Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)
  di Gianni Vaggi
  Prezzi
  
sommario: 1. Definizione e concetti correlati. 2. Adam
    Smith e l'economia politica classica. a) Divisione sociale del
      lavoro e scambio. b) Prezzi reali e prezzi monetari.
    c) Prezzo naturale e prezzo di mercato. d) Ricardo: la
      distinzione fra merci scarse e riproducibili e la teoria del
      valore-lavoro. 3. Marx e i prezzi di produzione. 4. La teoria
    dei prezzi di Sraffa. 5. La nascita della teoria neoclassica: da
    Ricardo al marginalismo. 6. La teoria dei prezzi basata su domanda e
    offerta. 7. Contrattazione competitiva e stabilità
    dell'equilibrio. 8. Marshall e il prezzo normale. 9. Le funzioni di
    domanda e di offerta. 10. Mercati non concorrenziali e costi. 11.
    Settori flex price e settori fix price. □ Bibliografia. 
    
1. Definizione e concetti correlati
Per 'prezzo' si intende il valore di un bene, cioè la
    quantità di altri beni che è possibile acquistare con
    un'unità del bene stesso. Il prezzo di un litro di vino
    è pari a due quintali di grano se con un litro di vino si
    possono ottenere due quintali di grano. Il prezzo è quindi un
    rapporto di scambio fra due beni, e può anche essere definito
    valore di scambio. Si tratta qui del prezzo relativo fra due beni,
    ma una società in cui vi siano molti beni e servizi prodotti
    e scambiati necessita di un'unità di misura unica per
    regolare gli scambi stessi. Il prezzo in moneta, o prezzo nominale,
    indica la quantità di moneta che è richiesta per
    acquistare un'unità fisica del bene o la quantità di
    moneta che si ottiene vendendo la stessa unità di bene.
    Quindi i prezzi monetari servono per confrontare facilmente fra di
    loro i vari beni senza dover ricorrere ad un numero elevatissimo di
    rapporti di scambio. Ogni bene o servizio ha un prezzo monetario e
    se n sono i beni e servizi scambiati avremo n-1 prezzi relativi.Il
    luogo in cui i beni si scambiano è il mercato, ed è
    sul mercato che per ogni bene viene scambiata una certa
    quantità ad un certo prezzo, ricordando che il prezzo va
    sempre riferito all'unità fisica del bene, cioè
    è un valore unitario. 
Il problema del valore di scambio e quindi del prezzo è uno
    dei problemi cruciali della scienza economica, dal momento che da
    esso dipende sia la ricchezza relativa degli individui e dei gruppi
    sociali sia quella degli Stati. Gli individui o gli Stati che
    producono beni con prezzi elevati rispetto ad altri beni e servizi
    godono ovviamente di un alto potere di acquisto. Il valore di
    scambio di merci e servizi è quindi un rapporto fra i
    produttori degli stessi, dal momento che ogni consumatore di un bene
    è tale perché ha un reddito, o ricchezza, che si
    è procurato in quanto venditore su altri mercati (v.
    Lunghini, 1986, pp. 104-105).
Molte sono le teorie economiche che hanno cercato di rispondere al
    quesito: perché un bene vale più di un altro? In
    sostanza si tratta di descrivere e studiare i meccanismi di mercato,
    e non solo, che spiegano la formazione del valore di scambio.
    Esamineremo di seguito le principali teorie del valore di scambio e
    le innumerevoli definizioni della nozione di prezzo che ne sono
    derivate. 
    
2. Adam Smith e l'economia politica classica
a) Divisione sociale del lavoro e scambio
Il problema del valore dei beni è stato affrontato fin
    dall'antichità (v. Schumpeter, 1954; tr. it., vol. I, pp. 63
    ss.); ai tempi della Scolastica, con San Tommaso e Duns Scoto, il
    tema del valore viene analizzato in termini etici, come problema del
    giusto prezzo, allo stesso modo in cui si pone la questione di un
    giusto salario e di un giusto tasso di interesse. Ma l'estensione
    dei commerci, soprattutto a seguito della scoperta dell'America, e
    l'affermarsi in Europa del capitalismo - almeno nella sua forma
    mercantile -, pongono non solo problemi etici, ma richiedono di
    capire i meccanismi e le leggi che regolano la determinazione dei
    prezzi dei beni e dei servizi sui mercati.
È con l'affermazione della divisione sociale del lavoro che
    il problema del prezzo diviene centrale per ogni ragionamento
    economico. Secondo Smith le società moderne sono
    caratterizzate da un elevato grado di divisione sociale del lavoro,
    cioè vi è una specializzazione dei compiti fra gli
    individui che compongono la società; chi si occupa
    dell'agricoltura, chi dell'industria, chi dell'educazione, chi della
    giustizia e così via (v. Smith, 1776, libro I, capp. 1 e 2).
    La divisione dei compiti e delle funzioni procede di pari passo con
    l'evoluzione della storia umana dalle società primitive fino
    a quelle caratterizzate dal commercio e dalla produzione
    capitalistica. In una società capitalistica gli individui
    ricorrono solo in piccola parte alla produzione diretta dei beni e
    dei servizi necessari; per soddisfare la maggior parte dei beni
    devono in genere ricorrere al mercato, cioè devono scambiare
    le merci che hanno prodotto e che sono in eccesso rispetto alle
    proprie esigenze con altre merci prodotte da altri individui.
    Quindi, in seguito alla divisione sociale del lavoro si diffonde il
    sistema degli scambi e si pone allora il problema del prezzo,
    cioè del rapporto che regola lo scambio di due merci. Il
    concetto di prezzo relativo esiste anche nelle società
    primitive basate sul semplice baratto, ma è soltanto nelle
    società moderne che il sistema degli scambi si generalizza.
    Il prezzo relativo indica dunque il potere d'acquisto di una merce
    rispetto alle altre; la teoria economica studia le cause per cui una
    merce ha più valore di un'altra. 
    
b) Prezzi reali e prezzi monetari
I prezzi in moneta sono l'espressione comune del valore di
    scambio dei beni, quella in cui ci si imbatte normalmente; in questo
    modo si evita di ricorrere a un numero elevatissimo di rapporti di
    scambio, come succederebbe se dovessimo avere per ogni bene il suo
    prezzo relativamente a tutti gli altri beni. La moneta, afferma Adam
    Smith, facilita la divisione del lavoro e la specializzazione dei
    compiti, e al tempo stesso fornisce l'unità di misura, il
    numerario, con cui rappresentare il prezzo dei beni. Ma lo stesso
    Smith distingue il prezzo reale delle merci dal loro prezzo
    nominale: il secondo è il prezzo in moneta, il primo è
    la quantità di lavoro che una merce può acquistare (v.
    Smith, 1776, libro I, cap. 4). Smith preferisce ricorrere alla
    misurazione in termini di potere di acquisto sul lavoro, proprio
    perché ritiene che i prezzi monetari possano fornire
    indicazioni esatte del valore di scambio di un bene solo in presenza
    di un valore costante della moneta utilizzata.In termini
    parzialmente diversi da quelli utilizzati da Smith, il problema si
    pone anche oggi, soprattutto nell'analisi delle serie storiche di
    determinate grandezze economiche, ad esempio il PIL, ma un discorso
    analogo vale per i consumi, gli investimenti e così via.
    Queste e altre grandezze sono spesso definite a prezzi correnti,
    intendendo con ciò il loro valore nominale secondo i prezzi
    monetari dell'anno cui si riferiscono. 
Le stesse grandezze sono misurabili a prezzi costanti quando ogni
    grandezza annuale, come il PIL, è valutato con i prezzi
    monetari di uno stesso anno preso come base di riferimento. Ad
    esempio, se si valuta il PIL del 1990 a prezzi 1980, si può
    vedere il tasso medio annuo di incremento reale del reddito,
    depurato della variazione nel valore del reddito dovuta alla
    modificazione dei prezzi monetari delle merci che lo compongono.
    Ciò che importa è l'indicazione della maggiore
    disponibilità di merci e servizi in termini fisici,
    cioè dell'incremento di potere di acquisto dei cittadini del
    paese.In sostanza il problema posto da Smith oggi si presenta in
    riferimento al tasso di variazione del valore della moneta usata
    come numerario, cioè al tasso di inflazione. 
In periodi di elevata inflazione i redditi espressi in moneta sono
    di per sé poco significativi dell'effettivo potere di
    acquisto: bisogna conoscere il tasso di inflazione. Essendo la
    moneta lo strumento con cui vengono rappresentati i prezzi di tutti
    beni, il livello generale dei prezzi è un indice che risulta
    da una media, solitamente ponderata, dei prezzi dei vari beni e
    servizi prodotti in un paese; in sostanza si tratta di un prezzo
    monetario medio del prodotto lordo del paese. Il tasso di inflazione
    è la variazione nel tempo di questo particolare prezzo, o di
    indici ad esso collegati, per esempio l'indice dei prezzi al
    consumo. Più elevato è il tasso di inflazione,
    maggiormente perde valore la moneta nel tempo; così il
    reciproco del livello generale dei prezzi viene spesso utilizzato
    come indicatore del valore della moneta.
Il problema di confrontare grandezze in termini reali e non solo
    monetari si pone anche nel caso di un confronto fra diverse
    grandezze nello spazio oltre che nel tempo; ad esempio il valore del
    reddito nazionale dei vari Stati viene oggi confrontato secondo il
    metodo delle parità di potere d'acquisto, o PPP (dall'inglese
    purchasing power parities). 
Questo metodo consente di tener conto del fatto che il valore reale
    di un dollaro in un paese povero, cioè i beni e servizi che
    il dollaro consente di acquistare, sia assai più elevato che
    in un paese ricco. Esso è stato utilizzato su larga scala per
    la prima volta nel 1986 da Summer e Heston, che hanno costruito
    tavole rappresentative del reddito nei vari paesi non basate sui
    dollari, ma sul potere d'acquisto. È invece dubbio che il
    metodo delle parità di potere di acquisto sia utile nella
    spiegazione dei tassi di cambio e delle loro variazioni (v. Sylos
    Labini, 1983, p. 200, n. 2). 
    
c) Prezzo naturale e prezzo di mercato
Come prima accennavamo, i concetti di prezzo di mercato e di
    prezzo naturale si devono ad Adam Smith, che nella Ricchezza delle
    nazioni definisce con precisione queste nozioni (v. Smith, 1776,
    libro I, cap. VI). Il prezzo naturale è un elemento
    essenziale per comprendere la teoria dei prezzi e del valore propria
    degli economisti classici inglesi. Secondo Smith "quando il prezzo
    di una merce non è più né meno di quanto
    è sufficiente a pagare la rendita della terra, i salari del
    lavoro e i profitti del capitale impiegati nel coltivare, preparare
    e portare al mercato la merce stessa, secondo i loro saggi naturali,
    quella merce verrà venduta per quello che si può
    chiamare il suo prezzo naturale" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 52).
    Il prezzo naturale è perciò un prezzo che definisce
    quanto la merce costa al produttore in una situazione in cui gli
    inputs sono remunerati ai loro saggi naturali. 
Siano: r il saggio di profitto, re la rendita per
    unità di terra, w il salario per unità di lavoro, L, T
    e K rispettivamente le quantità di lavoro, terra e capitale
    impiegate nella produzione. Il prezzo naturale può essere
    descritto dalla seguente equazione: 
    
pn = wL + reT+K.         (1)
I saggi naturali dipendono dalle caratteristiche generali della
    società, e in particolare dalla sua ricchezza e dallo stato
    di progresso economico, di regresso o di stazionarietà che la
    contraddistinguono. È importante sottolineare che il concetto
    di prezzo naturale stabilisce un legame preciso fra il problema del
    valore e quello della distribuzione, cioè la ripartizione del
    prodotto fra le classi sociali: i salari vanno ai lavoratori, le
    rendite ai proprietari terrieri e i profitti ai capitalisti
    imprenditori. Il prezzo naturale è dunque un elemento
    analitico che lega il problema del valore di scambio alla
    particolare divisione sociale del lavoro che caratterizza
    l'Inghilterra alla fine del Settecento, in cui il capitalismo
    è ormai la forma economico-sociale emergente. Un tentativo di
    legare il valore di scambio alla distribuzione del prodotto nella
    società era già stato tentato da Richard Cantillon
    agli inizi del XVIII secolo con la teoria delle tre rendite. 
Secondo Cantillon, il prodotto dell'agricoltura si distribuisce in
    'tre rendite', ognuna pari ad un terzo del valore totale, che
    spettano rispettivamente ai proprietari terrieri, ai fittavoli e ai
    salariati agricoli (v. Cantillon, 1755; tr. it., p. 31). Lo stesso
    Cantillon aveva usato per indicare il prezzo di lungo periodo
    l'espressione 'valore intrinseco'. Ma sia Cantillon che, prima di
    lui, sir William Petty avevano mantenuto un'idea di prezzo di lungo
    periodo, o valore, prevalentemente legata al costo di produzione di
    una merce, e quindi dipendente soprattutto dai costi sostenuti per
    la sussistenza dei lavoratori e per le materie prime impiegate nella
    produzione (v. Petty, 1662, pp. 44, 68, 92).
Nel 1757, con François Quesnay, emerge il concetto di prezzo
    fondamentale, che comprende sia i costi di produzione che un
    elemento del prodotto netto della società: le rendite. Il
    prezzo fondamentale è dato dal costo unitario per
    l'imprenditore agricolo e quindi indica il livello di prezzo al di
    sotto del quale egli subisce una perdita (v. INED, 1958, p. 555). Ma
    Quesnay nel prezzo fondamentale non include, come farà poi
    Smith, il profitto normale dell'imprenditore-capitalista. È
    solo con Smith che troviamo una chiara specificazione delle
    componenti del prezzo in una società capitalistica (v. Smith,
    1776, libro I, cap. VI).
Il prezzo di mercato è generalmente diverso dal prezzo
    naturale. Infatti se la quantità di una merce prodotta
    è differente dalla sua domanda effettiva, cioè da
    quella particolare quantità che può essere venduta al
    prezzo naturale, allora il prezzo di mercato sarà diverso da
    quello naturale. In particolare, se la quantità prodotta di
    una merce è superiore alla domanda effettiva, il suo prezzo
    di mercato è inferiore al prezzo naturale; nel caso contrario
    il prezzo di mercato è superiore al prezzo naturale. Il
    concetto di domanda effettiva definisce qui la particolare
    quantità di merce che in base all'esperienza si presume possa
    essere venduta a un prezzo di mercato pari a quello naturale. Per
    questo particolare livello di produzione prezzo di mercato e prezzo
    naturale coincidono. La nozione di domanda effettiva non va confusa
    con quella di funzione, o curva di domanda di tipo marginalista o
    neoclassico, poiché non si tratta di una relazione funzionale
    fra prezzi e quantità, ma soltanto di un punto nello spazio
    ideale a due dimensioni in cui abbiamo i prezzi sull'asse verticale
    e le quantità su quello orizzontale (v. Garegnani, 1983).
I prezzi di mercato non possono allontanarsi permanentemente dal
    loro prezzo naturale. Per usare un'espressione ormai diffusa, il
    prezzo di mercato di un bene prodotto 'gravita' attorno al suo
    prezzo naturale: può essere più basso o più
    alto, ma non si può allontanare sistematicamente da esso. Per
    questa ragione quello di prezzo naturale è considerato il
    concetto fondamentale nella teoria dei prezzi dell'economia politica
    classica. Si tratta di un prezzo di lungo periodo, o normale, o di
    riferimento, mentre i prezzi di mercato sono prezzi di breve
    periodo, ovvero determinati da circostanze occasionali le quali
    fanno sì che in un certo momento la produzione di un bene sia
    differente dalla domanda effettiva. Tali circostanze possono essere
    legate a situazioni 'naturali', ad esempio le condizioni
    meteorologiche nel caso delle produzioni agricole, ma anche ad
    errori di valutazione da parte dei produttori circa la domanda
    effettiva di una certa merce. L'idea che vi sia un prezzo di lungo
    periodo o normale non è limitata all'economia politica
    classica, ma si trova anche in Alfred Marshall (v., 1890, cap. 8).
    La distinzione fra prezzo di mercato e valore intrinseco delle
    merci, o fra prezzi che oscillano frequentemente e valori che sono
    stabili e dipendono dalle condizioni di produzione, è
    precedente a Smith e si può trovare già in Petty e
    Cantillon (v. Hollander, 1973, p. 41). Ma solo Smith descrive con
    precisione il meccanismo di oscillazione dei prezzi di mercato
    attorno a quelli naturali.
Questo meccanismo, che ricorda la meccanica newtoniana, è
    ormai usato per rappresentare le condizioni di libera, o perfetta,
    concorrenza fra imprese. Quando in un settore il prezzo di mercato
    è più alto di quello naturale, le imprese di tale
    settore ottengono un saggio di profitto più elevato di quello
    medio o normale. Nulla vieta che ad essere più elevato sia il
    saggio di salario, o quello di rendita, o tutti e tre i saggi di
    remunerazione degli inputs. Ma dal momento che sono gli
    imprenditori-capitalisti a decidere quanto produrre e dove
    investire, è più realistico supporre che i saggi di
    salario e di rendita siano all'incirca gli stessi per tutti i
    settori produttivi, sicché eventuali prezzi di mercato
    più alti di quelli naturali vanno direttamente a beneficio
    dei capitalisti. In assenza di barriere legali o tecnologiche
    all'ingresso, le imprese investiranno in quei settori che mostrano
    saggi di profitto più elevati della media. Se lo spostamento
    di capitali, e quindi di capacità produttiva fra settori,
    avviene in tempi relativamente brevi e con costi trascurabili, nei
    settori con più alti saggi di profitto la produzione aumenta. 
Data la domanda effettiva, l'aumento della quantità prodotta
    determina una riduzione del prezzo di mercato, dal momento che ora
    la produzione da vendere è più elevata di prima. Il
    minor prezzo di mercato comporta un saggio di profitto inferiore a
    quello precedente. Quando il saggio di profitto del settore è
    pari a quello di ogni altro settore produttivo le imprese non hanno
    dunque più convenienza a spostare capitali, e quindi la
    quantità prodotta in ogni settore non si modifica: si
    è cioè raggiunto il livello di prezzo che definiamo
    naturale. Il meccanismo inverso vale nel caso in cui nella
    situazione iniziale il prezzo di mercato sia inferiore a quello
    naturale. Secondo Smith, quando r è uniforme in tutti i
    settori si è raggiunta una condizione di equilibrio. Va
    sottolineato che per Smith l'aspetto più importante del
    processo di gravitazione non consiste tanto nell'effettivo
    raggiungimento del prezzo naturale, quanto nell'impossibilità
    per il prezzo di mercato di muoversi 'senza regole' e di sfuggire
    all'attrazione rappresentata dal prezzo naturale, che rappresenta
    quindi il prezzo di riferimento di lungo periodo per i prezzi dei
    beni la cui produzione può essere modificata. 
Il concetto di equilibrio legato all'uniformità del saggio di
    profitto in tutti i settori verrà successivamente adottato da
    David Ricardo e Karl Marx, e si trova anche nelle versioni moderne
    della teoria classica dei prezzi. Questo concetto dipende
    dall'ipotesi di libera circolazione dei capitali e di ricerca del
    massimo saggio di profitto da parte delle imprese. Si noti che
    queste ipotesi sono alla base anche della descrizione
    dell'equilibrio in mercati concorrenziali nell'economia marginalista
    e neoclassica. 
    
d) Ricardo: la distinzione fra merci scarse e riproducibili e la
      teoria del valore-lavoro
Per l'analisi delle teorie dei prezzi David Ricardo costituisce un
    punto di riferimento importante per due ragioni. In primo luogo egli
    distingue due tipi di merci: quelle 'riproducibili', la cui
    quantità prodotta può essere aumentata senza problemi,
    e quelle 'non riproducibili', per cui vi sono difficoltà ad
    incrementare la produzione (v. Ricardo, 1817; tr. it., pp. 7-9).
    Queste difficoltà possono derivare dalla natura particolare
    della merce, ad esempio quando si tratta di opere d'arte esclusive
    per cui la quantità è rigidamente fissata, o di merci,
    come i vini pregiati, la cui quantità può variare, ma
    in modo assai limitato, oppure vi possono essere condizioni di
    mercato, ed in particolare di monopolio, le quali fanno sì
    che la quantità prodotta non si adegui alla domanda
    effettiva. Il prezzo di queste merci dipende dalla loro
    scarsità relativamente alla domanda. Ma secondo Ricardo la
    maggior parte delle merci ricade nella categoria delle merci
    riproducibili ed il loro prezzo naturale dipende sostanzialmente
    dalle condizioni di produzione e dai saggi che definiscono la
    distribuzione del prodotto sociale. Quindi egli accetta la
    distinzione smithiana fra prezzo di mercato e prezzo naturale, e
    ritiene che quest'ultimo dipenda dal lavoro necessario a produrre la
    merce stessa.
Inoltre Ricardo, contrariamente a Smith, ritiene valida la teoria
    del valore-lavoro anche in una società capitalistica. Secondo
    Smith, in una società primitiva, in cui le terre ed i beni
    capitali sono a disposizione di tutti e non sono ancora divenuti
    proprietà privata, le merci si scambiano secondo le
    quantità di lavoro necessarie per produrle. "Se, ad esempio,
    presso un popolo di cacciatori, uccidere un castoro costa
    generalmente un lavoro doppio che uccidere un cervo, un castoro si
    scambierà naturalmente per due cervi ossia avrà il
    valore di due cervi" (v. Smith, 1776; tr. it., libro I, p. 45). Qui
    Smith fornisce un chiaro esempio di prezzo relativo; ma nella
    società capitalistica i prezzi devono includere anche rendite
    e profitti, quindi lo scambio non può più essere
    regolato esclusivamente dalle quantità di lavoro incorporate
    nella produzione di un bene.
Nei Principi dell'economia politica e delle imposte David Ricardo
    utilizza invece la teoria del valore-lavoro come spiegazione dei
    prezzi relativi anche in presenza di profitti e rendite positivi.
    Nell'esempio seguente consideriamo due merci, a e b, per la cui
    produzione non si pagano rendite, e vediamo come vengono determinati
    i prezzi; essi devono innanzitutto consentire di pagare i salari di
    sussistenza dei lavoratori, salari che sono stati anticipati dai
    capitalisti all'inizio del periodo di produzione. Ma i prezzi devono
    anche includere i profitti dei capitalisti che hanno effettuato
    l'anticipazione dei salari e coordinato la produzione. Quindi
    possiamo esprimere i prezzi delle due merci con il seguente sistema
    di due equazioni: 
    
pa = wla + rwla = wla(1+r)                                   
    (2)
pb = wlb + rwlb = wlb(1+r)
pa e pb sono i prezzi rispettivamente delle
    merci a e b e la e lb le quantità di lavoro complessivamente
    necessarie rispettivamente per produrre un'unità di a e b. Si
    suppone che: 1) i saggi di salario e di profitto siano uniformi in
    entrambi i settori; 2) il capitale anticipato dagli imprenditori
    all'inizio del ciclo produttivo sia costituito solo dai salari; 3)
    il periodo di produzione sia di uguale lunghezza, ad esempio un
    anno, per entrambe le merci.In base alle ipotesi 1-3, dal sistema
    (2) discende che:
    
pa/pb=la/lb. 
Quindi il prezzo relativo dei due beni è determinato
    esattamente dalle quantità di lavoro necessarie nella loro
    produzione; questa eguaglianza esprime la teoria del valore-lavoro.
Lo stesso Ricardo sottolinea che le condizioni in base alle quali i
    prezzi dei beni sono proporzionali alle quantità di lavoro
    necessarie per la loro produzione sono in realtà assai
    restrittive, soprattutto quelle richiamate nelle ipotesi 2) e 3). Il
    periodo di produzione può essere di differente durata e,
    soprattutto, il processo produttivo può richiedere l'impiego
    anche di strumenti di produzione e quindi di beni capitali diversi
    dal lavoro (v. Ricardo, 1817; tr. it., pp. 20-23). Ma sarà
    Karl Marx nel III libro del Capitale a precisare le condizioni in
    cui vale la teoria del valore-lavoro ed a proporne il superamento
    come teoria della determinazione dei prezzi relativi delle merci. 
    
3. Marx e i prezzi di produzione
Secondo Marx, nel caso di un'economia capitalistica
    caratterizzata da libera circolazione dei capitali, e quindi da un
    saggio uniforme di profitto, le merci si scambiano secondo le
    quantità di lavoro direttamente ed indirettamente incorporate
    solo in condizioni talmente restrittive da essere assai poco
    realistiche. Supponiamo di avere due soli settori produttivi: il
    primo settore produce la merce 1 che è un mezzo di produzione
    (strumenti, attrezzi, materie prime, ecc.), include cioè gli
    elementi che secondo Marx costituiscono il capitale costante c; il
    secondo settore produce la merce 2, cioè l'insieme dei
    beni-salario dei lavoratori. Come in Ricardo, sia i beni-salario che
    i mezzi di produzione devono essere anticipati dai capitalisti
    all'inizio del periodo di produzione. Siano c₁ e c₂ il capitale
    costante dei settori 1 e 2, ossia il valore dei mezzi di produzione
    impiegati per produrre rispettivamente un'unità di merce 1 e
    2. Siano v₁ e v₂ i valori del capitale variabile nei due settori,
    cioè il valore della forza lavoro e quindi il monte salari
    per unità di prodotto nei due settori; s₁ e s₂ rappresentano
    il plusvalore nei settori 1 e 2; il plusvalore è dato dalla
    differenza fra la quantità di tempo lavorato e quella pagata
    ai lavoratori nei due settori. La teoria del valore-lavoro come
    teoria dei prezzi relativi vale solo se tutti i settori presentano
    la stessa 'composizione organica del capitale', cioè lo
    stesso rapporto c/v. Questo rapporto è oggi chiamato rapporto
    capitale-lavoro, K/L, e dovrebbe essere uniforme per tutti i
    settori. Chiaramente tale condizione presuppone che la tecnologia
    impiegata sia sostanzialmente la stessa per tutti i processi
    produttivi, il che è palesemente impossibile.
Oltre a criticare l'uso della teoria del valore-lavoro come teoria
    dei prezzi, Marx ne propone il superamento mediante la nozione di
    prezzi di produzione, che derivano dalle quantità di lavoro
    incorporate, ma obbediscono alla regola dell'uniformità del
    saggio di profitto. Secondo Marx sia la merce 1 che la merce 2 sono
    utilizzate nella produzione di se stesse e dell'altra merce, quindi
    sono sia inputs che outputs dei rispettivi settori produttivi. A
    differenza del sistema (2) in cui il lavoro è l'unico input
    in entrambi i settori, nell'esempio di Marx troviamo un sistema di
    due equazioni e due merci prodotte, che sono anche i due inputs
    necessari. Si tratta di un sistema input-output di tipo quadrato,
    due per due. I prezzi di produzione vengono determinati nel seguente
    modo (v. Marx, 1867-1894, libro III, cap. 9; v. Napoleoni, 1976,
    par. 3.5): 
    
p1 = (c1+v1)(1
    +r)                                         
    (3)
p2 = (c2+v2)(1+r)
Secondo Marx i prezzi p₁ e p₂, e quindi il prezzo relativo delle due
    merci, dipendono dalle quantità di lavoro incorporate sia
    come capitale costante che come capitale variabile nei due settori e
    dall'unico saggio di profitto ottenuto come rapporto fra il totale
    del plusvalore ed il totale del capitale: 
    
r = (s1+s2)/(v1+v2+c1+c2)                         
    (4)
    
La formulazione analitica del sistema è estremamente
    interessante e prelude chiaramente all'analisi moderna dei prezzi di
    produzione, ma contiene un vizio logico che rende la soluzione
    marxiana del problema errata. Nel sistema (3) le merci 1 e 2 vengono
    scambiate secondo i prezzi di produzione p₁ e p₂ in quanto merci
    prodotte, outputs, ma vengono contabilizzate al valore-lavoro fra
    gli elementi di costo, cioè come inputs. Infatti il settore 1
    acquista dal settore 2 i beni-salario di cui necessita pagandoli v₁,
    e quindi secondo le quantità di lavoro incorporate, non
    secondo il prezzo di produzione p₂; lo stesso problema riguarda il
    valore delle altre tre grandezze che indicano gli inputs: v₂, c₁ e
    c₂. 
    
4. La teoria dei prezzi di Sraffa
La formulazione corretta del sistema di equazioni che
    determina i prezzi relativi si deve a Ladislaus von Bortkievicz, che
    agli inizi del secolo 'corresse' l'impostazione di Marx e
    aprì la strada alla teoria moderna dei prezzi di produzione.
    Ma in questa sede analizzeremo direttamente la rappresentazione
    moderna della teoria dei prezzi di produzione che si deve all'opera
    di Piero Sraffa Produzione di merci a mezzo di merci (v. Sraffa,
    1960), in cui la determinazione dei prezzi relativi ed il loro
    significato vengono definitivamente chiariti. Seguendo la simbologia
    e le ipotesi di Sraffa sostituiamo alle merci 1 e 2 di Marx le merci
    a e b: il sistema produttivo è ancora quadrato, ma questa
    volta le merci vengono sempre scambiate secondo il loro prezzo, sia
    in quanto outputs che in quanto inputs. Per semplicità ci si
    limita al caso di industrie o settori che producono un'unica merce,
    e quindi non si considerano gli aspetti relativi alla produzione
    congiunta di più merci in un singolo settore, alla presenza
    di inputs non riproducibili e quindi di rendite, e all'esistenza di
    capitale fisso, tutti aspetti però discussi da Sraffa (v.,
    1960, parte seconda). 
A differenza degli economisti classici e di Marx, Sraffa suppone che
    il salario dei lavoratori venga corrisposto al termine del ciclo
    produttivo e quindi non faccia parte dei mezzi di produzione
    anticipati dai capitalisti. Il sistema dei prezzi si può
    descrivere come segue (ibid., p. 13): 
    
pa = wla+(aapa+bapb)(1+r)                                      
    (5)
pb = wlb+(abpa+bbpb)(1+r)
Gli unici simboli nuovi riguardano i coefficienti unitari di
    produzione, ad esempio ab indica la quantità di merce
    necessaria a produrre un'unità di merce b e così via
    per gli altri tre coefficienti; per gli altri simboli valgono le
    definizioni già date. Si suppone che sia (aa+ab)⟨1 e
    analogamente per la merce b, cioè per ogni merce la
    quantità complessivamente impiegata come input è
    inferiore alla quantità prodotta. Quindi vi è un
    prodotto netto pari a: 1-(aa+ab) di a e 1-(ba+bb) di b. Questo
    sovrappiù in termini fisici deve essere ripartito fra
    lavoratori e capitalisti, e quindi fra salari e profitti. È
    importante sottolineare che ora il salario per unità di
    lavoro w non è più necessariamente fissato a livello
    di sussistenza, come per i classici e per Marx. Inoltre il saggio di
    profitto r non è necessariamente determinato prima dei
    prezzi, come avviene nell'analisi di Marx con l'equazione (4).
Nel sistema (5) salari e profitti sono considerati come incognite al
    pari dei due prezzi, e quindi si hanno due equazioni e quattro
    incognite. Ma, al pari dei classici, Sraffa è interessato
    alla determinazione dei prezzi relativi; e quindi se si prende una
    delle due merci, ad esempio a, come unità di misura, si ha
    pa=1, e dunque restano tre incognite e due equazioni. Il sistema ha
    ancora un grado di libertà, e Sraffa lascia la
    possibilità di chiuderlo fissando esogenamente o il saggio di
    salario, ovviamente in termini del numerario scelto, o il saggio di
    profitto. Per determinare i prezzi relativi è necessario
    fissare una delle due variabili distributive, dopo di che l'altra
    verrà determinata insieme al prezzo relativo delle due merci.
Supponiamo che la merce a sia un bene salario e che la
    contrattazione fra lavoratori e capitalisti porti alla fissazione di
    w in termini di a, cioè determini il potere d'acquisto dei
    lavoratori e quindi il salario reale. In questo caso il sistema (5)
    ci permette di determinare simultaneamente il prezzo relativo pb,
    che altro non è che pb/pa, ed il saggio di profitto r. Con
    salari reali fissati esogenamente al sistema dei prezzi, e quindi
    prima di essi, siamo in condizioni simili a quelle ipotizzate dai
    classici, anche se il salario non è necessariamente di
    sussistenza, ma il prezzo relativo e il saggio di profitto si
    determinano simultaneamente.
Invece del salario reale potremmo decidere che sia il saggio di
    profitto ad essere fissato esogenamente, ad esempio dalla politica
    monetaria e dal livello dei tassi di interesse (v. Sraffa, 1960, p.
    43); in questo caso le due equazioni consentono di determinare il
    salario in termini di merce a ed il prezzo relativo pb. Supponendo
    di avere un numero n>2 di merci, si può dimostrare che
    quando r è la variabile determinata esogenamente il rapporto
    di scambio fra due merci qualsiasi, cioè il loro prezzo
    relativo, non cambia qualunque sia il bene scelto come numerario.
    Quindi vi è una relazione biunivoca fra il saggio di profitto
    ed il sistema dei prezzi relativi: un certo saggio di profitto
    comporta necessariamente un certo sistema di prezzi relativi e
    viceversa; ovviamente con due merci avremo un prezzo relativo, con n
    merci avremo n-1 prezzi relativi. 
Quindi nello schema di Sraffa i prezzi dipendono: 1) dalle
    condizioni tecniche, descritte dai coefficienti unitari di
    produzione (che si suppongono dati, per lo meno per il periodo di
    tempo durante il quale si determinano i prezzi, nel senso che nel
    lungo periodo ovviamente i coefficienti di produzione si
    modificheranno e determineranno un nuovo sistema di prezzi); 2) dal
    valore fissato esogenamente di una variabile distributiva. È
    ora possibile chiarire il significato dei prezzi nel sistema di
    Sraffa. Il sistema dei prezzi di produzione di Sraffa condivide due
    caratteristiche importanti con l'approccio degli economisti
    classici. In primo luogo i prezzi relativi servono a determinare la
    circolazione delle merci prodotte in modo tale che si possano
    ricostituire in tutti i settori gli inputs necessari per continuare
    il processo produttivo, come per Quesnay, Smith, Ricardo e Marx.
    L'idea originaria che la circolazione dei beni debba soddisfare la
    condizione di riproduzione degli inputs risale al Tableau
    économique di Quesnay (v. Tsuru, 1970, pp. 281-286).
Inoltre, data una variabile distributiva, ad esempio il salario
    reale, i prezzi ripartiscono il prodotto netto del sistema in modo
    che in ogni settore vi sia uno stesso saggio di profitto; ritroviamo
    il concetto di libera circolazione dei capitali e di equilibrio di
    lungo periodo che risale a Turgot e Smith, e che Ricardo e Marx
    accettano. Quindi, come per i classici, la tecnologia e le regole
    distributive precedono il sistema dei prezzi che dipende da questi
    due elementi (v. Cartelier, 1976, pp. 19-22).
Vanno però segnalate anche alcune differenze fra il sistema
    dei prezzi di Sraffa e l'approccio classico. Innanzitutto vi
    è quella fondamentale rispetto al concetto di prezzo naturale
    di Smith. I prezzi relativi di Sraffa non sono derivati dalla somma
    dei redditi degli agenti della produzione, o di costi e di redditi,
    ossia i saggi di salario e di profitto non precedono il sistema dei
    prezzi relativi; ciò vale per una sola delle due grandezze
    distributive, mentre l'altra è determinata simultaneamente ai
    prezzi. Del resto già Ricardo e Marx avevano superato questa
    concezione 'additiva' del prezzo.
Altra differenza fondamentale rispetto all'approccio classico
    consiste nell'assenza dell'ipotesi di salario dato a livello di
    sussistenza, per cui anche i salari possono ottenere una parte del
    prodotto netto, se ad essere determinato esogenamente è il
    saggio di profitto (v. Roncaglia, 1975, cap. IV).
Sraffa risolve il problema della determinazione dei prezzi relativi
    attraverso un sistema di equazioni lineari che spesso viene
    rappresentato mediante l'algebra lineare (v. Pasinetti, 1975, cap.
    V).
A è la matrice quadrata (n righe ed n colonne) dei
    coefficienti unitari di produzione, L è il vettore degli n
    coefficienti diretti di lavoro, p è il vettore riga degli n
    prezzi ed il sistema si può scrivere:
    
p=wL+(1+r)Ap,                                                                              
    (6)
    
Indicando con I la matrice unità, la soluzione per il vettore
    dei prezzi è:
    
p=wL[I-(1+r)A]-¹.                                                                            
    (7)
    
La (7) mostra che, fissato un qualunque prezzo come numerario e data
    una delle due variabili distributive, vengono determinati n-1 prezzi
    relativi e l'altra variabile. Inoltre il sistema (7) consente di
    vedere che nel caso r=0 i prezzi sono proporzionali, secondo lo
    scalare w, all'espressione L (I-A)-¹ che indica le
    quantità di lavoro direttamente ed indirettamente incorporate
    in ogni bene, e quindi in questo caso vale la teoria del
    valore-lavoro.La descrizione del sistema di prezzi di Sraffa
    mediante l'algebra lineare consente anche di sottolineare il
    contributo alla teoria dei prezzi di altri due autori che oltre a
    Sraffa hanno fondato l'analisi dei prezzi relativi su modelli
    lineari di produzione. Wassily Leontief analizza il problema della
    determinazione dei prezzi e delle quantità mediante schemi
    simili al sistema (6) in cui è però assente
    l'indicazione esplicita delle due variabili distributive w e r (v.
    Leontief, 1951). Detto V il vettore dei valori aggiunti delle varie
    industrie, come si rileva in Pasinetti (v., 1975, cap. IV, par. 4),
    si ha:
    
p=(I-A)-¹V.                                                               
    (8)
    
Leontief mostra che esiste un sistema duale a quello dei prezzi, il
    sistema delle quantità fisiche, in cui indicando con Q il
    vettore dell'output lordo di ogni settore e con Y il vettore delle
    quantità fisiche che fanno parte della domanda finale, e che
    sono perciò spiegate da ragioni di consumo e di investimento,
    si ha:
    
Q=(I-A)-¹Y.                                                               (9)
In sostanza il sistema dei prezzi e quello delle quantità
    sono uno il duale dell'altro, se il salario reale è fissato
    come se il lavoro fosse un qualunque mezzo di produzione, e se la
    tecnologia presenta rendimenti costanti di scala, prezzi e
    quantità sono due facce della stessa medaglia, per l'appunto
    quella rappresentata dalla matrice A dei coefficienti
    interindustriali. Va ricordato che l'algoritmo (I-A)-¹
    rappresenta la cosiddetta matrice inversa di Leontief, che consente
    di valutare le quantità fisiche totali di ogni merce
    (cioè sia quelle impiegate direttamente come mezzo di
    produzione che quelle utilizzate indirettamente, cioè nella
    produzione di inputs dei mezzi di produzione) necessarie per
    produrre un'unità fisica di ogni merce come bene finale (v.
    Pasinetti, 1975, cap. IV, par. 7).
Anche von Neumann adotta una descrizione della tecnologia simile a
    quella di Leontief ed un modello lineare di produzione, ma la sua
    analisi riguarda soprattutto il problema della crescita in
    condizioni di equilibrio (v. Neumann, 1937). Von Neumann mostra che
    quando l'economia cresce ad un saggio uniforme in ogni settore vi
    è una fondamentale dualità fra il sistema delle
    quantità fisiche ed il sistema dei prezzi (v. Donzelli, 1986,
    p. 64). 
    
5. La nascita della teoria neoclassica: da Ricardo
      al marginalismo
      
Oltre alla teoria dei prezzi di produzione e alle differenti
    interpretazioni che riconducono il prezzo ad una qualche definizione
    di costo di produzione, vi sono ovviamente le teorie del prezzo che
    si rifanno alle nozioni di domanda ed offerta, ed in particolare
    all'approccio marginalista, nella determinazione del valore di
    scambio. Il passaggio dall'analisi degli economisti classici a
    quella dei teorici marginalisti non avviene però
    improvvisamente, ma impiega all'incirca mezzo secolo, dalla morte di
    Ricardo nel 1823 alla pubblicazione delle opere di Jevons e Menger
    nel 1871 ed al libro di Walras nel 1874.
Fra gli autori che contribuiscono alla modificazione nella teoria
    dei valori di scambio bisogna ricordare Samuel Bailey, che nel 1825
    critica l'idea che vi sia un valore assoluto delle merci, legato
    alle caratteristiche intrinseche vuoi delle merci stesse, vuoi del
    loro processo produttivo. Secondo Bailey il valore indica soltanto
    la relazione fra due oggetti ed esiste solo in questo senso, quindi
    come prezzo relativo (v. Dobb, 1973, pp. 99-100). Ma Bailey indica
    anche che il valore è collegato all'effetto che un bene
    produce sul consumatore, e quindi apre la strada alla considerazione
    del valore come fatto soggettivo, come relazione fra una merce ed il
    grado di interesse che essa esercita su un individuo. 
Già nel XVIII secolo alcuni autori avevano avanzato l'idea
    che il prezzo di un bene fosse legato alla valutazione che ne veniva
    data dall'individuo, cioè a una sorta di valore soggettivo
    (in particolare bisogna ricordare l'abate Galiani e Turgot). Ma
    è nel corso della prima metà dell'Ottocento che il
    valore di scambio e quindi i prezzi relativi vengono messi in
    relazione con il valore d'uso, cioè con l'utilità, e
    con la scarsità relativa. Negli anni trenta Nassau Senior
    indica esplicitamente nell'utilità una determinante del
    valore di scambio, e si fa strada l'idea che il prezzo di un bene
    sia legato alla domanda ed all'offerta.
Una decina di anni più tardi John Stuart Mill tenta
    un'ultima, poco efficace, difesa dell'approccio classico. Per Mill
    vi sono sostanzialmente tre tipi di merci: quelle scarse, nel senso
    di Ricardo, quelle la cui quantità prodotta può essere
    aumentata senza aumenti del costo unitario di produzione, e le merci
    per cui l'aumento della produzione comporta un aumento dei costi
    unitari (v. Mill, 1848; tr. it., pp. 423-424). Domanda ed offerta
    determinano il prezzo del primo tipo di merci. Anche per i beni
    producibili con costi costanti la domanda e l'offerta operano sui
    mercati e fanno tendere i prezzi verso un valore di scambio di
    equilibrio, o valore naturale di lungo periodo, che è dato
    sostanzialmente dal costo di produzione (v. Dobb, 1973, pp.
    129-130). Per le merci producibili a costi crescenti il prezzo
    dipende sia dai costi che dalla domanda (v. Donzelli, 1986, pp.
    45-47). Per lo sviluppo futuro delle teorie del prezzo il
    riferimento di Mill al caso di costi di produzione crescenti
    è molto importante. 
    
6. La teoria dei prezzi basata su domanda e
      offerta
      
Con la cosiddetta rivoluzione marginalista l'approccio
    all'analisi del prezzo si modifica radicalmente. Si possono
    individuare quattro punti fondamentali in cui il marginalismo si
    distacca definitivamente dall'economia classica.
In primo luogo, i fondamenti del valore di scambio sono sempre
    l'utilità e la scarsità. Walras dice chiaramente che
    la ricchezza sociale è costituita soltanto dalle cose utili e
    che queste esistono in quantità limitata, cioè sono
    scarse; le cose utili ma non rare non fanno parte della ricchezza
    (v. Walras, 1874; tr. it., pp. 142-145). Quindi il prezzo che si
    determina riflette sempre la scarsità relativa della merce,
    che dipende dalla tecnologia disponibile, ma anche dalle
    quantità date di risorse o servizi produttivi che devono
    essere utilizzate per la produzione della merce stessa. Analogamente
    Menger definisce beni economici solo quelli la cui quantità
    esistente è inferiore al fabbisogno; solo di questi si occupa
    la scienza economica, e non dei beni in generale (v. Menger, 1871;
    tr. it., pp. 147-148). 
Vi è quindi una condizione generale di scarsità sia
    dei beni di consumo che dei fattori della produzione.In secondo
    luogo, nel processo produttivo il caso normale non è
    rappresentato da costi costanti, ma da produzioni aumentabili solo a
    costi crescenti e quindi le condizioni di domanda entrano nella
    determinazione del prezzo. La domanda viene collegata
    all'utilità che un bene è in grado di procurare, e
    quindi il prezzo dipende anche dalla valutazione che ne danno i
    consumatori potenziali. Il valore di scambio è perciò
    un fatto soggettivo e non dipende da una qualità intrinseca
    della merce.
In terzo luogo, e come conseguenza, viene di fatto accantonata la
    distinzione fra prezzo di mercato e prezzo di lungo periodo tipica
    dell'economia politica classica. Il prezzo relativo dei beni, siano
    essi prodotti o meno, dipende dalla loro scarsità
    relativamente alla domanda. In sostanza si può dire che per
    ogni tipo di bene il prezzo dipende dalla domanda e dall'offerta,
    che facendo salve alcune differenze fra i mercati dei beni finali,
    quelli dei beni consumo e quelli delle risorse produttive, vengono
    spesso rappresentate con due curve, l'una discendente e l'altra
    ascendente (v. fig. 1).
In quarto luogo, dal momento che mediante le relazioni di domanda e
    di offerta possiamo descrivere il mercato dei beni, la
    determinazione del prezzo è strettamente collegata a quella
    della quantità prodotta; l'equilibrio di mercato è
    definito dunque da un prezzo e da una quantità che si
    determinano simultaneamente e risultano dal punto di incontro delle
    curve di domanda e di offerta.
È importante precisare che qui si considerano mercati
    perfettamente concorrenziali, mentre nel caso di mercati
    monopolistici o oligopolistici le condizioni di equilibrio sono
    differenti (v. cap. 10). Un mercato è definito in condizioni
    di perfetta concorrenza se vi è un numero elevato di
    venditori e di compratori, se non vi sono barriere all'ingresso sul
    mercato, se il bene prodotto e scambiato è sostanzialmente
    omogeneo e se tutti gli agenti hanno identica e piena conoscenza
    delle condizioni di mercato. In sostanza, compratori e venditori
    hanno comportamenti completamente indipendenti e non sono in grado
    di influenzare il prezzo del bene, sono quindi price takers. Il
    punto E individua un prezzo p* per cui la domanda e l'offerta sono
    uguali, cioè al prezzo p* e solo a quel prezzo si realizza la
    condizione per cui tutti coloro che desiderano acquistare il bene
    riescono a farlo e lo stesso vale per tutti coloro che desiderano
    venderlo. Nell'analisi dell'equilibrio gioca un ruolo fondamentale
    la funzione di eccesso di domanda, definita come Z(p)=D(p)-S(p) (v.
    Cozzi-Zamagni, 1994, p. 153).
Per valori inferiori al prezzo p* la quantità domandata
    è superiore a quella offerta, cioè per p⟨p* sul
    mercato vi è un 'eccesso di domanda' e quindi non tutti
    coloro che desiderano il bene possono effettivamente acquistarlo.
    Per prezzi superiori a p*, z(p)⟨0, vi è un 'eccesso di
    offerta' e quindi a quei prezzi alcuni venditori si troveranno con
    merce invenduta. Solo quando il prezzo è pari a p* l'eccesso
    di domanda (o di offerta) è nullo e quindi tutte le
    aspirazioni-esigenze degli agenti economici sono soddisfatte. Al
    prezzo p* tutta la quantità offerta viene effettivamente
    acquistata e quindi p* è un prezzo che 'ripulisce' il mercato
    (market clearing price), nel senso che non vi sono merci invendute o
    domande di beni insoddisfatte poiché z(p*)=0. 
    
7. Contrattazione competitiva e stabilità
      dell'equilibrio
      
Per vedere come opera il mercato, e quindi se e come è
    possibile giungere al prezzo p*, è opportuno distinguere
    l'analisi di Walras da quella di Marshall. La differenza sostanziale
    fra le due concezioni consiste nel fatto che per Walras gli scambi
    hanno luogo solo al prezzo di equilibrio e quindi quando tutta la
    domanda e tutta l'offerta sono soddisfatte (v. Walras, 1874; tr.
    it., p. 112). Al di fuori di questo prezzo e quindi quando vi
    è un eccesso di domanda o un eccesso di offerta non si fanno
    scambi, ma ovviamente il prezzo deve modificarsi. In Walras i prezzi
    svolgono un ruolo parametrico: per ogni prezzo i consumatori ed i
    produttori-venditori decidono quali quantità acquistare e
    produrre-vendere. 
Il sistema di prezzi relativi necessario per calcolare l'allocazione
    di risorse che porta alla massima soddisfazione è assegnato
    agli agenti economici dall'esterno; Walras usa la metafora del
    banditore che annuncia un prezzo, o meglio un sistema di prezzi
    relativi. Se, come è probabile, per questo primo sistema di
    prezzi non risulta z(p)=0 inizia un processo - che Walras definisce
    di tatônnement - di tentativi ripetuti, che sotto certe
    condizioni porta al prezzo di equilibrio.
Se valgono le condizioni di perfetta concorrenza e se le curve di
    domanda e di offerta hanno la forma descritta nelle figg. 1 e 2, allora è possibile dimostrare che E
    è un punto di equilibrio stabile, nel senso che in presenza
    di prezzi differenti il meccanismo di mercato fa sì che i
    prezzi convergano verso p* e le quantità prodotte e scambiate
    verso q*. Dato un prezzo iniziale pari a p₁ ed il prezzo successivo
    nel processo di tatônnement, p₂, il processo di convergenza
    è assicurato se vale la regola per cui:- se z(p₁)>0 allora
    p₂>p₁, cioè in presenza di un eccesso di domanda il prezzo
    cresce;- se z(p₁)⟨0 allora p₂⟨p₁, cioè quando vi è un
    eccesso di offerta il prezzo diminuisce.
È importante sottolineare che il prezzo di equilibrio non
    è in alcun modo noto prima che si ottenga la condizione
    z(p)=0; i prezzi che vengono assegnati dal banditore agli agenti
    economici servono esclusivamente ad effettuare i calcoli di acquisto
    e di vendita che devono portare alla massima utilità.
    Tuttavia, se valgono le due condizioni sopra citate, un mercato
    concorrenziale porta sicuramente ad un prezzo di equilibrio per cui
    la quantità domandata e quella offerta sono uguali. La
    definizione delle condizioni di esistenza dell'equilibrio, e quindi
    del corrispondente sistema di prezzi relativi, non è dovuta
    solo a Walras, ma anche ad altri economisti (v. Donzelli, 1986, pp.
    53-54). 
È negli anni cinquanta però che l'approccio walrasiano
    torna in auge, grazie all'opera di Arrow, Debreu e Malinvaud (v.
    Arrow e Debreu, 1954; v. Debreu, 1959; v. Malinvaud, 1953). I
    modelli elaborati da questi autori presentano un notevole grado di
    complicazione formale e consentono di individuare con precisione le
    condizioni matematiche relative ai problemi di esistenza,
    unicità e stabilità dell'equilibrio walrasiano,
    oltreché di analizzare problemi di allocazione intertemporale
    delle risorse, sempre attraverso un sistema di prezzi relativi.
    Tuttavia questi modelli mantengono le ipotesi fondamentali
    dell'analisi di Walras dei mercati concorrenziali e quindi assumono
    che gli agenti economici siano price takers e che gli scambi
    avvengano solo ai prezzi di equilibrio. 
    
8. Marshall e il prezzo normale
Un modo di analizzare il processo di tendenza verso il prezzo
    di equilibrio diverso dal tatônnement walrasiano è
    quello descritto da Alfred Marshall: in questo caso non sono solo i
    prezzi di mercato a modificarsi in seguito agli eccessi di domanda e
    di offerta, ma anche le quantità. In sostanza si hanno scambi
    anche durante il processo di aggiustamento e non solo per il prezzo
    di equilibrio, per cui z(p)=0. Conformemente all'approccio dei
    classici, Marshall distingue fra prezzo normale e prezzo di mercato.
    Il prezzo di mercato è quello realizzato in un determinato
    istante, diciamo un certo giorno; il prezzo normale è invece
    il prezzo che ci si attende di veder prevalere su quel mercato in un
    determinato arco di tempo, solitamente non breve (v. Marshall, 1890;
    tr. it., pp. 290-291). 
Il prezzo normale è perciò un prezzo atteso per il
    futuro e dipende da moltissime cause, non ultime le valutazioni
    soggettive degli agenti economici (ibid., pp. 305-307): Marshall
    sembra negare che il prezzo normale derivi in qualche modo dai
    prezzi di mercato, e non esplicita chiaramente da che cosa esso
    dipenda; tuttavia vedremo che, almeno nel caso di mercati
    perfettamente concorrenziali e per merci non scarse e riproducibili
    in condizioni di rendimenti costanti di scala, il prezzo normale
    è legato alla struttura dei costi delle imprese.Il meccanismo
    di tendenza verso l'equilibrio dipende innanzitutto dal confronto
    che ogni agente economico, venditore o acquirente, opera fra il
    prezzo di mercato e quello che egli ritiene essere il prezzo
    normale. Se il prezzo di mercato è più elevato di
    quello normale i venditori cercheranno di aumentare l'offerta,
    perché a quel prezzo di mercato si registrano domande
    insoddisfatte da parte dei consumatori, e soprattutto i produttori
    ottengono un profitto superiore a quello già compreso nel
    prezzo normale. Se, al contrario, l'offerta supera la domanda, il
    prezzo di mercato sarà inferiore al prezzo normale, vi
    saranno prodotti invenduti, cioè accumulazione indesiderata
    di scorte, e il saggio di profitto sarà più basso del
    normale. Di conseguenza le imprese ridurranno le quantità
    prodotte. Il confronto fra il prezzo di mercato ed il prezzo normale
    porta innanzitutto alla modificazione delle quantità prodotte
    e scambiate, ed in seguito alla variazione delle quantità
    varieranno i prezzi di mercato. 
Ai nuovi prezzi di mercato si ripropone il confronto con i prezzi
    normali; e così via. Se le curve di domanda e di offerta
    hanno la forma appropriata, come nella fig. 1, e sono abbastanza stabili nel tempo,
    allora il processo porta verso l'equilibrio, cioè le
    quantità prodotte si modificano finché tutti coloro
    che desiderano acquistare siano soddisfatti e non vi siano scorte
    non desiderate. Il prezzo di equilibrio sarà ovviamente il
    prezzo normale. Come si può notare, contrariamente al
    processo di aggiustamento di tipo walrasiano, per Marshall si
    realizzano scambi al di fuori del prezzo di equilibrio, e quindi ai
    prezzi di mercato. L'aggiustamento riguarda sia i prezzi che le
    quantità. Anzi proprio il fatto che in un dato settore gli
    scambi avvengano al di fuori dell'equilibrio consente alle imprese
    del settore stesso di realizzare nel breve periodo degli
    extraprofitti. In mercati perfettamente concorrenziali questi
    extraprofitti stimolano l'ingresso di nuove imprese nel settore in
    cui essi si realizzano e di conseguenza si ha l'aumento della
    produzione. 
    
9. Le funzioni di domanda e di offerta
Abbiamo visto che le curve di domanda e di offerta sono la
    base dell'analisi tradizionale dei prezzi in mercati concorrenziali,
    e abbiamo anche visto che la stabilità dell'equilibrio
    dipende sostanzialmente dalla forma delle due curve. Conviene quindi
    indicare brevemente gli elementi che determinano l'inclinazione
    positiva della curva di offerta e la relazione inversa fra prezzo e
    quantità per quella di domanda.
Vi sono vari modi per spiegare l'inclinazione negativa della curva
    di domanda ma, in definitiva, si assume che il prezzo di un bene
    dipende dall'utilità che gli agenti economici ritengono di
    poter trarre dal suo consumo. Più precisamente, fin dagli
    inizi della teoria marginalista Menger indicò nel concetto di
    utilità marginale la determinante del valore di scambio di un
    bene di consumo. 
Si ipotizza che i consumatori siano razionali, che abbiano un
    reddito dato, e che siano perfettamente in grado di confrontare il
    piacere, o la soddisfazione, o l'utilità ottenuta consumando
    quantità differenti dei vari beni. Questi consumatori cercano
    di massimizzare la soddisfazione che derivano dalla spesa del
    reddito, e per fare ciò acquistano innanzitutto i beni che
    forniscono gli incrementi di utilità, cioè le
    utilità marginali, più elevate. Se U=f(Yi) è la
    funzione di utilità che indica l'utilità totale
    derivata dal consumo di una determinata quantità yi del bene
    'i', con i=1,2.....n, e se n sono i beni disponibili per il consumo,
    allora l'utilità marginale del bene 'i' è la derivata
    prima di questa funzione rispetto ad yi: UMa=(δU)/(δyi). Gli
    individui usano le prime dosi di un bene per soddisfare i bisogni
    più intensi; man mano che si procede nel consumo di un bene
    ci si sazia, quindi l'incremento di utilità ottenuto
    acquistando le dosi successive sarà via via minore,
    cioè l'utilità marginale dei beni di consumo è
    normalmente decrescente (v. Menger, 1871; tr. it., pp. 210-215,
    237-238). La curva di domanda di mercato di un bene è la
    somma delle curve di domanda dei singoli individui che derivano
    direttamente dalla curva di utilità marginale decrescente. 
La curva di domanda di mercato indica che con l'aumento del consumo
    di un bene gli agenti economici sono disposti ad acquistare
    ulteriori dosi dello stesso solo a prezzi via via inferiori, dal
    momento che si sono già parzialmente saziati e quindi hanno
    già soddisfatto i bisogni più importanti che il bene
    stesso è in grado di soddisfare.La curva di offerta viene
    derivata dall'analisi della produzione. Vi sono molte imprese che
    possono utilizzare la stessa tecnologia. Le tecniche di produzione
    sono rappresentate mediante le curve dei costi, ed in particolare la
    curva dei costi marginali delle imprese è supposta essere
    crescente. Questa curva indica il costo di un'unità
    aggiuntiva di prodotto. Se y=g(l) è la funzione di produzione
    di breve periodo, supponiamo che ci siano un'unica merce prodotta
    'y' ed unico fattore variabile, il lavoro l, che è pagato al
    salario unitario w, dato e costante per la singola impresa; allora
    il costo marginale è CMa=w(δl)/(δy). Se la curva è
    crescente significa che è possibile aumentare la produzione,
    ma le dosi successive di lavoro, pur costando lo stesso salario
    delle precedenti, w, consentono di ottenere un incremento di
    prodotto, o prodotto marginale, PMa=(δy)/(δl), via via minore. Per
    cui si ha CMa=w/PMa. Quindi ogni impresa aumenterà la
    produzione, ma solo se i prezzi delle successive unità di
    prodotto vendute saranno in aumento in modo da coprire i costi
    marginali crescenti. In sostanza, la curva di offerta rappresenta il
    livello di prezzo, p, che giustifica per un'impresa la produzione di
    una certa quantità y; in questo senso la curva indica quello
    che può essere definito il 'costo opportunità'
    dell'impresa. La curva di offerta di mercato non è altro che
    la somma delle curve dei costi marginali delle singole imprese che
    producono un certo bene.
Nel caso di mercati perfettamente concorrenziali, fino a che il
    prezzo è superiore al costo marginale ogni impresa aumenta la
    quantità prodotta; se non lo fanno le imprese già
    presenti nel settore, arrivano nuove imprese dall'esterno, attratte
    dalla differenza fra prezzo e costo marginale che indica l'esistenza
    di extraprofitti. Solo quando il prezzo è uguale al costo
    marginale l'impresa non ha più convenienza ad incrementare
    l'output. E nel lungo periodo questa condizione coincide con
    l'uguaglianza fra prezzo e costo medio minimo.
Il punto E della fig. 3 indica quindi la condizione di
    equilibrio di lungo periodo per ogni impresa, che evidentemente
    produrrà la quantità y*. D'altro canto tutte le
    imprese che producono questo bene hanno a disposizione la stessa
    tecnologia e quindi presentano le stesse curve dei costi medi e
    marginali. Il prezzo di un bene prodotto in mercati perfettamente
    concorrenziali è perciò determinato dal punto in cui
    la curva dei costi marginali attraversa quella dei costi medi, e
    cioè dal punto di minimo di quest'ultima curva. In sostanza,
    la perfetta concorrenza assicura la piena efficienza della
    produzione e del mercato, poiché i consumatori si trovano con
    i prezzi più bassi consentiti dalla tecnologia esistente e
    dal prezzo dell'input. Solo il progresso tecnico e/o la diminuzione
    del prezzo dell'input possono consentire ulteriori riduzioni di
    prezzo. 
    
10. Mercati non concorrenziali e costi
A partire dagli anni venti si sono sviluppate molte critiche
    alle teorie della formazione del prezzo basate sull'idea di mercati
    perfettamente concorrenziali. Si è visto che le ipotesi alla
    base degli equilibri concorrenziali erano assai spesso disattese
    dalla realtà, soprattutto per ciò che concerne la
    sfera della produzione. È difficile pensare che in ogni
    settore produttivo vi sia una quantità pressoché
    infinita di imprese, ognuna delle quali è rigorosamente price
    taker. Questa fantomatica 'impresa rappresentativa' deve essere
    totalmente indifferente alle scelte delle altre imprese, le sue
    decisioni limitate alla fissazione della quantità da produrre
    e prese solo sulla base del prezzo di mercato, che è un dato.
    In molti mercati vi sono pochi produttori, quando non uno solo, nel
    qual caso si parla di mercato monopolistico. In ogni settore vi sono
    imprese di varie dimensioni e spesso i produttori più grandi
    hanno la possibilità di fissare il prezzo della merce. 
Tutto ciò diviene ancora più importante se si
    considera il progresso tecnico, che assai di rado riguarda tutte le
    imprese di un settore allo stesso modo, concentrandosi di solito
    solo in alcune di esse le quali hanno quindi evidenti vantaggi in
    termini di costi rispetto ai loro concorrenti.L'analisi neoclassica
    ha affrontato il problema della determinazione del prezzo nelle
    forme di mercato diverse dalla concorrenza perfetta. In questo
    approccio i problemi, sia per il caso del monopolio che per quello
    della concorrenza monopolistica, nascono dalle particolari
    caratteristiche della curva di domanda per le imprese, che non
    è orizzontale, come nel caso della concorrenza perfetta (v. fig. 3). Si può constatare che
    solitamente i prezzi sono più alti e le quantità
    prodotte sono inferiori rispetto a quelli che si otterrebbero in
    mercati concorrenziali, e quindi si sostiene la superiorità
    della concorrenza perfetta soprattutto a vantaggio dei consumatori.
    Le forme delle curve dei costi medi e marginali non vengono
    però messe in discussione. 
Negli anni trenta Michael Kalecki costruisce una teoria dei prezzi
    alla cui base vi sono curve dei costi diverse da quelle ipotizzate
    per imprese operanti in condizioni di perfetta concorrenza. In
    particolare, secondo Kalecki le curve dei costi marginali sono
    sostanzialmente sempre crescenti solo in agricoltura, mentre per i
    settori manifatturieri un tratto significativo della curva dei costi
    marginali è orizzontale (v. fig. 4).
Kalecki ritiene che la curva dei costi marginali inizia a salire
    solo quando ci si avvicina al pieno utilizzo della capacità
    produttiva (v. Kalecki, 1939, p. 17).
Se la curva dei costi marginali presenta un tratto orizzontale,
    anche quella dei costi medi è orizzontale e in quel tratto
    coincide con quella dei costi marginali. In presenza di
    capacità produttiva inutilizzata e di mercati non
    concorrenziali, le imprese hanno curve dei costi marginali simili a
    quelle della fig. 4, quindi possono aumentare la
    quantità prodotta senza avere un incremento del costo
    marginale. Se i costi marginali sono costanti, per un intervallo
    rilevante di output anche la curva dei costi medi è
    sostanzialmente orizzontale poiché un'unità in
    più di prodotto costa come le unità precedenti e
    quindi il costo medio unitario non varia.
Secondo Kalecki le condizioni tecnologiche descritte dalla fig. 4 riguardano soprattutto i settori
    produttivi in cui i costi variabili, materie prime e salari, sono
    preponderanti rispetto ai costi fissi, ed in cui i prezzi di questi
    inputs sono indipendenti dalla quantità di essi richiesta. In
    questo caso è possibile aumentare la produzione aumentando
    gli inputs primari a costi unitari sostanzialmente costanti.
Con una simile struttura dei costi un'impresa non ha nessun
    incentivo ad aumentare la quantità prodotta oltre il punto A,
    dal momento che un aumento del suo output porta ad un incremento non
    indifferente dell'offerta di mercato e quindi ad una riduzione del
    prezzo. A causa della mancanza di concorrenza non possono giungere
    dall'esterno nuove imprese, e quindi la differenza, B´B, fra
    il prezzo e il costo marginale può permanere.
Come si determina il prezzo in mercati di concorrenza imperfetta,
    dove non è più assicurata l'uguaglianza fra prezzo,
    costo marginale e costo medio che si riscontra in concorrenza
    perfetta? Secondo Kalecki le imprese manifatturiere in condizioni
    non concorrenziali fissano il prezzo e non la quantità
    prodotta, sono cioè price makers. Il prezzo viene fissato
    tenendo conto di due elementi: i costi medi variabili ed un margine
    di profitto, comunemente detto mark up, che dipende dal grado di
    monopolio.Sia u il costo unitario variabile, o costo primo,
    risultante dalla somma dei costi medi per materie prime e beni
    capitali circolanti in genere e dei costi salariali. Il prezzo
    è dato da p=u(1+q), dove q è il mark up, p-u è
    il margine di profitto e q=(p-u)/u è il margine di profitto
    per unità di costo. Secondo Kalecki q è fissato dalle
    imprese in modo tale da tenere conto di due elementi. In primo luogo
    esse devono coprire anche i costi costanti o fissi; in secondo luogo
    devono garantirsi un profitto; q, il 'ricarico' sui costi variabili,
    deve consentire di ottenere un prezzo di vendita che soddisfi le due
    condizioni.
Ovviamente l'impresa desidera avere un profitto più alto
    possibile, ma non può mettere un mark up troppo elevato
    perché deve tenere conto delle altre imprese operanti sullo
    stesso mercato. Kalecki afferma che q dipende dal grado di
    monopolio, cioè è determinato nel seguente modo:
    q=f(p´/p)=(p-u)/u, dove p è il prezzo fissato
    dall'impresa, p´ è il prezzo medio ponderato del
    settore, cioè la media ponderata dei prezzi praticati dalle
    imprese concorrenti, e (p-u)/u è il 'grado di monopolio'.
    p´>0, cioè il 'margine' q è tanto più
    elevato quanto minore è il prezzo dell'impresa rispetto a
    quello medio dei suoi concorrenti (v. Kalecki, 1970, pp. 87-88).
Come si vede, emerge il problema dell'interdipendenza dei
    comportamenti delle imprese, che non sono più semplici price
    takers. Per un'impresa operante in mercati oligopolistici la
    fissazione del prezzo è un elemento importante della sua
    strategia, che non riguarda più soltanto la massimizzazione
    del profitto nel breve periodo.
Negli anni cinquanta Bain, Stigler e Sylos Labini elaborarono
    analisi del comportamento delle imprese fondate su strategie che si
    preoccupano soprattutto di impedire l'ingresso nel settore di altri
    produttori. Il prezzo diventa perciò un elemento nell'ambito
    di una strategia che vuole porre 'barriere all'entrata'. Vengono
    quindi definiti i concetti di 'prezzo limite' e di 'prezzo di
    esclusione', il cui livello specifico dipende dalle condizioni di
    mercato e dalle caratteristiche tecnologiche delle imprese e del
    settore, ma hanno come obiettivo di consentire profitti, e
    soprattutto di conservare all'impresa la propria quota di mercato.
È importante sottolineare che questi approcci differiscono
    dall'analisi neoclassica tradizionale non solo per le diverse
    ipotesi circa la forma di mercato, ma soprattutto perché
    studiano il fenomeno del prezzo in un contesto dinamico. La
    tecnologia propone continuamente nuove possibilità di
    contenimento dei costi e/o di nuove produzioni, e quindi in
    definitiva di nuovi profitti. È comunque attraverso le
    politiche di prezzo che le imprese cercano di ottenere i profitti
    stessi (v. Sylos Labini, 1967, parte I, cap. 2). Del resto l'ottica
    delle imprese oligopolistiche non può limitarsi al breve
    periodo, ma deve badare soprattutto al mantenimento della
    possibilità di ottenere profitti nel medio e lungo periodo.
    Di qui il doppio vincolo alla politica dei prezzi; da un lato, deve
    garantire profittabilità nell'immediato, dall'altro deve fare
    in modo di mantenere ed aumentare le quote di mercato dell'impresa.
Queste analisi avvicinano la teoria dei prezzi alle problematiche
    pratiche e hanno il grande merito di mettere in luce le relazioni
    fra prezzi, forme di mercato, tecnologia e strategie delle imprese. 
    
11. Settori flex price e settori fix price
I concetti di flex price e fix price vennero elaborati da
    Hicks nel 1956 in Methods of dinamic analysis e si riferiscono a due
    modi di determinazione dei prezzi. In mercati dove le imprese sono
    prevalentemente price takers, e quindi l'aggiustamento verso
    l'equilibrio avviene sostanzialmente attraverso la
    flessibilità dei prezzi secondo il modello concorrenziale
    walrasiano, le condizioni di determinazione dei prezzi risultano
    essere di tipo flex price. L'aggiustamento verso l'equilibrio
    avviene grazie alla flessibilità dei prezzi. I mercati in cui
    prevalgono questi meccanismi sono solitamente quelli dei prodotti
    agricoli e quelli delle materie prime, dove le quantità non
    possono essere modificate se non in tempi medio-lunghi e con costi
    crescenti.
Nel caso di settori caratterizzati da concorrenza imperfetta e da
    imprese che sono price makers, l'equilibrio si raggiunge attraverso
    variazioni delle quantità e non dei prezzi, che sono
    sostanzialmente stabili poiché si è nel tratto
    orizzontale delle curve dei costi marginali e medi. In caso di
    eccesso di domanda le imprese riducono le scorte accumulate in
    precedenza, in caso di eccesso di offerta esse aumentano le scorte
    invendute e riducono il grado di capacità produttiva
    utilizzata. Si ritiene che i mercati dei prodotti della manifattura
    siano prevalentemente di tipo fix price, e quindi con prezzi
    tendenzialmente stabili.