Bisogno
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    Nella storia della filosofia il b. è trattato principalmente sotto
    due punti di vista: morale, con riferimento all’atteggiamento da
    assumere nei confronti dei b., se limitarli o incoraggiarli (in
    questo senso il problema della ‘disciplina’ dei b. si confonde con
    quello della virtù); antropologico, come segno o elemento della
    condizione umana. In questo secondo aspetto già Platone riconobbe
    nel b. un tratto caratteristico dell’amore come privazione e pose
    nel b. la ragione dell’aggregarsi degli uomini in società. In
    Aristotele la nozione di b. si riferisce non tanto alle esigenze
    dell’origine, quanto a quelle della vita sociale già costituita,
    finalizzata al ‘viver bene’. 
    
    Nella filosofia post-aristotelica non si riscontra uno specifico
    interesse verso questo problema e la classificazione che Epicuro dà
    dei b., distinguendoli in naturali e necessari, naturali non
    necessari, non naturali e non necessari, è piuttosto in funzione
    della problematica relativa ai piaceri. 
    
    Nella filosofia cristiana e medievale il b. è inteso come un segno
    della perdita della beatitudine eterna seguita al peccato. 
    
    Nel Rinascimento si affermò una valutazione positiva del b. legata
    all’apprezzamento dell’operatività umana e si collegò con G. Bruno
    al tema della civiltà e del progresso. 
    
    L’età moderna sottolineò piuttosto l’indipendenza dell’uomo
    razionale rispetto ai bisogni. Paradigmatica a questo proposito è la
    posizione di Kant che nella resistenza al b., legato alla natura
    sensibile dell’uomo, pone l’espressione più evidente della sua
    razionalità e autonomia. Hegel pone la ‘mediazione’ dei b. alla base
    della società civile, rilevando come, a differenza dell’animale,
    l’uomo abbia la possibilità di dominarli, attraverso la
    scomposizione e moltiplicazione loro e dei mezzi per soddisfarli. 
    
    Un rilievo particolare assume la teoria dei b. nella filosofia
    post-hegeliana: in Schopenhauer il b. è l’essenza stessa della
    volontà, sempre spinta dalla mancanza e dal dolore; Feuerbach e Marx
    vedono nel b. la forma immediata del rapporto dialettico uomo-natura
    e l’elemento propulsore della trasformazione economico-sociale che
    l’uomo opera nella natura mediante il lavoro. 
    
    Nella filosofia contemporanea il tema del b. riveste notevole
    significato tanto nel filone naturalistico, con Dewey che pone il b.
    in rapporto alla ‘matrice biologica’ di ogni attività umana e ne fa
    il segno della rottura dell’equilibrio organico, quanto nel filone
    esistenzialistico, con Heidegger che pone l’accento sulla condizione
    di dipendenza dell’uomo nel mondo, caratterizzata da quella «cura» o
    «preoccupazione del vivere» di cui il b. è appunto parte
    costitutiva. 
    
    
      Enciclopedia delle Scienze Sociali (1991)
    
    di Stefano Zamagni e Riccardo Luccio
     
    Economia 
    di Stefano Zamagni 
    
    Sommario: 1. Introduzione. 2. I bisogni
    nell'economia politica classica. 3. Marx e la teoria dei bisogni. 4.
    I tre principî fondamentali dei bisogni. 5. Riducibilità dei bisogni
    e utilità. 6. Bisogni di base e approccio delle capacità. □
    Bibliografia. 
    
    1. Introduzione
    
    Il problema della soddisfazione dei bisogni e della ricerca dei
    mezzi più idonei a tal fine ha rappresentato lo scopo 'naturale'
    dell'economia politica fin dal suo costituirsi come disciplina
    scientifica autonoma nella seconda metà del Settecento. Parecchie, e
    talvolta profondamente diverse, sono state le risposte che le varie
    scuole di pensiero economico hanno dato alla domanda: quali sono i
    bisogni da soddisfare e quali le modalità per soddisfarli?
    All'origine di tale pluralità sta l'ambiguità della nozione stessa
    di bisogno, un'ambiguità che a sua volta discende da un'altra più
    profonda: quella dell'uomo che è essere sociale e naturale a un
    tempo. Già gli autori del XVIII secolo distinguevano due categorie
    di bisogni, quelli naturali e quelli artificiali, una distinzione
    che, con denominazioni appena diverse (bisogni necessari e
    superflui, biologici e culturali, e così via), si ritrova in tutti
    gli studiosi che si sono occupati e si occupano della tematica dei
    bisogni. Scriveva Condillac (v., 1776; ed. 1948, p. 244): "I bisogni
    naturali sono una conseguenza della nostra conformazione: noi siamo
    conformati in modo da aver bisogno di nutrimento o da non poter
    vivere senza alimenti". Quanto ai "bisogni artificiali", essi sono
    "una conseguenza delle nostre abitudini. Una certa cosa, di cui
    potremmo fare a meno perché la nostra conformazione non fa sì che ne
    abbiamo bisogno, ci diventa necessaria in seguito all'uso e talvolta
    tanto necessaria come se fossimo conformati in modo da averne
    bisogno". Quanto a dire che da un lato i bisogni derivano dalla
    costituzione dell'uomo, dal suo corpo; dall'altro, dalla storia e
    dalla cultura proprie di ciascun gruppo sociale.
    
    È un fatto che tutte le risposte ai bisogni, e prima ancora la loro
    formulazione, passano attraverso una dimensione simbolica. L'uomo
    non mangia solo per necessità biologica, ma il suo consumo di cibo
    subisce un'elaborazione culturale e immaginaria: attraverso questa
    griglia va colto il senso degli atti legati, direttamente o
    indirettamente, alla soddisfazione dei bisogni. I bisogni dunque, e
    soprattutto il modo di soddisfarli, appaiono sempre in qualche modo
    socialmente determinati. E ciò non solo perché i bisogni
    'artificiali' non preesistono ai beni atti a soddisfarli - ma anzi
    si sviluppano in seguito all'esposizione agli stessi - ma anche
    perché, dal momento che i beni sono usati in attività socialmente
    definite, il processo di interazione tra bisogni e beni è mediato
    dal significato che i beni stessi assumono nel contesto
    socioistituzionale di riferimento del soggetto (v. Consumi). Come
    vedremo, la diversità dei modi in cui la categoria 'bisogno' è stata
    teorizzata nella storia del pensiero economico trova la sua radice
    ultima in questo divario tra una concezione essenzialistica -
    secondo cui i bisogni generano, fin dall'emergere della specie, i
    nostri comportamenti individuali e collettivi - e una concezione
    convenzionalista, secondo cui i bisogni sono storicamente e
    socialmente determinati. Secondo il primo punto di vista i bisogni
    si identificano con ciò che è richiesto dalla natura umana, senza di
    cui il soggetto risulterebbe danneggiato. Il danno è poi variamente
    definito in termini di "conseguenze patologiche" (v. Bay, 1968, p.
    242), oppure di impedimento allo "sviluppo naturale della persona"
    (v. McCloskey, 1976, pp. 5-7), e ancora di vincoli alla razionalità
    (v. Nielsen, 1976). Nell'ottica convenzionalista, invece, i bisogni
    sono ciò che la società ritiene che gli individui non possano non
    avere. Per Townsend (v., 1979, p. 413) "le persone vanno considerate
    bisognose se mancano dei tipi di cibo, vestiario, alloggio, delle
    condizioni sociali e di lavoro che sono comuni nelle società cui
    appartengono". 
    
    2. I bisogni nell'economia politica classica
    
    Nel pensiero classico la riflessione sui bisogni è legata a doppio
    filo allo studio sistematico di quella nuova forma di organizzazione
    socioeconomica che prende corpo nell'Inghilterra del Settecento: il
    capitalismo industriale. Nel 1776 Adam Smith pubblica l'Indagine
    sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, uno dei più
    significativi punti di riferimento della cultura occidentale.
    Obiettivo primario di Smith è spiegare come il perseguimento da
    parte degli individui dell'interesse personale, in un'economia in
    cui i soggetti interagiscono tra loro solo per mezzo di scambi
    volontari, dia origine a un'organizzazione della produzione e della
    distribuzione della ricchezza che è, a un tempo, efficiente e
    mutuamente benefica. In altri termini, si tratta di spiegare come
    un'economia di scambio riesca a garantire il soddisfacimento dei
    bisogni dei suoi componenti e in tal modo l'armonia sociale.
    
    Per Smith ciò che consente un livello sempre più elevato di
    soddisfazione dei bisogni è il meccanismo dello scambio, che è alla
    base dell'economia di mercato. Lo scambio consente, in primo luogo,
    di confrontare e rendere compatibili i vari bisogni individuali:
    ognuno, scambiando i propri beni con quelli di un altro, può
    aumentare il proprio benessere e ampliare la gamma dei suoi bisogni.
    Dietro l'interesse privato del singolo agisce, sul mercato, una
    "mano invisibile" che unifica e concilia le differenti situazioni di
    bisogno. D'altro canto, lo scambio non è il risultato di una
    previdente invenzione, ma la conseguenza di un'inclinazione
    naturale, innata, dell'animo umano, che costituisce la base stessa
    della socialità.
    Nella forma che esso assume nell'economia di mercato, lo scambio è
    comune a tutti gli uomini e a essi soltanto. Non si è mai visto un
    cane - dice Smith - scambiare un osso per un altro con un altro
    cane. Solo l'uomo dice all'altro uomo: "dà a me quello di cui ho
    bisogno e avrai ciò di cui hai bisogno". Inoltre, solo l'uomo può
    volgere a proprio vantaggio l'interesse degli altri così come gli
    altri fanno con il suo. Resta celebre l'affermazione smithiana
    secondo cui " non è dalla benevolenza del macellaio, del produttore
    di birra, del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dal
    riguardo che essi prestano ai loro interessi" (v. Smith, 1776; tr.
    it., p. 17). Quanto a dire che non è dalla benevolenza degli altri
    uomini che ognuno ottiene ciò di cui ha bisogno, ma solo dalla
    considerazione che egli stesso ha del proprio interesse. I bisogni
    sono infatti vari e molteplici - ricorda Smith - e la vita troppo
    breve per guadagnarsi l'amicizia di tutti coloro da cui i nostri
    bisogni dipendono; è dunque solo attraverso lo scambio che possiamo
    soddisfarli.
    
    L'altro momento dell'economia politica classica in cui il concetto
    di bisogno gioca un ruolo fondamentale è quello della definizione
    del livello salariale di sussistenza. Sono infatti i bisogni a
    definire il contenuto della sussistenza, cioè il paniere dei beni di
    consumo senza i quali la classe lavoratrice non può riprodursi nella
    quantità e nella qualità richieste dal processo di accumulazione
    capitalistico. Il livello del salario naturale dipende solo dalle
    condizioni di offerta del lavoro, vale a dire dal costo della
    sussistenza del lavoratore e della sua famiglia. Il principio della
    popolazione di Malthus garantisce che il prezzo d'uso del lavoro,
    cioè il salario, non potrebbe mai scostarsi, nel lungo periodo, dal
    costo della sussistenza. Il rigore di questa legge ferrea dei salari
    viene mitigato da David Ricardo allorché osserva che il livello di
    sussistenza è definito non in termini del mero costo di riproduzione
    del lavoro, ma del costo calcolato tenendo conto anche dei beni di
    consumo generalizzato, i cosiddetti beni 'convenzionalmente
    necessari', legati al grado di sviluppo raggiunto dal sistema. 
    
    3. Marx e la teoria dei bisogni
    
    Se si analizzano le scoperte che Marx si attribuisce rispetto
    all'economia politica classica, si trova che, in qualche modo, esse
    sono tutte costruite sul concetto di bisogno. Marx (v., 1867-1894;
    tr. it., vol. I, t. 1, p. 47) definisce la merce come valore d'uso
    nel modo seguente: "La merce è [...] una cosa che mediante le sue
    qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo". Tuttavia Marx
    non definisce mai il concetto di bisogno, anzi non spiega nemmeno
    cosa si debba intendere con tale termine, anche se, più di una
    volta, egli ribadisce la storicità dei bisogni, la loro dipendenza
    dalla tradizione, dal grado di cultura e così via.
    Lo sviluppo della divisione del lavoro e della produttività crea,
    con la ricchezza materiale, anche la ricchezza e la molteplicità dei
    bisogni; è però sempre in seguito alla divisione del lavoro che
    anche i bisogni si ripartiscono: il posto occupato all'interno della
    divisione del lavoro determina la struttura dei bisogni o, almeno, i
    suoi limiti. Questa contraddizione raggiunge il suo culmine nel
    capitalismo.
    
    Secondo Marx, la riduzione del concetto di bisogno al bisogno
    economico - riduzione tipica dell'economia politica classica - è
    un'espressione dell'estraniazione (capitalistica) in una società in
    cui il fine della produzione non è la soddisfazione dei bisogni ma
    la valorizzazione del capitale; in cui il sistema dei bisogni è
    determinato dalla divisione del lavoro e il bisogno incide sul
    mercato soltanto nella forma di domanda solvibile. Invero, le
    categorie marxiane di bisogno non sono categorie economiche, ma
    categorie antropologiche di valore e dunque non passibili di
    definizione entro il sistema economico.
    
    Solo in quella che Marx chiama la società dei "produttori associati"
    può svilupparsi negli uomini una struttura dei bisogni tale da
    rendere possibile l'impiego del tempo libero per la soddisfazione di
    "bisogni superiori". Infatti, in questa società è di primaria
    importanza la valutazione dei bisogni e la conseguente ripartizione
    di forza lavoro e di tempo di lavoro; in tal modo viene modificata
    tutta la struttura dei bisogni (anche il lavoro diventa un bisogno
    vitale): gli uomini partecipano dei beni conformemente ai loro
    bisogni e sono primari non i bisogni riguardanti beni materiali, ma
    quelli diretti alle "attività superiori". Nulla di simile, sentenzia
    Marx, può riscontrarsi nel capitalismo. Qui la struttura dei bisogni
    si riduce al bisogno di avere, che subordina a sé l'intero sistema.
    Tutto ciò si manifesta nei membri della classe dominante come
    aumento quantitativo dei bisogni di uno stesso tipo e degli oggetti
    necessari alla loro soddisfazione, mentre nella classe operaia si
    manifesta come riduzione ai meri bisogni vitali, cioè ai "bisogni
    naturali" e alla loro soddisfazione. I bisogni qualitativi sono
    quantificati, da bisogni-scopo diventano bisogni-mezzo. Poiché non
    possono svilupparsi bisogni di qualità eterogenea, i piaceri degli
    uomini restano "rozzi" e "brutali" e alcuni dei loro bisogni si
    "fissano".
    
    È di un certo interesse notare che è nei Grundrisse che si trova una
    delle più chiare descrizioni di Marx della società postindustriale e
    della nuova condizione del lavoro liberato dalla ossessiva
    ripetitività della fabbrica. "Il risparmio del tempo di lavoro
    equivale all'aumento del tempo libero - osserva Marx - ossia del
    tempo dedicato allo sviluppo dell'individuo, sviluppo che a sua
    volta reagisce, come massima produttività, sulla produttività del
    lavoro [...]. Il tempo libero, che è sia tempo di ozio che tempo per
    attività superiori, ha trasformato naturalmente il suo possessore in
    un soggetto diverso ed è in questa veste di soggetto diverso che
    egli entra poi anche nel processo di produzione immediato" (v. Marx,
    1953; tr. it., vol. II, p. 410). In queste circostanze "non è più il
    tempo di lavoro, ma il tempo disponibile la misura della ricchezza"
    (ibid., p. 405). Come si comprende, sono qui abbozzati due spunti di
    riflessione di grande interesse. Il primo è che col progredire delle
    condizioni generali di vita nasce e si afferma un nuovo bisogno, il
    bisogno di tempo libero. La seconda idea importante riguarda
    l'aspetto 'produttivistico' della soddisfazione dei bisogni, e ciò
    nel senso che quanto meglio vengono soddisfatti i bisogni del
    lavoratore tanto più elevata risulterà la sua produttività. 
    
    4. I tre principî fondamentali dei bisogni
    
    Il punto di vista che caratterizza il sorgere del marginalismo e
    l'opera di alcuni tra i suoi più autorevoli esponenti individua nel
    concetto di bisogno il fondamento di una teoria economica
    dell'azione umana. L'asserto di base è che ciò che determina il
    comportamento economico dell'individuo è la sua situazione di
    bisogno. I beni sono utili in quanto hanno la capacità di soddisfare
    i bisogni, e quindi la scelta dei beni da parte del soggetto dipende
    dalle proprietà strutturali dei bisogni. La più importante di queste
    proprietà è che i bisogni si presentano gerarchizzati, ed è una
    proprietà da sempre riconosciuta, se è vero che addirittura Platone
    poteva scrivere: "Ora il primo e principale dei nostri bisogni è la
    provvista di cibo per l'esistenza e la vita. Il secondo è
    l'abitazione e il terzo è l'abbigliamento e cose simili"
    (Repubblica, II, 369 d).Già in T. C. Banfield, uno dei maestri di W.
    Stanley Jevons, troviamo chiaramente esposta "la prima proposizione
    della teoria del consumo: che la soddisfazione di ciascun bisogno
    inferiore della scala crea un desiderio di carattere più elevato
    [...]. La rimozione di un bisogno primario usualmente sollecita più
    di una privazione secondaria: così una disponibilità piena di cibo
    ordinario non solo stimola il piacere del buon mangiare, ma
    sollecita l'attenzione al vestirsi [...]. Ed è la costanza di un
    valore relativo negli oggetti di desiderio e l'ordine fisso di
    successione in cui questo valore sorge che rende argomento di
    calcolo scientifico la soddisfazione dei nostri bisogni" (v.
    Banfield, 1844, pp. 11-21).
    
    È questo il principio di subordinazione dei bisogni, secondo cui il
    soddisfacimento di certi bisogni è condizione necessaria del
    manifestarsi di altri - un principio che alcuni decenni dopo
    l'economista austriaco Carl Menger illustrerà e renderà celebre con
    la ben nota parabola del coltivatore solitario che procede a
    ripartire i frutti del proprio raccolto in relazione al grado di
    urgenza dei propri bisogni.
    
    Dall'affermazione che esistono priorità nell'ordine dei bisogni
    discende immediatamente un secondo principio, per la prima volta
    esplicitamente enunciato dall'economista tedesco Hermann Gossen: il
    principio dei bisogni saziabili, secondo cui l'intensità di un
    bisogno finisce col decrescere, fino a diventare zero e poi
    negativa, all'aumentare delle dosi di beni impiegate per
    soddisfarlo. Invero, la nozione di gerarchia implica che il soggetto
    soddisfi i propri bisogni in ordine di importanza, ma è evidente che
    solo se il bisogno più importante è saziabile, quello successivo
    potrà essere soddisfatto: un punto questo che Maurice Halbwachs pone
    in chiara evidenza in un'opera monumentale dedicata allo studio
    delle correlazioni tra bisogni e consumi (v. Halbwachs, 1913).
    
    D'altro canto, se è vero che esiste una saturazione (relativa) per
    qualsiasi bisogno, è altresì vero che un bisogno successivo ne
    prende sempre il posto. È proprio questo terzo principio, noto come
    principio della crescita dei bisogni, a escludere situazioni di
    saturazione assoluta. In L'ideologia tedesca Marx scrive al
    riguardo: "Il secondo punto è che, soddisfatto il primo bisogno,
    l'azione del soddisfarlo e lo strumento già acquisito di questa
    soddisfazione portano a nuovi bisogni: è questa produzione di nuovi
    bisogni la prima azione storica" (v. Marx ed Engels, 1845-1846; tr.
    it., p. 25).
    
    Come avvenga questo sviluppo dei bisogni, secondo quali modalità e
    con quali conseguenze è un problema che non può essere ignorato se
    non si vuol rinunciare a cogliere alcuni aspetti centrali del
    funzionamento del sistema economico. Di ciò ha chiara percezione
    Menger che pone la teoria dei bisogni a fondamento di tutta la sua
    teoria economica. L'uomo è soggetto, al pari degli animali, a
    provare impulsi e appetiti che lo spingono a procurarsi mezzi di
    soddisfazione immediati, che però non sono in grado di assicurargli
    vita e benessere. Data la sua natura, tuttavia, l'uomo è in grado di
    percepire anche i suoi bisogni veri e propri, ovvero ciò che gli è
    necessario per la "conservazione e lo sviluppo armonico della natura
    nella sua totalità" (v. Menger, 1871; tr. it., p. 76). 
    Ma da cosa dipende la possibilità di percepire i bisogni? La
    riflessione mengeriana acquista, a tale proposito, il valore di
    un'intuizione di grande momento. Poiché la percezione del bisogno è
    indotta da necessità pratiche, quanto più limitati sono i mezzi di
    cui un individuo dispone, tanto minori saranno le occasioni che egli
    avrà di conoscere i propri bisogni. Al contrario, "tanto più
    abbondanti sono i mezzi di cui una persona dispone, tanto maggiore è
    il suo desiderio di comprendere chiaramente le esigenze della
    propria personalità" (ibid., nota a). Sono dunque le condizioni
    soggettive dell'individuo, e in primo luogo i suoi mezzi (potere
    d'acquisto, informazione, ecc.), a fissare le modalità di crescita
    dei suoi bisogni. È questo un punto della più grande importanza, che
    purtroppo è stato accantonato negli sviluppi della teoria economica
    post-mengeriana, in cui il numero dei bisogni è invece un dato, e
    non una variabile che risente delle condizioni generali di crescita
    dell'economia. 
    
    5. Riducibilità dei bisogni e utilità
    
    I tre principî costituiscono, seppure in nuce, una felice
    schematizzazione della psiche del soggetto economico. Essi
    sottolineano, perlomeno, tre fatti fondamentali: a) il processo di
    produzione dell'esistenza è un processo temporalmente ordinato. Non
    è indifferente per il soggetto soddisfare un bisogno o un altro; vi
    sono certe priorità nel soddisfacimento che debbono essere
    rispettate; b) i rendimenti in soddisfazione di un certo processo di
    consumo sono variabili e oltre un certo punto decrescenti; c) il
    processo di produzione dell'esistenza non implica soltanto delle
    priorità, ma comporta anche delle insostituibilità. Il mancato
    soddisfacimento di certi bisogni non può essere compensato dal
    soddisfacimento di altri: non è possibile, altro che in
    ristrettissimi limiti, attenuare i morsi della fame dormendo di più.
    
    Eppure la scelta teorica dell'economia neoclassica, nei suoi
    sviluppi a partire dalla rivoluzione marginalista, è contraddistinta
    da un netto abbandono dell'impostazione precedente. Sostituendo ai
    tre principî dei bisogni la funzione di utilità, il pensiero
    neoclassico riesce a ignorare sia il principio della subordinazione
    sia quello della crescita dei bisogni, e a porre a fondamento del
    proprio edificio il solo principio dei bisogni saziabili,
    opportunamente qualificato come principio dell'utilità marginale
    decrescente: i rendimenti in soddisfazione di un certo processo di
    consumo sono non solo variabili, ma oltre un certo punto
    decrescenti.In questa nuova impostazione il soggetto possiede un
    unico bisogno fondamentale: il bisogno di utilità. All'origine
    dell'azione economica del soggetto vi è cioè un unico motore, la
    massimizzazione dell'utilità (poco importa se cardinale o ordinale)
    intesa come entità unica che sussumerebbe tutti i suoi bisogni. E
    poiché la funzione di utilità è posta come funzione diretta della
    quantità dei beni consumati, il risultato è che i beni sono tutti
    riducibili a un'unica sostanza, a una comune base che è appunto la
    loro capacità di produrre utilità. La struttura dei bisogni viene
    così appiattita su un unico bisogno, quello di utilità, col
    risultato, certo non secondario, che la pluralità di significati e
    le differenziazioni qualitative degli oggetti concreti di consumo
    vengono dissolte in una unidimensionale diversificazione di grado.
    Perché se tutti i beni servono, in definitiva, a generare utilità,
    il criterio per distinguere tra essi non può che essere quello della
    loro maggiore o minore capacità di produrre utilità. Come scrive con
    forza Nicholas Georgescu-Roegen (v., 1971, p. 52), nell'economia
    neoclassica "lo spettro dialettico dei bisogni umani (forse
    l'elemento più importante del processo economico) viene ridotto e
    nascosto nel concetto numerico e senza colore di utilità, per il
    quale, oltre tutto, nessuno è ancora riuscito a fornire un'effettiva
    procedura di misurazione".
    
    Quali le ragioni di una siffatta operazione di riduzione? Se si
    considera che il problema della crescita dei bisogni è inscindibile
    da quello del rapporto tra struttura sociale, sue trasformazioni e
    valori ispiratori che ordinano i bisogni degli individui nella
    società - perché, se l'appagamento dei bisogni tende a elevare il
    livello di aspirazione, ogni nuova fase di sviluppo porta a una
    ristrutturazione dei bisogni - la scelta teorica dell'economia
    neoclassica diviene intelligibile. Si tratta di rinunciare alla
    valenza esplicativa della teoria economica a favore dell'eleganza e
    determinatezza dei suoi risultati (v. Consumi). Un vuoto non più
    colmato si apre così fra le indagini empiriche sui consumi, che
    seguitano a rilevare relazioni del tipo contemplato dal primo e dal
    terzo principio dei bisogni, e la teoria economica ormai
    impermeabile a quei fenomeni. Riprendendo ancora Georgescu-Roegen
    (v., 1967, p. 169): "Come effetto di questo modo di procedere,
    problemi molto importanti a cui non si poteva dare risposta che in
    termini dei principî ignorati [primo e terzo] furono gradualmente
    cacciati nella categoria delle questioni senza senso".
    È significativo che, da quando l'utilità è entrata come categoria
    fondamentale nel discorso economico, la teoria neoclassica abbia
    finito con l'escludere dal proprio campo di ricerca quei processi di
    formazione, diffusione e diversificazione dei bisogni che avrebbero
    potuto costituire la base solida di uno studio rigoroso e
    soddisfacente non solo della domanda dei beni di consumo ma anche
    dell'evoluzione nel tempo storico del sistema economico. Col
    risultato collaterale che l'analisi ha finito con l'ignorare o col
    delegare a una letteratura di tipo sociologico e antropologico lo
    studio di tutte le attività economiche che intervengono su quei
    processi. Pertanto la base che la teoria dell'utilità - anche nelle
    versioni più recenti - offre alle ricerche empiriche è praticamente
    inesistente, il che dà conto del fatto che non pochi ricercatori
    empirici tentino di fondare le loro ricerche esclusivamente sul buon
    senso e sulla percezione intuitiva dei nessi causali. 
    
    6. Bisogni di base e approccio delle capacità
    
    In parziale ma significativa risposta alla situazione di disagio
    provocata dalla scelta riduzionista della teoria economica
    dominante, è andata prendendo corpo, in epoca recente, una nuova
    linea di riflessione centrata sulla nozione di bisogno di base
    (basic need: v. Streeten e altri, 1981). Non v'è dubbio che
    un'efficace sollecitazione a procedere in tal senso sia venuta dalla
    riapparizione di un approccio etico nel discorso economico. Il fatto
    che il problema dei bisogni rappresenti uno dei nodi centrali degli
    studi e dei progetti riguardanti lo sviluppo dei paesi del Terzo
    Mondo ha contribuito non poco al risveglio di interesse nei
    confronti di una tematica che - come abbiamo sopra ricordato - aveva
    occupato gli economisti all'epoca della prima rivoluzione
    industriale. 
    
    Scrive Paolo Sylos Labini (v., 1983, p. 106): "L'area delle persone
    che non riescono a soddisfare pienamente i bisogni essenziali -
    l'area della vera e propria miseria, ovvero della povertà assoluta -
    rappresenta una malattia che non è solo vergognosa dal punto di
    vista etico, ma ha effetti deleteri sull'intera società".Non vi è,
    né forse mai vi sarà, una nozione unica dei bisogni di base, i cui
    indicatori sono molteplici: durata media della vita, mortalità
    infantile, percentuale di analfabeti, disponibilità pro capite di
    calorie e proteine, disponibilità di alloggi, e così via. C'è
    tuttavia convergenza di opinioni sul fatto che si tratti di un
    concetto normativo e derivato a un tempo. Normativo perché per
    riconoscere che certe necessità o mancanze di un individuo sono
    bisogni occorre ammettere, da un lato, che esse sono urgenti, e
    dall'altro che esse rappresentano un obbligo per la società. 
    
    Invero, il riconoscimento dei bisogni di particolari individui o
    gruppi costituisce per la società un impegno assai più forte che non
    il mero riconoscimento di voleri o preferenze: affermare che certi
    bisogni devono essere soddisfatti significa appellarsi a una qualche
    nozione di giustizia, mentre affermare che certi voleri o preferenze
    vanno soddisfatti significa, sotto il profilo della giustizia,
    fornire ragioni per cui questo debba avvenire - ad esempio,
    specificando il contributo che l'individuo deve offrire.D'altro
    canto i bisogni, a differenza delle preferenze, costituiscono una
    categoria derivata nel senso che affermare che qualcosa (ad esempio
    mangiare) è un bisogno per un soggetto presuppone che ci si
    riferisca a voleri o diritti che vengono riconosciuti a quel
    soggetto (ad esempio il diritto di non morire di fame). Una
    preferenza può essere un fine in sé; non così un bisogno. Dunque, a
    differenza delle preferenze, i bisogni sono normativamente primari,
    ma derivati (v. Fitzgerald, 1977).
    
    Uno dei problemi centrali del dibattito contemporaneo sul tema dei
    bisogni di base è quello di identificare i bisogni meritevoli di
    speciale considerazione da un punto di vista pubblico. È
    interessante, al riguardo, la nozione di "interessi centrali"
    proposta da Thomas Scanlon (v., 1975): gli "interessi centrali" si
    distinguono dagli "interessi periferici" di un individuo o di un
    gruppo sulla base del criterio che i primi concernono, virtualmente,
    tutti. L'idea soggiacente a questa definizione è che gli individui
    sono portatori di un bisogno prioritario e fondamentale: quello di
    essere protetti dalle evenienze più socialmente inique. Qualsiasi
    teoria interessata ai bisogni, infatti, dà necessariamente rilievo
    all'idea intuitiva implicita nella nozione di bisogno, e cioè che il
    bisogno non costituisce una pretesa arbitraria. Le pretese valide
    sono quelle che, riguardando le condizioni generali dell'esistenza
    umana, risultano del tutto impersonali.
    
    Un altro aspetto importante della problematica dei bisogni di base,
    che recentemente ha alimentato un vivace dibattito, è quello del
    nesso tra malnutrizione e livelli produttivi. La malnutrizione non
    produce solo disagio e sofferenza, ma anche una minore capacità di
    intraprendere attività fisiche o mentali. A bassi livelli
    nutrizionali si determina un legame molto forte tra assorbimento di
    cibo e capacità di lavoro. Eppure è ancora frequente il luogo comune
    secondo cui i trasferimenti di cibo ai più poveri rischierebbero di
    abbassare ulteriormente i saggi di crescita del prodotto nazionale a
    causa della loro influenza negativa su risparmio, investimento,
    incentivi e così via. Si continua così a ignorare il fatto che
    provvedimenti del genere tendono ad accrescere la produzione
    attraverso un aumento della capacità lavorativa. Ora, è ben vero che
    è difficile sapere in anticipo quale dei due (effetto positivo sulla
    capacità lavorativa ed effetto negativo sull'incentivo a lavorare)
    sarà l'effetto maggiore, ma - come ricorda Sylos Labini (v., 1983,
    p. 107) - "è anche certo che, se si lascia languire nella miseria
    una parte della popolazione, lo sviluppo produttivo non può non
    soffrirne".
    
    Rompendo con l'impostazione neoclassica tradizionale, una linea di
    ricerca recente cerca di riportare la categoria di bisogno al centro
    dell'analisi del comportamento dei soggetti economici, basandosi
    sulla nozione di capacità intesa come capacità dell'individuo di
    esercitare certe funzioni. Secondo Amartya Sen (v., 1985) conviene
    muovere dalla semplice osservazione che quasi ogni bisogno può
    essere soddisfatto, in linea di principio, da diverse forme generali
    di consumo (individuali, familiari, sociali) e, all'interno di
    ciascuna di esse, da beni differenti. Inoltre l'individuo riconosce
    i beni specifici che possono soddisfare i suoi bisogni solo tra
    quelli prodotti e già esistenti sul mercato. Ciò posto, Sen propone
    di partire dalla nozione di 'capacità di soddisfare un bisogno'. La
    capability ha come oggetto diretto e immediato il bisogno; i beni
    servono quali strumenti, peraltro non univoci, per soddisfare i
    bisogni. La capacità nel senso di Sen è dunque un tratto distintivo
    di una persona in rapporto a un bene. E la capacità di esercitare
    una funzione riflette ciò che la persona può fare con i beni che ha
    a propria disposizione. "La persona che soffre per un parassita che
    le impedisce l'assimilazione di nutrimenti può morire di fame anche
    se consuma lo stesso ammontare di cibo di un'altra per la quale
    quell'ammontare è del tutto adeguato" (v. Sen, 1985, p. 9).
    
    Proprio perché la capacità di esercitare una funzione appartiene
    alla categoria dei diritti, essa ha valore a prescindere
    dall'utilità che l'esercizio effettivo di quella funzione può
    eventualmente produrre. La teoria dominante, in quanto parte dal
    presupposto che la sola cosa che ha valore per il soggetto è
    l'utilità, non riesce a recepire nozioni quali quelle di 'diritto a'
    o 'libertà di'. All'origine della povertà della struttura
    informativa della teoria tradizionale sta l'insistenza a giudicare
    degno di considerazione solo quello che può essere misurato col
    metro dell'utilità, come se il giudizio sull'importanza di qualcosa
    potesse essere ridotto alla misura dell'utilità associata a quel
    qualcosa, o come se la relazione 'migliore di' potesse essere
    trasformata, senza scarto, nella relazione 'maggiore di'. Alan
    Gibbard è vicino a questa posizione quando osserva - disapprovando -
    che l'unità di misura della teoria economica neoclassica è la
    soddisfazione delle preferenze e non già la soddisfazione dei
    bisogni dell'individuo. E si chiede: "Perché mai dovremmo accettare
    che il benessere di una persona sia costituito dal grado al quale le
    sue preferenze sono soddisfatte anziché dal grado al quale essa si
    dichiara felice?" (v. Gibbard, 1986, p. 169).
    
    Quali i vantaggi più significativi dell'approccio suggerito da Sen?
    In primo luogo esso consente di superare alcune grosse difficoltà
    implicite nel fatto che i beni oggetto della scelta del consumatore
    non sono da lui stesso proposti, ma da altri soggetti economici, ad
    esempio dai produttori. La più grave di tali difficoltà è che in
    contesti del genere le preferenze dei consumatori possono non
    esprimere i loro bisogni. Questo non costituisce un problema per la
    teoria tradizionale in quanto, partendo dalle preferenze assunte
    come un prius, questa teoria non ritiene di dover indagare sui
    rapporti intercorrenti fra preferenze e bisogni, ammettendo
    implicitamente che le une siano espressione perfetta degli altri.
    Eppure le preferenze hanno come referente i beni e non i bisogni, si
    esercitano cioè sui beni e non sui bisogni. Solamente se il soggetto
    dei bisogni fosse, al tempo stesso, anche colui che 'definisce' i
    beni atti a soddisfare quei bisogni non vi sarebbe alcuno scarto tra
    bisogni e preferenze. Ma chiaramente così non è in un'economia di
    mercato.
    
    Un secondo importante terreno di feconda applicazione dell'approccio
    basato sulla nozione di capacità concerne la teoria del mutamento
    strutturale e in modo particolare la teoria dello sviluppo
    economico. L'impostazione tradizionale, mentre è adeguata a
    risolvere problemi di natura allocativa - problemi nei quali
    occorre, in buona sostanza, decidere non quali ma quanti beni
    produrre -, si trova del tutto impotente di fronte all'obiettivo di
    spiegare i processi di sviluppo economico. Come insegna la celebre
    legge di Engel questi processi sono infatti caratterizzati da
    mutamenti qualitativi del pattern dei consumi e dunque la
    comprensione della loro evoluzione non può che passare attraverso la
    comprensione dell'evoluzione della struttura dei bisogni.
    
    Psicologia sociale 
    di Riccardo Luccio
    
    Sommario: 1. Premessa. 2. Aspetti
    psicologici. 3. Aspetti sociologici. □ Bibliografia. 
    
    1. Premessa
    
    Il concetto di bisogno ricorre frequentemente nella psicologia
    contemporanea, ma la sua definizione è tutt'altro che univoca e
    varia da autore ad autore. In linea di massima, il concetto è legato
    a quello di omeostasi: in altre parole, le teorie psicologiche che
    concepiscono il comportamento in termini di tendenza all'equilibrio
    vedono il bisogno come una condizione di allontanamento o di
    carenza, che spinge l'organismo ad agire per riottenere la
    condizione di equilibrio perduto. Vi è quindi una duplice accezione
    del termine: bisogno come stato di disequilibrio, o di mancanza, e
    bisogno come tensione o pulsione, che spinge l'individuo all'azione
    per compensare la mancanza. A questa dicotomia ne corrisponde
    un'altra, più operativa, proposta da Murray (v., 1938), forse il più
    grande studioso in questo campo: bisogno come tendenza osservata
    oggettivamente, e bisogno come effetto che il soggetto dice di
    desiderare. In senso non strettamente tecnico, la più diffusa
    accezione del termine è comunque quella del bisogno come spinta
    all'azione; non vi è quindi da meravigliarsi se nella letteratura
    psicologica e sociologica si parla spesso di bisogno, al di là di
    una definizione specifica, come se si trattasse di pulsione (drive),
    tensione, spinta, o semplicemente motivo. D'altro canto, diversi
    autori hanno utilizzato nei loro sistemi teorici termini che erano
    strettamente tecnici, ma il cui significato si sovrappone in larga
    misura da un sistema all'altro, e si sovrappone a questo uso meno
    tecnico del termine bisogno. Così non è sempre facile distinguere,
    appunto, tra bisogno e alcune accezioni specifiche dei termini
    valore, interesse, atteggiamento, motivo, erg, tratto e così via.
    Questa relativa ambiguità ha fatto quindi storcere la bocca a molti,
    tanto che non è mancato chi ha definito tout court i concetti
    motivazionali psicodinamici di questo tipo, dai bisogni alle
    pulsioni, dei "relitti fossili" di cui la psicologia moderna farebbe
    bene a sbarazzarsi (v. Heckhausen, 1980). In realtà, come ad esempio
    osserva Thomae (v., 1983), al di là delle imprecisioni, questi
    "relitti fossili" appaiono ancora vitalissimi, in campi anche assai
    diversi e tuttora in sviluppo, dalla teoria della personalità
    all'etologia.
    
    In linea generale, il concetto di bisogno si è comunque affermato in
    psicologia, tra le due guerre mondiali, sulla scia, come si è detto,
    delle concezioni biologiche e soprattutto di quelle omeostatiche.
    Per omeostasi si intende quel complesso di processi che si svolgono
    nell'organismo per mantenere le condizioni di equilibrio. Il
    concetto di omeostasi è stato enunciato dal grande fisiologo
    americano W. B. Cannon (v., 1932), ma concetti analoghi erano già
    presenti, nel secolo scorso, nella biologia positivistica e in
    particolare in Claude Bernard (v., 1878-1879), che aveva rilevato
    come i limiti di variazione dei fluidi che compongono il milieu
    intérieur (l'ambiente interno, contrapposto al milieu extérieur,
    l'ambiente esterno) fossero ristretti e come ogni scostamento dai
    valori medi producesse quindi delle risposte automatiche per
    ricondurre la situazione all'equilibrio.
    
    Il concetto di omeostasi di Cannon rappresenta una sistematizzazione
    e un ampliamento delle primitive intuizioni di Bernard. Cannon, che
    si occupò non superficialmente anche di psicologia, descrisse
    accuratamente dei meccanismi omeostatici per la concentrazione di
    acqua nel sangue, per la concentrazione di sale, per la glicemia,
    per la lipemia, e per altri indici fisiologici. Tra gli anni trenta
    e gli anni quaranta furono date delle clamorose dimostrazioni
    sperimentali, per merito soprattutto di C.P. Richter e di Paul T.
    Young, di come gli squilibri fisiologici influissero anche sul
    comportamento, indirizzato verso azioni che consentono di tornare a
    un equilibrio omeostatico. Un semplice esempio è quello della
    ricerca di determinati cibi da parte di animali che sono stati
    tenuti a dieta con carenze specifiche.Il concetto di bisogno
    acquista quindi uno specifico significato in primo luogo in
    riferimento al concetto di omeostasi. Come nota infatti Young (v.,
    1961), il concetto di bisogno è valutativo e implica un giudizio di
    valore, relativo o assoluto. Quando si dice che un organismo 'ha
    bisogno' di qualcosa, si intende che l'avere quel qualcosa sarebbe
    per lui una cosa positiva. Ma per definire un concetto valutativo
    occorre un criterio, e il concetto di omeostasi è evidentemente un
    criterio oggettivo e valido a questo scopo. In questi termini il
    bisogno si definisce come mancanza di un elemento necessario
    all'omeostasi e tendenza dell'organismo all'attività, sino alla
    rimozione della mancanza.
    
    A fianco dell'omeostasi, il concetto di sopravvivenza ha anch'esso
    un indubbio valore come criterio di definizione del bisogno. È
    superfluo ricordare che si tratta di un concetto che si affaccia
    prepotentemente nelle scienze naturali con Charles Darwin (1859) e
    che ha profondissime influenze anche sulla psicologia, essendo
    determinante per la nascita del funzionalismo nel secolo scorso e
    improntando in questo secolo numerose dottrine: per quel che ci
    riguarda più da vicino, dalla teoria degli istinti di McDougall
    all'etologia, fino all'ultima nata, la sociobiologia. Anche qui,
    comunque, il criterio della sopravvivenza diventa definitorio dei
    bisogni. Si crea un bisogno quando manca qualcosa di indispensabile
    alla sopravvivenza e si genera una tensione che spinge l'organismo
    all'attività. Palesemente questo criterio può essere considerato il
    più generale e il criterio dell'omeostasi ne può essere ritenuto un
    esempio particolare.
    
    Evidentemente, tuttavia, possono essere individuati anche molti
    altri criteri. Si possono definire i bisogni in base alle necessità
    della riproduzione (ad esempio, la carenza di vitamina E rende
    impossibile questo processo); o ancora, in relazione allo stato di
    salute; o alla normalità dello sviluppo dell'individuo.
    
    Se questi bisogni hanno tutti comunque una base biologica (v.
    Becker-Carus, 1983), si assume comunemente, come meglio vedremo in
    seguito, che a fianco dei bisogni cosiddetti primari, definiti sulla
    base di carenze fisiologiche, ne debbano essere individuati anche di
    secondari, legati a necessità più propriamente psicologiche
    dell'individuo; si ritiene spesso che essi derivino, secondo
    meccanismi non individuati univocamente nelle diverse teorie, dai
    primi. Così, il bisogno di successo o il bisogno di affiliazione si
    presentano come tipici bisogni secondari: l'individuo sente il
    bisogno di ottenere dei risultati dalle attività che svolge; o sente
    il bisogno di appartenere a un certo gruppo, essere riconosciuto
    come membro dagli altri membri di questo; e così via. È certamente
    importante la determinazione del meccanismo genetico che fa sorgere
    questi bisogni, magari in modo differenziato nelle diverse culture e
    nelle diverse classi sociali (per fare un esempio, nella classe
    operaia sarebbe più diffuso il bisogno di affiliazione, con
    conseguente maggiore solidarietà tra i membri della classe; nelle
    classi superiori prevarrebbe invece il bisogno di successo, con
    conseguente prevalere della competitività). Da questo punto di
    vista, la psicologia (e la sociologia) di orientamento marxista ha
    particolarmente insistito sulla determinazione storica dei bisogni,
    che, come dice Rubinštejn (v., 1946), nei loro concreti contenuti
    derivano dallo sviluppo dei rapporti di produzione e riproduzione
    all'interno della società. Notiamo, tra parentesi, come nel corso
    degli anni settanta abbia incontrato in Occidente una straordinaria
    popolarità (i cui echi sono oggi molto attutiti) l'analisi marxista
    dei bisogni della scuola di Budapest, e in particolare dell'allieva
    di Lukács, Ágnes Heller (v., 1976; v. anche Schmieder, 1981). Forse
    più importante è però l'individuazione di criteri che siano cogenti
    quanto quelli di ordine biologico, che consentano cioè di definire i
    bisogni secondari in modo altrettanto attendibile e non ambiguo.
    Purtroppo possiamo dire subito che probabilmente questo è tuttora il
    punto debole delle teorie prevalenti dei bisogni. 
    
    2. Aspetti psicologici
    
    Come abbiamo già avuto modo di dire, sono molte le teorie
    psicologiche in cui è stato fatto uso di concetti largamente
    sovrapponibili per significato a quello di bisogno, anche se i
    termini impiegati sono diversi. Prima di affrontare le classiche
    teorie dei bisogni affermatesi tra le due guerre, vediamo
    rapidamente l'uso di almeno due termini in diversi contesti teorici:
    quelli di istinto e di pulsione. Entrambi questi termini, assieme
    comunque a quello di bisogno, possono essere riassunti sotto il
    termine più comune di motivo. Vedremo allora, sia pur molto
    schematicamente, le principali teorie psicologiche che hanno
    affrontato il problema del comportamento motivato sulla base di
    questi concetti.Il concetto di istinto è forse quello che nella
    psicologia della motivazione vanta la storia più illustre. Con esso
    si intende, in genere, una struttura ereditaria, legata in larga
    misura alle caratteristiche biologiche della specie, che indirizza
    il comportamento in determinate direzioni. Nella psicologia moderna
    esso è stato utilizzato soprattutto da parte di tre indirizzi
    abbastanza distinti: la psicanalisi, la teoria emergentista-dinamica
    di McDougall e l'etologia.
    
    Per quel che riguarda la psicanalisi, ci limitiamo qui a ricordare
    che Freud prevede, come concetti distinti, sia gli istinti che le
    pulsioni. Per Freud gli istinti sono schemi ereditari di
    comportamento, secondo la classica definizione che abbiamo dato
    sopra, sono schemi filogenetici, a cui corrisponderebbero nell'uomo
    dei 'fantasmi originari'. Peraltro maggior rilievo hanno nel sistema
    freudiano le pulsioni, e particolarmente, nella versione più matura,
    le pulsioni di vita (Eros) e di morte (Thanatos), che rappresentano
    rispettivamente la tendenza della materia organica alla
    sopravvivenza e alla riproduzione, e la tendenza contraria a tornare
    all'inorganico. Purtroppo, pur essendo i concetti di pulsione
    (Trieb) e di istinto (Instinkt) nettamente distinti in Freud, il
    primo termine è stato spesso tradotto, in inglese come in italiano,
    con istinto, il che ha generato una notevole confusione. Rileviamo
    ancora che il termine 'bisogno' (Bedürfnis) è viceversa
    sostanzialmente assente dalla psicanalisi, comparendo solo nel
    'bisogno di punizione'; il termine è stato probabilmente scelto da
    Freud per sottolineare l'origine organica, biologica, di questa
    tendenza.
    
    Nella psicologia generale è stato indubbiamente William McDougall
    (v., 1908), che peraltro si ispirava largamente a William James, a
    rendere popolare il concetto di istinto. Per McDougall l'istinto è
    una certa tendenza specifica della mente umana, innata o ereditata,
    che costituisce la molla delle attività e dei pensieri dell'uomo,
    che vengono così orientati, individualmente e collettivamente, verso
    una meta. A fianco di queste tendenze specifiche, che sono gli
    istinti, esistono però anche tendenze aspecifiche, che dipendono
    dalla costituzione della mente e dalla natura dei processi mentali e
    che diventano sempre più importanti con l'aumentare della
    complessità dei processi mentali nel corso dell'evoluzione. È
    importante rilevare che per McDougall tutta l'attività sociale, e
    non solo il comportamento individuale, si fonda su schemi
    istintuali.
    
    Questo concetto di istinto entrò tuttavia in crisi, specie in
    psicologia comparata, apparendo a molti autori, come nota Gottlieb
    (v., 1979), circolare (gli uccelli si accoppiano, fanno nidi e
    allevano i piccoli per istinto riproduttivo. Cos'è l'istinto
    riproduttivo? È ciò per cui gli uccelli ecc.). Negli anni trenta e
    quaranta, però, per merito soprattutto di Lorenz (v., 1935) e
    Tinbergen (v., 1942), il concetto di istinto ebbe una nuova
    formulazione nella scuola dell'etologia. Venne così formulata la
    teoria oggettivistica dell'istinto, attraverso cui venivano
    identificati gli atti motori corrispondenti ai comportamenti
    istintivi e si sosteneva che questi erano, come gli organi,
    invarianti, adattivi ed ereditabili. In questo modo gli istinti
    potevano essere utilizzati, come la morfologia, per determinare le
    omologie tra specie, e cioè le rassomiglianze tra specie diverse
    assunte come derivanti da un progenitore comune.
    Particolare rilievo aveva però per l'etologia l'interazione tra
    schemi istintuali e azione dell'ambiente sull'organismo.
    Esisterebbero nell'animale dei meccanismi innati che, per tradursi
    in atti motori attuali, devono essere attivati da determinate
    stimolazioni ambientali. Si parla così di 'meccanismi innati di
    liberazione', che obbligano coercitivamente a determinati
    comportamenti, se sono date certe condizioni ambientali. Ma questi
    meccanismi innati hanno anche dei periodi critici di maturazione,
    nei quali è indispensabile che l'organismo riceva gli stimoli giusti
    nel tempo giusto. Se viene saltato il tempo critico, o se viene dato
    al tempo giusto uno stimolo improprio, il meccanismo innato non
    maturerà, o maturerà in modo alterato. È questo il caso, reso
    popolarissimo da Lorenz, dell'imprinting, il meccanismo attraverso
    cui il piccolo riconosce la madre, e nello stesso tempo la femmina
    della specie, e che orienta così tutto il futuro comportamento
    sessuale.Il termine pulsione, al di là della sua presenza nella
    psicanalisi freudiana, viene introdotto nella psicologia generale da
    Robert S. Woodworth a partire dal 1918 e si è affermato soprattutto
    nel neocomportamentismo americano degli anni trenta, in particolare
    nelle accezioni di Clark Hull e Kenneth Spence (la cosiddetta scuola
    di Yale). Il termine viene utilizzato in molte diverse accezioni;
    secondo Young (v., 1961), per esempio, sono almeno sei i suoi
    principali significati: 1) energia che muove il corpo; 2) stimolo o
    condizione tissulare interna che libera energia e induce
    all'attività; 3) stato generale di attività; 4) tendenza
    comportamentale diretta a una meta; 5) attività specifica diretta a
    una meta; 6) fattore motivante: interesse, scopo o volere.
    
    L'accezione che più si sovrappone a quella di bisogno è la seconda,
    ed è quella utilizzata dalla scuola di Yale. Così per Hull (v.,
    1943) lo stato tissulare che genera lo stimolo pulsionale è appunto
    il bisogno. Se il comportamento così stimolato porterà a una
    riduzione della pulsione, tenderà a ripetersi, ed è questo
    meccanismo il cardine del processo di apprendimento.
    Molto schematicamente, secondo questo modello, il processo di
    apprendimento si svolgerebbe allora così: se un animale è in stato
    di bisogno, si genera una pulsione che stimola l'animale all'azione.
    È importante rilevare che la pulsione, contrariamente al bisogno, è
    aspecifica. C'è pertanto un bisogno legato alla fame o alla sete, ma
    le pulsioni che ne derivano non si differenzierebbero. Accanto alla
    pulsione si generano però stimoli interni (ad esempio stimoli
    provenienti dalla contrazione delle pareti dello stomaco nel caso
    della fame), che, in interazione con stimoli esterni, orientano il
    comportamento. Il soddisfacimento del bisogno riduce la tensione
    generata dalla pulsione e questa riduzione costituisce un rinforzo,
    che fissa il comportamento che ha portato a tale riduzione.
    
    È importante rilevare che all'interno del modello si prevede la
    possibilità dell'esistenza di pulsioni acquisite o secondarie. Le
    pulsioni primarie, generate da bisogni fisiologici quali la fame o
    la sete, che hanno un ruolo preminente negli animali e nei bambini,
    non sono infatti in grado di spiegare una serie di comportamenti, i
    più tipici dell'uomo adulto, che chiaramente non sono motivati da
    questo genere di disequilibri tissulari.
    
    Il concetto di bisogno, come autonomo e distinto da quelli di
    istinto o di pulsione, si afferma comunque nella psicologia generale
    soprattutto a seguito di quel vigoroso movimento sviluppatosi nella
    psicologia americana degli anni trenta in diretto riferimento alla
    teoria della personalità. Il movimento personologico tende
    soprattutto a rivalutare l'individuo, studiato come singolo e nelle
    sue differenze da tutti gli altri individui, contro la tendenza, che
    si va affermando viceversa nei laboratori comportamentisti, di
    annullare qualsiasi differenza individuale, con la presunzione di
    cogliere leggi psicologiche valide per tutti gli uomini, se non per
    tutti gli organismi, dal ratto all'Homo sapiens. In questo
    movimento, assai composito, il concetto di bisogno viene a svolgere
    in molte teorizzazioni un ruolo centrale, contrassegnando il momento
    della necessità individuale, che spinge il singolo all'azione.
    È Kurt Lewin (v., 1935), psicologo tedesco di formazione gestaltista
    costretto a emigrare negli Stati Uniti durante il nazismo, che ne dà
    una prima formulazione divenuta molto rapidamente popolarissima. La
    teoria dinamica di campo di Lewin ha al suo centro il concetto di
    spazio vitale, e cioè quell'insieme di fatti e valori, obiettivi,
    ostacoli, barriere, attrazioni e repulsioni, che costituisce la
    totalità dell'ambiente psicologico in cui l'individuo vive e che è
    unico per ogni individuo. La teoria afferma che il comportamento C
    di una persona che ha caratteristiche psicologiche P, e vive in un
    ambiente di cui percepisce le caratteristiche A, è funzione delle
    caratteristiche della persona e dell'ambiente: C = f (P, A). Secondo
    Lewin per bisogno va inteso ogni stato motivato. La presenza di un
    bisogno corrisponde a una tensione che spinge a un comportamento.
    Ma, sempre secondo Lewin, è fuorviante cercare di definire
    immediatamente i bisogni in termini fisiologici, perché si tratta di
    stati psicologici, così come è sbagliato tentare di inquadrarli
    subito in una serie di categorie precise.
    
    Se con Lewin si ha quindi una rapida diffusione del concetto di
    bisogno, che rimane comunque in quanto tale in uno stato di relativa
    indeterminatezza, nella teoria della personalità questo concetto
    viene comunque definito in altri contesti con più precisione e si
    afferma decisamente, sulla fine degli anni trenta, grazie
    soprattutto a Murray (v., 1936 e 1938). La teoria di Murray è
    indubbiamente la più completa e coerente teoria dei bisogni che sia
    mai stata prodotta in psicologia. Per di più questo autore ha
    stimolato un numero enorme di ricerche, nonché di applicazioni in
    campi diversi, da quello clinico, all'industriale, al sociale;
    alcuni suoi concetti, come quello di "bisogno di successo" (need for
    achievement), sono diventati un cardine della teoria della
    motivazione. Per questa ragione ci diffonderemo un po' più a lungo
    sulla teoria dei bisogni di Murray (come faremo, tra breve, e per
    motivi analoghi, su quella di Maslow).
    
    Henry A. Murray, medico di formazione biologica giunto abbastanza
    tardi alla psicologia a seguito della lettura di Jung, tenta una
    difficile conciliazione tra la psicologia sperimentale e la
    psicanalisi. Murray definisce "regno" il processo cerebrale che si
    instaura in un dato tempo, attivato dalle eccitazioni provenienti
    dall'interno o dall'esterno dell'organismo, e che determina
    un'attivazione in uscita. Un processo regnante è allora per Murray
    un processo cerebrale che influenza nella sua globalità l'organismo.
    Di qui segue la sua definizione di bisogno, in larga misura derivata
    dalla definizione di istinto di McDougall: una tensione regnante (o,
    in altri suoi scritti, una 'forza' nella regione cerebrale) che
    viene evocata dalla percezione, consapevole o meno, di un certo
    stato interno o di una certa situazione nel mondo, e che tende a
    persistere, stimolando l'attività dell'organismo in una determinata
    direzione, sinché non verrà raggiunto un certo stato interno o una
    certa situazione esterna. Per dirla in modo diverso, un bisogno è
    una forza che, se inibita, tende a produrre un'attività; se questa
    attività è efficace, genera una situazione tendenzialmente opposta a
    quella che ha generato il bisogno.
    
    La capacità che ha una situazione interna o esterna di spingere un
    individuo all'azione viene detta da Murray "pressione"; in altri
    termini, gli stimoli interni o esterni non vanno considerati
    isolati, ma in termini di raggruppamenti strutturati e
    significativi, vere e proprie 'Gestalt di stimolazione', dotate di
    un significato. Le pressioni vengono distinte in alfa e beta, a
    seconda che il loro significato sia proprio della situazione di
    stimolazione o sia solo percepito. L'unità di comportamento, che
    Murray chiama "tema", è quindi costituita da un complesso di cui
    fanno parte pressione e bisogno. La vita di un individuo può essere
    concepita come una serie di temi in successione.
    
    Murray distingue quindi i bisogni in base a varie caratteristiche;
    essi possono essere così processuali o modali: i primi sono diretti
    al puro svolgimento di un'attività, i secondi determinano le
    modalità di tale svolgimento. Possono poi essere manifesti o
    latenti, a seconda del livello di coscienza a cui operano. Possono
    essere ancora focali o diffusi, a seconda dell'ambito che
    abbracciano.
    Le due categorie generali di bisogni di maggior rilievo, e più
    ampiamente riprese da altri autori sulla scia di Murray, sono quelle
    dei bisogni primari, o viscerogenici (somagenici), e secondari, o
    psicogenici (distinzione molto prossima a quella tra pulsioni
    primarie e pulsioni acquisite del modello neocomportamentista). I
    primi sono la risultante diretta della percezione, consapevole o
    meno, di uno stato corporeo. Sarà soprattutto lo stato fisiologico
    interno dell'organismo a generare il bisogno, ma esso potrà sorgere
    anche in seguito a stimoli esterni. Così, sarà lo stato fisiologico
    della carenza di cibo a provocare la fame, e la ricerca di cibo si
    avrà anche indipendentemente dalla percezione di cibo all'esterno;
    ma la vista del cibo potrà in determinati casi suscitare il bisogno
    prima della percezione dello stato fisiologico di carenza.
    
    Murray distingue tre categorie di bisogni primari, che a loro volta
    possono essere positivi o negativi. Si hanno così bisogni di
    'mancanza' (tutti positivi), che conducono a un'assunzione:
    inspirazione di ossigeno, assunzione di acqua, di cibo, piaceri
    sensoriali; bisogni di 'distensione', che inducono all'emissione:
    possono essere di secrezione (positivi), come il sesso o la
    lattazione, e di escrezione (negativi), come l'espirazione,
    l'urinazione e la defecazione. Infine si hanno bisogni di 'danno'
    (negativi): evitare il dolore, il caldo, il freddo, le lesioni. Vi
    sarebbero poi bisogni di 'passività': necessità di rilassamento, di
    riposo, di sonno.
    
    Dai bisogni primari deriverebbero i bisogni psicogenici, secondari,
    non legati direttamente a stati organici. Va peraltro rilevato che,
    contrariamente ad altri autori, non è chiara in Murray la
    derivazione dei bisogni secondari da quelli primari. L'elenco dei
    bisogni psicogenici è troppo lungo perché possa essere qui
    integralmente riportato, ed è stato inoltre oggetto di numerosi
    rimaneggiamenti. Ci limitiamo quindi a presentarne alcuni dei più
    noti e utilizzati nelle ricerche e nelle applicazioni.Abbiamo così
    bisogni di acquisizione (bisogno di acquisire in proprietà cose o
    denaro, e di lavorare a tal fine); di conservazione (collezionare,
    conservare, anche curare i propri possessi con pulizie, restauri,
    ecc.); di ordine (mettere in ordine, essere precisi, ecc.); di
    ritenzione (conservare sino all'avarizia); di costruzione
    (organizzare e costruire); di superiorità (bisogno di potere), a cui
    sono subordinati il bisogno di successo, di riconoscimento, di
    esibizione; di inviolatezza (bisogno di evitare un deprezzamento del
    rispetto di sé), a cui sono subordinati il bisogno di evitare
    situazioni di inferiorità (infavoidance, bisogno di sfuggire alle
    cattive figure), di difesa, di controreazione; e ancora il bisogno
    di dominanza, di autonomia, di aggressione, di affiliazione, di
    gioco. E molti altri se ne potrebbero aggiungere.
    
    È interessante il fatto che Murray ha sviluppato un test proiettivo,
    il TAT (Thematic Apperception Test), che consente di rilevare i
    'temi', e cioè i complessi di bisogni e pressioni, come sopra
    definiti, che sono presenti nella struttura della personalità
    dell'individuo. Come tutti i test proiettivi (di cui il più famoso,
    anche a livello di divulgazione popolare, è il celebre test delle
    macchie di inchiostro di Rorschach), anche il TAT si avvale di un
    materiale poco strutturato a cui il soggetto deve attribuire un
    significato, 'proiettando' su tale materiale elementi propri della
    struttura della sua personalità. Nel caso del TAT il test si compone
    di una serie di tavole che rappresentano delle persone in
    atteggiamenti ambigui. Ad esempio, una tavola rappresenta un bambino
    che ha davanti un violino, ma la sua espressione non consente di
    dire quale sia il suo rapporto con il violino e quale atteggiamento
    abbia di conseguenza nei suoi riguardi. Il soggetto viene invitato a
    dire cosa rappresenta la scena, cosa è accaduto prima, cosa accadrà
    poi. Si assume allora che i temi che emergeranno in queste sue
    risposte saranno propri della struttura tematica (bisogni e
    pressioni) della sua personalità. Il TAT è oggi dopo il Rorschach
    (di cui è certamente più attendibile e valido, essendo quest'ultimo
    uno strumento molto dubbio sul piano psicometrico) il più diffuso
    test proiettivo nell'uso non solo clinico, ma anche per tutte le
    applicazioni della psicologia che richiedono un'analisi
    personologica.
    
    L'altra grande teoria dei bisogni in ambito
    motivazionale-personologico è quella di Abraham H. Maslow (v. 1943 e
    1954), sviluppata a partire dagli anni quaranta. La prospettiva di
    Maslow è 'olistica': in altri termini questo autore, che parte dalla
    tradizione funzionalistica americana dei James e dei Dewey, rimane
    profondamente influenzato dalla psicologia della Gestalt, e in
    particolare da Max Wertheimer e da Kurt Goldstein, che lo spingono a
    considerare sempre l'individuo come una "totalità integrata".
    Secondo Maslow, infatti, il punto di partenza per lo studio di
    motivazione e personalità è l'individuo intero, nel suo complesso, e
    ogni analisi che non inizi e non acquisti significato da questo
    punto globale di partenza diventa fuorviante. Ma vi è un altro
    apporto fondamentale nel pensiero di Maslow, ed è quello
    psicanalitico, che egli tenta di conciliare con questi apporti
    tipici della psicologia generale e sperimentale.
    
    Contrariamente a quanto riteneva Murray, per Maslow è "impossibile e
    vano" cercare di stendere un elenco dei bisogni fisiologici
    fondamentali, quelli cosiddetti primari, perché il loro numero
    dipende dal livello di specificità della descrizione dei meccanismi
    fisiologici. Così, se esiste il bisogno di cibo, si può indurre il
    bisogno di una certa categoria di cibo, e quindi di una
    sottocategoria, e così via all'infinito. Di più, Maslow critica le
    definizioni di bisogno in termini di puri meccanismi omeostatici, a
    cui non sono riconducibili, a suo avviso, molti bisogni fisiologici:
    il desiderio sessuale, il sonno, la spinta al comportamento materno.
    Ma, osserva Maslow, nell'uomo la spinta all'azione per squilibri
    fisiologici è atipica, mentre è tipica nell'animale. L'organismo è
    allora soggetto a una gerarchia di bisogni, e quelli che dominano
    l'uomo sono bisogni più 'elevati'. Una volta soddisfatti i bisogni
    fisiologici, i primi a emergere sono, nell'ordine, quelli di
    sicurezza; una volta soddisfatti questi, emergono i bisogni d'amore,
    che comprendono i bisogni d'affetto e di appartenenza; vengono
    successivamente i bisogni di stima e quelli di autorealizzazione.
    Peraltro Maslow avverte che tale gerarchia non va vista come una
    necessità assoluta; l'ordine non è identico per tutti gli individui.
    Vi sono persone per le quali il bisogno di stima precede quello
    d'amore; altre per le quali, ad esempio, la pulsione alla creatività
    sarà talmente forte da manifestarsi anche se i bisogni più basilari
    non sono soddisfatti; e gli esempi potrebbero continuare.
    
    Con Murray e con Maslow si chiude la stagione dei grandi
    'personologi', che hanno posto al centro dell'analisi del
    comportamento motivato il concetto di bisogno. La tendenza attuale è
    sostanzialmente diversa. In questi ultimi anni, infatti, le teorie
    della motivazione, seguendo l'andamento generale che si è potuto
    constatare in tutta la psicologia, si sono fatte sempre più
    'cognitive', hanno sempre più abbandonato il terreno psicodinamico,
    ma nel contempo, scostandosi dalle teorizzazioni
    comportamentistiche, si sono allontanate anche dalle concezioni
    pulsionali. Si sono affacciati nuovi concetti a spiegare il
    comportamento motivato, dalla teoria della dissonanza cognitiva ai
    processi di attribuzione, ai modelli di helplessness o di locus of
    control. Nelle stesse teorie del comportamento più legate a modelli
    biologici si è assistito a un profondo ripensamento di concetti come
    quello di bisogno, ma anche di istinto, sul versante etologico e
    comparato; sul versante psicofisiologico si è dato maggior peso a
    modelli neurologici in termini di attivazione o di arousal, più che
    di carenza.Il concetto di bisogno è quindi relativamente scomparso
    dalle più attuali teorizzazioni del comportamento motivato, se si fa
    eccezione per le teorizzazioni di stampo marxista, specie della
    Heller, che in Italia hanno avuto un ruolo particolarmente
    importante nel dibattito sociologico (ma forse in misura ancora
    superiore nel dibattito sulla nuova psichiatria), ma che hanno
    notevolmente perso di rilievo in questi ultimi anni.
    
    Se ha perso di precisione teorica e di spessore specialistico, mai
    forse come in questi ultimi anni il concetto di bisogno è stato
    tuttavia tanto presente nella sua accezione relativamente
    aspecifica, inteso soprattutto come tendenza all'azione, venendo
    decisamente a soppiantare i suoi rivali di sempre: istinto,
    pulsione, tendenza, motivo, e così via. E forse i tempi sono maturi
    perché un nuovo Murray o un nuovo Maslow lo rimettano al centro
    della teorizzazione del comportamento motivato. 
    
    3. Aspetti sociologici
    
    In sociologia il concetto di bisogno presenta delle chiare analogie
    con quello impiegato in psicologia (e da cui frequentemente viene
    fatto derivare, in un parallelismo tra organismo vivente individuale
    e organismo sociale, soprattutto in alcune teorizzazioni di stampo
    positivistico). Sono quindi sempre presenti i concetti di
    privazione, di necessità, di ricerca di elementi indispensabili alla
    sopravvivenza o al benessere (in questo caso del gruppo sociale). In
    linea assolutamente generale, si afferma poi in larga misura, sulla
    scia soprattutto di quanto osservato in antropologia culturale da
    Malinowski (v., 1944), che la cultura va considerata una risposta
    storica che un gruppo sociale dà ai bisogni degli individui che lo
    compongono; e che dai bisogni 'primari', legati a stati di
    privazione biologica, derivano dei bisogni 'secondari', legati ai
    rapporti sociali. In realtà, con poche eccezioni, è però ben
    difficile che nelle scienze sociali si approfondisca in modo
    sistematico il concetto di bisogno, e se nelle teorizzazioni si
    parla dei rapporti che sussistono tra i bisogni e le funzioni, o le
    norme, o i valori, per il versante 'bisogno' lo scienziato sociale
    tende poi sempre a rimandare al concetto come è definito in
    psicologia. Vengono così affacciati alcuni concetti di bisogno
    'sociale', spesso vaghi sul piano definitorio: Goldschmidt (v.,
    1959) parla di 'bisogno di risposta positiva', Linton (v., 1945) di
    'bisogno di risposta emotiva favorevole', di 'bisogno di sicurezza',
    di 'bisogno di esperienze nuove'.
    
    Ma le classificazioni dei bisogni secondari sono infinite e, come si
    è detto, spesso piuttosto vaghe. Tra i bisogni sociali di cui più
    spesso si parla vi sono il bisogno di potere come realizzazione
    (potere 'di') e come dominazione (potere 'su'), il bisogno di
    relazione, come comunicazione o come affiliazione, e così via.
    
    Evidentemente nelle scienze sociali il bisogno viene visto in
    funzione non tanto della natura dell'organismo individuale, quanto
    dell'interazione sociale. Così, per fare un esempio (v. Johnson,
    1960), se, come affermava Hobbes, la scarsità di beni in rapporto al
    numero di persone che vorrebbero entrarne in possesso provoca, in
    assenza di norme regolative, una lotta continua per il potere, e se
    organizzazione e stabilità devono invece caratterizzare la vita
    sociale, allora sorge un bisogno sociale di mitigare la lotta per il
    potere. I modelli culturali che possono poi derivare da questo
    bisogno sociale non sono necessariamente gli stessi per ogni
    cultura, né, all'interno di una cultura, per ogni gruppo sociale.
    Non tutti gli autori, peraltro, accettano in sociologia (e in
    antropologia culturale) il concetto di bisogno, per le implicazioni
    teleologiche che esso presenta. Così, ad esempio, Radcliffe-Brown
    (v., 1935) sostiene che in luogo di bisogni occorrerebbe parlare di
    'condizioni necessarie di esistenza'; anche in questi termini,
    comunque, è implicito che ci sono effettivamente condizioni
    necessarie di esistenza per le società umane, in stretta analogia
    con quanto avviene per gli organismi animali.
    
    Da un punto di vista sociologico il concetto di bisogno è
    strettamente legato da un lato a quello di funzione, dall'altro a
    quello di valore. Il rapporto tra bisogno e funzione viene affermato
    probabilmente per la prima volta, nella sociologia moderna, nel 1895
    da Durkheim, secondo il quale la 'funzione' di un'istituzione
    sociale è la corrispondenza che esiste tra l'istituzione stessa e i
    'bisogni' dell'organismo sociale. E di converso, si può dire di ogni
    istituzione, o di ogni struttura sociale, che possiede una funzione
    se dà il suo contributo alla soddisfazione dei bisogni sociali.
    Sulla base di queste considerazioni è quindi possibile utilizzare,
    come strumento potente di analisi delle strutture sociali, la
    cosiddetta analisi funzionale, che occupa una posizione centrale
    nella teoria sociale contemporanea (v. Merton, 1957, in particolare
    il cap. 1).
    
    In questa prospettiva, il concetto di bisogno assume un risalto
    notevole nella teoria dell'azione sociale, il cui principale
    esponente è Talcott Parsons (v., 1937; v. Black, 1961; v. Parsons e
    altri, 1953). In questa teoria vengono classicamente distinti
    quattro ordini di problemi funzionali, la cui soluzione porta alla
    soddisfazione dei bisogni sociali. Ogni sistema sociale deve infatti
    risolvere: a) il problema della conservazione del modello (pattern
    maintenance) e del controllo delle funzioni; b) il problema
    dell'adattamento; c) il problema del perseguimento dello scopo (goal
    attainment); d) il problema dell'integrazione. I bisogni acquistano
    rilievo come variabili interne, di orientamento agli oggetti, che
    possono essere distinte per specificità o diffusione, e per
    neutralità o affettività. Si hanno così bisogni (o meglio,
    interessi) per l'utilizzazione strumentale (neutrali e specifici);
    bisogni consumatori (di portare, cioè, a compimento degli atti
    preparatori; affettivi e specifici); bisogni di eseguire (neutrali e
    diffusi); bisogni affiliativi (affettivi e diffusi).
    
    Come si è detto, il concetto di bisogno è in sociologia
    particolarmente legato a quello di valore, e da questo punto di
    vista particolarmente preziosi sono stati i contributi di Clyde
    Kluckhohn (v., 1951), che non a caso ha collaborato
    significativamente negli anni trenta con H. A. Murray, il
    personologo americano, al centro del cui sistema vi è, come abbiamo
    visto, quella che senz'altro può ritenersi la più importante teoria
    dei bisogni sviluppata nella psicologia. Secondo Kluckhohn un valore
    è una concezione, che può essere esplicita o implicita, tipica di un
    singolo individuo o propria di un gruppo sociale, che rappresenta un
    fattore determinante nella scelta dei possibili modi, mezzi e fini
    dell'azione. I valori regolano così la soddisfazione degli impulsi,
    ma nel far questo essi si fondano sulla struttura gerarchica dei
    bisogni che costituisce la struttura della personalità
    dell'individuo; e soprattutto, si fondano su due bisogni
    determinanti: quello d'ordine, proprio della personalità e del
    sistema sociale, e quello del rispetto degli interessi degli altri e
    dei gruppi come un tutto nella vita sociale.
    
    È evidente che una definizione così ampia non consente poi di
    individuare operativamente i reali rapporti tra valori e bisogni. In
    particolare, non è facile determinare il processo attraverso cui la
    cultura determina quelle scale differenziali su cui collocare gli
    oggetti e le persone, sulla base dei cosiddetti valori attributivi,
    che deriverebbero da un bisogno sociale di scelta comparativa. Vi è
    poi spesso una certa confusione terminologica, che fa sì che il
    termine 'valore' venga usato in modo interscambiabile con altri
    termini che indicano stati motivazionali (in primo luogo,
    evidentemente, i bisogni).
    
    Peraltro, come nota Williams (v., 1972), il fatto che venga in
    genere accettato che il sistema di valori entra a far parte
    integrante della personalità dell'individuo appartenente a una certa
    cultura non significa che i valori abbiano lo status di elementi
    motivazionali, dovendo essere invece tenuti ben distinti dai motivi
    (e, sull'altro versante, dalle norme). Come diceva il già citato
    Kluckhohn (v., 1951, p. 425), "un dato valore può avere una forza
    relativamente indipendente da ogni motivo specifico, pur rimanendo
    in un certo senso funzione del sistema motivazionale totale".
    
    In conclusione, il concetto di bisogno ha certamente esercitato, e
    seguita a esercitare, una considerevole influenza sulla
    teorizzazione in campo sociale. Questa influenza è derivata
    storicamente soprattutto dall'analogia tra organismo sociale e
    organismo individuale, ma si è particolarmente affermata sulla scia
    delle teorizzazioni funzionalistiche e grazie all'impatto che la
    personologia degli anni trenta ha avuto sulle scienze sociali.
    Peraltro il concetto di bisogno, mai troppo approfondito in ambito
    sociologico e fatto derivare spesso senza sufficiente analisi dalla
    psicologia, non sempre si rivela sul piano operativo uno strumento
    idoneo. Forse per questo motivo, sempre più spesso gli studiosi
    tendono ad abbandonarlo a favore di altri concetti motivazionali. È
    comunque un chiaro caso in cui, come denunciato da tanti scienziati
    sociali (v., per esempio, Kardiner e Ovesey, 1951), la
    frammentazione delle scienze dell'uomo porta a una perdita di
    spessore scientifico nel trasferimento di concetti da un ambito
    disciplinare a un altro.