Macro e Microanalisi
  
  di Marco Lippi e Nicolò Addario 
  MACRO E MICROANALISI 
  
  Economia 
di Marco Lippi 
Sommario: 1. Introduzione. 2. Macro e
    microanalisi negli economisti classici. a) David Ricardo e la
      crescita della popolazione. b) Karl Marx e la caduta del
      saggio del profitto. 3. La teoria neoclassica dell'occupazione
    e la critica di Keynes. a) La funzione di produzione e la
      determinazione del salario. b) Una reazione recente alla
      critica keynesiana: le aspettative razionali. c) Le
      interdipendenze settoriali e la critica alla funzione aggregata di
      produzione. 4. Problemi di convergenza verso le posizioni di
    equilibrio. a) Prezzi di produzione e prezzi di mercato. b) La convergenza all'equilibrio generale neoclassico. 5.
    Conclusioni.
    
1. Introduzione
Il più importante oggetto di interesse per l'economia
    politica è sempre stato costituito dalle grandezze
    macroeconomiche, e cioè dalla somma, o aggregato, dei
    redditi, dei consumi, degli investimenti, delle importazioni, delle
    esportazioni; oppure il reddito pro capite, ossia il reddito
    aggregato diviso per la popolazione, il consumo pro capite, ecc.; o,
    ancora, il rapporto tra la massa dei disoccupati e la popolazione
    attiva, ossia il saggio di disoccupazione; o, ancora, il rapporto
    tra la popolazione attiva e la popolazione, ossia il saggio di
    attività.
Il reddito pro capite può essere considerato un importante,
    anche se molto imperfetto, indicatore del livello di benessere di
    una nazione. Esso può servire per fare comparazioni tra
    nazioni o per misurare lo sviluppo di un paese nel tempo.
    Naturalmente nei confronti tra paesi o nel tempo sarà anche
    importante conoscere il modo in cui il reddito è distribuito
    tra i membri delle economie in questione. Il saggio di
    disoccupazione può essere impiegato invece per valutare in
    quale fase del ciclo economico l'economia si trovi in un dato
    momento, ossia se l'economia stia attraversando un periodo di
    depressione, di ripresa o di crescita sostenuta. Il livello del
    reddito pro capite è la grandezza più importante
    quando ci si occupa di paesi poveri, ossia di paesi in cui una gran
    parte della popolazione deve ancora fronteggiare la fame, cattive
    condizioni igieniche e sanitarie, la mancanza di alloggi decenti. Il
    saggio di disoccupazione è una grandezza cruciale quando
    l'attenzione sia rivolta ai paesi più avanzati, ossia a quei
    paesi in cui la gran parte della popolazione può
    tranquillamente soddisfare i suoi bisogni primari, ma che, tuttavia,
    subiscono periodicamente un rallentamento della crescita.
    
Le grandezze macroeconomiche sono calcolate e rese pubbliche molto
    frequentemente dagli istituti nazionali e internazionali di
    statistica (quello italiano è noto come ISTAT, Istituto
    Nazionale di Statistica). Per esempio, in Italia il reddito
    nazionale è disponibile con frequenza trimestrale, l'indice
    dei prezzi al consumo, che è una media dei prezzi dei beni di
    consumo, ponderati per tener conto della loro importanza relativa,
    con frequenza mensile. 
    
Quando si hanno molti dati a disposizione, questi possono essere
    sottoposti ad analisi statistica. Ciò significa che le
    regolarità presenti in essi possono essere determinate e
    usate per fare previsioni. Ad esempio, se il reddito nazionale
    è cresciuto in media negli ultimi venti anni del 3 per cento,
    si può ragionevolmente prevedere che la crescita media nel
    prossimo quinquennio sarà non troppo lontana dal 3 per cento.
    Oppure, se la disoccupazione si è mantenuta in passato al di
    sopra del suo livello medio per periodi di circa un anno e mezzo, ed
    è stata al di sopra della media negli ultimi 15 mesi, si
    può prevedere un inizio della ripresa economica entro i
    prossimi 2-6 mesi.
Il punto di vista dell'economia politica è diverso:
    l'andamento dei dati macroeconomici deve essere spiegato sulla base
    della teoria economica che si ritiene rilevante. La microanalisi
    è lo studio dei comportamenti degli agenti economici, i
    lavoratori, le imprese, le famiglie, gli intermediari commerciali e
    finanziari, e dei mercati nei quali gli agenti entrano in contatto
    tra di loro. La macroanalisi è lo studio delle grandezze
    macroeconomiche basato sulla microanalisi.
    
I termini 'macroeconomia' e 'microeconomia' sono quelli usati
    più spesso per indicare i due livelli teorici di cui sopra si
    è detto. Tuttavia, poiché questi ultimi sono entrati
    nell'uso in tempi relativamente recenti, e sono fortemente connotati
    dall'indirizzo oggi più diffuso, è sembrato che
    'macro' e 'microanalisi' fossero più adatti a descrivere un
    panorama storico molto complesso. 
    
2. Macro e microanalisi negli economisti classici
L'economia politica è stata ed è tuttora attraversata
    da contrasti molto forti che riguardano sia la micro che la
    macroanalisi. Un'esposizione equilibrata non può quindi che
    procedere fornendo elementi di conoscenza sulle principali linee di
    pensiero. Cominceremo dagli economisti classici e prenderemo come
    esempi la teoria di Ricardo del salario e della popolazione, e la
    teoria di Marx della caduta del saggio del profitto. In entrambi i
    casi si vedrà come una semplice descrizione del comportamento
    degli agenti economici sia la base per conclusioni che riguardano le
    grandezze macroeconomiche.Entrambe le teorie che stiamo per esporre
    hanno per oggetto l'andamento di un'economia capitalistica nel lungo
    periodo. Le domande a cui gli economisti
classici tentavano di rispondere erano del tipo: la popolazione e il
    benessere cresceranno senza limite, oppure l'economia e la
    popolazione sono destinate a raggiungere uno stato stazionario? Il
    sistema capitalistico è intrinsecamente vitale, oppure
    esistono nel suo meccanismo di funzionamento difficoltà che
    alla lunga causeranno il suo crollo? 
    
a) David Ricardo e la crescita della popolazione
La rappresentazione dell'economia che è caratteristica
    degli economisti classici è centrata su tre categorie di
    agenti economici.I proprietari fondiari sono un residuo del passato
    regime feudale. Essi danno in affitto la terra e ne ricavano una
    rendita. Questa viene interamente consumata. Si tratta dunque di una
    classe oziosa e, come vedremo, di un ostacolo allo sviluppo.I
    capitalisti sono i proprietari dei mezzi di produzione diversi dalla
    terra, ossia le macchine industriali e agricole e gli edifici in cui
    si svolge la produzione. Essi pagano ai lavoratori il salario, ai
    proprietari fondiari la rendita (quando sono capitalisti agricoli) e
    organizzano la produzione. Il ricavo della vendita delle merci
    prodotte, una volta dedotti i costi delle materie prime, del lavoro,
    della terra, e il deprezzamento delle macchine e degli edifici,
    costituisce il profitto, cioè il reddito dei capitalisti. Al
    contrario dei proprietari fondiari i capitalisti sono frugali. Essi
    consumano in modo da garantirsi un lusso moderato, e investono il
    resto del profitto ottenuto, ossia destinano gran parte del profitto
    all'accumulazione del capitale. Finché ciò accade essi
    assicurano la crescita della occupazione e del benessere generale.
    
I lavoratori possiedono soltanto la forza della loro mente e delle
    loro braccia. Questa forza lavoro viene venduta in cambio del
    salario. I lavoratori consumano tutto il loro reddito, al pari dei
    proprietari fondiari, anche se ciò accade per il motivo che
    il salario è così basso da consentire soltanto di
    consumare beni strettamente necessari per la sopravvivenza e la
    riproduzione. Ciò naturalmente riflette il tempo in cui
    questi economisti scrivono, tra la fine del XVIII e la prima
    metà del XIX secolo.
    
Questo è lo sfondo della microanalisi degli economisti
    classici. Naturalmente si tratta di astrazioni. Spesso le figure
    descritte sopra si sovrappongono, come avviene ad esempio nel caso
    di un contadino proprietario, che è al tempo stesso
    proprietario fondiario, capitalista e lavoratore.La microanalisi va
    ora completata mediante la descrizione del modo in cui gli agenti
    economici entrano in rapporto gli uni con gli altri. Si suppone che
    vi sia libertà di movimento per i capitali e per i
    lavoratori, e che non esistano coalizioni di nessun genere; quindi i
    lavoratori non sono associati in sindacati di categoria o nazionali,
    e neppure i capitalisti di un settore o dell'intera economia fanno
    accordi per aumentare la propria forza sul mercato. Si suppone
    inoltre che nessun capitalista o proprietario fondiario sia
    così importante da poter influenzare da solo i mercati in cui
    interviene. Quando queste condizioni sono soddisfatte si parla,
    nella teoria moderna, di concorrenza perfetta. Infine si suppone che
    tutti gli agenti economici tentino di realizzare il più alto
    reddito possibile, sia esso un salario, un profitto o una rendita.
    Questo quadro microanalitico consente di raggiungere una
    rappresentazione macro molto semplice e facile da elaborare. Se si
    prescinde da fluttuazioni temporanee e da differenze di minore
    importanza, l'economia è guidata da tre grandezze
    fondamentali: il saggio del salario, il saggio del profitto e la
    produttività sulle terre meno fertili messe a coltivazione.
    Precisamente, le condizioni sopra enunciate sugli agenti economici
    implicano che: 1) lavoratori di uguale specializzazione guadagnano
    lo stesso salario (v. Ricardo, 1821³, cap. 5); 2) il saggio del
    profitto, ossia il profitto diviso per il capitale anticipato,
    è lo stesso per tutti i capitalisti (ibid., cap. 6); 3) terre
    di uguale fertilità guadagnano la stessa rendita (ibid., cap.
    2); 4) la terra meno fertile messa a coltivazione non guadagna
    rendita (ibid., cap. 2).
    
Le prime tre proposizioni sono conseguenze della libertà di
    movimento. Ad esempio, se in un settore produttivo il saggio del
    profitto fosse del 20 per cento mentre nel resto dell'economia fosse
    del 15 per cento, i capitalisti si sposterebbero nel settore a
    più alto profitto, e ciò durerebbe fino a quando
    questo si fosse allineato con il resto dell'economia. Lo stesso se
    il salario in un'industria fosse più alto che nelle altre.
    (Sulla proposizione 2 torneremo per un approfondimento nel cap. 4).
    
Per chiarire il motivo della proposizione 4 dobbiamo ricorrere a un
    semplice schema. Supponiamo che la terra sia di due tipi, A e B, che
    la terra A sia la più fertile, e che il volume della
    produzione sia tale che soltanto la metà della terra B sia
    messa a coltivazione. Sulla terra B non si paga rendita. In effetti,
    se un proprietario di terra B pretendesse una rendita di x per
    ettaro, un altro proprietario di terra B sarebbe disponibile a
    offrirla a x/2, e così via. Poiché la terra B è
    sovrabbondante rispetto alla produzione, la concorrenza tra i
    proprietari fondiari spinge la rendita a zero.
    
La proposizione 4 è molto importante. Essa implica che si
    può discutere di salari e profitti senza contemporaneamente
    dover determinare la rendita. Infatti la produzione sulle terre meno
    fertili, dedotti tutti i costi, si divide tra salari e profitti
    soltanto. O, se si preferisce, per determinare salari e profitti si
    può procedere come se la produzione agricola venisse tutta
    dalle terre meno fertili.Sarebbe troppo complicato entrare nei
    dettagli della determinazione di salario, profitto e prezzi. Si
    può però usare una semplificazione, a cui del resto lo
    stesso Ricardo fece ricorso, e cioè che il prodotto
    dell'agricoltura sia solamente grano, il quale viene prodotto per
    mezzo di grano soltanto; e che il salario sia anch'esso determinato
    dalla quantità di grano che i lavoratori ottengono per il
    loro consumo (v. Ricardo, 1815; v. Sraffa, 1951 e 1960; v. Dobb,
    1973). Se questa semplificazione viene accettata, dato il salario
    unitario, il profitto che va ai capitalisti per ogni lavoratore
    impiegato è determinato come la differenza tra: a) il grano
    prodotto per lavoratore sulle terre meno fertili e b) i costi,
    rappresentati dal salario unitario e dal grano impiegato come mezzo
    di produzione. Il saggio del profitto è (a)-(b) diviso per
    (b), ossia il profitto diviso per il capitale anticipato dal
    capitalista. L'efficacia della semplificazione sta nel fatto che il
    profitto e il saggio del profitto vengono determinati senza fare
    ricorso ad alcuna teoria dei prezzi; infatti si tratta soltanto di
    sottrarre e dividere quantità di una stessa merce, il grano.
    In conclusione, dato il salario, il profitto resta determinato come
    residuo nella produzione sulle terre meno fertili. Ne segue che: 5)
    quando il salario unitario cresce, data la produzione, il saggio del
    profitto diminuisce; 6) quando la produzione aumenta e terre meno
    fertili debbono essere messe a coltivazione, se il salario resta
    costante il saggio del profitto diminuisce.Infine Ricardo definisce
    il saggio naturale del salario come quel saggio del salario per cui
    la popolazione dei lavoratori non aumenta né diminuisce,
    ossia il salario che garantisce un livello di consumo per cui
    soltanto la pura riproduzione è assicurata, ma nulla di
    più.
    
Quanto visto finora, ossia la microanalisi e le proposizioni macro
    sulle relazioni tra saggio del salario, saggio del profitto e
    rendita, costituisce la base del pensiero di Ricardo. Da questa
    discendono la sua teoria della popolazione e le sue convinzioni in
    politica economica.
    
Partiamo da una situazione di prosperità. La popolazione
    è scarsa rispetto alle terre coltivabili. Di conseguenza
    soltanto terre molto fertili vengono messe a coltivazione.
    Ciò implica che il prodotto agricolo disponibile per salari e
    profitti, ossia il prodotto delle terre meno fertili messe a
    coltivazione, è abbondante rispetto ai lavoratori impiegati,
    cosicché un salario più alto del salario naturale
    può essere pagato mentre, al contempo, i capitalisti sono
    soddisfatti del saggio del profitto che ottengono.
    
Un alto saggio del profitto implica una robusta accumulazione del
    capitale. L'aumento della popolazione conseguente all'alto saggio
    del salario trova così corrispondenza nell'aumento del
    capitale, della produzione e del fabbisogno di lavoro.Tuttavia, man
    mano che la produzione aumenta, è necessario mettere a
    coltivazione terre sempre meno fertili. Se il salario non scende, il
    saggio del profitto deve scendere. Se quest'ultimo non scende, il
    salario deve scendere. Se nulla interviene a modificare il quadro,
    alla lunga il salario diminuisce fino a raggiungere il suo livello
    naturale, e il saggio del profitto si riduce fino al punto in cui i
    capitalisti non fanno più investimenti in nuovo capitale. La
    situazione che viene raggiunta è dunque uno stato di
    stagnazione, in cui la popolazione e il capitale rimangono costanti.
    In particolare, bisogna insistere, i lavoratori vivono in condizioni
    di pura riproduzione (v. Ricardo, 1821³, cap. 6).
    
La stagnazione verso cui procede il sistema capitalistico poteva
    essere evitata, secondo Ricardo, dal progresso tecnico in
    agricoltura, equivalente a un innalzamento della produttività
    su tutte le terre, o dall'importazione di grano da paesi dotati di
    terre più fertili. E ciò costituiva il motivo della
    posizione politica di Ricardo a favore dell'abolizione dei dazi sul
    grano in Inghilterra, che avrebbe danneggiato i proprietari fondiari
    ma favorito le rimanenti classi sociali.Questo è uno
    splendido esempio di analisi economica e di convinzione politica
    basata sull'analisi economica. La microanalisi studia i
    comportamenti individuali degli agenti economici, i mercati, e
    prepara il terreno alla macroanalisi. Quest'ultima determina
    l'andamento dei grandi aggregati. Nel caso di Ricardo, le
    proposizioni da 1 a 6 sono semplici conseguenze della microanalisi e
    consentono di raggiungere conclusioni sulla popolazione di un paese,
    e di suggerire rimedi contro la prospettiva di una stagnazione. 
    
b) Karl Marx e la caduta del saggio del profitto
Karl Marx aveva per Ricardo una grande ammirazione. Lo
    considerava, assieme ad Adam Smith, un pensatore di valore
    universale perché capace di superare i limiti dell'orizzonte
    borghese in cui restava, a suo parere, gran parte dell'economia
    politica.Marx, che scriveva circa cinquant'anni dopo Ricardo, aveva
    studiato a fondo la rivoluzione industriale e riteneva che la teoria
    stagnazionista di Ricardo fosse superata dal fatto che con lo
    sviluppo del capitalismo il progresso tecnico non era più un
    accadimento indipendente dal meccanismo economico. Nella
    rappresentazione contenuta nel Capitale le imprese non si limitano
    al movimento verso i settori a più alto saggio del profitto o
    alla concorrenza sui prezzi. E neppure all'applicazione di regole
    efficienti per la divisione del lavoro. Esse stimolano e utilizzano
    il progresso scientifico al fine di ottenere drastiche riduzioni dei
    costi. Chi è in grado di ridurre i costi per primo è
    pure in grado di vendere a un prezzo più basso e di
    conquistare una più ampia quota di mercato. La diffusione
    della nuova tecnica elimina il vantaggio dell'impresa innovatrice;
    resta il beneficio permanente del prezzo ribassato per la merce
    prodotta. In questo contesto la scarsità di terra rispetto ai
    bisogni della popolazione non costituisce più un limite
    insuperabile. Se la quantità necessaria di beni agricoli
    cresce con la popolazione, anche la produttività del lavoro
    cresce - sia in generale che nell'agricoltura. Dunque il limite
    costituito dalla scarsità di terra viene continuamente reso
    meno severo dal progresso tecnico (v. Marx, 1867-1894, vol. III,
    cap. 14).
    
A questa visione decisamente ottimistica, se confrontata con le
    conclusioni di Ricardo sulla popolazione, si accoppia però
    l'idea che il sistema capitalistico, a causa delle sue specifiche
    caratteristiche come rapporto sociale di produzione, non è in
    grado di sfruttare fino in fondo la possibilità di cui si
    è detto sopra. In effetti in Marx, come già in Smith e
    Ricardo, gli effetti benefici del capitalismo sull'intera
    società non vengono ottenuti grazie alla benevolenza dei
    capitalisti o dei governi. Anzi, è la sete di guadagno
    individuale che spinge i capitalisti a introdurre innovazioni e
    quindi ad abbassare il costo della sussistenza e, di conseguenza, a
    opporre un prodotto sempre più abbondante a una popolazione
    crescente. Come vedremo, la spinta del profitto individuale finisce,
    secondo Marx, per entrare in un conflitto insanabile con il
    progresso tecnico, causando alla lunga una crisi irreversibile del
    sistema.
    
Per capire la teoria di Marx bisogna ricordare alcuni aspetti
    cruciali della sua costruzione. Il valore-lavoro delle merci
    è costituito dalla quantità di lavoro necessaria,
    direttamente e indirettamente, a produrle: ad esempio il
    valore-lavoro di un libro è costituito dal lavoro incorporato
    nella carta, nella colla, ecc., ossia dal lavoro indirettamente
    necessario, più il lavoro direttamente necessario, ossia il
    lavoro mediante il quale carta, colla, ecc., diventano un libro. In
    generale, i valori-lavoro delle merci non sono proporzionali ai
    valori di scambio. Ad esempio, se un libro e un cuscinetto a sfera
    contengono la stessa quantità di lavoro, ciò non
    implica che un libro si scambi contro un cuscinetto a sfera. Questo
    è il problema, diventato famoso, della trasformazione dei
    valori nei prezzi. I valori, secondo Marx, non sono immediatamente
    uguali ai prezzi. Però i prezzi possono essere ottenuti a
    partire dai valori. Anzi, secondo Marx non possono essere ottenuti
    altrimenti (v. Marx, 1867-1894, vol. I, cap. 1; v. Lippi, 1976).
    
Qui non possiamo addentrarci nei dettagli del problema. Abbiamo
    soltanto bisogno di un'importante proposizione della teoria
    marxiana. Pur non essendo i valori uguali ai prezzi per le singole
    merci, per gli aggregati si ha uguaglianza. Ciò significa che
    il capitale aggregato misurato mediante i prezzi è uguale al
    capitale aggregato misurato mediante i valori, e che, allo stesso
    tempo, la produzione complessiva misurata in prezzi è uguale
    alla produzione complessiva misurata in valori. Questo implica
    immediatamente che il profitto complessivo misurato in prezzi
    è uguale al plusvalore aggregato, ossia alla somma dei
    profitti misurati in valore. A sua volta ciò implica che il
    saggio del profitto, ossia il rapporto tra profitto e capitale
    anticipato, può essere determinato come dove 
    
    PV 
    ——,
    C+V
    
    è il plusvalore aggregato, C+V è il valore del
    capitale anticipato, distinto in valore dei mezzi di produzione, C,
    e valore dei salari anticipati, V. Questa è la soluzione di
    Marx al problema che Ricardo aveva risolto inizialmente assumendo
    che l'agricoltura producesse grano per mezzo di grano solamente.
    Anche in questo caso il saggio del profitto viene determinato senza
    risolvere simultaneamente il problema dei prezzi (v. Marx,
    1867-1894, vol. III, cap. 9).
    
Una piccola modifica alla formula appena scritta ci
    consentirà di esporre la teoria della caduta del saggio del
    profitto. Basta dividere numeratore e denominatore per V: 
    
    PV/V
    ———.
    C/V+1
    
    In questo modo vengono messe in evidenza due grandezze dotate di
    un importante significato economico. La prima è il rapporto
    PV/V, che Marx chiama indifferentemente 'saggio del plusvalore' o
    'saggio di sfruttamento'. La seconda è C/V, che Marx chiama
    'composizione organica del capitale'. Il saggio del profitto
    è tanto più alto quanto più alto è il
    saggio del plusvalore, e tanto più basso quanto più
    alta è la composizione organica.Il saggio del plusvalore
    è determinato dal livello del salario, che fissa il
    denominatore, e dalla lunghezza della giornata lavorativa, che fissa
    la somma di denominatore e numeratore. Dunque, si può dire
    che il saggio del plusvalore riflette in parte il rapporto di forza
    che via via si stabilisce tra capitalisti e salariati, e in parte lo
    sviluppo della produttività nella produzione dei
    beni-salario. Infatti, se questi ultimi vengono prodotti più
    a buon mercato e la giornata lavorativa non cambia, la grandezza V
    diminuisce, PV aumenta di conseguenza, e così fa il saggio
    del plusvalore. Anche se le condizioni di vita dei salariati non
    sono mutate, essi 'costano meno' e il saggio del profitto aumenta.
    Se, invece, quando i beni-salario scendono di prezzo i salariati
    riescono a imporre la loro 'partecipazione', la grandezza PV/V
    può rimanere immutata (come, si direbbe oggi, in una politica
    dei redditi).
    
Si supponga che PV/V rimanga più o meno costante nel tempo.
    Allora i mutamenti del saggio del profitto sono determinati
    esclusivamente dai movimenti della grandezza C/V, la composizione
    organica. Questo rapporto riflette l'importanza relativa dei mezzi
    di produzione rispetto al lavoro vivo. Esso, secondo Marx, aumenta a
    mano a mano che il progresso tecnico impone tecniche in cui le
    macchine sostituiscono gli uomini: la parte del valore delle merci
    costituita dal valore dei mezzi di produzione e dal logorio delle
    macchine diventa una porzione sempre più grande. Ciò
    produce una caduta progressiva del saggio del profitto. A sua volta
    tale caduta finisce per scoraggiare i capitalisti dal fare
    investimenti in macchine e progresso tecnico, fino a quando la
    gigantesca macchina dell'accumulazione si arresta. Così
    attraverso crisi sempre più frequenti il capitalismo giunge
    alla sua fase finale e libera un nuovo, più avanzato modo di
    produzione. Bisogna notare che la ragione della crisi non sta nel
    progresso tecnico come tale, ma, come si è anticipato, nel
    fatto che i capitalisti sono mossi dal motivo del profitto
    individuale: è questo che alla fine provoca il crollo (v.
    Marx, 1867-1894, vol. III, cap. 14).
    
Anche in questo caso, entrare nei particolari della teoria di Marx,
    delle obiezioni che a essa sono state mosse, va oltre i limiti di
    una breve esposizione. Ma ciò che interessa qui è la
    teoria di Marx come esempio di micro e macroanalisi. La microanalisi
    di Marx si arricchisce, rispetto a quella di Ricardo, per il fatto
    che il progresso tecnico viene reso, come si dice, endogeno.
    Ciò significa che, mentre per Ricardo il progresso tecnico
    influenza il sistema economico ma non è influenzato da
    questo, per Marx la ricerca del profitto spinge i capitalisti a
    trasformare il progresso scientifico in progresso tecnico e a
    promuovere lo stesso progresso scientifico. In questo senso il
    progresso scientifico e quello tecnico sono causati (anche se non
    del tutto) dal progresso economico e sono quindi endogeni.
    
Questo aspetto della teoria di Marx non solo costituisce
    un'innovazione rispetto a Ricardo, ma è addirittura
    profetico. La circolarità di causazione tra sviluppo
    economico e tecnico-scientifico troverà infatti più
    ampia realizzazione soltanto nel nostro secolo. Ed è soltanto
    di recente che tutto ciò è entrato a far parte
    dell'economia accademica (v. Schumpeter, 1912 e 1939; v. Metcalfe,
    1987; v. Romer, 1986). La teoria della caduta del saggio del
    profitto invece non ha avuto conferma empirica, ed è stata
    confutata anche sul piano analitico. Essa resta tuttavia un esempio
    tra i più notevoli di utilizzazione della microanalisi - la
    ricerca del profitto come causa del progresso tecnico - al fine di
    giungere a conclusioni su grandezze macroeconomiche: il saggio del
    profitto, il saggio di accumulazione. 
    
3. La teoria neoclassica dell'occupazione e la
      critica di Keynes
      
Due aspetti della teoria classica appena esposta vanno
    sottolineati. In primo luogo, l'attenzione è rivolta al
    comportamento del sistema nel lungo periodo. Dunque si può
    fare astrazione da oscillazioni temporanee della produzione e della
    occupazione. In secondo luogo, la relazione che passa tra micro e
    macroanalisi è molto semplice e diretta. L'argomento di
    questo capitolo è il ciclo economico, cioè proprio le
    oscillazioni di produzione e occupazione attorno alla tendenza di
    lungo periodo. Come è possibile che periodicamente larghe
    masse di lavoratori si trovino disoccupate e gli impianti soltanto
    parzialmente utilizzati? E come è possibile che tali
    situazioni durino relativamente a lungo, malgrado gli sforzi dei
    governi per uscirne? Cominceremo esponendo la teoria neoclassica,
    ossia quella corrente di pensiero che si è affermata a
    partire dalla fine del secolo scorso fino ai nostri giorni come il
    punto di riferimento accademico più importante. Vedremo poi
    la critica mossa alla teoria neoclassica dal famoso economista e
    pensatore politico John Maynard Keynes (1883-1946) negli anni
    trenta. Tale critica è tanto più interessante in
    questa sede in quanto non è rivolta ai fondamenti della
    teoria, ma al modo in cui i neoclassici trattano il rapporto tra
    micro e macroanalisi. Subito dopo esporremo un'importante
    controcritica di parte neoclassica, che ha avuto di recente un
    notevole successo, e una critica ulteriore alla teoria neoclassica,
    che si basa sulle interdipendenze tra i diversi settori
    dell'economia. 
    
a) La funzione di produzione e la determinazione del salario
Nella teoria classica della produzione, in ogni istante di
    tempo, normalmente, ciascuna merce viene prodotta secondo una
    precisa 'ricetta'. Per produrre una vite occorre una data
    quantità di lavoro, una data quantità di metallo, una
    determinata macchina, ecc. Tutte le volte che viene inventato un
    nuovo metodo di produzione, questo si sostituisce progressivamente
    al vecchio finché non lo soppianta del tutto. Si passa quindi
    da date proporzioni tra lavoro e altri mezzi di produzione ad altre
    proporzioni, ma, a parte i periodi di transizione tra un metodo e un
    altro, le proporzioni sono fisse.
    
La teoria neoclassica della produzione si basa invece sull'idea che
    in ogni istante le imprese abbiano a disposizione molti metodi di
    produzione. In particolare esse possono scegliere, in ogni momento,
    tra metodi ad alta intensità di lavoro e metodi a bassa
    intensità di lavoro e alta intensità di capitale. Si
    può produrre il grano con un aratro tradizionale e molto
    lavoro, oppure con un trattore moderno e una (relativamente) piccola
    quantità di lavoro; oppure, ancora, con una vasta gamma di
    metodi intermedi. La relazione che passa tra prodotto e mezzi di
    produzione impiegati è nota come funzione di produzione. Data
    una quantità di prodotto, la funzione di produzione consente
    di determinare tutte le combinazioni dei mezzi di produzione e del
    lavoro che forniscono proprio quella quantità.
    
Come è possibile per le imprese decidere quale metodo
    adottare? Tutto dipende dai prezzi relativi dei mezzi di produzione
    e del lavoro. In particolare, se il lavoro è relativamente
    caro, le imprese tenderanno a impiegare metodi a bassa
    intensità di lavoro, ovvero ad alta intensità di
    capitale. Viceversa, se il lavoro è relativamente a buon
    mercato, le imprese impiegheranno metodi ad alta intensità di
    lavoro. Esiste una stretta analogia nella teoria neoclassica tra il
    modo in cui è trattata la produzione e la teoria del consumo.
    Salvo eccezioni di minore importanza, tutte le volte che i prezzi
    relativi cambiano i consumatori acquistano maggiori quantità
    delle merci il cui prezzo è relativamente diminuito, a
    sfavore di quelle il cui prezzo è relativamente aumentato (v.
    ad esempio Varian, 1992³, capp. 1-4 per la teoria della
    produzione, capp. 7-9 per la teoria del consumatore; sulla relazione
    tra salario e occupazione v. § 3c).
    
Nella teoria neoclassica prima di Keynes la microanalisi
    dell'impresa che abbiamo appena visto veniva estesa tranquillamente
    a una proposizione riguardante gli aggregati. Se il salario cresce
    relativamente ai prezzi degli altri fattori, l'impresa impiega una
    minore quantità di lavoro, e viceversa se il salario scende.
    Lo stesso deve accadere, secondo i neoclassici, per l'economia nel
    suo complesso. Di conseguenza, se vi sono lavoratori disoccupati, si
    tratta o di un fenomeno passeggero, durante un assestamento
    dell'economia causato ad esempio da un cambiamento di gusti dei
    consumatori; oppure del fatto che il salario non può scendere
    fino al suo 'giusto' livello. Quest'ultimo, ossia il salario di
    equilibrio, è quello per il quale le imprese scelgono quei
    metodi che garantiscono la piena occupazione del lavoro.
    
La critica di Keynes non si rivolge alla proposizione che per
    ciascuna impresa la domanda di lavoro è inversamente
    dipendente dal salario. Essa si concentra sull'estensione di tale
    proposizione dall'analisi dell'impresa alla economia nel suo
    complesso, dalla micro alla macroanalisi. In effetti, quando si
    afferma che un'impresa domanda una maggiore quantità di
    lavoro se il salario scende, si ragiona assumendo in modo implicito
    che la produzione dell'impresa sia data e non debba variare per
    effetto della discesa del salario. Ciò non è del tutto
    esatto, ma non abbiamo bisogno di ulteriori dettagli per questa
    esposizione sintetica. Quindi, a produzione data, se il lavoro
    diventa più a buon mercato le imprese ne domandano una
    quantità maggiore. Ad esempio, se nell'industria della
    ceramica il salario scende, la teoria neoclassica prevede, per
    quell'industria, un aumento dell'occupazione. E ciò non
    è scorretto, perché la discesa del salario per i
    lavoratori della ceramica non ha alcuna influenza sulla domanda di
    prodotti del settore: in effetti, la domanda di prodotti di ceramica
    proviene dall'intera economia nazionale ed estera. Non solo, ma se
    la riduzione del salario si traduce in una discesa dei prezzi dei
    prodotti in ceramica, è possibile che la produzione aumenti,
    cosicché al primo effetto positivo (maggiore domanda di
    lavoro per via di un salario diminuito) se ne somma un secondo
    (maggiore produzione per via di un prezzo diminuito).
    
Lo stesso ragionamento non può essere applicato se invece
    è il salario dell'intera economia a scendere. È vero
    che ogni impresa tenderebbe a impiegare una maggiore quantità
    di lavoro se la quantità prodotta rimanesse immutata, ma una
    quantità immutata di prodotto non può più
    essere presa come ipotesi. Se il salario di tutti i lavoratori
    scende, cosa accade alla produzione di beni di consumo? Possiamo
    affermare che rimarrà immutata? La risposta è
    affermativa se l'occupazione aumenta in modo tale da compensare il
    diminuito reddito per lavoratore, negativa se ciò non accade.
    In ogni caso, poiché il problema è l'occupazione,
    l'ipotesi che la produzione di beni di consumo rimanga immutata
    renderebbe l'intero ragionamento logicamente circolare e quindi
    scorretto.
    
Da questa circolarità implicita nella teoria neoclassica
    dell'occupazione parte e si sviluppa la critica di Keynes. La teoria
    dell'impresa non può essere estesa all'economia nel suo
    complesso. Nel caso della ceramica l'ipotesi di produzione data non
    è irragionevole poiché si tratta di una parte
    minuscola se confrontata con l'economia nazionale. Ma quando si
    passa a considerare il salario di tutti i lavoratori dobbiamo tener
    conto del fatto che il salario è il costo del lavoro per le
    imprese, ma è anche il reddito dei lavoratori. La discesa del
    costo incoraggia le imprese a occupare un maggior numero di
    lavoratori, ma la discesa del reddito fa cadere la domanda che si
    rivolge alle imprese, e quindi agisce in direzione opposta
    sull'occupazione. È questa duplice natura del salario come
    costo e come reddito che rende il rapporto tra micro e macroanalisi
    non banale (v. Keynes, 1936, cap. 19).
    
Tuttavia una critica al metodo mediante il quale una conclusione
    viene raggiunta non costituisce necessariamente una confutazione
    della conclusione. In altri termini, una volta emendato il modo
    ingenuo in cui i neoclassici mettevano in rapporto micro e
    macroanalisi, la tesi secondo cui la discesa del salario favorisce
    l'occupazione può essere mantenuta oppure no? La risposta di
    Keynes è negativa: la cura per la depressione economica, e la
    conseguente disoccupazione, non sta in una discesa dei salari ma in
    un consapevole intervento pubblico a favore della domanda, e in
    particolare a favore degli investimenti in nuovo capitale.
    L'argomentazione di Keynes non può essere riprodotta qui in
    modo preciso per ovvie ragioni di spazio. È possibile
    però un'elencazione schematica delle idee su cui è
    basata. 
    
1. Il reddito percepito dalle famiglie si divide in una parte
    consumata e una parte risparmiata. 
    
2. Il prodotto complessivo dell'economia si divide in una parte
    destinata al consumo e una parte destinata all'investimento.
    
3. Le decisioni di risparmio vengono prese dalle famiglie, le
    decisioni di investimento dalle imprese. Questa separazione implica
    che non esiste un coordinamento a priori tra risparmio e
    investimento. L'ammontare dei risparmi obbedisce a una legge
    psicologica elementare e dipende in modo meccanico dal reddito:
    all'aumentare di questo la frazione risparmiata tende ad aumentare,
    e comunque non diminuisce. Gli investimenti dipendono invece dal
    saggio di interesse, da elementi oggettivi concernenti la
    produzione, ma anche, in modo cruciale, dal grado di fiducia degli
    imprenditori nell'andamento degli affari nel futuro.
    
4. Supponiamo che il sistema si trovi in uno stato di piena
    occupazione e che improvvisamente vi sia un aumento della
    propensione a risparmiare. Ciò causa inizialmente una caduta
    del consumo e di conseguenza una caduta della produzione nel settore
    che produce beni di consumo. A sua volta ciò genera
    disoccupazione e quindi una ulteriore caduta di domanda. Per
    riportare il sistema verso la piena occupazione occorrerebbe un
    aumento degli investimenti, in modo da bilanciare l'aumento della
    propensione a risparmiare, ma la situazione di depressione che nel
    frattempo si è creata non favorisce gli investimenti; al
    contrario, li sfavorisce perché induce gli imprenditori al
    pessimismo. 
    
5. In un lungo periodo di tempo il meccanismo neoclassico di
    sostituzione di lavoro a capitale potrebbe aiutare se il salario
    scendesse abbastanza. Tuttavia, in primo luogo, la discesa del
    salario non può avvenire senza che le relazioni industriali
    siano turbate, il che causa incertezza e quindi danneggia
    ulteriormente la fiducia; in secondo luogo, gli effetti immediati di
    una discesa del salario sono sfavorevoli all'occupazione: infatti
    diminuisce il reddito dei lavoratori come quota del reddito
    complessivo, e ciò fa aumentare la propensione a risparmiare
    (v. Keynes, 1936, cap. 19).
    
6. Se si vuole uscire dalla depressione in un periodo di tempo
    ragionevole è quindi necessario un intervento esterno
    consapevole che rompa il circolo vizioso. In particolare, la spesa
    pubblica può svolgere un ruolo anticiclico se si espande
    quando l'economia rischia di piombare nella depressione e si contrae
    quando l'economia si sviluppa regolarmente.
    
La General theory of employment, interest and money, in cui Keynes
    espose sistematicamente le sue tesi, rappresentò una vera e
    propria rivoluzione nell'economia politica e nella politica
    economica. In primo luogo, la parsimonia, fino allora una
    virtù indiscussa, veniva indicata come una concausa delle
    ricorrenti depressioni delle economie capitalistiche: è
    infatti il risparmio, in quanto non coordinato con l'investimento, a
    creare il problema di domanda che genera la depressione; e tanto
    più è alta la propensione a risparmiare, tanto
    più alto è l'investimento che deve essere effettuato
    per avere piena occupazione. In secondo luogo, la capacità
    del mercato di correggere spontaneamente qualsiasi squilibrio veniva
    negata con grande energia. Contrariamente all'opinione tradizionale,
    il mercato non conduce necessariamente alla piena occupazione. Come
    abbiamo visto, soltanto un'errata concezione del rapporto tra micro
    e macroanalisi aveva sorretto, secondo l'opinione di Keynes, la
    fiducia dei neoclassici negli automatismi del mercato.
    
La principale conseguenza della rivoluzione keynesiana consiste in
    una politica economica fortemente interventista. Il governo non deve
    soltanto garantire che la concorrenza si svolga in modo corretto:
    è necessario che agisca consapevolmente contro la
    disoccupazione. In particolare, gli interventi pubblici in
    infrastrutture non hanno solo lo scopo di aumentare la
    produttività generale, ma anche quello di contrastare la
    tendenza del capitalismo alla depressione del livello di
    attività. 
    
b) Una reazione recente alla critica keynesiana: le aspettative
      razionali
      
La critica di Keynes al punto di vista tradizionale ha
    costituito il punto di partenza di una letteratura vastissima, e di
    una divisione degli economisti in campi fortemente contrapposti. Da
    una parte si è cercato di proseguire sulla strada indicata da
    Keynes, dall'altra di respingere o minimizzare le sue obiezioni.Una
    controcritica, che ha avuto di recente un grande successo
    soprattutto negli Stati Uniti, ha per oggetto il modo in cui Keynes
    tratta le aspettative degli imprenditori. Nella General theory si
    assume che la situazione prevalente nel passato più recente
    venga proiettata dagli imprenditori nel futuro. Di conseguenza la
    depressione tende ad autoalimentarsi: se il livello della domanda e
    dei profitti è basso, gli imprenditori si aspettano che
    continui a essere basso e non investono. Ma proprio i mancati
    investimenti causano un basso livello della domanda, e così
    via. Ora, si è sostenuto, questo modo di trattare le
    aspettative pecca per semplicismo. Perché gli imprenditori
    non dovrebbero accorgersi che l'economia ha un andamento ciclico, e
    tentare di mettere a frutto questa conoscenza? Per quale ragione
    agenti economici razionali non dovrebbero utilizzare al meglio le
    informazioni che possono raccogliere sugli andamenti passati
    dell'economia? Ad esempio, essi sanno che la depressione non dura in
    eterno; sono perciò in grado di prevederne la fine e hanno
    ovviamente interesse ad anticipare gli eventi: se la domanda
    è destinata a crescere conviene avere investito per tempo.
    
La teoria delle aspettative razionali, introdotta dagli economisti
    John Fraser Muth e Robert Lucas tra gli anni sessanta e settanta (v.
    Muth, 1960 e 1961; v. Lucas, 1976; v. Sargent, 1987), costituisce la
    base per una ripresa del punto di vista tradizionale
    sull'occupazione e sul ciclo economico. La critica keynesiana,
    sostengono gli economisti di questa scuola, è basata sulla
    ipotesi che gli agenti economici non sfruttino appieno le occasioni
    di profitto e le informazioni a disposizione. Non appena le
    assunzioni di razionalità e di efficienza vengano
    ripristinate e sviluppate, non vi è alcun motivo per pensare
    che il mercato abbia bisogno di interventi esterni per condurre
    l'economia verso la piena occupazione.
    
Come è facile capire, si tratta di tesi molto controverse,
    sia sul piano della teoria che su quello dell'interpretazione dei
    fatti economici. Non vi è dubbio che l'idea di aspettative
    razionali contiene un'indicazione di ricerca di grande interesse:
    gli agenti economici tentano di 'imparare' dall'esperienza e di
    modificare i propri comportamenti sulla base dell'apprendimento.
    Questo tuttavia non implica necessariamente che essi riescano ad
    approdare alla stessa interpretazione degli eventi passati e alle
    stesse aspettative degli eventi futuri.Anche in questo caso ci
    troviamo di fronte a un problema di coordinamento di comportamenti
    individuali e quindi di rapporto tra micro e macroanalisi.
    Consideriamo un singolo agente economico. Possiamo supporre che i
    suoi comportamenti non influenzino il resto dell'economia e quindi
    che l'andamento delle grandezze che gli interessano possa essere
    preso come dato. Non è difficile ammettere che, se esistono
    regolarità, ad esempio nell'andamento del saggio di
    inflazione, l'agente alla lunga sia in grado di fare buone
    previsioni sul livello dei prezzi; oppure, se si tratta di
    un'impresa esportatrice, che impari a riconoscere le
    regolarità nel tasso di cambio della lira contro il
    dollaro.Fin qui non ci sono obiezioni importanti. Cosa accade
    però quando prendiamo in esame tutti gli agenti
    contemporaneamente? Possiamo dire che, poiché ciascuno di
    essi impara a prevedere gli andamenti del resto dell'economia, tutti
    imparano contemporaneamente? La risposta è negativa, o,
    almeno, non può essere immediatamente affermativa, come se
    bastasse 'sommare' gli apprendimenti individuali per avere
    l'apprendimento collettivo. Ora infatti ciascuno tenta di capire
    come si comporta il resto dell'economia, ma questa è composta
    da una moltitudine di altri agenti, ciascuno dei quali tenta, a sua
    volta, di fare la stessa cosa. Allora molti si renderanno conto del
    fatto che bisogna capire non solo il modo in cui l'economia si
    comporta, ma anche il modo in cui gli altri pensano che l'economia
    si comporti, poiché anche da questo dipende l'economia. Ma se
    tutti fanno questo, la situazione diventa molto più complessa
    di quanto non sia quando viene analizzato un agente soltanto.
    
Anche in questo caso dunque il passaggio dalla micro alla
    macroanalisi è tutt'altro che immediato. Prova ne sia il
    fatto che molto spesso la moderna macroeconomia ricorre alla
    semplificazione estrema di supporre che esista un solo agente, il
    cosiddetto agente rappresentativo. Con ciò però il
    problema del rapporto tra micro e macroanalisi, più che
    risolto, viene eliminato in partenza (sulle recenti controversie
    riguardanti le aspettative v. Frydman, 1982; v. Pesaran, 1987). 
    
c) Le interdipendenze settoriali e la critica alla funzione
      aggregata di produzione
      
Come abbiamo visto, Keynes non criticava l'uso della funzione di
    produzione da parte dei neoclassici, ossia l'idea che a un salario
    più basso corrisponde una maggiore domanda di lavoro, a
    produzione data. La sua obiezione era che l'economia non riesce a
    muoversi verso la nuova posizione, cioè resta, per
    così dire, intrappolata nella depressione. A partire dagli
    anni sessanta, sotto l'impulso di Produzione di merci a mezzo di
    merci di Piero Sraffa, è stata sviluppata una teoria
    più radicale, che nega la relazione fondamentale neoclassica
    tra livello del salario e domanda aggregata di lavoro. Per
    illustrare il problema facciamo ricorso di nuovo all'economia
    semplificata in cui si produce soltanto grano per mezzo di grano e
    lavoro (v. § 2a). La teoria neoclassica suppone che esista una
    moltitudine di metodi di produzione: questi possono essere ordinati
    in modo univoco secondo l'intensità di lavoro, ossia il
    rapporto tra lavoro e grano nella produzione di una unità di
    grano. È evidente che più il lavoro è a buon
    mercato maggiore è il rapporto lavoro/grano scelto dai
    capitalisti, quindi più basso è il salario maggiore
    è la domanda di lavoro, data la produzione.Il problema
    è: possiamo estendere questo risultato a una economia
    multisettoriale? La risposta è negativa in generale, e le
    ragioni sono le seguenti.
    
1. In un'economia multisettoriale ogni settore impiega come mezzi di
    produzione i prodotti di altri settori (interdipendenza tra
    settori); inoltre, diversi settori possono impiegare gli stessi
    mezzi di produzione ma non nelle stesse proporzioni. Ad esempio, per
    produrre il ferro si usano, tra l'altro, il ferro e il carbone, e lo
    stesso per produrre il carbone; però le proporzioni di ferro
    e carbone impiegate sono diverse nei due settori.
    
2. Come conseguenza il capitale non può essere misurato se
    non in valore, cioè utilizzando i prezzi dei prodotti che lo
    compongono.
    
3. D'altra parte, i prezzi dei prodotti variano al variare del
    salario; quindi la grandezza del capitale, che dipende dai prezzi
    come appena visto, varia al variare del salario. A causa di
    ciò può accadere che i vari metodi di produzione non
    possano più essere ordinati secondo il rapporto
    lavoro/capitale, e dunque la semplice relazione valida nell'economia
    a un solo settore può non valere quando i settori sono
    molti.Il punto cruciale qui è che i prezzi variano quando
    varia il salario. Un semplice esempio è sufficiente a
    spiegare la ragione di ciò. Partiamo da un dato livello del
    salario e dai prezzi corrispondenti. Questi ultimi, va ricordato,
    debbono assicurare un saggio del profitto uniforme tra i settori (v.
    § 2a). Supponiamo che nel settore del carbone il rapporto tra
    capitale e lavoro sia, a quei prezzi, di 1 a 1, e che tale rapporto
    sia invece di 2 a 1 nel settore che produce ferro. Se il salario
    scende, il costo nel settore del carbone scende, in proporzione,
    più di quanto scenda nel settore del ferro. Quindi, se i
    prezzi non cambiano, il saggio del profitto nel settore del carbone
    diventa più alto che nel settore del ferro. A prima vista
    sembra che la soluzione del problema stia in una caduta del prezzo
    del carbone rispetto a quello del ferro. Tuttavia, se ciò
    avviene, cambiano anche i valori del capitale nei due settori:
    infatti carbone e ferro sono mezzi di produzione, oltre che
    prodotti.
    
Non è possibile approfondire qui ulteriormente questo tema.
    Quanto visto è sufficiente a illustrare un caso importante in
    cui la considerazione delle interdipendenze, che è necessaria
    quando si affronta la teoria macro, può rovesciare i
    risultati ottenuti in un modello unisettoriale, in cui micro e
    macroteoria sono per definizione identiche. (Per un'esposizione
    della discussione sulla teoria del capitale suscitata dal libro di
    Sraffa, v. Kurz, 1987; per una trattazione generale della teoria
    delle interdipendenze settoriali, v. Pasinetti, 1975). 
    
4. Problemi di convergenza verso le posizioni di
      equilibrio
      
Come abbiamo visto nel cap. 3, la consapevolezza del fatto
    che la microanalisi non può essere sempre estesa alla
    macroanalisi in modo diretto è piuttosto recente: essa risale
    infatti alla General theory. Tuttavia, negli ultimi decenni sono
    stati compiuti notevoli passi in avanti nella chiarificazione di
    problemi lasciati aperti dagli economisti del secolo scorso e dei
    primi decenni del Novecento. In questo capitolo esporremo brevemente
    due casi interessanti in cui sorgono difficoltà nel rapporto
    tra micro e macroanalisi: la teoria classica dei prezzi di
    produzione e dei prezzi di mercato, e la stabilità di un
    equilibrio generale neoclassico. 
    
a) Prezzi di produzione e prezzi di mercato
Come si è visto nel cap. 2, secondo Ricardo, e secondo
    tutti gli economisti classici, la libertà di movimento dei
    capitali da un settore di produzione all'altro assicura il medesimo
    saggio del profitto per tutti i settori. Questa affermazione non
    significa che in ogni istante il saggio del profitto sia uniforme;
    significa che esiste una tendenza all'uniformità, ossia che
    le differenze, quando si verificano, tendono a sparire. Ad esempio,
    se i cappelli da uomo diventano improvvisamente fuori moda,
    inizialmente il prezzo dei cappelli da uomo cade a causa della
    domanda diminuita, a cui fa fronte una offerta immutata. Ciò
    però causa una uscita di capitale dal settore dei cappelli da
    uomo e quindi una contrazione dell'offerta. Quando questa si sia
    adeguata al più basso volume della domanda il prezzo torna al
    suo livello naturale, cioè eguaglia il prezzo di produzione.I
    classici chiamavano prezzo di produzione il prezzo che assicura il
    medesimo saggio del profitto in tutte le industrie, e prezzi di
    mercato i prezzi che temporaneamente si affermano come risultato
    dell'incontro di domanda e offerta. I prezzi di mercato, secondo i
    classici, gravitano attorno ai prezzi di produzione: i capitali
    escono dai settori in cui il saggio del profitto è più
    basso della media e si dirigono dove è più alto; in
    questo modo l'offerta aumenta dove i prezzi sono alti e fa scendere
    il prezzo, mentre cade e fa salire i prezzi dove questi sono bassi.
    Questo è il meccanismo che secondo i classici assicura la
    gravitazione, ossia il fatto che nessuna discrepanza può
    permanere a lungo.Ma le cose non sono così semplici. Anche
    qui la macroanalisi riserva sorprese, a causa del fatto che le
    industrie non soltanto producono e offrono un prodotto, ma, anche,
    domandano prodotti come mezzi di produzione. È vero che
    l'afflusso di capitale in un settore causa una caduta del prezzo di
    quel prodotto, ma cosa accade ai prezzi dei prodotti che vengono
    usati come mezzi di produzione per quel settore?
    
Supponiamo che nel settore A vi sia un saggio del profitto
    più alto della media e nel settore B più basso. I
    capitali si spostano da B ad A. Supponiamo che sia A che B adoperino
    acciaio come mezzo di produzione, che questo sia prodotto in C, e
    che il settore A ne adoperi per unità di capitale molto meno
    del settore B. L'afflusso di capitale da B ad A fa cadere la domanda
    di acciaio e quindi, inizialmente, fa cadere anche il prezzo
    dell'acciaio. Come conseguenza, il costo di produzione in A
    diminuisce. Si hanno quindi due tendenze contrapposte: l'aumento
    dell'offerta in A fa cadere il prezzo e il saggio del profitto;
    però la caduta del prezzo dell'acciaio fa cadere il costo e
    quindi fa aumentare il saggio del profitto (v. Boggio, 1990; v.
    Lippi, 1990).
    
Non possiamo trattare più a fondo questo problema.
    Basterà segnalarlo come un altro importante esempio di
    relazione non banale tra micro e macroanalisi. Ciò che a
    lungo è stato considerato pacifico, la gravitazione dei
    prezzi di mercato verso i prezzi di produzione, si rivela pacifico
    solo se si ignorano le complicazioni che vengono dal fatto che i
    prezzi sono anche costi. Questa consapevolezza appartiene agli
    ultimi decenni, non al secolo scorso, né agli economisti
    classici. 
    
b) La convergenza all'equilibrio generale neoclassico
Nella seconda metà del secolo scorso fu elaborato il
    sistema teorico neoclassico. Abbiamo già parlato della
    differenza dall'economia politica classica nella teoria della
    produzione, e abbiamo anche accennato alla teoria neoclassica del
    consumo. Consideriamo ora le cose più dettagliatamente. La
    teoria classica vedeva il consumo come determinato fondamentalmente
    dalle abitudini: i beni di lusso per le classi abbienti, i beni di
    prima necessità per i lavoratori. La teoria neoclassica
    affronta la questione da un punto di vista più astratto e
    generale. Un consumatore, quale che sia la fonte del suo reddito,
    è dotato di un sistema di preferenze, o gusti, che si
    manifesta nel fatto che, date due combinazioni qualsiasi di beni,
    egli è in grado di stabilire quale preferisce. Se sono dati
    il suo reddito e i prezzi dei beni, il consumatore sceglie la
    combinazione dei beni che lo soddisfa di più, compatibilmente
    con il fatto che il valore complessivo dei beni acquistati non
    può eccedere il suo reddito. Come si dice nel linguaggio
    della teoria, il consumatore massimizza la sua utilità sotto
    il vincolo di bilancio. Dunque, dato il reddito e i prezzi (e dati i
    gusti), la teoria neoclassica stabilisce quanto il consumatore
    desidera acquistare di ciascun bene.
    
Rispetto a quella classica, si tratta di una teoria molto più
    complessa, per la quale è possibile una formulazione
    matematica: possono essere stabiliti assiomi e dimostrati teoremi.
    Una domanda importante è la seguente: cosa prevede la teoria
    se uno dei prezzi aumenta mentre tutti gli altri prezzi e il reddito
    restano uguali? Ci aspettiamo che la domanda del bene il cui prezzo
    è aumentato diminuisca, e comunque che non aumenti. E in
    effetti la risposta della teoria è questa, salvo eccezioni
    che possono essere considerate di poco rilievo. Dunque, se si
    escludono tali eccezioni, la teoria risponde in modo soddisfacente:
    il comportamento della domanda è tale da assicurare
    stabilità ai mercati. Infatti, se il prezzo è troppo
    basso, la domanda è alta, se è alto, la domanda
    è bassa.
    
Di nuovo però questa risposta non regge se dalla analisi di
    un singolo consumatore passiamo all'analisi di tutti i consumatori
    contemporaneamente. Infatti, la conclusione che la domanda dipende
    inversamente dal prezzo viene raggiunta nella teoria supponendo che
    siano dati tutti gli altri prezzi e il reddito del consumatore. Se
    vogliamo analizzare il comportamento di un singolo mercato questo
    può essere legittimo. In altri termini, se partiamo da una
    situazione di equilibrio in tutti i mercati e supponiamo che uno
    solo di essi venga leggermente perturbato, possiamo pensare che gli
    altri mercati e i redditi non ne risentano. Ad esempio, tutti i
    mercati sono in equilibrio eccetto il mercato dell'insalata, per la
    quale si è verificata una produzione molto bassa per cause
    meteorologiche. Il prezzo dell'insalata deve crescere e supponiamo
    che ciò accada, ma non in misura tale da compensare la
    diminuita quantità, cosicché il reddito dei produttori
    di insalata diminuisce. Si dirà che in tal caso l'ipotesi di
    reddito dato per i consumatori non regge. Ma poiché i
    produttori di insalata sono una parte trascurabile dei consumatori,
    possiamo fare astrazione dal fatto che il loro reddito è
    calato, sia per quel che riguarda il mercato dell'insalata, sia per
    quel che riguarda gli altri mercati.
    
Questo giustifica le analisi cosiddette parziali. Ma se la questione
    riguarda il modo in cui si arriva all'equilibrio generale, ossia
    all'equilibrio simultaneo di tutti i mercati, partendo dallo
    squilibrio di tutti i mercati, allora bisogna tener conto del fatto
    che tutti i prezzi cambiano, e quindi che anche tutti i redditi
    cambiano, e l'analisi che abbiamo esposto a grandi linee non
    è più valida. E in effetti gli studi dedicati a questo
    problema, come quelli dedicati ai prezzi di produzione nei classici,
    non arrivano a conclusioni positive (v. Hildenbrandt e Kirman,
    1988). 
    
5. Conclusioni
La microanalisi studia gli agenti, fondamentalmente le imprese e le
    famiglie, isolatamente l'uno dall'altro. La macroanalisi studia il
    comportamento del sistema quando gli agenti vengono considerati
    contemporaneamente e quindi quando vengono prese in considerazione
    le interazioni tra le grandezze che riguardano gli individui. A
    lungo l'economia politica ha trattato le grandezze macro come se i
    comportamenti micro potessero essere, per così dire, sommati.
    A partire dagli anni trenta è stata acquisita la
    consapevolezza che ciò non è possibile. Ciò ha
    aiutato a comprendere gravi questioni di politica economica, prima
    fra tutte la disoccupazione, e a chiarire importanti questioni
    teoriche come l'esistenza di una funzione di produzione aggregata e
    la convergenza verso le posizioni di equilibrio.