Sviluppo economico
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Fenomeno durevole nel tempo consistente nella crescita di alcune
variabili reali del sistema: produzione, consumi, investimenti,
occupazione. In politica economica, per politica dello s.e. si intende la creazione delle condizioni favorevoli allo s.e. e
anche l'elaborazione e l'attuazione di piani organici di
investimenti pubblici e la coordinazione di investimenti privati.
Indici dello sviluppo economico
Con specifico riferimento all'ambito macroeconomico, come indice
del grado di s.e. raggiunto da un paese si utilizza in genere la
variabile del reddito reale per abitante o il prodotto interno
lordo pro capite. Questo indice sintetico, tuttavia,
è stato sottoposto a forti critiche, in quanto dalla sua
evoluzione nel tempo non possono essere tratte valutazioni
né sul livello di benessere raggiunto da un paese
né, tanto meno, sulla distribuzione del reddito al suo
interno. Per questo motivo si ricorre ad altri parametri, quali la
struttura per età della popolazione (che nei paesi in via
di sviluppo è caratterizzata da alti tassi di
natalità) o l'indice della qualità fisica della vita
(che tiene conto della speranza di vita, la quale si riduce in
proporzione all'aumento della povertà, della
mortalità infantile ecc.). aiuti allo
sviluppo
Sin dalla fine della Seconda guerra mondiale numerosi paesi in
via di sviluppo (→ PVS) hanno
fatto ricorso al prestito estero, concesso da privati, governi od
organismi internazionali quali il Fondo monetario internazionale
(FMI) e la Banca Mondiale, per finanziare gli investimenti interni
a causa del loro basso livello del risparmio. Nel corso del
20° sec., l'eccessivo ricorso al finanziamento proveniente
dall'estero e condizioni avverse sui mercati interni e
internazionali (quali fluttuazioni dei cambi, recessioni
economiche ecc.) hanno portato gli organismi internazionali a
rinegoziare il debito estero e, in alcuni casi, a cancellare parte
dei finanziamenti stessi.
Sviluppo economico - approfondimento di
Fabio Massimo Parenti
Lo sviluppo economico rappresenta un tema centrale dell'economia
e delle scienze sociali in genere. Tuttavia troppo spesso viene
confuso o fatto coincidere tout court con la crescita
economica. In realtà si tratta di questioni diverse: la
crescita dell'economia è necessaria ma non sufficiente allo
sviluppo economico, che, a differenza del primo concetto, è
etimologicamente connotato da una maggiore attenzione verso la
qualità, ossia verso ciò che non è sempre
calcolabile (come il benessere, l'utilità e l'equità
sociale). Lo sviluppo economico, infatti, non è solo
materiale ma corrisponde anche a una condizione di progresso
sociale (sviluppo sociale) e, in tempi più recenti, anche
di compatibilità ambientale (sviluppo sostenibile).L'approccio unilineare
nell'interpretazione dello sviluppo economico
Una interpretazione dello sviluppo economico fa diretto
riferimento al processo di modernizzazione. In questo caso si
adotta un approccio unilineare per il quale lo sviluppo economico
è il punto di arrivo di un processo storico, che, da una
condizione di economia tradizionale e di arretratezza, si muove in
qualsiasi parte del mondo lungo la stessa traiettoria e con fasi
di sviluppo simili. Semplificando: da una società
prevalentemente agricola, poco specializzata e dotata di uno
scarso livello di sviluppo tecnico, si passa progressivamente a
fasi di industrializzazione e inurbamento diffuso della
popolazione. Un processo in cui cambia pertanto l'organizzazione e
la composizione settoriale della produzione (e, di conseguenza,
della natura e della dimensione delle imprese) e dell'occupazione,
in un primo momento a favore dell'industria e, più tardi,
dei servizi, mentre nel contempo aumenta la disponibilità
di capitale, si articola maggiormente la divisione del lavoro e si
hanno significative innovazioni tecnologiche. Gli effetti di
questi sviluppi coinvolgono numerosi aspetti economici come le
propensioni al consumo e al risparmio, e l'aumento della domanda
di servizi avanzati, a loro volta condizionati da nuove condizioni
sociali che implicano la diffusione e il miglioramento dei sistemi
d'istruzione e una crescente circolazione di informazione. Questa
interpretazione, che si basa sul dualismo
tradizione/modernità di T. Parsons, e sulla teoria degli
stadi di sviluppo dello storico dell'economia W.W. Rostow
(1916-2003; società tradizionale, condizioni preliminari
per il decollo, decollo, maturità di sviluppo, grande
sviluppo di massa), è un modo utile per vedere e
sintetizzare i fattori comuni ai vari processi di sviluppo, ma
risulta nel contempo limitata nel cogliere le specificità
storiche e soprattutto il rapporto complicato fra fattori endogeni
ed esogeni che intervengono nello sviluppo di una data area
geografica. Sia il mondo capitalistico sia quello socialista sono
stati influenzati da questo approccio unilineare: il primo vedeva
nel consolidamento del capitalismo la fase più alta di
sviluppo delle società umane, mentre il secondo individuava
il comunismo come il punto di arrivo di un lungo processo
evolutivo, che però doveva passare da un'esperienza
capitalistica per la sua realizzazione.L'approccio multilineareL'evoluzione
delle scienze sociali ha tuttavia elaborato, nel corso degli anni,
altri approcci: in partic. l'approccio storico-multifattoriale di
A. Gerschenkron (1904-1979) e di B. Moore junior (1913-2005) ha
mostrato l'esistenza di più vie allo sviluppo,
coerentemente a ciò che si registra empiricamente: infatti
i sistemi capitalistici risultano storicamente differenziati, per
quanto riguarda il ruolo dello Stato e per la diversità di
condizioni storico-culturali dei paesi poveri. Una interpretazione
multilineare è suggerita in partic. dai numerosi studi sul
rapporto sviluppo/sottosviluppo.
L'approccio multilineare si compone di due filoni.
L'interpretazione neomarxista allo sviluppo economico intende
superare la dicotomia tradizione/modernità, facendo
riferimento al rapporto fra sviluppo e sottosviluppo. In questo
caso il sottosviluppo di molti paesi era letto anche in base
all'azione dei fattori globali esogeni (per es., colonialismo e
neocolonialismo) che intervenivano ad alimentare certe condizioni
di arretratezza o di ammodernamento. Non è un caso che G.
Frank, uno dei più importanti esponenti di questa
tradizione, abbia parlato di "sviluppo del sottosviluppo",
intendendo quel processo internazionale attraverso il quale i
paesi sviluppati del centro si avvantaggiavano di risorse e
manodopera a basso prezzo dei paesi della periferia. Questa
condizione di dipendenza, subita dalla periferia e gestita dal
centro, ha permesso di inserire il tema complesso dello sviluppo
economico in un quadro più ampio, capace di contemplare
l'azione degli organismi finanziari internazionali e delle imprese
multinazionali, nonché la forma e le ragioni dello scambio
internazionale. Nel contempo si sviluppava un intenso dibattito
sul ruolo dello Stato nell'economia (sempre in relazione allo
sviluppo economico) che, alla luce di diverse e complesse
esperienze storiche, ha portato a un indebolimento della
tradizione statalista novecentesca di stampo keynesiano e al
rafforzamento della cd. dottrina neoliberale, la quale abbina a un
rifiuto dell'economia dello sviluppo (vista come disciplina
statalista) la fusione fra alcune idee tratte dall'economia
neoclassica e una politica antistatalista e mercantilista.
Abbraccia ambedue i filoni un approccio 'istituzionalista' allo
sviluppo economico. La celebre opera di A. Smith, La
ricchezza delle nazioni, intendeva spiegare le origini e le
cause di questa ricchezza. Ma a distanza di due secoli e mezzo gli
economisti ancora non sono riusciti a darne una spiegazione
compiuta. Tuttavia, come detto, un ruolo cruciale sembra essere
giocato dalle istituzioni nel garantire un equilibrato rapporto
fra i poteri fondamentali (legislativo, esecutivo, giudiziario),
un quadro normativo di certezza dei contratti, un ambiente sociale
orientato alla ricerca del consenso, una burocrazia efficiente,
una tensione verso l'eguaglianza nella dignità e nel censo.
Enciclopedia delle Scienze
Sociali (1998)
di Franco Volpi
Sviluppo economico
sommario: 1. Definizione. 2. Lo sviluppo
dell'economia capitalistica e le sue fasi. 3. I fattori dello
sviluppo: a) l'accumulazione del capitale; b) innovazioni
e progresso tecnico; c) il capitale umano. 4. Crescita
della popolazione e sviluppo economico. 5. Sviluppo e mercato
mondiale. 6. Crescita e distribuzione del reddito. 7. La misurazione
dello sviluppo. □ Bibliografia.
1. Definizione
Nel linguaggio comune e in quello delle scienze naturali per
sviluppo si intende il passaggio di un'entità dalla sua forma
embrionale a quella compiuta o perfetta attraverso un avanzamento
per stadi intermedi: così dal feto o dal seme si sviluppano
gradualmente l'animale o la pianta. A ogni stadio la forma e le
dimensioni, mutate rispetto allo stadio precedente, si devono
riferire alla stessa entità: il concetto di sviluppo, quindi,
implica insieme mutamento e persistenza, ossia la possibilità
di definire l'oggetto del quale si osserva e si misura il mutamento.
Nelle scienze sociali, dato che nessuno ha mai 'visto'
civiltà, culture, società, economie svilupparsi nello
stesso modo in cui possiamo dire di vedere questi fenomeni negli
animali o nelle piante (v. Nisbet, 1969), la definizione
dell'oggetto costituisce un problema, risolto diversamente a seconda
del paradigma teorico e del programma di ricerca adottati.
Nell'economia politica la tradizione prevalente, affermatasi fin
dagli scritti dei mercantilisti e dei fisiocratici e dalla Ricchezza
delle nazioni di Smith, riferisce il fenomeno dello sviluppo e lo
studio delle sue cause e delle sue modalità a una
entità corrispondente a un 'paese' o a una 'nazione',
considerata isolatamente o nei suoi rapporti con il resto del mondo.
Molto spesso, come vedremo (v. cap. 7), lo sviluppo economico viene
identificato con la crescita delle grandezze macroeconomiche di un
paese e, in particolare, del suo prodotto nazionale, e il valore pro
capite di questo e il suo tasso di crescita vengono usati come
indicatori del livello di sviluppo di un paese o delle sue
variazioni. Tuttavia, mentre un aumento del prodotto nazionale in un
breve periodo di tempo può essere studiato supponendo
immutate le principali relazioni tra le grandezze che definiscono un
sistema economico, quando si considerano le sue variazioni in un
periodo di tempo lungo, appare evidente che esse sono associate con
variazioni nella sua composizione, nei rapporti tra i fattori che lo
determinano, nei comportamenti dei soggetti, ossia in quella che
possiamo chiamare la struttura economica di un paese (v. Pasinetti,
1987). Variazioni rilevanti e persistenti di quanto si produce
implicano mutamenti in ciò che si produce, nel modo in cui si
produce, nella distribuzione del prodotto, e questi mutamenti, a
loro volta, sono insieme effetti e cause del cambiamento di rapporti
sociali e dell'affermarsi di nuovi valori e di nuove istituzioni (v.
Kuznets, 1971). Ciò appare particolarmente evidente nel caso
del processo di sviluppo di paesi che sono considerati, nel momento
iniziale di quel processo, sottosviluppati. Si ritiene, infatti, che
una crescita consistente e sostenuta del loro prodotto nazionale
presupponga e determini, oltre alla trasformazione della loro
struttura produttiva, anche il passaggio da istituzioni e
comportamenti definiti tradizionali a istituzioni economiche,
sociali e politiche definite moderne. Anche nelle economie
sviluppate, tuttavia, una crescita elevata e prolungata nel tempo si
accompagna a mutamenti di peso dei diversi settori produttivi, delle
forme dei mercati, delle norme e procedure che regolano
l'attività economica. Si può, quindi, dire che
ogniqualvolta si affronta l'analisi della crescita e dello sviluppo
di un paese nel tempo storico, le condizioni ceteris paribus
relative alla forma della sua struttura economica e del suo quadro
istituzionale devono essere abbandonate e le loro trasformazioni
devono essere integrate nell'interpretazione dei processi
perché questa possa essere significativa. Definiremo,
perciò, lo sviluppo come il processo storico che consiste
nella crescita delle grandezze macroeconomiche di un paese e nella
sua trasformazione strutturale.
2. Lo sviluppo dell'economia capitalistica e le
sue fasi
In analogia con il significato che il termine sviluppo ha
quando si riferisce a organismi viventi, anche lo sviluppo economico
è stato visto come passaggio dal semplice al complesso e come
un movimento progressivo verso forme di organizzazione della
società e delle sue attività economiche superiori
rispetto a quelle precedenti. Questa idea, che trova una sua
classica espressione nella settecentesca teoria degli stadi, secondo
la quale l'umanità era progredita passando per stadi
successivi, dalle società che si procacciavano i mezzi di
sussistenza con la raccolta e la caccia fino alla "società
commerciale" della quale parla Turgot (v., 1751), riappare in vesti
moderne nella teoria dei cinque stadi della crescita di Walter
Rostow (v., 1960), che descrive e spiega lo sviluppo economico come
un processo di modernizzazione, da un'originaria economia
tradizionale alle forme che caratterizzano l'economia dei paesi
più avanzati, basata sulla produzione e il consumo di
massa.Il libro di Rostow ebbe ampia eco, ma la sua concezione fu
criticata da vari punti di vista: perché comprendeva, sotto
l'etichetta di 'tradizionale', economie, società, culture
profondamente diverse (v. Aron, 1962), perché non spiegava in
modo soddisfacente il meccanismo del passaggio da uno stadio
all'altro (v. Hagen, 1962), perché proponeva un modello di
sviluppo di validità generale, capace di spiegare il passato
e prevedere il futuro di ogni paese (v. Baran e Hobsbawm, 1961).
Ciò che, più di ogni altra cosa, la teoria di Rostow,
come qualsiasi altra che pretenda di offrire un modello universale
dello sviluppo economico, non permette di vedere è la
profonda differenza tra i processi di trasformazione economica e
sociale nelle epoche che precedono l'età moderna e quelli che
si verificano a partire dal XVI secolo. Prima d'allora, i sistemi
economici coesistenti nelle varie parti del mondo, abbastanza simili
per quanto riguarda i risultati in termini di reddito e di livelli
di vita, presentano strutture differenti e dinamiche, proprie e
indipendenti l'una dall'altra, di evoluzione e trasformazione (v. Sottosviluppo).
Solo dal momento in cui è possibile parlare di un mercato e
di un sistema economico mondiale capitalistico e definirne i
caratteri essenziali - che è anche la data di nascita
dell'economia politica - si possono individuare, pur con le
particolarità proprie di ogni paese, tendenze generali,
regolarità, fattori determinanti della crescita e della
trasformazione strutturale. Lo sviluppo del quale si occupa
l'economia politica è quindi lo sviluppo economico del
capitalismo.
La dinamica delle economie capitalistiche è caratterizzata da
oscillazioni che conferiscono loro un andamento ciclico, segnato da
periodi più o meno lunghi di espansione della produzione
seguiti da periodi di contrazione. Il passaggio da una fase
all'altra del ciclo è segnato da una crisi, ossia
dall'emergere di ostacoli al funzionamento del sistema economico che
bloccano gli investimenti e riducono l'occupazione. I cicli di breve
durata si succedono all'interno di fluttuazioni di maggiore
lunghezza che sono state variamente periodizzate e spiegate da
numerosi economisti. La loro origine sembra coincidere con crisi di
particolare profondità e durata che determinano importanti
trasformazioni nel funzionamento dell'economia. Questa intrinseca
instabilità del capitalismo si accompagna, tuttavia, a
dispetto di quanti a ogni crisi ne hanno previsto il crollo, con una
sua capacità di superare i momenti critici, di allargare la
riproduzione del capitale e di aumentare la produzione.
Ciò può essere spiegato con l'operare di un meccanismo
di regolazione, ossia di un insieme di pratiche sociali
istituzionalizzate che regolano i comportamenti dei diversi soggetti
economici e le relazioni tra le componenti del sistema, in modo da
mantenere i conflitti e le contraddizioni tra diversi interessi
entro limiti che consentono la riproduzione e la crescita (v.
Aglietta, 1976; v. Boyer e Mistral, 1978; v. De Bernis, 1983; v.
Lipietz, 1984). Nei cicli brevi questo meccanismo mette in opera
controtendenze che compensano la tendenza del sistema ad
allontanarsi dal suo sentiero di equilibrio, come nel caso classico
in cui un aumento dei costi di produzione e una conseguente
contrazione del profitto in una situazione di piena occupazione
portano alla flessione degli investimenti, della produzione e
dell'occupazione e al rallentamento della dinamica dei salari e dei
costi che ricostituisce condizioni favorevoli al profitto e quindi
alla ripresa dell'accumulazione (v. Marx, 1867-1894). La crisi in
questi casi può essere considerata un processo di
aggiustamento del sistema. Ma, quando la crisi è
particolarmente profonda e lunga, il meccanismo di regolazione
può non riuscire più a svolgere la sua funzione e si
impone, dunque, un suo cambiamento. Le grandi crisi che hanno
segnato la storia del capitalismo dopo i secoli della transizione
del feudalesimo o del 'capitalismo commerciale' rappresentano,
quindi, momenti di passaggio da un sistema di regolazione a un altro
e permettono di distinguere il processo di crescita e di
trasformazione strutturale dell'economia moderna, ossia lo sviluppo
capitalistico, in diverse fasi. Anche se la periodizzazione dei
passaggi da una fase all'altra e l'identificazione dei fattori che
li hanno determinati variano nei diversi autori che hanno affrontato
questo tema (v. Maddison, 1982), è possibile identificare tre
principali fasi dello sviluppo capitalistico. Nella prima, che
inizia dopo l'affermarsi della rivoluzione industriale, la scomparsa
delle antiche barriere al movimento del lavoro e del capitale, il
gran numero di imprese in ogni industria e la facilità di
ingresso nel mercato, consentita dalla modesta quantità di
capitale necessario, la proibizione o la debolezza delle
organizzazioni operaie fanno della concorrenza tra capitalisti e tra
operai il principale meccanismo di regolazione, mentre nei rapporti
economici internazionali si affermano il libero scambio e il sistema
aureo. L'espansione economica, che raggiunge il suo culmine dopo la
metà del secolo, mette in moto processi e determina squilibri
che invertono la tendenza e portano alla lunga crisi del 1873-1896,
che segna il passaggio a una nuova fase.
La ripresa dell'economia è spinta dall'ondata di innovazioni
tecniche che danno impulso all'industria pesante e all'affermarsi
come settori trainanti, in luogo del tessile che era stato il
protagonista della prima rivoluzione industriale, della siderurgia,
della chimica, dell'industria elettrica. Queste produzioni
richiedono tecniche più complesse, raggiungono il massimo
dell'efficienza per dimensioni maggiori di quelle proprie delle
fabbriche del recente passato e impongono una più ampia
raccolta di capitali. Ciò rende più difficile
l'ingresso di nuove imprese, accresce il ruolo delle banche, porta
alla diffusione delle società per azioni. Al funzionamento
automatico del mercato concorrenziale tendono a sostituirsi, come
elementi regolatori, la strategia delle grandi imprese con potere di
mercato, la loro concorrenza di tipo oligopolistico, gli accordi tra
di esse, spesso mediati dalle banche e dallo Stato.
Il turbolento periodo iniziato con la prima guerra mondiale, alla
quale, dopo un decennio di incerta e diseguale ripresa, seguono la
grande crisi del 1929 e, infine, la seconda guerra, apre la via a
una fase di sviluppo nella quale il diffuso intervento pubblico
nell'economia, la creazione di comprensivi sistemi di sicurezza
sociale, l'istituzionalizzazione di nuove procedure di
contrattazione dei salari creano un sistema di regolazione nel quale
hanno un peso fino allora sconosciuto meccanismi discrezionali,
consistenti in decisioni politiche e in accordi tra le parti
sociali. Come questi cambiamenti, già sperimentati negli
Stati Uniti del New Deal negli anni trenta e influenzati dalle
teorie keynesiane, tendono a evitare il riprodursi delle cause che
avevano allora determinato la crisi, così in campo
internazionale, con gli accordi di Bretton Woods e le regole e
istituzioni che vedono in quella sede la luce, le maggiori potenze
economiche si propongono di ristabilire un ordinato funzionamento
del mercato mondiale, che la crisi prima e la guerra poi avevano
sconvolto. Iniziò allora quel periodo che è stato
chiamato la 'golden age' del capitalismo del dopoguerra (v. Marglin
e Schor, 1990), nel quale sembrò che l'instabilità del
sistema potesse essere un ricordo del passato, mentre la
produttività, la produzione, i profitti e i salari, il
commercio internazionale crescevano a tassi più elevati di
quanto era avvenuto nelle precedenti fasi di sviluppo.
È nella prima metà degli anni settanta, dopo il
tramonto del sistema monetario di Bretton Woods e in coincidenza con
il primo shock petrolifero, che si colloca generalmente la fine di
questa terza fase dello sviluppo capitalistico e l'inizio di un
processo di cambiamento i cui esiti non sono ancora ben definiti.
Sia nei secoli della transizione al capitalismo che nelle tre fasi
che abbiamo sinteticamente schematizzato, lo sviluppo economico non
segue lo stesso passo in tutte le parti del mondo che, anzi, proprio
con la nascita e l'espansione di quel modo di produzione possono
cominciare a distinguersi in sviluppate e sottosviluppate. Dopo la
prima rivoluzione industriale, l'Inghilterra per alcuni decenni si
trova avanti a tutti gli altri paesi e mantiene una posizione di
egemonia nel sistema economico mondiale, ed è solo con quella
che venne chiamata 'seconda rivoluzione industriale' che gli Stati
Uniti e la Germania la raggiungono e le contendono il primato,
mentre la Francia cresce e si trasforma più lentamente, e
Russia e Italia seguono a distanza, in questo inseguimento dei primi
arrivati (catching up) che è una delle caratteristiche dello
sviluppo capitalistico su scala mondiale. Fenomeni dai connotati
apparentemente assai diversi, come la restaurazione Meji in
Giappone, la rivoluzione russa, il kemalismo in Turchia sono, da un
punto di vista economico, episodi di questa corsa a inseguimento con
la quale paesi rimasti esterni al mercato mondiale, o inseriti in
esso in posizione periferica o semiperiferica, cercano di
trasformare le proprie strutture economiche e sociali per ridurre il
divario di reddito che li separa dai paesi del centro.
Questo divario, originato dalla stessa dinamica dello sviluppo
capitalistico e dalla colonizzazione o subordinazione di gran parte
del mondo da parte dei paesi dove quel modo di produzione era nato,
è diventato un problema internazionale quando, negli anni
quaranta e cinquanta, le antiche colonie sono diventate Stati
indipendenti. Da allora è soprattutto in relazione alla
possibilità per questi paesi di uscire dalla loro condizione
presente, di crescere e di trasformarsi, che il problema dello
sviluppo economico e dei fattori che lo determinano è tornato
a essere un problema centrale dell'economia politica come lo era
stato ai tempi degli economisti classici.
3. I fattori dello sviluppo
Gli economisti classici che, come scrive Smith (v., 1776),
considerano il lavoro "il fondo da cui ogni nazione trae in ultima
analisi tutte le cose necessarie e comode della vita" fanno
dipendere la crescita dal sovrappiù destinato a impiegare
nuovi lavoratori nella produzione di merci e dal progresso delle
loro capacità produttive.Intorno alla metà del nostro
secolo, dopo che per molti decenni il pensiero economico prevalente,
con le sole importanti eccezioni di Marx e Schumpeter, si era posto
come problema centrale l'ottima allocazione delle risorse piuttosto
che il loro accrescimento, economisti di impostazione keynesiana o
neoclassica hanno dato origine a famiglie di modelli volti a
determinare le condizioni alle quali il prodotto nazionale
può crescere nel lungo periodo mantenendo l'equilibrio tra
domanda e offerta globali. In questi modelli la crescita viene fatta
dipendere dall'aumento della quota di reddito destinata al risparmio
e/o dall'aumento della popolazione e dal progresso tecnico
considerati come variabili esogene, ossia come grandezze la cui
spiegazione viene lasciata ad altre discipline (v. Harrod, 1939; v.
Domar, 1946; v. Solow, 1956). In anni più recenti,
nell'ambito della dominante ortodossia neoclassica, si è
assistito a un rifiorire della modellistica della crescita,
caratterizzato dal tentativo di rendere endogene variabili prima
trattate come esogene, di abbandonare alcune ipotesi limitatrici e
di inserire nel modello, come determinanti della crescita, fattori
in passato non considerati, quali l'istruzione e, quindi, la
formazione di capitale umano (v. Ardeni, 1995; v. Bardhan, 1995).
Questo orientamento si spiega, almeno in parte, con
l'insoddisfazione per la riconosciuta incapacità dei modelli
capostipiti di giungere a conclusioni rilevanti per la comprensione
e la soluzione dei problemi della crescita (v. Nardozzi, 1983),
benché si debba aggiungere, come è stato notato (v.
Hahn, 1994), che anche i nuovi modelli sono 'parabole' che gettano
qualche luce sui processi reali piuttosto che offrirne una piena
descrizione e interpretazione.
Parallelamente alla modellistica della crescita, e con qualche
reciproca interazione, fin dai primi anni del secondo dopoguerra si
è prodotta una vasta letteratura, stimolata soprattutto dai
problemi dei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo che, pur con
profonde differenziazioni al suo interno, mette l'accento
sull'importanza assunta, nel determinare la crescita, da variabili
strutturali quali il trasferimento del lavoro e del capitale da un
settore produttivo a un altro o l'aumento della componente estera
della domanda. Trasformazioni nella struttura produttiva implicano
situazioni di squilibrio e, di conseguenza, questa impostazione
è stata talora contrapposta alla modellistica neoclassica (ma
il discorso vale anche per altri modelli di crescita), nella quale
gli effetti delle variazioni delle grandezze determinanti della
crescita si verificano, come si è detto, in condizioni di
equilibrio (v. Chenery, 1986).
Poiché abbiamo definito lo sviluppo economico un processo del
quale crescita e trasformazione strutturale sono due aspetti
interdipendenti, l'identificazione e la spiegazione delle principali
forze che lo determinano dovranno tener conto di entrambe.
Prendendo, quindi, in esame i fattori ai quali la letteratura
economica pressoché unanimemente attribuisce un effetto
determinante sulla crescita, ossia l'accumulazione del capitale
fisico, il progresso tecnico, la formazione di capitale umano,
esamineremo come il dispiegarsi dei loro effetti sia condizionato da
mutamenti strutturali e come, a sua volta, li produca. Discuteremo,
poi, in che misura e a quali condizioni l'aumento della popolazione
e il commercio internazionale possano favorire o ostacolare lo
sviluppo.
a) L'accumulazione del capitale
Per gli economisti classici l'accumulazione consisteva nella
destinazione del sovrappiù, non consumato improduttivamente,
nell'impiego di nuovi lavoratori ai quali i capitalisti fornivano
mezzi di sussistenza, materie prime e macchine.
Per gli economisti moderni l'accumulazione del capitale è il
risultato della scelta di investire in mezzi della produzione, in
aggiunta a quelli che vengono sostituiti perché logorati o
obsoleti, scelta vista alternativamente come un aggiustamento
nell'impiego di risorse scarse, guidato dal mercato fino al
raggiungimento dell'equilibrio, o come un ampliamento della
capacità produttiva di un'economia. È in questo
secondo senso che l'investimento può essere considerato un
fattore determinante per lo sviluppo.I problemi che si pongono sono
di tre ordini: quali condizioni si debbono realizzare perché
vi sia investimento netto; a quanto ammonta il capitale da investire
per ottenere un dato tasso di crescita; in quali settori, o con
quale ordine di priorità, sia opportuno impiegarlo.
Le principali condizioni perché vi sia investimento di
capitale sono: l'esistenza di imprese, ossia di quelle istituzioni
mediante le quali gli imprenditori capitalisti organizzano la
produzione assumendosene i rischi; l'attesa di un profitto futuro e,
quindi, di una domanda che permetta lo smercio dei prodotti a prezzi
che consentano un margine di profitto ritenuto soddisfacente; la
disponibilità di fondi, ossia di denaro, da investire. Una
parte dell'investimento complessivo di un'economia, inoltre,
è costituita da investimenti pubblici i quali, quando lo
Stato in virtù di varie circostanze storiche non si
sostituisce al capitalista privato, sono impiegati in
attività indirettamente produttive, ossia prevalentemente in
infrastrutture che offrono beni e servizi, pubblici o meritori. In
questo caso l'investimento avviene o dovrebbe avvenire quando i
benefici sociali attesi dall'investimento superano i costi sociali
che esso comporta.
Nelle economie dei paesi sviluppati si suppone che ormai da tempo
esista un sistema di imprese capitalistiche, operanti nei mercati
dove acquistano i fattori della produzione e in quelli dove vendono
i propri prodotti. Le teorie e le analisi dell'accumulazione che
fanno riferimento, esplicitamente o implicitamente, a economie di
questo tipo hanno come oggetto principale il rapporto tra le attese
relative alla domanda dei beni prodotti e al rendimento del capitale
investito e le decisioni di investimento e tra queste, la formazione
del risparmio e il meccanismo del credito.
Questi temi sono centrali anche per lo studio dell'accumulazione nei
paesi in via di sviluppo, ma devono essere inquadrati in uno
specifico contesto strutturale e istituzionale che ha portato gli
economisti dello sviluppo a formulare ipotesi e a elaborare modelli
a esso appropriati. Come vedremo, inoltre, la prima delle condizioni
precedentemente elencate, ossia la presenza di imprese
capitalistiche e, quindi, di capacità imprenditoriale, data
per scontata quando ci si occupa di paesi sviluppati, si può
dire solo in parte soddisfatta in questo diverso
contesto.L'insufficienza di fondi per l'investimento è stata
considerata da numerosi economisti come il principale limite
all'accumulazione per i paesi che iniziano un processo di sviluppo.
Essa presenta due aspetti: da un lato, la quota di risparmio sul
reddito nazionale è bassa; dall'altro, le entrate nette delle
esportazioni non sono in grado di fornire la valuta estera
necessaria ad acquistare i mezzi della produzione nei quali
l'investimento si materializza; esiste, dunque, un doppio gap che
può essere superato solo con flussi netti di capitale
dall'estero. Di qui l'importanza degli investimenti diretti, dei
prestiti e degli aiuti stranieri (v. Chenery e Strout, 1966).
Ciò che spiega l'inadeguatezza del risparmio è
principalmente il basso livello del reddito, che a sua volta
è la ragione principale della mancanza di prospettive di
profitto e quindi del limite alle decisioni di investimento. Quando
il reddito pro capite di un paese è pari o di poco superiore
al livello di sussistenza, è destinato nella quasi
totalità alla soddisfazione dei bisogni primari, in
particolare all'alimentazione. La propensione media al risparmio
è dunque molto bassa e la possibilità di risparmiare
è alla portata di un numero limitato di individui. D'altra
parte, se la maggioranza della popolazione ha redditi bassi e, come
generalmente è il caso per i paesi nelle prime fasi dello
sviluppo, è impiegata in un'agricoltura di autoconsumo, il
mercato interno è estremamente ristretto, la sua
capacità di assorbire l'offerta di beni limitata e, quindi,
le aspettative di ricavi e profitti non offrono incentivi a
investire (v. Nurske, 1953).
Il problema dell'accumulazione del capitale in economie di questo
tipo è strettamente connesso a quello della loro
trasformazione strutturale, e infatti una risposta al problema del
sottosviluppo è stata tradizionalmente quella
dell'industrializzazione, ossia del trasferimento di fattori dal
settore agricolo a quello della produzione di manufatti. Un esempio
di questa impostazione si trova nell'URSS degli anni venti e nella
teoria dell'accumulazione originaria socialista, che prevedeva una
forbice tra prezzi agricoli e prezzi industriali come mezzo per
trasferire risorse dall'uno all'altro settore (v. Preobrazenskij,
1926). Un altro esempio, che ha avuto molta influenza sulle
politiche economiche dei paesi in via di sviluppo negli anni
cinquanta e sessanta, è quello dei modelli dualistici. Alla
base di questi modelli vi era l'assunto secondo cui nell'agricoltura
tradizionale esiste una sovrappopolazione relativa, ossia una
elevata quota di popolazione rurale con livelli di
produttività marginale estremamente bassi o nulli. Se,
accanto al settore tradizionale, esiste un settore moderno, per
quanto piccolo, identificato generalmente con le attività
industriali urbane, in grado di pagare salari anche di poco
superiori al reddito medio agricolo, esso attirerà la
popolazione eccedente dalle campagne. Fino a che tale riserva di
sovrappopolazione non si esaurisce, mentre la produzione totale
dell'agricoltura non diminuisce, i salari potranno restare bassi e
inferiori alla produttività media del lavoro nel settore
moderno. Si determinerà, quindi, un elevato margine di
profitto che verrà reinvestito allargando la base produttiva
e dando così vita a un processo di crescita accelerata (v.
Lewis, 1954).In questa visione del processo di trasformazione
strutturale il settore trainante è identificato
nell'industria nascente, mentre l'agricoltura ha la funzione di
fornire a essa due sovrappiù: i lavoratori in eccesso e
quello che è stato chiamato 'risparmio latente', ossia quella
parte del prodotto agricolo che, dopo il trasferimento di una parte
della popolazione dall'agricoltura all'industria, non viene
consumato dalle famiglie rurali e fornisce reddito che può
tradursi in risparmio ed essere, quindi, investito (v. Nurske,
1953).
Due sono dunque le conseguenze della trasformazione strutturale: i
profitti derivanti dalla elevata produttività del lavoro e
dalla sua bassa remunerazione nell'industria, e la formazione di un
sovraprodotto nell'agricoltura, fonti entrambe di risparmio e,
quindi, di fondi per l'investimento. Perché, tuttavia, i
profitti vengano realizzati è necessaria l'esistenza di un
mercato abbastanza ampio da assorbire l'offerta dei beni prodotti, e
l'aspettativa di domanda pagante è d'altra parte, come si
è detto, una delle condizioni che devono verificarsi
perché esistano incentivi a investire.
Si pone così la questione del limite che la ristrettezza del
mercato interno rappresenta per gli investimenti, e quindi per la
crescita, e dei modi per superarlo. Una prima risposta è data
dalla teoria della crescita equilibrata. Essa parte dalla
constatazione che se in un paese a struttura prevalentemente
agricola e con attività manifatturiere di tipo artigianale,
nel quale l'offerta soddisfa la modesta domanda consentita dal basso
livello del reddito, si progetta un investimento isolato in un dato
settore produttivo, la domanda che potrà essere
ragionevolmente prevista per il bene prodotto sarà soltanto
quella di quei pochi soggetti coinvolti direttamente o
indirettamente nel progetto: insufficiente, quindi, per assicurare
la realizzazione dei profitti che renderebbero conveniente
l'investimento. Il progetto potrà, invece, essere attuato se
è parte di un ampio programma di investimenti, distribuiti
secondo date proporzioni tra settori diversi, in modo che l'offerta
dei beni prodotti da ciascuna unità e da ciascun settore
incontri la domanda costituita da tutti i lavoratori che la
realizzazione dell'intero programma ha permesso di occupare (v.
Rosenstein Rodan, 1943). Da una situazione iniziale di equilibrio di
sottosviluppo si perviene, quindi, all'equilibrio di un sistema che
si è sviluppato, trasformando la propria struttura e
aumentando il proprio reddito.
Una diversa risposta è quella di chi privilegia nel processo
di sviluppo il momento dello squilibrio e gli effetti di
complementarità tra diversi investimenti. Programmare un
insieme di investimenti tra loro connessi sarebbe praticamente
impossibile per la presenza di incertezza e per la
molteplicità incalcolabile di interconnessioni tra di essi,
soprattutto in paesi nei quali la risorsa più scarsa non
è costituita tanto dai fattori della produzione quanto dalla
capacità di organizzarli. Il modello ideale di sviluppo non
è un programma generale di investimenti che assicurano
l'equilibrio finale tra domanda e offerta, ma una sequenza nella
quale l'investimento in una data industria, riducendo i costi o
creando domanda per altre industrie con le quali esiste
complementarità, induce nuovi investimenti (v. Hirschman,
1958). Entrambe queste teorie, come del resto i modelli di tipo
dualistico, vedono nell'industria il motore dello sviluppo,
assegnando all'agricoltura la funzione di fornitrice di
sovrappiù o, come è stato scritto, di 'scatola nera'
dalla quale si possono trarre lavoratori, cibo per nutrirli e
risparmio (v. Little, 1982) e trascurando altri ruoli che essa
può svolgere e che storicamente ha svolto. In una fase della
trasformazione strutturale nella quale la maggioranza della
popolazione è ancora occupata nell'agricoltura e l'industria
nascente trova con difficoltà sbocchi sui mercati esteri,
sono le famiglie rurali che presentano la più ampia domanda
potenziale. In secondo luogo, per paesi che possono contare
prevalentemente sull'esportazione di prodotti agricoli, questi sono
la principale o unica fonte della valuta necessaria per acquistare
all'estero mezzi della produzione e tecnologie (v. Johnston, 1970).
Infine, poiché l'industrializzazione e l'urbanizzazione
tendono a far aumentare la domanda di prodotti agricoli, la loro
produzione non può limitarsi a restare invariata dopo il
trasferimento dei lavoratori eccedenti, ma deve aumentare (v.
Kaldor, 1960).
Per questi motivi, l'aumento della produzione agricola per il
consumo interno e per l'esportazione e il miglioramento della
capacità d'acquisto della popolazione rurale sono da
considerarsi, come storicamente si è verificato
nell'Inghilterra del XVIII secolo (v. Landes, 1969), presupposti
dell'industrializzazione e momenti importanti del processo di
accumulazione capitalistica. Ciò significa che la
trasformazione strutturale non può consistere unicamente in
un trasferimento di risorse dal settore 'tradizionale' a quello
'moderno', come precedentemente definiti, ma deve comprendere anche
una modernizzazione delle campagne e cioè una
riorganizzazione del modo di produzione nell'agricoltura e un
aumento della produttività del lavoro che implica la
destinazione di una quota adeguata di investimenti all'agricoltura.
Se, come sostengono le teorie dello sviluppo basate sui modelli di
crescita di tipo keynesiano, il tasso di crescita dipende
dall'investimento, una volta definite le condizioni che lo rendono
possibile se ne deve determinare la quantità necessaria per
ottenere il tasso di crescita desiderato.
Dalla teoria della crescita equilibrata si deduce che per
raggiungere una posizione di equilibrio in condizioni di sviluppo
è necessario un programma che implica un grande sforzo di
investimento. Alle stesse conclusioni alcuni economisti sono
arrivati per altra via, mettendo in luce 'fattori depressivi' che
ostacolano il passaggio da un equilibrio a basso livello di reddito
a un equilibrio a livello di reddito elevato. Tali fattori agiscono
nel senso di impedire che l'aumento del reddito, derivante
dall'investimento, sia in grado di portare la propensione al
risparmio a valori che consentano di alimentare un processo
sostenuto e continuo di crescita fino ai livelli desiderati.
Ostacoli di questo tipo possono essere l'esistenza di una
propensione marginale al consumo molto alta, data la grande
estensione di bisogni fondamentali insoddisfatti, o la crescita
demografica che, fino a quando è superiore al tasso di
crescita del reddito, tende a riportarne il livello pro capite al
basso valore di partenza (v. Leibenstein, 1957; v. Nelson, 1956). Di
conseguenza, per arrivare a un equilibrio ad alto livello di reddito
pro capite, sarebbe necessario uno 'sforzo minimo' che consiste in
un investimento molto elevato o, come si diceva, un big push (v.
Rosenstein Rodan, 1963).
La teoria che privilegia il ruolo dell'investimento, in particolare
nell'industria, e sostiene la necessità che esso sia in dosi
massicce, teoria tipica dell'economia dello sviluppo dei primi
decenni del dopoguerra, sembra trascurare altri fattori della
crescita ai quali già gli economisti classici avevano dato
grande importanza. Mentre vedremo più oltre come questi
fattori vengono trattati dagli economisti moderni, richiamiamo qui
brevemente alcuni altri aspetti della trasformazione strutturale che
costituiscono, insieme, una condizione e un effetto del processo di
accumulazione del capitale.
Il primo riguarda l'esistenza e la formazione del mercato o, meglio,
di mercati per le merci e i fattori della produzione. In economie
prevalentemente agricole, dove le forme di possesso della terra e le
tecniche produttive consentono solo una bassa produttività
del lavoro e le comunicazioni tra regioni diverse sono difficili,
l'agricoltura è orientata all'autoconsumo dei coltivatori,
gli scambi sono ristretti a mercati locali e la circolazione
monetaria è limitata. In questa situazione manca una delle
condizioni dell'accumulazione, precedentemente ricordata, ossia
l'esistenza di imprese capitalistiche orientate al profitto e
incentivate all'investimento. In Occidente il superamento di questa
situazione è stato determinato sia dall'introduzione
nell'agricoltura di tecniche che hanno permesso l'aumento della
produttività, sia da riforme della legislazione della
proprietà e della conduzione della terra, nonché
dall'attuazione di opere pubbliche volte a migliorare le
comunicazioni e i trasporti tra le diverse regioni di un paese.
Il ruolo della legislazione e dell'intervento pubblico è
stato ancora maggiore nel creare le condizioni per lo sviluppo degli
scambi tra paesi diversi e per la nascita di compagnie commerciali
che sono state la principale forma di impresa capitalistica ai tempi
del capitalismo commerciale. La diffusione degli scambi all'interno
e all'estero, la monetizzazione dell'economia, la nascita delle
imprese capitalistiche sono aspetti dell'accumulazione originaria
capitalistica che si sono intrecciati strettamente con la nascita e
il rafforzamento degli Stati nazionali, offrendo un primo esempio di
interdipendenza tra la trasformazione strutturale dell'economia e la
trasformazione delle istituzioni sociali e politiche.
b) Innovazioni e progresso tecnico
In senso proprio il progresso tecnico consiste nell'applicazione
al processo produttivo di invenzioni che modificano la combinazione
dei fattori e rendono più produttivo il lavoro. La produzione
di nuovi beni, l'apertura di nuovi mercati o l'introduzione di nuovi
metodi organizzativi, che Schumpeter elenca tra le innovazioni
attuate dall'imprenditore protagonista dello sviluppo economico, si
possono considerare piuttosto condizioni o concause del progresso
tecnico (v. Schumpeter, 1912; v. Sylos Labini, 1977⁴). Nei moderni
modelli di crescita la trattazione dei nessi tra progresso tecnico,
accumulazione e sviluppo non è fino a oggi soddisfacente. In
particolare, le innovazioni sono state trattate nei modelli
capostipiti, sia del filone keynesiano (v. Harrod, 1939) sia di
quello neoclassico (v. Solow, 1956), come esogene al sistema
economico, ossia indipendenti dalle caratteristiche del suo
funzionamento. Se così fosse, il progresso dipenderebbe da
invenzioni casuali o frutto del genio dell'inventore, liberamente
disponibili per tutti, così che il tasso di crescita - se lo
si suppone determinato dal progresso tecnico - tenderebbe a
convergere in tutte le economie, a qualsiasi livello di sviluppo
esse si trovino. Il che non risulta dimostrato.
I modelli neoclassici più recenti considerano il progresso
tecnico come una variabile esogena, ma il fatto che essi analizzino
le condizioni di una crescita in equilibrio, nella quale il
progresso si verifica gradualmente a un tasso costante, impedisce
loro di cogliere la discontinuità, le rotture, le crisi che
accompagnano i flussi di innovazioni nel processo di accumulazione
capitalistico così efficacemente tratteggiate da Marx o da
Schumpeter (v. Sote e Verspagen, 1993).
Nelle teorie dello sviluppo di ispirazione keynesiana, nei modelli
dualistici e nelle tesi sulla crescita equilibrata o del big push
che abbiamo ricordato, il progresso tecnico non aveva un ruolo
rilevante o, in alcuni casi, era escluso dall'ipotesi di uno stato
delle tecniche dato. L'interesse per il problema delle innovazioni
venne destato soprattutto da ricerche econometriche che misero in
luce come negli Stati Uniti la crescita del prodotto nel lungo
periodo era spiegata principalmente dal progresso tecnico e solo in
parte minore dall'aumento dei fattori produttivi, lavoro e capitale,
impiegati (v. Abramovitz, 1956; v. Denison, 1962; v. Phelps, 1962).
È evidente che per poter produrre i loro effetti le
innovazioni devono essere applicate all'attività produttiva
e, quindi, almeno in parte, incorporate nei mezzi della produzione:
il progresso tecnico è quindi un aspetto dell'accumulazione
del capitale. Prenderlo in considerazione porta a concludere che,
per ottenere un dato tasso di crescita, l'ammontare di investimenti
di capitale fisico può essere minore di quello che sarebbe
richiesto in sua assenza.
Se il progresso tecnico viene considerato un fattore determinante in
ogni processo di sviluppo, l'origine, le caratteristiche, le
modalità di diffusione delle innovazioni sono state diverse
nella storia del capitalismo a seconda del momento in cui il
processo è iniziato e devono essere trattate diversamente a
seconda della struttura economica e del grado di sviluppo di ogni
paese considerato.
Gli storici dell'economia hanno discusso i presupposti e le
condizioni che hanno caratterizzato le invenzioni e la loro
applicazione alla produzione nella rivoluzione industriale inglese e
le diverse modalità con le quali una successiva ondata di
innovazioni ha determinato la seconda rivoluzione industriale nei
late comers, rilevando anche i vantaggi e gli svantaggi che ha
rappresentato la relativa arretratezza di questi (v. Landes, 1969;
v. Gerschenkron, 1962).
Per quanto riguarda in particolare i paesi sottosviluppati, la
scarsità delle risorse finanziarie e umane che essi possono
destinare alla ricerca scientifica fa sì che in questo caso
il progresso tecnico e il conseguente aumento della
produttività del lavoro derivino solo in parte
dall'applicazione alla produzione di invenzioni realizzate
localmente e si ottengano prevalentemente dal trasferimento di
tecnologie dai paesi più sviluppati. Il vantaggio, proprio di
tutti i late comers, di poter usufruire di tecniche già
sperimentate altrove, che li mettono in grado di compiere un salto
tecnologico più rapido, richiede l'esistenza di alcune
condizioni ed è controbilanciato da alcuni svantaggi e
inconvenienti ben noti. Le condizioni necessarie perché il
trasferimento di tecnologie, generalmente incorporate in mezzi della
produzione, abbia luogo e produca gli effetti desiderati, sono la
capacità di investire e, quindi, la disponibilità di
capacità imprenditoriale, di risparmio e di valuta estera o
la possibilità di attirare investimenti diretti stranieri, e
l'esistenza di tecnici e lavoratori in grado di utilizzare
efficacemente le tecnologie importate adattandole a un ambiente
diverso da quello dal quale provengono. Come vedremo più
oltre, quest'ultima condizione può rappresentare e ha
rappresentato una delle maggiori strozzature che ostacolano il
processo di industrializzazione di molti paesi.
Il principale inconveniente derivante dall'applicazione di metodi
produttivi importati da paesi sviluppati è quello che va
sotto il nome di inappropriatezza delle tecnologie: la combinazione
di fattori prevista dalla nuova tecnica può essere diversa da
quella che verrebbe suggerita dalla loro relativa scarsità o
abbondanza nel paese sottosviluppato; la tipologia dei prodotti
può non corrispondere ai bisogni che sarebbe opportuno
soddisfare prioritariamente; l'applicazione di quei metodi
perpetuerebbe la dipendenza del paese da quelli più
sviluppati per la fornitura dei ricambi e per l'assistenza tecnica.
Si pone, quindi, il problema della scelta della tecnica più
appropriata tra quelle che sono disponibili. L'aspetto più
discusso di questo problema, al quale anche gli altri finiscono per
riallacciarsi, è quello della maggiore o minore
intensità capitalistica della tecnica da adottare, ossia del
rapporto tra capitale fisico e lavoro impiegati nel processo
produttivo. Poiché si ritiene che nei paesi che iniziano lo
sviluppo il capitale sia il fattore relativamente scarso, il
criterio di scelta della tecnica sembra debba essere il risparmio di
capitale e, quindi, la tecnica preferita quella che massimizza il
prodotto per unità di capitale indipendentemente dal tipo di
rapporto tra capitale e lavoro. Se la tecnica che soddisfa questa
condizione è ad alta intensità di capitale, inoltre,
essa porterà a una distribuzione del reddito ottenuto
più favorevole al profitto di quanto accadrebbe con una
tecnica ad alta intensità di lavoro. Dato che la propensione
al risparmio dei capitalisti è maggiore di quella dei
salariati, le tecniche ad alta intensità di capitale
avrebbero anche il vantaggio di aumentare la formazione di risparmio
e, quindi, l'accumulazione (v. Buchanan, 1945; v. Galenson e
Leibenstein, 1955). Di fatto, nella maggior parte dei paesi in via
di sviluppo i programmi di industrializzazione e di costruzione
delle infrastrutture hanno mostrato una preferenza per investimenti
che richiedevano tecniche, trasferite dall'estero, ad alta
intensità di capitale. Sia le premesse teoriche che le
conseguenze di questa scelta si prestano, tuttavia, a numerose
obiezioni. In primo luogo, non esiste una soddisfacente evidenza
empirica in merito ai rapporti tra intensità di capitale
delle tecniche e risparmio di capitale: sembra plausibile che essi
varino in produzioni diverse e al variare dei processi produttivi
(v. Stewart, 1987). In secondo luogo, l'introduzione di tecniche
che, rispetto ad altre, impiegano meno lavoro ripresenta il
problema, per la prima volta affrontato da Ricardo, degli effetti
dell'uso delle macchine sull'occupazione. È questo il punto
che richiede maggiore attenzione quando si affronta il problema del
progresso tecnico nei paesi in via di sviluppo. Come abbiamo visto,
un limite agli investimenti e, quindi, all'avvio del processo di
accumulazione è la ristrettezza del mercato interno, limite
che può essere superato solo se l'espansione dell'occupazione
crea reddito e domanda. Inoltre, un ampio impiego del lavoro, che
è il fattore più abbondante e meno costoso, può
consentire ai paesi in via di sviluppo di godere vantaggi comparati
sul mercato internazionale per quei prodotti che lo impiegano
intensivamente. Infine, le tecniche ad alta intensità di
lavoro sono generalmente le più semplici, richiedono meno di
quelle complesse il ricorso a personale specializzato straniero,
possono più facilmente essere assimilate e adattate alle
particolarità dell'ambiente locale e moltiplicare così
le possibilità del learning by doing che, come vedremo,
è uno strumento importante per accrescere le capacità
dei lavoratori e aumentare la loro produttività.
La constatazione che per i paesi che sono all'inizio del processo di
sviluppo il progresso tecnico avviene principalmente attraverso il
trasferimento di tecniche già sperimentate altrove non
significa che la ricerca scientifica e tecnologica non debba essere
promossa e sostenuta. Ciò vale particolarmente per un settore
la cui modernizzazione abbiamo visto essere un aspetto importante
della trasformazione strutturale: l'agricoltura. Le caratteristiche
climatiche e del suolo di molti paesi meno sviluppati e il fatto che
nelle campagne siano più persistenti istituti e comportamenti
tradizionali concorrono a ridurre i vantaggi ottenibili
dall'applicazione di tecniche adatte a situazioni profondamente
diverse. Di conseguenza, le innovazioni in agricoltura sono tanto
più efficaci quanto più sono frutto di scoperte e
sperimentazioni fatte nei paesi che le devono applicare, e quindi la
ricerca in questo campo ha un grande rilievo e richiede -
contrariamente a quanto è avvenuto, con poche eccezioni, nel
passato - una priorità nell'impiego delle risorse.
c) Il capitale umano
Per capitale umano gli economisti intendono l'insieme o, per
analogia con il capitale fisico, lo stock di conoscenze e di
capacità produttive delle quali un uomo o più uomini
sono dotati. Investire in capitale umano significa aumentare tale
dotazione e il rendimento dell'investimento sarà dato dal
maggior reddito che gli individui potranno ottenere e dai benefici
che potranno derivare per la società cui appartengono.
L'importanza di questo fattore per lo sviluppo di un paese era
già stata compresa da Smith (v., 1776) che lo chiamava
"l'arte, la destrezza e l'intelligenza con cui vi si esercita il
lavoro". Il recente interesse per il ruolo del capitale umano si
può far risalire alle ricerche econometriche volte a
individuare le determinanti della crescita, dalle quali, come
abbiamo già visto, risultò che essa dipendeva meno di
quanto si pensasse dall'aumento della quantità dei fattori
impiegati nella produzione. L'elevata quota del maggior prodotto
ottenuto nel corso del tempo non attribuibile a tale aumento veniva
ricondotta a un 'fattore residuo' che sembrava consistere in un
miglioramento della qualità dei fattori derivante, per i
mezzi della produzione, dal progresso tecnico e, per il lavoro,
dall'aumento del capitale umano. Sul 'fattore residuo' si è
discusso a lungo e sono state avanzate diverse critiche, fra cui
quella di Neild (v., 1964) e quella, radicale, di Sylos Labini (v.,
1995) secondo la quale quello del 'fattore residuo' è un
problema spurio: al progresso tecnico e organizzativo va imputato
non il 70 o l'80% dell'aumento della produttività, come
sostengono gli economisti che considerano valida la funzione Cobb
Douglas, ma, quando ci riferiamo all'economia nel suo complesso, il
100%.
Questi risultati sul piano teorico portavano a modificare la
tradizionale funzione della produzione ed erano particolarmente
rilevanti per lo studio dei problemi dei paesi in via di sviluppo,
dato che l'analisi delle loro esperienze mostrava come
l'insufficienza o la mancanza di capacità imprenditoriali,
manageriali e tecniche avessero spesso contribuito pesantemente a
determinare l'insuccesso dei programmi di investimento e avessero
così ostacolato i processi di industrializzazione e la
trasformazione strutturale delle loro economie.
L'investimento in capitale umano avviene in forme diverse:
l'accrescimento delle conoscenze e delle capacità produttive
si ottiene mediante l'istruzione formale o con la pratica del
lavoro, ma perché esse possano essere utilizzate
efficacemente occorre che il lavoratore goda di buone condizioni
fisiche, assicurate da un'alimentazione adeguata e dall'accesso a
servizi igienici e sanitari. Così, una parte degli impieghi
del reddito che nella contabilità nazionale vengono
considerati consumi, quali le spese correnti per l'istruzione e la
sanità e quelle per garantire un minimo livello nutrizionale,
concorre, aumentando la produttività del lavoro, a
determinare il risultato produttivo (v. Kamarck, 1983). A seconda
della forma dell'investimento varia la qualità del capitale
umano. Ciò che assicura buone condizioni fisiche dei
lavoratori e le spese per la loro alfabetizzazione e, in generale,
per i primi gradi dell'istruzione formale contribuiscono alla
creazione di capitale umano generico, utilizzabile in diversi tipi
di attività. Quanto più l'istruzione formale ha
carattere specialistico o la formazione avviene by doing ossia
attraverso l'esperienza di lavoro in una data attività, tanto
più specifico è il capitale umano e tanto più
probabile è che il suo trasferimento da un'attività a
un'altra richieda ulteriori investimenti.
Diversi, infine, sono i rendimenti che l'investimento ha per il
soggetto che investe o che gode degli effetti di un investimento
pubblico e il suo rendimento per la società cui il soggetto
appartiene. In particolare, gli economisti che studiano gli effetti
dell'istruzione sullo sviluppo distinguono il tasso di rendimento
privato, che eguaglia il valore dei costi diretti e indiretti
dell'istruzione e quello delle retribuzioni nette attese nel futuro,
e il tasso di rendimento sociale, che si ottiene aggiungendo ai
costi privati quelli sostenuti dallo Stato e ai ricavi le
esternalità positive nette.
Le ricerche svolte a questo proposito hanno portato a risultati
rilevanti per lo studio dello sviluppo economico e per la
determinazione delle politiche che lo pongono come obiettivo. In
primo luogo, si è constatato che, nei paesi in via di
sviluppo, il saggio di rendimento degli investimenti nell'istruzione
è più elevato di quello che si registra in paesi
già sviluppati e che esso, data la scarsità della
dotazione di capitale umano in questi paesi, ha un effetto maggiore,
relativamente ad altri fattori, sulla crescita del reddito. In
secondo luogo, si è rilevato che, al crescere del grado
dell'istruzione, il tasso di rendimento privato tende a superare
quello sociale e che, all'interno di ogni grado, il rendimento
è più alto per gli indirizzi di studio di carattere
generale rispetto a quelli più specialistici (v.
Psacharopoulos, 1991). Infine, il confronto tra paesi diversi che
hanno iniziato in tempi recenti un processo di crescita e di
trasformazione strutturale e, in particolare, lo studio del successo
delle economie di alcuni paesi dell'Asia orientale hanno dimostrato
che il livello di istruzione esistente al momento in cui lo sviluppo
è iniziato spiega, almeno in parte, il divario dei risultati
ottenuti.
Nel superamento degli ostacoli che un paese sottosviluppato affronta
nelle prime fasi della sua trasformazione, il livello
dell'istruzione, e quindi gli investimenti che lo innalzano,
appaiono particolarmente importanti per i loro effetti indiretti.
Una migliore istruzione, infatti, oltre ad accrescere la
produttività del lavoro, ha effetti positivi sulla
capacità di ottenere informazioni e di accedere al credito da
parte dei piccoli imprenditori che svolgono attività
commerciali, agricole o artigianali. Inoltre, quando è estesa
alle donne, l'istruzione modifica il comportamento delle famiglie,
aiutandole a prevenire e combattere le malattie e a curare meglio i
figli, apre alle donne la possibilità di entrare nel mercato
del lavoro, induce una riduzione della loro fertilità,
frenando così l'eccessiva crescita demografica.
Tutto ciò porta a sottolineare l'importanza che assumono per
lo sviluppo il capitale umano, una equilibrata allocazione delle
risorse tra investimenti in capitale fisico e in servizi sociali,
quali l'istruzione e la sanità, che si possono considerare in
parte complementari e in parte sostitutivi dei primi (v. Svennilson,
1966), e una programmazione della spesa pubblica adeguata alle
caratteristiche del paese e che, quindi, dia priorità a quei
gradi di istruzione dai quali ci si può attendere nelle
condizioni date il maggior rendimento sociale, evitando di
sostenere, come spesso è accaduto, costi elevati per la
creazione di capacità che non possono trovare impiego e la
diffusione di aspettative insoddisfatte (v. Colcough, 1982).
È d'altra parte evidente la connessione tra i processi di
formazione del capitale umano e altri aspetti dello sviluppo.
Quando, ad esempio, l'industrializzazione avviene mediante la
creazione di poli o enclaves, con scarsi legami con il resto del
territorio e con altri settori produttivi, le capacità
acquisite dai lavoratori occupati potranno difficilmente trasferirsi
altrove e generare effetti di diffusione delle conoscenze; se
prevalgono industrie a capitale straniero, che fanno largo uso,
dalla fase della progettazione a quella della produzione, di
personale espatriato, le possibilità per la mano d'opera
locale di apprendere nuove tecniche saranno modeste; se le tecniche
sono complesse sarà più difficile impratichirsene e
appropriarsene.
Come, a proposito del progresso tecnico, avevamo osservato che
l'importanza dell'acquisizione e dell'adattamento di tecnologie
importate dall'estero non deve far trascurare l'impegno per la
ricerca scientifica e per l'innovazione autonoma, così, per
quanto riguarda l'istruzione, la priorità data
all'alfabetizzazione e alla formazione di base non significa che la
creazione di figure professionali con un elevato livello di
istruzione non sia una condizione rilevante per lo sviluppo. Tali
figure sono, in particolare, richieste nella pubblica
amministrazione, proprio per permettere quella programmazione della
spesa e quella promozione e regolazione dei processi di
industrializzazione che consentono una efficiente allocazione delle
risorse tra i vari tipi di investimenti e il maggior rendimento di
quelli destinati alla formazione del capitale umano.
4. Crescita della popolazione e sviluppo economico
Il tema dei rapporti tra andamenti demografici e sviluppo
economico ha una lunga storia che si può far risalire al
famoso Essay nel quale Malthus (v., 1798) esponeva la sua "legge
della popolazione come essa influenza il futuro miglioramento della
società". La teoria malthusiana si basa sull'assioma che la
capacità naturale dell'uomo di riprodursi supera la
capacità di aumentare la disponibilità di alimenti,
cosicché, quando il reddito di un paese cresce e i salari
superano il livello di sussistenza, rendendo più precoci i
matrimoni e più numerose le nascite, si determina uno
squilibrio tra bocche da sfamare e cibo che soltanto freni
repressivi, come la miseria, le guerre e il conseguente aumento
della mortalità, o preventivi, quali il vizio o il controllo
morale, potranno superare o evitare. L'immiserimento dei lavoratori,
che avrebbe eliminato la popolazione eccessiva o la paura del quale
poteva indurli a ritardare la formazione di una famiglia,
trovò poi una spiegazione in quella legge dei rendimenti
decrescenti dell'agricoltura, accolta anche da Ricardo, secondo la
quale l'accresciuto bisogno, spingendo a coltivare terre sempre meno
fertili, impedirebbe alla produzione di crescere quanto la
popolazione, determinando nello stesso tempo l'aumento della rendita
agraria (v. Malthus, 1815). Malthus fondava il suo assioma di base
su dati empirici assai deboli, tratti prevalentemente
dall'osservazione della realtà americana, ma le sue tesi
ebbero un'ampia eco in Inghilterra e da lì si diffusero
successivamente nel continente, anche perché i tempi in cui
egli scriveva furono contrassegnati da un aumento senza precedenti
della popolazione europea (v. Blaug, 1968).
Ciò che avvenne nel XIX secolo, nonostante il raddoppio della
popolazione mondiale, smentì le previsioni di Malthus. Il
progresso tecnico accrebbe la produttività del lavoro
più che compensando gli effetti sul reddito dei temuti
rendimenti decrescenti, mentre i mutamenti nei valori e nei
comportamenti che accompagnarono la crescita economica e la
trasformazione strutturale ridussero gradualmente il tasso di
natalità. Alla fine del secolo quella che i demografi
chiamano 'transizione demografica' si poteva dire conclusa nei paesi
più sviluppati, e il crescente benessere portava non a un
aumento ma a una riduzione del tasso di crescita della
popolazione.Il problema degli effetti di elevati tassi di crescita
della popolazione sulla crescita del prodotto nazionale e il timore
che essi possano rappresentare un ostacolo allo sviluppo si sono
riproposti in epoca recente, in relazione alla situazione e alle
prospettive dei paesi meno sviluppati. È a questi paesi,
infatti, che si deve in massima parte l'eccezionale aumento della
popolazione mondiale, più che raddoppiata dal 1950 al 1990,
ed è in essi che ancor oggi fenomeni quali le carestie, la
povertà, la fame non sono stati sconfitti dalla crescita
economica (v. Birdsall, 1988).
I principali modelli di crescita trattano l'aumento della
popolazione come una variabile esogena, non spiegata quindi dalle
grandezze e dal funzionamento del sistema economico, e lo
considerano coincidente con l'aumento dell'offerta di lavoro. I suoi
effetti sono studiati prevalentemente in relazione alle conseguenze
che esso determina sull'offerta degli altri fattori della crescita:
l'accumulazione del capitale, il progresso tecnico e la dotazione di
capitale umano.La tesi prevalente è che l'aumento
dell'offerta di lavoro determina una diminuzione dei salari e,
quindi, del costo del lavoro rispetto a quello del capitale: ne
conseguirebbe un freno all'accumulazione e alla diffusione di
innovazioni incorporate nei beni capitale e, quindi, una minore
produttività del lavoro e un rallentamento della crescita (v.
Kelley, 1988). È possibile, tuttavia, ipotizzare anche un
effetto che va nella direzione opposta: in un'economia dove, come in
molti paesi nelle prime fasi del loro sviluppo, prevale ancora
un'agricoltura di sussistenza, l'aumento della popolazione e, in
particolare, della sua densità sul territorio è uno
stimolo a ricercare e ad applicare metodi più produttivi di
sfruttamento del suolo (v. Boserup, 1981), mentre in economie
più sviluppate esso determina un ampliamento del mercato e,
quindi, favorisce decisioni di investimento e l'introduzione di
innovazioni (v. Simon, 1981).
La combinazione dei diversi effetti impedisce di arrivare a
risultati determinati di carattere generale. Analoga
indeterminatezza si presenta quando, abbandonando l'ipotesi della
coincidenza tra crescita demografica e aumento dell'offerta di
lavoro, si considerano le conseguenze che la crescita ha sulla
composizione della popolazione per classi di età. La crescita
demografica non dipende principalmente dall'aumento del tasso di
fertilità delle donne, quanto piuttosto dalla diminuzione
della mortalità infantile e dall'allungamento della durata
della vita conseguenti al miglioramento delle condizioni
nutrizionali, igieniche e sanitarie. Questo fatto, che è
indubbiamente un aspetto altamente positivo e desiderabile dello
sviluppo economico, aumenta il numero dei bambini e dei vecchi e,
quindi, la proporzione della popolazione economicamente dipendente
da chi è in età lavorativa. I redditi da lavoro
devono, quindi, provvedere ai maggiori consumi dei componenti non
produttivi della famiglia, e ciò ridurrebbe la propensione al
risparmio con effetti negativi sull'accumulazione e sulla crescita.
Questa conclusione, tuttavia, non tiene conto del ruolo che nello
sviluppo economico ha il capitale umano: un maggior numero di figli
viventi, purché le famiglie o la società facciano
quanto è necessario per allevarli e provvedere alla loro
salute e alla loro istruzione, significa un maggior numero di esseri
umani disponibili a usare le proprie facoltà intellettuali e
ad accrescere le abilità e le conoscenze utili per la
produzione e per il progresso tecnico (v. Simon, 1981).
Il limite principale del modo in cui le teorie della crescita
trattano l'aumento della popolazione e, quindi, cercano di definirne
i rapporti con lo sviluppo è quello di considerarlo una
variabile esogena. L'evidenza empirica e l'esperienza storica
mostrano invece l'esistenza di relazioni tra variabili demografiche
e variabili economiche, e che l'andamento del tasso di crescita
della popolazione di un paese può essere spiegato dalla fase
e dalle caratteristiche del suo sviluppo.La teoria della transizione
demografica, come è noto, sostiene che nelle prime fasi dello
sviluppo la diminuzione del tasso di mortalità, conseguente
alle migliori condizioni igieniche e sanitarie, si accompagna a una
invarianza del tasso di natalità, perché l'aumentato
livello dei redditi familiari consente di mantenere più
figli, soddisfacendo un desiderio frustrato nel passato dalla forte
mortalità infantile, e soprattutto perché i valori e
le abitudini cambiano più lentamente di quanto si trasformi
l'economia (v. Simon, 1992). Raggiunto un certo livello, il tasso di
crescita si stabilizza e in seguito, con il sempre maggiore ingresso
delle donne nella produzione e con il mutare dei costumi, tende a
scendere e ad avvicinarsi allo zero.
Il confronto tra paesi diversi nella stessa fase di sviluppo
permette inoltre di rilevare che la diffusione dell'istruzione
abbassa i tassi di crescita demografica e di fertilità delle
donne, e che in tal senso sono efficaci anche politiche volte a
incoraggiare e a rendere possibile la pianificazione delle nascite.
Quest'ultima osservazione permette di correggere la tesi, già
a suo luogo ricordata, secondo la quale l'aumento del tasso di
crescita della popolazione che si verifica, in una prima fase, al
crescere del reddito costituisce un ostacolo al raggiungimento del
livello di reddito pro capite desiderato, a meno che un massiccio
programma di investimenti (un big push) non consenta di portare
l'economia nella fase in cui il tasso di crescita della popolazione
si stabilizza. I fatti dimostrano che, in attesa che la transizione
demografica si compia, gli effetti negativi di un eccessivo aumento
della popolazione possono essere contrastati, almeno in parte,
incoraggiando il controllo delle nascite e destinando risorse
adeguate all'istruzione e, quindi, alla formazione di capitale
umano.
5. Sviluppo e mercato mondiale
La nascita del capitalismo è strettamente legata alla
formazione di un mercato mondiale; si comprende, quindi, come uno
dei principali oggetti di riflessione dei mercantilisti e, in
generale, degli economisti del XVII e XVIII secolo sia stato, fino a
Smith, il commercio d'esportazione con i suoi effetti sulla
ricchezza delle nazioni; nelle teorie di Smith (v., 1776) sono
già presenti alcuni temi ricorrenti poi nella letteratura in
materia: i benefici che deriverebbero a tutti i paesi dall'entrare
in rapporti commerciali tra loro, l'ampliamento della domanda che
deriva dall'aggiungersi di quella estera a quella interna, la
divisione e la specializzazione del lavoro, consentite
dall'allargamento del mercato, che determinano un aumento della sua
produttività.
Tuttavia, come si sa, è dal cap. 7 dei Principles di Ricardo
(v., 1817) e dal suo famoso esempio dello scambio di tessuti e di
vino tra Inghilterra e Portogallo che si può dire derivi
tutta la teoria del commercio internazionale (v. Findlay, 1984),
basata, nei suoi successivi perfezionamenti e svolgimenti, sul
concetto di vantaggi comparati che quell'esempio illustrava in modo
così brillante e convincente.
Fino a tempi recenti, tuttavia, questa teoria, prima nella versione
classica e poi in quella neoclassica, ha considerato due economie
con risorse date e pienamente occupate, che in regime di perfetta
concorrenza, aprendosi allo scambio, possono realizzare combinazioni
più efficienti dei fattori, restando sulla stessa frontiera
delle possibilità produttive. In questi termini e per le
ipotesi restrittive che la sempre maggiore formalizzazione imponeva,
l'analisi dei vantaggi del commercio estero restava nell'ambito
della statica economica e, al di là di qualche spunto e
intuizione, non poteva cogliere e analizzare adeguatamente gli
effetti che l'apertura di un paese, precedentemente chiuso agli
scambi, determinava sulla sua crescita e sulla sua trasformazione
strutturale.
È stato soltanto negli scorsi decenni che numerosi autori si
sono proposti di dinamizzare i modelli del commercio internazionale,
di estendere i modelli di crescita al caso di un'economia aperta e
di studiare gli effetti del pieno inserimento nel mercato mondiale
sui paesi in via di sviluppo. Il passaggio dall'allocazione ottima
di risorse date al loro accrescimento e, quindi, allo spostamento
della frontiera delle possibilità produttive e allo sviluppo
di un'economia, nonché la ricerca di una maggiore aderenza
dei modelli teorici alla realtà delle strutture economiche in
trasformazione hanno portato ad abbandonare alcune ipotesi
restrittive e a una più ampia concezione degli stessi
vantaggi comparati (v. Bliss, 1989).
Gli effetti positivi degli scambi con l'estero sullo sviluppo di un
paese possono essere così sintetizzati. Il primo è
implicito nei risultati della teoria statica del commercio
internazionale. Se una più efficiente allocazione delle
risorse, in base ai vantaggi comparati dei quali un paese gode,
porta a un aumento del suo reddito, una parte maggiore di questo
reddito potrà essere risparmiata e investita. Questo effetto
si può verificare, ad esempio, nel caso dello sviluppo di
un'economia dualistica con eccedenza di popolazione nel settore
tradizionale a suo luogo considerato (v. § 3a). In un'economia
di quel tipo l'offerta di lavoro è abbondante e a basso costo
relativamente a quello del capitale e ai salari correnti nei paesi
industrializzati: se essa è impiegata in industrie ad alta
intensità di lavoro, i loro prodotti potranno essere
collocati sui mercati esteri a prezzi competitivi, ottenendo valuta
utilizzabile per l'importazione di mezzi della produzione che
consentono un allargamento della base produttiva e l'introduzione di
nuove tecniche. Un secondo tipo di effetti è quello
già considerato da Smith, quando scriveva che il commercio
estero può consentire di produrre e di vendere all'estero
merci per le quali non vi è sufficiente domanda interna (vent
for surplus), impiegando, quindi, terra, lavoro e risparmi che non
sarebbero altrimenti utilizzati. Questo effetto, valido in generale
per la crescita del prodotto nazionale, può essere
particolarmente significativo per la trasformazione strutturale di
un paese dove prevale o manifesta ancora una forte presenza
l'economia di sussistenza e dove i mercati si limitano ad ambiti
locali (v. Myint, 1958; v. Caves, 1965). Quando paesi di questo tipo
dispongono di ricche risorse naturali e di terra in abbondanza, la
domanda estera può portare a un maggiore sfruttamento di tali
risorse e all'estensione delle colture: l'esportazione di materie
prime procurerà il reddito necessario ad alimentare la
nascita di industrie di prima trasformazione e quindi
permetterà il passaggio alla produzione e all'esportazione di
beni con più alto valore aggiunto.
È stato questo, secondo alcuni autori, il caso del Canada (v.
Watkins, 1963), sullo studio del quale si è basata la
cosiddetta staple theory che spiega l'inizio del processo di
sviluppo con l'esportazione di materie prime agricole e che
può essere generalizzata, con le opportune qualificazioni, ad
altri esempi (v. Balassa, 1989). A questi due tipi di effetti, che
consistono in una maggiore disponibilità o in un più
ampio impiego delle risorse che un paese può destinare alla
produzione e all'accumulazione, se ne possono aggiungere altri che
riguardano la trasformazione della sua struttura economica. Di
effetti di questo tipo parlava già John Stuart Mill (v.,
1848), osservando come l'apertura al commercio estero, facendo
conoscere beni nuovi o nuovi modi per produrre più facilmente
beni già conosciuti, possa far nascere bisogni prima
inesistenti e stimolare energie e ambizioni, determinando una specie
di 'rivoluzione industriale' in un paese precedentemente stagnante o
sottosviluppato. Questo tema è stato ripreso in epoca recente
per dimostrare che l'effetto negativo sui risparmi, che può
derivare da nuovi bisogni indotti dalla conoscenza di bisogni e
consumi di paesi più ricchi (effetto di dimostrazione
internazionale), potrebbe essere più che compensato dagli
effetti sull'incentivo a produrre da essi creato (v. Myint, 1964).
Le conseguenze che gli scambi internazionali possono avere sulla
struttura dell'economia sono ancor più evidenti se si
considera che i mezzi della produzione sono beni che generalmente un
paese nelle prime fasi del suo sviluppo deve acquistare all'estero:
il ricorso al mercato internazionale è stato in molti casi la
via obbligata per l'industrializzazione. Infine, una volta che in un
paese si è creata una base industriale orientata
prevalentemente, come in molti casi è avvenuto, alla
soddisfazione della domanda interna, l'apertura all'estero,
ampliando il mercato, consente alle unità produttive di
accrescere le proprie dimensioni, realizzando economie di scala (v.
Krugman, 1987).Gli argomenti a favore degli effetti positivi del
commercio internazionale sono oggi prevalenti nelle correnti
dominanti del pensiero economico, che vedono nel pieno inserimento
dei paesi in via di sviluppo nel mercato mondiale la strada maestra
per crescere e trasformarsi. Non mancano, tuttavia, anche
nell'ambito delle teorie ortodosse, dimostrazioni della
possibilità che, a certe condizioni, una crescita economica
trainata dal commercio estero possa produrre effetti dannosi: il
caso più studiato è quello di un aumento delle
esportazioni che determina una caduta delle ragioni di scambio tale
da peggiorare la situazione del paese rispetto a quella che si
sarebbe avuta in assenza di crescita (v. Bhagwati, 1958). Ma le tesi
più critiche nei confronti dell'orientamento di un'economia
verso il mercato internazionale sono quelle di autori come Myrdal
(v., 1957), Prebisch (v., 1950) e Singer (v., 1950), che ebbero una
vasta diffusione e influenzarono le politiche commerciali dei paesi
in via di sviluppo nei primi decenni del dopoguerra. Mentre la
teoria classica e neoclassica del commercio internazionale spiegava
perché, a determinate condizioni, una specializzazione
produttiva dei vari paesi aperti agli scambi, basata sui loro
rispettivi vantaggi comparati, aumentasse il benessere di tutti,
questi economisti partono dall'esistenza di una specializzazione
produttiva, creatasi nel corso dei secoli come risultato non di
forze di mercato operanti alle condizioni presupposte dalla teoria
pura, ma di un processo storico nel quale la conquista, la
colonizzazione, lo sfruttamento di una parte del mondo da parte di
un'altra hanno avuto un ruolo determinante. In seguito a questo
processo, i paesi industrializzati al centro del sistema economico
mondiale si sono specializzati nella produzione di manufatti, quelli
sottosviluppati, della periferia, nella produzione di materie prime.
Ciò determinerebbe un'asimmetria delle rispettive posizioni,
perché negli uni e negli altri sono diversi i meccanismi di
formazione dei prezzi e diverse le elasticità della domanda
internazionale per i due tipi di prodotti. Nei paesi
industrializzati l'esistenza di mercati oligopolistici e di forti
sindacati operai fa sì che l'aumento della
produttività, conseguente all'accumulazione e al progresso
tecnico, si traduca, in gran parte, in maggiori profitti e salari,
mentre nei paesi periferici la forte concorrenza internazionale per
i prodotti agricoli, l'offerta quasi illimitata di lavoro, la
mancanza o la debolezza dei sindacati mantengono i prezzi bassi,
cosicché l'effetto di una maggiore produttività va a
vantaggio dei consumatori e, quindi, degli importatori di questi
prodotti. Ne deriva una tendenza secolare alla caduta delle ragioni
di scambio per i paesi sottosviluppati esportatori di materie prime.
Inoltre, mentre in questi paesi l'inizio di un processo di sviluppo
comporta una elevata elasticità della domanda di prodotti
manufatti al crescere del reddito, la domanda di beni primari da
parte dei paesi industrializzati aumenta molto lentamente,
perché la quota dei prodotti agricoli per l'alimentazione sul
consumo totale diminuisce al crescere del reddito e il progresso
tecnico sostituisce nell'industria di trasformazione materiali
sintetici alle materie prime naturali. Un paese importatore di
manufatti ed esportatore di materie prime sarà quindi
costretto, per ottenere la stessa quantità dei primi, a
scambiare una sempre maggiore quantità delle seconde e
incontrerà, d'altra parte, sempre maggiori limiti alla loro
esportazione.
Queste tesi portavano a sostenere la necessità per i paesi in
via di sviluppo di ridurre la loro dipendenza dal mercato mondiale,
indirizzando i propri sforzi verso un'industrializzazione orientata
prevalentemente al mercato interno, che sostituisse beni nazionali a
beni importati e che avrebbe richiesto, almeno per un certo periodo,
misure protezionistiche, come, del resto, avevano sostenuto nel
secolo scorso List (v., 1841) e altri autori per i paesi late
comers.
Anche se gli insuccessi delle politiche di industrializzazione
sostitutiva delle importazioni, le distorsioni causate dal
protezionismo e i suoi elevati costi sociali, i risultati ottenuti
dalla liberalizzazione degli scambi, prima in Occidente e poi nei
paesi dell'Asia orientale, hanno contribuito, insieme alla
riacquistata egemonia delle correnti di pensiero neoclassiche, a
togliere credito alle tesi dei critici del mercato mondiale, la
rigida contrapposizione tra le loro analisi e quelle dei fautori del
liberismo sembra essere oggi meno radicale di quanto non fosse nella
prima parte degli anni ottanta.
L'evidenza empirica relativa a un campione di paesi analizzato da
Maddison (v., 1982) e da Evans (v., 1989) permette di constatare,
per gli anni dal 1820 al 1985, un'associazione statistica positiva
tra i tassi di crescita del prodotto nazionale e delle esportazioni
per tutti, tranne uno, gli intervalli considerati, ma nulla si
può dire sulla direzione del rapporto causale tra le due
grandezze. Anche gli storici che hanno discusso il problema con
riferimento alla rivoluzione industriale, d'altra parte, hanno
opinioni discordi in merito alla questione se, in quella fase dello
sviluppo capitalistico, il commercio internazionale sia stato una
forza motrice dello sviluppo o soltanto una condizione che lo ha
favorito (un engine oppure un handmaiden of growth) (v. Eversley,
1967; v., Landes, 1969). Per quanto riguarda, in particolare, i
paesi in via di sviluppo, la tesi sulla caduta delle ragioni di
scambio per i paesi esportatori di materie prime era indubbiamente
fondata su basi statistiche alquanto semplicistiche e deboli (v.
Haberler, 1961), ma una serie di ricerche condotte su dati
più numerosi e con metodi più raffinati sembrano
confermare, pur attenuandone la portata, alcune delle conclusioni
allora raggiunte (v. Spraos, 1980). Infine, uno studio accurato dei
casi di successo dei paesi in via di sviluppo con diverse strutture
e diverse politiche economiche (v. Chenery e altri 1986; v. Singer,
1987) sembra portare alla conclusione che un pieno inserimento nel
mercato mondiale abbia effetti più o meno positivi sullo
sviluppo a seconda dei beni che un paese può esportare e,
quindi, della fase in cui si trova il suo processo di trasformazione
strutturale, che ha sempre richiesto, per i late comers un periodo
di sostegno e di protezione all'industria nascente per superare la
posizione di relativo svantaggio rispetto ai paesi più
avanzati.
6. Crescita e distribuzione del reddito
Nel concetto di sviluppo economico è, fin dalle origini,
implicita l'idea di un passaggio a uno stato di cose preferibile a
quello precedente, ossia di un miglioramento: lo sviluppo è
quindi socialmente desiderabile. Tuttavia sembra ragionevole pensare
che, se esso viene definito come la crescita del prodotto e la
trasformazione strutturale di un paese, per i cittadini di
quest'ultimo non sia desiderabile tanto lo sviluppo in sé
quanto il maggior benessere che ne può derivare. Il passaggio
dal benessere individuale a quello sociale è un'operazione
teorica complessa e controversa, ma si può concordare sul
fatto che un aumento del benessere sociale non dipenda solo dalla
crescita del prodotto nazionale, ma anche dal modo in cui essa
è distribuita. L'economia del benessere, nella sua originale
impostazione utilitaristica, sosteneva che se tutti gli individui
hanno la stessa capacità di trarre benessere dalle risorse
delle quali dispongono e queste producono soddisfazioni decrescenti
al crescere della loro quantità, la distribuzione egualitaria
del reddito è quella che rende massimo il benessere sociale.
Perché lo sviluppo porti a un maggior benessere sarebbe
dunque necessario che la crescita del reddito si accompagnasse a una
diminuzione della diseguaglianza, ma già l'autore che aveva
posto i fondamenti teorici di questa tesi metteva in luce i limiti
di una sua attuazione nella pratica, rilevando che una
redistribuzione egualitaria del reddito poteva ridurre il reddito
potenziale in misura tale da andare a danno anziché a
vantaggio del benessere (v. Pigou, 1951). Il problema dei rapporti
tra crescita e distribuzione del reddito è quindi un tema
centrale dell'economia dello sviluppo.
Gli economisti che considerano l'accumulazione del capitale come il
fattore determinante della crescita tendono a trascurare gli aspetti
distributivi dello sviluppo, in quanto ritengono prioritario
l'aumento del risparmio che può derivare essenzialmente da
una accresciuta quota del profitto sul reddito nazionale. L'esempio
più chiaro di questa impostazione è il già
citato modello dualistico di Lewis (v. § 3a) nel quale la
crescita è consentita dal fatto che l'offerta illimitata di
lavoro mantiene i salari di poco al di sopra del minimo di
sussistenza, mentre l'accresciuta produttività determina
elevati margini di profitto reinvestiti dagli imprenditori.
Poiché una distribuzione funzionale del reddito più
favorevole al capitale e meno al lavoro si accompagnerà a una
distribuzione interpersonale più diseguale, sembrerebbe che
la diseguaglianza sia una condizione favorevole alla crescita. Il
corollario di questa tesi era che i lavoratori e, in genere, gli
strati della popolazione più poveri avrebbero potuto, ma solo
in un secondo momento, godere anch'essi dei benefici dello sviluppo,
che si sarebbero inevitabilmente diffusi, per l'operare di vari
meccanismi, su tutta la società (v. Cline, 1975; v. Adelman,
1979).
Era questa un'idea che sembrava trovare conferma sul piano storico
dalle indagini di Simon Kuznets (v., 1963) il quale, confrontando
paesi che si trovavano in diverse fasi di sviluppo e derivandone,
mediante un'analisi cross-section, una curva che metteva in
relazione reddito pro capite e indice della dispersione del reddito,
rilevava come questa avesse un andamento a U rovesciata, mostrando
un'accentuazione della diseguaglianza in un primo tratto e una
attenuazione in un secondo, dopo che il reddito pro capite aveva
raggiunto un livello piuttosto elevato. Questi risultati appaiono
spiegabili e plausibili quando si pensi al passaggio di un paese da
un'economia agricola prevalentemente di sussistenza e a bassa
produttività a una struttura più articolata e
differenziata. La produttività del lavoro e la sua
retribuzione saranno maggiori nell'agricoltura commerciale che in
quella di sussistenza e nel nascente settore industriale rispetto a
quello agricolo, determinando differenziazioni nel reddito degli
addetti ai diversi settori, e all'interno dello stesso settore, per
l'accresciuta disomogeneità del lavoro. La trasformazione
strutturale determinerà un aumento del sovrappiù
rispetto alla situazione precedente, e quindi si presenterà
per alcuni componenti e strati della società la
possibilità di risparmiare e investire una parte dei profitti
e delle rendite, determinando una concentrazione della ricchezza che
comporterà, a sua volta, una ulteriore dispersione dei
redditi. Inoltre, la stratificazione sociale conseguente a questi
processi attribuirà a classi o ceti diversi un diverso peso
politico, assicurando ad alcuni una maggior tutela o una più
rilevante forza contrattuale, mentre le istituzioni tradizionali
della famiglia allargata, del villaggio, del clan, che svolgevano
una funzione redistributiva, entreranno in crisi, almeno
parzialmente, lasciando indifesi gli strati più deboli della
popolazione (v. Kravis, 1960; v. Adelman e Robinson, 1989).
Se, dunque, una maggiore diseguaglianza può essere un effetto
della crescita, almeno per una prima fase dello sviluppo, da
ciò non si può dedurre che essa ne rappresenti una
condizione favorevole o tanto meno necessaria, cosa che, del resto,
Kuznets non ha mai sostenuto. Inoltre, alcune ricerche successive,
confrontando paesi a un livello di sviluppo simile e verificando il
grado di correlazione tra distribuzione del reddito e variabili
diverse dal prodotto pro capite, hanno mostrato che alcune
caratteristiche strutturali e il livello di istruzione dei paesi
considerati hanno una maggiore capacità esplicativa delle
differenze distributive di quanta non ne abbia il livello del
reddito (v. Fields, 1980). Se questi risultati sono attendibili, se
ne può trarre la conclusione che una maggiore diseguaglianza,
più che un effetto della crescita, è una conseguenza
del tipo di sviluppo o, più precisamente, che le tendenze
all'accentuazione delle differenziazioni della ricchezza e dei
redditi, conseguente alla trasformazione strutturale di un paese,
possono essere più o meno compensate da appropriate scelte di
allocazione delle risorse. A questo proposito una tesi interessante
è quella svolta dall'economista Irma Adelman (v., 1979).
L'autrice sostiene che nel passato, quando un determinato fattore
della produzione (la terra, il capitale fisico, quello finanziario,
quello umano) è diventato il 'fattore critico' dello
sviluppo, la sua produttività è aumentata con
vantaggio per i pochi individui che ne disponevano e a svantaggio di
altri: di conseguenza la distribuzione del reddito è
diventata più diseguale e solo in un secondo tempo,
generalmente dopo due o tre generazioni, una serie di aggiustamenti
ha portato a una distribuzione più egualitaria dei fattori
produttivi e quindi del reddito. Una redistribuzione dei fattori
strategici, prima che inizi il processo di sviluppo, determinerebbe
un processo di crescita con una distribuzione migliore del reddito
in tempi più rapidi e con minori sofferenze per una parte
della popolazione. Nei paesi in via di sviluppo questo risultato
potrebbe essere ottenuto se la terra venisse distribuita ai
coltivatori prima dell'introduzione di tecniche che ne aumentano la
produttività e se un vasto programma di istruzione e
formazione precedesse l'inizio dell'industrializzazione.
Se il rapporto tra distribuzione del reddito e crescita non è
definibile e misurabile con sicurezza, si può arrivare alla
conclusione che una distribuzione più egualitaria - o che,
quanto meno, permetta di vincere mali sociali come la miseria e la
fame - è di per sé desiderabile indipendentemente dai
suoi effetti sulla crescita (v. Cline, 1991). A favore della tesi
che una riduzione della diseguaglianza, oltre a essere un obiettivo
meritevole in se stesso, possa essere anche una condizione che aiuta
la crescita, vi sono tuttavia alcuni argomenti ai quali la teoria
che attribuiva un ruolo centrale all'accumulazione del capitale
fisico, considerandolo la forza trainante dello sviluppo, non dava
sufficiente importanza. Il primo riguarda il problema della domanda
e dell'ampiezza del mercato interno, più volte richiamato (v.
§ 3a). In un'economia dove gran parte della popolazione vive a
livelli di sussistenza o in condizioni di povertà, gli
stimoli all'investimento e all'innovazione e, quindi, i presupposti
della crescita della produzione saranno scarsi. Si può, al
proposito, ricordare nuovamente come alcuni storici indichino tra le
condizioni che hanno prodotto la prima rivoluzione industriale in
Inghilterra, anziché nel continente, i maggiori redditi e,
quindi, la maggior capacità di consumo delle popolazioni
rurali in quel paese (v. Landes, 1969).
Il secondo argomento riguarda il ruolo del capitale umano. Abbiamo
visto che la soddisfazione dei bisogni essenziali e il possesso di
conoscenze e abilità accrescono la produttività del
lavoro, offrono maggiori possibilità di evoluzione alle
piccole imprese, facilitano l'apprendimento di nuove tecniche,
favoriscono il contenimento della crescita demografica. Tutto
ciò è possibile se l'alimentazione è
sufficiente, i servizi igienici e sanitari accessibili, l'istruzione
diffusa, e richiede, quindi, che i redditi degli individui e delle
famiglie siano abbastanza alti da consentire di acquistare quei beni
e servizi o siano integrati, in termini monetari o reali, da una
redistribuzione delle risorse da parte dello Stato.
7. La misurazione dello sviluppo
Se lo sviluppo economico consiste nella crescita del prodotto
nazionale e nella trasformazione strutturale di un paese, la sua
misurazione dovrebbe coincidere con la misurazione di questi due
fenomeni. Di fatto gli economisti, quando studiano gli andamenti di
lungo periodo di un'economia e, in particolare, i processi
attraverso i quali un paese passa da una situazione definibile di
sottosviluppo a un'altra che lo caratterizza come in via di sviluppo
o sviluppato, prendono in considerazione, insieme al dato delle
variazioni del prodotto nazionale, totale e pro capite, indici
relativi alla sua industrializzazione (come la quota di prodotto
attribuibile alle attività di trasformazione e la quota della
popolazione in esse occupata), alla composizione delle sue
esportazioni (come il rapporto tra quella di prodotti primari e
quella di manufatti) e altre grandezze significative per definirne
la struttura produttiva e le sue trasformazioni. Tuttavia,
poiché i cambiamenti della struttura economica sono un
aspetto dello sviluppo in quanto aumentano la produttività
del lavoro, ampliano la base produttiva e quindi, in definitiva,
accrescono la produzione, la grandezza comunemente usata per
misurare lo sviluppo è il prodotto nazionale lordo. Un paese
è considerato tanto più sviluppato quanto più
alto è il suo prodotto pro capite, e il tasso di crescita del
prodotto, confrontato con quello di crescita della popolazione,
indica il ritmo del suo sviluppo, cioè la maggiore o minore
capacità del paese di mantenere o accrescere il reddito
disponibile per ogni suo abitante.L'uso di questi indici presenta,
tuttavia, una serie di difficoltà e di problemi di ordine
statistico ed economico.
Dal punto di vista statistico, i problemi sono quelli, ben noti, che
riguardano il calcolo del prodotto nazionale e in particolare il
fatto che questa grandezza è la somma dei beni e servizi
prodotti nell'anno, valutati ai prezzi di mercato, e accertati in
base ad apposite procedure di rilevazione. La parte di produzione
che non passa per il mercato o che sfugge alle rilevazioni non
può, quindi, essere misurata e deve essere oggetto di stime.
Le difficoltà nascono soprattutto quando si considerano e si
confrontano paesi diversi, con diverse strutture economiche,
politiche e amministrative e con istituti statistici di diversa
efficienza e affidabilità. Sappiamo, ad esempio, che nelle
economie agricole poco sviluppate è molto esteso il settore
che produce per l'autoconsumo e non per il mercato, che le
attività dette informali o sommerse, le quali più
facilmente sfuggono alla rilevazione statistica, sono presenti in
misura diversa nei vari paesi, che esistono situazioni nelle quali
la pubblica amministrazione ha un controllo parziale del territorio
e dove le statistiche economiche e i censimenti della popolazione
sono poco affidabili.Inoltre, per confrontare diversi prodotti
nazionali, calcolati in ciascun paese nella moneta locale, occorre
tradurli in una sola unità monetaria, cosa che si fa
normalmente esprimendoli in dollari degli Stati Uniti in base al
tasso di cambio tra le due valute. Il tasso di cambio ufficiale,
tuttavia, è spesso sottovalutato o sopravvalutato rispetto a
quello che si avrebbe in condizioni di libero mercato e talora
oscilla bruscamente, cosicché il prodotto nazionale del paese
che ha svalutato o rivalutato la propria moneta può mostrare
una diminuzione o un aumento che non riflettono variazioni della
produzione reale. In ogni caso, anche quando il tasso di cambio
è determinato dal mercato, esso dipende dalla domanda e
offerta di moneta connesse agli scambi di merci con il resto del
mondo e ai flussi finanziari internazionali, e non tiene conto dei
beni e servizi che non sono commerciati internazionalmente, ma che
hanno un peso rilevante per il consumatore. Di conseguenza, il
reddito pro capite di un paese espresso in dollari americani non
riflette il reale potere d'acquisto dei suoi abitanti. In
particolare, in paesi dove buona parte dei consumatori acquistano
beni e servizi prodotti e commerciati localmente a costi e prezzi
molto più bassi di quelli degli stessi beni e servizi
prodotti nei paesi più sviluppati, il dollaro americano
acquista una quota del prodotto nazionale molto maggiore di quella
che potrebbe acquistare in questi ultimi.
Ormai da tempo, quindi, per evitare una immagine distorta del grado
di sviluppo e della sua divergenza tra paesi diversi, in molte
statistiche internazionali, accanto a quelli espressi in dollari
degli Stati Uniti, vengono pubblicati i dati del prodotto nazionale
calcolati in base a una unità di valore, convenzionale,
chiamata 'dollaro a pari potere d'acquisto' che tiene conto delle
diverse strutture dei prezzi interni e corrisponde alla stessa quota
del prodotto nazionale per ogni paese.Il principale problema posto
dall'indice del prodotto nazionale pro capite è tuttavia
quello del suo significato economico, ossia della sua adeguatezza a
rappresentare il livello di sviluppo economico di un paese. Questo
problema rimanda a quello, più generale, della definizione
stessa dello sviluppo. Come abbiamo visto, infatti, è stato
osservato che lo sviluppo ha un senso solo se la crescita e la
trasformazione strutturale portano a un aumento del benessere
sociale, comunque questo venga definito (v. cap. 6). Un'ovvia
critica all'indice del prodotto nazionale pro capite nasce quindi
dal fatto che esso, per sua natura, non può dar conto di come
il reddito è distribuito, e cioè di un aspetto della
struttura economica e sociale di un paese rilevante per valutare il
livello di benessere della sua popolazione (v. Marrama, 1958).
Più in generale, si può sostenere che il rilievo
attribuito dagli economisti alla crescita della produzione ha
portato a considerare questa come un fine, anziché come un
mezzo, importante ma non esclusivo, per migliorare le condizioni di
vita di un paese, ignorando il ruolo di altre variabili (v. Sen,
1983). Se, ad esempio, si assume l'aspettativa di vita alla nascita
come un indicatore delle condizioni economiche e sociali, si
può notare che essa varia sensibilmente in paesi con lo
stesso livello di reddito pro capite ed è più alta in
alcuni paesi poveri rispetto a quella di paesi molto più
ricchi. D'altra parte, ciò che permette di rendere più
lunga la vita, ossia una nutrizione adeguata, accessibilità
alle cure mediche, diffusione dell'igiene, è anche ciò
che migliora la qualità della vita (v. Sen, 1988).
Queste considerazioni hanno spinto le organizzazioni internazionali
a perfezionare le loro rilevazioni, estendendole ad aspetti
demografici, sociali ed economici ritenuti rilevanti per la
misurazione del grado di sviluppo di un paese, aggiungendo nelle
loro statistiche al dato del prodotto nazionale pro capite altri
indicatori, quali l'aspettativa di vita alla nascita,
l'alfabetizzazione, le condizioni nutrizionali, l'offerta di servizi
sanitari. Più recentemente le Nazioni Unite hanno elaborato
un indicatore sintetico, chiamato indice dello sviluppo umano (HDI)
ottenuto combinando, attraverso varie operazioni di omogeneizzazione
e ponderazione, tre diverse componenti: l'aspettativa di vita, il
livello di istruzione, il reddito pro capite valutato in termini di
pari potere d'acquisto (v. United Nations Development Program,
1997). Confrontando la classificazione dei paesi in base al
tradizionale indice del prodotto nazionale pro capite e quella
ottenuta ordinandoli secondo l'indice dello sviluppo umano, si
può facilmente rilevare come le due graduatorie così
ottenute differiscano sensibilmente. Se, dunque, si pensa che lo
sviluppo sia un risultato desiderabile dell'azione degli uomini in
quanto ne migliora le condizioni di vita, si deve concludere che
esso non dipende soltanto dall'ammontare e dalla crescita delle
risorse e da quanto si produce, ma da come le risorse vengono
impiegate, da ciò che si produce e da quanti possono disporre
dei beni e dei servizi prodotti.
Enciclopedia del Novecento
III Supplemento (2004)
Sviluppo economico
di Eliana La Ferrara
SOMMARIO: 1. Introduzione. ▭ 2. Approccio macroeconomico allo
sviluppo: a) teoria neoclassica della crescita e convergenza;
b) modelli di crescita endogena; c) modelli con
equilibri multipli o persistenza storica. ▭ 3. Approccio
microeconomico allo sviluppo: a) la famiglia; b) mercati
del lavoro; c) mercati della terra; d) mercati
del credito; e) capitale sociale. ▭ 4. Conclusioni.
▭ Bibliografia.
1. Introduzione.
Nell'anno 2000 il reddito medio annuale di un cittadino statunitense
era di circa 35.000 dollari, quello di un cittadino indiano di circa
450 dollari, quello di un cittadino etiope raggiungeva a fatica i
100 dollari. La dicotomia tra paesi industralizzati (o 'ad alto
reddito', come vengono definiti dalla Banca Mondiale) e paesi in via
di sviluppo (o 'a basso e medio reddito') è evidente se si
confrontano i 26.720 dollari di reddito pro capite dei
primi con i 1.194 dollari dei secondi. Se si aggiustano queste cifre
per tenere conto del fatto che il costo della vita è diverso
tra questi paesi, il reddito pro capite annuale 'a
parità di potere d'acquisto' era, rispettivamente, di 35.619
dollari per gli Stati Uniti, 2.683 per l'India e 720 per l'Etiopia
(le cifre nominali sono tratte dai World development indicators della Banca Mondiale; quelle aggiustate per la parità dei
poteri d'acquisto, dalle Penn world tables version 6.1: v.
Heston e altri, 2002). Il panorama risulta ancora più
eterogeneo se si guarda all'evoluzione dell'economia di questi paesi
nel tempo. Dal 1970 al 2000 il tasso di crescita medio annuale del
Prodotto Interno Lordo (PIL) pro capite è stato
2,1% negli Stati Uniti, 2,8% in India, e solamente 0,3% in Etiopia
(ha registrato per molti anni valori negativi, cioè riduzioni
del prodotto pro capite). Mentre dunque alcuni paesi in
via di sviluppo (PVS) - tra cui l'India e i paesi dell'Asia
orientale - hanno sperimentato tassi di crescita sostenuti, che in
prospettiva potrebbero consentire loro di avvicinarsi al tenore di
vita delle economie industrializzate, altri - soprattutto i paesi
africani - sembrano intrappolati in una situazione di povertà
endemica.
Quali sono le cause di differenze così marcate nella performance economica dei paesi? Può la teoria economica suggerire delle
politiche che aiutino i paesi poveri a uscire dal sottosviluppo?
Sono queste le domande cruciali che si pone l'economia dello
sviluppo, e nelle pagine che seguono cercheremo di esporre
sinteticamente alcune delle linee interpretative e alcune delle
risposte che sono state fornite nell'ultimo ventennio. Per motivi di
spazio, non potremo rendere giustizia alla molteplicità dei
contributi in materia e opereremo una selezione dettata soprattutto
da un principio metodologico: quello di lasciar trasparire un modo
di pensare allo sviluppo economico che ne esplori le radici
profonde, sia quando si guarda a fenomeni aggregati, sia quando si
esaminano meccanismi specifici. Per una trattazione più
approfondita ma estremamente accessibile dell'economia dello
sviluppo, si rinvia al testo di Debraj Ray (v., 1998). Le teorie
macroeconomiche dello sviluppo sono efficacemente sintetizzate dai
lavori di Robert J. Barro e Xavier Sala-i-Martin (v., 1995) e di
Francesco Daveri (v., 1996); quelle microeconomiche dal testo di
Pranab Bardhan e Christopher Udry (v., 1999). Infine, l'introduzione
al volume di Dilip Mookherjee e Debraj Ray (v., 2000) presenta una
rassegna sugli sviluppi teorici più recenti ispirata agli
stessi criteri che verranno seguiti in questo articolo.
L'esposizione sarà organizzata in due parti. La prima
adotterà una prospettiva macroeconomica, esplorando la natura
delle cause del sottosviluppo a livello aggregato, cioè
guardando all'economia nel suo complesso. Sarà anzitutto
ripreso brevemente l'approccio neoclassico alla teoria della
crescita, con la nozione di convergenza e le verifiche empiriche che
recentemente si sono ispirate a tale paradigma. Di seguito saranno
proposti modelli alternativi, basati sull'idea di crescita endogena,
sul concetto di equilibri multipli e sul ruolo dei fattori storici e
di quella che viene denominata 'isteresi' nel condizionare i
percorsi di crescita delle varie economie. Nella seconda parte di
questo contributo l'attenzione si sposterà sugli aspetti
microeconomici dello sviluppo. Si individueranno alcune imperfezioni
dei mercati che vincolano severamente le prospettive di crescita dei
paesi in via di sviluppo e si esaminerà in che misura diverse
istituzioni informali emerse nel tempo siano riuscite a far fronte a
tali imperfezioni. In particolare, saranno considerate delle
applicazioni al mercato del lavoro, al mercato della terra e a
quello del credito. Infine, faremo brevemente riferimento ai recenti
sforzi per incorporare nei modelli di sviluppo economico il ruolo
delle interazioni interpersonali e delle norme sociali, attraverso
quello che è stato definito, in contrapposizione al capitale
fisico, 'capitale sociale'. Ove possibile, si cercherà di
mettere in luce le implicazioni delle teorie esposte per la politica
economica, con la consapevolezza che una seria considerazione degli
aspetti di politica economica richiederebbe una trattazione a
sé.
2. Approccio macroeconomico allo sviluppo.
a) Teoria neoclassica della crescita e convergenza.
Il paradigma neoclassico della teoria della crescita si fonda sul
contributo fondamentale di Robert M. Solow (v., 1956). Nel modello
di Solow l'output prodotto da un'economia è funzione della
sua dotazione di lavoro e di capitale fisico, nonché della
tecnologia disponibile. Un'ipotesi cruciale è che i fattori
capitale e lavoro abbiano rendimenti marginali decrescenti. Dire che
vi sono rendimenti decrescenti nel capitale significa che, data la
tecnologia e tenendo costante l'ammontare di lavoro impiegato, il
prodotto aggiuntivo che risulta dall'impiego di ulteriori
quantità di capitale è positivo, ma decresce
all'aumentare dello stock totale di capitale utilizzato
(si consideri, a titolo di esempio, un lavoratore che produce
utilizzando una macchina per fotocopie; l'aggiunta di una seconda
macchina aumenterà di un certo ammontare la sua produzione;
l'aggiunta poi di una terza, una quarta, una quinta macchina, ecc.
continuerà ad aumentare la produzione, ma in misura
progressivamente minore, in quanto sarà sempre più
difficile per quel singolo lavoratore coordinare il funzionamento di
tutte le macchine). Data questa ipotesi, a parità di tassi di
risparmio e di crescita della popolazione, i paesi con dotazioni
iniziali di capitale inferiori dovrebbero attrarre maggiori
investimenti - in quanto il tasso di rendimento del capitale in quei
paesi è più alto - grazie ai quali dovrebbero crescere
più velocemente e alla fine convergere al livello di
benessere dei paesi più avanzati.
È questa, in termini molto semplificati, l'ipotesi di
'convergenza' del modello neoclassico. Occorre notare che il tasso
di crescita dei paesi durante la fase di transizione dipende da una
serie di variabili, quali il livello iniziale del reddito, il tasso
di crescita della popolazione e l'accumulazione di capitale fisico e
umano (quest'ultimo approssimato dal livello di istruzione come
misura della 'qualità' della forza-lavoro, nella versione
'ampliata' del modello di Solow). Nel lungo periodo, tuttavia,
quando il processo di convergenza è compiuto, l'unica
determinante del tasso di crescita è il progresso
tecnologico, che nel modello di Solow si ipotizza esogeno, ossia
determinato dall'esterno. Per esempio, un aumento del risparmio -
tipicamente considerato nella politica economica come uno dei motori
della crescita - nel modello neoclassico si traduce in investimento
e contribuisce a far crescere il prodotto per un certo periodo, ma
alla fine fa aumentare il rapporto capitale/lavoro, così che
il prodotto marginale del capitale diminuisce e si ritorna a un
equilibrio in cui l'unica determinante della crescita è il
tasso di progresso tecnologico.
Gli anni recenti hanno visto un massiccio aumento nella
disponibilità di dati a livello cross country,
cioè per una molteplicità di paesi, e ciò ha
alimentato una lunga serie di studi volti a convalidare (o non
convalidare) il modello neoclassico di crescita. In questi lavori -
ispirati agli articoli di Barro (v., 1991) e di N. Gregory Mankiw,
David Romer e David N. Weil (v., 1992) - il tasso di crescita del
PIL pro capite viene spiegato come funzione di diverse
categorie di variabili. Anzitutto vi è un nucleo di variabili
che il modello di Solow 'ampliato' identifica come importanti:
l'investimento in capitale fisico e quello in capitale umano
risultano in genere positivamente correlati col tasso di crescita,
nel senso che paesi con maggiori investimenti hanno tassi di
crescita del PIL più elevati. Invece, il tasso di
fertilità risulta di solito negativamente correlato con la
crescita, ossia nei paesi in cui la popolazione aumenta più
rapidamente il prodotto pro capite cresce meno. Questi tre
fattori hanno tradizionalmente ispirato politiche economiche volte
ad aumentare le infrastrutture e i beni capitali pubblici nei paesi
poveri, a incentivare gli investimenti privati (si pensi alle
manovre di liberalizzazione finanziaria), a estendere il più
possibile l'accesso all'istruzione primaria e secondaria, e a
limitare il tasso di fertilità nei paesi con maggiore
pressione demografica (ad esempio, con programmi di controllo delle
nascite).
Uno dei limiti principali degli studi empirici sopra citati è
che gran parte del differenziale di crescita fra paesi rimane non
spiegato, e quindi si invocano differenze nel 'progresso tecnico non
misurato' come responsabili delle variazioni nella performance economica tra paesi. Alcuni lavori più recenti hanno cercato
di incorporare tra le variabili esplicative della crescita anche
fattori che indirettamente influenzano la capacità di
innovare e di accumulare capitale e lavoro. Tra queste variabili ve
ne sono alcune che potremmo definire 'strutturali' - come le
caratteristiche geografiche e climatiche e la composizione etnica
della popolazione - e altre che sono frutto delle 'politiche' stesse
dei governi - come variabili di politica monetaria e fiscale, e
anche di politica commerciale. Vi è tuttavia un'importante
differenza tra queste due categorie di variabili. Quando si osserva
che i paesi senza accesso al mare o i paesi con una popolazione
etnicamente più eterogenea hanno, a parità di altre
condizioni, tassi di crescita inferiori, vi è poco che le
autorità di politica economica possano fare per modificare
quelle condizioni: in un certo senso - e soprattutto per variabili
geografiche come la mancanza di accesso al mare o l'assenza di fiumi
- questo tipo di 'spiegazioni' dei differenziali di crescita finisce
per imputarli al fato. Diverso è invece il caso delle
politiche economiche. L'evidenza empirica suggerisce che il tasso di
crescita del PIL è negativamente correlato con indicatori di
politiche commerciali protezionistiche, di iperinflazione, con i deficit del settore pubblico e con indicatori di repressione finanziaria.
Non solo queste variabili si prestano a interventi da parte delle
autorità di politica economica, ma nell'ultimo ventennio
riforme volte a ridurle sono state esplicitamente invocate da
organismi come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale
quale condizione per la concessione di prestiti a molti paesi
poveri. Infine, un terzo gruppo di variabili esplicative che sono
state introdotte negli studi sulla crescita è di natura
'istituzionale', e riguarda aspetti come il grado di corruzione, il
decentramento politico-amministrativo, i sistemi di governo e le
norme sociali (per il concetto di 'capitale sociale', v. sotto, cap.
3 § e). Attualmente, lo sforzo della ricerca è rivolto a
identificare i meccanismi attraverso cui queste variabili
condizionano le prospettive di sviluppo dei paesi, o a verificare se
le istituzioni non siano a loro volta determinate dall'ambiente
economico. A tal fine, come vedremo in seguito, l'approccio
microeconomico sembra offrire spunti particolarmente utili.
b) Modelli di crescita endogena.
Il fallimento dell'ipotesi di convergenza - cioè
l'osservazione che non è vero che i paesi più poveri
siano cresciuti a tassi più elevati di quelli ricchi fino a
raggiungerli, né che i capitali si spostino dai paesi che ne
hanno abbondanza a quelli che ne hanno scarsità (come
richiederebbe la legge dei rendimenti decrescenti) - ha spinto
alcuni studiosi a proporre teorie alternative. La principale
caratteristica di queste teorie è che i fattori responsabili
della crescita nel lungo periodo sono determinati all'interno del
modello stesso (da cui il termine crescita 'endogena')
anziché 'piovere dal cielo', come il progresso tecnologico
nel modello di Solow.
Il primo modello di questo tipo è stato proposto da Paul M.
Romer (v., 1986), il quale ha ipotizzato che l'investimento medio in
capitale fisico abbia un effetto sulla produttività
attraverso una variante del cosiddetto 'learning by doing'.
Inoltre, la conoscenza che viene in questo modo creata diviene
accessibile alle altre imprese a costo zero, così che il
tasso di progresso tecnologico nell'economia non è più
esogeno, bensì è determinato dal tasso di
accumulazione del capitale. L'elemento interessante di tale modello
è che anche se per la singola impresa esistono rendimenti
decrescenti del capitale, per la società nel suo complesso
ciò non è più vero: grazie all'esistenza di
rendimenti costanti o crescenti si genera crescita endogena. Un
risultato simile è ottenuto nel modello di Robert Lucas (v.,
1988), in cui le decisioni individuali di investimento in capitale
umano contribuiscono ad aumentarne lo stock nell'economia
e ciò crea un'esternalità positiva sulla produzione,
generando crescita endogena. Altre varianti di modelli con crescita
endogena introducono l'investimento in ricerca e sviluppo e
l'esistenza di rendite monopolistiche per le imprese che innovano e
ricavano anch'esse endogenamente il tasso di crescita. Le
implicazioni di politica economica di queste teorie sono dunque
diverse da quelle del modello di Solow e riguardano, tra le altre, i
sussidi alla ricerca e all'innovazione, le politiche anti-trust e la protezione dei diritti di proprietà intellettuale.
Nonostante il dibattito e l'interesse suscitato dalle teorie della
crescita endogena, le limitate verifiche empiriche a cui sono state
sottoposte hanno fornito risultati che non permettono di convalidare
questi modelli. In particolare, Charles Jones (v., 1995),
utilizzando serie storiche per gli Stati Uniti, mostra come a fronte
di un andamento crescente negli anni degli investimenti in ricerca e
sviluppo e in capitale umano (entrambi fattori che nei modelli di
crescita endogena dovrebbero generare un aumento nel tempo del tasso
di crescita del PIL), il tasso di crescita dell'economia
statunitense nel XX secolo sia rimasto sostanzialmente costante. Una
delle difficoltà che si incontrano nello stimare i modelli di
crescita endogena, comunque, è che tra gli elementi che li
distinguono empiricamente dalla teoria neoclassica vi è il
ruolo delle esternalità tra imprese, e che queste ultime sono
difficili da misurare. Resta dunque spazio per ulteriore lavoro
empirico in questo campo.
c) Modelli con equilibri multipli o persistenza storica.
Un'altra fonte di insoddisfazione nei confronti della teoria
neoclassica della crescita sta nel fatto che, in ultima analisi,
essa attribuisce gli squilibri nei tassi di crescita tra paesi a
'differenze intrinseche' tra le popolazioni che li abitano, per
esempio riguardo alla propensione a risparmiare o a procreare. Una
visione alternativa del fenomeno consente di dimostrare come lo
stesso paese - e quindi le stesse persone, indipendentemente dalle
loro caratteristiche intrinseche - possa trovarsi imprigionato in
situazioni con livelli di sviluppo molto diversi. In questo caso, il
fatto che alcuni paesi siano poveri e altri ricchi dipende dalle
circostanze storiche che hanno portato al raggiungimento di un
equilibrio piuttosto che un altro, ma con opportune politiche
è possibile 'spostare' i paesi poveri su una traiettoria che
li porterà all'equilibrio 'virtuoso'.
L'idea che il sottosviluppo possa essere semplicemente frutto di un
mancato coordinamento risale ai contributi di Paul Rosenstein-Rodan
(v., 1943) e Albert Hirschman (v., 1958) ed è stata
recentemente formalizzata da Kevin Murphy, Andrej Shleifer e Robert
Vishny (v., 1989). Secondo questi ultimi, è possibile che non
siano effettuati investimenti in un dato settore in quanto mancano
investimenti in un settore complementare, e che a loro volta gli
investimenti nel settore complementare non siano stati fatti
perché mancavano quelli nel primo. Per esempio, investire per
costruire una rete ferroviaria abbasserebbe i costi di trasporto
delle merci e quindi stimolerebbe l'offerta di alcuni settori
produttivi; tuttavia, in mancanza di una sufficiente espansione di
queste attività produttive potrebbe non valere la pena di
creare la rete ferroviaria. Si può dunque concepire che lo
stesso paese finisca per trovarsi in due equilibri diversi: il
primo, con bassi investimenti sia in infrastrutture che nella
produzione (sottosviluppo), il secondo, con alti investimenti in
entrambi i settori (sviluppo). Alla radice di questo meccanismo vi
è l'esistenza di esternalità tra settori, nel senso
che le scelte di investimento di uno o più settori aumentano
la profittabilità degli investimenti in altri settori,
facendo sì che l'investimento che non era vantaggioso per il
singolo settore considerato isolatamente lo sia per l'economia nel
suo complesso. È per questo che la politica economica
implicata da tale teoria prevede un coordinamento tra le aspettative
degli operatori economici e quindi tra gli sforzi di investimento
dei vari settori, in modo che questi diano una 'grande spinta' (big
push) in grado di condurre l'economia all'equilibrio
'virtuoso'.
Se l'esistenza di equilibri multipli può provocare situazioni
di sottosviluppo a causa della difficoltà di coordinare le
aspettative, un ruolo cruciale nell'influenzare le aspettative
è svolto dalla storia. L'aver osservato una carenza - per
anni o per secoli - di investimenti rende più facile
l'aspettativa che tale situazione si perpetui anche in futuro. Ma la
storia ha un ruolo ben più importante del semplice
coordinamento delle aspettative. Una seconda classe di modelli - i
più influenti dei quali sono stati quelli di Abhijit Banerjee
e Andrew Newman (v., 1993) e di Oded Galor e Joseph Zeira (v., 1993)
- studia il modo in cui una certa condizione iniziale possa
perpetuarsi e influenzare la traiettoria di sviluppo del sistema
economico. Gli autori esaminano in particolare il ruolo della
disuguaglianza nella distribuzione iniziale dei redditi in presenza
di imperfezioni nel mercato dei capitali.
Si consideri un'economia in cui vi sono tre tipi di occupazione:
come agricoltore, come lavoratore salariato nell'industria e come
imprenditore. Mentre chiunque può diventare agricoltore o
lavoratore salariato, per iniziare un'attività
imprenditoriale occorre un investimento iniziale proibitivo se non
si dispone di un prestito bancario. Il settore bancario, a sua
volta, non è disposto a concedere prestiti a tutti, in quanto
mette in conto la possibilità che una volta ottenuto il
denaro l'individuo non lo restituisca. Come vedremo anche in
seguito, un modo con cui le banche tipicamente si cautelano rispetto
a questa eventualità è quello di richiedere una
garanzia collaterale, ossia un bene o un deposito di cui la banca
possa appropriarsi in caso di mancata restituzione del prestito. In
questo caso, se gli individui differiscono nella dotazione iniziale
di ricchezza, solo i più abbienti avranno beni sufficienti da
fornire in garanzia e potranno quindi ottenere prestiti e diventare
imprenditori. Ciò ha due conseguenze: da un lato, la
disuguaglianza iniziale persisterà in quanto gli imprenditori
diventeranno sempre più ricchi e le altre due categorie
rimarranno con livelli di reddito relativamente bassi; dall'altro
lato, vi sarà un'inefficienza poiché, quando la classe
imprenditoriale è molto ristretta e vi è una gran
massa di lavoratori salariati, l'abbondanza di manodopera fa
sì che i salari rimangano a livelli bassi. Se invece alcuni
agricoltori o salariati potessero diventare imprenditori, non
migliorerebbero soltanto la propria condizione, ma anche quella del
resto dei lavoratori dipendenti, che vedrebbero aumentare i salari
grazie alla riduzione della manodopera. Insomma, in questi modelli
la disuguaglianza iniziale condiziona pesantemente le
possibilità di sviluppo dell'economia.
Si noti come, a differenza dei modelli con equilibri multipli, qui
l'inefficienza non deriva dal fatto che esistono due o più
equilibri tra cui scegliere: è possibile che l'equilibrio sia
uno solo, ma che le sue caratteristiche dipendano dalle condizioni
iniziali. In altri termini, la 'persistenza storica' fa sì
che data la disuguaglianza iniziale l'economia si sviluppi
univocamente su un certo tracciato. Si noti anche la differenza di
questa prospettiva rispetto al paradigma neoclassico. Nel modello di
Solow e nelle sue estensioni, la differenza nel grado di
disuguaglianza o nello stock di capitale fra due economie
non ha effetti persistenti se le preferenze degli individui e la
tecnologia sono le stesse: gli unici effetti riguardano il sentiero
di crescita durante la transizione all'equilibrio di lungo periodo.
Nei modelli come quelli proposti da Banerjee e Newman o da Galor e
Zeira, a parità di tecnologia e di preferenze due economie
con diversi livelli iniziali di disuguaglianza potranno essere per
sempre diverse.
Le implicazioni di politica economica di questi modelli, poi, sono
diverse sia da quelle del paradigma neoclassico, sia da quelle dei
modelli con equilibri multipli. O si correggono le imperfezioni del
mercato del credito (ma è difficile pensare che sia possibile
farlo a tal punto da rendere ininfluente la ricchezza iniziale del
cliente per le decisioni di una banca), oppure si ricorre a
politiche ridistributive che modifichino la distribuzione della
ricchezza a vantaggio dei meno abbienti.
3. Approccio microeconomico allo sviluppo.
Molti dei recenti modelli macroeconomici di sviluppo (non solo
quelli finora descritti) si fondano su qualche genere di
imperfezione dei mercati - per esempio del mercato dei capitali -
senza tuttavia approfondirne le origini. In questo capitolo
esamineremo il funzionamento delle economie dei PVS concentrandoci
sui problemi di informazione e di implementazione dei contratti, che
ostacolano il funzionamento dei mercati, e prendendo in esame alcune
'istituzioni informali' che sono emerse in questi paesi per far
fronte alle suddette imperfezioni. Cominceremo dalla più
basilare tra le istituzioni, la famiglia, analizzando in che misura
l'allocazione delle risorse tra i membri di una stessa famiglia
può essere inefficiente e come le norme sociali condizionino
il ruolo della famiglia nelle economie arretrate. Passeremo poi a
studiare le imperfezioni nei mercati del lavoro, della terra e del
credito. Infine, torneremo a considerare le relazioni sociali e le
funzioni economiche svolte da gruppi e networks nell'ambito di quegli stessi mercati di cui avremo valutato le
imperfezioni.
a) La famiglia.
Gli abitanti dei PVS, nella maggioranza dei casi, traggono almeno
parte del loro reddito da attività lavorative effettuate
all'interno della famiglia, sia in ambito rurale, dove spesso
coltivano il proprio campo insieme ai familiari, sia in ambito
urbano, dove gestiscono microimprese o attività di piccolo
commercio anche in questo caso con l'aiuto di familiari. Comprendere
i meccanismi decisionali all'interno della famiglia è quindi
cruciale per capire non solo come le risorse disponibili siano
divise tra i suoi membri, ma anche quante siano in assoluto le
risorse generate.
Consideriamo anzitutto il problema dell'allocazione di un dato
ammontare di risorse tra i membri della famiglia. Sia data una
famiglia con un certo numero di componenti, ciascuno dei quali
dispone di un certo reddito e in cui si deve decidere quanto
verrà consumato da ciascuno e quanto invece verrà
investito per il benessere di ciascuno (per esempio, nell'istruzione
dei singoli individui). La teoria microeconomica neoclassica ha
tradizionalmente rappresentato questa situazione come il problema
decisionale di un'unica entità virtuale, la 'famiglia
unitaria', nella quale tutti i membri hanno le stesse preferenze e
tutti i redditi vengono cumulati indipendentemente dalla loro
provenienza. A partire dagli anni ottanta tale formalizzazione venne
messa in discussione e si cominciò a pensare alla famiglia
come a un insieme di individui con preferenze diverse che dovevano
arrivare a delle decisioni sulle variabili di interesse comune
attraverso un meccanismo di contrattazione. Nel processo di
contrattazione la variabile più importante è la
'posizione di riserva' su cui ciascun individuo può contare
nel caso di mancato raggiungimento di un accordo. Per esempio, se
moglie e marito sono in disaccordo circa l'opportunità di
istruire i figli, e se l'alternativa a una decisione comune è
che uno dei coniugi esca dal nucleo familiare, allora c'è da
aspettarsi che il coniuge che ha più da perdere dalla
separazione sia quello le cui preferenze conteranno di meno nella
decisione, in quanto la sua posizione contrattuale è
più debole (la minaccia di tenere duro e non accettare un
accordo che non sia in sintonia con le proprie preferenze è
meno credibile).
Numerosi studi hanno cercato di verificare empiricamente la
validità del modello di famiglia unitaria rispetto a quello
di contrattazione. Fra i primi ricordiamo il lavoro di Duncan Thomas
(v., 1991), il quale utilizzando un campione molto ampio di famiglie
brasiliane ha studiato come le decisioni di consumo dei membri della
famiglia rispondessero a una misura del potere contrattuale dei
coniugi costituita dalla loro quota di redditi non da lavoro -
cioè quale ammontare di pensione, donazioni e redditi da
capitale riceveva la moglie e quale il marito (i redditi da lavoro
vengono esclusi dall'analisi in quanto sono essi stessi frutto di
una contrattazione: quella su chi debba lavorare al di fuori della
famiglia e per quante ore). Thomas rileva che all'aumentare del
potere contrattuale della donna aumenta la quota di risorse dedicata
all'alimentazione dei figli e diminuisce il tasso di
mortalità infantile. Questo effetto è particolarmente
pronunciato nel caso delle bambine, ovvero, mentre la madre investe
più del padre nell'alimentazione dei figli di entrambi i
sessi, la discrepanza tra madre e padre è maggiore per le
scelte riguardanti le bambine. Risultati simili sono stati ottenuti
da Mark Pitt e Shahidur Khandker (v., 1998) nello studio
sull'impatto dei prestiti concessi da istituzioni di microfinanza
(v. sotto, § d) alle famiglie del Bangladesh. Gli autori
trovano che i prestiti concessi alle donne hanno un impatto maggiore
sul tasso di iscrizione scolastica dei figli e delle figlie rispetto
ai prestiti concessi agli uomini, e che la differenza è
particolarmente marcata per quanto riguarda l'istruzione delle
bambine.
Un secondo problema legato alla divisione delle risorse all'interno
della famiglia concerne l'efficienza delle scelte di produzione.
Come accennato sopra, una frazione significativa del reddito nei PVS
è prodotta all'interno della famiglia, e individuare delle
inefficienze nella produzione familiare significa trovare che il
totale delle risorse disponibili per ciascuna famiglia è
più basso di quanto potrebbe essere se i compiti fossero
divisi diversamente. In un recente articolo, Christopher Udry (v.,
1996) studia l'efficienza della produzione agricola utilizzando dati
molto dettagliati sulle famiglie del Burkina Faso relativi, in
particolare, ai singoli appezzamenti coltivati da ogni membro della
famiglia. Dopo aver controllato il tipo di coltivazione, la
fertilità del suolo e l'estensione dell'appezzamento, Udry
osserva che i terreni coltivati dalle donne rendono meno per
unità di superficie. In altri termini, a parità di
qualità del terreno, un ettaro coltivato da una donna produce
un raccolto inferiore a quello ottenuto se a coltivarlo è un
uomo della stessa famiglia. Il risultato non è imputabile a
presunta pigrizia o minore abilità delle donne, bensì
al fatto che sugli appezzamenti gestiti dagli uomini vengono
impiegate maggiori quantità di fertilizzanti, maggiore
forza-lavoro (nel senso di lavoratori salariati o figli che lavorano
sul campo del padre ma non su quello della madre), insomma viene
riversata una quantità maggiore di input che aumenta la
produttività del lavoro di chi coltiva quegli appezzamenti.
Ciò costituisce una soluzione inefficiente, in quanto sarebbe
ottimale per la famiglia nel suo complesso spostare alcuni di questi
input sulle terre gestite dalle donne (dove, in base al principio
dei rendimenti decrescenti, il loro contributo all'aumento del
prodotto sarebbe maggiore), oppure lasciare che tutti gli
appezzamenti siano gestiti da uomini (quindi con abbondanza di
input) prevedendo un trasferimento compensativo per le donne. Se
tutto questo non avviene è segno che i meccanismi di
contrattazione all'interno della famiglia non consentono di
utilizzare le risorse in maniera efficiente; vi sarebbe quindi
spazio per miglioramenti nella qualità della vita degli
individui che in realtà non avvengono.
Gli studi sopra citati hanno importanti implicazioni di politica
economica. Se la divisione del potere contrattuale influenza
l'allocazione delle risorse all'interno della famiglia, i programmi
di lotta alla povertà che trattano la famiglia come
un'entità indifferenziata sono destinati a mancare almeno in
parte i propri obiettivi. Per esempio, politiche di trasferimenti
indirizzate al capofamiglia avranno effetti diversi da programmi che
offrano opportunità di lavoro o accesso al credito alle
donne.
b) Mercati del lavoro.
Sin dalla metà del XX secolo la teoria economica ha
rappresentato in maniera diversa il funzionamento delle economie
avanzate e di quelle in via di sviluppo appellandosi a un diverso
funzionamento del mercato del lavoro. Sebbene quest'ultimo (come
vedremo nei paragrafi seguenti) non sia il solo su cui gravano
imperfezioni e problemi informativi, è senz'altro utile
iniziare l'analisi dei mercati nei PVS partendo da esso. La
disoccupazione involontaria nelle economie arretrate rappresenta una
sfida alla teoria economica. Infatti nei paesi industrializzati uno
dei motivi addotti per l'esistenza di tale fenomeno è che i
salari sono 'relativamente troppo alti', e che non possono diminuire
fino a eguagliare domanda e offerta a causa della presenza di
sindacati e di altri vincoli istituzionali. Tuttavia, nei PVS queste
motivazioni sono piuttosto deboli e il 'fallimento del mercato'
nell'eliminare o ridurre la disoccupazione rimane difficile da
chiarire.
Una delle spiegazioni avanzate dalla fine degli anni cinquanta (v.
Leibenstein, 1957) mette in relazione la produttività del
lavoro con l'apporto nutrizionale, e sostiene che il motivo per cui
il salario non diminuisce fino a eguagliare domanda e offerta
è che altrimenti i lavoratori non avrebbero abbastanza da
mangiare e sarebbero troppo 'deboli' per essere produttivi. È
interessante che questa spiegazione, nata con riferimento esplicito
ai PVS, sia poi stata applicata ai paesi industrializzati nella
versione dei 'salari di efficienza', secondo cui i salari possono
non diminuire in presenza di disoccupazione perché altrimenti
i lavoratori sarebbero 'meno motivati' a essere altamente
produttivi. Successivamente, il modello è stato esteso al
caso in cui i lavoratori hanno accesso a diverse fonti di reddito
alternative (v. Dasgupta e Ray, 1986). Per esempio, alcuni hanno un
piccolo appezzamento di terreno da cui trarre la propria sussistenza
e altri sono senza terra: in tal caso, per i datori di lavoro
è più conveniente assumere i primi (dal momento che
è sufficiente 'aggiungere' un salario inferiore perché
questi arrivino alla soglia nutrizionale), e ci si può
aspettare che siano i senza terra a rimanere disoccupati. In termini
di politica economica, la teoria implica che una ridistribuzione
della terra (per esempio dai grandi proprietari terrieri ai senza
terra) aumenterebbe il prodotto aggregato, in quanto alcuni dei
lavoratori precedentemente disoccupati sarebbero messi in grado di
produrre. Per quanto interessante da un punto di vista concettuale,
questa teoria ha finora ricevuto una limitata conferma empirica.
Un secondo filone di studi si concentra su un'altra caratteristica
peculiare dei PVS: l'esistenza di mercati del lavoro 'a più
livelli'. Una delle dimensioni su cui i livelli sono definiti
è la durata del contratto di lavoro. Tipicamente si osservano
due tipi di contratti: quelli a lunga durata, che impegnano il
lavoratore per tutto l'anno o per tutto il ciclo della produzione
agricola, e quelli a breve o 'casuali'. Questi ultimi coinvolgono un
gran numero di individui che vengono assunti 'a giornata' o comunque
per periodi e con compiti molto limitati. Nonostante il salario dei
primi sia in media superiore a quello dei secondi, la potenziale
competizione tra i lavoratori non elimina il differenziale
salariale. Un'interessante spiegazione in merito è stata
fornita da Mukesh Eswaran e Ashok Kotwal (v., 1985). Gli autori
partono dal fatto che alcuni compiti in agricoltura richiedono
particolare cura e sono difficili da monitorare (per esempio,
l'aratura, la semina, l'impiego di fertilizzanti e l'irrigazione),
mentre altri sono più ripetitivi e più facilmente
monitorabili (per esempio, la raccolta). In questo caso può
essere conveniente per un proprietario terriero assumere con
contratti a breve quel tipo di manodopera a cui non si richiede
particolare 'lealtà', e offrire invece un impiego stabile a
chi deve svolgere incarichi più complessi. Infatti, chi
beneficia di un contratto a lungo termine ben remunerato avrà
un incentivo a comportarsi correttamente per non perdere questo
vantaggio qualora risultasse ex post che una produzione
insufficiente è imputabile a mancanza di sforzi adeguati da
parte sua. La necessità di fornire incentivi a comportarsi
lealmente può dunque spiegare il differenziale salariale tra
lavoratori con contratti a lunga e a breve scadenza. Un'altra
possibile spiegazione deriva dalla stagionalità dell'impiego
agricolo, per cui la manodopera è molto abbondante in bassa
stagione, ma è relativamente scarsa nel periodo del raccolto.
In tale contesto, può essere vantaggioso per il proprietario
assumere un certo numero di lavoratori su base annuale, garantendo
loro un lavoro durante la bassa stagione ma assicurandosene la
disponibilità in quella alta. Ciò fornisce anche
un'assicurazione contro le fluttuazioni di reddito per il
lavoratore, data l'incertezza sulle condizioni salariali nel periodo
del raccolto.
c) Mercati della terra.
Un'ulteriore fonte di inefficienza nel funzionamento delle economie
agricole è legata alle forme contrattuali impiegate per
l'affitto della terra. Le forme più diffuse nei PVS sono due:
i contratti di 'rendita fissa' e quelli di mezzadria. Coi primi
l'affittuario si impegna a pagare una somma fissa al proprietario
terriero per utilizzare un appezzamento, e trattiene la rimanente
parte del raccolto. Nel contratto di mezzadria, invece, il pagamento
è fornito da una quota del raccolto, che può essere la
metà (come suggerisce il termine), ma anche inferiore o
superiore. La differenza tra le due forme in termini di incentivi
era già stata riconosciuta dall'economista inglese Alfred
Marshall alla fine del XIX secolo, quando sosteneva che il sistema
inglese di rendita fissa era più efficiente di quello
francese incentrato sulla mezzadria (da qui l'appellativo di
'inefficienza marshalliana'). Per capire la ragione di tale
inefficienza occorre partire dalla constatazione che molto spesso
l'impegno dell'affittuario non è monitorabile: si può
osservare l'entità del raccolto, ma è difficile
giudicare se un'eventuale scarsità sia dovuta a crisi esterne
oppure a negligenza da parte di chi ha coltivato la terra. Sapendo
di non poter essere monitorato, l'affittuario sceglierà
quanto e come lavorare in base a cosa gli risulta più
conveniente. Con un contratto di mezzadria ogni chilogrammo di
prodotto in più deve essere diviso col proprietario, mentre
con la rendita fissa - una volta pagato l'ammontare pattuito -
qualunque incremento residuo di raccolto viene trattenuto
interamente dall'affittuario. È per questo che la rendita
fissa fornisce più incentivi a lavorare, e quindi si traduce
in una produzione maggiore.
Analisi recenti hanno sottolineato un aspetto complementare che
contribuisce a spiegare come mai la mezzadria sia ancora ampiamente
utilizzata in Asia e in America Latina, nonostante la sua presunta
inefficienza. Tale aspetto riguarda il rischio connesso alla
produzione agricola e la possibilità di condividere tale
rischio per il proprietario e per l'affittuario. Nello schema di
rendita fissa l'affittuario è tenuto a pagare l'ammontare
pattuito sia nelle buone che nelle cattive annate: ogni shock negativo alla produzione agricola viene da lui interamente
assorbito. Nella mezzadria, invece, il pagamento è
specificato come quota del prodotto, così che eventuali
perdite di raccolto ricadono solo parzialmente sull'affittuario.
Ciò fa sì che, se quest'ultimo è più
avverso al rischio del proprietario (il che è altamente
probabile, visto che in genere è molto più povero),
possa essere ottimale per lui sottoscrivere un contratto di
mezzadria, che gli fornisce una forma di 'assicurazione', piuttosto
che uno di rendita fissa. Naturalmente, dal punto di vista del
rischio la cosa ideale sarebbe percepire un salario fisso,
indipendente dall'andamento del raccolto, ma in questo caso
verrebbero meno gli incentivi a lavorare con sufficiente impegno. Il
contratto di mezzadria può quindi essere interpretato come un
compromesso tra l'esigenza di fornire incentivi e quella di offrire
assicurazione.
La teoria dell'inefficienza marshalliana, unita a un'ampia evidenza
empirica circa la minore produttività dei grandi appezzamenti
coltivati da affittuari rispetto ai piccoli appezzamenti coltivati
dai proprietari stessi, ha ispirato numerosi tentativi di riforme
fondiarie. In alcuni Stati dell'India, per esempio, le riforme hanno
avuto non solo lo scopo di frammentare la grande proprietà
concedendo lo status di proprietario anche ai piccoli
contadini, ma anche di migliorare le condizioni contrattuali di
coloro che rimanevano mezzadri, attraverso l'abolizione di
intermediari e la promozione di 'campi di registrazione' in cui gli
affittuari si registravano ufficialmente e acquisivano una serie di
diritti (v. Besley e Burgess, 2000; v. Banerjee e altri, 2002).
Nonostante gli effetti positivi di tali riforme in termini di lotta
alla povertà, quello delle riforme fondiarie rimane tuttora
uno dei temi più controversi nella politica economica dei
PVS, soprattutto per le sue implicazioni politiche.
d) Mercati del credito.
Come già messo in luce da alcuni modelli macroeconomici
precedentemente esaminati, l'esistenza di imperfezioni nei mercati
dei capitali rappresenta uno degli ostacoli principali alla crescita
dei paesi poveri. In questo paragrafo concentreremo l'attenzione
sulla natura di tali imperfezioni nei PVS, indagando quali siano i
vincoli che gli individui incontrano nell'accesso al credito e in
che modo questi vincoli possano essere in parte attenuati sfruttando
strutture istituzionali di tipo informale.
Una transazione di credito è un atto di scambio
intertemporale in cui un individuo riceve denaro (o beni)
impegnandosi a ripagare in una data futura. Come tale essa è
intrinsecamente soggetta a problemi di informazione, sia nel senso
che spesso l'affidabilità di chi prende a prestito non
è nota al creditore al momento del contratto, sia
perché dopo aver ricevuto il prestito il debitore può
compiere delle azioni non osservabili dal creditore che vanno a
svantaggio di quest'ultimo (per esempio, può non sforzarsi
abbastanza di lavorare in modo da essere in grado di ripagare). Un
importante contributo di Joseph Stiglitz e Andrew Weiss (v., 1981)
illustra le implicazioni di tali problemi informativi per il mercato
del credito. Si consideri una banca che deve scegliere a chi
concedere un prestito tra una serie di individui più o meno
rischiosi, nel senso che i loro progetti di investimento hanno
diverse probabilità di successo. Un'ipotesi cruciale del
modello è che gli individui conoscano il proprio grado di
affidabilità, mentre la banca non sia in grado di appurarlo.
Una seconda ipotesi è quella in cui, in caso di fallimento
del progetto, il debitore perde al massimo la garanzia collaterale
che ha offerto in pegno, ma non può essere costretto a
ripagare l'intero ammontare per mancanza di risorse
('responsabilità limitata'). Nel fissare il tasso di
interesse sul prestito, la banca deve dunque tenere presente che un
dato tasso potrebbe incoraggiare ad accettare il prestito sia gli
individui sicuri che quelli rischiosi, e deve fare in modo di non
causare un peggioramento del proprio portafoglio-clienti attraverso
la scelta delle condizioni contrattuali. In particolare, se il tasso
di interesse fissato è relativamente basso, possiamo supporre
che sia gli individui rischiosi, sia quelli sicuri saranno
invogliati a prendere a prestito. Tuttavia, man mano che il tasso di
interesse aumenta, gli individui sicuri hanno sempre meno interesse
a sottoscrivere il prestito, in quanto sanno che con alta
probabilità i loro progetti avranno successo e che dovranno
pagare un alto interesse; al contrario, gli individui rischiosi sono
relativamente più propensi ad accettare interessi elevati, in
quanto sanno che con alta probabilità non li ripagheranno. La
banca può quindi prevedere che se aumenta il tasso di
interesse sui prestiti oltre un certo livello, il mutamento nella
composizione dei propri clienti (cioè l'aumento della
proporzione di clienti rischiosi, che è un fenomeno di
'selezione avversa') andrà a proprio svantaggio poiché
ci sarà un elevato numero di prestiti non ripagati. È
quindi possibile che, anche se al tasso di interesse corrente la
domanda di prestiti eccede l'offerta, le banche si rifiutino di
aumentare i tassi proprio per non scoraggiare i clienti migliori.
Questa è una delle spiegazioni più convincenti del
fenomeno del 'razionamento del credito', molto diffuso nei PVS, per
cui si osserva un consistente eccesso di domanda di prestiti senza
che il prezzo di tali prestiti (l'interesse) aumenti per stabilire
l'equilibrio sul mercato del credito.
Partendo dai severi limiti di informazione cui è soggetto il
settore formale del credito nei PVS (spesso i clienti vivono a
grande distanza dalla filiale a cui si rivolgono ed è molto
costoso raccogliere informazioni sul loro conto), si comprende il
proliferare di una serie di istituzioni informali che concedono
prestiti a clienti locali su cui hanno un vantaggio relativo
d'informazione. Tralasciando i prestiti concessi da amici e parenti
(generalmente di modesta entità; a tale proposito, si osserva
come sia molto frequente che i trasferimenti ricevuti da amici e
parenti non siano considerati dai beneficiari come veri e propri
'prestiti a interesse', bensì come 'aiuti' ricevuti in
seguito a shocks negativi, che l'individuo si impegna a
ricambiare qualora la controparte ne avesse bisogno; per un
interessante contributo sul ruolo della reciprocità negli
schemi di mutua assicurazione, v. Coate e Ravallion, 1993), molto
diffusa è la presenza di usurai che esercitano un certo
potere di monopolio sulla propria clientela.
In tempi recenti è cresciuta l'attenzione rivolta a
organizzazioni tradizionali per la raccolta del risparmio e la
concessione di prestiti, tra cui per esempio le 'associazioni di
risparmio e credito rotativo' (ROSCA, Rotating Saving and
Credit Associations; v. Besley e altri, 1993). Tali forme
associative, sviluppatesi spontaneamente e diffuse in tutto il
mondo, sono costituite da gruppi di persone che si incontrano a
intervalli regolari versando una certa somma in una cassa comune; di
volta in volta l'intera cassa viene assegnata a uno dei membri
secondo criteri di estrazione casuale o meccanismi d'asta. In alcuni
casi, parte dei fondi raccolti viene trattenuta e prestata a
interesse ai membri che ne facciano richiesta. Le ROSCA sono
considerate un utile punto di riferimento per quanti studiano lo
sviluppo della finanza locale nei PVS, grazie alla loro
capacità di mobilitare il risparmio e all'utilizzo di
meccanismi di pressione sociale per far rispettare i termini
dell'accordo.
La principale innovazione negli strumenti di credito offerti
all'interno dei PVS nell'ultimo ventennio è probabilmente
costituita dai programmi di credito per gruppi (PCG). I primi
programmi furono introdotti alla fine degli anni settanta dalla
Grameen Bank del Bangladesh, fondata da Muhammad Yunus, un
professore di economia. Partita come tentativo di concedere prestiti
in pochi villaggi del Bangladesh, al settembre del 2002 essa contava
oltre 2,4 milioni di clienti ed era presente nel 60% dei villaggi
del paese. Il modello Grameen è diventato un cavallo di
battaglia della microfinanza, ossia dei programmi volti alla
concessione di prestiti a individui troppo poveri per avere accesso
a prestiti di banche commerciali o governative, ed è ormai
diffuso in tutto il mondo (per un'accurata rassegna sui programmi di
credito per gruppi, v. Ghatak e Guinnane, 1999). L'elemento
fondamentale dei PCG è che gli individui, anziché
presentarsi singolarmente per ottenere un prestito, costituiscono un
gruppo insieme a dei partners che saranno poi responsabili
in solido per il ripagamento; inoltre non è richiesta alcuna
garanzia collaterale. Nel caso di Grameen, i gruppi sono formati da
cinque persone che presentano ciascuna un progetto per l'utilizzo
del prestito richiesto (in genere l'avviamento di laboratori
artigianali o attività di commercializzazione); i funzionari
valutano l'affidabilità del gruppo ed elargiscono i prestiti
in maniera sequenziale, così che il ripagamento puntuale di
chi ha ottenuto il prestito per primo è condizione necessaria
perché chi segue ottenga il proprio prestito. Il mancato
ripagamento da parte di un membro del gruppo comporta l'esclusione
futura dai prestiti di tutti i membri, anche quelli più
'diligenti'. Questa clausola, detta 'responsabilità
congiunta', è molto importante in quanto fornisce ai membri
del gruppo gli incentivi per scegliere dei partners non
rischiosi e per monitorarsi a vicenda una volta ottenuto il
prestito, in modo che tutti esercitino il massimo impegno nel lavoro
per essere in grado di ripagare puntualmente. Ciò costituisce
un rimedio efficace ai problemi informativi discussi sopra, in
quanto chi sceglie di formare un gruppo di solito appartiene allo
stesso villaggio e conosce bene gli altri membri: in questo modo il
flusso di informazioni e la capacità di monitoraggio che
mancano all'istituzione bancaria vengono forniti dalla struttura
sociale. Anche se chi prende a prestito da Grameen non è
tenuto a offrire una garanzia collaterale, i legami sociali
esistenti tra i membri fungono da 'collaterale virtuale' e finora
hanno assicurato un tasso di ripagamento intorno al 98%.
e) Capitale sociale.
Le relazioni sociali sono ormai riconosciute come un'importante
determinante della performance economica non solo nel
settore del credito, ma anche per la diffusione delle informazioni e
la possibilità di far rispettare gli accordi e far funzionare
le istituzioni. In un influente e controverso studio sulle regioni
italiane, Robert Putnam (v., 1993) ha messo in relazione
l'efficienza dei governi locali nel promuovere lo sviluppo regionale
con la densità delle reti associative e di altre forme di
collaborazione 'civica', sostenendo che la differente performance tra il Nord e il Sud dell'Italia poteva essere in parte spiegata
proprio da questi fattori. L'entità e la qualità delle
relazioni associative di un individuo o una comunità e
l'insieme delle norme sociali a esse connesse sono state
recentemente indicate con il termine di 'capitale sociale', per
suggerire che costituiscono uno stock di capitale che
entra nella funzione di produzione e contribuisce alla creazione di
output in maniera paragonabile agli altri fattori, quali il lavoro e
il capitale fisico (per una rassegna sul concetto di capitale
sociale e sulle sue applicazioni, v. Dasgupta e Serageldin, 2000).
L'idea che la partecipazione a gruppi e la diffusione di norme
sociali improntate alla fiducia possano mitigare gli effetti di
alcuni fallimenti del mercato è stata quindi estesa a una
varietà di contesti. Numerosi studi empirici sui PVS hanno
riscontrato che comunità con maggiore 'capitale sociale' sono
più efficienti nella fornitura di beni pubblici locali e
nella gestione di risorse naturali: la maggiore coesione tra gli
individui consente infatti di mitigare i problemi di free
riding presenti, ad esempio, nella gestione dei canali di
irrigazione o nella regolamentazione della pesca in piccoli bacini
(v. Wade, 1988; v. Platteau, 2000). Recenti studi hanno dimostrato
che l'esistenza di una fitta rete di relazioni interpersonali nelle
aree rurali facilita l'adozione di innovazioni, promuovendo
così il progresso tecnologico nel settore agricolo, in quanto
gli agricoltori imparano dall'esperienza altrui e hanno la
possibilità di scambiarsi informazioni. Anche lo sviluppo
finanziario risulta facilitato dalla presenza di 'capitale sociale',
in quanto grazie alla maggiore propensione a fidarsi della propria
controparte è possibile introdurre forme di pagamento
più sofisticate (come gli assegni o i conti bancari). Al
contrario, recenti studi su alcune comunità rurali africane
hanno rilevato che villaggi la cui popolazione era particolarmente
eterogenea (soprattutto in termini di etnie) e in cui l'aggregazione
sociale era più debole avevano difficoltà a gestire
risorse comuni, quali le scuole pubbliche o le cooperative di
produzione.
Nonostante la comprensione teorica di questi temi sia ancora
limitata e l'evidenza empirica non sia abbondante come in altri
campi, lo studio delle relazioni interpersonali in rapporto ai
fallimenti del mercato sembra oggi una delle strade più
promettenti per comprendere i vincoli sociali allo sviluppo.
4. Conclusioni.
Per tornare alle domande che ci siamo posti all'inizio della
trattazione, è ovvio che l'economia dello sviluppo negli
ultimi vent'anni non è riuscita a fornire risposte
esaurienti; possiamo però affermare, senza peccare di
eccessivo ottimismo, che sono stati fatti passi da gigante. È
ragionevole pensare che i contributi metodologici e l'accumularsi
lento ma continuo di un patrimonio di esperienza empirica
contribuiranno a una comprensione sempre più profonda delle
radici dello sviluppo: una comprensione che non si tradurrà
nell'offerta di 'ricette' di politica economica adatte a ogni
contesto, ma che partendo dalla conoscenza degli aspetti micro e
macroeconomici saprà stimolare uno sviluppo dell'economia di
mercato compatibile con i vincoli socio-istituzionali locali.