociali furono ovunque compiute dalle forze politiche indigene dei vari paesi liberati dal dominio nazista. Ma ovunque le restaurazioni avvennero all'ombra delle forze americane a Occidente e sovietiche a Oriente; ovunque le potenze dominanti non esitarono a far valere la loro autorità e ad adoperare gli strumenti d'intervento di cui disponevano - e che erano notevolmente diversi nei due casi - per favorire sviluppi che fossero conformi all'idea che esse si facevano dell'avvenire dell'Europa.

Poiché la guerra era stata condotta all'insegna della liberazione delle nazioni oppresse dal nazismo, il primo atto delle restaurazioni fu la ricostituzione di Stati-nazione fondati su principi democratici. Spostamenti notevoli di frontiere ci furono solo fra URSS, Polonia, Cecoslovacchia e Germania, ma poiché insieme ai cambiamenti di frontiera furono spostate anche le popolazioni, il risultato fu in genere una compattezza territoriale delle nazioni tedesca, polacca e ceca ancor maggiore di quella precedente. La sola nazione che in questa ricostruzione ebbe un destino diverso dalle altre poiché perse la sua unità politica, fu quella tedesca, la quale, essendo stata assegnata in parte alla zona di influenza sovietica, in parte a quella americana, restò divisa in ragione degli opposti sviluppi delle due zone e dovette infine essere riorganizzata in due Stati separati.

Nell'Europa orientale sotto l'influenza sovietica tutti i paesi persero nel giro di pochi anni le improvvisate istituzioni democratiche, trasformandosi in Stati comunisti, fortemente dipendenti dall'URSS, chiusi in sé, e soprattutto chiusi verso l'Occidente. A partire da questo momento la problematica interna, politica, militare ed economica dell'Europa orientale diventò del tutto distinta da quella dell'Europa occidentale. È assai probabile che l'europeismo si sarebbe diffuso anche nei paesi dell'Europa orientale, se essi avessero avuto un tipo di sviluppo analogo a quello dell'Europa occidentale. Ma non si possono fare che supposizioni. Essendo stati assorbiti nell'assai diversa esperienza comunista, questi paesi non hanno potuto in alcun modo partecipare al moto verso l'unificazione.

In Europa occidentale invece le restaurazioni democratiche si consolidarono, anche qui in misura non lieve grazie all'intervento americano, il quale prese la forma, prima di un sostanzioso aiuto economico che contribuì a far sormontare il difficile periodo iniziale della ricostruzione; e poi di una forte e impegnata protezione militare che diede un senso di sicurezza a paesi ancora deboli, malsicuri e timorosi del minaccioso, misterioso ed enorme vicino orientale.

Il primo tratto della nuova Europa non è quindi stato quello di una Europa in cerca di unione, ma quello di due Europe con diverse strutture ideologiche, politiche, sociali ed economiche, ciascuna costituente una tal quale rozza forma di unione, correntemente chiamata blocco, sotto l'egemonia di una delle grandi superpotenze.

Fino ad oggi l'Europa orientale non è riuscita a modificare sostanzialmente questa iniziale forma di unione. Il cosiddetto ‛campo socialista' continua ad essere tenuto insieme dal predominio militare sovietico, che si è espresso nel corso degli anni in più di un intervento dell'Armata Rossa, e dalla fedeltà ideologica verso il partito sovietico dei partiti comunisti che gestiscono il potere nazionale. Ogni altra forma di solidarietà è stata vista con sospetto dall'URSS e non ha potuto di fatto svilupparsi.

Quale che fosse inizialmente la dimensione geografica che gli europeisti avevano data al loro sogno di unione, la realtà politica della seconda metà degli anni quaranta stabilì in maniera incontrovertibile che l'europeismo poteva essere un tema politico attuale solo per l'Europa occidentale.

Intorno all'egemonia americana si sviluppò, in America e in Europa, la concezione di una unione o comunità atlantica, che avrebbe dovuto unire le democrazie dei due bordi dell'oceano, superando il quadro dell'europeismo. Poiché l'Alleanza atlantica aveva effettivamente questa dimensione geografica, poiché la guerra fredda con l'Unione Sovietica dava consistenza all'Alleanza, inducendola a creare comandi supremi e infrastrutture militari comuni, e poiché nel seno dell'Alleanza c'era un potere centrale egemonico capace di fungere da federatore, l'atlantismo parve a non pochi una prospettiva più realista dell'europeismo, anzi quest'ultimo sembrò loro ridursi a una versione propagandistica, ad uso degli Europei, dell'atlantismo. In realtà l'idea di una comunità atlantica, reale e istituzionalizzata, non fu mai più che un fronzolo retorico dell'Alleanza atlantica, e non divenne mai oggetto di alcuna seria azione politica, né americana né europea. La politica americana e gli europeisti si incontrarono invece in un lungo periodo di alleanza politica proprio sul tema dell'unità europea.

Per gli europeisti la presenza americana in Europa era sentita come l'utile ombrello protettivo, che sarebbe stato a lungo indispensabile perché permetteva agli Europei di concentrarsi nel difficile compito della costruzione della unità, senza dover subito affrontare da soli problemi come quello della difesa comune e dell'ordine monetario mondiale, cioè problemi che esigevano un grado assai avanzato di unione politica. Ma nel corso del suo sviluppo, l'Europa unita avrebbe dovuto riassumere progressivamente responsabilità politiche per ora gestite o controllate dagli Americani e trasformare l'attuale dipendenza in una partnership. De Gaulle, che risentiva in modo assai intenso questa dipendenza, avrebbe voluto scrollarla via rapidamente e rimproverava perciò costantemente tutti gli europeisti di volere non un'Europa europea, ma un'Europa atlantica. Gli europeisti a loro volta rimproveravano a de Gaulle di fare dell'antiamericanismo verbale, di pretendere un'indipendenza totale in un momento in cui questa non era ancora nè possibile nè utile, ma soprattutto lo accusavano di condannare, con la sua visione confederale, l'Europa a perdurare nell'impotenza e quindi nella dipendenza.

Per la politica americana, l'europeismo apparve sin dal- l'inizio una prospettiva da sostenere a fondo, perché conforme nello stesso tempo allo spirito missionario democratico, caratteristico della coscienza politica statunitense, e agli interessi americani. Nell'unione europea gli Americani vedevano infatti l'applicazione al vecchio continente del principio stesso dell'unione federale fra vari Stati su cui era fondata la loro Costituzione, e che essi consideravano come il miglior metodo per superare i nazionalismi europei. Ma i motivi della simpatia americana per l'unità sovranazionale non erano solo di natura ideologica. Nel momento stesso in cui si impegnava a fondo nell'aiuto economico alla ricostruzione dell'Europa occidentale e assumeva responsabilità pesanti nell'organizzazione della sua difesa, il governo di Washington sentiva che gli Stati europei, se avessero continuato a ispirarsi a ideologie e politiche nazionaliste, non avrebbero potuto evitare la rinascita delle loro reciproche rivalità, e la presenza americana in Europa avrebbe rischiato di essere un lavoro di Sisifo, nel quale l'impegno sarebbe stato crescente e i risultati del tutto aleatori. Contrariamente all'Unione Sovietica, la quale applicò rigorosamente nella sua zona di influenza il principio del divide et impera, gli Stati Uniti puntarono quindi sulla prospettiva di un'Europa occidentale unita, mostrando con ciò di preferire un alleato forte, e perciò stesso più indipendente, a un insieme mal connesso di dipendenze e di protettorati.

Questa coincidenza di prospettive fra la politica americana e quella dell'europeismo giovò molto, inizialmente, alle fortune di quest'ultimo, mostrando agli statisti europei un cammino che aveva il doppio vantaggio di andare nel senso del ritrovamento dell'indipendenza e di godere nello stesso tempo dell'appoggio e della comprensione della grande potenza protettrice, la quale a più riprese mostrò di essere disposta a fare e dare più per un'Europa che si avviasse verso l'unione che per un'Europa che intendesse restare divisa.

7. La diffusione dell'europeismo

Questo insieme di circostanze interne ed esterne in cui l'Europa venne a trovarsi nella seconda metà degli anni quaranta costituì un terreno politico assai favorevole al diffondersi dell'europeismo e alla sua trasformazione da visione intellettuale in componente permanente della vita politica dell'Europa occidentale. La mutazione innovatrice che si verificò allora nella coscienza politica di molti Europei si è rivelata, col passare degli anni e dei decenni, un fenomeno non effimero. Se l'europeismo fosse stato solo una moda, o una risposta di emergenza data a una situazione di emergenza, esso si sarebbe dissolto rapidamente, poiché le condizioni interne ed esterne dell'Europa negli attuali anni settanta sono assai diverse da quelle di trent'anni prima. Non pochi pubblicisti, rimasti più o meno inconsapevolmente prigionieri di vecchie categorie politiche, hanno effettivamente considerato l'europeismo una moda e, pur adeguandovisi nei momenti dei suoi maggiori successi, si sono periodicamente affrettati a proclamarlo superato ogni volta che qualche situazione è cambiata o che qualche imprevista difficoltà è sorta. L'europeismo ha invece mostrato di essere un vero e proprio abito politico e dottrinale, un modello di azione politica capace di offrire un'interpretazione e una soluzione ai problemi di un'Europa nella miseria e di un'Europa nel benessere, di un'Europa nell'impotenza politica e di un'Europa ridivenuta fattore importante della politica mondiale, di un'Europa nella guerra fredda e di un'Europa nella coesistenza pacifica, di un'Europa completamente dipendente dall'America e di un'Europa che con l'America ha un contenzioso assai complesso.

Fin dal momento iniziale della sua diffusione, i promotori delle sue diverse correnti ebbero una consapevolezza assai chiara delle diverse logiche istituzionali e politiche implicite in ciascuna di esse, e svilupparono assai vivaci polemiche fra di loro. Ma nell'opinione pubblica, anche in quella dei politici e dei pubblicisti, che avrebbe dovuto essere più avvertita, i tratti caratteristici delle varie correnti si diluivano e confondevano in un sentimento indistinto della necessità di una nuova forma di solidarietà e di unione fra i popoli democratici del vecchio continente. Era ovunque assai forte la repulsione contro il nazionalismo - il proprio non meno che quello degli altri - che tanti mali aveva prodotto. L'europeismo era sentito come una prospettiva nuova ed esaltante in larghi strati della gioventù più politicizzata. Affermazioni europeiste, più o meno precise, apparvero quindi con frequenza crescente nelle dichiarazioni programmatiche di molti partiti e governi.

Questa diffusione non fu tuttavia uguale in tutti i paesi e in tutti i partiti dell'Europa occidentale. Ebbe un terreno più favorevole nelle nazioni che avevano avuto l'esperienza dell'umiliazione totale dei loro Stati, e che necessariamente riponevano una assai minor fiducia nella restaurazione delle tradizionali sovranità nazionali. L'europeismo si diffuse con relativa facilità, come si può ben comprendere, in Germania e in Italia, che dal loro sfrenato nazionalismo avevano raccolto amarissimi frutti, nonché in Olanda, Belgio e Lussemburgo, che avevano constatato il valore nullo della sovranità dei loro piccoli paesi. Ma un'esperienza simile aveva fatto anche il più antico Stato europeo, modello di tutti gli altri Stati-nazione d'Europa, la Francia. Benché, grazie alla tenace ed abile politica di prestigio di de Gaulle, fosse apparentemente risorta, non solo come Stato vincitore, ma addirittura come uno dei quattro grandi del dopoguerra, accanto agli Stati Uniti, all'URSS e alla Gran Bretagna, e benché de Gaulle, divenuto capo del governo provvisorio della liberazione, avesse concepito tutta la politica estera della Francia come una progressiva restaurazione del rango di grande potenza mondiale, troppo grande era la discrepanza fra questa visione e la realtà, perché la classe politica francese potesse accettarla. Messo da parte il capo della liberazione, le forze politiche francesi che assunsero la direzione della Quarta Repubblica si orientarono assai presto verso una politica estera europeista, vedendo in essa la sola possibilità di mettere su basi nuove le relazioni future, soprattutto con la Germania.

L'europeismo rimase tuttavia sempre in Francia più contestato che tra i suoi vicini, a causa delle assai più antiche e radicate tradizioni di grande nazione sovrana, e fu quindi più esitante e più lacerato da contraddizioni. Ciononostante l'europeismo francese ha avuto permanentemente una posizione centrale in tutta la costruzione europea perché il recente passato fascista e nazista impediva al governo italiano, ed ancor più a quello tedesco, di avere iniziative autorevoli, mentre limiti analoghi erano imposti a Belgio e Olanda perché troppo piccoli. La Francia invece, non avendo le tare storiche dei suoi vicini d'oltre Reno e d'oltre Alpe, possedeva un'autorità morale e un peso politico che dava automaticamente ad ogni sua iniziativa una forte presa sulla realtà internazionale. Si aggiunga che essendo solo apparentemente uno dei grandi, essa si trovava facilmente dinnanzi a situazioni in cui i veri grandi prendevano o minacciavano di prendere decisioni concernenti l'Europa, e quindi anche la Francia stessa, senza tener molto conto della sua voce. Iniziative ispirate all'europeismo coincidevano quindi spesso per la Francia con esigenze di puntigliosa affermazione nazionale verso i grandi della politica mondiale.

Assai più lenta fu invece la diffusione dell'europeismo nelle nazioni che erano uscite dalla guerra avendo potuto preservare la loro indipendenza nazionale e avendo quindi conservato una maggiore fiducia nel loro Stato. Era questo il caso soprattutto della Gran Bretagna, che aveva anch'essa un'antica tradizione di potenza nazionale, simile a quella della Francia, e che non poteva non pensare con fierezza alla recente prova vittoriosa del suo popolo e del suo Stato. Alla fine del conflitto il suo governo disponeva di un controllo così efficace sul paese, da potersi accingere a profonde e ordinate riforme sociali, che contribuirono per alcuni anni a far sentire altezzosamente agli Inglesi la differenza fra la loro situazione e quella del caotico continente. La classe politica inglese nelle sue varie componenti non restò del tutto sorda all'europeismo, ma si avvicinò ad esso con cautela, cercando a lungo di accettarne solo la versione confederalista, cioè la semplice cooperazione intergovernativa, e adoperando la sua influenza in ripetuti tentativi di freno delle iniziative sovranazionali. Con una dozzina d'anni di ritardo sui paesi dell'Europa continentale, anche l'Inghilterra si è tuttavia aperta all'europeismo. Il successo della Comunità Economica, il timore di restare esclusa dalla ulteriore costruzione europea, lo svanire delle ‛relazioni speciali' con gli Stati Uniti, hanno spinto il governo inglese ad adottare la politica della costruzione europea, e ad impegnarvisi con vigore e tenacia.

Anche fra le forze politiche predominanti nei vari paesi la penetrazione dell'europeismo fu varia: più rapida fra i partiti di ispirazione cattolica; più lenta, ma infine quasi generale fra quelli socialisti e liberali. I due grandi partiti comunisti occidentali, l'italiano e il francese, dapprima fortemente ostili, perché orientati sulla prospettiva dell'espansione sovietica, hanno cominciato recentemente ad assumere un atteggiamento, più positivo il primo, meno negativo il secondo, parallelamente al loro progressivo distacco dalla dipendenza ideologica da Mosca e al loro inserimento nel sistema democratico dei loro paesi.

Una simile diffusione di simpatie europeiste si è verificato in quasi tutte le organizzazioni professionali, industriali, commerciali, agricole e operaie.

Poiché fino ad oggi mancano ancora quelle istituzioni e procedure rappresentative popolari al livello europeo, che sono necessarie perché sentimenti europei si trasformino in forze e pressioni politiche attive, il diffondersi progressivo dell'europeismo da un paese all'altro, da un partito all'altro, da un gruppo sociale all'altro non si è ancora mai tradotto in tensioni politiche popolari, in campagne elettorali, in formazioni di maggioranze e minoranze intorno a precisi programmi. Poiché è restato informe, il favore popolare ha finora contribuito alla costruzione europea solo dando agli uomini al governo una notevole sicurezza di poter contare su una larga anche se passiva simpatia popolare ogni volta che hanno preso iniziative europeiste, e alle opposizioni un tacito avviso a non impegnarsi troppo o troppo irrevocabilmente nelle loro polemiche antigovernative nel senso dell'antieuropeismo.

In questo clima, l'azione europea è cominciata perché alcuni statisti, posti di fronte ai gravi problemi della ricostruzione e dello sviluppo dei loro paesi, hanno scoperto la prospettiva esaltante di un avvenire diverso da quello del passato, hanno sognato di realizzarlo, hanno saputo cogliere se non tutte almeno alcune occasioni favorevoli, ed hanno cominciato a tradurre questa visione non solo in dichiarazioni astratte e in fugaci atti politici europei, ma in istituzioni.

L'azione europea non ha incontrato come ostacolo fondamentale il nazionalismo aperto ed esasperato degli anni venti e trenta; esso infatti era stato travolto nell'ignominia durante la guerra, e quando ora riappare non si presenta come antieuropeo, ma in genere come sostenitore della concezione confederalista, tende cioè ad assumere anch'esso atteggiamenti europeistici. L'avversario permanente, tenace, proteiforme e sempre rinascente, della costruzione europea è costituito dal fatto che in ognuno dei nostri paesi, in ogni governo, in ogni amministrazione, in ogni corrente politica, in ogni associazione professionale, in ogni università, insomma in tutti gli Europei e in ogni loro istituzione c'è l'abitudine - radicata al punto da essere ormai quasi un riflesso condizionato - a concepire leggi, costumi, solidarietà, interessi, attività politiche, entro le tradizionali e ben note categorie dello Stato-nazione. L'operosità conforme a quest'abitudine dà a chi vi si trova impegnato un senso di pienezza e di sicurezza, di fronte al quale l'operosità europea si regge, in chi vi si dedica, perché sorretta da una visione politica molto stimolante, ma appare, e finora è, fatalmente lacunosa, incerta sul da fare, priva di tutte quelle regole ben note e di quei riferimenti tradizionali che limitano, sì, la libertà effettiva di chi agisce, ma gli danno anche tranquillità e sicurezza. L'operosità europea non si muove fra istituzioni consolidate, ma deve costruirle e consolidarle; non si esprime in alternative politiche ben delineate ed esprimentisi in precisi partiti europei, ma deve scoprirle; non ha nemmeno un suo linguaggio politico già formato, ma deve inventarlo.

Le forze politiche che hanno assunto la direzione dei paesi europei occidentali dopo la guerra sono state in genere sensibili alla mutazione europeista; ed alcuni fra i loro capi - Churchill, Schuman, De Gasperi, Adenauer, Spaak, Bevin sono stati per alcuni anni fra i corifei se non del pensiero, per lo meno dell'azione europea. Ciononostante per tutti costoro ricostruire lo Stato-nazione significava muoversi nel noto, mentre costruire l'Europa significava muoversi nell'ignoto o quanto meno nell'oscuro e nell'enigmatico. Ciò spiega come sia regolarmente accaduto fino ad oggi che gli statisti nazionali abbiano compiuto, o almeno tentato, imprese europee in circostanze eccezionali, ma la pienezza del loro lavoro politico sia stata dedicata non alla costruzione dell'Europa, bensì alla restaurazione dei vecchi Stati-nazione.

Sviluppo nazionale e costruzione europea sono senza alcun dubbio complementari; ma solo fino a un certo punto, fino a quando cioè si giunga dinnanzi a un qualche complesso di problemi, per il quale occorre decidere se affrontarlo sul piano nazionale, con strumenti nazionali o su quello europeo con strumenti europei, perché nei due casi i risultati sono differenti. Oltre questo punto le due attività diventano alternative: l'una limita l'altra, talvolta la soffoca del tutto; le conseguenze dell'una sono diverse da quelle dell'altra.

Tuttavia la vita politica europea ha avuto proprio questo andamento paradossale e contraddittorio: da una parte restaurazione degli Stati-nazione, e perciò anche delle categorie politiche ed economiche nazionali, dei miti e tabù nazionali; dall'altra instaurazione di istituzioni e politiche comuni, quindi prospettive, responsabilità e solidarietà nuove. Se la costruzione europea si ridurrà a una sovrastruttura delle restaurazioni nazionali, superficiale, fragile, e perciò effimera, o se queste finiranno per piegarsi e subordinarsi all'instaurazione europea, è un problema che sarà deciso non da ragionamenti, ma da una lotta politica ancora aperta.

8. Tappe e cicli della costruzione europea

Il corso effettivo della costruzione europea si è ispirato e continua ad ispirarsi alle tre correnti dell'europeismo. In questa o quella congiuntura ha predominato l'una o l'altra di esse, ma in ciascun tentativo, accanto al tratto centrale derivante da una di queste tendenze, si nota in generale la presenza delle altre, ora come freno, ora come realizzazione collaterale o quanto meno come aspirazione non ancora tradotta in realtà, ma esprimentesi in simboli verbali o istituzionali.

Nei primi due anni successivi alla guerra, scesa la cortina politica, economica e militare fra Europa occidentale democratica ed Europa orientale comunista, si definì la cornice geografica entro la quale si sarebbe successivamente svolta l'impresa europea per tutto un lungo periodo storico che è ancor lungi dall'esser concluso.

Fra il 1947 e il 1950 la scena europea fu dominata dalla propaganda di Churchill e dalle iniziative del ministro inglese Bevin. All'ombra della retorica churchilliana gli statisti britannici, consapevoli del prestigio morale di cui il loro paese godeva in Europa, utilizzarono con decisione i fremiti europeisti del continente, e l'atteggiamento filoeuropeistico degli Americani per proporre legami europei di tipo confederale sotto la guida britannica. Il patto militare di Bruxelles, l'OECE, il Consiglio d'Europa, furono le realizzazioni successive di questa azione. Poiché però l'egemonia inglese era più una illusione delle classi dirigenti inglesi che una realtà, queste organizzazioni si rivelarono tutte assai poco efficaci. Nell'Assemblea parlamentare consultiva del Consiglio d'Europa, unico organo per sua natura non intergovernativo, ma prefigurante un istituto di tipo federale, si delineò un vivace tentativo di rivendicare poteri ‛limitati ma reali'; ma il dibattito finì nel nulla. Durante questo periodo, le tendenze federaliste e funzionaliste rimasero completamente all'ombra del confederalismo di Churchill e di Bevin.

Nel 1950-1951 emersero le prime iniziative funzionaliste. Sotto l'ispirazione di Monnet, il ministro francese degli esteri Schuman propose la creazione di un mercato comune dell'acciaio e del carbone, sotto il controllo di un'alta autorità sovranazionale, e pochi mesi dopo il ministro francese della difesa Pleven propose la creazione di un esercito comune europeo organizzato, armato e amministrato da una Commissione sovranazionale. A queste proposte la Gran Bretagna rifiutò di associarsi, ma il governo francese, consapevole che al di fuori di soluzioni sovranazionali si sarebbe necessariamente dovuto accettare la restituzione alla Germania della sovranità sulla sua industria carbo-siderurgica e autorizzarla ad avere di nuovo forze armate nazionali, si decise a procedere nelle sue iniziative anche senza gli Inglesi. Lunghi e complessi negoziati diplomatici ebbero inizio per tradurre i due progetti in trattati internazionali. Il piano Schuman della Comunità Eupea del Carbone e dell'Acciaio fu ratificato nel corso del 1952 ed entrò in vigore nell'estate dello stesso anno. Il suo tratto centrale era costituito dall'Alta Autorità, organo sovranazionale d'amministrazione delle regole del mercato comune carbo-siderurgico. Ma accanto ad essa il confederalismo dei governi aveva collocato un Consiglio di ministri nazionali, dotato di potere politico di controllo, e le esigenze federaliste diffuse avevano ottenuto che ci fosse una Assemblea parlamentare comune eletta dai parlamentari nazionali, e una Corte di giustizia europea che avrebbe vegliato al rispetto del diritto comunitario.

Nel 1952-1953 il punto di vista federalista venne fuori dall'oscurità dei piccoli movimenti d'opinione, e si impose all'attenzione dei ministri e delle loro diplomazie. L'intrinseca difficoltà di creare un esercito comune, senza che ci fosse un potere politico comune cui un tale esercito sarebbe appartenuto, costrinse i governi dei sei paesi ad accogliere, almeno in parte, le richieste federaliste. Nel settembre del 1952, senza attendere la ratifica del trattato che avrebbe instituito la Comunità Europea di Difesa (CED), i sei governi affidarono ad una Assemblea parlamentare europea ad hoc, derivata da quella della CECA, il mandato di redigere il progetto di statuto di una comunità politica, riconoscendo che si trattava di una costruzione non diplomatica, ma costituzionale, e da affidare quindi non ad una tradizionale conferenza intergovernativa delle diplomazie nazionali, ma ad una rappresentanza delle forze politiche popolari. Sei mesi dopo il progetto di statuto nel quale, sia pure in modi contradditori, molte esigenze federaliste furono accolte, era pronto, e fu consegnato dall'Assemblea ai ministri dei sei paesi.

Nel 1954 la resistenza congiunta delle tradizioni nazionaliste di larghi strati di destra e di sinistra della classe dirigente francese, portò alla caduta della CED, e insieme ad essa anche della comunità politica.

Malgrado la grave sconfitta così subita, l'europeismo mostrò di essere ormai una categoria ineliminabile della vita politica europea, e rinacque dalle sue stesse ceneri. Mentre la CECA cominciava quietamente ad impiantare il mercato comune del carbone e dell'acciaio, cominciò un nuovo ciclo di azione europea, ancora una volta con un piano confederale inglese. Nel 1954-1955, il governo Eden risuscitò dall'oblio il Patto di Bruxelles e riuscì a realizzare, al posto della CED, l'Unione Europea Occidentale (UEO), cui avrebbe partecipato ormai anche la Repubblica Federale Tedesca, per coordinare le politiche di difesa. Poiché però, ancora una volta, il governo inglese risultò organicamente incapace di esercitare alcuna azione di guida, anche l'UEO mostrò la stessa inconsistenza politica delle altre costruzioni confederali di quattro o cinque anni prima.

Con la Conferenza di Messina del 1955 ebbe inizio un nuovo impulso funzionalista. Monnet propose una nuova autorità specializzata per lo sviluppo dell'energia atomica. I governi olandese e belga proposero di estendere il metodo di Monnet non solo a questo o a quel settore dell'economia, ma a tutto il mercato dei vari paesi, allo scopo di avanzare verso un'unificazione economica globale. Fra il 1955 e il 1958 i sei governi elaborarono, ratificarono e infine misero in opera la Comunità Europea dell'Energia Atomica e la Comunità Economica Europea, correntemente chiamate EURATOM e Mercato Comune.

Ancora una volta la caratteristica fondamentale delle due nuove comunità consisteva nell'accettazione da parte dei sei Stati di alcuni precisi scopi da raggiungere in comune e nell'attribuzione a un corpo amministrativo sovranazionale del compito di vegliare alla realizzazione degli impegni presi. Ma se questo schema poteva bastare per la CECA e l'EURATOM, era insufficiente per la Comunità a competenze più generali. Regole e direttive per realizzare il Mercato Comune nel suo insieme potevano essere fissate inizialmente solo in parte. La loro successiva elaborazione e adozione fu quindi affidata a un meccanismo istituzionale nel quale alla Commissione - organo sovranazionale - era riconosciuto il compito di redigere e proporre le misure necessarie, mentre al Consiglio dei ministri - organo intergovernativo - era riservato il diritto di decidere circa la loro adozione. Al Parlamento europeo era attribuito un compito poco più che consultivo.

A partire dal 1958 la Comunità a competenza più generale - la CEE - sotto l'impulso animatore della sua Commissione, riuscì a realizzare in modo sostanzioso, anche se non del tutto completo, gli scopi che gli Stati avevano iscritto nel Trattato e si erano impegnati a realizzare in un dodicennio detto di transizione: l'unione doganale, un insieme non indifferente di regole comuni sulla concorrenza, una organizzazione comunitaria dei mercati agricoli, una notevole mobilità della mano d'opera attraverso le frontiere, un embrione di politica sociale e dei trasporti comune. Inoltre condusse un grosso negoziato internazionale per la riduzione dei dazi industriali (noto col nome di Kennedy round). Infine riassorbì in un unica amministrazione le due comunità specializzate, la CECA e l'EURATOM. Questa serie di successi indusse la Gran Bretagna e altri Stati dell'Europa del nord a rimeditare sul loro iniziale rifiuto e a chiedere formalmente di diventare anch'essi membri di pieno diritto della Comunità.

Accanto ai successi si sono però anche venuti accumulando ritardi, difficoltà, insuccessi, che hanno mostrato nei fatti i limiti del metodo funzionale. Mentre nessuno con- testa più l'utilità di una burocrazia europea autonoma, prosegue nella Comunità e intorno ad essa il dibattito circa la sua anima politica. De Gaulle, tornato a capo dello Stato francese quasi contemporaneamente all'entrata in vigore della Comunità Economica, ha contestato a lungo ogni suo sviluppo sovranazionale, e per due volte ha chiuso la porta ad ogni suo allargamento geografico, esigendo che ogni decisione della Comunità fosse presa all'unanimità dai governi, soli veri depositari delle sovranità, e sottintendendo che alla Francia spettava una funzione di guida. Dalla parte opposta, Commissione e Parlamento europeo hanno costantemente riaffermato la sterilità del metodo della cooperazione intergovernativa e la necessità di dare alla Comunità un autentico governo federale ed un Parlamento europeo, eletto direttamente, dotato di poteri legislativi e di controllo reali.

Questo dibattito, che continua anche dopo la scomparsa di de Gaulle e che è lungi dall'essere concluso, non si svolge più in una sfera puramente concettuale, come negli ormai lontani anni quaranta, ma ha luogo intorno a istituzioni ormai esistenti e a politiche in atto o in formazione.

Fare l'Europa negli anni settanta significa infatti: a) tradurre l'adesione dell'Inghilterra e degli altri nuovi Stati membri della Comunità allargata da adesione formale in realtà uguale a quella che già lega i sei Stati fondatori; b) passare dall'unione doganale all'unione monetaria ed economica, il che implica una programmazione economica assai complessa; c) affrontare con personalità politica propria e quindi con una voce unica le responsabilità che la Comunità ha ormai nel mondo e che implicano relazioni nuove, differenti da quelle avute fino ad oggi, tanto con gli Stati Uniti, quanto con l'URSS e con i paesi in via di sviluppo.

Qualsiasi accurata meditazione sul sistema istituzionale attuale della Comunità mostra che esso è incapace di affrontare con successo questi compiti, e che quindi si impone un trasferimento di competenze governative e legislative dagli Stati membri alle istituzioni della Comunità. Ma la riluttanza delle vecchie macchine amministrative e politiche persiste.

Questa battaglia simultanea intorno alla politica che l'Europa deve fare e alle istituzioni di cui si deve armare per farla è il punto cui oggi è giunto l'europeismo.

Enciclopedia del Novecento II Supplemento (1998)

di Antonio Giolitti e Sergio Romano


Il processo istituzionale di Antonio Giolitti

Sommario: 1. Problemi e tendenze del decennio 1984-1994. 2. Verso la riforma del Trattato CEE. 3. L'Atto Unico europeo e il Rapporto Delors. 4. Per un'Europa più ampia e più unita. 5. Il Trattato di Maastricht. 6. I problemi della nuova Unione e la prospettiva dell'allargamento. 7. I problemi istituzionali della nuova e allargata Unione Europea. □ Bibliografia.

1. Problemi e tendenze del decennio 1984-1994

Nel decennio 1984-1994 che qui prendiamo in considerazione - facendo seguito agli articoli pubblicati precedentemente in questa opera: v. europeismo, voll. II e VIII - si possono distinguere, per effetto della caduta del muro di Berlino, due fasi esattamente corrispondenti a due quinquenni. Nonostante tale distinzione, la continuità dell'impulso ideale e politico che si usa designare con la parola ‛europeismo' risulta, nel corso dell'intero decennio considerato, sempre prevalente ed evidente e ha, per così dire, anche una sua configurazione istituzionale e personale nella figura di Jacques Delors, ininterrottamente presidente della Commissione della Comunità Europea e poi della Unione Europea (UE) dal gennaio 1985 al gennaio 1995.

Il Consiglio europeo riunito nei giorni 25 e 26 giugno 1984 a Fontainebleau, sotto la presidenza francese, si era occupato soprattutto di problemi di finanziamento e di bilancio della Comunità. Esso, tuttavia, aveva anche preso in esame lo stato dei negoziati con Spagna e Portogallo per la loro adesione alla Comunità: un terzo ‛allargamento', dopo le adesioni di Regno Unito, Irlanda, Danimarca e poi Grecia. Dieci anni dopo, come vedremo, il problema dell'‛allargamento' assumerà un peso e una dimensione di portata storica, epocale. Gli ‛atti di adesione' vennero firmati il 12 giugno 1985 a Madrid per la Spagna e a Lisbona per il Portogallo; il 1° gennaio 1986 i due paesi diventarono membri a pieno diritto della Comunità Europea.

Contemporaneamente al processo di allargamento si delineavano anche una prospettiva e un impegno di ‛approfondimento' della Comunità: e vedremo che tutto il corso del decennio qui considerato sarà dominato dalla dialettica e dal ‛combinato disposto' di quelle due dinamiche - in profondità e in estensione - dell'europeismo. All'inizio del 1984, il 14 febbraio, il Parlamento europeo aveva infatti approvato un Progetto di trattato della Unione Europea, del quale fu promotore e protagonista Altiero Spinelli. Si manifestava, con tale iniziativa, una inversione di tendenza rispetto ai segnali di affievolimento che si potevano cogliere nelle vicende dell'europeismo all'inizio degli anni ottanta. Contro quella tendenza il Parlamento europeo, sollecitato dall'iniziativa instancabile di Spinelli, proponeva un rafforzamento dei suoi poteri, una ridefinizione dei ruoli e dei poteri del Consiglio e della Commissione, nonché l'introduzione e l'applicazione di quel criterio di ‛sussidiarietà' che, come vedremo, assumerà grande rilievo nel Trattato di Maastricht.

Da quel progetto scaturì poi il cosiddetto ‛Atto Unico' europeo, firmato il 17 febbraio 1986 da nove Stati membri e il 28 febbraio da Italia, Grecia e Danimarca, che avevano atteso i risultati (favorevoli) del referendum danese: esamineremo in seguito il contenuto di tale Atto, che delineava l'effettiva prima riforma dei Trattati di Roma (istitutivi della Comunità Economica Europea - CEE - e della Comunità Europea per l'Energia Atomica - EURATOM). L'iniziativa era partita, formalmente, dal Consiglio europeo di Milano (28-29 giugno 1985) con due deliberazioni: 1) convocare una conferenza intergovernativa incaricata di predisporre un progetto di trattato ‟su una politica estera e una politica di sicurezza comuni"; 2) procedere alle modifiche del Trattato CEE necessarie all'attuazione degli adeguamenti istituzionali riguardanti il processo decisionale del Consiglio, il potere esecutivo della Commissione, i poteri del Parlamento, oltre che l'estensione delle competenze a nuovi settori di attività.

2. Verso la riforma del Trattato CEE

La nuova Commissione presieduta da Delors esordì con il proposito, preannunciato dal presidente nel suo discorso di presentazione al Parlamento (il 14 gennaio 1985), di perseguire l'abbattimento ‟di tutte le frontiere all'interno dell'Europa entro il 1992". Intraprese quindi senza indugio l'elaborazione e stesura di un ‛Libro Bianco sul completamento del mercato interno', che venne presentato, nel giugno successivo, al Consiglio europeo riunitosi a Milano e da questo approvato. Esso costituiva un programma globale, scandito da un calendario articolato e vincolante, per l'abolizione entro il 1992 delle frontiere geografiche, tecniche e fiscali.

Con tale iniziativa la Commissione dava vigorosa e solenne espressione all'esigenza - tradotta più volte in pressanti e formali proposte della Commissione al Consiglio nel corso dei primi anni ottanta - di eliminare barriere e intralci che ancora ostacolavano la completa realizzazione del ‛mercato comune'. Nel giugno 1984 aveva infatti trasmesso al Consiglio un documento che costituiva un vero e proprio programma mirante alla eliminazione, nel corso di due anni, di tutti gli ostacoli alla libera circolazione dei capitali, dei servizi, delle attività delle imprese e delle persone. Un comitato ad hoc, nominato dal Consiglio (denominato poi Comitato Dooge, dal nome del suo presidente) presentò un rapporto al Consiglio europeo di Dublino nel dicembre 1984, nel quale si sollecitava la creazione di un vero e proprio mercato interno europeo ‟come tappa essenziale verso l'obiettivo finale della Unione Economica e Monetaria".

Ma la portata storica del Consiglio europeo di Milano del giugno 1985 non fu dovuta soltanto all'approvazione di quel Libro Bianco. Per iniziativa congiunta del cancelliere Kohl e del presidente Mitterrand esso deliberò la convocazione di una conferenza intergovernativa per la riforma del Trattato CEE, con il duplice mandato di preparare un progetto di trattato su ‟una politica estera e una politica di sicurezza comuni" e di procedere alle modifiche del Trattato necessarie all'attuazione degli adeguamenti istituzionali riguardanti il processo decisionale del Consiglio, il potere esecutivo della Commissione e i poteri del Parlamento, e anche lì - va notato - il Consiglio non faceva alcun riferimento al Progetto di trattato sulla Unione Europea approvato dal Parlamento.

La portata e l'ambizione del Libro Bianco sopra citato appaiono in chiara evidenza nel rapporto presentato da un ‛gruppo di esperti indipendenti', presieduto da Tommaso Padoa-Schioppa, incaricato dalla Commissione, nell'aprile 1986, di ‟studiare le conseguenze economiche di due decisioni prese dal Consiglio europeo nel 1985: l'allargamento della Comunità alla Spagna e al Portogallo e la creazione di un mercato europeo senza frontiere interne entro l'anno 1992". Dalla ‛lettera di trasmissione' di quel rapporto si può ricavare una nitida rappresentazione sintetica della portata dei problemi e delle soluzioni da adottare. Vi si prevede che ‟nel 1992 un'area di 320 milioni di consumatori e produttori, nella quale i beni, i servizi e i fattori della produzione circoleranno liberamente, costituirà un avanzamento sostanziale, in termini di efficienza, benessere e influenza nelle questioni economiche mondiali, rispetto al mercato del 1985, assai più ristretto e diviso da innumerevoli barriere interne. Questo progresso, però, avrà profonde conseguenze per le due funzioni della politica economica che, in ogni sistema e anche in quello comunitario, integrano e completano la politica di allocazione delle risorse e interagiscono con questa. Tali funzioni sono la stabilizzazione dell'economia e la ridistribuzione del reddito". Inoltre, viene richiamata l'attenzione su due tensioni che si manifesteranno con evidenza e a volte con drammaticità negli anni successivi: ‟da un lato, la completa liberalizzazione dei movimenti di capitale non è compatibile con il regime di stabilità dei tassi di cambio e di considerevole autonomia nella condotta delle politiche monetarie nazionali; dall'altro, la completa apertura del mercato interno di una Comunità allargata avrà effetti distributivi più forti e più laceranti di quelli manifestatisi negli anni sessanta, quando l'integrazione commerciale procedette fra paesi meno eterogenei e in un contesto di crescita economica più rapida". E in effetti tale previsione può valere come descrizione di quanto si verificò negli anni successivi. Perciò veniva raccomandata, da quel ‛gruppo di esperti', ‟una strategia sistematica, rivolta congiuntamente alle tre funzioni della politica economica: l'integrazione dei mercati, la stabilizzazione dell'economia e l'equa distribuzione dei benefici". E questi sono tre ordini di problemi con i quali si cimenteranno le istituzioni comunitarie nel corso del decennio che qui stiamo considerando: come prevedeva quasi contemporaneamente anche un altro rapporto elaborato sempre per incarico della Commissione da un gruppo di esperti ‛indipendenti' e anch'esso presieduto da un economista italiano, Luigi Spaventa, sul ‟futuro delle finanze comunitarie", presentato nel settembre 1986.

3. L'Atto Unico europeo e il Rapporto Delors

Nel settembre del 1985 ebbe inizio la Conferenza intergovernativa deliberata dal Consiglio europeo di Milano; l'accordo finale venne raggiunto nel Consiglio europeo di Lussemburgo il 17 dicembre, con l'approvazione dell'‛Atto Unico europeo' che entrò in vigore il 1° luglio 1987, dopo il deposito degli atti di ratifica da parte di tutti gli Stati membri.

La distanza di ben due anni - dal 1985 al 1987 - tra il raggiungimento dell'accordo e l'inizio della sua applicazione è chiara indicazione della complessità e lentezza, non soltanto procedurali, cui è costretto il faticoso percorso dell'europeismo: e tuttavia quell'Atto Unico, pur con i suoi limiti, apriva la strada a ulteriori riforme e progressi, instaurava procedure atte a facilitare le decisioni per le misure previste dal Libro Bianco.

La novità più importante dell'Atto Unico era quella riguardante la ‛cooperazione politica'. Questo termine aveva avuto fino ad allora il significato ben delimitato di una procedura di cooperazione, tra i singoli governi nazionali e non tramite le istituzioni comunitarie, su problemi di politica estera (tranne quelli concernenti la difesa). Con l'Atto Unico quella procedura veniva trasferita nell'ambito delle istituzioni comunitarie ed estesa anche alla difesa: anzi, vi si dichiarava che ‟una più stretta cooperazione anche riguardo ai problemi della sicurezza europea" avrebbe contribuito ‟allo sviluppo di una identità dell'Europa in materia di politica estera". Ma a questa proclamata ambizione non corrispondevano adeguate innovazioni sul terreno istituzionale e procedurale: l'obiettivo dell'unione politica - rispetto al quale la politica estera e di sicurezza comune rappresentava un primo passo - postulava invece l'impianto di nuove istituzioni o almeno di istituzioni sostanzialmente rinnovate e potenziate.

La Commissione assumeva di fronte al Parlamento, prima ancora dell'entrata in vigore dell'Atto Unico, l'impegno di ‟portare l'Atto Unico al successo": così si intitolava infatti il programma di lavoro che, a nome della Commissione, Delors presentò al Parlamento il 18 febbraio 1987 e al Consiglio europeo di Bruxelles il 29 giugno. Dall'Atto Unico il programma della Commissione faceva derivare - come dichiarò lo stesso Delors - ‟l'obbligo di realizzare simultaneamente il grande mercato senza frontiere, una maggiore coesione economica e sociale, una politica europea della ricerca e della tecnologia, il rafforzamento del sistema monetario europeo, la creazione di uno spazio sociale europeo, azioni significative in materia di ambiente".

Approvato quasi all'unanimità dal Parlamento nel novembre successivo, quel programma passò all'esame del Consiglio, e cioè di varie riunioni di Consigli dei ministri e di Consigli europei (di capi di Stato e di governo), accompagnate dal lavoro della Commissione che traduceva gli orientamenti in specifiche proposte e quindi in decisioni. Particolarmente importante fu la decisione, adottata nel giugno 1988 ad Hannover dal Consiglio europeo, di affidare a un comitato - presieduto da Delors - l'incarico di studiare e proporre il percorso che doveva condurre all'unione economica e monetaria, cioè un rapporto, detto ‛rapporto Delors', che venne puntualmente presentato al Consiglio europeo riunito a Madrid nei giorni 26-27 giugno 1989.

Quel rapporto è certamente, per il suo contenuto e anche per la sua data, un documento di particolare importanza nella storia della Comunità Europea e quindi nella vicenda dell'europeismo. Precedendo di meno di cinque mesi la caduta del muro di Berlino, tale rapporto assumeva, di fatto, il significato di un progetto mirante a creare, con l'‛approfondimento', le condizioni per l'‛allargamento' della Comunità. Esso si articolava in tre fasi: completamento del mercato interno e rimozione degli ostacoli alla integrazione finanziaria; formulazione e approvazione del nuovo Trattato; unione monetaria, fino alla creazione della moneta comunitaria unica. Era il percorso che doveva condurre, nel 1992, al Trattato di Maastricht, seguito poi da un nuovo importante rapporto della Commissione, noto come Libro Bianco di Delors, nel 1993.

Pochi giorni prima del Consiglio europeo di Madrid, nei giorni 15-18 giugno, era stato nuovamente eletto - per la terza volta a suffragio universale - il Parlamento europeo.

4. Per un'Europa più ampia e più unita

L'anno 1989, con il crollo del muro di Berlino, chiudeva un'epoca e ne apriva una nuova (un ‟nuovo inizio", come si usò dire). In meno di un anno la Germania era unificata. Appena un anno dopo si disfacevano il Partito Comunista dell'Unione Sovietica e la stessa URSS. Ne derivò un'accelerazione del cammino intrapreso verso l'Unione economica e monetaria europea. Ma cominciò anche a porsi l'interrogativo geopolitico: quale Europa? Un'Europa più ampia, e però anche - e prima ancora - un'Europa più saldamente e profondamente unita, capace di sostenere l'espansione geografica? Si profilava quella che doveva essere l'alternativa, la rincorsa o meglio la dialettica di ‛approfondimento' e/o ‛allargamento': questione centrale nel dibattito, nelle iniziative e nelle decisioni del primo quinquennio degli anni novanta.

La riunificazione della Germania faceva balzare in primo piano, finalmente, il problema e l'obiettivo della unificazione ‛politica' dell'Europa, a cominciare dalla unione in materia di politica estera e sicurezza. Ciò comportava - come ebbe a dire allora, con lungimiranza, François Mitterrand - un ‟glissement vers le fédéral", cui peraltro si opponeva ostinatamente il governo britannico guidato da Margaret Thatcher. Il danno causato dal ritardo nel procedere su questa via apparve evidente, di lì a poco, con la manifesta impotenza e inerzia dell'Europa di fronte all'aggressione dell'Iraq contro il Kuwait (la cosiddetta crisi e poi guerra del Golfo) e più tardi, in modo clamoroso e scandaloso, di fronte alla catastrofe iugoslava.

Nel 1990 due Consigli europei, tenutisi a Roma nei giorni 29-30 ottobre e 14 dicembre, stabilivano le direttive per le due conferenze intergovernative incaricate di tracciare il percorso verso il compimento dell'unione economica e monetaria e dell'unione politica, indicando gli obiettivi generali della politica estera e di sicurezza comune e le competenze e funzioni attribuite alle istituzioni comunitarie. Ma il segno più evidente dell'inizio della nuova epoca era ben percepibile nell'attenzione che il Consiglio europeo di dicembre dedicava alle relazioni con l'Unione Sovietica e con i paesi dell'Europa centrale e orientale.

Laboriosi e complessi furono i negoziati in seno alle due conferenze intergovernative nel corso del 1991. Il negoziato più arduo era certamente quello concernente la difesa europea comune, a proposito della quale occorre qui ricordare l'esistenza dell'Unione Europea Occidentale (UEO) costituita nel 1954 dai sei paesi fondatori della Comunità, ai quali si aggiunsero in seguito Regno Unito, Spagna e Portogallo. L'accordo sul nuovo trattato venne finalmente raggiunto nel Consiglio europeo tenutosi nei giorni 9 e 10 dicembre 1991 a Maastricht, la città olandese nel cui nome si sente ancora l'eco della sua origine come fortilizio a difesa del ponte romano della Mosa, ad Mosam traiectum. Nella stessa città il 7 febbraio 1992 il Trattato venne firmato dai ministri degli Esteri e delle Finanze degli Stati membri.

5. Il Trattato di Maastricht

Il Trattato di Maastricht è stato ampiamente e ripetutamente presentato, illustrato e commentato come una costruzione ‛a tre pilastri', che si trovano disegnati a grandi linee già nel secondo articolo (art. B), con l'enunciazione dei seguenti fondamentali obiettivi:

‟- promuovere un progresso economico e sociale equilibrato e sostenibile, segnatamente mediante la creazione di uno spazio senza frontiere interne, il rafforzamento della coesione economica e sociale e l'instaurazione di un'unione economica e monetaria il cui esito finale sia una moneta unica, in conformità delle disposizioni del presente trattato;

- affermare la sua identità sulla scena internazionale, segnatamente mediante l'attuazione di una politica estera e di sicurezza comune, ivi compresa la definizione a termine di una politica di difesa comune che potrebbe, successivamente, condurre a una difesa comune;

- rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati membri mediante l'istituzione di una cittadinanza dell'Unione;

- sviluppare una stretta cooperazione nel settore della giustizia e degli affari interni".

Vediamo allora come si configurano più precisamente e operativamente i tre pilastri, secondo i successivi articoli del Trattato.

Il primo è quello della Comunità Economica (CE), che unifica le tre Comunità preesistenti (CEE, CECA, EURATOM) sotto la guida - anzi si potrebbe dire sotto il governo - del Consiglio, del Parlamento e della Commissione. Viene ipotizzato uno sviluppo graduale che dovrà condurre alla completa fusione nella Unione Economica e Monetaria (UEM), con banca centrale europea e moneta unica, secondo un calendario la cui data finale si collocherà, a seconda della velocità del processo d'integrazione, tra il 1° giugno 1997 e il 1° gennaio 1999. Questa operazione viene qualificata come ‛federale' in virtù del cosiddetto ‟principio della sussidiarietà" enunciato nell'art. 3B, Titolo II, del Trattato, secondo il quale ‟nei settori che non sono di sua esclusiva competenza la Comunità interviene soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque [...] essere meglio realizzati a livello comunitario". Fermo restando questo principio, il Trattato amplia e rafforza le competenze della Comunità specialmente in materia di ricerca e sviluppo tecnologico, di ambiente, di legislazione sociale, di promozione culturale.

Il secondo pilastro è costituito dalla Politica Estera e di Sicurezza Comune (PESC), ‟istituita e disciplinata" - come annuncia l'art. J - dal Titolo V, artt. J1-J7. In realtà in questi articoli la PESC è proiettata nel futuro, non ancora istituzionalizzata. Soggetti attivi sono, nel corso di tutto il Titolo V, gli ‟Stati membri" che ‟si informano reciprocamente e si concertano in sede di Consiglio", il quale ‟ogniqualvolta lo ritenga necessario, definisce una posizione comune" (art. J2). È affermata, peraltro, la volontà di coordinamento delle politiche nazionali e di ricerca di posizioni comuni in seno alle organizzazioni internazionali; per la difesa è istituito un legame organico tra Unione Europea e UEO, alla quale - in quanto ‟parte integrante" dello sviluppo dell'Unione Europea - viene richiesto ‟di elaborare e di porre in essere le decisioni e le azioni della Unione aventi implicazioni nel settore della difesa" (art. J4/2). Ma tutte le disposizioni attinenti alla PESC ‟potranno essere rivedute - dispone ancora l'art. J4, comma 6 - in base a una relazione che il Consiglio presenterà al Consiglio europeo nel 1996 contenente una valutazione dei progressi attuati e dell'esperienza acquisita sino a quel momento".

Il terzo pilastro consiste nella ‟cooperazione intergovernativa" in funzione della ‟cittadinanza europea" istituita con l'art. G/C del Titolo II: in pratica riguarda principalmente la libera circolazione delle persone attraverso le frontiere degli Stati membri (come già a suo tempo convenuto tra Francia, Germania e Benelux con l'Accordo di Schengen del 1985) e perciò la responsabilità giudiziaria e di polizia in tale ambito. L'esilità di questo pilastro risulta particolarmente evidente al confronto con il Progetto di costituzione della UE che il Parlamento europeo ha votato nel febbraio 1994, approvando così il rapporto presentato dal deputato belga Fernand Herman (aderente al Partito Popolare Europeo), dove va subito notata e sottolineata l'attribuzione alla Corte di giustizia della competenza a pronunciarsi ‟su qualsiasi ricorso presentato da un privato, inteso ad accertare la violazione da parte dell'Unione di un diritto dell'uomo garantito dalla Costituzione" (art. 38 del Progetto).

Dal punto di vista istituzionale il Trattato di Maastricht va incontro in misura assai cauta e limitata all'esigenza di colmare il cosiddetto ‛deficit democratico': esigenza che si traduce in primo luogo nella proposta di estendere e rafforzare le competenze, le funzioni e i poteri del Parlamento europeo al riguardo. Tuttavia sul terreno della Unione Economica e Monetaria l'estensione dei poteri del Parlamento è rilevante e configura entro certi limiti un ruolo di ‛co-decisione'. Importante è anche il conferimento al Parlamento del potere d'investitura della Commissione, già esercitato nei confronti della Commissione nominata all'inizio del 1995. Ma in materia di politica estera e di sicurezza comune, il Parlamento, oltre a essere informato e consultato, può perfino ‟rivolgere interrogazioni o formulare raccomandazioni al Consiglio. Esso procede ogni anno a un dibattito sui progressi compiuti nell'attuazione della politica estera e di sicurezza comune" (Titolo V, art. J7). Sostanzialmente identiche sono le disposizioni concernenti il ruolo del Parlamento riguardo alla ‟cooperazione nei settori della giustizia e degli affari interni" (Titolo VI, art. K6).

Sempre rispetto alla suddetta esigenza democratica è importante - e promettente - l'istituzione del Comitato delle Regioni, con funzioni soltanto consultive, che però aprono canali di partecipazione più articolata e decentrata.

La Commissione presieduta da Delors collaborò attivamente e pochi giorni dopo la firma del Trattato inviò al Consiglio una comunicazione intitolata Dall'Atto Unico al dopo Maastricht: i mezzi per realizzare le nostre ambizioni, alle quali, tuttavia, non giovarono certo le resistenze e le esitazioni che si manifestarono clamorosamente, in Danimarca con l'esito negativo del referendum sul Trattato (poi superato con una ratifica ottenuta al prezzo di alcune deroghe concesse a quello Stato), e in Francia, con un esito del referendum, che, anche se positivo, metteva in evidenza una vasta opposizione nell'opinione pubblica di quel paese.

Il contributo più sostanzioso fornito dalla Commissione al consolidamento della Unione Europea fondata a Maastricht lo si trova nel Libro Bianco sulla strategia a medio termine per la crescita, la competitività e l'occupazione, presentato dalla Commissione al Consiglio europeo di Bruxelles il 10 dicembre 1993. Al centro vi è il problema della occupazione. Già nel par. 3 dell'introduzione il Libro Bianco avverte che l'Unione Europea si trova di fronte a una ‟disoccupazione di massa" che investe 17 milioni di persone, pari all'11% della popolazione attiva: impressionante aumento rispetto ai 12 milioni, pari all'8%, del 1990; esso enuncia e illustra, per far fronte a questa situazione ‟drammatica" e ai ‟problemi strutturali" che la determinano, una ‟strategia di crescita" animata da un energico ‟spirito di solidarietà" e articolata in una serie di precise proposte in materia soprattutto di ‟ricerca e innovazione, organizzazione del lavoro, qualità dei prodotti, nuovi mercati, iniziative nei settori dei trasporti, dell'energia, delle telecomunicazioni", associate a ‟nuove politiche" di educazione e formazione, miranti a un ‟nuovo modello di sviluppo economico".

Ma l'iniziativa della neonata UE per l'attuazione del Libro Bianco tarda ad avviarsi, anche a causa delle difficoltà di ordine soprattutto finanziario che affliggono gli Stati membri, a cominciare dall'Italia, oppressa da un crescente debito pubblico che l'ha costretta a uscire temporaneamente dallo SME (Sistema Monetario Europeo), mentre avrebbe dovuto incamminarsi verso la moneta unica europea. Tarda pure l'avvio di una politica estera di difesa comune, che viene demandato alla Conferenza intergovernativa indetta per il primo semestre del 1996, durante il turno di presidenza del governo italiano. Quindi i propositi e gli impegni di ‛approfondimento' della Unione Europea si proiettano su tempi ben più lunghi di quelli auspicati e annunciati. E ciò anche a causa dei concomitanti problemi di ‛allargamento' ai paesi dell'Europa centrale e orientale.

6. I problemi della nuova Unione e la prospettiva dell'allargamento

Può considerarsi una diretta conseguenza del Trattato di Maastricht l'accordo - firmato a Porto il 2 maggio 1992 - che la nuova Unione Europea stabiliva con i sette paesi della Associazione Europea di Libero Scambio (EFTA, European Free Trade Association): Austria, Finlandia, Islanda, Liechtenstein, Norvegia, Svezia, Svizzera. Era il preludio a quel processo di ‛allargamento' della UE che si prospettava in combinazione con il cosiddetto ‛approfondimento' avviato con il Trattato di Maastricht. E in queste due parole si trovano fin da allora sintetizzati i problemi, i propositi e gli sviluppi che dominano la storia dell'europeismo degli anni novanta.

L'Accordo di Porto con i sette paesi dell'EFTA, mirante alla creazione di uno ‟spazio economico europeo", apriva la strada ai negoziati per l'adesione all'Unione Europea di (secondo l'ordine cronologico delle domande formalmente presentate da ciascuno Stato) Austria, Svezia, Finlandia, Norvegia, mentre quella della Svizzera rimaneva bloccata dall'esito negativo del referendum del 6 dicembre 1992. Nel luglio 1990 avevano presentato domanda di adesione la Repubblica di Cipro e la Repubblica di Malta.

Ma evidentemente il problema e la prospettiva dell'allargamento assumevano nuova dimensione e portata storica in seguito all'abbattimento del muro di Berlino e al disfacimento dell'Impero sovietico. E tuttavia l'attività delle istituzioni della nuova Unione Europea nel suo primo anno di vita (è entrata formalmente in vigore il 1° novembre 1993) è dominata dai problemi di messa in opera del Trattato, tra i quali va acquistando un peso sempre maggiore - e drammatico - quello dell'occupazione e, su un altro terreno, quello della capacità operativa della progettata unione politica e di difesa, messa subito a dura (e negativa) prova dalla catastrofe iugoslava.

Il problema preliminare per l'allargamento dell'Unione Europea ai paesi dell'Europa centrale e orientale era quello di creare le condizioni economiche e politiche per consentire la graduale integrazione nel tessuto economico e politico del mondo occidentale e in particolare la loro transizione verso l'economia di mercato. A tal fine sono stati stipulati, nel corso degli anni 1991-1992, accordi di ‛associazione', prima con Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia (l'accordo con quest'ultimo paese è stato in seguito sostituito da due accordi distinti con la Repubblica Ceca e con la Slovacchia) e poi con Romania e Bulgaria. Accordi di cooperazione sono stati stipulati nel 1992 anche con i tre paesi baltici, Estonia, Lettonia e Lituania.

Il quadro complessivo dei problemi e anche dei risultati di tale intreccio di rapporti nella prospettiva dell'allargamento è stato presentato in termini chiari ed esaurienti al Consiglio europeo di Corfù (nei giorni 24-25 giugno 1994), che può considerarsi quasi il punto d'arrivo del decennio che qui abbiamo preso in esame. Seguendo l'ordine cronologico delle domande di adesione, quel Consiglio constatava: 1) che l'adesione di Cipro e Malta poteva considerarsi ormai ‟prossima"; 2) che ‟gli accordi europei con l'Ungheria e la Polonia sono ora in vigore" e che i due paesi ‟hanno presentato rispettivamente il 31 marzo e il 4 aprile 1994 la domanda per diventare membri della UE"; 3) che per quanto riguarda la Turchia sarà perseguito il ‟completamento della unione doganale prevista dall'accordo di associazione del 1964"; 4) che, come ha stabilito il Consiglio europeo di Copenaghen del giugno 1993, ‟i paesi associati dell'Europa centrale e orientale che lo desiderino possono diventare membri dell'Unione Europea non appena saranno in grado di soddisfare agli obblighi che ne derivano", parallelamente al ‟dialogo politico che dovrebbe essere pienamente ed efficacemente attuato in via prioritaria"; 5) che va perseguita la conclusione di accordi di associazione con gli Stati baltici in preparazione della ‟successiva adesione alla Unione"; 6) che ‟proseguiranno i contatti con la Slovenia al fine d'instaurare le migliori condizioni per una cooperazione accresciuta con tale paese". Intanto le domande di adesione di Austria, Finlandia e Svezia sono state accolte (la Norvegia è assente perché il referendum sull'adesione ha dato esito negativo) e i tre nuovi membri hanno partecipato al Consiglio europeo tenutosi a Cannes nei giorni 26-27 giugno 1995. Riunitosi per la prima volta con quindici membri, questo Consiglio ha accolto, nella sua seconda giornata, i rappresentanti dei nuovi paesi associati: sei dell'Europa centrale e orientale (Ungheria, Polonia, Romania, Bulgaria, Slovacchia e Repubblica Ceca), tre baltici (Lettonia, Lituania, Estonia) e i rappresentanti di Malta e Cipro, candidati all'adesione.

Ma l'attenzione di quel Consiglio si è rivolta anche verso Sud, sollecitando ‟i paesi dell'Unione Europea e i loro partners nel Mediterraneo a cooperare maggiormente affinché il bacino del Mediterraneo diventi una zona di scambi e di dialogo che garantisca la pace, la stabilità e il benessere di quanti vivono sulle sue sponde"; perché ‟una politica di cooperazione ambiziosa al Sud costituisce il complemento della politica di apertura all'Est e conferisce coerenza geopolitica all'azione esterna dell'Unione Europea". La Conferenza ministeriale euromediterranea (convocata a Barcellona il 27 e 28 novembre 1995) doveva costituire ‟un'occasione senza precedenti per i paesi dell'Unione Europea e i loro partners nel Mediterraneo occidentale e orientale di definire insieme le loro relazioni future".

Viene così accolta la proposta avanzata dalla Commissione il 19 ottobre 1994 nella sua ‛comunicazione' al Consiglio e al Parlamento europeo su Una politica mediterranea più incisiva per l'UE: instaurazione di un nuovo partenariato euromediterraneo. Le tappe del percorso per raggiungere tale obiettivo sono così indicate: prima, una ‟zona di libero scambio sostenuta da un cospicuo aiuto finanziario"; seconda, una ‟più intensa cooperazione politica ed economica"; per giungere, terza tappa, a una vera e propria ‟associazione"; e per creare finalmente una ‟zona euromediterranea di pace e stabilità". È evidente il ruolo di iniziativa e di guida di cui l'Italia si trova di fatto investita, data la sua posizione centrale nel Mediterraneo e considerato l'interesse suo preminente alla instaurazione di quella ‟pace e stabilità".

7. I problemi istituzionali della nuova e allargata Unione Europea

Col negoziato per l'adesione dei quattro paesi dell'EFTA si è aperto il dibattito sui problemi istituzionali derivanti già da questo ulteriore allargamento e a maggior ragione da quello ancor più ampio e variegato che si prospettava. I precedenti allargamenti si erano effettuati in dimensioni e con gradualità tali da consentire adeguamenti di facile applicazione al quadro istituzionale esistente prima di Maastricht. Ma già a Maastricht, oltre alla prevista conferenza intergovernativa del 1996 per verificare lo stato di attuazione del Trattato e intraprendere le opportune revisioni, una ‛dichiarazione' indicava la scadenza del giugno 1994 per la revisione del numero dei componenti della Commissione e del Parlamento in conseguenza dell'unificazione della Germania e del previsto ingresso dei paesi dell'EFTA. E nel dicembre del 1993 un'altra ‛dichiarazione' del Consiglio europeo riunito a Bruxelles annunciava e disponeva che la Conferenza intergovernativa convocata per il 1996 ‟oltre all'esame della funzione legislativa del Parlamento europeo e agli altri punti stabiliti nel Trattato della Unione Europea, avvierà l'esame del problema del numero dei membri della Commissione e della ponderazione dei voti degli Stati membri in sede di Consiglio. Esaminerà inoltre le misure necessarie ad agevolare i lavori delle istituzioni e a garantirne l'efficace funzionamento".

Tre mesi dopo, i dodici paesi della Unione pre-allargamento, in una riunione informale del Consiglio Affari generali tenutosi a Ioánnina (sotto la presidenza greca, 26-27 marzo) giungevano alla decisione - con quello che fu poi chiamato il ‟compromesso di Ioánnina" - di invitare il Parlamento, il Consiglio e la Commissione a elaborare relazioni riguardo alla messa in opera del Trattato di Maastricht, da trasmettere a un gruppo di lavoro composto da rappresentanti dei ministri degli Esteri, istituito dal Consiglio europeo di Corfù nel giugno 1994 e incaricato di elaborare proposte di riforma delle istituzioni europee per la prevista Conferenza intergovernativa del 1996. Il singolare ricorso al ‛compromesso' in luogo della decisione, dovuto soprattutto a esigenze e obiezioni avanzate dal governo britannico, è chiaramente indicativo della complessità e difficoltà di trovare soluzioni istituzionali adeguate ai problemi derivanti dall'intreccio di ‛approfondimento' e ‛allargamento' dell'Unione.

Di fronte a tali problemi e prospettive, che si proiettano sulle sorti e sul ruolo dell'Europa alla fine di questo secolo, il progetto di riforma - anzi, di nuovo impianto istituzionale - più organico e lungimirante è certamente quello del Progetto Herman approvato dal Parlamento europeo (v. cap. 5). Esso potrebbe davvero inaugurare una nuova epoca per l'europeismo, rendendone protagonisti non più gli Stati nazionali, ma i cittadini d'Europa. Questo è il significato profondamente innovativo del passaggio dal Trattato alla Costituzione come base giuridica e progettuale dell'Unione: all'origine e a fondamento, non più la volontà, le esigenze e convenienze degli Stati nazionali sovrani, bensì i diritti e i doveri dei cittadini europei. Quindi un impianto istituzionale non più prevalentemente intergovernativo, ma interamente sovranazionale e capace di realizzare, finalmente, il proposito federalista che ha sempre animato l'europeismo.