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Enciclopedia del Novecento (1997)
di Lewis S. Feuer
Sommario: 1. Definizioni preliminari: tipi di ‛dissenso'. 2. La
repressione del dissenso nell'Europa antica e medioevale. 3. La
libertà di dissenso e lo sviluppo della scienza e del
capitalismo. 4. La difesa liberale del dissenso. 5. Gli
intellettuali come dissenzienti o contestatori. a) Il caso
Dreyfus. b) Gli intellettuali come critici della cultura e della
società capitalistica. c) Gli intellettuali come nuova
élite politica. d) L'alienazione e la rinascita
dell'ideologia. e) L'alienazione e la giovane generazione. f) La
contestazione sessuale. g) I dissidenti sovietici. 6. Il dissenso
o contestazione nell'epoca contemporanea. a) Il declino della
contestazione dopo la seconda guerra mondiale. b) La ripresa della
contestazione negli anni sessanta: la protesta razziale. c) La
protesta contro il sistema costituito. d) L'irrazionalismo della
nuova contestazione. e) La protesta contro la civiltà. f)
Teorie relative alle cause della nuova contestazione. g) La crisi
della contestazione. h) Le conseguenze della nuova contestazione.
1. Definizioni preliminari: tipi di ‛dissenso'.
Il ‛dissenso' può essere definito come quel disaccordo di
opinioni che mette qualcuno in conflitto con la dottrina di una
chiesa, con la scienza e con l'arte ‛ufficiali', o con un regime
politico monolitico. Il termine ‛dissenziente' (dissenter)
entrò nell'uso nel XVII secolo in Inghilterra a indicare i
Presbiteriani e gli Indipendenti che erano in conflitto con la
monarchia a causa della loro libertà religiosa rispetto
alla Chiesa d'Inghilterra. Durante il XIX secolo, d'altra parte,
il termine cominciò a essere usato per denotare anche i
dissenzienti in fatto di problemi politici, economici e
scientifici. Dato che i non-conformisti in campo religioso erano
in realtà andati a ingrossare le schiere e le file di quasi
tutti i movimenti di riforma sia politica, sia sociale che
educativa, esisteva in tal modo un rapporto di filiazione diretta
fra il dissenziente religioso e quello politico e sociale.
Per formulare una tipologia dei dissenzienti, si devono operare
distinzioni tra le varie forme e motivazioni del dissenso. In
primo luogo, il dissenso può avere una genesi razionale o
una genesi emotiva. Il dissenziente ‛razionale' non fa del
dissenso un modo di vita; la sua opposizione, inoltre, si limita
solitamente a un solo campo. Così un dissenziente religioso
del XVII secolo poteva benissimo essere un mercante o un artigiano
che non era affatto in contrasto con il sistema economico o
politico, ma che voleva libertà di riunione per la propria
setta e l'esenzione dalle tasse imposte per il mantenimento della
chiesa ufficiale. Nella misura in cui la libertà religiosa
gli veniva negata, il dissenziente religioso era spinto a
trasformarsi in dissenziente politico, e a perseguire, per
esempio, la riforma del sistema parlamentare e l'estensione della
franchigia. Il dissenziente ‛razionale', tuttavia, allarga
l'ambito della sua opposizione soltanto sotto la spinta di
ostacoli esterni. Perciò da un punto di vista psicologico
egli è fondamentalmente differente dal dissenziente
‛emotivo', talvolta chiamato colloquialmente ‛testacalda'.
Quest'ultimo è emozionalmente incline ad abbracciare cause,
che potranno essere le più varie: dai movimenti di
emancipazione politica a quelli per nuovi tipi di alimentazione e
di abbigliamento. Nel decennio compreso tra il 1840 e il 1850, per
esempio, la ‛causa' politica fondamentale, in America, era
costituita dal movimento contro la schiavitù. Al movimento
abolizionista, però, erano connesse una moltitudine di
manifestazioni ‛compulsive' di dissenso. Riformatori
dell'alimentazione predicavano un ‛vangelo delle patate'; alcuni
si opponevano all'uso del fuoco per cucinare, e propugnavano
l'alimentazione con grano non macinato. Altri pretendevano che
venissero usati soltanto indumenti di lino, poiché
sostenevano che indossare vestiti di lana era un'iniquità
nei confronti della pecora. Altri ancora polemizzavano contro
l'uso del denaro, mentre dei giovani si proclamavano dissenzienti
lasciandosi crescere la barba. Le donne esortavano a indossare
sotto corte gonne pantaloni detti bloomers dal nome della loro
più nota sostenitrice. In un passo memorabile R.W. Emerson
descrisse il dissenso ‛compulsivo' dei Riformatori della Nuova
Inghilterra: ‟Quale fecondità di progetti per la salvezza
del mondo! Un apostolo riteneva che tutti gli uomini dovessero
dedicarsi all'agricoltura, e un altro che nessuno dovesse comprare
o vendere, che l'uso del denaro fosse il male fondamentale; un
altro ancora pensava che il misfatto stesse nel nostro tipo di
alimentazione, che noi mangiassimo e bevessimo la nostra
perdizione. Questi facevano il pane senza lievito. [...] Altri
attaccavano il sistema agricolo, l'uso di concimi animali nella
coltivazione. [...] Insieme a costoro comparvero gli adepti
dell'omeopatia, dell'idropatia, del mesmerismo, della frenologia.
[...] Altri attaccavano l'istituto del matrimonio come la fonte
delle sventure sociali [...]" (v. Emerson, 1903, pp. 252-253).
È un fatto che in tempi recenti, e in periodi particolari,
i movimenti di dissenso o di contestazione si sono manifestati a
grappoli. Il decennio tra il 1840 e il 1850, quello tra il 1880 e
il 1890, e quello tra il 1960 e il 1970 hanno avuto questa
caratteristica, in quanto vi si sono concentrate una
molteplicità di manifestazioni di dissenso politico,
economico, sociale, individuale, sessuale e artistico. Tale
concentrazione è il segno di ciò che si chiama
un'epoca d'irrequietezza sociale. Così, dissenzienti della
statura di G. B. Shaw e H. G. Wells hanno percorso entrambi
l'intero arco della contestazione, dalla perorazione a favore del
socialismo, al libero amore, al vegetarianismo, alla lotta contro
la vivisezione. In periodi di questo tipo è di solito
possibile distinguere l'eccentrico, che cerca istintivamente, in
modo esibizionistico, un atteggiamento di dissenso in ogni campo
dell'esistenza, dalla persona per la quale il dissenso è un
mezzo, non un fine in sé.
Il dissenso può ubbidire inoltre a due atteggiamenti: l'uno
di partecipazione, l'altro di secessione. Nel primo caso il
dissenziente pensa che, grazie a una determinata riforma, la vita,
nella sua società, potrebbe notevolmente migliorare;
comunque sia, egli non si sente portato a rifiutare la
società in cui vive o a condannarla in toto come negativa.
Egli si sente sostanzialmente a suo agio nella società, e
si attende che essa migliori; non dà alcun ultimatum
morale. Il dissenziente secessionista, invece, non può
tollerare ambiguità; il suo principio è quello del
tutto-o-niente. Se i motivi del suo dissenso non vengono superati,
egli pensa che il restare all'interno di quella società
finirà col corromperlo. Egli opera dunque una secessione;
emigra con i suoi compagni di fede in una nuova terra vergine, o
si ritira insieme a loro in un area isolata dove essi possono
fondare una comunità. I Mennoniti, gli Hutteriti, i
Douchoborcy tra i dissenzienti religiosi, e i seguaci di Owen, di
Fourier e di Cabet tra quelli socialisti, hanno dato vita a delle
secessioni. La tendenza a creare delle comuni, che ha avuto inizio
verso la fine degli anni sessanta, è stata una parziale
ripresa della contestazione secessionista.
Infine, vi sono coloro che difendono il diritto di ognuno a
dissentire, e che quindi ispirano il loro dissenso a una filosofia
liberale; questo tipo di dissenzienti lotta per la libertà
di pensiero, per la libertà di scelta entro qualsivoglia
sistema di vita, e per la libertà di associazione come fini
in sé. Altri, d'altro canto, considerano il diritto alla
conte- stazione come un momento tattico nella loro lotta per la
supremazia e il potere. Essi meditano, una volta conquistato il
potere, di privare gli altri della libertà di dissenso; la
difesa che essi ne fanno è dunque un'arma tattica per
ottenere una comunità totalitaria. È questa la
profonda differenza tra il dissenso di John Stuart Mill e quello
di V. I. Lenin.
Il liberale mira a rendere istituzionali, nella società, i
mezzi e le possibilità di dissenso. Il comunista ortodosso,
di contro, considera dissenso e contestazione come una sfida
inammissibile al regime comunista, e cerca di chiudere loro ogni
via di espressione nella sua società. I dissenzienti degli
ultimi anni nell'Unione Sovietica sono i continuatori di una forma
di dissenso che si è sempre manifestata in società
autoritarie, dittatoriali o totalitarie.
2. La repressione del dissenso nell'Europa antica e medioevale
La tolleranza nei confronti del dissenso e della contestazione
è un'acquisizione recente nella storia della
civiltà. Ciò perché il dissenziente sembrava
minacciare quei principî che erano alla base del comune modo
di vita, nonché la famiglia, la tribù o la nazione.
La libertà dei dissenzienti poggia sulla diffusa opinione
che nessuno detiene il monopolio della verità, che anche
persone per bene e ‛a posto' possono sbagliare e che,
fintantoché la gente vive fianco a fianco in pace e
amicizia, non c'è motivo perché si debba entrare in
contrasto per il fatto di avere idee differenti. Un atteggiamento
di questo tipo richiede una dose di autocontrollo emotivo e di
buona volontà, tale da non fissarsi sull'idea che la
famiglia, la tribù o la nazione posseggano un accesso
privilegiato alla verità. Questo pluralismo richiede una
vera e propria ‛rivoluzione copernicana'. Un dissenziente è
inconsciamente considerato dalla maggior parte della gente come un
fattore traumatico. Il dissenziente fa nascere dubbi là
dove, in precedenza, erano solamente certezze; egli suscita
ansietà nel mondo, prima sicuro, in cui si sono vissuti i
propri anni di formazione. Di conseguenza il dissenziente tende a
divenire oggetto di impulsi aggressivi, in quanto la reazione
spontanea è quella di colpirlo o di allontanarlo. Il
dissenziente porta spesso alla luce dubbi che forse si sta
cercando, con difficoltà, di reprimere entro se stessi.
L'uomo civilizzato, è stato detto, non ha paura di
riesaminare i propri principî. Il ruolo del dissenziente
consiste nello sfidare i principi, ma la forza di carattere
necessaria a sopportare la loro libera discussione è stata
conquistata da pochissime società, e soltanto in tempi
recenti.
Il diritto di dissentire ha trovato pieno fondamento e sostegno
nella struttura sociale solamente con l'avvento della moderna
società capitalistica competitiva, dal XVII secolo in poi.
Le società primitive, il mondo greco-romano, gli antichi
Ebrei e l'ordinamento medievale hanno sempre visto il dissenso con
sospetto, e l'hanno di fatto represso. Le società primitive
sono ostili verso chi devia dalle loro norme sociali; chi mette in
questione il dio della tribù è automaticamente uno
che, avendo troncato i suoi legami con questa, deve andare a
vivere altrove. Nell'Impero romano esistevano filosofie
contrastanti, ma non fu mai riconosciuto da nessuna di esse il
diritto di dissentire dalla politica imperiale, o di aderire ad
una setta dissenziente. Le cosiddette sette filosofiche, gli
stoici e gli epicurei, non si contrapposero mai né al
sistema religioso romano né al culto dello Stato. Piuttosto
esse proponevano interpretazioni filosofiche alternative delle
istituzioni religiose e imperiali di Roma. Durante il I secolo
dell'Impero romano gli stoici manifestarono un inizio di dissenso
nei confronti delle istituzioni imperiali, in quanto, essendo
legati alla nobiltà, essi diedero espressione articolata al
suo desiderio che Roma fosse governata dall'ordine senatorio.
Vespasiano, però, reagì con l'espulsione di tutti i
filosofi da Roma, un sistema che venne seguito di tempo in tempo
ogni qualvolta sembrava che una scuola filosofica potesse divenire
un centro di contestazione. L'opposizione degli stoici si
attenuò gradualmente quando essi prestarono servizio nella
burocrazia imperiale, e nell'anno 96 d.C. una forma burocratica di
stoicismo era divenuta la fede riconosciuta della grande
maggioranza delle classi colte di Roma, di ogni età e
condizione.
Quando un gruppo di dissenzienti è costretto a integrarsi
nelle istituzioni, la sua filosofia assume tinte pessimistiche.
Così si ebbe un'evoluzione nella storia dello stoicismo
dalle sue origini tra i discepoli della filosofia ottimistica e
cosmopolita di Zenone di Cizio, quando esso costituiva una
tendenza di dissenso nel mondo ellenico, fino alla melanconica
dottrina di Seneca, ministro di Nerone, che sosteneva che
studiando le cause della miseria individuale, si è talvolta
presi da odio nei confronti dell'intera razza umana. Epitteto
espresse la rinuncia a ogni dissenso da parte dello stoico quando
affermò: ‟Non augurarti che tutte le cose accadano come tu
desideri, ma desidera che accadano proprio come avvengono
realmente". Un immenso apparato di informatori e spie (i
delatores) estirpò ogni ‛dissenso' dall'Impero romano.
Ammiano Marcellino racconta che la gente aveva paura di rivelare i
propri sogni per timore di essere denunciata per il loro
contenuto. Da parte sua Procopio di Cesarea, che scrive ai tempi
di Giustiniano, asserisce che era impossibile eludere l'esercito
di spie e, una volta scoperti, sfuggire ad una morte terribile,
mentre non si poteva nutrire alcuna fiducia nemmeno nella
lealtà di coloro con cui si avevano i legami più
stretti. I dissenzienti cristiani furono temuti in primo luogo
perché costituivano una minaccia alla religione dello
Stato, fondamento del suo ordine sociale. Del resto, quando il
cristianesimo divenne religione dell'Impero, fece sua in tutto e
per tutto la dottrina tradizionale secondo cui il dissenso era una
minaccia per la società e per lo Stato, e non doveva esser
tollerato in nessun caso.
L'orrore nei confronti del dissenso si conservò come
caratteristica specifica del mondo medioevale. Come ha scritto lo
storico inglese G. G. Coulton: ‟dietro quella facciata imponente
della Chiesa medioevale si addensava una folla di timori,
generalmente inconsci, non frequentemente anche subconsci, ancor
più raramente confessati, tuttavia sempre molto profondi, e
tirannici nell'azione che esercitavano sulla mente ortodossa" (v.
Coulton, 1929, p. 23). Gli abusi sociali e la corruzione di molti
uomini di chiesa, comunque, offrirono il terreno adatto al fiorire
del dissenso. Il dissenziente medioevale fu l'eretico. L'eresia
albigese, che si caratterizzava per un dualismo teologico, ebbe
grande diffusione nella Francia meridionale, soprattutto nella
città di Tolosa. Nel XII secolo furono soprattutto i
mercanti e gli artigiani a essere attratti da questa eresia. A
Lione, Valdo predicò una vita di povertà evangelica,
e diede origine all'eresia valdese. Papa Innocenzo III
affermò che gli eretici nella Francia meridionale
costituivano la maggioranza, e nel 1208 invocò una crociata
per distruggerli. L'azione seguì ben presto. Tuttavia, uno
spirito di dissenso rimaneva vivo nell'Europa occidentale, sebbene
reso muto dalla paura, in special modo dell'Inquisizìone,
istituita di recente, la cui struttura prese una forma stabile tra
il 1230 e il 1233. Nelle università (per es. in quella di
Parigi) il dissenso si mantenne vivo tra gli studenti, assumendo
forme non ortodosse e persino anticristiane. Tommaso d'Aquino, in
un trattato contro gli eretici scritto intorno al 1269, si
lamentò del fatto che essi insegnassero in ogni angolo
delle università, e considerava come dovere di un cristiano
pretendere che essi fossero bruciati. I dissenzienti medioevali,
in realtà, sfidarono il primato dell'istituzione
fondamentale della loro epoca; essi rifiutavano la dottrina
secondo cui non esisteva ‟alcuna salvezza al di fuori della
Chiesa". Tutti i poteri delle istituzioni, in una società
assolutista, sono immancabilmente invocati contro i dissenzienti
quando la loro teologia o ideologia contenga una negazione della
legittimità del sistema istituzionale. I timori suscitati,
settecento anni dopo, dai dissenzienti sovietici e cecoslovacchi
saranno analoghi nella misura in cui essi metteranno in pericolo
la posizione di supremazia del partito comunista.
Quando l'Inquisizione riuscì a svolgere un ruolo dominante
nella formazione della politica nazionale, ogni tipo di dissenso,
religioso, politico, scientifico e sociale, fu represso, e la vita
intellettuale cadde in letargo. In Spagna, per esempio, alla fine
del XVI secolo, le università avevano subito un grande
declino. Solo cent'anni prima la Spagna era stata all'avanguardia
nel campo della matematica, della botanica, dell'astronomia e
della metallurgia; ma nel 1590 la situazione non era più
tale. L'espulsione degli Ebrei avvenuta nel 1492 fu in gran parte
dovuta all'idea che un regime politico assoluto non potesse
coesistere con un dissenso religioso e intellettuale.
L'élite militare-feudale accolse con gioia la
possibilità di liberarsi da una élite commerciale e
capitalista rivale, ma la decisione definitiva spettò ai
monarchi, Ferdinando e Isabella; lo spirito di dissenso procurava
loro una tale ripugnanza da sembrargli più importante del
contributo commerciale e amministrativo dato dagli Ebrei.
3. La libertà di dissenso e lo sviluppo della scienza e del
capitalismo
Durante tutto il secolo XVI e il XVII le sette di dissenzienti
religiosi si moltiplicarono. La rivolta degli anabattisti di
Münster (1534), capeggiata da Thomas Münzer,
colpì l'Europa per il suo programma estremistico ispirato
al comunismo e alla liberazione sessuale. La gamma dei
dissenzienti andava, appunto, dagli anabattisti fino al mite
quietismo dei Quaccheri, dei Collegianti e dei Mennoniti. La
società, tuttavia, imparò a tollerare il
dissenziente solo dopo aver pagato uno spaventoso scotto in
termini di vite e distruzioni nel corso di guerre religiose durate
due secoli. Poiché le sette si moltiplicavano, e il potere
organizzato delle chiese ufficiali declinava, il dissenziente
acquistò una certa libertà di espressione. Adam
Smith, nella Ricchezza delle nazioni, formulò la condizione
pluralistica necessaria a che il dissenso sia tollerato: ‟Lo zelo
interessato e attivo dei predicatori religiosi può essere
pericoloso e pernicioso solo laddove nella società vi sia
una sola setta accettata, o dove l'intero corpo di una grande
società sia diviso in due o tre grandi sette. [...] Ma
quello zelo è di necessità del tutto innocuo dove la
società sia divisa in duecento o trecento, o magari in
migliaia di piccole sette, nessuna delle quali possa avere
sufficiente rilievo da turbare la tranquillità pubblica. I
predicatori di ciascuna setta, vedendosi circondati da ogni parte
più da avversari che da amici, sarebbero costretti a
imparare quel candore e quella moderazione che è raro
trovare tra i predicatori delle grandi sette, [...] sostenute dal
magistrato civile [...]".
Che l'Europa sia stata salvata dal fanatismo, e che vi sia stata
creata una base sociale e intellettuale per il dissenso, fu dovuto
in buona parte all'alleanza tra due movimenti in ascesa, quello
della scienza e quello dell'economia borghese. Gli scienziati, con
il loro metodo di scoprire verità attraverso ipotesi
sperimentali, osservazioni ed esperimenti, crearono un clima
intellettuale in cui il dissenziente poteva sentirsi a suo agio.
Per di più, gli stessi scienziati dissentivano in vario
grado dalla teologia e dalla pratica delle chiese ufficiali.
Sebbene Copernico fosse un canonico cattolico, affidò la
pubblicazione della sua grande opera De revolutionibus orbium
cølestium (1543) all'ecclesiastico luterano Osiander.
Keplero detestava i dogmi, quale quello della predestinazione;
egli perse il suo posto di professore a Graz, nel 1600,
perché si era rifiutato di convertirsi al cattolicesimo, ma
in seguito, nel 1612, i luterani lo scomunicarono come
‛ortodosso', poiché rifiutava di affermare che i calvinisti
sarebbero andati all'inferno. L'università di Padova, nel
territorio di Venezia, divenne il centro scientifico più
famoso d'Europa proprio perché ogni sorta di dissenzienti e
contestatori, protestanti, ebrei, musulmani, vi erano i benvenuti.
Alma mater di scienziati della levatura di Vesalio e William
Harvey, essa fu l'università in cui Galileo Galilei
insegnò liberamente per molti anni. Venezia, del resto, era
nota per la sua benevolenza nei confronti dei dissenzienti e, a
seguito dell'espulsione dei gesuiti, essa fu colpita
dall'interdetto del papa nel 1606. Così la scienza e lo
spirito commerciale borghese furono alleati fin dall'inizio.
Nel XVII secolo le città commerciali olandesi divennero i
templi dei dissenzienti di tutta Europa. Ebrei che fuggivano
l'inquisizione spagnola, English pilgrims che si sottraevano alla
persecuzione della Chiesa d'Inghilterra, Descartes che, dopo la
condanna di Galileo, temeva per la sua sicurezza in Francia, John
Locke che era sfuggito a una delazione politica a Oxford, e una
miriade di sette e di loro membri trovarono in Olanda la loro oasi
di libertà. Descartes scrisse nel 1629 come avesse trovato
rifugio per il suo dissenso filosofico nella commerciale
Amsterdam: ‟In questa grande città, dove ognuno tranne me
è impegnato negli affari, ciascuno è così
preoccupato del proprio profitto che io potrei restare qui tutta
la vita senza che nessuno se ne accorgesse. [...] Quale altro
posto del mondo si potrebbe scegliere, in cui tutte le
comodità della vita e tutti i passatempi che si possono
desiderare siano altrettanto facili da trovare che qui? In quale
altro paese si potrebbe godere di una libertà così
completa e riposare con minore ansia che qui [...]?" Spinoza, nel
suo Tractatus theologico-politicus, la prima apologia filosofica
del dissenso, vide in termini analoghi il rapporto tra lo spirito
commerciale e la libertà di dissenso: ‟La città di
Amsterdam raccoglie il frutto di questa libertà nella sua
grande prosperità e nell'ammirazione di ogni altro popolo.
Perché in questo stato splendidamente fiorente, e in questa
città davvero stupenda, uomini di ogni nazione e religione
vivono insieme nella massima armonia, e non fanno domande, prima
di affidare le proprie ricchezze a un altro uomo, se non per
chiedere se egli sia ricco o povero, e se egli, di solito, si
comporti onestamente o meno. La sua religione e setta vengono
considerate cose di nessuna importanza [...]". L'economista
olandese Pieter de la Court, contemporaneo di Spinoza,
enunciò esplicitamente il legame essenziale tra libero
scambio di merci sul piano economico e libera circolazione di
tutte le idee, comprese quelle dei dissenzienti. ‟La
libertà e la tolleranza" egli scrisse ‟per ciò che
concerne il servizio o il culto di Dio, sono un mezzo potente per
trattenere in Olanda molti dei suoi abitanti, e per attirare
stranieri a stabilirsi tra noi". L'Olanda, egli diceva, aveva
conquistato la supremazia commerciale perché promuoveva la
libertà più delle nazioni rivali; ‟inoltre,
né in Francia né in Inghilterra esisteva alcuna
libertà religiosa, ma c'era in entrambe un governo
monarchico, con forti dazi sulle merci importate ed esportate
[...]". Il liberalismo economico era in tal modo connesso al
liberalismo religioso, e a sua volta il dissenziente nel campo
delle idee era il corrispettivo dell'innovatore in campo
commerciale e industriale.
In Inghilterra, il Toleration act del 1689 garantì
libertà di culto ai dissenters, cioè a quei
protestanti che rifiutavano di fare atto di sottomissione alla
Chiesa ufficiale nazionale. E tuttavia erano loro precluse tutte
le cariche pubbliche, e ancora nel 1703 Daniel Defoe, il futuro
creatore di Robinson Crusoe, fu condannato alla gogna per aver
scritto un pamphlet, The shortest way with the dissenters, che
avanzava ironicamente la proposta che essi fossero tutti banditi e
che i loro predicatori fossero impiccati. Si deve rammentare che
alla classe dirigente tory, che ricordava ancora la rivoluzione di
Cromwell, i dissenters apparivano come dei fanatici che, ove ne
avessero avuto la possibilità, avrebbero imposto una volta
di più la loro dittatura, e abrogato le libertà
inglesi. I dissenters si affermarono soprattutto tra le classi
mercantili e artigiane. Poco a poco ogni interdizione nei
confronti dei dissenzienti venne a cadere. Le richieste di
professione di fede non erano più praticate nei loro
confronti, e nel 1828 il parlamento le abrogò del tutto.
L'anno successivo ebbero egualmente termine le restrizioni dei
diritti politici nei confronti dei cattolici romani; gli Ebrei
ottennero il diritto di entrare in parlamento nel 1858; mentre il
bando contro gli atei fu abolito nel 1884. Fino al 1871 il
parlamento non aveva ancora deliberato che fossero aboliti i
requisiti religiosi necessari per poter ricoprire incarichi nelle
Università di Oxford e Cambridge, sebbene una legge del
1854 avesse abrogato la professione di fede per quello che
riguardava la concessione dei diplomi. Il problema del dissenso
religioso perse praticamente ogni rilevanza nella misura in cui un
dissenso più apertamente sociale ed economico veniva in
primo piano.
La libertà di dissenso intellettuale finì per essere
considerata la base del progresso; il dissenziente era l'elemento
variabile individuale, la fonte dell'originalità senza la
quale non poteva darsi alcun progresso sociale. I teorici del XVII
secolo consideravano uno Stato caratterizzato dal libero commercio
come la condizione necessaria e sufficiente alla salvaguardia del
dissenso. Nel XX secolo, il famoso socialista inglese, studioso di
scienza politica, H. J. Laski, ha sostenuto nel suo libro The rise
of european liberalism, con abbondanza di documentazione storica,
che la società capitalistica è stata condizione
sufficiente per il riconoscimento della libertà di
dissenso, ma, come socialista, affermava che essa non è una
condizione necessaria. Lo sviluppo del ‛capitalismo monopolistico'
metteva in pericolo, a suo giudizio, il principio della
libertà di dissenso; egli pensava che soltanto una
società socialista potesse garantire la libertà
intellettuale. Nel dibattito che è tuttora in corso,
d'altra parte, eminenti studiosi di scienze politiche come Fr. A.
von Hayek hanno sostenuto che la struttura di una società
socialista sarebbe ostile al dissenziente. Questo perché,
secondo von Hayek, in quella società il potere economico e
politico tende a concentrarsi nelle mani di una burocrazia
pianificatrice. Sono i suoi valori a determinare l'assegnazione
delle risorse della comunità, ed essa ha il potere di tener
fuori il dissenziente dalle proprie decisioni; un'economia
pianificata a proprietà e controllo statali, non ha alcun
principio pluralistico; tutti i suoi organismi sono soggetti ad
alcuni imperativi fondati su valori arbitrari. Lo scrittore
dissenziente scopre che l'editoria di Stato non accetta i suoi
manoscritti; al dissenziente religioso non è permesso di
organizzare una chiesa; allo studente contestatore viene negato il
ciclostile; chi dissente dalla ‛scienza ufficiale' scopre che i
suoi lavori sono rifiutati dalle riviste ufficiali, mentre egli
stesso viene espulso dagli istituti di ricerca. Il professore
destituito, lo studente espulso, il ricercatore licenziato,
l'autore rifiutato non hanno università, istituti o editori
alternativi cui rivolgersi, che siano indipendenti dal sistema a
controllo statale. Di conseguenza, nelle società
socialiste, il dissenso tende a languire e a vanificarsi, tranne
che in condizioni particolari. Secondo pensatori quali von Hayek e
J. A. Schumpeter, la condizione necessaria per la libera
manifestazione del dissenso nella società è
l'esistenza di una fiorente economia capitalistica.
4. La difesa liberale del dissenso
Questo problema del futuro del dissenso e delle libertà
individuali nelle società socialiste costituì la
preoccupazione dominante del grande teorico del liberalismo, John
Stuart Mill. Nelle condizioni della società moderna, questo
era il timore di Mill, la mediocrità è crescente;
tanto la classe media che quella lavoratrice nutrono avversione
per le personalità genuinamente originali. Il progresso
della società dipende invece, secondo Mill, dall'esistenza
di forti individualità; la funzione dei dissenzienti
consiste nel mantenere aperta ‟una pluralità di
prospettive" di vita. Se le individualità venissero
soffocate, allora si stabilirebbe un ‟dispotismo del comportamento
convenzionale" che porrebbe davvero fine al progresso. Le
società bizantina e cinese furono esempi di società
statiche in cui il dissenziente era stato eliminato. Ogni
dissenziente rappresentava per Mill un diverso esperimento di
vita, e, per rendere possibili tali esperimenti, egli auspicava
una società che sapesse tollerare persino le
eccentricità estreme. In una società che reprimesse
i dissenzienti la stessa personalità umana subirebbe una
‛compressione'; in tal modo il represso e gretto calvinista, che
gode di un tetro piacere nel limitare i piaceri degli altri,
diventerebbe il tipo di personalità-modello dell'intiera
società.
Per Mill, dunque, il dissenso è un elemento essenziale nel
‟libero sviluppo della personalità", sul quale poggia la
speranza della società in un ‟benessere spirituale". Senza
il dissenziente la società ricadrebbe nel torpore; la
spontaneità creativa e la varietà degli individui
cesserebbero. E Mill temeva che la società occidentale si
trovasse ormai di fronte a questa malaugurata eventualità:
‟Nella nostra epoca ognuno, dalla classe più elevata della
società fino a quella più bassa, vive come sotto il
controllo di una censura ostile e temuta".
Ciò che preoccupò particolarmente Mill per il futuro
del dissenso fu il fatto che i riformatori e i rivoluzionari
socialisti erano anch'essi psicologicamente ostili nei confronti
dei contestatori. Mentre si apprestava a scrivere il suo saggio On
liberty Mill scrisse a H. Taylor che ‟quasi tutti i progetti dei
riformatori sociali di oggigiorno sono in realtà
liberticidi". Da Saint Simon ad Auguste Comte, affermò
Mill, il loro scopo è la ‟dittatura"; per es., il progetto
di Comte per ‟il dominio assoluto e indiviso di un singolo
Pontefice sull'intera razza umana", atterrisce per il ‟quadro di
completo asservimento e schiavitù". Mill giunse a credere
che ‟un istinto di dominio", ‟un godimento nell'esercizio del
dispotismo, nel tenere altri esseri asserviti alla nostra
volontà", fosse sempre presente negli uomini, e facesse
loro desiderare di reprimere ogni dissenso. Né egli
trovò che i socialisti rivoluzionari dell'Associazione
Internazionale dei Lavoratori avessero alcuna simpatia per lo
spirito del libero dissenso. Il loro ‟principio animatore" parve a
Mill essere l'‟odio". Essi sembravano attratti dal caos, del tutto
incuranti del fatto ‟che il caos è la situazione di gran
lunga più sfavorevole per dare inizio all'edificazione di
un mondo"; evidentemente, essi erano appagati dal pensiero della
distruzione dell'ordine esistente, anche se avesse determinato ‟la
comune rovina". ‟Il sistema di gestione comunista", scrisse Mill,
sarebbe stato ‟meno favorevole di quello privato all'apertura di
nuovi orizzonti"; a esso sarebbe mancata l'audacia ‟indispensabile
a ogni grande progresso", e avrebbe risolto i problemi ‟in una
maniera più o meno arbitraria" (v. Mill, 1967, pp.
742-749). Persino nel 1849, quando l'entusiasmo rivoluzionario era
al suo apice, Mill temeva che la vita sotto il comunismo sarebbe
stata ‟una sorta di morto livellamento", e che sarebbe stato il
dissenso a estinguersi e non lo Stato. Egli indicò come un
irrisolto ‟problema sociale del futuro" il modo per salvare lo
spirito del dissenso in un mondo socialista, ‟il modo per unire la
massima libertà di azione individuale alla proprietà
comune delle materie prime del globo [...]", per conciliare la
libertà e l'originalità delle singole persone con
l'organicismo politico-statuale.
5. Gli intellettuali come dissenzienti o contestatori
a) Il caso Dreyfus
Alla fine del XIX secolo, gli esponenti del dissenso erano i
cosiddetti intellettuali, poiché l'ideologia aveva quasi
completamente rimpiazzato la teologia come forma di manifestazione
del dissenso. La rivoluzione del 1848 è stata definita
dallo storico inglese L. Namier ‟la rivoluzione degli
intellettuali". Il termine, comunque, divenne di uso comune nel
1898, in occasione del fermento suscitato in Francia dal caso
Dreyfus. Il 14 gennaio 1898 il giornale ‟L'Aurore" pubblicò
una protesta ‟contro la violazione delle forme giuridiche nel
processo del 1894"; essa era firmata da esponenti della
letteratura francese quali Anatole France, Émile Zola e
Marcel Proust, e da più di trenta professori della Sorbona,
del Collège de France, dell'École Normale e della
Facoltà di medicina. Per una felice ispirazione, Georges
Clémenceau, uomo politico e giornalista, stampò a
tutta pagina, a mo' di titolo della protesta, Manifeste des
intellectuels.
Il giorno dopo il critico letterario Ferdinand Brunetière,
antidreyfusardo, derise coloro che avevano ‟creato il termine
‛intellettuali' per designare, come se si trattasse di
un'aristocrazia, individui che vivono nei laboratori e nelle
biblioteche", e che pretendono di essere ‟superuomini" della
politica. Ben presto gli antidreyfusardi arrivarono a indicare gli
‛intellettuali' come il nemico, e la parola entrò nell'uso
dovunque, in Europa, in America, in Asia.
Però in realtà questo ceto, gli intellettuali,
rappresentava qualcosa di più che non semplicemente gli
uomini colti o i liberi professionisti. Si poteva essere un
ingegnere, un medico, un avvocato o un insegnante senza essere un
‛intellettuale'. Si diveniva un intellettuale quando si faceva
propria la vocazione al dissenso, presentando se stessi come la
coscienza autentica della società. Gli intellettuali
sfidavano le élites tradizionali della società,
quella militare e quella clericale; da questo punto di vista essi
erano i discendenti diretti dei philosophes, Voltaire, Diderot,
D'Alembert e Condorcet. I philosophes si erano schierati contro
l'ancien régime e l'autorità della Chiesa. Spesso
rischiando di persona, essi avevano sfidato, eluso con astuzie o
blandito la censura, e si erano fatti portavoce della scienza
newtoniana e della filosofia lockiana contro le dottrine
tradizionali. La loro lotta contro la società costituita
aveva trovato espressione nelle parole di Voltaire:
‟Écrasez l'infâme". Voltaire aveva fatto di casi
particolari d'ingiustizia, come l'affare Calas, altrettante
occasioni propizie per mettere sotto accusa e screditare il regime
ufficiale. Così prese radici in Francia l'idea che la
missione dei pensatori consistesse nel guidare il popolo, e
nell'esprimerne la coscienza contro le élites tradizionali.
b) Gli intellettuali come critici della cultura e della
società capitalistica
Gli intellettuali, d'altra parte, portarono il loro dissenso ben
al di là di quello dei philosophes; essi, infatti, erano
spesso in disaccordo con i valori della società borghese.
Voltaire e gli enciclopedisti, al contrario, avevano considerato
un'economia competitiva, fondata sulla proprietà privata,
come il migliore supporto economico per le libertà
individuali. Intellettuali come Anatole France ed Émile
Zola, invece, si trasformarono in critici della società
capitalistica e dell'élite economica. In tal modo gli
intellettuali, in quanto oppositori del sistema istituzionale
borghese, finirono col non essere più soltanto dei
dissenzienti; il loro dissenso si confuse con un loro nuovo ruolo
di presumibili portavoce della classe operaia e di una nuova
società socialista. Così Lenin, nel suo libro Che
fare?, generalizzò questa evoluzione storica nella tesi che
gli intellettuali apportano una coscienza socialista alla classe
operaia; senza gli intellettuali, sosteneva, i lavoratori non
riuscirebbero mai a superare il momento della coscienza
economico-rivendicativa. Secondo Lenin, dunque, senza gli
intellettuali i lavoratori non riuscirebbero mai a liberarsi dei
valori e dell'ideologia dominanti. Gli intellettuali che avevano
reciso i loro legami con la società costituita erano i loro
maestri di dissenso e di rivoluzione.
Si sono avanzate molte teorie circa le motivazioni degli
intellettuali nel dissentire dall'ordine e dai valori costituiti.
J. Schumpeter, l'economista e sociologo austro-americano, riteneva
che gli intellettuali fossero vittime di una mentalità
anticapitalistica e che costituissero il fattore principale del
declino del capitalismo. Certamente la parola ‛alienazione'
è divenuta lo slogan più popolare tra gli
intellettuali dissenzienti; essa sta a significare la loro
estraneazione da ciò che essi considerano come la
cosiddetta etica protestante del lavoro, la società
competitiva, la venalità dei rapporti capitalistici, il
livellamento della vita culturale, la monotonia del lavoro
meccanizzato. Durante la depressione degli anni trenta il termine
polemico più usato era ‛sfruttamento'; negli anni sessanta,
invece, era ‛alienazione'. È certo che gli intellettuali,
come tipo sociale, sono sempre stati inclini a contestare una
società commerciale; dalla Repubblica di Platone in poi le
fantasie utopistiche degli intellettuali hanno sempre descritto
società in cui essi costituivano l'élite dominante.
I progetti di H. O. Wells, teorico fabiano, e del giornalista
americano E. Bellamy, hanno in comune con la classica utopia di
Tommaso Moro e con la Città del sole di Campanella la
visione di una società retta da un'autoritaria élite
intellettuale. La cultura universitaria è stata incline per
secoli e secoli ad assumere atteggiamenti di dissenso
perché le università, sia come centri di teologia e
filosofia che, più tardi, di scienza, sono sempre state
dirette da docenti che, in vario modo, hanno rinunciato ai
vantaggi di una carriera militare, politica o nel mondo degli
affari, a favore di una vita in cui sono prevalenti i valori
spirituali. Ma mentre i monaci nei monasteri si erano sottratti
alla vita sociale, professori e baccellieri delle
università erano ancora parte della società, e vi
diffondevano la tesi che la loro vocazione fosse quella
aristocratica, superiore alla vocazione di ogni altra
élite, di essere reggitori della società.
c) Gli intellettuali come nuova élite politica
In tal modo gli intellettuali dissenzienti non soltanto si
proclamarono coscienza della società; essi dichiararono
anche apertamente la loro ambizione politica di essere i reggitori
della società. La vocazione di una élite morale
tendeva a coincidere con la sua pretesa di essere élite
politica. Questo atteggiamento degli intellettuali dissenzienti
suscitò molte critiche. Un conservatore come W. Churchill
dichiarò (1933) che gli intellettuali erano spinti contro
la propria società da un impulso autodistruttivo, che essi
riversavano sul loro paese uno ‟stato d'animo di ingiustificabile
auto-degradazione"; un critico come J. Benda disse che essi,
trasformandosi in politici settari, avevano tradito la loro
vocazione al pensiero disinteressato; O. Sorel disse che essi
erano essenzialmente una casta egocentrica, mentre V. Pareto ebbe
a scrivere che gli ‛intellettuali' europei, come i mandarini
cinesi, sono i governanti peggiori (v. Pareto, 1921). In campo
socialista, d'altro canto, Lenin fustigava gli intellettuali
borghesi per la loro continua insistenza sulla libertà di
discussione, mentre negli Stati Uniti D. De Leon, come molti altri
esponenti sindacali, accusava gli intellettuali di volersi servire
dei lavoratori per ottenere per sé i privilegi del potere.
Nondimeno, dal tempo del caso Dreyfus gli intellettuali divennero
i portavoce principali del dissenso. Allo scoppio della prima
guerra mondiale R. Rolland, con il suo Au-dessus de la
mêlée, ebbe un ruolo di primo piano nel sollecitare
gli intellettuali a capeggiare l'opposizione allo sterminio e alla
distruzione della civiltà europea. In Inghilterra, il
filosofo B. Russell fu condannato a un periodo di carcere per aver
svolto attività analoghe. Dieci anni più tardi
furono gli intellettuali a guidare la protesta contro la sentenza
del processo a Sacco e Vanzetti negli Stati Uniti. Dopo la seconda
guerra mondiale furono intellettuali come J.-P. Sartre e S. de
Beauvoir a capeggiare un ampio movimento di dissenso contro i
tentativi del governo francese di reprimere la rivolta algerina. A
livello mondiale, la critica all'intervento militare degli Stati
Uniti contro il Vietnam del Nord fu fin dal suo inizio, nel 1964,
essenzialmente opera di intellettuali.
E tuttavia, pensatori della statura di A. Camus e R. Aron hanno
nutrito profonda diffidenza circa il carattere e le vere
motivazioni dei dissenzienti. H. J. Laski, il maggior
intellettuale laburista inglese degli anni trenta-quaranta,
scrisse una volta che era stato il fallimento degli intellettuali
italiani e tedeschi che aveva permesso a Mussolini e a Hitler di
conquistare il potere, e che il fallimento degli intellettuali
francesi aveva demoralizzato la nazione alla vigilia della guerra.
Il dissenso degli intellettuali aveva inoltre contribuito a minare
il coraggio e la fiducia in sé stesse delle repubbliche
democratico-liberali che dovevano difendersi dal fascismo e dal
nazismo. Durante gli anni venti-trenta, negli Stati Uniti, un
esercito crescente di dissenzienti proclamò la bancarotta
dei valori liberali e previde il prossimo trionfo di quelli
comunisti. Molti intellettuali si recarono in visita in Unione
Sovietica e pubblicarono resoconti entusiastici che divennero un
documento collettivo di dissenso nei confronti della propria
società. Il filosofo J. Dewey riteneva nel 1928 che gli
insegnanti avessero in Unione Sovietica un ruolo di guida nella
loro società assai maggiore che non negli Stati Uniti;
altri intellettuali esaltavano la facilità del divorzio e
la libertà dei costumi sessuali, il ruolo degli economisti
nel formulare e dirigere i piani economici sovietici, i
riconoscimenti e il ruolo sociale attribuiti agli scrittori.
Filosofi, educatori, assistenti sociali, economisti, romanzieri,
credettero di vedere i loro colleghi far parte integrante
dell'élite dirigente sovietica. Famosi fabiani come B. e S.
Webb e O. B. Shaw, durante la prima metà degli anni trenta
e fin oltre la metà del decennio, videro nel Partito
comunista sovietico la realizzazione di quel che era sempre stato
il loro ideale e cioè il potere esercitato da esperti,
tecnici e scienziati. L'‛alienazione' dell'intellettuale,
l'estraneazione del dissenziente sembravano loro essere state
finalmente superate nella società sovietica. Poco tempo
più tardi una repressione estremamente dura si
abbattè su ogni forma di dissenso intellettuale nella
società sovietica, e proseguì fino alla morte di
Stalin nel 1953. Gli intellettuali occidentali sembrarono, a
un'analisi retrospettiva, esser stati più dei dissenzienti
impulsivi che dei critici su basi scientifiche delle loro
società; la loro infatuazione nei confronti della
società sovietica, la loro incomprensione delle sue reali
caratteristiche, le loro analisi sociali del tutto sbagliate
furono giudicate nell'epoca post-stalinista più come delle
proiezioni ideologiche di sentimenti inconsci che come conclusioni
di uno studio della situazione reale. Di conseguenza, molti che in
precedenza erano stati dissenzienti furono presi sul finire degli
anni quaranta e negli anni cinquanta da una sorta di complesso di
colpa, specialmente dopo che N. Chručšëv pronunciò,
nel 1956, il suo famoso discorso al XX congresso del Partito a
Mosca. Il movimento della ‛fine dell'ideologia' tra gli
intellettuali occidentali risale a questo periodo. Le autorevoli
pubblicazioni di R. Aron e D. Bell, gli scritti di I. Silone, I.
Berlin e K. Popper concordavano nella convinzione che il dissenso
era veramente costruttivo quando operava entro il contesto del
sistema economico-sociale liberale; essi sostenevano che le
società democratico-liberali consentivano un atteggiamento
duttile e scientifico e l'attuazione delle riforme necessarie. Le
ideologie, con le loro false leggi storiche onnicomprensive,
esacerbavano solamente l'odio fra gli uomini, si prestavano a
giustificare crudeltà inaudite, asservivano la scienza ai
capricci di un'élite burocratica egoista e di vedute
anguste, e aprivano la strada a società totalitarie in cui
la polizia segreta eliminava ogni dissenso. L'ideologia era
ritenuta una forma di pensiero in cui il mito si nascondeva sotto
la terminologia delle scienze sociali; essa si caricava degli
stati d'animo alternativamente sadici e masochistici degli
intellettuali dissenzienti, come aveva fatto un tempo la
religione.
d) L'alienazione e la rinascita dell'ideologia
Durante gli anni sessanta ha avuto luogo una poderosa rinascita
dell'ideologia, in concomitanza con l'ondata di dissenso (che
d'ora in poi chiameremo contestazione) che ha attraversato tutto
il mondo occidentale. Il nuovo dissenso, cioè la
contestazione, si manifestò in atteggiamenti nuovi e in
nuovi modi di comportarsi nei confronti della razza, della guerra,
della partecipazione politica, dell'uso della droga, del
linguaggio e dei rapporti sessuali. La parola ‛liberazione'
incominciò a designare movimenti di liberazione di
studenti, negri, donne e omosessuali. Il termine ‛alienazione'
divenne la parola più usata dai nuovi dissenzienti o
contestatori. Esistevano numerosi motivi perché fosse in
auge. In primo luogo il contestatore degli anni sessanta era alle
prese con un sistema economico capitalistico che aveva raggiunto
un livello di prosperità difficile a prevedersi durante la
depressione o il secondo dopoguerra. Un tempo radicali e
rivoluzionari avevano pensato che la legge marxiana della caduta
del saggio di profitto e del crollo capitalistico avrebbe trovato
conferma davanti ai loro stessi occhi. Il contestatore degli anni
sessanta, invece, viveva in un sistema stabile, che egli odiava
proprio per la sua stabilità. Di conseguenza, il
contestatore degli anni sessanta abbandonò le categorie
economiche e si rivolse a categorie moralistiche; allo stesso modo
egli si allontanò dalle classi lavoratrici, che sembravano
soddisfatte della società capitalistica, e andò in
cerca della redenzione nella grande, e crescente, classe degli
intellettuali, particolarmente tra gli studenti. I nuovi
contestatori trovarono le loro guide e i loro slogan in scrittori
come H. Marcuse, P. Goodman e Ch. Wright Mills. Marcuse condannava
la classe operaia per essersi piegata alla ‟largizione del
benessere" della società borghese e affermava che la
‟violenza della repressione" era invece maggiore di quanto non
fosse mai stata nella storia dell'umanità. Egli
chiamò gli intellettuali a guidare il ‟gran rifiuto" dei
valori della società, e a dare il via a uno stadio
‟esplosivo" dello sviluppo dialettico dell'uomo, con l'aiuto di
alleati provenienti dalla razza negra e dai popoli delle aree
sottosviluppate. Marcuse attaccò anche i metodi matematici,
quantitativi, della scienza come strumenti della dominazione
borghese. Mills invitò gli intellettuali a rifiutare la
‟metafisica del lavoro" del XIX secolo, e a considerarsi come gli
eletti per l'instaurazione di una nuova società. Goodman
esaltò la contestazione nel mondo della scuola e degli
omosessuali contro il ‟sistema organizzato".
L'uso corrente della parola ‛alienazione', comunque,
contribuì a mantenere i contestatori all'interno della
tradizione marxiana. Gli stessi Marx e Engels avevano
ridicolizzato quella parola nel Manifesto del partito comunista
come un ‟non senso". I contestatori, però, tornarono al
giovane Marx, i cui Manoscritti economico-filosofici (1844),
lasciati inediti da Marx, vennero riesumati, rotoli del Mar Morto
del marxismo, per rimpiazzare l'autorità del Capitale. Il
giovane Marx aveva scritto con eloquenza dell'‟alienazione del
lavoro".
Lo scopo della contestazione era il superamento di tutte le
diverse forme di alienazione dell'uomo nella società. La
parola ‛alienazione' serviva al contestatore per criticare i
costumi della sua società. Si ebbe un attacco violento e di
vasta portata contro la cosiddetta ‛etica protestante', l'‛etica
del lavoro', o l'‛etica del successo'; una nuova generazione di
contestatori, notevolmente influenzata dalla contestazione degli
hippies, trovò la sua espressione in nuove fogge
sottoproletarie di vestiario, nei capelli lunghi, in un ritorno
alla barba, in una rivolta contro la pulizia e in una propensione
per le oscenità verbali come veicolo principale del
discorso. Nello stesso tempo la contestazione sessuale si
articolò in una rivolta contro il nucleo familiare in
quanto fatto ‛borghese'; in molte cosiddette ‛comuni' si
sperimentarono famiglie ‛plurime', e rapporti sessuali di gruppo o
promiscui; i nuovi contestatori furono anche caratterizzati da un
atteggiamento benevolo verso l'omosessualità maschile e
femminile. Il Movimento di Liberazione della Donna non pose
l'accento soltanto su obiettivi economici, come possibilità
pari a quelle degli uomini per quanto riguardava l'occupazione e
il salario, ma si battè anche per il diritto all'aborto e
per l'emancipazione dai lavori domestici. Il nuovo dissenso o
contestazione era anche connesso a una propensione per l'uso di
droghe. Infatti alcuni suoi esponenti affermarono che
l'originalità specifica della nuova sinistra consisteva nel
fatto che essa univa insieme l'azione politica diretta e l'uso
della droga. Fra i portavoce dei contestatori estremisti negli
Stati Uniti si annoverano personaggi come J. Rubin e A. Hoffman.
Costoro propugnavano il ricorso a tattiche ostruzionistiche -
sit-in, occupazioni (di massa) di edifici, strade e aule,
interruzione delle sedute dei tribunali e delle assemblee
legislative - e l'esibizione dei corpi nudi durante le riunioni
politiche degli avversari; essi esaltavano anche il furto e
l'assassinio come atti di protesta contro il sistema sociale.
Fu proprio la vaghezza di significato della parola ‛alienazione'
che contribuì a renderla una parola d'ordine gradita ai
nuovi contestatori. Come aveva osservato Pareto, gli intellettuali
costituivano effettivamente una nuova élite, che
però, per la prima volta nella storia, era sufficientemente
numerosa per poter scendere in lizza per il potere politico. In
quest'ottica, il motivo di fondo dell'attuale ‛alienazione' degli
intellettuali consisteva nel fatto che essi non erano stati ancora
riconosciuti come reggitori della società. Ma nessun gruppo
può confessare che la sua ‛alienazione' è dovuta
alla frustrazione delle sue ambizioni di potere; esso preferisce
considerare le proprie motivazioni come più elevate; di qui
il fascino di una parola vaga come ‛alienazione'. Polivalente dal
punto di vista semantico, poiché è indefinita,
questa parola permette alla ‛falsa coscienza' degli intellettuali
di rimanere, per quanto concerne le vere motivazioni di fondo,
inconscia.
e) L'alienazione e la giovane generazione
La parola ‛alienazione' esercitò un richiamo particolare
sui contestatori della giovane generazione, che erano in
realtà la grandissima maggioranza. L'alienazione della
gioventù è un tema universalmente presente nella
storia; il conflitto tra figli e padri per l'egemonia è
qualcosa che riguarda tutte le società di tutte le epoche.
Alcune società sono abbastanza fortunate da vivere in
situazioni - per esempio quelle di una frontiera aperta o di
un'economia in espansione - che tendono a funzionare da valvole di
sicurezza per le energie aggressive della ribellione
generazionale. Laddove tali opportunità siano relativamente
assenti, la giovane generazione tende a diventare maggiormente
‛alienata' dai propri padri e dai loro valori. E se, in una
congiuntura di questo genere, la generazione più anziana
viene meno a qualcuno dei compiti di guida militare, economica o
politica della nazione, allora l'autorità morale degli
adulti è minata e compromessa. In queste circostanze
l'‛alienazione' della giovane generazione dà origine a
movimenti studenteschi, e alle forme estreme della contestazione
quali le attività terroristiche o di guerriglia. Ancora una
volta l'indeterminatezza della parola ‛alienazione' la rende di
particolare utilità per gli attivisti della giovane
generazione. Poiché essa corrisponde esattamente
all'indefinibilità del ‛malessere' che sgorga da fonti
inconscie. Nessun giovane contestatore ama che si facciano
risalire le ragioni del suo scontento a una rivolta latente contro
il proprio padre; a nessun giovane contestatore piace udire uno
psicanalista ricostruire scientificamente il modo in cui egli ha
sublimato le sue energie aggressive proiettandole non più
contro suo padre bensì contro alcune istituzioni del
sistema sociale; a nessun giovane contestatore desideroso di
épater le bourgeois piace veder rivelati i tratti
distintivi di quest'ultimo come quelli del proprio padre. Tutte
queste cause inconscie o represse di ribellione sono lasciate
convenientemente nel vago dal contestatore, e l'ambiguità
della parola ‛alienazione' copre ciò che è stato
represso.
f) La contestazione sessuale
La contestazione sessuale ha avuto la tendenza a svilupparsi,
abbastanza curiosamente, tra le donne che sentivano che i
contestatori maschi della società si curavano assai poco
delle rivendicazioni delle donne. Così M. Wollstonecraft,
nel suo famoso Rights of women, polemizzava con Jean-Jacques
Rousseau; così il primo movimento per il voto alle donne
cominciò, negli Stati Uniti, quando donne eminenti non
furono ammesse a una conferenza antischiavista nel 1833;
analogamente, il Movimento per la Liberazione della Donna ebbe
inizio quando i dirigenti di sesso maschile fecero intendere,
durante i congressi della nuova sinistra, che essi consideravano
la funzione della donna innanzitutto come quella di oggetto della
soddisfazione sessuale. La contestazione femminile ha avuto la
tendenza a dividersi in due filoni: quello non ideologico si batte
per un trattamento economico uguale a quello degli uomini, per il
diritto all'aborto e l'istituzione di asili nido per i bambini; il
filone ideologico sostiene invece, per esempio, che il lesbismo
è la forma più elevata della contestazione
femminile. Le donne contestatrici hanno scritto poderosi trattati
sugli atteggiamenti di sfruttamento sessuale (spesso inconscio)
presenti nella letteratura e nella prassi sociale, e hanno
arricchito il vocabolario dell'invettiva politica di termini
pittoreschi. Le loro autrici principali, K. Millet, G. Greer, B.
Friedan, e, in Francia, S. de Beauvoir, possono essere considerate
le prosecutrici della contestazione espressa nell'Ottocento da
George Sand, George Eliot ed Eleanor Marx Aveling, e, tra gli
uomini, da Henrik Ibsen nelle sue opere teatrali e da John Stuart
Mill nel suo saggio The subjection of women.
g) I dissidenti sovietici
I dissidenti sovietici costituiscono il primo movimento di
dissenso che si sia mai manifestato tra coloro che sono nati e
vivono in una società socialista. Essi si sono fatti
portavoce del malcontento degli intellettuali sotto il socialismo,
e hanno ampiamente documentato il fatto che dal tempo del regime
staliniano il Partito Comunista Sovietico è guidato da un
gruppo di uomini mediocri, tetro, ottuso e privo di cultura. Come
ha scritto A. Amalrik, un giovane sociologo dissidente, nel suo
Potrà l'URSS sopravvivere fino al 1984?, ‟l'allontanamento
sistematico dalla vita sociale dei cittadini più
indipendenti e attivi, ormai attuato da decenni, ha lasciato
un'impronta di grigiore e di mediocrità in tutti i settori
della società". È stata compiuta una selezione
sociale a favore di ‟quanti erano obbedienti e condiscendenti", e
sono stati invece eliminati ‟quanti erano più coraggiosi e
indipendenti". Il fisico Sacharov, premio Nobel per la pace nel
1975, proclamò che il predominio ideologico del Partito
richiedeva, a tutti i livelli sociali, che ‟si diventasse
ipocriti, opportunisti, mediocri e stupidamente illusi". Non a
caso, egli affermava, i progressi nel campo della biologia e della
cibernetica erano notevolmente diminuiti nell'Unione Sovietica,
mentre le grandi scoperte - dalla teoria dei quanti alla
tecnologia elettronica - erano state fatte fuori dell'URSS.
Solženicyn fu ripetutamente minacciato dagli agenti della polizia
segreta (il KGB), mentre l'Unione degli scrittori cercò di
ridurlo al silenzio; e poiché egli si mostrò
irriducibile, fu espulso dall'Unione.
I dissidenti sovietici sono così divenuti i protagonisti di
un ampio e approfondito dibattito che pone in discussione i
fondamenti stessi dell'ideologia marxista. Se Lenin riteneva che
la missione degli intellettuali fosse quella di dare alle masse
una coscienza socialista, i dissidenti sovietici considerano
invece loro missione il risveglio della coscienza etica del
popolo. Essi ripudiano la dottrina marxista che pone il
determinismo economico al di sopra dei principî etici.
Dissidenti quali Solženicyn e Sinjavskij affermano che ci sono
verità etiche eterne che vincolano gli esseri umani. Il
loro punto di vista, che potrebbe essere chiamato ‛eternalismo',
si oppone alla concezione dialettica del marxismo che sostiene la
relatività delle norme morali in rapporto al mutare dei
sistemi economici. Come ha scritto Solženicyn nel suo romanzo
Divisione cancro: ‟Noi pensavamo che fosse sufficiente cambiare il
sistema sociale di produzione perché cambiassero
immediatamente anche gli uomini. Ma essi sono cambiati? No, non
sono cambiati affatto! Noi dobbiamo mostrare al mondo una
società in cui tutti i rapporti umani, i principî e
le leggi fondamentali si reggano direttamente sull'etica, e su
essa soltanto". Poeti quali B. Pasternak e A. Voznesenskij hanno
accusato il sistema sovietico per la sua organizzazione
burocratica fondata sulla menzogna, per la sua pretesa che il nero
sia visto come bianco, e il falso affermato come vero. Essi sono
stati puniti da burocrati della letteratura; quando Voznesenskij
rifiutò la sua adesione a una menzogna ufficiale, il
redattore capo della ‟Pravda" minacciò di ‟incenerirlo", se
non si fosse sottomesso. Proclamando la necessità di un
ritorno alle virtù universali, come l'onestà e la
sincerità, i dissidenti hanno affermato che l'etica non
è né ‛borghese' né ‛proletaria', bensì
umana. Molti hanno anche sostenuto che una concezione umanistica
deve avere un fondamento religioso. Secondo questo punto di vista,
il dogma sovietico dell'ateismo rafforza l'amoralità della
società sovietica, e il misconoscimento del divino
nell'uomo produce una strumentalizzazione reciproca tra gli esseri
umani.
Si è potuto osservare così un ritorno alla religione
ortodossa nelle opere di scrittori come Solženicyn, Sinjavskij e
Svetlana Allilueva (la figlia di Stalin); Pasternak fu sotto
questo aspetto un loro precursore.
Un genere tragico di letteratura è stato ripreso dai
dissidenti sovietici: l'autobiografia nei campi di lavoro e
nell'attività clandestina. Il tema centrale di questo
genere letterario è la resistenza dello spirito umano a un
sistema pressoché onnipotente di denigrazione dell'uomo.
Una giornata di Ivan Denisovič di Solženicyn fu seguito da opere
quali Viaggio nel Whirlwind (1967) di E. Ginzburg, La mia
testimonianza (1969) di Marčenko, Speranza contro speranza (1970)
e la Speranza abbandonata (1974) di N. Mandel′štam. Diversamente
dai libri scritti dai perseguitati politici sotto il regime
zarista, questa nuova letteratura del dissenso è ispirata
dalla disillusione. Dopo più di mezzo secolo di potere
sovietico, una classe intellettuale nutrita degli ideali marxisti
dei fondatori bolscevichi, mette in discussione i fondamenti
morali e i risultati conseguiti da quel potere.
Poiché le case editrici hanno negato la pubblicazione degli
scritti dei dissidenti, essi sono ricorsi al cosiddetto samizdat
(autopubblicazione), servendosi di copie dattilo- scritte
circolanti di mano in mano. Pochi sono riusciti a pubblicare i
loro lavori all'estero, e, a differenza di quanto era avvenuto in
Russia nell'Ottocento, non è stato possibile far uscire
clandestinamente molti di questi libri oltre i confini russi. La
pubblicazione e la distribuzione delle opere del samizdat sono
ovviamente difficili e limitate. Il messaggio dei dissidenti
sovietici è stato tuttavia diffuso da stazioni radio
straniere quali la American Radio Liberty e la BBC. Nonostante le
continue interferenze di disturbo ordinate dalle autorità
sovietiche, milioni di cittadini sovietici hanno potuto ascoltare
alla radio gli scritti dei dissidenti.
Un gruppo ha fondato il Movimento democratico, che è
riuscito a pubblicare per diversi anni una ‟Cronaca degli
avvenimenti attuali", primo periodico del dissenso politico
apparso nell'URSS a partire dagli anni venti. Il primo fascicolo
uscì nel 1968 e fino al maggio del 1974 ne erano stati
pubblicati trentun numeri. La ‟Cronaca" dichiarava di rispettare
scrupolosamente la legalità; non indicava tuttavia
né nomi di redattori, né luogo di pubblicazione.
Ogni numero aveva di solito circa dieci pagine dattiloscritte, e
probabilmente non ne circolavano più di qualche migliaio di
copie. I lettori della ‟Cronaca" erano però gli esponenti
più intelligenti e civilmente impegnati della classe
intellettuale sovietica, di cui il periodico divenne infatti il
portavoce. Esso forniva particolari sugli avvenimenti taciuti
dalla stampa ufficiale, e dava notizie sulle repressioni (arresti,
processi, persecuzioni illegali, morte di condannati alla prigione
e ai campi di lavoro, suicidi negli ospedali psichiatrici, ecc.).
Benché la ‟Cronaca" non fosse una pubblicazione di
argomento letterario, dava anche brevi notizie sulle
attività letterarie, e si proponeva inoltre di fornire un
quadro complessivo della situazione relativa all'applicazione dei
diritti civili e politici nell'URSS, e quindi di renderne
pubbliche tutte le violazioni. I ‛pezzi' più efficaci della
‟Cronaca" furono i resoconti letterali degli interrogatori dei
dissidenti da parte delle autorità inquirenti e della
polizia. È significativo il fatto che tali documenti siano
giunti in possesso dei dissidenti, consegnati con ogni
probabilità da funzionari sovietici solidali con il
Movimento democratico. Ciò sembra indicare che si è
determinata un'importante incrinatura nella struttura monolitica
del sistema sovietico.
A poco a poco i dissidenti sovietici hanno cominciato anche ad
organizzare manifestazioni pubbliche. Così si è
avuta qualche dimostrazione politica contro determinate azioni del
regime. Il 5 dicembre del 1965 ci fu una dimostrazione di una
ventina di persone sulla piazza Puškin di Mosca contro l'arresto
degli scrittori Sinjavskij e Daniel. Quando i partecipanti alla
dimostrazione furono arresta- ti, ne fu organizzata un'altra.
Gruppi di dissidenti furono allora minacciati, privati del lavoro,
arrestati, processati e condannati a un periodo di prigione o di
esilio da Mosca. Inoltre, il regime ricorse a una nuova forma di
punizione, l'internamento in ospedali psichiatrici, dove i
dissidenti erano sottoposti a indegni trattamenti medici, intesi a
sfibrarli moralmente e psicologicamente. Il matematico ucraino L.
Pljušč, il generale P. Grigorenko e lo scrittore A.
Esenin-Vol'pin, furono tra coloro che subirono tali punizioni.
La dimostrazione più importante fu quella che ebbe luogo
contro l'invasione sovietica della Cecoslovacchia: circa un
centinaio di persone si radunarono il 25 agosto del 1968 sulla
Piazza Rossa e furono quasi subito disperse.
Nel 1969 un piccolo gruppo di scienziati e di studenti, guidati da
Sacharov, annunciarono la formazione di un Gruppo d'azione per la
difesa dei diritti dell'uomo nell'Unione Sovietica. Affiliato alla
Amnesty International, un'organizzazione fondata a Londra per la
salvaguardia dei prigionieri politici in tutto il mondo, il Gruppo
sperò di poter ottenere l'adesione del governo sovietico
alla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui diritti dell'uomo. Ma i
membri del Gruppo furono subito perseguitati; il suo segretario,
il fisico V. Čalidze, non poté ritornare dagli Stati Uniti
una volta scaduto il suo permesso di soggiorno di un mese che gli
era stato accordato. Il suo successore, il fisico A.
Tverdochlebov, fu esiliato in una remota località della
Siberia, dove nell'agosto del 1976 Sacharov e sua moglie fecero un
coraggioso pellegrinaggio di amicizia. Il Gruppo d'azione
cercò di fornire ai corrispondenti stranieri resoconti
accuratamente documentati sui casi di violazione dei diritti
dell'uomo da parte delle autorità sovietiche.
In una serie di interviste e di opuscoli Sacharov formulò
delle proposte per una liberalizzazione democratica della
società sovietica. Egli sosteneva che essa era necessaria
affinché l'economia sovietica non restasse disastrosamente
indietro. Sacharov chiedeva libertà di espressione e di
pubblicazione, libertà per le organizzazioni rispettose
della legalità, salvaguardia dei diritti civili individuali
e indipendenza del potere giudiziario.
Con la firma dell'accordo di Helsinki nell'agosto del 1975, che
impegnava sia l'URSS sia le nazioni occidentali al rispetto della
libertà di espressione, l'attività di Sacharov e di
quanti si battevano per la stessa causa assunse una nuova
importanza, poiché ottenne un maggiore appoggio
dall'opinione pubblica e dai governi occidentali nell'esigere che
il governo sovietico mantenesse gli impegni che aveva
sottoscritto.
L'avvenimento più drammatico del dissenso sovietico fu
l'espulsione dall'URSS del suo più grande scrittore
vivente, il premio Nobel Solženicyn. Per molti anni egli aveva
apertamente denunciato le repressioni messe in atto dal regime
sovietico. Inoltre, egli aveva consentito che la prima parte della
sua opera Arcipelago Gulag fosse pubblicata all'estero. Il libro,
frutto di molti anni di lavoro, descriveva le condizioni di
esistenza nei campi di lavoro sovietici. ‟A malincuore, scriveva
Solženicyn, ho evitato per molti anni di pubblicare quest'opera;
il mio dovere verso quelli che sono ancora vivi supera però
il mio dovere verso i morti. E ora che la polizia si è
impossessata del mio libro, non ho altra scelta che pubblicarlo
immediatamente". Restio a lasciare la sua terra natale, Solženicyn
si rifiutò anche di recarsi in Svezia, sia pure per una
breve visita per ricevere il premio Nobel. Ma i dirigenti
sovietici lo fecero arrestare e nel febbraio del 1974 lo espulsero
dall'URSS. Solženicyn si recò dapprima a Francoforte s.M.,
poi a Zurigo, dove portò a termine il suo libro Lenin a
Zurigo. Successivamente si recò negli Stati Uniti, dove
rappresentanti del governo federale e numerosissime eminenti
personalità del mondo intellettuale e politico americano
gli diedero il benvenuto in una pubblica manifestazione.
Solženicyn disse che si sentiva in diritto di salutare tutti come
‟fratelli nel lavoro", perché aveva trascorso molti anni
‟come tagliapietre, come fonditore e come lavoratore manuale" nei
campi di concentramento. Egli espresse l'opinione che la
distensione tra l'URSS e gli Stati Uniti sarebbe stata deleteria
qualora si fosse realizzata senza garantire il rispetto e la
salvaguardia dei diritti dell'individuo nel suo paese. Il Senato
americano conferì a Solženicyn la cittadinanza onoraria, e
l'impressione che la sua personalità fece sull'opinione
pubblica fu molto profonda.
Alcuni dissidenti sovietici, fra i quali Sacharov, criticarono le
concezioni di Solženicyn. In un certo senso la differenza fra i
loro punti di vista riflette la divergenza tra l'‛opposizione
letteraria e l'‛opposizione scientifica'. L'opposizione letteraria
considera l'ideologia sovietica come la principale fonte dei mali
del sistema. Per gli aderenti a tale opposizione il ritorno a un
punto di vista religioso è essenziale. Sacharov ritiene
invece che Solženicyn sopravvaluti il ruolo dell'ideologia nelle
decisioni politiche, e considera la società sovietica
caratterizzata piuttosto da ‟indifferenza ideologica"; a suo
avviso Stalin commise molti crimini non per motivi ideologici, ma
per motivi di potere. Sacharov desidera un modello democratico di
sviluppo che sia soddisfacente per tutti i paesi, e non teme il
‛gigantismo industriale'.
Le file dei dissidenti sovietici si sono assottigliate negli
ultimi anni, poiché molti di loro sono stati esiliati in
regioni remote e altri espulsi dal Paese. Né sono mancate
tensioni, sia personali che politiche, tra gli esponenti del
dissenso, proprio come era avvenuto tra i rivoluzionari russi
dell'Ottocento. Sinjavskij e Solženicyn erano in disaccordo tra
loro; R. Medvedev, rimasto nell'URSS, ha conservato la convinzione
marxistica che la struttura sociale sovietica sia essenzialmente
progressista, e ha respinto la critica radicale mossa da
Solženicyn all'ordinamento sovietico. Ma nonostante le loro
divergenze di opinione e gli ostacoli incontrati, i dissidenti
sovietici sono riusciti a esercitare una grandissima influenza sui
popoli, sui governi e anche sui partiti comunisti occidentali.
L'annuncio dato nel 1975 dal presidente Ford che egli non avrebbe
più usato la parola ‛distensione', fu in larga parte
determinato dalla profonda impressione esercitata sull'opinione
pubblica dalle profetiche denunce di Solženicyn, secondo il quale
bisognava evitare un'autodistruttiva pacificazione col gruppo
dirigente sovietico.
Inoltre, i partiti comunisti italiano, francese e spagnolo hanno
cercato, ciascuno a proprio modo, di dissociarsi dalle
responsabilità dell'Arcipelago Gulag; essi hanno dichiarato
di voler ideare un modo di essere comunisti compatibile con le
libertà individuali. L'‛eurocomunismo', come è stato
chiamato, si è impegnato a rispettare il principio delle
libere elezioni e dell'alternanza dei partiti al governo sulla
base dei risultati elettorali, a garantire la libertà della
scienza, dell'arte e dell'educazione. Alla Conferenza dei partiti
comunisti europei, svoltasi a Berlino Est nel giugno del 1976, il
capo del Partito Comunista Spagnolo, S. Carrillo, ha ripudiato la
dottrina marxista dell'inevitabilità storica, mentre il
capo del Partito Comunista Francese, G. Marchais, ha dichiarato
ormai superato il concetto di ‛dittatura del proletariato'.
I dissidenti sovietici sono parzialmente isolati dalla
comunità intellettuale del resto del mondo. Nei secoli
scorsi i dissidenti hanno goduto della fiducia e del sostegno sia
di larghi strati sociali nel proprio paese, sia di scrittori e di
scienziati di altri paesi. Voltaire e Diderot, per es., ebbero
numerosi ammiratori non solo in Francia ma anche in Gran Bretagna.
I dissidenti sovietici, invece, hanno dovuto lavorare
nell'oscurità, e i sentimenti di coloro che li hanno
ascoltati nel loro paese non hanno potuto esprimersi.
E tuttavia, nonostante il loro parziale isolamento, i dissidenti
sovietici hanno prodotto in tutto il mondo una divisione, un
‛grande scisma' nella comunità intellettuale, soprattutto
fra coloro che negli Stati Uniti e nell'Europa occidentale nutrono
ancora simpatia per il socialismo, visto come uno stadio superiore
della civiltà umana e come la realizzazione del sogno,
vagheggiato già da Platone, di una società governata
dai filosofi. Gli intellettuali europei e americani di ispirazione
socialista hanno visto in quella disastrosa impresa che è
stata la guerra del Vietnam e nel massacro di My Lay una
manifestazione evidente delle tendenze dell'imperialismo
americano.
I dissidenti sovietici forniscono agli intellettuali occidentali
notizie assai spiacevoli e sgradite. Avendo fatto personale
esperienza della realtà socialista, essi sono disincantati
e delusi nei confronti del sogno socialista, e descrivono la
società sovietica come una società che, lungi
dall'aver soppresso l'‛alienazione', l'ha portata a nuovi livelli.
Essi raccontano che nell'URSS l'arte, la letteratura e la scienza
languono sotto il controllo politico; e perciò considerano
gli intellettuali occidentali o ingenui o moralmente corrotti.
Secondo i dissidenti sovietici i timori di J. St. Mill - che una
società socialista, centralizzata e burocratica, avrebbe
ucciso ogni libertà - si sono realizzati. Perciò
essi recentemente si sono dichiarati a favore dell'America, e si
sono rifiutati di paragonare un episodio isolato sul campo di
battaglia nel Vietnam con la distruzione sistematica di intere
classi sociali attuata nei campi di concentramento sovietici.
Inoltre, a loro avviso l'America aveva avuto motivi molto seri per
intervenire nel Vietnam. Solženicyn e Sacharov si sono espressi
entrambi a favore degli Stati Uniti.
La conseguenza di ciò è stata che molti
intellettuali occidentali hanno espresso riserve sui dissidenti
sovietici. Essi hanno negato che Solženicyn appartenga alla
tradizione della democrazia liberale, e hanno affermato che il suo
è piuttosto un ritorno alla Chiesa ortodossa e agli zar. In
America, Solženicyn ha trovato un'accoglienza più calda tra
i lavoratori che tra gli intellettuali.
I dissidenti sovietici esuli in Occidente hanno incominciato a
pubblicare, a partire dal 1974, una rivista in russo e in tedesco:
‟Kontinent". Ad essa collaborano anche scrittori non russi.
‟Soltanto quarant'anni fa - ha scritto Solženicyn - sarebbe stato
inconcepibile che scrittori di paesi tanto diversi avessero una
comune esperienza di vita, ricavassero da essa conclusioni
similmente amare, e avessero pressoché gli stessi desideri
per il futuro".
Quale possa essere il futuro del dissenso nell'Unione Sovietica
è un problema aperto, strettamente connesso con il
problema, cruciale, della compatibilità della
libertà di pensiero e di espressione con una società
socialista pianificata.
I dissidenti sovietici hanno sollevato questioni che indubbiamente
li rendono impopolari tra molti loro compatrioti. Essi hanno messo
sotto accusa un'intera società per la sua connivenza con i
crimini dello stalinismo. Soprattutto Solženicyn ha messo in luce
la passività e l'inerzia di quasi tutti gli strati sociali
in Russia, dove nessuno ha mai fatto alcunché per fermare
la repressione del regime.
I dissidenti sovietici hanno sollevato anche la questione,
endemica nella società sovietica, dei pregiudizi etnici:
l'antisemitismo largamente diffuso, l'ingiusta e crudele
spoliazione dei Tartari di Crimea, la soppressione della cultura
nazionale ucraina, l'ostilità verso gli Uzbechi dell'Asia
centrale. I nomi degli intellettuali liberali ucraini
imprigionati, V. Chomovil e V. Moroz, sono diventati simboli della
difesa di una cultura nazionale oppressa e schiacciata.
I dissidenti sovietici non costituiscono un'emigrazione politica
nello stesso senso in cui lo è stata quella dei marxisti
come Lenin, Martov, Trotzki e Plechanov alla fine del secolo
scorso e agli inizi di questo. Essi hanno una maggiore
affinità con i letterati esuli dell'Ottocento, come I.
Turgenev e A. Herzen. Si deve inoltre ricordare che nessun esule
politico, neppure Einstein, ha mai esercitato un influsso
così forte e significativo sull'opinione pubblica di tutto
il mondo come Solženicyn. Con lui il dissenso ha conquistato una
nuova dimensione morale nella storia contemporanea.
6. Il dissenso o contestazione nell'epoca contemporanea
a) Il declino della contestazione dopo la seconda guerra mondiale
Durante gli anni sessanta la contestazione negli Stati Uniti e
nell'Europa occidentale ha raggiunto proporzioni mai conosciute
dal 1848 in poi. La contestazione tuttavia non è riuscita,
nonostante i tentativi dei suoi principali protagonisti, a
trasformarsi in un movimento politicamente e socialmente
rivoluzionario di grandi proporzioni. Dall'inizio degli anni
settanta la contestazione si è manifestata principalmente
nella sperimentazione di nuovi ‛stili di vita'. Dalla beat
generation a quella hippie i contestatori hanno esercitato una
profonda influenza sui codici di comportamento della
gioventù di tutto il mondo.
La rinascita della contestazione all'inizio degli anni sessanta
colse di sorpresa sia gli Stati Uniti che l'Europa occidentale. In
America, dalla fine della seconda guerra mondiale all'incirca fino
al 1960, la figura del contestatore aveva relativamente perso
prestigio. Gli intellettuali erano per lo più caduti in
discredito. In Francia, A. Camus e R. Aron avevano rilevato la
debolezza emotiva degli intellettuali nei confronti dell'ideologia
rivoluzionaria; il marxismo era considerato ‛l'oppio degli
intellettuali', e Aron propose ‟la fine dell'epoca
dell'ideologia". Gli Stati Uniti avevano attraversato, dal 1948 al
1954, quella che oggi è spesso chiamata ‛l'epoca del
maccartismo'. Molti intellettuali credettero che si stesse
strangolando il dissenso, ma l'intensità della repressione
allora esistente viene molto esagerata. Il senatore J. E. McCarthy
denunciò per parecchi anni gli intellettuali per le loro
simpatie e attività presumibilmente segrete a favore del
comunismo all'interno di settori del governo americano e delle
università. A volte la sua documentazione era ben poco
conforme alla prassi giuridica o accademica. Purtuttavia egli
aveva ben poco potere politico effettivo, non controllava alcuna
organizzazione politica e non aveva un gruppo organizzato di
seguaci; egli era sostanzialmente una personalità isolata.
Ma McCarthy ebbe una straordinaria forza d'urto poiché egli
portò allo scoperto il crollo psicologico del contestatore
durante il periodo che seguì la seconda guerra mondiale. A
partire dal processo ad A. Hiss, e dalla sua condanna come spia al
servizio dell'Unione Sovietica nel Dipartimento di Stato, divenne
chiaro che elementi del dissenso americano erano venuti a patti
con la propria coscienza. Hiss era uno stimato intellettuale
formatosi ad Harvard, che era giunto molto in alto negli affari e
nell'amministrazione governativi. Egli fu un caso tipico; come
lui, molti intellettuali degli anni trenta, contestando il sistema
capitalistico, diventarono membri del Partito comunista o lo
servirono come compagni di strada. Il Partito comunista americano,
tuttavia, costrinse i suoi membri a una linea di condotta
clandestina, di segretezza; così facendo seguiva la
condizione che l'Internazionale Comunista aveva imposto nel 1920
ai suoi partiti membri, secondo la quale essi ‟dovevano creare
ovunque un apparato illegale parallelo". Fino ad allora in America
il contestatore era sempre stato fiero e appassionato nel
proclamare la propria affiliazione, spiegare la propria fede,
giustificare i propri atti; fossero abolizionisti, riformatori dei
costumi, socialisti, vegetariani o seguaci del libero amore, i
contestatori avevano rifiutato assolutamente qualsiasi forma di
mascheramento. I comunisti americani importarono però la
prassi leninista, in ottemperanza alla quale la maggior parte di
essi tenne nascosta la propria appartenenza al partito. La
contestazione divenne subdola invece che franca. Si giunse alla
diffusione di una sorta di tabù in base al quale, nei
circoli della contestazione, nessuno doveva mai chiedere a qualcun
altro se fosse comunista. Inoltre, i contestatori erano sempre
stati, in America, degli individualisti, con posizioni personali,
e pronti a opporsi a chiunque pretendesse di essere un dittatore.
La contestazione era stata soprattutto espressione di un
atteggiamento pluralistico. Nella loro fase comunista,
però, i contestatori rinunciarono, presumibilmente in
funzione di uno scopo più alto, all'individualismo, alle
differenze, alla varietà pluralistica. Essi si sottomisero
alla disciplina autoritaria di un partito monolitico in vista di
una contestazione suprema, egemonica, storica. Essi soffocarono
ogni dissenso interiore circa un infinità di questioni
poiché questa disciplina era, secondo la maggior parte di
loro, inviolabile. Quando nel 1937 il filosofo americano Dewey,
rappresentante del vecchio tipo di contestatori, convinse un
gruppo di seguaci a credere alla difesa di Trotzki contro Stalin
(che lo aveva accusato di essere una spia nazista), gli
intellettuali americani di sinistra lo attaccarono con asprezza.
È tuttavia probabile che la maggior parte di loro
condividesse il giudizio di Dewey che i ‛processi di Mosca' erano
messinscene menzognere, e che fosse profondamente disgustata dal
patto di Stalin con Hitler del 1939. I contestatori comunisti
americani repressero le loro opinioni personali in una sorta di
inconscio collettivo di partito. Solo i nuovi ‛deviazionisti' che
avevano fatto la loro comparsa nelle piccole organizzazioni
trotzkiste e ‛deviazioniste di destra' rivivificarono, all'interno
del marxismo, la tradizione di un più libero dissenso. Il
‛deviazionista' come nuovo tipo di contestatore era tuttavia
paralizzato dal suo perenne desiderio di mostrarsi più
fedele alla dottrina marxista che non il Partito comunista
ufficiale.
Di conseguenza i contestatori americani si trovavano
psicologicamente in una condizione vulnerabile allorché,
dopo il 1946, ebbe inizio il periodo della ‛guerra fredda'. Essi
non riuscirono a suscitare alcun entusiasmo convincente per il
blocco di Berlino nel 1948, o per il colpo di Stato manovrato dai
Sovietici in Cecoslovacchia, o per l'invasione nord-coreana della
Corea del Sud nel 1950. Quando essi si dovettero presentare
davanti ai comitati del Congresso, erano ormai troppo divisi e
dominati da un senso di colpa per difendere la loro contestazione,
poiché la maggior parte di loro ne aveva infine
riconosciuto l'inautenticità e l'insincerità. Essi
lottarono disperatamente per conservare un po' di dignità
politica e un'apparenza da martiri; invocarono il cosiddetto
‛quinto emendamento' per liberarsi dell'obbligo di difendere
pubblicamente le loro opinioni e le loro azioni. Così
facendo, però, il contestatore americano crollò. Il
contestatore d'altri tempi avrebbe accolto con entusiasmo la
possibilità di discutere con un senatore McCarthy e con dei
comitati del Congresso; il contestatore comunista crollò
perché egli si sentiva colpevole per gli anni della sua
capitolazione di fronte ai dittatori di partito. In America,
durante gli anni cinquanta, il contestatore divenne una figura
melanconica. Egli non poteva avanzare alcuna pretesa di essere la
coscienza dell'America.
b) La ripresa della contestazione negli anni sessanta: la protesta
razziale
Il risveglio della contestazione tra gli intellettuali americani
venne tuttavia affrettato da un incidente avvenuto il primo
febbraio 1960 a Greensboro, nella Carolina del Nord. Quattro
studenti negri si sedettero al banco di un locale e chiesero una
tazza di caffè; si trattava di un ristorante che rifiutava
di servire i negri. Gli studenti dettero inizio al primo sit-in di
quegli anni. Nel giro di un mese il fenomeno di sit-in contro
locali in cui fosse in vigore la segregazione razziale si
allargò a molti campus universitari. I diritti civili
divennero la questione dominante nel risveglio dell'irrequietezza
generazionale.
Ciò che caratterizzava i contestatori degli anni sessanta
era il fatto che essi si trovavano prevalentemente nelle
università. Mentre negli anni cinquanta l'attivismo
politico era stato insignificante, i nuovi contestatori divennero
attivisti politici nel senso più immediato. Facendo proprie
le tattiche usate con successo dagli studenti negri, i nuovi
contestatori si servirono in principio soprattutto dei sit-in per
impedire il funzionamento di ogni organizzazione preesistente e
costringerla a venire a patti. Le nuove tattiche dirette
dimostrarono la loro efficacia facendo ottenere lavoro ai negri in
numerose imprese come alberghi e negozi. Anche gli studenti
bianchi si unirono a quelli negri nel 1963 per partecipare ai
freedom rides negli Stati del Sud, e nel 1964 presero parte alle
freedom schools, che svolgevano propaganda in favore della
registrazione dei negri nelle liste elettorali. Il Comitato di
Coordinamento degli Studenti Non-violenti, istituito nella
primavera del 1960, divenne il principale portavoce di questo tipo
di contestazione della nuova generazione. In questo periodo la
tradizione di contestatori del tipo di H. D. Thoreau era ancora
forte. La contestazione era concepita come un appello alla
coscienza della comunità tramite la violazione di alcune
delle leggi, statuti, ordinanze o prassi vigenti di
discriminazione razziale. Non si ammetteva comunque l'uso della
forza fisica; la resistenza alla violenza fisica doveva essere
puramente passiva. I contestatori, inoltre, si proponevano, nel
caso di arresto o processo, di non negare le loro azioni e di non
cercare di eludere le pene. Essi confidavano nel sistema
costituzionale: si sarebbero appellati a tribunali di grado
più elevato per verificare la costituzionalità delle
leggi repressive, e soprattutto avrebbero risvegliato in tal modo
la coscienza morale della comunità bianca, spingendola ad
abrogare quelle disposizioni. In America, il pioniere di una
resistenza non violenta per esprimere il dissenso e promuovere
trasformazioni sociali fu M. Luther King jr., un sacerdote negro,
che aveva guidato nel 1956 il boicottaggio dei trasporti pubblici
a Montgomery, nell'Alabama. Quest'azione, che durò quasi un
anno, si concluse con una vittoria allorché la Corte
Suprema degli Stati Uniti decretò che la segregazione
razziale sugli autobus era contraria alla legge. Per qualche anno
gli studenti contestatori seguirono questo sistema di protesta non
violenta.
c) La protesta contro il sistema costituito
Fino al 1964 nelle università americane i contestatori
rimasero un gruppo marginale e isolato, con scarsa influenza sulla
maggioranza degli studenti e sull'università nel suo
complesso. Nel 1964 una fiammata di rivolta generazionale si
accese nei colleges e nelle università. Ben presto
l'espressione generation gap divenne un luogo comune nei giornali
e nelle trasmissioni televisive americane. Preludio a questa
spaccatura tra generazioni fu l'assassinio, avvenuto nell'estate
del 1964 nel Mississippi, di tre giovani volontari dei diritti
civili; due di loro erano studenti universitari bianchi. Poi,
durante l'autunno, una questione universitaria di secondaria
importanza fornì l'occasione, a Berkeley, per un
‛confronto' tra attivisti studenteschi e amministrazione
dell'Università della California. In seguito l'interesse
originario per i diritti civili fu dimenticato; ciò che era
divenuto importante era la contestazione della ‛società
impersonale', del ‛sistema costituito', della burocrazia.
L'università venne descritta come un calcolatore
dell'I.B.M. che mutilava le sue creature. La metafora più
usata sui manifesti diceva: ‟Io sono uno studente
dell'Università della California. Si prega di non piegarmi,
di non ripiegarmi, di non bucarmi o mutilarmi". La contestazione
divenne un atteggiamento e una disposizione emotivi, e c'era una
tendenza a inscenare dimostrazioni che assunsero il carattere di
un rituale di sfida generazionale. Ai primi di dicembre del 1964
più di ottocento fra studenti e non studenti occuparono
l'edificio dell'Amministrazione dell'Università e furono
arrestati. La loro azione era stata provocata dalla proposta di
una commissione dell'Università di indagare sulle
circostanze in cui il maggior dirigente studentesco, M. Savio,
aveva morso un poliziotto.
Ne seguì un grande sciopero studentesco, e la
Facoltà capitolò rapidamente di fronte a tutte le
richieste degli attivisti. La sollevazione degli studenti di
Berkeley divenne una specie di modello delle rivolte che ebbero
luogo per tutto il resto degli anni sessanta. Una nuova ideologia
contestataria dipingeva gli studenti come la classe sfruttata
della società. Si videro scrittori di mezza età e
anziani tentare di definire le basi di questa ideologia. Un
articolo di P. Goodman, l'autore neo-anarchico di Growing up
absurd, dichiarava: ‟Oggigiorno negli Stati Uniti gli studenti -
giovani della classe media - sono la principale classe sfruttata".
Goodman rimase però più legato al tipo di
contestazione alla Thoreau, con la sua non-violenta disobbedienza
civile, di quanto non lo fosse il movimento studentesco nel suo
evolversi. Nella misura in cui gli Stati Uniti si trovavano sempre
più impegnati nel Vietnam in una guerra difficile, la
tattica della contestazione passava dalla non-violenza alla
violenza. Gli scritti di Marcuse soppiantarono quelli di Goodman
come spiegazioni razionali dell'‛esplodere' del sistema. Le opere
di Marcuse ponevano l'accento sulla dialettica ‛esplosiva' latente
in una società che egli definiva come la più
repressiva di tutti i tempi.
L'allieva prediletta di Marcuse, A. Davis, una giovane donna
negra, nel 1970 fu indiziata di essere implicata in numerosi
omicidi commessi durante una fuga di prigionieri da un tribunale
della California. Nel frattempo la contestazione aveva assunto la
tendenza ad allargarsi in un attacco ai valori e ai metodi
razionali e scientifici. Marcuse attaccò il metodo
‛operazionale' della scienza in quanto partecipe della logica del
‛contenimento'; anche la grammatica fu da lui definita
‛autoritaria', perché nelle proposizioni era attribuita al
nome una funzione autoritaria in quanto ‛soggetto'. I metodi
aritmetici e quantitativi subirono una condanna analoga da parte
di Marcuse in quanto strumenti della logica del ‛dominio'.
Tutto ciò, e in particolare l'accentuazione della
‛negazione', trovò un pubblico ricettivo, soprattutto
quello dei cosiddetti non-studenti. Oltre duecento di loro erano
stati arrestati durante il primo sit-in di Berkeley; migliaia e
migliaia di essi risiedevano nei dintorni dell'Università.
Il non-studente era una nuova variante nella storia della
contestazione; egli definiva se stesso in via negativa. Se il
sistema aveva i suoi assertori, i suoi ‛uomini dell'apparato', il
non-studente si considerava come un negatore totale. Non aveva
lavoro né vocazione. Egli contrapponeva una
‛controvirtù', o un'‛antivirtù', a ogni virtù
dell'‛etica protestante'. Se suo padre aveva attribuito valore
alla sobrietà, al lavoro, al successo e alle idee chiare,
il non-studente era pronto a darsi alla droga, a un mondo
psichedelico, all'immediatezza, al rifiuto di ogni prospettiva, a
un mondo mistico in cui l'esaltazione della violenza, della droga,
o del rapimento orgiastico l'avrebbero, secondo lui, portato
più vicino alla realtà dell'esistenza di quanto
potesse fare qualsiasi studio scientifico. Il non-studente
consacrava la sua vita a una perenne replica della sua rivolta
adolescenziale contro il padre. Per questa ragione egli era
incline a restare entro il contesto universitario, dove era una
persona in più disponibile a pieno tempo per agitazioni e
dimostrazioni contro il sistema.
d) L'irrazionalismo della nuova contestazione
Il contestatore classico, dal XVII fino al XIX secolo, aveva
propugnato riforme specifiche che, a suo giudizio, avrebbero posto
rimedio alle sue pene; il contestatore classico accettava le linee
fondamentali del sistema vigente; i cambiamenti che egli proponeva
erano in genere di carattere marginale. La nuova contestazione,
invece, dichiarò con franchezza di non avere alcuna idea
chiara sulla natura della nuova società cui proponeva di
dar vita. Si deve per prima cosa ‛negare' il sistema presente,
dichiaravano i contestatori, e quindi emergerà la nuova,
imprevedibile società. Essa sarebbe stata, ne erano sicuri,
un esempio di ‛comunità organica' di tipo più
elevato; gli uomini non sarebbero stati divisi l'uno dall'altro;
l'alienazione sarebbe stata eliminata. Per la prima volta la
contestazione s'impregnò di misticismo psichedelico; se
l'apoteosi della violenza aveva un gusto soreliano, l'attacco alle
virtù del lavoro e del successo era qualcosa che Sorel
avrebbe aborrito.
Nel corso degli anni sessanta il Comitato di Coordinamento degli
Studenti Non-violenti si trasformò in un'organizzazione che
propugnava esplicitamente la violenza. I nuovi dirigenti negri,
St. Carmichael, E. Cleaver, R. Brown, ruppero con l'etica
non-violenta di M. Luther King, in favore di una tattica basata
sul terrorismo. Il loro movimento divenne però
esplicitamente un movimento nazionalista rivoluzionario negro, e
si separò dal filone principale della contestazione
americana.
Nel contempo, la più giovane contestazione americana dette
vita, in proprio, a un nuovo tipo di letteratura con autori come
A. Hoffman e J. Rubin. Libri e articoli del tipo di Revolution for
the hell of it (New York 1968) e Do it! Scenarios for the
revolution (New York 1970) presentavano apertamente la
contestazione come una rivoluzione generazionale. ‟Io penso che i
ragazzi dovrebbero uccidere i loro genitori" scrisse A. Hoffman.
‟La rivolta generazionale è presente in tutto il corso
della storia. [...] Noi facciamo leva sulla frattura fra
generazioni" (Woodstock nation: a talk-rock album, New York 1969).
‟Il più importante conflitto politico negli Stati Uniti
è oggi il conflitto tra generazioni", scrisse J. Rubin.
‟Subiamo tutti l'influenza di un inconscio storico collettivo". A
suo giudizio ‟la guerra tra generazioni" superava ‟demarcazioni di
classe e di razza"; egli esaltava l'assassinio come un ‟atto
positivo", e vide nell'assassino del senatore R. F. Kennedy
l'esecutore di un ‟atto positivo". Entrambi questi uomini erano
esponenti del cosiddetto movimento Yppie (Youth party
international) la cui dottrina specifica, scrisse Hoffman,
consisteva ‟nel mescolare erba (marijuana) e politica". Con un
altro loro slogan (‟bruceremo Chicago ai politici"), nel 1968 essi
contribuirono a organizzare l'azione di disturbo durante la
Convenzione Nazionale Democratica. In effetti, una ricerca medica
dimostrò che quattro quinti dei numerosi dimostranti erano
dediti a droghe, dalla marijuana all'eroina. In seguito i
contestatori rivendicarono la responsabilità della
sconfitta del candidato democratico liberale alla presidenza, il
senatore H. Humphrey, che essi avevano attaccato perché
aveva rifiutato di schierarsi contro il presidente L. B. Johnson e
contro la guerra nel Vietnam.
In molte università si verificarono tumulti durante gli
anni dal 1968 al 1970. La Columbia University rimase chiusa per
diversi giorni quando varie centinaia di studenti occuparono
alcuni suoi edifici; allorché la polizia intervenne si
ebbero numerosi e gravi atti di violenza. Scrisse J. Rubin:
‟Quando programmate una manifestazione, prevedete sempre un ruolo
per gli sbirri. La maggior parte della gente non si eccita
finché non arrivano gli sbirri. Nulla radicalizza come uno
sbirro". E questa era effettivamente la tattica dei contestatori
studenteschi, alla Columbia University come a Harvard o alla
Cornell. Sebbene la maggioranza degli studenti non approvasse la
tattica dell'occupazione degli edifici, l'arrivo della polizia e
la violenza che ne derivava suscitavano inevitabilmente
un'atmosfera di tensione generazionale, in conseguenza della quale
le autorità ritenevano prudente una temporanea chiusura
dell'università per il resto del semestre. Il più
tragico di questi episodi avvenne nel 1970 alla Kent State
University, nell'Ohio, dove quattro studenti furono uccisi in uno
scontro con la Guardia Nazionale. Quest'intervento era stato
preceduto da atti di violenza e dall'incendio di un edificio; tali
incidenti, che avvennero in seguito alla decisione del governo
degli Stati Uniti di inviare le sue forze armate in Cambogia,
provocarono manifestazioni e la chiusura temporanea di molti
colleges e università.
Le motivazioni di tipo generazionale erano comunque presenti anche
nelle società dell'Europa occidentale. La London School of
Economics restò praticamente chiusa per un anno in seguito
a episodi originati dall'opposizione alla nomina di un nuovo
direttore. Nel maggio del 1968 la Francia giunse quasi sull'orlo
della rivoluzione dopo uno scontro tra studenti e polizia alla
Sorbona; gli incidenti iniziali erano stati di secondaria
importanza e furono ben presto dimenticati, ma il ‛confronto' si
inasprì fino a divenire una sfida verso il regime di De
Gaulle, e agli studenti si unirono ben presto i sindacati. Il
dirigente studentesco D. Cohn-Bendit formulò un insieme di
rivendicazioni per una nuova società di libere comuni, per
un mondo senza coercizioni e senza esami. Un'analoga avversione
nei confronti della società capitalistica e burocratica si
manifestò in Germania, dove gli attivisti studenteschi
esercitavano un virtuale controllo sulla Libera Università
di Berlino. La confusa ideologia di questo movimento era
costituita da un miscuglio di anarchismo di Bakunin e di idealismo
giovanile di Marx. Si trattava di un capitolo nuovo nella storia
della contestazione. I contestatori erano mossi da emozioni e
forze oscure. Essi fecero ogni sforzo per tradurre i loro
sentimenti in un programma, ma il fatto stupefacente, che essi
stessi finirono col riconoscere, fu che la loro aspirazione
emotiva non trovava alcun corrispettivo in un'immagine di
struttura sociale che risultasse positivamente accettabile per
loro. La contestazione era irrazionale, priva di direzione, con
una forte componente di teatralità. I mass media e la
televisione costituivano un'onnipresente macchina da ripresa di
cui si teneva sempre conto.
Era logico aspettarsi che la moderna schiera di contestatori
generazionali conoscesse una profonda depressione una volta
superato il primo momento di successo. In America sorsero
conflitti di fazione tra le sette della contestazione, cui
seguì la violenza personale; si ebbero suicidi tra coloro
che, appena poco tempo prima, avevano guidato sollevazioni
studentesche. In una comune del New England, il capo dello
sciopero studentesco alla London School of Economics, M. Blom, si
suicidò dopo essere stato picchiato dai compagni di un
tempo. Suicidi e crolli nervosi di questo tipo ebbero luogo con
una frequenza sconosciuta ai contestatori americani di un tempo.
Ciò era indice dell'intensità
dell'aggressività inconscia che era stata alla base di
questa ondata di contestazione. Gli attivisti studenteschi si
rifugiarono nell'occulto e nel misticismo. Furono fondate
centinaia di comuni in cui i giovani contestatori vivevano in una
povertà che ricordava quella dei frati mendicanti del
Medioevo; ma mentre condannavano il sistema, vivevano della sua
carità, e cercavano nella droga, nella vita sessuale in
comune e nell'occultismo un nuovo modo di vita. In ogni libreria
per giovani lettori gli scaffali dedicati all'occulto superavano
di gran lunga quelli dedicati alla scienza; l'astrologia prese il
posto dell'astronomia; il mito prese il posto della scienza; i
guru presero il posto dei filosofi; la ‛teoria critica' di Marcuse
prese il posto della scienza sociale; manuali di sadismo sessuale
presero il posto della poesia d'amore; la droga e i ‛viaggi'
presero il posto dello studio e del lavoro; la fantasticheria fu
proclamata verità; l'irrealtà fu esaltata come
realtà; la pulizia fu ripudiata in favore della sporcizia;
nel vestiario, le distinzioni tra i sessi furono soppresse a
vantaggio degli abiti unisex; e, per la prima volta dai tempi dei
cinici di Grecia, l'omosessualità divenne un simbolo
sociale di dissenso.
e) La protesta contro la civiltà
Lo storico francese Michelet ebbe una volta a definire il Medioevo
come quel periodo di mille anni della storia d'Europa in cui la
gente non faceva il bagno. I nuovi contestatori mostrarono una
forte inclinazione a regredire verso forme di vita neomedioevali.
Gli ideologi della contestazione proclamarono di essere gli araldi
di una nuova civiltà, di un ‛rigoglio' di vita quale il
mondo non aveva mai conosciuto. Altri, invece, si chiesero se
questa ondata di contestazione emotiva non avesse aperto una crepa
nella civiltà occidentale, che, approfondendosi, avrebbe
portato a un declino della cultura tecnologica moderna,
così come un tempo i contestatori cristiani e una
combinazione di celibato, omosessualità, infecondità
e rifiuto delle responsabilità civili avevano contribuito a
minare l'Impero romano finché esso perse il vigore
necessario per respingere i barbari. Una frazione estremista degli
studenti contestatori, che aveva preso il nome di Weathermen, fece
effettivamente della ‛barbarie' una parola d'ordine, e si
considerò chiamata a svolgere un ruolo analogo a quello
delle tribù barbare come i Vandali e i Visigoti, che
avevano invaso e distrutto una Roma corrotta e decadente. I
Weathermen rivendicarono la responsabilità di una serie di
esplosioni avvenute in edifici legati al mondo della finanza e
dell'amministrazione. Numerose esplosioni di questo tipo ebbero
luogo in campus universitari, e in un caso, nell'Università
del Wisconsin, con effetti letali. Nondimeno, molti osservatori
credettero o sperarono che questo indulgere alla violenza fosse
una fase transitoria nella storia della contestazione americana, e
che non fosse né un segno premonitore del declino della
civiltà occidentale né l'annunzio di un tipo di
società radicalmente nuovo e imprevedibile.
L'aspetto più inquietante della nuova contestazione fu, in
effetti, il sentimento di odio nei confronti dell'intera
tradizione della civiltà occidentale che molti
intellettuali dimostrarono di nutrire. I grandi contestatori
classici, Galileo, Descartes, Spinoza, Locke, Diderot, Condorcet,
Mill e invero, in gran parte, Marx, avevano avuto una fiducia
incrollabile nelle conquiste della civiltà occidentale.
Essi credevano che la nuova dottrina, quella della scienza,
avrebbe permesso di porre termine alla miseria e all'arretratezza
tribale e religiosa; essi si attendevano che le condizioni degli
uomini si sarebbero ovunque elevate man mano che la dottrina della
scienza si fosse diffusa dalla sua fonte europea. Attribuivano
valore alla contestazione in quanto espressione di una
società libera, dedita alla ricerca e al miglioramento di
se stessa. I nuovi contestatori erano invece imbevuti di un
singolare odio per l'intera opera di civilizzazione. Come scrisse
una di loro, la giovane autrice di romanzi S. Sontag: ‟Vista in
una prospettiva di storia mondiale, la storia locale che alcuni
giovani rifiutano (con il loro amore per le espressioni oscene, la
loro mescalina, il loro riso macrobiotico, la loro arte dadaista,
ecc.) sembra assai meno piacevole e meno intrinsecamente degna di
perpetuazione. La verità è che Mozart, Pascal,
l'algebra booleana, Shakespeare, il regime parlamentare, le chiese
barocche, Newton [...] non riscattano ciò che questa
particolare civiltà ha fatto accadere nel mondo. La razza
bianca è il cancro della storia umana, è la razza
bianca ed essa sola - la sua ideologia e le sue invenzioni - che
sradica le civiltà autoctone [...], che sconvolge
l'equilibrio ecologico del pianeta, che ora minaccia addirittura
l'esistenza stessa della vita..." (S. Sontag, in ‟Partisan
review", inverno 1967, pp. 57-58).
Il contestatore giunse in tal modo a propugnare il primitivismo e
una sorta di neotribalismo. Il suo odio verso la civiltà,
verso le scienze e la tecnologia, verso le città, lo
portò a identificarsi con il Terzo Mondo, con le
popolazioni contadine dell'Asia, dell'Africa e dell'America del
Sud, contro le nazioni sviluppate dell'Europa occidentale e
dell'America del Nord. Il contestatore ammirava la figura del
guerrigliero, per es. di Che Guevara, perché la
solidarietà più profonda si realizzava, a suo modo
di vedere, proprio nelle durezze della vita dell'accampamento
guerrigliero: lì la biologia diveniva la base
dell'ideologia, e le pastoie dell'esistenza borghese cadevano,
cosicché (come disse R. Debray) si era finalmente liberi
dall'incubatrice borghese in cui si era rimasti rinchiusi fin
dall'infanzia.
La voga della contestazione emotiva sembrò affievolirsi
verso la fine degli anni sessanta. All'inizio degli anni settanta
gli studenti universitari in tutto il mondo tornarono alle loro
attività consuete. La contestazione ‛compulsiva' è
forse un fenomeno periodico, le cui ondate traggono origine dagli
alti e bassi delle emozioni umane. Se così fosse gli anni
settanta potrebbero significare un ritorno allo spirito della
contestazione razionale; le concezioni più scettiche di
uomini come Erasmo, Montaigne e Mill potrebbero allora sostituire
o moderare il fanatismo del contestatore ‛compulsivo'; allora i
contestatori potrebbero divenire, una volta di più,
un'avanguardia alla ricerca del miglioramento piuttosto che i
banditori e i profeti della violenza e della distruzione.
Con la fine della guerra nel Vietnam la contestazione assunse
più frequentemente l'aspetto di ‛movimenti di liberazione'.
La terminologia era mutuata dalla locuzione marxista ‛movimenti di
liberazione nazionale', ma adesso era adattata a movimenti che si
proponevano di rivoluzionare ‛lo stile di vita'. Il Movimento di
Liberazione della Donna, il Movimento Omosessuale di Liberazione
(Gay Liberation Movement), i numerosi movimenti che raggruppavano
i laureati nelle diverse discipline, come per esempio il Movimento
di Liberazione della Sociologia, si interessavano tutti dello
stile di vita. Anche John Stuart Mill, liberale classico, aveva
considerato positivamente la sperimentazione di nuovi modelli di
vita e la stessa eccentricità come un modo di realizzare
l'individualità. I nuovi contestatori, però,
v'introducevano un carattere totalitario; la loro insistenza sulla
‛comunità organica', il loro neotribalismo, la loro
ostilità verso la libertà accademica, la loro
prontezza nell'interrompere le lezioni dei professori con cui
erano in disaccordo, il loro odio per la democrazia liberale e per
le decisioni che scaturivano dal voto, indicavano che il
contestatore ‛compulsivo' portava dentro di sé il germe di
un neototalitarismo.
f) Teorie relative alle cause della nuova contestazione
Sono state avanzate molte teorie per spiegare il proliferare della
contestazione negli anni sessanta. La teoria di Marcuse e Goodman
sosteneva che la repressione, nella moderna civiltà
industriale, è più dura di quanto non sia mai stata;
questa teoria era affine a quella di Freud, secondo la quale ogni
progresso della civiltà comporta un'ulteriore rinuncia alla
soddisfazione dei propri istinti. Teorie di questo tipo non
potevano però rispondere a una obiezione fondamentale: che
cioè, da qualsiasi punto di vista la si consideri, la
civiltà contemporanea ha condotto la popolazione a un grado
di autorealizzazione assai più elevato rispetto a tutte le
società del passato. Libertà dalla carestia,
comodità negli alloggi, libertà di scelta del
coniuge, portentose possibilità culturali per la vita
spirituale, agiatezza, - tutto ciò è frutto della
civiltà; chiamarle, come ha fatto Marcuse, ‟largizione del
benessere", sembra lo stratagemma disperato di un neomarxista
pronto a violare il rasoio di Occam, il principio della
semplicità del metodo scientifico, e a moltiplicare le
ipotesi ausiliarie per riuscire a salvare la propria. Un'altra
teoria indicò nella guerra del Vietnam la causa principale
della nuova contestazione; e tuttavia la guerra di Corea, dieci
anni prima, aveva suscitato problemi analoghi, ma senza dar vita a
nulla di paragonabile alla contestazione suscitata dalla guerra
nel Vietnam. Un'altra teoria ancora riteneva che la contestazione
nascesse dall'alto grado di opulenza raggiunto dalla nostra
società e dalla sua morale ‛permissiva'. In una
società di questo tipo, infatti, gli istinti e le tendenze
aggressive dell'uomo vengono frustrate; non esistono ostacoli
né grandi impedimenti, non ci sono territori selvaggi da
conquistare; ciò che rimane, come per esempio la conquista
dello spazio, è un obiettivo concesso soltanto a pochi. In
particolare, si dice che i giovani sono ‛alienati' perché
il loro potenziale di energia aggressiva non riesce a trovare
alcun obiettivo. Di conseguenza, queste energie si rivolgono
contro i valori della società oppure si ripiegano in se
stesse; di qui nascono l'odio verso la civiltà,
caratteristico della contestazione moderna, e gli aspetti
autodistruttivi della ‛cultura della droga'. Un'altra teoria
sottolinea il formarsi di una vasta classe d'intellettuali e
semi-intellettuali, prodotto di un'eccezionale espansione delle
istituzioni scolastiche; ma questa classe intellettuale è
una ‛intellighenzia' di stampo umanistico o sociologico e in
quanto tale si sente obsoleta in una civiltà scientifica e
industriale, poiché è essenzialmente una classe di
dilettanti non qualificati, che tuttavia, come tutti gli
intellettuali dai tempi di Platone in poi, possiedono una
volontà di potenza, e pretendono di governare in
qualità di re-filosofi. Dietro la nuova contestazione, si
dice, ci sono le motivazioni di una nuova classe che cerca ogni
appiglio che possa contribuire a portarla al potere politico. La
teoria generazionale della contestazione, d'altro canto, ha
sottolineato come il conflitto di generazioni, pur essendo un
fatto perenne, si sviluppi, entro una società ‛permissiva'
e affluente, in una protesta che assume un carattere nichilista e
primitivo, e come gli intellettuali contestatori abbiano trovato
la loro base principale nei movimenti studenteschi dei colleges e
delle università. La tattica di questi movimenti, spesso
piena di impulsi autodistruttivi e mirante a épater le
bourgeois, rivela di nuovo come la rivolta generazionale ne sia la
latente forza motrice; dietro il bourgeois lo studente proveniente
dalla classe media vede generalmente suo padre. Nessuna teoria
della contestazione ha incontrato un'unanime accettazione; la
contestazione, forza insieme di progresso e di regresso, è
ancora oscura quanto la stessa natura dell'uomo.
g) La crisi della contestazione
È chiaro che attualmente l'idea di contestazione è
nel suo complesso in crisi nel mondo occidentale. La sua
filosofia, i suoi fini, il suo campo di validità, i suoi
metodi vanno tutti riesaminati. Perché è un fatto
che le linee di demarcazione tra contestazione, resistenza civile,
frattura violenta e guerra di guerriglia si sono confuse.
Può forse sembrare che l'odierno contestatore, quando
rivendica il diritto di ‛farsi i fatti propri', esprima in forma
colloquiale il liberalismo di Mill. Però quei ‛fatti
propri' significano l'imposizione della propria volontà
alla maggioranza tramite la forza dirompente della minoranza. La
concezione liberale della contestazione in Mill era un ita a una
difesa della democrazia rappresentativa. Il neocontestatore, col
suo atteggiamento da ‛nuova sinistra', respinge la democrazia
rappresentativa e propone una ‛democrazia fondata sulla
partecipazione' in base alla quale un'attiva minoranza di
contestatori può intervenire per negare le decisioni
scaturite dal voto degli elettori, e per imporre la propria ‛legge
superiore'. I neocontestatori oscillano, per ciò che
concerne il loro atteggiamento verso i principî etici
fondamentali, tra nichilismo e rivendicazione di una
moralità più elevata. Essi hanno giustificato lo
‛scippo', la pratica del furto come un mezzo per capovolgere il
‛sistema'. Essi hanno perpetrato il furto con scasso,
introducendosi negli uffici del Federal Bureau of Investigation
(FBI) per trafugarne gli incartamenti. Lo stesso spirito ha mosso
sacerdoti cattolici e protestanti, scienziati di Harvard, monache
e praticanti della promiscuità. Un sacerdote cattolico,
Padre D. Berrigan, discusse con i suoi seguaci la
possibilità di metter bombe in edifici pubblici e di rapire
H. Kissinger, collaboratore del Presidente. Uno studioso di
Harvard, D. Ellsberg, che svolgeva funzioni di consulente del
governo, riprodusse in numerosi esemplari dei documenti segreti
relativi alla guerra nel Vietnam, e ne consegnò una copia
al ‟New York Times". Quel giornale, animato dallo spirito della
contestazione, la pubblicò, sebbene numerosi magistrati
della Corte Suprema degli Stati Uniti ritenessero che, così
facendo, esso violasse le norme etiche del giornalismo. Si
è verificata una convergenza tra contestazione e
amoralità. Si è visto declinare il livello
accademico delle università nella misura in cui i
contestatori sostenevano la possibilità di comprare tesine
d'esame da parte degli studenti. Nell'esercito degli Stati Uniti
il morale e la disciplina dei soldati si abbassarono in seguito
alla diffusione di propaganda ‛contestatrice' nelle basi militari.
L'appello a una ‛legge superiore' era una dottrina che poteva
diffondersi dalla sinistra alla destra. In Italia, nel 1919-1920,
l'occupazione illegale delle fabbriche da parte dei lavoratori e
la propaganda marxista per una ‛dittatura del proletariato'
avevano spianato la strada a Benito Mussolini e ai metodi illegali
dei fascisti. Quando infatti la contestazione si sente libera di
violare le regole proprie di una società
democratico-liberale, il timore può spingere la
cittadinanza nel suo complesso a reagire e ad accettare una
autorità dittatoriale. Questa fu una delle tragiche
verità dell'esperienza fascista italiana. Negli Stati
Uniti, nel 1970, l'amministrazione fu intimorita dall'uso di
ordigni esplosivi, da dimostrazioni violente e da minacce di
morte. Alti funzionari dello Stato, facendo propria la dottrina
della ‛legge superiore', programmarono o permisero violazioni di
domicilio e controlli illegali diretti contro i loro avversari
politici. L'America dovette far fronte a un disgregarsi della
coscienza civile cui aveva contribuito uno sfrenato spirito di
contestazione. Sorge il dubbio di un certo fariseismo del
contestatore. Si pone, tormentoso, questo interrogativo: quanta
parte di un Tartuffe si cela dietro chi propone una ‛legge
superiore'?
h) Le conseguenze della nuova contestazione
L'ondata di contestazione iniziata nel 1960 ha lasciato tracce
profonde. I contestatori esercitarono un'influenza decisiva
nell'indebolire l'appoggio dell'opinione pubblica all'impegno
americano nella guerra del Vietnam; in quel periodo le loro visite
amichevoli nel Vietnam del Nord, le loro dimostrazioni, i roghi di
cartoline-precetto, e una propaganda incessante contribuirono a
indebolire la volontà di continuare la guerra, sia
nell'apparato statale che nell'esercito.
La contestazione ottenne successi particolari nel campo delle
relazioni individuali. La Corte Suprema degli Stati Uniti, in una
sua sentenza del 22 gennaio 1973, stabilì che la donna gode
di un diritto illimitato all'aborto durante i primi tre mesi di
gestazione. Questa sentenza fece seguito ad anni e anni di
propaganda condotta dai contestatori e, specialmente nell'ultima
fase, dal Movimento di Liberazione della Donna. La diffusa
libertà nel campo della morale sessuale, il modificarsi,
nei film, nella televisione e nel teatro, dei modi di trattare le
questioni sessuali, affrontate ormai con una franchezza
naturalistica che non si era mai vista, furono fattori
determinanti nella trasformazione del clima sociale. La Chiesa
Cattolica Romana non riuscì a impedire tali mutamenti
sociali, in quanto la sua stessa disciplina era stata parzialmente
corrosa: molti giovani sacerdoti approvarono sistemi artificiali
di controllo delle nascite, richiesero per preti e monache il
diritto di sposarsi e sostennero l'opportunità di
organizzarsi in sindacati.
Le linee direttive della contestazione furono quasi sul punto di
divenire la nuova ortodossia. Per di più, regnava una
profonda incertezza circa le conseguenze che, a lungo termine,
avrebbero comportato i nuovi rilassati modelli morali. Secondo le
teorie psicoanalitiche di S. Freud la costruzione della
civiltà si fonda sulla parziale rinuncia alla soddisfazione
degli istinti; tanto le energie sessuali quanto quelle aggressive,
sublimandosi, vengono incanalate costruttivamente in quest'opera.
Da questo punto di vista la contestazione assolve la funzione di
protestare contro le forti tensioni di una moralità civile,
limitandone allo stesso tempo la riforma ad aspetti marginali. La
contestazione contemporanea, però, ha attaccato alla base
ciò che veniva considerato come moralità civile.
L'etica del lavoro e del successo, sulla quale è stata
fondata la nostra civiltà, ne sarà di conseguenza
minata alle fondamenta? Si sa poco da un punto di vista
scientifico circa i fini e le conseguenze della contestazione;
problemi, questi, assolutamente cruciali. Infatti, tanto i
sostenitori quanto i critici della contestazione sono stati
inclini a discuterne i fini ultimi nei termini di una filosofia
dei ‛diritti', o con la vaga terminologia dell'‛alienazione'.
Anche a proposito della tecnologia industriale si è
sviluppato un importante filone di contestazione. I contestatori
hanno chiesto di porre un freno alle attività industriali
che inquinano l'atmosfera; essi hanno posto sotto accusa le
petroliere, le installazioni per la produzione di energia atomica
e gli insetticidi che inquinano mari e terre. Si è avuta
un'importante attività legislativa tesa a salvaguardare
l'ambiente della comunità. E tuttavia i contestatori
ecologici sembrano spesso nutrire un'ostilità emotiva verso
la tecnologia; la loro ideologia ha una tendenza primitivista, e a
volte essi sembrano meno interessati a riforme specifiche che a
giungere a un sistema sociale in cui l'élite dirigente sia
composta di intellettuali-ecologi. I contestatori non hanno ancora
dato vita a un movimento per la rinuncia volontaria alle
automobili, ai condizionatori d'aria e ai frigoriferi. La prossima
ondata di contestazione sarà forse un reflusso di
neopuritanesimo. Intanto, secoli e secoli di contestazione hanno
scritto le pagine più aspre e, ultimamente, le più
tormentate della storia umana.
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1993)
di Leonardo Morlino
Sommario: 1. Origini storiche e definizione. 2. Manifestazioni e
gradi. 3. Differenze contestuali. 4. Giustificazioni e funzioni. □
Bibliografia.
1. Origini storiche e definizione
Il dissenso è una nozione relativamente recente nella
storia dell'umanità: non è più vecchia di tre
secoli e mezzo. Il suo riconoscimento e la sua accettazione sono
propri della modernizzazione liberale del mondo occidentale. A
livello culturale, in paesi dominati dalla religione e dalla
tradizione non vi è posto per tale fenomeno. Anche a
livello politico, là dove le diverse forme di assolutismo
sono ancora prevalenti, non vi è spazio alcuno per il
dissenso.
Già nell'antichità classica, ad esempio ad Atene
durante il IV secolo a.C., cioè nel periodo a cui
tradizionalmente ci si rifà per indicare la 'democrazia
degli antichi', l'istituto dell'ostracismo puniva il dissenziente
ritenuto pericoloso per la comunità. Dalla romanità
fino ai Comuni italiani, poi, abbondano gli autori che sostengono
essere proprio il disaccordo, ovvero il dissenso, all'origine
della decadenza e del crollo di regimi politici storicamente molto
diversi. In breve, fino al XVIII secolo l'idea di fondo condivisa
da governanti e pensatori politici, come dalla gente comune,
è che un regime diviso da opinioni e posizioni dissenzienti
sia destinato al dissolvimento, alla sconfitta di fronte al
nemico; sia sostanzialmente inadatto alla sopravvivenza.
Successivamente, soprattutto dalla fine del XVIII e durante il XIX
secolo, con il riconoscimento anche formale del dissenso prende
corpo uno degli aspetti centrali delle liberaldemocrazie moderne;
talmente importante da passare anche in certi tipi di regime
autoritario (si veda più avanti). Che cosa è
successo?
Il dissenso per essere riconosciuto e legittimato ha bisogno di
almeno due presupposti, uno culturale e uno sociale, che si
sviluppano gradualmente intrecciandosi nel corso dei secoli; con
diversità notevoli tra paese e paese, ma sempre nell'ambito
dell'Europa occidentale. Il presupposto culturale di questo
processo sta nel riconoscimento pieno dell'individuo-persona e dei
relativi diritti inalienabili. All'esistenza acclarata e
giuridicamente garantita dei diritti si giunge attraverso
contributi successivi portati dal cristianesimo, dal Rinascimento,
dalla Riforma protestante, dal giusnaturalismo, e, infine, dal
liberalismo. Con il fissare la pari dignità di tutti gli
uomini, oppure con la stessa nozione di peccato e di grazia
individuali, il cristianesimo è il terreno più
fertile su cui si comincia a costruire la nozione di individuo. Il
Rinascimento, che pure recupera la civiltà classica,
finisce per essere anche un'esaltazione dell'individuo: artista,
scienziato, principe o condottiero. Il protestantesimo introduce
l'idea dell'autonomia individuale anche nella sfera religiosa, e
tale autonomia può prescindere perfino dall'autorità
costituita. Il giusnaturalismo postula chiaramente e
sistematicamente una dottrina dei diritti innati che, poi, vengono
precisati e sviluppati anche nella loro dimensione giuridica dal
liberalismo, soprattutto nel XIX secolo. Nei primi decenni
dell'Ottocento, peraltro, la nozione dell'individuo-persona si
estende anche ad altri paesi dell'Europa occidentale, tra cui
l'Italia.
Il riconoscimento e la difesa anche giuridica dell'individuo
costituiscono il presupposto culturale importantissimo del
dissenso, poiché solo in una società di individui
provvisti di diritti vi può essere la possibilità e
l'accettazione di idee, valori e posizioni diverse. Inoltre,
quelle diversità possono essere concretamente fatte valere
solo in una società siffatta, in una società che
abbia ormai superato sia una forte divisione per ceti, laddove vi
è stata, sia l'invadenza totale della religione nella vita
quotidiana.Il secondo presupposto del dissenso è sociale:
gli individui hanno risorse proprie e autonome rispetto
all'autorità regia o signorile e sono in grado di gestire e
controllare quelle risorse. Questo accade principalmente quando un
nuovo ceto cittadino e borghese nasce insieme alla rivoluzione
industriale, e in modo meno accentuato anche prima, cioè
quando vi è un pieno sviluppo della fase mercantilista
nelle economie dell'Europa occidentale. In ogni caso, quando non
vi è o non vi è più un monopolio pubblico nel
controllo delle risorse economiche.
L'esistenza di questi due aspetti, con le relative molteplici
dimensioni, suggerisce che non ci si trova più in
società fortemente omogenee, nelle quali, anzitutto, esiste
una religione dominante che regola la vita della comunità
tradizionale, piccola o grande che sia. Le società omogenee
non sentono neppure il bisogno del dissenso, ovvero l'esigenza del
suo riconoscimento. Integrazione e conformismo sono prevalenti. La
modernizzazione sociale e culturale, invece, introduce la
diversità, l'eterogeneità, la frammentazione
culturale, la diversificazione sociale, in una parola il
pluralismo sociale e culturale.
Il dissenso nasce e ha la sua base e la sua possibilità di
riconoscimento nell'esistenza del pluralismo. Esso caratterizza la
modernizzazione occidentale e, in una prospettiva politica, la
genesi e la formazione delle oligarchie competitive. Proprio
questo tipo di regime, caratterizzato da competizione tra
élites ristrette, ammette e riconosce per la prima volta il
dissenso politico. L'oligarchia competitiva è il precedente
storico e politico delle moderne liberaldemocrazie di massa, delle
quali appunto pluralismo e dissenso, insieme alla partecipazione
popolare, costituiscono gli aspetti principali e definitori.
La 'concatenazione', dunque, è la seguente: sul versante
delle trasformazioni culturali (e religiose) vi è il
riconoscimento della nozione di individuo con propri diritti
innati; sul versante sociale, collegato al primo, differenziazione
all'interno della società con nuovi gruppi sociali; di qui,
emergere del pluralismo culturale e sociale; effetto primo del
pluralismo, esistenza del dissenso; fondazione, quindi, di regimi
- le oligarchie competitive - in cui il disaccordo viene
riconosciuto e, per la prima volta, apprezzato, non considerato un
fatto solo negativo e deleterio per il sistema politico; in alcuni
paesi, trasformazione delle oligarchie competitive in
liberaldemocrazie di massa nelle quali, accanto alla potenziale
partecipazione politica del più largo numero di cittadini
adulti, il dissenso è consentito e protetto.
La 'concatenazione' appena abbozzata trova anche una sorta di
legittimazione nel pensiero politico tra la seconda metà
del XVIII e il XIX secolo. Se con Rousseau la regola
dell'unanimità è ancora quella prevalente,
già con Burke e il riconoscimento del ruolo dei partiti la
'novità' culturale e politica è proposta e assorbita
(v. Sartori, 1987, p. 92).
In una prospettiva più strettamente storica, si può
aggiungere che la prima istituzionalizzazione del dissenso si ha
in Inghilterra dopo il 1750, quando all'opposizione parlamentare
si riconosce un ruolo positivo di stimolo, di critica e di
controllo del governo e del suo operato (v. Poggi, 1990, cap. 4).
Viene fondato così uno degli istituti centrali e più
importanti delle oligarchie competitive e, poi, delle
liberaldemocrazie di massa. Tuttavia, in questi anni molto
rilevanti sono anche altri due eventi, la Rivoluzione americana,
segnata da un'importantissima Dichiarazione dei diritti, da una
guerra di decolonizzazione e dall'approvazione di una costituzione
liberale, e la Rivoluzione francese. Entrambi questi fatti hanno
un impatto enorme sui diversi paesi europei, ma sono anche
l'occasione - qui da sottolineare - per un rafforzamento
nell''azione' e per una sanzione definitiva del principio del
dissenso.
Dopo quegli anni e quegli eventi, l'idea che il dissenso sia
necessario e costitutivo dei regimi liberali competitivi, a
partecipazione ristretta o ampia, coesiste con la precedente
convinzione che il dissenso divida in maniera letale un sistema
politico portandolo al crollo. Sia fuori d'Europa che all'interno
di essa, la prima idea rappresenta uno dei principî usati
per legittimare le democrazie, la seconda rimane uno dei luoghi
comuni più ricorrenti per giustificare interventi militari,
ideologie totalitarie, azioni governative con contenuti
autoritari.
Dalla ricostruzione della genesi storica e analitica della nozione
di dissenso si può ricavare la sua definizione generale
come ogni forma di disaccordo o atteggiamento negativo verso il
regime o il sistema vigente. Quella ricostruzione suggerisce anche
la ragione principale per cui non è possibile accettare una
definizione ristretta della nozione: la relazione società
di individui/dissenso, il rapporto dissenso/oligarchie
competitive, il legame forte tra pluralismo e dissenso e gli altri
aspetti sopra citati, tutti postulano che la nozione qui discussa
sia la categoria più generale di ogni forma di disaccordo o
di opposizione, assuma cioè un significato generale tale da
ricoprire ogni forma di disaccordo.
Peraltro, gli autori che aderiscono alla definizione più
ristretta ritengono che con dissenso si debba indicare solamente
quelle forme di disaccordo non stabilmente organizzate, non
istituzionalizzate, che si mantengono in ambiti limitati e non
violenti, siano esse collettive o individuali. Nell'ambito di tale
definizione ristretta si può sostenere che elemento
centrale e ricorrente sia la pubblicità che si riesce a
dare alle manifestazioni di dissenso, ovvero la forza con cui si
riesce a raggiungere l'opinione pubblica e a presentare le proprie
diverse posizioni. Così non è, invece, se si accetta
la definizione più ampia, come qui si fa, proprio
perché le variegate manifestazioni di dissenso (v. cap. 2)
non sono tutte necessariamente caratterizzate dall'importanza del
ricorso alla pubblica opinione.
Come si può intendere immediatamente, anche con riferimento
ai due significati, quello ampio e quello più ristretto,
gli elementi più rilevanti nell'analisi di questo fenomeno
stanno nelle forme e nei gradi che esso assume in un sistema
politico. Il che significa che qui si privilegia il dissenso
politico, e si trascura l'importanza - peraltro notevole - di
questa nozione nei rapporti interpersonali tra uomo e donna, tra
genitori e figli o ancora, in sedi di lavoro, tra superiori e
inferiori o all'interno di gruppi che collaborano. Si tratta in
tutti i casi di sfere sociali nelle quali, di nuovo,
l'accettazione o la negazione delle diversità di opinione e
il loro riconoscimento o non riconoscimento di fatto giocano ruoli
particolarmente importanti. L'analisi di queste sfere sociali
presenta molte analogie con quella propria della sfera politica, a
cui sarà dedicato il resto dell'articolo.
2. Manifestazioni e gradi
Il dissenso politico può manifestarsi in diverse forme e a
diversi livelli. Le principali forme riguardano due dimensioni:
'profondità' e 'traduzione in azione'. Sotto il primo
profilo, il disaccordo può limitarsi a contestare singoli
provvedimenti o anche specifiche politiche governative; oppure
può investire certe regole chiave o norme basilari proprie
del regime vigente, ovvero riguardare anche gli assetti
istituzionali parimenti vigenti; o, infine, può anche
attenere ai principî basilari su cui si regge una
comunità politica, come i diritti di libertà o
eguaglianza, ovvero gli stessi principî basilari sottesi
alla struttura socio-economica, quali i diritti di
proprietà privata, il riconoscimento del profitto e anche
dell'esistenza di un mercato.
La seconda dimensione più rilevante riguarda il modo in cui
il dissenso è tradotto concretamente in azione. Infatti un
certo disaccordo, anche radicale e profondo, può tradursi
in una completa passività, che dal punto di vista politico
è sostanzialmente irrilevante; ma può anche
tradursi, al contrario, in azione più o meno organizzata e
violenta con l'intento di rovesciare l'ordinamento del paese,
ovvero in azione organizzata, ma pacifica, che segue i canali di
espressione previsti dalla legge, ad esempio quelli
dell'opposizione parlamentare. Quali siano le forme principali del
dissenso lo si può vedere in forma semplificata nella
relativa tabella che utilizza in forma incrociata i due criteri
sopra illustrati.
Questa tabella sollecita immediatamente alcune osservazioni.
Innanzitutto, il dissenso è la categoria più
generale nell'ambito di una gamma molto ampia di azioni (e di non
azioni). Inoltre, certe forme più specifiche di dissenso
possono investire sia le politiche che certe istituzioni, ovvero
possono travalicare dalla non violenza alla violenza. Nella prima
prospettiva si pensi alla 'latitudine' che può assumere la
disobbedienza civile. Nella seconda si pensi a uno sciopero
pacifico che sfocia in dimostrazioni con scontri con la polizia,
occupazione di locali pubblici, blocchi stradali o ferroviari, o
che, in un'escalation progressiva, si trasforma in episodi di
guerriglia urbana. Infine, la tabella evidenzia con chiarezza la
relazione tra la profondità del dissenso e il grado di
violenza che possono assumere certe sue forme, quali il terrorismo
e la guerriglia urbana.
La tabella suggerisce anche l'importanza di altre dimensioni per
approfondire l'analisi delle forme di dissenso. La prima di queste
riguarda la questione se il dissenso sia individuale o collettivo.
Mentre tutte le forme di dissenso passivo sono, di solito,
espressione di scelte implicite o esplicite fatte da un singolo
individuo, il dissenso attivo può essere collettivo. Se
così è, la successiva dimensione rilevante è
il grado di organizzazione raggiunto dal dissenso collettivo:
l'opposizione parlamentare sottintende un gruppo o un partito
dietro l'espressione del disaccordo. Così avviene anche per
efficaci opposizioni antiregime, contrarie cioè alle
istituzioni vigenti, o antisistema, cioè contrarie ai
principî cardine di quel sistema politico. Ma è
così anche per il dissenso che si esprime nel terrorismo o
nella guerriglia urbana. In entrambi i casi, forme sia pure
diverse di organizzazione sono necessarie.
Un quinto e ultimo criterio rilevante per distinguere tra le
diverse forme di dissenso consiste nel vedere se e come
manifestazioni di dissenso si pongano nei confronti delle leggi in
vigore. Questo criterio è particolarmente importante in un
contesto autoritario, nel quale il dissenso è formalmente
vietato e a dispetto di ciò riesce a esprimersi ed è
di fatto, in alcuni casi, tollerato dai governanti. Riprendendo
un'analoga distinzione di Linz (v., 1973, pp. 171 ss.) a proposito
dell'opposizione in regimi autoritari, si può parlare di un
dissenso legale, alegale, pseudolegale, illegale. Con queste
etichette s'intendono: 1) quelle espressioni riconosciute,
accettate e garantite dalla legge (legali); 2) quelle forme di
contrasto verso il regime che scelgono vie non esplicitamente
disciplinate dalle norme (alegali); 3) quelle modalità di
dissenso solo apparentemente tali, che in realtà tengono
gruppi incerti all'interno del regime e non violano mai le norme
vigenti (pseudolegali); infine, 4) le manifestazioni, violente e
non violente, che chiaramente contravvengono alle norme vigenti
(illegali). L'interesse principale di questo quinto criterio e
delle relative distinzioni sta nell'evidenziare un'area di
notevole ambiguità tra legalità e illegalità,
nella quale si collocano gruppi sociali dissenzienti, ma poco
attivi politicamente o incerti o poco efficaci o che addirittura
raggiungono l'effetto contrario a quello atteso di delegittimare
il regime.
3. Differenze contestuali
Una trattazione più dettagliata delle diverse forme di
dissenso non è possibile in questa sede. Qui si deve,
piuttosto, sollevare un quesito di carattere generale: quali
fattori condizionano la scelta di una forma di dissenso piuttosto
che un'altra? La risposta che viene dalla ricerca nell'ambito
della scienza politica non si allontana molto da quanto suggerito
dal senso comune. Più esattamente, la discriminante
principale viene data dalle differenze contestuali, cioè se
ci si trova in un contesto democratico o in uno autoritario, per
citare le due varianti più importanti.
Precisato, quindi, che un qualche grado di insoddisfazione vi deve
essere perché si abbia dissenso e che esso può
essere presente anche in condizioni sociali, economiche e
culturali molto diverse nel mondo moderno, per spiegare le forme
che il dissenso concretamente assume bisogna rifarsi alle
modalità di espressione delle domande politiche e alle
ideologie prevalenti. Queste sono notevolmente diverse nei regimi
democratici e in quelli autoritari, e perfino all'interno del
genus democratico o di quello autoritario le differenze restano
apprezzabili.
Se il contesto è democratico, le tre variabili principali
sono la potenzialità di espressione concreta del dissenso,
il grado di ricettività del regime e l'esistenza di
ideologie estremiste e tradizioni di violenza. Sotto il primo
profilo, le fonti di differenziazione sono date dalla diversa
misura in cui i diritti civili sono garantiti, dalla
facilità dell'accesso ai canali di comunicazione di massa,
dalla densità della rete di rapporti tra cittadini e
governanti eletti, dalle relazioni partiti/gruppi di pressione. In
generale, una maggiore ricchezza e varietà di canali di
accesso, ovvero una maggiore facilità di espressione della
domanda, mantiene il dissenso a livelli meno profondi e più
limitati e rende più frequenti le espressioni contenute
nelle colonne centrali della tabella, disobbedienza civile e
opposizione parlamentare. In breve, vi sono minori
possibilità che il dissenso si radicalizzi.
Complementare a questo aspetto è il secondo, il grado di
ricettività del regime. Al di là dell'espressione
della domanda è rilevante se e come quel disaccordo sia
recepito e assorbito. Nei regimi caratterizzati da maggiori
capacità ricettive, cioè dotati di meccanismi
istituzionali che esaltano quella ricettività attraverso la
possibilità di alternanza al governo, ovvero attraverso un
notevole decentramento regionale, le espressioni di dissenso
tenderanno a essere moderate e a svilupparsi all'interno dei
canali previsti dal regime. Nel caso opposto tenderanno a
radicalizzarsi o in direzione dell'apatia e dell'alienazione
ovvero verso comportamenti più violenti.
A queste considerazioni, però, ne vanno aggiunte altre di
segno diverso. L'esperienza democratica degli anni settanta in
Europa occidentale ha evidenziato l'importanza della prima
caratteristica rispetto alla seconda. Se, cioè, in astratto
si potrebbe supporre che ciò che veramente conta sia il
grado di ricettività del regime, poi, in concreto, è
l'altro aspetto che risulta più importante. Innanzitutto,
la possibilità di esprimere adeguatamente le proprie
domande e il proprio dissenso sembra spesso far premio sulla
effettiva soddisfazione di quel disaccordo. Questo per due motivi:
il fatto stesso dell'espressione limita e integra il dissenso;
poi, la ricettività è difficile da rilevare
empiricamente e valutare da parte dello studioso, e lo è
ancora di più per il cittadino. Dal punto di vista di
quest'ultimo conta di più, semmai, la
microricettività clientelare, che può esserci in
diversi tipi di democrazie, e perfino in certi regimi autoritari.
In società industriali con classi medie ampie e composite,
dal punto di vista del cittadino è importante anche il
mantenimento di certe soglie in termini di inflazione,
qualità di diversi servizi (scuola, salute, trasporti, e
altri), salari e profitti. Dunque, la ricettività di cui si
discute è alla fine qualcosa di molto concreto e limitato a
certe politiche economiche.Il terzo principale elemento da
considerare è il radicamento di ideologie estremiste
insieme a tradizioni di ricorso alla violenza. Quali che siano le
ragioni storiche che in alcuni paesi, specie non europei, possono
spiegare tale radicamento o il più frequente uso della
violenza come mezzo di azione politica, questo fattore è
indubbiamente molto importante per spiegare le forme assunte dal
dissenso.
Questa analisi ha tralasciato altri fattori parimenti salienti, ma
più ovvi e meno direttamente legati al problema in esame:
anzitutto, le risorse del paese anche in rapporto con la
densità della popolazione, aspetti a loro volta più
direttamente influenti sulla ricettività del regime.Se il
contesto è autoritario, il quadro cambia notevolmente.
Infatti, sebbene non si possa negare una qualche importanza ai tre
fattori sopra discussi per i regimi democratici, nel contesto
autoritario la questione si pone in modo diverso. Poiché in
quei regimi il dissenso è represso, esso si indirizza verso
forme passive o verso una radicalizzazione, assumendo caratteri di
organizzazione e di violenza. Inoltre, come già ricordato
alla fine del capitolo precedente, in quei regimi le espressioni
più rilevanti del disaccordo tendono a occupare le zone
grigie ai margini della legalità. A questo punto la domanda
più ovvia è perché i governanti autoritari
ammettano, di fatto, il dissenso se la logica di quei regimi
condurrebbe a reprimerlo. La prima risposta viene da Dahl (v.,
1971), quando evidenzia come il costo della repressione sia
talvolta superiore al costo della tolleranza. In altri e
più concreti termini, per i governanti autoritari mantenere
un apparato repressivo capillare può essere molto
più costoso che ammettere un limitato grado di dissenso, in
quanto oltretutto quel dissenso svolge paradossalmente anche una
funzione positiva. Mentre su questo punto specifico si rinvia al
prossimo capitolo, qui si può aggiungere che proprio questo
aspetto, cioè l'ammettere un limitato dissenso, è
uno degli elementi principali di differenza tra i regimi
autoritari e i regimi totalitari storicamente esistiti, che non
ammettevano alcun tipo di disaccordo ed erano pronti a sostenere
tutti i costi della repressione capillare della società.
L'ideologia, il ruolo del partito unico, il grado di
partecipazione organizzata e diretta dall'alto, la posizione
preminente del capo (duce, Führer, o jefe) erano tutti
aspetti che non consentivano l'ammissione anche soltanto di forme
limitate e controllate di dissenso.
4. Giustificazioni e funzioni
L'analisi del dissenso fin qui condotta ha fatto emergere due
paradossi. Il primo: in contesti democratici, da una parte, si
riconosce il dissenso e addirittura lo si garantisce e
istituzionalizza per rafforzarne l'espressione, ma, dall'altra, si
vede come diverse manifestazioni di dissenso abbiano un impatto
negativo e delegittimante sul regime democratico. Il secondo: in
contesti autoritari, che aboliscono di fatto le garanzie dei
diritti civili e politici, si tollerano alcune espressioni di
dissenso. Come risolvere i due paradossi rispetto a un fenomeno
negativo nei confronti di ogni regime politico, ma di cui si
apprezza la positività?
La prima risposta è normativa e attiene alle
giustificazioni del dissenso. Al di là delle sue basi
sociali, il dissenso si 'autogiustifica' in quanto espressione di
volontà individuali e collettive che si constatano diverse
da quelle della maggioranza solo dopo che ne sia stata garantita
effettivamente la manifestazione. Dunque, la giustificazione del
dissenso è duplice: come libera espressione di
volontà e come necessità di proteggere le minoranze
dissenzienti. Entrambi gli aspetti costituiscono elementi
ricorrenti delle ideologie liberali o anche liberaldemocratiche.
Dal punto di vista normativo è ovviamente irrilevante il
contesto democratico o autoritario: anche nel secondo caso,
infatti, il dissenso è giustificato in termini di diritti e
di libertà. Dunque, nella prospettiva normativa, i due
paradossi sopra indicati non sono neanche considerati rilevanti.
Nella prima prospettiva normativa rientra anche una seconda e
più specifica giustificazione: il consentire il dissenso
nelle sue diverse espressioni è utile anche a prendere
decisioni maggiormente avvertite, consapevoli, razionali rispetto
allo scopo che si vuole raggiungere. La sostanza dell'argomento
sta semplicemente nel rilevare come il dissenso e la discussione
possano essere un mezzo per approfondire un problema, esplorandone
tutte le soluzioni alternative, pesando vantaggi e svantaggi,
capendo meglio gli stessi obiettivi che si vogliono raggiungere
(v. Dahl, 1966, pp. 391-392). Se questo corrisponde all'esperienza
di tutti i giorni, non è tuttavia possibile darne
definitive prove empiriche a livello di processo decisionale
politico. Per questa ragione sembra un argomento il cui fondamento
più solido sta in un'opzione di valore, cioè nella
convinzione che il dissenso sia positivo in se stesso. Si torna
così alla precedente giustificazione.
La seconda risposta è empirica e riguarda le funzioni del
dissenso. L'aspetto centrale è che il paradosso del
dissenso in democrazia è solo apparente. Ammettendo
l'espressione di opinioni diverse e contrarie, il dissenso svolge
un'importante funzione di autocorrezione e automutamento
all'interno del regime democratico, sia in sedi governative
centrali che locali, e in questa prospettiva svolge un ruolo molto
importante nel migliorare la 'qualità' del governo.
Inoltre, dando l'opportunità di manifestare il proprio
scontento, offre canali di sfogo a un'insoddisfazione che
altrimenti si radicalizzerebbe e sfocerebbe in forme più
aperte e violente di contestazione. In questo modo, invece, si
riescono a integrare e, comunque, a mantenere nella
comunità politica anche gruppi che altrimenti ne sarebbero
rimasti fuori. Complessivamente, automutamento e integrazione
danno maggiore legittimità al regime democratico,
contribuiscono cioè al suo mantenimento. A ben vedere,
dunque, le funzioni effettivamente svolte dal dissenso portano in
direzione esattamente opposta a quella apparente, di divisione e
di conflittualità.
Tali funzioni, però, sono svolte efficacemente solo se le
sue manifestazioni si mantengono entro limiti moderati e pacifici.
In una situazione di bassa legittimità del regime e diffusa
insoddisfazione e, magari, in presenza di élites mobilitate
contro il regime, un dissenso radicale e violento ha effetti ben
diversi da quelli sopra indicati; ha, cioè, risultati
destabilizzanti sull'intero assetto democratico, magari preparando
il terreno per leggi d'emergenza, un intervento militare e una
trasformazione del regime in senso autoritario. Da questo punto di
vista, di fronte a manifestazioni radicali e violente, un regime
democratico può solo difendersi con misure di polizia, come
in verità farebbe ogni altro regime. Dunque, il dissenso si
presenta con funzioni sempre positive finché rimane
pacifico e all'interno dell'ordinamento democratico vigente.
In un contesto democratico deve essere considerata un'altra e
più specifica funzione, che non è solo
manifestazione di scontento o impulso all'automutamento. Traendo
lo spunto dal frequente ricorso ad atti di protesta da parte di
gruppi privi di risorse, si può ritenere (v. Lipsky, 1968)
che per questi gruppi la protesta, mantenuta nei limiti della
legalità, sia una vera e propria risorsa politica.
L'aspetto più delicato della strategia adottata da tali
gruppi sottoprivilegiati per avere una qualche forza contrattuale
nel processo politico è che essa può facilmente
superare la soglia della legalità e diventare violenta. In
ogni modo, il dissenso nelle sue forme di protesta legale
dà voce a minoranze sottoprivilegiate e non rappresentate
altrimenti, con scarsa capacità di organizzazione e
pressione in forme diverse; consente insomma a tali minoranze di
esprimere la propria domanda politica. In questo senso, le
espressioni di dissenso da proteggere non sono solo quelle ben
note che si svolgono attraverso canali istituzionalizzati e
consistono soprattutto in un controllo dell'operato del governo,
ma sono anche queste altre forme appena citate, che a livello di
massa prendono la via della protesta legale.
Se in democrazia forme moderate di dissenso svolgono funzioni di
legittimazione e di espressione della domanda, che dire dei regimi
autoritari che tollerano il dissenso? Si è visto sopra che
una ragione di tale tolleranza è l'alto costo della
repressione. Ora occorre aggiungere che anche in regimi autoritari
quella funzione di legittimazione e integrazione può essere
svolta dal dissenso. Anche se con modalità limitate e, di
solito, solo a livello di élite, nel tollerare il dissenso
i governanti autoritari vedono la possibilità di mantenere
all'interno del regime i gruppi poco convinti e in posizioni
marginali. Questo, alla fine, significa maggiore stabilità
del regime autoritario, anche grazie a un attento dosaggio di
tolleranza e repressione.
Per concludere, i due paradossi del dissenso sono solo apparenti.
Al contrario di quanto suggerito da molti, il dissenso ha effetti
positivi per un regime politico, se viene mantenuto entro la
legalità. Reciprocamente, il non consentirne l'espressione
porta alla sua radicalizzazione, richiede un ricorso sempre
maggiore alla repressione, contribuisce alla crisi del regime
stesso e, in presenza di altre condizioni, può portare
anche a un suo eventuale crollo.