Cesarismo
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    cesarismo Regime politico autoritario basato sul potere di un uomo
    'forte', in genere appoggiato dalle forze armate e dotato di
    consenso popolare (comunque sollecitato e ottenuto), perché dotato
    di carisma e capace di porre termine a una situazione di disordine e
    di conflitto sociale e politico. La sua origine storica sta nel
    regime instaurato nella Roma antica da Gaio Giulio Cesare. In epoca
    moderna il termine è stato applicato ai regimi instaurati dai due
    Bonaparte e, in generale, ai regimi autoritari di destra.
    
    
    Enciclopedia delle Scienze Sociali (1991)
    
    di Angelo Panebianco
    
    Sommario: 1. Definizione. 2. La teoria del bonapartismo. 3. La
    teoria del carisma. 4. Cesarismo e democrazia: la democrazia
    plebiscitaria. 5. Cesarismo e politica internazionale. 
    
    1. Definizione
    
    Per cesarismo si intende, in prima approssimazione, un regime
    politico il cui fondamento è costituito da un rapporto diretto,
    veicolato da tecniche plebiscitarie di organizzazione del consenso,
    fra un leader e gli appartenenti a una comunità politica. Nonostante
    l'ispirazione provenga da due differenti epoche storiche e i termini
    evochino due figure diverse di leader (Giulio Cesare e Napoleone
    Bonaparte), nel lessico politico contemporaneo cesarismo e
    bonapartismo sono termini intercambiabili e come sinonimi verranno
    considerati anche in questo articolo. La definizione di cesarismo
    sopra esposta corrisponde, grosso modo, alla definizione che ne dà
    il senso comune.
    
    A causa dell'eccessiva genericità, però, essa può servire solo per
    una prima delimitazione del campo, in quanto consente di escludere
    dall'ambito del fenomeno politico considerato tutti i casi in cui:
    
    1) non esiste una leadership individuale, ossia al vertice del
    regime, o dell'organizzazione politica, non c'è un solo leader ma
    una élite e, pertanto, le funzioni di leadership sono esercitate
    collettivamente da un gruppo più o meno ristretto;
    
    2) i rapporti di potere fra il leader e i seguaci non dipendono
    dall'impiego di tecniche plebiscitarie di organizzazione del
    consenso.
    
    Se ci si ferma alla definizione proposta, il concetto di cesarismo
    risulta molto ricco sotto il profilo della denotazione (abbraccia
    moltissimi casi storici, fra loro diversissimi), ma povero sotto il
    profilo della connotazione. Per procedere oltre occorre però
    considerare una difficoltà che pesa su qualunque analisi dei
    fenomeni cesaristici e che consiste nel fatto che le scienze sociali
    contemporanee, anche la scienza politica, concentrano
    tradizionalmente la propria attenzione sulle dimensioni strutturali
    dei rapporti sociali e politici ed evitano normalmente di trattare
    le componenti personali, idiosincratiche, di quei rapporti.
    Qualunque altra cosa sia il cesarismo, esso comporta in primo luogo
    l'esistenza di un rapporto di potere fra un individuo (il leader) e
    i suoi seguaci. Il cesarismo infatti appartiene al campo dei regimi
    politici personalistici, ove ciò che conta sono, in primo luogo, le
    caratteristiche personali e le scelte di un singolo individuo. La
    svalutazione del ruolo degli individui che è tipica delle scienze
    sociali (quanto meno nelle versioni strutturalista e
    funzionalista-sistemica) ostacola quindi l'esame del fenomeno
    cesaristico. Non è casuale che lo strumento interpretativo più utile
    resti, come vedremo, la teoria weberiana del carisma; ma in Weber, a
    differenza di altri scienziati sociali, era forte la convinzione
    dell'importanza delle singole personalità nella storia, una
    convinzione ispirata dalla visione romantica e dal pensiero
    nietzschiano. Ciò spiega perché nella scienza politica contemporanea
    non sia possibile reperire analisi persuasive del cesarismo (anche
    se è possibile reperire indicazioni sulle condizioni politiche,
    economiche, ecc., che conducono a esso). Il cesarismo non compare
    con la statura e la dignità di un fenomeno politico autonomo in
    nessuno dei molti tentativi di classificazione dei regimi politici
    che la scienza politica ha fatto in questo secolo. Ad esempio, non
    appare nelle classificazioni delle forme di dominio di Lasswell e
    Kaplan (v., 1950): non in quella che, seguendo Aristotele,
    differenzia i regimi politici a seconda del numero dei governanti
    (autocrazie, oligarchie, repubbliche, nei termini di Lasswell e di
    Kaplan), né in quella, più originale, che li distingue a seconda
    delle modalità di esercizio del potere entro il corpo politico
    (burocrazia, aristocrazia, etocrazia, demosocrazia, virocrazia,
    plutocrazia, tecnocrazia, ideocrazia). Neppure la letteratura più
    recente offre indicazioni (v. Linz, 1975; v. Morlino, 1986). Anche
    gli studiosi che utilizzano la teoria marxiana del bonapartismo si
    limitano a segnalare quasi esclusivamente le dimensioni strutturali
    del fenomeno. Così, ad esempio, Rouquié, per il quale un regime
    bonapartista "è il regime sostenuto da una burocrazia civile e
    militare, relativamente indipendente dai gruppi sociali dominanti,
    che si sforza di risolvere i conflitti che paralizzano la classe
    dirigente depoliticizzando in modo non violento (o non terrorista)
    l'insieme delle classi della società" (v. Rouquié, 1975, p. 1098).
    
    Poiché la letteratura corrente non aiuta a decifrare il fenomeno, il
    primo passo da fare è tentare di distinguere il cesarismo da altri
    tipi di rapporti politici con cui potrebbe essere confuso. Se la
    presenza della condizione leadership individuale è cruciale per
    identificarlo, non è però sufficiente: occorre infatti ancora
    distinguere il cesarismo da altri tipi di organizzazione politica
    (cacichismo, caudillismo, sultanismo) in cui compare il fattore
    leadership individuale e nei quali è anche presente la possibilità
    del ricorso a tecniche plebiscitarie di organizzazione del consenso.
    
    Per delimitare davvero il fenomeno occorre introdurre due
    specificazioni:
    
    a) il legame emozionale leader/seguaci è, nel cesarismo, preminente
    rispetto ad altri tipi di legami (clientelari, ecc.).
    
    Ciò consente di differenziare il cesarismo da altre forme di
    organizzazione del potere (ad esempio il cacichismo) in cui il
    legame leader/seguaci è fondato, prevalentemente, su una transazione
    fra beni materiali e consenso;
    
    b) l'organizzazione politica del cesarismo si afferma sempre a
    seguito di un processo di deistituzionalizzazione (v. Huntington,
    1968) delle organizzazioni e delle procedure politiche preesistenti.
    
    In altri termini, parleremo di cesarismo se, e solo se, la
    leadership individuale nasce sulle ceneri di un'organizzazione
    politica istituzionalizzata che è stata colpita da un processo di
    decadenza e di disorganizzazione.
    
    Il cesarismo sorge in risposta alla crisi di un'organizzazione
    politica, in virtù di una decomposizione del precedente ordine
    politico. Ciò consente di differenziare questa forma politica da
    altre, come ad esempio il caudillismo, in cui sono presenti tanto la
    leadership personale quanto, talvolta, le tecniche plebiscitarie, ma
    la cui genesi non è la risposta diretta e immediata a una crisi
    politico-organizzativa. Quest'ultima specificazione aiuta a cogliere
    un importante elemento distintivo del cesarismo nella sua forma
    pura: la provvisorietà. Il cesarismo è un regime di transizione,
    intrinsecamente instabile. Sorge per fronteggiare uno stato di
    disorganizzazione e di crisi acute della comunità politica ed è
    destinato a lasciare il posto a forme diverse e più stabili di
    organizzazione del potere. I regimi di transizione fra una forma
    stabile e l'altra possono assumere diverse fisionomie (v. Morlino,
    1986; v. Linz e Stepan, 1978), e nell'interpretazione qui adottata
    il cesarismo è una di esse. La definizione che proponiamo è allora
    la seguente: un regime politico di transizione, che sorge in
    risposta alla decadenza di istituzioni politiche preesistenti ed è
    fondato su un rapporto diretto - ove la componente emozionale (così
    come è descritta, ad esempio, da Freud) è preminente - fra un leader
    e gli appartenenti alla comunità politica, veicolato da tecniche
    plebiscitarie di organizzazione del consenso.
    
    Due precisazioni sono necessarie. In primo luogo, non è ritenuto
    essenziale, ai fini della definizione, che il leader sia in origine
    un capo militare. In molti casi il cesare è effettivamente un
    militare (e proprio questo ci ricordano i termini cesarismo e
    bonapartismo): ciò accade perché spesso un capo militare di successo
    è, al momento della crisi, nella posizione migliore per convertire
    le risorse accumulate nella sua qualità di comandante (per esempio
    il prestigio guadagnato sui campi di battaglia) nelle risorse
    politiche necessarie a fondare l'organizzazione cesaristica.
    Tuttavia questa caratteristica non è essenziale. Spesso l'origine
    militare del leader è alla base della formazione di regimi militari
    privi di componenti cesaristiche. E, simmetricamente, accade che il
    leader che crea il regime cesaristico non sia un militare (è il caso
    di Napoleone III).
    
    La seconda precisazione è che la definizione che abbiamo adottata
    non basta, normalmente, a definire compiutamente nessun regime
    politico (neanche quelli che sono stati così catalogati nel corso
    del tempo), per la ragione che nessun regime politico può basarsi
    solo su legami emozionali diretti fra un leader e il suo seguito.
    Anche in un regime cesaristico saranno sempre presenti gruppi
    elitari di diversa estrazione (politica, economica, religiosa, ecc.)
    e l'organizzazione cesaristica avrà connotati molto diversi a
    seconda delle caratteristiche di queste élites e dei rapporti che
    esse instaurano con il leader. Inoltre, sono possibili variazioni
    forti fra un caso e l'altro a seconda dei rapporti che esistono fra
    il capo e il 'cerchio interno' dei seguaci, il che dipende dalle
    caratteristiche dell'organizzazione (militare, partitica, ecc.) che
    il leader controlla. La definizione adottata lascia quindi del tutto
    indeterminata (varierà da caso storico a caso storico)
    l'organizzazione del regime cesaristico: la distinzione fra i
    diversi tipi di cesarismo deve essere lasciata all'indagine
    empirica.
    
    Il cesarismo, inteso nel senso stretto della definizione, deve
    essere inoltre distinto dai regimi politici in cui sono presenti, ma
    non in posizione predominante, componenti cesaristiche (sono di
    questo genere, come vedremo, le democrazie plebiscitarie esaminate
    da Weber): in questi regimi manca l'elemento della provvisorietà. A
    istituzioni politiche stabili si associano tecniche e procedure di
    organizzazione del consenso che danno periodicamente luogo a
    fenomeni, sia pure attenuati e diluiti, di cesarismo. Per spiegare
    ciò che qui si intende ricorreremo a due esempi, entrambi tratti
    dalla storia francese. Il primo esempio è per così dire obbligato:
    riguarda il caso del regime di Napoleone Bonaparte, che è il punto
    di riferimento inevitabile di tutte le analisi del cesarismo.
    
    Un regime cesaristico 'puro' è quello che Napoleone instaura con il
    colpo di Stato del 9 novembre 1799, ponendo fine al regime del
    Direttorio. Questa fase, a cui appartengono alcune delle riforme (in
    particolare quella amministrativa) mediante le quali Bonaparte pone
    le basi per l'istituzionalizzazione del suo regime, termina con il
    plebiscito del 1802, in virtù del quale Bonaparte consolida
    definitivamente il suo potere diventando console a vita. Nella fase
    successiva le caratteristiche plebiscitarie del regime non vengono
    meno (ancora un plebiscito trasforma Bonaparte da console a
    imperatore dei Francesi nel 1804), ma la dittatura napoleonica è
    ormai consolidata.
    
    Il secondo esempio riguarda il caso del gollismo, e anche qui è
    possibile distinguere due diverse fasi. È un regime cesaristico puro
    il regime di transizione che si afferma nella primavera del 1958,
    quando il generale de Gaulle assume i pieni poteri, e termina con il
    referendum dell'ottobre 1962 sulla modifica costituzionale che
    sancisce l'elezione diretta del presidente della repubblica.
    
    Da quella data il regime cesaristico puro lascia il posto a un
    regime semipresidenziale, che contiene forti elementi cesaristici ma
    non è più (o è sempre meno) cesaristico nel senso della definizione
    adottata. Le elezioni presidenziali del 1965, ove de Gaulle deve
    subire l''umiliazione' del ballottaggio con il candidato socialista
    Mitterrand, segnano l'avvenuto consolidamento delle nuove
    istituzioni (in termini weberiani, l'istituzionalizzazione del
    carisma). Analogamente, il regime fascista italiano (per il quale,
    soprattutto da parte di studiosi marxisti, è stato usato il termine
    bonapartismo) non è, alla luce della definizione adottata, un regime
    cesaristico. È invece, esaurita la fase del consolidamento, un
    regime autocratico con elementi cesaristici.
    
    Per usare termini schmittiani potremmo dire che il cesarismo è il
    regime dello "stato d'eccezione" in cui però l'assunzione di pieni
    poteri da parte del leader si sposa con un consenso plebiscitario, o
    semiplebiscitario, della comunità politica (delle sue componenti
    maggioritarie). In questa prospettiva si può spiegare facilmente
    anche la scarsa attenzione che la scienza politica presta ai
    fenomeni cesaristici. Trattandosi di regimi di transizione, i regimi
    cesaristici hanno una vita effimera. Essi sorgono in risposta a una
    crisi e si trasformano più o meno rapidamente in regimi diversi. A
    parte la difficoltà di trattare il caso dei regimi personalistici,
    anche la tipica provvisorietà e instabilità del fenomeno spiega la
    disattenzione della letteratura. Ma si tratta di una disattenzione
    ingiustificata, soprattutto perché i fenomeni cesaristici sono
    spesso all'origine dei più duraturi regimi politici che li seguono.
    E, in molti casi, sono proprio le decisioni del leader nella fase
    cesaristica pura a forgiare il campo su cui si edificheranno le
    istituzioni della fase successiva.
    
    La disattenzione per il fenomeno fa sì che i principali punti di
    riferimento restino tutt'ora le teorie di Marx e di Weber. 2. La
    teoria del bonapartismo
    
    Fra gli strumenti concettuali dell'analisi marxista la categoria
    'bonapartismo' occupa una posizione particolare perché le è affidato
    il compito di riassorbire una vistosa anomalia che la teoria si
    trova a fronteggiare. L'anomalia consiste nell'esistenza di
    situazioni politiche manifestamente caratterizzate dall'azione
    autonoma dello Stato (rispetto alle classi sociali) e dalla presenza
    di leaders i cui comportamenti non sono facilmente riconducibili
    entro la categoria 'rappresentanza di interessi di classe'. Sotto il
    profilo logico la teoria del bonapartismo assume, nel più vasto
    corpo della teoria politica marxista, il ruolo di un'ipotesi ad hoc
    introdotta per spiegare fatti altrimenti inspiegabili, la cui
    esistenza rischia di falsificare il 'nucleo centrale' della teoria.
    Nella versione originaria, formulata da Marx nel 18 Brumaio di Luigi
    Bonaparte (e ripresa da Engels per il caso della Germania), la
    teoria è caratterizzata dai punti seguenti.
    
    1. Il bonapartismo si afferma in presenza di una situazione di
    stallo nel conflitto fra le due principali classi sociali, la
    borghesia e il proletariato.
    
    2. Lo stallo fra le classi principali apre lo spazio a un'influenza
    politica delle classi tradizionali, in particolare dei contadini.
    
    3. I contadini però, a differenza della borghesia e del
    proletariato, sono dispersi sul territorio e privi di legami
    organizzativi che li rendano capaci di agire continuativamente e con
    coerenza sulla scena politica. Incapaci di risolvere il problema del
    free rider, sono impossibilitati a trasformarsi in soggetto
    collettivo.
    
    4. Sfruttando la forza rappresentata dagli apparati dello Stato
    (burocrazia, forze armate, corpi di polizia, ecc.), il capo del
    regime, il leader, è in condizioni di operare come forza autonoma.
    
    Il regime bonapartista è intrinsecamente instabile. Nato da una
    condizione di stallo fra le classi, è destinato a perire quando
    l'una o l'altra delle classi in lotta riprenderà il sopravvento.
    
    Sul solco di Marx molti studiosi hanno tentato di approfondire il
    tema del bonapartismo, principalmente allo scopo, in questo secolo,
    di spiegare il fascismo. Nelle Note sul Machiavelli Gramsci utilizza
    il termine cesarismo per una breve analisi del fenomeno che
    arricchisce su alcuni punti l'analisi di Marx. Il cesarismo, per
    Gramsci, sorge in condizioni di "equilibrio catastrofico" fra le
    classi e rappresenta una soluzione "arbitrale", volta a impedire che
    le classi in lotta si distruggano a vicenda. Possono darsi due tipi
    di cesarismo, l'uno progressivo (Cesare, Napoleone I), l'altro
    regressivo (Napoleone III, Bismarck): "È progressivo il cesarismo,
    quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare sia
    pure con certi compromessi e temperamenti limitativi della vittoria,
    è regressivo quando il suo intervento aiuta a trionfare la forza
    regressiva, anche in questo caso con certi compromessi e
    limitazioni, che però hanno un valore, una portata e un significato
    diversi che non nel caso precedente" (v. Gramsci, 1966⁴, p. 58).
    Inoltre, per Gramsci, va considerata un'importante differenza fra i
    cesarismi del passato e quelli dell'età contemporanea (ad esempio il
    fascismo italiano). Nel passato il cesarismo era sempre associato
    all'elemento militare, mentre i mutamenti delle tecniche e
    dell'organizzazione politica rendono il cesarismo contemporaneo meno
    legato al ruolo della forza militare. Nei termini di Gramsci, esso è
    meno militare e più "poliziesco".
    
    Una posizione a sé stante ha, fra le teorie marxiste del
    bonapartismo, quella di Lev Trockij. Il problema di Trockij,
    infatti, non è spiegare il fascismo ma lo stalinismo, l'evoluzione
    politica russa postrivoluzionaria. Qui il punto di partenza non è
    più lo stallo fra due classi sociali in lotta, bensì l'oppressione
    esercitata dalla burocrazia ai danni del proletariato. Lo stalinismo
    è un fenomeno collegato alla lotta fra burocrazia e proletariato ed
    è, per Trockij, un regime cesaristico sui generis. È anch'esso
    temporaneo, al pari dei cesarismi in ambito capitalistico-borghese,
    ma la sua affermazione dipende dalle esigenze di predominio della
    burocrazia ai danni della "classe generale".
    
    Un altro autore marxista, Nicos Poulantzas, in quello che resta il
    più articolato tentativo di elaborare una teoria marxista dello
    Stato, Potere politico e classi sociali, prende le distanze dalla
    tesi dello stallo o equilibrio catastrofico. Per Poulantzas il
    bonapartismo è solo una manifestazione particolare di una più
    generale autonomia dello Stato capitalista dalla classe dominante.
    Egli polemizza con la tendenza di Engels ad accomunare fenomeni così
    diversi come il bonapartismo, lo Stato assolutista e il
    bismarckismo. Per Poulantzas è propria del capitalismo questa
    circostanza: "lo Stato capitalistico fa suo l'interesse politico
    della borghesia e realizza per suo conto la funzione egemonica
    politica che quest'ultima non può assolvere. A tale scopo lo Stato
    capitalistico è costretto ad assumere un'autonomia relativa nei
    confronti della borghesia: sta qui il significato profondo delle
    analisi di Marx sul bonapartismo come tipo capitalistico di Stato"
    (v. Poulantzas, 1968; tr. it., p. 365). Questa impostazione apre la
    strada a una classificazione delle forme politiche dello Stato
    capitalistico. Il bonapartismo perde i caratteri di eccezionalità
    che aveva nella teoria marxista tradizionale e diventa uno fra i
    molti possibili modi di manifestarsi dell'autonomia relativa dello
    Stato.
    
    La valutazione della teoria del bonapartismo, nelle sue diverse
    versioni, dipende ovviamente dal giudizio che si dà sull'utilità
    degli strumenti di analisi offerti dalla più generale teoria
    politica marxista. Lasciando da parte il caso di Poulantzas, il
    quale, utilizzando uno schema di spiegazione funzionalistico, tenta
    di gettare le basi di una teoria generale dello Stato ma al prezzo
    di diluire le specificità del fenomeno bonapartista, l'utilità delle
    categorie marxiste, per l'esame del fenomeno in questione, non
    appare elevata. Il tentativo è viziato dal bisogno di evadere,
    lasciando però intatto il nucleo della teoria, dalle insufficienze
    proprie di una concezione che tratta le forze politiche come
    'nomenclature' delle classi sociali, dalla necessità di affermare,
    per difendere la teoria a fronte di evidenti anomalie empiriche, il
    carattere eccezionale del fenomeno, la sua condizione di eccezione
    che confermerebbe la regola. Resta tuttavia a suo merito il fatto
    che quello marxista è uno dei pochissimi tentativi relativamente
    sistematici di spiegare il cesarismo. 3. La teoria del carisma
    
    La teoria weberiana del carisma è stata più volte ricostruita nei
    suoi diversi aspetti (v., da ultimo, Cavalli, 1981) e quindi non è
    il caso qui di rivisitarla compiutamente. Al fine dell'esame del
    cesarismo la teoria del carisma ha il pregio, rispetto a qualsiasi
    altra teoria delle scienze sociali, di spiegare le cause di
    quell'ascendente personale in virtù del quale un individuo, al di
    fuori della tradizione e senza la sanzione di norme legali, arriva a
    essere acclamato come leader da una moltitudine dando vita a regimi
    cesaristici.
    
    Un regime cesaristico comporta invariabilmente la presenza del capo
    carismatico nell'accezione weberiana. Il carisma è riconosciuto come
    tale e si afferma in presenza di uno stato di crisi, di acuto stress
    sociale. Comporta una 'chiamata' che, per essere efficace, necessita
    di uno stato di disorganizzazione sociale, una situazione che si
    ripercuote sugli individui incrinandone credenze, identità e abiti
    mentali, e rendendoli disponibili alla mobilitazione carismatica.
    Nella visione weberiana il carisma è il veicolo del cambiamento
    sociale e istituzionale, l'energia che crea nuove istituzioni e/o
    determina trasformazioni nelle istituzioni preesistenti. Perché
    l'innovazione introdotta sia duratura occorre però che intervenga
    l'istituzionalizzazione o 'routinizzazione' del carisma. La
    routinizzazione comporta la transizione da un regime personale,
    centrato sull'autorità carismatica del leader, a un regime
    istituzionale, come esito di un processo che Weber definisce di
    "legalizzazione".
    
    Alla luce di questa teoria i fenomeni cesaristici possono essere
    distinti a seconda dei loro differenti esiti storici. La differenza
    principale corre fra i (pochi) regimi cesaristici che superano la
    soglia della routinizzazione del carisma e quindi sopravvivono al
    loro fondatore e quelli, storicamente assai più numerosi, che non la
    superano. In questo caso la fine del regime cesaristico apre una
    nuova fase di disorganizzazione sociale e politica simile a quella
    che ne aveva favorito l'affermazione. 4. Cesarismo e democrazia: la
    democrazia plebiscitaria
    
    La grande concentrazione di potere nelle mani di un solo individuo,
    che è propria del cesarismo, nonché il carattere plebiscitario del
    conferimento della delega (nella forma pura l'acclamazione
    sostituisce l'elezione del rappresentante) rendono apparentemente
    inconciliabili cesarismo e democrazia. È certamente vero, peraltro,
    che nella maggioranza dei casi storici (il gollismo è un'importante
    eccezione) il cesarismo è all'origine di regimi autocratici. Occorre
    però notare che, a dispetto del suo nome, il cesarismo è un fenomeno
    squisitamente moderno, legato alla "democratizzazione fondamentale"
    (Mannheim), all'ingresso delle masse nelle arene politiche. Come la
    democrazia liberale e, sul versante opposto, il totalitarismo, il
    cesarismo presuppone la 'società di massa'.
    
    Seguendo una recente rilettura delle pagine weberiane (v. Cavalli,
    1981, 1982 e 1987) è possibile distinguere due diversi tipi di
    regime politico con componenti cesaristiche: le tirannie
    carismatiche (la versione autocratica del cesarismo) e le democrazie
    plebiscitarie. La democrazia plebiscitaria, o democrazia con un
    leader, viene distinta, da Weber, dalle democrazie acefale. Essa si
    fonda su istituti e procedure che favoriscono la periodica
    apparizione di fenomeni, sia pure attenuati, di cesarismo.
    
    Anche se gli arrangiamenti istituzionali possono essere i più
    diversi, si può dire che la formazione di democrazie plebiscitarie è
    favorita da sistemi elettorali maggioritari e/o dall'istituto
    dell'elezione diretta del capo del governo, mentre le democrazie
    acefale sono più facilmente associate a sistemi elettorali
    proporzionali e/o a forme di elezione indiretta (parlamentare) del
    capo del governo. Nell'analisi weberiana della democrazia
    plebiscitaria erano presenti due componenti. In primo luogo,
    l'influenza del classico studio di Mosei Ostrogorski (v., 1902) sui
    partiti politici moderni: Ostrogorski aveva mostrato come e perché
    le moderne macchine di partito favorissero l'affermazione di
    tendenze cesaristiche nelle democrazie. In secondo luogo, e
    indipendentemente dall'opera di Ostrogorski, l'attenzione per la
    Gran Bretagna di Gladstone e di Disraeli - termine di riferimento
    anche politico nella polemica weberiana contro l'"eredità negativa"
    del bismarckismo - e per gli Stati Uniti. Nella più pura tradizione
    del realismo politico, Weber vedeva nel moderno capo di partito del
    mondo anglosassone un dittatore carismatico, e nelle elezioni il
    momento del 'riconoscimento' e dell'acclamazione del capo anziché
    della scelta.
    
    La democrazia plebiscitaria ha una collocazione ambigua nella più
    generale teoria politica weberiana (v. Beetham, 1985²): descrizione
    e prescrizione si compenetrano. Per un verso la democrazia
    plebiscitaria è per Weber la sola forma di democrazia congruente con
    le esigenze della società occidentale contemporanea; per un altro
    verso è anche l'unica strada per mantenere aperta la porta alla
    periodica irruzione del carisma, inteso come la forza capace di
    contrastare o controbilanciare, almeno in parte, gli effetti
    negativi (la "gabbia d'acciaio") della razionalizzazione.
    
    Dopo Weber molti autori hanno messo in luce l'esistenza, nelle
    democrazie contemporanee, delle tendenze da lui indicate (v. AA.VV.,
    1987). Essenzialmente due fenomeni, fra loro intrecciati, sembrano
    favorire l'affermazione di tendenze plebiscitarie, e quindi
    cesaristiche, nelle democrazie contemporanee. Il primo è
    rappresentato dal ruolo dei mass media e, in particolare, della
    televisione nella competizione politica; il secondo dalla 'crisi
    degli intermediari', ossia la crisi delle strutture-ponte, o
    cuscinetto, fra gli individui e il potere politico (un tema classico
    della letteratura sulla società di massa). Quella che, sia pure con
    una certa dose di esagerazione, è stata chiamata la "democrazia
    elettronica" (v. Saldich, 1979) svolge un ruolo potentissimo nel
    guidare in direzione cesaristica i processi politici poliarchici. La
    'crisi degli intermediari' è in parte un effetto del ruolo assunto
    dai media, ma in parte, e forse si tratta della parte preponderante,
    deriva anche da modificazioni più profonde delle società
    occidentali: dai mutamenti della struttura di classe,
    dall'innalzamento dei livelli di istruzione, dai cambiamenti nel
    ritmo della mobilità sociale, ecc.
    
    La prima e fondamentale crisi, imputabile alla secolarizzazione, è
    il declino dell'associazionismo religioso (anche la comparsa di
    'minoranze intense' religiose è spiegabile alla luce dell'ipotesi
    della secolarizzazione).
    
    A quel declino si affianca la crisi dei vecchi partiti di massa,
    dotati di solidi apparati burocratici, collocati al centro di
    ramificate subculture politiche, forti del consenso di ampi settori
    dell'elettorato di appartenenza. Questi partiti vanno
    progressivamente trasformandosi in partiti 'pigliatutto' (v.
    Kirchheimer, 1966), dotati di strutture tecnico-professionali
    (esperti in mass media, tecnici dei sondaggi, pubblicitari, ecc.),
    alla perenne caccia del consenso, volubile e aleatorio,
    dell'elettorato di opinione. Questi fenomeni favoriscono la
    cosiddetta 'personalizzazione del potere', lo spostamento della
    lealtà dai partiti ai candidati e il conseguente rafforzamento del
    ruolo pubblico del leader. Là dove, come negli Stati Uniti,
    l'assetto istituzionale di per sé già premia la democrazia
    plebiscitaria, le tendenze cesaristiche ne vengono esaltate. Ma il
    fenomeno, sia pure in forma più attenuata, si manifesta anche in
    quelle poliarchie dell'Europa continentale che, per il loro assetto
    istituzionale, Weber definirebbe democrazie acefale. 5. Cesarismo e
    politica internazionale
    
    È una regola riconosciuta quella secondo cui, all'interno di
    qualsiasi organizzazione, il potere decisionale si concentra al
    vertice in presenza di sfide di origine esterna che minacciano la
    sopravvivenza dell'organizzazione. In tutti gli ambiti organizzati
    il potere è normalmente disperso: molti individui e molti gruppi, ai
    diversi livelli gerarchici, detengono risorse utilizzabili per
    accumulare potere e/o per esercitarlo. Quando interviene una crisi
    organizzativa per effetto di una sfida esterna, il potere rifluisce
    al vertice: emergono capi carismatici che prendono decisioni
    'strategiche', di ristrutturazione dell'organizzazione, necessarie
    per fronteggiare la sfida esterna e far uscire l'organizzazione dal
    suo stato di crisi (v. Crozier, 1964).
    
    La storia delle organizzazioni è spesso segnata da sequenze
    alternate di improvvisi 'drammi sociali', dovuti, per lo più, a
    sfide provenienti dall'ambiente esterno, e di lunghe fasi di
    routine. Alle due fasi corrispondono metodi decisionali diversi: nei
    periodi di routine (potere diffuso e frazionato) prevale il metodo
    incrementale, il mutuo aggiustamento degli interessi (v. Lindblom,
    1959); nei periodi di crisi (potere concentrato) prevalgono le
    decisioni strategiche di riorganizzazione (del tipo mixed scanning,
    nella terminologia di Etzioni, 1967). Il punto cruciale, comunque, è
    che le crisi che scuotono le organizzazioni minacciandone la
    sopravvivenza, e il cui effetto è quello di trasferire il potere
    decisionale nelle mani di capi carismatici, sono normalmente
    originate da mutamenti nell'ambiente esterno delle organizzazioni:
    cambiamenti ambientali provocano sfide, pressioni che si scaricano
    sulle organizzazioni determinando una ridistribuzione del potere
    interno. Se dai contributi della teoria dell'organizzazione passiamo
    a considerare le indicazioni della teoria delle relazioni
    internazionali, scopriamo all'opera la stessa regola. I conflitti
    internazionali hanno sempre l'effetto di determinare una forte
    concentrazione del potere entro gli Stati (v. Wright, 1970³). Le
    guerre rappresentano, per i sistemi politici, quelle sfide esterne
    che favoriscono la concentrazione del potere. In tutte le epoche
    storiche il grado di centralizzazione del potere entro gli
    ordinamenti politici è stato influenzato dall'intensità delle sfide
    militari (v. Andreski, 1971²). Uno degli effetti delle guerre sulle
    democrazie rappresentative, in questo secolo, è stato quello di
    rafforzare (temporaneamente, per la durata del conflitto) il potere
    personale dei leaders (primo ministro, presidente) a fronte dei
    membri del governo e del parlamento. In caso di guerra la normale
    dialettica fra maggioranza e opposizione (nonché all'interno dei
    partiti di governo) viene meno, e i capi di governo acquistano una
    libertà d'azione che non possiedono in tempo di pace (v. Stein,
    1980).
    
    Ciò ha attinenza con il fenomeno del cesarismo. Si è detto che il
    cesarismo si afferma in condizioni di crisi dell'ordinamento
    politico preesistente. La crisi che apre la strada al regime
    cesaristico è spesso conseguenza di una sfida internazionale (di
    carattere militare, per lo più) che la classe politica non riesce a
    fronteggiare. La disorganizzazione che la sfida provoca apre la
    strada a una soluzione cesaristica, all'affermazione di una
    'tirannia' carismatica. Che la sfida assuma sovente le sembianze
    dello stato di guerra contribuisce a spiegare perché il fondatore
    del regime cesaristico sia spesso (anche se non sempre) un capo
    militare.
    
    Anche l'affermazione di tendenze plebiscitarie nelle democrazie
    occidentali può essere ricondotta, almeno in parte, a sfide che
    hanno nelle pressioni esterne, di carattere internazionale, la loro
    origine. È questo il caso francese: il regime cesaristico di de
    Gaulle e la nascita della Quinta Repubblica furono l'effetto della
    mancata soluzione del conflitto algerino da parte della classe
    politica della Quarta Repubblica. Ma è anche, secondo diversi
    studiosi, il caso degli Stati Uniti dove, nel corso del XX secolo,
    l'istituto della presidenza si è rafforzato a spese degli altri
    poteri istituzionali. Le cause sono molte (l'ampliamento dei compiti
    del governo federale, la formazione di una burocrazia professionale
    che ha lentamente sostituito, a partire dagli ultimi decenni del
    secolo scorso, la precedente amministrazione basata sul sistema
    delle spoglie: v. Wilson, 1978), ma l'elemento decisivo è stato il
    mutamento di collocazione internazionale degli Stati Uniti. La
    "presidenza imperiale" (v. Schlesinger, 1973) è, soprattutto, il
    prodotto di un cambiamento radicale della posizione statunitense: da
    paese periferico a superpotenza. Il rapporto fra sfide esterne,
    affermazione di un'egemonia politica internazionale e rafforzamento
    del potere esecutivo è così descritto da Franz Schurmann: "C'è un
    legame fra guerra, impero e potere esecutivo.
    
    Lo stesso tipo di legame può essere osservato tra crisi, politica
    mondiale e potere presidenziale per i decenni successivi alla
    seconda guerra mondiale. Essi si alimentano reciprocamente. La crisi
    porta a una nuova politica mondiale dell'America, la quale a sua
    volta aumenta il potere presidenziale e la centralizzazione. Ma
    funzionano anche altre varianti di questa equazione. Una volta
    aumentato il potere presidenziale, vengono annunciate nuove linee
    politiche mondiali che a loro volta invariabilmente producono crisi.
    Gli uni erano e sono reciprocamente causa ed effetto degli altri. La
    decisione americana di svolgere un ruolo imperiale nel mondo ha reso
    inevitabile un contesto di crisi continue, un maggiore
    coinvolgimento in lontane parti del mondo, e una concentrazione del
    potere senza precedenti alla Casa Bianca" (v. Schurmann, 1974; tr.
    it., pp. 36-37).
    
    Se fu la crisi economica degli anni trenta a dare la spinta iniziale
    portando Roosevelt alla presidenza, furono però tre eventi, tutti e
    tre attinenti ai rapporti internazionali, a consolidare
    definitivamente il potere presidenziale. Il primo fu lo scoppio
    della seconda guerra mondiale che, in accordo con una sequenza
    ricorrente, rafforzò la posizione del presidente. Questo effetto è,
    in genere, temporaneo: dura quanto durano le ostilità. Nel caso
    statunitense non fu così perché la fine del conflitto coincise con
    l'assunzione in via permanente, da parte degli Stati Uniti, del
    ruolo di nazione-guida del mondo occidentale (il secondo evento). Il
    terzo fu l'avvento dell'era nucleare. "Nessun'altra esigenza della
    politica postbellica giustificò altrettanto il mantenimento di un
    immenso potere statale esercitato da un vertice esecutivo forte,
    come il bisogno di controllare l'energia atomica e le sue armi.
    Nulla incoraggiò altrettanto il crescente potere di quel governo
    come la richiesta universale di sicurezza dalla terribile
    possibilità di un annientamento atomico" (ibid., p. 137). Leadership
    mondiale e politica della deterrenza nucleare esaltarono il ruolo
    del presidente entro il sistema politico; soprattutto, resero
    definitivo il primato presidenziale. Senza questa evoluzione,
    difficilmente il ruolo dei mass media, la crisi dei partiti
    politici, ecc. sarebbero stati condizioni sufficienti per alimentare
    la democrazia plebiscitaria.
    
    Gli esempi della Francia e degli Stati Uniti suggeriscono che il
    rapporto fra concentrazione del potere, tendenze
    cesaristico-plebiscitarie e sfide internazionali è assai stretto
    anche nel caso delle democrazie rappresentative. Per restare alla
    terminologia weberiana, è possibile ipotizzare che le democrazie
    acefale, ove il potere è diffuso e frazionato e ove è assente la
    componente cesaristica, possono sopravvivere solo in condizioni di
    sicurezza esterna. È il caso di alcune democrazie acefale
    europeo-continentali dopo la seconda guerra mondiale, la cui
    stabilità è dipesa soprattutto, probabilmente, dall'esistenza
    dell''ombrello' politico-militare statunitense. È quindi lecito
    ipotizzare che mutamenti delle condizioni internazionali e, in
    particolare, un aumento della vulnerabilità di questi paesi a fronte
    di sfide esterne, ne favorirebbero la transizione al 'tipo' della
    democrazia plebiscitaria.
    
    Il potere monocratico, o monocrazia (v. Miglio, 1988), è la forma
    assunta da tutti gli ordinamenti politici del passato in presenza di
    sfide militari. Il cesarismo è potere monocratico nelle condizioni
    politiche proprie della società di massa. La democrazia
    plebiscitaria, involucro di un cesarismo diluito, vincolato da norme
    costituzionali, potrebbe essere, a sua volta, la versione
    occidentale contemporanea, democratico-rappresentativa, di un
    fenomeno antico e ricorrente.