Assoluto

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Ciò che non dipende da altro per la sua realtà, opposto quindi a ‘condizionato’, ‘dipendente’, e non esclude la relazione per la quale un altro dipenderebbe da lui.

Connesso a questo significato è l’altro di ‘compiuto in sé e per sé’, ‘perfetto’. Questo secondo valore prevale e caratterizza la filosofia greca, che, nella sua svalutazione del divenire come segno e manifestazione d’imperfezione, tendeva a concepire l’a. come ciò che è sottratto alle vicende del divenire, come realtà compiuta nella sua perfezione. 

Dizionario di Filosofia (2009)

Ciò che non dipende da altro per la sua realtà, incondizionato. Si oppone quindi propriamente a «condizionato», «dipendente», ma non a «relativo», giacché esso non esclude la relazione per la quale un altro dipenderebbe da lui. Oltre a questo significato, a. ha l’altro (del resto connesso con il primo) di «compiuto in sé e per sé», «perfetto».

Nella filosofia antica.

Il secondo significato (che nella storia della speculazione si trova spesso fuso col primo) prevale e caratterizza la filosofia greca, che, orientata com’è verso la svalutazione del divenire come segno e manifestazione d’imperfezione, tende a concepire l’a. come ciò che è sottratto alle vicende del divenire, come realtà che è tutto quello che può essere, realtà tutta in essere e compiuta nella sua perfezione. La speculazione greca intorno all’a. inizia propriamente con Platone, che oppone il mondo eterno delle idee, culminante nell’idea del Bene che tutte le coordina e le riassume, al mondo effimero del divenire. All’interno di tale concezione una attenzione particolare meritano la natura e il ruolo dell’anima, che è sotto molti aspetti un altro a., in quanto all’origine vive una vita iperuranica nella totale assenza di corpo, di cui non sente affatto la mancanza, e che anzi Platone concepisce, soprattutto nella prima fase del suo pensiero, come una sorta di punizione dell’anima. Altra manifestazione del suo carattere di assolutezza è quella di essere per sua natura automotrice, ossia capace di muovere sé stessa e perciò destinata a muovere i corpi, dai quali però resta non condizionata e indipendente. Tale concezione viene ulteriormente perfezionata dal neoplatonismo, e mette capo all’idea dell’Uno, a. nel vero senso del termine, perché sciolto da qualsiasi legame con le entità sottostanti – Intelletto e Anima – che nascono e vivono «rivolgendosi» a lui (ἐπιστϱοφή), ma che da lui vengono completamente ignorate, perché l’Uno, che si è «sottratto» da tutto, versa in uno stato di incoscienza, essendo per definizione «al di là dell’intelletto». L’Uno – come il «motore immobile» di Aristotele (ma diversamente da questo, perché il motore immobile è ancora un intelletto che pensa sé stesso) – mette in moto tutto il cosmo in quanto è il cosmo che si muove verso di lui. Anche nel neoplatonismo si conferma il carattere a. dell’anima, in particolare dell’anima del mondo. Infatti è una dottrina caratteristica di Plotino, per es., che il corpo (del mondo) è nell’anima, ma l’anima non è nel corpo. Il concetto di a. è naturalmente anche al centro della speculazione gnostica, sia pagana che cristiana, che lo pone in cima alla piramide degli enti, solitario ed unico in un «abisso» posto al di là del tempo e dello spazio.

L’idealismo classico tedesco.

Largamente presente nel platonismo medievale e rinascimentale, in particolare nelle correnti mistiche, tale concezione dell’a. riceve nuova linfa vitale dall’idealismo tedesco posteriore a Kant – e anzi in aperta polemica con le conclusioni scettiche della terza parte della Critica della ragion pura , la Dialettica trascendentale, riguardo alla possibilità di conoscere l’assoluto La speculazione intorno all’a. è infatti al centro dell’idealismo oggettivo di Schelling e di Hegel, che inizialmente prendono le mosse da un a. indifferenziato, assimilato da entrambi alla «notte». Ben presto, tuttavia, le due filosofie prendono strade diverse. Mentre Schelling resterà sostanzialmente fermo a quella che Hegel definirà ironicamente una «notte in cui tutte le vacche sono nere» (Fenomenologia dello Spirito, 1807) , Hegel si attesta sul concetto di un a. che ha in sé la differenza, definito fin dagli anni giovanili «identità dell’identità e della non identità». Il concetto era già noto al neoplatonismo, che lo usava per descrivere l’attività dell’Intelletto o υοῦς, ma non poteva trovare applicazione all’Uno, imprimendo quello che Hegel definirà un tratto di «orientalismo», cioè di irrazionalismo mistico, a tutto il sistema neoplatonico. Hegel propende invece per una «mistica razionale», una mistica, cioè, nella quale all’a. non si arrivi attraverso una intuizione improvvisa (il «colpo di pistola» della Fenomenologia – altra allusione a Schelling), ma attraverso una dimostrazione. La realizzazione di questo complesso programma filosofico è affidata principalmente a uno strumento: la «mediazione che toglie sé stessa», o «mediazione della mediazione». Tale concetto, illustrato soprattutto nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche  (1817), consiste – come nelle cosiddette prove «a posteriori» della tradizione tomistica – nel partire ancora una volta dal finito per arrivare all’a., per poi scoprire, invece, che il finito, da cui l’a. pareva dipendere come punto di partenza, è in realtà un prodotto dell’a. stesso, nel quale si dissolve, come il cibo, che pure dà inizio al processo digestivo, si scioglie nei succhi gastrici e diventa una sola cosa con questi. Analogamente, nel processo hegeliano di mediazione, l’a. distrugge ciò da cui in un primo tempo pareva dipendere, e si rivela il vero protagonista dell’intero processo dialettico.

Nelle lunghe Aggiunte ai §§ 80 e 92 dell’Enciclopedia Hegel precisa che l’apparente consistenza e identità delle cose finite è opera della «bontà» dell’a. (di Dio), ma che superiore alla bontà dell’a. è la sua «potenza», in virtù della quale le cose finite appaiono per quello che realmente sono, e cioè un suo prodotto privo di autonoma sussistenza. L’a. si conferma così, a pieno titolo, un vero a., cioè un incondizionato. Resta naturalmente una fondamentale differenza con qualsiasi concezione mistica dell’a., in particolare quella che Hegel tiene costantemente presente quando parla di Jacobi e del «sapere immediato». Nella concezione hegeliana l’a. è processualità, anzi l’a. si può e si deve confermare tale solo ed esclusivamente nella processualità, perché solo nella processualità si può confermare come il signore di tutto. L’a. dei mistici si condanna a una «inerte solitudine», dalla quale risulta più la sua impotenza che la sua potenza. L’a. di Hegel non ha nessun timore di entrare nel tempo e nello spazio attraverso l’alienazione , perché spazio e tempo sono dentro di lui, e l’alienazione è momentanea, apparente, è un «gioco» – termine e concetto già presenti nella filosofia neoplatonica – che egli intraprende seco stesso.

Il secondo Heidegger.

Dopo Essere e tempo  (1927) la filosofia di Heidegger, a partire dalla cosiddetta «svolta» iniziata con la Lettera sull’umanismo (1946), appare sempre più condizionata da temi che, più che hegeliani, potrebbero essere definiti neoplatonici. Il vero protagonista di Essere e tempo era l’essere finito (Da-sein, l’essere temporale) e il suo destino mortale, e dell’Essere, benché presente nel titolo dell’opera, non v’era traccia. Il tema principale dell’opera, conseguentemente, non era l’oblio dell’Essere, ma l’oblio della natura finita dell’Esserci, nel disperato tentativo di rinviare sine die l’incontro con la morte, l’unico vero «avvenire» che si prospetti a un essere consegnato a essa fin dalla nascita. Nella velata critica di ogni «filosofia dell’avvenire» emergeva il rifiuto di ogni prospettiva consolatoria, e l’invito ad affrontare con spirito lucido e rassegnato il proprio destino. Completamente diversa appare invece la prospettiva heideggeriana dopo il 1946.

Nelle opere del secondo periodo l’Essere – termine con cui Heidegger ora intende l’a. – appare il vero protagonista del processo, e l’essere finito il suo «pastore» o il suo profeta. Di questa seconda figura c’è bisogno solo perché l’Essere ama nascondersi, e si «sottrae» alla vista dei più. Nasce da ciò – ora – il vero e proprio oblio dell’Essere, che tuttavia viene concepito, hegelianamente, come un momento che l’Essere stesso ha progettato. In realtà quei pochi tra gli eletti che sanno mettersi all’ascolto dell’Essere sanno che l’a. è sempre stato accanto a noi, e preparano il terreno per la sua manifestazione futura.

Enciclopedia Italiana (1930)

di Le. G., F. En.

ASSOLUTO (da absolvo "sciolgo, libero", absolutus omni re, "sciolto da ogni cosa, quindi incondizionato, in sé e per sé stante, compiuto in sé, immutabile, perfetto"; fr. absolu; sp. absoluto; ted. Absolut; ingl. absolute). - L'assoluto, in senso empirico, è ciò che è per sé pensato, non in relazione ad altro, anche se in altri rapporti è condizionato o relativo; in senso gnoseologico è ciò che necessariamente è da riconoscere: verità assoluta, valore assoluto; in senso metafisico significa ciò che è al di sopra di ogni differenza ed opposizione finite, rivelantesi attraverso di esse, non condizionato dalle forme del conoscere finito, assolutamente trascendente, pensato solo come concetto limite, inconoscibile nella sua natura o metagnostico. Donde l'assoluto come vita e logica del mondo temporale nella sua sopratemporalità; nel suo sopraessere costituente il vero essere del mondo fenomenico; nel suo contenuto inesauribile o transfinito, ponentesi come la vita del mondo nel suo infinito divenire. Dunque la storia del concetto di assoluto è la stessa storia della filosofia.
Ma è stato forse Nicola da Cusa il primo che abbia adoperato sistematicamente la parola "assoluto" per designare l'oggetto ultimo della speculazione filosofica. Il problema dell'assoluto nasce appena si fanno sentire le difficoltà logiche dell'essere che diviene; cosicché, di fronte a ciò che è e che non è nello stesso tempo, si pone ciò che necessariamente è. Di fronte alla natura quale si manifesta ai sensi, sorge la natura determinata dalla ragione. Tutta la filosofia antica è imperniata su questo concetto realistico del mondo; il suo progresso è il progresso nell'elaborazione del concetto di natura, che culminerà nell'ὂν ὄντως di Platone e nella forma delle forme, nella νόησις νοήσεως di Aristotele, con cui Dio resta sempre sostanza: termine del mondo, ma, perché termine che nel suo essere lo contiene, tutto vanificante in sé il mondo; quantunque possa parere che l'immanentismo aristotelico dell'idea abbia valorizzato il mondo, rispetto all'assoluta trascendenza platonica. Il pensiero antico si conclude nello scetticismo; e dopo aver fatto un sovrumano sforzo di abbracciare l'assoluto, come sintesi di oggetto e soggetto, con l'intuizione nel rapimento mistico, a mezzo del neoplatonismo, la vecchia filosofia, profondamente minata dal principio della soggettività, che vi si è già radicato e vi ha acuita la coscienza della contraddizione, si dissolve per cedere il posto al cristianesimo, che ne feconda e trasfigura tutti gli elementi. Centro di riferimento diviene il soggetto, e implicitamente la realtà assoluta è posta come spirituale, non sostanza ma spirito. È questa una conquista definitiva, ma non sì che essa non debba ancora, con asprissimo travaglio, vincere la vecchia posizione intellettualistica, che l'insidia e che ben presto la dominerà. L'assoluto è divenuto spirito: Dio è spirito; ma Dio è concepito come trascendente, essere eterno e perfetto, sostanza o natura infinita. In S. Tommaso Dio è absolutum secundum quod in se est. Aristotele ritorna a trionfare e a porsi come l'ostacolo che il nuovo pensiero dovrà rimuovere.

Con Cartesio si pone l'autocoscienza a principio di ogni conoscenza; e in fondo la realtà si pone come coscienza di sé o come mente che cercando l'essere lo realizza. Ma ci vogliono due secoli di travaglio speculativo prima che questo pensiero maturi la nuova filosofia o il nuovo concetto di assoluto. Da Cartesio, attraverso il dommatismo delle due sostanze, si passa a Spinoza, che tutto risolve nella sostanza, il cui concetto non ha bisogno d'altro per essere formato e che è Dio in quanto essenza assolutamente infinita; e poi a Leibniz, che di questa sostanza spinoziana, "radice indifferente così di pensiero come di estensione, fa uno spirito che chiude in sé il suo universo" (Gentile). Ma questo dommatismo della sostanza o della monade assoluta viene a urtarsi contro le conseguenze scettiche dell'empirismo inglese, che, partito dall'esperienza e quindi dalla omogeneità dell'oggetto al soggetto, non può ammettere altra scienza che non sia analitica, perché non riesce a vedere altro ordine che non sia soggettivo. E così, se l'assoluto non può essere sostanza senza sottrarsi ad ogni possibilità di conoscenza, d'altra parte la conoscenza, se non deve essere un fatto privo di valore, una semplice organizzazione di abitudini psicologiche, non può non contenere elementi assoluti. Cioè deve esserci una radice comune e dell'oggetto e del soggetto.

Ed è questa la scoperta copernicana di Kant, per il quale all'universalità comparativa dei concetti rappresentativi viene opposta la validità assoluta di quelli puri o delle forme conoscitive a priori, comune principio e dell'organizzazione della nostra esperienza e di quella degli oggetti; e le idee trascendentali si riferiscono alla totalità assoluta o all'assolutamente incondizionato. Il quale vien poi posto come al di là di ogni possibile esperienza, soprasensibile principio di essa, quindi non oggetto della ragion teoretica, ma rivelantesi immediatamente nell'assolutezza della legge morale. Cosicché in Kant assieme al nuovo è mescolato il vecchio pensiero della realtà o dell'assoluto come essere. E da Kant in poi, attraverso l'elaborazione dottrinale di Fichte, che parte dall'Io assoluto; di Schelling, che chiama assoluto il principio originario delle cose e lo pone come l'identità di natura e spirito, di reale e ideale, afferrabile solo dall'intuizione intellettuale, che è il punto in cui il sapere dell'assoluto e l'assoluto formano uno; di Hegel, per cui

Assoluto è l'Idea e questa è assoluto Spirito, l'intuizione antica della realtà come oggetto o dell'assoluto come immobile essere lotterà con la nuova intuizione della realtà come soggetto, costituendone la negatività del processo dialettico. Anche il soggetto del Hegel, non è il vero soggetto, se esso ha davanti un Logos, che forma, svolgendosi, un mondo, una realtà in sé, presupposta da quell'ultima fase del divenire, in cui essa si pone come per sé nello spirito umano. Di qui, dopo lo scandalo della filosofia hegeliana, il ritorno al formale e superficiale kantismo del rifiuto d'ogni metafisica, del conoscere chiuso nell'esperienza con le connesse invincibili violazioni del principio metodologico nel positivismo, nell'evoluzionismo, nel fenomenismo, nel contingentismo, nell'intuizionismo, nel pragmatismo.

Ma tanto più vitale e dinamica, dopo tanta esperienza e approfondimento della epistemologia, doveva riaffermarsi la concezione dell'assoluto come soggetto o la trasformazione della sostanza assoluta in soggetto assoluto. Verso questa trasformazione dà l'avviamento l'idealismo critico anglo-sassone nei suoi rappresentanti principali, quali il Royce e il Green. E si deve dire che tocca alla filosofia italiana un posto cospicuo in quella contemporanea per questa trasformazione. Significativo l'idealismo cui è pervenuto il Varisco col suo concetto di Unità o Soggetto assoluto, relativamente immanente e trascendente in ogni particolare soggetto e ad ogni soggetto; e quindi Dio personale in cui tutti siamo inclusi e che ricorda per questo rinascente leibnizismo la metafisica spiritualistica del Royce, per il quale la realtà assoluta è l'esperienza assoluta d'uno spirito autocosciente che tutti comprende.

Ma sono gli spiritualisti o neo-idealisti - il Croce e il Gentile - gli eliminatori d'ogni residuo di trascendenza dal hegelismo, soprattutto nella formulazione gentiliana. Essi in quest'opera si vogliono riallacciare alla speculazione di G.B. Vico, in cui vedono la prima chiara affermazione della metafisica della mente; e il secondo alla profonda elaborazione che del hegelismo operò B. Spaventa. Nell'Io gentiliano il pensiero immanentistico compie il suo più grande sforzo. L'assoluto è definitivamente soggetto, anzi il Soggetto, nella cui attualità il mondo tutto si risolve; ma, per questa attualità che è "atto in atto", vi si risolve con un processo dialettico infinito, in cui è la storia, e per cui la stessa storia infine vien vista come il fondamentale dovere dell'uomo di crearla, per realizzarvi all'infinito la propria divinità.