Disobbidienza civile

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Rifiuto da parte di un gruppo di cittadini organizzati o anche di singoli individui di obbedire a una legge giudicata iniqua, attuato attraverso pubbliche violazioni della legge in questione. La locuzione è stata introdotta nel 19° sec. negli USA da H.D. Thoreau, imprigionato per essersi rifiutato di pagare le tasse in occasione della guerra che il suo paese conduceva contro il Messico. La d.c. acquistò ampia risonanza nel corso degli anni Venti del 20° sec. in India con il movimento di resistenza passiva ispirato da Gandhi. Negli anni Sessanta si espresse negli Stati Uniti attraverso l'azione di M.L. King contro la discriminazione razziale e nel movimento di opposizione alla guerra nel Vietnam. In Italia, campagne di d.c. sono state condotte, a partire dagli anni Settanta, soprattutto dal Partito radicale (per es. per la liberalizzazione dell'aborto e delle droghe leggere).


Enciclopedia delle Scienze Sociali (1993)

di Anthony D'Amato

Sommario: 1. Introduzione. 2. Grado di contestazione dell'ordine legale: a) il grado di violenza; b) il nesso; c) positivismo e giusnaturalismo. 3. Conclusione. □ Bibliografia. Introduzione

La disobbedienza civile è un caso particolare di violazione della legge. Il modo migliore per definirla è quello di distinguerla dalla protesta legale, dalla usuale attività criminale e dalla rivoluzione sociale. La disobbedienza civile, in quanto implica una deliberata violazione della legge, dev'essere distinta dalla protesta legale anche se ambedue possono coinvolgere ampi gruppi di persone e aver luogo per strada, sulle autostrade, nei parchi, ecc., e va distinta dalla normale attività criminale perché viene posta in atto apertamente. Colui che fa un atto di disobbedienza civile viola la legge in modo diverso dal criminale, il quale commette un atto illegale per trarne un profitto cercando di farla franca. Un atto di disobbedienza civile, infine, non è un atto rivoluzionario, anche se può rappresentare un passo in questa direzione, perché è compiuto non con l'intento di rovesciare il governo, ma di riformarlo.

Attraverso la disobbedienza civile può esser messa in discussione una politica governativa specifica o anche più d'una, ma non la stessa esistenza del governo. In ogni atto di disobbedienza civile è implicito l'impegno di chi protesta a ritornarsene a casa e riprendere la propria vita di normale cittadino non appena il governo muta quelle politiche che sono oggetto di contestazione. La disobbedienza civile è sempre un atto di coscienza portato avanti con le migliori intenzioni, anche se questo non lo rende automaticamente giusto o giustificato.

In realtà la disobbedienza civile non può mai essere giustificata da un punto di vista giuridico; dato che è contro la legge, la legge non può essere tollerante. Alcuni filosofi hanno considerato paradossale la conclusione che la natura stessa della disobbedienza civile renda impossibile attribuirle una giustificazione legale. Ma non si tratta di un paradosso: infatti, il disobbedire alla legge è parte integrante del programma della disobbedienza civile. Ad esempio, supponiamo che la legge vigente vieti alle persone non specificamente autorizzate l'accesso all'interno di una centrale nucleare: alcune persone organizzano un sit in all'interno della centrale per protestare contro i possibili pericoli e danni ambientali derivanti dall'energia nucleare; essi vogliono sottolineare l'importanza della loro protesta attraverso un'azione illegale, e decidono pertanto di trasgredire il divieto d'accesso entrando abusivamente nella centrale e commettendo un atto che noi chiamiamo 'disobbedienza civile'.

Supponiamo ora che il legislatore decida di fare un'eccezione alla legge sul divieto d'accesso in modo da permettere a questi gruppi di mettere in atto il sit in sul terreno della centrale nucleare: in tal modo il sit in non sarebbe più un atto di trasgressione della legge. Chiunque allora decidesse un'azione di questo tipo starebbe mettendo in atto una protesta legale e non un atto di 'disobbedienza civile'. Il gruppo che volesse comunque effettuare un atto di disobbedienza civile dovrebbe trovare in questo caso un'altra legge da violare. Se cominciasse a tirar sassi contro le finestre della centrale, ecco che allora avrebbe violato la legge che impedisce di distruggere le altrui proprietà. Solo il lancio di pietre, e non il sit in, potrebbe essere definito un atto di disobbedienza civile. Pertanto, la legge non potrà mai ammettere la liceità giuridica della disobbedienza civile, che esiste soltanto in quanto viola una legge vigente.

Anche quando un giudice o un magistrato ritiene giustificato un atto di disobbedienza civile può sentirsi costretto a stabilire che la legge è stata violata, perché la sua decisione rappresenta un atto pubblico. Se invece il giudice decidesse che non c'è stata violazione della legge, la disobbedienza civile potrebbe estendersi a tutta la società in quanto la gente si renderebbe conto che vi è stata una sentenza assolutoria da parte di una corte. Pertanto, il giudice deve attenersi alla legge pur condividendo pienamente le motivazioni che hanno determinato la disobbedienza. Conseguentemente, se coloro che hanno commesso un atto di disobbedienza civile vengono portati in giudizio, la loro difesa migliore potrebbe consistere nell'appigliarsi a cavilli tecnici, sostenendo che nel caso particolare non vi è stata violazione della legge intesa in senso stretto. Cercare di sostenere che l'atto era legalmente giustificato potrebbe far optare per una sentenza di condanna anche un giudice favorevole. Grado di contestazione dell'ordine legale

Anche se la disobbedienza civile è sempre illegale, vi sono delle notevoli differenze nel grado, anche se non nella sostanza, di opposizione alla legge. Per analizzare qualunque caso di disobbedienza civile devono essere fatte tre distinzioni fondamentali riguardo a come si è manifestata l'illegalità. Per prima cosa va stabilito se l'atto di disobbedienza civile ha comportato l'uso della violenza o se si è trattato di resistenza passiva e pacifica. Bisogna quindi determinare se e quale nesso vi sia tra la legge che è stata violata e la legge o la politica contro la quale era stata attuata la protesta. La terza distinzione, relativa al comportamento di coloro che protestavano al momento dell'arresto, può essere definita la distinzione tra 'positivismo' e 'giusnaturalismo'. Tutte e tre queste distinzioni si collegano in ultima analisi alla medesima questione: il grado di contestazione o di sconvolgimento dell'ordine legale vigente che la disobbedienza civile si propone di conseguire

Il grado di violenzaDiversamente dai rivoluzionari, coloro che attuano la disobbedienza civile vogliono modificare certe politiche o certe leggi del governo. Sono queste, e non la struttura di governo nel suo insieme, a essere considerate cattive. Se la disobbedienza civile è considerata un male necessario da infliggere alla società, così da convincere altre persone a far pressione sul governo perché cambi la sua politica, allora da un punto di vista morale essa non deve provocare un danno maggiore di quello che provocherebbe la politica in oggetto. Sulla base di tali considerazioni morali molti hanno equiparato la disobbedienza civile alla resistenza passiva predicata da Gandhi in India tra gli anni venti e trenta.

A un livello più profondo la disobbedienza civile non violenta trova le sue radici nelle tradizioni cristiana, induista e buddhista. Queste religioni, che assegnano importanza prioritaria all'anima individuale e che considerano ogni persona in qualche modo divina, ritengono ingiusta la disobbedienza civile violenta in quanto infligge un danno agli individui. Secondo questi sistemi religiosi, la disobbedienza civile contro presunte ingiustizie deve avere natura pacifica. L'islamismo, invece, considerando supremamente importante l'annientamento delle forze del male, accetta il principio della gihād (guerra santa), e giustifica quindi l'uso della violenza.

In pratica, tuttavia, per ogni atto di disobbedienza civile si può parlare di violenza, e pertanto la questione si riduce al problema del suo livello. Per esempio, un gruppo di persone può attuare una protesta contro la politica del governo in fatto di aborto sdraiandosi in mezzo a una strada o a un'autostrada per bloccare il traffico. Questo di per sé può non essere un atto violento, ma può risultare tale per le persone i cui veicoli vengono bloccati, ad esempio per qualcuno che viene trasportato in ospedale d'urgenza. Un'altra forma di violenza è il danno alla proprietà. I cosiddetti Watts riots causarono estesi danni alla proprietà in molte aree urbane degli Stati Uniti negli anni sessanta. Questa forma di disobbedienza civile può avere ripercussioni simili a quelle di atti violenti per le persone anziane e inferme che vivono nelle case prese di mira. Un genere diverso di presunta violenza può essere quello della resistenza di massa al servizio militare. Comizi che invitino alla resistenza alla coscrizione e a bruciare le cartoline precetto possono sembrare ad alcuni un diretto ostacolo alla difesa militare della nazione e quindi l'accettazione di una potenziale violenza perpetrata dall'esercito di una nazione nemica. Infine, una forma di violenza diretta è quella di coloro che protestano contro l'aborto attaccando fisicamente dottori, infermieri e pazienti che cercano di entrare nei centri e presidi medici dove l'aborto è praticato.Sembrerebbe, quindi, che il grado di violenza insito in ogni atto di disobbedienza civile sia solo una questione di scelta strategica. Vi possono essere vari gradi di violenza diretta o indiretta a seconda del tipo, del luogo e del modo in cui avviene la protesta. Chi attua una protesta di questo tipo può decidere di aumentare il livello di violenza per richiamare maggiormente l'attenzione pubblica sul problema per il quale si batte, sebbene la maggiore notorietà così ottenuta possa essere controbilanciata dalla reazione negativa che provoca nel pubblico. La dottrina della resistenza passiva sostenuta da Gandhi può certo esser vista anche come una scelta strategica mirata a ottimizzare il grado di sostegno pubblico al suo movimento

Il nessoQuanto più strettamente l'atto di disobbedienza civile è correlato alla legge o alla politica messa in discussione, tanto maggiormente i cittadini e il governo saranno disposti a tollerare la disobbedienza, ma tanto minore risonanza avrà nell'opinione pubblica. Se gli animalisti, ad esempio, effettueranno un sit in in un laboratorio che utilizza le scimmie per i propri esperimenti, la violazione del divieto d'accesso sarà probabilmente considerata un problema locale e non avrà particolare risonanza né determinerà una reazione da parte della polizia. In questo caso il nesso tra il laboratorio e il sit in è chiaro e ovvio.

L'atto avrebbe invece risonanza maggiore e vi sarebbero maggiori probabilità di arresto o incriminazione se gli animalisti cercassero di chiudere l'intera università o l'intero stabilimento di cui il laboratorio fa parte. In questo caso il nesso tra l'università e la causa sostenuta da coloro che protestano è più tenue. Infine, risonanza ancora maggiore e arresto o incriminazione quasi sicura vi sarebbero se coloro che protestano effettuassero un blocco totale delle strade e autostrade della città nella quale si trova il laboratorio in questione. In quest'ultimo caso il nesso tra la causa difesa dagli animalisti e il traffico cittadino può dirsi veramente debole. La gran parte dei cittadini probabilmente percepirà la protesta non nei termini del messaggio che vuol diffondere, ma nei termini del danno che essa infligge alla società, e il suo risultato potrebbe essere controproducente.

Il problema del 'nesso' è pertanto un problema di strategia, in quanto ha un'influenza diretta sulla pubblicità e sulla condanna sociale che l'atto può ricevere. Proprio come il grado di violenza, così anche il grado di connessione varia proporzionalmente alla pubblicità o alla possibile reazione negativa che può suscitare. Ciò non vuol dire, tuttavia, che l'attenuazione del nesso non sia mai valida da un punto di vista strategico. Vi sono casi in cui una legge o una politica governativa sembrano così perniciose da giustificare delle misure radicali, e allora il confine tra disobbedienza civile e rivoluzione può essere abbastanza labile.

Positivismo e giusnaturalismoDato che un atto di disobbedienza civile è illegale, prima o poi interverrà la polizia per arrestare i protestatari, i quali dovranno allora scegliere fra tre comportamenti diversi: potranno cooperare con la polizia e non resistere all'arresto; potranno opporre una resistenza passiva, per cui la polizia dovrà portarli di peso in prigione o in tribunale; potranno opporre un'attiva resistenza all'arresto, che è naturalmente l'atteggiamento che genera maggior trambusto. Anche dopo che sono stati portati in prigione, i protestatari possono scegliere fra tre atteggiamenti diversi: possono dichiararsi colpevoli; possono tentare un accomodamento con il promotore dell'azione legale; possono infine assumere un avvocato che li difenda dall'imputazione.

Dal punto di vista della polizia o di qualunque altro pubblico ufficiale, il primo comportamento di ognuna delle due possibilità di scelta (non opporsi all'arresto e dichiararsi colpevole) è l'unico onorevole. I pubblici ufficiali hanno un interesse in gioco nella difesa del sistema legale: essi infatti non sarebbero 'pubblici ufficiali' al di fuori del sistema di leggi che definisce obblighi e rapporti all'interno della società. È chiaro che preferirebbero che non vi fosse mai alcun atto di sfida a quella stessa legge che crea e rende necessario il loro lavoro. Non potendo il governo prevenire gli atti di disobbedienza civile, i pubblici ufficiali pretenderebbero almeno che coloro che li commettono ammettessero che si tratta di atti illegali e non si opponessero all'arresto e alla prigione.

All'epoca della contestazione della guerra del Vietnam alla fine degli anni sessanta, il rappresentante del governo federale degli Stati Uniti davanti alla Corte Suprema, Erwin Griswold, tenne una conferenza alla Tulane University nella quale riconobbe che i dissidenti potevano sentire l'obbligo morale di disobbedire alla legge, ma aggiunse: "Nello stabilire se e quando esercitare il diritto morale di disobbedire al dettato della legge, bisogna anche tener presente che la società non solo non ammette, ma non può ammettere che questa decisione dia diritto a una deroga. È nella tradizione della disobbedienza civile propugnata da Gandhi che una sincera coscienza individuale preveda che la legge punirà questa affermazione di principio personale. [...] Colui che, sulla base delle proprie convinzioni morali, contempla la possibilità di un atto di disobbedienza civile non deve sorprendersi né lamentarsi se da ciò può conseguire un'incriminazione. E deve anche accettare il fatto che una società organizzata non può sopravvivere su nessun'altra base. Può sperare che il suo atto serva a far modificare la legge. Ma se non vi riesce non può rammaricarsi del fatto che la legge venga applicata contro di lui" (v. Griswold, 1968, pp. 726 e 738).

La posizione di un pubblico ufficiale come Griswold è comprensibile da un punto di vista politico. La disobbedienza civile viene tollerata fintantoché non vi sia resistenza all'arresto, ma spaventa il pensiero che, se coloro che protestano oppongono resistenza all'arresto e riescono nel loro intento, l'intera struttura di governo potrebbe vacillare. Per questa ragione i pubblici ufficiali insistono sulla necessità che chi attua la disobbedienza civile faccia propria la loro stessa posizione morale e concordi quindi sulla legittimità dell'arresto.Il punto di vista politico dei pubblici ufficiali trova il proprio fondamento nella giurisprudenza positivistica. Nella sua enunciazione originale, risalente a Thomas Hobbes e a Jeremy Bentham, il positivismo considera le leggi alla stregua di un insieme di ordini emanati dal sovrano che specificano quali sono gli atti che gli individui devono o possono compiere e quali quelli che non devono o non possono compiere. Il positivismo non si esprime sul contenuto degli ordini: questi sono 'validi' come 'legge' per il fatto stesso di essere ordini che possono esser fatti risalire al sovrano. Un secondo insieme di ordini specifica le pene ('sanzioni') da comminare a chi ha violato qualsiasi direttiva del sovrano. Nell'elegante analisi della posizione positivistica effettuata da Hans Kelsen, tutte le leggi vengono ridotte a una proposizione condizionale: "Se tu fai X, allora il governo farà Y a te". Per esempio, invece di dire ai cittadini di non rapinare le banche, la legge secondo la formulazione di Kelsen dice che se un individuo rapina una banca, il governo lo metterà in prigione per dieci anni. La formula di Kelsen stabilisce con chiarezza che la sanzione - ciò che farà il governo - è una componente irriducibile della legge. O, per dirla nei termini usati da Alexander Hamilton prima di Bentham e Kelsen, "se alla disobbedienza non è annessa alcuna pena, le risoluzioni o gli ordini che pretendono di essere leggi non saranno in realtà niente altro che consigli o raccomandazioni" (The Federalist, n. 15).

È importante notare che nella visione positivistica del diritto non viene dato alcuno spazio alla moralità. I positivisti, naturalmente, riconoscono l'esistenza della moralità ma la considerano assolutamente estranea al sistema legale. Così, secondo la formula di Kelsen, qualsiasi legge può prendere il posto di X, e qualsiasi sanzione governativa quello di Y; la moralità non ha niente a che fare con tutto ciò.Un cittadino che consideri la possibilità di commettere un atto di disobbedienza civile può usare la formula di Kelsen per stabilire le possibili conseguenze del suo atto. La sua protesta potrebbe avere uno qualsiasi tra molti obiettivi, come impedire l'aborto, o la costruzione di una centrale nucleare, o la sperimentazione sugli animali, o il trasporto di truppe al fronte di una guerra ingiusta, e così via. Supponiamo che si consideri la possibilità di impedire ai lavoratori l'accesso a una fabbrica di armi biologiche o chimiche e che la pena prevista per aver deliberatamente violato il divieto d'accesso sia di sei mesi di prigione; in questo caso il cittadino può usare la formula di Kelsen e concludere: "Se io blocco l'entrata alla fabbrica di armi, il governo mi metterà in prigione per sei mesi". Questo è un calcolo razionale che potrebbe fare il cittadino, e le considerazioni morali non vi hanno per ora alcuna parte.

Ma supponiamo ora che questo cittadino sia convinto che la produzione di armi biologiche e chimiche sia il peggiore dei delitti. Egli può ritenere che se queste armi fossero usate o se vi fosse un'involontaria fuoruscita di questi prodotti dalla fabbrica potrebbero contaminare la biosfera e provocare la distruzione dell'umanità. Egli ne deduce che il governo non ha il diritto morale di permettere la produzione di tali armi e, procedendo oltre, che ogni cittadino ha il dovere morale di fare tutti i passi necessari per impedire tale produzione. E inoltre nessuno ha alcun diritto morale di impedirgli di farsi avanti e bloccare col suo corpo l'accesso in fabbrica dei lavoratori. Insomma, se egli ha il diritto morale di fermare la produzione di armi biologiche e chimiche, ne consegue che nessun altro ha il diritto morale di interferire con la sua decisione. Pertanto, se egli decide di bloccare l'accesso dei lavoratori alla fabbrica di armi biologiche, né la polizia né nessun altro ufficiale pubblico dovrebbe avere il diritto morale di arrestarlo. E anzi, egli avrebbe il diritto morale di opporre resistenza all'arresto, perché sta compiendo un atto di grande moralità, sta impedendo la produzione di armi terribili. Questo cittadino potrebbe sentirsi giustamente indignato se la polizia cercasse di effettuare il suo arresto, potrebbe - a differenza del cittadino dell'esempio di Griswold - rammaricarsi del fatto che la legge viene applicata contro di lui. Potrebbe, anzi, opporsi all'arresto e mettere in tal modo in discussione l'intero ordine legale positivistico.

Opponendosi all'arresto egli si comporta secondo la tradizione giusnaturalistica, che considera la moralità come parte integrante della legge e inseparabile da essa. La versione giusnaturalistica della formula di Kelsen si otterrebbe sostituendo il termine 'farà' col termine 'dovrebbe fare', cioè: "Se tu fai X, allora il governo dovrebbe fare Y a te". In base a questa sostituzione, il giusnaturalismo pone all'ufficiale incaricato di far osservare la legge l'obbligo morale di farla osservare. Ma questo obbligo morale sarebbe sentito dall'ufficiale preposto a far osservare la legge solo se quella legge fosse in sé morale e giusta. Se la legge (X) è morale e giusta, allora l'ufficiale dovrebbe infliggere la sanzione legalmente specificata (Y) a colui che viola la legge. Ma se la legge è immorale (come quella che permette la produzione di armi biologiche letali), allora l'ufficiale reputandola immorale concluderà di non dover infliggere la sanzione.

Secondo la tradizione giusnaturalistica ciceroniana e tomistica, un atto o è morale o non lo è, e qualunque osservatore ragionevole dovrebbe raggiungere la stessa conclusione. Secondo questa tradizione, sia chi protesta sia l'ufficiale dovrebbero esser d'accordo, ad esempio, sul fatto che la produzione di armi biologiche è immorale. Secondo una visione più moderna e forse più obiettiva del giusnaturalismo, ha importanza solo il punto di vista dell'ufficiale: se l'ufficiale considera la legge immorale, allora non dovrebbe infliggere alcuna sanzione a chi protesta. Se l'ufficiale non è d'accordo con chi protesta, nel senso che egli ritiene la legge morale e chi protesta invece immorale, il suo punto di vista prevarrà per una ragione di forza bruta, in quanto egli ha a suo sostegno l'intero apparato di potere dello Stato. In realtà, anche la versione moderna del giusnaturalismo gravita intorno a una visione oggettivistica della moralità e non accetta il relativismo morale suggerito dal disaccordo tra l'ufficiale e chi protesta. Tuttavia, quando vi è disaccordo sul fatto, l'unica soluzione è che uno dei due contendenti persuada l'altro di quale sia la verità morale. Anzi, l'atto stesso della disobbedienza civile potrebbe essere un fattore di persuasione dell'ufficiale quanto all'immoralità della legge.

Hans Kelsen si sarebbe opposto a qualunque tentativo di sostituire nella sua formula il termine normativo 'dovrebbe fare' a quello descrittivo 'farà'. Si sarebbe opposto in base al fatto che la normatività è un fenomeno soggettivo, mentre il suo positivismo era una descrizione del tutto scientifica del sistema legale. I positivisti come Kelsen ritengono che la loro sia l'unica teoria realistica del diritto. E tuttavia tale teoria può esser criticata proprio su basi realistiche. Essi non sono mai riusciti a spiegare perché mai qualunque ufficiale governativo farà osservare la legge. E anche se i positivisti hanno ragione nel ritenere che i cittadini osserveranno la legge per il calcolo prudenziale che la disobbedienza sarà punita dalla polizia e dai pubblici ufficiali, non sono però riusciti a fornire una spiegazione del perché la polizia e i pubblici ufficiali dovrebbero essi stessi rispettare la legge. Non c'è alcun meccanismo nella teoria positivistica che dia conto del rispetto della legge da parte dei pubblici ufficiali.

La mancanza di tale meccanismo assume un'importanza cruciale nel caso in cui colui che protesta si opponga all'arresto e l'agente di polizia si trovi a dover risolvere il problema di far rispettare una legge che egli stesso considera una cattiva legge. La teoria positivistica potrebbe semplicemente dire che l'agente di polizia ha il dovere di far rispettare la legge, ma poiché il contenuto morale è del tutto estraneo al positivismo, tutt'al più il termine dovere è in questo caso parassitario della nozione normativa standard di dovere. La sola spiegazione di dovere che rientri nella teoria positivistica è quella secondo la quale una legge valida deve essere osservata perché è una legge. Ma questa spiegazione elude il problema. È una variante dell'asserzione centrale del positivismo, secondo cui agli ordini si obbedisce perché sono ordini.

Il meccanismo che manca, nel caso dei pubblici ufficiali, dev'essere normativo. I pubblici ufficiali non possono essere obbligati a rispettare la legge perché ciò richiederebbe altri pubblici ufficiali preposti a questa funzione, mentre in realtà non c'è nessuno che possa obbligare al rispetto della legge i funzionari che la fanno rispettare. Questo rispetto della legge, nel caso dei pubblici ufficiali, determinerebbe una catena infinita. Pertanto, solo una teoria che includa la normatività può spiegare realisticamente quale sia la ragione che spinge i pubblici ufficiali a rispettare la legge. La teoria giusnaturalistica fornisce il meccanismo mancante, perché essa sola riconosce che la normatività può essere intrinseca alla legge. Tale meccanismo, espresso nei termini della formula di Kelsen, sostituisce 'dovrebbe fare' al termine 'farà'. Col termine normativo 'dovrebbe' si riconosce che i pubblici ufficiali incaricati di porre in essere la legge sono essi stessi chiamati a compiere un atto di coscienza: questo può essere anche di poco conto, come il calcolo che essi saranno premiati dai superiori se faranno osservare la legge dai cittadini, ma potrebbe anche trattarsi di un atto morale, come rifiutarsi di far rispettare una cattiva legge. L'elemento essenziale è che la scelta morale del funzionario è parte del meccanismo intrinseco della legge e non qualcosa a essa estrinseco.

Sostituendo le parole 'dovrebbe fare' alla parola 'farà' nella formula di Kelsen, ne consegue che se un funzionario si rifiuta di far osservare una certa legge sulla base del fatto di ritenere che quella particolare legge è cattiva, egli non sta compiendo un atto illegale. Infatti la sanzione che rende completa la legge è operativa soltanto se il funzionario, nel decidere di far osservare la legge, compie una scelta morale. Se il funzionario si rifiuta di farla osservare, allora la formula di Kelsen nella sua versione giusnaturalistica modificata non ha prodotto una 'legge'. Il meccanismo giusnaturalistico, concedendo al funzionario la possibilità della scelta morale, ha così introdotto nella legge la moralità. Positivismo e giusnaturalismo non sono solo delle astratte teorie della giurisprudenza, ma influiscono sul modo di considerare la legge e gli obblighi legali da parte dei cittadini. Se i funzionari governativi e gran parte dei cittadini credono che il diritto sia costituito da un insieme formalistico di obblighi privo di connessioni intrinseche con la moralità, allora il loro atteggiamento avrà un notevole effetto sulle scelte strategiche di coloro che decidono di compiere un atto di disobbedienza civile.

Dato che il positivismo è attualmente considerato la teoria prevalente nel diritto, funzionari come Erwin Griswold ritengono che l'intero impianto della legge possa crollare se coloro che protestano riescono a opporsi all'arresto. A loro avviso se una legge viene messa in discussione con successo una volta, l'intera autorità della legge viene messa in discussione e possono crollare tutte le strutture, da essa derivanti, che obbligano alla sua osservanza. Questa sensazione si basa sulla incapacità dei funzionari di distinguere moralmente una legge rispetto a un'altra: secondo i positivisti tutte le leggi sono ugualmente valide. Pertanto, in una società in cui prevalga una teoria del diritto positivistica, chi compie un atto di disobbedienza civile con l'azione stessa di resistere all'arresto minaccia l'intera struttura legale. Per usare le parole di Griswold che abbiamo citato in precedenza, una "società organizzata non può sopravvivere" a meno di non riuscire a fermare e imprigionare tutti coloro che protestano.

Così, quando in una società prevale il positivismo giuridico, chi, in seguito a un atto di disobbedienza civile, si oppone all'arresto in sostanza alza quella che la società percepisce come la posta in gioco. I pubblici ufficiali reagiranno rapidamente, con decisione e con forza, contro coloro che si oppongono all'arresto, in quanto sentono che se chi protesta riesce a violare la legge e a farla franca l'intero impianto del diritto può crollare. Essi sono convinti che tutte le leggi, indipendentemente dal loro contenuto, devono esser fatte osservare e che ogni trasgressione all'obbedienza di una qualsiasi legge mette in discussione il concetto stesso di obbedienza alla legge. Quindi, all'aumentare del grado di resistenza all'arresto di chi protesta, aumenta la pubblicità che viene data al gesto di protesta e aumenta anche la possibilità di una reazione contraria da parte del pubblico. In una società positivistica, pertanto, l'aumento del grado di resistenza all'arresto ha un effetto simile a quanto abbiamo detto prima a proposito delle scelte strategiche che l'autore della disobbedienza civile può effettuare: aumentare il livello di violenza della protesta e attenuare il nesso tra la legge che viene contestata e la legge che viene violata.

La situazione è diversa in una società in cui prevalga la visione giusnaturalistica del diritto. In questo caso i pubblici ufficiali e i cittadini sono in grado di distinguere una legge dall'altra in base alla sua moralità. Se una certa norma (come quella che permette di produrre armi biologiche) è considerata non buona, i pubblici ufficiali potrebbero non cercare di arrestare coloro che stanno impedendo l'accesso alla fabbrica produttrice. Una eventuale decisione di non effettuare l'arresto non sarebbe considerata tale da mettere in pericolo l'intero impianto legislativo, ma anzi il pubblico tenderebbe mentalmente a isolare la legge cattiva. Il non averla fatta rispettare si tradurrebbe automaticamente nella sua espunzione dalla lista delle norme legali, una situazione analoga a quella espressa dal concetto romano di desuetudo (norme che divengono nulle per non esser state osservate per un certo periodo di tempo).

Così, se in una società di questo tipo un atto di disobbedienza civile avesse lo scopo di mettere in discussione una legge ritenuta iniqua dalla polizia e dai pubblici ufficiali, e se questi smettessero di cercar di arrestare i contestatori non appena vi fossero segni da parte di questi ultimi di una resistenza all'arresto, allora la legge in questione potrebbe perdere efficacia. Anzi, secondo la teoria giusnaturalistica in senso stretto la legge diverrebbe nulla. Ma la perdita di quella singola legge non renderebbe instabili le altre leggi del sistema, supponendo che queste fossero generalmente ritenute morali e giuste. L'eliminazione di una legge cattiva determinerebbe casomai un rafforzamento del sistema legale e delle restanti leggi di cui questo è fatto. Pertanto, secondo la strategia della disobbedienza civile, la resistenza all'arresto in un sistema giusnaturalistico non significherebbe necessariamente un aumento della posta in gioco, ma anzi si potrebbe in tal modo riuscire a rendere invalida proprio la legge contro la quale si protesta. Conclusione

La disobbedienza civile è un fenomeno che riguarda una minoranza. In una società democratica, se la maggioranza delle persone ritenesse che una legge o una politica debbano essere cambiate, esse verrebbero cambiate. Pertanto il messaggio portato avanti dalla disobbedienza civile è il messaggio di una minoranza che tenta di modificare una legge approvata dalla maggioranza. È un messaggio elitario col quale si vuol far sapere alla maggioranza che per quanto essa possa avere i voti necessari a far approvare una cattiva legge, esiste una minoranza che dà di tale legge un giudizio tanto negativo da giustificare un atto di disobbedienza civile.Da questo punto di vista la disobbedienza civile si trova in sintonia con una prospettiva giusnaturalistica della democrazia. In uno Stato democratico che abbia accettato la teoria giusnaturalistica la legge incorpora la moralità. Invece, in uno Stato democratico che abbia accettato la teoria positivistica, ogni legge è valida fintantoché sia approvata dalla maggioranza dei votanti (o dai suoi rappresentanti). Quindi, al livello più profondo, il concetto di disobbedienza civile è strettamente connesso con la natura della teoria democratica dello Stato.