Macro e Microanalisi
di Marco Lippi e Nicolò Addario
MACRO E MICROANALISI
Economia
di Marco Lippi
Sommario: 1. Introduzione. 2. Macro e
microanalisi negli economisti classici. a) David Ricardo e la
crescita della popolazione. b) Karl Marx e la caduta del
saggio del profitto. 3. La teoria neoclassica dell'occupazione
e la critica di Keynes. a) La funzione di produzione e la
determinazione del salario. b) Una reazione recente alla
critica keynesiana: le aspettative razionali. c) Le
interdipendenze settoriali e la critica alla funzione aggregata di
produzione. 4. Problemi di convergenza verso le posizioni di
equilibrio. a) Prezzi di produzione e prezzi di mercato. b) La convergenza all'equilibrio generale neoclassico. 5.
Conclusioni.
1. Introduzione
Il più importante oggetto di interesse per l'economia
politica è sempre stato costituito dalle grandezze
macroeconomiche, e cioè dalla somma, o aggregato, dei
redditi, dei consumi, degli investimenti, delle importazioni, delle
esportazioni; oppure il reddito pro capite, ossia il reddito
aggregato diviso per la popolazione, il consumo pro capite, ecc.; o,
ancora, il rapporto tra la massa dei disoccupati e la popolazione
attiva, ossia il saggio di disoccupazione; o, ancora, il rapporto
tra la popolazione attiva e la popolazione, ossia il saggio di
attività.
Il reddito pro capite può essere considerato un importante,
anche se molto imperfetto, indicatore del livello di benessere di
una nazione. Esso può servire per fare comparazioni tra
nazioni o per misurare lo sviluppo di un paese nel tempo.
Naturalmente nei confronti tra paesi o nel tempo sarà anche
importante conoscere il modo in cui il reddito è distribuito
tra i membri delle economie in questione. Il saggio di
disoccupazione può essere impiegato invece per valutare in
quale fase del ciclo economico l'economia si trovi in un dato
momento, ossia se l'economia stia attraversando un periodo di
depressione, di ripresa o di crescita sostenuta. Il livello del
reddito pro capite è la grandezza più importante
quando ci si occupa di paesi poveri, ossia di paesi in cui una gran
parte della popolazione deve ancora fronteggiare la fame, cattive
condizioni igieniche e sanitarie, la mancanza di alloggi decenti. Il
saggio di disoccupazione è una grandezza cruciale quando
l'attenzione sia rivolta ai paesi più avanzati, ossia a quei
paesi in cui la gran parte della popolazione può
tranquillamente soddisfare i suoi bisogni primari, ma che, tuttavia,
subiscono periodicamente un rallentamento della crescita.
Le grandezze macroeconomiche sono calcolate e rese pubbliche molto
frequentemente dagli istituti nazionali e internazionali di
statistica (quello italiano è noto come ISTAT, Istituto
Nazionale di Statistica). Per esempio, in Italia il reddito
nazionale è disponibile con frequenza trimestrale, l'indice
dei prezzi al consumo, che è una media dei prezzi dei beni di
consumo, ponderati per tener conto della loro importanza relativa,
con frequenza mensile.
Quando si hanno molti dati a disposizione, questi possono essere
sottoposti ad analisi statistica. Ciò significa che le
regolarità presenti in essi possono essere determinate e
usate per fare previsioni. Ad esempio, se il reddito nazionale
è cresciuto in media negli ultimi venti anni del 3 per cento,
si può ragionevolmente prevedere che la crescita media nel
prossimo quinquennio sarà non troppo lontana dal 3 per cento.
Oppure, se la disoccupazione si è mantenuta in passato al di
sopra del suo livello medio per periodi di circa un anno e mezzo, ed
è stata al di sopra della media negli ultimi 15 mesi, si
può prevedere un inizio della ripresa economica entro i
prossimi 2-6 mesi.
Il punto di vista dell'economia politica è diverso:
l'andamento dei dati macroeconomici deve essere spiegato sulla base
della teoria economica che si ritiene rilevante. La microanalisi
è lo studio dei comportamenti degli agenti economici, i
lavoratori, le imprese, le famiglie, gli intermediari commerciali e
finanziari, e dei mercati nei quali gli agenti entrano in contatto
tra di loro. La macroanalisi è lo studio delle grandezze
macroeconomiche basato sulla microanalisi.
I termini 'macroeconomia' e 'microeconomia' sono quelli usati
più spesso per indicare i due livelli teorici di cui sopra si
è detto. Tuttavia, poiché questi ultimi sono entrati
nell'uso in tempi relativamente recenti, e sono fortemente connotati
dall'indirizzo oggi più diffuso, è sembrato che
'macro' e 'microanalisi' fossero più adatti a descrivere un
panorama storico molto complesso.
2. Macro e microanalisi negli economisti classici
L'economia politica è stata ed è tuttora attraversata
da contrasti molto forti che riguardano sia la micro che la
macroanalisi. Un'esposizione equilibrata non può quindi che
procedere fornendo elementi di conoscenza sulle principali linee di
pensiero. Cominceremo dagli economisti classici e prenderemo come
esempi la teoria di Ricardo del salario e della popolazione, e la
teoria di Marx della caduta del saggio del profitto. In entrambi i
casi si vedrà come una semplice descrizione del comportamento
degli agenti economici sia la base per conclusioni che riguardano le
grandezze macroeconomiche.Entrambe le teorie che stiamo per esporre
hanno per oggetto l'andamento di un'economia capitalistica nel lungo
periodo. Le domande a cui gli economisti
classici tentavano di rispondere erano del tipo: la popolazione e il
benessere cresceranno senza limite, oppure l'economia e la
popolazione sono destinate a raggiungere uno stato stazionario? Il
sistema capitalistico è intrinsecamente vitale, oppure
esistono nel suo meccanismo di funzionamento difficoltà che
alla lunga causeranno il suo crollo?
a) David Ricardo e la crescita della popolazione
La rappresentazione dell'economia che è caratteristica
degli economisti classici è centrata su tre categorie di
agenti economici.I proprietari fondiari sono un residuo del passato
regime feudale. Essi danno in affitto la terra e ne ricavano una
rendita. Questa viene interamente consumata. Si tratta dunque di una
classe oziosa e, come vedremo, di un ostacolo allo sviluppo.I
capitalisti sono i proprietari dei mezzi di produzione diversi dalla
terra, ossia le macchine industriali e agricole e gli edifici in cui
si svolge la produzione. Essi pagano ai lavoratori il salario, ai
proprietari fondiari la rendita (quando sono capitalisti agricoli) e
organizzano la produzione. Il ricavo della vendita delle merci
prodotte, una volta dedotti i costi delle materie prime, del lavoro,
della terra, e il deprezzamento delle macchine e degli edifici,
costituisce il profitto, cioè il reddito dei capitalisti. Al
contrario dei proprietari fondiari i capitalisti sono frugali. Essi
consumano in modo da garantirsi un lusso moderato, e investono il
resto del profitto ottenuto, ossia destinano gran parte del profitto
all'accumulazione del capitale. Finché ciò accade essi
assicurano la crescita della occupazione e del benessere generale.
I lavoratori possiedono soltanto la forza della loro mente e delle
loro braccia. Questa forza lavoro viene venduta in cambio del
salario. I lavoratori consumano tutto il loro reddito, al pari dei
proprietari fondiari, anche se ciò accade per il motivo che
il salario è così basso da consentire soltanto di
consumare beni strettamente necessari per la sopravvivenza e la
riproduzione. Ciò naturalmente riflette il tempo in cui
questi economisti scrivono, tra la fine del XVIII e la prima
metà del XIX secolo.
Questo è lo sfondo della microanalisi degli economisti
classici. Naturalmente si tratta di astrazioni. Spesso le figure
descritte sopra si sovrappongono, come avviene ad esempio nel caso
di un contadino proprietario, che è al tempo stesso
proprietario fondiario, capitalista e lavoratore.La microanalisi va
ora completata mediante la descrizione del modo in cui gli agenti
economici entrano in rapporto gli uni con gli altri. Si suppone che
vi sia libertà di movimento per i capitali e per i
lavoratori, e che non esistano coalizioni di nessun genere; quindi i
lavoratori non sono associati in sindacati di categoria o nazionali,
e neppure i capitalisti di un settore o dell'intera economia fanno
accordi per aumentare la propria forza sul mercato. Si suppone
inoltre che nessun capitalista o proprietario fondiario sia
così importante da poter influenzare da solo i mercati in cui
interviene. Quando queste condizioni sono soddisfatte si parla,
nella teoria moderna, di concorrenza perfetta. Infine si suppone che
tutti gli agenti economici tentino di realizzare il più alto
reddito possibile, sia esso un salario, un profitto o una rendita.
Questo quadro microanalitico consente di raggiungere una
rappresentazione macro molto semplice e facile da elaborare. Se si
prescinde da fluttuazioni temporanee e da differenze di minore
importanza, l'economia è guidata da tre grandezze
fondamentali: il saggio del salario, il saggio del profitto e la
produttività sulle terre meno fertili messe a coltivazione.
Precisamente, le condizioni sopra enunciate sugli agenti economici
implicano che: 1) lavoratori di uguale specializzazione guadagnano
lo stesso salario (v. Ricardo, 1821³, cap. 5); 2) il saggio del
profitto, ossia il profitto diviso per il capitale anticipato,
è lo stesso per tutti i capitalisti (ibid., cap. 6); 3) terre
di uguale fertilità guadagnano la stessa rendita (ibid., cap.
2); 4) la terra meno fertile messa a coltivazione non guadagna
rendita (ibid., cap. 2).
Le prime tre proposizioni sono conseguenze della libertà di
movimento. Ad esempio, se in un settore produttivo il saggio del
profitto fosse del 20 per cento mentre nel resto dell'economia fosse
del 15 per cento, i capitalisti si sposterebbero nel settore a
più alto profitto, e ciò durerebbe fino a quando
questo si fosse allineato con il resto dell'economia. Lo stesso se
il salario in un'industria fosse più alto che nelle altre.
(Sulla proposizione 2 torneremo per un approfondimento nel cap. 4).
Per chiarire il motivo della proposizione 4 dobbiamo ricorrere a un
semplice schema. Supponiamo che la terra sia di due tipi, A e B, che
la terra A sia la più fertile, e che il volume della
produzione sia tale che soltanto la metà della terra B sia
messa a coltivazione. Sulla terra B non si paga rendita. In effetti,
se un proprietario di terra B pretendesse una rendita di x per
ettaro, un altro proprietario di terra B sarebbe disponibile a
offrirla a x/2, e così via. Poiché la terra B è
sovrabbondante rispetto alla produzione, la concorrenza tra i
proprietari fondiari spinge la rendita a zero.
La proposizione 4 è molto importante. Essa implica che si
può discutere di salari e profitti senza contemporaneamente
dover determinare la rendita. Infatti la produzione sulle terre meno
fertili, dedotti tutti i costi, si divide tra salari e profitti
soltanto. O, se si preferisce, per determinare salari e profitti si
può procedere come se la produzione agricola venisse tutta
dalle terre meno fertili.Sarebbe troppo complicato entrare nei
dettagli della determinazione di salario, profitto e prezzi. Si
può però usare una semplificazione, a cui del resto lo
stesso Ricardo fece ricorso, e cioè che il prodotto
dell'agricoltura sia solamente grano, il quale viene prodotto per
mezzo di grano soltanto; e che il salario sia anch'esso determinato
dalla quantità di grano che i lavoratori ottengono per il
loro consumo (v. Ricardo, 1815; v. Sraffa, 1951 e 1960; v. Dobb,
1973). Se questa semplificazione viene accettata, dato il salario
unitario, il profitto che va ai capitalisti per ogni lavoratore
impiegato è determinato come la differenza tra: a) il grano
prodotto per lavoratore sulle terre meno fertili e b) i costi,
rappresentati dal salario unitario e dal grano impiegato come mezzo
di produzione. Il saggio del profitto è (a)-(b) diviso per
(b), ossia il profitto diviso per il capitale anticipato dal
capitalista. L'efficacia della semplificazione sta nel fatto che il
profitto e il saggio del profitto vengono determinati senza fare
ricorso ad alcuna teoria dei prezzi; infatti si tratta soltanto di
sottrarre e dividere quantità di una stessa merce, il grano.
In conclusione, dato il salario, il profitto resta determinato come
residuo nella produzione sulle terre meno fertili. Ne segue che: 5)
quando il salario unitario cresce, data la produzione, il saggio del
profitto diminuisce; 6) quando la produzione aumenta e terre meno
fertili debbono essere messe a coltivazione, se il salario resta
costante il saggio del profitto diminuisce.Infine Ricardo definisce
il saggio naturale del salario come quel saggio del salario per cui
la popolazione dei lavoratori non aumenta né diminuisce,
ossia il salario che garantisce un livello di consumo per cui
soltanto la pura riproduzione è assicurata, ma nulla di
più.
Quanto visto finora, ossia la microanalisi e le proposizioni macro
sulle relazioni tra saggio del salario, saggio del profitto e
rendita, costituisce la base del pensiero di Ricardo. Da questa
discendono la sua teoria della popolazione e le sue convinzioni in
politica economica.
Partiamo da una situazione di prosperità. La popolazione
è scarsa rispetto alle terre coltivabili. Di conseguenza
soltanto terre molto fertili vengono messe a coltivazione.
Ciò implica che il prodotto agricolo disponibile per salari e
profitti, ossia il prodotto delle terre meno fertili messe a
coltivazione, è abbondante rispetto ai lavoratori impiegati,
cosicché un salario più alto del salario naturale
può essere pagato mentre, al contempo, i capitalisti sono
soddisfatti del saggio del profitto che ottengono.
Un alto saggio del profitto implica una robusta accumulazione del
capitale. L'aumento della popolazione conseguente all'alto saggio
del salario trova così corrispondenza nell'aumento del
capitale, della produzione e del fabbisogno di lavoro.Tuttavia, man
mano che la produzione aumenta, è necessario mettere a
coltivazione terre sempre meno fertili. Se il salario non scende, il
saggio del profitto deve scendere. Se quest'ultimo non scende, il
salario deve scendere. Se nulla interviene a modificare il quadro,
alla lunga il salario diminuisce fino a raggiungere il suo livello
naturale, e il saggio del profitto si riduce fino al punto in cui i
capitalisti non fanno più investimenti in nuovo capitale. La
situazione che viene raggiunta è dunque uno stato di
stagnazione, in cui la popolazione e il capitale rimangono costanti.
In particolare, bisogna insistere, i lavoratori vivono in condizioni
di pura riproduzione (v. Ricardo, 1821³, cap. 6).
La stagnazione verso cui procede il sistema capitalistico poteva
essere evitata, secondo Ricardo, dal progresso tecnico in
agricoltura, equivalente a un innalzamento della produttività
su tutte le terre, o dall'importazione di grano da paesi dotati di
terre più fertili. E ciò costituiva il motivo della
posizione politica di Ricardo a favore dell'abolizione dei dazi sul
grano in Inghilterra, che avrebbe danneggiato i proprietari fondiari
ma favorito le rimanenti classi sociali.Questo è uno
splendido esempio di analisi economica e di convinzione politica
basata sull'analisi economica. La microanalisi studia i
comportamenti individuali degli agenti economici, i mercati, e
prepara il terreno alla macroanalisi. Quest'ultima determina
l'andamento dei grandi aggregati. Nel caso di Ricardo, le
proposizioni da 1 a 6 sono semplici conseguenze della microanalisi e
consentono di raggiungere conclusioni sulla popolazione di un paese,
e di suggerire rimedi contro la prospettiva di una stagnazione.
b) Karl Marx e la caduta del saggio del profitto
Karl Marx aveva per Ricardo una grande ammirazione. Lo
considerava, assieme ad Adam Smith, un pensatore di valore
universale perché capace di superare i limiti dell'orizzonte
borghese in cui restava, a suo parere, gran parte dell'economia
politica.Marx, che scriveva circa cinquant'anni dopo Ricardo, aveva
studiato a fondo la rivoluzione industriale e riteneva che la teoria
stagnazionista di Ricardo fosse superata dal fatto che con lo
sviluppo del capitalismo il progresso tecnico non era più un
accadimento indipendente dal meccanismo economico. Nella
rappresentazione contenuta nel Capitale le imprese non si limitano
al movimento verso i settori a più alto saggio del profitto o
alla concorrenza sui prezzi. E neppure all'applicazione di regole
efficienti per la divisione del lavoro. Esse stimolano e utilizzano
il progresso scientifico al fine di ottenere drastiche riduzioni dei
costi. Chi è in grado di ridurre i costi per primo è
pure in grado di vendere a un prezzo più basso e di
conquistare una più ampia quota di mercato. La diffusione
della nuova tecnica elimina il vantaggio dell'impresa innovatrice;
resta il beneficio permanente del prezzo ribassato per la merce
prodotta. In questo contesto la scarsità di terra rispetto ai
bisogni della popolazione non costituisce più un limite
insuperabile. Se la quantità necessaria di beni agricoli
cresce con la popolazione, anche la produttività del lavoro
cresce - sia in generale che nell'agricoltura. Dunque il limite
costituito dalla scarsità di terra viene continuamente reso
meno severo dal progresso tecnico (v. Marx, 1867-1894, vol. III,
cap. 14).
A questa visione decisamente ottimistica, se confrontata con le
conclusioni di Ricardo sulla popolazione, si accoppia però
l'idea che il sistema capitalistico, a causa delle sue specifiche
caratteristiche come rapporto sociale di produzione, non è in
grado di sfruttare fino in fondo la possibilità di cui si
è detto sopra. In effetti in Marx, come già in Smith e
Ricardo, gli effetti benefici del capitalismo sull'intera
società non vengono ottenuti grazie alla benevolenza dei
capitalisti o dei governi. Anzi, è la sete di guadagno
individuale che spinge i capitalisti a introdurre innovazioni e
quindi ad abbassare il costo della sussistenza e, di conseguenza, a
opporre un prodotto sempre più abbondante a una popolazione
crescente. Come vedremo, la spinta del profitto individuale finisce,
secondo Marx, per entrare in un conflitto insanabile con il
progresso tecnico, causando alla lunga una crisi irreversibile del
sistema.
Per capire la teoria di Marx bisogna ricordare alcuni aspetti
cruciali della sua costruzione. Il valore-lavoro delle merci
è costituito dalla quantità di lavoro necessaria,
direttamente e indirettamente, a produrle: ad esempio il
valore-lavoro di un libro è costituito dal lavoro incorporato
nella carta, nella colla, ecc., ossia dal lavoro indirettamente
necessario, più il lavoro direttamente necessario, ossia il
lavoro mediante il quale carta, colla, ecc., diventano un libro. In
generale, i valori-lavoro delle merci non sono proporzionali ai
valori di scambio. Ad esempio, se un libro e un cuscinetto a sfera
contengono la stessa quantità di lavoro, ciò non
implica che un libro si scambi contro un cuscinetto a sfera. Questo
è il problema, diventato famoso, della trasformazione dei
valori nei prezzi. I valori, secondo Marx, non sono immediatamente
uguali ai prezzi. Però i prezzi possono essere ottenuti a
partire dai valori. Anzi, secondo Marx non possono essere ottenuti
altrimenti (v. Marx, 1867-1894, vol. I, cap. 1; v. Lippi, 1976).
Qui non possiamo addentrarci nei dettagli del problema. Abbiamo
soltanto bisogno di un'importante proposizione della teoria
marxiana. Pur non essendo i valori uguali ai prezzi per le singole
merci, per gli aggregati si ha uguaglianza. Ciò significa che
il capitale aggregato misurato mediante i prezzi è uguale al
capitale aggregato misurato mediante i valori, e che, allo stesso
tempo, la produzione complessiva misurata in prezzi è uguale
alla produzione complessiva misurata in valori. Questo implica
immediatamente che il profitto complessivo misurato in prezzi
è uguale al plusvalore aggregato, ossia alla somma dei
profitti misurati in valore. A sua volta ciò implica che il
saggio del profitto, ossia il rapporto tra profitto e capitale
anticipato, può essere determinato come dove
PV
——,
C+V
è il plusvalore aggregato, C+V è il valore del
capitale anticipato, distinto in valore dei mezzi di produzione, C,
e valore dei salari anticipati, V. Questa è la soluzione di
Marx al problema che Ricardo aveva risolto inizialmente assumendo
che l'agricoltura producesse grano per mezzo di grano solamente.
Anche in questo caso il saggio del profitto viene determinato senza
risolvere simultaneamente il problema dei prezzi (v. Marx,
1867-1894, vol. III, cap. 9).
Una piccola modifica alla formula appena scritta ci
consentirà di esporre la teoria della caduta del saggio del
profitto. Basta dividere numeratore e denominatore per V:
PV/V
———.
C/V+1
In questo modo vengono messe in evidenza due grandezze dotate di
un importante significato economico. La prima è il rapporto
PV/V, che Marx chiama indifferentemente 'saggio del plusvalore' o
'saggio di sfruttamento'. La seconda è C/V, che Marx chiama
'composizione organica del capitale'. Il saggio del profitto
è tanto più alto quanto più alto è il
saggio del plusvalore, e tanto più basso quanto più
alta è la composizione organica.Il saggio del plusvalore
è determinato dal livello del salario, che fissa il
denominatore, e dalla lunghezza della giornata lavorativa, che fissa
la somma di denominatore e numeratore. Dunque, si può dire
che il saggio del plusvalore riflette in parte il rapporto di forza
che via via si stabilisce tra capitalisti e salariati, e in parte lo
sviluppo della produttività nella produzione dei
beni-salario. Infatti, se questi ultimi vengono prodotti più
a buon mercato e la giornata lavorativa non cambia, la grandezza V
diminuisce, PV aumenta di conseguenza, e così fa il saggio
del plusvalore. Anche se le condizioni di vita dei salariati non
sono mutate, essi 'costano meno' e il saggio del profitto aumenta.
Se, invece, quando i beni-salario scendono di prezzo i salariati
riescono a imporre la loro 'partecipazione', la grandezza PV/V
può rimanere immutata (come, si direbbe oggi, in una politica
dei redditi).
Si supponga che PV/V rimanga più o meno costante nel tempo.
Allora i mutamenti del saggio del profitto sono determinati
esclusivamente dai movimenti della grandezza C/V, la composizione
organica. Questo rapporto riflette l'importanza relativa dei mezzi
di produzione rispetto al lavoro vivo. Esso, secondo Marx, aumenta a
mano a mano che il progresso tecnico impone tecniche in cui le
macchine sostituiscono gli uomini: la parte del valore delle merci
costituita dal valore dei mezzi di produzione e dal logorio delle
macchine diventa una porzione sempre più grande. Ciò
produce una caduta progressiva del saggio del profitto. A sua volta
tale caduta finisce per scoraggiare i capitalisti dal fare
investimenti in macchine e progresso tecnico, fino a quando la
gigantesca macchina dell'accumulazione si arresta. Così
attraverso crisi sempre più frequenti il capitalismo giunge
alla sua fase finale e libera un nuovo, più avanzato modo di
produzione. Bisogna notare che la ragione della crisi non sta nel
progresso tecnico come tale, ma, come si è anticipato, nel
fatto che i capitalisti sono mossi dal motivo del profitto
individuale: è questo che alla fine provoca il crollo (v.
Marx, 1867-1894, vol. III, cap. 14).
Anche in questo caso, entrare nei particolari della teoria di Marx,
delle obiezioni che a essa sono state mosse, va oltre i limiti di
una breve esposizione. Ma ciò che interessa qui è la
teoria di Marx come esempio di micro e macroanalisi. La microanalisi
di Marx si arricchisce, rispetto a quella di Ricardo, per il fatto
che il progresso tecnico viene reso, come si dice, endogeno.
Ciò significa che, mentre per Ricardo il progresso tecnico
influenza il sistema economico ma non è influenzato da
questo, per Marx la ricerca del profitto spinge i capitalisti a
trasformare il progresso scientifico in progresso tecnico e a
promuovere lo stesso progresso scientifico. In questo senso il
progresso scientifico e quello tecnico sono causati (anche se non
del tutto) dal progresso economico e sono quindi endogeni.
Questo aspetto della teoria di Marx non solo costituisce
un'innovazione rispetto a Ricardo, ma è addirittura
profetico. La circolarità di causazione tra sviluppo
economico e tecnico-scientifico troverà infatti più
ampia realizzazione soltanto nel nostro secolo. Ed è soltanto
di recente che tutto ciò è entrato a far parte
dell'economia accademica (v. Schumpeter, 1912 e 1939; v. Metcalfe,
1987; v. Romer, 1986). La teoria della caduta del saggio del
profitto invece non ha avuto conferma empirica, ed è stata
confutata anche sul piano analitico. Essa resta tuttavia un esempio
tra i più notevoli di utilizzazione della microanalisi - la
ricerca del profitto come causa del progresso tecnico - al fine di
giungere a conclusioni su grandezze macroeconomiche: il saggio del
profitto, il saggio di accumulazione.
3. La teoria neoclassica dell'occupazione e la
critica di Keynes
Due aspetti della teoria classica appena esposta vanno
sottolineati. In primo luogo, l'attenzione è rivolta al
comportamento del sistema nel lungo periodo. Dunque si può
fare astrazione da oscillazioni temporanee della produzione e della
occupazione. In secondo luogo, la relazione che passa tra micro e
macroanalisi è molto semplice e diretta. L'argomento di
questo capitolo è il ciclo economico, cioè proprio le
oscillazioni di produzione e occupazione attorno alla tendenza di
lungo periodo. Come è possibile che periodicamente larghe
masse di lavoratori si trovino disoccupate e gli impianti soltanto
parzialmente utilizzati? E come è possibile che tali
situazioni durino relativamente a lungo, malgrado gli sforzi dei
governi per uscirne? Cominceremo esponendo la teoria neoclassica,
ossia quella corrente di pensiero che si è affermata a
partire dalla fine del secolo scorso fino ai nostri giorni come il
punto di riferimento accademico più importante. Vedremo poi
la critica mossa alla teoria neoclassica dal famoso economista e
pensatore politico John Maynard Keynes (1883-1946) negli anni
trenta. Tale critica è tanto più interessante in
questa sede in quanto non è rivolta ai fondamenti della
teoria, ma al modo in cui i neoclassici trattano il rapporto tra
micro e macroanalisi. Subito dopo esporremo un'importante
controcritica di parte neoclassica, che ha avuto di recente un
notevole successo, e una critica ulteriore alla teoria neoclassica,
che si basa sulle interdipendenze tra i diversi settori
dell'economia.
a) La funzione di produzione e la determinazione del salario
Nella teoria classica della produzione, in ogni istante di
tempo, normalmente, ciascuna merce viene prodotta secondo una
precisa 'ricetta'. Per produrre una vite occorre una data
quantità di lavoro, una data quantità di metallo, una
determinata macchina, ecc. Tutte le volte che viene inventato un
nuovo metodo di produzione, questo si sostituisce progressivamente
al vecchio finché non lo soppianta del tutto. Si passa quindi
da date proporzioni tra lavoro e altri mezzi di produzione ad altre
proporzioni, ma, a parte i periodi di transizione tra un metodo e un
altro, le proporzioni sono fisse.
La teoria neoclassica della produzione si basa invece sull'idea che
in ogni istante le imprese abbiano a disposizione molti metodi di
produzione. In particolare esse possono scegliere, in ogni momento,
tra metodi ad alta intensità di lavoro e metodi a bassa
intensità di lavoro e alta intensità di capitale. Si
può produrre il grano con un aratro tradizionale e molto
lavoro, oppure con un trattore moderno e una (relativamente) piccola
quantità di lavoro; oppure, ancora, con una vasta gamma di
metodi intermedi. La relazione che passa tra prodotto e mezzi di
produzione impiegati è nota come funzione di produzione. Data
una quantità di prodotto, la funzione di produzione consente
di determinare tutte le combinazioni dei mezzi di produzione e del
lavoro che forniscono proprio quella quantità.
Come è possibile per le imprese decidere quale metodo
adottare? Tutto dipende dai prezzi relativi dei mezzi di produzione
e del lavoro. In particolare, se il lavoro è relativamente
caro, le imprese tenderanno a impiegare metodi a bassa
intensità di lavoro, ovvero ad alta intensità di
capitale. Viceversa, se il lavoro è relativamente a buon
mercato, le imprese impiegheranno metodi ad alta intensità di
lavoro. Esiste una stretta analogia nella teoria neoclassica tra il
modo in cui è trattata la produzione e la teoria del consumo.
Salvo eccezioni di minore importanza, tutte le volte che i prezzi
relativi cambiano i consumatori acquistano maggiori quantità
delle merci il cui prezzo è relativamente diminuito, a
sfavore di quelle il cui prezzo è relativamente aumentato (v.
ad esempio Varian, 1992³, capp. 1-4 per la teoria della
produzione, capp. 7-9 per la teoria del consumatore; sulla relazione
tra salario e occupazione v. § 3c).
Nella teoria neoclassica prima di Keynes la microanalisi
dell'impresa che abbiamo appena visto veniva estesa tranquillamente
a una proposizione riguardante gli aggregati. Se il salario cresce
relativamente ai prezzi degli altri fattori, l'impresa impiega una
minore quantità di lavoro, e viceversa se il salario scende.
Lo stesso deve accadere, secondo i neoclassici, per l'economia nel
suo complesso. Di conseguenza, se vi sono lavoratori disoccupati, si
tratta o di un fenomeno passeggero, durante un assestamento
dell'economia causato ad esempio da un cambiamento di gusti dei
consumatori; oppure del fatto che il salario non può scendere
fino al suo 'giusto' livello. Quest'ultimo, ossia il salario di
equilibrio, è quello per il quale le imprese scelgono quei
metodi che garantiscono la piena occupazione del lavoro.
La critica di Keynes non si rivolge alla proposizione che per
ciascuna impresa la domanda di lavoro è inversamente
dipendente dal salario. Essa si concentra sull'estensione di tale
proposizione dall'analisi dell'impresa alla economia nel suo
complesso, dalla micro alla macroanalisi. In effetti, quando si
afferma che un'impresa domanda una maggiore quantità di
lavoro se il salario scende, si ragiona assumendo in modo implicito
che la produzione dell'impresa sia data e non debba variare per
effetto della discesa del salario. Ciò non è del tutto
esatto, ma non abbiamo bisogno di ulteriori dettagli per questa
esposizione sintetica. Quindi, a produzione data, se il lavoro
diventa più a buon mercato le imprese ne domandano una
quantità maggiore. Ad esempio, se nell'industria della
ceramica il salario scende, la teoria neoclassica prevede, per
quell'industria, un aumento dell'occupazione. E ciò non
è scorretto, perché la discesa del salario per i
lavoratori della ceramica non ha alcuna influenza sulla domanda di
prodotti del settore: in effetti, la domanda di prodotti di ceramica
proviene dall'intera economia nazionale ed estera. Non solo, ma se
la riduzione del salario si traduce in una discesa dei prezzi dei
prodotti in ceramica, è possibile che la produzione aumenti,
cosicché al primo effetto positivo (maggiore domanda di
lavoro per via di un salario diminuito) se ne somma un secondo
(maggiore produzione per via di un prezzo diminuito).
Lo stesso ragionamento non può essere applicato se invece
è il salario dell'intera economia a scendere. È vero
che ogni impresa tenderebbe a impiegare una maggiore quantità
di lavoro se la quantità prodotta rimanesse immutata, ma una
quantità immutata di prodotto non può più
essere presa come ipotesi. Se il salario di tutti i lavoratori
scende, cosa accade alla produzione di beni di consumo? Possiamo
affermare che rimarrà immutata? La risposta è
affermativa se l'occupazione aumenta in modo tale da compensare il
diminuito reddito per lavoratore, negativa se ciò non accade.
In ogni caso, poiché il problema è l'occupazione,
l'ipotesi che la produzione di beni di consumo rimanga immutata
renderebbe l'intero ragionamento logicamente circolare e quindi
scorretto.
Da questa circolarità implicita nella teoria neoclassica
dell'occupazione parte e si sviluppa la critica di Keynes. La teoria
dell'impresa non può essere estesa all'economia nel suo
complesso. Nel caso della ceramica l'ipotesi di produzione data non
è irragionevole poiché si tratta di una parte
minuscola se confrontata con l'economia nazionale. Ma quando si
passa a considerare il salario di tutti i lavoratori dobbiamo tener
conto del fatto che il salario è il costo del lavoro per le
imprese, ma è anche il reddito dei lavoratori. La discesa del
costo incoraggia le imprese a occupare un maggior numero di
lavoratori, ma la discesa del reddito fa cadere la domanda che si
rivolge alle imprese, e quindi agisce in direzione opposta
sull'occupazione. È questa duplice natura del salario come
costo e come reddito che rende il rapporto tra micro e macroanalisi
non banale (v. Keynes, 1936, cap. 19).
Tuttavia una critica al metodo mediante il quale una conclusione
viene raggiunta non costituisce necessariamente una confutazione
della conclusione. In altri termini, una volta emendato il modo
ingenuo in cui i neoclassici mettevano in rapporto micro e
macroanalisi, la tesi secondo cui la discesa del salario favorisce
l'occupazione può essere mantenuta oppure no? La risposta di
Keynes è negativa: la cura per la depressione economica, e la
conseguente disoccupazione, non sta in una discesa dei salari ma in
un consapevole intervento pubblico a favore della domanda, e in
particolare a favore degli investimenti in nuovo capitale.
L'argomentazione di Keynes non può essere riprodotta qui in
modo preciso per ovvie ragioni di spazio. È possibile
però un'elencazione schematica delle idee su cui è
basata.
1. Il reddito percepito dalle famiglie si divide in una parte
consumata e una parte risparmiata.
2. Il prodotto complessivo dell'economia si divide in una parte
destinata al consumo e una parte destinata all'investimento.
3. Le decisioni di risparmio vengono prese dalle famiglie, le
decisioni di investimento dalle imprese. Questa separazione implica
che non esiste un coordinamento a priori tra risparmio e
investimento. L'ammontare dei risparmi obbedisce a una legge
psicologica elementare e dipende in modo meccanico dal reddito:
all'aumentare di questo la frazione risparmiata tende ad aumentare,
e comunque non diminuisce. Gli investimenti dipendono invece dal
saggio di interesse, da elementi oggettivi concernenti la
produzione, ma anche, in modo cruciale, dal grado di fiducia degli
imprenditori nell'andamento degli affari nel futuro.
4. Supponiamo che il sistema si trovi in uno stato di piena
occupazione e che improvvisamente vi sia un aumento della
propensione a risparmiare. Ciò causa inizialmente una caduta
del consumo e di conseguenza una caduta della produzione nel settore
che produce beni di consumo. A sua volta ciò genera
disoccupazione e quindi una ulteriore caduta di domanda. Per
riportare il sistema verso la piena occupazione occorrerebbe un
aumento degli investimenti, in modo da bilanciare l'aumento della
propensione a risparmiare, ma la situazione di depressione che nel
frattempo si è creata non favorisce gli investimenti; al
contrario, li sfavorisce perché induce gli imprenditori al
pessimismo.
5. In un lungo periodo di tempo il meccanismo neoclassico di
sostituzione di lavoro a capitale potrebbe aiutare se il salario
scendesse abbastanza. Tuttavia, in primo luogo, la discesa del
salario non può avvenire senza che le relazioni industriali
siano turbate, il che causa incertezza e quindi danneggia
ulteriormente la fiducia; in secondo luogo, gli effetti immediati di
una discesa del salario sono sfavorevoli all'occupazione: infatti
diminuisce il reddito dei lavoratori come quota del reddito
complessivo, e ciò fa aumentare la propensione a risparmiare
(v. Keynes, 1936, cap. 19).
6. Se si vuole uscire dalla depressione in un periodo di tempo
ragionevole è quindi necessario un intervento esterno
consapevole che rompa il circolo vizioso. In particolare, la spesa
pubblica può svolgere un ruolo anticiclico se si espande
quando l'economia rischia di piombare nella depressione e si contrae
quando l'economia si sviluppa regolarmente.
La General theory of employment, interest and money, in cui Keynes
espose sistematicamente le sue tesi, rappresentò una vera e
propria rivoluzione nell'economia politica e nella politica
economica. In primo luogo, la parsimonia, fino allora una
virtù indiscussa, veniva indicata come una concausa delle
ricorrenti depressioni delle economie capitalistiche: è
infatti il risparmio, in quanto non coordinato con l'investimento, a
creare il problema di domanda che genera la depressione; e tanto
più è alta la propensione a risparmiare, tanto
più alto è l'investimento che deve essere effettuato
per avere piena occupazione. In secondo luogo, la capacità
del mercato di correggere spontaneamente qualsiasi squilibrio veniva
negata con grande energia. Contrariamente all'opinione tradizionale,
il mercato non conduce necessariamente alla piena occupazione. Come
abbiamo visto, soltanto un'errata concezione del rapporto tra micro
e macroanalisi aveva sorretto, secondo l'opinione di Keynes, la
fiducia dei neoclassici negli automatismi del mercato.
La principale conseguenza della rivoluzione keynesiana consiste in
una politica economica fortemente interventista. Il governo non deve
soltanto garantire che la concorrenza si svolga in modo corretto:
è necessario che agisca consapevolmente contro la
disoccupazione. In particolare, gli interventi pubblici in
infrastrutture non hanno solo lo scopo di aumentare la
produttività generale, ma anche quello di contrastare la
tendenza del capitalismo alla depressione del livello di
attività.
b) Una reazione recente alla critica keynesiana: le aspettative
razionali
La critica di Keynes al punto di vista tradizionale ha
costituito il punto di partenza di una letteratura vastissima, e di
una divisione degli economisti in campi fortemente contrapposti. Da
una parte si è cercato di proseguire sulla strada indicata da
Keynes, dall'altra di respingere o minimizzare le sue obiezioni.Una
controcritica, che ha avuto di recente un grande successo
soprattutto negli Stati Uniti, ha per oggetto il modo in cui Keynes
tratta le aspettative degli imprenditori. Nella General theory si
assume che la situazione prevalente nel passato più recente
venga proiettata dagli imprenditori nel futuro. Di conseguenza la
depressione tende ad autoalimentarsi: se il livello della domanda e
dei profitti è basso, gli imprenditori si aspettano che
continui a essere basso e non investono. Ma proprio i mancati
investimenti causano un basso livello della domanda, e così
via. Ora, si è sostenuto, questo modo di trattare le
aspettative pecca per semplicismo. Perché gli imprenditori
non dovrebbero accorgersi che l'economia ha un andamento ciclico, e
tentare di mettere a frutto questa conoscenza? Per quale ragione
agenti economici razionali non dovrebbero utilizzare al meglio le
informazioni che possono raccogliere sugli andamenti passati
dell'economia? Ad esempio, essi sanno che la depressione non dura in
eterno; sono perciò in grado di prevederne la fine e hanno
ovviamente interesse ad anticipare gli eventi: se la domanda
è destinata a crescere conviene avere investito per tempo.
La teoria delle aspettative razionali, introdotta dagli economisti
John Fraser Muth e Robert Lucas tra gli anni sessanta e settanta (v.
Muth, 1960 e 1961; v. Lucas, 1976; v. Sargent, 1987), costituisce la
base per una ripresa del punto di vista tradizionale
sull'occupazione e sul ciclo economico. La critica keynesiana,
sostengono gli economisti di questa scuola, è basata sulla
ipotesi che gli agenti economici non sfruttino appieno le occasioni
di profitto e le informazioni a disposizione. Non appena le
assunzioni di razionalità e di efficienza vengano
ripristinate e sviluppate, non vi è alcun motivo per pensare
che il mercato abbia bisogno di interventi esterni per condurre
l'economia verso la piena occupazione.
Come è facile capire, si tratta di tesi molto controverse,
sia sul piano della teoria che su quello dell'interpretazione dei
fatti economici. Non vi è dubbio che l'idea di aspettative
razionali contiene un'indicazione di ricerca di grande interesse:
gli agenti economici tentano di 'imparare' dall'esperienza e di
modificare i propri comportamenti sulla base dell'apprendimento.
Questo tuttavia non implica necessariamente che essi riescano ad
approdare alla stessa interpretazione degli eventi passati e alle
stesse aspettative degli eventi futuri.Anche in questo caso ci
troviamo di fronte a un problema di coordinamento di comportamenti
individuali e quindi di rapporto tra micro e macroanalisi.
Consideriamo un singolo agente economico. Possiamo supporre che i
suoi comportamenti non influenzino il resto dell'economia e quindi
che l'andamento delle grandezze che gli interessano possa essere
preso come dato. Non è difficile ammettere che, se esistono
regolarità, ad esempio nell'andamento del saggio di
inflazione, l'agente alla lunga sia in grado di fare buone
previsioni sul livello dei prezzi; oppure, se si tratta di
un'impresa esportatrice, che impari a riconoscere le
regolarità nel tasso di cambio della lira contro il
dollaro.Fin qui non ci sono obiezioni importanti. Cosa accade
però quando prendiamo in esame tutti gli agenti
contemporaneamente? Possiamo dire che, poiché ciascuno di
essi impara a prevedere gli andamenti del resto dell'economia, tutti
imparano contemporaneamente? La risposta è negativa, o,
almeno, non può essere immediatamente affermativa, come se
bastasse 'sommare' gli apprendimenti individuali per avere
l'apprendimento collettivo. Ora infatti ciascuno tenta di capire
come si comporta il resto dell'economia, ma questa è composta
da una moltitudine di altri agenti, ciascuno dei quali tenta, a sua
volta, di fare la stessa cosa. Allora molti si renderanno conto del
fatto che bisogna capire non solo il modo in cui l'economia si
comporta, ma anche il modo in cui gli altri pensano che l'economia
si comporti, poiché anche da questo dipende l'economia. Ma se
tutti fanno questo, la situazione diventa molto più complessa
di quanto non sia quando viene analizzato un agente soltanto.
Anche in questo caso dunque il passaggio dalla micro alla
macroanalisi è tutt'altro che immediato. Prova ne sia il
fatto che molto spesso la moderna macroeconomia ricorre alla
semplificazione estrema di supporre che esista un solo agente, il
cosiddetto agente rappresentativo. Con ciò però il
problema del rapporto tra micro e macroanalisi, più che
risolto, viene eliminato in partenza (sulle recenti controversie
riguardanti le aspettative v. Frydman, 1982; v. Pesaran, 1987).
c) Le interdipendenze settoriali e la critica alla funzione
aggregata di produzione
Come abbiamo visto, Keynes non criticava l'uso della funzione di
produzione da parte dei neoclassici, ossia l'idea che a un salario
più basso corrisponde una maggiore domanda di lavoro, a
produzione data. La sua obiezione era che l'economia non riesce a
muoversi verso la nuova posizione, cioè resta, per
così dire, intrappolata nella depressione. A partire dagli
anni sessanta, sotto l'impulso di Produzione di merci a mezzo di
merci di Piero Sraffa, è stata sviluppata una teoria
più radicale, che nega la relazione fondamentale neoclassica
tra livello del salario e domanda aggregata di lavoro. Per
illustrare il problema facciamo ricorso di nuovo all'economia
semplificata in cui si produce soltanto grano per mezzo di grano e
lavoro (v. § 2a). La teoria neoclassica suppone che esista una
moltitudine di metodi di produzione: questi possono essere ordinati
in modo univoco secondo l'intensità di lavoro, ossia il
rapporto tra lavoro e grano nella produzione di una unità di
grano. È evidente che più il lavoro è a buon
mercato maggiore è il rapporto lavoro/grano scelto dai
capitalisti, quindi più basso è il salario maggiore
è la domanda di lavoro, data la produzione.Il problema
è: possiamo estendere questo risultato a una economia
multisettoriale? La risposta è negativa in generale, e le
ragioni sono le seguenti.
1. In un'economia multisettoriale ogni settore impiega come mezzi di
produzione i prodotti di altri settori (interdipendenza tra
settori); inoltre, diversi settori possono impiegare gli stessi
mezzi di produzione ma non nelle stesse proporzioni. Ad esempio, per
produrre il ferro si usano, tra l'altro, il ferro e il carbone, e lo
stesso per produrre il carbone; però le proporzioni di ferro
e carbone impiegate sono diverse nei due settori.
2. Come conseguenza il capitale non può essere misurato se
non in valore, cioè utilizzando i prezzi dei prodotti che lo
compongono.
3. D'altra parte, i prezzi dei prodotti variano al variare del
salario; quindi la grandezza del capitale, che dipende dai prezzi
come appena visto, varia al variare del salario. A causa di
ciò può accadere che i vari metodi di produzione non
possano più essere ordinati secondo il rapporto
lavoro/capitale, e dunque la semplice relazione valida nell'economia
a un solo settore può non valere quando i settori sono
molti.Il punto cruciale qui è che i prezzi variano quando
varia il salario. Un semplice esempio è sufficiente a
spiegare la ragione di ciò. Partiamo da un dato livello del
salario e dai prezzi corrispondenti. Questi ultimi, va ricordato,
debbono assicurare un saggio del profitto uniforme tra i settori (v.
§ 2a). Supponiamo che nel settore del carbone il rapporto tra
capitale e lavoro sia, a quei prezzi, di 1 a 1, e che tale rapporto
sia invece di 2 a 1 nel settore che produce ferro. Se il salario
scende, il costo nel settore del carbone scende, in proporzione,
più di quanto scenda nel settore del ferro. Quindi, se i
prezzi non cambiano, il saggio del profitto nel settore del carbone
diventa più alto che nel settore del ferro. A prima vista
sembra che la soluzione del problema stia in una caduta del prezzo
del carbone rispetto a quello del ferro. Tuttavia, se ciò
avviene, cambiano anche i valori del capitale nei due settori:
infatti carbone e ferro sono mezzi di produzione, oltre che
prodotti.
Non è possibile approfondire qui ulteriormente questo tema.
Quanto visto è sufficiente a illustrare un caso importante in
cui la considerazione delle interdipendenze, che è necessaria
quando si affronta la teoria macro, può rovesciare i
risultati ottenuti in un modello unisettoriale, in cui micro e
macroteoria sono per definizione identiche. (Per un'esposizione
della discussione sulla teoria del capitale suscitata dal libro di
Sraffa, v. Kurz, 1987; per una trattazione generale della teoria
delle interdipendenze settoriali, v. Pasinetti, 1975).
4. Problemi di convergenza verso le posizioni di
equilibrio
Come abbiamo visto nel cap. 3, la consapevolezza del fatto
che la microanalisi non può essere sempre estesa alla
macroanalisi in modo diretto è piuttosto recente: essa risale
infatti alla General theory. Tuttavia, negli ultimi decenni sono
stati compiuti notevoli passi in avanti nella chiarificazione di
problemi lasciati aperti dagli economisti del secolo scorso e dei
primi decenni del Novecento. In questo capitolo esporremo brevemente
due casi interessanti in cui sorgono difficoltà nel rapporto
tra micro e macroanalisi: la teoria classica dei prezzi di
produzione e dei prezzi di mercato, e la stabilità di un
equilibrio generale neoclassico.
a) Prezzi di produzione e prezzi di mercato
Come si è visto nel cap. 2, secondo Ricardo, e secondo
tutti gli economisti classici, la libertà di movimento dei
capitali da un settore di produzione all'altro assicura il medesimo
saggio del profitto per tutti i settori. Questa affermazione non
significa che in ogni istante il saggio del profitto sia uniforme;
significa che esiste una tendenza all'uniformità, ossia che
le differenze, quando si verificano, tendono a sparire. Ad esempio,
se i cappelli da uomo diventano improvvisamente fuori moda,
inizialmente il prezzo dei cappelli da uomo cade a causa della
domanda diminuita, a cui fa fronte una offerta immutata. Ciò
però causa una uscita di capitale dal settore dei cappelli da
uomo e quindi una contrazione dell'offerta. Quando questa si sia
adeguata al più basso volume della domanda il prezzo torna al
suo livello naturale, cioè eguaglia il prezzo di produzione.I
classici chiamavano prezzo di produzione il prezzo che assicura il
medesimo saggio del profitto in tutte le industrie, e prezzi di
mercato i prezzi che temporaneamente si affermano come risultato
dell'incontro di domanda e offerta. I prezzi di mercato, secondo i
classici, gravitano attorno ai prezzi di produzione: i capitali
escono dai settori in cui il saggio del profitto è più
basso della media e si dirigono dove è più alto; in
questo modo l'offerta aumenta dove i prezzi sono alti e fa scendere
il prezzo, mentre cade e fa salire i prezzi dove questi sono bassi.
Questo è il meccanismo che secondo i classici assicura la
gravitazione, ossia il fatto che nessuna discrepanza può
permanere a lungo.Ma le cose non sono così semplici. Anche
qui la macroanalisi riserva sorprese, a causa del fatto che le
industrie non soltanto producono e offrono un prodotto, ma, anche,
domandano prodotti come mezzi di produzione. È vero che
l'afflusso di capitale in un settore causa una caduta del prezzo di
quel prodotto, ma cosa accade ai prezzi dei prodotti che vengono
usati come mezzi di produzione per quel settore?
Supponiamo che nel settore A vi sia un saggio del profitto
più alto della media e nel settore B più basso. I
capitali si spostano da B ad A. Supponiamo che sia A che B adoperino
acciaio come mezzo di produzione, che questo sia prodotto in C, e
che il settore A ne adoperi per unità di capitale molto meno
del settore B. L'afflusso di capitale da B ad A fa cadere la domanda
di acciaio e quindi, inizialmente, fa cadere anche il prezzo
dell'acciaio. Come conseguenza, il costo di produzione in A
diminuisce. Si hanno quindi due tendenze contrapposte: l'aumento
dell'offerta in A fa cadere il prezzo e il saggio del profitto;
però la caduta del prezzo dell'acciaio fa cadere il costo e
quindi fa aumentare il saggio del profitto (v. Boggio, 1990; v.
Lippi, 1990).
Non possiamo trattare più a fondo questo problema.
Basterà segnalarlo come un altro importante esempio di
relazione non banale tra micro e macroanalisi. Ciò che a
lungo è stato considerato pacifico, la gravitazione dei
prezzi di mercato verso i prezzi di produzione, si rivela pacifico
solo se si ignorano le complicazioni che vengono dal fatto che i
prezzi sono anche costi. Questa consapevolezza appartiene agli
ultimi decenni, non al secolo scorso, né agli economisti
classici.
b) La convergenza all'equilibrio generale neoclassico
Nella seconda metà del secolo scorso fu elaborato il
sistema teorico neoclassico. Abbiamo già parlato della
differenza dall'economia politica classica nella teoria della
produzione, e abbiamo anche accennato alla teoria neoclassica del
consumo. Consideriamo ora le cose più dettagliatamente. La
teoria classica vedeva il consumo come determinato fondamentalmente
dalle abitudini: i beni di lusso per le classi abbienti, i beni di
prima necessità per i lavoratori. La teoria neoclassica
affronta la questione da un punto di vista più astratto e
generale. Un consumatore, quale che sia la fonte del suo reddito,
è dotato di un sistema di preferenze, o gusti, che si
manifesta nel fatto che, date due combinazioni qualsiasi di beni,
egli è in grado di stabilire quale preferisce. Se sono dati
il suo reddito e i prezzi dei beni, il consumatore sceglie la
combinazione dei beni che lo soddisfa di più, compatibilmente
con il fatto che il valore complessivo dei beni acquistati non
può eccedere il suo reddito. Come si dice nel linguaggio
della teoria, il consumatore massimizza la sua utilità sotto
il vincolo di bilancio. Dunque, dato il reddito e i prezzi (e dati i
gusti), la teoria neoclassica stabilisce quanto il consumatore
desidera acquistare di ciascun bene.
Rispetto a quella classica, si tratta di una teoria molto più
complessa, per la quale è possibile una formulazione
matematica: possono essere stabiliti assiomi e dimostrati teoremi.
Una domanda importante è la seguente: cosa prevede la teoria
se uno dei prezzi aumenta mentre tutti gli altri prezzi e il reddito
restano uguali? Ci aspettiamo che la domanda del bene il cui prezzo
è aumentato diminuisca, e comunque che non aumenti. E in
effetti la risposta della teoria è questa, salvo eccezioni
che possono essere considerate di poco rilievo. Dunque, se si
escludono tali eccezioni, la teoria risponde in modo soddisfacente:
il comportamento della domanda è tale da assicurare
stabilità ai mercati. Infatti, se il prezzo è troppo
basso, la domanda è alta, se è alto, la domanda
è bassa.
Di nuovo però questa risposta non regge se dalla analisi di
un singolo consumatore passiamo all'analisi di tutti i consumatori
contemporaneamente. Infatti, la conclusione che la domanda dipende
inversamente dal prezzo viene raggiunta nella teoria supponendo che
siano dati tutti gli altri prezzi e il reddito del consumatore. Se
vogliamo analizzare il comportamento di un singolo mercato questo
può essere legittimo. In altri termini, se partiamo da una
situazione di equilibrio in tutti i mercati e supponiamo che uno
solo di essi venga leggermente perturbato, possiamo pensare che gli
altri mercati e i redditi non ne risentano. Ad esempio, tutti i
mercati sono in equilibrio eccetto il mercato dell'insalata, per la
quale si è verificata una produzione molto bassa per cause
meteorologiche. Il prezzo dell'insalata deve crescere e supponiamo
che ciò accada, ma non in misura tale da compensare la
diminuita quantità, cosicché il reddito dei produttori
di insalata diminuisce. Si dirà che in tal caso l'ipotesi di
reddito dato per i consumatori non regge. Ma poiché i
produttori di insalata sono una parte trascurabile dei consumatori,
possiamo fare astrazione dal fatto che il loro reddito è
calato, sia per quel che riguarda il mercato dell'insalata, sia per
quel che riguarda gli altri mercati.
Questo giustifica le analisi cosiddette parziali. Ma se la questione
riguarda il modo in cui si arriva all'equilibrio generale, ossia
all'equilibrio simultaneo di tutti i mercati, partendo dallo
squilibrio di tutti i mercati, allora bisogna tener conto del fatto
che tutti i prezzi cambiano, e quindi che anche tutti i redditi
cambiano, e l'analisi che abbiamo esposto a grandi linee non
è più valida. E in effetti gli studi dedicati a questo
problema, come quelli dedicati ai prezzi di produzione nei classici,
non arrivano a conclusioni positive (v. Hildenbrandt e Kirman,
1988).
5. Conclusioni
La microanalisi studia gli agenti, fondamentalmente le imprese e le
famiglie, isolatamente l'uno dall'altro. La macroanalisi studia il
comportamento del sistema quando gli agenti vengono considerati
contemporaneamente e quindi quando vengono prese in considerazione
le interazioni tra le grandezze che riguardano gli individui. A
lungo l'economia politica ha trattato le grandezze macro come se i
comportamenti micro potessero essere, per così dire, sommati.
A partire dagli anni trenta è stata acquisita la
consapevolezza che ciò non è possibile. Ciò ha
aiutato a comprendere gravi questioni di politica economica, prima
fra tutte la disoccupazione, e a chiarire importanti questioni
teoriche come l'esistenza di una funzione di produzione aggregata e
la convergenza verso le posizioni di equilibrio.