Enciclopedia delle Scienze Sociali (1996)
di Gianni Vaggi
Prezzi
sommario: 1. Definizione e concetti correlati. 2. Adam
Smith e l'economia politica classica. a) Divisione sociale del
lavoro e scambio. b) Prezzi reali e prezzi monetari.
c) Prezzo naturale e prezzo di mercato. d) Ricardo: la
distinzione fra merci scarse e riproducibili e la teoria del
valore-lavoro. 3. Marx e i prezzi di produzione. 4. La teoria
dei prezzi di Sraffa. 5. La nascita della teoria neoclassica: da
Ricardo al marginalismo. 6. La teoria dei prezzi basata su domanda e
offerta. 7. Contrattazione competitiva e stabilità
dell'equilibrio. 8. Marshall e il prezzo normale. 9. Le funzioni di
domanda e di offerta. 10. Mercati non concorrenziali e costi. 11.
Settori flex price e settori fix price. □ Bibliografia.
1. Definizione e concetti correlati
Per 'prezzo' si intende il valore di un bene, cioè la
quantità di altri beni che è possibile acquistare con
un'unità del bene stesso. Il prezzo di un litro di vino
è pari a due quintali di grano se con un litro di vino si
possono ottenere due quintali di grano. Il prezzo è quindi un
rapporto di scambio fra due beni, e può anche essere definito
valore di scambio. Si tratta qui del prezzo relativo fra due beni,
ma una società in cui vi siano molti beni e servizi prodotti
e scambiati necessita di un'unità di misura unica per
regolare gli scambi stessi. Il prezzo in moneta, o prezzo nominale,
indica la quantità di moneta che è richiesta per
acquistare un'unità fisica del bene o la quantità di
moneta che si ottiene vendendo la stessa unità di bene.
Quindi i prezzi monetari servono per confrontare facilmente fra di
loro i vari beni senza dover ricorrere ad un numero elevatissimo di
rapporti di scambio. Ogni bene o servizio ha un prezzo monetario e
se n sono i beni e servizi scambiati avremo n-1 prezzi relativi.Il
luogo in cui i beni si scambiano è il mercato, ed è
sul mercato che per ogni bene viene scambiata una certa
quantità ad un certo prezzo, ricordando che il prezzo va
sempre riferito all'unità fisica del bene, cioè
è un valore unitario.
Il problema del valore di scambio e quindi del prezzo è uno
dei problemi cruciali della scienza economica, dal momento che da
esso dipende sia la ricchezza relativa degli individui e dei gruppi
sociali sia quella degli Stati. Gli individui o gli Stati che
producono beni con prezzi elevati rispetto ad altri beni e servizi
godono ovviamente di un alto potere di acquisto. Il valore di
scambio di merci e servizi è quindi un rapporto fra i
produttori degli stessi, dal momento che ogni consumatore di un bene
è tale perché ha un reddito, o ricchezza, che si
è procurato in quanto venditore su altri mercati (v.
Lunghini, 1986, pp. 104-105).
Molte sono le teorie economiche che hanno cercato di rispondere al
quesito: perché un bene vale più di un altro? In
sostanza si tratta di descrivere e studiare i meccanismi di mercato,
e non solo, che spiegano la formazione del valore di scambio.
Esamineremo di seguito le principali teorie del valore di scambio e
le innumerevoli definizioni della nozione di prezzo che ne sono
derivate.
2. Adam Smith e l'economia politica classica
a) Divisione sociale del lavoro e scambio
Il problema del valore dei beni è stato affrontato fin
dall'antichità (v. Schumpeter, 1954; tr. it., vol. I, pp. 63
ss.); ai tempi della Scolastica, con San Tommaso e Duns Scoto, il
tema del valore viene analizzato in termini etici, come problema del
giusto prezzo, allo stesso modo in cui si pone la questione di un
giusto salario e di un giusto tasso di interesse. Ma l'estensione
dei commerci, soprattutto a seguito della scoperta dell'America, e
l'affermarsi in Europa del capitalismo - almeno nella sua forma
mercantile -, pongono non solo problemi etici, ma richiedono di
capire i meccanismi e le leggi che regolano la determinazione dei
prezzi dei beni e dei servizi sui mercati.
È con l'affermazione della divisione sociale del lavoro che
il problema del prezzo diviene centrale per ogni ragionamento
economico. Secondo Smith le società moderne sono
caratterizzate da un elevato grado di divisione sociale del lavoro,
cioè vi è una specializzazione dei compiti fra gli
individui che compongono la società; chi si occupa
dell'agricoltura, chi dell'industria, chi dell'educazione, chi della
giustizia e così via (v. Smith, 1776, libro I, capp. 1 e 2).
La divisione dei compiti e delle funzioni procede di pari passo con
l'evoluzione della storia umana dalle società primitive fino
a quelle caratterizzate dal commercio e dalla produzione
capitalistica. In una società capitalistica gli individui
ricorrono solo in piccola parte alla produzione diretta dei beni e
dei servizi necessari; per soddisfare la maggior parte dei beni
devono in genere ricorrere al mercato, cioè devono scambiare
le merci che hanno prodotto e che sono in eccesso rispetto alle
proprie esigenze con altre merci prodotte da altri individui.
Quindi, in seguito alla divisione sociale del lavoro si diffonde il
sistema degli scambi e si pone allora il problema del prezzo,
cioè del rapporto che regola lo scambio di due merci. Il
concetto di prezzo relativo esiste anche nelle società
primitive basate sul semplice baratto, ma è soltanto nelle
società moderne che il sistema degli scambi si generalizza.
Il prezzo relativo indica dunque il potere d'acquisto di una merce
rispetto alle altre; la teoria economica studia le cause per cui una
merce ha più valore di un'altra.
b) Prezzi reali e prezzi monetari
I prezzi in moneta sono l'espressione comune del valore di
scambio dei beni, quella in cui ci si imbatte normalmente; in questo
modo si evita di ricorrere a un numero elevatissimo di rapporti di
scambio, come succederebbe se dovessimo avere per ogni bene il suo
prezzo relativamente a tutti gli altri beni. La moneta, afferma Adam
Smith, facilita la divisione del lavoro e la specializzazione dei
compiti, e al tempo stesso fornisce l'unità di misura, il
numerario, con cui rappresentare il prezzo dei beni. Ma lo stesso
Smith distingue il prezzo reale delle merci dal loro prezzo
nominale: il secondo è il prezzo in moneta, il primo è
la quantità di lavoro che una merce può acquistare (v.
Smith, 1776, libro I, cap. 4). Smith preferisce ricorrere alla
misurazione in termini di potere di acquisto sul lavoro, proprio
perché ritiene che i prezzi monetari possano fornire
indicazioni esatte del valore di scambio di un bene solo in presenza
di un valore costante della moneta utilizzata.In termini
parzialmente diversi da quelli utilizzati da Smith, il problema si
pone anche oggi, soprattutto nell'analisi delle serie storiche di
determinate grandezze economiche, ad esempio il PIL, ma un discorso
analogo vale per i consumi, gli investimenti e così via.
Queste e altre grandezze sono spesso definite a prezzi correnti,
intendendo con ciò il loro valore nominale secondo i prezzi
monetari dell'anno cui si riferiscono.
Le stesse grandezze sono misurabili a prezzi costanti quando ogni
grandezza annuale, come il PIL, è valutato con i prezzi
monetari di uno stesso anno preso come base di riferimento. Ad
esempio, se si valuta il PIL del 1990 a prezzi 1980, si può
vedere il tasso medio annuo di incremento reale del reddito,
depurato della variazione nel valore del reddito dovuta alla
modificazione dei prezzi monetari delle merci che lo compongono.
Ciò che importa è l'indicazione della maggiore
disponibilità di merci e servizi in termini fisici,
cioè dell'incremento di potere di acquisto dei cittadini del
paese.In sostanza il problema posto da Smith oggi si presenta in
riferimento al tasso di variazione del valore della moneta usata
come numerario, cioè al tasso di inflazione.
In periodi di elevata inflazione i redditi espressi in moneta sono
di per sé poco significativi dell'effettivo potere di
acquisto: bisogna conoscere il tasso di inflazione. Essendo la
moneta lo strumento con cui vengono rappresentati i prezzi di tutti
beni, il livello generale dei prezzi è un indice che risulta
da una media, solitamente ponderata, dei prezzi dei vari beni e
servizi prodotti in un paese; in sostanza si tratta di un prezzo
monetario medio del prodotto lordo del paese. Il tasso di inflazione
è la variazione nel tempo di questo particolare prezzo, o di
indici ad esso collegati, per esempio l'indice dei prezzi al
consumo. Più elevato è il tasso di inflazione,
maggiormente perde valore la moneta nel tempo; così il
reciproco del livello generale dei prezzi viene spesso utilizzato
come indicatore del valore della moneta.
Il problema di confrontare grandezze in termini reali e non solo
monetari si pone anche nel caso di un confronto fra diverse
grandezze nello spazio oltre che nel tempo; ad esempio il valore del
reddito nazionale dei vari Stati viene oggi confrontato secondo il
metodo delle parità di potere d'acquisto, o PPP (dall'inglese
purchasing power parities).
Questo metodo consente di tener conto del fatto che il valore reale
di un dollaro in un paese povero, cioè i beni e servizi che
il dollaro consente di acquistare, sia assai più elevato che
in un paese ricco. Esso è stato utilizzato su larga scala per
la prima volta nel 1986 da Summer e Heston, che hanno costruito
tavole rappresentative del reddito nei vari paesi non basate sui
dollari, ma sul potere d'acquisto. È invece dubbio che il
metodo delle parità di potere di acquisto sia utile nella
spiegazione dei tassi di cambio e delle loro variazioni (v. Sylos
Labini, 1983, p. 200, n. 2).
c) Prezzo naturale e prezzo di mercato
Come prima accennavamo, i concetti di prezzo di mercato e di
prezzo naturale si devono ad Adam Smith, che nella Ricchezza delle
nazioni definisce con precisione queste nozioni (v. Smith, 1776,
libro I, cap. VI). Il prezzo naturale è un elemento
essenziale per comprendere la teoria dei prezzi e del valore propria
degli economisti classici inglesi. Secondo Smith "quando il prezzo
di una merce non è più né meno di quanto
è sufficiente a pagare la rendita della terra, i salari del
lavoro e i profitti del capitale impiegati nel coltivare, preparare
e portare al mercato la merce stessa, secondo i loro saggi naturali,
quella merce verrà venduta per quello che si può
chiamare il suo prezzo naturale" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 52).
Il prezzo naturale è perciò un prezzo che definisce
quanto la merce costa al produttore in una situazione in cui gli
inputs sono remunerati ai loro saggi naturali.
Siano: r il saggio di profitto, re la rendita per
unità di terra, w il salario per unità di lavoro, L, T
e K rispettivamente le quantità di lavoro, terra e capitale
impiegate nella produzione. Il prezzo naturale può essere
descritto dalla seguente equazione:
pn = wL + reT+K. (1)
I saggi naturali dipendono dalle caratteristiche generali della
società, e in particolare dalla sua ricchezza e dallo stato
di progresso economico, di regresso o di stazionarietà che la
contraddistinguono. È importante sottolineare che il concetto
di prezzo naturale stabilisce un legame preciso fra il problema del
valore e quello della distribuzione, cioè la ripartizione del
prodotto fra le classi sociali: i salari vanno ai lavoratori, le
rendite ai proprietari terrieri e i profitti ai capitalisti
imprenditori. Il prezzo naturale è dunque un elemento
analitico che lega il problema del valore di scambio alla
particolare divisione sociale del lavoro che caratterizza
l'Inghilterra alla fine del Settecento, in cui il capitalismo
è ormai la forma economico-sociale emergente. Un tentativo di
legare il valore di scambio alla distribuzione del prodotto nella
società era già stato tentato da Richard Cantillon
agli inizi del XVIII secolo con la teoria delle tre rendite.
Secondo Cantillon, il prodotto dell'agricoltura si distribuisce in
'tre rendite', ognuna pari ad un terzo del valore totale, che
spettano rispettivamente ai proprietari terrieri, ai fittavoli e ai
salariati agricoli (v. Cantillon, 1755; tr. it., p. 31). Lo stesso
Cantillon aveva usato per indicare il prezzo di lungo periodo
l'espressione 'valore intrinseco'. Ma sia Cantillon che, prima di
lui, sir William Petty avevano mantenuto un'idea di prezzo di lungo
periodo, o valore, prevalentemente legata al costo di produzione di
una merce, e quindi dipendente soprattutto dai costi sostenuti per
la sussistenza dei lavoratori e per le materie prime impiegate nella
produzione (v. Petty, 1662, pp. 44, 68, 92).
Nel 1757, con François Quesnay, emerge il concetto di prezzo
fondamentale, che comprende sia i costi di produzione che un
elemento del prodotto netto della società: le rendite. Il
prezzo fondamentale è dato dal costo unitario per
l'imprenditore agricolo e quindi indica il livello di prezzo al di
sotto del quale egli subisce una perdita (v. INED, 1958, p. 555). Ma
Quesnay nel prezzo fondamentale non include, come farà poi
Smith, il profitto normale dell'imprenditore-capitalista. È
solo con Smith che troviamo una chiara specificazione delle
componenti del prezzo in una società capitalistica (v. Smith,
1776, libro I, cap. VI).
Il prezzo di mercato è generalmente diverso dal prezzo
naturale. Infatti se la quantità di una merce prodotta
è differente dalla sua domanda effettiva, cioè da
quella particolare quantità che può essere venduta al
prezzo naturale, allora il prezzo di mercato sarà diverso da
quello naturale. In particolare, se la quantità prodotta di
una merce è superiore alla domanda effettiva, il suo prezzo
di mercato è inferiore al prezzo naturale; nel caso contrario
il prezzo di mercato è superiore al prezzo naturale. Il
concetto di domanda effettiva definisce qui la particolare
quantità di merce che in base all'esperienza si presume possa
essere venduta a un prezzo di mercato pari a quello naturale. Per
questo particolare livello di produzione prezzo di mercato e prezzo
naturale coincidono. La nozione di domanda effettiva non va confusa
con quella di funzione, o curva di domanda di tipo marginalista o
neoclassico, poiché non si tratta di una relazione funzionale
fra prezzi e quantità, ma soltanto di un punto nello spazio
ideale a due dimensioni in cui abbiamo i prezzi sull'asse verticale
e le quantità su quello orizzontale (v. Garegnani, 1983).
I prezzi di mercato non possono allontanarsi permanentemente dal
loro prezzo naturale. Per usare un'espressione ormai diffusa, il
prezzo di mercato di un bene prodotto 'gravita' attorno al suo
prezzo naturale: può essere più basso o più
alto, ma non si può allontanare sistematicamente da esso. Per
questa ragione quello di prezzo naturale è considerato il
concetto fondamentale nella teoria dei prezzi dell'economia politica
classica. Si tratta di un prezzo di lungo periodo, o normale, o di
riferimento, mentre i prezzi di mercato sono prezzi di breve
periodo, ovvero determinati da circostanze occasionali le quali
fanno sì che in un certo momento la produzione di un bene sia
differente dalla domanda effettiva. Tali circostanze possono essere
legate a situazioni 'naturali', ad esempio le condizioni
meteorologiche nel caso delle produzioni agricole, ma anche ad
errori di valutazione da parte dei produttori circa la domanda
effettiva di una certa merce. L'idea che vi sia un prezzo di lungo
periodo o normale non è limitata all'economia politica
classica, ma si trova anche in Alfred Marshall (v., 1890, cap. 8).
La distinzione fra prezzo di mercato e valore intrinseco delle
merci, o fra prezzi che oscillano frequentemente e valori che sono
stabili e dipendono dalle condizioni di produzione, è
precedente a Smith e si può trovare già in Petty e
Cantillon (v. Hollander, 1973, p. 41). Ma solo Smith descrive con
precisione il meccanismo di oscillazione dei prezzi di mercato
attorno a quelli naturali.
Questo meccanismo, che ricorda la meccanica newtoniana, è
ormai usato per rappresentare le condizioni di libera, o perfetta,
concorrenza fra imprese. Quando in un settore il prezzo di mercato
è più alto di quello naturale, le imprese di tale
settore ottengono un saggio di profitto più elevato di quello
medio o normale. Nulla vieta che ad essere più elevato sia il
saggio di salario, o quello di rendita, o tutti e tre i saggi di
remunerazione degli inputs. Ma dal momento che sono gli
imprenditori-capitalisti a decidere quanto produrre e dove
investire, è più realistico supporre che i saggi di
salario e di rendita siano all'incirca gli stessi per tutti i
settori produttivi, sicché eventuali prezzi di mercato
più alti di quelli naturali vanno direttamente a beneficio
dei capitalisti. In assenza di barriere legali o tecnologiche
all'ingresso, le imprese investiranno in quei settori che mostrano
saggi di profitto più elevati della media. Se lo spostamento
di capitali, e quindi di capacità produttiva fra settori,
avviene in tempi relativamente brevi e con costi trascurabili, nei
settori con più alti saggi di profitto la produzione aumenta.
Data la domanda effettiva, l'aumento della quantità prodotta
determina una riduzione del prezzo di mercato, dal momento che ora
la produzione da vendere è più elevata di prima. Il
minor prezzo di mercato comporta un saggio di profitto inferiore a
quello precedente. Quando il saggio di profitto del settore è
pari a quello di ogni altro settore produttivo le imprese non hanno
dunque più convenienza a spostare capitali, e quindi la
quantità prodotta in ogni settore non si modifica: si
è cioè raggiunto il livello di prezzo che definiamo
naturale. Il meccanismo inverso vale nel caso in cui nella
situazione iniziale il prezzo di mercato sia inferiore a quello
naturale. Secondo Smith, quando r è uniforme in tutti i
settori si è raggiunta una condizione di equilibrio. Va
sottolineato che per Smith l'aspetto più importante del
processo di gravitazione non consiste tanto nell'effettivo
raggiungimento del prezzo naturale, quanto nell'impossibilità
per il prezzo di mercato di muoversi 'senza regole' e di sfuggire
all'attrazione rappresentata dal prezzo naturale, che rappresenta
quindi il prezzo di riferimento di lungo periodo per i prezzi dei
beni la cui produzione può essere modificata.
Il concetto di equilibrio legato all'uniformità del saggio di
profitto in tutti i settori verrà successivamente adottato da
David Ricardo e Karl Marx, e si trova anche nelle versioni moderne
della teoria classica dei prezzi. Questo concetto dipende
dall'ipotesi di libera circolazione dei capitali e di ricerca del
massimo saggio di profitto da parte delle imprese. Si noti che
queste ipotesi sono alla base anche della descrizione
dell'equilibrio in mercati concorrenziali nell'economia marginalista
e neoclassica.
d) Ricardo: la distinzione fra merci scarse e riproducibili e la
teoria del valore-lavoro
Per l'analisi delle teorie dei prezzi David Ricardo costituisce un
punto di riferimento importante per due ragioni. In primo luogo egli
distingue due tipi di merci: quelle 'riproducibili', la cui
quantità prodotta può essere aumentata senza problemi,
e quelle 'non riproducibili', per cui vi sono difficoltà ad
incrementare la produzione (v. Ricardo, 1817; tr. it., pp. 7-9).
Queste difficoltà possono derivare dalla natura particolare
della merce, ad esempio quando si tratta di opere d'arte esclusive
per cui la quantità è rigidamente fissata, o di merci,
come i vini pregiati, la cui quantità può variare, ma
in modo assai limitato, oppure vi possono essere condizioni di
mercato, ed in particolare di monopolio, le quali fanno sì
che la quantità prodotta non si adegui alla domanda
effettiva. Il prezzo di queste merci dipende dalla loro
scarsità relativamente alla domanda. Ma secondo Ricardo la
maggior parte delle merci ricade nella categoria delle merci
riproducibili ed il loro prezzo naturale dipende sostanzialmente
dalle condizioni di produzione e dai saggi che definiscono la
distribuzione del prodotto sociale. Quindi egli accetta la
distinzione smithiana fra prezzo di mercato e prezzo naturale, e
ritiene che quest'ultimo dipenda dal lavoro necessario a produrre la
merce stessa.
Inoltre Ricardo, contrariamente a Smith, ritiene valida la teoria
del valore-lavoro anche in una società capitalistica. Secondo
Smith, in una società primitiva, in cui le terre ed i beni
capitali sono a disposizione di tutti e non sono ancora divenuti
proprietà privata, le merci si scambiano secondo le
quantità di lavoro necessarie per produrle. "Se, ad esempio,
presso un popolo di cacciatori, uccidere un castoro costa
generalmente un lavoro doppio che uccidere un cervo, un castoro si
scambierà naturalmente per due cervi ossia avrà il
valore di due cervi" (v. Smith, 1776; tr. it., libro I, p. 45). Qui
Smith fornisce un chiaro esempio di prezzo relativo; ma nella
società capitalistica i prezzi devono includere anche rendite
e profitti, quindi lo scambio non può più essere
regolato esclusivamente dalle quantità di lavoro incorporate
nella produzione di un bene.
Nei Principi dell'economia politica e delle imposte David Ricardo
utilizza invece la teoria del valore-lavoro come spiegazione dei
prezzi relativi anche in presenza di profitti e rendite positivi.
Nell'esempio seguente consideriamo due merci, a e b, per la cui
produzione non si pagano rendite, e vediamo come vengono determinati
i prezzi; essi devono innanzitutto consentire di pagare i salari di
sussistenza dei lavoratori, salari che sono stati anticipati dai
capitalisti all'inizio del periodo di produzione. Ma i prezzi devono
anche includere i profitti dei capitalisti che hanno effettuato
l'anticipazione dei salari e coordinato la produzione. Quindi
possiamo esprimere i prezzi delle due merci con il seguente sistema
di due equazioni:
pa = wla + rwla = wla(1+r)
(2)
pb = wlb + rwlb = wlb(1+r)
pa e pb sono i prezzi rispettivamente delle
merci a e b e la e lb le quantità di lavoro complessivamente
necessarie rispettivamente per produrre un'unità di a e b. Si
suppone che: 1) i saggi di salario e di profitto siano uniformi in
entrambi i settori; 2) il capitale anticipato dagli imprenditori
all'inizio del ciclo produttivo sia costituito solo dai salari; 3)
il periodo di produzione sia di uguale lunghezza, ad esempio un
anno, per entrambe le merci.In base alle ipotesi 1-3, dal sistema
(2) discende che:
pa/pb=la/lb.
Quindi il prezzo relativo dei due beni è determinato
esattamente dalle quantità di lavoro necessarie nella loro
produzione; questa eguaglianza esprime la teoria del valore-lavoro.
Lo stesso Ricardo sottolinea che le condizioni in base alle quali i
prezzi dei beni sono proporzionali alle quantità di lavoro
necessarie per la loro produzione sono in realtà assai
restrittive, soprattutto quelle richiamate nelle ipotesi 2) e 3). Il
periodo di produzione può essere di differente durata e,
soprattutto, il processo produttivo può richiedere l'impiego
anche di strumenti di produzione e quindi di beni capitali diversi
dal lavoro (v. Ricardo, 1817; tr. it., pp. 20-23). Ma sarà
Karl Marx nel III libro del Capitale a precisare le condizioni in
cui vale la teoria del valore-lavoro ed a proporne il superamento
come teoria della determinazione dei prezzi relativi delle merci.
3. Marx e i prezzi di produzione
Secondo Marx, nel caso di un'economia capitalistica
caratterizzata da libera circolazione dei capitali, e quindi da un
saggio uniforme di profitto, le merci si scambiano secondo le
quantità di lavoro direttamente ed indirettamente incorporate
solo in condizioni talmente restrittive da essere assai poco
realistiche. Supponiamo di avere due soli settori produttivi: il
primo settore produce la merce 1 che è un mezzo di produzione
(strumenti, attrezzi, materie prime, ecc.), include cioè gli
elementi che secondo Marx costituiscono il capitale costante c; il
secondo settore produce la merce 2, cioè l'insieme dei
beni-salario dei lavoratori. Come in Ricardo, sia i beni-salario che
i mezzi di produzione devono essere anticipati dai capitalisti
all'inizio del periodo di produzione. Siano c₁ e c₂ il capitale
costante dei settori 1 e 2, ossia il valore dei mezzi di produzione
impiegati per produrre rispettivamente un'unità di merce 1 e
2. Siano v₁ e v₂ i valori del capitale variabile nei due settori,
cioè il valore della forza lavoro e quindi il monte salari
per unità di prodotto nei due settori; s₁ e s₂ rappresentano
il plusvalore nei settori 1 e 2; il plusvalore è dato dalla
differenza fra la quantità di tempo lavorato e quella pagata
ai lavoratori nei due settori. La teoria del valore-lavoro come
teoria dei prezzi relativi vale solo se tutti i settori presentano
la stessa 'composizione organica del capitale', cioè lo
stesso rapporto c/v. Questo rapporto è oggi chiamato rapporto
capitale-lavoro, K/L, e dovrebbe essere uniforme per tutti i
settori. Chiaramente tale condizione presuppone che la tecnologia
impiegata sia sostanzialmente la stessa per tutti i processi
produttivi, il che è palesemente impossibile.
Oltre a criticare l'uso della teoria del valore-lavoro come teoria
dei prezzi, Marx ne propone il superamento mediante la nozione di
prezzi di produzione, che derivano dalle quantità di lavoro
incorporate, ma obbediscono alla regola dell'uniformità del
saggio di profitto. Secondo Marx sia la merce 1 che la merce 2 sono
utilizzate nella produzione di se stesse e dell'altra merce, quindi
sono sia inputs che outputs dei rispettivi settori produttivi. A
differenza del sistema (2) in cui il lavoro è l'unico input
in entrambi i settori, nell'esempio di Marx troviamo un sistema di
due equazioni e due merci prodotte, che sono anche i due inputs
necessari. Si tratta di un sistema input-output di tipo quadrato,
due per due. I prezzi di produzione vengono determinati nel seguente
modo (v. Marx, 1867-1894, libro III, cap. 9; v. Napoleoni, 1976,
par. 3.5):
p1 = (c1+v1)(1
+r)
(3)
p2 = (c2+v2)(1+r)
Secondo Marx i prezzi p₁ e p₂, e quindi il prezzo relativo delle due
merci, dipendono dalle quantità di lavoro incorporate sia
come capitale costante che come capitale variabile nei due settori e
dall'unico saggio di profitto ottenuto come rapporto fra il totale
del plusvalore ed il totale del capitale:
r = (s1+s2)/(v1+v2+c1+c2)
(4)
La formulazione analitica del sistema è estremamente
interessante e prelude chiaramente all'analisi moderna dei prezzi di
produzione, ma contiene un vizio logico che rende la soluzione
marxiana del problema errata. Nel sistema (3) le merci 1 e 2 vengono
scambiate secondo i prezzi di produzione p₁ e p₂ in quanto merci
prodotte, outputs, ma vengono contabilizzate al valore-lavoro fra
gli elementi di costo, cioè come inputs. Infatti il settore 1
acquista dal settore 2 i beni-salario di cui necessita pagandoli v₁,
e quindi secondo le quantità di lavoro incorporate, non
secondo il prezzo di produzione p₂; lo stesso problema riguarda il
valore delle altre tre grandezze che indicano gli inputs: v₂, c₁ e
c₂.
4. La teoria dei prezzi di Sraffa
La formulazione corretta del sistema di equazioni che
determina i prezzi relativi si deve a Ladislaus von Bortkievicz, che
agli inizi del secolo 'corresse' l'impostazione di Marx e
aprì la strada alla teoria moderna dei prezzi di produzione.
Ma in questa sede analizzeremo direttamente la rappresentazione
moderna della teoria dei prezzi di produzione che si deve all'opera
di Piero Sraffa Produzione di merci a mezzo di merci (v. Sraffa,
1960), in cui la determinazione dei prezzi relativi ed il loro
significato vengono definitivamente chiariti. Seguendo la simbologia
e le ipotesi di Sraffa sostituiamo alle merci 1 e 2 di Marx le merci
a e b: il sistema produttivo è ancora quadrato, ma questa
volta le merci vengono sempre scambiate secondo il loro prezzo, sia
in quanto outputs che in quanto inputs. Per semplicità ci si
limita al caso di industrie o settori che producono un'unica merce,
e quindi non si considerano gli aspetti relativi alla produzione
congiunta di più merci in un singolo settore, alla presenza
di inputs non riproducibili e quindi di rendite, e all'esistenza di
capitale fisso, tutti aspetti però discussi da Sraffa (v.,
1960, parte seconda).
A differenza degli economisti classici e di Marx, Sraffa suppone che
il salario dei lavoratori venga corrisposto al termine del ciclo
produttivo e quindi non faccia parte dei mezzi di produzione
anticipati dai capitalisti. Il sistema dei prezzi si può
descrivere come segue (ibid., p. 13):
pa = wla+(aapa+bapb)(1+r)
(5)
pb = wlb+(abpa+bbpb)(1+r)
Gli unici simboli nuovi riguardano i coefficienti unitari di
produzione, ad esempio ab indica la quantità di merce
necessaria a produrre un'unità di merce b e così via
per gli altri tre coefficienti; per gli altri simboli valgono le
definizioni già date. Si suppone che sia (aa+ab)⟨1 e
analogamente per la merce b, cioè per ogni merce la
quantità complessivamente impiegata come input è
inferiore alla quantità prodotta. Quindi vi è un
prodotto netto pari a: 1-(aa+ab) di a e 1-(ba+bb) di b. Questo
sovrappiù in termini fisici deve essere ripartito fra
lavoratori e capitalisti, e quindi fra salari e profitti. È
importante sottolineare che ora il salario per unità di
lavoro w non è più necessariamente fissato a livello
di sussistenza, come per i classici e per Marx. Inoltre il saggio di
profitto r non è necessariamente determinato prima dei
prezzi, come avviene nell'analisi di Marx con l'equazione (4).
Nel sistema (5) salari e profitti sono considerati come incognite al
pari dei due prezzi, e quindi si hanno due equazioni e quattro
incognite. Ma, al pari dei classici, Sraffa è interessato
alla determinazione dei prezzi relativi; e quindi se si prende una
delle due merci, ad esempio a, come unità di misura, si ha
pa=1, e dunque restano tre incognite e due equazioni. Il sistema ha
ancora un grado di libertà, e Sraffa lascia la
possibilità di chiuderlo fissando esogenamente o il saggio di
salario, ovviamente in termini del numerario scelto, o il saggio di
profitto. Per determinare i prezzi relativi è necessario
fissare una delle due variabili distributive, dopo di che l'altra
verrà determinata insieme al prezzo relativo delle due merci.
Supponiamo che la merce a sia un bene salario e che la
contrattazione fra lavoratori e capitalisti porti alla fissazione di
w in termini di a, cioè determini il potere d'acquisto dei
lavoratori e quindi il salario reale. In questo caso il sistema (5)
ci permette di determinare simultaneamente il prezzo relativo pb,
che altro non è che pb/pa, ed il saggio di profitto r. Con
salari reali fissati esogenamente al sistema dei prezzi, e quindi
prima di essi, siamo in condizioni simili a quelle ipotizzate dai
classici, anche se il salario non è necessariamente di
sussistenza, ma il prezzo relativo e il saggio di profitto si
determinano simultaneamente.
Invece del salario reale potremmo decidere che sia il saggio di
profitto ad essere fissato esogenamente, ad esempio dalla politica
monetaria e dal livello dei tassi di interesse (v. Sraffa, 1960, p.
43); in questo caso le due equazioni consentono di determinare il
salario in termini di merce a ed il prezzo relativo pb. Supponendo
di avere un numero n>2 di merci, si può dimostrare che
quando r è la variabile determinata esogenamente il rapporto
di scambio fra due merci qualsiasi, cioè il loro prezzo
relativo, non cambia qualunque sia il bene scelto come numerario.
Quindi vi è una relazione biunivoca fra il saggio di profitto
ed il sistema dei prezzi relativi: un certo saggio di profitto
comporta necessariamente un certo sistema di prezzi relativi e
viceversa; ovviamente con due merci avremo un prezzo relativo, con n
merci avremo n-1 prezzi relativi.
Quindi nello schema di Sraffa i prezzi dipendono: 1) dalle
condizioni tecniche, descritte dai coefficienti unitari di
produzione (che si suppongono dati, per lo meno per il periodo di
tempo durante il quale si determinano i prezzi, nel senso che nel
lungo periodo ovviamente i coefficienti di produzione si
modificheranno e determineranno un nuovo sistema di prezzi); 2) dal
valore fissato esogenamente di una variabile distributiva. È
ora possibile chiarire il significato dei prezzi nel sistema di
Sraffa. Il sistema dei prezzi di produzione di Sraffa condivide due
caratteristiche importanti con l'approccio degli economisti
classici. In primo luogo i prezzi relativi servono a determinare la
circolazione delle merci prodotte in modo tale che si possano
ricostituire in tutti i settori gli inputs necessari per continuare
il processo produttivo, come per Quesnay, Smith, Ricardo e Marx.
L'idea originaria che la circolazione dei beni debba soddisfare la
condizione di riproduzione degli inputs risale al Tableau
économique di Quesnay (v. Tsuru, 1970, pp. 281-286).
Inoltre, data una variabile distributiva, ad esempio il salario
reale, i prezzi ripartiscono il prodotto netto del sistema in modo
che in ogni settore vi sia uno stesso saggio di profitto; ritroviamo
il concetto di libera circolazione dei capitali e di equilibrio di
lungo periodo che risale a Turgot e Smith, e che Ricardo e Marx
accettano. Quindi, come per i classici, la tecnologia e le regole
distributive precedono il sistema dei prezzi che dipende da questi
due elementi (v. Cartelier, 1976, pp. 19-22).
Vanno però segnalate anche alcune differenze fra il sistema
dei prezzi di Sraffa e l'approccio classico. Innanzitutto vi
è quella fondamentale rispetto al concetto di prezzo naturale
di Smith. I prezzi relativi di Sraffa non sono derivati dalla somma
dei redditi degli agenti della produzione, o di costi e di redditi,
ossia i saggi di salario e di profitto non precedono il sistema dei
prezzi relativi; ciò vale per una sola delle due grandezze
distributive, mentre l'altra è determinata simultaneamente ai
prezzi. Del resto già Ricardo e Marx avevano superato questa
concezione 'additiva' del prezzo.
Altra differenza fondamentale rispetto all'approccio classico
consiste nell'assenza dell'ipotesi di salario dato a livello di
sussistenza, per cui anche i salari possono ottenere una parte del
prodotto netto, se ad essere determinato esogenamente è il
saggio di profitto (v. Roncaglia, 1975, cap. IV).
Sraffa risolve il problema della determinazione dei prezzi relativi
attraverso un sistema di equazioni lineari che spesso viene
rappresentato mediante l'algebra lineare (v. Pasinetti, 1975, cap.
V).
A è la matrice quadrata (n righe ed n colonne) dei
coefficienti unitari di produzione, L è il vettore degli n
coefficienti diretti di lavoro, p è il vettore riga degli n
prezzi ed il sistema si può scrivere:
p=wL+(1+r)Ap,
(6)
Indicando con I la matrice unità, la soluzione per il vettore
dei prezzi è:
p=wL[I-(1+r)A]-¹.
(7)
La (7) mostra che, fissato un qualunque prezzo come numerario e data
una delle due variabili distributive, vengono determinati n-1 prezzi
relativi e l'altra variabile. Inoltre il sistema (7) consente di
vedere che nel caso r=0 i prezzi sono proporzionali, secondo lo
scalare w, all'espressione L (I-A)-¹ che indica le
quantità di lavoro direttamente ed indirettamente incorporate
in ogni bene, e quindi in questo caso vale la teoria del
valore-lavoro.La descrizione del sistema di prezzi di Sraffa
mediante l'algebra lineare consente anche di sottolineare il
contributo alla teoria dei prezzi di altri due autori che oltre a
Sraffa hanno fondato l'analisi dei prezzi relativi su modelli
lineari di produzione. Wassily Leontief analizza il problema della
determinazione dei prezzi e delle quantità mediante schemi
simili al sistema (6) in cui è però assente
l'indicazione esplicita delle due variabili distributive w e r (v.
Leontief, 1951). Detto V il vettore dei valori aggiunti delle varie
industrie, come si rileva in Pasinetti (v., 1975, cap. IV, par. 4),
si ha:
p=(I-A)-¹V.
(8)
Leontief mostra che esiste un sistema duale a quello dei prezzi, il
sistema delle quantità fisiche, in cui indicando con Q il
vettore dell'output lordo di ogni settore e con Y il vettore delle
quantità fisiche che fanno parte della domanda finale, e che
sono perciò spiegate da ragioni di consumo e di investimento,
si ha:
Q=(I-A)-¹Y. (9)
In sostanza il sistema dei prezzi e quello delle quantità
sono uno il duale dell'altro, se il salario reale è fissato
come se il lavoro fosse un qualunque mezzo di produzione, e se la
tecnologia presenta rendimenti costanti di scala, prezzi e
quantità sono due facce della stessa medaglia, per l'appunto
quella rappresentata dalla matrice A dei coefficienti
interindustriali. Va ricordato che l'algoritmo (I-A)-¹
rappresenta la cosiddetta matrice inversa di Leontief, che consente
di valutare le quantità fisiche totali di ogni merce
(cioè sia quelle impiegate direttamente come mezzo di
produzione che quelle utilizzate indirettamente, cioè nella
produzione di inputs dei mezzi di produzione) necessarie per
produrre un'unità fisica di ogni merce come bene finale (v.
Pasinetti, 1975, cap. IV, par. 7).
Anche von Neumann adotta una descrizione della tecnologia simile a
quella di Leontief ed un modello lineare di produzione, ma la sua
analisi riguarda soprattutto il problema della crescita in
condizioni di equilibrio (v. Neumann, 1937). Von Neumann mostra che
quando l'economia cresce ad un saggio uniforme in ogni settore vi
è una fondamentale dualità fra il sistema delle
quantità fisiche ed il sistema dei prezzi (v. Donzelli, 1986,
p. 64).
5. La nascita della teoria neoclassica: da Ricardo
al marginalismo
Oltre alla teoria dei prezzi di produzione e alle differenti
interpretazioni che riconducono il prezzo ad una qualche definizione
di costo di produzione, vi sono ovviamente le teorie del prezzo che
si rifanno alle nozioni di domanda ed offerta, ed in particolare
all'approccio marginalista, nella determinazione del valore di
scambio. Il passaggio dall'analisi degli economisti classici a
quella dei teorici marginalisti non avviene però
improvvisamente, ma impiega all'incirca mezzo secolo, dalla morte di
Ricardo nel 1823 alla pubblicazione delle opere di Jevons e Menger
nel 1871 ed al libro di Walras nel 1874.
Fra gli autori che contribuiscono alla modificazione nella teoria
dei valori di scambio bisogna ricordare Samuel Bailey, che nel 1825
critica l'idea che vi sia un valore assoluto delle merci, legato
alle caratteristiche intrinseche vuoi delle merci stesse, vuoi del
loro processo produttivo. Secondo Bailey il valore indica soltanto
la relazione fra due oggetti ed esiste solo in questo senso, quindi
come prezzo relativo (v. Dobb, 1973, pp. 99-100). Ma Bailey indica
anche che il valore è collegato all'effetto che un bene
produce sul consumatore, e quindi apre la strada alla considerazione
del valore come fatto soggettivo, come relazione fra una merce ed il
grado di interesse che essa esercita su un individuo.
Già nel XVIII secolo alcuni autori avevano avanzato l'idea
che il prezzo di un bene fosse legato alla valutazione che ne veniva
data dall'individuo, cioè a una sorta di valore soggettivo
(in particolare bisogna ricordare l'abate Galiani e Turgot). Ma
è nel corso della prima metà dell'Ottocento che il
valore di scambio e quindi i prezzi relativi vengono messi in
relazione con il valore d'uso, cioè con l'utilità, e
con la scarsità relativa. Negli anni trenta Nassau Senior
indica esplicitamente nell'utilità una determinante del
valore di scambio, e si fa strada l'idea che il prezzo di un bene
sia legato alla domanda ed all'offerta.
Una decina di anni più tardi John Stuart Mill tenta
un'ultima, poco efficace, difesa dell'approccio classico. Per Mill
vi sono sostanzialmente tre tipi di merci: quelle scarse, nel senso
di Ricardo, quelle la cui quantità prodotta può essere
aumentata senza aumenti del costo unitario di produzione, e le merci
per cui l'aumento della produzione comporta un aumento dei costi
unitari (v. Mill, 1848; tr. it., pp. 423-424). Domanda ed offerta
determinano il prezzo del primo tipo di merci. Anche per i beni
producibili con costi costanti la domanda e l'offerta operano sui
mercati e fanno tendere i prezzi verso un valore di scambio di
equilibrio, o valore naturale di lungo periodo, che è dato
sostanzialmente dal costo di produzione (v. Dobb, 1973, pp.
129-130). Per le merci producibili a costi crescenti il prezzo
dipende sia dai costi che dalla domanda (v. Donzelli, 1986, pp.
45-47). Per lo sviluppo futuro delle teorie del prezzo il
riferimento di Mill al caso di costi di produzione crescenti
è molto importante.
6. La teoria dei prezzi basata su domanda e
offerta
Con la cosiddetta rivoluzione marginalista l'approccio
all'analisi del prezzo si modifica radicalmente. Si possono
individuare quattro punti fondamentali in cui il marginalismo si
distacca definitivamente dall'economia classica.
In primo luogo, i fondamenti del valore di scambio sono sempre
l'utilità e la scarsità. Walras dice chiaramente che
la ricchezza sociale è costituita soltanto dalle cose utili e
che queste esistono in quantità limitata, cioè sono
scarse; le cose utili ma non rare non fanno parte della ricchezza
(v. Walras, 1874; tr. it., pp. 142-145). Quindi il prezzo che si
determina riflette sempre la scarsità relativa della merce,
che dipende dalla tecnologia disponibile, ma anche dalle
quantità date di risorse o servizi produttivi che devono
essere utilizzate per la produzione della merce stessa. Analogamente
Menger definisce beni economici solo quelli la cui quantità
esistente è inferiore al fabbisogno; solo di questi si occupa
la scienza economica, e non dei beni in generale (v. Menger, 1871;
tr. it., pp. 147-148).
Vi è quindi una condizione generale di scarsità sia
dei beni di consumo che dei fattori della produzione.In secondo
luogo, nel processo produttivo il caso normale non è
rappresentato da costi costanti, ma da produzioni aumentabili solo a
costi crescenti e quindi le condizioni di domanda entrano nella
determinazione del prezzo. La domanda viene collegata
all'utilità che un bene è in grado di procurare, e
quindi il prezzo dipende anche dalla valutazione che ne danno i
consumatori potenziali. Il valore di scambio è perciò
un fatto soggettivo e non dipende da una qualità intrinseca
della merce.
In terzo luogo, e come conseguenza, viene di fatto accantonata la
distinzione fra prezzo di mercato e prezzo di lungo periodo tipica
dell'economia politica classica. Il prezzo relativo dei beni, siano
essi prodotti o meno, dipende dalla loro scarsità
relativamente alla domanda. In sostanza si può dire che per
ogni tipo di bene il prezzo dipende dalla domanda e dall'offerta,
che facendo salve alcune differenze fra i mercati dei beni finali,
quelli dei beni consumo e quelli delle risorse produttive, vengono
spesso rappresentate con due curve, l'una discendente e l'altra
ascendente (v. fig. 1).
In quarto luogo, dal momento che mediante le relazioni di domanda e
di offerta possiamo descrivere il mercato dei beni, la
determinazione del prezzo è strettamente collegata a quella
della quantità prodotta; l'equilibrio di mercato è
definito dunque da un prezzo e da una quantità che si
determinano simultaneamente e risultano dal punto di incontro delle
curve di domanda e di offerta.
È importante precisare che qui si considerano mercati
perfettamente concorrenziali, mentre nel caso di mercati
monopolistici o oligopolistici le condizioni di equilibrio sono
differenti (v. cap. 10). Un mercato è definito in condizioni
di perfetta concorrenza se vi è un numero elevato di
venditori e di compratori, se non vi sono barriere all'ingresso sul
mercato, se il bene prodotto e scambiato è sostanzialmente
omogeneo e se tutti gli agenti hanno identica e piena conoscenza
delle condizioni di mercato. In sostanza, compratori e venditori
hanno comportamenti completamente indipendenti e non sono in grado
di influenzare il prezzo del bene, sono quindi price takers. Il
punto E individua un prezzo p* per cui la domanda e l'offerta sono
uguali, cioè al prezzo p* e solo a quel prezzo si realizza la
condizione per cui tutti coloro che desiderano acquistare il bene
riescono a farlo e lo stesso vale per tutti coloro che desiderano
venderlo. Nell'analisi dell'equilibrio gioca un ruolo fondamentale
la funzione di eccesso di domanda, definita come Z(p)=D(p)-S(p) (v.
Cozzi-Zamagni, 1994, p. 153).
Per valori inferiori al prezzo p* la quantità domandata
è superiore a quella offerta, cioè per p⟨p* sul
mercato vi è un 'eccesso di domanda' e quindi non tutti
coloro che desiderano il bene possono effettivamente acquistarlo.
Per prezzi superiori a p*, z(p)⟨0, vi è un 'eccesso di
offerta' e quindi a quei prezzi alcuni venditori si troveranno con
merce invenduta. Solo quando il prezzo è pari a p* l'eccesso
di domanda (o di offerta) è nullo e quindi tutte le
aspirazioni-esigenze degli agenti economici sono soddisfatte. Al
prezzo p* tutta la quantità offerta viene effettivamente
acquistata e quindi p* è un prezzo che 'ripulisce' il mercato
(market clearing price), nel senso che non vi sono merci invendute o
domande di beni insoddisfatte poiché z(p*)=0.
7. Contrattazione competitiva e stabilità
dell'equilibrio
Per vedere come opera il mercato, e quindi se e come è
possibile giungere al prezzo p*, è opportuno distinguere
l'analisi di Walras da quella di Marshall. La differenza sostanziale
fra le due concezioni consiste nel fatto che per Walras gli scambi
hanno luogo solo al prezzo di equilibrio e quindi quando tutta la
domanda e tutta l'offerta sono soddisfatte (v. Walras, 1874; tr.
it., p. 112). Al di fuori di questo prezzo e quindi quando vi
è un eccesso di domanda o un eccesso di offerta non si fanno
scambi, ma ovviamente il prezzo deve modificarsi. In Walras i prezzi
svolgono un ruolo parametrico: per ogni prezzo i consumatori ed i
produttori-venditori decidono quali quantità acquistare e
produrre-vendere.
Il sistema di prezzi relativi necessario per calcolare l'allocazione
di risorse che porta alla massima soddisfazione è assegnato
agli agenti economici dall'esterno; Walras usa la metafora del
banditore che annuncia un prezzo, o meglio un sistema di prezzi
relativi. Se, come è probabile, per questo primo sistema di
prezzi non risulta z(p)=0 inizia un processo - che Walras definisce
di tatônnement - di tentativi ripetuti, che sotto certe
condizioni porta al prezzo di equilibrio.
Se valgono le condizioni di perfetta concorrenza e se le curve di
domanda e di offerta hanno la forma descritta nelle figg. 1 e 2, allora è possibile dimostrare che E
è un punto di equilibrio stabile, nel senso che in presenza
di prezzi differenti il meccanismo di mercato fa sì che i
prezzi convergano verso p* e le quantità prodotte e scambiate
verso q*. Dato un prezzo iniziale pari a p₁ ed il prezzo successivo
nel processo di tatônnement, p₂, il processo di convergenza
è assicurato se vale la regola per cui:- se z(p₁)>0 allora
p₂>p₁, cioè in presenza di un eccesso di domanda il prezzo
cresce;- se z(p₁)⟨0 allora p₂⟨p₁, cioè quando vi è un
eccesso di offerta il prezzo diminuisce.
È importante sottolineare che il prezzo di equilibrio non
è in alcun modo noto prima che si ottenga la condizione
z(p)=0; i prezzi che vengono assegnati dal banditore agli agenti
economici servono esclusivamente ad effettuare i calcoli di acquisto
e di vendita che devono portare alla massima utilità.
Tuttavia, se valgono le due condizioni sopra citate, un mercato
concorrenziale porta sicuramente ad un prezzo di equilibrio per cui
la quantità domandata e quella offerta sono uguali. La
definizione delle condizioni di esistenza dell'equilibrio, e quindi
del corrispondente sistema di prezzi relativi, non è dovuta
solo a Walras, ma anche ad altri economisti (v. Donzelli, 1986, pp.
53-54).
È negli anni cinquanta però che l'approccio walrasiano
torna in auge, grazie all'opera di Arrow, Debreu e Malinvaud (v.
Arrow e Debreu, 1954; v. Debreu, 1959; v. Malinvaud, 1953). I
modelli elaborati da questi autori presentano un notevole grado di
complicazione formale e consentono di individuare con precisione le
condizioni matematiche relative ai problemi di esistenza,
unicità e stabilità dell'equilibrio walrasiano,
oltreché di analizzare problemi di allocazione intertemporale
delle risorse, sempre attraverso un sistema di prezzi relativi.
Tuttavia questi modelli mantengono le ipotesi fondamentali
dell'analisi di Walras dei mercati concorrenziali e quindi assumono
che gli agenti economici siano price takers e che gli scambi
avvengano solo ai prezzi di equilibrio.
8. Marshall e il prezzo normale
Un modo di analizzare il processo di tendenza verso il prezzo
di equilibrio diverso dal tatônnement walrasiano è
quello descritto da Alfred Marshall: in questo caso non sono solo i
prezzi di mercato a modificarsi in seguito agli eccessi di domanda e
di offerta, ma anche le quantità. In sostanza si hanno scambi
anche durante il processo di aggiustamento e non solo per il prezzo
di equilibrio, per cui z(p)=0. Conformemente all'approccio dei
classici, Marshall distingue fra prezzo normale e prezzo di mercato.
Il prezzo di mercato è quello realizzato in un determinato
istante, diciamo un certo giorno; il prezzo normale è invece
il prezzo che ci si attende di veder prevalere su quel mercato in un
determinato arco di tempo, solitamente non breve (v. Marshall, 1890;
tr. it., pp. 290-291).
Il prezzo normale è perciò un prezzo atteso per il
futuro e dipende da moltissime cause, non ultime le valutazioni
soggettive degli agenti economici (ibid., pp. 305-307): Marshall
sembra negare che il prezzo normale derivi in qualche modo dai
prezzi di mercato, e non esplicita chiaramente da che cosa esso
dipenda; tuttavia vedremo che, almeno nel caso di mercati
perfettamente concorrenziali e per merci non scarse e riproducibili
in condizioni di rendimenti costanti di scala, il prezzo normale
è legato alla struttura dei costi delle imprese.Il meccanismo
di tendenza verso l'equilibrio dipende innanzitutto dal confronto
che ogni agente economico, venditore o acquirente, opera fra il
prezzo di mercato e quello che egli ritiene essere il prezzo
normale. Se il prezzo di mercato è più elevato di
quello normale i venditori cercheranno di aumentare l'offerta,
perché a quel prezzo di mercato si registrano domande
insoddisfatte da parte dei consumatori, e soprattutto i produttori
ottengono un profitto superiore a quello già compreso nel
prezzo normale. Se, al contrario, l'offerta supera la domanda, il
prezzo di mercato sarà inferiore al prezzo normale, vi
saranno prodotti invenduti, cioè accumulazione indesiderata
di scorte, e il saggio di profitto sarà più basso del
normale. Di conseguenza le imprese ridurranno le quantità
prodotte. Il confronto fra il prezzo di mercato ed il prezzo normale
porta innanzitutto alla modificazione delle quantità prodotte
e scambiate, ed in seguito alla variazione delle quantità
varieranno i prezzi di mercato.
Ai nuovi prezzi di mercato si ripropone il confronto con i prezzi
normali; e così via. Se le curve di domanda e di offerta
hanno la forma appropriata, come nella fig. 1, e sono abbastanza stabili nel tempo,
allora il processo porta verso l'equilibrio, cioè le
quantità prodotte si modificano finché tutti coloro
che desiderano acquistare siano soddisfatti e non vi siano scorte
non desiderate. Il prezzo di equilibrio sarà ovviamente il
prezzo normale. Come si può notare, contrariamente al
processo di aggiustamento di tipo walrasiano, per Marshall si
realizzano scambi al di fuori del prezzo di equilibrio, e quindi ai
prezzi di mercato. L'aggiustamento riguarda sia i prezzi che le
quantità. Anzi proprio il fatto che in un dato settore gli
scambi avvengano al di fuori dell'equilibrio consente alle imprese
del settore stesso di realizzare nel breve periodo degli
extraprofitti. In mercati perfettamente concorrenziali questi
extraprofitti stimolano l'ingresso di nuove imprese nel settore in
cui essi si realizzano e di conseguenza si ha l'aumento della
produzione.
9. Le funzioni di domanda e di offerta
Abbiamo visto che le curve di domanda e di offerta sono la
base dell'analisi tradizionale dei prezzi in mercati concorrenziali,
e abbiamo anche visto che la stabilità dell'equilibrio
dipende sostanzialmente dalla forma delle due curve. Conviene quindi
indicare brevemente gli elementi che determinano l'inclinazione
positiva della curva di offerta e la relazione inversa fra prezzo e
quantità per quella di domanda.
Vi sono vari modi per spiegare l'inclinazione negativa della curva
di domanda ma, in definitiva, si assume che il prezzo di un bene
dipende dall'utilità che gli agenti economici ritengono di
poter trarre dal suo consumo. Più precisamente, fin dagli
inizi della teoria marginalista Menger indicò nel concetto di
utilità marginale la determinante del valore di scambio di un
bene di consumo.
Si ipotizza che i consumatori siano razionali, che abbiano un
reddito dato, e che siano perfettamente in grado di confrontare il
piacere, o la soddisfazione, o l'utilità ottenuta consumando
quantità differenti dei vari beni. Questi consumatori cercano
di massimizzare la soddisfazione che derivano dalla spesa del
reddito, e per fare ciò acquistano innanzitutto i beni che
forniscono gli incrementi di utilità, cioè le
utilità marginali, più elevate. Se U=f(Yi) è la
funzione di utilità che indica l'utilità totale
derivata dal consumo di una determinata quantità yi del bene
'i', con i=1,2.....n, e se n sono i beni disponibili per il consumo,
allora l'utilità marginale del bene 'i' è la derivata
prima di questa funzione rispetto ad yi: UMa=(δU)/(δyi). Gli
individui usano le prime dosi di un bene per soddisfare i bisogni
più intensi; man mano che si procede nel consumo di un bene
ci si sazia, quindi l'incremento di utilità ottenuto
acquistando le dosi successive sarà via via minore,
cioè l'utilità marginale dei beni di consumo è
normalmente decrescente (v. Menger, 1871; tr. it., pp. 210-215,
237-238). La curva di domanda di mercato di un bene è la
somma delle curve di domanda dei singoli individui che derivano
direttamente dalla curva di utilità marginale decrescente.
La curva di domanda di mercato indica che con l'aumento del consumo
di un bene gli agenti economici sono disposti ad acquistare
ulteriori dosi dello stesso solo a prezzi via via inferiori, dal
momento che si sono già parzialmente saziati e quindi hanno
già soddisfatto i bisogni più importanti che il bene
stesso è in grado di soddisfare.La curva di offerta viene
derivata dall'analisi della produzione. Vi sono molte imprese che
possono utilizzare la stessa tecnologia. Le tecniche di produzione
sono rappresentate mediante le curve dei costi, ed in particolare la
curva dei costi marginali delle imprese è supposta essere
crescente. Questa curva indica il costo di un'unità
aggiuntiva di prodotto. Se y=g(l) è la funzione di produzione
di breve periodo, supponiamo che ci siano un'unica merce prodotta
'y' ed unico fattore variabile, il lavoro l, che è pagato al
salario unitario w, dato e costante per la singola impresa; allora
il costo marginale è CMa=w(δl)/(δy). Se la curva è
crescente significa che è possibile aumentare la produzione,
ma le dosi successive di lavoro, pur costando lo stesso salario
delle precedenti, w, consentono di ottenere un incremento di
prodotto, o prodotto marginale, PMa=(δy)/(δl), via via minore. Per
cui si ha CMa=w/PMa. Quindi ogni impresa aumenterà la
produzione, ma solo se i prezzi delle successive unità di
prodotto vendute saranno in aumento in modo da coprire i costi
marginali crescenti. In sostanza, la curva di offerta rappresenta il
livello di prezzo, p, che giustifica per un'impresa la produzione di
una certa quantità y; in questo senso la curva indica quello
che può essere definito il 'costo opportunità'
dell'impresa. La curva di offerta di mercato non è altro che
la somma delle curve dei costi marginali delle singole imprese che
producono un certo bene.
Nel caso di mercati perfettamente concorrenziali, fino a che il
prezzo è superiore al costo marginale ogni impresa aumenta la
quantità prodotta; se non lo fanno le imprese già
presenti nel settore, arrivano nuove imprese dall'esterno, attratte
dalla differenza fra prezzo e costo marginale che indica l'esistenza
di extraprofitti. Solo quando il prezzo è uguale al costo
marginale l'impresa non ha più convenienza ad incrementare
l'output. E nel lungo periodo questa condizione coincide con
l'uguaglianza fra prezzo e costo medio minimo.
Il punto E della fig. 3 indica quindi la condizione di
equilibrio di lungo periodo per ogni impresa, che evidentemente
produrrà la quantità y*. D'altro canto tutte le
imprese che producono questo bene hanno a disposizione la stessa
tecnologia e quindi presentano le stesse curve dei costi medi e
marginali. Il prezzo di un bene prodotto in mercati perfettamente
concorrenziali è perciò determinato dal punto in cui
la curva dei costi marginali attraversa quella dei costi medi, e
cioè dal punto di minimo di quest'ultima curva. In sostanza,
la perfetta concorrenza assicura la piena efficienza della
produzione e del mercato, poiché i consumatori si trovano con
i prezzi più bassi consentiti dalla tecnologia esistente e
dal prezzo dell'input. Solo il progresso tecnico e/o la diminuzione
del prezzo dell'input possono consentire ulteriori riduzioni di
prezzo.
10. Mercati non concorrenziali e costi
A partire dagli anni venti si sono sviluppate molte critiche
alle teorie della formazione del prezzo basate sull'idea di mercati
perfettamente concorrenziali. Si è visto che le ipotesi alla
base degli equilibri concorrenziali erano assai spesso disattese
dalla realtà, soprattutto per ciò che concerne la
sfera della produzione. È difficile pensare che in ogni
settore produttivo vi sia una quantità pressoché
infinita di imprese, ognuna delle quali è rigorosamente price
taker. Questa fantomatica 'impresa rappresentativa' deve essere
totalmente indifferente alle scelte delle altre imprese, le sue
decisioni limitate alla fissazione della quantità da produrre
e prese solo sulla base del prezzo di mercato, che è un dato.
In molti mercati vi sono pochi produttori, quando non uno solo, nel
qual caso si parla di mercato monopolistico. In ogni settore vi sono
imprese di varie dimensioni e spesso i produttori più grandi
hanno la possibilità di fissare il prezzo della merce.
Tutto ciò diviene ancora più importante se si
considera il progresso tecnico, che assai di rado riguarda tutte le
imprese di un settore allo stesso modo, concentrandosi di solito
solo in alcune di esse le quali hanno quindi evidenti vantaggi in
termini di costi rispetto ai loro concorrenti.L'analisi neoclassica
ha affrontato il problema della determinazione del prezzo nelle
forme di mercato diverse dalla concorrenza perfetta. In questo
approccio i problemi, sia per il caso del monopolio che per quello
della concorrenza monopolistica, nascono dalle particolari
caratteristiche della curva di domanda per le imprese, che non
è orizzontale, come nel caso della concorrenza perfetta (v. fig. 3). Si può constatare che
solitamente i prezzi sono più alti e le quantità
prodotte sono inferiori rispetto a quelli che si otterrebbero in
mercati concorrenziali, e quindi si sostiene la superiorità
della concorrenza perfetta soprattutto a vantaggio dei consumatori.
Le forme delle curve dei costi medi e marginali non vengono
però messe in discussione.
Negli anni trenta Michael Kalecki costruisce una teoria dei prezzi
alla cui base vi sono curve dei costi diverse da quelle ipotizzate
per imprese operanti in condizioni di perfetta concorrenza. In
particolare, secondo Kalecki le curve dei costi marginali sono
sostanzialmente sempre crescenti solo in agricoltura, mentre per i
settori manifatturieri un tratto significativo della curva dei costi
marginali è orizzontale (v. fig. 4).
Kalecki ritiene che la curva dei costi marginali inizia a salire
solo quando ci si avvicina al pieno utilizzo della capacità
produttiva (v. Kalecki, 1939, p. 17).
Se la curva dei costi marginali presenta un tratto orizzontale,
anche quella dei costi medi è orizzontale e in quel tratto
coincide con quella dei costi marginali. In presenza di
capacità produttiva inutilizzata e di mercati non
concorrenziali, le imprese hanno curve dei costi marginali simili a
quelle della fig. 4, quindi possono aumentare la
quantità prodotta senza avere un incremento del costo
marginale. Se i costi marginali sono costanti, per un intervallo
rilevante di output anche la curva dei costi medi è
sostanzialmente orizzontale poiché un'unità in
più di prodotto costa come le unità precedenti e
quindi il costo medio unitario non varia.
Secondo Kalecki le condizioni tecnologiche descritte dalla fig. 4 riguardano soprattutto i settori
produttivi in cui i costi variabili, materie prime e salari, sono
preponderanti rispetto ai costi fissi, ed in cui i prezzi di questi
inputs sono indipendenti dalla quantità di essi richiesta. In
questo caso è possibile aumentare la produzione aumentando
gli inputs primari a costi unitari sostanzialmente costanti.
Con una simile struttura dei costi un'impresa non ha nessun
incentivo ad aumentare la quantità prodotta oltre il punto A,
dal momento che un aumento del suo output porta ad un incremento non
indifferente dell'offerta di mercato e quindi ad una riduzione del
prezzo. A causa della mancanza di concorrenza non possono giungere
dall'esterno nuove imprese, e quindi la differenza, B´B, fra
il prezzo e il costo marginale può permanere.
Come si determina il prezzo in mercati di concorrenza imperfetta,
dove non è più assicurata l'uguaglianza fra prezzo,
costo marginale e costo medio che si riscontra in concorrenza
perfetta? Secondo Kalecki le imprese manifatturiere in condizioni
non concorrenziali fissano il prezzo e non la quantità
prodotta, sono cioè price makers. Il prezzo viene fissato
tenendo conto di due elementi: i costi medi variabili ed un margine
di profitto, comunemente detto mark up, che dipende dal grado di
monopolio.Sia u il costo unitario variabile, o costo primo,
risultante dalla somma dei costi medi per materie prime e beni
capitali circolanti in genere e dei costi salariali. Il prezzo
è dato da p=u(1+q), dove q è il mark up, p-u è
il margine di profitto e q=(p-u)/u è il margine di profitto
per unità di costo. Secondo Kalecki q è fissato dalle
imprese in modo tale da tenere conto di due elementi. In primo luogo
esse devono coprire anche i costi costanti o fissi; in secondo luogo
devono garantirsi un profitto; q, il 'ricarico' sui costi variabili,
deve consentire di ottenere un prezzo di vendita che soddisfi le due
condizioni.
Ovviamente l'impresa desidera avere un profitto più alto
possibile, ma non può mettere un mark up troppo elevato
perché deve tenere conto delle altre imprese operanti sullo
stesso mercato. Kalecki afferma che q dipende dal grado di
monopolio, cioè è determinato nel seguente modo:
q=f(p´/p)=(p-u)/u, dove p è il prezzo fissato
dall'impresa, p´ è il prezzo medio ponderato del
settore, cioè la media ponderata dei prezzi praticati dalle
imprese concorrenti, e (p-u)/u è il 'grado di monopolio'.
p´>0, cioè il 'margine' q è tanto più
elevato quanto minore è il prezzo dell'impresa rispetto a
quello medio dei suoi concorrenti (v. Kalecki, 1970, pp. 87-88).
Come si vede, emerge il problema dell'interdipendenza dei
comportamenti delle imprese, che non sono più semplici price
takers. Per un'impresa operante in mercati oligopolistici la
fissazione del prezzo è un elemento importante della sua
strategia, che non riguarda più soltanto la massimizzazione
del profitto nel breve periodo.
Negli anni cinquanta Bain, Stigler e Sylos Labini elaborarono
analisi del comportamento delle imprese fondate su strategie che si
preoccupano soprattutto di impedire l'ingresso nel settore di altri
produttori. Il prezzo diventa perciò un elemento nell'ambito
di una strategia che vuole porre 'barriere all'entrata'. Vengono
quindi definiti i concetti di 'prezzo limite' e di 'prezzo di
esclusione', il cui livello specifico dipende dalle condizioni di
mercato e dalle caratteristiche tecnologiche delle imprese e del
settore, ma hanno come obiettivo di consentire profitti, e
soprattutto di conservare all'impresa la propria quota di mercato.
È importante sottolineare che questi approcci differiscono
dall'analisi neoclassica tradizionale non solo per le diverse
ipotesi circa la forma di mercato, ma soprattutto perché
studiano il fenomeno del prezzo in un contesto dinamico. La
tecnologia propone continuamente nuove possibilità di
contenimento dei costi e/o di nuove produzioni, e quindi in
definitiva di nuovi profitti. È comunque attraverso le
politiche di prezzo che le imprese cercano di ottenere i profitti
stessi (v. Sylos Labini, 1967, parte I, cap. 2). Del resto l'ottica
delle imprese oligopolistiche non può limitarsi al breve
periodo, ma deve badare soprattutto al mantenimento della
possibilità di ottenere profitti nel medio e lungo periodo.
Di qui il doppio vincolo alla politica dei prezzi; da un lato, deve
garantire profittabilità nell'immediato, dall'altro deve fare
in modo di mantenere ed aumentare le quote di mercato dell'impresa.
Queste analisi avvicinano la teoria dei prezzi alle problematiche
pratiche e hanno il grande merito di mettere in luce le relazioni
fra prezzi, forme di mercato, tecnologia e strategie delle imprese.
11. Settori flex price e settori fix price
I concetti di flex price e fix price vennero elaborati da
Hicks nel 1956 in Methods of dinamic analysis e si riferiscono a due
modi di determinazione dei prezzi. In mercati dove le imprese sono
prevalentemente price takers, e quindi l'aggiustamento verso
l'equilibrio avviene sostanzialmente attraverso la
flessibilità dei prezzi secondo il modello concorrenziale
walrasiano, le condizioni di determinazione dei prezzi risultano
essere di tipo flex price. L'aggiustamento verso l'equilibrio
avviene grazie alla flessibilità dei prezzi. I mercati in cui
prevalgono questi meccanismi sono solitamente quelli dei prodotti
agricoli e quelli delle materie prime, dove le quantità non
possono essere modificate se non in tempi medio-lunghi e con costi
crescenti.
Nel caso di settori caratterizzati da concorrenza imperfetta e da
imprese che sono price makers, l'equilibrio si raggiunge attraverso
variazioni delle quantità e non dei prezzi, che sono
sostanzialmente stabili poiché si è nel tratto
orizzontale delle curve dei costi marginali e medi. In caso di
eccesso di domanda le imprese riducono le scorte accumulate in
precedenza, in caso di eccesso di offerta esse aumentano le scorte
invendute e riducono il grado di capacità produttiva
utilizzata. Si ritiene che i mercati dei prodotti della manifattura
siano prevalentemente di tipo fix price, e quindi con prezzi
tendenzialmente stabili.