Descartes (Latinizz. Cartesius; it. Cartesio), René

Dizionario di filosofia (2009)

 Filosofo e matematico francese (La Haye, Turenna, 1596 - Stoccolma 1650).

Il progetto di una scienza universale.

Nel collegio dei gesuiti di La Flèche, seguì per nove anni (1605-14) il consueto curriculum delle classi di grammatica, umanità, retorica, filosofia; conseguì quindi a Poitiers il diploma di baccelliere e la licenza in diritto (1616). Gli esordi delle ricerche personali di D. si ricostruiscono con maggior precisione sulla base di certi frammenti giovanili – riferiti dal biografo A. Baillet e da Leibniz – originariamente intitolati Parnassus, Praeambula, Experimenta, Olympica e Cogitationes privatae (1618-21). Terminati gli studi, D. si era recato in Olanda (1618) e si era arruolato nelle truppe di Maurizio di Nassau statolder e capitano generale dei Paesi Bassi di religione protestante, di stanza a Breda. Lì fece conoscenza del medico olandese I. Beeckman, ed ebbe con lui un fitto scambio d’idee su questioni matematiche, fisiche e meccaniche; e a fine anno presentò all’amico il Compendium musicae, un trattato di musica. Dopo alcuni mesi di studi consacrati alle «Muse» (ossia alle scienze esatte), passò in Germania dove era scoppiata la guerra dei Trent’anni (1619) e si arruolò nell’armata cattolica di Massimiliano di Baviera, con l’intento d’integrare la sua cultura libresca con la lettura del «gran libro del mondo».

Nei primi giorni del novembre 1619, forse a Ulm, meditò in solitudine il progetto di una scientia mirabilis. Uno stato di «raptus» creativo, un sogno «simbolico» di cui lo stesso D. dette l’interpretazione razionale, lasciano intravedere – attraverso i frammenti giovanili e il racconto di Baillet – una profonda crisi intellettuale. D. si sentì investito da Dio di una grande missione di rinnovamento del sapere – missione insieme filosofica, scientifica, morale, religiosa – e decise di dedicarvi tutta la sua vita (assai dubbia è l’ipotesi di una ispirazione rosacruciana di D., suggerita da un suo frammento intitolato Studium bonae mentis).

La riflessione sul metodo.

Di qui la decisione di sradicare dalla propria mente tutte le opinioni apprese fino ad allora, e di ricostruire ab imis fundamentis, secondo un sicuro metodo di razionalità, chiarezza e distinzione, tutto lo scibile. «Proseguendo le ricerche relative all’applicazione della simbologia algebrica alla geometria, e lavorando alla soluzione d’una serie di problemi geometrici, notai – scrive – che procedevo secondo precise regole». Saggiò la certezza delle longues chaines de raisons di cui fanno uso i geometri nelle dimostrazioni dei teoremi, e si convinse di poterne estrapolare un metodo universale, applicabile a tutti i campi del sapere. L’esecuzione del progetto fu consapevolmente differita a una età assai più matura dei ventitré anni che aveva allora; nei nove anni seguenti «non fece altro che aggirarsi qua e là nel mondo, cercando d’essere spettatore piuttosto che attore di tutte le commedie che vi si rappresentano».

Fu dapprima in Francia (1622), poi in Italia (1623-25), dove sciolse il voto d’un pellegrinaggio a Loreto, e infine probabilmente a Parigi (1626-28). È del novembre 1628 il pubblico dibattito con Chandoux e l’incontro con il fondatore dell’Oratorio, il cardinale Pierre de Bérulle: D. ne trasse un ulteriore incoraggiamento a elaborare il suo metodo e a farne pratica applicazione nelle scienze, soprattutto in fisica e in medicina. Fu allora che decise di stabilirsi in Olanda, dove trascorse quasi ininterrottamente i successivi vent’anni cambiando spesso residenza. Aveva già composto le Regulae ad directionem ingenii (trad. it. Regole per la guida dell’intelligenza), che vedranno la luce, incompiute, soltanto nel 1701. È qui tratteggiato l’ideale di una mathesis universalis che riposi sulle solide basi delle tecniche razionali usate in aritmetica e in geometria analitica. Ma le matematiche non forniscono tanto a D. uno strumento per la conoscenza del mondo fisico, quanto un modello di ragionamento deduttivo: le leggi della natura, la genesi e la struttura dell’Universo potranno essere ricostruite a priori secondo le medesime articolazioni ipotetico-deduttive che concatenano l’uno all’altro i teoremi d’Euclide.

La fisica.

Non fondandosi su sensate esperienze, ma partendo da postulati (principia) privi di controllo sperimentale, D. intraprese nel 1629 l’edificazione della sua fisica, che nulla ha di matematico tranne la struttura logica. Ciò non toglie che D. accogliesse nella trama del suo romanzo biologico, cosmologico, astronomico, meccanico, una quantità di fenomeni studiati dai naturalisti contemporanei, e cercasse anzi di darne a suo modo una spiegazione esauriente e coerente. La corrispondenza con Mersenne degli anni 1629-34 consente di cogliere la lenta e complessa elaborazione del sistema, condotta contemporaneamente in più direzioni. Doveva trattarsi inizialmente d’una spiegazione globale della natura, secondo il modulo della scientia mirabilis; ma il progetto si frammentò presto in varie trattazioni: Le monde, o Traité de la lumière (trad. it. Mondo o Trattato sulla luce), e De l’homme (trad. it. Trattato sull’uomo, che ne costituisce l’ultima parte), incompiuti, sono dedicati l’uno alla struttura corpuscolare del mondo fisico, alla natura della luce, alla teoria dei tourbillons (i vortici che trasportano i pianeti) e alle leggi del moto tra cui la legge d’inerzia; l’altro alla fisiologia, anatomia e psicologia umana.

Il tentativo di spiegazione per causas è rigidamente meccanicistico: tutti i fenomeni fisici, biologici e psicologici appaiono a D. conseguenze necessarie del moto di corpuscoli materiali, impresso in origine da Dio ma attualmente autonomo. Anche gli organismi viventi sono assimilati a macchine, e le loro funzioni a movimenti meccanici; soltanto l’uomo è fornito di un’anima immateriale che governa il corpo dalla ghiandola pineale, dove ha sede. In questo schema consequenziario i fatti sperimentali fungono semplicemente da controprove.

Attorno al 1632 i due scritti erano già a buon punto, ma per prudenza D. ne tralasciò il completamento e la pubblicazione, in seguito alla condanna di Galileo: se il sistema copernicano è erroneo – scrisse a Mersenne nel 1633 – lo sono anche tutti i presupposti della mia filosofia, che ne danno una dimostrazione evidente. I due trattati vedranno la luce postumi, nel 1662 e nel 1664. D. si limitò a un’esposizione parziale della sua fisica, sviluppandone gli aspetti più neutri: l’ottica fisiologica e geometrica nella Dioptrique (trad. it. Diottrica), la teoria dei fenomeni atmosferici nelle Météores (trad. it. Meteore). Redasse inoltre i libri della Géométrie (trad. it. Geometria), dove sono poste le basi della nuova geometria analitica ( oltre L’opera scientifica di Descartes).

A questi tre saggi premise, come prefazione e avviso, il Discours de la méthode (trad. it. Il discorso sul metodo), e li pubblicò tutti insieme a Leida nel 1637. Il Discours de la méthode si proponeva una funzione pedagogica e dimostrativa: promuovere per un verso l’emancipazione degli intelletti dalla cultura scolastica, per altro verso saggiare le reazioni ecclesiastiche in vista di una più ampia esposizione del sistema. Esso ricapitola lo svolgimento intellettuale di D., ponendo al suo centro la critica della tradizione e dell’autorità. I temi del Discours e l’intento dichiarato di voler procurare il bene generale di tutti gli uomini, svelano la volontà pragmatica che animò D. nel pubblicare il Discours e le connesse ricerche: con l’uso del metodo «è possibile ottenere conoscenze utili alla vita; e sostituire, alla filosofia speculativa che s’insegna nelle scuole, una filosofia pratica».

La metafisica.

Non si può dire che la riforma cartesiana della fisica e delle scienze esatte presupponga il cogito e la connessa dottrina gnoseologico-metafisica; la formulazione di quest’ultima, appena abbozzata nel Discours de la méthode, maturò infatti più tardi, a mo’ di giustificazione della fisica, nelle Meditationes de prima philosophia (trad. it. Meditazioni sulla filosofia prima) pubblicate a Parigi nel 1641 assieme alle Obiezioni, avanzate da altri filosofi ai quali aveva mandato il testo in lettura, e alle sue Risposte.

In esse D. svolge il progetto, che è del 1629, di un trattato di metafisica nel quale fondare su basi razionali i concetti dell’esistenza di Dio e dell’immortalità spirituale dell’anima. Muovendo dal dubbio «metodico», che investe non soltanto le conoscenze sensibili e il criterio psicologico in base al quale distinguere il sonno dalla veglia, ma anche le verità matematiche, e infine la consapevolezza stessa del dubbio, D. nelle Meditationes indica nell’atto del pensiero che coglie sé stesso il «punto d’Archimede» sul quale fondare ogni certezza. Ego cogito, ergo sum: ecco una «proposizione necessariamente vera, ogni volta che la pronunzio o la concepisco nella mia mente». Essa è perfettamente evidente, e resiste anche all’ipotesi di un genio malvagio che impieghi tutta la sua astuzia nell’ingannarmi. L’essenza dell’anima consiste dunque nel pensiero, o res cogitans. Di qui occorre muovere, come da una certezza assoluta, per provare sia l’esistenza di Dio, sia l’esistenza di un mondo esterno, o res extensa.

Analizzando il contenuto della nostra conoscenza, vi si trovano alcune idee che sembrano esser nate con noi (o «innate», altre che provengono dall’esterno (o «avventizie»), altre ancora prodotte e foggiate da noi stessi (o «fattizie»). Tra queste, le idee di sostanze sono quelle che contengono il più alto grado di realtà obbiettiva; ora, l’idea di una sostanza «infinita, eterna, immutabile, indipendente, onnisciente, onnipotente», ossia Dio, è certamente dipendente da una causa transfinita e obbiettiva, in quanto supera la nostra finitezza e imperfezione; è, inoltre, innata.

L’esistenza di Dio è ancora dimostrata da D. mediante un argomento di tipo cosmologico, fondato sulla considerazione che solo un essere perfetto può creare esseri dotati di minor perfezione; mediante la prova ontologica, per la quale l’idea di esistenza è necessariamente connessa all’idea di Dio, allo stesso modo d’un teorema geometrico; e mediante l’argomentazione fondata sulla veracità divina. Risolto il dubbio in una piena certezza metafisica, il criterio delle idee chiare e distinte, e insieme la conoscenza del mondo fisico, riposano sulla garanzia offerta dalla veracità divina, che scaturisce a sua volta dal cogito. Così la metafisica si configura come la radice dell’albero, del quale la fisica è il tronco e le scienze pratiche sono i rami.

Appare chiaro nelle Meditationes che, con la reinterpretazione alla luce del cogito dei fondamenti di ogni conoscenza matematica e metafisica, e con l’accento posto sul carattere innato delle verità prime, su cui si fonda inoltre la fiducia nel metodo deduttivo e la sfiducia nell’empiria, riaffiora il dogmatismo razionalistico cui D. non aveva in realtà mai rinunziato, nonostante il dubbio e il rifiuto della scolastica: il cogito presuppone infatti la classica nozione di sostanza; l’innatismo ripete la dottrina platonico-agostiniana dell’illuminazione divina; le «prove» dell’esistenza di Dio sono i vecchi argomenti della tradizione scolastica. Hobbes, Gassendi, Arnauld e altri – sollecitati da Mersenne – posero variamente in rilievo le aporie della metafisica cartesiana nelle sette serie di Obiezioni, cui D. dedicò altrettante Risposte.

Le ultime opere.

Mentre la filosofia cartesiana era accolta e respinta tra vivaci contrasti, e suscitava i bandi delle univ. di Utrecht (1642) e Leida (1647) e varie accuse d’eresia, D. fece tre brevi soggiorni in Francia (nel 1644, nel ’47 e nel ’48); accettò poi l’invito di Cristina di Svezia e si recò a Stoccolma, dove visse gli ultimi mesi. Nel 1644 aveva pubblicato i Principia philosophiae (trad. it. Principi di filosofia), esposizione sistematica della sua filosofia suddivisa in quattro libri, nei quali le sue idee vengono presentate sotto forma di tesi; negli ultimi anni attese alla composizione del trattato Les passions de l’âme (1649; trad. it. Le passioni dell’anima), che riprende la fisio-psicologia del saggio De l’homme e svolge ulteriormente la dottrina dell’automatismo animale, spiegando in termini di materia e movimento anche un gran numero di fatti psicologici.

L’epistolario con Mersenne, Chr. Huygens, Elisabetta di Boemia, Cristina di Svezia e molti altri corrispondenti vide la luce pochi anni dopo la morte, a cura dell’amico Cl. Clerselier, che pubblicò tre volumi di Lettere (1657, 1659, 1667). Tra i testi minori sono importanti il Traité de la formation du foetus (trad. it. Trattato sulla formazione del feto), La recherche de la vérité pour la lumière naturelle (trad. it. La ricerca della verità), l’Entretien avec Burman (trad. it. Colloquio con Burman), e altri, raccolti da Clerselier o editi da Leibniz negli Opuscula posthuma, physica et mathematica (1701).

La diffusione del cartesianismo.

La fortuna della filosofia cartesiana s’identifica con la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno. Il sistema fu subito oggetto di discussioni in Francia e nei Paesi Bassi; si diffuse largamente in Italia, Germania, Inghilterra; Malebranche, Geulincx, More, Leibniz, Spinoza, Vico, ne discussero o adottarono variamente i presupposti metafisici; Gassendi, Hobbes, Boyle, Newton, Locke, ne respinsero l’impostazione metodica e la parte fisica. Tuttavia anche nell’ambito della corrente empiristica la fisica e soprattutto la meccanica cartesiane ebbero un ruolo di primo piano, confluendo con le varie formulazioni dell’ipotesi corpuscolare. In medicina la dottrina dell’automatismo animale alimentò la scuola iatro-meccanica, da G.A. Borelli a La Mettrie. All’inizio del 18° sec. il cartesianismo era ancora vivamente combattuto dalla Chiesa cattolica, ma verso il 1730 era ormai la filosofia ufficiale dei gesuiti francesi.

Nonostante il loro ripudio del «romanzo» fisico e della metafisica, i philosophes riconobbero in D. uno dei promotori della nuova scienza e della nuova filosofia; l’idealismo tedesco, Hegel e la successiva storiografia consolidarono questo giudizio, indicando nel cogito l’atto di nascita della speculazione idealistica moderna, ma trascurando gli altri aspetti dell’opera di Descartes.

L’opera scientifica di Descartes.

D. è stato grande matematico, particolarmente per il nuovo metodo d’indagine geometrica da lui introdotto e chiaramente illuminato (anche se forse non da lui per primo creato): il metodo delle coordinate. Questo metodo permette di tradurre sistematicamente i problemi algebrici in problemi geometrici e viceversa, fondendo – per così dire – l’algebra e la geometria in una nuova scienza: la geometria analitica. Perciò la Géométrie è uno di quei rari libri che aprono veramente una nuova epoca nella storia della scienza. Non si deve cercare nella Géométrie una serie di risultati, quanto – appunto – un metodo. La Géométrie non contiene neppure l’equazione della linea retta, si è osservato. Contiene però, espressa con mirabile chiarezza, una fecondissima idea: quella di individuare un punto del piano per mezzo di una coppia ordinata di numeri (coordinate cartesiane) e di considerare una curva piana come il luogo dei punti che con le loro coordinate soddisfano un’equazione data (detta equazione cartesiana della curva, mentre il piano ha allora la qualifica di piano cartesiano).

Certamente, accanto al nome di D. è giusto porre quello di P. Fermat, nella cui opera, pubblicata postuma (1679), si trovano le equazioni della retta e delle coniche. Ma a giusta ragione il metodo delle coordinate porta il nome di metodo cartesiano.

D. studiò poi curve particolari, come il folium e le ovali che portano il suo nome. Allo studio delle ovali fu condotto dai problemi dell’ottica, scienza nella quale D. conseguì risultati fondamentali, come la chiara e definitiva formulazione delle leggi della rifrazione ricordate come leggi di Cartesio. In algebra porta il suo nome una regola per valutare il numero delle radici positive e negative di un’equazione algebrica a coefficienti reali.

Anche in meccanica e in fisica, D. fu un caposcuola e le sue teorie conservano grande importanza storica, pur se in tutto o in parte superate. In meccanica si deve a D. un enunciato generale del principio d’inerzia («ogni parte della materia conserva lo stesso stato, fino a quando le altre, urtandola, non la costringano a mutarlo e una volta che abbia cominciato a muoversi, continuerà sempre a muoversi con egual forza fino a quando le altre non la fermeranno o ne ritarderanno il movimento»).

Importante è la sua indagine sulla valutazione di talune grandezze cinetiche, e particolarmente dell’energia cinetica. D. riteneva che l’energia cinetica dovesse misurarsi mediante la «quantità di moto», cioè mediante il prodotto, mv, della massa per la velocità, anziché, come sosteneva Leibniz, dalla «forza viva» m V2. Ne seguì una famosa e secolare disputa tra «cartesiani» e «leibniziani» che fu completamente risolta soltanto assai più tardi, a favore della tesi leibniziana.

Di D. è anche una dottrina cosmogonica dei «vortici», anch’essa oggetto di lunghe polemiche, della quale poi Newton dimostrò il carattere arbitrario e aprioristico.