Macro e Microanalisi

di Marco Lippi e Nicolò Addario

MACRO E MICROANALISI

Economia
di Marco Lippi

Sommario: 1. Introduzione. 2. Macro e microanalisi negli economisti classici. a) David Ricardo e la crescita della popolazione. b) Karl Marx e la caduta del saggio del profitto. 3. La teoria neoclassica dell'occupazione e la critica di Keynes. a) La funzione di produzione e la determinazione del salario. b) Una reazione recente alla critica keynesiana: le aspettative razionali. c) Le interdipendenze settoriali e la critica alla funzione aggregata di produzione. 4. Problemi di convergenza verso le posizioni di equilibrio. a) Prezzi di produzione e prezzi di mercato. b) La convergenza all'equilibrio generale neoclassico. 5. Conclusioni.

1. Introduzione

Il più importante oggetto di interesse per l'economia politica è sempre stato costituito dalle grandezze macroeconomiche, e cioè dalla somma, o aggregato, dei redditi, dei consumi, degli investimenti, delle importazioni, delle esportazioni; oppure il reddito pro capite, ossia il reddito aggregato diviso per la popolazione, il consumo pro capite, ecc.; o, ancora, il rapporto tra la massa dei disoccupati e la popolazione attiva, ossia il saggio di disoccupazione; o, ancora, il rapporto tra la popolazione attiva e la popolazione, ossia il saggio di attività.
Il reddito pro capite può essere considerato un importante, anche se molto imperfetto, indicatore del livello di benessere di una nazione. Esso può servire per fare comparazioni tra nazioni o per misurare lo sviluppo di un paese nel tempo. Naturalmente nei confronti tra paesi o nel tempo sarà anche importante conoscere il modo in cui il reddito è distribuito tra i membri delle economie in questione. Il saggio di disoccupazione può essere impiegato invece per valutare in quale fase del ciclo economico l'economia si trovi in un dato momento, ossia se l'economia stia attraversando un periodo di depressione, di ripresa o di crescita sostenuta. Il livello del reddito pro capite è la grandezza più importante quando ci si occupa di paesi poveri, ossia di paesi in cui una gran parte della popolazione deve ancora fronteggiare la fame, cattive condizioni igieniche e sanitarie, la mancanza di alloggi decenti. Il saggio di disoccupazione è una grandezza cruciale quando l'attenzione sia rivolta ai paesi più avanzati, ossia a quei paesi in cui la gran parte della popolazione può tranquillamente soddisfare i suoi bisogni primari, ma che, tuttavia, subiscono periodicamente un rallentamento della crescita.

Le grandezze macroeconomiche sono calcolate e rese pubbliche molto frequentemente dagli istituti nazionali e internazionali di statistica (quello italiano è noto come ISTAT, Istituto Nazionale di Statistica). Per esempio, in Italia il reddito nazionale è disponibile con frequenza trimestrale, l'indice dei prezzi al consumo, che è una media dei prezzi dei beni di consumo, ponderati per tener conto della loro importanza relativa, con frequenza mensile.

Quando si hanno molti dati a disposizione, questi possono essere sottoposti ad analisi statistica. Ciò significa che le regolarità presenti in essi possono essere determinate e usate per fare previsioni. Ad esempio, se il reddito nazionale è cresciuto in media negli ultimi venti anni del 3 per cento, si può ragionevolmente prevedere che la crescita media nel prossimo quinquennio sarà non troppo lontana dal 3 per cento. Oppure, se la disoccupazione si è mantenuta in passato al di sopra del suo livello medio per periodi di circa un anno e mezzo, ed è stata al di sopra della media negli ultimi 15 mesi, si può prevedere un inizio della ripresa economica entro i prossimi 2-6 mesi.
Il punto di vista dell'economia politica è diverso: l'andamento dei dati macroeconomici deve essere spiegato sulla base della teoria economica che si ritiene rilevante. La microanalisi è lo studio dei comportamenti degli agenti economici, i lavoratori, le imprese, le famiglie, gli intermediari commerciali e finanziari, e dei mercati nei quali gli agenti entrano in contatto tra di loro. La macroanalisi è lo studio delle grandezze macroeconomiche basato sulla microanalisi.

I termini 'macroeconomia' e 'microeconomia' sono quelli usati più spesso per indicare i due livelli teorici di cui sopra si è detto. Tuttavia, poiché questi ultimi sono entrati nell'uso in tempi relativamente recenti, e sono fortemente connotati dall'indirizzo oggi più diffuso, è sembrato che 'macro' e 'microanalisi' fossero più adatti a descrivere un panorama storico molto complesso.

2. Macro e microanalisi negli economisti classici

L'economia politica è stata ed è tuttora attraversata da contrasti molto forti che riguardano sia la micro che la macroanalisi. Un'esposizione equilibrata non può quindi che procedere fornendo elementi di conoscenza sulle principali linee di pensiero. Cominceremo dagli economisti classici e prenderemo come esempi la teoria di Ricardo del salario e della popolazione, e la teoria di Marx della caduta del saggio del profitto. In entrambi i casi si vedrà come una semplice descrizione del comportamento degli agenti economici sia la base per conclusioni che riguardano le grandezze macroeconomiche.Entrambe le teorie che stiamo per esporre hanno per oggetto l'andamento di un'economia capitalistica nel lungo periodo. Le domande a cui gli economisti
classici tentavano di rispondere erano del tipo: la popolazione e il benessere cresceranno senza limite, oppure l'economia e la popolazione sono destinate a raggiungere uno stato stazionario? Il sistema capitalistico è intrinsecamente vitale, oppure esistono nel suo meccanismo di funzionamento difficoltà che alla lunga causeranno il suo crollo?

a) David Ricardo e la crescita della popolazione

La rappresentazione dell'economia che è caratteristica degli economisti classici è centrata su tre categorie di agenti economici.I proprietari fondiari sono un residuo del passato regime feudale. Essi danno in affitto la terra e ne ricavano una rendita. Questa viene interamente consumata. Si tratta dunque di una classe oziosa e, come vedremo, di un ostacolo allo sviluppo.I capitalisti sono i proprietari dei mezzi di produzione diversi dalla terra, ossia le macchine industriali e agricole e gli edifici in cui si svolge la produzione. Essi pagano ai lavoratori il salario, ai proprietari fondiari la rendita (quando sono capitalisti agricoli) e organizzano la produzione. Il ricavo della vendita delle merci prodotte, una volta dedotti i costi delle materie prime, del lavoro, della terra, e il deprezzamento delle macchine e degli edifici, costituisce il profitto, cioè il reddito dei capitalisti. Al contrario dei proprietari fondiari i capitalisti sono frugali. Essi consumano in modo da garantirsi un lusso moderato, e investono il resto del profitto ottenuto, ossia destinano gran parte del profitto all'accumulazione del capitale. Finché ciò accade essi assicurano la crescita della occupazione e del benessere generale.

I lavoratori possiedono soltanto la forza della loro mente e delle loro braccia. Questa forza lavoro viene venduta in cambio del salario. I lavoratori consumano tutto il loro reddito, al pari dei proprietari fondiari, anche se ciò accade per il motivo che il salario è così basso da consentire soltanto di consumare beni strettamente necessari per la sopravvivenza e la riproduzione. Ciò naturalmente riflette il tempo in cui questi economisti scrivono, tra la fine del XVIII e la prima metà del XIX secolo.

Questo è lo sfondo della microanalisi degli economisti classici. Naturalmente si tratta di astrazioni. Spesso le figure descritte sopra si sovrappongono, come avviene ad esempio nel caso di un contadino proprietario, che è al tempo stesso proprietario fondiario, capitalista e lavoratore.La microanalisi va ora completata mediante la descrizione del modo in cui gli agenti economici entrano in rapporto gli uni con gli altri. Si suppone che vi sia libertà di movimento per i capitali e per i lavoratori, e che non esistano coalizioni di nessun genere; quindi i lavoratori non sono associati in sindacati di categoria o nazionali, e neppure i capitalisti di un settore o dell'intera economia fanno accordi per aumentare la propria forza sul mercato. Si suppone inoltre che nessun capitalista o proprietario fondiario sia così importante da poter influenzare da solo i mercati in cui interviene. Quando queste condizioni sono soddisfatte si parla, nella teoria moderna, di concorrenza perfetta. Infine si suppone che tutti gli agenti economici tentino di realizzare il più alto reddito possibile, sia esso un salario, un profitto o una rendita. Questo quadro microanalitico consente di raggiungere una rappresentazione macro molto semplice e facile da elaborare. Se si prescinde da fluttuazioni temporanee e da differenze di minore importanza, l'economia è guidata da tre grandezze fondamentali: il saggio del salario, il saggio del profitto e la produttività sulle terre meno fertili messe a coltivazione. Precisamente, le condizioni sopra enunciate sugli agenti economici implicano che: 1) lavoratori di uguale specializzazione guadagnano lo stesso salario (v. Ricardo, 1821³, cap. 5); 2) il saggio del profitto, ossia il profitto diviso per il capitale anticipato, è lo stesso per tutti i capitalisti (ibid., cap. 6); 3) terre di uguale fertilità guadagnano la stessa rendita (ibid., cap. 2); 4) la terra meno fertile messa a coltivazione non guadagna rendita (ibid., cap. 2).

Le prime tre proposizioni sono conseguenze della libertà di movimento. Ad esempio, se in un settore produttivo il saggio del profitto fosse del 20 per cento mentre nel resto dell'economia fosse del 15 per cento, i capitalisti si sposterebbero nel settore a più alto profitto, e ciò durerebbe fino a quando questo si fosse allineato con il resto dell'economia. Lo stesso se il salario in un'industria fosse più alto che nelle altre. (Sulla proposizione 2 torneremo per un approfondimento nel cap. 4).

Per chiarire il motivo della proposizione 4 dobbiamo ricorrere a un semplice schema. Supponiamo che la terra sia di due tipi, A e B, che la terra A sia la più fertile, e che il volume della produzione sia tale che soltanto la metà della terra B sia messa a coltivazione. Sulla terra B non si paga rendita. In effetti, se un proprietario di terra B pretendesse una rendita di x per ettaro, un altro proprietario di terra B sarebbe disponibile a offrirla a x/2, e così via. Poiché la terra B è sovrabbondante rispetto alla produzione, la concorrenza tra i proprietari fondiari spinge la rendita a zero.

La proposizione 4 è molto importante. Essa implica che si può discutere di salari e profitti senza contemporaneamente dover determinare la rendita. Infatti la produzione sulle terre meno fertili, dedotti tutti i costi, si divide tra salari e profitti soltanto. O, se si preferisce, per determinare salari e profitti si può procedere come se la produzione agricola venisse tutta dalle terre meno fertili.Sarebbe troppo complicato entrare nei dettagli della determinazione di salario, profitto e prezzi. Si può però usare una semplificazione, a cui del resto lo stesso Ricardo fece ricorso, e cioè che il prodotto dell'agricoltura sia solamente grano, il quale viene prodotto per mezzo di grano soltanto; e che il salario sia anch'esso determinato dalla quantità di grano che i lavoratori ottengono per il loro consumo (v. Ricardo, 1815; v. Sraffa, 1951 e 1960; v. Dobb, 1973). Se questa semplificazione viene accettata, dato il salario unitario, il profitto che va ai capitalisti per ogni lavoratore impiegato è determinato come la differenza tra: a) il grano prodotto per lavoratore sulle terre meno fertili e b) i costi, rappresentati dal salario unitario e dal grano impiegato come mezzo di produzione. Il saggio del profitto è (a)-(b) diviso per (b), ossia il profitto diviso per il capitale anticipato dal capitalista. L'efficacia della semplificazione sta nel fatto che il profitto e il saggio del profitto vengono determinati senza fare ricorso ad alcuna teoria dei prezzi; infatti si tratta soltanto di sottrarre e dividere quantità di una stessa merce, il grano. In conclusione, dato il salario, il profitto resta determinato come residuo nella produzione sulle terre meno fertili. Ne segue che: 5) quando il salario unitario cresce, data la produzione, il saggio del profitto diminuisce; 6) quando la produzione aumenta e terre meno fertili debbono essere messe a coltivazione, se il salario resta costante il saggio del profitto diminuisce.Infine Ricardo definisce il saggio naturale del salario come quel saggio del salario per cui la popolazione dei lavoratori non aumenta né diminuisce, ossia il salario che garantisce un livello di consumo per cui soltanto la pura riproduzione è assicurata, ma nulla di più.

Quanto visto finora, ossia la microanalisi e le proposizioni macro sulle relazioni tra saggio del salario, saggio del profitto e rendita, costituisce la base del pensiero di Ricardo. Da questa discendono la sua teoria della popolazione e le sue convinzioni in politica economica.

Partiamo da una situazione di prosperità. La popolazione è scarsa rispetto alle terre coltivabili. Di conseguenza soltanto terre molto fertili vengono messe a coltivazione. Ciò implica che il prodotto agricolo disponibile per salari e profitti, ossia il prodotto delle terre meno fertili messe a coltivazione, è abbondante rispetto ai lavoratori impiegati, cosicché un salario più alto del salario naturale può essere pagato mentre, al contempo, i capitalisti sono soddisfatti del saggio del profitto che ottengono.

Un alto saggio del profitto implica una robusta accumulazione del capitale. L'aumento della popolazione conseguente all'alto saggio del salario trova così corrispondenza nell'aumento del capitale, della produzione e del fabbisogno di lavoro.Tuttavia, man mano che la produzione aumenta, è necessario mettere a coltivazione terre sempre meno fertili. Se il salario non scende, il saggio del profitto deve scendere. Se quest'ultimo non scende, il salario deve scendere. Se nulla interviene a modificare il quadro, alla lunga il salario diminuisce fino a raggiungere il suo livello naturale, e il saggio del profitto si riduce fino al punto in cui i capitalisti non fanno più investimenti in nuovo capitale. La situazione che viene raggiunta è dunque uno stato di stagnazione, in cui la popolazione e il capitale rimangono costanti. In particolare, bisogna insistere, i lavoratori vivono in condizioni di pura riproduzione (v. Ricardo, 1821³, cap. 6).

La stagnazione verso cui procede il sistema capitalistico poteva essere evitata, secondo Ricardo, dal progresso tecnico in agricoltura, equivalente a un innalzamento della produttività su tutte le terre, o dall'importazione di grano da paesi dotati di terre più fertili. E ciò costituiva il motivo della posizione politica di Ricardo a favore dell'abolizione dei dazi sul grano in Inghilterra, che avrebbe danneggiato i proprietari fondiari ma favorito le rimanenti classi sociali.Questo è uno splendido esempio di analisi economica e di convinzione politica basata sull'analisi economica. La microanalisi studia i comportamenti individuali degli agenti economici, i mercati, e prepara il terreno alla macroanalisi. Quest'ultima determina l'andamento dei grandi aggregati. Nel caso di Ricardo, le proposizioni da 1 a 6 sono semplici conseguenze della microanalisi e consentono di raggiungere conclusioni sulla popolazione di un paese, e di suggerire rimedi contro la prospettiva di una stagnazione.

b) Karl Marx e la caduta del saggio del profitto

Karl Marx aveva per Ricardo una grande ammirazione. Lo considerava, assieme ad Adam Smith, un pensatore di valore universale perché capace di superare i limiti dell'orizzonte borghese in cui restava, a suo parere, gran parte dell'economia politica.Marx, che scriveva circa cinquant'anni dopo Ricardo, aveva studiato a fondo la rivoluzione industriale e riteneva che la teoria stagnazionista di Ricardo fosse superata dal fatto che con lo sviluppo del capitalismo il progresso tecnico non era più un accadimento indipendente dal meccanismo economico. Nella rappresentazione contenuta nel Capitale le imprese non si limitano al movimento verso i settori a più alto saggio del profitto o alla concorrenza sui prezzi. E neppure all'applicazione di regole efficienti per la divisione del lavoro. Esse stimolano e utilizzano il progresso scientifico al fine di ottenere drastiche riduzioni dei costi. Chi è in grado di ridurre i costi per primo è pure in grado di vendere a un prezzo più basso e di conquistare una più ampia quota di mercato. La diffusione della nuova tecnica elimina il vantaggio dell'impresa innovatrice; resta il beneficio permanente del prezzo ribassato per la merce prodotta. In questo contesto la scarsità di terra rispetto ai bisogni della popolazione non costituisce più un limite insuperabile. Se la quantità necessaria di beni agricoli cresce con la popolazione, anche la produttività del lavoro cresce - sia in generale che nell'agricoltura. Dunque il limite costituito dalla scarsità di terra viene continuamente reso meno severo dal progresso tecnico (v. Marx, 1867-1894, vol. III, cap. 14).

A questa visione decisamente ottimistica, se confrontata con le conclusioni di Ricardo sulla popolazione, si accoppia però l'idea che il sistema capitalistico, a causa delle sue specifiche caratteristiche come rapporto sociale di produzione, non è in grado di sfruttare fino in fondo la possibilità di cui si è detto sopra. In effetti in Marx, come già in Smith e Ricardo, gli effetti benefici del capitalismo sull'intera società non vengono ottenuti grazie alla benevolenza dei capitalisti o dei governi. Anzi, è la sete di guadagno individuale che spinge i capitalisti a introdurre innovazioni e quindi ad abbassare il costo della sussistenza e, di conseguenza, a opporre un prodotto sempre più abbondante a una popolazione crescente. Come vedremo, la spinta del profitto individuale finisce, secondo Marx, per entrare in un conflitto insanabile con il progresso tecnico, causando alla lunga una crisi irreversibile del sistema.

Per capire la teoria di Marx bisogna ricordare alcuni aspetti cruciali della sua costruzione. Il valore-lavoro delle merci è costituito dalla quantità di lavoro necessaria, direttamente e indirettamente, a produrle: ad esempio il valore-lavoro di un libro è costituito dal lavoro incorporato nella carta, nella colla, ecc., ossia dal lavoro indirettamente necessario, più il lavoro direttamente necessario, ossia il lavoro mediante il quale carta, colla, ecc., diventano un libro. In generale, i valori-lavoro delle merci non sono proporzionali ai valori di scambio. Ad esempio, se un libro e un cuscinetto a sfera contengono la stessa quantità di lavoro, ciò non implica che un libro si scambi contro un cuscinetto a sfera. Questo è il problema, diventato famoso, della trasformazione dei valori nei prezzi. I valori, secondo Marx, non sono immediatamente uguali ai prezzi. Però i prezzi possono essere ottenuti a partire dai valori. Anzi, secondo Marx non possono essere ottenuti altrimenti (v. Marx, 1867-1894, vol. I, cap. 1; v. Lippi, 1976).

Qui non possiamo addentrarci nei dettagli del problema. Abbiamo soltanto bisogno di un'importante proposizione della teoria marxiana. Pur non essendo i valori uguali ai prezzi per le singole merci, per gli aggregati si ha uguaglianza. Ciò significa che il capitale aggregato misurato mediante i prezzi è uguale al capitale aggregato misurato mediante i valori, e che, allo stesso tempo, la produzione complessiva misurata in prezzi è uguale alla produzione complessiva misurata in valori. Questo implica immediatamente che il profitto complessivo misurato in prezzi è uguale al plusvalore aggregato, ossia alla somma dei profitti misurati in valore. A sua volta ciò implica che il saggio del profitto, ossia il rapporto tra profitto e capitale anticipato, può essere determinato come dove

PV 
——,
C+V

è il plusvalore aggregato, C+V è il valore del capitale anticipato, distinto in valore dei mezzi di produzione, C, e valore dei salari anticipati, V. Questa è la soluzione di Marx al problema che Ricardo aveva risolto inizialmente assumendo che l'agricoltura producesse grano per mezzo di grano solamente. Anche in questo caso il saggio del profitto viene determinato senza risolvere simultaneamente il problema dei prezzi (v. Marx, 1867-1894, vol. III, cap. 9).

Una piccola modifica alla formula appena scritta ci consentirà di esporre la teoria della caduta del saggio del profitto. Basta dividere numeratore e denominatore per V:

PV/V
———.
C/V+1

In questo modo vengono messe in evidenza due grandezze dotate di un importante significato economico. La prima è il rapporto PV/V, che Marx chiama indifferentemente 'saggio del plusvalore' o 'saggio di sfruttamento'. La seconda è C/V, che Marx chiama 'composizione organica del capitale'. Il saggio del profitto è tanto più alto quanto più alto è il saggio del plusvalore, e tanto più basso quanto più alta è la composizione organica.Il saggio del plusvalore è determinato dal livello del salario, che fissa il denominatore, e dalla lunghezza della giornata lavorativa, che fissa la somma di denominatore e numeratore. Dunque, si può dire che il saggio del plusvalore riflette in parte il rapporto di forza che via via si stabilisce tra capitalisti e salariati, e in parte lo sviluppo della produttività nella produzione dei beni-salario. Infatti, se questi ultimi vengono prodotti più a buon mercato e la giornata lavorativa non cambia, la grandezza V diminuisce, PV aumenta di conseguenza, e così fa il saggio del plusvalore. Anche se le condizioni di vita dei salariati non sono mutate, essi 'costano meno' e il saggio del profitto aumenta. Se, invece, quando i beni-salario scendono di prezzo i salariati riescono a imporre la loro 'partecipazione', la grandezza PV/V può rimanere immutata (come, si direbbe oggi, in una politica dei redditi).

Si supponga che PV/V rimanga più o meno costante nel tempo. Allora i mutamenti del saggio del profitto sono determinati esclusivamente dai movimenti della grandezza C/V, la composizione organica. Questo rapporto riflette l'importanza relativa dei mezzi di produzione rispetto al lavoro vivo. Esso, secondo Marx, aumenta a mano a mano che il progresso tecnico impone tecniche in cui le macchine sostituiscono gli uomini: la parte del valore delle merci costituita dal valore dei mezzi di produzione e dal logorio delle macchine diventa una porzione sempre più grande. Ciò produce una caduta progressiva del saggio del profitto. A sua volta tale caduta finisce per scoraggiare i capitalisti dal fare investimenti in macchine e progresso tecnico, fino a quando la gigantesca macchina dell'accumulazione si arresta. Così attraverso crisi sempre più frequenti il capitalismo giunge alla sua fase finale e libera un nuovo, più avanzato modo di produzione. Bisogna notare che la ragione della crisi non sta nel progresso tecnico come tale, ma, come si è anticipato, nel fatto che i capitalisti sono mossi dal motivo del profitto individuale: è questo che alla fine provoca il crollo (v. Marx, 1867-1894, vol. III, cap. 14).

Anche in questo caso, entrare nei particolari della teoria di Marx, delle obiezioni che a essa sono state mosse, va oltre i limiti di una breve esposizione. Ma ciò che interessa qui è la teoria di Marx come esempio di micro e macroanalisi. La microanalisi di Marx si arricchisce, rispetto a quella di Ricardo, per il fatto che il progresso tecnico viene reso, come si dice, endogeno. Ciò significa che, mentre per Ricardo il progresso tecnico influenza il sistema economico ma non è influenzato da questo, per Marx la ricerca del profitto spinge i capitalisti a trasformare il progresso scientifico in progresso tecnico e a promuovere lo stesso progresso scientifico. In questo senso il progresso scientifico e quello tecnico sono causati (anche se non del tutto) dal progresso economico e sono quindi endogeni.

Questo aspetto della teoria di Marx non solo costituisce un'innovazione rispetto a Ricardo, ma è addirittura profetico. La circolarità di causazione tra sviluppo economico e tecnico-scientifico troverà infatti più ampia realizzazione soltanto nel nostro secolo. Ed è soltanto di recente che tutto ciò è entrato a far parte dell'economia accademica (v. Schumpeter, 1912 e 1939; v. Metcalfe, 1987; v. Romer, 1986). La teoria della caduta del saggio del profitto invece non ha avuto conferma empirica, ed è stata confutata anche sul piano analitico. Essa resta tuttavia un esempio tra i più notevoli di utilizzazione della microanalisi - la ricerca del profitto come causa del progresso tecnico - al fine di giungere a conclusioni su grandezze macroeconomiche: il saggio del profitto, il saggio di accumulazione.

3. La teoria neoclassica dell'occupazione e la critica di Keynes

Due aspetti della teoria classica appena esposta vanno sottolineati. In primo luogo, l'attenzione è rivolta al comportamento del sistema nel lungo periodo. Dunque si può fare astrazione da oscillazioni temporanee della produzione e della occupazione. In secondo luogo, la relazione che passa tra micro e macroanalisi è molto semplice e diretta. L'argomento di questo capitolo è il ciclo economico, cioè proprio le oscillazioni di produzione e occupazione attorno alla tendenza di lungo periodo. Come è possibile che periodicamente larghe masse di lavoratori si trovino disoccupate e gli impianti soltanto parzialmente utilizzati? E come è possibile che tali situazioni durino relativamente a lungo, malgrado gli sforzi dei governi per uscirne? Cominceremo esponendo la teoria neoclassica, ossia quella corrente di pensiero che si è affermata a partire dalla fine del secolo scorso fino ai nostri giorni come il punto di riferimento accademico più importante. Vedremo poi la critica mossa alla teoria neoclassica dal famoso economista e pensatore politico John Maynard Keynes (1883-1946) negli anni trenta. Tale critica è tanto più interessante in questa sede in quanto non è rivolta ai fondamenti della teoria, ma al modo in cui i neoclassici trattano il rapporto tra micro e macroanalisi. Subito dopo esporremo un'importante controcritica di parte neoclassica, che ha avuto di recente un notevole successo, e una critica ulteriore alla teoria neoclassica, che si basa sulle interdipendenze tra i diversi settori dell'economia.

a) La funzione di produzione e la determinazione del salario

Nella teoria classica della produzione, in ogni istante di tempo, normalmente, ciascuna merce viene prodotta secondo una precisa 'ricetta'. Per produrre una vite occorre una data quantità di lavoro, una data quantità di metallo, una determinata macchina, ecc. Tutte le volte che viene inventato un nuovo metodo di produzione, questo si sostituisce progressivamente al vecchio finché non lo soppianta del tutto. Si passa quindi da date proporzioni tra lavoro e altri mezzi di produzione ad altre proporzioni, ma, a parte i periodi di transizione tra un metodo e un altro, le proporzioni sono fisse.

La teoria neoclassica della produzione si basa invece sull'idea che in ogni istante le imprese abbiano a disposizione molti metodi di produzione. In particolare esse possono scegliere, in ogni momento, tra metodi ad alta intensità di lavoro e metodi a bassa intensità di lavoro e alta intensità di capitale. Si può produrre il grano con un aratro tradizionale e molto lavoro, oppure con un trattore moderno e una (relativamente) piccola quantità di lavoro; oppure, ancora, con una vasta gamma di metodi intermedi. La relazione che passa tra prodotto e mezzi di produzione impiegati è nota come funzione di produzione. Data una quantità di prodotto, la funzione di produzione consente di determinare tutte le combinazioni dei mezzi di produzione e del lavoro che forniscono proprio quella quantità.

Come è possibile per le imprese decidere quale metodo adottare? Tutto dipende dai prezzi relativi dei mezzi di produzione e del lavoro. In particolare, se il lavoro è relativamente caro, le imprese tenderanno a impiegare metodi a bassa intensità di lavoro, ovvero ad alta intensità di capitale. Viceversa, se il lavoro è relativamente a buon mercato, le imprese impiegheranno metodi ad alta intensità di lavoro. Esiste una stretta analogia nella teoria neoclassica tra il modo in cui è trattata la produzione e la teoria del consumo. Salvo eccezioni di minore importanza, tutte le volte che i prezzi relativi cambiano i consumatori acquistano maggiori quantità delle merci il cui prezzo è relativamente diminuito, a sfavore di quelle il cui prezzo è relativamente aumentato (v. ad esempio Varian, 1992³, capp. 1-4 per la teoria della produzione, capp. 7-9 per la teoria del consumatore; sulla relazione tra salario e occupazione v. § 3c).

Nella teoria neoclassica prima di Keynes la microanalisi dell'impresa che abbiamo appena visto veniva estesa tranquillamente a una proposizione riguardante gli aggregati. Se il salario cresce relativamente ai prezzi degli altri fattori, l'impresa impiega una minore quantità di lavoro, e viceversa se il salario scende. Lo stesso deve accadere, secondo i neoclassici, per l'economia nel suo complesso. Di conseguenza, se vi sono lavoratori disoccupati, si tratta o di un fenomeno passeggero, durante un assestamento dell'economia causato ad esempio da un cambiamento di gusti dei consumatori; oppure del fatto che il salario non può scendere fino al suo 'giusto' livello. Quest'ultimo, ossia il salario di equilibrio, è quello per il quale le imprese scelgono quei metodi che garantiscono la piena occupazione del lavoro.

La critica di Keynes non si rivolge alla proposizione che per ciascuna impresa la domanda di lavoro è inversamente dipendente dal salario. Essa si concentra sull'estensione di tale proposizione dall'analisi dell'impresa alla economia nel suo complesso, dalla micro alla macroanalisi. In effetti, quando si afferma che un'impresa domanda una maggiore quantità di lavoro se il salario scende, si ragiona assumendo in modo implicito che la produzione dell'impresa sia data e non debba variare per effetto della discesa del salario. Ciò non è del tutto esatto, ma non abbiamo bisogno di ulteriori dettagli per questa esposizione sintetica. Quindi, a produzione data, se il lavoro diventa più a buon mercato le imprese ne domandano una quantità maggiore. Ad esempio, se nell'industria della ceramica il salario scende, la teoria neoclassica prevede, per quell'industria, un aumento dell'occupazione. E ciò non è scorretto, perché la discesa del salario per i lavoratori della ceramica non ha alcuna influenza sulla domanda di prodotti del settore: in effetti, la domanda di prodotti di ceramica proviene dall'intera economia nazionale ed estera. Non solo, ma se la riduzione del salario si traduce in una discesa dei prezzi dei prodotti in ceramica, è possibile che la produzione aumenti, cosicché al primo effetto positivo (maggiore domanda di lavoro per via di un salario diminuito) se ne somma un secondo (maggiore produzione per via di un prezzo diminuito).

Lo stesso ragionamento non può essere applicato se invece è il salario dell'intera economia a scendere. È vero che ogni impresa tenderebbe a impiegare una maggiore quantità di lavoro se la quantità prodotta rimanesse immutata, ma una quantità immutata di prodotto non può più essere presa come ipotesi. Se il salario di tutti i lavoratori scende, cosa accade alla produzione di beni di consumo? Possiamo affermare che rimarrà immutata? La risposta è affermativa se l'occupazione aumenta in modo tale da compensare il diminuito reddito per lavoratore, negativa se ciò non accade. In ogni caso, poiché il problema è l'occupazione, l'ipotesi che la produzione di beni di consumo rimanga immutata renderebbe l'intero ragionamento logicamente circolare e quindi scorretto.

Da questa circolarità implicita nella teoria neoclassica dell'occupazione parte e si sviluppa la critica di Keynes. La teoria dell'impresa non può essere estesa all'economia nel suo complesso. Nel caso della ceramica l'ipotesi di produzione data non è irragionevole poiché si tratta di una parte minuscola se confrontata con l'economia nazionale. Ma quando si passa a considerare il salario di tutti i lavoratori dobbiamo tener conto del fatto che il salario è il costo del lavoro per le imprese, ma è anche il reddito dei lavoratori. La discesa del costo incoraggia le imprese a occupare un maggior numero di lavoratori, ma la discesa del reddito fa cadere la domanda che si rivolge alle imprese, e quindi agisce in direzione opposta sull'occupazione. È questa duplice natura del salario come costo e come reddito che rende il rapporto tra micro e macroanalisi non banale (v. Keynes, 1936, cap. 19).

Tuttavia una critica al metodo mediante il quale una conclusione viene raggiunta non costituisce necessariamente una confutazione della conclusione. In altri termini, una volta emendato il modo ingenuo in cui i neoclassici mettevano in rapporto micro e macroanalisi, la tesi secondo cui la discesa del salario favorisce l'occupazione può essere mantenuta oppure no? La risposta di Keynes è negativa: la cura per la depressione economica, e la conseguente disoccupazione, non sta in una discesa dei salari ma in un consapevole intervento pubblico a favore della domanda, e in particolare a favore degli investimenti in nuovo capitale. L'argomentazione di Keynes non può essere riprodotta qui in modo preciso per ovvie ragioni di spazio. È possibile però un'elencazione schematica delle idee su cui è basata.

1. Il reddito percepito dalle famiglie si divide in una parte consumata e una parte risparmiata.

2. Il prodotto complessivo dell'economia si divide in una parte destinata al consumo e una parte destinata all'investimento.

3. Le decisioni di risparmio vengono prese dalle famiglie, le decisioni di investimento dalle imprese. Questa separazione implica che non esiste un coordinamento a priori tra risparmio e investimento. L'ammontare dei risparmi obbedisce a una legge psicologica elementare e dipende in modo meccanico dal reddito: all'aumentare di questo la frazione risparmiata tende ad aumentare, e comunque non diminuisce. Gli investimenti dipendono invece dal saggio di interesse, da elementi oggettivi concernenti la produzione, ma anche, in modo cruciale, dal grado di fiducia degli imprenditori nell'andamento degli affari nel futuro.

4. Supponiamo che il sistema si trovi in uno stato di piena occupazione e che improvvisamente vi sia un aumento della propensione a risparmiare. Ciò causa inizialmente una caduta del consumo e di conseguenza una caduta della produzione nel settore che produce beni di consumo. A sua volta ciò genera disoccupazione e quindi una ulteriore caduta di domanda. Per riportare il sistema verso la piena occupazione occorrerebbe un aumento degli investimenti, in modo da bilanciare l'aumento della propensione a risparmiare, ma la situazione di depressione che nel frattempo si è creata non favorisce gli investimenti; al contrario, li sfavorisce perché induce gli imprenditori al pessimismo.

5. In un lungo periodo di tempo il meccanismo neoclassico di sostituzione di lavoro a capitale potrebbe aiutare se il salario scendesse abbastanza. Tuttavia, in primo luogo, la discesa del salario non può avvenire senza che le relazioni industriali siano turbate, il che causa incertezza e quindi danneggia ulteriormente la fiducia; in secondo luogo, gli effetti immediati di una discesa del salario sono sfavorevoli all'occupazione: infatti diminuisce il reddito dei lavoratori come quota del reddito complessivo, e ciò fa aumentare la propensione a risparmiare (v. Keynes, 1936, cap. 19).

6. Se si vuole uscire dalla depressione in un periodo di tempo ragionevole è quindi necessario un intervento esterno consapevole che rompa il circolo vizioso. In particolare, la spesa pubblica può svolgere un ruolo anticiclico se si espande quando l'economia rischia di piombare nella depressione e si contrae quando l'economia si sviluppa regolarmente.

La General theory of employment, interest and money, in cui Keynes espose sistematicamente le sue tesi, rappresentò una vera e propria rivoluzione nell'economia politica e nella politica economica. In primo luogo, la parsimonia, fino allora una virtù indiscussa, veniva indicata come una concausa delle ricorrenti depressioni delle economie capitalistiche: è infatti il risparmio, in quanto non coordinato con l'investimento, a creare il problema di domanda che genera la depressione; e tanto più è alta la propensione a risparmiare, tanto più alto è l'investimento che deve essere effettuato per avere piena occupazione. In secondo luogo, la capacità del mercato di correggere spontaneamente qualsiasi squilibrio veniva negata con grande energia. Contrariamente all'opinione tradizionale, il mercato non conduce necessariamente alla piena occupazione. Come abbiamo visto, soltanto un'errata concezione del rapporto tra micro e macroanalisi aveva sorretto, secondo l'opinione di Keynes, la fiducia dei neoclassici negli automatismi del mercato.

La principale conseguenza della rivoluzione keynesiana consiste in una politica economica fortemente interventista. Il governo non deve soltanto garantire che la concorrenza si svolga in modo corretto: è necessario che agisca consapevolmente contro la disoccupazione. In particolare, gli interventi pubblici in infrastrutture non hanno solo lo scopo di aumentare la produttività generale, ma anche quello di contrastare la tendenza del capitalismo alla depressione del livello di attività.

b) Una reazione recente alla critica keynesiana: le aspettative razionali

La critica di Keynes al punto di vista tradizionale ha costituito il punto di partenza di una letteratura vastissima, e di una divisione degli economisti in campi fortemente contrapposti. Da una parte si è cercato di proseguire sulla strada indicata da Keynes, dall'altra di respingere o minimizzare le sue obiezioni.Una controcritica, che ha avuto di recente un grande successo soprattutto negli Stati Uniti, ha per oggetto il modo in cui Keynes tratta le aspettative degli imprenditori. Nella General theory si assume che la situazione prevalente nel passato più recente venga proiettata dagli imprenditori nel futuro. Di conseguenza la depressione tende ad autoalimentarsi: se il livello della domanda e dei profitti è basso, gli imprenditori si aspettano che continui a essere basso e non investono. Ma proprio i mancati investimenti causano un basso livello della domanda, e così via. Ora, si è sostenuto, questo modo di trattare le aspettative pecca per semplicismo. Perché gli imprenditori non dovrebbero accorgersi che l'economia ha un andamento ciclico, e tentare di mettere a frutto questa conoscenza? Per quale ragione agenti economici razionali non dovrebbero utilizzare al meglio le informazioni che possono raccogliere sugli andamenti passati dell'economia? Ad esempio, essi sanno che la depressione non dura in eterno; sono perciò in grado di prevederne la fine e hanno ovviamente interesse ad anticipare gli eventi: se la domanda è destinata a crescere conviene avere investito per tempo.

La teoria delle aspettative razionali, introdotta dagli economisti John Fraser Muth e Robert Lucas tra gli anni sessanta e settanta (v. Muth, 1960 e 1961; v. Lucas, 1976; v. Sargent, 1987), costituisce la base per una ripresa del punto di vista tradizionale sull'occupazione e sul ciclo economico. La critica keynesiana, sostengono gli economisti di questa scuola, è basata sulla ipotesi che gli agenti economici non sfruttino appieno le occasioni di profitto e le informazioni a disposizione. Non appena le assunzioni di razionalità e di efficienza vengano ripristinate e sviluppate, non vi è alcun motivo per pensare che il mercato abbia bisogno di interventi esterni per condurre l'economia verso la piena occupazione.

Come è facile capire, si tratta di tesi molto controverse, sia sul piano della teoria che su quello dell'interpretazione dei fatti economici. Non vi è dubbio che l'idea di aspettative razionali contiene un'indicazione di ricerca di grande interesse: gli agenti economici tentano di 'imparare' dall'esperienza e di modificare i propri comportamenti sulla base dell'apprendimento. Questo tuttavia non implica necessariamente che essi riescano ad approdare alla stessa interpretazione degli eventi passati e alle stesse aspettative degli eventi futuri.Anche in questo caso ci troviamo di fronte a un problema di coordinamento di comportamenti individuali e quindi di rapporto tra micro e macroanalisi. Consideriamo un singolo agente economico. Possiamo supporre che i suoi comportamenti non influenzino il resto dell'economia e quindi che l'andamento delle grandezze che gli interessano possa essere preso come dato. Non è difficile ammettere che, se esistono regolarità, ad esempio nell'andamento del saggio di inflazione, l'agente alla lunga sia in grado di fare buone previsioni sul livello dei prezzi; oppure, se si tratta di un'impresa esportatrice, che impari a riconoscere le regolarità nel tasso di cambio della lira contro il dollaro.Fin qui non ci sono obiezioni importanti. Cosa accade però quando prendiamo in esame tutti gli agenti contemporaneamente? Possiamo dire che, poiché ciascuno di essi impara a prevedere gli andamenti del resto dell'economia, tutti imparano contemporaneamente? La risposta è negativa, o, almeno, non può essere immediatamente affermativa, come se bastasse 'sommare' gli apprendimenti individuali per avere l'apprendimento collettivo. Ora infatti ciascuno tenta di capire come si comporta il resto dell'economia, ma questa è composta da una moltitudine di altri agenti, ciascuno dei quali tenta, a sua volta, di fare la stessa cosa. Allora molti si renderanno conto del fatto che bisogna capire non solo il modo in cui l'economia si comporta, ma anche il modo in cui gli altri pensano che l'economia si comporti, poiché anche da questo dipende l'economia. Ma se tutti fanno questo, la situazione diventa molto più complessa di quanto non sia quando viene analizzato un agente soltanto.

Anche in questo caso dunque il passaggio dalla micro alla macroanalisi è tutt'altro che immediato. Prova ne sia il fatto che molto spesso la moderna macroeconomia ricorre alla semplificazione estrema di supporre che esista un solo agente, il cosiddetto agente rappresentativo. Con ciò però il problema del rapporto tra micro e macroanalisi, più che risolto, viene eliminato in partenza (sulle recenti controversie riguardanti le aspettative v. Frydman, 1982; v. Pesaran, 1987).

c) Le interdipendenze settoriali e la critica alla funzione aggregata di produzione

Come abbiamo visto, Keynes non criticava l'uso della funzione di produzione da parte dei neoclassici, ossia l'idea che a un salario più basso corrisponde una maggiore domanda di lavoro, a produzione data. La sua obiezione era che l'economia non riesce a muoversi verso la nuova posizione, cioè resta, per così dire, intrappolata nella depressione. A partire dagli anni sessanta, sotto l'impulso di Produzione di merci a mezzo di merci di Piero Sraffa, è stata sviluppata una teoria più radicale, che nega la relazione fondamentale neoclassica tra livello del salario e domanda aggregata di lavoro. Per illustrare il problema facciamo ricorso di nuovo all'economia semplificata in cui si produce soltanto grano per mezzo di grano e lavoro (v. § 2a). La teoria neoclassica suppone che esista una moltitudine di metodi di produzione: questi possono essere ordinati in modo univoco secondo l'intensità di lavoro, ossia il rapporto tra lavoro e grano nella produzione di una unità di grano. È evidente che più il lavoro è a buon mercato maggiore è il rapporto lavoro/grano scelto dai capitalisti, quindi più basso è il salario maggiore è la domanda di lavoro, data la produzione.Il problema è: possiamo estendere questo risultato a una economia multisettoriale? La risposta è negativa in generale, e le ragioni sono le seguenti.

1. In un'economia multisettoriale ogni settore impiega come mezzi di produzione i prodotti di altri settori (interdipendenza tra settori); inoltre, diversi settori possono impiegare gli stessi mezzi di produzione ma non nelle stesse proporzioni. Ad esempio, per produrre il ferro si usano, tra l'altro, il ferro e il carbone, e lo stesso per produrre il carbone; però le proporzioni di ferro e carbone impiegate sono diverse nei due settori.

2. Come conseguenza il capitale non può essere misurato se non in valore, cioè utilizzando i prezzi dei prodotti che lo compongono.

3. D'altra parte, i prezzi dei prodotti variano al variare del salario; quindi la grandezza del capitale, che dipende dai prezzi come appena visto, varia al variare del salario. A causa di ciò può accadere che i vari metodi di produzione non possano più essere ordinati secondo il rapporto lavoro/capitale, e dunque la semplice relazione valida nell'economia a un solo settore può non valere quando i settori sono molti.Il punto cruciale qui è che i prezzi variano quando varia il salario. Un semplice esempio è sufficiente a spiegare la ragione di ciò. Partiamo da un dato livello del salario e dai prezzi corrispondenti. Questi ultimi, va ricordato, debbono assicurare un saggio del profitto uniforme tra i settori (v. § 2a). Supponiamo che nel settore del carbone il rapporto tra capitale e lavoro sia, a quei prezzi, di 1 a 1, e che tale rapporto sia invece di 2 a 1 nel settore che produce ferro. Se il salario scende, il costo nel settore del carbone scende, in proporzione, più di quanto scenda nel settore del ferro. Quindi, se i prezzi non cambiano, il saggio del profitto nel settore del carbone diventa più alto che nel settore del ferro. A prima vista sembra che la soluzione del problema stia in una caduta del prezzo del carbone rispetto a quello del ferro. Tuttavia, se ciò avviene, cambiano anche i valori del capitale nei due settori: infatti carbone e ferro sono mezzi di produzione, oltre che prodotti.

Non è possibile approfondire qui ulteriormente questo tema. Quanto visto è sufficiente a illustrare un caso importante in cui la considerazione delle interdipendenze, che è necessaria quando si affronta la teoria macro, può rovesciare i risultati ottenuti in un modello unisettoriale, in cui micro e macroteoria sono per definizione identiche. (Per un'esposizione della discussione sulla teoria del capitale suscitata dal libro di Sraffa, v. Kurz, 1987; per una trattazione generale della teoria delle interdipendenze settoriali, v. Pasinetti, 1975).

4. Problemi di convergenza verso le posizioni di equilibrio

Come abbiamo visto nel cap. 3, la consapevolezza del fatto che la microanalisi non può essere sempre estesa alla macroanalisi in modo diretto è piuttosto recente: essa risale infatti alla General theory. Tuttavia, negli ultimi decenni sono stati compiuti notevoli passi in avanti nella chiarificazione di problemi lasciati aperti dagli economisti del secolo scorso e dei primi decenni del Novecento. In questo capitolo esporremo brevemente due casi interessanti in cui sorgono difficoltà nel rapporto tra micro e macroanalisi: la teoria classica dei prezzi di produzione e dei prezzi di mercato, e la stabilità di un equilibrio generale neoclassico.

a) Prezzi di produzione e prezzi di mercato

Come si è visto nel cap. 2, secondo Ricardo, e secondo tutti gli economisti classici, la libertà di movimento dei capitali da un settore di produzione all'altro assicura il medesimo saggio del profitto per tutti i settori. Questa affermazione non significa che in ogni istante il saggio del profitto sia uniforme; significa che esiste una tendenza all'uniformità, ossia che le differenze, quando si verificano, tendono a sparire. Ad esempio, se i cappelli da uomo diventano improvvisamente fuori moda, inizialmente il prezzo dei cappelli da uomo cade a causa della domanda diminuita, a cui fa fronte una offerta immutata. Ciò però causa una uscita di capitale dal settore dei cappelli da uomo e quindi una contrazione dell'offerta. Quando questa si sia adeguata al più basso volume della domanda il prezzo torna al suo livello naturale, cioè eguaglia il prezzo di produzione.I classici chiamavano prezzo di produzione il prezzo che assicura il medesimo saggio del profitto in tutte le industrie, e prezzi di mercato i prezzi che temporaneamente si affermano come risultato dell'incontro di domanda e offerta. I prezzi di mercato, secondo i classici, gravitano attorno ai prezzi di produzione: i capitali escono dai settori in cui il saggio del profitto è più basso della media e si dirigono dove è più alto; in questo modo l'offerta aumenta dove i prezzi sono alti e fa scendere il prezzo, mentre cade e fa salire i prezzi dove questi sono bassi. Questo è il meccanismo che secondo i classici assicura la gravitazione, ossia il fatto che nessuna discrepanza può permanere a lungo.Ma le cose non sono così semplici. Anche qui la macroanalisi riserva sorprese, a causa del fatto che le industrie non soltanto producono e offrono un prodotto, ma, anche, domandano prodotti come mezzi di produzione. È vero che l'afflusso di capitale in un settore causa una caduta del prezzo di quel prodotto, ma cosa accade ai prezzi dei prodotti che vengono usati come mezzi di produzione per quel settore?

Supponiamo che nel settore A vi sia un saggio del profitto più alto della media e nel settore B più basso. I capitali si spostano da B ad A. Supponiamo che sia A che B adoperino acciaio come mezzo di produzione, che questo sia prodotto in C, e che il settore A ne adoperi per unità di capitale molto meno del settore B. L'afflusso di capitale da B ad A fa cadere la domanda di acciaio e quindi, inizialmente, fa cadere anche il prezzo dell'acciaio. Come conseguenza, il costo di produzione in A diminuisce. Si hanno quindi due tendenze contrapposte: l'aumento dell'offerta in A fa cadere il prezzo e il saggio del profitto; però la caduta del prezzo dell'acciaio fa cadere il costo e quindi fa aumentare il saggio del profitto (v. Boggio, 1990; v. Lippi, 1990).

Non possiamo trattare più a fondo questo problema. Basterà segnalarlo come un altro importante esempio di relazione non banale tra micro e macroanalisi. Ciò che a lungo è stato considerato pacifico, la gravitazione dei prezzi di mercato verso i prezzi di produzione, si rivela pacifico solo se si ignorano le complicazioni che vengono dal fatto che i prezzi sono anche costi. Questa consapevolezza appartiene agli ultimi decenni, non al secolo scorso, né agli economisti classici.

b) La convergenza all'equilibrio generale neoclassico

Nella seconda metà del secolo scorso fu elaborato il sistema teorico neoclassico. Abbiamo già parlato della differenza dall'economia politica classica nella teoria della produzione, e abbiamo anche accennato alla teoria neoclassica del consumo. Consideriamo ora le cose più dettagliatamente. La teoria classica vedeva il consumo come determinato fondamentalmente dalle abitudini: i beni di lusso per le classi abbienti, i beni di prima necessità per i lavoratori. La teoria neoclassica affronta la questione da un punto di vista più astratto e generale. Un consumatore, quale che sia la fonte del suo reddito, è dotato di un sistema di preferenze, o gusti, che si manifesta nel fatto che, date due combinazioni qualsiasi di beni, egli è in grado di stabilire quale preferisce. Se sono dati il suo reddito e i prezzi dei beni, il consumatore sceglie la combinazione dei beni che lo soddisfa di più, compatibilmente con il fatto che il valore complessivo dei beni acquistati non può eccedere il suo reddito. Come si dice nel linguaggio della teoria, il consumatore massimizza la sua utilità sotto il vincolo di bilancio. Dunque, dato il reddito e i prezzi (e dati i gusti), la teoria neoclassica stabilisce quanto il consumatore desidera acquistare di ciascun bene.

Rispetto a quella classica, si tratta di una teoria molto più complessa, per la quale è possibile una formulazione matematica: possono essere stabiliti assiomi e dimostrati teoremi. Una domanda importante è la seguente: cosa prevede la teoria se uno dei prezzi aumenta mentre tutti gli altri prezzi e il reddito restano uguali? Ci aspettiamo che la domanda del bene il cui prezzo è aumentato diminuisca, e comunque che non aumenti. E in effetti la risposta della teoria è questa, salvo eccezioni che possono essere considerate di poco rilievo. Dunque, se si escludono tali eccezioni, la teoria risponde in modo soddisfacente: il comportamento della domanda è tale da assicurare stabilità ai mercati. Infatti, se il prezzo è troppo basso, la domanda è alta, se è alto, la domanda è bassa.

Di nuovo però questa risposta non regge se dalla analisi di un singolo consumatore passiamo all'analisi di tutti i consumatori contemporaneamente. Infatti, la conclusione che la domanda dipende inversamente dal prezzo viene raggiunta nella teoria supponendo che siano dati tutti gli altri prezzi e il reddito del consumatore. Se vogliamo analizzare il comportamento di un singolo mercato questo può essere legittimo. In altri termini, se partiamo da una situazione di equilibrio in tutti i mercati e supponiamo che uno solo di essi venga leggermente perturbato, possiamo pensare che gli altri mercati e i redditi non ne risentano. Ad esempio, tutti i mercati sono in equilibrio eccetto il mercato dell'insalata, per la quale si è verificata una produzione molto bassa per cause meteorologiche. Il prezzo dell'insalata deve crescere e supponiamo che ciò accada, ma non in misura tale da compensare la diminuita quantità, cosicché il reddito dei produttori di insalata diminuisce. Si dirà che in tal caso l'ipotesi di reddito dato per i consumatori non regge. Ma poiché i produttori di insalata sono una parte trascurabile dei consumatori, possiamo fare astrazione dal fatto che il loro reddito è calato, sia per quel che riguarda il mercato dell'insalata, sia per quel che riguarda gli altri mercati.

Questo giustifica le analisi cosiddette parziali. Ma se la questione riguarda il modo in cui si arriva all'equilibrio generale, ossia all'equilibrio simultaneo di tutti i mercati, partendo dallo squilibrio di tutti i mercati, allora bisogna tener conto del fatto che tutti i prezzi cambiano, e quindi che anche tutti i redditi cambiano, e l'analisi che abbiamo esposto a grandi linee non è più valida. E in effetti gli studi dedicati a questo problema, come quelli dedicati ai prezzi di produzione nei classici, non arrivano a conclusioni positive (v. Hildenbrandt e Kirman, 1988).

5. Conclusioni

La microanalisi studia gli agenti, fondamentalmente le imprese e le famiglie, isolatamente l'uno dall'altro. La macroanalisi studia il comportamento del sistema quando gli agenti vengono considerati contemporaneamente e quindi quando vengono prese in considerazione le interazioni tra le grandezze che riguardano gli individui. A lungo l'economia politica ha trattato le grandezze macro come se i comportamenti micro potessero essere, per così dire, sommati. A partire dagli anni trenta è stata acquisita la consapevolezza che ciò non è possibile. Ciò ha aiutato a comprendere gravi questioni di politica economica, prima fra tutte la disoccupazione, e a chiarire importanti questioni teoriche come l'esistenza di una funzione di produzione aggregata e la convergenza verso le posizioni di equilibrio.