Enciclopedia delle Scienze Sociali (1997)
  di Terenzio Cozzi
  Produttività 
  
  sommario: 1. Produttività media e
    marginale. 2. La produttività marginale decrescente e la
    domanda di fattori. 3. Funzione aggregata di produzione,
    produttività marginale e distribuzione del reddito. 4. La
    misurazione del capitale e la coerenza della teoria neoclassica
    della distribuzione. 5. Contabilità della crescita,
    produttività globale e produttività media del lavoro.
    6. Un secolo di crescita della produttività del lavoro. 7.
    Produttività e occupazione. 8. Crescita della
    produttività: effetti strutturali. 9. Cause della crescita
    della produttività. □ Bibliografia. 
    
1. Produttività media e marginale
Per produttività si intende normalmente un confronto
    tra quantità prodotte e quantità di fattori produttivi
    utilizzati. Spesso il confronto viene effettuato in termini di
    rapporto tra le due quantità. Ad esempio, la
    produttività media del lavoro è definita come la
    produzione per lavoratore o per ora lavorata; quella di altri
    fattori produttivi come produzione per unità di impiego del
    fattore considerato.È chiaro che nella misurazione delle
    grandezze che servono - produzione e fattori - occorre utilizzare
    unità di misura soddisfacenti, che non è sempre facile
    individuare. Sorgono infatti difficoltà perché
    è necessario risolvere complicati problemi di aggregazione in
    modo logicamente coerente con l'uso che della misurazione si intende
    fare.La misurazione di gran lunga più importante di
    produttività è quella media del lavoro. Essa
    può essere calcolata a livello di singola impresa, di singolo
    settore produttivo o di intera economia. Nell'ultima ipotesi, la
    produttività del lavoro può essere definita come il
    valore del prodotto nazionale per occupato o per ora lavorata e
    misura dunque il frutto del lavoro umano nella media dell'intero
    sistema economico. Naturalmente, per confrontare i livelli di
    produttività di un paese a date diverse, bisogna valutare il
    prodotto nazionale a prezzi costanti, mentre per comparazioni a
    livello internazionale debbono essere utilizzati opportuni tassi di
    cambio.
La produttività media del lavoro non dipende soltanto, e
    neppure principalmente, dall'abilità e dall'impegno dei
    lavoratori bensì, soprattutto, dagli strumenti di produzione
    che essi utilizzano: la produttività di un lavoratore
    agricolo che usa un trattore e un aratro è notevolmente
    superiore a quella che avrebbe se potesse operare soltanto con una
    vanga. In altri termini, la produttività media del lavoro non
    misura il contributo alla produzione fornito dal solo lavoro ma
    quello fornito dal lavoro assistito da altri fattori. Anche per
    questi vale un'affermazione analoga: la produttività media
    della terra (produzione per ettaro) dipende ad esempio dalle
    quantità di lavoro, di concime, di attrezzature impiegate.
    È l'insieme dei fattori combinati per l'ottenimento della
    produzione (ovvero lo stato della tecnologia) a determinare la
    produttività media di ciascun fattore.Il concetto di
    produttività media mette in relazione produzione e fattori
    produttivi rapportandone i rispettivi livelli. Il concetto di
    produttività marginale ne rapporta invece gli incrementi.
    Più precisamente, si definisce come produttività
    marginale del fattore x nella produzione di y il rapporto tra
    l'aumento (o la diminuzione) delle quantità di y prodotte e
    l'aumento (o la diminuzione) delle quantità di x utilizzate,
    ferme restando le quantità impiegate di tutti gli altri
    fattori produttivi. Supponiamo ad esempio di aver indicato con x il
    lavoro e con y il grano. La produttività marginale del lavoro
    è data dalla quantità aggiuntiva di grano che un
    lavoratore in più permette di produrre (Δy/Δx oppure, se si
    considera un incremento infinitesimo di x, dalla derivata parziale
    δy/δx).
La produttività marginale misura dunque il contributo alla
    produzione apportato dall'ultima unità impiegata del fattore
    produttivo. Per calcolare questo contributo si è ipotizzato
    di utilizzare un lavoratore in più, lasciando invariate le
    quantità degli altri fattori. Come però già
    sappiamo, la produttività di questo lavoratore aggiuntivo
    dipende, in modo determinante, dalle quantità degli altri
    fattori con cui si troverà a operare: se prima si impiegavano
    10 lavoratori e 10 vanghe, è molto improbabile che la
    produzione possa aumentare significativamente impiegando un
    lavoratore in più senza fornirgli una vanga. L'impiego di
    quantità aggiuntive di un fattore richiede, in ogni caso,
    qualche mutamento nelle tecniche utilizzate e/o nell'organizzazione
    produttiva. Il livello della produttività marginale di un
    fattore è perciò influenzato dalla maggiore o minore
    facilità di realizzazione degli opportuni mutamenti. È
    probabilmente tanto più agevole trovare il modo di impiegare
    proficuamente una unità aggiuntiva di un fattore quanto
    minore è la quantità che, dello stesso, si utilizza
    relativamente a quelle degli altri fattori. 
    
2. La produttività marginale decrescente e
      la domanda di fattori
      
L'affermazione finale del capitolo precedente sta alla base
    dell'ipotesi, spesso chiamata legge, della produttività
    marginale decrescente. L'ipotesi, cardine della teoria neoclassica
    della produzione e della distribuzione, afferma che la
    produttività marginale di ogni fattore diminuisce quando la
    quantità utilizzata aumenta al di là di un certo
    limite. Fino a quando il limite non è raggiunto, la
    produttività marginale può crescere. È ad
    esempio possibile che un solo lavoratore che debba coltivare un
    vasto appezzamento di terreno non riesca a organizzare bene la
    propria attività e abbia quindi una produttività
    relativamente bassa. Aumentando invece il numero dei lavoratori,
    è possibile realizzare un'organizzazione produttiva
    più efficiente, tale da consentire aumenti di produzione
    più che proporzionali all'aumento dei lavoratori: i
    lavoratori aggiuntivi hanno cioè una produttività
    più elevata di quelli precedenti. La fase della
    produttività marginale crescente è però
    destinata a finire. Prima o poi, la limitatezza del terreno
    coltivabile fa sentire i propri effetti. All'inizio ciò non
    avviene perché i lavoratori sono pochi e non riescono a
    coltivare adeguatamente tutto il terreno disponibile, che è
    quindi sovrabbondante. Man mano che aumentano i lavoratori,
    però, il terreno diviene relativamente sempre più
    scarso per cui, al di là di un certo limite, la produzione
    cresce in misura sempre minore per ciascun occupato aggiuntivo. Da
    quel punto in avanti, la produttività marginale del lavoro
    presenta quindi un andamento decrescente.
Le stesse considerazioni possono essere ripetute con riferimento a
    tutti i fattori produttivi le cui produttività marginali
    incominciano, a un certo punto, a diminuire. L'ipotesi neoclassica
    afferma quindi l'inevitabilità di rendimenti decrescenti con
    l'aumento progressivo dell'impiego di ogni fattore produttivo se
    quello degli altri è mantenuto costante.
È facile comprendere come proprio l'esistenza di questi
    rendimenti decrescenti limiti l'impiego di ciascun fattore. La
    convenienza o meno dell'utilizzo di un'unità aggiuntiva di un
    fattore dipende infatti dal confronto tra il suo costo e il suo
    rendimento. Nel caso del lavoro, il costo unitario è dato dal
    tasso di salario w. Il rendimento di una unità aggiuntiva di
    lavoro è dato dal valore della sua produttività
    marginale: pπL, con πL che indica la produttività misurata in
    quantità del bene prodotto e p il suo prezzo. Converrà
    perciò impiegare un lavoratore aggiuntivo se pπL > w;
    mentre non risulterà conveniente nel caso contrario. Il
    limite della convenienza è fissato da pπL=w, ma bisogna
    notare che il limite opera quando πL si trova già nella sua
    fase decrescente. Se infatti πL stesse ancora crescendo, sarebbe
    ovviamente conveniente ampliare l'occupazione. Lo stesso
    ragionamento può essere ripetuto per ogni altro fattore
    produttivo che sarà utilizzato fino al punto di uguaglianza
    tra la sua remunerazione e il valore della sua produttività
    marginale. Nel caso della terra da destinare alla coltivazione del
    bene considerato, dovrà perciò essere pπT=τ, con τ che
    indica la rendita unitaria e πT la produttività marginale
    fisica della terra.
Dalle condizioni di equilibrio per l'uso del lavoro e della terra si
    può ottenere: ovvero la nota condizione di uguaglianza tra le
    produttività marginali ponderate dei fattori produttivi che
    garantisce la minimizzazione dei costi di produzione.
La (1) può essere ottenuta anche seguendo un percorso
    interpretativo diverso e forse più diffuso nella
    manualistica. Supponiamo di dover ottenere un certo livello di
    produzione e che, a tal fine, esistano molte (al limite, infinite)
    tecniche produttive definite dalle quantità di fattori
    necessarie per ottenere quel dato volume di produzione. La
    differenza tra due tecniche efficienti deriva dal fatto che se una
    utilizza una maggior quantità di un fattore, deve
    necessariamente utilizzare minori quantità di almeno un altro
    fattore. Se così non fosse, si potrebbe infatti evitare di
    tenere in considerazione la prima tecnica che non potrebbe comunque
    comportare un costo inferiore all'altra.Quanto appena affermato
    porta dunque a considerare il passaggio da una tecnica a un'altra
    come la sostituzione di un fattore con un altro. Lasciando ad
    esempio invariata la produzione, è possibile diminuire di ΔqT
    la quantità di terra e aumentare di ΔqL quella di lavoro. Il
    rapporto |ΔqL/ΔqT|, che misura il numero di unità delle quali
    qL deve aumentare (o diminuire) per compensare una diminuzione
    (aumento) unitario di qT, è chiamato saggio marginale di
    sostituzione tra lavoro e terra: SMSLT.
La sostituzione avviene a saggi diversi a seconda dell'impiego
    relativo dei due fattori. Quando si utilizza tanta terra e poco
    lavoro, la produttività marginale della prima è
    relativamente bassa mentre quella del secondo è alta. Un
    piccolo incremento di lavoro sarà quindi sufficiente a
    compensare una riduzione unitaria di terra. Quando invece
    quest'ultima è utilizzata relativamente poco, sarà
    necessario un consistente aumento del lavoro per compensare una sua
    ulteriore diminuzione unitaria. Il SMSLT decresce quindi al crescere
    della terra, e viceversa. L'affermazione può essere provata
    formalmente dimostrando che SMSLT=πT/πL.
Si consideri infatti l'effetto sulla produzione di un incremento ΔqL
    del solo lavoro e, separatamente, quello di un decremento |ΔqT|
    della terra. Nel primo caso la produzione aumenta di pLΔqL,
    cioè della produttività marginale dei lavoratori
    aggiuntivi moltiplicata per il loro numero, nel secondo caso
    diminuisce di πT|ΔqT|. Se, come si assume calcolando SMSLT, la
    produzione alla fine deve restare invariata, bisogna che l'aumento e
    la diminuzione siano di pari entità: πLΔqL=πT|ΔqT|. Si ha
    perciò: 
Si considerino ora i costi di produzione, C=wqL+τqT, definiti come
    somma dei prodotti delle quantità dei fattori utilizzati per
    i rispettivi prezzi. I costi sono minimizzati quando ΔC=0. Bisogna
    infatti escludere che variazioni di qL e di qT ammissibili (quelle
    che permettono di mantenere inalterata la produzione) consentano di
    avere ΔC⟨0, cioè costi minori. Deve perciò essere da
    cui si ottiene: che, sostituita nella (2), fornisce il risultato
    già ottenuto con la (1), vale a dire l'uguaglianza tra le
    produttività marginali ponderate. È questa uguaglianza
    che determina, per ogni dato livello di produzione, le
    quantità di ciascun fattore produttivo utilizzato. Se viene a
    variare il prezzo dei fattori, quello relativamente rincarato
    risulterà utilizzato di meno e l'altro di più. Se ad
    esempio w aumentasse e τ rimanesse costante, per ristabilire
    l'uguaglianza tra le produttività marginali ponderate
    occorrerebbe utilizzare meno lavoro e più terra, in modo che
    πL potesse crescere e πT diminuire.
Si arriva quindi alla conclusione, fondamentale per la teoria
    neoclassica, che le curve di domanda di fattori produttivi sono
    funzioni decrescenti dei rispettivi prezzi (relativi): la
    conclusione non fa nient'altro che riproporre, in forma diversa,
    ciò che è stato postulato, la decrescenza delle
    produttività marginali.
Occorre inoltre osservare che, come è ovvio, la domanda di
    fattori dipende dal livello di produzione, finora ipotizzato
    costante. Se invece, continuando con l'esempio di prima, l'aumento
    del salario avesse l'effetto di far crescere la domanda del bene
    considerato, e quindi la sua produzione, l'occupazione potrebbe non
    diminuire pur in presenza di una minor utilizzazione relativa di
    lavoro. Questa osservazione non ha molta rilevanza per l'occupazione
    di un singolo settore, ma a livello macroeconomico un aumento dei
    salari potrebbe avere, in certe condizioni, effetti positivi
    sull'occupazione, mentre una diminuzione potrebbe avere effetti
    negativi. 
    
3. Funzione aggregata di produzione,
      produttività marginale e distribuzione del reddito
      
 Si consideri ora il sistema economico in termini
    aggregati e si indichi con Y il livello della produzione (e del
    reddito reale). Si assuma che Y possa essere prodotto mediante
    l'impiego di due soli fattori, capitale K e lavoro L, secondo la
    funzione aggregata di produzione: La (4) descrive le tecniche
    produttive disponibili, indica cioè quali combinazioni dei
    due fattori consentano di ottenere diversi livelli di produzione.
    Seguendo l'impostazione neoclassica, si ipotizza che le
    produttività marginali di K e di L, indicate rispettivamente
    con FK e FL, siano decrescenti: FK rappresenta la derivata parziale
    di F rispetto a K, e FL quella rispetto a L. L'ipotesi di rendimenti
    decrescenti impone che FK e FL diminuiscano all'aumentare
    rispettivamente di K e di L.
Si assuma inoltre che la F abbia rendimenti di scala costanti.
    Ciò significa che, se entrambi i fattori variano nella
    proporzione μ>0 (ad esempio raddoppiano se μ=2), anche la
    produzione varia in egual misura (raddoppia). In termini matematici,
    vale la relazione: e si deice che F è omogenea di primo grado
    nei suoi argomenti. Ponendo μ=1/L, si ottiene Y/L=F (K/L, 1), che
    mostra come il livello della produttività media del lavoro
    dipenda dal valore di K/L e, come si può verificare, cresca
    al crescere di tale rapporto, cioè quando si sostituisca
    capitale a lavoro. Secondo la logica neoclassica, la sostituzione
    avviene come conseguenza dell'aumento del salario rispetto al tasso
    di interesse. Si tratta di sostituzione di tipo statico, riguardante
    cioè la scelta tra tecniche già disponibili che
    avviene nel tempo logico. Non riguarda invece la sostituzione
    dinamica di cui parla Sylos Labini (v. 1992, pp. 142-153), che si
    riferisce alle macchine nuove introdotte, nel tempo cronologico,
    come risposta delle imprese ad aumenti del salario superiori a
    quelli dei prezzi delle macchine.
Per funzioni omogenee di primo grado vale un noto teorema di Eulero
    che permette di scrivere: Si può ora osservare che nel
    capitolo precedente è stato dimostrato come, in condizioni di
    equilibrio (concorrenziale), il valore della produttività
    marginale di un fattore debba risultare uguale al suo prezzo.
    Poiché stiamo esaminando un sistema economico aggregato (in
    cui si immagina di produrre un unico bene), è possibile
    considerare la produzione come numerario, ponendo il suo prezzo
    uguale a 1. Le condizioni di equilibrio possono allora essere
    scritte così: dove con r è stato indicato il prezzo
    per l'uso del capitale che è dato dal tasso di interesse
    assumendo, per comodità, che il capitale abbia durata
    infinita e non debba perciò essere ammortizzato. In
    equilibrio e in condizioni di certezza il tasso di interesse
    eguaglia poi quello di profitto.Sostituendo ora la (7) nella (6), si
    ottiene la relazione: che mostra come tutto (e solo) il reddito
    prodotto venga distribuito ai fattori: rK al capitale e wL al
    lavoro. 
La teoria neoclassica del capitale appare quindi coerente. Questa
    conclusione dipende però dall'ipotesi di rendimenti di scala
    costanti: se infatti fosse stata postulata l'esistenza di rendimenti
    crescenti (economie di scala), la remunerazione dei fattori alle
    rispettive produttività marginali non sarebbe stata possibile
    in quanto avrebbe richiesto un ammontare di reddito superiore a
    quello prodotto. Al contrario, nel caso di diseconomie di scala,
    dopo aver remunerato i fattori, sarebbe rimasta una parte di reddito
    non ancora distribuita che non si sarebbe saputo come distribuire. 
    
4. La misurazione del capitale e la coerenza della
      teoria neoclassica della distribuzione
      
L'ipotesi dell'esistenza di una funzione aggregata della
    produzione (4) è stata criticata sotto il profilo logico da
    P. Sraffa (v., 1960), da J. Robinson (v., 1954) e da altri. La
    critica riguarda la possibilità di misurare la
    quantità di capitale K che entra come argomento nella
    funzione di produzione.È evidente che non sorgerebbe alcun
    problema di misurazione se nel sistema economico si producesse un
    solo bene (grano) utilizzabile indifferentemente come bene di
    consumo e come capitale: l'unità di misura di Y varrebbe
    anche per K e sarebbe espressa in quantità fisiche (quintali
    di grano). In un sistema in cui vengono prodotti più beni,
    invece, questa semplice soluzione è preclusa. Capitale e
    produzione hanno infatti composizioni merceologiche diverse. Mentre
    è possibile misurare la produzione in termini fisici
    ricorrendo a opportuni numeri indici, lo stesso non vale per il
    capitale. 
Bisogna infatti aggregare mezzi di produzione che risultano diversi
    a seconda delle tecniche utilizzate. Non sembra esserci altro modo
    di procedere all'aggregazione di questa varietà cangiante di
    beni capitali se non in termini di valore. Ma così facendo si
    va incontro a un'incongruenza logica.Il valore di equilibrio di un
    bene capitale è infatti dato dal valore attuale dei profitti
    che il suo uso permetterà di realizzare in futuro. Per
    procedere all'attualizzazione, occorre però conoscere il
    tasso di interesse: 105 lire disponibili tra 1 anno valgono infatti
    come 100 lire disponibili oggi, se il tasso di interesse è
    del 5%; se il tasso fosse invece del 10%, il valore di 100 lire oggi
    sarebbe uguale a quello di 110 lire tra 1 anno (o di 121 lire tra 2
    anni).Invece di guardare ai profitti futuri, si può
    alternativamente valutare il bene capitale sulla base dei costi
    sostenuti in passato per produrlo. Tali costi devono però
    essere capitalizzati, cioè aumentati dell'interesse per il
    periodo intercorso tra il momento nel quale sono stati sostenuti e
    quello attuale. Anche per questo calcolo è necessario
    conoscere il tasso di interesse.
La teoria neoclassica della distribuzione prevede però che il
    tasso di interesse (o di profitto) sia determinato dalla
    produttività marginale del capitale. Bisogna comunque essere
    in grado di misurare il capitale per poterne calcolare la
    produttività e, a tal fine, occorre conoscere preventivamente
    il tasso di interesse. Segue allora, secondo J. Robinson, la
    conclusione che la versione aggregata della teoria neoclassica
    è logicamente viziata dalla circolarità del
    ragionamento.Secondo i neoclassici, invece, la critica della
    Robinson è del tutto fuori bersaglio, essendo priva di
    significato la discussione di problemi di circolarità in
    modelli che determinano simultaneamente tutte le variabili.
    Ciò tuttavia non implica l'assenza di difficoltà
    logiche provocate per la teoria dalla misurazione del capitale in
    valore. Sraffa (v., 1960) ha infatti dimostrato come, a successive
    diminuzioni del tasso di profitto, il valore del capitale non vari
    necessariamente sempre nella stessa direzione, ma possa
    alternativamente aumentare o diminuire. Ne deriva che non è
    possibile attribuire validità generale alla fondamentale
    affermazione neoclassica secondo la quale si utilizza più
    capitale e meno lavoro quando si riduce il tasso di interesse e
    aumenta quello di salario. Una conclusione che ha dovuto riconoscere
    lo stesso Samuelson (v., 1966) rispondendo alle critiche rivoltegli
    da Pasinetti (v., 1966), da Garegnani (v., 1966) e da altri.
Secondo Hahn (v., 1982), la teoria neoclassica della distribuzione
    non richiede affatto l'aggregazione: ogni bene capitale può
    essere misurato nell'unità fisica che gli è propria
    senza bisogno di una misurazione in valore del capitale (v. anche
    Ricossa, 1981 e 1991). La versione aggregata della teoria
    rappresenta soltanto una semplificazione e deve perciò essere
    giudicata valutando la dimensione degli errori dei quali può
    essere incolpata nei casi concreti. Ma né i neoclassici
    né i loro oppositori si sono particolarmente distinti su
    questo terreno. L'impostazione aggregata ha così continuato a
    dominare il campo sia nelle analisi teoriche che in quelle
    empiriche, pur senza alcuna (nuova) giustificazione della sua
    validità o del suo realismo. 
    
5. Contabilità della crescita,
      produttività globale e produttività media del lavoro
      
Come è stato visto, la funzione aggregata della
    produzione (4) mette in relazione quantità prodotte e
    quantità di fattori utilizzate. La relazione, che descrive lo
    stato della tecnologia a una certa data, viene quindi modificata per
    effetto del progresso tecnico il quale, con il passar del tempo,
    consente normalmente di ottenere maggiori volumi di produzione a
    parità di fattori, di realizzare cioè aumenti di
    produttività. La crescita della produzione viene così
    a dipendere sia dal maggior utilizzo dei fattori, sia dall'aumentata
    produttività degli stessi. La misurazione dei rispettivi
    contributi è l'oggetto delle analisi di contabilità
    della crescita (growth accounting). La procedura può essere
    illustrata facendo riferimento alla trattazione di Solow (v., 1956 e
    1957), la prima di innumerevoli trattazioni successive.
Si postula innanzitutto una funzione di produzione del tipo: che si
    differenzia dalla (4) soltanto per il parametro A che rappresenta lo
    stato della tecnologia come funzione crescente del tempo: si assume
    cioè che nuove tecniche diventino man mano disponibili e che
    la loro utilizzazione consenta di ottenere successivi incrementi di
    produzione, a parità di impiego dei fattori
    produttivi.Utilizzando un opportuno procedimento matematico,
    è possibile misurare separatamente i contributi alla crescita
    della produzione da attribuire rispettivamente all'evoluzione
    tecnologica e al maggior impiego di ciascun fattore. Basta infatti
    differenziare logaritmicamente rispetto al tempo la (9) per
    ottenere: La (10) mostra come il tasso di crescita della produzione
    dY/Y possa essere scomposto in tre parti: il tasso di crescita di A
    e i contributi forniti dagli incrementi delle quantità
    utilizzate di ciascuno dei due fattori. Per capire come questi
    contributi siano effettivamente misurati dalle espressioni indicate,
    supponiamo che, nell'intervallo (infinitesimo) di tempo considerato,
    la quantità di lavoro aumenti di dL e non vi sia invece
    alcuna variazione nella tecnologia e nella quantità di
    capitale (cioè che dA=dK=0). Ne deriverà un incremento
    di produzione pari a dY=FLdL che, espresso in termini relativi,
    fornisce il risultato indicato nella (10). In modo analogo si
    ottiene il contributo della crescita della quantità di
    capitale. 
Prescindendo da questi contributi, la produzione cresce per effetto
    dell'evoluzione tecnologica al tasso dA/A che dai neoclassici
    è spesso indicato come tasso di crescita della
    produttività globale dei fattori.Una particolare funzione di
    produzione, molto utilizzata nelle indagini empiriche, è la
    Cobb-Douglas: Essa è a rendimenti di scala costanti
    (raddoppiando K e L raddoppia infatti Y) e ha la proprietà di
    determinare quote distributive costanti se i fattori sono remunerati
    alle rispettive produttività marginali. Ponendo infatti F (K,
    L)=KαL₁-α, è facile verificare che la quota che va al
    capitale è data da FKK/Y=α e quella che va al lavoro da
    FLL/Y=1-α. Sostituendo questi risultati nella (10) e riordinando i
    termini, si ottiene: che mostra come il tasso di crescita della
    produzione sia dato dalla somma del tasso di crescita della
    produttività globale e di una media ponderata dei tassi di
    crescita dei due fattori produttivi, essendo le ponderazioni
    rappresentate dalle rispettive quote distributive.
L'analisi empirica svolta da Solow e da altri ha messo in luce come
    la crescita media dei fattori produttivi riuscisse a spiegare
    soltanto una piccola parte (circa 1/8) della crescita della
    produzione, ma non la parte di gran lunga maggiore, cioè la
    crescita della produttività globale (dA/A). Essa veniva
    perciò indicata con il nome di residuo, non rappresentando
    nient'altro che "una sorta di misura della nostra ignoranza delle
    cause della crescita economica", come Abramovitz (v., 1956, p. 11)
    aveva già affermato. Innumerevoli indagini successive si sono
    poste l'obiettivo di spiegare almeno una parte del residuo di Solow.
    Se ne indicheranno in seguito i principali risultati, ma è
    prima opportuno dire qualche cosa sui risultati empirici riguardanti
    la crescita della produttività media del lavoro che, da un
    lato, è la maggior responsabile della crescita della
    produzione e dall'altro, a differenza di quella globale, non
    richiede la misurazione del capitale e non è quindi soggetta
    alle critiche di cui si è detto in precedenza. Inoltre, se si
    accetta l'impostazione neoclassica, è facile vedere come ci
    sia una stretta relazione tra le crescite della produttività
    globale e di quella media del lavoro. 
Quest'ultima infatti è, per definizione, uguale alla
    differenza tra i tassi di crescita della produzione e
    dell'occupazione. Intuitivamente, se ad esempio la produzione
    è aumentata del 3% e l'occupazione solo dell'1%, la
    produzione per lavoratore (la produttività media) dev'essere
    cresciuta del 2%. Indicando con π=Y/L la produttività media
    del lavoro, si ha dπ/π=dY/Y - dL/L. Nel caso particolare della
    Cobb-Douglas, ponendo k=K/L, si può allora ottenere: che
    indica come la crescita della produttività media del lavoro
    possa essere scomposta in due parti: quella relativa all'incremento
    della produttività globale e quella dovuta all'incremento del
    rapporto K/L. Perciò, parlando della crescita della
    produttività media del lavoro, si parla implicitamente anche
    di quella della produttività globale che ne costituisce la
    componente più rilevante. Infatti, secondo molte stime (v. ad
    esempio Denison, 1967), il contributo dell'aumento di K/L alla
    crescita della produttività del lavoro non supera il 25% del
    valore di quest'ultima. 
    
6. Un secolo di crescita della produttività
      del lavoro
      
La ricchezza di un paese è inevitabilmente il
    risultato della crescita di lungo periodo della produttività
    media del lavoro. Salari reali e redditi pro capite elevati e
    crescenti possono infatti essere sostenuti soltanto da un'adeguata
    produttività. Che sia questo il fattore decisivo per il
    benessere economico di una collettività, è dimostrato
    dal fatto che i paesi ricchi hanno avuto per lungo tempo una
    crescita della produttività elevata, mentre quelli poveri
    l'hanno avuta bassa o nulla.Occorre molta cautela nell'effettuare
    confronti di produttività tra paesi notevolmente diversi e a
    date tra loro molto distanti, ma ciò che ne viene fuori
    è veramente impressionante. Baumol (v., 1986, p. 1074) ha
    calcolato che la produttività degli Stati Uniti nel 1870 era
    "comparabile a quella di Honduras e Filippine nel 1980, e un po'
    inferiore a quella di Cina, Bolivia ed Egitto". Sempre nel 1870, il
    paese economicamente più avanzato era ancora l'Inghilterra
    che, secondo dati di Maddison (v., 1991), aveva una
    produttività superiore del 4% a quella degli Stati Uniti.
    Tuttavia tra il 1870 e il 1950 il tasso di crescita della
    produttività degli Stati Uniti è risultato quasi il
    doppio di quello del Regno Unito, e pertanto, alla fine del periodo
    indicato, essi erano ampiamente primi in graduatoria, con una
    produttività di circa il 75% superiore a quella del Regno
    Unito.Tra il 1950 e il 1973 si è registrata una notevole
    accelerazione della crescita della produttività nei paesi
    sviluppati. 
Sempre secondo Maddison (v., 1991, p. 51) il tasso di crescita
    è passato al 4,5% medio annuo, contro l'1,8% dei precedenti
    80 anni. A differenza però di quanto accadeva prima, gli
    Stati Uniti hanno registrato una crescita sensibilmente inferiore a
    quella degli altri paesi: 2,5% contro il 7,6 del Giappone, il 5,9
    della Germania, il 5,8 dell'Italia, il 5,0 della Francia e il 3,2
    del Regno Unito. Nel 1973 il vantaggio degli Stati Uniti sul Regno
    Unito si era ridotto a circa il 50% e il livello inglese era stato
    raggiunto anche da Francia, Germania e Italia.
La tendenza dei paesi sviluppati ad avvicinarsi agli Stati Uniti
    è, negli anni successivi, proseguita (e si è anzi
    ulteriormente accentuata) in un contesto però di
    decelerazione generalizzata della crescita della
    produttività. Tra il 1973 e il 1987 per la media dei paesi
    sviluppati il tasso di crescita è sceso al 2,3%. Per gli
    Stati Uniti il valore è risultato pari a solo l'1% contro il
    3,5 del Giappone, il 3,2 della Francia, il 2,6 di Germania e Italia,
    il 2,3 del Regno Unito. Alla fine del periodo il vantaggio degli
    Stati Uniti in termini di produttività si è
    perciò ulteriormente ridotto risultando, per la media dei
    paesi, attorno al 20%. 
    
7. Produttività e occupazione
Dalla definizione di produttività del lavoro come
    π=Y/L, è facile ricavare dL/L=dY/Y - dπ/π, che mostra come il
    tasso di crescita dell'occupazione sia pari alla differenza tra i
    tassi di crescita della produzione (reale) e della
    produttività. Riprendendo l'esempio della fine del cap. 5, se
    la produzione è cresciuta del 3% e ciascun lavoratore ha
    prodotto in media il 2% in più, l'occupazione deve essere
    aumentata dell'1%. In generale, l'occupazione aumenta se
    dY/Y>dπ/π e diminuisce nel caso contrario. A maggior crescita
    della produttività, ferma restando quella della produzione,
    corrispondono quindi minori aumenti dell'occupazione e/o maggiori
    aumenti della disoccupazione.
Nell'Inghilterra degli inizi dell'Ottocento i processi produttivi
    erano soggetti a cambiamenti molto intensi a seguito della massiccia
    introduzione di macchine che sostituivano il lavoro. La
    produttività media di coloro che conservavano il posto di
    lavoro cresceva in misura decisamente superiore alla produzione, ma
    ciò determinava un aumento molto rilevante della
    disoccupazione. I lavoratori consideravano perciò le macchine
    come il nemico che rubava loro i posti di lavoro: nacque così
    il movimento luddista che proponeva, e praticava, la distruzione
    delle macchine (N. Ludd aveva infatti distrutto un telaio nel 1779)
    come difesa contro la disoccupazione. Gli industriali, naturalmente,
    sostenevano che il comportamento dei luddisti era dettato da
    ignoranza delle leggi economiche e che l'introduzione delle macchine
    era destinata, presto o tardi, a rivelarsi benefica per tutti i
    lavoratori. Ricardo però, smentendo una sua precedente
    opinione, sostenne che in realtà nulla garantiva che la
    disoccupazione così creata sarebbe stata riassorbita in tempi
    ragionevoli (v. Ricardo, 1821).
Sulla possibilità di riassorbimento di questo tipo di
    disoccupazione, detta tecnologica, si scontrano due grandi
    tradizioni economiche. La prima, quella di Ricardo, ripresa sia da
    Marx sia da altre scuole di pensiero, trova oggi molti sostenitori,
    preoccupati dalla comparsa di evidenti fenomeni di disoccupazione
    causati dall'introduzione delle nuove tecnologie. La seconda e molto
    più ottimistica tradizione pervade tutta l'impostazione
    neoclassica e ha trovato la sua espressione più completa e
    affascinante nell'opera di Schumpeter. Essa afferma che la
    disoccupazione tecnologica ha natura temporanea e rappresenta il
    costo da sostenere per realizzare benefici permanenti ottenibili
    abbastanza rapidamente. L'aumento della produttività si
    traduce infatti in incrementi dei salari e degli altri redditi, che
    provocano una più rapida crescita della domanda di beni e
    servizi e, per questa via, il riassorbimento della disoccupazione.
L'evoluzione economica effettiva ha visto fasi alterne: a periodi di
    disoccupazione prolungata sono succedute fasi di rapidi recuperi
    occupazionali. Per lo più, le innovazioni di processo (ad
    esempio l'introduzione delle macchine) hanno ridotto i posti di
    lavoro nei settori tradizionali; quelle di prodotto (ad esempio
    l'introduzione dell'automobile) li hanno aumentati nei settori
    nuovi. A seconda della prevalenza dell'uno o dell'altro tipo di
    innovazioni, l'andamento dell'occupazione è risultato
    crescente oppure decrescente.Stando all'esperienza passata,
    l'influenza negativa sull'occupazione dell'aumento della
    produttività può durare per periodi anche piuttosto
    lunghi. Tuttavia ciò non vuol dire affatto che, per creare
    più posti di lavoro, sia opportuno che un paese attui una
    politica volta a rallentare la crescita della produttività.
    Non solo si verrebbero in tal modo a perdere i benefici di lungo
    periodo altrimenti realizzabili, ma si verificherebbero effetti
    negativi anche nell'immediato, in quanto si perderebbe rapidamente
    competitività nei confronti dei paesi nei quali la crescita
    della produttività non fosse rallentata. Conseguentemente, la
    produzione interna aumenterebbe di meno, o addirittura calerebbe,
    con conseguenze sull'occupazione presumibilmente ancora più
    pesanti. L'unica alternativa a un tale esito sarebbe rappresentata
    da un freno alla crescita dei salari di dimensione tale da
    compensare la più debole dinamica della produttività:
    alternativa non piacevole, che per di più potrebbe non essere
    praticabile sul lungo periodo. Con molta probabilità,
    infatti, le richieste salariali tenderebbero a crescere più
    della produttività, e il costo del lavoro aumenterebbe per
    unità di prodotto, con preoccupanti conseguenze
    inflazionistiche. Come già detto, non si può avere
    crescita di lungo periodo delle remunerazioni reali in assenza di
    adeguati incrementi della produttività.
A proposito della relazione tra occupazione e produttività,
    va anche ricordata un'altra tendenza storicamente importante. In
    tutti i paesi sviluppati è risultata notevolmente più
    rapida la crescita della produzione per ora lavorata rispetto a
    quella per lavoratore occupato. Si è infatti verificata una
    forte riduzione delle ore pro capite lavorate annualmente: attorno
    alla metà degli anni ottanta del nostro secolo, esse
    risultavano pressoché dimezzate rispetto al 1870 negli Stati
    Uniti e nell'Europa occidentale, e pari a circa il 70% in Giappone
    (v. Maddison, 1991, pp. 270-271). Una parte cospicua dell'aumento
    della produttività per occupato non si è dunque
    tradotta in maggiori remunerazioni per i lavoratori, ma in maggior
    tempo libero (meno ore giornaliere, ferie più lunghe, week
    ends non lavorativi, ecc.). Questa tendenza di lungo periodo ha
    rappresentato un sostegno molto importante per i livelli di
    occupazione che sarebbero altrimenti risultati drammaticamente
    più bassi. 
    
8. Crescita della produttività: effetti
      strutturali
      
L'attenzione è stata finora concentrata sulla
    produttività del lavoro per l'intero sistema trascurando gli
    aspetti settoriali, cosa particolarmente criticabile quando
    l'analisi riguarda periodi lunghi. Il processo di sviluppo economico
    è infatti caratterizzato da cambiamenti strutturali molto
    rilevanti.Innanzitutto si modifica la composizione settoriale delle
    produzioni perché, all'aumentare del reddito pro capite, la
    domanda che si rivolge ai diversi settori non cresce
    proporzionalmente ma varia a tassi tra loro differenti. Altri
    cambiamenti strutturali avvengono poi perché la
    produttività cresce a velocità diverse nei vari
    settori. Questo fenomeno, combinato con la differente crescita delle
    produzioni, provoca a sua volta importanti conseguenze sulla
    distribuzione settoriale dell'occupazione (v. Pasinetti, 1984).
    Infatti, dalla definizione della produttività del settore
    i.mo come πi=Yi/Li si può facilmente ottenere
    dLi/Li=dYi/Yi-dπi/πi, che mostra come il tasso di crescita
    dell'occupazione in un settore sia dato dalla differenza tra i tassi
    settoriali di crescita della produzione e della
    produttività.Questi effetti strutturali, o di composizione,
    possono avere notevole importanza dato che le differenze di livello
    e di crescita delle produttività settoriali sono spesso molto
    cospicue. Si supponga ad esempio che un rilevante numero di
    lavoratori, prima impiegati in settori a produttività
    piuttosto bassa, trovi occupazione in settori a produttività
    ben superiore alla media: questa aumenterà quindi per un
    effetto di composizione. Allo stesso modo la crescita della media
    sarà tanto maggiore quanto più elevata sarà la
    quota dei lavoratori impiegati nei settori nei quali la
    produttività cresce più rapidamente.
Per fissare le idee, supponiamo di dividere il sistema in tre
    settori: 1 agricoltura, 2 industria, 3 servizi. La
    produttività media del lavoro per l'intero sistema è
    data dal rapporto tra la somma delle produzioni settoriali Yi e
    l'occupazione totale. Poiché Yi=πiLi, per definizione,
    risulta che: cioè che la produttività media del
    sistema è data dalla media delle produttività
    settoriali ponderata con le rispettive quote di occupazione.
    Differenziando logaritmicamente la (14) rispetto al tempo e
    ordinando opportunamente i termini, si ottiene: avendo posto La (15)
    mostra come la crescita della produttività media possa essere
    scomposta nelle due espressioni entro parentesi quadre. La prima
    misura l'effetto dei cambiamenti nella struttura della produzione e
    della crescita a tassi diversi delle produttività settoriali,
    la seconda quello dei cambiamenti nella struttura dell'occupazione
    per settori.
Per comprendere le affermazioni appena fatte, si noti innanzitutto
    che, avendo denotato con αi la quota di produzione del settore i.mo
    sulla produzione globale, si ha Σiαi=1. 
Perciò l'espressione della prima parentesi della (15)
    è la media ponderata dei tassi di crescita delle
    produttività settoriali con pesi dati dalla quota di ciascun
    settore sulla produzione complessiva. Se questi pesi variano nel
    tempo (se si modifica cioè la struttura produttiva) la
    crescita della produttività media del sistema varia anche se
    non mutano le crescite settoriali.
Un po' più complicata è l'interpretazione
    dell'espressione contenuta nella seconda parentesi. I βi misurano le
    differenze relative tra il livello delle produttività
    settoriali e quello medio e hanno dunque natura di scarti dalla
    media, essendo Σiβi=0. Se ciascun βi fosse uguale allo zero (se non
    vi fossero cioè differenze tra le produttività
    settoriali) l'espressione della seconda parentesi quadra si
    annullerebbe. Lo stesso capiterebbe se l'occupazione dovesse
    crescere allo stesso tasso in tutti i settori. Nel primo caso non vi
    sarebbe alcuna conseguenza del passaggio di lavoratori da
    un'occupazione all'altra; nel secondo il fenomeno potrebbe
    riguardare solo i singoli lavoratori e non invece il sistema nel suo
    complesso, che non registrerebbe alcun cambiamento nella
    distribuzione settoriale dell'occupazione. Questi casi sono
    però irrealistici: l'espressione entro parentesi assume
    infatti valori positivi o negativi a seconda del tipo di
    modificazioni strutturali che avvengono nel sistema.Nei primi
    decenni del dopoguerra nei paesi avanzati si è ridotta
    notevolmente l'occupazione in agricoltura mentre è aumentata
    quella nell'industria e nei servizi. Il divario di
    produttività a sfavore dell'agricoltura era piuttosto ampio.
    In termini formali, risultavano significativamente negativi dL₁/L₁ e
    β₁, e positivi invece gli altri termini contenuti nella seconda
    parentesi della (15). L'effetto di composizione esercitava
    perciò una rilevante influenza positiva sulla crescita della
    produttività media del sistema. Sulla base dei dati di
    Maddison (v., 1979) relativi al periodo 1950-1963, si può
    calcolare che tale effetto abbia contato per circa il 18% della
    crescita complessiva della produttività in Italia, per il 16%
    in Francia, per il 15% in Germania. Ha invece contato di meno negli
    Stati Uniti e nel Regno Unito, dove la caduta dell'occupazione
    agricola era iniziata prima e le differenze di produttività
    con altri settori erano meno rilevanti.
Successivamente l'effetto dell'esodo agricolo si è molto
    attenuato in Italia ed è scomparso del tutto negli altri
    paesi europei e negli Stati Uniti. Maggior importanza, specialmente
    negli ultimi tempi, ha invece assunto l'aumento dell'occupazione nei
    servizi e la riduzione di quella negli altri settori. Limitandoci al
    caso italiano, si può osservare che il livello della
    produttività nei servizi risulta (nel 1990) di circa il 7%
    superiore a quella media. Il vantaggio sta però riducendosi
    sensibilmente poiché, come si è verificato, la
    produttività dei servizi cresce in misura molto minore
    rispetto a quella degli altri settori (v. Fuà, 1993, parte
    III e appendice 2.2). Sussistono tuttavia gravi dubbi
    sull'interpretazione dei dati relativi ai servizi la cui misurazione
    in unità fisiche avviene sulla base di ipotesi, convenzioni
    ed espedienti spesso arbitrari. Per questa ragione Sylos Labini (v.,
    1992, p. 15) propone di riservare le misurazioni statistiche alla
    produzione di beni, lasciando da parte quella di servizi.In base ai
    dati sopra riportati, si può notare come la crescita relativa
    dei servizi comporti effetti di segno opposto sulle due componenti
    del tasso di crescita racchiuse nelle parentesi della (15). La prima
    componente tende infatti a ridursi poiché il peso dei
    servizi, a debole crescita della produttività, aumenta. La
    seconda ha invece segno positivo, ma il suo valore diminuisce nel
    tempo se si riduce il divario tra i livelli delle
    produttività settoriali. Secondo i calcoli di Fuà (v.,
    1993, p. 156), nel periodo 1964-1975 questa componente ha contato
    per circa 1/2 punto percentuale sulla crescita complessiva della
    produttività, di poco superiore al 4%. Nel periodo 1982-1990
    ha invece contribuito solo per 1/10 di punto su una crescita
    pressoché dimezzata, principalmente a causa della forte
    riduzione dei tassi di crescita delle produttività in tutti i
    settori, servizi in testa.Se le tendenze indicate dovessero
    confermarsi per il futuro, cesserebbe l'effetto positivo della
    crescita dei servizi, anzi muterebbe di segno, mentre risulterebbe
    potenziato quello negativo. I cambiamenti strutturali, che in
    precedenza servivano ad accelerare la crescita della
    produttività media, verrebbero invece a rallentarla. Nei
    paesi più avanzati un'evoluzione di questo tipo si è
    già significativamente manifestata. 
    
9. Cause della crescita della produttività
Per spiegare la crescita della produttività globale,
    si è cercato di individuare indicatori capaci di spiegare i
    miglioramenti qualitativi dei fattori di produzione. Per quanto
    riguarda il lavoro, particolare menzione merita l'aumento del
    livello di istruzione della manodopera. Denison (v., 1985) ad
    esempio ha calcolato che questo aumento ha contato da solo per il
    23% della crescita della produttività del lavoro negli Stati
    Uniti nel periodo 1948-1979. Per i paesi dell'OECD è stato
    calcolato (v. Englander e Gurney, 1994) che ogni anno supplementare
    di istruzione determina un incremento di produttività
    compreso tra il 5 e il 10%. Considerando che, nel periodo 1960-1987,
    in Italia si è avuto un incremento di scolarità di un
    po' meno di tre anni, il suo contributo alla crescita annua della
    produttività dovrebbe essere risultato nell'ordine di 0,7
    punti percentuali, pari ad almeno 1/5 della crescita complessiva.
Per quanto riguarda i miglioramenti qualitativi del capitale, si
    è cercato di tener conto del fatto che il macchinario
    incorpora la tecnologia prevalente alla data della sua
    installazione. I beni capitali sono stati quindi distinti per annate
    al fine di attribuire a quelli più recenti una
    produttività più elevata (v. Solow, 1960). Le tecniche
    di misurazione hanno però suscitato molte obiezioni e sono
    state praticamente abbandonate in tempi recenti a favore di
    indicatori dell'età media del capitale. A seconda delle
    procedure di stima utilizzate, il contributo del ringiovanimento del
    macchinario alla crescita della produttività può
    apparire trascurabile (v. ad esempio Maddison, 1987) oppure
    abbastanza rilevante (v. ad esempio Carré e altri, 1972).Un
    contributo aggiuntivo alla crescita della produttività
    può derivare dalla migliore utilizzazione di possibili
    economie di scala escluse, per ipotesi, nell'impostazione
    neoclassica. Secondo stime di Denison (v., 1985), questo contributo
    ha pesato per il 17% della crescita della produttività
    registrata negli Stati Uniti nel periodo 1948-1979. Maddison (v.,
    1987) fornisce invece stime molto più basse, soprattutto
    perché distingue l'effetto delle economie di scala in senso
    stretto da quello che, a suo parere, dovrebbe essere attribuito
    all'aumentato peso del commercio con l'estero, che tuttavia ha
    consentito l'ampliamento dei mercati e quindi una più piena
    realizzazione delle economie di scala. Per quanto riguarda l'Italia,
    sembra che questo effetto sia stato tutt'altro che trascurabile:
    pari a oltre il 22% per il periodo 1950-1962 (v. Denison,
    1967).L'elenco delle cause potrebbe continuare, ma è forse
    opportuno fermarsi a riflettere sul significato delle analisi di
    contabilità della crescita. Come è stato detto, la
    logica che le guida è quella di individuare indicatori in
    grado di ridurre la porzione non spiegata della crescita. La parte
    che alla fine rimane inspiegata (il residuo di Solow ridotto), pari
    a poco meno della metà del totale secondo la maggior parte
    delle analisi, viene poi attribuita all'effetto detto di rincorsa
    (catch-up) e al progresso tecnico in senso stretto.L'effetto di
    rincorsa riguarda la possibilità che hanno i paesi in ritardo
    di produttività di adottare le tecnologie e le forme di
    organizzazione produttiva utilizzate negli Stati Uniti. Per separare
    questo effetto da quello attribuibile al progresso tecnico, si
    assume che quest'ultimo sia, per ogni paese, uguale al residuo di
    Solow ridotto, stimato per gli Stati Uniti che non beneficiano di un
    effetto di rincorsa. Questa ipotesi, del tutto irrealistica, implica
    non solo che il progresso tecnico sia un bene pubblico, usufruibile
    dappertutto alle medesime condizioni, ma anche che i diversi paesi
    ne usufruiscano nella stessa misura degli Stati Uniti.
L'effetto di rincorsa dovrebbe rappresentare, soprattutto se si
    accetta l'ipotesi appena espressa, un'importante spiegazione del
    processo di convergenza tra i livelli di produttività dei
    paesi avanzati che si è manifestato nel secondo dopoguerra.
    Le stime empiriche, pur tra loro abbastanza discordanti, non danno
    però questa impressione. L'effetto di rincorsa è
    risultato infatti molto più debole di quanto ci si attendesse
    per molti paesi avanzati, compresi Giappone e Italia: probabilmente,
    è stato sovrastimato qualche altro effetto e ciò ha
    determinato la sottostima di quello di rincorsa.Questa affermazione
    ha una portata più ampia, in quanto si riferisce alla
    difficoltà di separare i contributi dei diversi fattori alla
    crescita della produttività. Esistono infatti strette
    interdipendenze tra molti dei fattori considerati. Il progresso
    tecnico dipende dall'accumulazione di capitale per il già
    ricordato effetto di ringiovanimento, ma, a sua volta,
    l'accumulazione dipende dalla maggior redditività resa
    possibile dal progresso tecnico. Allo stesso modo l'istruzione
    permette alla manodopera di sfruttare più adeguatamente le
    potenzialità offerte dalle nuove tecnologie che, a loro
    volta, influenzano il tipo di istruzione, la sua qualità e le
    modalità dell'apprendimento.
Alla difficoltà provocata da queste e altre interrelazioni,
    se ne può aggiungere una ancora più importante.
    L'intera procedura di stima porta infatti a far considerare il
    contributo del progresso tecnico alla crescita della
    produttività come del tutto esogeno, come un beneficio
    cioè che non deriva da particolari decisioni economiche
    né da condizioni generali più o meno propizie
    all'attuazione delle innovazioni e alla loro diffusione. Le
    decisioni di investire in ricerca e sviluppo maggiori o minori
    quantità di risorse, per introdurre nuovi beni o processi, o
    migliorare quelli vecchi, dipendono però da valutazioni di
    convenienza economica che sono influenzate dalle caratteristiche
    istituzionali e socioeconomiche dei singoli paesi: ambiente
    culturale, velocità di adattamento ai cambiamenti
    strutturali, mobilità sociale, funzionamento delle
    istituzioni politiche ed economiche, sostegno pubblico alla ricerca
    e alla diffusione delle nuove tecnologie, esistenza di
    infrastrutture, ecc. Sotto questi aspetti si riscontrano differenze
    molto marcate anche tra i diversi paesi avanzati e non solo tra
    questi e quelli in via di sviluppo.
Le indagini empiriche sulle cause della crescita della
    produttività nell'intero sistema economico, pur apprezzabili
    per la mole di dati, non hanno dunque tenuto conto di fattori
    esplicativi di notevole importanza. Innanzitutto, l'impostazione
    neoclassica le ha costrette entro binari molto rigidi trascurando
    gli aspetti socioistituzionali e l'importanza delle imperfezioni di
    mercato. Inoltre, la formulazione aggregata si è dimostrata
    inadatta all'analisi del progresso tecnico, non solo a causa delle
    modificazioni strutturali che esso provoca ma, e forse
    principalmente, per la difficoltà di valutare i nuovi beni e
    servizi incessantemente introdotti. Soprattutto, nelle analisi volte
    a interpretare il processo di convergenza dei livelli di
    produttività tra i diversi paesi, è stata trascurata
    la considerazione di tutti quei fattori culturali, socioeconomici e
    istituzionali che Abramovitz (v., 1986 e 1989) ha indicato con
    l'espressione "capacità sociale" (social capability) di
    assorbire le tecnologie avanzate. Una miglior comprensione
    dell'andamento temporale della produttività sembra richiedere
    sia modificazioni dell'impostazione e delle procedure di stima, sia
    un'attenta considerazione degli importanti fattori trascurati.