Buddha

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Buddha ‹bùddha› (it. Budda, vedico buddhá- "svegliato", part. pass. di bódhati).

Fondatore del buddismo; di lui ci sono noti con grande approssimazione parecchi dati cronologici e biografici, sebbene la tradizione vi abbia innestato molti elementi fantastici ed edificanti, creando intorno alla figura di B. una leggenda che, per splendore poetico e sublimità d'immagini, è tra le più grandiose.

Nato intorno al 560 a. C. a Kapilavastu (in territorio nepalese vicino al confine indiano), apparteneva alla stirpe principesca degli Śākya, reggitori di un piccolo territorio tributario del re di Kośala. Gli fu imposto il nome di Siddhārtha o Sarvārthasiddha, e poiché il ramo familiare da cui egli discendeva era quello dei Gautama, egli fu più tardi denominato sovente dai contemporanei śramaṇo Gautamaḥ ("l'asceta Gautama"). Altro nome legato alla sua missione religiosa è quello di Śākyamuni ("l'asceta degli Śākya"). Il padre si chiamava Śuddhodana; la madre Māyā sarebbe morta sette giorni dopo la nascita del bambino. Secondo le leggende eventi portentosi accompagnarono il concepimento, la nascita e l'infanzia di lui.

Trascorsa l'adolescenza, gli fu data in sposa la cugina Yaśodharā. Il padre, cui una profezia aveva rivelato la missione del neonato, si adoperò a creare intorno al figlio un'atmosfera di lusso e di godimenti e a tenerlo lontano dalla diretta esperienza di ogni miseria terrena. Ma durante una passeggiata nel parco il giovanetto incontra successivamente un vecchio cadente, un malato, un cadavere corrotto, e ciò gli rivela l'inevitabile decadimento dell'organismo vivente attraverso le malattie, la vecchiaia, la morte. Subito dopo appare a Gautama un asceta il cui aspetto rivela l'intima serenità di spirito. Il principe, persuaso ormai della vanità di ogni gioia terrena e dell'ineluttabilità del dolore, si risolve a mutar vita senza lasciarsi irretire dagli affetti terreni: a 29 anni abbandona di notte il palazzo e veste l'abito di monaco questuante.

Cerca, ma invano, di appagare la sua brama di conoscere la verità seguendo gli insegnamenti del brahmano Arāḍa Kālāma e di Udraka Rāmaputra; si dà a severissime penitenze. Ma l'indebolimento estremo dell'organismo si dimostra controoperante. Solo dopo interminabili meditazioni, consegue l'illuminazione (bodhi) che gli si rivela con la formulazione delle fondamentali verità: esistenza del dolore, origine del dolore, estinzione del dolore, via che conduce all'estinzione del dolore (v. buddismo).

E da quel momento Gautama divenne il Buddha ("lo Svegliato, l'Illuminato").

Con la predica di Benares il B., superata l'incertezza circa l'opportunità di divulgare fra gli uomini la conoscenza liberatrice, inizia l'opera sua di salvatore e maestro. In quaranta anni d'incessante attività svolta da B. e dai suoi discepoli, prediletto fra tutti Ānanda, nei paesi dell'India nord-orientale, la nuova dottrina si diffonde in mezzo alle masse e diviene il fondamento d'una religione destinata a conquistare immense regioni della terra.

A ottant'anni il B. si ammala gravemente a Beluva, si riprende tuttavia e nonostante una ricaduta (nel villaggio di Pāvā) può ancora raggiungere Kuśinagava: ma è ormai sfinito e agli estremi. Ad Ānanda che si abbandona a un pianto sconsolato, il B. ricorda che il credente sa vincere il dolore insito nel distacco da chi ci è caro; poi formula alcune raccomandazioni circa l'osservanza della dottrina, e prima di morire (480 a. C.) ammonisce ancora una volta i discepoli: "tutto ciò che esiste è transitorio; adoperatevi con sforzo, senza tregua".

Il cadavere del B. fu cremato e i resti furono ripartiti fra i principi e i nobili. Secondo le concezioni ulteriori del buddismo l'apparizione sulla terra del B. storico fu preceduta da quella di innumerevoli altri B. vissuti nelle precedenti età cosmiche.

Enciclopedia Italiana (1930)

di F. B.-F., G. Va.

BUDDHA. - Questo epiteto che significa "lo Svegliato, l'Illuminato" designa comunemente il Buddha storico, ma la dommatica degli stessi testi più antichi (Nikāya) sancisce la credenza ch'egli non fu il solo Buddha. Una concezione panindiana insegna che la nostra età cosmica fu preceduta e sarà seguita da innumerevoli altre. Secondo i buddhisti, ognuna di esse ebbe ed avrà i suoi Buddha.

Ogniqualvolta sia necessario far conoscere le "auguste verità" che siano venute meno con la distruzione del mondo o siano cadute, dopo lunghi secoli, in oblio, un Buddha compare tra gli uomini a insegnare la via della salvezza. La nostra età porta il nome di "benedetta", perché essa ha già avuto quattro Buddha (l'ultimo dei quali fu Gotama e cioè il Buddha storico) e sarà fra tremila anni allietata dalla comparsa del quinto, Metteyya (sanscr. Maitreya), il futuro Buddha. Mentre alcuni indianisti credono alla storicità di Koṇagamana (sanscr. Kanakamuṇi), il terz'ultimo Buddha, di cui Aśoka ampliò lo stūpa ("tumulo con reliquie") nel 255 a. C., altri mettono in dubbio fin l'esistenza di Gotama. Il primo a sostenere il carattere mitico della vita leggendaria di Gotama fu il Wilson nel 1854. Ma soltanto il Sénart (Essai sur la legende du Buddha, Parigi 1875) tentò di dare una sistematica dimostrazione che il Buddha è un eroe solare e i più importanti episodî della sua vita rispecchiano fenomeni naturali: erompere del sole dal grembo delle nubi, rasserenarsi del cielo dopo la tempesta e via dicendo. Malgrado l'autorità dello scrittore e l'innegabile acume di certe sue interpretazioni, la teoria del mito solare trovò pochi fautori e fu magistralmente confutata dall'Oldenberg nel suo Buddha (5ª ed., p. 92 segg.).

La stragrande maggioranza degli indianisti fu ed è convinta della realtà storica del Buddha, e se qualcuno torna di quando in quando all'ipotesi del mito, non può tuttavia distruggere quelle che noi consideriamo testimonianze storiche. I testi pāli più antichi abbondano di particolari intorno alla vita non del Buddha soltanto, ma anche del suo grande rivale Nātaputta (v. mahāvīra). Ora le notizie di fonte buddhistica concordano con quelle di fonte giainica, salvo lievi differenze, né si può considerare attendibile il canone buddhistico in ciò che concerne Nātaputta, di cui nessuno mette in dubbio la realtà storica, e non in quel che riguarda il Buddha. Tanto più che non manca alla tradizione il suffragio delle scoperte archeologiche. Nel 1895 fu trovata a Rummindeī, nel Tarāi nepalico, la colonna che Aśoka fece quivi inalzare per ricordo del suo pellegrinaggio al luogo di nascita del Buddha, nel 249 a. C. Essa porta un'iscrizione in lingua māgadhī e caratteri brāhmī, che commemora l'esenzione dalle tasse accordata dal re al villaggio Lumbinī "perché quivi il Buddha era nato". A oltre due secoli di distanza dalla morte dell'Illuminato, la tradizione avea dunque ancora tanta forza probativa, da determinare la concessione di un privilegio così importante. Non basta. Nel 1898 W. Claxton Peppé, scavando entro il koṭ di Piprāhavā, chiamato poi "stūpa dei Sakya", nel Tarāi medesimo, scopriva con altri vasi un'urna cineraria di steatite, piena di frammenti d'ossa misti con ornamenti d'oro e pietre preziose, che portava graffita attorno al coperchio l'iscrizione: "Quest'urna delle reliquie del beato Buddha, della stirpe dei Sakya, è un pio ricordo dei fratelli e delle sorelle, con le mogli ed i figli". Quest'interpretazione, che risale al Bühler e fu accettata, con qualche variante, dal Pischel, dialettologo altrettanto insigne, non ebbe unanime consenso fra i dotti. Il Fleet la lesse e interpretò in tutt'altro modo, facendosene forte a sostenere che l'urna accolse le ceneri dei congiunti del Buddha, uccisi, secondo la tradizione, per una faida di Viḍüḍabha, re del Kosala. Comunque, resta egualmente provata la realtà storica dei Sakya e quindi del Buddha.

Certo nella vita tradizionale di Gotama il meraviglioso prevale, sì che riesce difficile sceverare la storia dalla leggenda. Ma non per questo dobbiamo trascorrere a negare che la leggenda sia intessuta sopra una trama storica, tanto più salda quanto meno la narrazione si allontana dalle fonti pāli più antiche (v. Bibl.). A queste noi ci atterremo nel delineare la vita del Buddha, prescindendo dalle biografie leggendarie propriamente dette, come il Mahāvastu e il Lalitavistara.

V'è ancora chi si compiace immaginare il Buddha non solo come l'apostolo di un nuovo verbo religioso, ma anche come un riformatore sociale, che affrancò il suo popolo dal giogo di una teocrazia, sotto la quale languiva da secoli l'India settentrionale. Questa concezione è altrettanto erronea quanto quella di chi vede nel Buddha una specie di libero pensatore, che neghi fede al culto, ai sacerdoti e agli dei, per un atto di ribellione alle credenze tradizionali. Più si studiano le dottrine dell'Illuminato, più se ne riconosce la scarsa originalità, sì che il loro successo fu certo dovuto non solo a peculiari condizioni del paese dei Sakya, dove la casta sacerdotale non giunse mai a imporre il suo predominio, ma anche alle straordinarie qualità personali del Buddha. Il brahmano Soṇadaṇḍa lo dipinge aitante della persona e di bell'aspetto, reso più attraente da un colorito magnifico. E aggiunge che la sua voce era armoniosa e sonora; chiara, fluida ed eletta la sua loquela.

Le biografie leggendarie ci rappresentano il Buddha come l'unico figlio di un potente re, trasportando nel sec. VI a. C. condizioni politiche che l'India conobbe soltanto in età posteriore al crollo della dominazione macedone. Ma il supposto grande monarca fu invece il reggitore (rājā "rex") di una piccola repubblica aristocratica, che aveva, in cifra tonda, circa un milione di abitanti insediati tra il corso medio della Rapti (Aciravatī della letteratura buddhistica) e la Rohiṇi, oggi Rohin, a pié del Himālaya nepalico. I Nikāya ricordano i nomi di otto città, oltre alla capitale Kapilavatthu, ma alcune eran forse soltanto grosse borgate, come Koli, ove nacque la madre del Buddha. La vasta pianura, solcata da innumerevoli corsi d'acqua minori, che traggono dalle nevi eterne del Himālaya perpetuo alimento, si adatta alla cultura del riso, che era infatti, col bestiame, la maggior ricchezza del paese. Ma non la sola. Insieme con l'agricoltura fiorivano i commerci, che per via terrestre e fluviale si spingevano a occidente fino a Kosambī (Kosann) e ad oriente fino a Suvaṇṇabhūmi (Pegu nel golfo di Martaban). Mussoline di Sivi e di Benares, ricami, tappeti, profumi, avorio, armi, gioielli eran le merci più ricercate e costose. La proprietà fondiaria era in mano della nobiltà militare, che l'aveva ereditata dagli Arî conquistatori della valle del Gange. Questi signorotti, orgogliosi della loro pelle bianca, che li distingueva dalle razze aborigene, di colorito scuro, erano di solito molto superbi

L'alterigia dei Sakya (sanscr. Śākya o "Potenti"), la stirpe alla quale appartenne il Buddha, è esplicitamente affermata dal Cullavagga, VII, 1, 4. Lavorare per mercede si considerava la peggiore delle sventure che potessero toccare ad uomo libero, e però al lavoro dei campi e alla custodia del bestiame eran di solito addetti i śūdra, schiavi o servi non arî, appartenenti all'ultimo colore (vaṇṇa) o classe sociale. Nessun maltrattamento veniva inflitto agli schiavi, poco numerosi in confronto dei liberi e quasi sempre prigionieri di guerra o miserabili che, assillati dalla fame, rinunciavano alla libertà in compenso del cibo. Gli artigiani, riuniti in corporazioni di mestiere, erano ben retribuiti, a giudicare dall'alto prezzo di certi manufatti. Erano tuttavia a buon mercato le cose necessarie alla vita. L'abbondanza della selvaggina nelle immense foreste, il gran numero di corsi fluviali, le ampie distese prative, sulle quali gli abitanti del villaggio esercitavano il diritto di pascolo, spiegano il basso prezzo delle carni e del pesce. Né la regione soffriva di siccità, causa consueta delle carestie che afflissero l'India, grazie al progredito sistema d'irrigazione, che faceva somigliar la campagna "alla tunica rattoppata di un monaco buddhista". Si può calcolare che l'ottanta per cento della popolazione vivesse in istato di relativa agiatezza, sì che gli abitatori dei villaggi, "felici e contenti gli uni degli altri, stavano a uscio aperto palleggiando fra le mani i loro bambini". Ma già nel 400 d. C., a testimonianza di Fa Hian, l'uomo, nemico all'uomo, aveva restituito alla selvaggia natura le fertili pianure faticosamente contese alla Grande Foresta.

In città, specialmente se capitale, la vita era raffinata e frivola. La professione più lucrosa era la mercatura, alla quale si dedicavano anche brahmani e nobili, decaduti o desiderosi di quella maggior considerazione che proviene dal possesso d'ingenti ricchezze. I capi delle corporazioni mercantili avevano accesso a corte, quando non erano addirittura tesorieri o ministri. Non pare che la gente traesse alla città con l'avidità di oggigiorno; nell'immensa pianura tra l'Himālaya e il Vindhya troviamo appena ricordate una ventina di città di considerevole grandezza, dove il ricco gentiluomo divideva il suo tempo fra i trattenimenti e i piaceri, egualmente pronto a entusiasmarsi per la cortigiana (gaṇikā) più in voga e per il predicatore di moda. In questo mondo singolare, combattuto fra la sazietà dei piaceri e la ripugnanza alle mortificazioni, che gli asceti del tempo (samana, muni) proclamavano necessarie alla suprema salvezza, Gotama getta, come il seminatore della parabola, il buon seme della sua parola, e la messe è tale che ancor se ne saziano, nell'India e fuori, milioni d'anime.

Quando Gotama nacque, nel 567 a. C. secondo una delle più probabili cronologie, la repubblica aristocratica, di cui era in quel tempo reggitore suo padre Suddhodana, non riconosceva ancora la sovraniià del Kosala. Come la maggior parte dei nobili, i Sakya eran grossi proprietarî e Suddhodana "dal bianco riso" è forse un soprannome conferito al rājā per la bellezza del riso prodotto dalle sue terre. Due sorelle, figlie di un magnate di Koli, furono contemporaneamente mogli di Suddhodana, cosa non disdicevole ai costumi del tempo. La maggiore, Māyā, "mirabile virtù", era ormai nel quarantacinquesimo anno e priva di figli quando concepì il futuro. Buddha.

Le biografie leggendarie, compresa la Nidanākathā, attribuiscono a miracolo la concezione di Māyā. Rinunciando alle celesti gioie, frutto delle buone opere di anteriori esistenze, il futuro Buddha risolve d'incarnarsi nel seno di Māyā per affrancare gli uomini dalla soggezione al dolore e alla morte. La regina lo vede in sogno penetrare nel suo fianco destro sotto forma di bianco elefante, emblema della mansuetudine. Da allora l'elefante è sacro per i buddhisti. Quando il tempo della gestazione volgeva al suo termine, Māyā partì per Koli, distante da Kapilavatthu una dozzina di miglia, senza dubbio per desiderio di essere assistita dalla famiglia paterna. Ma giunta al parco di Lumbinī, poco lungi da Kapilavatthu (forse l'odierno Tilaurā Koṭ), fu costretta a sostare e dette alla luce un nglio, all'ombra di alcuni alberi sāl. Il Bodhisattva che balza fuori dal fianco destro di Māyā, ritta sotto un sāl, di cui stringe nella destra un ramoscello, è soggetto favorito dell'iconografia buddhistica. In capo a una settimana la puerpera morì e il bambino fu allattato dalla seconda moglie di Suddhodana, Paj āpatī "la prolifica", della quale si ricordano il figlio Nanda ed una figlia rinomata per la sua bellezza. Il futuro Buddha ebbe nome Siddhattha, "colui che ha raggiunto lo scopo", ma poiché i Sakya, forse vantando una discendenza dal ceppo vedico dei Gotamidi, amavano fregiarsi dell'appellativo di Gotama, i contemporanei furon soliti designare Siddhattha, ormai entrato nella via del nirvāna, col nome di samaṇo gotamo, "l'asceta Gotamide", quasi a distinguerlo dagli altri asceti mendicanti del tempo. Un altro nome frequentissimo nel Canone è tathāgata, "colui che è in possesso del vero".

Gotama non chiama mai sé stesso l'Illuminato, il Buddha, ma sempre il Tathāgata. Comune è pure l'epiteto di bhagavā "l'Eminente"; sakyamuni, "l'asceta dei Sakya", ricorre raramente nei testi pāli. Siddhattha aveva diciannove anni quando sposò la cugina Yasodharā, figlia di un fratello di sua madre. I testi pāli la chiamano semplicemente Rāhulamātā "la madre di Rāhula", il figlio del Buddha. Ma poiché essa porta in altri testi altri nomi, Bhaddakaccā, Gopā, ecc., sorse spontaneo il dubbio che Gotama avesse avuto più di una moglie.

Per quanto la cosa non abbia nulla d'inverosimile, dati i costumi del tempo, ci atteniamo alle testimonianze più antiche, che attribuiscono a Gotama una sola legittima sposa, e spieghiamo i diversi nomi con epiteti della stessa persona, "dalla bella cintura", alla Protettrice", ecc. Gotama passò la giovinezza a Kapilavatthu nel lusso e nella mollezza. A ventinove anni lo assalì improvvisamente il disgusto di quella vita di piacere e risolse di abbandonare la famiglia e la casa per indossare la veste gialla dell'asceta mendicante. A ciò fu indotto, secondo l'Anguttara-nikāya, III, 38, 2, dalla meditazione sul dolore umano nelle sue forme precipue della malattia, della vecchiezza e della morte.

La leggenda ha dato corpo alle riflessioni dell'Illuminato narrando com'egli successivamente incontrasse, per volere degli dei e malgrado la vigilanza del padre desideroso di occultare al figlio i mali dell'esistenza, un vecchio, un malato e un putrido cadavere. Gli incontri avvennero nel parco reale, dove Gotama andava a passeggiare in carrozza, e ogni volta Channa, l'auriga, spiegò al futuro Buddha esser quello il destino di tutti i viventi. L'ultima volta si offerse al principe l'immagine serena di un giocondo fraticello, che ispirò a Siddhattha il desiderio della vita ascetica. Già quasi deciso di farsi monaco, faceva ritorno al palazzo reale, quando un messo gli portò la notizia della nascita di un figlio. "Rāhula è nato, un vincolo è nato", si narra esclamasse Siddhattha, e triste e pensoso rientrò nella reggiạ. A corte intanto si festeggiava la desiderata nascita e Gotama fu attorniato da una schiera di ancelle, che cercarono di distrarlo con musiche e danze. Non fu certo un meschino poeta quegli che ideò per il primo l'episodio dell'abbandono della famiglia e della casa, quale è descritto dalle seriori biografie leggendarie. Stanco e annoiato, il principe si assopisce nella sala ancor piena del tripudio della festa, e il sonno vince a poco a poco anche le ancelle.

Nel cuor della notte Gotama improvvisamente si desta e vede le danzatrici giacere come altrettanti cadaveri attorno a lui. I loro atteggiamenti, non più dominati dalla volontà, appaiono ripugnanti. Questa russa a bocca aperta stillando bava dalla bocca; quella borbotta in sogno coi capelli sparsi e in disordine, e una terza, con le vesti slacciate, scopre imperfezioni nascoste. Nauseato, il principe va in cerca del fido Channa, che monta la guardia, e gli comanda di sellargli il cavallo. Il ricordo del figlioletto, che ancora non ha veduto, lo spinge alla soglia della stanza nuziale. Yasodharā dorme sopra un letto di fiori, l'una mano protesa sulla testa del figlio, onde Gotama, per non destarla, reprime il desiderio di prendere in braccio il piccino e si allontana promettendo a sé stesso di tornare dopo aver conseguito la dignità di Buddha. Fuori lo attende Kanthaka, il bianco palafreno, a cui gli dei fanno tappeto della palma delle loro mani per impedir che si senta il rumore dei passi. Gotama parte in compagnia del fido Channa, le porte della città si spalancano silenziosamente davanti a lui, e il principe scompare senza traccia nella notte plenilunare. La grande rinunzia è compiuta, ma sei anni di vani sforzi dovranno passare prima che la mente di Gotama s'apra alla sospirata chiaroveggenza. Intanto Māra, il principio della distruzione personificato, re della caducità e della morte, vede il pericolo della rivelazione di Gotama, intesa a strappare al suo dominio miriadi di esistenze, e dall'alto cielo apostrofa il partente promettendogli, entro sette giorni, la signoria dei quattro grandi continenti, se desiste dal suo proposito. Gotama respinge il tentatore, che da allora lo segue come la sua ombra, spiando il momento nel quale un pensiero impuro o malvagio gli dia in possesso il formidabile rivale. Anche qui la fantasia del poeta ha trasformato un'interna lotta nella concreta rappresentazione di un duello fra il Bodhisattva (v.) e il demonio buddhistico, personificante la tentazione.

Dopo aver rapidamente percorso trenta leghe, Gotama giunge all'alba sul fiume Anomā, di là dal territorio dei Koliya. Quivi scende da cavallo, si recide con la spada le lunghe chiome e consegna al fido Channa gli ornamenti e il cavallo perché li riporti alla reggia. Le vesti di fine mussolina di Benares non son più adatte a un asceta mendicante. Egli le depone e il dio Ghaṭīkāra, disceso dal cielo, gli fornisce il corredo del samaṇa: abito monastico, cintura, pignatta da elemosine, rasoio, ago e colino per filtrar l'acqua. Così trasformato, Gotama s'incammina verso Rājagaha (oggi Rājgīr), ove risiedeva Bibbhisāra, re del Magadha. Assisa ai piedi del Vindhya, Rājagaha era la meta preferita degli asceti girovaghi, che trovavano nelle grotte de' suoi monti tranquillità e sicurezza, e nella vicina città gli aiuti di cui avevano bisogno. Spinto alla rinuncia dal saṃvega, "subitaneo turbamento" o vocazione, come diremmo modernamente noi, Gotama non era preparato alla vita religiosa. Egli dunque seguì l'uso comune di ricorrere a un maestro spirituale, che lo iniziasse alle discipline ascetiche.

Qui la verità storica traspare, e noi possiamo senz'altro sceverarla dalle amplificazioni della leggenda, continuando la narrazione di ciò che serba l'impronta del vero. In quel tempo era in onore lo Yoga, metodo pratico per raggiungere la suprema conoscenza, basato sulla psicologia del Sāṃkhya. Era naturale ehe Gotama si rivolgesse alle dottrine e ai maestri più in voga. N'ebbe successivamente due: Āḷāra Kālāma e Uddaka Rāmaputta, brahmani e maestri di quella concentrazione mentale (jhāna, sanscr. dhyāna), ch'ebbe poi tanta importanza nell'etica buddhistica come ultimo stadio dell'"augusto cammino". Āḷāra aveva raggiunto "la sede della nullità" (ākiñcaññãyatana), era assorto alla contemplazione del nulla, la qual cosa tuttavia presuppone un'attività del pensiero. Più oltre era quindi arrivato Uddaka, che si era spinto, mediante il jhāna, fino alla "subcoscienza" (nevasaññāññãyan Mvatana), quella forma di estasi, prossima a traboccare nella catalessi e nell'ipnosi, nella quale la coscienza non è ancora del tutto spenta.

Ma pur avendo appreso tutto quanto i suoi maestri erano in grado d'insegnargli, Gotama non fu soddisfatto e lasciò con altri cinque anacoreti la scuola di Uddaka, deciso a raggiungere con le sue proprie forze la chiaroveggenza. Si ritirò in un bosco sulle rive della Nerañjarā, oggi Phalgu, presso Uruvelā, l'odierna Urel a mezzogiorno di Patna, e quivi si sottopose alle più dure penitenze, sempre assistito e incoraggiato dai cinque compagni, desiderosi di farsi suoi discepoli appena egli avesse raggiunto il supremo grado di santità. Racconta egli stesso nel Majjhima-nikāya, 12 (ed. Trenckner, Londra 1881, p. 81), di avere spinto talvolta il digiuno fino a nutrirsi di un granello di riso al giorno, talché perdette il bel colorito e divenne emaciato e livido. Per sei anni egli sostenne la tremenda lotta, finché le forze gli vennero meno e restò come morto.

Quando rinvenne, la luce si era fatta nel suo spirito; riconobbe che la via delle mortificazioni non conduceva alla sospirata chiaroveggenza, e trascinando penosamente il corpo affranto fino al prossimo villaggio, andò in cerca di cibo. Ma i suoi compagni di solitudine, perduta in lui ogni fiducia, invece di porgergli aiuto; lo abbandonarono. Ristorato di abbondante cibo da una pia campagnola per nome Sujātā, "Eugenia", Gotama restò lunghe ore seduto sotto un albero di pīpal (ficus religiosa) in preda allo scoraggiamento e al dubbio. Per lunghi anni aveva avuto in dispregio il mondo e i suoi beni. Ma ora, perduta la fede nell'efficacia delle mortificazioni, il miraggio tentatore delle ricchezze e dei piaceri risorgeva dinanzi alla sua mente e il dubbio dell'inutilità della rinunzia si faceva più tormentoso e più vivo.

La leggenda ha nuovamente trasformato le lotte spirituali di Gotama in una battaglia da lui sostenuta con Māra, che, aiutato dal suo esercito, mise questa volta a soqquadro il cielo e la terra nel vano sforzo di scuotere la fermezza del Bodhisattva. Al cader della notte Gotama, purificato dalla vittoria sulle ultime tentazioni, vide brillare dinanzi alla sua mente la luce del vero. Il mistero della rinascita gli si fece improvvisamente palese, intuì le cause del dolore mondiale e scoperse la via che conduce alla liberazione dal dolore. Da quel momento egli fu il chiaroveggente, il Tathāgata; sentì di aver raggiunto il nibbāna, sanscr. nirvāṇa (v.). Il Mahavagga (I, 1, 1) racconta che il Buddha rimase sette giorni sotto l'albero di pīpal, godendosi la "gioia della liberazíone" (vimuttisukha). Il fico che protesse con la sua ombra le lunghe meditazioni dell'Illuminato divenne sacro col nome di "albero della chiaroveggenza" (bodhirukkha) o più brevemente "albero Bo". Gli ultimi avanzi della pianta sacra, senza dubbio rinnovata più di una volta, furono distrutti da un uragano nel 1876. Ma un ramo dell'antico bodlhirukha, trasportato a Ceylan nel sec. III a. C., fu piantato con grande solennità presso Anurādhapura e divenne un albero tuttora venerato dai buddhisti dell'isola. La certezza di possedere la verità incuorava il Buddha a divulgare la sua dottrina, ma il dubbio di non esser compreso lo rendeva perplesso.

La leggenda vuole che il dio Brahmā in persona vincesse le ultime riluttanze dell'Illuminato, inducendolo a iniziare la sua predicazione. Per un sentimento di gratitudine, il Buddha avrebbe desiderato che i suoi antichi maestri venissero per i primi a conoscenza della sua scoperta, ma seppe che erano morti. Allora pensò ai cinque compagni di penitenza e s'incamminò verso Benares, dov'essi erano andati a cercar rifugio nel parco Isipatana.

La predica di Benares, con la quale l'Illuminato "mise in moto la ruota della Dottrina", fu tenuta a questi cinque anacoreti, di cui il Buddha fece altrettanti apostoli. Ma non senza contrasto, poiché solo dopo lunghe discussioni i cinque s'indussero ad accettare la rivelazione del Tathāgata, di cui furono i primi discepoli. La piccola "comunità monastica" (saṅgha) si accrebbe tosto di un nuovo seguace, il giovane Yasa, figlio del ricco capo di una corporazione mercantile. Suo padre e quella che era stata sua moglie fecero professione di fede con la formula: "cerco rifugio nel Buddha, cereo rifugio nella Dottrina, cerco rifugio nella Comunità", e furono i primi "adoratori" (iupāsaka) laici dell'Illuminato. Sebbene infatti la sola vita monastica possa, secondo l'antica dottrina, conferire "la santità" (arahatta), chi non si sente di rompere i legami di famiglia può, con una vita conforme ai principî buddhistici, meritar dopo morte una rinascita atta a conseguire ìl nirvāṇa. Dopo Yasa presero la veste gialla e la tonsura molti altri suoi compagni di gioventù, sicché gli "asceti mendicanti" (bhikkhu) raggiunsero presto il numero di sessantuno. Eran tutti di nobile famiglia, perché la dottrina del Buddha non poteva esser compresa senza un certo grado di raffinatezza e d'istruzione.

Perciò il buddhismo fu sin da principio un movimento di carattere aristocratico, come attesta la qualità dei discepoli che vissero in intimità con l'Illuminato. Ānanda e Devadatta, il Giuda della comunità buddhistica, erano della stirpe di Gotama, e alla nobiltà militare apparteneva anche Anuruddha. Sāriputta e Mogallāna eran brahmani e Upāli barbiere, ma nella famiglia dei Sakya, i quali lo trattavano come uno dei loro. L'eguaglianza proclamata dal Buddha era religiosa soltanto. Il grado sociale, la casta, conseguenza del karman (v.), aveva la sua profonda ragione etica, per quanto ogni distinzione venisse a cessare sotto l'uniformità dell'abito monastico.

Il Buddha passò a Benares la stagione delle piogge (21 giugno 21 ottobre) e mandò poi i discepoli a predicar la dottrina "per la felicità degli dei e degli uomini". "Non fate in due lo stesso cammino" disse congedandoli. "Insegnate la dottrina benefica in principio, benefica nel mezzo, benefica alla fine. Divulgate la vita di santità, interamente perfetta e pura tanto nella sostanza quanto nella forma" (Saṃyutta, IV, 1, 5). Da allora il Buddha fu sempre solito raccogliere intorno a sé i discepoli nella stagione delle piogge e dedicare alla Predicazione i mesi rimanenti. Tornato a Uruvelā, convertì, operando prodigi, mille anacoreti brahmani, fedeli al rito sacrificale. Egli tenne ai neofiti la predica che va sotto il nome di "sermone della montagna" perché fu tenuta sul monte Gayāsīsa, ora Brahmāyoni in prossimità di Gayā. Un incendio divampava sull'opposta collina; il Buddha ne trasse argomento per mettere in guardia i suoi proseliti contro il fuoco distruttore dei sensi e della passione, che si estingue soltanto in chi segue l'augusto cammino. In compagnia dei suoi monaci, il Buddha fece quindi ritorno a Rājagaha, ove il re Bibbhisāra gli rese omaggio e lo invitò a desinare coi discepoli, facendogli altresì donazione di un "bosco di bambù" (veḷuvana), residenza preferita dell'Illuminato durante la stagione delle piogge. A Rājagaha il Buddha acquistò anche i due discepoli destinati a divider con lui il primato nell'ordine: Upatissa, soprannominato Sāriputta o "figlio di Sāri", e Mogallāna, già seguaci di Sañjaya.

La narrazione continuata degli avvenimenti posteriori alla chiaroveggenza, che ha per fonte precipua il Mahāvagga, I, 1-24, è a questo punto interrotta e riprende soltanto dagli ultimi tre mesi di vita dell'Illuminato (Dīghanikāya, XVI). Quarantacinque anni di peregrinazioni e di apostolato giacciono fra questi due estremi, e del lungo periodo restano soltanto episodî staccati e privi di nesso cronologico, sparsi nel canone pāli e nelle fonti più tarde. Il più importante è quello, evidentemente storico, della visita che il Buddha fece ai suoi parenti per desiderio del padre Suddhodana, dopo il ritorno a Rāiagaha. Gotama giunse a Kapilavatthu e si fermò, come soleva, in un bosco di sicomori vicino alla città, dove il padre e gli zii andarono a visitarlo. Ma i Sakya rimasero in genere mortificati di avere per parente un accattone, e nessuno lo invitò a pranzo. Peggio fu quando il Buddha comparve a questuare per le vie della città. Suddhodana stesso corse a rimproverarlo di quel contegno disdicevole al decoro della famiglia, ma, placato dal figlio con ispirate parole, finì per ospitarlo nel suo palazzo. Il giorno seguente il Buddha fece prender l'ordinazione al fratellastro Nanda, che stava per ammogliarsi, e conferì sei giorni dopo il noviziato al figlio Rāhula in età di soli sette anni. Il dolore della separazione da Rāhula, ultima speranza della famiglia, indusse Suddhodana a pregare il Buddha che l'ammissione all'Ordine di un figlio non fosse per l'avvenire consentita senza il consenso del padre e della madre. La preghiera fu accolta e l'ordinazione venne da allora in poi subordinata al duplice consenso.

Tornato a Rājagaha, il Buddha si era fermato nel bosco di manghi di Anupiyā, quando vennero a lui, per farsi suoi seguaci, i cugini Ānanda (v.) e Devadatta, in compagnia di Anuruddha e Upāli. Ma la conversione di Devadatta non fu sincera. Invidioso del Buddha e smanioso di succedergli nella dignità di capo dell'Ordine, tentò ripetutamente di farlo morire, e quando vide frustrate le sue speranze abbandonò la Comunità per fondare una setta rigidamente ascetica, che esisteva ancora nel sec. VII d. C. I nomi di Anuruddha e Upāli sono legati alla formazione del Canone, essendo il primo riguardato come il fondatore dell'Abhidhamma (v.) e il secondo come il più autorevole conoscitore del Vinaya, la Regola monastica. Nel quinto anno di apostolato del Buddha, morì Suddhodana e Pajāpatī, rimasta vedova, sollecitò per sé e per altre gentildonne dei Sakya, fra le quali la stessa Yasodharā, l'ammissione all'Ordine. Per intercessione di Ānanda e non senza riluttanza, l'Illuminato si arrese alle reiterate suppliche della sua seconda madre e fondò la Comunità femminile, alla quale impose speciali regole.

Gli ultimi anni di vita dell'Illuminato furono fecondi di conversioni, ma anche contristati da grandi amarezze, come l'apostasia di Devadatta, avvenuta quando il Buddha aveva settantadue anni, e l'eccidio dei Sakya tre anni prima della sua morte. Kapilavatthu sarebbe stata infatti distrutta da Viḍūḍabha, re del Kosala, per vendicare un'antica offesa. Alla scarsezza di notizie sugli ultimi anni di apostolato del Tathāgata fa contrasto l'abbondanza di particolari intorno alla sua morte, fedelmente tramandati dal "Gran discorso sulla totale estinzione". L'autorità morale del Buddha si era a tal segno accresciuta, ch'egli poté impedire un conflitto tra il Magadha e la confederazione de' Vaji, sconsigliando la guerra al re Ajātasattu. Passando per Pāṭaligāma, villaggio fortificato che divenne poi Pātaliputta, l'odierna Patna, il Buddha profetò la futura grandezza della città. A Vesālī, ora Besarh, accettò l'invito di Ambapālī, "la bella della città", che dopo avere udito la parola dell'Illuminato sollecitò l'onore di averlo seco a pranzo coi suoi discepoli. Quando i Licchavi, signori di Vesālī, vennero a fare solennemente al Buddha lo stesso invito, seppero che Ambapālī li aveva preceduti e offersero inutilmente all'etera centomila monete d'oro in cambio del privilegio di ospitare il Buddha. Ambapālī, che entrò poi nell'Ordine, fece anche dono alla Comunità del giardino dov'era stato apparecchiato il convito.

Il Buddha passò a Beluva, in prossimità di Vesālī, l'ultima stagione delle piogge, quarantacinquesima del suo apostolato. A Beluva infermò. Fu assalito da violenti dolori e la sua fine parve imminente. Ma l'indomita volontà fece violenza alla natura, e l'infermo si riebbe, tanto da poter riprendere le sue peregrinazioni. Con Ānanda e altri discepoli s'incamminò verso Pāvā, l'odierna Padraunā, dove si fermò a riposare nel giardino dell'orefice Cunda. Questi invitò gli asceti a desinare e offerse loro, con altri cibi, carne di maiale grassa (sūkaramaddava), cagione al Buddha, ottuagenario, di una dissenteria che lo trasse a morte. Ripreso infatti il viaggio verso Kusinārā, oggi Kasia, si sentì a mezza strada mancare e solo dopo lunghe soste raggiunse la capitale dei Malla, ove giacque per non più rialzarsi nel parco vicino alla città. Quivi Ananda gli apprestò un giaciglio fra due sāl gemelli, che fuor di stagione si copersero di fiori. Il Buddha vi giacque sul fianco destro col capo rivolto a settentrione. Con grande semplicità dettò poi ad Ananda alcune regole da osservare dopo la sua morte (con particolare riguardo alla Comunità femminile) e impartì le istruzioni per i suoi funerali. Incapace di contenersi più a lungo, Ananda scappò a piangere in disparte, ma il Buddha, fattolo chiamare, lo consolò: "Basta, Ānanda, non ti affannare, non piangere! Non ti ho già detto prima che bisogna una volta staccarci da quanto è piacevole e caro, separarci, dividerci da esso? Com'è dunque possibile che quanto è nato, prodotto, composto e per natura destinato a perire non abbia fine? Sarebbe assurdo! "Per lungo tempo, Ānanda, hai assistito il Tathāgata coi pensieri, con le parole e con le opere, con immutata fedeltà e infinito amore, unicamente sollecito della sua felicità e del suo benessere. Hai fatto opera meritoria; intendi ora seriamente alla liberazione, e sarai presto scevro di ogni umana debolezza".

Avvertiti da Ananda che il Buddha era ormai moribondo, i Malla accorsero con le mogli ed i figli per rendere aI Tathāgata l'estremo omaggio. Venne anche un asceta girovago per nome Subhadda, che, dopo un colloquio col Buddha, chiese l'ammissione all'Ordine. Egli fu l'ultimo discepolo convertito personalmente dal Beato. Quindi il Buddha, rivolgendosi ad Ānanda, gli diede gli ultimi ammonimenti: "Potrebb'essere, Ananda, che vi venisse l'idea: ‛Il Maestro che c'insegnò la dottrina è scomparso; non abbiamo più Maestro!' Ma non dovete, Ānanda, pensar così. La dottrina e la regola che ho insegnate e divulgate, ecco i vostri maestri quando io non sarò più". Tornò sull'argomento delle regole disciplinari dando altre istruzioni, e finalmente disse ai discepoli, che gli facevano corona: "Qualcuno di voi ha forse dubbî o incertezze riguardo al Buddha, alla Dottrina, alla Comunità, alla via o al metodo di liberazione? Domandate, asceti, perché non dobbiate poi fare a voi stessi il rimprovero: ‛Il Maestro dimorò fra noi e non fummo capaci d'interrogarlo personalmente'".

Ma gli asceti tacquero. Ripeté la domanda una seconda e una terza volta. Lo stesso silenzio. Ormai sopraggiungeva la fine. "Su via, discepoli" riprese il Buddha "ascoltate quel che ancora ho da dire. Per natura transitorie son le forme dell'essere. Sia vostra difesa la vigilanza!" Furono le sue ultime parole. Percorse e ripercorse i varî stadî di concentrazione mentale, e dal quarto grado di meditazione estatica entrò nel nirvāṇa (circa 487 a. C.). Nello stesso istante sopravvenne un terremoto, e il tuono rumoreggiò. Dopo sei giorni di onoranze funebri, otto dei Malla più ragguardevoli trasportarono sul rogo il corpo del Buddha, che fu arso col cerimoniale conveniente a un dominatore mondiale. Sopra una parte delle reliquie concesse loro dai Malla, i parenti del Buddha scampati all'eccidio di Viḍūḍabha, se pur questo massacro è un fatto storico, eressero uno stūpa. Nulla vieta di credere che sia quello stesso esplorato dal Peppé nel 1898, come non è improbabile, nonostante autorevoli obiezioni, che l'urna di steatite trovata nel tumulo contenga i resti mortali di colui che scoperse la via del nirvāṇa.

Buddhismo

Enciclopedia del Novecento (1975)

di Giuseppe Tucci

Sommario: 1. Il Buddha e la sua dottrina. 2. Il buddhismo e la nuova situazione politica in Asia. 3. Il buddhismo in Asia: a) Sri Lanka (Ceylon); b) Birmania e Thailandia; c) Vietnam; d) Cambogia e Laos; e) India; f) Nepal; g) Cina; h) Corea; i) Formosa; l) altre scuole; m) Giappone; n) scuole di ispirazione politica; o) altre scuole moderne; p) lo Zen. 4. Il buddhismo in Occidente. 5. Il buddhismo in America. 6. Crisi interne nel buddhismo. 7. Il buddhismo e l'arte contemporanea. 8. Meditazione e psicanalisi.  9. Gli Occidentali e la meditazione buddhistica. 10. Crisi e prospettive del buddhismo contemporaneo. □ Bibliografia.

1. Il Buddha e la sua dottrina

Il buddhismo deve il proprio nome all'appellativo dato al suo fondatore: il Buddha, ‛colui che si è risvegliato alla conoscenza'. Di lui non conosciamo neppure il nome, perché Śākyamuni, ‛l'asceta della famiglia Śākya', è anch'esso un appellativo. Però sappiamo che nacque intorno al 560 a.C. da una famiglia di proprietari terrieri a Lumbinī (ora Rummindei) nel Terai (Nepal) e che morì fra il 486 e il 480. Conseguì l'illuminazione a Gayā, detta in seguito Bodhgayā. La leggenda che intorno a lui crebbe e le numerose aggiunte, o interpolazioni, a quella che si presume essere stata la sua dottrina non sono riuscite a modificare i punti essenziali della sua predicazione; questa fu tramandata, nei primi tempi, oralmente dai suoi discepoli (evaṃ mayā śrutam, ‛così fu da me udito') e poi codificata in successivi concili che provocarono diversi scismi.

L'insegnamento è semplice: tutto è impermanente (in pāli: anicca; in sanscrito: anitya), sia le cose, ciò che appare reale e a noi esterno, sia il complesso psicofisico; tutto è un susseguirsi e vario combinarsi di punti-istanti (dhamma, dharma). Al contrario di quanto affermano le correnti upanisadiche (da upaniṣad su cui si fonda gran parte della teorica dell'induismo), non esiste in noi un'entità metafisica come l'ātman, l'io; ne deriva il corollario dell'anattā; ‛non esistenza di un io eterno'; però ogni atto consapevole e voluto deliberatamente produce un effetto che fatalmente maturerà nella vita presente o nelle future; ogni individuo eredita, nel suo modo di essere e di pensare, le conseguenze del suo precedente, responsabile agire. Così si svolge un ciclo di nascite e di morti (saṃsāra) cui soltanto la conoscenza della dottrina predicata dal Buddha e la pratica di quest'ultima possono porre fine.

Vivere è dolore: come è detto nelle quattro verità da lui proclamate (āriyasaccāni, ār̄yasatyāni): verità del dolore (duḥkha), verità del suo sorgere in noi (samudaya), la possibilità della sua soppressione (nirodha) attuabile seguendo il cammino appropriato (mārga). Questo cammino si compie praticando la meditazione sullo svolgersi delle varie situazioni in cui l'uomo si trova, l'una, la presente, determinata dalla precedente, e a sua volta condizionante la seguente (paticcasamuppāda, pratītyasamutpāda); ignoranza (avijjā, avidyā) e agenti cooperanti coesistono nel meccanismo della persona umana (saṃskāra); poi la percezione (viññāna, vijñāna), quindi nāmarūpa, il dar nome alle cose e il percepirle come si presentano, i sei organi del senso che comprendono anche le reazioni consapevoli che essi ci suggeriscono (saññā; saṃjñā); queste determinano i nostri rapporti o contatti (phassa, sparśa) con gli oggetti che costituiscono le percezioni tattili; da queste ultime deriva la vedanā; cioè la reazione psichica e mentale causa della nostra tensione verso quegli oggetti, la nostra ‛sete' di essi (taṇhā, tṛṣṇā); da ciò l'appropriazione (upādāna); quest'ultima opera come elemento essenziale perché si determini in noi l'inserimento nel tempo-spazio, cioè nell'esistenza (bhava) con tutte le sue conseguenze: nascita, vecchiaia, morte, cioè dolore.

La meditazione su questa legge, dello svolgersi della vita, ci conduce a conoscere come si origina il dolore e il nostro essere nello spazio-tempo e quindi il desiderio di liberarcene. Non basta tuttavia la meditazione: occorre altresì una prassi morale molto rigida che si riassume nell'ottuplice sentiero: retto modo di vedere le cose, retto pensiero, retta parola, retta azione, retto modo di vivere, retto esercizio in ogni situazione, retta rinuncia, retta meditazione.

Il fine che il Buddha propone agli uomini è il nibbāna, nirvāṇa, estinzione nell'atemporale; ma egli non lo definisce, non afferma cioè che è né che non è, perché ciò equivarrebbe a costringerlo nei termini di una definizione verbale, mentre il nirvāṇa è una situazione che trascende la nostra ragione: è soltanto la soppressione definitiva del karma e perciò il superamento del saṃsāra. Così si fondò la prima comunità (San̄gha), vagante, soggetta alla disciplina di tutte le comunità ascetiche del tempo; essa poi diventò una comunità monacale. Non esiste differenza fra gli uomini: tutti possono essere accolti come discepoli. Con una certa riluttanza da parte del Buddha, fu permesso anche alle donne di prendere i voti.

Malgrado la scissione in diversi successivi indirizzi (diciotto già se ne noveravano nell'India antica), l'insegnamento elementare di Śākyamuni, sopra riassunto, ha rappresentato sempre il fondamento immutabile del buddhismo, al di sopra delle dispute teologiche; esso si riduceva a quei pochi assiomi ma costituì la fonte da cui dovevano scaturire circa duemila e cinquecento anni di sviluppo e di evangelizzazione; alle quattro verità su cui meditare e ai precetti morali da attuare faceva seguito la negazione di Dio; anche se in appresso gli dei apparvero nel Mahāyāna, di fatto essi sono immagini suscitate dalla nostra mente immatura e credula, ed emergono dal vuoto di un'indefinibile, incolore, luce-coscienza la quale è l'essere del Buddha. Non esiste l'anima, ma soltanto la responsabilità morale la quale, dopo la morte, agisce come forza di propulsione verso il futuro; le nostre azioni non si esauriscono.

La legge di causa ed effetto, che regola l'universo fisico, condiziona ugualmente lo svolgersi delle azioni umane: ciascuna di esse produce inevitabilmente il proprio effetto, e pertanto, siccome ogni azione è il risultato di una volontà consapevole, questa volontà è una forza che, nel momento della morte, proietta verso il futuro, carica com'è delle esperienze accumulate, un impulso che determina il formarsi di un altro complesso psicofisico, cioè un nuovo individuo, effetto del precedente. A ciò si aggiunga l'affermazione dell'uguaglianza di tutte le creature, collegate nel medesimo destino di vivere e morire, solidali, per questa sorte comune, nella stessa avventura; nella società umana, tale uguaglianza è appunto l'aprirsi del buddhismo a tutti, senza distinzione di caste o di classi; un universo dunque retto da un'inderogabile serie di principi etici e quindi dall'onnipotenza sovrana della propria responsabilità.
Quando il Buddha giaceva moribondo ed un discepolo gli domandò che cosa egli lasciasse dopo di sé, egli rispose ‟la mia propria parola". Nient'altro cioè che il suo insegnamento; ne veniva esclusa quale che sia deificazione; anche nel Mahāyāna tale principio resta immutato, perché alcuni suoi maestri identificarono (Dinnāga) il Buddha con la sua dottrina o con la pura essenzialità.

Nella vita, l'uomo ha il sostegno di alcune virtù che possono aiutarlo a raggiungere il nirvāṇa: sono le sei (o dieci) ‛perfezioni'; anzitutto la liberalità, il dono, la generosità, naturale effetto della maitrī e della karuṇā, simpatia e pietà, l'osservanza dei precetti morali, la costanza, cioè il non cedere, una volta deciso quale sia il proprio dovere, a nessuna lusinga e a nessun compromesso, a costo di ogni sorta di sacrifici. Quindi la pazienza; il vivere insieme implica la tolleranza e la comprensione degli altri ed è accettazione del proprio destino, perché questo ce lo siamo creato noi stessi; poi la meditazione; la situazione nella quale l'uomo vive è di distrazione o di dissipazione; egli è coinvolto in una serie di eventi che lo costringono a dimenticare quale sia il proprio destino; la meditazione aiuta l'uomo non soltanto a concentrarsi su quello che il Buddha ha insegnato, ma altresì a favorire un'analisi di se medesimo che chiarisca non soltanto ciò di cui è consapevole, ma anche esplori il mondo del subconscio. Il risultato sarà la conoscenza, mediante la quale possiamo conseguire la liberazione dal ciclo delle nascite e delle morti. L'uomo non ha nessuno cui pregare: basta il triplice ‛rifugio'. ‛Rifugio' nel Buddha in quanto da lui, come Maestro, deriva la scelta di sentirsi buddhista, suo scolaro e seguace, ‛rifugio' nella dottrina, (Dhamma, Dharma) da lui predicata, e ‛rifugio' nel San̄gha, nella comunità, intesa come l'insieme di tutti i fedeli non laici (upāsaka), di quanti hanno volontariamente rinunciato alla vita laica e perciò debbono rispettare precetti più rigidi e si dedicano alla meditazione e alla predicazione. La predicazione è rivolta a tutti, agli umili e ai potenti, perché tutti hanno il diritto di essere aiutati e salvati. Quindi non soltanto non si frapponevano barriere di casta ma neppure si ammetteva distinzione di sorta fra uomini di diversa origine o lingua o nazione.

Da queste idee fondamentali derivò una fervida attività missionaria ed evangelica che condusse il buddhismo a propagarsi in India e poi a Ceylon, quindi a conquistare l'Asia centrale, la Cina, la Corea, il Tibet, il Giappone e il Sud-Est asiatico. In questa sua diaspora il buddhismo non fu alieno dall'assimilare culti locali con cui veniva a contatto, o dall'accogliere abiti mentali delle popolazioni presso cui si diffondeva, sia per la sua tolleranza, sia per ragioni pratiche di penetrazione e infine anche per vantaggi economici, appena il Saṅgha proliferò in monasteri; perciò, purché i conversi avessero accettato i principi essenziali della dottrina, permise che essi seguitassero a praticare riti di esorcismo o di propiziazione delle forze occulte che li minacciavano e persino che rendessero omaggio ai dii minores cui per secoli avevano creduto, trasformandoli tuttavia in epifanie di deità buddhistiche.

Nella sua preoccupazione essenzialmente etica, il buddhismo antico non si interessò ad altri problemi, sebbene nella dogmatica più tarda troviamo incluse una cosmologia ed una cosmogonia, che, generalmente, riproducono gli schemi diffusi presso le altre scuole indiane. Tuttavia di questa parte non fece un dogma indiscutibile. Il Buddha resta sempre il Maestro, un uomo (soltanto fra gli uomini può nascere il Buddha, non fra gli dei dell'Olimpo indiano) che dopo anni di meditazione ha intuito, da solo, la propria Verità; questa non gli è stata rivelata da nessuno; è la scoperta di un uomo che l'ha tramandata ai discepoli, perciò si può discutere. L'antidogmatismo del Buddha è così espresso in un suo discorso: ‟O monaci, non accettate neppure la mia parola senza analizzarla, per mostrare rispetto per me".

Di contrasto fra buddhismo e scienza non esiste traccia; la scienza è una cosa nella quale il buddhismo non interferisce: la mente umana è libera di proseguire nelle proprie conquiste; il buddhista può accettarle o respingerle, perché tutto ciò non ha nulla a che fare con lo scopo che egli persegue. Il buddhismo, all'infuori del Tibet, non ha una Chiesa con un capo o pontefice; tuttavia, i grandi monasteri sono divenuti spesso potenti organizzazioni politiche ed economiche, come nel Tibet e nel Giappone; l'alleanza fra essi e i grandi proprietari terrieri e l'aristocrazia feudale era inevitabile: l'aderire alla setta arroccata in una serie di monasteri coinvolgeva i laici in una cooperazione, dalla quale entrambi traevano un reciproco vantaggio. Ma il popolo rendeva omaggio od offriva ugualmente donazioni in beni o di danaro indiscriminatamente all'uno o all'altro monaco che gli si presentasse, perché di lui e della sua sacralità era timoroso.
Il buddhismo è tuttora diviso in due gruppi che convenzionalmente si è usato definire, per molto tempo, Hīnayāna e Mahāyāna: ‛la via da percorrere da un più ristretto numero di persone' e ‛la via aperta al più gran numero di persone'. Non v'è nell'espressione Hīnayāna nessun senso limitativo o dispregiativo; ma è più esatto dire che nel buddhismo si distinguono due correnti: quella che preserva le tradizioni antiche, genericamente detta Theravāda, e il Mahāyāna, che comunemente si traduce ‛grande veicolo'. Ma le due scuole hanno spesso convissuto nello stesso luogo.

In senso lato si può sostenere che il Mahāyāna, anche se così non veniva chiamato ai tempi del Buddha o subito a lui posteriori, è quasi coevo con le origini del buddhismo com'era inteso e praticato dai convertiti laici (upāsaka) i quali, pur accettando il suo insegnamento, non del tutto abbandonano le superstizioni avite e che il Buddha aveva tollerato, consapevole che le masse non potevano d'un tratto rinunciare ai loro convincimenti, o riti o feste.

Questa duplice divisione s'impone perché il Mahāyāna, come formulazione dogmatica e teorica, è più tardo rispetto al Theravāda e altre sette affini e si è conformato lentamente, a mano a mano che il buddhismo si diffondeva in ogni parte dell'India e fuori dell'India. Il Mahāyāna prosperò, almeno fino al 1948, nel Tibet e nella Mongolia nella sua forma lamaista, e in parte anche in Cina fino al sorgere della Repubblica Popolare Cinese (1949); esso poi domina, diviso in diverse sette, in Giappone dove le scuole dell'altra corrente sono del tutto estinte, e anche nel Vietnam (dove penetrò, in epoca recente, anche qualche gruppo Theravāda). Il Theravāda, la scuola antica, lo si ritrova a Sri Lanka (Ceylon) che ne è il centro principale, in parte del Bangla Desh (Chittagong), in Birmania, in Thailandia. Tanto l'una che l'altra corrente possiede il proprio ‛canone' detto Tipiṭaka, Tripitaka (‛le tre ceste') cioè le tre raccolte: a) la rivelazione del Buddha, i suoi discorsi, la sua predicazione; b) le regole disciplinari; c) la parte dogmatica e speculativa (Abhidhamma, Abhidharma), certamente lentamente elaboratasi.

Dalle primitive modeste comunità, che vagavano elemosinando, si isolavano in romitori o parrocchie, si radunavano in luoghi prestabiliti durante la stagione delle piogge, si arrivò presto ad un'organizzazione monastica. Così ebbero origine i conventi. La fondazione dei conventi non soltanto modificò le tradizioni primitive, ma condusse ad un inserimento della comunità buddhistica nella vita sociale e politica; i monasteri ricevevano donazioni, furono fondati e protetti da mercanti e da dinastie, divennero potenti centri economici, possedevano vaste proprietà; perciò furono guardati con sospetto in Cina dove la loro ricchezza, la condotta non sempre ineccepibile dei monaci, l'influenza che essi avevano sulle masse, il fatto che la vita monastica sottraeva molta gente al lavoro e ai doveri civili, lo sciupio di metalli e di oro per le immagini indussero il governo a una vigile sorveglianza che causò anche persecuzioni, di cui alcune durissime.
Il buddhismo divenne religione di Stato nel Tibet perché la religione indigena, detta Bon, non rappresentò mai un ostacolo; essa anzi accetta molti principi dottrinali del buddhismo.

In Giappone i grandi monasteri in lotta fra di loro, ricchissimi, esenti da tassazioni, si inseriscono per diversi secoli come fattore determinante nella storia politica del paese. Il buddhismo vi prosperò a fianco della religione originaria, lo shintō; fin dai primi tempi avvenne un'osmosi fra le due religioni; divinità buddhistiche furono accolte dai seguaci dello shinto e viceversa. Anche dopo la rivoluzione Meiji (1858) prevalse, per legge, lo scintoismo, come religione di Stato, ma i buddhisti non ne ebbero a soffrire.
È impossibile dire quanti oggi siano i buddhisti nel mondo; nel Tibet, per esempio, la popolazione sembra in gran parte ancora seguire la religione avita, ma i monasteri e le istituzioni monacali sono scomparse. Se molti si dichiarano buddhisti, ciò non significa che il buddhismo sia da essi praticato secondo le regole o conosciuto nei suoi principi reali; viceversa in molti paesi, dove la situazione politica è cambiata, non pochi sono restati nei propri convincimenti buddhisti, sebbene apertamente non lo dichiarino. Da ciò deriva l'impossibilità di un calcolo approssimativo dei seguaci del buddhismo; secondo alcune statistiche recenti essi sarebbero fra i 170.000.000 e i 200.000.000.

2. Il buddhismo e la nuova situazione politica in Asia

Se il potere politico ed economico delle comunità buddhistiche nei paesi asiatici è diminuito, tuttavia nel momento attuale esse sono coinvolte nei moti che agitano la società nel Sud-Est asiatico, in Giappone, a Sri Lanka (Ceylon), in Birmania e in Thailandia. Il buddhismo non ha potuto ignorare le lotte che, fin dai primi di questo secolo, hanno agitato e sconvolto molta parte dell'Asia; alcune società segrete che prepararono il terreno alla rivolta dei Boxers furono di ispirazione buddhista (l'Associazione del loto bianco, ecc.).
Appena le prime ribellioni al colonialismo ebbero l'avvio e presero consistenza audaci correnti nazionaliste, il buddhismo le sostenne.

Nei paesi in cui il buddhismo è stato per secoli fiorente e predominante (gran parte dell'Indocina, la Birmania, la Thailandia, restata sempre indipendente, Sri Lanka), esso si assunse il compito di difensore dei valori spirituali e culturali che quelli avevano ereditato. In alcuni di questi paesi, come la Cambogia, la Thailandia e la Birmania, il re era, se non il capo, il protettore della religione, colui che la impersona, anche se a fianco al buddhismo si trovavano minoranze seguaci di altre fedi. La propensione a definirsi ugualitario e democratico trova la propria giustificazione nella predicazione del Buddha; appena nei paesi asiatici si organizzò una contrapposizione spirituale all'Occidente, il buddhismo la favorì. Fin dal 1913 il monaco Dharmapāla pose in rilievo i caratteri che distinguono il buddhismo dalle altre religioni e la sua tendenza a secondare il nazionalismo risorgente.

Il buddhismo è sociale ed umanitario; la stessa comunità monacale (Saṅgha) veniva retta da principi democratici, che essa era riuscita a salvare malgrado le vicende storiche; quella comunità monacale può aver avuto, nel corso dei tempi, rapporti di subordinazione o di prevalenza nei riguardi della cosa pubblica, ma la sua gestione era restata autonoma. Inoltre la dottrina predicata da Śākyamuni priva l'uomo dell'istinto della proprietà; anche quando i monasteri assunsero un grande prestigio economico, ciascuna comunità conventuale amministrava liberamente i propri beni; il monaco per se stesso non doveva possedere nulla: la proprietà apparteneva in toto al monastero.

Perciò non farà maraviglia che Laksmi Narasu proclami che il buddhismo è anticapitalista. Appena la Birmania acquistò l'indipendenza, il primo ministro U Nu, fervente buddhista, parteggiò per le correnti socialiste, affermò che il socialismo è la conseguenza dei principi sociali e morali del buddhismo e approvò la nazionalizzazione delle terre.

Più ardito ancora U Bu Swe; egli ritorna al concetto della doppia verità proclamata dal buddhismo: verità convenzionale, adatta cioè alla comprensione di tutti, e verità vera, riservata soltanto alle persone di mente più accorta e sottile; egli dunque sostiene che la verità convenzionale è il marxismo, mentre la verità vera è quella del buddhismo; è innegabile che il capitalismo esiste e proprio a questo Marx si oppone; ma se si tornasse all'insegnamento originale del Buddha, il capitalismo non potrebbe esistere, né vi potrebbe essere lotta di classe. Il rapporto fra marxismo e buddhismo è dialettico, né acquiescenza completa né opposizione. Altri ancora speculando sul buddhismo e sul marxismo vorrebbero dimostrare che il buddhismo è oltre il marxismo, ma nel senso che, per i suoi presupposti, l'uomo è sì nella società, che la società di tipo marxista è un ideale che tutela la dignità umana, ma che l'uomo, per il fatto che la sua condizione nel mondo e nel tempo dipende dal karma, è, in realtà, solo.

Quando si dice che non esiste l'anima si vuole intendere che non c'è un io statico e sempre identico, ma una continuità di azioni o modi di essere e di pensare separati, eppure indissolubilmente connessi e relati; se non esiste un ‛io' non ci può essere un ‛mio'. Questo elemento di coesione è rappresentato dal karma che non è di uno soltanto, ma di tutti e quindi condiziona un periodo storico e ne è a sua volta condizionato in questa tela di interrelazioni e multideterminanti componenti karmiche.

Il determinismo marxista muove da una situazione di assoggettamento dell'uomo, con l'intento di superano, per attuare una vera libertà. L'uomo non nasce libero, ma può soltanto divenirlo quando avrà superato la situazione morale, intellettuale e sociale nella quale si trova; quindi, per l'interrelazione sopraddetta esistente fra tutti gli individui di una determinata società, si avrà libertà quando queste situazioni sociali e morali saranno superate. Ma il punto essenziale di diversità fra le due posizioni, marxista e buddhista, consiste nel fatto che, mentre la prima considera soltanto la situazione economica, il karma involve tutte le attività umane e in primo luogo i valori etici; inoltre il karma e i suoi effetti sono polivalenti, non unidimensionali, in quanto investono completamente la persona umana e quindi rendono la conquista della libertà un fatto puramente individuale che, come tale, supera le situazioni obiettive storiche e sociali nelle quali l'uomo si trova a vivere. In altre parole l'uomo libero è l'uomo solo. Perciò il buddhismo viene considerato come una dottrina che ha punti di contatto con il marxismo ma ne supera l'unilateralità; tende ad una evasione singola che consiste nella piena realizzazione di ciascuno, con l'interruzione del processo karmico. Ma questo modo di pensare è proprio di alcuni teorici e non largamente condiviso,

3. Il buddhismo in Asia

a) Sri Lanka (Ceylon)

Dal 22 maggio 1972 è stata proclamata la nuova repubblica di Sri Lanka; essa ha denunciato la sua condizione di colonia della Corona britannica, ma resta nel Commonwealth; si è proclamata stato secolare nel quale si riconosce la preminenza del buddhismo, ma tutte le religioni sono ugualmente tollerate.
Nella Sri Lanka, dopo la conseguita autonomia, presero consistenza i movimenti che si proponevano di eliminare le sopravviventi ingerenze politiche ed economiche dell'Occidente, e di contrapporre la dottrina tradizionale buddhistica alla classe dirigente di formazione cattolica o protestante, che aveva maggior potere, perché più preparata culturalmente; allora, molti buddhisti, meno colti perché, specialmente quelli delle classi povere, avevano frequentato soltanto le scuole dei monasteri, si avvicinarono, per seguire una comune azione sociale, al trotzkismo; vi fu chi affermò che il marxismo è un foglio strappato dal buddhismo.

Questo perciò, pur propendendo, nella Sri Lanka, almeno in alcuni settori, verso interpretazioni trotzkiste, restò fermo nelle proprie posizioni; una forza autonoma che rappresentava un insopprimibile patrimoniò spirituale del paese. Esistono molti fattori a favore ditali tesi; anche se il Buddha nelle folle sperdute nei villaggi è oggetto di culto, resta sempre un maestro il quale, oltre che insistere sull'uguaglianza di tutti, inculcò il senso della carità, della compassione, della responsabilità morale, la solidarietà con tutto ciò che vive. In questi suoi principi si possono trovare le premesse di certe istanze che oggi si vanno dappertutto diffondendo: necessità di eliminare o ridurre la sperequazione delle classi, libertà di pensiero, dovere dell'assistenza sociale che spetta alla comunità, miglioramento delle condizioni economiche. Tali principi permisero a S. W. R. D. Bandaranaike, in Ceylon, di opporsi, come il rappresentante o il portavoce dei valori tradizionali del paese, a coloro che professavano una religione importata. Perciò egli combatté il Fronte Unito Popolare, troppo legato a una cultura non proprio indigena, e proclamò il buddhismo religione di Stato.

Naturalmente, anche i monasteri, con le loro ricchezze ed i loro privilegi, rappresentavano un ostacolo: essi volevano restare autonomi, senza nessuna ingerenza dello Stato, sia nell'amministrazione dei propri beni, sia nella conduzione delle loro scuole. Bandaranaike, associatosi nel governo Gunavardena, del partito di sinistra, fondò due università sul modello delle europee e un Ministero per gli Affari Culturali. Così egli si trovò ad avere contro di sé non soltanto i seguaci del Fronte Unito Popolare, ma anche parte della comunità buddhistica (Saṅgha), lesa nei propri interessi e nella propria autonomia. Considerato un Bodhisattva (cioè una persona incamminatasi con successo nella via che conduce alla condizione di Buddha) fu poi ucciso proprio da un monaco. Ma la vedova Sirimavo Bandaranaike, che gli succedette nel governo, attuò la nazionalizzazione delle scuole, presentò una legge che aboliva il privilegio concesso ai monasteri di non pagare le tasse, strinse rapporti diplomatici con la Cina, Hanoi, la Corea del Nord.

b) Birmania e Thailandia

Il buddhismo della scuola Theravāda ha antiche tradizioni in Birmania; non appena cominciò la lotta contro gli Inglesi i monaci buddhisti vi parteciparono attivamente e molti di essi furono anche carcerati. Conseguita l'indipendenza (1947) il buddhismo si riorganizzò con tendenze spiccatamente socialiste; il principale suo organizzatore fu U Nu. Egli convocò il Sesto concilio buddhistico e il 17 agosto 1961 proclamò, come primo ministro, il buddhismo religione di Stato, sebbene tutte le religioni fossero ugualmente ammesse e tollerate.

Le cose cambiarono quando il potere passò nelle mani del generale Ne Win, che accentuò il contenuto socialista del governo e cercò anche di limitare il potere dei monaci e proclamò la Repubblica Socialista della Birmania. La compatibilità del buddhismo e del marxismo non è un fatto nuovo nel Sud-Est asiatico e in Sri Lanka, ma essa ha avuto in alcuni pensatori birmani i suoi maggiori assertori (per es. U Ba Sue).
Nella Thailandia il buddhismo Theravāda è la religione di Stato, sebbene vi si trovino minoranze di tribù che tuttora seguono le proprie primitive tradizioni religiose, del tutto estranee al buddhismo, all'infuori di alcune contaminazioni avvenute per causa di contatti secolari.

Il governo svolge un'intensa propaganda mediante missionari che, sul modello di quanto hanno fatto altrove i cristiani, in parte insegnano e predicano, in parte svolgono opera assistenziale. Altri missionari dovrebbero convertire le tribù non buddhiste. La comunità è centralizzata e divisa in due gruppi: Mahānikāya (la grande setta) e Dhammayutuka-nikāya (la setta dei seguaci del Dhamma, la Legge buddhistica). Cotesta casta monacale ha al sommo un patriarca nominato dal re su proposta del Ministero degli Affari Religiosi. Egli è assistito da un Gabinetto di dieci membri e diviso in quattro dipartimenti: amministrazione dei beni della Chiesa, educazione, propaganda ed opere assistenziali. In un paese che ha una tradizione di cultura buddhistica molto antica, ma nel quale, soprattutto nelle province nord-orientali, incombono minacce di correnti comuniste, lo Stato ha cercato di rendere possibile ai monaci un'istruzione più adatta ai tempi moderni, di permettere cioè a molti di essi, educati nei monasteri sperduti nei villaggi, di ricevere un'educazione più adeguata e completa: tanto moderna che non sono mancate le critiche degli ambienti più conservatori, i quali vedono nei nuovi ordinamenti (in gran parte dovuti ad ispirazione americana) la tendenza a politicizzare i monaci. Nelle due università buddhiste Mahākuṭa e Mahāchulalongkorn ci si propone non soltanto di approfondire la conoscenza della lingua pāli, nella quale sono scritti i sacri testi, o della filosofia buddhistica, ma anche di estendere lo studio ad altre discipline: sociologia, economia, diritto, storia dell'Asia sud-orientale, archeologia. I monaci nei tempi passati vivevano nello stesso ambiente culturale del popolo; oggi, se la loro cultura non si adeguasse alle esigenze dei tempi moderni, verrebbe a crearsi un'incolmabile differenza fra essi ed i laici; i monaci quindi debbono trovarsi nel piano culturale alla pari con i laici.

c) Vietnam

Negli altri paesi del Sud-Est asiatico gli avvenimenti non permettono di seguire con precisione le vicende del buddhismo e i suoi rapporti con il pensiero e la vita politica dei popoli, perché monaci e laici, qualunque sia la loro fede, sono tuttora coinvolti in una situazione che non possono controllare.

I Vietnamiti del Nord e del Sud erano restati, nelle campagne, fondamentalmente fedeli alle proprie tradizioni animistiche, nelle quali si sono, nel corso dei tempi, inserite tre correnti: la confuciana, la taoistica, la buddhistica. Ma negli ultimi 70 anni il buddhismo ha preso il sopravvento. Dal 1931 esso si rinnovò nel senso che sulle liturgie popolari e sui riti propiziatori o esorcistici cominciò a prevalere una nuova corrente, favorita dai Francesi, più dotta, che si volse allo studio del buddhismo tornando alle fonti.
Dal 1931 al 1934 si fondarono tre associazioni buddhistiche che hanno tradotto opere dei vari canoni. Due scuole si affiancarono: la mahāyānica, più antica, e il Theravāda introdotto in tempi più recenti. Nel 1951 ebbe luogo a Hue un congresso nazionale buddhistico cui presero parte monaci e laici, si fondò un'organizzazione unitaria (Tong Hoi Phat Giao) che accolse i buddhisti del nord, centro e sud, pubblicò anche una rivista ‟Phat Giao Vietnam" (Il buddhismo vietnamita) e aderì alla World Federation of Buddhists, inviando giovani a studiare all'estero e partecipando a congressi a Tōkyō e a Rangoon. In seguito sorsero delle sette particolari, notevolmente impegnate nella lotta politica; la più importante fu quella del caodismo, che, pur avendo remote affinità con il buddhismo, ne è assai diverso e ad esso spesso si contrappose. Sotto Ngo Dinh Diem si accentuò la lotta contro il potere del dittatore e il buddhismo assunse sempre di più un carattere politico, assimilando la propria tradizione religiosa con il nazionalismo e opponendosi alla cultura straniera importata dal cristianesimo.

Dal 21 dicembre 1963 al 3 gennaio 1964 ebbe luogo un imponente congresso di buddhisti vietnamiti che condusse ad un'unificazione o piuttosto cooperazione fra le due scuole: quella del Mahāyāna e quella del Theravāda, e si fondarono una chiesa detta ‛Chiesa unita del buddhismo vietnamita', un Istituto degli Affari Religiosi e un Istituto per la Propagazione della Fede. La Chiesa unificata che mirava ad una collaborazione delle due correnti (Mahāyāna e Theravāda) sotto la spinta, in modo particolare, dei seguaci della prima si inserì nella vita politica del paese, convogliando le masse popolari nazionaliste e patriottiche. Ma fu appunto questa tendenza, espressa in forme più accese, che alla fine produsse la scissione e l'affievolirsi dell'importanza della suddetta Chiesa come fattore politico, sopraffatto dalle vicende belliche che sconvolsero il paese.

Neppure la guerra è infatti riuscita a ravvicinare i due gruppi, ma i buddhisti hanno spesso dato prova della sincerità delle proprie convinzioni con il sacrificio, dandosi fuoco, come testimonianza della propria fede.
Il suicidio dei monaci per mezzo del fuoco o in altro modo, di cui abbiamo avuto molti esempi nel Vietnam e che è stato imitato, come protesta, anche in Occidente, è suggerito in parte da un capitolo del Saddharmapuṇdạrīka (il ‟Loto della buona Legge") che ebbe molta fortuna nell'Asia centrale ed in Cina. Ma Bhaiṣajyaguru, del resto figura leggendaria e mai esistito, lo compì, secondo quel libro, come modo di venerare il Buddha eterno, non certo per ragioni politiche. Altri monaci si suicidarono nella stessa guisa in Cina per imitare le buone opere dei Bodhisattva, e per protestare contro persecuzioni o situazioni politico-religiose non approvate. Tale fu, per esempio, il caso di Tao-chi che, durante la dinastia dei Chou settentrionali (557-581), quando la corte ordinò la persecuzione del buddhismo, digiunò fino alla morte insieme con sei compagni, o di Ta-chih che ai principi del sec. VII esortò il re a sospendere il decreto di persecuzione del buddhismo, bruciandosi un braccio. Altri esempi di suicidio con il fuoco, come testimonianza dell'aver superato ogni attaccamento alla vita e intuito la vacuità del tutto, non sono rari nella letteratura buddhistica cinese. Sebbene il suicidio sia stato condannato dalle regole disciplinari, se ne ricordano casi anche in India ma in più scarso numero; è probabile che in Cina il suicidio religioso ricevesse uno stimolo dalle idee confuciane (Confucio disse ad uno dei suoi scolari che un uomo virtuoso non deve anteporre la vita al rispetto dell'onore).

d) Cambogia e Laos

Nella Cambogia il buddhismo Theravāda fu introdotto da tempi antichi; i monasteri, oltre ai propri compiti religiosi, assolvevano anche quello dell'insegnamento; poi, a poco a poco, con il sorgere delle scuole statali, diminuì il numero degli studenti che frequentavano quelle monacali; il buddhismo che si pratica è piuttosto elementare e si ravviva specialmente nelle feste o in occasioni particolari come i matrimoni o i funerali. I monaci possono ritornare a vita laica salvo a rientrare nei conventi come amministratori o maestri. Quando si costituì, nel 1935, il partito socialista, questo pose in rilievo il valore sociale del buddhismo ed entrò attivamente nella vita politica; Sihanouk fu promotore di un movimento detto Sangkum Reastr Niyum, ‛Comunità socialista popolare', che si propose di restaurare, con valore non più contemplativo ma sociale, la trinità: nazione, religione, re.
Anche nel Laos il buddhismo fu coinvolto nei movimenti politici; e nel Pathet Lao fu costituito un Ministero per gli Affari Religiosi. Durante il colpo di stato di Vientiane i monaci erano in testa alla dimostrazione contro l'America. Naturalmente in questi paesi del Sud-Est asiatico gli avvenimenti attuali hanno sconvolto la situazione religiosa e quindi, prima di esprimere un giudizio sugli effetti che in essi potrà produrre il buddhismo, occorrerà attendere la sedimentazione che avverrà soltanto a conflitto ultimato.

e) India

Il buddhismo in India si spense lentamente assorbito dall'induismo o sopravvisse, in forme piuttosto degeneri, in alcune parti fino a tempi recenti (Dharmaṅgala nel Bengala); la sua filosofia confluì in quella vedantica; le sue forme gnostiche (Tantra) si confusero con quelle śivaite. L'interesse per il buddhismo si risvegliò dopo le ricerche dell'orientalismo occidentale e la fondazione della Mahābodhi Society (originariamente Gayā Mahābodhi Society) per opera di D. Hewavitarne che, presi i voti, assunse il nome di Anāgārika Dharmapāla (morto nel 1933); la società ebbe il suo inizio con lo scopo principale di far risorgere Gayā, il posto dove il Buddha aveva conseguito l'illuminazione, sottraendola agli Indù; fu poi nel 1892 trasferita a Calcutta e dette inizio alle sue pubblicazioni: H. S. Olcott, E. P. Blavatsky e Annie Besant ne seguirono le sorti, sebbene la Blavatsky e la Besant finirono con il propendere verso le scuole indù e le correnti teosofiche. Dharmapāla intraprese un lungo viaggio di propaganda nel 1899 in molte parti dell'India e la Mahābodhi Society si adoperò perché altri centri sorgessero nei diversi luoghi consacrati dalla tradizione buddhistica. La sua attività consistette soprattutto nella predicazione, ma non si può dire che egli abbia esercitato un grande influsso sul popolo: piuttosto su intellettuali e studiosi che furono attratti dal buddhismo per curiosità scientifica o propensioni spirituali e che possedevano buona conoscenza del pensiero dell'india; fu così che, a poco a poco, si fondarono nelle università centri di studi buddhistici; uno dei primi fu quello della Vidyābhāvanā di Shantiniketan, voluta da Tagore; poi seguirono quelli di Calcutta, Bombay, Poona. Dopo l'indipendenza dell'India la società prese il nome di Mahābodhi Society of India; il suo centro resta a Calcutta, ma ha diramazioni e sedi a Bodh-Gaya, Sarnath, Nuova Delhi, Sanchi, Bombay, Lucknow, Kalimpong, Bangalore e in altri luoghi.

Un impulso nuovo venne dato al buddhismo da Ambedkar (morto nel 1956) che condusse a compimento l'opera intrapresa da Gandhi per la redenzione degli intoccabili. Egli ottenne l'iniziazione a Nagpur, poco prima della morte scrisse il libro Buddha e il suo Dhamma e in virtù della sua personalità, della fermezza dei suoi convincimenti, della sua attiva propaganda, persuase gli intoccabili, che l'induismo aveva escluso dalla società, ad accettare il buddhismo come propria religione. I paria accolsero con favore questo nuovo messaggio che era non soltanto religioso, ma politico e che presentava il Buddha come un rivoluzionario ed affermava tre principi fondamentali: libertà, uguaglianza, fraternità. Le statistiche hanno fatto ammontare il numero dei convertiti ad oltre tre milioni.

La semplicità dell'ammissione alla religione e della sua pratica (invocazione: onore sia al Buddha, il Beato, l'arhant, il perfetto svegliato; formula, recitata tre volte, del triplice rifugio: prendo rifugio nel Buddha, nella Legge da lui predicata, nella comunità; osservanza delle cinque regole: astensione dal fare offesa ad ogni creatura vivente, astensione dal furto, astensione da atti impuri, astensione dalle menzogne, astensione dalle bevande alcoliche) rese facile il successo. Naturalmente bisogna ben distinguere la conversione degli intellettuali, o degli studiosi che possono accedere alle stesse fonti della dottrina nelle sue forme più complesse, da quella della gente semplice, derelitta, spesso analfabeta, che parla diverse lingue o dialetti. La vera forza di coesione che tiene unite queste umili creature è la nuova dignità che sanno di aver acquistato ed in molti anche le implicazioni sociali e politiche che l'accettazione della nuova religione, se religione si può chiamare, conteneva. Non può tuttavia affermarsi che essa abbia sempre prodotto un mutamento radicale delle convinzioni religiose piuttosto primitive dei nuovi conversi. Da quanto si può dedurre dalle informazioni, di diversa origine e quindi di vario peso, sembra che mentre alcuni dei nuovi buddhisti, sperduti nei villaggi o ai margini delle città, hanno distrutto le immagini (qualche volta rappresentate da una pietra informe) delle loro deità avite, alle quali si offrivano spesso sacrifici cruenti, quasi per dar atto di ribellione o di una rottura con il passato, altri non sono riusciti a liberarsi dalle vecchie superstizioni, e pur dichiarandosi buddhisti seguitano a compiere riti ancestrali che con il buddhismo non hanno nulla a che vedere.

Ambedkar aveva fondato una Società per l'educazione del popolo e una Società buddhistica dell'India. La prima si rese necessaria perché l'India è uno stato laico e quindi nelle scuole indiane non si insegna nessuna religione; pertanto l'insegnamento religioso può avvenire soltanto al di fuori dell'orario prescritto e gli insegnanti sono monaci o laici, siano essi indiani, ceylonesi, thailandesi o anche tibetani. Vi sono dei Buddhācārya (‛Maestri buddhisti'), ai quali è affidata la parte rituale: consacrazione, imposizione del nome, matrimoni e liturgie funebri.

A questa comunità buddhista, che si ispira alle elementari norme del Theravāda, bisogna aggiungere i molti monaci e laici immigrati in India appena il Tibet fu conquistato dai Cinesi. Il Dalai-Lama fuggito dal Tibet nel 1959 vive in Dharamsalā e con lui i seguaci della setta dei dGe lugs pa (pronuncia: Gelukpa); i rÑiṅ ma pa (pronuncia: Nyningmapa) hanno il loro capo a Kalimpong; i bKa' brgyud pa (pronuncia: Kaghiüpa) in Dalhousie e in Darjiling e così via. La divisione fra sette, che nel Tibet non di rado era stata addirittura reciproca, irriducibile avversità, sta scomparendo in India; debbono ricordarsi l'Istituto di Studi Buddhistici nel Bengala a Buxa, e a Nuova Delhi la Tibetan House. Il Dalai-Lama è favorevole ad un programma che elimini le vecchie discordie fra le sette, a riorganizzare gli studi e i corsi dedicati alla meditazione e a introdurre l'insegnamento di altre lingue, o hindī o inglese. Oltre a questi gruppi ecclesiastici, esiste in India un gran numero di laici e di giovani tibetani occupati in diversi lavori, in villaggi appositamente ad essi destinati, ma non tutti tollerano fisicamente il clima umido e caldo dell'India. Naturalmente, malgrado gli sforzi che si compiono, questo buddhismo trapiantato in India fuori del suo ambiente naturale e posto a contatto con diverse culture subisce le conseguenze della mutata situazione. Essendo l'organizzazione monacale tibetana piuttosto chiusa, non c'è da pensare ad un'efficace opera di propaganda nelle masse indiane: al massimo alcuni tibetani che conoscono l'hindī potranno insegnare in alcuni centri, essere impiegati come assistenti nelle università dove esiste una cattedra di studi buddhistici, ma il buddhismo tibetano, nella sua maggior parte esoterico, non mi sembra possa avere grandi possibilità di successo. Esso rappresenta un modo di essere che non corrisponde alle mutate esigenze sociali e all'atteggiamento delle classi colte indiane, le quali cominciano a dubitare della loro stessa religione tradizionale, sebbene si glorino delle superbe costruzioni del loro pensiero filosofico, e si proclamano indú, in quanto ne rispettano i precetti teorici, e tuttavia non ne seguono più i riti e non hanno più fede negli dei antichi.

f) Nepal

Nel Nepal il Congresso nepalese, formatosi sull'esempio del Congresso indiano, riuscì ad abbattere il regime dei Rana, per riportare al trono la democrazia; agitato per molti anni da scontri fra vari partiti, fra i quali uno ispirato dal comunismo cinese, il Nepal subisce di riflesso il moto delle idee che si agita nell'India; ma la popolazione nel suo insieme resta fedele alle sue tradizioni religiose. I Nepalesi sono in parte indù e in parte buddhisti, specialmente seguono il buddhismo tantrico che ha molte affinità con quello tibetano. Le varie sette e scuole vivono in buon accordo e non si notano voci di protesta degne di rilievo; le vecchie tradizioni ancora resistono sebbene fra le nuove generazioni si noti un minor conformismo. Ma è troppo presto per parlare di una crisi religiosa del Nepal.

g) Cina

Quando i primi contatti con l'Occidente divennero più facili e frequenti, dopo il crollo del ‛Celeste impero', e fu proclamata la Repubblica Cinese (30 dicembre 1911), si riscontrano in Cina i primi tentativi di adeguamento del buddhismo alla nuova situazione. Da una parte il governo cerca di limitare la potenza dei monasteri e di ridurne o addirittura confiscarne le proprietà, dall'altra le comunità monastiche si accorgono del pericolo che esse corrono e vorrebbero rammodernarsi; esse aprono perciò scuole nelle quali si insegnano i primi rudimenti della scienza, si fondano ospedali e brefotrofi; è non soltanto una politica che subisce l'influsso della nuova situazione, ma anche un abile tentativo di salvare il salvabile, tanto più che le difficili condizioni economiche, in cui si dibatteva il paese, provocavano una sensibile riduzione dei contributi dei fedeli per i riti usuali, specialmente quelli funebri, e inoltre i contadini che coltivavano le proprietà terriere dei conventi si rifiutavano di pagare le decime. Sotto la spinta e il controllo della comunità si costituirono molte associazioni buddhistiche; a fianco a queste, ma indipendenti, si formarono pure associazioni di laici, le quali con l'aiuto degli iscritti o di altri benefattori aprirono scuole, ospedali, ospizi e favorirono riunioni settimanali, veri e propri servizi religiosi, nei quali si recitavano in comune le preghiere, si celebravano ‛giorni di digiuno', si recitavano o si facevano recitare e spiegare da monaci, di proposito invitati, alcune sacre scritture; queste erano scelte fra le meno complicate, e tali da accendere nei fedeli la speranza post mortem di facili beatitudini; la preferenza veniva data ad alcuni testi, come quelli del ‟Paese felice" (Sukhāvatī), che celebrano le glorie del paradiso di Amitabha. La situazione della comunità religiosa, la quale era stata considerata in Cina un'istituzione che rispondeva alle esigenze spirituali di larga parte del popolo, ma che lo Stato teneva sempre sotto il proprio controllo, ebbe tutto l'interesse a mantenersi estranea a quale che sia movimento politico: era infatti combattuta fra l'aspirazione a non esser del tutto privata dei privilegi, assicurati da tradizione secolare, e la consapevolezza dei mutamenti radicali attesi dai giovani. Questi ultimi infatti sempre più numerosi si distaccavano dalla religione, qual era rappresentata dai monasteri, come da consuetudini antiquate; perciò la comunità era in una situazione difficile, dovendo barcamenarsi fra i vari governatori provinciali, i generali che si alternavano, la simpatia o l'antipatia delle persone al potere, l'invasione giapponese (1937). Inoltre di fronte al risorgere del Theravāda si era ritrovata in posizione di svantaggio.

Vi furono tuttavia uomini di grande levatura, come Yang Wen-hui, i quali tentarono di seguire l'esempio di Dharmapāla e si proposero di preparare persone capaci di svolgere un'opera missionaria o di prendere contatti con buddhisti di altri paesi. Però, mentre queste missioni non ebbero quasi nessun risultato, la Cina apriva le porte a quelle straniere; infatti le sette giapponesi Jōdo Shinshū e Higashi Honganji inviarono in Cina alcuni loro rappresentanti e i Cinesi più che missionari furono per forza di cose costretti a mandare discepoli in Sri Lanka, Burma, Thailandia per meglio studiare il buddhismo nei suoi diversi aspetti. Questa era una decisione importante perché il Mahāyāna in Cina, come nel Tibet, aveva avuto per il Theravāda scarsa considerazione ed ora quest'invio di monaci cinesi nei paesi dove il Theravāda era fiorente significava un tentativo di ritorno alle origini. Tuttavia è interessante notare come dalla fine del secolo passato, fino al trionfo della Repubblica Popolare Cinese (1949), il buddhismo cinese comincia ad uscire dal proprio isolamento, avverte la necessità di rinnovarsi, di organizzarsi in forme che non di rado tradiscono imitazioni delle organizzazioni missionarie cristiane.

La persona nella quale meglio si esprime quest'ansia di riforma è T'ai-hsü (1890-1947), fondatore di una rivista ‟Hao-ch'ao-yin" (1920), promotore di una conferenza mondiale del buddhismo a Lu-shan, desideroso di indebolire la potenza dei monasteri o per lo meno di dare maggior peso alle attività sociali e missionarie che alle liturgie o ai riti, che facilmente tralignavano in esorcismi e magia; egli visitò l'Europa e l'America, promosse l'istituzione di una Unione mondiale dei buddhisti e nel 1945 divenne il capo dell'Associazione buddhistica della Cina.

Dopo l'avvento della Repubblica Popolare Cinese Mao Tze-tung affermò, in principio, che la religione non si può abolire con un decreto amministrativo: occorre soltanto rimuovere a poco a poco le ragioni delle sue incongruenze e dimostrare la sua inutilità. Occupato il Tibet, il governo della Repubblica Popolare Cinese assicurò che il Dalai-Lama sarebbe restato nella sua carica e che la religione sarebbe stata rispettata. Ciò fu la conseguenza di un calcolo politico, perché Mao Tze-tung era consapevole che molta parte dell'Asia era buddhista e che sia nel Sud-Est asiatico sia nel Giappone il buddhismo era stato introdotto dalla Cina insieme con la vasta mole della sua letteratura canonica. Nel 1952 alcuni buddhisti cinesi furono invitati ad una conferenza per la pace dei popoli asiatici; il tibetano Šes rab rgya mts'o (pronuncia: Sherapghyatsho) fu eletto presidente di una Società buddhistica, che si rivolgeva soprattutto ai tibetani; il buddhismo non poteva essere, si disse, in opposizione alla nuova democrazia, perché rappresentava una visione della vita in se stessa rivoluzionaria; i monaci però invece di dedicarsi ai riti liturgici dovevano inserirsi nel nuovo sistema sociale, secondare le riforme, diventare maestri di scuola. In seguito, di fronte alla resistenza dei monaci tibetani, si ricorse alla maniera forte; il Dalai-Lama fuggì dal Tibet; anche il Pan c'en Lama, la maggiore autorità spirituale tibetana, il grande abate di Tashilhünpo, che i Cinesi stessi avevano educato, ma che non volle seguirli fino alle estreme conseguenze, cadde in disgrazia e non si seppe più nulla di lui. Tuttavia pare che dal 1952 al 1962 i comunisti spesero per restaurare i templi una somma corrispondente alla media di quanto nello stesso periodo elargiva la dinastia Ch'ing (1644-1912) con la differenza che i monaci erano costretti a servizi di Stato, e non più a pregare, come allora, per la longevità e il bene dei grandi burocrati. Vi furono nel 1950 e 1952 a Pechino e altrove recitazioni di libri sacri (Vajracchedikā) contro i demoni imperialisti o per assicurare la vittoria in Corea. Nel 1955 i monaci raccolsero firme contro la bomba atomica: il monaco Pen-huan ridorò una statua del Buddha per onorare i patrioti e per invocare la pace; ma l'iniziativa venne poi dichiarata illegale e Pen-huan venne arrestato nel 1958.

Nel 1964, ricorrendo l'anniversario del nirvana del Buddha, il vice-primo ministro Ch'en Yi con sua moglie si recarono a far visita al tempio di Kelaniya in Ceylon; secondo i riti tradizionali, a Pechino, Shang hai e Lhasa si fece il bagno della statua del Buddha; nel mese di marzo fu celebrato il 1300° anniversario della morte del celebre pellegrino cinese Hsüan Tsang (602-664) che nel VII secolo, traversando l'Asia centrale, si recò in India per raccogliere libri e studiare la situazione del buddhismo; nello stesso anno furono ricevute missioni buddhistiche da tutti i paesi dell'Asia: Cambogia, Ceylon, Giappone, Laos, Sud e Nord Vietnam, Indonesia, Mongolia, Nepal.

Fin dal 1951 era stato creato un Ufficio per gli Affari Religiosi con diramazioni in tutto il paese e nel 1953 un'Associazione buddhistica cinese sotto la presidenza di Yüan-ying, già a capo dell'Associazione buddhistica fondata nel 1924. In realtà l'ufficio era un organo che si opponeva alle comunità (Saṅgha) e che dirigeva la confisca dei beni dei monasteri, costringendo i monaci a svolgere altre attività della vita sociale e a coltivare la terra; i riti religiosi furono considerati pratiche superstiziose; sembra che dopo il 1957 nessuno venne più consacrato monaco. L'Associazione buddhistica per mezzo della sua rivista, soppressa nel 1965; diffondeva idee laiche e antireligiose; vi si scriveva che l'ideale del Bodhisattva è il lavoro; il concetto dell'‛io', che il buddhismo aveva ripudiato, si attua nella vita collettiva. Il paradiso di A mi t'o fu (Amit̄bha) è la società comunista; la stessa compassione inculcata dal buddhismo si manifesta anche nell'uccidere i cattivi per salvare i buoni; è un principio che trova la sua giustificazione in alcuni libri classici del buddhismo stesso (il mahāyānico Mahāparinirvāṇasūtra). Per ragioni politiche e soprattutto di politica estera fu fondato un Istituto buddhistico cinese che era di fatto un organo di propaganda politica.
Con la rivoluzione culturale tutto ebbe fine. Nelle attività buddhistiche sopra ricordate vi sono al fondo due cause: la prima è un tentativo, del resto fallito, dei monaci di inserirsi in qualche modo nel nuovo ordinamento sociale, profittando del non ancora sopito sentimento religioso delle masse; la seconda, da parte del governo, è la suddetta ragione di politica estera, la volontà di non accrescere i motivi di preoccupazione o di timore nei paesi buddhistici dell'Asia.

h) Corea

In Corea il buddhismo era stato introdotto dalla Cina, in tutte le sue forme e scuole; anzi, per quanto concerne la diffusione del buddhismo, la Corea fece da tramite fra la Cina ed il Giappone. Ma sotto la dinastia Yi (1392-1910) il confucianesimo aveva preso il sopravvento e il buddhismo, che aveva subito anche delle persecuzioni, s'era ritirato sopratutto nei luoghi di montagna. Durante l'occupazione, nell'ultima guerra, i Giapponesi favorirono il buddhismo, ma lo tennero sotto un rigoroso controllo, nominando essi stessi gli abati dei principali monasteri. Dopo la fine della guerra si determina un risveglio; i monasteri ricchissimi d'opere d'arte sono restaurati, l'interesse per il buddhismo rinasce: naturalmente si intende il buddhismo mahayanico, perché soltanto le scuole di quest'ultimo erano rimaste. Il presidente Rhee era d'opinione che il decadimento del buddhismo fosse dovuto al fatto che i monaci non rispettavano più l'antica regola del celibato ed impose (1954) che essi non dovessero sposarsi. Ma in pratica la norma non è regolarmente seguita. E neppure sopravvivono le antiche sette introdotte un tempo dalla Cina. Nello stesso tempio si possono recitare i sūtra o praticare le liturgie delle differenti scuole. Nell'università buddhista di Dongguk i professori sono generalmente uomini sposati e non celibi e il buddhismo si insegna sui testi e non in forma apologetica. A Seul è stata aperta un'Organizzazione Centrale del Buddhismo (setta Chogye) di cui fanno parte i monaci celibi, che si propone di rammodernare la religione, renderla più consona allo spirito dei nuovi tempi, e sovraintende ai monaci e alle monache. Essa è affiancata da due organi: l'uno amministrativo, l'altro giuridico, che sorvegliano l'amministrazione, le finanze e la disciplina; gli iscritti recitano le preghiere, si confessano, si prostrano per centinaia di volte innanzi alle immagini del tempio, ma buona parte del tempo loro e dei discepoli è dedicato agli studi; la meditazione Zen sembra occupare un posto preminente; lo studio stesso si orienta verso indagini scientifiche più che teologiche. Vi è anche un'associazione, che comprende parecchie migliaia di studenti, la quale svolge attività sociali come la diffusione del pensiero e della prassi del buddhismo e l'insegnamento, perché il loro motto è ‟in alto, pensare all'illuminazione, in basso, educare le creature". Si pubblica altresì un giornale ‟Il buddhismo coreano".

A fianco a questo buddhismo ufficiale, si trova una setta, quella del buddhismo Won, fondata da Soe-tae San (1891-1943), la cui dottrina esalta il Dharma-kāya, il cosiddetto ‛corpo del Buddha' cioè il piano dell'essenzialità, rappresentato da un simbolo nero su un fondo quadrato. Oggi la setta pare conti qualche centinaia di migliaia di seguaci e molti luoghi di culto; la sua dottrina è rivolta al popolo, i libri buddhistici su cui si basa sono tradotti in coreano parlato; è una setta aperta a tutti, laici e monaci che non hanno l'obbligo del celibato; il Buddha è immanente in ciascun essere o cosa, nel perpetuo divenire dell'universo; su questo si deve meditare per attuare in se medesimi l'unità della nostra personalità, indissolubile coesistenza di materia e spirito.

i) Formosa

Nell'isola di Formosa ritroviamo il buddhismo quale era conosciuto in Cina. L'Associazione buddhistica pubblica un giornale, ‟Fo-hsüeh-yüan"; esistono pure un Istituto per gli studi buddhistici e un altro per lo studio della filosofia cinese, ma il popolo pratica un buddhismo non privo di contanimazioni con culti e credenze tradizionali; d'altro canto si riscontra una notevole indifferenza nei riguardi del problema religioso, cui si contrappone presso gli intellettuali un desiderio di purificare il buddhismo e di restituirlo alla primitiva chiarezza e semplicità. Le persone colte sono cioè propense a riconoscergli una validità scientifica e filosofica da seguirsi per quanto concerne sia il lato etico sia l'analisi della realtà delle cose: nel medesimo tempo riconoscono che il buddhismo non è l'espressione di un pensiero soltanto cinese, ma un vincolo che accomuna i credenti in un credo di carattere universale. Il numero dei buddhisti nell'isola di Formosa è difficile a calcolare soprattutto perché molti si dichiarano buddhisti, senza sapere che cosa sia il buddhismo.

l) Altre scuole

Non debbono tacersi alcune scuole sincretistiche ma con forti elementi buddhisti che, nate in Cina, sono tuttora vitali presso le comunità cinesi del Sud-Est asiatico e specialmente Malaysia, Thailandia, Indonesia. Tale è ad esempio la religione del ‛perfetto vuoto' (Chung-k'ung Chiao) fondata nel 1862 nel Chiang-hsi da Liao Ti-p'in (1827-1893), laico di formazione confuciana, che divenne poi monaco Ch'an (Zen) e si considerò incarnazione del Wu-chi, il Non-essere. Allora si distaccò dal buddhismo e creò una setta sincretistica che si propagò rapidamente: fino a pochi anni fa si contavano circa 180 chiese.

Sebbene il Non-essere ricordi il wu e il Tao dei taoisti, non è dubbio che il fondatore della scuola sia stato influenzato dal buddhismo, soprattutto dalla scuola Ch'an (si confronti il suo ‛Vuoto' e il ‛Vuoto' delle scuole Mādhyamika), sia pure giuntogli con la mediazione di testi più accessibili e popolari. Questa scuola predica altresì la prossima fine di un ciclo cosmico (kalpa della concezione buddhistica-indù). Avversa l'adorazione delle immagini, stimola ad opere di carattere assistenziale, promuove la riabilitazione dei fumatori d'oppio.
Nella Mongolia esterna, dopo la rivoluzione, molti monasteri furono distrutti, ma nel 1958 alcuni furono riedificati. Nel 1961 O. Lattimore trovò nel monastero di dGa' Idan (pronuncia: Gandin) un centinaio di monaci; è stato riaperto il grande monastero di Urga (ora Ulan Bator) e s'è ridestato, per opera dell'Accademia mongola, un notevole interesse per il buddhismo; ma questo interesse è soprattutto scientifico con il proposito di raccogliere e pubblicare tutto ciò che resta della letteratura nazionale, ispirata in gran parte al pensiero buddhistico o di contenuto storico-genealogico. Lo scopo è evidente: cercare di avviare sulle basi dell'antica unità culturale un pan-mongolismo da opporsi alla Cina.
Anche in Russia la situazione sembra mutata; il buddhismo del Mahayana aveva seguaci presso i Calmucchi e i Buriati i quali erano in parte lamaisti; ciò ha indotto i Russi a rinunciare alla tolleranza che in un primo tempo avevano mostrato, cercando di convogliare i buddhisti a loro soggetti nel marxismo. Ma nel 1945 sembra che alcuni templi buddhisti siano stati ricostruiti. Ora gli studi buddhistici sono molto fiorenti in Russia, specialmente le ricerche sul lamaismo tibetano.

m) Giappone

Il paese dove il buddhismo presenta tuttora segni di maggiore vitalità è il Giappone: una vitalità che mira a profonde riforme, e cui corrisponde, nell'ultimo cinquantennio, il sorgere di nuove sette, tutte ramificazioni delle già esistenti; alla crescente semplicità dei mezzi di espressione o liturgici si accompagna lo stimolo allo sviluppo di una personalità umana più completa, sinceramente attiva, ansiosa di inserirsi nella vita sociale e anche politica: religione fondamentalmente aperta ai laici, quasi secolare.

In Giappone convivono tre religioni o dottrine: la tradizionale e aborigena cioè lo shintō; il buddhismo, che venne introdotto da Shōtoku Taishi (che regnava in nome della zia Suiko Tennō, 1593-1621) e si divise in molte scuole, alcune meditative, altre esoteriche, altre combattive e inclini ad intervenire nella vita pubblica, o addirittura a controllarla; infine la teorica neoconfuciana, che pone l'accento sui doveri dell'uomo verso la società. Recentemente anche il cristianesimo.

È una convivenza pacifica che, per quanto concerne shintō e buddhismo, ha tradizioni antiche di buon vicinato e di confluenze reciproche.

Durante lo Shōgunato Tokugava (1600-1868), il buddhismo, che aveva proliferato in molti modi contrastanti, venne irreggimentato nel senso che le famiglie dovettero raggrupparsi intorno ad un tempio; così il paese si trovò diviso in una serie di parrocchie; le singole sette ricevettero favori e sovvenzioni, ma furono private di ogni potere politico concentrato nel governo, largamente influenzato dal neo-confucianesimo e dallo shintō. I templi sorvegliavano le varie associazioni di carattere laico, professionale e religioso e disimpegnavano un compito quasi notarile (registrazione delle nascite, morti, matrimoni), controllavano e organizzavano le feste, celebravano i funerali; così vi erano due poteri dai quali il cittadino dipendeva: quello dei Daimyō - il principe feudale - cioè l'autorità laica o dello Stato e quello religioso. Tuttavia ciò non impedì che una scuola derivata da quella della ‛Terra pura' cioè lo shinshu fondato da Shinran Shanin (1173-1262) si organizzasse in modo da assumere un potere, in alcuni casi superiore a quello dei Daimyō. Era una setta i cui capi si succedevano ereditariamente, perché ai seguaci non era imposto il celibato.

All'inizio dell'epoca Meiji (1858) si sostituì alle tre religioni o modi di pensare, lasciati alla libera scelta dei fedeli, nella quale il governo non interveniva, una religione che non era di fatto una religione: lo shinta di Stato, incentrato nel trono imperiale simbolo dell'unità nazionale che ripudiò il Ryōbushintō; cioè lo shinto per secoli vissuto a fianco del buddhismo con reciproca tolleranza e notevoli scambi di dei e di liturgie. Inoltre si ebbero allora movimenti antibuddhistici.

Ciò finì con il produrre un risultato contrario: anzitutto le masse restarono nella propria fede, e l'élite buddhista (per es. Fukuda Kyodai, 1806-1888) trovò in questo movimento antibuddhistico lo stimolo per sottrarre il buddhismo agli eccessivi contatti con il mondo politico ed economico che lo avevano tenuto lontano dalla purezza degli insegnamenti predicati dagli antichi maestri. Si determinò pertanto una tendenza a ricercare i principi veri e sicuri del buddhismo; ne derivò, anche sotto l'influsso della ricerca filologica occidentale, un desiderio di tornare alle fonti; si studiò il sanscrito e il pali allo scopo di acquistare una conoscenza diretta dei testi su cui il buddhismo era fondato; il risultato fu una proliferazione inconsueta di pubblicazioni scientifiche di grande valore, di traduzioni in giapponese del canone cinese, di enciclopedie che sono insuperabili strumenti di lavoro.

Questo stato di cose produsse una specie di scissione: da una parte i dotti che si attengono alla purezza dogmatica, basata sulla comprensione di testi difficili, ma nell'insieme una modesta cerchia di persone che non possono avere grande influsso sulle masse; dall'altra il popolo che fa professione di buddhismo, ma di un buddhismo nel quale prevalgono le correnti esoteriche, le superstizioni, le complicazioni dei riti funebri, il conformismo e il disinteresse per la dottrina nelle sue strutture teologiche.

A ciò si aggiunga, nel dopoguerra, la soppressione dell'esenzione delle tasse, concessa prima ai monasteri. Il crollo dell'ordinamento delle antiche parrocchie, e la migrazione della gente dai villaggi nelle grandi città costituirono nuove cause di questa situazione. D'altra parte, non può negarsi che è sempre esistita una corrente restata fedele a quell'ideale nazionalista che dalla rivoluzione Meiji si è rafforzata nel Giappone; essa si propone di eliminare le scorie accumulatesi intorno alla tradizione buddhistica, e considera il buddhismo come una forza spirituale e morale capace ancora, come alle origini, di espandersi e di colmare il vuoto prodottosi nella società moderna agitata da continue tensioni, volta ad altri interessi e dominata dalla scienza pura e dalla tecnica.

Non è il caso di insistere troppo su qualche filosofo la cui opera è accessibile a pochi, ma la cui importanza consiste nell'aver tentato di riconciliare il pensiero buddhistico, spesso forzatamente, con alcune correnti speculative dell'Occidente; ma non si può tacere il nome di Nishida (morto nel 1945); egli intende Dio come contraddizione in sé o l'assoluto: intrinseca identità con la contraddizione di se medesimo. Dio si contrappone come negazione assoluta a se stesso, in una corrispondenza o relazione di polarità diversa. Quindi, siccome è l'assoluto Nulla, è anche l'assoluto Essere. La sua filosofia è l'incontro o lo scontro del buddhismo mahāyānico (soprattutto Zen) e delle correnti speculative occidentali, specialmente del pensiero kantiano e dell'esistenzialismo.

Non può dunque passare inosservata la progressiva laicizzazione del buddhismo; questo non è più il monopolio di una casta sacerdotale, gelosa delle proprie liturgie o custode combattiva delle proprie posizioni dogmatiche: è un patrimonio spirituale a tutti comune; non si può più parlare di rinuncia; il buddhista dovrebbe realizzare nel consorzio civile la propria umanità in un'assoluta dedizione ai suoi simili.
Il sistema sopra accennato della dipendenza delle famiglie da rispettive parrocchie, che rappresentava una specie di unità tra famiglia e tempio, ha subito un grave colpo. La riforma del 1948-1950 produsse gravi conseguenze nei riguardi dei monasteri che possedevano terre ma non le coltivavano; e i templi poveri non ricevettero più dai proprietari di terre le stesse donazioni di prima; inoltre lo spostamento di molta parte della popolazione nei grandi centri, la sempre maggiore indipendenza delle donne e la loro maggiore educazione, il confluire di esse nelle città in cerca di occupazione influirono molto sulla tradizione familiare: alla famiglia unita, incentrata sotto l'autorità paterna e materna, legata a tradizioni antiche si sostituirono i singoli nuclei separati.

I dogmi di alcune scuole teologiche vengono respinti perché stabiliscono privilegi od esclusioni che contraddicono il principio dell'uguaglianza, essenziale nel buddhismo: l'uomo è fatto per agire e la sua fede lo redime. Hanno torto pertanto quelle sette le quali pretendono di escludere dal consorzio buddhistico certe categorie di persone a causa della professione che esercitano: per esempio i macellai. Il buddhismo non condanna l'azione, ma la sublima: la contemplazione è per pochi, non per tutti.

La scuola di Nichiren (1222-1282), che ispira molte correnti moderne, non fu contemplativa ma attiva e fin dal tempo della sua fondazione ebbe parte preminente nelle lotte per la difesa degli interessi del paese; al contrario, le scuole amidiste (culto di Amitābha), in virtù della teoria della grazia, promettevano la salvazione a chiunque invocasse, con fede sincera, il nome del Buddha; il monachismo poi aveva indotto ad un deprezzamento del lavoro rispetto alle esaltazioni mistiche o alla rinuncia o alla liturgia.

Ora i nuovi valori e obblighi sociali (non senza resistenza, ma sempre minore, da parte dei difensori della tradizione) sono dalle correnti rinnovatrici caldeggiati come espressione, non soltanto della dignità umana, ma persino del servizio del Buddha. Un seguace dello Zen afferma che la condizione di Buddha si consegue mediante il lavoro, perché non esiste lavoro che non sia una pratica buddhistica. Insomma si avverte in Giappone un'insistenza sulla vita vissuta, nella sua complessità di obblighi e doveri; alle liturgie incentrate nel culto di Amida (Amitābha) si contrappone un rinnovato senso della vita sociale; gli insegnamenti del Buddha debbono essere volti al miglioramento di quest'ultima; la rinascita nel paradiso di Amida è secondaria rispetto ai doveri che la società o la famiglia esigono. Questa convinzione è assai viva presso le persone più inclini ad una profonda riforma, le quali trovano in una larga solidarietà umana l'attuazione del messaggio di Śākyamuni, una solidarietà che dovrebbe interessare non soltanto il Giappone, ma estendersi a tutta l'umanità; non si tratta di una solidarietà teorica, ma di una solidarietà positiva che mira ad eliminare sia le differenze di classe sia le disparità economiche. Insomma il buddhismo dovrebbe investire tutta la vita.

La liturgia passa in secondo posto rispetto a questa esigenza urgente e necessaria; così soltanto il buddhismo si può sottrarre al conformismo rituale o all'inerzia in cui una tradizione secolare l'ha costretto. Per tale scopo sono sorte molte società e organizzazioni promosse specialmente dai giovani, uomini e donne (l'Associazione delle donne, la Lega dei giovani, ecc.).

Le formule tradizionali sono ormai superate: i testi classici del buddhismo sono stati tradotti nella lingua moderna, non sono più un privilegio di pochi; le sette debbono trovare un punto d'incontro in questa progressiva modernizzazione, che si propone non soltanto di eliminare le veccbie controversie, ma di ritornare alle origini. Il buddhismo primitivo, quello probabilmente predicato dal Buddha, non presentava complicazioni dogmatiche, anche se ha dato origine a infinite successive speculazioni; esso è di una semplicità elementare, come del resto è elementare l'invocazione del nome di Amida (Amitābha): quasi un richiamo alla identità di tutti gli uomini che si deve riscoprire e a quella fondamentale semplicità della natura umana in cui questa si ritrova nella sua essenzialità, la sua ‛buddhità' che la distingue da altre esperienze; la distingue, ma non la esclude; l'Oriente e l'Occidente non si affrontano come due culture reciprocamente chiuse e ostili, ma al contrario si incontrano come due modi di vita che possono intendersi e collaborare.

Per le nuove generazioni non hanno senso i contrasti teologici e dottrinali; i monasteri sono diventati, più che meta di pellegrinaggio, luoghi di convegno durante i giorni festivi per la bellezza dei posti in cui sorgono e la magnificenza delle opere d'arte che contengono. Nell'insieme tuttavia il buddhismo alimenta una sincera deferenza nei riguardi delle tradizioni spirituali, vive nel fondo degli animi, che tanto hanno contribuito alla formazione del carattere e della cultura giapponese.

Il sistema delle parrocchie che legava le famiglie ad un tempio è per forza di cose in declino, le entrate dei monasteri si stanno esaurendo, il monaco presta servizio nel tempio per i riti abituali, ma spesso ha altre e più proficue occupazioni; in alcune scuole Shin si proclama che l'illuminazione si apre a tutti, senza distinzione fra preti e laici; è una religione ‛basata sulla casa'. Ma anche se molti appartenenti alle classi colte non sanno bene che cosa sia il buddhismo o la dottrina della scuola cui dichiarano che la propria famiglia appartiene, difficilmente si sottraggono ai riti della setta nei momenti più importanti della vita: nascita, matrimonio o morte. Maa questo vuoto, avvertito da molti, si vuole sostituire qualche cosa d'altro: un'ispirazione religiosa che stimoli ad agire, una fusione fra religione e vita. Non deve dunque meravigliare se alcune di queste organizzazioni si sono mutate in movimenti politici.

n) Scuole di ispirazione politica

Tale è il partito Sōka Gakkai che si riconnette con la setta di Nichiren (ramo Nikkan - 1665-1725), il combattivo monaco dell'epoca Kamakura (1185-1333). La cosa non sorprende: Nichiren fu oltre che un rinnovatore un grande patriota; in lui la fede si congiunge con un entusiasmo pugnace; d'altra parte in Giappone predomina una coscienza collettiva che tutti unisce nella medesima dedizione al paese; anche i rinnovamenti estremisti lottano per una piena indipendenza, che elimini le ingerenze straniere di ogni origine e carattere. Il saka Gakkai fu fondato da Makiguchi Tsunesaburo (1871-1944) intorno al 1930 e poi, sotto l'impulso di Toda Jōsei (1900-1958) ha superato i 12.000.000 di seguaci. La sua bibbia è l'Hokkekyō (Saddharmapuṇḍarīka) e la sua formula di preghiera è ‟Namu Amida Butsu": ‟Onore sia a Amida Buddha", il compassionevole Buddha del paradiso d'Occidente. Ma a questo spirito religioso si congiunge l'attività politica, una coincidenza di principi religiosi con gli interessi della vita nazionale e il miglioramento sociale mediante un'autoelevazione; infiltratosi fra i lavoratori, il Sōka Gakkai si affermò dopo il primo scontro con i proprietari delle miniere dell'Hokkaidō: i seguaci sono organizzati militarmente.

Il Sōka Gakkai si incentra nel daimoku, la formula: ‟Omaggio al sūtra della Santa Legge" (Saddharmapuṇḍarīka). Questa formula deve mutare l'atteggiamento mentale e spirituale, la personalità insomma dell'adepto, suscitare in lui nuove esperienze, sincerità di fede e responsabilità, messe alla prova e stimolate da un gran numero di vigili missionari. È un insegnamento carismatico; i missionari si propongono non soltanto la salvezza del singolo ma di tutti; i seguaci hanno ramificazioni dappertutto e si esaltano nelle radunanze annuali nel Taiseki-ji presso il monte Fuji, nelle quali si cementa la solidarietà degli iscritti e si canta in coro il daimoku (tremila volte al giorno).

Il Sōka Gakkai ha un notevolissimo peso politico; la sua emanazione è la ‛federazione' politica, che ha i propri rappresentanti nella Camera e costituisce una forza che non si può ignorare; il suo programma è semplice: unità della legge laica ed ecclesiastica; rispetto della dignità umana e benessere del popolo mediante un socialismo umanistico; garanzia dei diritti dell'uomo, libertà di parola, libertà di pensiero e libertà di religione; lotta contro la corruzione politica.

o) Altre scuole moderne

Nel 1914 Tanaka Chigaku fondò un movimento che si può definire una religione popolare a sfondo nazionalista; ma dopo la guerra esso si propose come scopo essenziale l'ottenimento della felicità umana e della pace; il Giappone è il paese eletto, nel quale è apparso Nichiren, l'ultima manifestazione del Buddha sulla terra; il carattere nazionalista è evidente nel proporre una specie di cooperazione fra il messaggio di Nichiren e il trono imperiale, il Tennō. La scuola si chiama Nichirenshugi, ‛l'esser seguaci di Nichiren ; l'aspetto messianico della setta è comune ad un'altra: il Nihonzan Myōhonji Daisanga; quest'ultima fu incline, fin dal principio, ad un apostolato che ne diffuse la predicazione e l'attività anche fuori del Giappone, non soltanto nei paesi allora controllati dal Giappone (Manciuria, Corea, Cina), ma anche in India. Dopo la fine della guerra, essa abbandonò il carattere combattivo e si trasformò in una corrente pacifista, che predica l'amore e la concordia fra tutte le genti. Nella ‛pagoda della pace' essa raccoglie i propri fedeli per la recitazione del nome dell'Hokkekyō (Saddharmapuṇḍarīka).

Un altro movimento notevolmente importante è il Risshō Kōseikai ufficialmente fondato nel 1948 da Niwano Nikkyō e da una donna, Nagamuna Myōkō. Anche questa scuola prende le mosse dall'Hokkekyō e nei suoi inizi non fu esente da contaminazioni con superstizioni e magie sempre vive nel popolo, ma pose in primo piano la liberazione dal dolore, quale esso sia e anche dall'indigenza, come presupposto necessario per conseguire una umana perfezione. L'Hokkekyo resta l'ispirazione iniziale, ma in quanto vi si rivela la verità eterna di cui Śākyamuni è stato l'apostolo, perché quella verità eterna si era incorporata in lui. Nel loro tempio principale si trova una grande immagine del Buddha, quale simbolo della verità che Śākyamuni ha reso manifesta agli uomini.

La setta rappresenta un tentativo di tornare al buddhismo originario mediante la rivelazione mahāyānica. Con ciò lo si sfronda di ogni mito e lo si interpreta come una dottrina etica e sociale: il nirvāṇa non è una situazione extraumana indefinita e indefinibile, ma come un'armonia che congiunge in sincerità e amore tutte le creature, solidali in una pace universale, mediante l'annullamento di ogni egoismo, e la conquista di una libertà che è abbandono al supremo essere. Questo essere è il ‛vuoto', lo ‛sūnya' del Mahāyāna, la grande vita e sorgente dell'Universo, si chiami esso Dio o Buddha. Non si può parlare di un culto vero e proprio: i seguaci si raccolgono a discutere insieme sui principi della scuola, su problemi etico-religiosi, ascoltano discorsi sugli stessi argomenti, praticano una specie di confessione pubblica, riconoscono l'unità essenziale di tutte le religioni, tolleranti verso tutte le fedi; il culto dei morti, così importante in Giappone, consiste soprattutto nei ricordarli e onorarli due volte al giorno, spesso raccogliendosi in silenzio per due minuti; è un movimento anch'esso pacifista che tuttavia insiste sulla separazione fra religione e politica.
Anche la scuola Reiyūkai (fondata ufficialmente nel 1925 e il cui primo presidente fu una donna) si ispira all'Hokkekyo; essa richiede ai fedeli una vita buona al servizio della società. È una corrente che tollera, anzi favorisce, culti popolari, è largamente influenzata dalla tradizione magico-religiosa e celebra riti di origine shintō, religione con la quale è più di ogni altra scuola buddhista in stretto rapporto. Nonostante la sua derivazione dalla setta di Nichiren e l'importanza soterica riconosciuta all'Hokkekyō; il bodhisattva cui è particolarmente devota è Miroku (Maitreya). È dunque una corrente di chiare tendenze popolari, che tuttavia inculca nei seguaci l'amore del prossimo, svolge attività sociali secondo l'indirizzo che prevale ormai in quasi tutte le scuole giapponesi, non escluso neppure lo Shingon; questa è la setta più esoterica, nella quale si compiono ancora, secondo una tradizione secolare, liturgie e riti complicati, e si fa uso dei maṇḍala (psico-cosmogrammi con figure di divinità o lettere) com'è consuetudine in tutte le scuole tantriche o gnostiche, che appunto lo Shingon rappresenta in Giappone.

Una derivazione dello Shingon è la scuola Gedatsukai che pone al centro della sua dottrina la liberazione non più, al modo del buddhismo antico, dal ciclo delle nascite e delle morti, ma la liberazione da tutto ciò che è male, penoso, la soppressione di ogni preoccupazione o di ogni causa che di questa possa esser l'origine. Ciò allo scopo di attuare un bene comune, uno stato di serenità, di purezza d'animo, un paradiso sulla terra, una realizzazione di quelle ricchezze spirituali che si trasformano in felicità propria e di tutti.
Come si vede nel buddhismo giapponese si riscontra anzitutto la grande vitalità della scuola di Nichiren, la quale, pur ramificandosi in vario modo, resta l'ispiratrice di molte delle correnti o scuole nuove, anche se nei particolari queste se ne allontanino ; il testo fondamentale che le accomuna è l'Hokkekyō (Saddharmapuṇḍarīka), un libro che non ha avuto in India, per quanto sappiamo, la stessa fortuna che ha goduto in Asia centrale, in Cina ed in Giappone; insieme con esso si ricorre a libriccini brevi che celebrano Amitābha (A mi t'o fu, Amida), il Buddha che regna nel paradiso d'Occidente, la Sukhāvatī.

È un buddhismo semplificato, liberato dalle strutture dialettiche e teologiche e dalle complicazioni esoteriche: la fede intensa e sincera basta da sola a vincere la ferrea legge del karma e ad annullarla. Questo buddhismo è per le masse, ispira la fiducia che la devozione o la semplice invocazione del Buddha Amitābha e del titolo dell'Hokkekyō - che riassume la quintessenza dell'insegnamento supremo del buddhismo - possano operare il miracolo della salvazione, non più del singolo ma di tutti; un umanesimo che ha convogliato in sé le aspirazioni dei tempi moderni e le ha fatte proprie fino ad inserirsi nella lotta politica. Insomma, sia pure inconsapevolmente, tutto ciò sembra instillare quasi un senso messianico nel buddhismo nipponico, il quale può anche fornire una giustificazione ideale a quel fervore di attività di cui il Giappone offre un innegabile esempio.

Ma questo ideale umanistico di cui le scuole giapponesi sono ispirate è attuabile? Esse difficilmente possono promuovere un movimento ecumenico perché troppo legate alle tradizioni di un paese o addirittura ad un libro come l'Hokkekyō o al convincimento che la sola invocazione del suo titolo possa trasformare, dal fondo, lo spirito, le tendenze, le aspirazioni di tutti i popoli. Questo sarà possibile dove siffatti ideali si sono realmente espressi nella vita di una nazione: ma come pensare che, restando sempre nel buddhismo, i Theravadin traggano la stessa ispirazione soterica dall'Hokkekyō o credano nel paradiso di Amida?

p) Lo Zen

Ben diverso è il caso di un'altra scuola che del resto è la più conosciuta in Occidente, lo Zen. Questa fu introdotta in Giappone dalla Cina dove fu chiamata Ch'an e ad una originaria ispirazione indiana sovrappone notevoli influssi del pensiero cinese specialmente taoista.

Lo Zen esprime forse meglio di altre correnti quella che si potrebbe chiamare la quintessenza del pensiero mahāyanico reinterpretato dalla speculazione e dalla mistica cinese e giapponese; per dirlo con le parole di Shenkei Shibayama lo Zen è ‟una specie di mistica esperienza personale che non può essere conseguita pensando secondo la nostra comune ragione dualistica, ma è affermata intuitivamente da quel potere spirituale unitario che esiste nel profondo della natura umana". Esso rappresenta un'opposizione alle inibizioni e repressioni non soltanto imposte da una società molto formale e normativa, ma alle stesse complicazioni che avevano avviluppato il pensiero e la prassi buddhistica: è insomma un tentativo di superamento della tensione, o meglio conflitto, fra due componenti che coesistono, contraddicendosi, nell'esperienza umana: il finito e l'infinito. Lo Zen è in altre parole un'evasione, un esistenzialismo asiatico che prende le mosse da una tradizione millenaria di pensiero e di mistica, che ha tuttavia in sé un valore universale: ciò spiega appunto l'interesse che ha suscitato in Occidente e anche il successo che riscuote specialmente nelle giovani generazioni: non a caso J. Kerouac e molti altri scrittori si proclamano seguaci dello Zen, sebbene cotesto loro Zen abbia ben poco a che vedere con quello dei monaci nipponici o la laboriosa meditazione e la disciplina della loro vita. In Giappone (e fuori del Giappone) esistono molte comunità e gruppi Zen, frequentati da giovani i quali, senza votarsi alla vita monacale, traggono dalla concentrazione mentale Zen un beneficio psichico e spirituale: uno di questi centri è il Sanzen Club presso l'Università Komazawa. Questa corrente riconduce lo Zen allo stesso Śākyamuni, non nega il valore delle scuole disciplinari (Ritsushū) né di quelle che si incentrano in alcuni testi dottrinali (Kyōshū), ma considera lo Zen come una sintesi capace di esprimere e facilitare una resistenza morale ed utili adattamenti del buddhismo alle nuove aspirazioni della società.

4. Il buddhismo in Occidente

In Occidente il nome del Buddha compare per la prima volta in Clemente di Alessandria; nel Medioevo l'eco della sua vita giunge traverso una mediazione iranica nella leggenda di Barlaam e Joasaph di Giovanni di Damasco; in Joasaph è facile riconoscere la corruzione di ‛Bodhisattva'; cotesta leggenda ebbe molta fortuna e circolò in molte lingue.

In seguito, Marco Polo, a Ceylon, raccoglie notizie sul Buddha e conclude che se fosse stato cristiano ‟sarebbe divenuto un gran santo". Poi le informazioni sul buddhismo sono fornite dai missionari, di solito poco favorevoli; la liturgia lamaista è da essi considerata una demoniaca parodia di quella cattolica: l'unica eccezione è il gesuita Ippolito Desideri di Pistoia che mostra molto e imparziale interesse per il buddhismo tibetano e ne traduce la grande Summa, il Lam rim c'en mo di Tsongkhapa, poi confutandolo. Perciò il giudizio di Voltaire, basato sulle Lettere dei missionari, non può essere che negativo o inadeguato. Lo stesso può dirsi di Hegel il quale ignorando i valori etici della dottrina predicata dal Buddha afferma che ‟il Buddha propone il disprezzo dell'uomo", mentre, come si è detto, è proprio il contrario, e peggio ancora scrive che ‟un uomo sia considerato Dio è una concezione delle più ripugnanti". Schopenhauer più accorto, a differenza del Renan, si accorge che il nirvāṇa non è il nulla, ma l'opposto del saṃsāra, il giro delle nascite e delle morti, il quale è privo di ogni carattere che possa servire alla definizione del nirvāṇa stesso, ma a torto considera buddhismo e cristianesimo come religioni affini per il loro fondamentale pessimismo.

Per quanto concerne una prima conoscenza scientifica del buddhismo, l'Inghilterra con l'Hodgson, residente inglese nel Nepal, contribuì a fornirne le prime valide conoscenze nei riguardi del Mahāyāna, come si praticava nel Nepal.

Alexander Csoma de Körös si recò nel Tibet (1823) mosso dalla convinzione di trovare colà le origini del popolo ungherese; egli non poté entrare nel Tibet vero e proprio, ma visse a lungo nel Ladakh, nello Zanskar e soprattutto nell'alta valle della Sutlej (Kanam), dove studiò a fondo il canone tibetano, esplorò e fece un riassunto della letteratura religiosa del Tibet, compose un dizionario e contribuì insieme con gli altri ricercatori, che lavoravano su fonti cinesi o indiane, a diffondere una più adeguata conoscenza del pensiero lamaista.

Le lezioni di E. Burnouf al College de France e la sua Introduction a l'histoire du buddhisme indien (1844) rivelavano un nuovo mondo spirituale; il Michelet vi trovò la predicazione di una dottrina parallela alla cristiana e si felicitò che la ‟scienza occidentale fosse di nuovo rischia- rata dal sole dell'India".
E. Arnold in Light of Asia (1879), con il fascino della sua poesia suscitò un vasto interesse nel pubblico colto non soltanto di Europa, e favorì indirettamente l'urgenza della ricerca metodica; tale fu quella intrapresa da T. W. Rhys Davids che, come funzionario inglese a Ceylon, aveva intrapreso lo studio approfondito del buddhismo Theravāda e del canone pālico (il suo libro sul buddhismo fu pubblicato nel 1878). Nel 1881 fu fondata la Pali Texts Society. L'opera di Rhys Davids fu continuata dalla moglie, C.A.F. Rhys Davids, la quale dette nuovo impulso alla società stessa e diresse oltre alla pubblicazione dei testi anche quella di alcune traduzioni. La Pali Texts Society, che ancora continua; è un centro al quale i migliori studiosi di buddhismo Theravāda e conoscitori del pāli di tutto il mondo occidentale e orientale cooperano; speciale ricordo deve farsi del libro dell'Oldenberg sulla vita del Buddha, tuttora valido.

A poco a poco la buddhologia diventa una scienza; i pensatori o gli storici delle religioni non possono ignorarla. Nietzsche chiama Zarathustra un ‟risvegliato", ma poi, dopo l'intuizione che gli balenò ‟dell'eterno ritorno", preferisce alla liberazione dalla reincarnazione la sua nuova scoperta; l'ideale dunque non è più il nirvāṇa, ma il riverificarsi delle stesse situazioni nello stesso luogo e nel medesimo modo in una specie di saṃsāra, ma sottratto all'imprevedibile effetto del karma. Tuttavia la rinuncia al nirvāṇa rappresenta l'essenza stessa del Bodhisattva; il Superuomo nietzschiano ha molti punti in comune con il Bodhisattva: soprattutto la sua libertà e la sua indipendenza da quale che sia ingiunzione esterna, la negazione di ogni norma religiosa e sociale perché egli ha attuato in sé l'ideale della suprema perfezione. Lo studio del buddhismo si diffonde; dallo studio si passa alla conversione; l'inglese Bennett (1872-1923) prende i voti e assume il nome di Ananda Metteya, il tedesco A. Gueth (1878-1957) va a Ceylon, viene iniziato alla vita monacale assumendo il nome di Nyānatiloka, e diventa uno dei massimi interpreti della filosofia del buddhismo ceylonese; il suo esempio è seguito da altri (Nyānaponika); nel 1891 si apre a Calcutta la Mahābodhi Society che nel 1950 si allarga nella World Federation of Buddhists (W.F.B.). La primitiva Buddhist Society of Great Britain and Ireland (fondata nel 1907) nel 1924 si trasforma nella Buddhist Society e quindi nella Loggia Buddhistica. A quest'opera di diffusione del buddhismo ha dato grande impulso Ch. Humphreys, il quale ha allargato i suoi interessi, perché non si limita soltanto al Theravāda, ma si occupa anche del buddhismo Mahāyanico e ultimamente ha volto la propria attenzione anche allo Zen.

I centri buddhistici si moltiplicano in Europa. K. E. Neumann in Austria intraprende la traduzione delle opere buddhistiche del canone ceylonese, seguito in Italia dal De Lorenzo che si converte al buddhismo e lascia, poco prima di morire, il testamento della propria fede. Anche il cristianesimo ha cambiato il suo atteggiamento nei riguardi del buddhismo; il padre Guardini pone il Buddha fra le massime figure religiose, anche se in molti punti le due religioni divergono. Nel medesimo tempo i buddhisti orientali rinnovano l'apostolato dei tempi antichi: il promotore ne fu il già ricordato Dharmapāla. T'ai-hsü propone il buddhismo come il messaggio della fratellanza umana.

Nyānatiloka partecipò al Sesto concilio buddhistico che ebbe luogo a Rangoon nel 1956-1957 (2.5000 anniversario del nirvāṇa del Buddha) e affermò la necessità di una nuova edizione critica del canone palico e di accurate traduzioni; morì durante il congresso, ma il suo scolaro Nyānaponika, anch'egli tedesco, divenuto monaco a Ceylon è autore di molte traduzioni e libri di grande valore per la comprensione del pensiero buddhistico. A questo indirizzo, prevalentemente volto allo studio del Theravāda, si accompagna ora anche un intenso interesse per lo Zen, interesse al quale diede inizio R. Otto. Questi recatosi in Oriente pubblicò nel 1923 un saggio sulla meditazione zazen e ne trasse motivo per chiarire il suo concetto dell'irrazionalità o paradossalità della mistica.

Il divulgatore infaticabile dello Zen fu tuttavia D. T. Suzuki che espose il valore spirituale dello Zen e soprattutto del satori, cioè del risveglio subitaneo esploso improvvisamente da un paradosso (kōan); ma egli ha troppo insistito sulla scuola subitista (Rinzai) e trascurato altre come quella Soto che si incentra sul zazen, una meditazione progressiva o piuttosto un'introspezione graduale, la quale rivela al meditante la realtà essenziale di sé e del tutto; lo Zen è non soltanto vita contemplativa ma anche di lavoro, quasi al modo dei monaci benedettini.

La prima società buddhistica si costituì in Germania nel 1903 dove venne pubblicata anche una rivista. La Buddhistische Haus in Frohnau fu fondata nel 1924 da P. Dalke, non soltanto per lo studio ma anche per la meditazione, mentre già esisteva una Buddhistische Gemeinde für Deutschland sorta per opera e sotto l'auspicio di K. Seidenstücker e Grimm. Sospesa l'attività durante il periodo nazista, nel 1952 ebbe origine una Società buddhistica tedesca con sede principale a Stuttgart, la quale raccolse i seguaci delle diverse scuole senza più attenersi unicamente al Theravāda. La corrente mahāyānica, specialmente quella di tradizione tibetana, si espresse nell'Ārya Maitreya Maṇḍala fondata da E. L. Hoffmann che, presi i voti, assunse il nome di Anāgārika Govinda e passò molto tempo in India nella regione himalayana e anche nel Ladakh. Egli è il maestro (ācārya) di questo gruppo che rappresenta la più avanzata delle correnti mahāyāniche cui si contrappongono gruppi di origine giapponese della scuola Jōdo Shin-shū.
I Tibetani che sono fuggiti dal Tibet non soltanto hanno trovato rifugio in India e nel Nepal, ma molti di essi sono stati accolti in paesi europei. Ve ne sono in Germania, in Inghilterra e in America; la più numerosa colonia è forse quella che si trova a Rikon presso Zurigo dove è stato costruito anche un tempio con lama della scuola dGe lugs pa (pronuncia: Gelukpa) i quali regolarmente vi compiono i propri riti. Una Vajrabodhi Society prospera in America (Bloomington, Ind.) e pubblica un suo bollettino (‟The Tibet Society bulletin").

5. Il buddhismo in America

Il paese nel quale il buddhismo si è maggiormente diffuso e prima che altrove è l'America. Fin dal secolo passato Giapponesi e Cinesi immigrarono in California e colà eressero i loro templi ed esercitarono il proprio culto; quando l'immigrazione fu proibita, cotesta immigrazione si spostò verso le Hawaii, dove essa continuò e da dove, in seguito, poté liberamente riprendere il proprio cammino verso l'America; missionari e propagandisti giapponesi si trovano nelle Hawaii fin dagli ultimi anni del sec. XIX, e organizzano centri notevoli con templi, scuole, istituti. Tutto ciò spiega come le principali scuole giapponesi siano rappresentate in America, soprattutto lo Zen nelle sue ramificazioni: Rinzai e Sōtō, quella Shingon, altre del Honganji, quella di Nichiren (1222-1282) e quella della ‛Terra pura', Jōdo (incentrata nel culto di Amida).

Tale inserimento delle comunità buddhistiche nella società americana e i matrimoni misti hanno prodotto notevoli mutamenti se non nelle strutture, ravvivate dalle frequenti visite di monaci dal Giappone, per lo meno nella liturgia che non è stata del tutto esente, almeno nell'aspetto esteriore, da contaminazioni con il culto cristiano. Né i missionari erano tutti giapponesi; il già ricordato Dharmapāla partecipò al Parlamento delle religioni che ebbe luogo nel 1893 a Chicago; il suo intervento suscitò molto interesse, proprio mentre dall'Europa penetravano le prime opere divulgative e scientifiche del buddhismo; quindi ai templi buddhisti già esistenti in America si aggiunse anche una sede della Mahābodhi Society; poi sorsero molte associazioni buddhistiche: The American Buddhist Academy, The American Buddhist Association a Chicago, a Berkeley, a New York, a Cambridge (Mass.). A queste associazioni, cui parteciparono i simpatizzanti del buddhismo, fa riscontro il grande interesse per uno studio scientifico del buddhismo, cui, in questi ultimi anni, hanno contribuito notevolmente le ricerche favorite e intraprese in molte università.

Inoltre esiste in America, fondata di recente, una Società del Vajrayāna, nella quale tutte le principali scuole di questo indirizzo sono ammesse. Vi insegnano la tecnica della meditazione e spiegano i testi alcuni monaci venuti da Hong Kong. Gli adepti europei prendono nomi cinesi.

Anche il Sāka Gakkai ha ramificazioni a Los Angeles, San Francisco, Hawaii, Hong Kong, nel Sudamerica, nelle Filippine, pubblica giornali a Los Angeles e a Okinawa e diffonde la propria dottrina in varie altre parti del mondo.

Dunque il buddhismo sembra incline a intraprendere un nuovo apostolato che svolge con scritti, periodici e missioni, venendo incontro alla curiosità o al desiderio di molti Occidentali di sperimentare nuove forme spirituali e religiose.

6. Crisi interne nel buddhismo

Tuttavia anche il buddhismo si trova in crisi; questa crisi è stata determinata da molti fattori: l'ultima guerra che ha sconvolto l'Est e il Sud-Est asiatico, gli attuali avvenimenti nell'Indocina, il celere contatto con il pensiero occidentale, l'invasione della tecnica, lo sconvolgimento delle comunità rurali, l'attività riformatrice e combattiva delle nuove generazioni, il prevalere degli interessi economici, la tendenza al rinnovamento che agita dovunque gli ordinamenti sociali e politici e scuote le tradizioni antiche, siano esse culturali o religiose. Tuttavia, e ciò accade soprattutto in Giappone, si riscontra una presa di coscienza buddhistica più sana, meno legata al passato, incline a rinnovamenti i quali sembrano indicare una reviviscenza del buddhismo. A ciò si aggiunga la critica cui le varie correnti buddhistiche sono sottoposte dagli stessi credenti: tutto il passato viene riesaminato e discusso.

Le nuove generazioni, guidate da un'élite di intellettuali, ritornano al buddhismo antico, agli insegnamenti del Buddha, nella loro essenzialità morale, privati delle sovrastrutture determinate dall'espansione in paesi di varia cultura, e dalle vicende storiche. Non può negarsi infatti che in certe sue forme, come le mahāyāniche, il buddhismo si presenta con un pantheon immenso, con immagini di dei che appaiono assurde: molte teste, molte braccia, aspetti terrificanti; queste divinità polimorfe hanno sopraffatto l'immagine serena del Buddha meditante, gli occhi volti non all'esterno, ma all'interno per esplorare i misteri dello spirito. Naturalmente quelle immagini, che si moltiplicano all'infinito nei templi mahāyānici, hanno un significato soltanto per chi le sa intendere; nella maggior parte sono simboli, o meglio ancora sintesi figurate di libri esoterici, intesi a facilitare, quando se ne intenda il senso, la pronta liberazione e un sollecito conseguimento del nirvāṇa.

Alla mente occidentale, le complicazioni rituali e yoga che essi presuppongono e che negli iniziati aiutano un processo psico-fisico che ci solleva dallo spazio-tempo, in cui siamo, al piano che è fuori dello spazio-tempo, restano incomprensibili. Ciò spiega la repulsione che molti viaggiatori hanno provato visitando i templi lamaisti del Tibet, della Mongolia, della Cina e anche le gallerie delle immagini sacre che si ammirano in molti santuari giapponesi appartenenti alle medesime scuole mahāyāniche o gnostiche; per non dire delle immagini accoppiate, maschio-femmina, così comuni nelle scuole esoteriche, il cui significato altissimo anticipa alcune conquiste della moderna psicanalisi; si può rimproverare agli ideatori di tali raffigurazioni l'esser ricorsi ad una simbologia erotica per esprimere concetti che con l'erotismo non hanno nulla a che fare, perché quell'accoppiamento vuoi dire tutt'altra cosa; infatti il significato di siffatta iconografia è proprio quello di riconoscere che la libido, come l'intelligenza o la necessità dell'azione, insite in noi, può altresì essere, mediante l'analisi contemplativa, non già repressa - cosa che costituirebbe un maggior pericolo - ma trasfigurata, volta a un transfert, a una sublimazione che ci liberi dal nostro esser qui, e può agire come forza soterica per ritornare all'Essere, Coscienza pura, essenziale, nella quale si estingue ogni individualità.

7. Il buddhismo e l'arte contemporanea

L'arte moderna contemporanea buddhista segue generalmente gli schemi tradizionali, anche se si possono citare esempi di influenze occidentali, soprattutto in Giappone; ma, mentre l'architettura degli edifici pubblici segue sempre più apertamente i modelli europei ed americani, quella religiosa non si è discostata dagli schemi usuali (Higashi Honganji, circa 1895). Nei riguardi della pittura il discorso è diverso. Fino all'epoca Meiji (1868) i Giapponesi seguirono i modelli ispirati generalmente dalla Cina, preferendo in modo particolare il paesaggio; le rappresentazioni delle deità buddhistiche contenute negli schemi iconografici tradizionali, specialmente quelle a colori, non subirono mutamenti notevoli; in seguito, i contatti con il mondo occidentale, la presenza di pittori, anche italiani, come il Fontanesi, additarono nuove vie e si determinò pertanto un grande interesse per la maniera di dipingere europea. A questa tendenza si opposero O. Tenshin (1862-1913) e Y. Taikan che fondarono musei per raccogliere i tesori nazionali d'arte, nel timore che l'attrazione esercitata dalla nuova moda facesse perdere il gusto per la tradizione antica. Segue il loro esempio S. Kanzan (1873-1916).

I soggetti che essi trattano sono soprattutto i paesaggi tradizionali, ma non trascurano temi religiosi; merita di essere ricordato lo Hibo Kannon (Kuan yin, Kannon, Avalokiteśvara, il dio della compassione) di K. Hōgai (1828-1880); T. Tessai (1836-1924) dipinge un gruppo di santi buddhisti (arhant) intenti a giocare in una grotta, e una Kannon meditante nel Potala, ma si ispira anche a motivi Zen: per esempio, il Dialogo fra saggi (un monaco che si addormenta su una statua di Buddha e quando è risvegliato da un suo compagno scoppia a ridere insieme con lui). Ma la grande tradizione pittorica Zen è in realtà finita con G. Sengai (1750-1837).
K. Okakura, recatosi in India, contribuì al risveglio degli antichi modi di dipingere, cercando di sottrarre l'arte a quell'accademismo convenzionale che ripeteva sempre lo stesso linguaggio; egli esercitò, in Calcutta, una notevole influenza sulla nuova scuola, la bengalica, che ebbe i suoi maggiori interpreti nella famiglia di Tagore (Abanindranath Tagore) e dominò nella Kalābhāvanā di Shantiniketan, ove per molti anni operò Nandalal Bose. Naturalmente i soggetti rappresentati erano soprattutto indù, ma non mancò un ritorno ad ispirazioni buddhistiche che si erano fatte varco in seno all'induismo.

Quest'arte è un ritorno alle tradizioni classiche dell'India e specialmente delle grandi composizioni di Ajaṇṭā. Essa va di pari passo con il formarsi della nuova coscienza politica, che doveva condurre lentamente all'indipendenza, ed esprime la consapevolezza che anche nell'arte l'India può ritrovare una spiritualità che la distingua dall'Occidente. Non a torto forse alcuni critici affermarono che Abanindranath Tagore rappresenta per l'arte ciò che Gandhi fu nella politica. Per causa dei facili contatti con la Cina e il Giappone, per l'influsso di Okakura e l'istigazione di un professore d'arte inglese, che ebbe il merito di rivelare agli stessi Indiani il valore universale delle tradizioni artistiche dell'India in particolare e dell'Oriente in generale (Havell), al risorgere dell'interesse per l'arte antica si accompagna la tendenza allo studio delle correnti artistiche cinesi e giapponesi. In questa prospettiva si colloca il Buddha e Suiatā di Abanindranath Tagore, certamente superiore per il contenuto spirituale all'Adorazione della moglie di Aśoka all'albero della bodhi. Piuttosto oleografica e inespressiva è la Predicazione del Buddha ai suoi discepoli di Venkatappa dell'India meridionale, ma ha spicco la Naṭir pūjā, L'adorazione della danzatrice, ispirata da un dramma di Rabindranath Tagore, di Nandalai Bose. La staticità delle figure è compensata dai felici raggruppamenti, dalla lieve, quasi timida sinuosità delle linee e da un senso della composizione, che diventa quasi un immobilità fotografica nella scena dei Piaceri del Buddha prima della rinuncia di Venkata Rao.
L'arte del Roerich, che si ispira, in maniera imaginifica, al paesaggio tibetano e suggerisce con felice accostamento di colori l'immensità silenziosa dei pianori e delle solitudini tibetane, trovò un seguace in Karwal Krishna in certe sue composizioni che riproducono in allusioni fantastiche il groviglio dei monasteri tibetani.

Gran rilievo occorre dare a G. Keyt, un tormentato pittore di Ceylon, a conoscenza delle vicende coeve dell'arte europea, che sembra trovare la tranquillità serena negli affreschi per il centro buddhistico di Borella vicino a Colombo (1940); il soggetto stesso sembra avergli indotto una pace e una serenità che mancavano nelle sue prime opere.

8. Meditazione e psicanalisi

D'altro lato non difettano aspetti del buddhismo che particolarmente attraggono l'attenzione dell'Occidente: la tendenza all'introspezione, la propensione (che si ritrova anche nell'induismo) a un esame del profondo, a indagare le sopite tensioni del subconscio, ad accettare come un fatto indiscutibile che l'uomo è non soltanto ragione ma anche emozione, l'una e l'altra in equilibrio instabile, ma capace di essere ristabilito mediante il meccanismo di una tecnica meditativa molto complessa. Il buddhismo che, per esempio, ha anticipato di secoli la teoria freudiana del ‛complesso di Edipo'; offre un campo nuovo di ricerche alla psicanalisi, a un introspezione la quale ha il grande vantaggio che, mentre lo psicanalista occidentale indaga su un oggetto, il paziente, che gli è estraneo, è fuori di lui, nella meditazione buddhistica è il soggetto che esamina se stesso, scruta nel profondo le forze ivi dormienti e le ridesta, inserendole nell'unità dell'io, fino a dilatare il suo intelletto in uno stato di paracoscienza la quale trascende ogni dicotomia di io e mio, soggetto e oggetto.
Questo risulta chiaro dalla letteratura sempre maggiore e più impegnativa che studia il buddhismo, non filologicamente, ma come ispirazione o suggerimento a nuove ricerche sulla psiche umana. La meditazione che esso prescrive e descrive è un'autoconquista.

Lo Jung ha intuito il grande valore che sotto questo punto di vista hanno i maṇḍala. Si può dire che il suo libro sul maṇḍala, Il segreto del fiore d'oro, è essenziale per la comprensione dei diagrammi mandalici che rappresentano per mezzo di simboli, lettere o figure di divinità, l'espandersi dal centro=luce=illuminazione=Essere, dell'universo e dell'uomo, macrocosmo microcosmo e quindi il ritorno o il riassorbimento in quel principio-luce-illuminazione, mediante l'esperienza dello spazio-tempo; e l'Uno, luce, illuminazione, Essere è al centro del maṇḍala, rappresentato sotto forma di un dio o di una sillaba: ciò perché l'uomo ha bisogno di un'immagine o di un simbolo come sostegno alla meditazione che lo condurrà alla reintegrazione. Lo stesso può dirsi nei riguardi della meditazione Zen che è stata oggetto da parte dello stesso Jung di sottili analisi, le quali presentano soluzioni diverse a mano a mano che egli approfondisce le sue indagini (Guérison psychologique, Genève 1953). Alla meditazione buddhistica, che affonda le proprie radici nell'esperienza yoga dell'India, ma anche se ne distacca per la sua struttura e forma, l'Occidente è oggi particolarmente interessato, anche al di fuori della cerchia degli specialisti.

Ciò non vuol dire però che a questa attrazione corrisponda sempre una profondità di intenzioni e una serietà di intenti e una costanza nella pratica. La meditazione orientale, specialmente quella buddhistica, anzitutto non è unitaria nella sua forma e nei suoi propositi. Essa si presenta in due aspetti distinti, tuttavia complementari: anzitutto un modo analitico: cioè un'introspezione la quale indaga i vari processi del nostro pensiero, e così analizzandoli li svuota, li cancella, ne dimostra la relatività e quindi la precarietà; non è nel pensare che noi possiamo trovare la nostra segreta identità: l'analisi insomma e l'introspezione servono ad eliminare il pensiero medesimo nelle sue dicotomie; la mente è ricettività di quanto le giunge dal di fuori o in se stessa immagina; le cose sono fantasmi del nostro pensiero, ma questo non è il nostro essere; il quale è piuttosto una vacuità non pensante, immota, ma nel contempo un'inesauribile possibilità di pensieri, che tuttavia esprimendosi diventa altro da sé, diventa soggetto ed oggetto. La recuperata sintesi di conscio e di inconscio (che i buddhisti del Mahāyāna chiamano śamatha) è uno stato di assoluta lucentezza, l'illuminazione primordiale: non può dirsi un'estasi, né un immersione o sprofondamento nell'inconscio. La meditazione è un'acquisizione durevole e costruttiva, un espandersi luminoso della nostra conoscenza, una para-conoscenza la quale è visione intera, l'illuminazione del Bodhisattva che è arrivato alla decima ‛terra' ed è diventato Buddha.

La meditazione, come disse U. Thittila nel 1962, ha il compito di far emergere dall'oscurità ciò che giace nel meccanismo del profondo e induce gli uomini a trovare in essa un elemento di vivente ed armonica solidarietà; essa è un fattore positivo, capace di infrangere le consuetudini vuote di senso e di efficacia morale, perché addormentate in una tradizione incapace di rinnovarsi, un processo di autopurificazione, tentativo, mediante il modo di vita, l'introspezione e la concentrazione, di dar forma ad un restaurato equilibrio fra ragione ed emozioni, una tendenza a servirsi di nuovi simboli contro il ritualismo.

9. Gli Occidentali e la meditazione buddhistica

Gli Occidentali, che cominciano ad occuparsi di siffatti problemi, ne studiano le tecniche; ma queste diventano comprensibili se sono direttamente sperimentate. Le varie associazioni buddhistiche di ispirazione tantrica o Zen oggi di moda richiamano o raccolgono molti discepoli; ma qui si incontrano due difficoltà: da una parte non sempre l'allievo è capace della costanza che questi esercizi richiedono, o meglio, raramente si tratta di discepoli i quali abbiano una vocazione sincera. Bisogna tener conto della curiosità che induce alcuni a frequentare tali centri; né può trascurarsi il cumulo di esperienze, completamente diverse, che costituiscono un'eredità inconsapevole, come l'appartenenza a tradizioni religiose, spirituali e culturali distinte, in essi latenti. Perciò si corre il rischio di pericolosi scontri fra due personalità diverse, l'una innata, l'altra avventizia o sovrapposta, oppure di sperimentare coteste tecniche, non certo facili, senza costanza o una seria volontà di approfondimento. Ne derivano approssimazioni superficiali e anche pericolose. Come che sia tutto ciò è l'effetto di una vaga consapevolezza che alcuni valori tradizionali dell'Occidente non sembrano rispondere alle esigenze delle nuove generazioni, che cercano altrove ispirazione o consiglio.
L'esempio più evidente lo si riscontra nella fortuna che hanno lo Zen e con esso anche altre scuole buddhistiche, i cui problemi o le cui tesi sono entrati nella cultura moderna, non più come argomento di indagine teorica, ma come possibilità di rinnovamento spirituale. Naturalmente fra le due scuole Zen, quella Rinzai e quella Sōtō, l'ultima ha maggiori possibilità di diffusione, sebbene l'altra sia apparentemente più facile ma anche rischiosa; il paradosso del kōan può restare mero paradosso, stranezza ambigua, essere insomma frainteso da chi non rispetti scrupolosamente la disciplina morale e mentale che lo Zen richiede ed impone. Ad ogni modo è innegabile che il buddhismo non è più soltanto una vicenda religiosa, il cui studio è riservato a pochi specialisti, ma si presenta come una problematica nuova che riscuote larghi consensi. Il suo relativismo, già formulato da Nāgārjuna nel III sec. d.C. e che anticipa Bradley, non è in contrasto con le conquiste scientifiche e matematiche.

U. Thittila nel 1961, in occasione dell'inaugurazione della World Peace Pagoda, pone l'accento sulla necessità che i giovani studino scienze politiche e matematiche. Secondo Ch. Hartshorne il buddhismo e la scienza sono probabilmente i due più validi strumenti di autocorrezione nel mondo moderno.
Partendo dalla teoria postulata dal Buddha che tutto ciò che esiste in noi o fuori di noi, nella natura o nel complesso psicofisico, si riduce a punti istanti (dhamma, dharma), Suriyabongse non soltanto afferma che il Buddha è stato il più grande scienziato di tutti i tempi, ma aggiunge che il buddhismo e la scienza pienamente concordano; più si conosce la scienza della natura tanto meglio si conosce il buddhismo. La scienza ha recentemente scoperto l'energia atomica e ciò concorre a dimostrare che l'assunto del Buddha della mutazione infinita (anicca-dukkha, anattā) è una realtà. Soprattutto poi il buddhismo porta non tragicamente ma serenamente l'attenzione sulla presenza della morte, che il mondo moderno, pur sfidandola, sembra ignorare, e quindi s'accorda con il pensiero di Heidegger.

10. Crisi e prospettive del buddhismo contemporaneo

Il crescente interesse per il buddhismo nel mondo occidentale è dunque il riflesso della crisi spirituale da cui questo ultimo è sconvolto: il buddhismo, secondo alcuni pensatori, dovrebbe non già soddisfare la diffusa curiosità per l'esoterico, il magico o il miracoloso, a cui esso stesso in Asia si ribella, ma reintegrare l'armonia fra intelletto e sentimento in un'esperienza pacificatrice e sinceramente vissuta. Ma quale buddhismo? Mahāyāna o Theravāda? Il Theravāda è più rigido, si vanta di conservare integro l'insegnamento del Buddha. Tuttavia la sua scolastica non gli impedisce di inserirsi nei moti nazionalisti e anche rivoluzionari: ma la continuità della sua tradizione, i suoi legami con le vicende dei singoli paesi dove ha resistito per secoli, limitano forse le sue aspirazioni a quella universalità che giustamente è considerata motivo essenziale della predicazione di Śākyamuni ed è stata confermata dalla sua espansione: se non la limitano, la rendono piuttosto teorica e meno atta ad esprimere quell'umanesimo ecumenico che è alla base del Mahāyāna e sul quale specialmente si insiste in Giappone. Tuttavia la tendenza a rinnovarsi l'abbiamo già riscontrata in Sri Lanka, e la ritroviamo anche in Thailandia, sebbene in questo paese la tradizione sia più conservatrice.

Ne è esempio Buddhadāsa il quale, pur vivendo in un eremo, si serve persino del teatro per diffondere nelle masse la dottrina del Buddha; egli ha raccolto una ricca biblioteca e riproduzioni o calchi di alcuni dei monumenti o delle antiche sculture buddhiste dell'India, e riafferma il principio della doppia verità: una verità secondo la Legge, al di là del comune intelletto, intuibile ma non esprimibile, ed una verità relativa, detta in parole che tutti possono capire; le immagini, come le parole, sono un modo di rendere accessibile ad ogni persona, anche la meno colta, la Verità che trascende la ragione. (Ciò vale, egli sostiene, tanto per i buddhisti quanto per i cristiani). Perciò egli ricorre al simbolo di un circolo bianco che rappresenta il suñña, il ‛vuoto', non perché il vuoto sia il nulla, ma perché il vuoto è al di là di ogni dicotomia, l'assoluto reale e quindi ineffabile. Dunque anche Buddhadāsa riconosce l'urgenza di liberare il buddhismo dalle sovrastrutture che l'hanno modificato, e di uscire dalla cerchia dei monasteri per recuperare il mondo dei laici: come una reviviscenza dei tempi di Śākyamuni.

Ma basta tutto questo perché nei popoli si diffonda quel senso di fratellanza che li dovrebbe congiungere con tutti coloro che professano la stessa fede? I Tibetani avevano fatto una demarcazione fra quelli che ‛stanno fuori' (p'yin pa), coloro cioè che non conoscono la predicazione del Buddha, e coloro che ‛stanno dentro' (nan pa), i seguaci del Buddha: divisione questa che implicava già un'unità malgrado la varietà e molteplicità delle scuole.

Il Mahāyāna è stato sempre più duttile del Theravāda, ma è altresì sovraccarico di architetture metafisiche o gnostiche, difficili a comprendere; la sua affermazione della essenziale identità della natura umana e di quella del Buddha può indurre a vaghi atteggiamenti mistici, e a sottovalutare o porre in secondo piano la normativa etica del buddhismo antico; oppure a dar credito a coloro che reputano molto facile la liberazione che esso promette. Ciò perché alcune sue scuole propongono agevoli mezzi di redenzione; l'invocazione, gli inni, la devozione, che possono produrre un rovesciamento di piani, la fede nella beatitudine dei paradisi, e quindi liturgie che introducono un evidente fervore teistico e possono esercitare una forte attrazione sulle masse. Ma così si corre il rischio di trasformare l'austero insegnamento di Śākyamuni in un formalismo che male s'accorda con la sua originaria semplicità etica.

D'altro canto in tempi nei quali si assiste allo scontro di molti dogmatismi e di diverse ideologie, il buddhismo ha il vantaggio di non essere dogmatico, come si constata tuttora dalla fioritura delle diverse sette che convivono l'una a fianco dell'altra, senza ombra di odium theologicum; ciò è l'effetto di quel principio dell'abilità dei mezzi di predicazione (upāyakauśālyatā) che risale ai primordi del buddhismo; molte sono le vie, perché molti sono i modi mediante i quali gli individui possono convertirsi, a seconda della loro diversa maturità intellettuale, morale e spirituale. Naturalmente il presupposto inderogabile sono il self-restraint, serenità e semplicità (Shambala publications, Berkeley); troppo poco in apparenza, ma, di fatto, quanto basta per trovare punti comuni oltre le divergenze dottrinali sulle quali incombe tuttavia l'imprevisto di possibili, libere proliferazioni.

Come che sia, il fatto più importante che si riscontra nel mondo asiatico è la secolarizzazione del buddhismo; il potere della comunità (Saṅgha) è in decadenza, i giovani preferiscono le scuole laiche a quelle religiose, pur professandosi buddhisti, le consorterie laiche stanno diffondendosi; gli avvenimenti politici favoriscono anch'essi l'aspirazione a liberarsi da tradizioni in parte desuete; il buddhismo si inserisce nella vita politica, i suoi stessi principi lo rendono incline alle riforme in senso molto vasto, ed a forme di governo di tipo socialista, perché ne trova la giustificazione nell'insegnamento stesso del Buddha. Nel medesimo tempo vorrebbe assumere un valore ecumenico: Asia buddhista di fronte ad Occidente cristiano o all'Islam, non come opposizione, ma come possibile convivenza. Il buddhismo oggi si propone di promuovere l'unità fra i diversi popoli asiatici, perché quello che c'è di meglio e di più creativo nell'Asia è stato il buddhismo; è vero che il buddhismo è scomparso dall'India e soltanto ora vi rinasce, ma è pur vero che dall'India partì la colonizzazione culturale di molta parte del mondo asiatico; in Giappone esso ha conformato notevolmente lo spirito e la cultura del paese, pur subendo l'influsso dello shinta e della particolare visione nipponica della vita; in Cina, penetrato come religione straniera, esso ha stimolato un mirabile ardore speculativo, alimentato dall'incontro del suo pensiero con quello puramente cinese, fino a dar forma a sistemi filosofici e teologici (per es. la scuola Hua-yen) di somma vitalità e originalità, e ad ispirare alcune delle massime espressioni artistiche, dimostrando un'adattabilità, unica nella storia, alle tradizioni culturali e religiose dei popoli fra i quali si diffondeva. Non mancano quindi i presupposti per una sua nuova ripresa evangelica. Già si notano sempre più numerosi incontri fra le varie scuole nelle quali il buddhismo si era diviso: la scissione fra Mahāyāna e il Theravāda non è incolmabile. C'è stato già nel Vietnam il tentativo, però fallito, dell'unificazione delle comunità al cui governo si alternano un monaco seguace del Mahāyāna e uno del Theravāda.

Si aggiungono poi a vantaggio del buddhismo la mancanza di una Chiesa, la libertà concessa a chi si professa buddhista di intendere a suo piacimento le parole di Śākyamuni, salva restando l'invalicabile validità della sua normativa morale e del suo primitivo, elementare insegnamento: la tendenza a insistere sul carattere scientifico della fondamentale visione del buddhismo; non esiste nel buddhismo il problema della creazione: il mondo non è stato creato, è il risultato di infinite combinazioni di elementi: il buddhismo non è una dottrina rivelata, basata su testi divini. Ciò induce molti buddhisti a credere che il buddhismo sia in condizione di dare una più profonda ed aperta risposta alle richieste delle nuove generazioni; una socievolezza solidamente umana, fondata sulla comprensione e quindi sul desiderio di assicurare non soltanto la propria serenità spirituale, ma quella di tutti: liberare il mondo dalle opposizioni teoriche, dalle ideologie che si contrappongono scatenando gravi sciagure, favorire una libera discussione che il Buddha stesso reputava necessaria, perché le sue stesse parole - egli disse - non dovevano essere accettate per pura fede, ma dopo un'indagine logica e una discussione costruttiva.
Conviene poi porre in rilievo il grande peso che il buddhismo attribuisce alla responsabilità dell'uomo, che deve rispondere di quello che fa unicamente alla propria coscienza, indipendentemente da qualsiasi autorità esterna.

Naturalmente quando si afferma (Masunaga Reihō) che il buddhismo, verso cui ci avviamo, annulla tutte le differenze fra uomo e donna, dotto e ignorante, nobile e umile e che la sua filosofia è basata sulla scienza della natura e che esso non è altro che un umanesimo il quale onora, libera e educa la natura umana, si presuppone che occorra anzitutto svuotare il buddbismo - e qui si intende soprattutto il buddhismo del Mahāyāna - di tutte le strutture mitiche da cui è stato avvolto. Ma, oltre a ciò, occorre anche una completa revisione del passato, in un'assoluta libertà di esprimere le proprie critiche, talché a ciascuna persona sia permesso di adottare per sé quella particolare forma di buddhismo più consona alle sue propensioni morali, intellettuali, politiche. A tale smitizzazione del buddhismo e alla necessità di tornare alle origini, sembrerebbero estranee le scuole che pongono la rinascita nel paradiso di Amitābha al centro della loro fede: una fede che, per prima cosa, priva il karma della sua inesorabile maturazione e antepone la devozione all'azione; ma tale fede non impedisce ai sostenitori del processo di smitizzazione del buddhismo di sostenere che questo discorso sul paradiso è uno dei mezzi adoperati dal Buddha perché le creature meno preparate intellettualmente possano essere convertite: alcuni arrivano a definire il paradiso un sogno.
Per concludere dunque, il primo compito che i pensatori buddhisti più autorevoli si propongono di attuare è promuovere l'accordo fra le scuole, unificarle, indurle a superare le differenze dottrinali; ciò è avvenuto in Giappone per quanto concerne alcune sette (per es. Nishi Honganji e Higashi Honganji). Ma il problema più importante da risolvere è quello di superare le distanze fra Theravāda e Mahāyāna; di ritrovare quell'unità che può conferire al buddhismo un valore ecumenico. Il problema è argomento di discussioni continue; si moltiplicano i congressi buddhisti di ogni scuola; le residue resistenze delle comunità monastiche cominciano a cedere, né trovano modo o ragione di opporsi alle richieste dei laici o delle giovani generazioni che, organizzandosi in varie maniere, rappresentano una valida forza innovatrice; i paesi che possono assolvere questo compito sono quattro: il Giappone anzitutto, Sri Lanka, la Birmania, e forse in minor misura, ma per ragioni contingenti, la Thailandia.

Quindi, secondo gli stessi pensatori, il buddhismo è teoricamente in condizione di svolgere un nuovo apostolato, proponendosi non più come un modo puramente asiatico di concepire la vita, ma come una dottrina che, per la sua stessa polivalenza, la sua tolleranza, la sua adattabilità, può intensificare, con maggior impeto, una missione universale.