Pragmatismo

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Indirizzo di pensiero sorto negli USA intorno al 1870 e diffusosi più tardi in Europa, dove ebbe il maggior successo nei primi decenni del Novecento.

1. C.S. Peirce: dal pragmatismo al pragmaticismo

Il termine (pragmatism) deriva, come disse il fondatore di questa corrente C.S. Peirce, dalla ripresa della distinzione kantiana tra pratico (il razionale nella sua autonomia come principio a priori della legge morale) e pragmatico (il razionale come mezzo per raggiungere uno scopo). Tuttavia la concezione pragmatica della ragione è usata qui in un contesto del tutto diverso da quello kantiano e fortemente influenzato dalla teoria dell’evoluzione e dalla concezione della coscienza come forma di comportamento volto alla difesa e all’affermazione della vita. La ricerca si configura quindi come la risposta a una sorta di ‘irritazione’, ossia al turbamento di una credenza a cui corrispondeva un’abitudine, per realizzare una nuova credenza capace di fondare una nuova abitudine più adeguata ed efficace. Così il p. rivolge una critica radicale al pensiero cartesiano, soprattutto al criterio di verità secondo cui sarebbe possibile cogliere intuitivamente il carattere chiaro e distinto delle idee.

Come dice il celebre saggio di Peirce How to make our ideas clear (1878), il problema è esattamente l’opposto, e cioè di rendere chiare le nostre idee, e questo non può avvenire mediante l’intuizione e l’introspezione. Si tratta invece di definire il significato di un’idea, scoprendo quali abitudini o conseguenze essa produca. Emergono così due aspetti essenziali del metodo pragmatistico: da un lato la ‘pubblicità’ della verità e dei suoi criteri, nel senso che si tratta d’individuare nessi razionali verificabili intersoggettivamente; dall’altro l’importanza determinante della dimensione temporale o più esattamente del futuro, in quanto il significato di un’idea non può mai essere ritrovato nella sua conformità a un fatto antecedente (anche i cosiddetti ‘dati’ dell’esperienza e le idee ‘semplici’ di cui parlava l’empirismo tradizionale sono il risultato di operazioni di ricerca), ma soltanto nelle conseguenze a cui può dar luogo la sua adozione.

Alle critiche rivolte al p. da quanti vollero scorgere in questa filosofia un’esaltazione indiscriminata del successo connessa ai caratteri utilitaristici della società americana di fine Ottocento, Peirce reagì non soltanto proponendo un nuovo nome per la sua teoria, e cioè il termine ‘pragmaticismo’ (The issues of pragmaticism e What pragmatism is, 1905), ma soprattutto sottolineando come il p. non sia affatto la glorificazione di fini empirici o particolari, bensì la ricerca di una sempre maggiore razionalità dell’esperienza e del comportamento.

2. Da W. James a J. Dewey

Se le precisazioni di Peirce sul carattere fondamentalmente logico e metodologico della concezione pragmatistica ebbero un seguito nel Novecento, è anche vero che alla fine dell’Ottocento con l’opera di W. James e di F.C.S. Schiller il p. accentuò i suoi aspetti etici e vitalistici. Interessato soprattutto a problemi psicologici, morali e religiosi, James dette infatti al p. una svolta che doveva accostarlo maggiormente alle filosofie della vita e dell’intuizione che si andavano allora diffondendo in Europa. Per James quello che conta è il carattere personale e continuo della coscienza, anzi della ‘corrente di coscienza’ ai cui caratteri deve primariamente rifarsi ogni ricerca. Il campo di riferimento principale del p. si sposta così dalla logica alla psicologia e si afferma una concezione sempre più aperta e complessa dell’esperienza. Oggetto dell’esperienza non sono più soltanto le entità di cui è possibile un concetto determinato, ma anche le relazioni, gli stati di tendenza, di attesa, insomma tutta una serie di sfumature che a una prospettiva intellettualistica sono irrimediabilmente destinate a sfuggire. Su questa linea, che per altro verso porta a un ‘empirismo radicale’ (svolto da James in alcuni scritti degli ultimi anni della sua vita), s’innesta il tema della ‘volontà di credere’, ossia del fatto che, rispetto a certi problemi essenziali, veramente decisiva non è la conoscenza, ma l’azione o quanto meno l’atteggiamento, la decisione dell’uomo. Tipico caso il dilemma tra determinismo e indeterminismo, che non potrà mai essere deciso da considerazioni puramente teoretiche e dal quale non c’è scampo se non in senso pratico, e cioè riconoscendo che l’indeterminismo, l’affermazione della libertà, è una concezione più favorevole a promuovere un’azione che dia maggiore significato alla vita. Analogamente non c’è possibilità di decisione puramente teoretica tra ottimismo e pessimismo circa il senso complessivo dell’universo, ma è possibile e auspicabile invece una forma di ‘migliorismo’, ossia la convinzione che il bene dell’universo non è indipendente dal modo in cui l’uomo si impegna per esso.

Da questo punto di vista infine, ancora con James, il p. giunge a elaborare una concezione specifica della religione connettendola, da un lato, con la volontà di credere, con il migliorismo, per cui la stessa divinità è intesa come principio attivo, ancora aperto, non compiuto, con cui l’uomo può e deve collaborare, e dall’altro con il concetto particolarmente ampio di esperienza, per cui viene riconosciuta la legittimità e irriducibilità non solo dell’esperienza religiosa in generale, ma anche delle varie forme di esperienza religiosa. L’accentuazione del momento pratico per la comprensione della stessa verità logica all’interno del p. ha avuto poi la sua formulazione forse più radicale nell’‘umanismo’ dell’inglese Schiller, dove il criterio di scelta in base a valori e interessi umani è considerato determinante per risolvere non solo i problemi di cui non è possibile una decisione strettamente teorica, ma per l’intero processo di pensiero e di conoscenza.

Se l’accentuazione dell’aspetto pratico e operativo del p. poteva portare a tendenze addirittura attivistiche come quelle che si diffusero in Italia a opera di G. Papini soprattutto nei primi decenni del Novecento, non mancarono anche in Italia richiami a una concezione più sobria e rigorosa del p. come metodo di ricerca capace di andare oltre tanto al positivismo quanto all’idealismo. In questo senso è di particolare importanza l’opera di G. Vailati, che non solo insistette sugli aspetti logici e metodologici più specifici del p. di Peirce, ma mise in luce numerosi punti di contatto tra il metodo del p. e gli sviluppi più recenti della logica matematica, sottolineando il carattere ipotetico delle proposizioni generali e mostrando interesse per lo sviluppo storico delle ricerche scientifiche.

Tuttavia la ripresa più importante del p. nel Novecento è costituita dallo ‘strumentalismo’ di J. Dewey, anche per le sue vastissime implicazioni etiche, politiche e pedagogiche e per l’influenza esercitata in campo mondiale a favore della diffusione di una ‘scuola attiva’. L’essenza del p. consiste nel riconoscere la funzione operativa del pensiero, per cui nulla in astratto è un ‘dato’ o è un ‘problema’, ma quello che in una certa situazione disturbata, indeterminata, è un problema, una volta chiarito e risolto, può diventare un dato in un’altra situazione e viceversa. Il p. si pone quindi in una posizione diversa tanto da quella dell’empirismo quanto da quella dell’idealismo. Contro l’empirismo, il p. nega la riduzione del pensiero a induzione o a convenzione e afferma che nulla ci è mai dato in modo discreto, separato, oggettivo, ma che gli oggetti sono eventi dotati di una funzione evidenziale in quanto inglobati in un nesso di relazioni che corrispondono a progetti operativi. Contro l’idealismo di tipo trascendentale il p. rivendica invece il carattere evolutivo del pensiero e il suo nesso con una situazione indeterminata di cui è la soluzione mediante la simbolizzazione di comportamenti atti a determinarla, per cui non ci può essere nessuna serie di forme o categorie a priori rigidamente definite. Contro l’idealismo di tipo platonico e contro ogni ontologia di carattere assoluto il p. obietta che l’ipostatizzazione dei risultati della ricerca in idee eterne e immutabili o in strutture assolute della realtà e la loro contrapposizione al mondo concreto dell’esperienza impediscono di cogliere il carattere operativo del pensiero e non fanno altro che riprodurre inconsapevolmente una situazione sociale di divisione storica e classista del lavoro. Se dunque con Dewey il p. ripropone in campo logico-epistemologico la rivendicazione della continuità della ricerca e della sua capacità di autorettificarsi a qualsiasi livello, proprio per il suo carattere sperimentale e strumentale insieme, in campo etico questa rivendicazione si traduce in una vigorosa polemica contro ogni possibile divisione a priori, ontologica, tra fini e mezzi come se ci fossero valori costituiti in sé e per sé e all’uomo non restasse che subordinarvisi.

L’aspetto sociologico-antropologico e quello epistemologico-linguistico del p. hanno avuto interessanti sviluppi rispettivamente con l’opera di G. Mead e con quella di C.W. Morris. Con Mead il p. si configura come ‘behaviorismo sociale’, in quanto la società è considerata come condizione per il sorgere del ‘sé’, ossia della mente individuale, attraverso il linguaggio. Con Morris invece si ha l’incontro tra il p. e il neopositivismo: muovendo dalla concezione pragmatistica del linguaggio e della scienza come formulazioni simboliche di possibili operazioni, Morris approfondisce lo studio della semiotica connettendola con la pragmatica, inserendola così in un campo più vasto di quello dell’analisi linguistica in senso stretto.

3. Il p. nel Novecento

Benché il p. abbia concluso la sua parabola nella prima metà del Novecento, molte sue istanze rimangono vive soprattutto in quei settori della filosofia della scienza statunitense che dovevano trarre alimento dall’incontro tra p. e positivismo logico. Notevoli e influenti, da questo punto di vista, le riflessioni di W.V.O. Quine sui criteri che informano l’elaborazione e il controllo delle teorie scientifiche, criteri di semplicità, fecondità e rispondenza agli scopi predittivi ed esplicativi piuttosto che di riduzione (secondo gli originari obiettivi neopositivistici) ai dati osservativi. Da segnalare anche, su un piano più generale, il ‘neopragmatismo’ di R. Rorty e H. Putnam, i quali hanno messo in discussione soprattutto la tradizionale concezione corrispondentistica della verità a favore di un’immagine della conoscenza come corpus di enunciati e credenze che trova i suoi fondamenti nell’intersoggettività. A Rorty, inoltre, si deve il tentativo di una sistematizzazione storica di quella che ha chiamato la «graduale pragmatizzazione del positivismo logico e della filosofia analitica», consistente soprattutto nella concezione del linguaggio come strumento piuttosto che come raffigurazione di un mondo dato da catturare nella sua reale natura.

Dizionario di Filosofia (2009)

Dall’ingl. pragmatism, der. dal gr. πρᾶγμα -ατος «cosa, fatto». Indirizzo di pensiero sorto negli Stati Uniti intorno al 1870 e diffusosi più tardi in Europa, dove ebbe il maggior successo nei primi decenni del Novecento.

Il pragmatismo di Peirce. Il fondatore di questa corrente, Peirce , ha fatto derivare il termine p. dalla ripresa della distinzione kantiana tra «pratico» (il razionale nella sua autonomia come principio a priori della legge morale) e «pragmatico» (il razionale come mezzo per raggiungere uno scopo). Tuttavia la concezione pragmatica della ragione è usata qui in un contesto del tutto diverso da quello kantiano e fortemente influenzato dalla teoria dell’evoluzione e dalla concezione della coscienza come una forma di comportamento volto alla difesa e all’affermazione della vita. La ricerca si configura quindi come la risposta a una sorta di «irritazione», vale a dire al turbamento di una credenza a cui corrispondeva un’abitudine, per realizzare una nuova credenza capace di fondare una nuova abitudine più adeguata ed efficace. Così il p. rivolge una critica radicale al pensiero cartesiano, e non soltanto al dubbio assoluto, dovendo invece, per il p., ogni dubbio scaturire da un problema concreto e determinato, ma soprattutto al criterio di verità secondo cui sarebbe possibile cogliere intuitivamente il carattere chiaro e distinto delle idee. Come dice il titolo di un saggio di Peirce rimasto celebre (How to make our ideas clear, 1878; trad. it. Come rendere chiare le nostre idee), il problema è esattamente l’opposto, ossia rendere chiare le nostre idee, e ciò non può avvenire affatto mediante l’intuizione e l’introspezione. Si tratta invece di definire il significato di un’idea, scoprendo quali abitudini o conseguenze essa produca. Emergono così due aspetti essenziali del metodo pragmatistico: da un lato, la «pubblicità» della verità e dei suoi criteri, nel senso che si tratta d’individuare nessi razionali verificabili da tutti e in comune, e, d’altro canto, l’importanza determinante della dimensione temporale o più esattamente del futuro, in quanto il significato di una idea non può mai essere ritrovato nella sua conformità a un fatto antecedente (anche i cosiddetti «dati» dell’esperienza e le idee «semplici» di cui parlava l’empirismo tradizionale sono risultato di operazioni di ricerca), ma soltanto nelle conseguenze a cui può dar luogo la sua adozione. Questi aspetti del p. furono ben presto occasione di malintesi, per cui si volle scorgere in questa filosofia un’esaltazione indiscriminata del successo connessa ai caratteri utilitaristici della società americana di fine Ottocento. Contro questo tipo di accuse Peirce reagì non soltanto proponendo un nuovo nome per la sua teoria – un nome così brutto che fosse al riparo dai «ladri di bambini» – e cioè il termine «pragmaticismo» (The issues of pragmaticism e What pragmatism is, 1905), ma soprattutto sottolineando come il p. non sia affatto la glorificazione di fini empirici o particolari, bensì la ricerca di una sempre maggiore razionalità dell’esperienza e del comportamento; per il p. infatti il pensiero non è astratta o inerte contemplazione, ma quel «filo di melodia» che può cucire in modo armonico le nostre esperienze altrimenti disorganiche e non controllate né controllabili.

L’apporto di James e Schiller. Se le precisazioni di Peirce sul carattere fondamentalmente logico e metodologico della concezione pragmatistica del pensiero erano senz’altro esatte e dovevano essere ampiamente riprese nel Novecento da Dewey in America e da Vailati in Italia, è però innegabile che alla fine dell’Ottocento, con l’opera di James e dell’inglese F.C.S. Schiller, il p. accentuò i suoi aspetti etici e vitalistici fino a riportare a essi gli stessi criteri logici ed epistemologici. Interessato soprattutto a problemi psicologici, morali e religiosi, James dette infatti al p. una svolta che doveva accostarlo maggiormente alle filosofie della vita e dell’intuizione che si andavano diffondendo in Europa in quel tempo. Per James infatti quello che conta è il carattere personale e continuo della coscienza, anzi della «corrente di coscienza» ai cui caratteri deve primariamente rifarsi ogni ricerca. Il campo di riferimento principale del p. si sposta così dalla logica alla psicologia sulla scorta anche di suggestioni derivanti dall’evoluzionismo, e si afferma così una concezione sempre più aperta e complessa dell’esperienza. Oggetto dell’esperienza non sono infatti soltanto le entità di cui è possibile un concetto determinato (che una volta James paragonò efficacemente ai nodi di una canna di bambù, per indicarne la continuità nell’esperienza), ma anche le relazioni, gli stati di tendenza, di attesa, insomma tutta una serie di sfumature che a una prospettiva intellettualistica sono irrimediabilmente destinate a sfuggire. All’ampliamento quantitativo e qualitativo del concetto di esperienza corrisponde un’ulteriore critica di ogni concezione intellettualistica o comunque puramente teoretica della verità, appunto perché assai più complesso è il campo di riferimento delle idee o più esattamente della funzione delle idee, della loro capacità d’influire sull’ulteriore sviluppo dell’esperienza, in modo da renderla più soddisfacente per i nostri bisogni e le nostre aspirazioni. Proprio su questa linea, che per altro verso porta a un «empirismo radicale» – svolto da James in alcuni scritti degli ultimi anni della sua vita – s’innesta il tema della «volontà di credere», ossia del fatto che, rispetto a certi problemi essenziali, veramente decisiva non è la conoscenza, ma l’azione o quanto meno l’atteggiamento, la decisione dell’uomo. Tipico caso è il dilemma tra determinismo e indeterminismo, che non potrà mai essere deciso da considerazioni puramente teoretiche, e dal quale non c’è scampo se non in senso pratico, e cioè riconoscendo che l’indeterminismo, l’affermazione della libertà, è una concezione più favorevole a promuovere un’azione che dia maggiore significato alla vita. Analogamente non c’è possibilità di decisione puramente teoretica tra ottimismo e pessimismo circa il senso complessivo dell’Universo, ma è possibile e auspicabile invece una forma di «migliorismo», ossia la convinzione che il bene dell’Universo, poco o tanto che sia, non è indipendente dal modo in cui l’uomo si impegna per esso. Da questo punto di vista, infine, ancora con James, il p. giunge a elaborare una concezione specifica della religione connettendola appunto, da un lato, con la volontà di credere, con il migliorismo, per cui la stessa divinità è intesa come principio attivo, ancora aperto, non compiuto, con cui l’uomo può e deve collaborare, e dall’altro lato, con il concetto particolarmente ampio di esperienza, per cui viene riconosciuta la legittimità e irriducibilità non soltanto dell’esperienza religiosa in generale, ma delle varie forme di esperienza religiosa in quanto testimoniano un contatto con poteri più alti a cui ci si sente legati per il proprio destino personale. L’accentuazione del momento pratico per la comprensione della stessa verità logica all’interno del p. ha avuto poi la sua formulazione forse più radicale nell’«umanismo» di Schiller, dove il criterio di scelta in base a valori e interessi umani è considerato determinante per risolvere non soltanto i problemi di cui non è possibile una decisione strettamente teorica, ma anche per l’intero processo di pensiero e di conoscenza. In questo senso anzi il p. viene inteso come una sorta di ripresa dell’antico detto di Protagora: l’uomo è la misura di tutte le cose, per cui l’essenziale è l’accertamento dell’utilità delle conoscenze rispetto alle esigenze pratiche umane.

L’influenza del pragmatismo in Italia. Se poi l’accentuazione dell’aspetto pratico e operativo, e quindi anti-intellettualistico, del p. poteva portare a tendenze addirittura attivistiche come quelle che si diffusero in Italia a opera di G. Papini soprattutto nei primi decenni del Novecento, non mancarono anche in Italia, come già si è accennato, richiami a una concezione più sobria e rigorosa del p. come metodo di ricerca capace di andare oltre, rispetto sia al positivismo sia all’idealismo. In questo senso è di particolare importanza l’opera di Vailati, che non solo insistette sugli aspetti logici e metodologici più specifici del p. di Peirce, ma mise in luce numerosi punti di contatto tra il metodo del p. e gli sviluppi più recenti della logica matematica. Tra i vari punti di contatto: la rinuncia a considerare i postulati tali per una sorta di «diritto divino» garantito dalla loro evidenza, concependoli invece come proposizioni dello stesso genere di tutte le altre, la cui scelta è determinata dagli scopi a cui mira la ricerca e dall’efficacia con cui consentono di raggiungerli; la ripugnanza per tutto ciò che è vago e impreciso e la riduzione dei problemi complessi a connessioni tra fatti rispetto ai quali le proposizioni generali hanno carattere ipotetico; l’interesse per lo sviluppo storico delle ricerche scientifiche sì da considerarle non più in modo «statico» come «animali impagliati nelle vetrine di un museo, in atteggiamenti convenzionali, e con gli occhi di vetro», ma come organismi viventi in sviluppo o addirittura come sequenze cinematografiche che si trasformano logicamente le une nelle altre.

Lo «strumentalismo» di Dewey. Lo sviluppo e la ripresa più importante del p. nel Novecento è costituita dallo «strumentalismo» di Dewey, anche per le sue vastissime implicazioni etiche, politiche e pedagogiche e per l’influenza esercitata in campo mondiale a favore della diffusione di una «scuola attiva». Dewey, formatosi per un verso in un clima idealistico di stampo hegeliano e per l’altro molto attento agli sviluppi della psicologia dell’epoca, concepisce il pensiero come qualcosa di non puramente individuale, ma di interazionale, come risposta a problemi posti dall’ambiente (prima naturale e poi anche sociale) all’organismo, intendendo però il principio evoluzionistico in senso «emergente», e cioè come formazione e comparsa di nuovi livelli di comportamento il cui valore e la cui funzione non sono riducibili a quelli dei livelli inferiori da cui sono derivati. Diventa allora possibile tagliare alla radice tutte le obiezioni più o meno semplicistiche rivolte al p. di essere una filosofia che subordina il pensiero all’azione, o peggio a scopi estrinseci, utilitaristici o addirittura di semplice profitto, in quanto il fatto che il pensiero sia sorto per riordinare una situazione organica disturbata non vuole affatto dire che sia rimasto sempre tale. Al contrario, come dimostrano le scienze, il rapporto tra l’azione immediata e il pensiero, come insieme di simboli di azioni differite in modo da valutare il nesso tra mezzi e fini, si è rovesciato giacché l’esperimento è subordinato all’ipotesi scientifica, serve a trasformarla in legge, e quindi è un tipo di azione e di comportamento che non è scopo ma mezzo. In altri termini, quello che permane costante nel pensiero è il fatto di essere risposta a una situazione precaria, indeterminata (e in questo senso il p. implica una metafisica naturalistica, ossia una concezione aperta e problematica degli eventi e dei loro esiti possibili), in modo da trovare regole di comportamento atte a trasformarla in una situazione più stabile e determinata. Ma tutto questo non avviene sempre necessariamente in campo fisico, biologico o esistenziale, ma anche in campo simbolico, concettuale, dove tanto il problema quanto la soluzione sono costituiti da termini non più immediatamente esistenziali. L’essenza del p. consiste cioè nel riconoscere la funzione operativa del pensiero, per cui nulla in astratto è un «dato» o è un «problema», ma quello che in una certa situazione disturbata, indeterminata, è un problema, una volta chiarito e risolto, può diventare un dato in un’altra situazione e viceversa. Il p. si pone quindi in una posizione diversa tanto da quella dell’empirismo quanto da quella dell’idealismo o ancora da ogni forma di platonismo. Contro l’empirismo il p. nega la riduzione del pensiero a induzione o a convenzione e afferma che nulla ci è mai dato in modo discreto, separato, oggettivo, ma che gli oggetti sono eventi dotati di una funzione evidenziale (per es., la luce di un semaforo) in quanto inglobati in un nesso di relazioni che corrispondono a progetti operativi la cui formula più universale e astratta è lo schema «se… allora». Contro l’idealismo di tipo trascendentale il p. rivendica invece il carattere evolutivo del pensiero e il suo nesso con una situazione indeterminata di cui è la soluzione mediante la simbolizzazione di comportamenti atti a determinarla, per cui non ci può essere nessuna serie di forme o categorie a priori rigidamente definite. Contro l’idealismo di tipo platonico e contro ogni ontologia di carattere assoluto il p. obietta che l’ipostatizzazione dei risultati della ricerca in idee eterne e immutabili o in strutture assolute della realtà, e la loro contrapposizione al mondo concreto dell’esperienza impedisce di cogliere il carattere operativo del pensiero e non fa altro che riprodurre inconsapevolmente una situazione sociale di divisione storica e classista del lavoro. Se dunque con Dewey il p. ripropone in campo logico-epistemologico la rivendicazione della continuità della ricerca e della sua capacità di autorettificarsi a qualsiasi livello, proprio per il suo carattere sperimentale e strumentale insieme, in campo etico questa rivendicazione si traduce in una vigorosa polemica contro ogni possibile divisione a priori, ontologica, tra fini e mezzi come se ci fossero valori costituiti in sé e per sé e all’uomo non restasse che subordinarvisi. Il p. consiste invece nel riconoscere la funzione imprescindibile dell’intelligenza come capacità di rinnovamento e di superamento di contrapposizioni indebite e paralizzanti, in modo da avere un’esperienza sempre più organica e sempre più armonica; per questo verso la concezione pragmatistica dell’intelligenza presenta importanti aperture verso il problema estetico, giacché il carattere qualitativo, estetico dell’esperienza è proprio il principio che guida e orienta l’intelligenza nella sua ricerca di una soluzione più adeguata dei problemi che via via si aprono nell’esperienza.

Il pragmatismo di Mead e Morris. L’aspetto sociologico-antropologico e quello epistemologico-linguistico del p. hanno avuto poi interessanti sviluppi rispettivamente con l’opera di Mead e con quella di Morris. Con Mead il p. si configura come «behaviorismo sociale», in quanto la società è considerata come condizione per il sorgere del «sé», ossia della mente individuale, attraverso quel potente strumento di socialità che è il linguaggio; proprio il linguaggio infatti consente all’uomo di vivere in un ambiente simbolico e di dare agli altri organismi umani risposte non puramente animali e realizzarsi in un comportamento in cui permane continuamente aperta una tensione funzionale tra uomo e società, individuo e istituzioni. Con Morris invece si ha l’incontro tra il p. e il neopositivismo: muovendo dalla concezione pragmatistica del linguaggio e della scienza come formulazioni simboliche di possibili operazioni, Morris approfondisce lo studio della semiotica connettendola con la «pragmatica» come scienza che esamina l’origine, gli usi e gli effetti dei segni in rapporto al comportamento in cui essi hanno luogo, inserendola quindi in un campo più vasto di quello dell’analisi linguistica in senso stretto. Il p. può dunque essere considerato come un movimento che ha, sì, concluso la sua traiettoria nella prima metà del Novecento; tuttavia è innegabile che molti dei suoi temi e delle sue esigenze sono stati incorporati vitalmente nel pensiero contemporaneo e vi continuano a operare seppure non più in veste autonoma.

Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)

Pragmatismo

Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)

di Tiziano Bonazzi

di Tiziano Bonazzi

Pragmatismo

sommario: 1. Origini e significato. 2. Il contesto storico-sociale: il 'decollo' americano e i suoi problemi (1870-1900). 3. Pragmatismo ed epistemologia: C. Wright e C. Peirce. 4. Il pragmatismo come conciliazione di scienza e filosofia: W. James. 5. Pragmatismo, democrazia ed educazione: lo strumentalismo di J. Dewey. 6. Pragmatismo e psicologia sociale: G.H. Mead. 7. Pragmatismo e scienza politica: A.F. Bentley. 8. Osservazioni conclusive. □ Bibliografia.

1. Origini e significato

Il pragmatismo è un movimento filosofico che, sorto negli Stati Uniti negli ultimi decenni dell'Ottocento, vi ha conosciuto una vasta fortuna fino alla seconda guerra mondiale, soprattutto attraverso l'opera di William James e John Dewey, per poi subire un'eclisse dalla quale lo hanno ultimamente riscattato filosofi morali e della politica come Richard Rorty.Il pragmatismo ebbe origine nelle discussioni fra gli amici che nel 1871-1872, a Cambridge nel Massachusetts, diedero vita al 'Metaphisical club', una delle molte associazioni culturali sorte nel periodo di irruenta trasformazione e di acuta crisi che gli Stati Uniti attraversarono nei decenni successivi alla guerra civile. Le figure principali di quello che più che un club era un gruppo informale di amici erano sei, tre scienziati-filosofi, Chauncey Wright, Charles Peirce e William James, e tre giuristi, Oliver Wendell Holmes jr., Nicholas St. John Green e Joseph Bangs Warner. Giovani - Wright, il più anziano, aveva una quarantina d'anni - , appartenevano all'élite intellettuale bostoniana e avevano tutti studiato a Harvard. Fu nel corso dei loro dibattiti che - sotto la spinta dell'evoluzionismo di Wright, leader intellettuale riconosciuto del gruppo, e alla luce della 'teoria predittiva del diritto', sostenuta sia da Green che da Holmes come applicazione delle teorie dello psicologo britannico Alexander Bain - Peirce formulò e presentò agli amici la 'massima pragmatica'. La cosa non ebbe un seguito diretto, in quanto il club ben presto si sciolse e nella memoria stessa dei protagonisti quanto era avvenuto divenne uno sbiadito e incerto ricordo; ma il metodo di indagine sorto a Cambridge continuò a svilupparsi, ad opera sia degli iniziatori - personaggi pur molto distanti fra loro per interessi e mentalità -, che di altri intellettuali come i filosofi di Chicago John Dewey e George H. Mead, che completano il nucleo storico dei pragmatisti dei quali si intende trattare in questa sede.

2. Il contesto storico-sociale: il 'decollo' americano e i suoi problemi (1870-1900)

La guerra civile del 1861-1865 segna uno spartiacque nella storia americana sia perché, oltre che alla fine della schiavitù, portò alla sconfitta e all'acrimonioso isolamento del Sud, sia soprattutto in quanto il trionfo del Nord significò il trionfo del capitalismo nordista, che negli ultimi decenni del secolo fece degli Stati Uniti la prima nazione industriale del mondo. Un paese che si era venuto costruendo su migliaia di comunità locali autocentrate e su regioni socioeconomiche fortemente autonome e che non aveva classi sociali omogenee assistette, in soli quarant'anni, all'unificazione e alla verticalizzazione sia del mercato che della società. Ai primi del Novecento l'economia era ormai dominata da grandi gruppi oligopolistici industriali e finanziari, la lotta di classe era divenuta una realtà, le vecchie élites venivano soppiantate da geniali 'uomini nuovi' legati al più scoperto arrivismo economico; negli stessi anni l'opinione pubblica scopriva lo squallore e la miseria degli slums proletari nelle grandi città divenute simbolo della nuova età e si sentiva messa in pericolo dalle ondate di immigrati provenienti dall'Europa sudorientale e, nell'estremo ovest, dalla Cina e dal Giappone.In tale situazione entrò in crisi la cultura politica e sociale prebellica, incentrata sull'idea che gli Stati Uniti fossero una nazione prediletta da Dio, destinata a restare immune dai mali dell'Europa, e il cui progresso economico - fondato sui principî protestanti dell'etica del lavoro, dell'uguaglianza delle possibilità e dell'individualismo - implicava un continuo progresso morale.
Uno dei sintomi più evidenti di questa crisi fu il feroce dibattito sull'evoluzionismo che si sviluppò durante gli anni sessanta e settanta. Accettare il darwinismo implicava negare quel ruolo di guida verso Dio, attraverso lo studio empirico della natura, che la cultura americana, con la mediazione della filosofia del realismo scozzese, aveva assegnato alla scienza e che era anche alla base della visione morale dello sviluppo economico. L'evoluzionismo darwiniano, infatti, era una scienza senza assoluti, non riconducibile a una visione religiosa e teleologica del mondo, insopportabile, quindi, non solo per l'opinione pubblica colta, ma per gli stessi scienziati, tanto legati all'empirismo baconiano e milliano quanto profondamente religiosi.Il darwinismo poté essere accolto solo quando si riuscì a ricondurlo, servendosi soprattutto di Herbert Spencer, a una sorta di metafisica positivistica in cui l'evoluzione diveniva una legge dello sviluppo storico tendente al progresso civile e morale dell'uomo e alla realizzazione di un disegno divino.
Teorie di questo genere conciliarono scienza e religione e diedero un senso al caos sociale e morale del periodo; ma vennero anche usate dai cosiddetti 'darwinisti sociali' per sostenere l'ordine capitalistico esistente contro ogni tentativo di riforma, che a loro parere in realtà finiva, aiutando gli emarginati, con l'aiutare i 'non adatti', coloro che il processo della selezione naturale giustamente eliminava.Fra i membri della 'nuova classe media' - ossia tra gli esperti e i tecnici indispensabili a una matura società industriale - si verificò una dura reazione contro questa vulgata evoluzionistica. Eredi dei valori dell'etica protestante, ma educati al metodo scientifico, molti di loro ritenevano che il caos sociale ed economico non fosse il prodotto dell'evoluzione, ma il frutto di quella concezione che - interpretando le leggi scientifiche come meccanismi automatici sui quali non era dato intervenire - aveva finito per separare scienza e morale, giustificando in tal modo le pretese di dominio e l'egoismo dei più forti. Di conseguenza essi abbracciarono progetti di riforma per lo più a sfondo tecnocratico e contribuirono in modo decisivo alla nascita del 'movimento progressista', che culminò nelle presidenze di Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson agli inizi del Novecento. Momento essenziale di questo moto riformatore, che rappresentò anche una fase di ricostruzione di strumenti intellettuali, fu la nascita e la rapida affermazione delle scienze sociali.
La storia del pragmatismo classico va dunque situata nel quadro di quelle innovazioni intellettuali che permisero di superare la crisi sociale e culturale che caratterizzò gli Stati Uniti sul finire dell'Ottocento. Se non l'autocoscienza del riformismo progressista del primo Novecento, il pragmatismo potrebbe essere considerato almeno il suo frutto migliore, quello che fornì al progressismo il modello sociale più innovativo e al tempo stesso maggiormente in grado di riallacciarsi ai valori e ai miti fondatori della nazione americana. Ciò non significa, tuttavia, che il pragmatismo possa essere considerato l'ispiratore del progressismo o la filosofia delle scienze sociali fra i due secoli; sia l'uno che le altre sono infatti fenomeni molto complessi di cui il pragmatismo non rappresenta che uno degli elementi, anche se forse si tratta di quello che meglio ne esprime lo spirito e gli ideali. A ciò si aggiunga che il pragmatismo, come il progressismo, dovette soccombere all'ondata politicamente conservatrice degli anni venti, mentre le scienze sociali si incamminavano verso un sempre più rigido scientismo che non poteva certo riconoscere nel pragmatismo una fonte di ispirazione diretta.

3. Pragmatismo ed epistemologia: C. Wright e C. Peirce

Le caratteristiche del pragmatismo nei primi anni settanta, quando le trasformazioni che abbiamo appena illustrato erano nella loro fase iniziale, sono del tutto interne ai travagli dello scontro sull'evoluzionismo. Lo dimostra il pensiero di Chauncey Wright (1830-1875), le cui idee e la cui posizione nel Methaphysical club consentono di considerarlo l'ispiratore del pragmatismo. Wright era una personalità ribelle e singolare che non riuscì mai a inserirsi nel mondo accademico. Valente matematico, positivista convinto, avversario del trascendentalismo di cui non comprendeva le spinte mistiche e l'intuizionismo, impostò le problematiche che furono poi alla base della "massima pragmatica" definita da Peirce. Wright si inserì nel complesso dibattito sulla critica di John Stuart Mill a William Hamilton - il filosofo del realismo scozzese più seguito negli Stati Uniti di metà Ottocento - a proposito dei limiti del conoscere, giungendo alla conclusione che, data l'impossibilità di arrivare al noumeno, la conoscenza è limitata agli effetti di questo su di noi. La filosofia non può, quindi, essere che 'filosofia dell'esperire'. Una posizione con cui egli intese separare - e al tempo stesso garantire reciprocamente - religione e scienza, in quanto il metodo scientifico costituisce l'unica forma corretta di esperienza, ma l'esperienza non riguarda i problemi della fede.L'associazionismo, su cui si fondavano sia la psicologia dei filosofi scozzesi che quella dell'utilitarismo, non gli consentiva, però, di spiegare adeguatamente il passaggio dalle sensazioni primarie alla coscienza e metteva in forse tutti i suoi sforzi. Da qui la sua entusiastica adesione al darwinismo, che gli permise di formulare in termini scientificamente più soddisfacenti la tesi secondo cui conosciamo solo gli effetti della 'cosa in sé'.
Alla luce dell'evoluzionismo, infatti, le idee non sono degli assoluti, bensì dei 'piani di azione' essenziali alla lotta per la sopravvivenza, che nascono in risposta alle sfide ambientali e si evolvono a partire da fenomeni psichici elementari attraverso la mediazione delle funzioni 'segniche' della memoria e dell'immaginazione.Charles Peirce (1839-1914) andò oltre Wright, criticandone quello che considerava un residuo dell'empirismo classico e della psicologia associazionista, vale a dire la tesi secondo cui nell'intraprendere una ricerca filosofica o scientifica occorre avere una totale neutralità rispetto a ogni ipotesi o teoria o pregiudizio precedente, una sorta di tabula rasa mentale. A suo parere un simile agnosticismo è impossibile, perché gli esseri umani esistono immersi nei fatti e ogni atto conoscitivo consiste nell'inserirsi in un processo di esperienze in corso che analizziamo interpretandole. Peirce non ritiene accettabile la neutralità di Wright perché non esiste un punto di partenza assoluto del processo conoscitivo, né a livello psicologico - i dati sensoriali primari degli associazionisti sono irrintracciabili - né logico, in quanto ogni atto di conoscenza è un'analisi di fenomeni che per essere compresi debbono essere concettualizzati sulla base di fenomeni precedenti, i quali rimandano alla concettualizzazione di altri in una regressione infinita che non giunge mai a un primum. A partire da ciò Peirce costruì una logica svincolata da ogni considerazione ontologica e basata invece sulle relazioni segniche che ci consentono di concettualizzare i dati sensoriali - una semiotica che costituisce il retaggio forse più fecondo della sua filosofia. Tale logica è però anche uno dei passaggi essenziali per la formulazione della massima pragmatica.
Da un punto di vista epistemologico esperire significa conoscere per mezzo di una costruzione concettuale effettuata attraverso la mai terminata catena segnica; ma si tratta di una costruzione che muove necessariamente dalla realtà empirica, in quanto a essere compresi sono fenomeni che hanno conseguenze pratiche. Il conoscere è un processo che all'infinito tende al vero, in quanto, al di là di ogni fenomeno conosciuto, ve ne sono altri sconosciuti, ma conoscibili; l'essere, per Peirce, coincide con la conoscibilità. In base allo stesso ragionamento la nostra conoscenza di un fenomeno è conoscenza dei suoi effetti pratici; da qui la massima pragmatica secondo cui "la nostra concezione di questi effetti è l'intera concezione dell'oggetto": la realtà è l'insieme degli effetti dei fenomeni che esperiamo.
Peirce, figlio di uno dei più illustri matematici americani, ricevette un'accurata educazione scientifica e i suoi lavori in campo geodetico e astronomico gli diedero notorietà internazionale. Sebbene dubitasse delle conclusioni dell'evoluzionismo, egli riteneva che Darwin avesse impostato il discorso scientifico in modo tale da consentire quasi un'identificazione fra filosofia e scienza, facendo in ogni caso di quest'ultima il baluardo contro ogni forma di soggettivismo. Il conoscere, infatti, è individuale e processuale, interminabile e non ancorabile all'essere, onde non esistono metri assoluti con cui verificarne il grado di verità; tuttavia il metodo scientifico ci consente di controllare la conoscenza e, attraverso il consenso della comunità dei ricercatori, ci dà l'unica forma - una forma pubblica - di verifica del fatto che il nostro "pensiero in azione" procede in direzione del vero. Scopo della filosofia è stabilire i modi corretti del belief, del credere. Essa ci assicura che la scienza fornisce una garanzia dell'adeguatezza delle nostre norme e abitudini di vita, ma anche una ragione per modificarle quando si forma un nuovo e diverso consenso scientifico. È questo il meccanismo di quell'infinita approssimazione al vero che Peirce pone al centro dell'epistemologia pragmatista e di cui parla come di un evolutionary love che pervade l'intero universo.
L'austero pragmatismo di Peirce appare legato al dibattito sulla natura del conoscere filosofico e scientifico più che a quello sul ruolo di filosofia e scienza nella vita individuale e sociale; tanto che lo stesso Peirce si affrettò a chiamare la propria teoria "pragmaticismo" quando, sotto la spinta di James, il pragmatismo prese direzioni che non condivideva. È tuttavia innegabile che egli propose una teoria in cui la capacità umana di verificare nella pratica il proprio agire sostituiva ogni ricerca di verità assolute e proponeva il modello di una società aperta costantemente autoriformantesi.

4. Il pragmatismo come conciliazione di scienza e filosofia: W. James

Con William James (1842-1910) ci veniamo a trovare, in effetti, in un universo intellettuale del tutto diverso. Scienziato anch'egli, ma in campo medico, non fisico-matematico, James accettava le idee di Peirce nell'ambito delle scienze fisiche; ma riteneva che, per quanto riguarda l'esperire e il conoscere quotidiano, le conclusioni cui giungere dovessero essere diverse. Lo scienziato, infatti, interviene in una realtà che è 'piena' per portarvi ordine; ma per farlo deve selezionare e scegliere dati, finendo di necessità col cogliere solo un frammento della verità. Per di più, egli parte da ipotesi di lavoro che sono 'atti di fede' non diversi da quelli che regolano la vita di ognuno di noi. Di conseguenza, pur se il metodo scientifico è essenziale, la scienza non è l'unico strumento del conoscere e non può essere elevata a 'idolo della tribù' umana. William James, cresciuto in una famiglia patrizia bostoniana, fratello del famoso scrittore Henry James, ricevette dal padre, un eccentrico intellettuale-gentleman, un'educazione fondata sull'unione di fede e scienza in una visione religiosa legata al misticismo di Swedenborg. Per vari anni egli fu soggetto a gravissime crisi psicologiche che nascevano dal suo senso di impotenza di fronte ai problemi del rapporto fra religione e scienza, in particolare al dilemma del come l'agire possa essere libero e avere valore morale in un mondo che la scienza interpreta senza far ricorso alla religione e quindi, così gli pareva, in modo deterministico. Qualunque fosse la natura delle sue crisi, James cominciò a uscirne quando, sulle orme di Renouvier, il maggior filosofo kantiano francese, riuscì a compiere l'atto di volontà di credere nel proprio libero volere.
La sua personale esperienza, il postkantismo di Renouvier, le lunghe discussioni con Wright e Peirce, assieme agli studi medici e alla lunga pratica scientifica in campo psicologico, costituiscono le basi del pensiero di James. Per quanto riguarda la pratica scientifica, occorre notare che negli Stati Uniti fino agli anni sessanta la psicologia veniva trattata come parte della filosofia morale, vale a dire come una sorta di scienza dell'anima che, attraverso l'analisi delle sensazioni, delle emozioni e della volontà, serviva a corroborare empiricamente i principî etici che dovevano guidare il comportamento individuale e sociale. A fondamento della psicologia venivano inoltre poste teorie associazioniste dei processi mentali, che portavano a considerare la mente come uno strumento passivo, azionato dal meccanismo stimolo-risposta. Era questa passività della mente, e la conseguente immagine dell'uomo come un automaton privo di libero volere, che James intese combattere a livello scientifico, servendosi della nuova psicologia sviluppata in Germania. Studiosi quali Wilhelm Wundt e Hermann Helmholtz avevano separato la psicologia dalla filosofia, fondandola sulla fisiologia umana e facendone così una branca delle scienze naturali. La psicologia scientifica a base fisiologica consentiva di interpretare l'attività mentale, in chiave evolutiva, come uno strumento dell'adattamento umano all'ambiente, che aveva sviluppato, con la formazione della coscienza, la capacità strategica di scegliere fra comportamenti alternativi. Su queste basi James poté fare della mente un organo attivo, capace di volere e di conoscere ai fini pratici della sopravvivenza. A questo punto la psicologia torna, per James, a incontrarsi con la filosofia e serve a costruire un'epistemologia di tipo pragmatista.
Non è un caso che, dopo avere per qualche tempo insegnato fisiologia, nel 1875 James desse vita a Harvard al primo corso americano di psicologia scientifica, per passare successivamente alla filosofia - disciplina che insegnava quando, nel 1890, apparve il suo opus magnum, i Principles of psychology.La psicologia scientifica, fondata sull'analisi empirica del singolo, diede un indirizzo individualista al pensiero di James, che si allontanò da Peirce, anche se i suoi bersagli polemici furono per tutta la vita la metafisica naturalista di Spencer e il sensismo meccanicistico. Entrambe queste teorie, a suo parere, impedivano una corretta interpretazione dei modi e dei fini del conoscere, in quanto legavano il singolo a leggi universali e a processi automatici annullandone ogni autonomia. Da una prospettiva pragmatista, invece, l'evoluzione coinvolge sì la specie, ma è l'individuo che, selezionando i dati dell'esperienza per ottenere una conoscenza che gli consenta di sopravvivere, crea nuovi fini e risultati evolutivamente utili.Nei Principles James affermò che il cervello è un organo il cui equilibrio interno muta continuamente, soggetto com'è a un'incessante corrente di stimoli che ne alterano fisiologicamente la struttura cellulare, la composizione neurologica e le onde cerebrali. Tale mutazione comporta anche un continuo processo di selezione fra gli stimoli, operata dal cervello sia a livello di attività non coscienti come la respirazione, che a livello cosciente. La 'coscienza', anzi, ricomprende entrambi e manipola tutte le percezioni per elevarle a concetti e idee in grado di pianificare l'azione a beneficio del soggetto. È questo lo stream of consciousness, il flusso della coscienza in cui il soggetto è immerso e che al tempo stesso gli dà continuità e identità.La coscienza non è tuttavia sufficiente. Essa prepara l'azione, individua fini utili alla sopravvivenza elaborando le impressioni ricevute dall'esterno, consente di concepire un mondo più adatto di quello presente ai nostri fini; ma non è il momento 'telico' più alto della mente, che consiste nella volontà. La volontà, che ha fondamento empirico in quanto è legata all'intero processo della coscienza, è libera nel momento in cui compie la scelta finale fra i piani d'azione predisposti ai livelli precedenti o addirittura formula nuovi fini e ordina di agire. In questo senso è "volontà creativa".A partire dagli ultimi anni dell'Ottocento, James sviluppò su tali basi il principio del practicalism, che riagganciò alla massima pragmatica. Ogni individuo, per James, può infatti autonomamente ottenere una 'perfetta chiarezza' di pensiero se considera gli effetti pratici che un determinato oggetto ha su di lui e le sensazioni e le reazioni che ne derivano.
Con questo procedimento James fece della descrizione scientifica del processo psicologico del conoscere la risposta al quesito filosofico cosa sia la verità e superò al tempo stesso il dualismo mente-corpo, ponendo l'accento sul primato della persona che, agendo, definisce se stessa e il proprio ambiente.Il pragmatismo di James non contraddice la linea epistemologica di Peirce, anche se ne costituisce uno sviluppo più che un'applicazione. Dal punto di vista di Peirce l'individualismo jamesiano corre il rischio del relativismo, perché non può servirsi - e non si serve - del principio regolatore del consenso della comunità degli studiosi. Ciò che interessa James, tuttavia, è fondare la conoscenza sulla volontà creativa del singolo, una volontà libera che pone a rischio se stessa - perché le idee possono provocare conseguenze addirittura deleterie -, ma che dà vita a un universo umano aperto e pluralistico, il quale cerca la propria validazione nell'intreccio dei piani d'azione degli individui. A suo parere, d'altronde, il pragmatismo non è affatto relativista, in quanto è legato sia ai fondamenti empirici della coscienza che al postulato evolutivo dell'adattamento.L'influenza di James sulla cultura americana fu enorme e con lui il pragmatismo acquistò una visibilità nazionale, anche se non ebbe conseguenze dirette sul movimento riformatore progressista, perché James non aveva preoccupazioni politiche o sociali. Egli si considerava un filosofo che aveva trovato il modo di coniugare scienza e filosofia e che, in Varieties of religious experience (1902), aveva individuato la base empirica del bisogno di fede religiosa dell'uomo dando alla fede un ruolo nel processo del conoscere. Ciononostante il suo pensiero fornì l'orizzonte teorico entro il quale si mosse buona parte dei progressisti, poiché concetti quali la centralità dell'individuo che agisce e il 'migliorismo' giustificavano l'idea che la società va continuamente adeguata ai bisogni dei singoli dall'interagire degli individui sulla base del mutare delle circostanze ambientali.

5. Pragmatismo, democrazia ed educazione: lo strumentalismo di J. Dewey

È, però, attraverso John Dewey (1859-1952) e la cosiddetta 'Scuola di Chicago' che il pragmatismo divenne parte attiva del pensiero riformatore. Dewey proveniva dal Vermont, ottenne il dottorato in filosofia alla nuovissima e innovativa Johns Hopkins University di Baltimora e insegnò per diversi anni all'Università del Michigan prima di approdare all'appena fondata Università di Chicago nel 1894. In questo periodo aveva dovuto affrontare, come i pragmatisti di Boston, il lacerante problema del divorzio fra scienza e religione e fra scienza e morale, oltre a quelli ereditati dalla cultura calvinista del New England - in particolare i dualismi mente-corpo e Dio-natura.Da questi travagli Dewey ereditò quell'avversione per ogni forma di dualismo che caratterizza tutto il suo pensiero e che nel periodo giovanile risolse servendosi dell'idealismo hegeliano. Il neoidealismo del suo insegnante alla Johns Hopkins, G. Sylvester Morris, era però influenzato dall'evoluzionismo e attento agli sviluppi scientifici, il che spinse Dewey a seguire i corsi di psicologia di Stanley Hall e a convertirsi alla nuova disciplina. Nel Michigan 'scoprì' poi la psicologia di James e il pragmatismo di Peirce, che gli consentirono quella che egli chiama la sua "transizione dall'assolutismo allo sperimentalismo".
Fu però negli anni di Chicago che Dewey sviluppò la propria versione del pragmatismo, lo strumentalismo, che venne formulata nel 1903, poco prima del suo trasferimento alla Columbia University a New York, nel saggio Logical conditions of a scientific treatment of morality e nel manifesto della nuova scuola filosofica, il volume collettaneo Studies in logical theory da lui curato.Lo strumentalismo nacque dal bisogno di superare i dualismi di teoria e pratica, scienza e morale. Risultato che Dewey intese ottenere dimostrando che il giudizio scientifico è uguale nella sua struttura logica a quello etico e, più precisamente, che non è vero che la scienza si serva di giudizi universali mentre la morale si serve di giudizi particolari. Coerentemente pragmatista nel suo approccio, egli sostenne che i due tipi di giudizio non possono essere trattati in astratto, ma vanno contestualizzati nel concreto mondo dell'azione e che, se considerati da questo punto di vista, essi appaiono come ponti che consentono di passare da un'esperienza particolare a un'altra. I giudizi della scienza servono a forgiare strumenti per l'esperienza, e quelli etici sono piani d'azione per risolvere problemi. Al centro della logica, per Dewey, vi è pertanto l'inquiry, la ricerca, vi sono uomini concreti che scelgono problemi e costruiscono strumenti per risolverli. Il valore logico e scientifico di una proposizione dipende allora da ragioni pratiche che comportano scelte e sono quindi morali: la verità, anche per lui e in modo più cogente che per gli altri pragmatisti, è 'verificazione'.
Dewey fa discendere dalla logica strumentalista conseguenze storiche e sociali molto precise. La nascita della scienza moderna, egli scrive, basata sull'unità di teoria e pratica e sul fondamento etico di tale unità, ha posto fine alla contrapposizione di origine greca fra mondo delle idee e mondo dei fenomeni, fra contemplazione e lavoro, che non era solo errata, ma portava a un'organizzazione sociale gerarchica incapace di far fruttare le potenzialità umane. La democrazia è una conseguenza necessaria dello sviluppo scientifico e il pragmatismo può renderla cosciente dimostrando che conoscere non è contemplare, ma richiede un coinvolgimento nella modificazione della realtà. Conoscere significa partecipare con gli altri a rendere il mondo un luogo meno precario per l'uomo, è una continua opera di riforma dell'ambiente, cioè della società.
La teorizzazione dello strumentalismo andò di pari passo con la creazione di un nuovo metodo pedagogico, che costituisce il contributo più noto e durevole di Dewey alle scienze sociali. A Chicago, infatti, egli istituì presso l'Università una scuola elementare, che divenne il luogo in cui sperimentò le sue teorie psicologiche e pedagogiche, servendosene al tempo stesso per sviluppare la logica dell'azione. Al centro della pedagogia di Dewey vi era l'applicazione di quelli che sarebbero diventati i principî dello strumentalismo, vale a dire l'uso dell'impulso del bambino ad agire per insegnargli a risolvere problemi e, al tempo stesso, per insegnargli a farlo assieme agli altri, perché sono il rispetto per gli altri e la collaborazione con gli altri che consentono al bambino di esprimere se stesso. La scuola diventa così una sorta di comunità fondata sul lavoro, il modello di quell'individualismo socializzato che costituisce il nucleo del pensiero democratico e dell'azione politica di Dewey.
Non si può a tal proposito non ricordare che questo è il modello comunitario che ritroviamo in molta parte del progressismo e che costituisce un Leitmotiv della cultura sociale statunitense, con origini che risalgono al calvinismo settecentesco del New England, successivamente incrociatosi con il protestantesimo evangelico della frontiera. Un comunitarismo che intende recuperare le radici sia emotive che spirituali della socialità, della quale sono responsabili gli individui stessi, e non lo Stato, sempre visto come potenzialmente tirannico, in un difficile equilibrio fra individualità e società, dove la seconda è chiamata a fornire ai singoli il supporto di una cultura e di una struttura dei rapporti umani in grado di spingerli a realizzare se stessi.Questo ideale, espresso in modo definitivo in Democracy and education del 1916, trova riscontro nell'insistente rifiuto di ogni etica utilitarista e nella concezione globale e unitaria dell'esperire che Dewey sviluppò negli anni fra le due guerre mondiali, quando rafforzò lo strumentalismo con una coerente prospettiva naturalistica. Nelle opere del periodo - di cui Logic, the theory of inquiry (1938) rappresenta il culmine - Dewey recupera la logica di Peirce e la sua teoria del belief - anche se preferisce l'espressione "asseribilità giustificata" - per teorizzare il carattere pubblico del conoscere fondato sulla convergenza dei risultati delle indagini. È questo carattere pubblico, e pertanto sociale, la garanzia non solo pratica, ma logica della teoria pragmatica secondo la quale sono i risultati operativamente efficaci a verificare la verità delle proposizioni.
Pur lontanissimo dallo scientismo, così come dall'utilitarismo, Dewey andò progressivamente individuando una profonda unità di metodo fra scienza e filosofia, e fra scienze fisiche e umane (Theory of valuation, 1939), giungendo a fare della filosofia una sorta di scienza sociale orientata alla prassi, in grado di esercitare un controllo razionale sulla vita umana. In contrasto con molti scienziati sociali, che da prospettive di questo tipo traevano conseguenze tecnocratiche, egli vide nella scienza un'applicazione specializzata dell'intelligenza pragmatica disponibile a tutti e capace di diventare il fulcro del processo democratico, attraverso quello che egli chiamava "social sensorium", la cosciente e paritaria interazione tra individui mediata dal linguaggio.A causa del loro specifico approccio teorico, Dewey e gran parte dei pragmatisti furono attivi sia nel campo delle scienze sociali che dell'azione pubblica. Lo strumentalismo deweyano, ad esempio, è incomprensibile se non si pone attenzione sia allo stretto rapporto di collaborazione che Dewey instaurò a Chicago con Jane Addams - una delle figure chiave del progressismo, fondatrice dell'importantissimo movimento dei social settlement, i centri sociali che operavano negli slums urbani - sia alla sua successiva, intensa attività in campo pedagogico e sociale a New York.
Lo strumentalismo sfociò pertanto in una teoria politica che conteneva gli elementi essenziali della democrazia americana del Novecento: una visione progressista della storia, un modello di società aperta in cui individuo e comunità si armonizzano, e una teoria dinamica dei processi sociali che tende a sottovalutare strutture e istituzioni a favore di un approccio psicosociologico al problema della piena realizzazione di una società armonica. Sebbene definitivamente formulata solo negli anni venti e trenta, e nonostante in questi anni l'influsso diretto del pragmatismo nel campo delle scienze sociali fosse ormai tramontato, la spinta democratica intrinseca allo strumentalismo consentì a Dewey di assurgere al ruolo di saggio della democrazia americana, anche se i suoi tentativi di costituire un nuovo movimento politico che andasse al di là del New Deal conobbero una cocente sconfitta.

6. Pragmatismo e psicologia sociale: G.H. Mead

La tendenza del pragmatismo a incarnare aspetti centrali della cultura democratica americana del Novecento trova conferma nella psicologia sociale del meno noto (ma per le scienze sociali probabilmente del più importante) tra i membri del gruppo storico dei pragmatisti, George Herbert Mead (1863-1931). Nato nel Massachusetts, egli studiò a Harvard con James e Josiah Royce, per poi specializzarsi a Berlino ove subì l'influenza della psicologia di Wilhelm Wundt; all'Università del Michigan strinse una forte e duratura amicizia con Dewey e andò con lui a Chicago, dove rimase per tutta la vita. Mead fu un pensatore sotto molti aspetti assai avanzato rispetto ai propri tempi, tanto che la sua originalità sia come filosofo che come psicologo sociale venne riconosciuta solo negli ultimi anni della sua vita, pur essendo nota la profonda influenza che egli aveva esercitato su Dewey.Mead prese le mosse dalla psicologia sociale genetica di James M. Baldwin e si dedicò per tutta la vita al problema dell'emergere dell'intelligenza - la mente - dal comportamento irriflesso. Il suo approccio è quindi di tipo comportamentista, anche se non nel senso restrittivo di John B. Watson.In linea con i fondamenti del pragmatismo, Mead non ritiene che la mente sia un presupposto dell'esperienza, ma che si formi con questa a partire dal "gesto", vale a dire attraverso la comunicazione sociale. Un gesto è un movimento o un suono che indica agli altri le intenzioni o le emozioni di una persona e che, quando acquista per loro significato, diventa un simbolo. L'attività comunicativa per mezzo di simboli, il più importante dei quali è il linguaggio, dà vita a un "atto sociale". L'esperienza è quindi un processo comunicativo costituito da atti sociali, che ha natura teleologica in quanto ogni atto tende a eliminare la sensazione di disturbo - che Mead chiama 'impulso' - provocata da un mancato aggiustamento fra il singolo e il suo milieu.
La natura sociale degli atti implica che l'individualità si sviluppi socialmente, in quanto gli impulsi di ognuno non possono trovare soluzione se non con la cooperazione degli altri e quindi attraverso un ruolo attivo nel gruppo. Ciò è sperimentalmente riscontrabile nello sviluppo del bambino, che comincia ad assumere ruoli immaginari imitando gli adulti nel gioco (play), ma sviluppa la propria individualità solo quando partecipa a giochi organizzati (game) in cui assume ruoli impersonali guidati da regole. Giochi, cioè, in cui impara a rappresentarsi la risposta dell'altro, vale a dire a far proprio un punto di vista generale e comune a ogni membro del gruppo - il cosiddetto "altro generalizzato" (generalized other). In termini teorici, secondo Mead, la coscienza del Sé emerge quindi attraverso una serie di aggiustamenti in cui ognuno risponde a impulsi sia propri che altrui, in un processo in cui passa da una percezione convenzionale e astratta di sé (il 'me') a una concreta ('io'), reagendo in modo pratico agli impulsi ai quali il 'me' viene sottoposto dall'ambiente.
È questa la teoria dell'interazionismo simbolico, che ha avuto grande importanza per lo sviluppo della psicologia sociale, nonché per la pedagogia, la sociologia e la linguistica, e che si fonda su una esatta comprensione e approfondimento dei principî del pragmatismo. Mead, infatti, usa la teoria del segno di Peirce riconoscendo la natura nominalistica del simbolo; ma correttamente ritiene che ogni simbolo fa parte di un atto che assurge a 'oggettività sociale' attraverso il consenso generato dall'assunzione di ruoli impersonali e quindi dalla cooperazione che così si instaura per la soluzione di problemi concreti dei singoli. Tale oggettività, indipendente dal punto di vista di ciascuno anche se non di natura metafisica, costituisce il nucleo del metodo scientifico, che diviene così garante della correttezza del pensare anche al di fuori delle scienze fisiche e addirittura momento di partenza della riflessione morale.

7. Pragmatismo e scienza politica: A.F. Bentley

Il pragmatismo, come si è detto all'inizio, non fu una scuola, ma un movimento la cui influenza sulla cultura sociale americana fu più di indirizzo che di contenuti. Se possiamo infatti ritenere l'epistemologia pragmatista quasi il modello, se non addirittura l'autocoscienza e al tempo stesso il limite, del moto riformatore che gettò le basi del Novecento americano, di questo moto essa fu solo una componente, perché il pluralismo della cultura statunitense impediva a una singola teoria di assumere un ruolo egemone.Nel campo specifico delle scienze sociali, inoltre, a partire dagli anni venti si venne affermando un sempre più rigido scientismo che considerava il pragmatismo debole nel metodo ed eccessivamente vago nelle conclusioni. In effetti, se il pragmatismo aveva fornito la giustificazione filosofica di una società aperta che aveva la scienza come principale strumento regolatore, le esigenze di controllo e di ingegneria sociale che esso evocava, e che affidava alla scienza piuttosto che alla politica, rendevano necessari metodi e tecniche che lo scavalcavano. Ciò è riscontrabile nella scienza politica, ove l'innovatrice opera di Arthur F. Bentley (1870-1957) ebbe un influsso tanto vasto quanto lontano dalla sua ispirazione originaria. Laureato in economia e influenzato dal marginalismo di Carl Menger, Bentley, per molti anni giornalista a Chicago, intese individuare la più semplice unità sociale osservabile per costruire su di essa una teoria sociale empirica. Molto legato a Dewey, egli definì i fenomeni sociali in puro stile pragmatista come delle 'attività' socialmente situate e aventi un fine pratico.
L'elemento unificatore della ricerca sociale è pertanto l'attività sociale e, dal momento che essa è sempre attività di gruppo, i gruppi vengono a essere le unità primarie di analisi, da studiare empiricamente esaminandone la composizione, le tecniche e i rapporti.In The process of government (1908), opera che ebbe un effetto culturale dirompente, Bentley mise i gruppi al centro dell'analisi politica. Essi agiscono in vista di fini che sono i loro 'interessi' ed esercitano l'uno sull'altro delle 'pressioni' che costituiscono l'essenza della vita politica. In ogni società, ma soprattutto in quelle democratiche, i gruppi politici sono mutevoli e intessono una rete di rapporti che può essere studiata solo come un processo, al pari della società.
La teoria di Bentley, realista e del tutto antinormativa, fa dello Stato un semplice momento organizzativo del processo politico e afferma l'impossibilità di individuare un 'bene pubblico' comune a tutti i gruppi. Il che non provoca un'anarchia istituzionale o di valori, in quanto l'interazione fra i gruppi, se libera, dà automaticamente vita a un sistema in grado di mantenersi in uno stato di equilibrio dinamico. L'aumentare degli interessi con lo sviluppo della società fa crescere l'attività dei gruppi accrescendo l'interazione e l'individualità, in quanto permette agli individui di partecipare attivamente a una pressoché infinita serie di 'sfere sociali', vale a dire di associazioni e raggruppamenti volontari. In questo modo il processo politico partecipa del processo sociale e con esso si sviluppa evolutivamente.La scienza politica americana si rifece a Bentley per teorizzare la interest groups politics, la politica dei gruppi di interesse, all'interno della quale la democrazia finì per essere identificata con un sistema di regole procedurali diretto a permettere la libera attività dei gruppi. Si trattava di una teoria realista, che consentiva analisi empiriche in chiave comportamentistica; ma inficiata dall'idea che, almeno negli Stati Uniti, la costituzione di gruppi di pressione fosse collegata solo alle capacità e alla volontà dei singoli e non limitata dalle strutture di potere economico e sociale effettivamente esistenti.

8. Osservazioni conclusive

Dewey, Mead e Bentley indicano che nella prima metà del Novecento la spinta delle scienze sociali americane a trasformare le teorie fondate sulle strutture sociali in altre rette dall'idea di processo è almeno in parte riconducibile all'influenza del pragmatismo, anche se forse sarebbe più corretto dire che esso incarnò e specificò la tendenza della cultura americana a dare la precedenza ai rapporti interpersonali rispetto alle istituzioni. In ogni caso il pragmatismo è nato al centro di una complessa temperie storica in cui gli Stati Uniti riuscirono a risolvere con successo una difficile transizione che li avrebbe potuti portare a una vera e propria crisi. Giudicare tale soluzione positivamente come una "rivolta contro il formalismo", secondo la suggestiva e fortunata formula di Morton White, uno storico che si iscrive nella tradizione progressista, oppure negativamente come una riaffermazione dell'eccezionalismo americano legata all'egemonia capitalista - si veda la storiografia della scuola corporatista e quanto recentemente scritto da Dorothy Ross - non è compito di queste pagine. Qui occorre rilevare come l'influenza e l'interscambio fra pragmatismo e scienze sociali furono una necessità intrinseca alla metodologia dell'uno e delle altre e come il panorama della cultura sociale americana ne uscì profondamente mutato. Basti pensare, ad esempio, alla sociological jurisprudence di Roscoe Pound (1870-1964), basata sul superamento del formalismo giuridico attraverso la teoria giuridica degli 'interessi', o alla sociologia urbana della Scuola di Chicago di William I. Thomas (1863-1947) e Robert Park (1864-1944), che si rifaceva alla visione processuale di Dewey e Bentley.
Il pragmatismo negli Stati Uniti ha avuto una funzione cospicua nella formulazione di una cultura sociale che superò il trauma del 'disincantamento del mondo' e accettò il confronto con il mutamento considerandolo umanamente controllabile, anche se non intelligibile, attraverso l'uso del metodo scientifico. Un confronto probabilmente viziato da forti limiti ideologici, ma i cui risultati, soprattutto per quanto riguarda i fondamenti epistemologici di una società aperta e la natura sociale e storica del conoscere, continuano a essere utili e suggestivi anche nell'odierno dibattito sull'avvento della società postmoderna.