Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)

di Nicolò De Vecchi

Profitto

sommario: 1. Introduzione. 2. Mercato, disequilibri e profitto. a) Il profitto nella teoria dell'equilibrio economico generale. b) Il profitto come reddito da arbitraggio. 3. Sistema d'impresa, conoscenza e profitto. a) Controllo della produzione e incertezza. b) Profitto normale, profitto da diversificazione, attese di profitto. 4. Iniziativa imprenditoriale, credito e profitto da innovazione. 5. Organizzazione capitalistica del lavoro e profitto come plusvalore.

Introduzione

In termini generali il profitto è definibile come una forma di reddito che può presentarsi in un'economia priva di un piano o di un'autorità centrale che decida la produzione e la distribuzione del prodotto sociale. Qualsiasi tentativo di precisare il contenuto di questa nozione le sottrae i caratteri di assolutezza e di neutralità connettendola univocamente a una particolare visione dei rapporti economico-sociali.La scienza economica offre nozioni del profitto molto diverse tra loro, non solo in funzione dei rapporti economico-sociali ai quali si fa riferimento, ma anche a seconda del particolare obiettivo conoscitivo che di volta in volta si persegue e della tecnica di analisi adottata.Una teoria del profitto dovrebbe rispondere a molti interrogativi. Per esempio, il profitto remunera un apporto alla formazione del prodotto sociale? Quale? Perché, nel rappresentare un'economia a decisioni decentrate di produzione e di spesa, si ritiene talvolta opportuno introdurre questa forma di reddito, distinguendola da altre? Una volta fissato il criterio di distinzione, che relazione è possibile instaurare tra profitto e altre remunerazioni? Da che cosa è ragionevole far dipendere l'ammontare del profitto ottenuto da un individuo o da una classe sociale in un dato istante? Da che cosa dipendono le sue variazioni nel tempo? Quale funzione esercitano i percettori di profitto nel processo di cambiamento o di crescita dell'economia? Il profitto influisce sulle loro decisioni di investimento?

L'esigenza di distinguere teoreticamente il profitto dal salario del lavoratore, dalla rendita del proprietario di risorse naturali, dall'interesse derivante dal prestito di capitale liquido, e di dare risposta agli interrogativi indicati, si è manifestata contestualmente al processo storico di divisione capitalistica del lavoro. Da un lato il progressivo frazionamento dei mestieri in specializzazioni, la parcellizzazione delle operazioni artigiane e l'ampliamento del sistema mercantile hanno sollecitato la formazione di imprenditori-mercanti, preoccupati di acquistare i prodotti per portarli sui mercati, e di vendere la materia prima a ogni singolo produttore, lucrando un profitto. D'altro lato la separazione del lavoratore dagli strumenti di lavoro, l'organizzazione del lavoro nella fabbrica e i continui mutamenti tecnologici hanno connotato in modo nuovo il sovrappiù che deriva dalla produzione, facendo sorgere problemi nuovi riguardo alla sua appropriazione e alla sua destinazione a fini di consumo o di accumulazione. In parallelo si manifestava una nuova struttura sociale, nella quale una classe - quella degli imprenditori-produttori - assumeva il potere di decidere come, che cosa e quanto produrre.

Nel corso di più di due secoli di riflessione teorica gli economisti hanno tenuto presenti ambedue queste figure di imprenditore formulando una gamma molto ampia di risposte agli interrogativi menzionati riguardo al profitto. In tempi recenti peraltro questa forma di reddito è stata sempre più assimilata alle altre remunerazioni. Presenteremo qui alcune delle teorie del profitto più significative, non nella loro successione storica (v. Napoleoni, 1956; v. Keirstead, 1968; v. Saltari, 1986), ma riferendole alle concezioni dell'organizzazione economico-sociale alle quali sono connesse.

Come termini estremi proponiamo le seguenti concezioni del sistema economico: a) il sistema economico come economia di mercato. I sostenitori di questa concezione assumono che a fondamento dei rapporti economici interindividuali stia un'istituzione - il mercato, appunto - che consente la raccolta e la distribuzione delle informazioni ritenute utili da ogni operatore per prendere decisioni di produzione e di spesa. Il profitto compare qui fondamentalmente come il reddito che chiunque può percepire tutte le volte che prima di altri, o meglio di altri, avverta la presenza di transitorie imperfezioni del mercato, sfrutti a proprio vantaggio momenti di instabilità di un sistema economico normalmente stabile, reagisca a occasionali mutamenti nella situazione economica, realizzi potenzialità esistenti ma ancora latenti nell'economia. In questo ambito si collocano la teoria del profitto di Léon Walras e la recente teoria di Israel Kirzner (v. cap. 2); b) il sistema economico come economia capitalistica, ossia come società con una peculiare organizzazione del lavoro e una specifica struttura di classe. Qui il profitto si origina dal pluslavoro, dalla divisione della giornata lavorativa tra lavoro necessario alla riproduzione della forza lavoro e plusvalore. Il riferimento sarà soprattutto a Karl Marx (v. cap. 5).

Tra queste due posizioni estreme sta un ventaglio di rappresentazioni alternative dei rapporti economico-sociali, cui corrispondono altrettante concezioni del profitto. Daremo conto qui delle più rilevanti, mostrando la loro dipendenza da due particolari visioni dell'economia fondata sulle decisioni individuali di produzione e di spesa. Nel primo caso è l'impresa, intesa come insieme di servizi produttivi organizzati e coordinati dall'imprenditore, a essere assunta come espressione significativa dell'attività economica: rientrano in quest'ambito le teorie del profitto di Frank Knight e di Alfred Marshall (v. cap. 3). Nel secondo caso la rappresentazione dell'economia capitalistica si fonda sull'ipotesi che il potere di decisione sulla produzione sia attribuito ad alcuni individui piuttosto che ad altri a seguito di un processo di selezione affidato a un'istituzione sociale del tutto peculiare, espressamente destinata ad assolvere questo compito. Il principale esponente di questa concezione è Joseph A. Schumpeter (v. cap. 4). Mercato disequilibri e profitto

Il profitto nella teoria dell'equilibrio economico generaleLa concezione del profitto come reddito che si forma sul mercato in modo del tutto indipendente da altri redditi come salari, interessi e rendite, trova la sua espressione più compiuta nella teoria dell'equilibrio economico generale di Walras. In epoca anteriore c'erano stati numerosi tentativi di dimostrare che il profitto non è nient'altro che la differenza tra prezzo di vendita e prezzo di acquisto di singole merci in singoli mercati (profit upon alienation), tuttavia i sostenitori di questa tesi non erano stati capaci di riferirla in modo convincente all'intera economia.Walras considera il sistema economico come un insieme di operatori indipendenti e massimizzanti, che producono e scambiano su mercati in concorrenza perfetta.

Ciò significa che: a) essi hanno piena conoscenza delle condizioni presenti e future di tutti i mercati dei servizi produttivi, dei prodotti e dei capitali (definiti come beni durevoli di qualsiasi natura): b) non sono in grado di attuare comportamenti strategici, ma contrattano e ricontrattano in modo tale che per ogni merce definibile come omogenea si dà un unico prezzo (condizioni di Cournot-Jevons).

L'obiettivo prioritario del filone teorico al quale Walras dà inizio consiste nel dimostrare che, dati il sistema delle preferenze individuali e la tecnologia, esiste un vettore dei prezzi in grado di assicurare l'equilibrio su tutti i mercati (tutte le risorse sono pienamente utilizzate) e tra tutti gli operatori (ognuno, date le dotazioni iniziali, massimizza la propria utilità subordinatamente al vincolo di bilancio). In quest'ambito è possibile determinare i redditi di coloro che prestano servizi produttivi esattamente come si determinano i prezzi delle merci. Ciò vale per il lavoratore dipendente, ma anche per il capitalista e per il manager.Walras definisce imprenditore colui che si presenta in veste di acquirente sui mercati dei servizi produttivi e del capitale finanziario, e di venditore sui mercati dei prodotti. L'imprenditore non ottiene nessun reddito nel caso in cui i mercati siano in equilibrio, mentre lucra un profitto (o incorre in una perdita) qualora si manifesti un disequilibrio in alcuni mercati. Se ad esempio nel mercato di un servizio produttivo si dà un'offerta superiore alla domanda, il prezzo risulta inferiore a quello di equilibrio ed egli trae vantaggio dal fatto di presentarsi come acquirente; nel contempo avvia un processo di revisione del prezzo che dovrebbe ripristinare l'equilibrio. Lo stesso fenomeno, in termini speculari, può verificarsi nei mercati nei quali l'imprenditore compare come venditore.

In sostanza, per Walras il profitto differisce totalmente dalle altre remunerazioni ed è da esse totalmente indipendente. Non remunera nessun servizio produttivo, ma si forma nei mercati. È antitetico rispetto all'equilibrio, perché sorge solo in presenza di disequilibrio. Può essere definito come reddito incerto, purché il termine incertezza sia inteso come sinonimo di assenza dei requisiti dell'equilibrio. Dipende dal manifestarsi di circostanze anormali, perché normale è lo stato di equilibrio, quello "verso cui le cose tendono da sole in regime di libera concorrenza applicato alla produzione come allo scambio".Il fatto che il profitto sia nullo in equilibrio e positivo o negativo soltanto in disequilibrio ha suscitato numerose obiezioni (in particolare da parte di Francis Ysidro Edgeworth) fondate su una scorretta interpretazione della funzione imprenditoriale e della natura del profitto così come Walras le intende. Si è sostenuto che, se in equilibrio il profitto fosse nullo, si verificherebbe un'inspiegabile sparizione dell'imprenditore proprio nello stato ritenuto normale dell'economia, e ciò sembra contraddire la logica interna dello schema oltre che la realtà. È superfluo riportare le valide controbiezioni avanzate da parte di molti economisti, a partire dallo stesso Walras. Sembra invece più interessante sottolineare due risultati, che appaiono rilevanti alla luce dei più recenti sviluppi teorici.In primo luogo, l'imprenditore è presentato da Walras come "un intermediario dal quale si può fare astrazione" in equilibrio, ma anche come la fondamentale forza propulsiva alla quale affidare il processo di aggiustamento verso l'equilibrio. Egli consente il superamento degli ostacoli che i comportamenti individuali e le circostanze esterne oppongono al meccanismo concorrenziale, assicurando il realizzarsi delle condizioni di Cournot-Jevons. A questa peculiare funzione è legata la forma di reddito profitto.In secondo luogo Walras concentra l'attenzione sui rapporti mercantili concorrenziali con l'obiettivo di individuare il vettore dei prezzi di equilibrio, ma a questa teoria dell'equilibrio istantaneo o intertemporale, in sé conchiusa, cerca di accostare una rappresentazione del processo che guiderebbe all'equilibrio un sistema economico che se ne sia allontanato, dando risalto alla funzione imprenditoriale e alla corrispondente forma di reddito profitto. È vero che Walras lascia irrisolta dal punto di vista analitico l'integrazione tra la teoria del processo verso l'equilibrio e la teoria dell'equilibrio, tuttavia egli separa la funzione imprenditoriale dalle altre attività, che si svolgono tutte entro la sfera della produzione, e la formazione del profitto da quella degli altri redditi, che remunerano sempre e soltanto servizi prestati entro il processo produttivo. L'imprenditore è insomma per lui figura esclusivamente mercantile e il profitto si forma, del tutto autonomamente rispetto agli altri redditi, nel corso del processo che condurrebbe verso la normalità di uno stato di equilibrio (v. Walras, 1874, §§ 184-190, 208-220, 221, 235, 366, 370, 380; v. Schumpeter, 1954, parte IV, capp. 6.2, 7.4a, 7.8e; v. Walker, 1986).

Il profitto come reddito da arbitraggioIl tema del processo di mercato, secondario per Walras, è invece fondamentale entro il filone teorico austriaco, che nasce e si sviluppa contemporaneamente a quello dell'equilibrio economico generale, dando luogo a convergenze solo occasionali. Anzi, la teoria austriaca e le numerose correnti neoaustriache successive sono accomunate dal rifiuto sia di porre al centro dell'analisi la determinazione delle caratteristiche concettuali e formali dell'equilibrio intertemporale, sia di intendere per stato normale dell'economia quello implicito nelle condizioni di Cournot-Jevons.

Esse affermano, invece, che ogni individuo agisce: a) sulla base di una conoscenza limitata e differenziata dell'ambiente circostante, delle dotazioni individuali, delle preferenze e della tecnologia; b) entro mercati non perfettamente organizzati e non in equilibrio, dove questo termine indica lo stato dell'economia nel quale trovano coordinamento i piani di produzione e di spesa dei singoli agenti.Per effetto dell'interazione sui mercati, le conoscenze individuali si disperdono tra gli agenti stessi: ogni decisione assunta da un individuo qualsiasi provoca effetti che modificano la conoscenza di ogni altro, e dunque le decisioni di azione successive. Si crea così nei mercati un processo che conduce tendenzialmente verso il pieno coordinamento dei piani individuali, anche se nulla si può affermare sul raggiungimento di questa situazione. Infatti, il processo non solo redistribuisce le dotazioni degli individui ma, modificando la loro conoscenza, li induce a rivedere l'ordinamento dei fini e fa loro percepire in modo nuovo mezzi e metodi per raggiungerli. Di conseguenza la posizione di equilibrio è continuamente ridefinita.

Su questa concezione del processo di mercato si innesta una teoria della funzione imprenditoriale e del profitto, proposta in forma compiuta da Kirzner, secondo cui il fatto che gli operatori abbiano una conoscenza difforme e che i mercati non siano in equilibrio incentiva gli operatori stessi a trarne vantaggio. Tutte le circostanze che consentono a un individuo di percepire prima o più correttamente di altri il realizzarsi di una differenza tra un prezzo corrente in un dato istante e il prezzo che seguirà a un cambiamento nelle condizioni di mercato, costituiscono opportunità di profitto. Ne sono esempi: l'incapacità di due operatori di comunicare tra loro per effettuare uno scambio reciprocamente vantaggioso; le variazioni nella domanda di un prodotto da parte dei consumatori; la possibilità non ancora sfruttata di ottenere una merce con una tecnica che consente una riduzione dei costi. Si tratta di situazioni provocate dal fatto che la conoscenza di ognuno è limitata e diversa da quella di ogni altro, e dall'assenza di coordinamento completo tra i piani individuali di azione.

Dunque, secondo Kirzner, l'imprenditorialità è definibile come attitudine alla 'scoperta' di opportunità vantaggiose non ancora percepite e sfruttate da altri (alertness), mentre non include necessariamente creatività o spinta all'innovazione. A sua volta il profitto è del tutto indipendente dagli altri redditi pagati nel sistema economico e consiste in un lucro da arbitraggio. Esso tende ad annullarsi grazie all'azione stessa dell'imprenditore, giacché questi contribuisce alla dispersione della conoscenza e, dunque, favorisce il movimento tendenziale verso l'equilibrio (v. Kirzner, 1979, pp. 3-12, 107-136, 154-184, e 1982; v. Loasby, i contributi del 1982). Sistema d'impresa conoscenza e profitto

Controllo della produzione e incertezzaTra gli assunti che reggono la teoria del profitto di Kirzner è esplicita un'ipotesi relativa allo stato della conoscenza dei soggetti economici. Di fatto il legame tra la forma di reddito profitto e un particolare tipo di conoscenza proprio di chi lo percepisce è ricorrente in economia: si riscontra già in alcuni teorici del Settecento ed è messo in piena luce soprattutto da Carl Menger (v., 1871, capp. 2.5, 4.1-4.3, 5.4; v. Martin, 1979). Oggi nessun economista negherebbe l'importanza di una riflessione sulla natura della conoscenza che regge l'azione. La ricerca sul profitto imprenditoriale ha fornito certamente uno stimolo non secondario in questa direzione, e uno dei primi contributi significativi è quello di Knight.

Egli parte dal presupposto che l'incertezza caratterizzi gran parte delle decisioni umane. Colui che agisce deve normalmente fare i conti con cambiamenti di ogni genere: spesso può ricorrere all'esperienza passata o a un calcolo di probabilità oggettiva per valutare il 'rischio' che un'azione comporta, ma in molti casi è costretto ad affidarsi a stime soggettive, nelle quali entra una componente di 'incertezza', definita da Knight come assoluta mancanza di 'valide basi' di conoscenza. Alla luce degli sviluppi più recenti della logica probabilistica, è facile criticare questa nozione di incertezza: Knight sembra infatti escludere che l'incertezza possa essere trattata in termini di una qualsiasi logica. Tuttavia resta ancor oggi problematico il significato dell'affermazione più generale che sta alla base della sua ricerca, secondo cui se fosse esclusa da tutte le valutazioni umane la presenza di un residuo irriducibile a calcolo, risulterebbe mortificata anche l'iniziativa pratica, la capacità di intervento sul futuro.

La presenza e l'ineliminabilità dell'incertezza è, secondo Knight, la circostanza che condiziona e plasma la struttura della società, in quanto mette in moto una tendenza alla specializzazione delle funzioni e alla selezione di coloro che debbono esercitarle. A suo parere, l'espressione più autentica degli effetti dell'incertezza è il sistema di impresa, grazie al quale si crea quella che egli definisce una 'società libera'. Infatti la specializzazione conduce a una distinzione delle funzioni produttive in due grandi categorie: da un lato tutti coloro che offrono servizi produttivi di ogni genere contro retribuzioni contrattuali, il cui ammontare è definito prima che la produzione abbia inizio; dall'altro gli 'uomini d'affari', ossia coloro che decidono di assumersi la responsabilità del controllo del processo produttivo e "l'esercizio del giudizio o la presa di decisione" in condizioni di incertezza, rinunciando a prestare la propria opera sotto il controllo altrui. Gli uomini d'affari o imprenditori subiscono un processo di selezione da parte del mercato concorrenziale, formano "una speciale classe sociale", stanno alla "gran massa della popolazione" che esercita l'altra funzione produttiva come "gli esploratori europei tra i popoli primitivi: [...] un piccolo numero di uomini i quali sanno quello che vogliono [...] posti tra un grande numero di uomini che non lo sanno". A differenza dei teorici considerati in precedenza, Knight sente l'esigenza di esplicitare i caratteri dell'organizzazione della produzione e della connessa struttura di classe.

Gli imprenditori formulano stime soggettive sia della domanda futura dei prodotti, sia della combinazione dei servizi produttivi, assumono il controllo di un processo produttivo e competono tra loro nell'accaparrarsi i servizi produttivi necessari. Il primo effetto di tale concorrenza è la determinazione dei redditi di coloro che forniscono i servizi produttivi, o redditi 'contrattuali'. Ciò accade prima che la produzione abbia inizio e indipendentemente dai risultati. Del tutto diversa è la natura del profitto, sia che lo si consideri come reddito individuale, sia che lo si consideri come partecipazione al prodotto sociale degli imprenditori in quanto classe.

Nel primo caso ogni imprenditore lucra la differenza tra il valore del prodotto finito - che era incerto al momento in cui ha deciso di avviare la produzione - e i costi sostenuti, che comprendono il valore dei servizi produttivi impiegati e l'assicurazione contro gli eventi definiti sopra come 'rischi'.Nel secondo caso il profitto ha natura 'residuale'. Ciò significa che il suo ammontare non è autonomo rispetto alla somma dei redditi contrattuali: a parità di altre circostanze, il rapporto tra i due è tanto più alto quanto più gli imprenditori "come classe" sono stati "audaci [...] nel quotare i prezzi dei servizi produttivi", ossia quanto più sono stati capaci di tenere bassi i redditi contrattuali rispetto al valore del prodotto sociale che sono riusciti a realizzare controllando la produzione in condizioni di incertezza (v. Knight, 1921, capp. 7-9).

Profitto normale, profitto da diversificazione, attese di profittoIl sistema d'impresa, caratterizzato dalla specializzazione delle funzioni produttive, è al centro anche della riflessione teorica di Marshall. Per lui questa organizzazione della produzione è soggetta a cambiamenti di tipo evolutivo, nel senso che le forze del progresso e della decadenza agiscono insieme nel corso del tempo. Se si considera un'industria, ossia un insieme di imprese che, disponendo di attrezzature tecniche similari, di esperienze e conoscenze tecniche affini, sono in condizioni di produrre una gamma di merci assimilabili tra loro, si può constatare che le varie imprese si trovano in diversi stadi del ciclo vitale, e che alcune cessano la produzione mentre altre sorgono. Anche le tecniche di produzione si evolvono con continuità, al pari della qualità dei prodotti. Infine, la stessa "impresa rappresentativa", ossia l'impresa alla quale la maggior parte degli investitori potenziali fa riferimento quando deve decidere se avviare la produzione entro l'industria considerata, cambia continuamente la propria configurazione (durata, stato di prosperità, struttura di costi e ricavi, capacità organizzativa di chi l'amministra, volume di produzione, ecc.).

Marshall è interessato a fenomeni evolutivi di questo tipo, perché ritiene che essi caratterizzino la 'vita pratica' della società che gli è contemporanea. A tal fine egli sviluppa innanzitutto una teoria del costo di produzione e del prezzo, che poggia sul concetto di equilibrio di lungo periodo. Un'industria è in equilibrio di lungo periodo se la sua struttura complessiva e la sua produzione rimangono invariate nel corso del tempo, perché le imprese che ne fanno parte coprono tutte le fasi del ciclo vitale e nuove unità affluiscono mentre vecchie unità decadono. Marshall è consapevole che nella 'vita pratica' questa situazione non si realizza, perché i cambiamenti in atto spostano continuamente l'equilibrio di lungo periodo di un'industria e modificano la configurazione della sua impresa rappresentativa. Tuttavia egli introduce quest'ipotesi per costruire una teoria assiomatica, che ritiene da un lato indispensabile a raggiungere il suo scopo, dall'altro non esaustiva: tant'è vero che la completa con considerazioni sull'azione concreta degli uomini d'affari.

A questo proposito Schumpeter (v., 1952, cap. 4.3) osserva: "Il pensiero di Marshall procedeva in termini di mutamento evoluzionistico, cioè in termini di un processo organico irreversibile" e aggiunge (v., 1954, cap. 5.2b): "Il suo apparato analitico è rigidamente statico. Ciò non gli impedisce di affrontare i fenomeni evolutivi o invero tutti i fenomeni della vita economica che sono refrattari all'applicazione dei metodi della statica [...] A differenza dei tecnici di oggi che, per quanto riguarda la tecnica della teoria, gli sono tanto superiori quanto egli fu superiore ad A. Smith, egli [...] comprese gli affari, i problemi degli affari e gli uomini d'affari meglio di molti altri economisti scientifici, non esclusi quelli che erano essi stessi uomini d'affari. Egli percepì le intime necessità organiche della vita economica anche più intensamente di quanto non le abbia formulate e parlò quindi come uno che ne ha il potere e non come gli scribi o come i teorici che non sono altro che teorici".

Queste caratteristiche del modo di procedere di Marshall si riscontrano anche nella sua teoria del profitto. Con riferimento a un'industria in equilibrio di lungo periodo e alla corrispondente impresa rappresentativa, Marshall introduce nel costo di produzione il 'profitto normale', che remunera la capacità di 'organizzazione' di colui che amministra l'impresa stessa. La funzione imprenditoriale appare così una normale prestazione lavorativa che si distingue da altre prestazioni solo per requisiti tecnici. Conseguentemente, il profitto si distingue solo nominalmente dagli altri redditi, ha la stessa natura, si aggiunge a essi nel formare il costo di produzione, è determinato sulla base dello stesso principio esplicativo e della stessa tecnica di analisi.Marshall non si ferma però al 'profitto normale'. Egli osserva che colui che inizia un'attività imprenditoriale e la continua nel tempo, persegue la diversificazione rispetto a quanti operano nella stessa industria e la attua con tutti i mezzi disponibili: non si limita a un lavoro ripetitivo, né accetta passivamente i condizionamenti del mondo circostante, ma anzi si sforza di creare una propria organizzazione dell'impresa, una propria sfera di azione, un proprio 'mercato particolare'; attua cioè cambiamenti di ogni genere, non solo per difendere nel tempo la propria posizione contro le azioni altrui, ma anche per far sentire la propria influenza sul mercato complessivo. L'azione dell'imprenditore consiste, insomma, in una continua progettazione e realizzazione di iniziative per diversificarsi dai concorrenti.

Svolgendo questa attività peculiare ogni imprenditore è in grado di ottenere un compenso che assomiglia al profitto del monopolista assoluto, anche se egli stesso potrebbe essere definito solo come 'monopolista condizionale', perché in ogni momento altri possono strutturare la propria attività in modo identico, e i consumatori della sua merce possono in ogni momento comportarsi in modo da annullare il suo profitto differenziale. L'analisi di Marshall si presta a molteplici sviluppi. Si indicano qui soltanto tre spunti di riflessione.In primo luogo Marshall suggerisce che per capire l'azione individuale in una società soggetta a mutamento occorre considerare la componente di deliberazione, la tendenza alla diversificazione dell'imprenditore, più che la componente utilitaristica delle motivazioni ad agire, elevata dagli economisti a principio unico e onnicomprensivo, senza limiti spazio-temporali e socio-culturali.In secondo luogo egli mette in luce la natura dinamica del profitto, inteso come il risultato degli spostamenti continui dell'equilibrio di lungo periodo di un'industria provocati da singoli imprenditori. Si tratta di una concezione perfettamente coerente con la sua visione della società - in base alla quale la classe degli imprenditori non è contrapposta a quella dei lavoratori salariati, ma trae da essa la propria linfa ed esprime quel continuo ricambio sociale che è condizione di progresso -, con la sua difesa di provvedimenti che favoriscano il sorgere di uomini d'affari dalla classe dei lavoratori salariati, e con il suo appoggio al movimento cooperativo.In terzo luogo, l'elemento di diversificazione dell'imprenditore che fa profitto, messo in risalto da Marshall, e il conseguente concetto di 'mercato speciale' possono essere intesi come un'anticipazione non tanto delle teorie assiomatiche delle forme di mercato proposte negli anni trenta del Novecento da molti economisti e compiutamente elaborate da Joan Robinson e da Edward Chamberlin, quanto delle ricerche sul comportamento strategico messo in atto dai produttori in condizioni di concorrenza imperfetta, e sul profitto che ne risulta, iniziate da Michail Kalecki. In quest'ultima prospettiva il profitto di ogni impresa relativamente alle concorrenti all'interno di un'industria trova una spiegazione molto diversa da quella fornita dal filone teorico che impiega gli strumenti analitici della statica.

La teoria statica delle forme di mercato si fonda sui due casi estremi dell'impresa monopolistica, che in equilibrio gode sempre di un profitto puro, e dell'impresa in concorrenza perfetta che in equilibrio ha profitto nullo. Essa mostra che ciò accade perché la prima è in grado di fissare il prezzo di vendita sopra il costo medio, mentre in concorrenza prezzo e costo medio coincidono, anche se possono darsi rendite per quelle imprese che, transitoriamente e grazie alla presenza di attriti e imperfezioni, producono a un costo medio più basso. In un contesto di processo risulta invece che ogni impresa opera in modo da differenziarsi dalle altre e alcune ottengono un saggio del profitto strutturalmente più elevato grazie all'uso di tecnologie più efficienti, dalle quali le altre imprese restano escluse o per ragioni dimensionali o in conseguenza di comportamenti strategici messi in atto dalle prime espressamente a tale scopo.

Sempre in questo contesto un elemento decisivo nella determinazione del profitto di impresa è la presenza di barriere all'entrata, variamente definite dagli economisti, a seconda che l'attenzione sia focalizzata sulle caratteristiche strutturali che consentono a un'impresa di ottenere profitti comunque superiori a quelli che il nuovo entrante potrà raggiungere, oppure sull'onerosità delle condizioni di entrata relativamente alle imprese già attive, o ancora sui costi di produzione sostenuti dalle imprese già attive al fine di scoraggiare i nuovi produttori, e comunque inferiori alle riduzioni di profitto che deriverebbero alle prime dall'ingresso di questi ultimi (v. Marshall, 1890, libro I, cap. 1, libro IV, capp. 11.6-11.7, 12.2-12.4, 13.1-13.2, libro V, cap. 12.2-12.3; v. Marshall, 1919, pp. 196, 397; v. Schumpeter, 1954, parte IV, capp. 5.2b, 6.2b, 7.4a, 7.8e; v. Becattini, 1962, pp. 88-125; v. Loasby, 1982; v. Moss, 1984).Infine, considerando il funzionamento dell'economia in quanto economia monetaria, Marshall pone anche le premesse degli studi sui profitti che si formano per effetto dell'andamento ciclico dei prezzi e del credito.

Tra gli economisti che seguono le sue tracce (attivi soprattutto tra il 1920 e il 1940, in particolare a Cambridge) occorre citare almeno John Maynard Keynes, il quale sottolinea due aspetti complementari dei movimenti dei profitti nel tempo. Da un lato, in un sistema economico soggetto a oscillazioni dei prezzi, un imprenditore che opera a un dato livello di attività e a determinati costi può andare incontro a differenze tra costo e prezzo, ossia può ottenere un extra-profitto (o incorrere in una perdita) che lo induce a variare il livello di produzione nel periodo successivo: in questo modo Keynes collega l'andamento dei profitti imprenditoriali alle fluttuazioni nei prezzi, dovute anche alla politica monetaria e creditizia deliberatamente volta a influenzare l'attività produttiva. D'altro lato, tenendo conto del fatto che l'attività imprenditoriale (enterprise) si svolge in ogni istante tra un passato irrevocabile e un futuro incerto, egli dimostra che le decisioni di investimento sono condizionate dalle aspettative di profitto e dalla disponibilità di fondi liquidi, ossia anche dalla politica creditizia che esercita un influsso sulle attese di profitto stesse.

Dunque, anche Keynes connette il tema dell'attività imprenditoriale e del profitto a quello dell'incertezza, che assume nella sua teoria un significato peculiare. Egli ritiene che essa non sia riducibile a calcolo, ma che sia comunque trattabile in termini logici. Di conseguenza, colui che si trova ad agire in condizioni di incertezza - per esempio l'imprenditore che deve farsi un'opinione circa il profitto derivante da una 'intrapresa' - fa ricorso a giudizi, in parte analizzabili e in parte non analizzabili, e assume la sua decisione solo quando ritiene di avere ragioni sufficienti, anche se non necessarie, a fondare la sua azione. Per Keynes, insomma, incertezza è sinonimo non di ignoranza, ma di conoscenza limitata (v. Keynes, 1930, vol. I, cap. 11.5, vol. II, cap. 30, e 1936, capp. 11-12; v. Carabelli, 1982). Iniziativa imprenditoriale, credito e profitto da innovazione

Tra gli economisti che presentano il profitto come forma di reddito tipica del capitalismo, inteso come società storicamente determinata, troviamo Schumpeter. Egli mostra che l'economia capitalistica si riproduce con formazione di surplus grazie al particolare 'metodo' con il quale avviene la selezione di coloro che assumono il 'comando' sulla produzione, ossia decidono come, quanto e che cosa produrre. Entro questa teoria del processo capitalistico si inserisce la sua analisi del profitto.Secondo Schumpeter nessuna delle funzioni svolte da quanti normalmente designamo come imprenditori giustifica il potere di comando che essi detengono e la formazione di un surplus di valore, ossia l'ottenimento di una somma di moneta, il cui potere d'acquisto è superiore a quello della moneta spesa per acquisire i mezzi di produzione e per remunerare tutte le attività svolte entro un particolare processo produttivo. Il coordinamento dei servizi produttivi, l'eventuale assunzione del rischio, la stipulazione dei contratti che fanno capo all'impresa, il controllo della disciplina di fabbrica si configurano soltanto come particolari prestazioni di cui si può calcolare il corrispettivo pecuniario, proprio come quello di qualsiasi altro prestatore d'opera. Schumpeter formula allora l'ipotesi teorica che un individuo raggiunga il potere di assumere decisioni produttive perché introduce innovazioni che riducono il costo reale per unità di prodotto. Imprenditore è per lui sinonimo di innovatore, e innovare significa trasformare l'organizzazione dell'impresa, oppure la composizione delle forze all'interno di un settore o di un mercato.

L'innovatore 'distrugge' posizioni consolidate dei produttori esistenti e 'crea' un surplus di valore. Ma affinché tutto ciò avvenga non sono sufficienti la volontà e la capacità di introdurre nuove combinazioni produttive. Infatti l'innovatore deve farsi spazio entro un sistema di relazioni di produzione e di scambi già determinato, anche se non necessariamente operante a livello di pieno utilizzo di tutte le risorse e di piena occupazione. Poiché ogni produzione trova già la sua domanda e gli individui hanno già deciso la destinazione dei loro redditi, egli non riesce a trovare i mezzi di pagamento necessari ad acquisire mezzi di produzione e forza lavoro, e a realizzare la sua innovazione. Occorre che una banca emetta a suo favore moneta bancaria creata ex novo, ossia indipendentemente dalla volontà di risparmio della collettività, e proprio con l'obiettivo di consentirgli di accedere ai mercati delle merci e della forza lavoro. In altri termini, una banca deve essere disposta ad adottare un particolare 'metodo' di finanziamento nei suoi confronti. Secondo Schumpeter la creazione di credito ex novo costituisce il 'complemento monetario' dell'attività innovativa dell'imprenditore.

Soltanto il rapporto di interazione tra imprenditore e istituzione creditizia spiega la riproduzione del capitale con formazione di surplus di valore entro l'economia capitalistica. Se l'iniziativa imprenditoriale è sorretta da un intervento del credito di questo tipo, ha luogo un mutamento nel potere d'acquisto della moneta e inizia un processo durante il quale non solo si trasformano la struttura produttiva, la composizione del prodotto sociale e le caratteristiche qualitative delle merci, ma si modificano anche il sistema dei prezzi, la distribuzione del reddito e la ripartizione del potere di comando sulla produzione. Per quanto riguarda strettamente il profitto, esso si mantiene positivo durante tutto il processo di cambiamento e fino a che la nuova combinazione produttiva non è imitata dagli altri produttori, compensando, in definitiva, la "iniziativa pratica" di quell'innovatore che abbia ottenuto il consenso dell'istituzione creditizia. Con "iniziativa pratica" Schumpeter designa una volontà di intervento sull'esistente non fine a se stessa, bensì sorretta da una particolare conoscenza. In prima istanza, colui che intende introdurre una nuova combinazione produttiva sembra affidarsi alla prefigurazione di una situazione futura indefinita, a differenza del produttore tradizionale che fonda la sua azione sulla concretezza di ciò che è già stato sperimentato. L'innovatore risulta dotato di una creatività che ha tutte le apparenze dell'azione istintiva e irrazionale. Ma non è così. Egli deve anzi formarsi una conoscenza particolarmente approfondita della situazione presente (stato della domanda, disponibilità delle risorse e della forza lavoro, sistema dei prezzi e così via) e prefigurare situazioni future possibili, formulando aspettative sul tipo di prodotto, sull'ammontare di produzione vendibile, sul sistema dei prezzi. A differenza del produttore tradizionale, appiattito in una sorta di passiva inconsapevolezza, l'innovatore deve usare la sua 'immaginazione', ossia distaccarsi dal presente, aprirsi al mondo del possibile, vedere nelle nuove combinazioni produttive una possibilità reale e attribuire al futuro che intende realizzare tratti che lo rendono, ai suoi occhi, tanto concreto quanto il presente. Infine, egli deve stimare le resistenze materiali e psicologiche che gli saranno opposte, oltre che i modi e i mezzi necessari per convincere o costringere gli altri ad accettare il nuovo e adeguarvisi. In definitiva l'innovatore conosce per cambiare: dunque è agente razionale o uomo 'pratico' per eccellenza. Il profitto che guadagna è il segno tangibile di un atto creativo all'interno della società, di una superiorità nella competizione economica, di un diritto di 'comando' sull'impiego futuro del prodotto sociale.

Oltre a spiegare in questi termini il profitto come reddito capitalistico, Schumpeter ne considera le relazioni con le altre forme di reddito. Profitti, salari e interessi remunerano le funzioni produttive essenziali per la riproduzione dell'economia capitalistica. Ad essi sono associate classi sociali distinte: entità collettive, ognuna delle quali esprime finalità comuni ai suoi appartenenti, ma non necessariamente coincidenti con quelle del resto della società. L'introduzione di nuove combinazioni produttive, mettendo in moto un processo di cambiamento delle grandezze reali e dei prezzi relativi, altera anche la distribuzione del reddito tra le classi sociali e modifica sia il loro peso relativo nella determinazione dei contratti di lavoro e di finanziamento che reggono l'attività produttiva nel capitalismo, sia la loro capacità di influire sulla formazione delle decisioni politiche. Profitti, salari e interessi sono strettamente connessi tra loro e subiscono alterne variazioni durante il processo di cambiamento, muovendosi ora nello stesso senso, ora in senso antagonistico (v. Schumpeter, 1912, capp. 2-4). 5. Organizzazione capitalistica del lavoro e profitto come plusvalore.La massima consapevolezza della natura capitalistica - ossia storicamente determinata - del profitto è stata raggiunta agli albori dell'economia politica, nelle analisi tuttora ineguagliate condotte dagli economisti 'classici' e da Marx.

Per Adam Smith l'unica forma di reddito naturale, astorica, presente in qualsiasi società, è la remunerazione del lavoro. Nello stadio originario della società ognuno riceveva l'intero prodotto del proprio lavoro, ma la tendenza naturale dell'uomo a 'trafficare' con i suoi simili ha innescato un processo di crescente divisione del lavoro; ogni lavoratore è stato spinto a specializzarsi nelle attività che gli consentono di ottenere il prodotto più elevato. Di conseguenza la storia della società è segnata da una crescente produttività del lavoro e da un benessere sociale sempre più elevato. Esito ultimo e definitivo del processo storico è il capitalismo: qui si realizza la massima capacità di produrre ricchezza, entro una struttura sociale caratterizzata dall'appropriazione della terra, dall'accumulazione del capitale da parte di alcuni individui e dalla separazione del lavoratore da tutto ciò che gli consente di esplicare la sua abilità nel produrre. Si sono così formate le classi dei proprietari terrieri, dei capitalisti e dei lavoratori, alle quali corrispondono altrettante forme di reddito: rendite, profitti e salari. In particolare il profitto trova per Smith la sua origine nel lavoro salariato, ossia nella separazione del lavoratore da quanto gli serve per produrre e nella contestuale appropriazione da parte del capitalista del potere di decidere che cosa, quanto e come produrre, e anche quanto e come investire del prodotto sociale. Il profitto non remunera nessuna effettiva prestazione del capitalista (il quale riceve già un salario di direzione e un interesse nel caso in cui la sua attività consista nella cessione dell'"uso della moneta"), ma è esclusivamente una 'deduzione' dal prodotto del lavoro altrui.

Dal punto di vista dei rapporti di produzione, profitto del capitalista e salario del lavoratore sono antitetici. Infatti, quando stipulano il contratto di lavoro, ossia quando fissano le anticipazioni che il capitalista fornisce al lavoratore salariato - materiali necessari al lavoro e sussistenze - le 'coalizioni' dei lavoratori da un lato e dei capitalisti dall'altro "non hanno affatto gli stessi interessi" e cercano di avere "il sopravvento" l'una sull'altra. Smith ritiene che "in generale" sia la seconda a prevalere, ma che la classe dei lavoratori possa trarre vantaggio dalla presenza della classe dei capitalisti, qualora questi investano il profitto e promuovano miglioramenti nei metodi di produzione con l'obiettivo di ridurre il prezzo delle merci e di elevare le condizioni di vita generali (v. Smith, 1776, libro I, capp. 1, 2, 6, 8, 9).

Come si vede, Smith esprime con grande chiarezza una tesi sull'origine del profitto nell'economia capitalistica. Viceversa egli non si preoccupa di spiegare i principî in base ai quali il prodotto sociale si ripartisce tra salari, profitti e rendite. Questo tema è oggetto dell'analisi di David Ricardo. Senza aggiungere nulla alla tesi di Smith sull'origine del profitto, Ricardo ne definisce la natura 'residuale' rispetto a rendite e salari. Egli mostra cioè che, dato un prodotto sociale (al netto degli ammortamenti), la quota dei profitti non può essere determinata indipendentemente da rendite e salari, i cui ammontari trovano viceversa determinazione autonoma. Le rendite dipendono dalla diversa fertilità delle terre: una volta escluso, per effetto della concorrenza tra proprietari terrieri, che si dia una rendita sulle terre meno fertili tra quelle messe a coltura, la rendita totale è costituita dalla differenza tra il prodotto ottenuto su tutte le terre e il prodotto ottenuto su quelle a più bassa fertilità. Quanto ai salari complessivi, essi sono determinati sulla base del principio che ogni lavoratore riceve quanto gli è necessario per vivere e riprodursi in base agli usi e alle abitudini del tempo. Profitto, infine, è ciò che resta del prodotto sociale dopo queste detrazioni. In questo senso esso ha natura residuale e dipende in ultima istanza dalla fertilità della terra, dalle tecniche di produzione in uso e dalle sussistenze dei lavoratori.

Ricardo aggiunge che questa situazione genera conflitti tra le classi sociali. Infatti, se con il procedere dell'accumulazione una nazione è costretta a mettere a coltura terre sempre meno fertili, la quota dei profitti rispetto alle rendite diminuirà. Egualmente diminuirà la quota dei profitti rispetto ai salari, se a parità di produttività del lavoro aumenta la quantità di lavoro necessario per produrre le sussistenze dei lavoratori rispetto al lavoro complessivamente erogato. Infine l'introduzione delle 'macchine' nel processo produttivo, anziché ridurre questa conflittualità, la accentua, perché fa aumentare rendite e profitti, ma ciò può avvenire con danno dei salariati qualora dia luogo a disoccupazione (v. Ricardo, 1815 e 1817, capp. 1, 2, 5, 6, 21; v. Sraffa, 1951, pp. XXX-XLIX, LVII-LX).

Alle tesi sul profitto espresse da Smith e da Ricardo Marx muove una critica articolata. L'origine del profitto, così come la spiega Smith, è riconducibile a un atto di dominio che il lavoratore salariato subisce da parte del capitalista, il quale gli sottrae una parte del prodotto del suo lavoro e se ne appropria sotto forma di profitto. Marx osserva però che qualsiasi società divisa in classi legalizza fenomeni di appropriazione del lavoro altrui. Dunque, sotto l'aspetto messo in luce da Smith il lavoratore salariato della società capitalistica non differisce dallo schiavo o dal lavoratore sottoposto a una qualsiasi autorità esterna, né il capitalista differisce dal padrone o dal proprietario presente in una qualsiasi altra società storica. In definitiva, Smith non riesce a spiegare il profitto come forma di reddito specificamente capitalistica. Lo stesso vale per la teoria di Ricardo, che fissa il carattere residuale del profitto rispetto agli altri redditi e sembra rinviare a una specifica organizzazione del lavoro sociale, ma in ultima istanza fa dipendere il profitto dalle condizioni di coltura delle terre e di sopravvivenza dei lavoratori. Queste debolezze riscontrate nelle teorie del profitto di Smith e di Ricardo sono riconducibili, secondo Marx, al limite di tutta l'economia politica 'classica': la mancata distinzione tra processo sociale di produzione in generale e processo di produzione capitalistico.

Nell'economia capitalistica, osserva Marx, non si produce per l'uso ma per la valorizzazione del capitale, come si può riscontrare osservando la circolazione delle merci. Nel capitalismo l'obiettivo dello scambio non consiste nel cedere una merce contro un'altra merce idonea a soddisfare bisogni diversi, con l'intermediazione del denaro che funge esclusivamente da mezzo di circolazione (M-D-M), ma nel cedere una somma di denaro o potere d'acquisto per ottenere una somma di potere d'acquisto superiore. Il denaro iniziale D si valorizza - ossia diventa D', maggiore di D - solo acquistando una forma intermedia che lo consente (D-M-D'). Se si rimane nella sfera della circolazione, non si trova nessun tipo di scambio che assicuri questo risultato. Anche il lavoratore salariato, a differenza dello schiavo, contratta liberamente la remunerazione della propria capacità lavorativa, assumendo nello scambio una posizione giuridica identica a quella della controparte o a quella di chi vende una qualsiasi merce. La 'forza lavoro' che egli cede in base a un libero contratto ha un valore di scambio pari al tempo di lavoro necessario a produrre quanto serve a mantenerla e riprodurla, proprio come un'unità di una merce liberamente scambiata vale tante unità di un'altra merce quante se ne possono produrre in un identico tempo di lavoro.

Ma la 'forza lavoro', come insieme delle attitudini fisiche e mentali che sorreggono una determinata attività, differisce dal 'lavoro', che è attività produttiva in atto, capace di produrre più di quanto serve al ripristino della forza lavoro. Il lavoratore salariato, cedendo l'uso della forza lavoro, ha in realtà messo a disposizione del capitalista il proprio lavoro. Accade così che una giornata lavorativa di una data lunghezza possa essere divisa in due parti: una parte destinata alla riproduzione della forza lavoro ed equivalente al salario, e un parte di 'pluslavoro', che si traduce in 'plusvalore', quando si considera il valore della merce prodotta (formato appunto da tre addendi: capitale costante o valore dei mezzi di produzione, capitale variabile o valore della forza lavoro, plusvalore).

Quando, infine, il capitalista vende la merce e realizza il plusvalore, la differenza tra D' e D, che ottiene in base ai prezzi che si formano nei mercati, si scinde in rendita per l'uso delle risorse naturali, interesse per l'uso dei fondi liquidi e profitto del produttore. In ultima istanza quindi il profitto è reddito proprio del modo di produzione capitalistico: deve la sua origine al pluslavoro, ossia all'organizzazione capitalistica del lavoro.

Il fine della valorizzazione del capitale impone un antagonismo tra i profitti e tutti gli altri redditi. Tuttavia, mentre i proprietari delle risorse naturali e coloro che prestano fondi liquidi hanno interesse ad allearsi con il capitalista nell'ottenimento del plusvalore, il contrasto di classe tra capitalisti e lavoratori costituisce l'essenza stessa del capitalismo. Infatti esso non si esprime soltanto nella divisione di una giornata lavorativa di lunghezza data. Nell'economia capitalistica si danno continui mutamenti delle condizioni in cui si svolge il lavoro sociale. Cambiano, ad esempio, la lunghezza della giornata lavorativa, l'intensità del lavoro, il rapporto che il lavoratore ha con lo strumento di lavoro, il tempo necessario a produrre le sue sussistenze, anche quando le sue condizioni di vita migliorano. Ciò comporta una continua ridefinizione della divisione della giornata lavorativa, ossia del rapporto tra plusvalore e salari: la classe dei salariati, ponendosi come fine la produzione per l'uso, chiede di aumentare il tempo di lavoro dedicato alla propria sussistenza e alla soddisfazione dei bisogni sociali, mentre la classe dei capitalisti, ponendosi come fine la valorizzazione del capitale, tende ad aumentare il tempo di lavoro dedicato all'ottenimento del plusvalore e in particolare del profitto. Qui sta per Marx il principio di spiegazione della dinamica capitalistica: un movimento discontinuo, segnato da crisi e ristrutturazioni, durante il quale, per effetto dell'azione cosciente delle classi, si approfondisce la contraddizione tra lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti sociali di produzione propri del capitalismo (v. Marx, 1867-1894, vol. I, sezz. I-IV, e vol. III, sez. I, capp. 1-4, sezz. III, V, capp. 21-28, sezz. VI-VII; v. Rosdolsky, 1968; v. De Vecchi, 1983).

Sia gli economisti classici che Marx danno rilievo alla relazione tra profitti e attività di investimento. Essi se ne occupano principalmente allo scopo di proporre visioni dei futuri assetti sociali del capitalismo o delle sue trasformazioni: considerando il processo di accumulazione del capitale si concentrano proprio sull'andamento del saggio del profitto e formulano 'leggi' di caduta dello stesso o, nel caso di Marx, tendenze fondamentali, storicamente contrastate da molteplici controtendenze. Ma, indipendentemente da questo esito teorico, le loro intuizioni e le loro analisi sul profitto come stimolo e fonte dell'investimento costituiscono la base di molteplici approfondimenti successivi. Ci limitiamo ad accennare alla distinzione tra decisione e realizzazione dell'investimento di J.M. Keynes, che ha segnato un punto di svolta cruciale in questa direzione.Nel momento in cui decide se investire o meno, l'imprenditore formula un'aspettativa di profitto. Ciò significa che si figura, sulla base della sua conoscenza della situazione presente, un futuro assetto dell'economia in generale e valuta, di conseguenza, gli andamenti della domanda di ciò che produce rispetto alla sua attuale capacità produttiva, del prezzo di vendita e dei costi di produzione. Su queste basi individua un saggio di remunerazione atteso dell'investimento che intende realizzare e lo confronta con il saggio di interesse attuale: soltanto nel caso in cui il primo superi il secondo tradurrà in atto il suo progetto. In questa fase il profitto ottenuto dalla produzione passata e il saggio del profitto già realizzato hanno certamente una funzione di stimolo all'investimento, ma non ne costituiscono la determinante fondamentale.

Questa resta l'aspettativa di profitto, ossia in ultima istanza la valutazione del futuro che l'imprenditore formula in base alla sua conoscenza della situazione attuale.

Viceversa, il profitto già ottenuto dalla produzione passata diventa elemento condizionante di importanza primaria se si considera la realizzazione dell'investimento. Esso segna infatti il vincolo finanziario all'investimento stesso, non soltanto perché ne è la fonte nel caso di autofinanziamento, ma anche perché è considerato tra i parametri di riferimento, sia per la concessione del credito da parte dei finanziatori esterni, sia per la determinazione delle condizioni del prestito (ammontare, durata, saggio di interesse).

Esiste dunque un complesso rapporto di interdipendenza tra saggio del profitto realizzato, saggio del profitto atteso e saggio di interesse praticato dal finanziatore. Su tale rapporto si regge non solo l'attività di ogni singola impresa, ma il processo di accumulazione dell'intero sistema economico, il quale risulta dunque profondamente condizionato e condizionabile dalla politica monetaria e creditizia attuata dall'autorità monetaria e dal sistema delle banche (v. Keynes, 1936, libro IV, e 1937).