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Aristòtele (o Aristòtile; gr. ᾿Αριστοτέλης, lat. Aristotĕles, nel
      Medioevo latino Aristotĭles). - Filosofo greco (Stagira 384-83 a.
      C. - Calcide 322 a. C.). 
    
Fu, con Socrate e Platone, uno dei più grandi pensatori
      dell'antichità e di tutti i tempi. Nato da una famiglia di medici,
      si formò nell'Accademia platonica; dopo la morte di Platone iniziò
      un periodo di viaggi durante il quale insegnò in molte città; tra
      il 343 e il 342 si occupò, su richiesta di Filippo II di
      Macedonia, dell'educazione di Alessandro Magno; tornato ad
      Atene  fondò nel 335-34 la sua scuola, il Liceo. 
    
La sua attività di ricerca è stata prodigiosa: ha affrontato
      studi di metafisica, fisica, biologia, psicologia, etica,
      politica, poetica, retorica e logica, discipline cui diede veste
      sistematica, creando una vera e propria "enciclopedia del sapere"
      che ha dominato la cultura occidentale sino al 17° secolo. 
    
Il corpus aristotelico, cioè il complesso delle sue opere a noi
      pervenute, è costituito dagli scritti esoterici  (interni,
      cioè destinati alla sua scuola), mentre degli scritti essoterici
      (destinati al pubblico) restano pochi frammenti. 
    
Le opere pervenute: 1) Opere di logica, in seguito indicate come
      Organon: Categorie, Sull'espressione, Analitici primi, Analitici
      posteriori , Topici , Elenchi sofistici; 2) Opere di fisica:
      Fisica , Il cielo, Generazione e corruzione, Meteorologia, Storia
      degli animali, Parti degli animali, Generazione degli animali,
      altre minori, nonché L'anima e una serie di opuscoli i Parva
      naturalia; 3) Scritti di filosofia prima: Metafisica, così
      chiamata, sembra, perché posta "dopo i libri di fisica"; 4) Opere
      morali e politiche: Etica Eudemea, Grande Etica (d'incerta
      autenticità), Etica Nicomachea, Politica, Costituzione degli
      Ateniesi; 5) Opere di poetica: Retorica, Poetica.
      
      VITA.
      
      Figlio di Nicomaco, medico di Aminta II di Macedonia, A. trascorse
      i primi anni della sua giovinezza a Pella. Morto il padre, ebbe
      come tutore un parente di nome Prosseno, di cui poi adottò il
      figlio. 
    
A diciotto anni si trasferì ad Atene ed entrò a far parte
      dell'Accademia platonica rimanendovi per quasi vent'anni, fino
      alla morte di Platone, verso il quale nutrì sempre, malgrado tutte
      le invenzioni e le maldicenze, profonda amicizia e venerazione:
      basta ad attestarlo il celebre elogio - che certo va riferito a
      Platone - dell'"uomo che i malvagi non hanno nemmeno il diritto di
      lodare", contenuto nell'elegia per l'altare dedicato a Eudemo di
      Cipro. 
    
Fu quindi in parte per motivi politici e in parte per i dissensi
      con Speusippo, il nuovo scolarca dell'Accademia, che A., in
      compagnia di Senocrate, lasciò Atene per recarsi in Asia Minore,
      presso Ermia, tiranno di Atarneo. Nella vicina Troade, a Scepsi e
      ad Asso, esistevano comunità platoniche, e in esse A. cominciò a
      svolgere il suo magistero. Vi rimase tre anni e Ermia gli dette in
      moglie la nipote e figlia adottiva Pizia. 
    
Forse proprio per le insistenze del discepolo Teofrasto si
      trasferì a Mitilene, dove insegnò fino al 343-42, quando accolse
      l'invito di recarsi alla corte di Filippo II di Macedonia per
      occuparsi dell'educazione del principe Alessandro. 
    
Salito questi al trono, tornò ad Atene e vi fondò nel 335-34 una
      scuola che, dalla sua sede, il recinto sacro ad Apollo Liceo,
      trasse il nome di Liceo, e dal περίπατος "passeggiata", che i suoi
      membri percorrevano discutendo, quello di Peripato, o scuola
      peripatetica. 
    
Dopo circa dodici anni di direzione della scuola, morto
      Alessandro e prevalso in Atene il partito antimacedonico, A. fu
      accusato di empietà, ma sfuggì al processo riparando a Calcide
      nell'Eubea, dove morì l'anno dopo (322) di una malattia di
      stomaco.
      
      OPERE E PENSIERO.
      
      Circa la storia e il carattere degli scritti di A. molta luce è
      stata fatta negli ultimi decenni: gli antichi conobbero una serie
      di opere, nella maggior parte dialogiche, pubblicate da A. stesso
      e lodate anche per i pregi della loro forma letteraria, di cui noi
      possiamo leggere solo pochi frammenti (tra le principali: Grillo,
      Eudemo, Protreptico, Sulla giustizia, Sulla filosofia, Sulle idee,
      Politico, Sofista, ecc.). La perdita di queste opere dedicate al
      pubblico (e perciò dette essoteriche) è certamente dovuta alla
      pubblicazione, fatta da Andronico da Rodi, degli scritti che A. e
      alcuni discepoli avevano redatto in funzione dei corsi di lezioni
      svolti all'interno del Liceo (perciò dette esoteriche o, anche,
      acroamatiche, cioè destinate all'ascolto e costituenti il Corpus
      aristotelicum da noi attualmente posseduto). Questa pubblicazione
      che, secondo la tradizione, conclude una storia assai romanzesca
      di tali scritti, fece col tempo passare in secondo piano gli
      scritti essoterici. 
    
La ricostruzione delle vicende degli scritti di A. e degli
      ambienti in cui esse si svolsero hanno permesso di comprendere
      come gradatamente, anzi, gli scritti essoterici venissero
      nettamente contrapposti a quelli esoterici; e poiché nei primi si
      scorgevano larghe tracce di dottrine platoniche, si favoleggiò che
      in essi A. non avesse svelato il suo vero pensiero (riservato ai
      discepoli iniziati e alle opere esoteriche), ma avesse solo
      espresso false opinioni altrui; ciò anche in base all'errata
      convinzione che A. avesse radicalmente criticato la dottrina
      platonica fin dal suo primo soggiorno nell'Accademia. Questa
      tradizione e l'immagine stereotipa di un A. sistematico, rigido e
      immutabile hanno per lungo tempo paralizzato anche la critica
      moderna, oscillante tra la tendenza di considerare non autentiche
      le opere essoteriche (Ross) e quella di espungere da esse ogni
      traccia di platonismo per salvarne l'autenticità (Bernays).
      
      È grande merito dello Jaeger (e in Italia del Bignone) aver dato
      un'impostazione nuova al problema, considerando le opere
      essoteriche e il platonismo in esse espresso come documento della
      prima fase dell'evoluzione filosofica di A., evoluzione
      rintracciabile anche tra i varî strati redazionali riconoscibili
      nelle stesse opere acroamatiche. Nella loro disposizione
      sistematica esse sono le seguenti: 1) Opere di logica (in seguito
      indicate sotto il nome complessivo di Organon): Categorie,
      Sull'espressione, Analitici primi (2 libri), Analitici posteriori
      (2 libri), Topici (8 libri), Elenchi sofistici; 2) Opere di
      fisica: Fisica (8 libri), Il cielo (4 libri), Generazione e
      corruzione (2 libri), Meteorologia (4 libri), Storia degli animali
      (10 libri), Parti degli animali (4 libri), Generazione degli
      animali (5 libri), altre minori, nonché L'anima (3 libri) e una
      serie di opuscoli raccolti sotto il nome di Parva naturalia; 3)
      Scritti di filosofia prima: Metafisica (14 libri), così chiamata,
      sembra, perché posta "dopo i libri di fisica", in greco τὰ μετὰ τà
      ϕυσικά; 4) Opere morali e politiche: Etica Eudemea (7 libri),
      Grande Etica (2 libri: d'incerta autenticità), Etica Nicomachea
      (10 libri), Politica (8 libri), Costituzione degli Ateniesi; 5)
      Opere di poetica: Retorica (3 libri), Poetica. Di una serie di
      altri scritti compresi nel corpus (Problemi, Retorica ad
      Alessandro, Fisionomici, ecc.) l'autenticità è con molto
      fondamento messa in dubbio.
      
      Le linee dello sviluppo filosofico di Aristotele, che dallo Jaeger
      in poi si sono sempre meglio venute individuando, consentono di
      distinguere tre periodi: quello accademico, quello del soggiorno
      ad Asso, a Mitilene e in Macedonia e, infine, quello
      dell'insegnamento al Liceo. Nel primo periodo, a cui risalgono,
      tra gli altri, gli scritti Eudemo, Protreptico e Sulla giustizia,
      A. riprende la dottrina platonica dell'immortalità dell'anima,
      considerata come "forma determinata", cioè come sostanza (e non
      ancora, quindi come "forma di qualcosa", cioè del corpo, come sarà
      più tardi); esalta la vita contemplativa e l'esercizio della
      ϕρόνησις (platonicamente intesa come la forma più alta di
      riflessione e quindi come il più nobile atteggiamento che il
      filosofo possa assumere, ben diversa, quindi, da quella "prudenza"
      che A. includerà nella serie delle virtù nell'Etica Nicomachea),
      considera il bene come il "fine" (τέλος) supremo. Nel secondo
      periodo, A. porta in primo piano i motivi di divergenza dal
      platonismo: Platone stesso, nei suoi ultimi dialoghi, aveva
      sottoposto la sua dottrina delle idee a un potente sforzo di
      rielaborazione, consapevole delle numerose difficoltà da essa
      suscitate. Speusippo, d'altra parte, aveva accentuato l'aspetto
      matematico delle idee e su questa interpretazione si appuntarono
      dapprima le critiche di A., per estendersi poi gradatamente alla
      dottrina platonica in generale e soprattutto alla "separazione"
      delle idee dalle cose. Accanto agli scritti Sulla filosofia e
      Sulle idee risalgono a questo periodo le sezioni più antiche della
      Fisica, della Metafisica, dell'Etica Eudemea e della Politica, in
      cui più evidenti sono ancora le tracce del platonismo (Dio,
      supremo ordinatore e fine di tutte le cose; l'animazione dei
      cieli; l'etere quinto elemento, ecc.). Nel terzo periodo, infine,
      a cui risale la redazione di quasi tutto il Corpus aristotelicum
      da noi posseduto, A. raggiunge la piena maturità dottrinale, in
      cui si misura pienamente il suo distacco da Platone.
      
      Se le idee hanno un'esistenza assolutamente separata dagli oggetti
      dell'esperienza sensibile, come possono essere fondamento della
      realtà delle cose? Per costituirne l'essenza devono essere
      intrinseche a esse: e se anche questo si ammette, parlando di una
      "presenza" dell'idea in ciascuno degl'individui che ad essa
      "partecipa", forza è concludere che la sua esistenza separata e
      indipendente non aggiunge nulla di essenziale al quadro della
      realtà, dando anzi luogo a un suo duplicato superfluo (cosiddetto
      argomento del terzo uomo). L'idea, essenza eterna, universale,
      dominante l'esistenza transeunte degl'individui, si determina
      nella materia, costituendo la singola e concreta realtà. L'"idea"
      platonica si trasmuta così nella "forma" aristotelica (μορϕή, o
      ancora, col vecchio nome, εἶδος), e quell'elemento negativo che
      nella natura, per Platone, si componeva col puro essere dell'idea
      facendo sì che essa divergesse sempre dalla sua perfezione,
      diviene la "materia" (ὕλη), che la forma plasma nell'individuo, o
      "sinolo" (σύνολον, "insieme", dei due elementi). Solo
      quest'individuo è reale, non avendo esistenza autonoma né la
      forma, né la materia. Ciò poi non toglie che la forma possa essere
      concepita dal pensiero nella sua pura indipendenza, cioè nella sua
      universalità scevra di ogni determinazione particolare: da questo
      punto di vista, la forma è l'universale (καϑόλου), che viene
      conquistato dal pensiero nelle cose esterne mediante un processo
      di separazione, o "astrazione", dalle particolarità individuali,
      che fa comprendere il senso della sua posteriore qualificazione
      come "universale astratto". D'altra parte, la materia non è
      soltanto un sostrato inerte su cui s'imprime la forma, ma di
      questa forma ha in sé la possibilità; e la forma quindi non la
      determina estrinsecamente, ma costituisce la traduzione in atto
      della capacità implicita in quella. Il binomio statico di materia
      e forma si risolve quindi in quello dinamico di potenza e atto.
      
      La "potenza" è la δύναμις, concreta capacità di svilupparsi nel
      senso di una certa forma. L'"atto" è "energia" (ἐνέργεια), in
      quanto attiva realizzazione di una data capacità o potenza, ed
      "entelechìa", in quanto forma, anzi materia formata, attuata
      realtà individuale (ἐντελέχεια, da ἐν "in", τέλος "fine" e ἔχειν
      "avere": realtà che ha il suo fine in sé stessa, avendolo
      raggiunto col compimento del suo processo di sviluppo). Questo
      passaggio dalla potenza all'atto non dev'essere concepito come
      realizzantesi una volta per sempre; ogni momento del divenire è
      attuazione di una precedente potenza e costituzione di una potenza
      che renderà possibile una nuova attuazione. Tutto il mondo è così
      un processo di crescente determinazione, in cui la perfetta
      idealità della forma si attua sempre più dall'imperfetta
      materialità della potenza. Al limite di questo processo, A. pone
      un ente perfetto che, avendo pienamente attuato la sua natura, è
      "atto puro", atto del tutto scevro di potenza (Dio). Ciò non
      toglie però che questo influisca sul mondo come scopo supremo di
      tutto il suo processo di attuazione: Dio muove come "oggetto
      dell'amore", muove senza muoversi ("motore immobile": κινοῦν
      ἀκίνητον). D'altra parte, la sua superiorità a ogni esigenza di
      attività e di movimento non può concepirsi come assoluta mancanza
      di vita (ciò che sarebbe inconciliabile con la sua suprema
      perfezione): quindi la sua vita senza attività non può essere che
      la contemplazione, non di una verità diversa da sé medesimo (ciò
      che implicherebbe, non attuale possesso della verità, ma potenza
      conoscitiva tendente al possesso della verità), bensì della verità
      che egli stesso costituisce: Dio pensa sé stesso, è "pensiero del
      pensiero" (νόησις νοήσεως). In ultima analisi, se nella cosmica
      gerarchia dell'essere non c'è forma o attualità che non sia legata
      alla materia o potenza, all'estremo suo vertice la forma o
      attualità torna a sussistere con l'indipendente purezza dell'idea
      platonica, e solo in tale purezza essa fornisce senso e valore a
      tutto l'edificio della realtà. Ciò dimostra quanto tenacemente
      persista nella mente di A., nonostante la sua viva aspirazione
      all'immanenza, la concezione trascendentistica della realtà,
      appresa in gioventù alla scuola di Platone.
      
      Anche nell'etica, A. è ben lontano dall'ascesi platonica, mirante
      all'assoluta separazione dell'anima dalla schiavitù corporea. La
      virtù è un "abito", un'attitudine del volere a comportarsi in un
      certo modo, che non dipende tanto da dottrine e da convinzioni
      teoretiche quanto da concrete capacità pratiche. In generale, essa
      consiste nella condizione di equilibrio in cui l'anima viene a
      trovarsi quando si tiene lontana da entrambi gli estremi della
      passione: tra il vizio dipendente dal difetto e quello dipendente
      dall'eccesso, essa occupa il "giusto mezzo". Ma se, in tal modo,
      le virtù propriamente "etiche" si distaccano dalla sfera della
      scienza e si rinchiudono in quella dell'esperienza pratica o del
      "costume" (εϑος), a queste sovrastano d'altro lato le virtù
      dianoetiche, o virtù della διάνοια, del retto "esercizio
      intellettuale". E così, culmine della possibile perfezione e
      felicità dell'uomo è, anche per A., non l'azione ma la
      contemplazione, quella vita teoretica, d'impronta platonica, in
      cui meglio il mortale si avvicina alla soddisfatta beatitudine di
      Dio. Ciò non toglie che per A. soltanto nella vita sociale l'uomo,
      che è l'"animale politico" per eccellenza, possa attuare il suo
      perfezionamento morale e conseguire la sua felicità. Lo stato
      infatti, la più perfetta delle organizzazioni sociali, è l'atto
      rispetto al quale l'individuo e la famiglia sono la potenza, ed è
      quindi il fine verso cui tende lo sviluppo dell'uomo.
      
      Anche in tema di teoria dell'anima, l'A. della maturità abbandona
      la contrapposizione platonica di anima e corpo. L'anima è la forma
      della materia corporea, costituente con essa il vivente individuo
      umano. Anche la pianta ha un'anima, che è la stessa sua vitalità
      di organismo: ma quest'anima è puramente "nutritiva", o
      "vegetativa", mentre nell'animale essa non è soltanto tale, ma
      anche "motrice" e "senziente", e nell'uomo, infine, anche
      "pensante" (l'universo essendo per A. un sistema di forme viventi
      gerarchicamente ordinato, secondo la maggiore o minore
      determinazione che l'una presenta rispetto all'altra). Ma sotto
      ciascuno di questi aspetti l'anima è sempre mortale, perché
      legata, quale forma, alla sorte della sua materia (il corpo). 
    
Ma d'altra parte, se l'anima è legata al corpo e lo sviluppo
      conoscitivo ha il suo primo fondamento negli organi di senso, da
      essi derivando quelle sensazioni che preparano la conoscenza dei
      concetti universali, quest'ultima conoscenza è poi considerata
      come del tutto diversa dalle altre e affatto indipendente dalla
      sintesi psico-corporea costituente l'organismo umano. La
      conoscenza intellettuale, o noetica (cioè del νοῦς,
      dell'"intelletto"), ha un valore di verità e universalità di tanto
      superiore alle altre, che va fatta dipendere dall'intervento
      esterno di una divina e universale attività intellettiva, di
      fronte alla quale non sussiste nell'organismo umano se non la
      capacità di adeguarsi passivamente ad essa. 
    
Di qui la distinzione del sopraumano "intelletto agente" (νοῦς
      ποιητικός: l'espressione, coniata da Alessandro di Afrodisiade,
      diviene comune nell'aristotelismo medievale; A. parla di un
      intelletto che è causa agente dell'intendere: ὁ νοῦς τῷ πάντα
      ποιεῖν) dall'umano "intelletto in potenza" (νοῦς δυνατός: spesso
      dai commentatori confuso col νοῦς παθητικός o "intelletto
      passivo", che è invece da identificare con la "fantasia"). 
    
La stessa sopravalutazione conclusiva, e intrinsecamente
      platonica, della conoscenza noetica si ha poi anche nella logica,
      che di tutte le dottrine aristoteliche è la più originale. Da una
      parte, infatti, essa tende, con motivo immanentistico e
      antiplatonico, a rendere ragione della realtà individuale, e
      teorizza il metodo "induttivo" o "epagogico" che, accostando casi
      simili, trae da essi il tipo comune e fonda così la norma generale
      sull'accordo dei particolari (metodo specialmente adatto allo
      studio delle scienze della natura); ma, dall'altra parte, ritiene
      che tale metodo induttivo non serva per la vera e propria
      dimostrazione delle verità filosofiche, perché incapace di fondare
      verità in sé necessarie ed eterne. 
    
Per dimostrare con assoluto rigore logico, occorre il metodo
      apodittico (dimostrativo), o deduttivo, che procede
      dall'universale al particolare, o dal più universale al meno
      universale: sua forma tipica è il sillogismo. La ricerca dei vari
      tipi di sillogismi e la distinzione di quelli validi da quelli non
      validi occupa la maggior parte degli Analitici primi e costituisce
      un sistema di logica "formale", in quanto questa determina le
      forme onde il pensiero si vale per dedurre necessariamente verità
      più particolari da verità più universali, ma non gli fornisce il
      contenuto onde riempire le forme, i punti di partenza onde muovere
      nel suo metodo deduttivo. A capo di ogni processo apodittico è
      necessario porre due "premesse immediate", e cioè non dedotte in
      funzione di un superiore "medio" sillogistico, perché altrimenti
      si risalirebbe all'infinito dalla conclusione alla premessa, e non
      vi sarebbe mai un saldo punto di partenza per la deduzione
      scientifica. Esse debbono venir semplicemente intuite
      dall'intelletto, dal νοῦς, che non scinde, come la διάνοια
      (facoltà giudicante e sillogizzante), le verità in soggetti e
      predicati, per riunirle poi nella sintesi affermativa o negativa,
      ma le appercepisce nella loro immota e perfetta unità. Così al
      disopra della logica dianoetica sta la logica noetica: al disopra
      della realtà, più schiettamente aristotelica, della dimostrazione,
      la condizione ultima, più propriamente platonica, della
      contemplazione.
      
      Nella dottrina dell'arte, A. rivaluta il fatto estetico,
      osservando che l'imitazione artistica non si riferisce alla realtà
      singola (secondo la tesi che più giustificava la condanna
      platonica), ma a quella stessa realtà ideale, che nel singolo
      traluce come sua universale forma. Essa inoltre ha un potere
      catartico, quale particolarmente si constata nel dramma tragico.
      Rimane però, in questa teoria, immutato il presupposto platonico
      dell'imitazione, come carattere costitutivo dell'attività
      artistica, il quale di fatto toglie a questa attività ogni aspetto
      di libera creazione. Il tardo sviluppo dell'estetica, nei secoli
      successivi, ha tra le sue cause precipue l'influenza negativa di
      quel concetto della mimèsi.
      
      In A., l'amore dell'assoluto e dell'eterno (che caratterizza la
      personalità del suo maestro) cede sempre più di fronte
      all'interesse (che forse meglio esprime il suo spirito) per la
      ricerca induttiva ed empirica del particolare, indagato nelle sue
      forme concrete mediante una larga e paziente organizzazione. E ciò
      appare già nel grande corpus in cui A., che già aveva tentato di
      stabilire la costituzione dello stato ideale, passa all'analisi
      realistica delle varie forme esistenti di costituzioni politiche,
      raccogliendone ben 158, storicamente sancite in Grecia e fuori, di
      cui ci rimangono pochi frammenti e il trattato della Costituzione
      di Atene, ritrovato da F.G. Kenyon nel 1891 in un papiro in
      Egitto. L'imponenza stessa di questa raccolta ci fa pensare che A.
      non attendesse da solo a tale lavoro, ma organizzasse e dirigesse
      ricerche compiute da tutta la sua scuola, ch'egli indirizzò
      all'indagine empirica. In zoologia, per es., risalgono ad A.
      osservazioni sullo stomaco dei ruminanti e l'individuazione nei
      delfini di caratteristiche proprie dei mammiferi, mentre
      nell'ambito dei suoi principi metodici generali A. tentò anche una
      classificazione delle specie animali elaborando una scala naturae,
      ascendente dagli esseri inanimati all'uomo, con criterî
      teleologistici e vitalistici. In base al concetto di scienza come
      conoscenza mediante cause di una realtà che "è sempre o per lo
      più" (escludendo quindi una scienza del contingente e
      dell'accidentale), A. aveva distinto tre possibili scienze
      speculative: matematica, fisica e filosofia prima, assegnando alla
      fisica come oggetto proprio un particolare aspetto dell'essere,
      cioè "quella sostanza che ha in se stessa la causa del suo
      movimento".
      
      I principî di questa scienza, attraverso i quali soltanto è
      concepibile il divenire, sono quelli generalissimi di materia e
      forma, cui si aggiunge quello di privazione (στήρεσις): in base ad
      essi si effettua la riduzione delle cause a quattro tipi
      fondamentali (formale, materiale, efficiente, finale), cui tutte
      le altre possono riportarsi. Conformemente a questa impostazione
      A. esclude come mezzo di spiegazione qualsiasi elemento di natura
      casuale o fortuita, in contrapposizione all'atomismo di Democrito,
      indirizzando quindi finalisticamente l'indagine. La fisica di A. è
      una fisica essenzialmente qualitativa: in essa si distinguono
      infatti quattro tipi di movimento (generazione e corruzione,
      mutamento, aumento e diminuzione, traslazione) - di cui quello di
      traslazione è il più importante, potendosi gli altri spiegare in
      base ad esso - e s'introduce la teoria dei luoghi naturali
      assoluti, secondo la quale tutti i corpi si muovono di moto
      rettilineo, verso l'alto quelli leggeri, verso il basso quelli
      pesanti, in conformità agli elementi che li compongono (in ordine
      di pesantezza: terra - al centro dell'universo - acqua, aria,
      fuoco). Proprio dei soli corpi celesti è invece il moto circolare,
      moto perfetto che non ammette contrari ed esclude qualsiasi
      mutamento, sicché essi risultano eterni e incorruttibili; è
      necessario in conseguenza ammettere l'esistenza di un quinto
      elemento, esclusivo di questi corpi: l'etere. Nella sua teoria del
      cielo A. riprende il sistema delle sfere omocentriche di Eudosso,
      modificato da Callippo, aumentandone il numero, e ponendo la Terra
      al centro di un sistema di sfere cristalline che nel loro
      movimento di rotazione trascinano gli astri su di esse situati. La
      finitezza dell'universo, la negazione del vuoto e dell'infinito
      attuale - ammesso solo come potenziale riguardo alla divisibilità
      - rappresentano poi alcune delle principali conseguenze della
      fisica di A., che per la stretta dipendenza dai principî generali
      della sua speculazione, per il suo carattere sistematico e il
      rigore dell'impostazione, esercitò profonda influenza sul pensiero
      scientifico dei successori. Sembra che ad A. sia dovuto l'uso di
      rappresentare con lettere le grandezze prese in esame.
      
      Iconografia. Molti furono i ritratti di A. nell'antichità:
      Alessandro gli dedicò un'erma ad Atene, un altro ritratto
      Teofrasto, una statua era a Olimpia, molto diffuse erano nel mondo
      romano le erme che lo effigiavano. Abbiamo varie copie di un tipo,
      creato forse verso la fine del 4° sec. a. C., di un notevole
      realismo.
      
      Aristotele nella leggenda. La leggenda medievale di A. rispecchia
      il fatto storico che Alessandro giovinetto fu allievo di A.; essa
      è infatti intessuta di diversi racconti sulle materie
      d'insegnamento, sui consigli preziosi dati all'allievo, e giunge
      fino a mostrare in A. un infallibile indovino. Alcuni episodi
      rivelano una vena d'innocente umorismo, come quello in cui il
      venerando sapiente, avendo disapprovato l'arrendevolezza del
      discepolo al fascino femminile, è messo alla prova e graziosamente
      raggirato da una bellissima fanciulla. La scenetta di A. carponi,
      spesso con il morso fra i denti e le briglie sul collo, è il
      soggetto di numerose rappresentazioni tardomedievali.
      
    
Dizionario di filosofia (2009)
      
    
Figlio di Nicomaco, medico di Aminta II di Macedonia, A.
      trascorse i primi anni della sua giovinezza a Pella. Morto il
      padre, ebbe come tutore un parente di nome Prosseno, di cui poi
      adottò il figlio. A diciotto anni si trasferì ad Atene ed entrò a
      far parte dell’Accademia platonica rimanendovi per quasi
      vent’anni, fino alla morte di Platone, verso il quale nutrì
      sempre, malgrado tutte le invenzioni e le maldicenze, profonda
      amicizia e venerazione: basta ad attestarlo il celebre elogio –
      che certo va riferito a Platone – dell’«uomo che i malvagi non
      hanno nemmeno il diritto di lodare», contenuto nell’elegia per
      l’altare dedicato a Eudemo di Cipro. In parte per motivi politici,
      in parte per i dissensi con Speusippo, il nuovo scolarca
      dell’Accademia, lasciò quindi Atene, in compagnia di Senocrate,
      per recarsi in Asia Minore, presso Ermia, tiranno di Atarneo.
      Nella vicina Troade, a Scepsi e ad Asso, esistevano comunità
      platoniche, e in esse A. cominciò a svolgere il suo magistero. Vi
      rimase tre anni ed Ermia gli dette in moglie la nipote e figlia
      adottiva Pizia. Forse proprio per le insistenze del discepolo
      Teofrasto si trasferì quindi a Mitilene, dove insegnò fino al
      343-42, quando accolse l’invito di recarsi alla corte di Filippo
      II di Macedonia per occuparsi dell’educazione del principe
      Alessandro. Salito questi al trono, tornò ad Atene e vi fondò nel
      335-34 una scuola che, dalla sua sede, il recinto sacro ad Apollo
      Liceo, trasse il nome di Liceo, e dal περίπατος, la «passeggiata»,
      che i suoi membri percorrevano discutendo, quello di Peripato, o
      scuola peripatetica. Dopo circa dodici anni di direzione della
      scuola, morto Alessandro e prevalso in Atene il partito
      antimacedonico, A. fu accusato di empietà, ma sfuggì al processo
      riparando a Calcide nell’Eubea, dove morì l’anno dopo (322) di una
      malattia di stomaco.
      
      Le opere. 
    
Circa la storia e il carattere degli scritti di A. molta luce è
      stata fatta nella seconda metà del Novecento: gli antichi
      conobbero una serie di opere, nella maggior parte dialogiche,
      pubblicate da A. stesso e lodate anche per i pregi della loro
      forma letteraria, di cui sono rimasti soltanto pochi frammenti
      (tra le principali: Grillo, Eudemo, Protreptico, Sulla giustizia,
      Sulla filosofia, Sulle idee, Politico, Sofista, ecc.). La perdita
      di queste opere dedicate al pubblico (e perciò dette essoteriche)
      è certamente dovuta alla pubblicazione, fatta da Andronico da
      Rodi, degli scritti che A. e alcuni discepoli avevano redatto in
      funzione dei corsi di lezioni svolti all’interno del Liceo (perciò
      detti esoterici o, anche, acroamatici, cioè destinati all’ascolto,
      e costituenti il Corpus aristotelicum da noi attualmente
      posseduto). Questa pubblicazione che, secondo la tradizione,
      conclude una storia assai romanzesca di tali scritti, fece con il
      tempo passare in secondo piano gli scritti essoterici. La
      ricostruzione delle vicende degli scritti di A. e degli ambienti
      in cui esse si svolsero ha permesso di comprendere come
      gradatamente, anzi, gli scritti essoterici venissero nettamente
      contrapposti a quelli esoterici; e poiché nei primi si scorgevano
      larghe tracce di dottrine platoniche, si immaginò che in essi A.
      non avesse svelato il suo vero pensiero (riservato ai discepoli
      iniziati e alle opere esoteriche), ma avesse solo espresso false
      opinioni altrui; ciò anche in base all’errata convinzione che A.
      avesse radicalmente criticato la dottrina platonica fin dal suo
      primo soggiorno nell’Accademia. Questa tradizione, assieme
      all’immagine stereotipa di un A. sistematico, rigido e immutabile,
      hanno per lungo tempo paralizzato anche la critica moderna,
      oscillante tra la tendenza a considerare non autentiche le opere
      essoteriche (W.D. Ross) e quella a espungere da esse ogni traccia
      di platonismo per salvarne l’autenticità (J. Bernays). 
    
È grande merito di W. Jaeger (e in Italia di E. Bignone) aver
      dato un’impostazione nuova al problema, considerando le opere
      essoteriche e il platonismo in esse espresso come documento della
      prima fase dell’evoluzione filosofica di A., evoluzione
      rintracciabile anche tra i vari strati redazionali riconoscibili
      nelle stesse opere acroamatiche. Nella loro disposizione
      sistematica esse sono le seguenti: (1) Opere di logica (in seguito
      indicate sotto il nome complessivo di Organon): Categorie,
      Sull’espressione, Analitici primi (2 libri), Analitici posteriori
      (2 libri) , Topici (8 libri), Elenchi sofistici; (2) Opere di
      fisica: Fisica (8 libri), Il cielo (4 libri), Generazione e
      corruzione (2 libri), Meteorologia (4 libri), Storia degli animali
      (10 libri), Parti degli animali (4 libri), Generazione degli
      animali (5 libri), altre minori, nonché Sull’anima (3 libri) e una
      serie di opuscoli raccolti sotto il nome di Parva naturalia; (3)
      Scritti di filosofia prima: Metafisica (14 libri), così chiamata,
      sembra, perché posta «dopo i libri di fisica», in greco τὰ µετὰ τὰ
      φυσικά; (4) Opere morali e politiche: Etica Eudemea (7 libri),
      Grande Etica (2 libri: d’incerta autenticità), Etica Nicomachea
      (10 libri), Politica (8 libri), Costituzione degli Ateniesi; (5)
      Opere di poetica: Retorica (3 libri), Poetica. Di una serie di
      altri scritti compresi nel corpus (Problemi, Retorica ad
      Alessandro, Fisionomici, ecc.) è stata messa in dubbio
      l’autenticità, con numerose ragioni. Le linee dello sviluppo
      filosofico di Aristotele, quali si sono venute sempre meglio
      individuando sulla scorta degli studi di Jaeger, consentono di
      distinguere tre periodi: quello accademico, quello del soggiorno
      ad Asso, a Mitilene e in Macedonia e, infine, quello
      dell’insegnamento presso il Liceo. 
    
Nel primo periodo, a cui risalgono, tra gli altri, gli scritti
      Eudemo, Protreptico e Sulla giustizia, A. riprende la dottrina
      platonica dell’immortalità dell’anima, considerata come «forma
      determinata», cioè come sostanza (e non ancora, quindi come «forma
      di qualcosa», cioè del corpo, come sarà più tardi); esalta la vita
      contemplativa e l’esercizio della φρόνησις (platonicamente intesa
      come la forma più alta di riflessione e quindi come il più nobile
      atteggiamento che il filosofo possa assumere, ben diversa, quindi,
      da quella «prudenza» che A. includerà nella serie delle virtù
      nell’Etica Nicomachea), considera il bene come il «fine» (τέλος)
      supremo. 
    
Nel secondo periodo, A. porta in primo piano i motivi di
      divergenza dal platonismo: Platone stesso, nei suoi ultimi
      dialoghi, aveva sottoposto la sua dottrina delle idee a un potente
      sforzo di rielaborazione, consapevole delle numerose difficoltà da
      essa suscitate. Speusippo, d’altra parte, aveva accentuato
      l’aspetto matematico delle idee e su questa interpretazione si
      appuntarono dapprima le critiche di A., per estendersi poi
      gradatamente alla dottrina platonica in generale e soprattutto
      alla «separazione» delle idee dalle cose. Risalgono a questo
      periodo, oltre agli scritti Sulla filosofia e Sulle idee, le
      sezioni più antiche della Fisica, della Metafisica, dell’Etica
      Eudemea e della Politica, in cui più evidenti sono ancora le
      tracce del platonismo (Dio, supremo ordinatore e fine di tutte le
      cose; l’animazione dei cieli; l’etere quinto elemento, ecc.). 
    
Nel terzo periodo, infine, in cui va collocata la redazione di
      quasi tutto il Corpus aristotelicum da noi posseduto, A. raggiunge
      la piena maturità dottrinale, distaccandosi pienamente dalla
      filosofia di Platone.
      
      Metafisica. 
    
Se le idee hanno un’esistenza assolutamente separata dagli
      oggetti dell’esperienza sensibile, come possono essere fondamento
      della realtà delle cose? Per costituirne l’essenza devono essere
      intrinseche a esse: e se anche questo si ammette, parlando di una
      «presenza» dell’idea in ciascuno degli individui che ad essa
      «partecipa», bisogna concludere che la sua esistenza separata e
      indipendente non aggiunge nulla di essenziale al quadro della
      realtà, dando anzi luogo a un suo duplicato superfluo (cosiddetto
      argomento del terzo uomo). L’idea, essenza eterna, universale,
      dominante l’esistenza transeunte degli individui, si determina
      nella materia, costituendo la singola e concreta realtà. L’idea
      platonica si trasforma così nella «forma» aristotelica (µορφή, o
      ancora, con il vecchio nome, εἶδος), e quell’elemento negativo che
      nella natura, per Platone, si componeva con il puro essere
      dell’idea, facendo sì che essa divergesse sempre dalla sua
      perfezione, diviene la «materia» (ὕλη), che la forma plasma
      nell’individuo, o «sinolo» (σύνολον, «insieme», dei due elementi).
      Solo questo individuo è reale, non avendo esistenza autonoma né la
      forma, né la materia. Ciò poi non toglie che la forma possa essere
      concepita dal pensiero nella sua pura indipendenza, cioè nella sua
      universalità scevra di ogni determinazione particolare: da questo
      punto di vista, la forma costituisce l’universale (καϑόλου), che
      viene conquistato dal pensiero nelle cose esterne mediante un
      processo di separazione, o astrazione, dalle particolarità
      individuali, che fa comprendere il senso della sua posteriore
      qualificazione come «universale astratto». 
    
D’altra parte, la materia non è soltanto un sostrato inerte su
      cui si imprime la forma, ma di questa forma ha in sé la
      possibilità; e la forma quindi non la determina estrinsecamente,
      ma costituisce la traduzione in atto della capacità implicita in
      quella. Il binomio statico di materia e forma si risolve quindi in
      quello dinamico di potenza e atto. La «potenza» è la δύναµις,
      concreta capacità di svilupparsi nel senso di una certa forma.
      L’«atto» è «energia» (ἐνέργεια), in quanto attiva realizzazione di
      una data capacità o potenza, ed «entelechìa», in quanto forma,
      anzi materia formata, attuata realtà individuale (ἐντελέχεια, da
      ἐν «in», τέλος «fine» e ἔχειν «avere»: realtà che ha il suo fine
      in sé stessa, avendolo raggiunto con il compimento del suo
      processo di sviluppo). Questo passaggio dalla potenza all’atto non
      dev’essere concepito come realizzantesi una volta per sempre; ogni
      momento del divenire è attuazione di una precedente potenza e
      costituzione di una potenza che renderà possibile una nuova
      attuazione. Tutto il mondo è così un processo di crescente
      determinazione, in cui la perfetta idealità della forma si attua
      sempre più dall’imperfetta materialità della potenza. 
    
Al limite di questo processo, A. pone un ente perfetto che,
      avendo pienamente attuato la sua natura, è «atto puro», atto del
      tutto scevro di potenza (Dio). Ciò non toglie però che questo
      influisca sul mondo come scopo supremo di tutto il suo processo di
      attuazione: Dio muove come «oggetto dell’amore», muove senza
      muoversi («motore immobile»: κινοῦν ἀκίνητον). D’altra parte, la
      sua superiorità a ogni esigenza di attività e di movimento non può
      concepirsi come assoluta mancanza di vita (ciò che sarebbe
      inconciliabile con la sua suprema perfezione): quindi la sua vita
      senza attività non può essere che la contemplazione, non di una
      verità diversa da sé medesimo (ciò che implicherebbe, non attuale
      possesso della verità, ma potenza conoscitiva tendente al possesso
      della verità), bensì della verità che egli stesso costituisce: Dio
      pensa sé stesso, è «pensiero del pensiero» (νόησις νοήσεως). In
      ultima analisi, se nella gerarchia cosmica dell’essere non c’è
      forma o attualità che non sia legata alla materia o potenza,
      all’estremo suo vertice la forma o attualità torna a sussistere
      con l’indipendente purezza dell’idea platonica, e solo in tale
      purezza essa fornisce senso e valore a tutto l’edificio della
      realtà. 
    
Ciò dimostra quanto tenacemente persista nella mente di A.,
      nonostante la sua viva aspirazione all’immanenza, la concezione
      trascendentistica della realtà, appresa in gioventù alla scuola di
      Platone.
      
      Etica. 
    
Anche nell’etica, A. è ben lontano dall’ascesi platonica, mirante
      all’assoluta separazione dell’anima dalla schiavitù corporea. La
      virtù rap-presenta un «abito», un’attitudine del volere a
      com-portarsi in un certo modo, che non dipende tanto da dottrine e
      da convinzioni teoretiche quanto da concrete capacità pratiche. In
      generale, essa consiste nella condizione di equilibrio in cui
      l’anima viene a trovarsi quando si tiene lontana da entrambi gli
      estremi della passione: tra il vizio dipendente dal difetto e
      quello dipendente dall’eccesso, essa occupa il «giusto mezzo». Ma
      se, in tal modo, le virtù pro-priamente «etiche» si distaccano
      dalla sfera della scienza e si rinchiudono in quella
      dell’esperienza pratica o del «costume» (ἔϑος), a queste
      sovrastano d’altro lato le virtù dianoetiche, o virtù della
      διάνοια, del retto «esercizio intellettuale». E così, culmine
      della possibile perfezione e felicità dell’uomo è, anche per A.,
      non l’azione ma la contemplazione, quella vita teoretica,
      d’impronta platonica, in cui meglio il mortale si avvicina alla
      soddisfatta beatitudine di Dio. Ciò non toglie che per A. soltanto
      nella vita sociale l’uomo, che è l’«animale politico» per
      eccellenza, possa attuare il suo per-fezionamento morale e
      conseguire la sua felicità. Lo Stato infatti, la più perfetta
      delle organizzazioni sociali, è l’atto rispetto al quale
      l’individuo e la famiglia sono la potenza, ed è quindi il fine
      verso cui tende lo sviluppo dell’uomo.
      
      Psicologia. 
    
Anche in tema di teoria dell’anima, l’A. della maturità abbandona
      la contrapposizione platonica di anima e corpo. L’anima è la forma
      della materia corporea, costituente con essa il vivente individuo
      umano. Anche la pianta ha un’anima, che è la stessa sua vitalità
      di organismo: ma quest’anima è puramente «nutritiva», o
      «vegetativa», mentre nell’animale essa non è soltanto tale, ma
      anche «mo-trice» e «senziente», e nell’uomo, infine, anche
      «pen-sante» (l’Universo essendo per A. un sistema di forme viventi
      gerarchicamente ordinato, secondo la mag-giore o minore
      determinazione che l’una presenta rispetto all’altra). Ma sotto
      ciascuno di questi aspetti l’anima è sempre mortale, perché
      legata, quale forma, alla sorte della sua materia (il corpo).
      D’altra parte, però, se l’anima è legata al corpo e lo svilup-po
      conoscitivo ha il suo primo fondamento negli organi di senso, da
      essi derivando quelle sensazioni che preparano la conoscenza dei
      concetti universali, quest’ultima conoscenza è poi considerata
      come del tutto diversa dalle altre e affatto indipendente dalla
      sintesi psico-corporea costituente l’organismo umano. 
    
La conoscenza intellettuale, o noetica (cioè del νοῦς,
      dell’«intel-letto»), ha un valore di verità e universalità di
      tanto superiore alle altre, che va fatta dipendere dall’intervento
      esterno di una divina e universale attività intellettiva, di
      fronte alla quale non sussiste nell’or-ganismo umano se non la
      capacità di adeguarsi passivamente a essa. Di qui la distinzione
      del sopraumano «intelletto agente» (νοῦς ποιητικός: l’espressione,
      coniata da Alessandro di Afrodisiade, diviene comune
      nell’aristotelismo medievale; A. parla di un intelletto che è
      causa agente dell’inten-dere: ὁ νοῦς τῷ πάντα ποιεῖν) dall’umano
      «intelletto in potenza» (νοῦς δυνατός: spesso dai commentatori
      confuso col νοῦς παϑητικός o «intelletto passivo», che è invece da
      identificare con la «fantasia»).
      
      Logica. 
    
La stessa sopravvalutazione conclusiva, e intrinsecamente
      platonica, della conoscenza noetica si ha poi anche nella logica,
      che di tutte le dottrine aristoteliche è la più originale. Da una
      parte, infatti, essa tende, con motivo immanentistico e
      antiplatonico, a rendere ragione della realtà individuale, e
      teorizza il metodo «induttivo» o «epagogico» che, accostando casi
      simili, trae da essi il tipo comune e fonda così la norma generale
      sull’accordo dei particolari (metodo specialmente adatto allo
      studio delle scienze della natura); ma, dall’altra parte, ritiene
      che tale metodo induttivo non serva per la vera e propria
      dimostrazione delle verità filosofiche, perché incapace di fondare
      verità in sé necessarie ed eterne. 
    
Per dimostrare con assoluto rigore logico, occorre il metodo
      apodittico (dimostrativo), o deduttivo, che procede
      dall’universale al particolare, o dal più universale al meno
      universale: sua forma tipica è il sillogismo. La ricerca dei vari
      tipi di sillogismi e la distinzione di quelli validi da quelli non
      validi occupa la maggior parte degli Analitici primi e costituisce
      un sistema di logica ‘formale’, in quanto questa determina le
      forme di cui il pensiero si avvale per dedurre necessariamente
      verità più particolari da verità più universali, ma non gli
      fornisce il contenuto con cui riempire le forme, i punti di
      partenza da cui muovere nel suo metodo deduttivo. 
    
A capo di ogni processo apodittico è necessario porre due
      «premesse immediate», e cioè non dedotte in funzione di un
      superiore «medio» sillogistico, perché altrimenti si risalirebbe
      all’infinito dalla conclusione alla premessa, e non vi sarebbe mai
      un saldo punto di partenza per la deduzione scientifica. Esse
      debbono venir semplicemente intuite dall’intelletto, dal νοῦς, che
      non scinde, come fa la διάνοια (facoltà giudicante e
      sillogizzante), le verità in soggetti e predicati, per riunirle
      poi nella sintesi affermativa o negativa, ma le appercepisce nella
      loro immota e perfetta unità. Così, al disopra della logica
      dianoetica sta la logica noetica: al disopra della realtà, più
      schiettamente aristotelica, della dimostrazione, la condizione
      ultima, più propriamente platonica, della contemplazione.
      
      Teoria dell’arte, retorica e concezioni linguistiche. 
    
Nella dottrina dell’arte, A. rivaluta il fatto estetico,
      osservando che l’imitazione artistica non si riferisce alla realtà
      singola (secondo la tesi che più giustificava la condanna
      platonica), ma a quella stessa realtà ideale che nel singolo
      traluce come sua universale forma. Essa inoltre ha un potere
      catartico, quale particolarmente si constata nel dramma tragico.
      Rimane però, in questa teoria, immutato il presupposto platonico
      dell’imitazione, come carattere costitutivo dell’attività
      artistica, il quale di fatto sottrae a questa attività ogni
      aspetto di libera creazione. Il tardo sviluppo dell’estetica, nei
      secoli successivi, avrà tra le sue cause precipue l’influenza
      negativa di quel concetto della mimesi. 
    
Giudicando dalle opere giunteci dalle fonti, la teoria del
      linguaggio fu toccata da A. sempre in funzione di altri settori di
      indagine: le dottrine logico-formali e politiche, le teorie
      dell’arte poetica e della retorica. Tuttavia, per quanto
      esternamente frammentario, l’insieme delle dottrine linguistiche
      di A. ha una notevole coerenza interna. Le voci umane si
      distinguono dalle voci degli animali per essere articolate, cioè
      composte da una successione di elementi semantici, le parole, a
      loro volta analizzabili in elementi asemantici, στοίχεια o
      γράµµατα («elementi» o «lettere»). Le parole si classificano in
      tre categorie (o quattro, a seconda della lezione seguita dagli
      interpreti): i nomi, definiti «voci significative senza tempo», i
      verbi, o «voci significanti con tempo», i legamenti (preposizioni,
      articoli, ecc.), la cui funzione è quella di collegare gli
      elementi propriamente semantici. Nomi e verbi hanno la
      caratteristica della genericità semantica: cadendo nella frase
      essi si modificano nella forma e e si determinano nel significato.
      A tale processo di determinazione formale e funzionale A. dà il
      nome di πτοσίς «caduta, caso» (termine che ha palesemente
      un’accezione ancora molto più vasta di quella conferitagli dagli
      stoici). Soltanto quando siano combinate tra loro nella frase le
      parole possono essere oggetto di un giudizio di verità o falsità:
      in sé, un nome (o un verbo) non è né vero né falso, ma indica
      convenzionalmente (κατά συνϑέκεν) un certo significato. Il
      significato è concepito in termini psicologici come πὰϑος τῆς
      ψυχῆς «affezione dell’anima», corrispondente a un dato ontologico.
      
    
Dalle dottrine di A. è dunque assente il riconoscimento della
      storicità (variabilità etnica e temporale) del mondo dei
      significati, pur non mancando alcuni cenni alla diversità formale
      delle lingue e al legame tra usi linguistici e vita associata dei
      popoli. Agli στοίχεια, cioè, in particolare, ai fonemi costitutivi
      delle parole greche, A. dedica osservazioni penetranti nella
      Poetica: a lui risale un primo tentativo di sistemazione della
      fonologia del greco antico. Questo corpo dottrinale, giudicato
      dagli studiosi ottocenteschi «ingenuo» (H. Steinthal), appare oggi
      sorprendentemente moderno: soprattutto le due idee
      dell’arbitrarietà delle forme linguistiche e del loro articolarsi
      in unità collocate a distinti livelli sono state decisamente
      rivalutate dal pensiero linguistico del Novecento.
      
      Politica. 
    
In A., l’amore dell’assoluto e dell’eterno (che caratterizza la
      personalità del suo maestro) cede sempre più di fronte
      all’interesse (che forse meglio esprime il suo spirito) per la
      ricerca induttiva ed empirica del particolare, indagato nelle sue
      forme concrete mediante una larga e paziente organizzazione. E ciò
      appare già nel grande corpus in cui A., che già aveva tentato di
      stabilire la costituzione dello Stato ideale, passa all’analisi
      realistica delle varie forme esistenti di costituzioni politiche,
      raccogliendone ben 158, storicamente sancite in Grecia e altrove.
      Di tale analisi ci rimangono pochi frammenti e il trattato della
      Costituzione di Atene, ritrovato da F.G. Kenyon nel 1891 in un
      papiro in Egitto; ma l’imponenza stessa di questa raccolta ci fa
      pensare che A. non attendesse da solo a tale lavoro, ma
      organizzasse e dirigesse ricerche compiute da tutta la sua scuola,
      che egli indirizzò all’indagine empirica.
      
      Fisica. 
    
In base al concetto di scienza come conoscenza mediante cause di
      una realtà che «è sempre o per lo più» (escludendo pertanto una
      scienza del contingente e dell’accidentale), A. aveva distinto tre
      possibili scienze speculative: matematica, fisica e filosofia
      prima, assegnando alla fisica come oggetto proprio un particolare
      aspetto dell’essere, cioè «quella sostanza che ha in se stessa la
      causa del suo movimento». I principi di questa scienza, attraverso
      i quali soltanto è concepibile il divenire, sono quelli
      generalissimi di materia e forma, cui si aggiunge quello di
      privazione (στήρεσις): in base a essi si effettua la riduzione
      delle cause a quattro tipi fondamentali (formale, materiale,
      efficiente, finale), cui tutte le altre possono riportarsi.
      Conformemente a questa impostazione A. esclude come mezzo di
      spiegazione qualsiasi elemento di natura casuale o fortuita, in
      contrapposizione all’atomismo di Democrito, indirizzando quindi
      finalisticamente l’indagine.
    
 La fisica di A. è una fisica essenzialmente qualitativa: in
      essa si distinguono infatti quattro tipi di movimento (generazione
      e corruzione, mutamento, aumento e diminuzione, traslazione) – di
      cui quello di traslazione è il più importante, potendosi gli altri
      spiegare in base a esso – e si introduce la teoria dei luoghi
      naturali assoluti, secondo la quale tutti i corpi si muovono di
      moto rettilineo, verso l’alto quelli leggeri, verso il basso
      quelli pesanti, in conformità agli elementi che li compongono (in
      ordine di pesantezza: terra – al centro dell’Universo – acqua,
      aria, fuoco). Proprio dei soli corpi celesti è invece il moto
      circolare, moto perfetto che non ammette contrari ed esclude
      qualsiasi mutamento, sicché essi risultano eterni e
      incorruttibili; è necessario, di conseguenza, ammettere
      l’esistenza di un quinto elemento, esclusivo di questi corpi:
      l’etere. Nella sua teoria del cielo A. riprende il sistema delle
      sfere omocentriche di Eudosso, modificato da Callippo,
      aumentandone il numero, e ponendo la Terra al centro di un sistema
      di sfere cristalline che nel loro movimento di rotazione
      trascinano gli astri su di esse situati. 
    
La finitezza dell’Universo, la negazione del vuoto e
      dell’infinito attuale – ammesso solo come potenziale riguardo alla
      divisibilità – rappresentano poi alcune delle principali
      conseguenze della fisica di A., che per la stretta dipendenza dai
      principi generali della sua speculazione, per il suo carattere
      sistematico e il rigore dell’impostazione, esercitò profonda
      influenza sul pensiero scientifico dei successori. Sembra che ad
      A. sia dovuto l’uso di rappresentare con lettere le grandezze
      prese in esame.