Esistenza

www.treccani.it
Enciclopedia online

Nel linguaggio filosofico, lo stato di ogni realtà in quanto è tale, o, in senso specifico, lo stato della realtà che può essere oggetto di un’esperienza sensibile.

1. E. ed essenza

Nella storia della filosofia, il termine e. (existentia) ha assunto rilievo soprattutto nella filosofia medievale in relazione al problema del suo rapporto con l’essenza. In particolare, centrale è in Tommaso d’Aquino la distinzione fra essenza ed e. intesa come ‘atto di essere’, per cui negli esseri particolari l’essenza, espressa nella definizione, può essere puramente pensata, senza che esista; mentre in Dio l’e. consegue necessariamente al pensiero dell’essenza. Nella filosofia posteriore è fondamentale la nozione leibniziana che pone l’e. come una tendenza, una esigenza delle essenze puramente possibili a realizzarsi in proporzione al loro grado di realtà; essa è retta dal principio della mentre l’essenza da quello della possibilità . Per I. Kant l’e. è ciò che in una cosa non può essere ridotto a concetto, a elemento dell’essenza; è la posizione assoluta di un oggetto. Nella filosofia hegeliana l’e. non è più opposta all’essenza, di cui è l’apparire, l’immediatezza. Essa esprime il particolare, il transeunte e caduco, è solo un momento destinato a essere ‘superato’, cioè tolto e conservato, nel superiore e più vero momento della ‘realtà’.

Nell’ambito della riflessione filosofica contemporanea una reimpostazione del problema dell’e. è dovuta a R. Carnap, il quale distinse tra questioni di e. interne (relative alle entità appartenenti al campo di indagine di una disciplina) ed esterne (relative alle entità in sé, indipendentemente dalle discipline che le studiano), considerando legittime solo le prime.

2. Esistenzialismo

La ‘filosofia dell’e.’ è l’esistenzialismo , movimento dapprima filosofico e poi anche letterario. Come movimento filosofico designa quegli indirizzi di pensiero che concepiscono la filosofia non come disciplina contemplativa e disinteressata, ma come impegno del singolo nella ricerca del significato e possibilità dell’e., intendendo con questo termine il modo d’essere specifico, originale e proprio dell’uomo. A seconda dei modi di concepire il singolo nelle sue relazioni con l’‘altro’ (sia questo uomo, natura, essere ecc.), diversi sono stati gli esiti storici dell’esistenzialismo, caratterizzato nella sua prospettiva generale da una aperta insoddisfazione per la filosofia della conciliazione e della totalità (per es., di stampo panlogistico hegeliano), e da una accentuazione dei motivi antinomici e problematici.

L’ esistenzialismo filosofico, sorto in Germania nel primo dopoguerra, come Kierkegaard-Renaissance, in quanto si rifà particolarmente al pensiero di S. Kierkegaard, presenta due direzioni principali: quella umanistico-mondana, in certo modo atea, e quella teologica. La prima è tipicamente rappresentata, in Germania, da M. Heidegger, che trasforma la fenomenologia del suo maestro E. Husserl in ontologia, dà un contenuto esclusivamente umano e mondano ai temi teologici (angoscia, peccato, colpa, decisione ecc.) dell’esistenzialismo kierkegaardiano, e concepisce l’esistere autentico come ‘angoscia’ rivelatrice del ‘nulla’; in Francia è rappresentata da J.-P. Sartre. La seconda direzione (che, sulle orme di Kierkegaard, concepisce l’esistere autentico come rapporto del singolo a Dio, mediante il quale ci si libera dall’angoscia del nulla) è rappresentata in Germania dalla ‘teologia della crisi’ del protestante K. Barth. Avviamento all’atmosfera religiosa di questa tendenza è da considerare il pensiero di K. Jaspers, il quale concepisce l’e. come rapporto al trascendente (das Umgreifende, il «Tutto-avvolgente», cioè il fondo dell’essere che, pur trascendendoci, ci include in sé) e svolge particolarmente il tema del ‘naufragio’ o ‘scacco’. In Francia la direzione teologica è rappresentata da G. Marcel, L. Lavelle, R. Le Senne (che si ispirano specialmente alla tradizione agostiniana francese di B. Pascal), e anche da L. Chestov e N. Berdjaev di origine russa, che si rifanno al cristianesimo ortodosso e all’esperienza esistenziale di F. Dostoevskij, oltre che a quella di Kierkegaard.

Accanto all’ esistenzialismo filosofico si è venuto svolgendo un esistenzialismo letterario, specialmente in Francia, con le opere teatrali e narrative di J.-P. Sartre, S. de Beauvoir, A. Camus.

In Italia l’ esistenzialismo ha suscitato largo interesse nel campo degli studi filosofici e di quelli psicopatologici, mentre ha avuto scarsa eco nel campo letterario. In filosofia l’indirizzo umanistico-mondano ha avuto i suoi esponenti in N. Abbagnano, E. Paci, C. Luporini (i quali, in polemica con l’ esistenzialismo negativo, tedesco e francese, hanno accentuato il significato positivo dell’e.), quello teologico è stato rappresentato da E. Castelli.


Enciclopedia del Novecento (1977)

di Nicola Abbagnano

Esistenzialismo

Sommario: 1. I caratteri generali. 2. Precedenti storici. 3. Possibilità, trascendenza, progetto. 4. Finitudine: angoscia, colpa, assurdo.5. La morte. 6. Scelta, destino, libertà. □ 7. Mondo, scienza, tecnica. 8. Coesistenza e società. 9. Tempo e storia. 10. Arte e linguaggio. 11. Sviluppi ontologici e teologici. 12. Sviluppi politici. 13. Conclusione. □ Bibliografia.

1. I caratteri generali

Sia la connotazione che la denotazione del termine ‛esistenzialismo' sono problematiche. Esso è stato infatti definito in modi diversi; e, a seconda della definizione che se ne dà, un filosofo o un indirizzo filosofico può essere o meno considerato come espressione dell'esistenzialismo. Questo spiega perché alcuni dei filosofi che sono considerati tra i rappresentanti maggiori dell'esistenzialismo (come Heidegger e Jaspers) ne abbiano rifiutato la qualifica. E già questo fatto esclude che l'esistenzialismo possa essere considerato come una scuola filosofica (quale è stato per es. l'idealismo classico tedesco) che obbedisca a pochi capisaldi dottrinali. Esso è piuttosto un clima culturale e filosofico, che ha caratteri generali ben discernibili, ma nel quale sono nati e si sono sviluppati indirizzi di pensiero diversi che hanno talora condotto a conclusioni antitetiche. Questo tuttavia non annulla ogni affinità tra i pensatori che sono stati designati con questo termine: né le sue caratterizzazioni diverse si escludono sempre reciprocamente, perché il più delle volte esprimono, ognuna, qualche tratto fondamentale di esso, più evidente o dominante in alcuni filosofi e meno in altri. Tenendo presenti queste avvertenze, i tratti fondamentali dell'esistenzialismo possono essere ricapitolati nel modo seguente.

1. L'esistenzialismo assume come suo punto di partenza l'analisi dell'‛esistenza' intesa come modo d'essere proprio dell'uomo: un modo specifico, diverso da quello di tutti gli altri enti del mondo. Essa è in ogni caso un rapporto (o un insieme di rapporti) col mondo ma non include dentro di sé il mondo stesso (o la realtà in generale) come se questo fosse solo ‛rappresentazione' o ‛idea'. In generale l'esistenzialismo rifiuta l'idealismo gnoseologico e anche quando identifica l'esistenza con la ‛coscienza' nega che alla coscienza si riduca la realtà delle cose ma piuttosto interpreta la coscienza stessa come ‛trascendenza' cioè ‛apertura' alla realtà o manifestazione di essa.

2. Il rapporto con l'essere (con le cose, con gli altri uomini, col mondo, con Dio), costitutivo dell'esistenza, non è mediato e oggettivo, ma ‛immediato' o ‛immediatamente' vissuto; e comprende non solo l'aspetto intellettuale o conoscitivo ma anche quello emotivo e pratico. I filosofi esistenzialisti trascurano la distinzione tradizionale tra conoscenza, sentimento e attività pratica: ritengono che tutte queste attività sono indistinguibilmente fuse in ogni tipo o forma di rapporto che l'esistente può avere con gli altri enti. La nozione di esperienza vissuta (Erlebnis), della quale si erano avvalsi Dilthey e Husserl, è presupposta e utilizzata dall'esistenzialismo.

3. L'esistenza è sempre individuata, concreta, singola e irripetibile, anche se può decadere ad esistenza ‛anonima' (esistenza ‛inautentica'). Ciò vuol dire che l'esistenza non può essere ridotta a elementi o concetti universali o razionali né identificarsi con la ragione intesa come attività impersonale o processo dialettico. In tal senso si suol dire che per l'esistenzialismo l'esistenza ‛precede' l'essenza: cioè che solo a partire dall'individualità concreta si può intendere la formazione e la funzione di procedure, concetti o progetti a carattere universale. Ma questo stesso carattere universale non consiste in altro che nella possibilità della comunicazione tra un'esistenza e l'altra.

4. Come rapporto individuato e concreto con altri enti, l'esistenza si trova sempre in una ‛situazione' altrettanto individuata e concreta che in qualche misura la condiziona. In ciò consiste il carattere finito (la ‛finitudine') dell'esistenza. Anche quando ammette che l'esistenza è in rapporto con l'infinito, l'esistenzialismo rifiuta l'identificazione del finito (esistente, uomo) con l'infinito (Dio, Mondo). Per la sua finitudine l'esistenza ‛non è' l'essere. Questa negazione è assunta da alcuni esistenzialisti come la dichiarazione della radicale o totale ‛nullità' dell'esistenza; da altri soltanto come il riconoscimento che l'esistenza non ha lo stesso ‛modo d'essere' dell'Essere totale e infinito.

5. Come rapporto con l'Essere, l'esistenza è una ‛possibilità di essere', o un insieme di possibilità, che possono realizzarsi o meno. L'esistenza non è una realtà sostanziale che ha o possiede certe possibilità, ma è le sue possibilità stesse. Perciò, anche, è la scelta fra tali possibilità e il progettarsi sul fondamento di esse. In questa scelta e progettazione consiste la libertà.

6. L'analisi dell'esistenza non è solo attività teoretica, cioè pura contemplazione, ma è essa stessa scelta e progettazione: sicché coinvolge (cioè impegna) colui stesso che la mette in opera.

A seconda degli sviluppi che tali capisaldi subiscono si possono distinguere tre tipi di esistenzialismo cioè: a) l'esistenzialismo ‛ontologico', per il quale le possibilità esistenziali sono soltanto impossibilità di essere l'essere e, tuttavia, manifestano in qualche modo l'essere stesso. È l'indirizzo proprio di M. Heidegger, K. Jaspers e J.-P. Sartre; b) l'esistenzialismo ‛fideistico', per il quale le possibilità esistenziali sono garantite dall'essere stesso, identificato con Dio, o includono una possibilità privilegiata che è un diretto dono di Dio, quella della fede. Questo indirizzo è stato quello di G. Marcel, L. Lavelle, R. Le Senne, N. Berdjaev; e, per la seconda alternativa, di R. Bultmann; c) l'esistenzialismo ‛umanistico', che mantiene alle possibilità esistenziali il loro carattere problematico, rifiuta di considerarle garantite dall'Essere o riducibili tutte a impossibilità, e perciò si dedica a cercare criteri che consentano la scelta tra esse e progetti che non siano preliminarmente condannati all'insuccesso. Questo è l'indirizzo seguito dall'esistenzialismo italiano, da M. Merleau-Ponty e, parzialmente, da A. Camus.

2. Precedenti storici

L'esistenzialismo è stato il clima dominante degli anni immediatamente seguenti alla seconda guerra mondiale e si è presentato, in primo luogo, come la crisi dell'ottimismo romantico, fondato sulla garanzia che un Principio infinito o una Ragione assoluta avrebbe offerto all'ordine perfetto del mondo e al progresso infallibile della storia. Contro l'esaltazione romantica dell'uomo e della sua storia come manifestazione e realizzazione compiuta di una Ragione onnipotente o di altra onnipotente e perfetta Realtà, l'esistenzialismo ha insistito sui caratteri negativi dell'esistenza umana nel mondo, sul suo disordine e la sua casualità, sull'anonimato e l'alienazione in cui essa può cadere e cade di continuo, sui rischi di ogni genere che la minacciano e sulla sua ineliminabile fragilità. Nelle sue analisi l'esistenzialismo si è perciò rifatto di preferenza a pensatori che nell'Ottocento erano rimasti isolati e soprattutto a Kierkegaard e a Nietzsche.

Kierkegaard era stato un critico radicale del razionalismo romantico: all'universalità della ragione infinita aveva contrapposto la singolarità dell'esistenza finita e alla ‛necessità' del processo dialettico, nel quale la ragione si realizza, aveva contrapposto le possibilità alternative fra le quali l'esistenza ad ogni istante si trova a scegliere. Della nozione di possibilità aveva anche dato un chiarimento decisivo (v. Kierkegaard, Philosophiske ..., 1844) affermando l'irriducibilità di essa alle altre categorie modali e polemizzando a questo proposito con Aristotele e con Hegel. Contro Aristotele, osservava che il necessario non può essere ritenuto possibile perché non può non essere; nè il possibile può essere ritenuto necessario perché può non essere. E contro Hegel osservava che definire la necessità come ‟sintesi del possibile e del reale" è frutto della stessa confusione tra due modi d'essere che si escludono. Ma nelle sue opere più note non si atteneva coerentemente a queste notazioni; perché ammetteva l'infinità dei possibili e il loro carattere totalmente negativo, che perciò determinano l'‛angoscia' per ciò che riguarda il rapporto dell'uomo con il mondo (v. Kierkegaard, Om begrebet ..., 1844) e la ‛disperazione' nel rapporto dell'uomo con se stesso (v. Kierkegaard, 1849). Dalla minaccia del possibile così inteso, l'uomo può salvarsi, secondo Kierkegaard, con un ‛salto' nella fede religiosa cioè affidandosi a Dio al quale ‟tutto è possibile". Tuttavia la fede non è tra le possibilità umane, ma è la possibilità conferita all'uomo direttamente da Dio mediante la grazia.

Dall'altro lato, Nietzsche aveva insistito anch'egli sul carattere individuale e singolo dell'esistenza, gettata tuttavia in un mondo dominato dal caso e da valori fittizi; e aveva tentato di rintracciare la via verso un'esistenza più alta e più piena, che si fondi su una totale e gioiosa accettazione di sé e che offra all'uomo le possibilità nuove annunciate da Zaratustra. L'ateismo di Nietzsche e il teismo di Kierkegaard hanno costituito i due assi principali intorno a cui ha ruotato l'esistenzialismo contemporaneo. Ha scritto Jaspers a questo proposito: ‟Kierkegaard e Nietzsche fanno entrambi un salto nella trascendenza, ma in una trascendenza in cui, in verità, nessuno può seguirli: Kierkegaard nel cristianesimo concepito come assurdo paradosso, con la conclusione negativa della totale rinuncia al mondo e come un martirio necessario, Nietzsche con l'intuizione dell'eterno ritorno e del superuomo" (v. Jaspers, 1935, cap. 1, È 2). Con la sua dottrina dell'eterno ritorno cioè della ripetizione indefinita dell'identico ciclo del mondo si collega anche quella dell'amor fati o del ‛destino': inteso come accettazione appassionata, da parte dell'uomo superiore, della necessità del ritorno. E anche questo concetto del destino è stato più volte ripreso dall'esistenzialismo contemporaneo.

Infine Kierkegaard e Nietzsche hanno fornito all'esistenzialismo un'altra arma contro il razionalismo romantico dell'Ottocento e del primo Novecento, con un ridimensionamento del concetto di ‛ragione'. La ragione non è per esso la sostanza della realtà, il principio che la domina e la sorregge in tutte le sue articolazioni e in tutti i suoi sviluppi, è soltanto uno strumento di cui l'esistenza si avvale per interpretarsi, per chiarirsi nelle sue possibilità, e nei suoi limiti, per proiettarsi in avanti. Conseguentemente l'esistenzialismo, anche nella diversità delle sue diramazioni, non si è mai trasformato in un radicale irrazionalismo: si è battuto da un lato contro la divinizzazione della ragione operata dall'idealismo; e dall'altro lato contro l'obiettivazione della ragione operata dallo scientismo positivistico, che vedeva la ragione realizzata nell'ordine e nelle leggi necessarie della realtà naturale.

L'analisi, cui l'esistenzialismo sottopone l'esistenza, intende appunto avvalersi di una ragione così intesa. Ma sotto quest'aspetto l'esistenzialismo ha un altro precedente storico di importanza decisiva: la fenomenologia di Husserl.

Heidegger esplicitamente riconosce a Husserl il merito di aver visto nella ragione il manifestarsi delle cose così come esse sono; e di avere perciò concepito la ‛fenomenologia' come il metodo che consiste nel far sì che le cose stesse manifestino la propria esistenza cioè si rivelino per quello che sono (v. Heidegger, 1927, È 7 C). Solo perché la ragione è una siffatta manifestazione, aggiunge Heidegger, essa puo poi anche esercitare la funzione dimostrativa che tradizionalmente le si attribuisce e che sostanzialmente consiste nel mostrare il ‛fondamento' di ciò che si dice nell'essenza stessa delle cose di cui si parla. Adottando il metodo fenomenologico, l'esistenzialismo si avvia perciò, secondo Heidegger, a costituirsi come ontologia: giacché l'analisi dell'esistenza sarà allora il manifestarsi o il venire alla luce dell'essere che è proprio dell'esistenza o che ne è il fondamento. In senso non molto diverso Jaspers intende la ragione, nel suo significato fondamentale, come la ‛chiarificazione' dell'esistenza, cioè la manifestazione dell'esistenza a se stessa, che la porta alla consapevolezza di sé e alla comunicazione con le altre esistenze. Il carattere apofantico (o rivelativo) riconosciuto alla ragione da alcuni indirizzi dell'esistenzialismo è così di diretta derivazione husserliana.

3. Possibilità, trascendenza, progetto

Nonostante che, come si è detto, l'esistenzialismo tenda talora a ridurre l'esistenza a un nulla e quindi l'uomo al portatore di questo nulla, l'uomo è tuttavia, per tutte le forme dell'esistenzialismo, il tema centrale o almeno il punto di partenza della riflessione filosofica. Questa riflessione può anche essere diretta a determinare qual è il significato dell'essere in generale, secondo lo schema della metafisica classica. Ma per giungere a tale significato, cioè a risolvere il problema dell'essere, non si può ignorare che è proprio l'uomo che cerca questo significato o si pone questo problema. Non si può quindi presupporre che l'uomo sia già in possesso di una ‛natura' determinata, che sia costituito da un'‛essenza' immutabile: giacché egli è l'ente che interroga se stesso intorno all'essere che gli è proprio e all'essere in generale. In questo senso, nell'uomo, l'esistenza precede l'essenza e il punto di partenza di ogni ricerca filosofica è l'analisi dell'esistenza cioè del modo d'essere di quell'ente che si pone il problema dell'essere. E poiché questo ente si interroga sull'essere che gli è proprio, e che perciò chiama ‛io', il tema dell'analisi esistenziale è, nelle parole di Heidegger, ‟questo ente che noi stessi sempre siamo e che ha, fra l'altro, quella possibilità d'essere che consiste nel porre il problema" (v. Heidegger, 1927, È 2). Heidegger e Jaspers chiamano ‛Esserci' (Dasein) l'uomo in quanto è insieme soggetto e oggetto dell'analisi esistenziale. Ma l'Esserci, in quanto è problema, non è realtà o una presenza attuale come una cosa o un oggetto, ma una possibilità, che lo costituisce in proprio. ‟L'esserci - ha scritto ancora Heidegger - si determina come ente sempre a partire da una possibilità che egli stesso è e che, nel suo essere, in qualche modo comprende" (ibid., È 9).

Per Heidegger come per Jaspers i termini ‛uomo', ‛esserci', ‛Io', ‛persona', sono equivalenti come sono equivalenti ad essi i termini ‛realtà umana', ‛coscienza', ‛per sé', usati da Sartre e in generale dall'esistenzialismo francese. Sartre ha infatti contrapposto all'essere ‛in sé', che è la realtà di fatto, costituita dalle cose del mondo, l'essere ‛per sé', cioè presente a se stesso, della coscienza; e ha affermato che ‟la coscienza è il suo proprio nulla in quanto si determina perpetuamente a non essere ‛in sè'" (v. Sartre, 1943, p. 132). Ciò vuol dire che la coscienza non è altro che la presenza all'uomo della realtà stessa e che l'uomo non è che il nulla di questa presenza perché nulla aggiunge ad essa.

Ma appunto perché non è mai ‛in sé', la coscienza, cioè la realtà umana, è ‟un essere che è la sua propria possibilità ed è definita da essa" (ibid., p. 144). Analogamente, per Jaspers, l'esistenza, in quanto ricerca dell'essere, è ‛esistenza possibile' e la comprensione dell'esistenza si può ottenere pertanto attraverso la comprensione delle possibilità che la costituiscono (v. Jaspers, 1932, vol. I, p. 24; vol. II, p. 2; vol. III, p. 50). Il possibile di cui parla l'esistenzialismo non è tuttavia il possibile logico, caratterizzato dall'assenza di contraddizione, ma è il possibile reale che è definito come ‛ricerca dell'essere', ‛apertura verso l'essere', ‛movimento verso l'essere' o ‛trascendenza'.

La trascendenza è intesa dall'esistenzialismo non nel senso tradizionale, come attributo di Dio in quanto è ‛al di là' di ogni cosa finita, ma nel senso di Husserl come il movimento per cui l'esistenza si protende verso l'essere e si costituisce come un rapporto con l'essere stesso. L'essere, verso cui l'esistenza trascende, o è l'‛io' stesso, che non è mai una realtà stabile e definitiva ma sempre un progettarsi in base alla propria possibilità; o sono gli ‛altri' io con cui esso entra in rapporto; o è il mondo delle cose che l'io progetta d'utilizzare per i propri bisogni; o è ‛Dio' stesso come trascendenza assoluta. In ogni caso, il trascendere dell'uomo verso l'essere costituisce un ‛progetto' che seleziona e organizza le possibilità costitutive dell'esistenza.

Ma proprio nel modo d'intendere trascendenza e progetto cominciano a differenziarsi le varie forme dell'esistenzialismo. Heidegger afferma: ‟La trascendenza significa un progetto del mondo tale che il progettante cade nel dominio dell'ente che trascende ed è già accordato ad esso" (v. Heidegger, Vom Wesen ..., 1929, p. 45). Ciò vuol dire che ogni progetto esistenziale è anticipatamente dominato dallo stato di fatto che esso cerca di trascendere e perciò finisce per ridursi e appiattirsi su questo stato di fatto. Secondo Jaspers, la trascendenza verso il mondo conduce non già al mondo stesso nella sua totalità, ma piuttosto ad un'immagine del mondo che sarà un ‛cosmo', cioè un singolo e particolare punto di vista fra i tanti che sussistono ‛nel' mondo; e il mondo rimane come l'‛orizzonte conglobante' di questo cosmo e del punto di vista che lo ha suggerito: orizzonte che non sarà mai possibile raggiungere e che perciò determina lo scacco del movimento di trascendenza (v. Jaspers, 1932, vol. I, pp. 68-71). Sia per Heidegger che per Jaspers quindi la possibilità della trascendenza si manifesta da ultimo come un'‛impossibilità'; e precisamente come l'impossibilità di andare al di là di ciò che l'ente già è e già comprende di fatto. La posizione di Sartre sembra apparentemente antitetica a questa, giacché egli afferma che il progetto in cui l'esistenza consiste è frutto di una libertà assoluta, di una scelta arbitraria che, come tale, può ad ogni istante venir meno. A fondamento di tutti i progetti, Sartre tuttavia riconosce un ‛desiderio d'essere' e, giacché l'essere assoluto è Dio, ‛un desiderio d'essere Dio'. Ma proprio perché la sua radice è in questo desiderio, ogni progetto umano è destinato allo scacco (v. Sartre, 1943, pp. 653 ss.). Fra le possibilità umane infatti non c'è quella di essere Dio che è l'‛in sé' per eccellenza: l'uomo rimane un ‛per sé', cioè coscienza, possibilità, non-essere. Così le posizioni apparentemente antitetiche di Heidegger e di Jaspers da un lato e di Sartre dall'altro conducono, per ciò che riguarda l'esistenza come trascendenza e progettazione, allo stesso risultato: a riconoscere come impossibile trascendenza e progettazione, a ridurre in ‛impossibilità' effettive le ‛possibilità' che in linea di principio si erano riconosciute come costitutive dell'esistenza. Il presupposto comune a queste forme di esistenzialismo è la pretesa dichiarata che l'esistenza tenti continuamente il salto dalla possibilità alla necessità; che, come movimento di trascendenza, aspiri a raggiungere la trascendenza assoluta; che come progettazione sempre parziale e provvisoria miri a un progetto totale e onnicomprensivo; che, in una parola, come finitudine, tenda a immedesimarsi con l'infinito. L'aspirazione romantica all'infinito, sia pure in forma negativa o delusoria, è rimasta presente nell'esistenzialismo ontologico.

L'esistenzialismo fideistico dall'altro lato considera le possibilità esistenziali come ‛potenzialità' destinate a realizzarsi, quindi prive di ogni aspetto negativo o angosciante. Questa trasformazione delle possibilità in potenzialità è ottenuta agganciando le possibilità stesse ad una realtà assoluta da cui esse deriverebbero la loro garanzia di realizzazione infallibile. La realtà assoluta è intesa da Marcel come ‛Mistero' cioè come la presenza nascosta di Dio all'essere stesso dell'uomo, presenza che tuttavia si rivela nella forma personale di un ‛Tu' al quale l'uomo appartiene e a cui non può rifiutarsi quando si impegna nell'amore e nella fedeltà al mistero (v. Marcel, 1939, p. 135).

Per Lavelle, invece, la realtà assoluta, che conferisce alle possibilità esistenziali l'infallibilità della loro realizzazione, è l'Essere stesso che è totalmente presente all'Io e lo sorregge in tutte le sue determinazioni (v. Lavelle, 1945, p. 38). Per Le Senne, l'esistenza, come coscienza, è un rapporto diretto tra l'uomo e Dio, rapporto che si manifesta soprattutto nelle situazioni in cui il ‛dover essere' si oppone all'‛ssere', cioè nell'esperienza dell'ostacolo che si oppone allo sforzo dell'uomo diretto a realizzare il valore. Già in questa esperienza l'uomo cerca di adeguarsi all'infinità di Dio che gli è presente come valore supremo e garanzia del superamento di ogni limitazione (v. Le Senne, 1934, p. 220). Non mancano, certo, anche in questo esistenzialismo fideistico, riconoscimenti dei rischi, degli ostacoli e degli aspetti negativi che si riscontrano nell'esistenza dell'uomo. Ma il superamento di questi aspetti negativi è già dato per scontato sul fondamento del rapporto intrinseco ed essenziale che c'è tra l'uomo e Dio, rapporto che elimina la prospettiva dello scacco.

Per l'esistenzialismo umanistico, invece, le possibilità esistenziali debbono essere assunte e mantenute come tali senza che siano trasformate né in impossibilità né in potenzialità. In questo caso, la prospettiva aperta da una possibilità non è né la realizzazione infallibile né il fallimento inevitabile, ma la conservazione della possibilità stessa come tale. Così intesa, la possibilità non è solo il punto di partenza della ricerca esistenziale (o di qualsiasi attività umana) ma anche il suo punto di arrivo o il suo fine e dà luogo perciò ad una ‛struttura' che tende a salvaguardare la possibilità stessa della possibilità (v. Abbagnano, 1939, È 5). Da questo punto di vista la realizzazione del possibile non è che ‛strutturazione' di esso: il consolidarsi della sua possibilità. Non è quindi la negazione del possibile o la trasformazione del possibile stesso in necessità o in fatto bruto. E non c'è bisogno di ricorrere all'essere o a qualsiasi realtà assoluta per determinare l'autenticità del possibile e per distinguere tra il possibile reale e quello fittizio: giacché la possibilità autentica ha già in se stessa il criterio della propria autenticità nella sua possibilità di ripresentarsi ancora come tale.

Per quanto non sempre questo concetto di possibilità sia esplicitamente assunto e chiarito nei suoi tratti caratteristici, si avvalgono di esso, oltre che l'esistenzialismo italiano, quello francese di Camus e Merleau-Ponty. Ed è facile riconoscere questa forma di esistenzialismo dal suo tratto più caratteristico: il suo rifiuto di identificare l'uomo con il tutto o con il nulla, di ritenerlo destinato ad esistere al di qua dell'essere o in unione stretta con l'essere, e perciò di fare dell'esistenza un fallimento inevitabile o un infallibile successo.

4. Finitudine: angoscia, colpa, assurdo

Tutte le correnti dell'esistenzialismo insistono sulla ‛finitudine' dell'esistenza, finitudine che le è inerente in quanto essa non è l'essere nella sua stabilità e necessità, ma possibilità di essere, quindi indeterminazione, problematicità e rischio. Sul conto della finitudine sono stati messi tutti gli aspetti negativi dell'esistenza, le sue imperfezioni, i suoi limiti; e l'insistenza su questi aspetti negativi, destinata a smontare l'ottimismo del razionalismo romantico, ha costituito l'aspetto più popolare dell'esistenzialismo contemporaneo. L'interpretazione dell'esistenza in termini di possibilità toglie infatti all'esistenza stessa la garanzia sicura della riuscita; e, a meno non la si agganci a una realtà stabile e sicura, la lascia in balia della dispersione e del caso. L'angoscia, la colpa, la cattiva coscienza, la nausea, l'assurdo diventano allora i modi della sua rivelazione privilegiata: cioè le esperienze in cui essa manifesta se stessa, nel suo fondo di incertezza o nel suo abisso di nullità.

Già Kierkegaard aveva visto nell'angoscia ‟il sentimento del possibile" il quale, per la sua infinità e indeterminatezza, rende l'angoscia insuperabile e ne fa la situazione fondamentale dell'uomo nel mondo. Poiché ‟nel possibile, tutto è possibile", ogni possibilità favorevole all'uomo è annientata dal numero infinito delle possibilità sfavorevoli che incombono su di lui come una minaccia incessante. Mentre la paura è prodotta dall'imminenza di un pericolo previsto o prevedibile, l'angoscia è connessa necessariamente con l'esistenza, cioè con le possibilità che la costituiscono (v. Kierkegaard, Om begrebet ..., 1844, cap. 5). Ma se Kierkegaard scorgeva la salvezza dall'angoscia nella fede religiosa per la quale l'uomo trova in Dio l'ancoraggio sicuro delle sue possibilità, Heidegger vede nell'angoscia la rivelazione della sostanza stessa dell'esistenza, quindi l'esistenza ‛autentica' cioè l'esistenza che comprende veramente se stessa. ‟L'angoscia", egli dice, ‟è la situazione emotiva capace di mantenere aperta la continua e radicale minaccia che sale dall'essere più proprio e isolato dell'uomo" (v. Heidegger, 1927, È 53). Con l'angoscia l'uomo ‟si sente in presenza del nulla, dell'impossibilità possibile della sua esistenza". Collocando l'uomo di fronte al nulla, essa lo fa intendere nella sua finitudine giacché questa è comprensibile solo se l'uomo si installa e si mantiene nel nulla. Mentre il nulla è nascosto o velato nell'esistenza quotidiana o anonima, in cui esso agisce soltanto come negazione, rinuncia, limitazione, proibizione, nell'angoscia il nulla si presenta e si rivela nella sua potenza di annullamento e fa sentire l'esistenza come qualcosa di labile, di accidentale e di fuggente. Analogamente, per Jaspers, l'angoscia è il modo di avvertire il naufragio dell'esistenza, lo scacco di tutte le sue possibilità. Jaspers contrappone all'angoscia evasiva e disperata, che assale l'uomo di fronte alla morte, l'angoscia esistenziale che ‟padroneggia la brama di vivere e ritrova la pace in cospetto della morte come rassegnazione alla consapevolezza della fine" (v. Jaspers, 1932, vol. II, p. 226). Analogamente ancora, per Sartre, l'angoscia è la consapevolezza, talora nascosta o camuffata, della responsabilità totale dell'uomo che, progettando la propria esistenza, progetta anche quella degli altri e l'intera natura del mondo (v. Sartre, 1946, pp. 27 ss.).

Quando, invece, come fa l'esistenzialismo fideistico, si ritengono le possibilità esistenziali garantite da una Realtà trascendente, l'angoscia perde il suo carattere privilegiato e dominante. Marcel la identifica con l'‛inquietudine' che, se può esser talvolta paralizzante, può anch'essere altre volte feconda o addirittura creatrice, in quanto è un principio di oltrepassamento, un sentiero che porta la pace vera nella interiorità dell'uomo, indipendentemente da ogni circostanza esterna (v. Marcel, 1955, pp. 185 ss.). Lavelle ritiene che l'angoscia dipenda dal far dell'avvenire l'unica esperienza di vita, cioè dal dimenticare che l'avvenire stesso è già un presente e che la possibilità è una manifestazione dell'essere, garantita dall'essere stesso (v. Lavelle, 1945, pp. 260 ss.).

E tra un'esistenza tutta angosciata e un'esistenza priva di angoscia, l'esistenzialismo positivo opta per un'esistenza che ‛può' angosciarsi per la perdita o il decadimento delle sue possibilità o per le ‛non-possibilità' in cui si urta nelle situazioni in cui viene a trovarsi, ma ‛può' anche sperare, guardare con ragionevole fiducia l'avvenire, calcolare con probabilità i suoi rischi. Da quest'ultimo punto di vista, la natura autentica dell'esistenza non si rivela né in un'angoscia senza riscatto né in una speranza senza mancamenti, ma proprio nella possibilità di decidere tra angoscia e speranza, tra fiducia e disperazione, tra rassegnazione e reazione e nell'invito, che tale possibilità implica, per un impegno positivo e realizzatore.

Le altre situazioni emotive, in cui alcuni esistenzialisti hanno visto la rivelazione del carattere negativo dell'esistenza, sono riconducibili allo stesso fondamento. Heidegger ritiene l'esistenza sempre ‛in colpa' o ‛in debito' (Schuld) perché, essendo sempre l'una o l'altra possibilità, non è mai l'una ‛e' l'altra e così ha la colpa di questa nullità (v. Heidegger, 1927, È 58). Jaspers ritiene che la colpa inevitabile è la necessaria limitazione dell'esistenza nella situazione che la costituisce (v. Jaspers, 1932, vol. II, p. 248). Ed è qui evidente il presupposto che l'esistenza ‛dovrebbe' essere, ma non è, ‛tutte' le possibilità o ‛tutte' le situazioni possibili. Di fronte all'accavallarsi delle possibilità tutte equivalenti e gratuite che costituiscono la ‛contingenza' assoluta dell'esistenza, Sartre ha parlato di nausea (v. Sartre, 1938). Camus ha visto in Sisifo il simbolo dell'assurdità dell'esistenza sbilanciata tra le infinità delle aspirazioni e la finitezza delle possibilità e culminante nella vanità di tutti i suoi sforzi (v. Camus, 1943). Questi tratti, assunti come rivelativi dell'esistenza, esprimono sempre la pretesa che l'esistenza comprenda la totalità dei possibili, che essa debba scegliere l'uno senza sacrificare l'altro: una pretesa che sarebbe giustificata per la divinità di cui parlava Leibniz, ma non per l'esistenza dell'uomo che tutti gli esistenzialisti assumono come ‛finita'.

5. La morte

Ma senza dubbio la più evidente rivelazione della finitudine dell'esistenza è la morte: su questo tutti gli esistenzialisti sono d'accordo. Per le dottrine che scorgono nella realtà un Principio infinito (comunque inteso) la morte è un fatto insignificante. Muore l'uomo singolo, ma non lo Spirito, la Ragione, l'Idea, l'Umanità. Ma l'esistenza è proprio il modo d'essere del singolo; e gli esistenzialisti si rifanno perciò a un famoso racconto di Tolstoj, La morte di Ivan Iliã nel quale il protagonista che riconosce giusta e valida l'idea della morte in generale si ribella alla minaccia che la morte fa incombere su se stesso. E proprio questa minaccia è il punto di partenza della considerazione esistenzialistica della morte. Heidegger distingue, a questo proposito, la morte come ‛decesso', cioè come un fatto che accade nell'ordine dei fenomeni vitali, dalla morte come possibilità propria dell'uomo e precisamente ‟possibilità di non poter-più-esserci". Questa possibilità viene dimenticata o camuffata nell'esistenza quotidiana anonima nella quale il ‛si muore' si riferisce a tutti e a nessuno. L'esistenza autentica riconosce invece nella morte la sua ‟possibilità più propria, incondizionata e insuperabile": ‛propria', perché nessuno può assumersi il morire di un altro; ‛incondizionata' e ‛insuperabile' perché è connessa con la nullità essenziale dell'esistenza. Sicché l'unico atteggiamento autentico di fronte alla morte è viverla anticipatamente nell'angoscia, che fa comprendere appunto la nullità dell'esistenza, la sua impossibilità fondamentale (v. Heidegger, 1927, ÈÈ 50-51).

Già nella Psychologie der Weltanschauumgen (1919, cap. 3, È 2) Jaspers aveva visto nella morte una delle ‛situazioni-limite' che rivelano lo scacco finale dell'esistenza e il suo urto contro qualcosa che sta al di là di essa e che essa non puo comprendere: la trascendenza. Tra queste situazioni-limite aveva incluso anche la lotta, il caso, la colpa, poiché trovarsi in tali situazioni significa un ‛non-poter-non'; di fronte ad esse, l'unico atteggiamento possibile è la pura e semplice accettazione (v. Jaspers, 1932, vol. II, pp. 220 ss.).

Ma anche per Sartre che considera la morte un puro fatto, come la nascita, essa non rientra fra le possibilità dell'esistenza. ‟Poiché la morte sfugge ai miei progetti, in quanto è irrealizzabile, sfuggo io stesso alla morte nel mio stesso progetto" (v. Sartre, 1943, p. 632): o, in parole povere, nessun calcolo devo fare sulla morte nella progettazione in cui l'esistenza umana consiste. Tuttavia, questo rifiuto della morte non può essere accettato da un esistenzialismo umanistico. ‟Il ‛poter morire', che ognuno di noi riferisce non solo a sé ma anche agli altri, è il fondamento, talora nascosto, di attività, pensieri, affetti, cure e sollecitudini di ogni genere [...]. Questa possibilità si riverbera su tutte le attività, le imprese e progetti umani minacciandole nella loro realizzazione" (v. Abbagnano, 1956, pp. 14-15). Da questo punto di vista la morte è ‟la nullità possibile delle possibilità dell'uomo e dell'intera forma dell'uomo" (v. Abbagnano, 1939, È 98): perciò l'accettazione della morte non è né l'anticipazione rassegnata o la paura, né l'ignoranza di essa, ma una più sollecita cura di se stesso e degli altri, in un impegno più radicato e operante nelle ragioni della propria esistenza.

6. Scelta, destino, libertà

Interpretando l'esistenza in termini di possibilità, l'esistenzialismo l'interpreta anche in termini di scelta. I concetti di possibilità e di scelta sono infatti strettamente congiunti. Una possibilità è tale perché si offre alla scelta; una scelta può effettuarsi solo sulla base di possibilità alternative. ‛Trascendenza', ‛progettazione', ‛libertà' sono per l'esistenzialismo termini equivalenti che designano l'atto fondamentale dell'esistenza che è per l'appunto quello della scelta. Ma nell'interpretare questo atto le varie forme dell'esistenzialismo differiscono radicalmente.

Già Kierkegaard aveva detto che la scelta originale è quella tra scegliere e non scegliere. Questo punto di vista è stato ripreso da Heidegger: ‟Nello scegliere la scelta", egli ha detto, ‟l'Esserci si rende per la prima volta possibile il suo poter-essere autentico" (v. Heidegger, 1927, È 54). Soltanto sottraendosi all'esistenza anonima in cui domina il ‛si dice così', ‛si fa così', ‛si pensa così', che rende la scelta insignificante, l'uomo si rende libero per la ‟possibilità più propria della sua esistenza": cioè ‟sceglie se stesso" (ibid., È 58). Con questa scelta, tuttavia, non si rompe il legame dell'uomo con la situazione in cui già si trova e non gli si aprono nuove possibilità effettive oltre quelle che la situazione gli offre (ibid., È 60). La scelta autentica è quindi per l'uomo solo quella che gli prospetta la ‟ripetizione di se stesso" cioè il ‟ritorno su possibilità che sono e sono già state proprie dell'uomo" (ibid., È 74). In questa scelta consiste propriamente il ‛destino' che costituisce la storicità dell'uomo (v. sotto, cap. 9). Ma è chiaro che la scelta di ciò che già è stato scelto, il ripiegarsi dell'esistenza su ciò che essa è già nella situazione in cui è gettata, non cambia nulla nella situazione di fatto in cui l'esistenza si trova: la fa solo ‛comprendere'. E questo è anche il punto di vista di Jaspers che già lo aveva esposto, prima di Heidegger, nella Psicologia delle visioni del mondo. La scelta non è mai un confrontare, un trascegliere, un cernere tra possibilità diverse, ma è sempre e soltanto il riconoscimento e l'accettazione di quell'unica possibilità che è la situazione con la quale chi sceglie non può non identificarsi. Jaspers dice che le espressioni ‛Io scelgo', ‛Io voglio', significano in realtà ‛Io devo' (Ich muss nel senso della necessità di fatto) (v. Jaspers, 1932, vol. II, p. 186).

Sembrerebbe che, per Jaspers, almeno il tradimento, il misconoscimento di sé, fossero atti di libertà; ma in realtà, stando alle sue esplicite affermazioni, tali atti non sono possibili, data la totale coincidenza dell'esistenza singola con la situazione, per cui l'uomo ‛e' la sua stessa situazione nel mondo. Essere infedele alla propria situazione non significa perciò modificarla in un modo qualsiasi, ma soltanto subirla senza consapevolezza o chiarezza razionale: e così non si vede neppure che cosa questa consapevolezza o chiarezza aggiunga alla determinazione necessitante della situazione.

Con Jaspers e Heidegger l'esistenzialismo ontologico riduce perciò la scelta alla non-scelta, la libertà all'amor-fati, di cui Nietzsche parlava. A prima vista, la posizione di Sartre è antitetica a questa: ‟Per l'uomo - egli dice - essere e ‛scegliersi'; niente gli viene dal di fuori e neppure dal di dentro che egli possa ‛ricevere' o ‛accettare'" (v. Sartre, 1943, p. 516). La scelta delle possibilità esistenziali è completamente gratuita perché tutte le possibilità si equivalgono. ‟Noi siamo perpetuamente impegnati nella nostra scelta e perpetuamente coscienti di poter noi stessi bruscamente capovolgere questa scelta e invertire la marcia". La scelta è così da un lato estremamente ‛fragile' dall'altro è ‛assoluta': assoluta nel senso che con essa l'uomo non decide soltanto di se stesso ma dell'intero mondo ed è responsabile quindi totalmente di sé e del mondo. Tale è almeno la scelta ‛originaria', quella che secondo Sartre dà luogo al ‛progetto fondamentale' che è alla base di tutte le scelte particolari. Tale scelta non è vincolata o limitata da alcuna condizione ideale o fattuale né esiste per essa un ‛non-possibile' che limiti in anticipo le sue possibilità. In tal senso, la scelta stessa è un ‛destino' a cui l'uomo non può sottrarsi: l'uomo è condannato a essere libero perché la libertà è libertà di scegliere, non di non scegliere. ‟Ne risulta che la scelta è fondamento dell'esser scelto ma non fondamento dello scegliere. Donde l'assurdità della libertà" (ibid., p. 561).

La libertà è assurda perché rinvia a un ‛dato', che non è altro che lo stato di fatto dell'esistenza. Sicché per Sartre, come per Jaspers e Heidegger, la libertà, come scelta, viene ad appiattirsi sulla situazione di fatto; diventa in ogni caso l'accettazione di un destino: che è quello di non poter scegliere che la scelta. Per Heidegger e Jaspers tutto ciò che si può scegliere, è già; per Sartre, tutto ciò che è, è già scelto.

Dall'altro lato, nell'esistenzialismo fideistico, le cose stanno in un modo solo apparentemente diverso. Le scelte umane sono autentiche ed efficaci nei confronti del mondo, anzi sono completamente indipendenti dai fattori che determinano le situazioni in cui l'uomo viene a trovarsi; ma non sono né autentiche né efficaci rispetto all'Essere, al Valore, a Dio: cioè alla realtà assoluta di cui esse sono manifestazioni nell'uomo. Ha scritto Lavelle: ‟Tutto è ricevuto, ma ciò che è ricevuto è la libertà, cioè la dignità di esser causa" (v. Lavelle, 1937, pp. 198-199). Bultmann ha sostenuto che ‟l'uomo è sempre determinato dal proprio passato in forza del quale è divenuto quello che è, del quale non può liberarsi". Per esser libero deve quindi liberarsi da se stesso; ma ‟non può conquistare una tale libertà grazie al proprio volere e alle proprie forze perché in questo sforzo rimarrebbe il vecchio uomo; può solo riceverla come un dono" (v. Bultmann, 1957; tr. it., pp. 171-172). Questo esistenzialismo può essere perciò sia un determinismo cosmologico sia un indeterminismo cosmologico; ma in ogni caso è un determinismo teologico giacché l'assoluta indipendenza dell'autentica scelta umana dal mondo è l'assoluta dipendenza di questa scelta da Dio.

L'esistenzialismo positivo infine difende la nozione di una libertà finita o ‛condizionata' per la quale le scelte umane possono avere un ‛peso' nelle situazioni in cui si inseriscono; ma questo peso dipende sia dal carattere parti- colare delle situazioni sia dalla validità della scelta cioè della possibilità cui essa si appiglia. Da questo punto di vista, la libertà non è il destino nè il libero arbitrio ma la possibilità dell'uomo di valutare, in ogni situazione in cui viene a trovarsi, le alternative che essa gli offre e di esercitare sulla realizzazione di una di esse un'azione in qualche misura determinante. Ha scritto Merleau-Ponty: ‟L'alternativa razionalista: o l'atto libero è possibile o non lo è - o l'evento viene da me o, imposto dal di fuori, non s'applica alle nostre relazioni col mondo e col nostro passato. La nostra libertà non distrugge la nostra situazione ma s'ingrana in essa: la nostra situazione, finché viviamo, è aperta: il che implica insieme che essa faccia appello a modi di risoluzione privilegiati e che sia nello stesso tempo di per sé impotente a procurarseli" (v. Merleau-Ponty, 1945, p. 505). Pertanto la generalità, la probabilità, il pensiero statistico, di cui si avvalgono le scienze, non sono finzioni ma ‟appartengono necessariamente a un essere che è fissato, situato e investito nel mondo" (ibid.).

E se è così, le possibilità che si offrono alla scelta non si riducono nè alla sola ripetizione di ciò che è già stato (il ‛destino' di cui parlano Jaspers e Heidegger); nè si disperdono in un insieme di alternative gratuite, indifferenti e fragili (il ‛destino' di cui parla Sartre); né possono ridursi a garanzie offerte come un dono divino (come crede l'esistenzialismo fideistico), ma devono avere in se stesse una qualche misura della loro effettiva o autentica possibilità ed aprire quindi la strada alla ricerca di un criterio razionale (per quanto non infallibile) per la determinazione di questa misura. Si può allora dire che una possibilità è autenticamente tale se, una volta assunta, si presenta ancora come possibile; e che perciò una scelta è veramente libera se, una volta effettuata, si può ancora ripetere (v. Abbagnano, 1956, pp. 55 ss.).

Non si può allora affermare che tutte le possibilità si equivalgono e che tutte le scelte sono indifferenti; nè si può assumere come autentica la possibilità offerta da un dono divino se essa non si lascia, di per se stessa, riconoscere come tale. Nè si può dire che l'uomo è sempre libero o sempre necessitato: la sua libertà può avere ‛gradi' diversi, che escludono i limiti estremi della necessità e della libertà assoluta. Si apre la via a una ricerca diretta alla determinazione di questi gradi sulla base dei criteri probabilistici che oggi dominano in tutti i campi della scienza. Il fallimento della scelta, il naufragio, lo scacco e gli errori di ogni genere rimangono tra i possibili rischi cui l'esistenza umana va incontro; ma non costituiscono un ‛destino' cui essa necessariamente soggiaccia. Né una scelta qualsiasi, anche se decisiva per colui che la effettua, implica una responsabilità assoluta e totale (che non si distinguerebbe da una irresponsabilità altrettanto assoluta e totale), ma solo la responsabilità limitata e parziale inerente agli effetti prevedibili della scelta stessa.

7. Mondo, scienza, tecnica

Poiché l'esistenza è il modo d'essere dell'uomo nel mondo, l'analisi di essa concerne non solo le possibilità che mettono l'uomo in rapporto con le cose, ma anche quelle mediante le quali il mondo si manifesta all'uomo e lo determina o condiziona. L'esistenzialismo esclude preliminarmente sia l'idealismo gnoseologico sia il solipsismo egologico, perché non ammette né un soggetto senza mondo né un io senza gli altri.

L'analisi del concetto di mondo è perciò uno dei temi obbligati dell'esistenzialismo. Per Heidegger, il mondo è in primo luogo un mondo di ‛cose', la realtà delle quali consiste nella ‛utilizzabilità' di esse per i bisogni umani. L'essere delle cose e l'essere dell'uomo si corrispondono: per l'uomo ‛essere nel mondo' significa ‛prendersi cura' delle cose, per le cose ‛essere' significa ‛essere utilizzate' dall'uomo (v. Heidegger, 1927, È 18). Il fine ultimo dell'utilizzabilità è quindi l'‛appagamento'; e a questo fine sono dirette le attività propriamente intellettuali: la ‛comprensione' delle possibilità che le cose offrono per le progettazioni umane, l'‛interpretazione' e il ‛giudizio' che svelano una ‛cosa determinata', nella sua specifica utilizzabilità. Mediante la comprensione e il giudizio, la cosa corporea, che è una pura presenza fattuale, diventa oggetto di scienza cioè ‛tema' di ricerca e di orientamento. La fisica matematica offre, secondo Heidegger, l'esempio classico non solo dello sviluppo storico di una scienza ma anche della sua genesi ontologica. Essa è infatti ‟il progetto matematico della natura" che offre la guida per l'osservazione, la sperimentazione e la determinazione dei ‛fatti' (ibid., È 69 b). Dall'altro lato, ‛essere nel mondo' significa per l'uomo anche essere ‛fra gli altri'; e come il rapporto tra l'uomo e le cose è un ‛prendersi cura' delle cose così il rapporto tra l'uomo e gli altri è un ‛aver cura' degli altri (ibid., È 26). La ‛cura' (nel senso latino del termine) è perciò la struttura fondamentale dell'uomo in quanto è ‛gettato' nel mondo in mezzo agli altri enti e al loro stesso livello, come un ‛fatto' fra gli altri. Analogamente Jaspers vede nel mondo ‟l'essere che si costituisce dinanzi alla coscienza in generale come conoscibilità oggettiva": ogni cosa conosciuta diventa un ‛oggetto' che come tale si contrappone al ‛soggetto' il quale cerca di ‛orientarsi' nel mondo, senza riuscire ad abbracciarlo mai nella sua totalità (v. Jaspers, 1932, voi. I, pp. 28-29). La conoscenza del mondo (e quindi la scienza) finisce perciò sempre in uno scacco per cui il mondo rimane l'orizzonte trascendente di ogni immagine o visione che l'uomo si forma di esso. Sartre identifica il mondo con la totalità dell'‛in sé' costituita da cose la cui essenza è l'utilizzabilità. ‟Come io ‛sono' le mie possibilità, l'ordine degli utensili nel mondo è l'immagine proiettata dell'‛in sé' delle mie possibilità cioè di ciò che io sono. Ma quest'immagine mondana non posso mai decifrarla" (v. Sartre, 1943, p. 25). Per Marcel, il mondo è dominio dell'‛avere' che è opposto all'‛essere': esso è costituito da oggetti che l'uomo tende a padroneggiare mediante la tecnica scientifica. Da questo punto di vista, il mondo tende ‟ad apparire talora come un semplice cantiere di sfruttamento, tal'altra come uno schiavo addormentato"; ma in ogni caso il rapporto tra l'uomo e il mondo tende a capovolgersi e a diventare quello della cosa posseduta sul possessore. Soltanto la religione sottrae l'uomo a questo pericolo perché lo distoglie dal mondo e lo mette a tu per tu con qualcosa nei cui confronti è impossibile qualsiasi presa di possesso (v. Marcel, 1935, pp. 272 ss.).

Sia nella sua forma ontologica sia in quella fideistica, l'esistenzialismo finisce per scorgere nel rapporto tra l'uomo e il mondo, ritenuto costitutivo dell'esistenza, una condanna dell'esistenza stessa: una sua caduta a livello del fatto, dell'oggettività insignificante, delle cose; e perciò scorge nella conoscenza del mondo un oblio dell'essere autentico.

Il rapporto con il mondo perde questo carattere di condanna nell'esistenzialismo positivo: secondo il quale, il mondo è la struttura stessa dell'esistenza, che è il movimento di trascendenza che dall'uomo va al mondo, cioè alla totalità di cui l'uomo stesso fa parte; e che così procedendo costituisce le possibilità che consentono all'uomo di progettarsi nel mondo stesso (v. Abbagnano, 1939, È 39). Merleau-Ponty ha scritto: ‟Il mondo, nel senso pieno della parola, non è un oggetto, ha un viluppo di determinazioni effettive ma anche di fessure, di lacune per le quali le soggettività si allogano in esso o che piuttosto ‛sono' le soggettività stesse" (v. Merleau-Ponty, 1945, p. 384). Il mondo non si può staccare dall'io come l'io non si può staccare dal mondo. ‟La vera riflessione mi dà a me stesso, non come soggetività oziosa e inaccessibile, ma come identica alla mia presenza al mondo e agli altri, quale io la realizzo ora: io sono tutto ciò che vedo, io sono un campo intersoggettivo, non a dispetto del mio corpo e della mia situazione storica, ma proprio in quanto sono questo corpo e questa situazione, e tutto il resto attraverso di essa" (ibid., p. 515). Da questo punto di vista una rinuncia al mondo o una liberazione da esso non avrebbero senso: giacché equivarrebbero alla pura e semplice distruzione dell'esistenza, all'annullamento di tutte le sue possibilità. Se la conoscenza oggettiva della scienza non può usurpare il posto della riflessione filosofica non può neppure essere ridotta a un aspetto insignificante o degradato dell'esistenza perché si radica nello stesso rapporto col mondo che è costitutivo di essa.

L'esistenzialismo è stato anche all'avanguardia della polemica contemporanea contro la tecnica: non solo contro i contraccolpi maligni di essa ma contro la tecnica in sé, come oggettivazione dell'esistenza nelle cose che cerca di padroneggiare, come alienazione dell'uomo dalla sua natura autentica. Questa polemica è svolta da Marcel (v., 1935, pp. 271 ss.), da Berdjaev (v., 1936) nonché da Heidegger nella seconda fase del suo pensiero (cfr. Heidegger, Die Frage nach der Technik, 1954). Anche su questo punto l'esistenzialismo positivo si rifiuta di assumere toni apocalittici: la tecnica è uno strumento indispensabile per la vita dell'uomo, dal momento che le cose tra cui vive sono in primo luogo mezzi per soddisfare i suoi bisogni; il limite della tecnica dev'essere stabilito dalla libertà dell'uomo per la difesa di questa libertà e delle condizioni ambientali in cui deve esplicarsi.

8. Coesistenza e società

Uno dei punti cardini dell'esistenzialismo è l'identità tra esistenza e coesistenza. Per l'esistenzialismo (come si è detto) non c e un io senza gli altri come non c'è un soggetto senza mondo. Tuttavia l'esistenzialismo ontologico ha messo in chiaro non solo le difficoltà ma l'impossibilità della coesistenza autentica, giungendo a scorgerla nell'isolamento dell'individuo di fronte al proprio destino o nel silenzio della comunicazione. L'aver cura degli altri che, secondo Heidegger, è l'essenza della coesistenza, può assumere la forma inautentica di sottrarre gli altri alle loro cure, cioè di procurar loro le cose di cui hanno bisogno. Ma in questa forma essa è un semplice ‛esser insieme' nel quale tutti sono anonimi e domina il ‛si sa', ‛si dice', ‛si fa così'. Per quanto Heidegger releghi nella coesistenza anonima non solo la scienza e in generale il sapere, ma anche le leggi morali e i valori, quindi tutte le forme e le istituzioni sociali, essa non è, per lui, che il nulla della coesistenza (come pure dell'esistenza) perché è dominata dalla chiacchiera, dalla curiosità, dall'equivoco che rendono impossibile ogni rapporto umano (v. Heidegger, 1927, ÈÈ 26 ss., È 59). Dall'altro lato la coesistenza autentica, che consiste nell'aiutare gli altri ad essere liberi per il proprio destino, è l'isolamento di ciascuno nell'accettazione di questo destino, anche se esso è necessariamente un ‛destino comune'. Né le cose vanno meglio per Jaspers, che riduce il problema della coesistenza a quello della comunicazione: la quale dovrebbe, nello stesso tempo, salvare l'assolutezza con cui la verità si presenta a ciascuno e la molteplicità delle verità, ognuna delle quali è legata a un'esistenza singola perché è il prodotto della chiarificazione razionale di essa. Jaspers afferma che il processo della comunicazione, sottoposto com'è a queste due esigenze contrastanti, non può mai giungere a compimento e perciò mette capo a uno scacco che è uno dei segni della Trascendenza (v. Jaspers, 1932, vol. III, È 3). Di fronte alla trascendenza non c'è che il silenzio e quindi lo sforzo verso la comunicazione non porta che al nulla della comunicazione. La posizione di Sartre è ancora più radicale giacché per lui ‟la struttura costitutiva dell'essere-altrui" è il frutto di una negazione fondamentale: ‟l'altro è colui che non è io e che io non sono; non solo io devo negare di me l'altro perché l'altro esista, ma bisogna ancora che l'altro neghi me di lui stesso, simultaneamente alla mia propria negazione" (v. Sartre, 1943, p. 362). Ma con questa duplice negazione l'esistenza altrui diventa ‛cosa' fra le cose del mondo, si nega e si nullifica come esistenza: sotto lo sguardo dell'altro, come sotto quello di Medusa, l'esistenza si pietrifica (ibid., p. 502).

Certamente l'esistenzialismo fideistico ha un compito più facile di fronte al problema della coesistenza. La possibilità di essa è, dal suo punto di vista, garantita dal comune rapporto che gli uomini hanno con Dio; e così, secondo Marcel, dall'amore nel senso cristiano, per il quale ogni uomo partecipa alla vita dell'altro e lo considera come un ‛tu' (v. Marcel, 1935, pp. 243-244). Nello stesso senso, Berdjaev ha parlato di una ‛comunione' tra le anime in una società che si costituisca come ‛chiesa'; e ha contrapposto questa società a quella laica che ignora il rapporto dell'uomo con Dio e rende perciò oggettivi e impersonali i rapporti tra gli uomini (v. Berdjaev, 1946).

Il problema della coesistenza si presenta, invece, nell'esistenzialismo positivo come quello dei rapporti personali e della società umana in generale. Il concetto-guida diventa quello della ‛reciprocità'; cioè il riconoscimento dell'altro come altro ha lo stesso titolo di quello che l'io fa di sé come se stesso (v. Abbagnano, 1939, È 52). Ovviamente, la forma della reciprocità, come possibilità della coesistenza, non è infallibilmente garantita: è una normatività intrinseca del rapporto con gli altri in quanto non deve degradarsi a rapporto con cose. ‟Senza reciprocità", ha scritto Merleau-Ponty, ‟non c'è un alter Ego giacché allora il mondo dell'uno avviluppa quello dell'altro e l'uno si sente alienato a profitto dell'altro. [...] La coesistenza deve in ogni caso esser vissuta da ciascuno" (v. Merleau-Ponty, 1945, p. 140). Il ‟deve" di questa espressione sta ad indicare che, mentre la reciprocità è la ‛guida' dell'esistenza autentica, ad ogni tipo o forma di coesistenza è tuttavia inerente la possibilità della caduta nell'anonimato, nell'alienazione, nella meccanizzazione degli atteggiamenti stereotipi. Questa minaccia incombe anche sull'amore che da qualche esistenzialista è considerato (come si è visto) quale forma privilegiata dell'esistenza. Coerentemente con la sua tesi del carattere oggettivante della coesistenza, Sartre ha detto che l'amore sessuale oscilla necessariamente tra il sadismo e il masochismo, per i quali o l'altro o il se stesso è solo una cosa. Per quanto quest'oscillazione non sia necessaria, la sua possibilità rimane: come rimane quella, per ogni tipo o forma d'amore, di decadere in fanatismo, feticismo, narcisismo, ecc.

9. Tempo e storia

L'interpretazione dell'esistenza in termini di possibilità pone uno stretto rapporto tra esistenza e tempo e porta a privilegiare (come già Kierkegaard aveva fatto) come originaria la dimensione temporale del futuro rispetto a quella del passato e del presente. Secondo Heidegger, poiché ogni possibilità non fa che proiettare nell'avvenire ciò che ‛è già stato', la temporalità autentica (quella che non riduce il tempo a una successione di istanti tutti uguali), e quindi anche la ‛storicità' propria dell'esistenza, consistono nella ‛ripetizione': cioè nel ‛destino' che (come si è visto) consiste nella ‛scelta della scelta': nel voler che sia nel futuro ciò che è già stato nel passato. E il destino è sempre un ‛destino comune' che ‟lega l'esserci nella sua generazione con la sua generazione" cioè la fa vivere nel suo tempo e nella sua situazione (v. Heidegger, 1927, È 74). Analogamente, Jaspers ha assunto l'‛eterno ritorno', di cui parlava Nietzsche, come il significato autentico della temporalità e storicità dell'esistenza. L'eterno ritorno è la ripetizione del passato, decisa nell'attimo e che, nell'attimo, è l'identità del tempo e dell'eternità, che garantisce la continuità della storia (v. Jaspers, 1932, vol. II, pp. 126 ss.). Su questa convergenza del tempo e dell'eternità nell'attimo (che era anch'essa tesi kierkegaardiana) concorda l'esistenzialismo fideistico. Bultmann in particolare ha affermato che l'esistenza autenticamente storica non è legata al passato, al fatto, al mondo ma è aperta all'avvenire, al ‛non'-fatto, è protesa verso l'‛evento salutare', (la figura di Cristo) che da evento storico diventa ‛evento escatologico', attraverso il quale Dio pone fine al mondo e alla sua storia (v. Bultmann, 1948-1961, vol. II, p. 194).

Se si prescinde dall inserzione della fede, la temporalità è, per questi filosofi, la ripetizione del passato. Il primato accordato all'avvenire sul fondamento della possibilità costitutiva dell'esistenza finisce per essere negato. Più coerentemente Sartre ha riconosciuto la priorità del passato, affermando che il futuro ‛è' già, anche se non ancora dato, e che lo stesso presente è attinto già come ‛passato': ‟una carta che esce dal gioco e che vi rientra" (v. Sartre, 1943, p. 212).

Dall'altro lato se si conserva alla possibilità il carattere di indeterminazione, si può dire che il ‛presente' è una prospettiva verso il ‛futuro' che si radica nel ‛passato'. Una possibilità infatti è aperta verso il futuro perché prospetta il ‛venire dell'essere' di ciò che è possibile: il presente di essa è l'atto con cui l'avvenire è problematicamente agganciato al passato e il passato è spinto verso l'avvenire. L'interesse umano della storia consiste nel poter rintracciare e riconoscere nel passato gli aspetti autentici e farli valere come norma di limitazione e di scelta delle possibilità a venire (v. Abbagnano, 1948, p. 45). Da questo punto di vista non si può togliere alla scelta storica della possibilità né l'elemento della razionalità né quello del rischio. Il corso della storia non è interamente prevedibile e può trasformare l'intenzione dell'uomo nel suo contrario; ma dall'altro lato è in certi momenti indeciso nei suoi fatti e l'intervento o l'astensione dell'uomo può indirizzarlo in una direzione o nell'altra. Il mondo umano - ha scritto Merleau-Ponty - è un sistema aperto incompiuto e la stessa contingenza fondamentale, che lo minaccia di discordanza, lo sottrae alla totalità del disordine e impedisce di disperarne: a condizione soltanto che si ricordi che i suoi strumenti sono uomini e che si mantengano e moltiplichino i rapporti da uomo a uomo" (v. Merleau-Ponty, 1947, p. 206).

10. Arte e linguaggio

Per tutte le forme dell'esistenzialismo, l'arte e il linguaggio costituiscono tratti essenziali e rivelativi dell'esistenza. Secondo Heidegger, il linguaggio è l'espressione del ‛discorso' e le possibilità fondamentali del discorso sono il sentire e il tacere. Il ‛significato' del discorso è la stessa situazione in cui l'uomo si trova in quanto esiste nel mondo cioè in rapporto con le cose e con gli altri. La comunicazione, che si stabilisce attraverso il discorso, non fa che articolare l'originaria ‛comprensione emotiva' a cui gli uomini sono legati nella coesistenza. ‟La comunicazione non è il trasferimento di esperienze vissute, di opinioni o desideri dall'interno di un soggetto all'interno di un altro. La coesistenza (Mit-Sein) è già essenzialmente rivelata nella situazione emotiva comune e nella comprensione comune" (v. Heidegger, 1927, È 34). Ma dal linguaggio, che è manifestazione dell'esistenza, e precisamente il suo modo di comprendersi e di comunicare, Heidegger distingue la ‛poesia', che è invece manifestazione dell'Essere e nella quale, nell'ultima fase del suo pensiero, egli ha visto la lingua originaria in cui si rivela l'essenza stessa delle cose e che l'uomo non può far altro che ascoltare (v. sotto, cap. 11).

Una manifestazione dell'essere ha scorto anche Jaspers nell'arte che è per lui una delle ‛cifre' (cioè dei simboli) della Trascendenza: è la contemplazione pura che, liberatasi dalla effettualità dell'esistenza, spazia nel regno del possibile, priva di ogni impaccio. Per questa libertà l'arte annuncia assai meglio di ogni altra attività umana la trascendenza divina nella sua inaccessibilità e insieme nella sua presenza di fronte all'uomo (v. Jaspers, 1932, vol. III, pp. 192 ss.). Sartre a sua volta considera il linguaggio come parte della condizione umana e precisamente come l'insieme delle possibilità di essere questo o quello per gli altri. ‟Il linguaggio non si distingue dal riconoscimento dell'esistenza degli altri" (v. Sartre, 1943, p. 441). Ma, dall'altro lato, scorge nell'arte qualcosa che si sottrae completamente alla condizione umana: una irrealtà totale, ‟un valore che si può riferire soltanto all'immaginario che implica l'annichilazione del mondo nella sua struttura essenziale" (v. Sartre, 1940, Conclusion, È 2). Dall'arte peraltro Sartre distingue la letteratura che nasce nel rapporto di comunicazione tra lo scrittore e il suo pubblico e che ha come condizione e come fine la libertà, per cui è sempre ideologicamente e politicamente impegnata (v. Sartre, 1948).

D'altra parte, l'arte è stata intesa non come semplice aspetto della condizione umana nel mondo, ma come un ‛ritorno' consapevole a tale condizione. L'arte è un ‛ritorno alla natura', la conquista di una ‛sensibilità pura': nel senso che ‟se la sensibilità è la percezione, la manipolazione e l'uso delle cose, la sensibilità pura è la percezione, la manipolazione e l'uso delle cose ‛ai fini della sensibilità'" (v. Abbagnano, 1942, cap. 7, È 3). Come ritorno alla natura, l'arte è ‛struttura' in quanto, movendo dalla sensibilità come sua condizione, muove verso la sensibilità come ‛fine', che rende possibile la stessa condizione iniziale. Quando poi la si considera non più dal punto di vista dell'atteggiamento esistenziale ma da quello del linguaggio con cui essa si esprime, l'arte può essere considerata come la forma di espressione che non è subordinata a esigenze o bisogni di comunicazione; ma pone come fine l'espressione stessa cioè una forma nuova di comunicazione (v. Abbagnano, 1956, cap. 12).

11. Sviluppi ontologici e teologici

Negli sviluppi che l'esistenzialismo ha subito per opera degli stessi filosofi che ne sono stati i fondatori, molti suoi tratti caratteristici vengono meno. Tali sviluppi tuttavia costituiscono l'eredità storica dell'esistenzialismo e presentano caratteri che li ricollegano a qualche cardine di esso. L'analisi dell'esistenza ha avuto per Heidegger sempre lo scopo di condurre a una ontologia, cioè alla determinazione del senso dell'essere. Ma nell'ultima fase del suo pensiero, l'esistenza stessa è definita, non dalle possibilità che la legano alle cose del mondo, ma dallo svelamento sempre parziale o imperfetto dell'Essere stesso.

L'esistenza diventa allora ‟lo stare alla luce dell'Essere" (v. Heidegger, 1942, p. 66). Questo vuol dire che ‟l'uomo è gettato dall'Essere stesso nella verità dell'Essere, sicché, esistendo, custodisce la verità dell'Essere e con ciò, nella luce dell'Essere, l'ente appare come quell'ente che è" (ibid., p. 75). In parole povere, questo vuoi dire che l'unico atteggiamento degno dell'uomo consiste nel ‟lasciare che l'Essere sia" cioè nella ‛rassegnazione' (Gelassenheit) o nell'abbandono all'Essere, quindi alle cose, rinunciando a ogni iniziativa. È l'atteggiamento che si deve assumere anche di fronte al mondo della tecnica ai cui pericoli, secondo Heidegger, non si può porre alcun rimedio (v. Heidegger, Gelassenheit, 1959, p. 26). Ma la vera rivelazione dell'essere consiste nel linguaggio; giacché il destino stesso è il fatum cioè la parola dell'Essere. Filosofia e poesia si identificano in quanto entrambe non fanno che svelare il significato dell'Essere che traluce nelle parole (v. Heidegger, Unterwegs ..., 1959, p. 254): traluce ma non si rivela completamente. Ogni manifestazione dell'Essere costituisce un'‛epoca' storica; ed Heidegger è convinto che una nuova epoca si sta preparando, che anch'essa si annunzierà nel linguaggio (v. Heidegger, 1954, p. 54).

Heidegger rifiuta la qualifica di ateo ma neppure identifica l'Essere con Dio: verosimilmente, egli ritiene che i caratteri in cui l'Essere si rivela siano diversi da epoca a epoca. Jaspers invece ha sempre più insistito, nell'ultima fase del suo pensiero, sull'importanza della ‛fede' in Dio. Non sono più soltanto le situazioni-limite che, manifestando lo scacco dell'esistenza, rendono negativamente certi di Dio: l'esistenza autentica, nel suo autochiarirsi, giunge a riconoscere l'esigenza dell'incondizionato al quale solo la fede risponde (v. Jaspers, 1948). La storia stessa è diretta da un disegno provvidenziale e si avvia verso una nuova ‛età assiale' che è il destino autentico dell'uomo e nella quale la rivelazione di Dio sarà più completa (v. Jaspers, 1949).

Si è visto come l'esistenzialismo fideistico abbia sempre scorto nell'esistenza una manifestazione privilegiata di Dio, e nei caratteri negativi dell'esistenza il segno della trascendenza di Dio. Bultmann è colui che ha elaborato in forma più strettamente filosofica questo punto di vista, che è stato egualmente sviluppato, in forma più strettamente teologica, da molti pensatori contemporanei come Paul Tillich, Martin Buber, e altri che si ispirano al pensiero di Kierkegaard.

12. Sviluppi politici

Gli sviluppi politici dell'esistenzialismo sono stati spesso marginali, cioè non strettamente collegati con i capisaidi dell'esistenzialismo stesso. Così J. Ortega y Gasset si è servito di alcuni temi esistenzialistici - la coincidenza dell'uomo con la sua situazione nel mondo, l'antitesi tra esistenza autentica e inautentica, il carattere ‛chiarificatore' o ‛vitale' della ragione che le permette di dominare le situazioni stesse - per una diagnosi della ‛crisi' della civiltà contemporanea, e specialmente di quella determinata dalla ribellione delle masse, e di un superamento di questa crisi mediante una ‛nuova rivelazione' che dovrebbe essere per l'uomo la ‛ragione storica' (v. Ortega y Gasset, 1930 e 1941).

Gli sviluppi politici più interessanti hanno avvicinato l'esistenzialismo al marxismo, al quale infatti lo lega l'insistenza sulla mondanità dell'uomo, sui rapporti dell'uomo con le cose e con gli altri, quindi con la situazione storica. Questa saldatura è stata operata soprattutto da Sartre nella Critica della ragione dialettica (1960). Sartre utilizza a questo scopo la nozione di ‛progetto'. ‟Dire di un uomo ciò che egli è significa dire ciò che egli ‛può' e reciprocamente: le condizioni materiali della sua esistenza circoscrivono il campo delle sue possibilità [...]. Così il campo dei possibili è lo scopo verso il quale la gente oltrepassa la sua situazione obiettiva. E questo campo, a sua volta, dipende strettamente dalla realtà sociale e storica" (v. Sartre, 1960, p. 64). Le ‟condizioni materiali dell'esistenza" di cui Marx parlava vengono quindi assunte da Sartre come il limite delle possibilità da progettare per il futuro. Ma poiché anche questo progetto rimane ‛privato', cioè proprio del singolo uomo, Sartre fa intervenire la ‛ragione dialettica' come progressiva ‛totalizzazione' dei progetti singoli, totalizzazione che dà luogo a gruppi unificati da una ‛sovranità reciproca' e non esclude quella di un ‛capo' (ibid., p. 589). Queste tesi presentano in realtà scarsa affinità sia con l'esistenzialismo sia con il marxismo; e infatti hanno portato Sartre ad allontanarsi negli ultimi anni sia dall'uno che dall'altro.

In generale gli scrittori esistenzialisti hanno criticato nel marxismo soprattutto il concetto di una dialettica impersonale in cui l'esistenza individuale e la sua libertà vengono dissolte, e quello della necessità di tale dialettica che dovrebbe fatalmente condurre la società verso una rivoluzione totale e un'organizzazione definitiva. Merleau-Ponty ha scritto a questo proposito che la dialettica rimane vera solo in quanto prospetta ‟che nessuno è soggetto ed è libero da solo, che le libertà si contrastano e si esigono reciprocamente, che la storia è storia del loro dibattito e che tutto si inscrive ed è visibile nelle istituzioni, nelle civiltà e nella silloge delle grandi azioni storiche" (v. Merleau-Ponty, 1955, p. 276); ma è caduca la pretesa di far terminare la dialettica con una fine della storia o con una rivoluzione permanente o con un regime che, essendo la contestazione di se stesso, non può essere contestato dal di fuori. L'esigenza che l'esistenzialismo fa quindi valere è da un lato quella del ‛peso', assai variabile nelle diverse circostanze, ma che può anche essere decisivo, che la libertà degli uomini può avere sul corso della storia; e, dall'altro lato, quella di una solidarietà umana che non annulli questa libertà o ne renda impossibile l'esercizio in una società che assorba in sé e nullifichi l'individuo. Camus ha espresso questa esigenza affermando il ‛noi siamo' di fronte alla storia: ‟Io ho bisogno degli altri - egli ha scritto - che hanno bisogno di me e di ciascuno. Ogni azione collettiva, ogni società presuppongono una disciplina; e l'individuo, senza questa legge, è soltanto uno straniero che piega sotto il peso di una collettività nemica. Ma società e disciplina perdono ogni direzione se negano il ‛Noi siamo'. Da solo, in un certo senso, sostengo la dignità comune, che non posso lasciar avvilire in me stesso e neppure negli altri" (v. Camus, 1951; tr. it., p. 323). Da questo punto di vista Camus ha opposto la ‛rivolta', che fa sempre appello al limite e alla misura che sono proprie dell'uomo, al ‛nichilismo rivoluzionario' che vuol creare l'assoluto nella storia, e perciò nega ogni misura.

13. Conclusione

Sviluppato in direzioni diverse e contrastanti, l'esistenzialismo ha permeato profondamente la cultura contemporanea. Esso ha proposto e continua a proporre il problema dell'uomo come problema centrale della filosofia: dell'uomo nella sua singolarità e nei rapporti che lo legano alle cose e agli altri, della sua situazione nel mondo e nella società, e nei rischi molteplici e sempre incombenti della sua autoprogettazione. Insistendo su questi rischi, l'esistenzialismo ha reso estremamente improbabile ogni smisurato ottimismo ma non ha neppure, almeno nelle sue forme più equilibrate, prospettato all'uomo un pessimismo desolante. Ha inoltre considerato l'uomo nella totalità della sua esperienza vissuta, rivalutandone anche la vita emozionale troppo spesso trascurata dalla filosofia tradizionale. Ma soprattutto ha mostrato che, pur nei legami che lo legano al mondo e che non possono esser scissi, l'uomo non ha una natura determinata ma può progettarsi, sia pure sempre entro limiti e condizioni, nelle forme di vita più disparate. La ricerca, talvolta caotica e velleitaria, di nuove forme di vita, che è una delle caratteristiche della società contemporanea, ha le sue radici nell'esistenzialismo. In esso hanno radici i nuovi indirizzi della teologia che scorgono nella ricerca e nella realizzazione storica di un'esistenza umana più alta la ricerca e la realizzazione di Dio.

Per ciò che riguarda la scienza, l'esistenzialismo ha avuto subito importanti riflessi nel campo della psicopatologia dove fece il suo ingresso, nel 1913, con l'opera di Karl Jaspers Allgemeine Psychopathologie ispirata dall'esigenza di ‛comprendere' il mondo in cui vive il malato, mediante la partecipazione simpatetica alle sue esperienze. Più tardi Ludwig Binswanger in un suo lavoro celebre (v. Binswanger, 1933) ispirato all'opera di Heidegger, vedeva l'origine della malattia mentale nel fallimento delle possibilità esistenziali che costituiscono l'Esserci (Dasein) cioè l'essere dell'uomo; e su questa base l'indirizzo esistenzialistico si è diffuso e variamente atteggiato nella psichiatria contemporanea. L'esistenzialismo ha inoltre (e questo non è certo il suo risultato meno importante) elaborato concetti come quelli di possibilità, scelta, struttura, progetto, che sono oggi largamente adoperati da tutte le scienze umane e costituiscono la base delle ricerche interdisciplinari, dall'informatica alla teoria dei sistemi.