Democrito di Abdera

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Dizionario di filosofia (2009)

Filosofo (Abdera, Tracia, tra il 470 e il 457 a.C. - ivi, forse tra il 360 e il 350 a.C.).

La vita e le opere.

Secondo le testimonianze meno incerte della tradizione che lo riguarda, D. compì lunghi viaggi in Oriente: forse si trattenne in Egitto, poi, ritornato ad Abdera (vi sarebbe morto a 109 anni), iniziò la sua attività scientifica di insegnante e di scrittore. Dedicò la sua vita alle ricerche scientifiche, facendo oggetto dei suoi studi sia il mondo della natura sia quello umano, e precorrendo Aristotele nell’ampiezza degli interessi scientifici, nell’amore della ricerca empirica e nell’estensione della produzione letteraria. Diogene Laerzio ha trasmesso un catalogo degli scritti democritei che, in ultima istanza, risale a Callimaco, il quale li divide in gran parte in tetralogie, ordinamento attribuito a Trasillo, ma con origini più antiche. Dei numerosi scritti, di etica, matematica, letteratura e musica, sono pervenuti soltanto circa trecento frammenti.

L’atomismo.

Discepolo di Leucippo, D. ne ha sviluppato rigorosamente la concezione atomistica, abbandonando però il grossolano empirismo fisico del maestro e mirando a una spiegazione metafisica della realtà. Il monismo eleatico rappresentato da Parmenide era giunto, a causa del suo razionalismo, a condannare come privi di realtà lo spazio vuoto, la molteplicità, il movimento, il mutamento, la genesi e la distruzione, il divenire in generale; in tal modo tutto il mondo dell’esperienza sensibile era ridotto a un tessuto di parvenze. Contro il monismo di Parmenide, gli atomisti tentano di dar ragione dei mutamenti delle cose senza ricorrere ai processi di genesi e di distruzione, ossia valendosi del concetto del movimento spaziale di realtà molteplici.

I reali, che con i loro raggruppamenti costituiscono tutte le cose concrete, devono essere indivisibili (atomi): infatti, se l’essere è divisibile, e non si pone un termine a tale divisibilità, esso si ridurrebbe al nulla. Gli atomi risultano indivisibili non per la loro estrema piccolezza, ma perché non contengono vuoto. Essi, inoltre, sono idealmente divisibili, ma non fisicamente, dal momento che sono duri, solidi, quindi impenetrabili. In virtù della loro indivisibilità, gli atomi si avvicinano all’Essere di Parmenide, di cui possiedono anche gli altri caratteri essenziali: sono infatti ingenerati, imperituri, immutabili e privi di qualità sensibili.

Se tutti gli atomi hanno una stessa natura, affinché costituiscano una pluralità, occorre che siano moltiplicati e frammentati dal vuoto che l’eleatismo aveva identificato con il Non-essere. Il Non-essere esiste non meno dell’Essere e insieme, Essere (il pieno) e Non-essere (il vuoto), costituiscono i due principi di tutte le cose. Poiché l’essere è una pluralità in forza del Non-essere, ossia del vuoto, gli atomi possono distinguersi tra loro soltanto per le differenze che il vuoto può produrre nel pieno, ossia per le loro proprietà spaziali, geometriche: la figura, l’ordinamento e la posizione. Attraverso i raggruppamenti degli atomi si formano tutte le cose, che si dissolvono a causa delle loro divisioni.

Per dare ragione di tali processi, ai quali si riduce ogni apparenza di genesi e di distruzione, è necessario ammettere il movimento spaziale che gli eleati negavano perché implicante il vuoto. D. concepisce il movimento in modo rigidamente meccanico: il pieno, quando si trova nel vuoto, continua nel suo movimento ingenerato ed eterno, del quale non si deve chiedere ragione proprio perché esso è primitivo ed è sempre avvenuto.

Gli atomi, che sono infiniti, muovendosi in tutte le direzioni nel vuoto, anch’esso infinito, si incontrano, dando origine a un movimento vorticoso che determina raggruppamenti di elementi simili per qualità geometriche. In tal modo si formano i cosiddetti elementi (fuoco, aria, acqua, terra), le sostanze complesse e i mondi, che sono infiniti perché tali sono lo spazio e gli atomi. Il principio di vita è l’anima, che è incorporea perché risulta di atomi di fuoco, sottili, lisci, sferici, mobilissimi, capaci di attraversare e di muovere ogni cosa, anche il corpo. L’anima è diffusa in tutto l’organismo ed è mortale perché si dissolve con il corpo.

La gnoseologia.

Identificando l’essere con il corpo, D. riconduce tutti i processi conoscitivi, sia percettivi sia intellettuali, a movimenti spaziali di atomi corporei. Per interpretare le percezioni D. si avvale della teoria degli eidola o immaginette. La sensazione avviene quando effluvi di atomi (gli eidola) incontrano pori appropriati a loro. Gli eidola, come motori esterni, determinano il movimento dell’anima e quindi dal senso dipende il pensie- ro, anch’esso moto atomico. Le mutevoli qualità sensibili, tuttavia, non possiedono oggettività, il mondo del divenire e del mutamento esiste come apparenza; l’unica vera realtà oggettiva è costituita dal vuoto e dagli atomi. Le qualità sensibili delle cose, che mostrano differenze qualitative e mutamenti, esistono non in natura ma per convenzione, ossia hanno esistenza soggettiva in quanto relative ai sensi percepenti. La conoscenza oggettiva è quella razionale, che è diretta alle esigenze del pensiero e permette di penetrare nell’intima natura della realtà.

L’etica.

Il pensiero etico di D. presenta lo stesso carattere razionalistico proprio della gnoseologia. Secondo D. la felicità dipende dalla conoscenza del bene, l’ignoranza del bene costituisce il principio delle colpe. La condizione più importante della felicità umana è la saggezza pratica o prudenza, la ragione educata ed esercitata. Il bene e il vero sono comuni a tutti gli uomini, pertanto l’intelletto deve stabilire che cosa sia il bene, ossia deve fissare le condizioni da cui dipende la felicità umana, le quali devono essere interne all’anima, perché in essa risiedono la felicità e l’infelicità. La felicità risiede pertanto nella salda, sicura letizia dell’anima, che è misura e armonia. Il saggio non persegue i piaceri corporei, i beni esteriori, l’utilità materiale, ma è diretto dalle norme della propria ragione e si astiene dalle colpe per dovere, non per timore delle leggi, anche se esse risultano necessarie perché sia garantita la stabilità e il buon ordinamento dello Stato.