Sviluppo economico

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Fenomeno durevole nel tempo consistente nella crescita di alcune variabili reali del sistema: produzione, consumi, investimenti, occupazione. In politica economica, per politica dello s.e. si intende la creazione delle condizioni favorevoli allo s.e. e anche l'elaborazione e l'attuazione di piani organici di investimenti pubblici e la coordinazione di investimenti privati.

Indici dello sviluppo economico

Con specifico riferimento all'ambito macroeconomico, come indice del grado di s.e. raggiunto da un paese si utilizza in genere la variabile del reddito reale per abitante o il prodotto interno lordo pro capite. Questo indice sintetico, tuttavia, è stato sottoposto a forti critiche, in quanto dalla sua evoluzione nel tempo non possono essere tratte valutazioni né sul livello di benessere raggiunto da un paese né, tanto meno, sulla distribuzione del reddito al suo interno. Per questo motivo si ricorre ad altri parametri, quali la struttura per età della popolazione (che nei paesi in via di sviluppo è caratterizzata da alti tassi di natalità) o l'indice della qualità fisica della vita (che tiene conto della speranza di vita, la quale si riduce in proporzione all'aumento della povertà, della mortalità infantile ecc.). aiuti allo sviluppo

Sin dalla fine della Seconda guerra mondiale numerosi paesi in via di sviluppo (→ PVS) hanno fatto ricorso al prestito estero, concesso da privati, governi od organismi internazionali quali il Fondo monetario internazionale (FMI) e la Banca Mondiale, per finanziare gli investimenti interni a causa del loro basso livello del risparmio. Nel corso del 20° sec., l'eccessivo ricorso al finanziamento proveniente dall'estero e condizioni avverse sui mercati interni e internazionali (quali fluttuazioni dei cambi, recessioni economiche ecc.) hanno portato gli organismi internazionali a rinegoziare il debito estero e, in alcuni casi, a cancellare parte dei finanziamenti stessi.

Sviluppo economico - approfondimento di Fabio Massimo Parenti

Lo sviluppo economico rappresenta un tema centrale dell'economia e delle scienze sociali in genere. Tuttavia troppo spesso viene confuso o fatto coincidere tout court con la crescita economica. In realtà si tratta di questioni diverse: la crescita dell'economia è necessaria ma non sufficiente allo sviluppo economico, che, a differenza del primo concetto, è etimologicamente connotato da una maggiore attenzione verso la qualità, ossia verso ciò che non è sempre calcolabile (come il benessere, l'utilità e l'equità sociale). Lo sviluppo economico, infatti, non è solo materiale ma corrisponde anche a una condizione di progresso sociale (sviluppo sociale) e, in tempi più recenti, anche di compatibilità ambientale (sviluppo sostenibile).L'approccio unilineare nell'interpretazione dello sviluppo economico

Una interpretazione dello sviluppo economico fa diretto riferimento al processo di modernizzazione. In questo caso si adotta un approccio unilineare per il quale lo sviluppo economico è il punto di arrivo di un processo storico, che, da una condizione di economia tradizionale e di arretratezza, si muove in qualsiasi parte del mondo lungo la stessa traiettoria e con fasi di sviluppo simili. Semplificando: da una società prevalentemente agricola, poco specializzata e dotata di uno scarso livello di sviluppo tecnico, si passa progressivamente a fasi di industrializzazione e inurbamento diffuso della popolazione. Un processo in cui cambia pertanto l'organizzazione e la composizione settoriale della produzione (e, di conseguenza, della natura e della dimensione delle imprese) e dell'occupazione, in un primo momento a favore dell'industria e, più tardi, dei servizi, mentre nel contempo aumenta la disponibilità di capitale, si articola maggiormente la divisione del lavoro e si hanno significative innovazioni tecnologiche. Gli effetti di questi sviluppi coinvolgono numerosi aspetti economici come le propensioni al consumo e al risparmio, e l'aumento della domanda di servizi avanzati, a loro volta condizionati da nuove condizioni sociali che implicano la diffusione e il miglioramento dei sistemi d'istruzione e una crescente circolazione di informazione. Questa interpretazione, che si basa sul dualismo tradizione/modernità di T. Parsons, e sulla teoria degli stadi di sviluppo dello storico dell'economia W.W. Rostow (1916-2003; società tradizionale, condizioni preliminari per il decollo, decollo, maturità di sviluppo, grande sviluppo di massa), è un modo utile per vedere e sintetizzare i fattori comuni ai vari processi di sviluppo, ma risulta nel contempo limitata nel cogliere le specificità storiche e soprattutto il rapporto complicato fra fattori endogeni ed esogeni che intervengono nello sviluppo di una data area geografica. Sia il mondo capitalistico sia quello socialista sono stati influenzati da questo approccio unilineare: il primo vedeva nel consolidamento del capitalismo la fase più alta di sviluppo delle società umane, mentre il secondo individuava il comunismo come il punto di arrivo di un lungo processo evolutivo, che però doveva passare da un'esperienza capitalistica per la sua realizzazione.L'approccio multilineareL'evoluzione delle scienze sociali ha tuttavia elaborato, nel corso degli anni, altri approcci: in partic. l'approccio storico-multifattoriale di A. Gerschenkron (1904-1979) e di B. Moore junior (1913-2005) ha mostrato l'esistenza di più vie allo sviluppo, coerentemente a ciò che si registra empiricamente: infatti i sistemi capitalistici risultano storicamente differenziati, per quanto riguarda il ruolo dello Stato e per la diversità di condizioni storico-culturali dei paesi poveri. Una interpretazione multilineare è suggerita in partic. dai numerosi studi sul rapporto sviluppo/sottosviluppo.

L'approccio multilineare si compone di due filoni. L'interpretazione neomarxista allo sviluppo economico intende superare la dicotomia tradizione/modernità, facendo riferimento al rapporto fra sviluppo e sottosviluppo. In questo caso il sottosviluppo di molti paesi era letto anche in base all'azione dei fattori globali esogeni (per es., colonialismo e neocolonialismo) che intervenivano ad alimentare certe condizioni di arretratezza o di ammodernamento. Non è un caso che G. Frank, uno dei più importanti esponenti di questa tradizione, abbia parlato di "sviluppo del sottosviluppo", intendendo quel processo internazionale attraverso il quale i paesi sviluppati del centro si avvantaggiavano di risorse e manodopera a basso prezzo dei paesi della periferia. Questa condizione di dipendenza, subita dalla periferia e gestita dal centro, ha permesso di inserire il tema complesso dello sviluppo economico in un quadro più ampio, capace di contemplare l'azione degli organismi finanziari internazionali e delle imprese multinazionali, nonché la forma e le ragioni dello scambio internazionale. Nel contempo si sviluppava un intenso dibattito sul ruolo dello Stato nell'economia (sempre in relazione allo sviluppo economico) che, alla luce di diverse e complesse esperienze storiche, ha portato a un indebolimento della tradizione statalista novecentesca di stampo keynesiano e al rafforzamento della cd. dottrina neoliberale, la quale abbina a un rifiuto dell'economia dello sviluppo (vista come disciplina statalista) la fusione fra alcune idee tratte dall'economia neoclassica e una politica antistatalista e mercantilista. Abbraccia ambedue i filoni un approccio 'istituzionalista' allo sviluppo economico. La celebre opera di A. Smith, La ricchezza delle nazioni, intendeva spiegare le origini e le cause di questa ricchezza. Ma a distanza di due secoli e mezzo gli economisti ancora non sono riusciti a darne una spiegazione compiuta. Tuttavia, come detto, un ruolo cruciale sembra essere giocato dalle istituzioni nel garantire un equilibrato rapporto fra i poteri fondamentali (legislativo, esecutivo, giudiziario), un quadro normativo di certezza dei contratti, un ambiente sociale orientato alla ricerca del consenso, una burocrazia efficiente, una tensione verso l'eguaglianza nella dignità e nel censo.


Enciclopedia delle Scienze Sociali (1998)

di Franco Volpi

Sviluppo economico

sommario: 1. Definizione. 2. Lo sviluppo dell'economia capitalistica e le sue fasi. 3. I fattori dello sviluppo: a) l'accumulazione del capitale; b) innovazioni e progresso tecnico; c) il capitale umano. 4. Crescita della popolazione e sviluppo economico. 5. Sviluppo e mercato mondiale. 6. Crescita e distribuzione del reddito. 7. La misurazione dello sviluppo. □ Bibliografia.

1. Definizione

Nel linguaggio comune e in quello delle scienze naturali per sviluppo si intende il passaggio di un'entità dalla sua forma embrionale a quella compiuta o perfetta attraverso un avanzamento per stadi intermedi: così dal feto o dal seme si sviluppano gradualmente l'animale o la pianta. A ogni stadio la forma e le dimensioni, mutate rispetto allo stadio precedente, si devono riferire alla stessa entità: il concetto di sviluppo, quindi, implica insieme mutamento e persistenza, ossia la possibilità di definire l'oggetto del quale si osserva e si misura il mutamento. Nelle scienze sociali, dato che nessuno ha mai 'visto' civiltà, culture, società, economie svilupparsi nello stesso modo in cui possiamo dire di vedere questi fenomeni negli animali o nelle piante (v. Nisbet, 1969), la definizione dell'oggetto costituisce un problema, risolto diversamente a seconda del paradigma teorico e del programma di ricerca adottati. Nell'economia politica la tradizione prevalente, affermatasi fin dagli scritti dei mercantilisti e dei fisiocratici e dalla Ricchezza delle nazioni di Smith, riferisce il fenomeno dello sviluppo e lo studio delle sue cause e delle sue modalità a una entità corrispondente a un 'paese' o a una 'nazione', considerata isolatamente o nei suoi rapporti con il resto del mondo. Molto spesso, come vedremo (v. cap. 7), lo sviluppo economico viene identificato con la crescita delle grandezze macroeconomiche di un paese e, in particolare, del suo prodotto nazionale, e il valore pro capite di questo e il suo tasso di crescita vengono usati come indicatori del livello di sviluppo di un paese o delle sue variazioni. Tuttavia, mentre un aumento del prodotto nazionale in un breve periodo di tempo può essere studiato supponendo immutate le principali relazioni tra le grandezze che definiscono un sistema economico, quando si considerano le sue variazioni in un periodo di tempo lungo, appare evidente che esse sono associate con variazioni nella sua composizione, nei rapporti tra i fattori che lo determinano, nei comportamenti dei soggetti, ossia in quella che possiamo chiamare la struttura economica di un paese (v. Pasinetti, 1987). Variazioni rilevanti e persistenti di quanto si produce implicano mutamenti in ciò che si produce, nel modo in cui si produce, nella distribuzione del prodotto, e questi mutamenti, a loro volta, sono insieme effetti e cause del cambiamento di rapporti sociali e dell'affermarsi di nuovi valori e di nuove istituzioni (v. Kuznets, 1971). Ciò appare particolarmente evidente nel caso del processo di sviluppo di paesi che sono considerati, nel momento iniziale di quel processo, sottosviluppati. Si ritiene, infatti, che una crescita consistente e sostenuta del loro prodotto nazionale presupponga e determini, oltre alla trasformazione della loro struttura produttiva, anche il passaggio da istituzioni e comportamenti definiti tradizionali a istituzioni economiche, sociali e politiche definite moderne. Anche nelle economie sviluppate, tuttavia, una crescita elevata e prolungata nel tempo si accompagna a mutamenti di peso dei diversi settori produttivi, delle forme dei mercati, delle norme e procedure che regolano l'attività economica. Si può, quindi, dire che ogniqualvolta si affronta l'analisi della crescita e dello sviluppo di un paese nel tempo storico, le condizioni ceteris paribus relative alla forma della sua struttura economica e del suo quadro istituzionale devono essere abbandonate e le loro trasformazioni devono essere integrate nell'interpretazione dei processi perché questa possa essere significativa. Definiremo, perciò, lo sviluppo come il processo storico che consiste nella crescita delle grandezze macroeconomiche di un paese e nella sua trasformazione strutturale.

2. Lo sviluppo dell'economia capitalistica e le sue fasi

In analogia con il significato che il termine sviluppo ha quando si riferisce a organismi viventi, anche lo sviluppo economico è stato visto come passaggio dal semplice al complesso e come un movimento progressivo verso forme di organizzazione della società e delle sue attività economiche superiori rispetto a quelle precedenti. Questa idea, che trova una sua classica espressione nella settecentesca teoria degli stadi, secondo la quale l'umanità era progredita passando per stadi successivi, dalle società che si procacciavano i mezzi di sussistenza con la raccolta e la caccia fino alla "società commerciale" della quale parla Turgot (v., 1751), riappare in vesti moderne nella teoria dei cinque stadi della crescita di Walter Rostow (v., 1960), che descrive e spiega lo sviluppo economico come un processo di modernizzazione, da un'originaria economia tradizionale alle forme che caratterizzano l'economia dei paesi più avanzati, basata sulla produzione e il consumo di massa.Il libro di Rostow ebbe ampia eco, ma la sua concezione fu criticata da vari punti di vista: perché comprendeva, sotto l'etichetta di 'tradizionale', economie, società, culture profondamente diverse (v. Aron, 1962), perché non spiegava in modo soddisfacente il meccanismo del passaggio da uno stadio all'altro (v. Hagen, 1962), perché proponeva un modello di sviluppo di validità generale, capace di spiegare il passato e prevedere il futuro di ogni paese (v. Baran e Hobsbawm, 1961). Ciò che, più di ogni altra cosa, la teoria di Rostow, come qualsiasi altra che pretenda di offrire un modello universale dello sviluppo economico, non permette di vedere è la profonda differenza tra i processi di trasformazione economica e sociale nelle epoche che precedono l'età moderna e quelli che si verificano a partire dal XVI secolo. Prima d'allora, i sistemi economici coesistenti nelle varie parti del mondo, abbastanza simili per quanto riguarda i risultati in termini di reddito e di livelli di vita, presentano strutture differenti e dinamiche, proprie e indipendenti l'una dall'altra, di evoluzione e trasformazione (v. Sottosviluppo). Solo dal momento in cui è possibile parlare di un mercato e di un sistema economico mondiale capitalistico e definirne i caratteri essenziali - che è anche la data di nascita dell'economia politica - si possono individuare, pur con le particolarità proprie di ogni paese, tendenze generali, regolarità, fattori determinanti della crescita e della trasformazione strutturale. Lo sviluppo del quale si occupa l'economia politica è quindi lo sviluppo economico del capitalismo.
La dinamica delle economie capitalistiche è caratterizzata da oscillazioni che conferiscono loro un andamento ciclico, segnato da periodi più o meno lunghi di espansione della produzione seguiti da periodi di contrazione. Il passaggio da una fase all'altra del ciclo è segnato da una crisi, ossia dall'emergere di ostacoli al funzionamento del sistema economico che bloccano gli investimenti e riducono l'occupazione. I cicli di breve durata si succedono all'interno di fluttuazioni di maggiore lunghezza che sono state variamente periodizzate e spiegate da numerosi economisti. La loro origine sembra coincidere con crisi di particolare profondità e durata che determinano importanti trasformazioni nel funzionamento dell'economia. Questa intrinseca instabilità del capitalismo si accompagna, tuttavia, a dispetto di quanti a ogni crisi ne hanno previsto il crollo, con una sua capacità di superare i momenti critici, di allargare la riproduzione del capitale e di aumentare la produzione.
Ciò può essere spiegato con l'operare di un meccanismo di regolazione, ossia di un insieme di pratiche sociali istituzionalizzate che regolano i comportamenti dei diversi soggetti economici e le relazioni tra le componenti del sistema, in modo da mantenere i conflitti e le contraddizioni tra diversi interessi entro limiti che consentono la riproduzione e la crescita (v. Aglietta, 1976; v. Boyer e Mistral, 1978; v. De Bernis, 1983; v. Lipietz, 1984). Nei cicli brevi questo meccanismo mette in opera controtendenze che compensano la tendenza del sistema ad allontanarsi dal suo sentiero di equilibrio, come nel caso classico in cui un aumento dei costi di produzione e una conseguente contrazione del profitto in una situazione di piena occupazione portano alla flessione degli investimenti, della produzione e dell'occupazione e al rallentamento della dinamica dei salari e dei costi che ricostituisce condizioni favorevoli al profitto e quindi alla ripresa dell'accumulazione (v. Marx, 1867-1894). La crisi in questi casi può essere considerata un processo di aggiustamento del sistema. Ma, quando la crisi è particolarmente profonda e lunga, il meccanismo di regolazione può non riuscire più a svolgere la sua funzione e si impone, dunque, un suo cambiamento. Le grandi crisi che hanno segnato la storia del capitalismo dopo i secoli della transizione del feudalesimo o del 'capitalismo commerciale' rappresentano, quindi, momenti di passaggio da un sistema di regolazione a un altro e permettono di distinguere il processo di crescita e di trasformazione strutturale dell'economia moderna, ossia lo sviluppo capitalistico, in diverse fasi. Anche se la periodizzazione dei passaggi da una fase all'altra e l'identificazione dei fattori che li hanno determinati variano nei diversi autori che hanno affrontato questo tema (v. Maddison, 1982), è possibile identificare tre principali fasi dello sviluppo capitalistico. Nella prima, che inizia dopo l'affermarsi della rivoluzione industriale, la scomparsa delle antiche barriere al movimento del lavoro e del capitale, il gran numero di imprese in ogni industria e la facilità di ingresso nel mercato, consentita dalla modesta quantità di capitale necessario, la proibizione o la debolezza delle organizzazioni operaie fanno della concorrenza tra capitalisti e tra operai il principale meccanismo di regolazione, mentre nei rapporti economici internazionali si affermano il libero scambio e il sistema aureo. L'espansione economica, che raggiunge il suo culmine dopo la metà del secolo, mette in moto processi e determina squilibri che invertono la tendenza e portano alla lunga crisi del 1873-1896, che segna il passaggio a una nuova fase.
La ripresa dell'economia è spinta dall'ondata di innovazioni tecniche che danno impulso all'industria pesante e all'affermarsi come settori trainanti, in luogo del tessile che era stato il protagonista della prima rivoluzione industriale, della siderurgia, della chimica, dell'industria elettrica. Queste produzioni richiedono tecniche più complesse, raggiungono il massimo dell'efficienza per dimensioni maggiori di quelle proprie delle fabbriche del recente passato e impongono una più ampia raccolta di capitali. Ciò rende più difficile l'ingresso di nuove imprese, accresce il ruolo delle banche, porta alla diffusione delle società per azioni. Al funzionamento automatico del mercato concorrenziale tendono a sostituirsi, come elementi regolatori, la strategia delle grandi imprese con potere di mercato, la loro concorrenza di tipo oligopolistico, gli accordi tra di esse, spesso mediati dalle banche e dallo Stato.
Il turbolento periodo iniziato con la prima guerra mondiale, alla quale, dopo un decennio di incerta e diseguale ripresa, seguono la grande crisi del 1929 e, infine, la seconda guerra, apre la via a una fase di sviluppo nella quale il diffuso intervento pubblico nell'economia, la creazione di comprensivi sistemi di sicurezza sociale, l'istituzionalizzazione di nuove procedure di contrattazione dei salari creano un sistema di regolazione nel quale hanno un peso fino allora sconosciuto meccanismi discrezionali, consistenti in decisioni politiche e in accordi tra le parti sociali. Come questi cambiamenti, già sperimentati negli Stati Uniti del New Deal negli anni trenta e influenzati dalle teorie keynesiane, tendono a evitare il riprodursi delle cause che avevano allora determinato la crisi, così in campo internazionale, con gli accordi di Bretton Woods e le regole e istituzioni che vedono in quella sede la luce, le maggiori potenze economiche si propongono di ristabilire un ordinato funzionamento del mercato mondiale, che la crisi prima e la guerra poi avevano sconvolto. Iniziò allora quel periodo che è stato chiamato la 'golden age' del capitalismo del dopoguerra (v. Marglin e Schor, 1990), nel quale sembrò che l'instabilità del sistema potesse essere un ricordo del passato, mentre la produttività, la produzione, i profitti e i salari, il commercio internazionale crescevano a tassi più elevati di quanto era avvenuto nelle precedenti fasi di sviluppo.
È nella prima metà degli anni settanta, dopo il tramonto del sistema monetario di Bretton Woods e in coincidenza con il primo shock petrolifero, che si colloca generalmente la fine di questa terza fase dello sviluppo capitalistico e l'inizio di un processo di cambiamento i cui esiti non sono ancora ben definiti.
Sia nei secoli della transizione al capitalismo che nelle tre fasi che abbiamo sinteticamente schematizzato, lo sviluppo economico non segue lo stesso passo in tutte le parti del mondo che, anzi, proprio con la nascita e l'espansione di quel modo di produzione possono cominciare a distinguersi in sviluppate e sottosviluppate. Dopo la prima rivoluzione industriale, l'Inghilterra per alcuni decenni si trova avanti a tutti gli altri paesi e mantiene una posizione di egemonia nel sistema economico mondiale, ed è solo con quella che venne chiamata 'seconda rivoluzione industriale' che gli Stati Uniti e la Germania la raggiungono e le contendono il primato, mentre la Francia cresce e si trasforma più lentamente, e Russia e Italia seguono a distanza, in questo inseguimento dei primi arrivati (catching up) che è una delle caratteristiche dello sviluppo capitalistico su scala mondiale. Fenomeni dai connotati apparentemente assai diversi, come la restaurazione Meji in Giappone, la rivoluzione russa, il kemalismo in Turchia sono, da un punto di vista economico, episodi di questa corsa a inseguimento con la quale paesi rimasti esterni al mercato mondiale, o inseriti in esso in posizione periferica o semiperiferica, cercano di trasformare le proprie strutture economiche e sociali per ridurre il divario di reddito che li separa dai paesi del centro.
Questo divario, originato dalla stessa dinamica dello sviluppo capitalistico e dalla colonizzazione o subordinazione di gran parte del mondo da parte dei paesi dove quel modo di produzione era nato, è diventato un problema internazionale quando, negli anni quaranta e cinquanta, le antiche colonie sono diventate Stati indipendenti. Da allora è soprattutto in relazione alla possibilità per questi paesi di uscire dalla loro condizione presente, di crescere e di trasformarsi, che il problema dello sviluppo economico e dei fattori che lo determinano è tornato a essere un problema centrale dell'economia politica come lo era stato ai tempi degli economisti classici.

3. I fattori dello sviluppo

Gli economisti classici che, come scrive Smith (v., 1776), considerano il lavoro "il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita" fanno dipendere la crescita dal sovrappiù destinato a impiegare nuovi lavoratori nella produzione di merci e dal progresso delle loro capacità produttive.Intorno alla metà del nostro secolo, dopo che per molti decenni il pensiero economico prevalente, con le sole importanti eccezioni di Marx e Schumpeter, si era posto come problema centrale l'ottima allocazione delle risorse piuttosto che il loro accrescimento, economisti di impostazione keynesiana o neoclassica hanno dato origine a famiglie di modelli volti a determinare le condizioni alle quali il prodotto nazionale può crescere nel lungo periodo mantenendo l'equilibrio tra domanda e offerta globali. In questi modelli la crescita viene fatta dipendere dall'aumento della quota di reddito destinata al risparmio e/o dall'aumento della popolazione e dal progresso tecnico considerati come variabili esogene, ossia come grandezze la cui spiegazione viene lasciata ad altre discipline (v. Harrod, 1939; v. Domar, 1946; v. Solow, 1956). In anni più recenti, nell'ambito della dominante ortodossia neoclassica, si è assistito a un rifiorire della modellistica della crescita, caratterizzato dal tentativo di rendere endogene variabili prima trattate come esogene, di abbandonare alcune ipotesi limitatrici e di inserire nel modello, come determinanti della crescita, fattori in passato non considerati, quali l'istruzione e, quindi, la formazione di capitale umano (v. Ardeni, 1995; v. Bardhan, 1995).
Questo orientamento si spiega, almeno in parte, con l'insoddisfazione per la riconosciuta incapacità dei modelli capostipiti di giungere a conclusioni rilevanti per la comprensione e la soluzione dei problemi della crescita (v. Nardozzi, 1983), benché si debba aggiungere, come è stato notato (v. Hahn, 1994), che anche i nuovi modelli sono 'parabole' che gettano qualche luce sui processi reali piuttosto che offrirne una piena descrizione e interpretazione.
Parallelamente alla modellistica della crescita, e con qualche reciproca interazione, fin dai primi anni del secondo dopoguerra si è prodotta una vasta letteratura, stimolata soprattutto dai problemi dei paesi sottosviluppati o in via di sviluppo che, pur con profonde differenziazioni al suo interno, mette l'accento sull'importanza assunta, nel determinare la crescita, da variabili strutturali quali il trasferimento del lavoro e del capitale da un settore produttivo a un altro o l'aumento della componente estera della domanda. Trasformazioni nella struttura produttiva implicano situazioni di squilibrio e, di conseguenza, questa impostazione è stata talora contrapposta alla modellistica neoclassica (ma il discorso vale anche per altri modelli di crescita), nella quale gli effetti delle variazioni delle grandezze determinanti della crescita si verificano, come si è detto, in condizioni di equilibrio (v. Chenery, 1986).
Poiché abbiamo definito lo sviluppo economico un processo del quale crescita e trasformazione strutturale sono due aspetti interdipendenti, l'identificazione e la spiegazione delle principali forze che lo determinano dovranno tener conto di entrambe. Prendendo, quindi, in esame i fattori ai quali la letteratura economica pressoché unanimemente attribuisce un effetto determinante sulla crescita, ossia l'accumulazione del capitale fisico, il progresso tecnico, la formazione di capitale umano, esamineremo come il dispiegarsi dei loro effetti sia condizionato da mutamenti strutturali e come, a sua volta, li produca. Discuteremo, poi, in che misura e a quali condizioni l'aumento della popolazione e il commercio internazionale possano favorire o ostacolare lo sviluppo.

a) L'accumulazione del capitale
Per gli economisti classici l'accumulazione consisteva nella destinazione del sovrappiù, non consumato improduttivamente, nell'impiego di nuovi lavoratori ai quali i capitalisti fornivano mezzi di sussistenza, materie prime e macchine.
Per gli economisti moderni l'accumulazione del capitale è il risultato della scelta di investire in mezzi della produzione, in aggiunta a quelli che vengono sostituiti perché logorati o obsoleti, scelta vista alternativamente come un aggiustamento nell'impiego di risorse scarse, guidato dal mercato fino al raggiungimento dell'equilibrio, o come un ampliamento della capacità produttiva di un'economia. È in questo secondo senso che l'investimento può essere considerato un fattore determinante per lo sviluppo.I problemi che si pongono sono di tre ordini: quali condizioni si debbono realizzare perché vi sia investimento netto; a quanto ammonta il capitale da investire per ottenere un dato tasso di crescita; in quali settori, o con quale ordine di priorità, sia opportuno impiegarlo.
Le principali condizioni perché vi sia investimento di capitale sono: l'esistenza di imprese, ossia di quelle istituzioni mediante le quali gli imprenditori capitalisti organizzano la produzione assumendosene i rischi; l'attesa di un profitto futuro e, quindi, di una domanda che permetta lo smercio dei prodotti a prezzi che consentano un margine di profitto ritenuto soddisfacente; la disponibilità di fondi, ossia di denaro, da investire. Una parte dell'investimento complessivo di un'economia, inoltre, è costituita da investimenti pubblici i quali, quando lo Stato in virtù di varie circostanze storiche non si sostituisce al capitalista privato, sono impiegati in attività indirettamente produttive, ossia prevalentemente in infrastrutture che offrono beni e servizi, pubblici o meritori. In questo caso l'investimento avviene o dovrebbe avvenire quando i benefici sociali attesi dall'investimento superano i costi sociali che esso comporta.
Nelle economie dei paesi sviluppati si suppone che ormai da tempo esista un sistema di imprese capitalistiche, operanti nei mercati dove acquistano i fattori della produzione e in quelli dove vendono i propri prodotti. Le teorie e le analisi dell'accumulazione che fanno riferimento, esplicitamente o implicitamente, a economie di questo tipo hanno come oggetto principale il rapporto tra le attese relative alla domanda dei beni prodotti e al rendimento del capitale investito e le decisioni di investimento e tra queste, la formazione del risparmio e il meccanismo del credito.
Questi temi sono centrali anche per lo studio dell'accumulazione nei paesi in via di sviluppo, ma devono essere inquadrati in uno specifico contesto strutturale e istituzionale che ha portato gli economisti dello sviluppo a formulare ipotesi e a elaborare modelli a esso appropriati. Come vedremo, inoltre, la prima delle condizioni precedentemente elencate, ossia la presenza di imprese capitalistiche e, quindi, di capacità imprenditoriale, data per scontata quando ci si occupa di paesi sviluppati, si può dire solo in parte soddisfatta in questo diverso contesto.L'insufficienza di fondi per l'investimento è stata considerata da numerosi economisti come il principale limite all'accumulazione per i paesi che iniziano un processo di sviluppo. Essa presenta due aspetti: da un lato, la quota di risparmio sul reddito nazionale è bassa; dall'altro, le entrate nette delle esportazioni non sono in grado di fornire la valuta estera necessaria ad acquistare i mezzi della produzione nei quali l'investimento si materializza; esiste, dunque, un doppio gap che può essere superato solo con flussi netti di capitale dall'estero. Di qui l'importanza degli investimenti diretti, dei prestiti e degli aiuti stranieri (v. Chenery e Strout, 1966).
Ciò che spiega l'inadeguatezza del risparmio è principalmente il basso livello del reddito, che a sua volta è la ragione principale della mancanza di prospettive di profitto e quindi del limite alle decisioni di investimento. Quando il reddito pro capite di un paese è pari o di poco superiore al livello di sussistenza, è destinato nella quasi totalità alla soddisfazione dei bisogni primari, in particolare all'alimentazione. La propensione media al risparmio è dunque molto bassa e la possibilità di risparmiare è alla portata di un numero limitato di individui. D'altra parte, se la maggioranza della popolazione ha redditi bassi e, come generalmente è il caso per i paesi nelle prime fasi dello sviluppo, è impiegata in un'agricoltura di autoconsumo, il mercato interno è estremamente ristretto, la sua capacità di assorbire l'offerta di beni limitata e, quindi, le aspettative di ricavi e profitti non offrono incentivi a investire (v. Nurske, 1953).
Il problema dell'accumulazione del capitale in economie di questo tipo è strettamente connesso a quello della loro trasformazione strutturale, e infatti una risposta al problema del sottosviluppo è stata tradizionalmente quella dell'industrializzazione, ossia del trasferimento di fattori dal settore agricolo a quello della produzione di manufatti. Un esempio di questa impostazione si trova nell'URSS degli anni venti e nella teoria dell'accumulazione originaria socialista, che prevedeva una forbice tra prezzi agricoli e prezzi industriali come mezzo per trasferire risorse dall'uno all'altro settore (v. Preobrazenskij, 1926). Un altro esempio, che ha avuto molta influenza sulle politiche economiche dei paesi in via di sviluppo negli anni cinquanta e sessanta, è quello dei modelli dualistici. Alla base di questi modelli vi era l'assunto secondo cui nell'agricoltura tradizionale esiste una sovrappopolazione relativa, ossia una elevata quota di popolazione rurale con livelli di produttività marginale estremamente bassi o nulli. Se, accanto al settore tradizionale, esiste un settore moderno, per quanto piccolo, identificato generalmente con le attività industriali urbane, in grado di pagare salari anche di poco superiori al reddito medio agricolo, esso attirerà la popolazione eccedente dalle campagne. Fino a che tale riserva di sovrappopolazione non si esaurisce, mentre la produzione totale dell'agricoltura non diminuisce, i salari potranno restare bassi e inferiori alla produttività media del lavoro nel settore moderno. Si determinerà, quindi, un elevato margine di profitto che verrà reinvestito allargando la base produttiva e dando così vita a un processo di crescita accelerata (v. Lewis, 1954).In questa visione del processo di trasformazione strutturale il settore trainante è identificato nell'industria nascente, mentre l'agricoltura ha la funzione di fornire a essa due sovrappiù: i lavoratori in eccesso e quello che è stato chiamato 'risparmio latente', ossia quella parte del prodotto agricolo che, dopo il trasferimento di una parte della popolazione dall'agricoltura all'industria, non viene consumato dalle famiglie rurali e fornisce reddito che può tradursi in risparmio ed essere, quindi, investito (v. Nurske, 1953).
Due sono dunque le conseguenze della trasformazione strutturale: i profitti derivanti dalla elevata produttività del lavoro e dalla sua bassa remunerazione nell'industria, e la formazione di un sovraprodotto nell'agricoltura, fonti entrambe di risparmio e, quindi, di fondi per l'investimento. Perché, tuttavia, i profitti vengano realizzati è necessaria l'esistenza di un mercato abbastanza ampio da assorbire l'offerta dei beni prodotti, e l'aspettativa di domanda pagante è d'altra parte, come si è detto, una delle condizioni che devono verificarsi perché esistano incentivi a investire.
Si pone così la questione del limite che la ristrettezza del mercato interno rappresenta per gli investimenti, e quindi per la crescita, e dei modi per superarlo. Una prima risposta è data dalla teoria della crescita equilibrata. Essa parte dalla constatazione che se in un paese a struttura prevalentemente agricola e con attività manifatturiere di tipo artigianale, nel quale l'offerta soddisfa la modesta domanda consentita dal basso livello del reddito, si progetta un investimento isolato in un dato settore produttivo, la domanda che potrà essere ragionevolmente prevista per il bene prodotto sarà soltanto quella di quei pochi soggetti coinvolti direttamente o indirettamente nel progetto: insufficiente, quindi, per assicurare la realizzazione dei profitti che renderebbero conveniente l'investimento. Il progetto potrà, invece, essere attuato se è parte di un ampio programma di investimenti, distribuiti secondo date proporzioni tra settori diversi, in modo che l'offerta dei beni prodotti da ciascuna unità e da ciascun settore incontri la domanda costituita da tutti i lavoratori che la realizzazione dell'intero programma ha permesso di occupare (v. Rosenstein Rodan, 1943). Da una situazione iniziale di equilibrio di sottosviluppo si perviene, quindi, all'equilibrio di un sistema che si è sviluppato, trasformando la propria struttura e aumentando il proprio reddito.
Una diversa risposta è quella di chi privilegia nel processo di sviluppo il momento dello squilibrio e gli effetti di complementarità tra diversi investimenti. Programmare un insieme di investimenti tra loro connessi sarebbe praticamente impossibile per la presenza di incertezza e per la molteplicità incalcolabile di interconnessioni tra di essi, soprattutto in paesi nei quali la risorsa più scarsa non è costituita tanto dai fattori della produzione quanto dalla capacità di organizzarli. Il modello ideale di sviluppo non è un programma generale di investimenti che assicurano l'equilibrio finale tra domanda e offerta, ma una sequenza nella quale l'investimento in una data industria, riducendo i costi o creando domanda per altre industrie con le quali esiste complementarità, induce nuovi investimenti (v. Hirschman, 1958). Entrambe queste teorie, come del resto i modelli di tipo dualistico, vedono nell'industria il motore dello sviluppo, assegnando all'agricoltura la funzione di fornitrice di sovrappiù o, come è stato scritto, di 'scatola nera' dalla quale si possono trarre lavoratori, cibo per nutrirli e risparmio (v. Little, 1982) e trascurando altri ruoli che essa può svolgere e che storicamente ha svolto. In una fase della trasformazione strutturale nella quale la maggioranza della popolazione è ancora occupata nell'agricoltura e l'industria nascente trova con difficoltà sbocchi sui mercati esteri, sono le famiglie rurali che presentano la più ampia domanda potenziale. In secondo luogo, per paesi che possono contare prevalentemente sull'esportazione di prodotti agricoli, questi sono la principale o unica fonte della valuta necessaria per acquistare all'estero mezzi della produzione e tecnologie (v. Johnston, 1970). Infine, poiché l'industrializzazione e l'urbanizzazione tendono a far aumentare la domanda di prodotti agricoli, la loro produzione non può limitarsi a restare invariata dopo il trasferimento dei lavoratori eccedenti, ma deve aumentare (v. Kaldor, 1960).
Per questi motivi, l'aumento della produzione agricola per il consumo interno e per l'esportazione e il miglioramento della capacità d'acquisto della popolazione rurale sono da considerarsi, come storicamente si è verificato nell'Inghilterra del XVIII secolo (v. Landes, 1969), presupposti dell'industrializzazione e momenti importanti del processo di accumulazione capitalistica. Ciò significa che la trasformazione strutturale non può consistere unicamente in un trasferimento di risorse dal settore 'tradizionale' a quello 'moderno', come precedentemente definiti, ma deve comprendere anche una modernizzazione delle campagne e cioè una riorganizzazione del modo di produzione nell'agricoltura e un aumento della produttività del lavoro che implica la destinazione di una quota adeguata di investimenti all'agricoltura.
Se, come sostengono le teorie dello sviluppo basate sui modelli di crescita di tipo keynesiano, il tasso di crescita dipende dall'investimento, una volta definite le condizioni che lo rendono possibile se ne deve determinare la quantità necessaria per ottenere il tasso di crescita desiderato.
Dalla teoria della crescita equilibrata si deduce che per raggiungere una posizione di equilibrio in condizioni di sviluppo è necessario un programma che implica un grande sforzo di investimento. Alle stesse conclusioni alcuni economisti sono arrivati per altra via, mettendo in luce 'fattori depressivi' che ostacolano il passaggio da un equilibrio a basso livello di reddito a un equilibrio a livello di reddito elevato. Tali fattori agiscono nel senso di impedire che l'aumento del reddito, derivante dall'investimento, sia in grado di portare la propensione al risparmio a valori che consentano di alimentare un processo sostenuto e continuo di crescita fino ai livelli desiderati. Ostacoli di questo tipo possono essere l'esistenza di una propensione marginale al consumo molto alta, data la grande estensione di bisogni fondamentali insoddisfatti, o la crescita demografica che, fino a quando è superiore al tasso di crescita del reddito, tende a riportarne il livello pro capite al basso valore di partenza (v. Leibenstein, 1957; v. Nelson, 1956). Di conseguenza, per arrivare a un equilibrio ad alto livello di reddito pro capite, sarebbe necessario uno 'sforzo minimo' che consiste in un investimento molto elevato o, come si diceva, un big push (v. Rosenstein Rodan, 1963).
La teoria che privilegia il ruolo dell'investimento, in particolare nell'industria, e sostiene la necessità che esso sia in dosi massicce, teoria tipica dell'economia dello sviluppo dei primi decenni del dopoguerra, sembra trascurare altri fattori della crescita ai quali già gli economisti classici avevano dato grande importanza. Mentre vedremo più oltre come questi fattori vengono trattati dagli economisti moderni, richiamiamo qui brevemente alcuni altri aspetti della trasformazione strutturale che costituiscono, insieme, una condizione e un effetto del processo di accumulazione del capitale.
Il primo riguarda l'esistenza e la formazione del mercato o, meglio, di mercati per le merci e i fattori della produzione. In economie prevalentemente agricole, dove le forme di possesso della terra e le tecniche produttive consentono solo una bassa produttività del lavoro e le comunicazioni tra regioni diverse sono difficili, l'agricoltura è orientata all'autoconsumo dei coltivatori, gli scambi sono ristretti a mercati locali e la circolazione monetaria è limitata. In questa situazione manca una delle condizioni dell'accumulazione, precedentemente ricordata, ossia l'esistenza di imprese capitalistiche orientate al profitto e incentivate all'investimento. In Occidente il superamento di questa situazione è stato determinato sia dall'introduzione nell'agricoltura di tecniche che hanno permesso l'aumento della produttività, sia da riforme della legislazione della proprietà e della conduzione della terra, nonché dall'attuazione di opere pubbliche volte a migliorare le comunicazioni e i trasporti tra le diverse regioni di un paese.
Il ruolo della legislazione e dell'intervento pubblico è stato ancora maggiore nel creare le condizioni per lo sviluppo degli scambi tra paesi diversi e per la nascita di compagnie commerciali che sono state la principale forma di impresa capitalistica ai tempi del capitalismo commerciale. La diffusione degli scambi all'interno e all'estero, la monetizzazione dell'economia, la nascita delle imprese capitalistiche sono aspetti dell'accumulazione originaria capitalistica che si sono intrecciati strettamente con la nascita e il rafforzamento degli Stati nazionali, offrendo un primo esempio di interdipendenza tra la trasformazione strutturale dell'economia e la trasformazione delle istituzioni sociali e politiche.

b) Innovazioni e progresso tecnico
In senso proprio il progresso tecnico consiste nell'applicazione al processo produttivo di invenzioni che modificano la combinazione dei fattori e rendono più produttivo il lavoro. La produzione di nuovi beni, l'apertura di nuovi mercati o l'introduzione di nuovi metodi organizzativi, che Schumpeter elenca tra le innovazioni attuate dall'imprenditore protagonista dello sviluppo economico, si possono considerare piuttosto condizioni o concause del progresso tecnico (v. Schumpeter, 1912; v. Sylos Labini, 1977⁴). Nei moderni modelli di crescita la trattazione dei nessi tra progresso tecnico, accumulazione e sviluppo non è fino a oggi soddisfacente. In particolare, le innovazioni sono state trattate nei modelli capostipiti, sia del filone keynesiano (v. Harrod, 1939) sia di quello neoclassico (v. Solow, 1956), come esogene al sistema economico, ossia indipendenti dalle caratteristiche del suo funzionamento. Se così fosse, il progresso dipenderebbe da invenzioni casuali o frutto del genio dell'inventore, liberamente disponibili per tutti, così che il tasso di crescita - se lo si suppone determinato dal progresso tecnico - tenderebbe a convergere in tutte le economie, a qualsiasi livello di sviluppo esse si trovino. Il che non risulta dimostrato.
I modelli neoclassici più recenti considerano il progresso tecnico come una variabile esogena, ma il fatto che essi analizzino le condizioni di una crescita in equilibrio, nella quale il progresso si verifica gradualmente a un tasso costante, impedisce loro di cogliere la discontinuità, le rotture, le crisi che accompagnano i flussi di innovazioni nel processo di accumulazione capitalistico così efficacemente tratteggiate da Marx o da Schumpeter (v. Sote e Verspagen, 1993).
Nelle teorie dello sviluppo di ispirazione keynesiana, nei modelli dualistici e nelle tesi sulla crescita equilibrata o del big push che abbiamo ricordato, il progresso tecnico non aveva un ruolo rilevante o, in alcuni casi, era escluso dall'ipotesi di uno stato delle tecniche dato. L'interesse per il problema delle innovazioni venne destato soprattutto da ricerche econometriche che misero in luce come negli Stati Uniti la crescita del prodotto nel lungo periodo era spiegata principalmente dal progresso tecnico e solo in parte minore dall'aumento dei fattori produttivi, lavoro e capitale, impiegati (v. Abramovitz, 1956; v. Denison, 1962; v. Phelps, 1962). È evidente che per poter produrre i loro effetti le innovazioni devono essere applicate all'attività produttiva e, quindi, almeno in parte, incorporate nei mezzi della produzione: il progresso tecnico è quindi un aspetto dell'accumulazione del capitale. Prenderlo in considerazione porta a concludere che, per ottenere un dato tasso di crescita, l'ammontare di investimenti di capitale fisico può essere minore di quello che sarebbe richiesto in sua assenza.
Se il progresso tecnico viene considerato un fattore determinante in ogni processo di sviluppo, l'origine, le caratteristiche, le modalità di diffusione delle innovazioni sono state diverse nella storia del capitalismo a seconda del momento in cui il processo è iniziato e devono essere trattate diversamente a seconda della struttura economica e del grado di sviluppo di ogni paese considerato.
Gli storici dell'economia hanno discusso i presupposti e le condizioni che hanno caratterizzato le invenzioni e la loro applicazione alla produzione nella rivoluzione industriale inglese e le diverse modalità con le quali una successiva ondata di innovazioni ha determinato la seconda rivoluzione industriale nei late comers, rilevando anche i vantaggi e gli svantaggi che ha rappresentato la relativa arretratezza di questi (v. Landes, 1969; v. Gerschenkron, 1962).
Per quanto riguarda in particolare i paesi sottosviluppati, la scarsità delle risorse finanziarie e umane che essi possono destinare alla ricerca scientifica fa sì che in questo caso il progresso tecnico e il conseguente aumento della produttività del lavoro derivino solo in parte dall'applicazione alla produzione di invenzioni realizzate localmente e si ottengano prevalentemente dal trasferimento di tecnologie dai paesi più sviluppati. Il vantaggio, proprio di tutti i late comers, di poter usufruire di tecniche già sperimentate altrove, che li mettono in grado di compiere un salto tecnologico più rapido, richiede l'esistenza di alcune condizioni ed è controbilanciato da alcuni svantaggi e inconvenienti ben noti. Le condizioni necessarie perché il trasferimento di tecnologie, generalmente incorporate in mezzi della produzione, abbia luogo e produca gli effetti desiderati, sono la capacità di investire e, quindi, la disponibilità di capacità imprenditoriale, di risparmio e di valuta estera o la possibilità di attirare investimenti diretti stranieri, e l'esistenza di tecnici e lavoratori in grado di utilizzare efficacemente le tecnologie importate adattandole a un ambiente diverso da quello dal quale provengono. Come vedremo più oltre, quest'ultima condizione può rappresentare e ha rappresentato una delle maggiori strozzature che ostacolano il processo di industrializzazione di molti paesi.
Il principale inconveniente derivante dall'applicazione di metodi produttivi importati da paesi sviluppati è quello che va sotto il nome di inappropriatezza delle tecnologie: la combinazione di fattori prevista dalla nuova tecnica può essere diversa da quella che verrebbe suggerita dalla loro relativa scarsità o abbondanza nel paese sottosviluppato; la tipologia dei prodotti può non corrispondere ai bisogni che sarebbe opportuno soddisfare prioritariamente; l'applicazione di quei metodi perpetuerebbe la dipendenza del paese da quelli più sviluppati per la fornitura dei ricambi e per l'assistenza tecnica. Si pone, quindi, il problema della scelta della tecnica più appropriata tra quelle che sono disponibili. L'aspetto più discusso di questo problema, al quale anche gli altri finiscono per riallacciarsi, è quello della maggiore o minore intensità capitalistica della tecnica da adottare, ossia del rapporto tra capitale fisico e lavoro impiegati nel processo produttivo. Poiché si ritiene che nei paesi che iniziano lo sviluppo il capitale sia il fattore relativamente scarso, il criterio di scelta della tecnica sembra debba essere il risparmio di capitale e, quindi, la tecnica preferita quella che massimizza il prodotto per unità di capitale indipendentemente dal tipo di rapporto tra capitale e lavoro. Se la tecnica che soddisfa questa condizione è ad alta intensità di capitale, inoltre, essa porterà a una distribuzione del reddito ottenuto più favorevole al profitto di quanto accadrebbe con una tecnica ad alta intensità di lavoro. Dato che la propensione al risparmio dei capitalisti è maggiore di quella dei salariati, le tecniche ad alta intensità di capitale avrebbero anche il vantaggio di aumentare la formazione di risparmio e, quindi, l'accumulazione (v. Buchanan, 1945; v. Galenson e Leibenstein, 1955). Di fatto, nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo i programmi di industrializzazione e di costruzione delle infrastrutture hanno mostrato una preferenza per investimenti che richiedevano tecniche, trasferite dall'estero, ad alta intensità di capitale. Sia le premesse teoriche che le conseguenze di questa scelta si prestano, tuttavia, a numerose obiezioni. In primo luogo, non esiste una soddisfacente evidenza empirica in merito ai rapporti tra intensità di capitale delle tecniche e risparmio di capitale: sembra plausibile che essi varino in produzioni diverse e al variare dei processi produttivi (v. Stewart, 1987). In secondo luogo, l'introduzione di tecniche che, rispetto ad altre, impiegano meno lavoro ripresenta il problema, per la prima volta affrontato da Ricardo, degli effetti dell'uso delle macchine sull'occupazione. È questo il punto che richiede maggiore attenzione quando si affronta il problema del progresso tecnico nei paesi in via di sviluppo. Come abbiamo visto, un limite agli investimenti e, quindi, all'avvio del processo di accumulazione è la ristrettezza del mercato interno, limite che può essere superato solo se l'espansione dell'occupazione crea reddito e domanda. Inoltre, un ampio impiego del lavoro, che è il fattore più abbondante e meno costoso, può consentire ai paesi in via di sviluppo di godere vantaggi comparati sul mercato internazionale per quei prodotti che lo impiegano intensivamente. Infine, le tecniche ad alta intensità di lavoro sono generalmente le più semplici, richiedono meno di quelle complesse il ricorso a personale specializzato straniero, possono più facilmente essere assimilate e adattate alle particolarità dell'ambiente locale e moltiplicare così le possibilità del learning by doing che, come vedremo, è uno strumento importante per accrescere le capacità dei lavoratori e aumentare la loro produttività.
La constatazione che per i paesi che sono all'inizio del processo di sviluppo il progresso tecnico avviene principalmente attraverso il trasferimento di tecniche già sperimentate altrove non significa che la ricerca scientifica e tecnologica non debba essere promossa e sostenuta. Ciò vale particolarmente per un settore la cui modernizzazione abbiamo visto essere un aspetto importante della trasformazione strutturale: l'agricoltura. Le caratteristiche climatiche e del suolo di molti paesi meno sviluppati e il fatto che nelle campagne siano più persistenti istituti e comportamenti tradizionali concorrono a ridurre i vantaggi ottenibili dall'applicazione di tecniche adatte a situazioni profondamente diverse. Di conseguenza, le innovazioni in agricoltura sono tanto più efficaci quanto più sono frutto di scoperte e sperimentazioni fatte nei paesi che le devono applicare, e quindi la ricerca in questo campo ha un grande rilievo e richiede - contrariamente a quanto è avvenuto, con poche eccezioni, nel passato - una priorità nell'impiego delle risorse.

c) Il capitale umano
Per capitale umano gli economisti intendono l'insieme o, per analogia con il capitale fisico, lo stock di conoscenze e di capacità produttive delle quali un uomo o più uomini sono dotati. Investire in capitale umano significa aumentare tale dotazione e il rendimento dell'investimento sarà dato dal maggior reddito che gli individui potranno ottenere e dai benefici che potranno derivare per la società cui appartengono.
L'importanza di questo fattore per lo sviluppo di un paese era già stata compresa da Smith (v., 1776) che lo chiamava "l'arte, la destrezza e l'intelligenza con cui vi si esercita il lavoro". Il recente interesse per il ruolo del capitale umano si può far risalire alle ricerche econometriche volte a individuare le determinanti della crescita, dalle quali, come abbiamo già visto, risultò che essa dipendeva meno di quanto si pensasse dall'aumento della quantità dei fattori impiegati nella produzione. L'elevata quota del maggior prodotto ottenuto nel corso del tempo non attribuibile a tale aumento veniva ricondotta a un 'fattore residuo' che sembrava consistere in un miglioramento della qualità dei fattori derivante, per i mezzi della produzione, dal progresso tecnico e, per il lavoro, dall'aumento del capitale umano. Sul 'fattore residuo' si è discusso a lungo e sono state avanzate diverse critiche, fra cui quella di Neild (v., 1964) e quella, radicale, di Sylos Labini (v., 1995) secondo la quale quello del 'fattore residuo' è un problema spurio: al progresso tecnico e organizzativo va imputato non il 70 o l'80% dell'aumento della produttività, come sostengono gli economisti che considerano valida la funzione Cobb Douglas, ma, quando ci riferiamo all'economia nel suo complesso, il 100%.
Questi risultati sul piano teorico portavano a modificare la tradizionale funzione della produzione ed erano particolarmente rilevanti per lo studio dei problemi dei paesi in via di sviluppo, dato che l'analisi delle loro esperienze mostrava come l'insufficienza o la mancanza di capacità imprenditoriali, manageriali e tecniche avessero spesso contribuito pesantemente a determinare l'insuccesso dei programmi di investimento e avessero così ostacolato i processi di industrializzazione e la trasformazione strutturale delle loro economie.
L'investimento in capitale umano avviene in forme diverse: l'accrescimento delle conoscenze e delle capacità produttive si ottiene mediante l'istruzione formale o con la pratica del lavoro, ma perché esse possano essere utilizzate efficacemente occorre che il lavoratore goda di buone condizioni fisiche, assicurate da un'alimentazione adeguata e dall'accesso a servizi igienici e sanitari. Così, una parte degli impieghi del reddito che nella contabilità nazionale vengono considerati consumi, quali le spese correnti per l'istruzione e la sanità e quelle per garantire un minimo livello nutrizionale, concorre, aumentando la produttività del lavoro, a determinare il risultato produttivo (v. Kamarck, 1983). A seconda della forma dell'investimento varia la qualità del capitale umano. Ciò che assicura buone condizioni fisiche dei lavoratori e le spese per la loro alfabetizzazione e, in generale, per i primi gradi dell'istruzione formale contribuiscono alla creazione di capitale umano generico, utilizzabile in diversi tipi di attività. Quanto più l'istruzione formale ha carattere specialistico o la formazione avviene by doing ossia attraverso l'esperienza di lavoro in una data attività, tanto più specifico è il capitale umano e tanto più probabile è che il suo trasferimento da un'attività a un'altra richieda ulteriori investimenti.
Diversi, infine, sono i rendimenti che l'investimento ha per il soggetto che investe o che gode degli effetti di un investimento pubblico e il suo rendimento per la società cui il soggetto appartiene. In particolare, gli economisti che studiano gli effetti dell'istruzione sullo sviluppo distinguono il tasso di rendimento privato, che eguaglia il valore dei costi diretti e indiretti dell'istruzione e quello delle retribuzioni nette attese nel futuro, e il tasso di rendimento sociale, che si ottiene aggiungendo ai costi privati quelli sostenuti dallo Stato e ai ricavi le esternalità positive nette.
Le ricerche svolte a questo proposito hanno portato a risultati rilevanti per lo studio dello sviluppo economico e per la determinazione delle politiche che lo pongono come obiettivo. In primo luogo, si è constatato che, nei paesi in via di sviluppo, il saggio di rendimento degli investimenti nell'istruzione è più elevato di quello che si registra in paesi già sviluppati e che esso, data la scarsità della dotazione di capitale umano in questi paesi, ha un effetto maggiore, relativamente ad altri fattori, sulla crescita del reddito. In secondo luogo, si è rilevato che, al crescere del grado dell'istruzione, il tasso di rendimento privato tende a superare quello sociale e che, all'interno di ogni grado, il rendimento è più alto per gli indirizzi di studio di carattere generale rispetto a quelli più specialistici (v. Psacharopoulos, 1991). Infine, il confronto tra paesi diversi che hanno iniziato in tempi recenti un processo di crescita e di trasformazione strutturale e, in particolare, lo studio del successo delle economie di alcuni paesi dell'Asia orientale hanno dimostrato che il livello di istruzione esistente al momento in cui lo sviluppo è iniziato spiega, almeno in parte, il divario dei risultati ottenuti.
Nel superamento degli ostacoli che un paese sottosviluppato affronta nelle prime fasi della sua trasformazione, il livello dell'istruzione, e quindi gli investimenti che lo innalzano, appaiono particolarmente importanti per i loro effetti indiretti. Una migliore istruzione, infatti, oltre ad accrescere la produttività del lavoro, ha effetti positivi sulla capacità di ottenere informazioni e di accedere al credito da parte dei piccoli imprenditori che svolgono attività commerciali, agricole o artigianali. Inoltre, quando è estesa alle donne, l'istruzione modifica il comportamento delle famiglie, aiutandole a prevenire e combattere le malattie e a curare meglio i figli, apre alle donne la possibilità di entrare nel mercato del lavoro, induce una riduzione della loro fertilità, frenando così l'eccessiva crescita demografica.
Tutto ciò porta a sottolineare l'importanza che assumono per lo sviluppo il capitale umano, una equilibrata allocazione delle risorse tra investimenti in capitale fisico e in servizi sociali, quali l'istruzione e la sanità, che si possono considerare in parte complementari e in parte sostitutivi dei primi (v. Svennilson, 1966), e una programmazione della spesa pubblica adeguata alle caratteristiche del paese e che, quindi, dia priorità a quei gradi di istruzione dai quali ci si può attendere nelle condizioni date il maggior rendimento sociale, evitando di sostenere, come spesso è accaduto, costi elevati per la creazione di capacità che non possono trovare impiego e la diffusione di aspettative insoddisfatte (v. Colcough, 1982). È d'altra parte evidente la connessione tra i processi di formazione del capitale umano e altri aspetti dello sviluppo. Quando, ad esempio, l'industrializzazione avviene mediante la creazione di poli o enclaves, con scarsi legami con il resto del territorio e con altri settori produttivi, le capacità acquisite dai lavoratori occupati potranno difficilmente trasferirsi altrove e generare effetti di diffusione delle conoscenze; se prevalgono industrie a capitale straniero, che fanno largo uso, dalla fase della progettazione a quella della produzione, di personale espatriato, le possibilità per la mano d'opera locale di apprendere nuove tecniche saranno modeste; se le tecniche sono complesse sarà più difficile impratichirsene e appropriarsene.
Come, a proposito del progresso tecnico, avevamo osservato che l'importanza dell'acquisizione e dell'adattamento di tecnologie importate dall'estero non deve far trascurare l'impegno per la ricerca scientifica e per l'innovazione autonoma, così, per quanto riguarda l'istruzione, la priorità data all'alfabetizzazione e alla formazione di base non significa che la creazione di figure professionali con un elevato livello di istruzione non sia una condizione rilevante per lo sviluppo. Tali figure sono, in particolare, richieste nella pubblica amministrazione, proprio per permettere quella programmazione della spesa e quella promozione e regolazione dei processi di industrializzazione che consentono una efficiente allocazione delle risorse tra i vari tipi di investimenti e il maggior rendimento di quelli destinati alla formazione del capitale umano.

4. Crescita della popolazione e sviluppo economico

Il tema dei rapporti tra andamenti demografici e sviluppo economico ha una lunga storia che si può far risalire al famoso Essay nel quale Malthus (v., 1798) esponeva la sua "legge della popolazione come essa influenza il futuro miglioramento della società". La teoria malthusiana si basa sull'assioma che la capacità naturale dell'uomo di riprodursi supera la capacità di aumentare la disponibilità di alimenti, cosicché, quando il reddito di un paese cresce e i salari superano il livello di sussistenza, rendendo più precoci i matrimoni e più numerose le nascite, si determina uno squilibrio tra bocche da sfamare e cibo che soltanto freni repressivi, come la miseria, le guerre e il conseguente aumento della mortalità, o preventivi, quali il vizio o il controllo morale, potranno superare o evitare. L'immiserimento dei lavoratori, che avrebbe eliminato la popolazione eccessiva o la paura del quale poteva indurli a ritardare la formazione di una famiglia, trovò poi una spiegazione in quella legge dei rendimenti decrescenti dell'agricoltura, accolta anche da Ricardo, secondo la quale l'accresciuto bisogno, spingendo a coltivare terre sempre meno fertili, impedirebbe alla produzione di crescere quanto la popolazione, determinando nello stesso tempo l'aumento della rendita agraria (v. Malthus, 1815). Malthus fondava il suo assioma di base su dati empirici assai deboli, tratti prevalentemente dall'osservazione della realtà americana, ma le sue tesi ebbero un'ampia eco in Inghilterra e da lì si diffusero successivamente nel continente, anche perché i tempi in cui egli scriveva furono contrassegnati da un aumento senza precedenti della popolazione europea (v. Blaug, 1968).
Ciò che avvenne nel XIX secolo, nonostante il raddoppio della popolazione mondiale, smentì le previsioni di Malthus. Il progresso tecnico accrebbe la produttività del lavoro più che compensando gli effetti sul reddito dei temuti rendimenti decrescenti, mentre i mutamenti nei valori e nei comportamenti che accompagnarono la crescita economica e la trasformazione strutturale ridussero gradualmente il tasso di natalità. Alla fine del secolo quella che i demografi chiamano 'transizione demografica' si poteva dire conclusa nei paesi più sviluppati, e il crescente benessere portava non a un aumento ma a una riduzione del tasso di crescita della popolazione.Il problema degli effetti di elevati tassi di crescita della popolazione sulla crescita del prodotto nazionale e il timore che essi possano rappresentare un ostacolo allo sviluppo si sono riproposti in epoca recente, in relazione alla situazione e alle prospettive dei paesi meno sviluppati. È a questi paesi, infatti, che si deve in massima parte l'eccezionale aumento della popolazione mondiale, più che raddoppiata dal 1950 al 1990, ed è in essi che ancor oggi fenomeni quali le carestie, la povertà, la fame non sono stati sconfitti dalla crescita economica (v. Birdsall, 1988).
I principali modelli di crescita trattano l'aumento della popolazione come una variabile esogena, non spiegata quindi dalle grandezze e dal funzionamento del sistema economico, e lo considerano coincidente con l'aumento dell'offerta di lavoro. I suoi effetti sono studiati prevalentemente in relazione alle conseguenze che esso determina sull'offerta degli altri fattori della crescita: l'accumulazione del capitale, il progresso tecnico e la dotazione di capitale umano.La tesi prevalente è che l'aumento dell'offerta di lavoro determina una diminuzione dei salari e, quindi, del costo del lavoro rispetto a quello del capitale: ne conseguirebbe un freno all'accumulazione e alla diffusione di innovazioni incorporate nei beni capitale e, quindi, una minore produttività del lavoro e un rallentamento della crescita (v. Kelley, 1988). È possibile, tuttavia, ipotizzare anche un effetto che va nella direzione opposta: in un'economia dove, come in molti paesi nelle prime fasi del loro sviluppo, prevale ancora un'agricoltura di sussistenza, l'aumento della popolazione e, in particolare, della sua densità sul territorio è uno stimolo a ricercare e ad applicare metodi più produttivi di sfruttamento del suolo (v. Boserup, 1981), mentre in economie più sviluppate esso determina un ampliamento del mercato e, quindi, favorisce decisioni di investimento e l'introduzione di innovazioni (v. Simon, 1981).
La combinazione dei diversi effetti impedisce di arrivare a risultati determinati di carattere generale. Analoga indeterminatezza si presenta quando, abbandonando l'ipotesi della coincidenza tra crescita demografica e aumento dell'offerta di lavoro, si considerano le conseguenze che la crescita ha sulla composizione della popolazione per classi di età. La crescita demografica non dipende principalmente dall'aumento del tasso di fertilità delle donne, quanto piuttosto dalla diminuzione della mortalità infantile e dall'allungamento della durata della vita conseguenti al miglioramento delle condizioni nutrizionali, igieniche e sanitarie. Questo fatto, che è indubbiamente un aspetto altamente positivo e desiderabile dello sviluppo economico, aumenta il numero dei bambini e dei vecchi e, quindi, la proporzione della popolazione economicamente dipendente da chi è in età lavorativa. I redditi da lavoro devono, quindi, provvedere ai maggiori consumi dei componenti non produttivi della famiglia, e ciò ridurrebbe la propensione al risparmio con effetti negativi sull'accumulazione e sulla crescita. Questa conclusione, tuttavia, non tiene conto del ruolo che nello sviluppo economico ha il capitale umano: un maggior numero di figli viventi, purché le famiglie o la società facciano quanto è necessario per allevarli e provvedere alla loro salute e alla loro istruzione, significa un maggior numero di esseri umani disponibili a usare le proprie facoltà intellettuali e ad accrescere le abilità e le conoscenze utili per la produzione e per il progresso tecnico (v. Simon, 1981).
Il limite principale del modo in cui le teorie della crescita trattano l'aumento della popolazione e, quindi, cercano di definirne i rapporti con lo sviluppo è quello di considerarlo una variabile esogena. L'evidenza empirica e l'esperienza storica mostrano invece l'esistenza di relazioni tra variabili demografiche e variabili economiche, e che l'andamento del tasso di crescita della popolazione di un paese può essere spiegato dalla fase e dalle caratteristiche del suo sviluppo.La teoria della transizione demografica, come è noto, sostiene che nelle prime fasi dello sviluppo la diminuzione del tasso di mortalità, conseguente alle migliori condizioni igieniche e sanitarie, si accompagna a una invarianza del tasso di natalità, perché l'aumentato livello dei redditi familiari consente di mantenere più figli, soddisfacendo un desiderio frustrato nel passato dalla forte mortalità infantile, e soprattutto perché i valori e le abitudini cambiano più lentamente di quanto si trasformi l'economia (v. Simon, 1992). Raggiunto un certo livello, il tasso di crescita si stabilizza e in seguito, con il sempre maggiore ingresso delle donne nella produzione e con il mutare dei costumi, tende a scendere e ad avvicinarsi allo zero.
Il confronto tra paesi diversi nella stessa fase di sviluppo permette inoltre di rilevare che la diffusione dell'istruzione abbassa i tassi di crescita demografica e di fertilità delle donne, e che in tal senso sono efficaci anche politiche volte a incoraggiare e a rendere possibile la pianificazione delle nascite. Quest'ultima osservazione permette di correggere la tesi, già a suo luogo ricordata, secondo la quale l'aumento del tasso di crescita della popolazione che si verifica, in una prima fase, al crescere del reddito costituisce un ostacolo al raggiungimento del livello di reddito pro capite desiderato, a meno che un massiccio programma di investimenti (un big push) non consenta di portare l'economia nella fase in cui il tasso di crescita della popolazione si stabilizza. I fatti dimostrano che, in attesa che la transizione demografica si compia, gli effetti negativi di un eccessivo aumento della popolazione possono essere contrastati, almeno in parte, incoraggiando il controllo delle nascite e destinando risorse adeguate all'istruzione e, quindi, alla formazione di capitale umano.

5. Sviluppo e mercato mondiale

La nascita del capitalismo è strettamente legata alla formazione di un mercato mondiale; si comprende, quindi, come uno dei principali oggetti di riflessione dei mercantilisti e, in generale, degli economisti del XVII e XVIII secolo sia stato, fino a Smith, il commercio d'esportazione con i suoi effetti sulla ricchezza delle nazioni; nelle teorie di Smith (v., 1776) sono già presenti alcuni temi ricorrenti poi nella letteratura in materia: i benefici che deriverebbero a tutti i paesi dall'entrare in rapporti commerciali tra loro, l'ampliamento della domanda che deriva dall'aggiungersi di quella estera a quella interna, la divisione e la specializzazione del lavoro, consentite dall'allargamento del mercato, che determinano un aumento della sua produttività.
Tuttavia, come si sa, è dal cap. 7 dei Principles di Ricardo (v., 1817) e dal suo famoso esempio dello scambio di tessuti e di vino tra Inghilterra e Portogallo che si può dire derivi tutta la teoria del commercio internazionale (v. Findlay, 1984), basata, nei suoi successivi perfezionamenti e svolgimenti, sul concetto di vantaggi comparati che quell'esempio illustrava in modo così brillante e convincente.
Fino a tempi recenti, tuttavia, questa teoria, prima nella versione classica e poi in quella neoclassica, ha considerato due economie con risorse date e pienamente occupate, che in regime di perfetta concorrenza, aprendosi allo scambio, possono realizzare combinazioni più efficienti dei fattori, restando sulla stessa frontiera delle possibilità produttive. In questi termini e per le ipotesi restrittive che la sempre maggiore formalizzazione imponeva, l'analisi dei vantaggi del commercio estero restava nell'ambito della statica economica e, al di là di qualche spunto e intuizione, non poteva cogliere e analizzare adeguatamente gli effetti che l'apertura di un paese, precedentemente chiuso agli scambi, determinava sulla sua crescita e sulla sua trasformazione strutturale.
È stato soltanto negli scorsi decenni che numerosi autori si sono proposti di dinamizzare i modelli del commercio internazionale, di estendere i modelli di crescita al caso di un'economia aperta e di studiare gli effetti del pieno inserimento nel mercato mondiale sui paesi in via di sviluppo. Il passaggio dall'allocazione ottima di risorse date al loro accrescimento e, quindi, allo spostamento della frontiera delle possibilità produttive e allo sviluppo di un'economia, nonché la ricerca di una maggiore aderenza dei modelli teorici alla realtà delle strutture economiche in trasformazione hanno portato ad abbandonare alcune ipotesi restrittive e a una più ampia concezione degli stessi vantaggi comparati (v. Bliss, 1989).
Gli effetti positivi degli scambi con l'estero sullo sviluppo di un paese possono essere così sintetizzati. Il primo è implicito nei risultati della teoria statica del commercio internazionale. Se una più efficiente allocazione delle risorse, in base ai vantaggi comparati dei quali un paese gode, porta a un aumento del suo reddito, una parte maggiore di questo reddito potrà essere risparmiata e investita. Questo effetto si può verificare, ad esempio, nel caso dello sviluppo di un'economia dualistica con eccedenza di popolazione nel settore tradizionale a suo luogo considerato (v. § 3a). In un'economia di quel tipo l'offerta di lavoro è abbondante e a basso costo relativamente a quello del capitale e ai salari correnti nei paesi industrializzati: se essa è impiegata in industrie ad alta intensità di lavoro, i loro prodotti potranno essere collocati sui mercati esteri a prezzi competitivi, ottenendo valuta utilizzabile per l'importazione di mezzi della produzione che consentono un allargamento della base produttiva e l'introduzione di nuove tecniche. Un secondo tipo di effetti è quello già considerato da Smith, quando scriveva che il commercio estero può consentire di produrre e di vendere all'estero merci per le quali non vi è sufficiente domanda interna (vent for surplus), impiegando, quindi, terra, lavoro e risparmi che non sarebbero altrimenti utilizzati. Questo effetto, valido in generale per la crescita del prodotto nazionale, può essere particolarmente significativo per la trasformazione strutturale di un paese dove prevale o manifesta ancora una forte presenza l'economia di sussistenza e dove i mercati si limitano ad ambiti locali (v. Myint, 1958; v. Caves, 1965). Quando paesi di questo tipo dispongono di ricche risorse naturali e di terra in abbondanza, la domanda estera può portare a un maggiore sfruttamento di tali risorse e all'estensione delle colture: l'esportazione di materie prime procurerà il reddito necessario ad alimentare la nascita di industrie di prima trasformazione e quindi permetterà il passaggio alla produzione e all'esportazione di beni con più alto valore aggiunto.
È stato questo, secondo alcuni autori, il caso del Canada (v. Watkins, 1963), sullo studio del quale si è basata la cosiddetta staple theory che spiega l'inizio del processo di sviluppo con l'esportazione di materie prime agricole e che può essere generalizzata, con le opportune qualificazioni, ad altri esempi (v. Balassa, 1989). A questi due tipi di effetti, che consistono in una maggiore disponibilità o in un più ampio impiego delle risorse che un paese può destinare alla produzione e all'accumulazione, se ne possono aggiungere altri che riguardano la trasformazione della sua struttura economica. Di effetti di questo tipo parlava già John Stuart Mill (v., 1848), osservando come l'apertura al commercio estero, facendo conoscere beni nuovi o nuovi modi per produrre più facilmente beni già conosciuti, possa far nascere bisogni prima inesistenti e stimolare energie e ambizioni, determinando una specie di 'rivoluzione industriale' in un paese precedentemente stagnante o sottosviluppato. Questo tema è stato ripreso in epoca recente per dimostrare che l'effetto negativo sui risparmi, che può derivare da nuovi bisogni indotti dalla conoscenza di bisogni e consumi di paesi più ricchi (effetto di dimostrazione internazionale), potrebbe essere più che compensato dagli effetti sull'incentivo a produrre da essi creato (v. Myint, 1964). Le conseguenze che gli scambi internazionali possono avere sulla struttura dell'economia sono ancor più evidenti se si considera che i mezzi della produzione sono beni che generalmente un paese nelle prime fasi del suo sviluppo deve acquistare all'estero: il ricorso al mercato internazionale è stato in molti casi la via obbligata per l'industrializzazione. Infine, una volta che in un paese si è creata una base industriale orientata prevalentemente, come in molti casi è avvenuto, alla soddisfazione della domanda interna, l'apertura all'estero, ampliando il mercato, consente alle unità produttive di accrescere le proprie dimensioni, realizzando economie di scala (v. Krugman, 1987).Gli argomenti a favore degli effetti positivi del commercio internazionale sono oggi prevalenti nelle correnti dominanti del pensiero economico, che vedono nel pieno inserimento dei paesi in via di sviluppo nel mercato mondiale la strada maestra per crescere e trasformarsi. Non mancano, tuttavia, anche nell'ambito delle teorie ortodosse, dimostrazioni della possibilità che, a certe condizioni, una crescita economica trainata dal commercio estero possa produrre effetti dannosi: il caso più studiato è quello di un aumento delle esportazioni che determina una caduta delle ragioni di scambio tale da peggiorare la situazione del paese rispetto a quella che si sarebbe avuta in assenza di crescita (v. Bhagwati, 1958). Ma le tesi più critiche nei confronti dell'orientamento di un'economia verso il mercato internazionale sono quelle di autori come Myrdal (v., 1957), Prebisch (v., 1950) e Singer (v., 1950), che ebbero una vasta diffusione e influenzarono le politiche commerciali dei paesi in via di sviluppo nei primi decenni del dopoguerra. Mentre la teoria classica e neoclassica del commercio internazionale spiegava perché, a determinate condizioni, una specializzazione produttiva dei vari paesi aperti agli scambi, basata sui loro rispettivi vantaggi comparati, aumentasse il benessere di tutti, questi economisti partono dall'esistenza di una specializzazione produttiva, creatasi nel corso dei secoli come risultato non di forze di mercato operanti alle condizioni presupposte dalla teoria pura, ma di un processo storico nel quale la conquista, la colonizzazione, lo sfruttamento di una parte del mondo da parte di un'altra hanno avuto un ruolo determinante. In seguito a questo processo, i paesi industrializzati al centro del sistema economico mondiale si sono specializzati nella produzione di manufatti, quelli sottosviluppati, della periferia, nella produzione di materie prime. Ciò determinerebbe un'asimmetria delle rispettive posizioni, perché negli uni e negli altri sono diversi i meccanismi di formazione dei prezzi e diverse le elasticità della domanda internazionale per i due tipi di prodotti. Nei paesi industrializzati l'esistenza di mercati oligopolistici e di forti sindacati operai fa sì che l'aumento della produttività, conseguente all'accumulazione e al progresso tecnico, si traduca, in gran parte, in maggiori profitti e salari, mentre nei paesi periferici la forte concorrenza internazionale per i prodotti agricoli, l'offerta quasi illimitata di lavoro, la mancanza o la debolezza dei sindacati mantengono i prezzi bassi, cosicché l'effetto di una maggiore produttività va a vantaggio dei consumatori e, quindi, degli importatori di questi prodotti. Ne deriva una tendenza secolare alla caduta delle ragioni di scambio per i paesi sottosviluppati esportatori di materie prime. Inoltre, mentre in questi paesi l'inizio di un processo di sviluppo comporta una elevata elasticità della domanda di prodotti manufatti al crescere del reddito, la domanda di beni primari da parte dei paesi industrializzati aumenta molto lentamente, perché la quota dei prodotti agricoli per l'alimentazione sul consumo totale diminuisce al crescere del reddito e il progresso tecnico sostituisce nell'industria di trasformazione materiali sintetici alle materie prime naturali. Un paese importatore di manufatti ed esportatore di materie prime sarà quindi costretto, per ottenere la stessa quantità dei primi, a scambiare una sempre maggiore quantità delle seconde e incontrerà, d'altra parte, sempre maggiori limiti alla loro esportazione.
Queste tesi portavano a sostenere la necessità per i paesi in via di sviluppo di ridurre la loro dipendenza dal mercato mondiale, indirizzando i propri sforzi verso un'industrializzazione orientata prevalentemente al mercato interno, che sostituisse beni nazionali a beni importati e che avrebbe richiesto, almeno per un certo periodo, misure protezionistiche, come, del resto, avevano sostenuto nel secolo scorso List (v., 1841) e altri autori per i paesi late comers.
Anche se gli insuccessi delle politiche di industrializzazione sostitutiva delle importazioni, le distorsioni causate dal protezionismo e i suoi elevati costi sociali, i risultati ottenuti dalla liberalizzazione degli scambi, prima in Occidente e poi nei paesi dell'Asia orientale, hanno contribuito, insieme alla riacquistata egemonia delle correnti di pensiero neoclassiche, a togliere credito alle tesi dei critici del mercato mondiale, la rigida contrapposizione tra le loro analisi e quelle dei fautori del liberismo sembra essere oggi meno radicale di quanto non fosse nella prima parte degli anni ottanta.
L'evidenza empirica relativa a un campione di paesi analizzato da Maddison (v., 1982) e da Evans (v., 1989) permette di constatare, per gli anni dal 1820 al 1985, un'associazione statistica positiva tra i tassi di crescita del prodotto nazionale e delle esportazioni per tutti, tranne uno, gli intervalli considerati, ma nulla si può dire sulla direzione del rapporto causale tra le due grandezze. Anche gli storici che hanno discusso il problema con riferimento alla rivoluzione industriale, d'altra parte, hanno opinioni discordi in merito alla questione se, in quella fase dello sviluppo capitalistico, il commercio internazionale sia stato una forza motrice dello sviluppo o soltanto una condizione che lo ha favorito (un engine oppure un handmaiden of growth) (v. Eversley, 1967; v., Landes, 1969). Per quanto riguarda, in particolare, i paesi in via di sviluppo, la tesi sulla caduta delle ragioni di scambio per i paesi esportatori di materie prime era indubbiamente fondata su basi statistiche alquanto semplicistiche e deboli (v. Haberler, 1961), ma una serie di ricerche condotte su dati più numerosi e con metodi più raffinati sembrano confermare, pur attenuandone la portata, alcune delle conclusioni allora raggiunte (v. Spraos, 1980). Infine, uno studio accurato dei casi di successo dei paesi in via di sviluppo con diverse strutture e diverse politiche economiche (v. Chenery e altri 1986; v. Singer, 1987) sembra portare alla conclusione che un pieno inserimento nel mercato mondiale abbia effetti più o meno positivi sullo sviluppo a seconda dei beni che un paese può esportare e, quindi, della fase in cui si trova il suo processo di trasformazione strutturale, che ha sempre richiesto, per i late comers un periodo di sostegno e di protezione all'industria nascente per superare la posizione di relativo svantaggio rispetto ai paesi più avanzati.

6. Crescita e distribuzione del reddito

Nel concetto di sviluppo economico è, fin dalle origini, implicita l'idea di un passaggio a uno stato di cose preferibile a quello precedente, ossia di un miglioramento: lo sviluppo è quindi socialmente desiderabile. Tuttavia sembra ragionevole pensare che, se esso viene definito come la crescita del prodotto e la trasformazione strutturale di un paese, per i cittadini di quest'ultimo non sia desiderabile tanto lo sviluppo in sé quanto il maggior benessere che ne può derivare. Il passaggio dal benessere individuale a quello sociale è un'operazione teorica complessa e controversa, ma si può concordare sul fatto che un aumento del benessere sociale non dipenda solo dalla crescita del prodotto nazionale, ma anche dal modo in cui essa è distribuita. L'economia del benessere, nella sua originale impostazione utilitaristica, sosteneva che se tutti gli individui hanno la stessa capacità di trarre benessere dalle risorse delle quali dispongono e queste producono soddisfazioni decrescenti al crescere della loro quantità, la distribuzione egualitaria del reddito è quella che rende massimo il benessere sociale.
Perché lo sviluppo porti a un maggior benessere sarebbe dunque necessario che la crescita del reddito si accompagnasse a una diminuzione della diseguaglianza, ma già l'autore che aveva posto i fondamenti teorici di questa tesi metteva in luce i limiti di una sua attuazione nella pratica, rilevando che una redistribuzione egualitaria del reddito poteva ridurre il reddito potenziale in misura tale da andare a danno anziché a vantaggio del benessere (v. Pigou, 1951). Il problema dei rapporti tra crescita e distribuzione del reddito è quindi un tema centrale dell'economia dello sviluppo.
Gli economisti che considerano l'accumulazione del capitale come il fattore determinante della crescita tendono a trascurare gli aspetti distributivi dello sviluppo, in quanto ritengono prioritario l'aumento del risparmio che può derivare essenzialmente da una accresciuta quota del profitto sul reddito nazionale. L'esempio più chiaro di questa impostazione è il già citato modello dualistico di Lewis (v. § 3a) nel quale la crescita è consentita dal fatto che l'offerta illimitata di lavoro mantiene i salari di poco al di sopra del minimo di sussistenza, mentre l'accresciuta produttività determina elevati margini di profitto reinvestiti dagli imprenditori. Poiché una distribuzione funzionale del reddito più favorevole al capitale e meno al lavoro si accompagnerà a una distribuzione interpersonale più diseguale, sembrerebbe che la diseguaglianza sia una condizione favorevole alla crescita. Il corollario di questa tesi era che i lavoratori e, in genere, gli strati della popolazione più poveri avrebbero potuto, ma solo in un secondo momento, godere anch'essi dei benefici dello sviluppo, che si sarebbero inevitabilmente diffusi, per l'operare di vari meccanismi, su tutta la società (v. Cline, 1975; v. Adelman, 1979).
Era questa un'idea che sembrava trovare conferma sul piano storico dalle indagini di Simon Kuznets (v., 1963) il quale, confrontando paesi che si trovavano in diverse fasi di sviluppo e derivandone, mediante un'analisi cross-section, una curva che metteva in relazione reddito pro capite e indice della dispersione del reddito, rilevava come questa avesse un andamento a U rovesciata, mostrando un'accentuazione della diseguaglianza in un primo tratto e una attenuazione in un secondo, dopo che il reddito pro capite aveva raggiunto un livello piuttosto elevato. Questi risultati appaiono spiegabili e plausibili quando si pensi al passaggio di un paese da un'economia agricola prevalentemente di sussistenza e a bassa produttività a una struttura più articolata e differenziata. La produttività del lavoro e la sua retribuzione saranno maggiori nell'agricoltura commerciale che in quella di sussistenza e nel nascente settore industriale rispetto a quello agricolo, determinando differenziazioni nel reddito degli addetti ai diversi settori, e all'interno dello stesso settore, per l'accresciuta disomogeneità del lavoro. La trasformazione strutturale determinerà un aumento del sovrappiù rispetto alla situazione precedente, e quindi si presenterà per alcuni componenti e strati della società la possibilità di risparmiare e investire una parte dei profitti e delle rendite, determinando una concentrazione della ricchezza che comporterà, a sua volta, una ulteriore dispersione dei redditi. Inoltre, la stratificazione sociale conseguente a questi processi attribuirà a classi o ceti diversi un diverso peso politico, assicurando ad alcuni una maggior tutela o una più rilevante forza contrattuale, mentre le istituzioni tradizionali della famiglia allargata, del villaggio, del clan, che svolgevano una funzione redistributiva, entreranno in crisi, almeno parzialmente, lasciando indifesi gli strati più deboli della popolazione (v. Kravis, 1960; v. Adelman e Robinson, 1989).
Se, dunque, una maggiore diseguaglianza può essere un effetto della crescita, almeno per una prima fase dello sviluppo, da ciò non si può dedurre che essa ne rappresenti una condizione favorevole o tanto meno necessaria, cosa che, del resto, Kuznets non ha mai sostenuto. Inoltre, alcune ricerche successive, confrontando paesi a un livello di sviluppo simile e verificando il grado di correlazione tra distribuzione del reddito e variabili diverse dal prodotto pro capite, hanno mostrato che alcune caratteristiche strutturali e il livello di istruzione dei paesi considerati hanno una maggiore capacità esplicativa delle differenze distributive di quanta non ne abbia il livello del reddito (v. Fields, 1980). Se questi risultati sono attendibili, se ne può trarre la conclusione che una maggiore diseguaglianza, più che un effetto della crescita, è una conseguenza del tipo di sviluppo o, più precisamente, che le tendenze all'accentuazione delle differenziazioni della ricchezza e dei redditi, conseguente alla trasformazione strutturale di un paese, possono essere più o meno compensate da appropriate scelte di allocazione delle risorse. A questo proposito una tesi interessante è quella svolta dall'economista Irma Adelman (v., 1979). L'autrice sostiene che nel passato, quando un determinato fattore della produzione (la terra, il capitale fisico, quello finanziario, quello umano) è diventato il 'fattore critico' dello sviluppo, la sua produttività è aumentata con vantaggio per i pochi individui che ne disponevano e a svantaggio di altri: di conseguenza la distribuzione del reddito è diventata più diseguale e solo in un secondo tempo, generalmente dopo due o tre generazioni, una serie di aggiustamenti ha portato a una distribuzione più egualitaria dei fattori produttivi e quindi del reddito. Una redistribuzione dei fattori strategici, prima che inizi il processo di sviluppo, determinerebbe un processo di crescita con una distribuzione migliore del reddito in tempi più rapidi e con minori sofferenze per una parte della popolazione. Nei paesi in via di sviluppo questo risultato potrebbe essere ottenuto se la terra venisse distribuita ai coltivatori prima dell'introduzione di tecniche che ne aumentano la produttività e se un vasto programma di istruzione e formazione precedesse l'inizio dell'industrializzazione.
Se il rapporto tra distribuzione del reddito e crescita non è definibile e misurabile con sicurezza, si può arrivare alla conclusione che una distribuzione più egualitaria - o che, quanto meno, permetta di vincere mali sociali come la miseria e la fame - è di per sé desiderabile indipendentemente dai suoi effetti sulla crescita (v. Cline, 1991). A favore della tesi che una riduzione della diseguaglianza, oltre a essere un obiettivo meritevole in se stesso, possa essere anche una condizione che aiuta la crescita, vi sono tuttavia alcuni argomenti ai quali la teoria che attribuiva un ruolo centrale all'accumulazione del capitale fisico, considerandolo la forza trainante dello sviluppo, non dava sufficiente importanza. Il primo riguarda il problema della domanda e dell'ampiezza del mercato interno, più volte richiamato (v. § 3a). In un'economia dove gran parte della popolazione vive a livelli di sussistenza o in condizioni di povertà, gli stimoli all'investimento e all'innovazione e, quindi, i presupposti della crescita della produzione saranno scarsi. Si può, al proposito, ricordare nuovamente come alcuni storici indichino tra le condizioni che hanno prodotto la prima rivoluzione industriale in Inghilterra, anziché nel continente, i maggiori redditi e, quindi, la maggior capacità di consumo delle popolazioni rurali in quel paese (v. Landes, 1969).
Il secondo argomento riguarda il ruolo del capitale umano. Abbiamo visto che la soddisfazione dei bisogni essenziali e il possesso di conoscenze e abilità accrescono la produttività del lavoro, offrono maggiori possibilità di evoluzione alle piccole imprese, facilitano l'apprendimento di nuove tecniche, favoriscono il contenimento della crescita demografica. Tutto ciò è possibile se l'alimentazione è sufficiente, i servizi igienici e sanitari accessibili, l'istruzione diffusa, e richiede, quindi, che i redditi degli individui e delle famiglie siano abbastanza alti da consentire di acquistare quei beni e servizi o siano integrati, in termini monetari o reali, da una redistribuzione delle risorse da parte dello Stato.

7. La misurazione dello sviluppo

Se lo sviluppo economico consiste nella crescita del prodotto nazionale e nella trasformazione strutturale di un paese, la sua misurazione dovrebbe coincidere con la misurazione di questi due fenomeni. Di fatto gli economisti, quando studiano gli andamenti di lungo periodo di un'economia e, in particolare, i processi attraverso i quali un paese passa da una situazione definibile di sottosviluppo a un'altra che lo caratterizza come in via di sviluppo o sviluppato, prendono in considerazione, insieme al dato delle variazioni del prodotto nazionale, totale e pro capite, indici relativi alla sua industrializzazione (come la quota di prodotto attribuibile alle attività di trasformazione e la quota della popolazione in esse occupata), alla composizione delle sue esportazioni (come il rapporto tra quella di prodotti primari e quella di manufatti) e altre grandezze significative per definirne la struttura produttiva e le sue trasformazioni. Tuttavia, poiché i cambiamenti della struttura economica sono un aspetto dello sviluppo in quanto aumentano la produttività del lavoro, ampliano la base produttiva e quindi, in definitiva, accrescono la produzione, la grandezza comunemente usata per misurare lo sviluppo è il prodotto nazionale lordo. Un paese è considerato tanto più sviluppato quanto più alto è il suo prodotto pro capite, e il tasso di crescita del prodotto, confrontato con quello di crescita della popolazione, indica il ritmo del suo sviluppo, cioè la maggiore o minore capacità del paese di mantenere o accrescere il reddito disponibile per ogni suo abitante.L'uso di questi indici presenta, tuttavia, una serie di difficoltà e di problemi di ordine statistico ed economico.
Dal punto di vista statistico, i problemi sono quelli, ben noti, che riguardano il calcolo del prodotto nazionale e in particolare il fatto che questa grandezza è la somma dei beni e servizi prodotti nell'anno, valutati ai prezzi di mercato, e accertati in base ad apposite procedure di rilevazione. La parte di produzione che non passa per il mercato o che sfugge alle rilevazioni non può, quindi, essere misurata e deve essere oggetto di stime. Le difficoltà nascono soprattutto quando si considerano e si confrontano paesi diversi, con diverse strutture economiche, politiche e amministrative e con istituti statistici di diversa efficienza e affidabilità. Sappiamo, ad esempio, che nelle economie agricole poco sviluppate è molto esteso il settore che produce per l'autoconsumo e non per il mercato, che le attività dette informali o sommerse, le quali più facilmente sfuggono alla rilevazione statistica, sono presenti in misura diversa nei vari paesi, che esistono situazioni nelle quali la pubblica amministrazione ha un controllo parziale del territorio e dove le statistiche economiche e i censimenti della popolazione sono poco affidabili.Inoltre, per confrontare diversi prodotti nazionali, calcolati in ciascun paese nella moneta locale, occorre tradurli in una sola unità monetaria, cosa che si fa normalmente esprimendoli in dollari degli Stati Uniti in base al tasso di cambio tra le due valute. Il tasso di cambio ufficiale, tuttavia, è spesso sottovalutato o sopravvalutato rispetto a quello che si avrebbe in condizioni di libero mercato e talora oscilla bruscamente, cosicché il prodotto nazionale del paese che ha svalutato o rivalutato la propria moneta può mostrare una diminuzione o un aumento che non riflettono variazioni della produzione reale. In ogni caso, anche quando il tasso di cambio è determinato dal mercato, esso dipende dalla domanda e offerta di moneta connesse agli scambi di merci con il resto del mondo e ai flussi finanziari internazionali, e non tiene conto dei beni e servizi che non sono commerciati internazionalmente, ma che hanno un peso rilevante per il consumatore. Di conseguenza, il reddito pro capite di un paese espresso in dollari americani non riflette il reale potere d'acquisto dei suoi abitanti. In particolare, in paesi dove buona parte dei consumatori acquistano beni e servizi prodotti e commerciati localmente a costi e prezzi molto più bassi di quelli degli stessi beni e servizi prodotti nei paesi più sviluppati, il dollaro americano acquista una quota del prodotto nazionale molto maggiore di quella che potrebbe acquistare in questi ultimi.
Ormai da tempo, quindi, per evitare una immagine distorta del grado di sviluppo e della sua divergenza tra paesi diversi, in molte statistiche internazionali, accanto a quelli espressi in dollari degli Stati Uniti, vengono pubblicati i dati del prodotto nazionale calcolati in base a una unità di valore, convenzionale, chiamata 'dollaro a pari potere d'acquisto' che tiene conto delle diverse strutture dei prezzi interni e corrisponde alla stessa quota del prodotto nazionale per ogni paese.Il principale problema posto dall'indice del prodotto nazionale pro capite è tuttavia quello del suo significato economico, ossia della sua adeguatezza a rappresentare il livello di sviluppo economico di un paese. Questo problema rimanda a quello, più generale, della definizione stessa dello sviluppo. Come abbiamo visto, infatti, è stato osservato che lo sviluppo ha un senso solo se la crescita e la trasformazione strutturale portano a un aumento del benessere sociale, comunque questo venga definito (v. cap. 6). Un'ovvia critica all'indice del prodotto nazionale pro capite nasce quindi dal fatto che esso, per sua natura, non può dar conto di come il reddito è distribuito, e cioè di un aspetto della struttura economica e sociale di un paese rilevante per valutare il livello di benessere della sua popolazione (v. Marrama, 1958). Più in generale, si può sostenere che il rilievo attribuito dagli economisti alla crescita della produzione ha portato a considerare questa come un fine, anziché come un mezzo, importante ma non esclusivo, per migliorare le condizioni di vita di un paese, ignorando il ruolo di altre variabili (v. Sen, 1983). Se, ad esempio, si assume l'aspettativa di vita alla nascita come un indicatore delle condizioni economiche e sociali, si può notare che essa varia sensibilmente in paesi con lo stesso livello di reddito pro capite ed è più alta in alcuni paesi poveri rispetto a quella di paesi molto più ricchi. D'altra parte, ciò che permette di rendere più lunga la vita, ossia una nutrizione adeguata, accessibilità alle cure mediche, diffusione dell'igiene, è anche ciò che migliora la qualità della vita (v. Sen, 1988).
Queste considerazioni hanno spinto le organizzazioni internazionali a perfezionare le loro rilevazioni, estendendole ad aspetti demografici, sociali ed economici ritenuti rilevanti per la misurazione del grado di sviluppo di un paese, aggiungendo nelle loro statistiche al dato del prodotto nazionale pro capite altri indicatori, quali l'aspettativa di vita alla nascita, l'alfabetizzazione, le condizioni nutrizionali, l'offerta di servizi sanitari. Più recentemente le Nazioni Unite hanno elaborato un indicatore sintetico, chiamato indice dello sviluppo umano (HDI) ottenuto combinando, attraverso varie operazioni di omogeneizzazione e ponderazione, tre diverse componenti: l'aspettativa di vita, il livello di istruzione, il reddito pro capite valutato in termini di pari potere d'acquisto (v. United Nations Development Program, 1997). Confrontando la classificazione dei paesi in base al tradizionale indice del prodotto nazionale pro capite e quella ottenuta ordinandoli secondo l'indice dello sviluppo umano, si può facilmente rilevare come le due graduatorie così ottenute differiscano sensibilmente. Se, dunque, si pensa che lo sviluppo sia un risultato desiderabile dell'azione degli uomini in quanto ne migliora le condizioni di vita, si deve concludere che esso non dipende soltanto dall'ammontare e dalla crescita delle risorse e da quanto si produce, ma da come le risorse vengono impiegate, da ciò che si produce e da quanti possono disporre dei beni e dei servizi prodotti.

Enciclopedia del Novecento III Supplemento (2004)

Sviluppo economico

di Eliana La Ferrara


SOMMARIO: 1. Introduzione. ▭ 2. Approccio macroeconomico allo sviluppo: a) teoria neoclassica della crescita e convergenza; b) modelli di crescita endogena; c) modelli con equilibri multipli o persistenza storica. ▭ 3. Approccio microeconomico allo sviluppo: a) la famiglia; b) mercati del lavoro; c) mercati della terra; d) mercati del credito; e) capitale sociale. ▭ 4. Conclusioni. ▭ Bibliografia.


1. Introduzione.

Nell'anno 2000 il reddito medio annuale di un cittadino statunitense era di circa 35.000 dollari, quello di un cittadino indiano di circa 450 dollari, quello di un cittadino etiope raggiungeva a fatica i 100 dollari. La dicotomia tra paesi industralizzati (o 'ad alto reddito', come vengono definiti dalla Banca Mondiale) e paesi in via di sviluppo (o 'a basso e medio reddito') è evidente se si confrontano i 26.720 dollari di reddito pro capite dei primi con i 1.194 dollari dei secondi. Se si aggiustano queste cifre per tenere conto del fatto che il costo della vita è diverso tra questi paesi, il reddito pro capite annuale 'a parità di potere d'acquisto' era, rispettivamente, di 35.619 dollari per gli Stati Uniti, 2.683 per l'India e 720 per l'Etiopia (le cifre nominali sono tratte dai World development indicators della Banca Mondiale; quelle aggiustate per la parità dei poteri d'acquisto, dalle Penn world tables version 6.1: v. Heston e altri, 2002). Il panorama risulta ancora più eterogeneo se si guarda all'evoluzione dell'economia di questi paesi nel tempo. Dal 1970 al 2000 il tasso di crescita medio annuale del Prodotto Interno Lordo (PIL) pro capite è stato 2,1% negli Stati Uniti, 2,8% in India, e solamente 0,3% in Etiopia (ha registrato per molti anni valori negativi, cioè riduzioni del prodotto pro capite). Mentre dunque alcuni paesi in via di sviluppo (PVS) - tra cui l'India e i paesi dell'Asia orientale - hanno sperimentato tassi di crescita sostenuti, che in prospettiva potrebbero consentire loro di avvicinarsi al tenore di vita delle economie industrializzate, altri - soprattutto i paesi africani - sembrano intrappolati in una situazione di povertà endemica.
Quali sono le cause di differenze così marcate nella performance economica dei paesi? Può la teoria economica suggerire delle politiche che aiutino i paesi poveri a uscire dal sottosviluppo? Sono queste le domande cruciali che si pone l'economia dello sviluppo, e nelle pagine che seguono cercheremo di esporre sinteticamente alcune delle linee interpretative e alcune delle risposte che sono state fornite nell'ultimo ventennio. Per motivi di spazio, non potremo rendere giustizia alla molteplicità dei contributi in materia e opereremo una selezione dettata soprattutto da un principio metodologico: quello di lasciar trasparire un modo di pensare allo sviluppo economico che ne esplori le radici profonde, sia quando si guarda a fenomeni aggregati, sia quando si esaminano meccanismi specifici. Per una trattazione più approfondita ma estremamente accessibile dell'economia dello sviluppo, si rinvia al testo di Debraj Ray (v., 1998). Le teorie macroeconomiche dello sviluppo sono efficacemente sintetizzate dai lavori di Robert J. Barro e Xavier Sala-i-Martin (v., 1995) e di Francesco Daveri (v., 1996); quelle microeconomiche dal testo di Pranab Bardhan e Christopher Udry (v., 1999). Infine, l'introduzione al volume di Dilip Mookherjee e Debraj Ray (v., 2000) presenta una rassegna sugli sviluppi teorici più recenti ispirata agli stessi criteri che verranno seguiti in questo articolo.
L'esposizione sarà organizzata in due parti. La prima adotterà una prospettiva macroeconomica, esplorando la natura delle cause del sottosviluppo a livello aggregato, cioè guardando all'economia nel suo complesso. Sarà anzitutto ripreso brevemente l'approccio neoclassico alla teoria della crescita, con la nozione di convergenza e le verifiche empiriche che recentemente si sono ispirate a tale paradigma. Di seguito saranno proposti modelli alternativi, basati sull'idea di crescita endogena, sul concetto di equilibri multipli e sul ruolo dei fattori storici e di quella che viene denominata 'isteresi' nel condizionare i percorsi di crescita delle varie economie. Nella seconda parte di questo contributo l'attenzione si sposterà sugli aspetti microeconomici dello sviluppo. Si individueranno alcune imperfezioni dei mercati che vincolano severamente le prospettive di crescita dei paesi in via di sviluppo e si esaminerà in che misura diverse istituzioni informali emerse nel tempo siano riuscite a far fronte a tali imperfezioni. In particolare, saranno considerate delle applicazioni al mercato del lavoro, al mercato della terra e a quello del credito. Infine, faremo brevemente riferimento ai recenti sforzi per incorporare nei modelli di sviluppo economico il ruolo delle interazioni interpersonali e delle norme sociali, attraverso quello che è stato definito, in contrapposizione al capitale fisico, 'capitale sociale'. Ove possibile, si cercherà di mettere in luce le implicazioni delle teorie esposte per la politica economica, con la consapevolezza che una seria considerazione degli aspetti di politica economica richiederebbe una trattazione a sé.


2. Approccio macroeconomico allo sviluppo.

a) Teoria neoclassica della crescita e convergenza.

Il paradigma neoclassico della teoria della crescita si fonda sul contributo fondamentale di Robert M. Solow (v., 1956). Nel modello di Solow l'output prodotto da un'economia è funzione della sua dotazione di lavoro e di capitale fisico, nonché della tecnologia disponibile. Un'ipotesi cruciale è che i fattori capitale e lavoro abbiano rendimenti marginali decrescenti. Dire che vi sono rendimenti decrescenti nel capitale significa che, data la tecnologia e tenendo costante l'ammontare di lavoro impiegato, il prodotto aggiuntivo che risulta dall'impiego di ulteriori quantità di capitale è positivo, ma decresce all'aumentare dello stock totale di capitale utilizzato (si consideri, a titolo di esempio, un lavoratore che produce utilizzando una macchina per fotocopie; l'aggiunta di una seconda macchina aumenterà di un certo ammontare la sua produzione; l'aggiunta poi di una terza, una quarta, una quinta macchina, ecc. continuerà ad aumentare la produzione, ma in misura progressivamente minore, in quanto sarà sempre più difficile per quel singolo lavoratore coordinare il funzionamento di tutte le macchine). Data questa ipotesi, a parità di tassi di risparmio e di crescita della popolazione, i paesi con dotazioni iniziali di capitale inferiori dovrebbero attrarre maggiori investimenti - in quanto il tasso di rendimento del capitale in quei paesi è più alto - grazie ai quali dovrebbero crescere più velocemente e alla fine convergere al livello di benessere dei paesi più avanzati.
È questa, in termini molto semplificati, l'ipotesi di 'convergenza' del modello neoclassico. Occorre notare che il tasso di crescita dei paesi durante la fase di transizione dipende da una serie di variabili, quali il livello iniziale del reddito, il tasso di crescita della popolazione e l'accumulazione di capitale fisico e umano (quest'ultimo approssimato dal livello di istruzione come misura della 'qualità' della forza-lavoro, nella versione 'ampliata' del modello di Solow). Nel lungo periodo, tuttavia, quando il processo di convergenza è compiuto, l'unica determinante del tasso di crescita è il progresso tecnologico, che nel modello di Solow si ipotizza esogeno, ossia determinato dall'esterno. Per esempio, un aumento del risparmio - tipicamente considerato nella politica economica come uno dei motori della crescita - nel modello neoclassico si traduce in investimento e contribuisce a far crescere il prodotto per un certo periodo, ma alla fine fa aumentare il rapporto capitale/lavoro, così che il prodotto marginale del capitale diminuisce e si ritorna a un equilibrio in cui l'unica determinante della crescita è il tasso di progresso tecnologico.
Gli anni recenti hanno visto un massiccio aumento nella disponibilità di dati a livello cross country, cioè per una molteplicità di paesi, e ciò ha alimentato una lunga serie di studi volti a convalidare (o non convalidare) il modello neoclassico di crescita. In questi lavori - ispirati agli articoli di Barro (v., 1991) e di N. Gregory Mankiw, David Romer e David N. Weil (v., 1992) - il tasso di crescita del PIL pro capite viene spiegato come funzione di diverse categorie di variabili. Anzitutto vi è un nucleo di variabili che il modello di Solow 'ampliato' identifica come importanti: l'investimento in capitale fisico e quello in capitale umano risultano in genere positivamente correlati col tasso di crescita, nel senso che paesi con maggiori investimenti hanno tassi di crescita del PIL più elevati. Invece, il tasso di fertilità risulta di solito negativamente correlato con la crescita, ossia nei paesi in cui la popolazione aumenta più rapidamente il prodotto pro capite cresce meno. Questi tre fattori hanno tradizionalmente ispirato politiche economiche volte ad aumentare le infrastrutture e i beni capitali pubblici nei paesi poveri, a incentivare gli investimenti privati (si pensi alle manovre di liberalizzazione finanziaria), a estendere il più possibile l'accesso all'istruzione primaria e secondaria, e a limitare il tasso di fertilità nei paesi con maggiore pressione demografica (ad esempio, con programmi di controllo delle nascite).
Uno dei limiti principali degli studi empirici sopra citati è che gran parte del differenziale di crescita fra paesi rimane non spiegato, e quindi si invocano differenze nel 'progresso tecnico non misurato' come responsabili delle variazioni nella performance economica tra paesi. Alcuni lavori più recenti hanno cercato di incorporare tra le variabili esplicative della crescita anche fattori che indirettamente influenzano la capacità di innovare e di accumulare capitale e lavoro. Tra queste variabili ve ne sono alcune che potremmo definire 'strutturali' - come le caratteristiche geografiche e climatiche e la composizione etnica della popolazione - e altre che sono frutto delle 'politiche' stesse dei governi - come variabili di politica monetaria e fiscale, e anche di politica commerciale. Vi è tuttavia un'importante differenza tra queste due categorie di variabili. Quando si osserva che i paesi senza accesso al mare o i paesi con una popolazione etnicamente più eterogenea hanno, a parità di altre condizioni, tassi di crescita inferiori, vi è poco che le autorità di politica economica possano fare per modificare quelle condizioni: in un certo senso - e soprattutto per variabili geografiche come la mancanza di accesso al mare o l'assenza di fiumi - questo tipo di 'spiegazioni' dei differenziali di crescita finisce per imputarli al fato. Diverso è invece il caso delle politiche economiche. L'evidenza empirica suggerisce che il tasso di crescita del PIL è negativamente correlato con indicatori di politiche commerciali protezionistiche, di iperinflazione, con i deficit del settore pubblico e con indicatori di repressione finanziaria. Non solo queste variabili si prestano a interventi da parte delle autorità di politica economica, ma nell'ultimo ventennio riforme volte a ridurle sono state esplicitamente invocate da organismi come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale quale condizione per la concessione di prestiti a molti paesi poveri. Infine, un terzo gruppo di variabili esplicative che sono state introdotte negli studi sulla crescita è di natura 'istituzionale', e riguarda aspetti come il grado di corruzione, il decentramento politico-amministrativo, i sistemi di governo e le norme sociali (per il concetto di 'capitale sociale', v. sotto, cap. 3 § e). Attualmente, lo sforzo della ricerca è rivolto a identificare i meccanismi attraverso cui queste variabili condizionano le prospettive di sviluppo dei paesi, o a verificare se le istituzioni non siano a loro volta determinate dall'ambiente economico. A tal fine, come vedremo in seguito, l'approccio microeconomico sembra offrire spunti particolarmente utili.

b) Modelli di crescita endogena.

Il fallimento dell'ipotesi di convergenza - cioè l'osservazione che non è vero che i paesi più poveri siano cresciuti a tassi più elevati di quelli ricchi fino a raggiungerli, né che i capitali si spostino dai paesi che ne hanno abbondanza a quelli che ne hanno scarsità (come richiederebbe la legge dei rendimenti decrescenti) - ha spinto alcuni studiosi a proporre teorie alternative. La principale caratteristica di queste teorie è che i fattori responsabili della crescita nel lungo periodo sono determinati all'interno del modello stesso (da cui il termine crescita 'endogena') anziché 'piovere dal cielo', come il progresso tecnologico nel modello di Solow.
Il primo modello di questo tipo è stato proposto da Paul M. Romer (v., 1986), il quale ha ipotizzato che l'investimento medio in capitale fisico abbia un effetto sulla produttività attraverso una variante del cosiddetto 'learning by doing'. Inoltre, la conoscenza che viene in questo modo creata diviene accessibile alle altre imprese a costo zero, così che il tasso di progresso tecnologico nell'economia non è più esogeno, bensì è determinato dal tasso di accumulazione del capitale. L'elemento interessante di tale modello è che anche se per la singola impresa esistono rendimenti decrescenti del capitale, per la società nel suo complesso ciò non è più vero: grazie all'esistenza di rendimenti costanti o crescenti si genera crescita endogena. Un risultato simile è ottenuto nel modello di Robert Lucas (v., 1988), in cui le decisioni individuali di investimento in capitale umano contribuiscono ad aumentarne lo stock nell'economia e ciò crea un'esternalità positiva sulla produzione, generando crescita endogena. Altre varianti di modelli con crescita endogena introducono l'investimento in ricerca e sviluppo e l'esistenza di rendite monopolistiche per le imprese che innovano e ricavano anch'esse endogenamente il tasso di crescita. Le implicazioni di politica economica di queste teorie sono dunque diverse da quelle del modello di Solow e riguardano, tra le altre, i sussidi alla ricerca e all'innovazione, le politiche anti-trust e la protezione dei diritti di proprietà intellettuale.
Nonostante il dibattito e l'interesse suscitato dalle teorie della crescita endogena, le limitate verifiche empiriche a cui sono state sottoposte hanno fornito risultati che non permettono di convalidare questi modelli. In particolare, Charles Jones (v., 1995), utilizzando serie storiche per gli Stati Uniti, mostra come a fronte di un andamento crescente negli anni degli investimenti in ricerca e sviluppo e in capitale umano (entrambi fattori che nei modelli di crescita endogena dovrebbero generare un aumento nel tempo del tasso di crescita del PIL), il tasso di crescita dell'economia statunitense nel XX secolo sia rimasto sostanzialmente costante. Una delle difficoltà che si incontrano nello stimare i modelli di crescita endogena, comunque, è che tra gli elementi che li distinguono empiricamente dalla teoria neoclassica vi è il ruolo delle esternalità tra imprese, e che queste ultime sono difficili da misurare. Resta dunque spazio per ulteriore lavoro empirico in questo campo.

c) Modelli con equilibri multipli o persistenza storica.

Un'altra fonte di insoddisfazione nei confronti della teoria neoclassica della crescita sta nel fatto che, in ultima analisi, essa attribuisce gli squilibri nei tassi di crescita tra paesi a 'differenze intrinseche' tra le popolazioni che li abitano, per esempio riguardo alla propensione a risparmiare o a procreare. Una visione alternativa del fenomeno consente di dimostrare come lo stesso paese - e quindi le stesse persone, indipendentemente dalle loro caratteristiche intrinseche - possa trovarsi imprigionato in situazioni con livelli di sviluppo molto diversi. In questo caso, il fatto che alcuni paesi siano poveri e altri ricchi dipende dalle circostanze storiche che hanno portato al raggiungimento di un equilibrio piuttosto che un altro, ma con opportune politiche è possibile 'spostare' i paesi poveri su una traiettoria che li porterà all'equilibrio 'virtuoso'.
L'idea che il sottosviluppo possa essere semplicemente frutto di un mancato coordinamento risale ai contributi di Paul Rosenstein-Rodan (v., 1943) e Albert Hirschman (v., 1958) ed è stata recentemente formalizzata da Kevin Murphy, Andrej Shleifer e Robert Vishny (v., 1989). Secondo questi ultimi, è possibile che non siano effettuati investimenti in un dato settore in quanto mancano investimenti in un settore complementare, e che a loro volta gli investimenti nel settore complementare non siano stati fatti perché mancavano quelli nel primo. Per esempio, investire per costruire una rete ferroviaria abbasserebbe i costi di trasporto delle merci e quindi stimolerebbe l'offerta di alcuni settori produttivi; tuttavia, in mancanza di una sufficiente espansione di queste attività produttive potrebbe non valere la pena di creare la rete ferroviaria. Si può dunque concepire che lo stesso paese finisca per trovarsi in due equilibri diversi: il primo, con bassi investimenti sia in infrastrutture che nella produzione (sottosviluppo), il secondo, con alti investimenti in entrambi i settori (sviluppo). Alla radice di questo meccanismo vi è l'esistenza di esternalità tra settori, nel senso che le scelte di investimento di uno o più settori aumentano la profittabilità degli investimenti in altri settori, facendo sì che l'investimento che non era vantaggioso per il singolo settore considerato isolatamente lo sia per l'economia nel suo complesso. È per questo che la politica economica implicata da tale teoria prevede un coordinamento tra le aspettative degli operatori economici e quindi tra gli sforzi di investimento dei vari settori, in modo che questi diano una 'grande spinta' (big push) in grado di condurre l'economia all'equilibrio 'virtuoso'.
Se l'esistenza di equilibri multipli può provocare situazioni di sottosviluppo a causa della difficoltà di coordinare le aspettative, un ruolo cruciale nell'influenzare le aspettative è svolto dalla storia. L'aver osservato una carenza - per anni o per secoli - di investimenti rende più facile l'aspettativa che tale situazione si perpetui anche in futuro. Ma la storia ha un ruolo ben più importante del semplice coordinamento delle aspettative. Una seconda classe di modelli - i più influenti dei quali sono stati quelli di Abhijit Banerjee e Andrew Newman (v., 1993) e di Oded Galor e Joseph Zeira (v., 1993) - studia il modo in cui una certa condizione iniziale possa perpetuarsi e influenzare la traiettoria di sviluppo del sistema economico. Gli autori esaminano in particolare il ruolo della disuguaglianza nella distribuzione iniziale dei redditi in presenza di imperfezioni nel mercato dei capitali.
Si consideri un'economia in cui vi sono tre tipi di occupazione: come agricoltore, come lavoratore salariato nell'industria e come imprenditore. Mentre chiunque può diventare agricoltore o lavoratore salariato, per iniziare un'attività imprenditoriale occorre un investimento iniziale proibitivo se non si dispone di un prestito bancario. Il settore bancario, a sua volta, non è disposto a concedere prestiti a tutti, in quanto mette in conto la possibilità che una volta ottenuto il denaro l'individuo non lo restituisca. Come vedremo anche in seguito, un modo con cui le banche tipicamente si cautelano rispetto a questa eventualità è quello di richiedere una garanzia collaterale, ossia un bene o un deposito di cui la banca possa appropriarsi in caso di mancata restituzione del prestito. In questo caso, se gli individui differiscono nella dotazione iniziale di ricchezza, solo i più abbienti avranno beni sufficienti da fornire in garanzia e potranno quindi ottenere prestiti e diventare imprenditori. Ciò ha due conseguenze: da un lato, la disuguaglianza iniziale persisterà in quanto gli imprenditori diventeranno sempre più ricchi e le altre due categorie rimarranno con livelli di reddito relativamente bassi; dall'altro lato, vi sarà un'inefficienza poiché, quando la classe imprenditoriale è molto ristretta e vi è una gran massa di lavoratori salariati, l'abbondanza di manodopera fa sì che i salari rimangano a livelli bassi. Se invece alcuni agricoltori o salariati potessero diventare imprenditori, non migliorerebbero soltanto la propria condizione, ma anche quella del resto dei lavoratori dipendenti, che vedrebbero aumentare i salari grazie alla riduzione della manodopera. Insomma, in questi modelli la disuguaglianza iniziale condiziona pesantemente le possibilità di sviluppo dell'economia.
Si noti come, a differenza dei modelli con equilibri multipli, qui l'inefficienza non deriva dal fatto che esistono due o più equilibri tra cui scegliere: è possibile che l'equilibrio sia uno solo, ma che le sue caratteristiche dipendano dalle condizioni iniziali. In altri termini, la 'persistenza storica' fa sì che data la disuguaglianza iniziale l'economia si sviluppi univocamente su un certo tracciato. Si noti anche la differenza di questa prospettiva rispetto al paradigma neoclassico. Nel modello di Solow e nelle sue estensioni, la differenza nel grado di disuguaglianza o nello stock di capitale fra due economie non ha effetti persistenti se le preferenze degli individui e la tecnologia sono le stesse: gli unici effetti riguardano il sentiero di crescita durante la transizione all'equilibrio di lungo periodo. Nei modelli come quelli proposti da Banerjee e Newman o da Galor e Zeira, a parità di tecnologia e di preferenze due economie con diversi livelli iniziali di disuguaglianza potranno essere per sempre diverse.
Le implicazioni di politica economica di questi modelli, poi, sono diverse sia da quelle del paradigma neoclassico, sia da quelle dei modelli con equilibri multipli. O si correggono le imperfezioni del mercato del credito (ma è difficile pensare che sia possibile farlo a tal punto da rendere ininfluente la ricchezza iniziale del cliente per le decisioni di una banca), oppure si ricorre a politiche ridistributive che modifichino la distribuzione della ricchezza a vantaggio dei meno abbienti.


3. Approccio microeconomico allo sviluppo.

Molti dei recenti modelli macroeconomici di sviluppo (non solo quelli finora descritti) si fondano su qualche genere di imperfezione dei mercati - per esempio del mercato dei capitali - senza tuttavia approfondirne le origini. In questo capitolo esamineremo il funzionamento delle economie dei PVS concentrandoci sui problemi di informazione e di implementazione dei contratti, che ostacolano il funzionamento dei mercati, e prendendo in esame alcune 'istituzioni informali' che sono emerse in questi paesi per far fronte alle suddette imperfezioni. Cominceremo dalla più basilare tra le istituzioni, la famiglia, analizzando in che misura l'allocazione delle risorse tra i membri di una stessa famiglia può essere inefficiente e come le norme sociali condizionino il ruolo della famiglia nelle economie arretrate. Passeremo poi a studiare le imperfezioni nei mercati del lavoro, della terra e del credito. Infine, torneremo a considerare le relazioni sociali e le funzioni economiche svolte da gruppi e networks nell'ambito di quegli stessi mercati di cui avremo valutato le imperfezioni.

a) La famiglia.

Gli abitanti dei PVS, nella maggioranza dei casi, traggono almeno parte del loro reddito da attività lavorative effettuate all'interno della famiglia, sia in ambito rurale, dove spesso coltivano il proprio campo insieme ai familiari, sia in ambito urbano, dove gestiscono microimprese o attività di piccolo commercio anche in questo caso con l'aiuto di familiari. Comprendere i meccanismi decisionali all'interno della famiglia è quindi cruciale per capire non solo come le risorse disponibili siano divise tra i suoi membri, ma anche quante siano in assoluto le risorse generate.
Consideriamo anzitutto il problema dell'allocazione di un dato ammontare di risorse tra i membri della famiglia. Sia data una famiglia con un certo numero di componenti, ciascuno dei quali dispone di un certo reddito e in cui si deve decidere quanto verrà consumato da ciascuno e quanto invece verrà investito per il benessere di ciascuno (per esempio, nell'istruzione dei singoli individui). La teoria microeconomica neoclassica ha tradizionalmente rappresentato questa situazione come il problema decisionale di un'unica entità virtuale, la 'famiglia unitaria', nella quale tutti i membri hanno le stesse preferenze e tutti i redditi vengono cumulati indipendentemente dalla loro provenienza. A partire dagli anni ottanta tale formalizzazione venne messa in discussione e si cominciò a pensare alla famiglia come a un insieme di individui con preferenze diverse che dovevano arrivare a delle decisioni sulle variabili di interesse comune attraverso un meccanismo di contrattazione. Nel processo di contrattazione la variabile più importante è la 'posizione di riserva' su cui ciascun individuo può contare nel caso di mancato raggiungimento di un accordo. Per esempio, se moglie e marito sono in disaccordo circa l'opportunità di istruire i figli, e se l'alternativa a una decisione comune è che uno dei coniugi esca dal nucleo familiare, allora c'è da aspettarsi che il coniuge che ha più da perdere dalla separazione sia quello le cui preferenze conteranno di meno nella decisione, in quanto la sua posizione contrattuale è più debole (la minaccia di tenere duro e non accettare un accordo che non sia in sintonia con le proprie preferenze è meno credibile).
Numerosi studi hanno cercato di verificare empiricamente la validità del modello di famiglia unitaria rispetto a quello di contrattazione. Fra i primi ricordiamo il lavoro di Duncan Thomas (v., 1991), il quale utilizzando un campione molto ampio di famiglie brasiliane ha studiato come le decisioni di consumo dei membri della famiglia rispondessero a una misura del potere contrattuale dei coniugi costituita dalla loro quota di redditi non da lavoro - cioè quale ammontare di pensione, donazioni e redditi da capitale riceveva la moglie e quale il marito (i redditi da lavoro vengono esclusi dall'analisi in quanto sono essi stessi frutto di una contrattazione: quella su chi debba lavorare al di fuori della famiglia e per quante ore). Thomas rileva che all'aumentare del potere contrattuale della donna aumenta la quota di risorse dedicata all'alimentazione dei figli e diminuisce il tasso di mortalità infantile. Questo effetto è particolarmente pronunciato nel caso delle bambine, ovvero, mentre la madre investe più del padre nell'alimentazione dei figli di entrambi i sessi, la discrepanza tra madre e padre è maggiore per le scelte riguardanti le bambine. Risultati simili sono stati ottenuti da Mark Pitt e Shahidur Khandker (v., 1998) nello studio sull'impatto dei prestiti concessi da istituzioni di microfinanza (v. sotto, § d) alle famiglie del Bangladesh. Gli autori trovano che i prestiti concessi alle donne hanno un impatto maggiore sul tasso di iscrizione scolastica dei figli e delle figlie rispetto ai prestiti concessi agli uomini, e che la differenza è particolarmente marcata per quanto riguarda l'istruzione delle bambine.
Un secondo problema legato alla divisione delle risorse all'interno della famiglia concerne l'efficienza delle scelte di produzione. Come accennato sopra, una frazione significativa del reddito nei PVS è prodotta all'interno della famiglia, e individuare delle inefficienze nella produzione familiare significa trovare che il totale delle risorse disponibili per ciascuna famiglia è più basso di quanto potrebbe essere se i compiti fossero divisi diversamente. In un recente articolo, Christopher Udry (v., 1996) studia l'efficienza della produzione agricola utilizzando dati molto dettagliati sulle famiglie del Burkina Faso relativi, in particolare, ai singoli appezzamenti coltivati da ogni membro della famiglia. Dopo aver controllato il tipo di coltivazione, la fertilità del suolo e l'estensione dell'appezzamento, Udry osserva che i terreni coltivati dalle donne rendono meno per unità di superficie. In altri termini, a parità di qualità del terreno, un ettaro coltivato da una donna produce un raccolto inferiore a quello ottenuto se a coltivarlo è un uomo della stessa famiglia. Il risultato non è imputabile a presunta pigrizia o minore abilità delle donne, bensì al fatto che sugli appezzamenti gestiti dagli uomini vengono impiegate maggiori quantità di fertilizzanti, maggiore forza-lavoro (nel senso di lavoratori salariati o figli che lavorano sul campo del padre ma non su quello della madre), insomma viene riversata una quantità maggiore di input che aumenta la produttività del lavoro di chi coltiva quegli appezzamenti. Ciò costituisce una soluzione inefficiente, in quanto sarebbe ottimale per la famiglia nel suo complesso spostare alcuni di questi input sulle terre gestite dalle donne (dove, in base al principio dei rendimenti decrescenti, il loro contributo all'aumento del prodotto sarebbe maggiore), oppure lasciare che tutti gli appezzamenti siano gestiti da uomini (quindi con abbondanza di input) prevedendo un trasferimento compensativo per le donne. Se tutto questo non avviene è segno che i meccanismi di contrattazione all'interno della famiglia non consentono di utilizzare le risorse in maniera efficiente; vi sarebbe quindi spazio per miglioramenti nella qualità della vita degli individui che in realtà non avvengono.
Gli studi sopra citati hanno importanti implicazioni di politica economica. Se la divisione del potere contrattuale influenza l'allocazione delle risorse all'interno della famiglia, i programmi di lotta alla povertà che trattano la famiglia come un'entità indifferenziata sono destinati a mancare almeno in parte i propri obiettivi. Per esempio, politiche di trasferimenti indirizzate al capofamiglia avranno effetti diversi da programmi che offrano opportunità di lavoro o accesso al credito alle donne.

b) Mercati del lavoro.

Sin dalla metà del XX secolo la teoria economica ha rappresentato in maniera diversa il funzionamento delle economie avanzate e di quelle in via di sviluppo appellandosi a un diverso funzionamento del mercato del lavoro. Sebbene quest'ultimo (come vedremo nei paragrafi seguenti) non sia il solo su cui gravano imperfezioni e problemi informativi, è senz'altro utile iniziare l'analisi dei mercati nei PVS partendo da esso. La disoccupazione involontaria nelle economie arretrate rappresenta una sfida alla teoria economica. Infatti nei paesi industrializzati uno dei motivi addotti per l'esistenza di tale fenomeno è che i salari sono 'relativamente troppo alti', e che non possono diminuire fino a eguagliare domanda e offerta a causa della presenza di sindacati e di altri vincoli istituzionali. Tuttavia, nei PVS queste motivazioni sono piuttosto deboli e il 'fallimento del mercato' nell'eliminare o ridurre la disoccupazione rimane difficile da chiarire.
Una delle spiegazioni avanzate dalla fine degli anni cinquanta (v. Leibenstein, 1957) mette in relazione la produttività del lavoro con l'apporto nutrizionale, e sostiene che il motivo per cui il salario non diminuisce fino a eguagliare domanda e offerta è che altrimenti i lavoratori non avrebbero abbastanza da mangiare e sarebbero troppo 'deboli' per essere produttivi. È interessante che questa spiegazione, nata con riferimento esplicito ai PVS, sia poi stata applicata ai paesi industrializzati nella versione dei 'salari di efficienza', secondo cui i salari possono non diminuire in presenza di disoccupazione perché altrimenti i lavoratori sarebbero 'meno motivati' a essere altamente produttivi. Successivamente, il modello è stato esteso al caso in cui i lavoratori hanno accesso a diverse fonti di reddito alternative (v. Dasgupta e Ray, 1986). Per esempio, alcuni hanno un piccolo appezzamento di terreno da cui trarre la propria sussistenza e altri sono senza terra: in tal caso, per i datori di lavoro è più conveniente assumere i primi (dal momento che è sufficiente 'aggiungere' un salario inferiore perché questi arrivino alla soglia nutrizionale), e ci si può aspettare che siano i senza terra a rimanere disoccupati. In termini di politica economica, la teoria implica che una ridistribuzione della terra (per esempio dai grandi proprietari terrieri ai senza terra) aumenterebbe il prodotto aggregato, in quanto alcuni dei lavoratori precedentemente disoccupati sarebbero messi in grado di produrre. Per quanto interessante da un punto di vista concettuale, questa teoria ha finora ricevuto una limitata conferma empirica.
Un secondo filone di studi si concentra su un'altra caratteristica peculiare dei PVS: l'esistenza di mercati del lavoro 'a più livelli'. Una delle dimensioni su cui i livelli sono definiti è la durata del contratto di lavoro. Tipicamente si osservano due tipi di contratti: quelli a lunga durata, che impegnano il lavoratore per tutto l'anno o per tutto il ciclo della produzione agricola, e quelli a breve o 'casuali'. Questi ultimi coinvolgono un gran numero di individui che vengono assunti 'a giornata' o comunque per periodi e con compiti molto limitati. Nonostante il salario dei primi sia in media superiore a quello dei secondi, la potenziale competizione tra i lavoratori non elimina il differenziale salariale. Un'interessante spiegazione in merito è stata fornita da Mukesh Eswaran e Ashok Kotwal (v., 1985). Gli autori partono dal fatto che alcuni compiti in agricoltura richiedono particolare cura e sono difficili da monitorare (per esempio, l'aratura, la semina, l'impiego di fertilizzanti e l'irrigazione), mentre altri sono più ripetitivi e più facilmente monitorabili (per esempio, la raccolta). In questo caso può essere conveniente per un proprietario terriero assumere con contratti a breve quel tipo di manodopera a cui non si richiede particolare 'lealtà', e offrire invece un impiego stabile a chi deve svolgere incarichi più complessi. Infatti, chi beneficia di un contratto a lungo termine ben remunerato avrà un incentivo a comportarsi correttamente per non perdere questo vantaggio qualora risultasse ex post che una produzione insufficiente è imputabile a mancanza di sforzi adeguati da parte sua. La necessità di fornire incentivi a comportarsi lealmente può dunque spiegare il differenziale salariale tra lavoratori con contratti a lunga e a breve scadenza. Un'altra possibile spiegazione deriva dalla stagionalità dell'impiego agricolo, per cui la manodopera è molto abbondante in bassa stagione, ma è relativamente scarsa nel periodo del raccolto. In tale contesto, può essere vantaggioso per il proprietario assumere un certo numero di lavoratori su base annuale, garantendo loro un lavoro durante la bassa stagione ma assicurandosene la disponibilità in quella alta. Ciò fornisce anche un'assicurazione contro le fluttuazioni di reddito per il lavoratore, data l'incertezza sulle condizioni salariali nel periodo del raccolto.

c) Mercati della terra.

Un'ulteriore fonte di inefficienza nel funzionamento delle economie agricole è legata alle forme contrattuali impiegate per l'affitto della terra. Le forme più diffuse nei PVS sono due: i contratti di 'rendita fissa' e quelli di mezzadria. Coi primi l'affittuario si impegna a pagare una somma fissa al proprietario terriero per utilizzare un appezzamento, e trattiene la rimanente parte del raccolto. Nel contratto di mezzadria, invece, il pagamento è fornito da una quota del raccolto, che può essere la metà (come suggerisce il termine), ma anche inferiore o superiore. La differenza tra le due forme in termini di incentivi era già stata riconosciuta dall'economista inglese Alfred Marshall alla fine del XIX secolo, quando sosteneva che il sistema inglese di rendita fissa era più efficiente di quello francese incentrato sulla mezzadria (da qui l'appellativo di 'inefficienza marshalliana'). Per capire la ragione di tale inefficienza occorre partire dalla constatazione che molto spesso l'impegno dell'affittuario non è monitorabile: si può osservare l'entità del raccolto, ma è difficile giudicare se un'eventuale scarsità sia dovuta a crisi esterne oppure a negligenza da parte di chi ha coltivato la terra. Sapendo di non poter essere monitorato, l'affittuario sceglierà quanto e come lavorare in base a cosa gli risulta più conveniente. Con un contratto di mezzadria ogni chilogrammo di prodotto in più deve essere diviso col proprietario, mentre con la rendita fissa - una volta pagato l'ammontare pattuito - qualunque incremento residuo di raccolto viene trattenuto interamente dall'affittuario. È per questo che la rendita fissa fornisce più incentivi a lavorare, e quindi si traduce in una produzione maggiore.
Analisi recenti hanno sottolineato un aspetto complementare che contribuisce a spiegare come mai la mezzadria sia ancora ampiamente utilizzata in Asia e in America Latina, nonostante la sua presunta inefficienza. Tale aspetto riguarda il rischio connesso alla produzione agricola e la possibilità di condividere tale rischio per il proprietario e per l'affittuario. Nello schema di rendita fissa l'affittuario è tenuto a pagare l'ammontare pattuito sia nelle buone che nelle cattive annate: ogni shock negativo alla produzione agricola viene da lui interamente assorbito. Nella mezzadria, invece, il pagamento è specificato come quota del prodotto, così che eventuali perdite di raccolto ricadono solo parzialmente sull'affittuario. Ciò fa sì che, se quest'ultimo è più avverso al rischio del proprietario (il che è altamente probabile, visto che in genere è molto più povero), possa essere ottimale per lui sottoscrivere un contratto di mezzadria, che gli fornisce una forma di 'assicurazione', piuttosto che uno di rendita fissa. Naturalmente, dal punto di vista del rischio la cosa ideale sarebbe percepire un salario fisso, indipendente dall'andamento del raccolto, ma in questo caso verrebbero meno gli incentivi a lavorare con sufficiente impegno. Il contratto di mezzadria può quindi essere interpretato come un compromesso tra l'esigenza di fornire incentivi e quella di offrire assicurazione.
La teoria dell'inefficienza marshalliana, unita a un'ampia evidenza empirica circa la minore produttività dei grandi appezzamenti coltivati da affittuari rispetto ai piccoli appezzamenti coltivati dai proprietari stessi, ha ispirato numerosi tentativi di riforme fondiarie. In alcuni Stati dell'India, per esempio, le riforme hanno avuto non solo lo scopo di frammentare la grande proprietà concedendo lo status di proprietario anche ai piccoli contadini, ma anche di migliorare le condizioni contrattuali di coloro che rimanevano mezzadri, attraverso l'abolizione di intermediari e la promozione di 'campi di registrazione' in cui gli affittuari si registravano ufficialmente e acquisivano una serie di diritti (v. Besley e Burgess, 2000; v. Banerjee e altri, 2002). Nonostante gli effetti positivi di tali riforme in termini di lotta alla povertà, quello delle riforme fondiarie rimane tuttora uno dei temi più controversi nella politica economica dei PVS, soprattutto per le sue implicazioni politiche.

d) Mercati del credito.

Come già messo in luce da alcuni modelli macroeconomici precedentemente esaminati, l'esistenza di imperfezioni nei mercati dei capitali rappresenta uno degli ostacoli principali alla crescita dei paesi poveri. In questo paragrafo concentreremo l'attenzione sulla natura di tali imperfezioni nei PVS, indagando quali siano i vincoli che gli individui incontrano nell'accesso al credito e in che modo questi vincoli possano essere in parte attenuati sfruttando strutture istituzionali di tipo informale.
Una transazione di credito è un atto di scambio intertemporale in cui un individuo riceve denaro (o beni) impegnandosi a ripagare in una data futura. Come tale essa è intrinsecamente soggetta a problemi di informazione, sia nel senso che spesso l'affidabilità di chi prende a prestito non è nota al creditore al momento del contratto, sia perché dopo aver ricevuto il prestito il debitore può compiere delle azioni non osservabili dal creditore che vanno a svantaggio di quest'ultimo (per esempio, può non sforzarsi abbastanza di lavorare in modo da essere in grado di ripagare). Un importante contributo di Joseph Stiglitz e Andrew Weiss (v., 1981) illustra le implicazioni di tali problemi informativi per il mercato del credito. Si consideri una banca che deve scegliere a chi concedere un prestito tra una serie di individui più o meno rischiosi, nel senso che i loro progetti di investimento hanno diverse probabilità di successo. Un'ipotesi cruciale del modello è che gli individui conoscano il proprio grado di affidabilità, mentre la banca non sia in grado di appurarlo. Una seconda ipotesi è quella in cui, in caso di fallimento del progetto, il debitore perde al massimo la garanzia collaterale che ha offerto in pegno, ma non può essere costretto a ripagare l'intero ammontare per mancanza di risorse ('responsabilità limitata'). Nel fissare il tasso di interesse sul prestito, la banca deve dunque tenere presente che un dato tasso potrebbe incoraggiare ad accettare il prestito sia gli individui sicuri che quelli rischiosi, e deve fare in modo di non causare un peggioramento del proprio portafoglio-clienti attraverso la scelta delle condizioni contrattuali. In particolare, se il tasso di interesse fissato è relativamente basso, possiamo supporre che sia gli individui rischiosi, sia quelli sicuri saranno invogliati a prendere a prestito. Tuttavia, man mano che il tasso di interesse aumenta, gli individui sicuri hanno sempre meno interesse a sottoscrivere il prestito, in quanto sanno che con alta probabilità i loro progetti avranno successo e che dovranno pagare un alto interesse; al contrario, gli individui rischiosi sono relativamente più propensi ad accettare interessi elevati, in quanto sanno che con alta probabilità non li ripagheranno. La banca può quindi prevedere che se aumenta il tasso di interesse sui prestiti oltre un certo livello, il mutamento nella composizione dei propri clienti (cioè l'aumento della proporzione di clienti rischiosi, che è un fenomeno di 'selezione avversa') andrà a proprio svantaggio poiché ci sarà un elevato numero di prestiti non ripagati. È quindi possibile che, anche se al tasso di interesse corrente la domanda di prestiti eccede l'offerta, le banche si rifiutino di aumentare i tassi proprio per non scoraggiare i clienti migliori. Questa è una delle spiegazioni più convincenti del fenomeno del 'razionamento del credito', molto diffuso nei PVS, per cui si osserva un consistente eccesso di domanda di prestiti senza che il prezzo di tali prestiti (l'interesse) aumenti per stabilire l'equilibrio sul mercato del credito.
Partendo dai severi limiti di informazione cui è soggetto il settore formale del credito nei PVS (spesso i clienti vivono a grande distanza dalla filiale a cui si rivolgono ed è molto costoso raccogliere informazioni sul loro conto), si comprende il proliferare di una serie di istituzioni informali che concedono prestiti a clienti locali su cui hanno un vantaggio relativo d'informazione. Tralasciando i prestiti concessi da amici e parenti (generalmente di modesta entità; a tale proposito, si osserva come sia molto frequente che i trasferimenti ricevuti da amici e parenti non siano considerati dai beneficiari come veri e propri 'prestiti a interesse', bensì come 'aiuti' ricevuti in seguito a shocks negativi, che l'individuo si impegna a ricambiare qualora la controparte ne avesse bisogno; per un interessante contributo sul ruolo della reciprocità negli schemi di mutua assicurazione, v. Coate e Ravallion, 1993), molto diffusa è la presenza di usurai che esercitano un certo potere di monopolio sulla propria clientela.
In tempi recenti è cresciuta l'attenzione rivolta a organizzazioni tradizionali per la raccolta del risparmio e la concessione di prestiti, tra cui per esempio le 'associazioni di risparmio e credito rotativo' (ROSCA, Rotating Saving and Credit Associations; v. Besley e altri, 1993). Tali forme associative, sviluppatesi spontaneamente e diffuse in tutto il mondo, sono costituite da gruppi di persone che si incontrano a intervalli regolari versando una certa somma in una cassa comune; di volta in volta l'intera cassa viene assegnata a uno dei membri secondo criteri di estrazione casuale o meccanismi d'asta. In alcuni casi, parte dei fondi raccolti viene trattenuta e prestata a interesse ai membri che ne facciano richiesta. Le ROSCA sono considerate un utile punto di riferimento per quanti studiano lo sviluppo della finanza locale nei PVS, grazie alla loro capacità di mobilitare il risparmio e all'utilizzo di meccanismi di pressione sociale per far rispettare i termini dell'accordo.
La principale innovazione negli strumenti di credito offerti all'interno dei PVS nell'ultimo ventennio è probabilmente costituita dai programmi di credito per gruppi (PCG). I primi programmi furono introdotti alla fine degli anni settanta dalla Grameen Bank del Bangladesh, fondata da Muhammad Yunus, un professore di economia. Partita come tentativo di concedere prestiti in pochi villaggi del Bangladesh, al settembre del 2002 essa contava oltre 2,4 milioni di clienti ed era presente nel 60% dei villaggi del paese. Il modello Grameen è diventato un cavallo di battaglia della microfinanza, ossia dei programmi volti alla concessione di prestiti a individui troppo poveri per avere accesso a prestiti di banche commerciali o governative, ed è ormai diffuso in tutto il mondo (per un'accurata rassegna sui programmi di credito per gruppi, v. Ghatak e Guinnane, 1999). L'elemento fondamentale dei PCG è che gli individui, anziché presentarsi singolarmente per ottenere un prestito, costituiscono un gruppo insieme a dei partners che saranno poi responsabili in solido per il ripagamento; inoltre non è richiesta alcuna garanzia collaterale. Nel caso di Grameen, i gruppi sono formati da cinque persone che presentano ciascuna un progetto per l'utilizzo del prestito richiesto (in genere l'avviamento di laboratori artigianali o attività di commercializzazione); i funzionari valutano l'affidabilità del gruppo ed elargiscono i prestiti in maniera sequenziale, così che il ripagamento puntuale di chi ha ottenuto il prestito per primo è condizione necessaria perché chi segue ottenga il proprio prestito. Il mancato ripagamento da parte di un membro del gruppo comporta l'esclusione futura dai prestiti di tutti i membri, anche quelli più 'diligenti'. Questa clausola, detta 'responsabilità congiunta', è molto importante in quanto fornisce ai membri del gruppo gli incentivi per scegliere dei partners non rischiosi e per monitorarsi a vicenda una volta ottenuto il prestito, in modo che tutti esercitino il massimo impegno nel lavoro per essere in grado di ripagare puntualmente. Ciò costituisce un rimedio efficace ai problemi informativi discussi sopra, in quanto chi sceglie di formare un gruppo di solito appartiene allo stesso villaggio e conosce bene gli altri membri: in questo modo il flusso di informazioni e la capacità di monitoraggio che mancano all'istituzione bancaria vengono forniti dalla struttura sociale. Anche se chi prende a prestito da Grameen non è tenuto a offrire una garanzia collaterale, i legami sociali esistenti tra i membri fungono da 'collaterale virtuale' e finora hanno assicurato un tasso di ripagamento intorno al 98%.

e) Capitale sociale.

Le relazioni sociali sono ormai riconosciute come un'importante determinante della performance economica non solo nel settore del credito, ma anche per la diffusione delle informazioni e la possibilità di far rispettare gli accordi e far funzionare le istituzioni. In un influente e controverso studio sulle regioni italiane, Robert Putnam (v., 1993) ha messo in relazione l'efficienza dei governi locali nel promuovere lo sviluppo regionale con la densità delle reti associative e di altre forme di collaborazione 'civica', sostenendo che la differente performance tra il Nord e il Sud dell'Italia poteva essere in parte spiegata proprio da questi fattori. L'entità e la qualità delle relazioni associative di un individuo o una comunità e l'insieme delle norme sociali a esse connesse sono state recentemente indicate con il termine di 'capitale sociale', per suggerire che costituiscono uno stock di capitale che entra nella funzione di produzione e contribuisce alla creazione di output in maniera paragonabile agli altri fattori, quali il lavoro e il capitale fisico (per una rassegna sul concetto di capitale sociale e sulle sue applicazioni, v. Dasgupta e Serageldin, 2000).
L'idea che la partecipazione a gruppi e la diffusione di norme sociali improntate alla fiducia possano mitigare gli effetti di alcuni fallimenti del mercato è stata quindi estesa a una varietà di contesti. Numerosi studi empirici sui PVS hanno riscontrato che comunità con maggiore 'capitale sociale' sono più efficienti nella fornitura di beni pubblici locali e nella gestione di risorse naturali: la maggiore coesione tra gli individui consente infatti di mitigare i problemi di free riding presenti, ad esempio, nella gestione dei canali di irrigazione o nella regolamentazione della pesca in piccoli bacini (v. Wade, 1988; v. Platteau, 2000). Recenti studi hanno dimostrato che l'esistenza di una fitta rete di relazioni interpersonali nelle aree rurali facilita l'adozione di innovazioni, promuovendo così il progresso tecnologico nel settore agricolo, in quanto gli agricoltori imparano dall'esperienza altrui e hanno la possibilità di scambiarsi informazioni. Anche lo sviluppo finanziario risulta facilitato dalla presenza di 'capitale sociale', in quanto grazie alla maggiore propensione a fidarsi della propria controparte è possibile introdurre forme di pagamento più sofisticate (come gli assegni o i conti bancari). Al contrario, recenti studi su alcune comunità rurali africane hanno rilevato che villaggi la cui popolazione era particolarmente eterogenea (soprattutto in termini di etnie) e in cui l'aggregazione sociale era più debole avevano difficoltà a gestire risorse comuni, quali le scuole pubbliche o le cooperative di produzione.
Nonostante la comprensione teorica di questi temi sia ancora limitata e l'evidenza empirica non sia abbondante come in altri campi, lo studio delle relazioni interpersonali in rapporto ai fallimenti del mercato sembra oggi una delle strade più promettenti per comprendere i vincoli sociali allo sviluppo.


4. Conclusioni.

Per tornare alle domande che ci siamo posti all'inizio della trattazione, è ovvio che l'economia dello sviluppo negli ultimi vent'anni non è riuscita a fornire risposte esaurienti; possiamo però affermare, senza peccare di eccessivo ottimismo, che sono stati fatti passi da gigante. È ragionevole pensare che i contributi metodologici e l'accumularsi lento ma continuo di un patrimonio di esperienza empirica contribuiranno a una comprensione sempre più profonda delle radici dello sviluppo: una comprensione che non si tradurrà nell'offerta di 'ricette' di politica economica adatte a ogni contesto, ma che partendo dalla conoscenza degli aspetti micro e macroeconomici saprà stimolare uno sviluppo dell'economia di mercato compatibile con i vincoli socio-istituzionali locali.