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Aristòtele (o Aristòtile; gr. ᾿Αριστοτέλης, lat. Aristotĕles, nel
Medioevo latino Aristotĭles). - Filosofo greco (Stagira 384-83 a.
C. - Calcide 322 a. C.).
Fu, con Socrate e Platone, uno dei più grandi pensatori
dell'antichità e di tutti i tempi. Nato da una famiglia di medici,
si formò nell'Accademia platonica; dopo la morte di Platone iniziò
un periodo di viaggi durante il quale insegnò in molte città; tra
il 343 e il 342 si occupò, su richiesta di Filippo II di
Macedonia, dell'educazione di Alessandro Magno; tornato ad
Atene fondò nel 335-34 la sua scuola, il Liceo.
La sua attività di ricerca è stata prodigiosa: ha affrontato
studi di metafisica, fisica, biologia, psicologia, etica,
politica, poetica, retorica e logica, discipline cui diede veste
sistematica, creando una vera e propria "enciclopedia del sapere"
che ha dominato la cultura occidentale sino al 17° secolo.
Il corpus aristotelico, cioè il complesso delle sue opere a noi
pervenute, è costituito dagli scritti esoterici (interni,
cioè destinati alla sua scuola), mentre degli scritti essoterici
(destinati al pubblico) restano pochi frammenti.
Le opere pervenute: 1) Opere di logica, in seguito indicate come
Organon: Categorie, Sull'espressione, Analitici primi, Analitici
posteriori , Topici , Elenchi sofistici; 2) Opere di fisica:
Fisica , Il cielo, Generazione e corruzione, Meteorologia, Storia
degli animali, Parti degli animali, Generazione degli animali,
altre minori, nonché L'anima e una serie di opuscoli i Parva
naturalia; 3) Scritti di filosofia prima: Metafisica, così
chiamata, sembra, perché posta "dopo i libri di fisica"; 4) Opere
morali e politiche: Etica Eudemea, Grande Etica (d'incerta
autenticità), Etica Nicomachea, Politica, Costituzione degli
Ateniesi; 5) Opere di poetica: Retorica, Poetica.
VITA.
Figlio di Nicomaco, medico di Aminta II di Macedonia, A. trascorse
i primi anni della sua giovinezza a Pella. Morto il padre, ebbe
come tutore un parente di nome Prosseno, di cui poi adottò il
figlio.
A diciotto anni si trasferì ad Atene ed entrò a far parte
dell'Accademia platonica rimanendovi per quasi vent'anni, fino
alla morte di Platone, verso il quale nutrì sempre, malgrado tutte
le invenzioni e le maldicenze, profonda amicizia e venerazione:
basta ad attestarlo il celebre elogio - che certo va riferito a
Platone - dell'"uomo che i malvagi non hanno nemmeno il diritto di
lodare", contenuto nell'elegia per l'altare dedicato a Eudemo di
Cipro.
Fu quindi in parte per motivi politici e in parte per i dissensi
con Speusippo, il nuovo scolarca dell'Accademia, che A., in
compagnia di Senocrate, lasciò Atene per recarsi in Asia Minore,
presso Ermia, tiranno di Atarneo. Nella vicina Troade, a Scepsi e
ad Asso, esistevano comunità platoniche, e in esse A. cominciò a
svolgere il suo magistero. Vi rimase tre anni e Ermia gli dette in
moglie la nipote e figlia adottiva Pizia.
Forse proprio per le insistenze del discepolo Teofrasto si
trasferì a Mitilene, dove insegnò fino al 343-42, quando accolse
l'invito di recarsi alla corte di Filippo II di Macedonia per
occuparsi dell'educazione del principe Alessandro.
Salito questi al trono, tornò ad Atene e vi fondò nel 335-34 una
scuola che, dalla sua sede, il recinto sacro ad Apollo Liceo,
trasse il nome di Liceo, e dal περίπατος "passeggiata", che i suoi
membri percorrevano discutendo, quello di Peripato, o scuola
peripatetica.
Dopo circa dodici anni di direzione della scuola, morto
Alessandro e prevalso in Atene il partito antimacedonico, A. fu
accusato di empietà, ma sfuggì al processo riparando a Calcide
nell'Eubea, dove morì l'anno dopo (322) di una malattia di
stomaco.
OPERE E PENSIERO.
Circa la storia e il carattere degli scritti di A. molta luce è
stata fatta negli ultimi decenni: gli antichi conobbero una serie
di opere, nella maggior parte dialogiche, pubblicate da A. stesso
e lodate anche per i pregi della loro forma letteraria, di cui noi
possiamo leggere solo pochi frammenti (tra le principali: Grillo,
Eudemo, Protreptico, Sulla giustizia, Sulla filosofia, Sulle idee,
Politico, Sofista, ecc.). La perdita di queste opere dedicate al
pubblico (e perciò dette essoteriche) è certamente dovuta alla
pubblicazione, fatta da Andronico da Rodi, degli scritti che A. e
alcuni discepoli avevano redatto in funzione dei corsi di lezioni
svolti all'interno del Liceo (perciò dette esoteriche o, anche,
acroamatiche, cioè destinate all'ascolto e costituenti il Corpus
aristotelicum da noi attualmente posseduto). Questa pubblicazione
che, secondo la tradizione, conclude una storia assai romanzesca
di tali scritti, fece col tempo passare in secondo piano gli
scritti essoterici.
La ricostruzione delle vicende degli scritti di A. e degli
ambienti in cui esse si svolsero hanno permesso di comprendere
come gradatamente, anzi, gli scritti essoterici venissero
nettamente contrapposti a quelli esoterici; e poiché nei primi si
scorgevano larghe tracce di dottrine platoniche, si favoleggiò che
in essi A. non avesse svelato il suo vero pensiero (riservato ai
discepoli iniziati e alle opere esoteriche), ma avesse solo
espresso false opinioni altrui; ciò anche in base all'errata
convinzione che A. avesse radicalmente criticato la dottrina
platonica fin dal suo primo soggiorno nell'Accademia. Questa
tradizione e l'immagine stereotipa di un A. sistematico, rigido e
immutabile hanno per lungo tempo paralizzato anche la critica
moderna, oscillante tra la tendenza di considerare non autentiche
le opere essoteriche (Ross) e quella di espungere da esse ogni
traccia di platonismo per salvarne l'autenticità (Bernays).
È grande merito dello Jaeger (e in Italia del Bignone) aver dato
un'impostazione nuova al problema, considerando le opere
essoteriche e il platonismo in esse espresso come documento della
prima fase dell'evoluzione filosofica di A., evoluzione
rintracciabile anche tra i varî strati redazionali riconoscibili
nelle stesse opere acroamatiche. Nella loro disposizione
sistematica esse sono le seguenti: 1) Opere di logica (in seguito
indicate sotto il nome complessivo di Organon): Categorie,
Sull'espressione, Analitici primi (2 libri), Analitici posteriori
(2 libri), Topici (8 libri), Elenchi sofistici; 2) Opere di
fisica: Fisica (8 libri), Il cielo (4 libri), Generazione e
corruzione (2 libri), Meteorologia (4 libri), Storia degli animali
(10 libri), Parti degli animali (4 libri), Generazione degli
animali (5 libri), altre minori, nonché L'anima (3 libri) e una
serie di opuscoli raccolti sotto il nome di Parva naturalia; 3)
Scritti di filosofia prima: Metafisica (14 libri), così chiamata,
sembra, perché posta "dopo i libri di fisica", in greco τὰ μετὰ τà
ϕυσικά; 4) Opere morali e politiche: Etica Eudemea (7 libri),
Grande Etica (2 libri: d'incerta autenticità), Etica Nicomachea
(10 libri), Politica (8 libri), Costituzione degli Ateniesi; 5)
Opere di poetica: Retorica (3 libri), Poetica. Di una serie di
altri scritti compresi nel corpus (Problemi, Retorica ad
Alessandro, Fisionomici, ecc.) l'autenticità è con molto
fondamento messa in dubbio.
Le linee dello sviluppo filosofico di Aristotele, che dallo Jaeger
in poi si sono sempre meglio venute individuando, consentono di
distinguere tre periodi: quello accademico, quello del soggiorno
ad Asso, a Mitilene e in Macedonia e, infine, quello
dell'insegnamento al Liceo. Nel primo periodo, a cui risalgono,
tra gli altri, gli scritti Eudemo, Protreptico e Sulla giustizia,
A. riprende la dottrina platonica dell'immortalità dell'anima,
considerata come "forma determinata", cioè come sostanza (e non
ancora, quindi come "forma di qualcosa", cioè del corpo, come sarà
più tardi); esalta la vita contemplativa e l'esercizio della
ϕρόνησις (platonicamente intesa come la forma più alta di
riflessione e quindi come il più nobile atteggiamento che il
filosofo possa assumere, ben diversa, quindi, da quella "prudenza"
che A. includerà nella serie delle virtù nell'Etica Nicomachea),
considera il bene come il "fine" (τέλος) supremo. Nel secondo
periodo, A. porta in primo piano i motivi di divergenza dal
platonismo: Platone stesso, nei suoi ultimi dialoghi, aveva
sottoposto la sua dottrina delle idee a un potente sforzo di
rielaborazione, consapevole delle numerose difficoltà da essa
suscitate. Speusippo, d'altra parte, aveva accentuato l'aspetto
matematico delle idee e su questa interpretazione si appuntarono
dapprima le critiche di A., per estendersi poi gradatamente alla
dottrina platonica in generale e soprattutto alla "separazione"
delle idee dalle cose. Accanto agli scritti Sulla filosofia e
Sulle idee risalgono a questo periodo le sezioni più antiche della
Fisica, della Metafisica, dell'Etica Eudemea e della Politica, in
cui più evidenti sono ancora le tracce del platonismo (Dio,
supremo ordinatore e fine di tutte le cose; l'animazione dei
cieli; l'etere quinto elemento, ecc.). Nel terzo periodo, infine,
a cui risale la redazione di quasi tutto il Corpus aristotelicum
da noi posseduto, A. raggiunge la piena maturità dottrinale, in
cui si misura pienamente il suo distacco da Platone.
Se le idee hanno un'esistenza assolutamente separata dagli oggetti
dell'esperienza sensibile, come possono essere fondamento della
realtà delle cose? Per costituirne l'essenza devono essere
intrinseche a esse: e se anche questo si ammette, parlando di una
"presenza" dell'idea in ciascuno degl'individui che ad essa
"partecipa", forza è concludere che la sua esistenza separata e
indipendente non aggiunge nulla di essenziale al quadro della
realtà, dando anzi luogo a un suo duplicato superfluo (cosiddetto
argomento del terzo uomo). L'idea, essenza eterna, universale,
dominante l'esistenza transeunte degl'individui, si determina
nella materia, costituendo la singola e concreta realtà. L'"idea"
platonica si trasmuta così nella "forma" aristotelica (μορϕή, o
ancora, col vecchio nome, εἶδος), e quell'elemento negativo che
nella natura, per Platone, si componeva col puro essere dell'idea
facendo sì che essa divergesse sempre dalla sua perfezione,
diviene la "materia" (ὕλη), che la forma plasma nell'individuo, o
"sinolo" (σύνολον, "insieme", dei due elementi). Solo
quest'individuo è reale, non avendo esistenza autonoma né la
forma, né la materia. Ciò poi non toglie che la forma possa essere
concepita dal pensiero nella sua pura indipendenza, cioè nella sua
universalità scevra di ogni determinazione particolare: da questo
punto di vista, la forma è l'universale (καϑόλου), che viene
conquistato dal pensiero nelle cose esterne mediante un processo
di separazione, o "astrazione", dalle particolarità individuali,
che fa comprendere il senso della sua posteriore qualificazione
come "universale astratto". D'altra parte, la materia non è
soltanto un sostrato inerte su cui s'imprime la forma, ma di
questa forma ha in sé la possibilità; e la forma quindi non la
determina estrinsecamente, ma costituisce la traduzione in atto
della capacità implicita in quella. Il binomio statico di materia
e forma si risolve quindi in quello dinamico di potenza e atto.
La "potenza" è la δύναμις, concreta capacità di svilupparsi nel
senso di una certa forma. L'"atto" è "energia" (ἐνέργεια), in
quanto attiva realizzazione di una data capacità o potenza, ed
"entelechìa", in quanto forma, anzi materia formata, attuata
realtà individuale (ἐντελέχεια, da ἐν "in", τέλος "fine" e ἔχειν
"avere": realtà che ha il suo fine in sé stessa, avendolo
raggiunto col compimento del suo processo di sviluppo). Questo
passaggio dalla potenza all'atto non dev'essere concepito come
realizzantesi una volta per sempre; ogni momento del divenire è
attuazione di una precedente potenza e costituzione di una potenza
che renderà possibile una nuova attuazione. Tutto il mondo è così
un processo di crescente determinazione, in cui la perfetta
idealità della forma si attua sempre più dall'imperfetta
materialità della potenza. Al limite di questo processo, A. pone
un ente perfetto che, avendo pienamente attuato la sua natura, è
"atto puro", atto del tutto scevro di potenza (Dio). Ciò non
toglie però che questo influisca sul mondo come scopo supremo di
tutto il suo processo di attuazione: Dio muove come "oggetto
dell'amore", muove senza muoversi ("motore immobile": κινοῦν
ἀκίνητον). D'altra parte, la sua superiorità a ogni esigenza di
attività e di movimento non può concepirsi come assoluta mancanza
di vita (ciò che sarebbe inconciliabile con la sua suprema
perfezione): quindi la sua vita senza attività non può essere che
la contemplazione, non di una verità diversa da sé medesimo (ciò
che implicherebbe, non attuale possesso della verità, ma potenza
conoscitiva tendente al possesso della verità), bensì della verità
che egli stesso costituisce: Dio pensa sé stesso, è "pensiero del
pensiero" (νόησις νοήσεως). In ultima analisi, se nella cosmica
gerarchia dell'essere non c'è forma o attualità che non sia legata
alla materia o potenza, all'estremo suo vertice la forma o
attualità torna a sussistere con l'indipendente purezza dell'idea
platonica, e solo in tale purezza essa fornisce senso e valore a
tutto l'edificio della realtà. Ciò dimostra quanto tenacemente
persista nella mente di A., nonostante la sua viva aspirazione
all'immanenza, la concezione trascendentistica della realtà,
appresa in gioventù alla scuola di Platone.
Anche nell'etica, A. è ben lontano dall'ascesi platonica, mirante
all'assoluta separazione dell'anima dalla schiavitù corporea. La
virtù è un "abito", un'attitudine del volere a comportarsi in un
certo modo, che non dipende tanto da dottrine e da convinzioni
teoretiche quanto da concrete capacità pratiche. In generale, essa
consiste nella condizione di equilibrio in cui l'anima viene a
trovarsi quando si tiene lontana da entrambi gli estremi della
passione: tra il vizio dipendente dal difetto e quello dipendente
dall'eccesso, essa occupa il "giusto mezzo". Ma se, in tal modo,
le virtù propriamente "etiche" si distaccano dalla sfera della
scienza e si rinchiudono in quella dell'esperienza pratica o del
"costume" (εϑος), a queste sovrastano d'altro lato le virtù
dianoetiche, o virtù della διάνοια, del retto "esercizio
intellettuale". E così, culmine della possibile perfezione e
felicità dell'uomo è, anche per A., non l'azione ma la
contemplazione, quella vita teoretica, d'impronta platonica, in
cui meglio il mortale si avvicina alla soddisfatta beatitudine di
Dio. Ciò non toglie che per A. soltanto nella vita sociale l'uomo,
che è l'"animale politico" per eccellenza, possa attuare il suo
perfezionamento morale e conseguire la sua felicità. Lo stato
infatti, la più perfetta delle organizzazioni sociali, è l'atto
rispetto al quale l'individuo e la famiglia sono la potenza, ed è
quindi il fine verso cui tende lo sviluppo dell'uomo.
Anche in tema di teoria dell'anima, l'A. della maturità abbandona
la contrapposizione platonica di anima e corpo. L'anima è la forma
della materia corporea, costituente con essa il vivente individuo
umano. Anche la pianta ha un'anima, che è la stessa sua vitalità
di organismo: ma quest'anima è puramente "nutritiva", o
"vegetativa", mentre nell'animale essa non è soltanto tale, ma
anche "motrice" e "senziente", e nell'uomo, infine, anche
"pensante" (l'universo essendo per A. un sistema di forme viventi
gerarchicamente ordinato, secondo la maggiore o minore
determinazione che l'una presenta rispetto all'altra). Ma sotto
ciascuno di questi aspetti l'anima è sempre mortale, perché
legata, quale forma, alla sorte della sua materia (il corpo).
Ma d'altra parte, se l'anima è legata al corpo e lo sviluppo
conoscitivo ha il suo primo fondamento negli organi di senso, da
essi derivando quelle sensazioni che preparano la conoscenza dei
concetti universali, quest'ultima conoscenza è poi considerata
come del tutto diversa dalle altre e affatto indipendente dalla
sintesi psico-corporea costituente l'organismo umano. La
conoscenza intellettuale, o noetica (cioè del νοῦς,
dell'"intelletto"), ha un valore di verità e universalità di tanto
superiore alle altre, che va fatta dipendere dall'intervento
esterno di una divina e universale attività intellettiva, di
fronte alla quale non sussiste nell'organismo umano se non la
capacità di adeguarsi passivamente ad essa.
Di qui la distinzione del sopraumano "intelletto agente" (νοῦς
ποιητικός: l'espressione, coniata da Alessandro di Afrodisiade,
diviene comune nell'aristotelismo medievale; A. parla di un
intelletto che è causa agente dell'intendere: ὁ νοῦς τῷ πάντα
ποιεῖν) dall'umano "intelletto in potenza" (νοῦς δυνατός: spesso
dai commentatori confuso col νοῦς παθητικός o "intelletto
passivo", che è invece da identificare con la "fantasia").
La stessa sopravalutazione conclusiva, e intrinsecamente
platonica, della conoscenza noetica si ha poi anche nella logica,
che di tutte le dottrine aristoteliche è la più originale. Da una
parte, infatti, essa tende, con motivo immanentistico e
antiplatonico, a rendere ragione della realtà individuale, e
teorizza il metodo "induttivo" o "epagogico" che, accostando casi
simili, trae da essi il tipo comune e fonda così la norma generale
sull'accordo dei particolari (metodo specialmente adatto allo
studio delle scienze della natura); ma, dall'altra parte, ritiene
che tale metodo induttivo non serva per la vera e propria
dimostrazione delle verità filosofiche, perché incapace di fondare
verità in sé necessarie ed eterne.
Per dimostrare con assoluto rigore logico, occorre il metodo
apodittico (dimostrativo), o deduttivo, che procede
dall'universale al particolare, o dal più universale al meno
universale: sua forma tipica è il sillogismo. La ricerca dei vari
tipi di sillogismi e la distinzione di quelli validi da quelli non
validi occupa la maggior parte degli Analitici primi e costituisce
un sistema di logica "formale", in quanto questa determina le
forme onde il pensiero si vale per dedurre necessariamente verità
più particolari da verità più universali, ma non gli fornisce il
contenuto onde riempire le forme, i punti di partenza onde muovere
nel suo metodo deduttivo. A capo di ogni processo apodittico è
necessario porre due "premesse immediate", e cioè non dedotte in
funzione di un superiore "medio" sillogistico, perché altrimenti
si risalirebbe all'infinito dalla conclusione alla premessa, e non
vi sarebbe mai un saldo punto di partenza per la deduzione
scientifica. Esse debbono venir semplicemente intuite
dall'intelletto, dal νοῦς, che non scinde, come la διάνοια
(facoltà giudicante e sillogizzante), le verità in soggetti e
predicati, per riunirle poi nella sintesi affermativa o negativa,
ma le appercepisce nella loro immota e perfetta unità. Così al
disopra della logica dianoetica sta la logica noetica: al disopra
della realtà, più schiettamente aristotelica, della dimostrazione,
la condizione ultima, più propriamente platonica, della
contemplazione.
Nella dottrina dell'arte, A. rivaluta il fatto estetico,
osservando che l'imitazione artistica non si riferisce alla realtà
singola (secondo la tesi che più giustificava la condanna
platonica), ma a quella stessa realtà ideale, che nel singolo
traluce come sua universale forma. Essa inoltre ha un potere
catartico, quale particolarmente si constata nel dramma tragico.
Rimane però, in questa teoria, immutato il presupposto platonico
dell'imitazione, come carattere costitutivo dell'attività
artistica, il quale di fatto toglie a questa attività ogni aspetto
di libera creazione. Il tardo sviluppo dell'estetica, nei secoli
successivi, ha tra le sue cause precipue l'influenza negativa di
quel concetto della mimèsi.
In A., l'amore dell'assoluto e dell'eterno (che caratterizza la
personalità del suo maestro) cede sempre più di fronte
all'interesse (che forse meglio esprime il suo spirito) per la
ricerca induttiva ed empirica del particolare, indagato nelle sue
forme concrete mediante una larga e paziente organizzazione. E ciò
appare già nel grande corpus in cui A., che già aveva tentato di
stabilire la costituzione dello stato ideale, passa all'analisi
realistica delle varie forme esistenti di costituzioni politiche,
raccogliendone ben 158, storicamente sancite in Grecia e fuori, di
cui ci rimangono pochi frammenti e il trattato della Costituzione
di Atene, ritrovato da F.G. Kenyon nel 1891 in un papiro in
Egitto. L'imponenza stessa di questa raccolta ci fa pensare che A.
non attendesse da solo a tale lavoro, ma organizzasse e dirigesse
ricerche compiute da tutta la sua scuola, ch'egli indirizzò
all'indagine empirica. In zoologia, per es., risalgono ad A.
osservazioni sullo stomaco dei ruminanti e l'individuazione nei
delfini di caratteristiche proprie dei mammiferi, mentre
nell'ambito dei suoi principi metodici generali A. tentò anche una
classificazione delle specie animali elaborando una scala naturae,
ascendente dagli esseri inanimati all'uomo, con criterî
teleologistici e vitalistici. In base al concetto di scienza come
conoscenza mediante cause di una realtà che "è sempre o per lo
più" (escludendo quindi una scienza del contingente e
dell'accidentale), A. aveva distinto tre possibili scienze
speculative: matematica, fisica e filosofia prima, assegnando alla
fisica come oggetto proprio un particolare aspetto dell'essere,
cioè "quella sostanza che ha in se stessa la causa del suo
movimento".
I principî di questa scienza, attraverso i quali soltanto è
concepibile il divenire, sono quelli generalissimi di materia e
forma, cui si aggiunge quello di privazione (στήρεσις): in base ad
essi si effettua la riduzione delle cause a quattro tipi
fondamentali (formale, materiale, efficiente, finale), cui tutte
le altre possono riportarsi. Conformemente a questa impostazione
A. esclude come mezzo di spiegazione qualsiasi elemento di natura
casuale o fortuita, in contrapposizione all'atomismo di Democrito,
indirizzando quindi finalisticamente l'indagine. La fisica di A. è
una fisica essenzialmente qualitativa: in essa si distinguono
infatti quattro tipi di movimento (generazione e corruzione,
mutamento, aumento e diminuzione, traslazione) - di cui quello di
traslazione è il più importante, potendosi gli altri spiegare in
base ad esso - e s'introduce la teoria dei luoghi naturali
assoluti, secondo la quale tutti i corpi si muovono di moto
rettilineo, verso l'alto quelli leggeri, verso il basso quelli
pesanti, in conformità agli elementi che li compongono (in ordine
di pesantezza: terra - al centro dell'universo - acqua, aria,
fuoco). Proprio dei soli corpi celesti è invece il moto circolare,
moto perfetto che non ammette contrari ed esclude qualsiasi
mutamento, sicché essi risultano eterni e incorruttibili; è
necessario in conseguenza ammettere l'esistenza di un quinto
elemento, esclusivo di questi corpi: l'etere. Nella sua teoria del
cielo A. riprende il sistema delle sfere omocentriche di Eudosso,
modificato da Callippo, aumentandone il numero, e ponendo la Terra
al centro di un sistema di sfere cristalline che nel loro
movimento di rotazione trascinano gli astri su di esse situati. La
finitezza dell'universo, la negazione del vuoto e dell'infinito
attuale - ammesso solo come potenziale riguardo alla divisibilità
- rappresentano poi alcune delle principali conseguenze della
fisica di A., che per la stretta dipendenza dai principî generali
della sua speculazione, per il suo carattere sistematico e il
rigore dell'impostazione, esercitò profonda influenza sul pensiero
scientifico dei successori. Sembra che ad A. sia dovuto l'uso di
rappresentare con lettere le grandezze prese in esame.
Iconografia. Molti furono i ritratti di A. nell'antichità:
Alessandro gli dedicò un'erma ad Atene, un altro ritratto
Teofrasto, una statua era a Olimpia, molto diffuse erano nel mondo
romano le erme che lo effigiavano. Abbiamo varie copie di un tipo,
creato forse verso la fine del 4° sec. a. C., di un notevole
realismo.
Aristotele nella leggenda. La leggenda medievale di A. rispecchia
il fatto storico che Alessandro giovinetto fu allievo di A.; essa
è infatti intessuta di diversi racconti sulle materie
d'insegnamento, sui consigli preziosi dati all'allievo, e giunge
fino a mostrare in A. un infallibile indovino. Alcuni episodi
rivelano una vena d'innocente umorismo, come quello in cui il
venerando sapiente, avendo disapprovato l'arrendevolezza del
discepolo al fascino femminile, è messo alla prova e graziosamente
raggirato da una bellissima fanciulla. La scenetta di A. carponi,
spesso con il morso fra i denti e le briglie sul collo, è il
soggetto di numerose rappresentazioni tardomedievali.
Dizionario di filosofia (2009)
Figlio di Nicomaco, medico di Aminta II di Macedonia, A.
trascorse i primi anni della sua giovinezza a Pella. Morto il
padre, ebbe come tutore un parente di nome Prosseno, di cui poi
adottò il figlio. A diciotto anni si trasferì ad Atene ed entrò a
far parte dell’Accademia platonica rimanendovi per quasi
vent’anni, fino alla morte di Platone, verso il quale nutrì
sempre, malgrado tutte le invenzioni e le maldicenze, profonda
amicizia e venerazione: basta ad attestarlo il celebre elogio –
che certo va riferito a Platone – dell’«uomo che i malvagi non
hanno nemmeno il diritto di lodare», contenuto nell’elegia per
l’altare dedicato a Eudemo di Cipro. In parte per motivi politici,
in parte per i dissensi con Speusippo, il nuovo scolarca
dell’Accademia, lasciò quindi Atene, in compagnia di Senocrate,
per recarsi in Asia Minore, presso Ermia, tiranno di Atarneo.
Nella vicina Troade, a Scepsi e ad Asso, esistevano comunità
platoniche, e in esse A. cominciò a svolgere il suo magistero. Vi
rimase tre anni ed Ermia gli dette in moglie la nipote e figlia
adottiva Pizia. Forse proprio per le insistenze del discepolo
Teofrasto si trasferì quindi a Mitilene, dove insegnò fino al
343-42, quando accolse l’invito di recarsi alla corte di Filippo
II di Macedonia per occuparsi dell’educazione del principe
Alessandro. Salito questi al trono, tornò ad Atene e vi fondò nel
335-34 una scuola che, dalla sua sede, il recinto sacro ad Apollo
Liceo, trasse il nome di Liceo, e dal περίπατος, la «passeggiata»,
che i suoi membri percorrevano discutendo, quello di Peripato, o
scuola peripatetica. Dopo circa dodici anni di direzione della
scuola, morto Alessandro e prevalso in Atene il partito
antimacedonico, A. fu accusato di empietà, ma sfuggì al processo
riparando a Calcide nell’Eubea, dove morì l’anno dopo (322) di una
malattia di stomaco.
Le opere.
Circa la storia e il carattere degli scritti di A. molta luce è
stata fatta nella seconda metà del Novecento: gli antichi
conobbero una serie di opere, nella maggior parte dialogiche,
pubblicate da A. stesso e lodate anche per i pregi della loro
forma letteraria, di cui sono rimasti soltanto pochi frammenti
(tra le principali: Grillo, Eudemo, Protreptico, Sulla giustizia,
Sulla filosofia, Sulle idee, Politico, Sofista, ecc.). La perdita
di queste opere dedicate al pubblico (e perciò dette essoteriche)
è certamente dovuta alla pubblicazione, fatta da Andronico da
Rodi, degli scritti che A. e alcuni discepoli avevano redatto in
funzione dei corsi di lezioni svolti all’interno del Liceo (perciò
detti esoterici o, anche, acroamatici, cioè destinati all’ascolto,
e costituenti il Corpus aristotelicum da noi attualmente
posseduto). Questa pubblicazione che, secondo la tradizione,
conclude una storia assai romanzesca di tali scritti, fece con il
tempo passare in secondo piano gli scritti essoterici. La
ricostruzione delle vicende degli scritti di A. e degli ambienti
in cui esse si svolsero ha permesso di comprendere come
gradatamente, anzi, gli scritti essoterici venissero nettamente
contrapposti a quelli esoterici; e poiché nei primi si scorgevano
larghe tracce di dottrine platoniche, si immaginò che in essi A.
non avesse svelato il suo vero pensiero (riservato ai discepoli
iniziati e alle opere esoteriche), ma avesse solo espresso false
opinioni altrui; ciò anche in base all’errata convinzione che A.
avesse radicalmente criticato la dottrina platonica fin dal suo
primo soggiorno nell’Accademia. Questa tradizione, assieme
all’immagine stereotipa di un A. sistematico, rigido e immutabile,
hanno per lungo tempo paralizzato anche la critica moderna,
oscillante tra la tendenza a considerare non autentiche le opere
essoteriche (W.D. Ross) e quella a espungere da esse ogni traccia
di platonismo per salvarne l’autenticità (J. Bernays).
È grande merito di W. Jaeger (e in Italia di E. Bignone) aver
dato un’impostazione nuova al problema, considerando le opere
essoteriche e il platonismo in esse espresso come documento della
prima fase dell’evoluzione filosofica di A., evoluzione
rintracciabile anche tra i vari strati redazionali riconoscibili
nelle stesse opere acroamatiche. Nella loro disposizione
sistematica esse sono le seguenti: (1) Opere di logica (in seguito
indicate sotto il nome complessivo di Organon): Categorie,
Sull’espressione, Analitici primi (2 libri), Analitici posteriori
(2 libri) , Topici (8 libri), Elenchi sofistici; (2) Opere di
fisica: Fisica (8 libri), Il cielo (4 libri), Generazione e
corruzione (2 libri), Meteorologia (4 libri), Storia degli animali
(10 libri), Parti degli animali (4 libri), Generazione degli
animali (5 libri), altre minori, nonché Sull’anima (3 libri) e una
serie di opuscoli raccolti sotto il nome di Parva naturalia; (3)
Scritti di filosofia prima: Metafisica (14 libri), così chiamata,
sembra, perché posta «dopo i libri di fisica», in greco τὰ µετὰ τὰ
φυσικά; (4) Opere morali e politiche: Etica Eudemea (7 libri),
Grande Etica (2 libri: d’incerta autenticità), Etica Nicomachea
(10 libri), Politica (8 libri), Costituzione degli Ateniesi; (5)
Opere di poetica: Retorica (3 libri), Poetica. Di una serie di
altri scritti compresi nel corpus (Problemi, Retorica ad
Alessandro, Fisionomici, ecc.) è stata messa in dubbio
l’autenticità, con numerose ragioni. Le linee dello sviluppo
filosofico di Aristotele, quali si sono venute sempre meglio
individuando sulla scorta degli studi di Jaeger, consentono di
distinguere tre periodi: quello accademico, quello del soggiorno
ad Asso, a Mitilene e in Macedonia e, infine, quello
dell’insegnamento presso il Liceo.
Nel primo periodo, a cui risalgono, tra gli altri, gli scritti
Eudemo, Protreptico e Sulla giustizia, A. riprende la dottrina
platonica dell’immortalità dell’anima, considerata come «forma
determinata», cioè come sostanza (e non ancora, quindi come «forma
di qualcosa», cioè del corpo, come sarà più tardi); esalta la vita
contemplativa e l’esercizio della φρόνησις (platonicamente intesa
come la forma più alta di riflessione e quindi come il più nobile
atteggiamento che il filosofo possa assumere, ben diversa, quindi,
da quella «prudenza» che A. includerà nella serie delle virtù
nell’Etica Nicomachea), considera il bene come il «fine» (τέλος)
supremo.
Nel secondo periodo, A. porta in primo piano i motivi di
divergenza dal platonismo: Platone stesso, nei suoi ultimi
dialoghi, aveva sottoposto la sua dottrina delle idee a un potente
sforzo di rielaborazione, consapevole delle numerose difficoltà da
essa suscitate. Speusippo, d’altra parte, aveva accentuato
l’aspetto matematico delle idee e su questa interpretazione si
appuntarono dapprima le critiche di A., per estendersi poi
gradatamente alla dottrina platonica in generale e soprattutto
alla «separazione» delle idee dalle cose. Risalgono a questo
periodo, oltre agli scritti Sulla filosofia e Sulle idee, le
sezioni più antiche della Fisica, della Metafisica, dell’Etica
Eudemea e della Politica, in cui più evidenti sono ancora le
tracce del platonismo (Dio, supremo ordinatore e fine di tutte le
cose; l’animazione dei cieli; l’etere quinto elemento, ecc.).
Nel terzo periodo, infine, in cui va collocata la redazione di
quasi tutto il Corpus aristotelicum da noi posseduto, A. raggiunge
la piena maturità dottrinale, distaccandosi pienamente dalla
filosofia di Platone.
Metafisica.
Se le idee hanno un’esistenza assolutamente separata dagli
oggetti dell’esperienza sensibile, come possono essere fondamento
della realtà delle cose? Per costituirne l’essenza devono essere
intrinseche a esse: e se anche questo si ammette, parlando di una
«presenza» dell’idea in ciascuno degli individui che ad essa
«partecipa», bisogna concludere che la sua esistenza separata e
indipendente non aggiunge nulla di essenziale al quadro della
realtà, dando anzi luogo a un suo duplicato superfluo (cosiddetto
argomento del terzo uomo). L’idea, essenza eterna, universale,
dominante l’esistenza transeunte degli individui, si determina
nella materia, costituendo la singola e concreta realtà. L’idea
platonica si trasforma così nella «forma» aristotelica (µορφή, o
ancora, con il vecchio nome, εἶδος), e quell’elemento negativo che
nella natura, per Platone, si componeva con il puro essere
dell’idea, facendo sì che essa divergesse sempre dalla sua
perfezione, diviene la «materia» (ὕλη), che la forma plasma
nell’individuo, o «sinolo» (σύνολον, «insieme», dei due elementi).
Solo questo individuo è reale, non avendo esistenza autonoma né la
forma, né la materia. Ciò poi non toglie che la forma possa essere
concepita dal pensiero nella sua pura indipendenza, cioè nella sua
universalità scevra di ogni determinazione particolare: da questo
punto di vista, la forma costituisce l’universale (καϑόλου), che
viene conquistato dal pensiero nelle cose esterne mediante un
processo di separazione, o astrazione, dalle particolarità
individuali, che fa comprendere il senso della sua posteriore
qualificazione come «universale astratto».
D’altra parte, la materia non è soltanto un sostrato inerte su
cui si imprime la forma, ma di questa forma ha in sé la
possibilità; e la forma quindi non la determina estrinsecamente,
ma costituisce la traduzione in atto della capacità implicita in
quella. Il binomio statico di materia e forma si risolve quindi in
quello dinamico di potenza e atto. La «potenza» è la δύναµις,
concreta capacità di svilupparsi nel senso di una certa forma.
L’«atto» è «energia» (ἐνέργεια), in quanto attiva realizzazione di
una data capacità o potenza, ed «entelechìa», in quanto forma,
anzi materia formata, attuata realtà individuale (ἐντελέχεια, da
ἐν «in», τέλος «fine» e ἔχειν «avere»: realtà che ha il suo fine
in sé stessa, avendolo raggiunto con il compimento del suo
processo di sviluppo). Questo passaggio dalla potenza all’atto non
dev’essere concepito come realizzantesi una volta per sempre; ogni
momento del divenire è attuazione di una precedente potenza e
costituzione di una potenza che renderà possibile una nuova
attuazione. Tutto il mondo è così un processo di crescente
determinazione, in cui la perfetta idealità della forma si attua
sempre più dall’imperfetta materialità della potenza.
Al limite di questo processo, A. pone un ente perfetto che,
avendo pienamente attuato la sua natura, è «atto puro», atto del
tutto scevro di potenza (Dio). Ciò non toglie però che questo
influisca sul mondo come scopo supremo di tutto il suo processo di
attuazione: Dio muove come «oggetto dell’amore», muove senza
muoversi («motore immobile»: κινοῦν ἀκίνητον). D’altra parte, la
sua superiorità a ogni esigenza di attività e di movimento non può
concepirsi come assoluta mancanza di vita (ciò che sarebbe
inconciliabile con la sua suprema perfezione): quindi la sua vita
senza attività non può essere che la contemplazione, non di una
verità diversa da sé medesimo (ciò che implicherebbe, non attuale
possesso della verità, ma potenza conoscitiva tendente al possesso
della verità), bensì della verità che egli stesso costituisce: Dio
pensa sé stesso, è «pensiero del pensiero» (νόησις νοήσεως). In
ultima analisi, se nella gerarchia cosmica dell’essere non c’è
forma o attualità che non sia legata alla materia o potenza,
all’estremo suo vertice la forma o attualità torna a sussistere
con l’indipendente purezza dell’idea platonica, e solo in tale
purezza essa fornisce senso e valore a tutto l’edificio della
realtà.
Ciò dimostra quanto tenacemente persista nella mente di A.,
nonostante la sua viva aspirazione all’immanenza, la concezione
trascendentistica della realtà, appresa in gioventù alla scuola di
Platone.
Etica.
Anche nell’etica, A. è ben lontano dall’ascesi platonica, mirante
all’assoluta separazione dell’anima dalla schiavitù corporea. La
virtù rap-presenta un «abito», un’attitudine del volere a
com-portarsi in un certo modo, che non dipende tanto da dottrine e
da convinzioni teoretiche quanto da concrete capacità pratiche. In
generale, essa consiste nella condizione di equilibrio in cui
l’anima viene a trovarsi quando si tiene lontana da entrambi gli
estremi della passione: tra il vizio dipendente dal difetto e
quello dipendente dall’eccesso, essa occupa il «giusto mezzo». Ma
se, in tal modo, le virtù pro-priamente «etiche» si distaccano
dalla sfera della scienza e si rinchiudono in quella
dell’esperienza pratica o del «costume» (ἔϑος), a queste
sovrastano d’altro lato le virtù dianoetiche, o virtù della
διάνοια, del retto «esercizio intellettuale». E così, culmine
della possibile perfezione e felicità dell’uomo è, anche per A.,
non l’azione ma la contemplazione, quella vita teoretica,
d’impronta platonica, in cui meglio il mortale si avvicina alla
soddisfatta beatitudine di Dio. Ciò non toglie che per A. soltanto
nella vita sociale l’uomo, che è l’«animale politico» per
eccellenza, possa attuare il suo per-fezionamento morale e
conseguire la sua felicità. Lo Stato infatti, la più perfetta
delle organizzazioni sociali, è l’atto rispetto al quale
l’individuo e la famiglia sono la potenza, ed è quindi il fine
verso cui tende lo sviluppo dell’uomo.
Psicologia.
Anche in tema di teoria dell’anima, l’A. della maturità abbandona
la contrapposizione platonica di anima e corpo. L’anima è la forma
della materia corporea, costituente con essa il vivente individuo
umano. Anche la pianta ha un’anima, che è la stessa sua vitalità
di organismo: ma quest’anima è puramente «nutritiva», o
«vegetativa», mentre nell’animale essa non è soltanto tale, ma
anche «mo-trice» e «senziente», e nell’uomo, infine, anche
«pen-sante» (l’Universo essendo per A. un sistema di forme viventi
gerarchicamente ordinato, secondo la mag-giore o minore
determinazione che l’una presenta rispetto all’altra). Ma sotto
ciascuno di questi aspetti l’anima è sempre mortale, perché
legata, quale forma, alla sorte della sua materia (il corpo).
D’altra parte, però, se l’anima è legata al corpo e lo svilup-po
conoscitivo ha il suo primo fondamento negli organi di senso, da
essi derivando quelle sensazioni che preparano la conoscenza dei
concetti universali, quest’ultima conoscenza è poi considerata
come del tutto diversa dalle altre e affatto indipendente dalla
sintesi psico-corporea costituente l’organismo umano.
La conoscenza intellettuale, o noetica (cioè del νοῦς,
dell’«intel-letto»), ha un valore di verità e universalità di
tanto superiore alle altre, che va fatta dipendere dall’intervento
esterno di una divina e universale attività intellettiva, di
fronte alla quale non sussiste nell’or-ganismo umano se non la
capacità di adeguarsi passivamente a essa. Di qui la distinzione
del sopraumano «intelletto agente» (νοῦς ποιητικός: l’espressione,
coniata da Alessandro di Afrodisiade, diviene comune
nell’aristotelismo medievale; A. parla di un intelletto che è
causa agente dell’inten-dere: ὁ νοῦς τῷ πάντα ποιεῖν) dall’umano
«intelletto in potenza» (νοῦς δυνατός: spesso dai commentatori
confuso col νοῦς παϑητικός o «intelletto passivo», che è invece da
identificare con la «fantasia»).
Logica.
La stessa sopravvalutazione conclusiva, e intrinsecamente
platonica, della conoscenza noetica si ha poi anche nella logica,
che di tutte le dottrine aristoteliche è la più originale. Da una
parte, infatti, essa tende, con motivo immanentistico e
antiplatonico, a rendere ragione della realtà individuale, e
teorizza il metodo «induttivo» o «epagogico» che, accostando casi
simili, trae da essi il tipo comune e fonda così la norma generale
sull’accordo dei particolari (metodo specialmente adatto allo
studio delle scienze della natura); ma, dall’altra parte, ritiene
che tale metodo induttivo non serva per la vera e propria
dimostrazione delle verità filosofiche, perché incapace di fondare
verità in sé necessarie ed eterne.
Per dimostrare con assoluto rigore logico, occorre il metodo
apodittico (dimostrativo), o deduttivo, che procede
dall’universale al particolare, o dal più universale al meno
universale: sua forma tipica è il sillogismo. La ricerca dei vari
tipi di sillogismi e la distinzione di quelli validi da quelli non
validi occupa la maggior parte degli Analitici primi e costituisce
un sistema di logica ‘formale’, in quanto questa determina le
forme di cui il pensiero si avvale per dedurre necessariamente
verità più particolari da verità più universali, ma non gli
fornisce il contenuto con cui riempire le forme, i punti di
partenza da cui muovere nel suo metodo deduttivo.
A capo di ogni processo apodittico è necessario porre due
«premesse immediate», e cioè non dedotte in funzione di un
superiore «medio» sillogistico, perché altrimenti si risalirebbe
all’infinito dalla conclusione alla premessa, e non vi sarebbe mai
un saldo punto di partenza per la deduzione scientifica. Esse
debbono venir semplicemente intuite dall’intelletto, dal νοῦς, che
non scinde, come fa la διάνοια (facoltà giudicante e
sillogizzante), le verità in soggetti e predicati, per riunirle
poi nella sintesi affermativa o negativa, ma le appercepisce nella
loro immota e perfetta unità. Così, al disopra della logica
dianoetica sta la logica noetica: al disopra della realtà, più
schiettamente aristotelica, della dimostrazione, la condizione
ultima, più propriamente platonica, della contemplazione.
Teoria dell’arte, retorica e concezioni linguistiche.
Nella dottrina dell’arte, A. rivaluta il fatto estetico,
osservando che l’imitazione artistica non si riferisce alla realtà
singola (secondo la tesi che più giustificava la condanna
platonica), ma a quella stessa realtà ideale che nel singolo
traluce come sua universale forma. Essa inoltre ha un potere
catartico, quale particolarmente si constata nel dramma tragico.
Rimane però, in questa teoria, immutato il presupposto platonico
dell’imitazione, come carattere costitutivo dell’attività
artistica, il quale di fatto sottrae a questa attività ogni
aspetto di libera creazione. Il tardo sviluppo dell’estetica, nei
secoli successivi, avrà tra le sue cause precipue l’influenza
negativa di quel concetto della mimesi.
Giudicando dalle opere giunteci dalle fonti, la teoria del
linguaggio fu toccata da A. sempre in funzione di altri settori di
indagine: le dottrine logico-formali e politiche, le teorie
dell’arte poetica e della retorica. Tuttavia, per quanto
esternamente frammentario, l’insieme delle dottrine linguistiche
di A. ha una notevole coerenza interna. Le voci umane si
distinguono dalle voci degli animali per essere articolate, cioè
composte da una successione di elementi semantici, le parole, a
loro volta analizzabili in elementi asemantici, στοίχεια o
γράµµατα («elementi» o «lettere»). Le parole si classificano in
tre categorie (o quattro, a seconda della lezione seguita dagli
interpreti): i nomi, definiti «voci significative senza tempo», i
verbi, o «voci significanti con tempo», i legamenti (preposizioni,
articoli, ecc.), la cui funzione è quella di collegare gli
elementi propriamente semantici. Nomi e verbi hanno la
caratteristica della genericità semantica: cadendo nella frase
essi si modificano nella forma e e si determinano nel significato.
A tale processo di determinazione formale e funzionale A. dà il
nome di πτοσίς «caduta, caso» (termine che ha palesemente
un’accezione ancora molto più vasta di quella conferitagli dagli
stoici). Soltanto quando siano combinate tra loro nella frase le
parole possono essere oggetto di un giudizio di verità o falsità:
in sé, un nome (o un verbo) non è né vero né falso, ma indica
convenzionalmente (κατά συνϑέκεν) un certo significato. Il
significato è concepito in termini psicologici come πὰϑος τῆς
ψυχῆς «affezione dell’anima», corrispondente a un dato ontologico.
Dalle dottrine di A. è dunque assente il riconoscimento della
storicità (variabilità etnica e temporale) del mondo dei
significati, pur non mancando alcuni cenni alla diversità formale
delle lingue e al legame tra usi linguistici e vita associata dei
popoli. Agli στοίχεια, cioè, in particolare, ai fonemi costitutivi
delle parole greche, A. dedica osservazioni penetranti nella
Poetica: a lui risale un primo tentativo di sistemazione della
fonologia del greco antico. Questo corpo dottrinale, giudicato
dagli studiosi ottocenteschi «ingenuo» (H. Steinthal), appare oggi
sorprendentemente moderno: soprattutto le due idee
dell’arbitrarietà delle forme linguistiche e del loro articolarsi
in unità collocate a distinti livelli sono state decisamente
rivalutate dal pensiero linguistico del Novecento.
Politica.
In A., l’amore dell’assoluto e dell’eterno (che caratterizza la
personalità del suo maestro) cede sempre più di fronte
all’interesse (che forse meglio esprime il suo spirito) per la
ricerca induttiva ed empirica del particolare, indagato nelle sue
forme concrete mediante una larga e paziente organizzazione. E ciò
appare già nel grande corpus in cui A., che già aveva tentato di
stabilire la costituzione dello Stato ideale, passa all’analisi
realistica delle varie forme esistenti di costituzioni politiche,
raccogliendone ben 158, storicamente sancite in Grecia e altrove.
Di tale analisi ci rimangono pochi frammenti e il trattato della
Costituzione di Atene, ritrovato da F.G. Kenyon nel 1891 in un
papiro in Egitto; ma l’imponenza stessa di questa raccolta ci fa
pensare che A. non attendesse da solo a tale lavoro, ma
organizzasse e dirigesse ricerche compiute da tutta la sua scuola,
che egli indirizzò all’indagine empirica.
Fisica.
In base al concetto di scienza come conoscenza mediante cause di
una realtà che «è sempre o per lo più» (escludendo pertanto una
scienza del contingente e dell’accidentale), A. aveva distinto tre
possibili scienze speculative: matematica, fisica e filosofia
prima, assegnando alla fisica come oggetto proprio un particolare
aspetto dell’essere, cioè «quella sostanza che ha in se stessa la
causa del suo movimento». I principi di questa scienza, attraverso
i quali soltanto è concepibile il divenire, sono quelli
generalissimi di materia e forma, cui si aggiunge quello di
privazione (στήρεσις): in base a essi si effettua la riduzione
delle cause a quattro tipi fondamentali (formale, materiale,
efficiente, finale), cui tutte le altre possono riportarsi.
Conformemente a questa impostazione A. esclude come mezzo di
spiegazione qualsiasi elemento di natura casuale o fortuita, in
contrapposizione all’atomismo di Democrito, indirizzando quindi
finalisticamente l’indagine.
La fisica di A. è una fisica essenzialmente qualitativa: in
essa si distinguono infatti quattro tipi di movimento (generazione
e corruzione, mutamento, aumento e diminuzione, traslazione) – di
cui quello di traslazione è il più importante, potendosi gli altri
spiegare in base a esso – e si introduce la teoria dei luoghi
naturali assoluti, secondo la quale tutti i corpi si muovono di
moto rettilineo, verso l’alto quelli leggeri, verso il basso
quelli pesanti, in conformità agli elementi che li compongono (in
ordine di pesantezza: terra – al centro dell’Universo – acqua,
aria, fuoco). Proprio dei soli corpi celesti è invece il moto
circolare, moto perfetto che non ammette contrari ed esclude
qualsiasi mutamento, sicché essi risultano eterni e
incorruttibili; è necessario, di conseguenza, ammettere
l’esistenza di un quinto elemento, esclusivo di questi corpi:
l’etere. Nella sua teoria del cielo A. riprende il sistema delle
sfere omocentriche di Eudosso, modificato da Callippo,
aumentandone il numero, e ponendo la Terra al centro di un sistema
di sfere cristalline che nel loro movimento di rotazione
trascinano gli astri su di esse situati.
La finitezza dell’Universo, la negazione del vuoto e
dell’infinito attuale – ammesso solo come potenziale riguardo alla
divisibilità – rappresentano poi alcune delle principali
conseguenze della fisica di A., che per la stretta dipendenza dai
principi generali della sua speculazione, per il suo carattere
sistematico e il rigore dell’impostazione, esercitò profonda
influenza sul pensiero scientifico dei successori. Sembra che ad
A. sia dovuto l’uso di rappresentare con lettere le grandezze
prese in esame.