di Riccardo Faucci
Liberismo
sommario: 1. Definizioni. 2. Il Settecento:
dall'ordine naturale al laissez faire. 3. L'Ottocento: il liberismo
fra prassi e retorica. 4. Il Novecento: l'eclissi del liberismo. 5.
Luci e ombre del neoliberismo contemporaneo. □ Bibliografia.
1. Definizioni
Il termine 'liberismo' ha una pluralità di significati che,
ove non segnalata, può essere fonte di equivoci. Con esso ci
si può riferire sia a una visione del processo economico
secondo la quale le decisioni fondamentali devono essere affidate,
prevalentemente o esclusivamente, a operatori privati, con
intervento governativo minimo o nullo, sia a una politica
commerciale basata sulla libertà degli scambi internazionali.
Nel primo caso si vuole sottolineare l'antistatalismo, e liberismo
si contrappone a 'interventismo', 'dirigismo', 'collettivismo', o
addirittura 'totalitarismo' tout court (da parte di quei liberisti i
quali ritengono che qualsiasi intervento dello Stato nell'economia
sia necessariamente di tipo autoritario e illiberale). Nel secondo
caso liberismo è sinonimo di 'liberoscambismo', termine
però ormai poco usato, e in tal caso il suo contrario
è 'protezionismo'. È facile notare che i liberisti -
se coerenti - sono anche liberoscambisti, mentre non necessariamente
i liberoscambisti - anche se coerenti - sono liberisti (per esempio
l''Europa del libero scambio' prevede controlli e interventi
pubblici in numerosi settori).
Nelle altre lingue, invece, non sorgono equivoci, perché
liberismo è reso con laisser faire - in inglese e in tedesco,
oltre che in francese -, mentre si ha free trade, libre
échange e Freihandel nel caso ci si riferisca al libero
scambio in senso stretto. Liberismo e liberoscambismo esprimono
entrambi la convinzione che il libero mercato, la libera impresa, la
libertà di lavoro consentano di raggiungere una maggiore
efficienza al sistema economico e un maggiore benessere alla
collettività.
2. Il Settecento: dall'ordine naturale al laissez
faire
L'espressione laisser faire (lasciar lavorare, lasciar
produrre), correlata con laisser passer (lasciar scambiare, lasciar
commerciare), si trova forse per la prima volta nella fisiocrazia,
la scuola di economisti alla quale si devono sia l'elaborazione del
primo schema analitico di funzionamento del sistema economico, sia
una vivace battaglia contro i vincoli corporativi e feudali che,
ancora alla metà del XVIII secolo, ostacolavano lo sviluppo
dell'economia francese. Anne-Robert-Jacques Turgot attribuisce al
mercante Thomas Legendre l'espressione laissez nous faire, che
questi avrebbe rivolto al ministro di Luigi XIV, Colbert, per
protestare contro le eccessive regolamentazioni dell'industria e del
commercio allora esistenti. L'uomo d'affari e funzionario statale
Vincent de Gournay l'avrebbe poi diffusa nella cerchia fisiocratica.
Nello scritto di Turgot Éloge de Gournay, seppure attribuiti
a Gournay, sono presentati con esemplare chiarezza i concetti chiave
del liberismo: "Allorquando l'interesse dei privati è
precisamente il medesimo che l'interesse generale, quello che si
può fare di meglio è di lasciare ciascun uomo libero
di fare quello che egli voglia. Ora, [Gournay] trovava impossibile
che nel commercio abbandonato a se stesso l'interesse particolare
non concorresse [...] con l'interesse generale" (v. Turgot, 1759;
tr. it., p. 283). L'interesse generale, che il governo ha il compito
di proteggere, consiste nell'evitare che i privati si danneggino
l'un l'altro, nell'accrescere la ricchezza nazionale e nello
scongiurare brusche cadute della produzione, che "immergendo il
popolo negli orrori della carestia, turbino la tranquillità
pubblica e la sicurezza dei cittadini" (pp. 283-284). Nel medesimo
scritto Turgot mostra efficacemente come il funzionamento di un
mercato libero permetta di raggiungere tutti e tre questi obiettivi
di interesse generale. Anzi, "l'interesse privato abbandonato a se
medesimo produrrà sempre più sicuramente il bene
generale, che non le operazioni del governo, sempre difettose e
necessariamente dirette da una teoria vaga e incerta" (p. 286).
I fisiocratici coniugarono l'efficienza garantita dal mercato
concorrenziale con l''ordine naturale della società'.
Nell'opuscolo Le droit naturel il maggiore esponente della
fisiocrazia, François Quesnay, chiarisce che non esiste un
"diritto naturale di tutti a tutto", ma che "il diritto naturale di
ciascun uomo si riduce in realtà a quella porzione che egli
può procurarsi col proprio lavoro" (v. Quesnay, 1765; tr.
it., p. 3). Le ineguaglianze naturali fra gli uomini relativamente
al godimento del loro diritto naturale operano a fin di bene,
perché spingono l'uomo a un continuo perfezionamento. La
spinta della miseria e del bisogno - afferma Quesnay anticipando
Malthus - è un potente fattore di progresso. Invece le
ineguaglianze artificiali, dovute cioè agli ordinamenti
sociali vigenti, debbono essere superate abbattendo tali
ordinamenti. Quesnay afferma che la libertà non è mai
assoluta, ma relativa: essa consiste nella capacità
dell'individuo di esprimere "preferenza, scelta, decisione" (p. 6,
nota; corsivo nel testo). Egli ha dunque ben presente il
comportamento razionale dell'homo oeconomicus. Le forme di governo
costituzionale sono secondarie rispetto all'essenza del diritto
naturale, nel senso che diversi regimi politici sono compatibili con
esso. Soltanto "dove le leggi [...] non assicurano la
proprietà e la libertà, non c'è governo, non
società giovevoli" (p. 10). Questa posizione è
peraltro dettata da considerazioni di opportunità politica,
in quanto i fisiocrati non intendevano ribellarsi all'ancien
régime.
Il banco di prova per il nascente liberismo fu costituito dalla
questione del commercio dei grani, che si impone negli anni sessanta
e settanta del XVIII secolo. Come è stato osservato, il
libero mercato dei beni di sussistenza, sottratto alle decisioni
politiche, pone le basi per una moderna economia di mercato (v. Hont
e Ignatieff, 1985, pp. 13-14). Secondo Antoine de Condorcet, autore
fra l'altro delle Réflections sur le commerce des blés
(1776), una politica economica sana era quella di lasciare che il
grano si vendesse a prezzi di mercato, sussidiando i poveri in modo
che potessero comprarne; mentre era una cattiva politica economica
quella, allora seguita, di espropriare i produttori e di fissare un
prezzo politico non remunerativo (v. Rotschild, 1992, p. 1202).
Si può far risalire a quei decenni l'inizio della polemica
fra liberisti puri e interventisti: una polemica destinata a
protrarsi in termini pressoché invariati per almeno un
secolo. Fin da allora i liberisti sono accusati di astrattismo e
antistoricismo, e reagiscono accusando gli avversari di paternalismo
e autoritarismo. Se è innegabile che molti avversari dei
liberisti presentavano questi connotati, almeno due mostrarono una
singolare capacità di cogliere le difficoltà di
un'economia basata sul puro laissez faire e la necessità di
apprestare correttivi ai suoi effetti indesiderati. Sir James
Steuart - uno scozzese che visse a lungo in Germania - nella sua
Inquiry into the principles of political oeconomy (1767)
assegnò allo statesman il compito di rendere compatibili fra
loro gli interessi privati per il raggiungimento del bene generale,
predisponendo un plan (v. Steuart, 1966, vol. I, pp. 122-125; v.
Mitchell, 1967). Dal canto suo Ferdinando Galiani, che invece
soggiornò a Parigi, nei Dialogues sur le commerce des bleds
introdusse la fondamentale distinzione fra effetti di breve e di
lungo periodo delle misure di politica economica, discutendo i
possibili contraccolpi negativi di una liberalizzazione assoluta e
indiscriminata (v. Galiani, 1770; tr. it., pp. 202 ss.).
La battaglia liberista non ebbe gli esiti sperati. Turgot,
controllore generale delle finanze dal 1774 al 1776, riuscì a
liberalizzare il mercato del lavoro e a introdurre il libero
commercio del grano, ma la conseguente 'guerra delle farine'
scoppiata a causa della susseguente carestia lo obbligò a
dimettersi e una parte dei provvedimenti vennero revocati (v.
Schelle, 1892; v. Cazes, 1970).
Negli Stati italiani del Settecento non si ebbero vere e proprie
correnti di pensiero rigorosamente liberiste. "Gli economisti
italiani della metà del XVIII secolo ebbero tutti, dal
Genovesi al Beccaria al Verri, l'ossessione della bilancia
commerciale passiva" (v. Vianello, 1942, p. XXV). Erano
perciò tendenzialmente dei mercantilisti. Soltanto per la
Toscana si è parlato di "eclettismo [...] preparato
all'instaurazione di un sistema liberistico" (v. Mori, 1951, cap.
4): grazie agli sforzi dei riformatori toscani, la riforma doganale
del 1781 sancì la liberalizzazione del commercio dei grani
(v. Becagli, 1983).Con Adam Smith il liberismo raggiunse pienezza di
rigore concettuale. Contrariamente a quanto spesso sostenuto (v.,
per tutti, Viner, 1927), non esiste cesura fra lo Smith filosofo e
lo Smith economista. La morale smithiana, descritta nella Theory of
moral sentiments, è basata sui risultati e non sulle
intenzioni: Smith, pur ammirandoli, critica gli stoici in quanto
hanno "considerato la vita umana come un gioco di grande
abilità a cui si mescola però il caso [...]. La posta
è insignificante e tutto il piacere del gioco deriva dal
giocare bene. [... Ma] il piano e il sistema delineati dalla Natura
sembrano del tutto diversi da quelli della filosofia stoica" (v.
Smith, 1759; tr. it., pp. 381-399). Smith invece attribuisce un peso
fondamentale all'approvazione data dal prossimo (sia pure come
'spettatore imparziale') alla condotta di ciascun individuo. La sua
concezione della morale è dunque, per così dire,
già pronta per essere adattata ai comportamenti economici
dell'uomo sul mercato.
In Smith l'interesse individuale, anziché dar luogo alla
hobbesiana lotta di tutti contro tutti, oppure alla paradossale
trasformazione mandevilliana dei "vizi privati" in "pubbliche
virtù", costituisce il tessuto connettivo di una
società ben ordinata. Il fondamento del liberismo non
è più posto, come nei fisiocrati, nel diritto
naturale, ma nella stessa natura umana, in cui diverse 'passioni'
trovano fra loro un equilibrio intorno al self-love moderato dalla
sympathy. In tal modo le passioni stesse si trasformano in
'interessi' (v. Hirschman, 1977). Questi ultimi sono basati
sull'interdipendenza, oltre che sulla costanza e la
prevedibilità. Il luogo 'naturale' in cui essi trovano
reciproca soddisfazione è il mercato. La notissima
osservazione smithiana secondo cui non è dalla benevolenza
del macellaio che noi ci attendiamo il nostro pranzo, ma dal suo
tornaconto, si trova, ripetuta quasi con le medesime parole, sia
nelle Glasgow lectures on jurisprudence, sia nel Draft della Wealth
of nations, sia infine nell'opera maggiore (v. Smith, 1762-1763, tr.
it., p. 443; 1764, tr. it., pp. 41-42; 1776, tr. it., p. 18). Nel
libero mercato gli individui, pur proponendosi di perseguire
soltanto il proprio tornaconto, collaborano inconsapevolmente
all'innalzamento del benessere collettivo. È il principio
della "mano invisibile", che nel corso della sua opera Smith precisa
collegandolo appunto all'operare del mercato. Nella Theory of moral
sentiments egli si limita a osservare che il landlord accresce la
produzione delle sue terre per nessun altro scopo se non quello di
godersi tutto il prodotto. Si tratta ovviamente di un calcolo
sbagliato, in quanto "la capacità del suo stomaco non
può essere nemmeno paragonata all'immensità dei suoi
desideri [...]. I ricchi [...] consumano poco più dei poveri
e malgrado il loro egoismo e la loro ingordigia naturale, malgrado
facciano conto solo della propria convenienza, [...] da una mano
invisibile sono guidati a fare quasi la stessa distribuzione dei
beni necessari alla vita che se la terra fosse stata divisa in parti
eguali fra tutti i suoi abitanti [...]; e così, senza volerlo
e senza saperlo, promuovono gli interessi della società" (v.
Smith, 1759; tr. it., pp. 248-249; corsivo nostro). Nell'opera
maggiore, trattando degli impieghi del capitale più
vantaggiosi, Smith presenta il capitalista come il soggetto
economico per il quale è più appropriato il
riferimento alla mano invisibile: "La considerazione del suo proprio
vantaggio lo porta naturalmente, o meglio necessariamente, a
preferire l'impiego più vantaggioso per la società
[...]. In effetti egli non intende, in genere, perseguire
l'interesse pubblico, né è consapevole della misura in
cui lo sta perseguendo [...]. Egli mira solo al suo proprio guadagno
ed è condotto da una mano invisibile, in questo come in molti
altri casi, a perseguire un fine che non rientra nelle sue
intenzioni [...]. Perseguendo il suo interesse, egli spesso persegue
l'interesse della società in modo molto più efficace
di quando intende effettivamente perseguirlo" (v. Smith, 1776; tr.
it., pp. 442-444). I liberisti dell'Otto e del Novecento, fino a
Hayek, non faranno che qualificare meglio queste affermazioni.
Smith giudica il "governo civile" un'istituzione nata per "la difesa
dei ricchi contro i poveri" (p. 707) e denuncia, con accenti molto
attuali, le distorsioni prodotte dall'intervento pubblico quando
esso in realtà serve solo a favorire gruppi privati (v.
Stigler, 1971). D'altra parte l'intervento statale in alcuni settori
non soltanto non è dannoso, ma è indispensabile tutte
le volte in cui si debba conciliare l'interesse privato con quello
pubblico. Per esempio, lo Stato dovrebbe contrastare la tendenza
alla separazione fra proprietà e direzione nelle
società per azioni (v. Smith, 1776; tr. it., pp. 733-734);
valorizzare al massimo la produttività del lavoro come
parametro di retribuzione dei pubblici impiegati (p. 711);
preferire, con gli opportuni aggiustamenti, il modello dell'esercito
permanente e professionale (standing army) rispetto a quello di leva
(militia: pp. 692 ss.; v. anche Rosenberg, 1960).
Nonostante la mano invisibile, le frizioni nel mercato non mancano.
I capitalisti, che pure del progresso economico sono i demiurghi,
tendono a collusioni fra loro per impedire l'ingresso nel mercato di
nuovi concorrenti (contrastando in questo modo la tendenza a cadere
del saggio di profitto) e per tenere bassi i salari dei lavoratori.
Essi sfruttano le loro migliori cognizioni circa l'andamento del
mercato per far prevalere il proprio interesse personale su quello
collettivo, impedendo così il funzionamento della mano
invisibile: "Siccome i loro pensieri sono comunemente rivolti
piuttosto all'interesse del loro particolare ramo di affari che
all'interesse generale della società, [...] la proposta di
una nuova legge o di un regolamento di commercio che provenga da
questa classe dovrebbe essere sempre ascoltata con grande
precauzione e non dovrebbe mai essere adottata [...]. Tale proposta,
infatti, proviene da un ordine di uomini il cui interesse non
è mai esattamente uguale a quello del pubblico e che,
generalmente, ha interesse a ingannare e anche a opprimere il
pubblico, come in effetti ha fatto in numerose occasioni" (v. Smith,
1776; tr. it., p. 254). Un altro fallimento del mercato riguarda la
condizione dei lavoratori salariati, la cui situazione è
aggravata, da una parte, dalla difficoltà a coalizzarsi (p.
67), e, dall'altra parte, dall'ignoranza e dall'abbrutimento ai
quali la divisione del lavoro li condanna (pp. 769-770). Smith non
arriva a proporre i sindacati, ma argomenta a favore dell'istruzione
obbligatoria per i lavoratori (pp. 772-773).
Pur attento a rilevare squilibri e contrasti all'interno della
società capitalistica, Smith non ha esitazioni a dichiarare
la propria preferenza per essa rispetto a tutte le società
precedenti (o contemporanee, ma più arretrate). È la
società capitalistica, infatti, quella che meglio consente il
dispiegarsi delle virtù medie, le virtù borghesi per
eccellenza, quali "pazienza, operosità, forza d'animo e
assiduità di pensiero. Difficilmente ci si imbatte in tali
virtù in uomini nati in ceti superiori" (v. Smith, 1759; tr.
it., p. 73). Il nesso fra virtù individuali, libero mercato e
buongoverno è esplicito. Regime liberale rappresentativo, e
quindi liberalismo politico, ed economia di libero mercato, e quindi
liberismo economico, sono, per Smith, il naturale complemento l'uno
dell'altro.
3. L'Ottocento: il liberismo fra prassi e retorica
L'insegnamento smithiano fu portato avanti da Jeremy Bentham
che, con la Defense of usury (1787), va addirittura oltre il maestro
affermando - diversamente da Smith - che il saggio d'interesse
doveva essere lasciato libero di crescere, in modo da non
scoraggiare gli investitori amanti del rischio: quei projectors per
i quali Smith non aveva simpatia (v. Pesciarelli, 1989). Un'altra
proposta discendente dal suo liberismo è quella
dell'emancipazione delle colonie, basata sulla considerazione che il
capitale impiegato in esse (e ivi indirizzato grazie alla protezione
doganale) può essere investito più proficuamente nella
madrepatria. Nel Manual of political economy (1793) - che contiene
la famosa esortazione al governo: "Be quiet!" - Bentham distingue
fra sponte acta degli individui (la maggior parte dei comportamenti
economici), agenda governativi (tendenti a rimuovere gli ostacoli
alla libera attività privata, come pure a consentire la
soddisfazione dei bisogni più importanti rispetto a quelli
meno importanti) e non agenda (in particolare, non intervenire sulle
decisioni del pubblico su risparmio e consumo, non creare
inflazione, ecc.).
L'idea di Bentham è che la società, seguendo il
precetto utilitarista della 'massima felicità per il maggior
numero', tenda a una progressiva eguaglianza di fortune, e quindi
che fra liberty ed equality non ci sia un reale conflitto. Invece,
il trade-off fra efficienza ed eguaglianza è un nodo cruciale
del liberalismo/liberismo. Il contrasto fra i due poli affiora fra
gli stessi seguaci di Bentham (su tutti questi aspetti v. Stark,
1941): chi accentuò l'elemento dell'eguaglianza
approdò al socialismo (Owen) o comunque a una posizione
anticapitalistica (Sismondi); chi accentuò l'elemento della
libertà rifluì nell'alveo dell'economia classica.
Fra gli economisti classici influenzati da Bentham riveste una
posizione preminente James Mill, che scrisse nel 1808 un opuscolo,
Commerce defended, per sostenere che "il commercio britannico ha
molto più da temere dai regolamenti poco saggi del governo
inglese che dai decreti di Napoleone" (cit. in Farolfi, 1976, p.
58). L'Inghilterra doveva aprirsi al commercio internazionale,
nonostante il blocco continentale, ma il libero scambio confliggeva
con gli interessi dei produttori agricoli inglesi, abituati a godere
di alti prezzi interni dei cereali. Dal canto suo David Ricardo,
anch'egli vicino a Bentham, affrontò nell'Essay on profits il
problema della rendita fondiaria crescente come quota del prodotto
netto, per effetto dei rendimenti decrescenti delle terre che
venivano progressivamente messe a coltura. La sua proposta era di
importare liberamente il grano, facendone cadere il prezzo di
mercato e lasciando che i capitali impiegati nelle terre peggiori si
indirizzassero verso le manifatture. Anche se lo scritto ha un
taglio teorico, l'indicazione di politica economica è
evidente. Ricardo rammenta che "fu il tentativo di Buonaparte
[attraverso il blocco continentale] di impedire l'esportazione di
prodotto grezzo dalla Russia che suscitò gli sforzi
stupefacenti del popolo di quel paese contro la forza più
potente che mai sia stata raccolta per soggiogare una nazione" (v.
Ricardo, 1815; tr. it., pp. 346-347). Dunque il protezionismo
napoleonico fu all'origine della caduta dell'imperatore.
Nei successivi Principles of political economy and taxation Ricardo
presenta la sua nota teoria del commercio estero basata sui vantaggi
comparati. E osserva incidentalmente: "In un sistema di perfetta
libertà di commercio ogni paese rivolge naturalmente il
capitale e il lavoro agli impieghi che gli sono maggiormente
vantaggiosi. Questo perseguimento del vantaggio individuale si
accorda mirabilmente con il bene universale della società"
(v. Ricardo, 1817; tr. it., p. 92). Tuttavia, seppure liberista,
Ricardo non è un armonicista, perché la sua teoria
della distribuzione del reddito (secondo cui i salari crescono a
spese dei profitti, e la rendita tende anch'essa a comprimere i
profitti ove la sua crescita non sia opportunamente contrastata)
nasconde un latente conflitto fra le classi sociali. In alcuni
settori, inoltre, egli non sostenne un assoluto laissez faire. In
materia monetaria, per esempio, invocò la necessità
della concentrazione dei poteri di emissione nella Banca
d'Inghilterra, ispirando così il Peel's act del 1844 (v.
Robbins, 1952; tr. it., p. 29).I maggiori risultati della propaganda
liberista/liberoscambista in Inghilterra si ebbero con l'abolizione
della cosiddetta Old poor law (1834) e delle Corn laws (1846). La
prima - di origine elisabettiana - consisteva in un sussidio, a
carico delle 15.000 parrocchie, a favore dei lavoratori poveri ivi
residenti (v. Marshall, 1968, p. 12). L'argomento principe contro la
Poor law era che essa incoraggiava la pigrizia e la scarsa
iniziativa personale dei lavoratori, i quali per di più non
potevano emigrare da regione a regione, ma erano fissati per sempre
alla propria parrocchia d'origine. Thomas Robert Malthus, sempre
preoccupato che la popolazione crescesse più delle
sussistenze, accusò la Poor law di spingere i lavoratori a
matrimoni prematuri e quindi ad altrettanto premature procreazioni,
opinione condivisa anche da Nassau Senior (v. Robbins, 1952; tr.
it., pp. 88-90). L'abrogazione della legge portò a un acuirsi
della questione sociale e del pauperismo, cui si pose rimedio con la
prima legislazione sociale moderna nei decenni seguenti.
Le Corn laws, dal canto loro, rappresentavano un antico espediente
per controllare in qualche modo le fluttuazioni del prezzo del
grano, mediante un sistema di sovvenzioni (bounties) quando i prezzi
interni del grano erano troppo bassi, e con bassi dazi di
importazione quando i prezzi interni crescevano per via di cattivi
raccolti. Terminate le guerre napoleoniche, le Corn laws
funzionarono soprattutto come protezione dei proprietari fondiari.
Fin dal 1815 nei distretti industriali si andarono formando
associazioni per la loro abrogazione, finché nel 1838 venne
costituita la Anti-Corn law League, sotto la guida degli industriali
Richard Cobden, George Wilson e John Bright, e con la partecipazione
di uomini politici come Henry Brougham e Francis Place, e di
pubblicisti come Harriet Martineau e John Bowring (v. McCord, 1968).
La pressione della League sul governo conservatore di Robert Peel
ebbe successo: nel 1846 la protezione cerealicola venne abolita. Nel
1847 Cavour illustrava minuziosamente il sistema doganale inglese,
concludendo che "questo edifizio protettore, da tanti secoli
così gelosamente custodito dall'aristocrazia fondiaria, venne
in pochi anni interamente distrutto" (v. Cavour, 1962, p. 256), e ne
traeva alimento per una previsione di aumento delle esportazioni
italiane. Fra il gennaio e il giugno 1847 Cobden visitò
diverse città italiane e riscosse grande successo.
La Anti-Corn law League si collegò, ma non si
identificò del tutto, con la cosiddetta Manchester school of
economics: un gruppo informale ed eterogeneo, per il quale
l'appellativo di 'scuola', impressogli da Disraeli con intenti
negativi, è improprio. Anche la provenienza geografica dei
suoi membri era varia. Manchester fornì al gruppo soltanto
alcuni uomini d'affari che ne rappresentavano l'ala conservatrice;
altri esponenti erano philosophic radicals londinesi, allievi di
Bentham e attivi in Parlamento (v. Grampp, 1960). La propaganda per
il libero scambio, per quanto dichiaratamente ispirata agli
interessi dei manifatturieri, fu nobilitata da appassionati accenti
democratici (suffragio universale maschile), pacifisti e
'internazionalisti'. Il periodico che maggiormente si distinse nel
sostenere la causa del movimento fu l' "Economist", fondato nel 1843
da James Wilson. Per almeno quindici anni l' "Economist" - cui
collaborava l'ultraindividualista Herbert Spencer - fu un organo di
propaganda non solo del (limitato) free trade, ma di un generale
laissez faire (v. AA.VV., 1943, pp. 1-17; v. Gordon, 1971, pp.
201-202).
Negli anni cinquanta dell'Ottocento i due maggiori successi del
movimento furono la soppressione dei Navigation acts (1854) e della
East India Company (1858), entrambi retaggi della vecchia politica
mercantilista. L'Inghilterra medio-vittoriana divenne la Mecca del
libero scambio, che ebbe il suo coronamento con i governi liberali
presieduti da William Gladstone (v. Rees, 1933). Progresso economico
e liberismo andarono di conserva, anche se non furono accompagnati
dal desiderato pacifismo, almeno rispetto ai paesi extraeuropei.
L''imperialismo del libero scambio' praticato dall'Inghilterra
consentì infatti l'espansione coloniale in Africa e altrove
(v. Semmel, 1970).I principî del laissez faire ritardarono
invece l'adozione di misure a tutela dei lavoratori industriali.
Prevalse a lungo la tesi dei free agents: poiché i lavoratori
maschi adulti erano 'liberi agenti', lo Stato non poteva intervenire
nei contratti di lavoro 'liberamente' stipulati fra loro e i
padroni. Il laissez faire ammetteva al massimo la tutela del lavoro
minorile e femminile, in quanto queste categorie non appartenevano
ai free agents. La fissazione per legge del numero delle ore
lavorative fu avversata anche perché avrebbe diminuito il
saggio di profitto e scoraggiato l'accumulazione. Tuttavia si
arrivò a un compromesso e nel 1847 fu approvato il Ten hours
bill (v. Blaug, 1971; v. Taylor, 1972).
In Francia e in Italia il liberismo di metà Ottocento assunse
forma accentuatamente dottrinaria: segno, probabilmente, di una
società civile più arretrata, in cui la battaglia sui
principî era sentita più di quella sulle scelte
concrete. Nelle sue Harmonies économiques
Frédéric Bastiat, andando ben oltre Smith e Bentham,
afferma che "tutti gli interessi sono armonici" (v. Bastiat, 1850;
tr. it., p. 1; corsivo nel testo). I portatori di interessi
illegittimi, e perciò contrari all'armonia, sono per lui da
una parte i socialisti (per questo polemizza duramente con
Proudhon), e dall'altra i monopolisti e i protezionisti. Nei
Sophismes économiques Bastiat finge che sia stata rivolta al
Parlamento una Pétition des fabricants de chandelles contro
la sleale concorrenza della luce solare (v. Bastiat, 1845-1848). In
Baccalauréat et socialisme (1850) se la prende con
l'istruzione pubblica di tipo classico, matrice a suo dire del
socialismo, per invocare un'assoluta libertà di insegnamento
e l'abolizione di qualunque esame di Stato (cfr. il brano riportato
in Ferrara, 1956, pp. 432-434).
Dal canto suo Francesco Ferrara, il maggior economista del
Risorgimento, sviluppò soprattutto la critica
liberal-liberista allo Stato etico. Già Bastiat aveva
definito lo Stato come "la gran finzione per mezzo della quale tutti
si sforzano a vivere a spese di tutti" (cit. in Ferrara, 1956, p.
429). Nel suo Germanismo economico in Italia (1874) Ferrara
approfondisce il punto. Egli rimprovera "i professori tedeschi"
(cioè i "socialisti della cattedra", con i loro seguaci in
Italia) di "deificare lo Stato [...]. Lo han preso come un ente
reale; se lo figurano tal quale lo trovano dipinto in un trattato
giuridico, in una qualsiasi filosofia del diritto e della storia,
[...] mentreché nel mondo pratico lo Stato fu sempre e
sarà il governo, il gruppo degli uomini che comandano [...].
Quindi è che qualunque economia fondata su questo falso
concetto sarà falsa di sua natura" (v. Ferrara, 1972, p.
588). Ne consegue che il modello di condotta dello Stato-governo
deve essere desunto dall'operare di un mercato di perfetta
concorrenza. Scriveva Ferrara nel 1884: "L'ufficio del governare
è una fra le migliaia di occupazioni, una delle tante
industrie, uno de' tanti mestieri che [...] danno l'idea
dell'attività sociale [...]. Da ciò, una classe di
produttori, addetti a procurare quella tale utilità che si
chiama giustizia, ordine, tutela, in una parola governo [...].
L'utilità sociale che il governo produca non può, da
lui medesimo o da lui solo, estimarsi [...]. Sì, noi,
nazione-governata, siamo i soli a cui spetti il decidere se ella
meriti quel prezzo che il produttore-governo, per mezzo delle
imposte di cui ci aggrava, o delle privazioni a cui ci condanna,
pretenda di farcela costare [...]. Tale è la portata
dell'espressione che noi usiamo, libertà economica" (v.
Ferrara, 1976, p. 358). In questo modo Ferrara riteneva di aver
saldato insieme liberalismo politico e liberismo economico.
L'assimilazione dell'economia finanziaria all'economia privata
consentiva all'economista siciliano di definire a contrario i casi
in cui fra prelievo statale e spesa pubblica non vi sia perfetta
corrispondenza (in termini di utilità sottratta e restituita)
perché il prelievo risulta più oneroso di quanto non
risulti vantaggiosa la seconda. Casi che dovevano essere
analiticamente studiati da due economisti liberal-liberisti, ideali
discepoli del Ferrara: Antonio De Viti De Marco, con la fattispecie
dello Stato assoluto o monopolista, e Luigi Einaudi, sotto il
duplice profilo dell'imposta-grandine e dell'imposta-taglia (per un
quadro complessivo, v. Buchanan, 1960).
Mentre considerava realisticamente lo Stato come un'istituzione
artificiale, Ferrara riteneva la proprietà non una
istituzione, ma un connotato della natura umana, come tale
imprescindibile e in linea di massima inviolabile. Qui egli seguiva
gli idéologues liberali francesi del Sette-Ottocento, in
particolare Destutt de Tracy (v. Faucci, 1990, pp. 27-28). Questo
tratto 'proprietario' segna ideologicamente in senso conservatore il
suo pensiero, che peraltro non è privo di spunti libertari e
radicaleggianti, soprattutto nella critica alla contaminazione fra
politica e grandi affari nel Piemonte di Cavour e nell'Italia unita.
Molti di questi spunti - la lotta contro il monopolio della Banca
Nazionale, la denuncia del protezionismo doganale, ecc. - furono
ripresi da Vilfredo Pareto, che negli anni giovanili fu assiduo
dello stesso ambiente intellettuale (la Firenze del salotto Peruzzi)
frequentato precedentemente da Ferrara. Tutta la produzione
liberista del Pareto giovane è inoltre ispirata a un energico
pacifismo, umanitarismo, cosmopolitismo mutuati da Cobden (v.
Pareto, 1975).
4. Il Novecento: l'eclissi del liberismo
Il liberismo assoluto sognato dagli economisti non fu mai
realizzato neppure nel secolo in cui le idee liberiste ebbero
maggior seguito. Infatti, a partire dalla metà degli anni
settanta dell'Ottocento, i rapporti economici internazionali si
orientarono in senso protezionista. L'Italia si convertì a un
moderato protezionismo con la riforma doganale del 1878, e a un
protezionismo più deciso nel 1887. Anche l'intervento attivo
dello Stato per lo sviluppo industriale, soprattutto tramite le
commesse militari, era molto al di fuori dei canoni liberisti.
Tuttavia è solo dopo la prima guerra mondiale che il
liberismo - sia come dottrina, sia come prassi di politica economica
- entrò in una crisi più generale. L'enorme spesa
militare, la riconversione industriale, il reinserimento dei
combattenti nell'attività produttiva, l'inflazione che in
alcuni paesi determinò l'annullamento del potere d'acquisto
della moneta (come in Germania, nel 1923) furono tutti fattori che -
ancor prima che sconsigliarlo - resero impossibile il ritorno
all''età dell'oro' precedente, quell'età
caratterizzata da un'incessante accumulazione di capitale in mani
private, che John Maynard Keynes rappresenta con grande maestria
nelle prime pagine di The economic consequences of the peace (1919).
Keynes è probabilmente il primo economista che
consapevolmente separa liberismo e liberalismo. Nel 1923 critica
come depressive le politiche liberiste con cui il cancelliere dello
scacchiere Winston Churchill intende ritornare alla parità
prebellica sterlina-oro (v. Keynes, The economic..., 1925). Continua
però a dichiararsi partecipe dei valori della cultura
borghese e nel 1925 scrive: "La lotta di classe mi troverebbe dalla
parte della borghesia colta" (v. Keynes, Am I..., 1925; tr. it., p.
249), e così commenta l'esperimento rivoluzionario russo:
"Come posso adottare un credo che [...] esalta il rozzo proletariato
al di sopra della borghesia e dell'intelligencija, le quali [...]
sono l'essenza della vita e portano sicuramente in sé il seme
di ogni progresso umano?" (v. Keynes, A short..., 1925; tr. it., p.
231). Tuttavia nel 1926 afferma che "il problema politico
dell'umanità consiste nel mettere insieme tre elementi:
l'efficienza economica, la giustizia sociale e la libertà
individuale" (v. Keynes, Liberalism..., 1926; tr. it., p. 262) e che
l'individualismo è solo una delle componenti necessarie per
raggiungere questi obiettivi. Nello stesso anno proclama che il
laissez faire è finito: l'economia di mercato descritta (o
sognata) dai fondatori dell'economia politica non esiste più,
dato il prevalere, da una parte, "di organismi semiautonomi
all'interno dello Stato", e dall'altra, della "tendenza della grande
impresa a socializzarsi" (v. Keynes, The end..., 1926; tr. it., p.
241). Ne deriva che l'elenco degli agenda benthamiani è
profondamente cambiato. Gli agenda "non riguardano le
attività che gli individui già svolgono, ma le
funzioni che cadono al di fuori della sfera dell'individuo, le
decisioni che, se non le assume lo Stato, nessuno prende.
L'importante per il governo non è fare le cose che gli
individui stanno già facendo, e farle un po' meglio o un po'
peggio, ma fare le cose che al presente non vengono fatte per
niente" (p. 243). Finalmente, in una conferenza del 1930, afferma in
modo volutamente paradossale che fra le "prospettive economiche dei
nostri nipoti" rientra nientemeno che la "fine del problema
economico", inteso come problema della scarsità delle risorse
rispetto ai bisogni, e che il problema principale del futuro sarebbe
stato il miglior impiego del tempo libero (v. Keynes, 1930; tr. it.,
pp. 278 e 280).
Ex post possiamo dire che queste profezie si sono oggi
(relativamente) avverate, almeno nei paesi più sviluppati. Ma
quando Keynes le formulava, si era nel corso della 'grande
depressione', e suonavano come utopistiche o peggio. Luigi Einaudi
le bollò in quest'ultimo senso, come "storia scritta da un
Marx in ritardo" (v. Faucci, 1986, p. 256). L'economista piemontese
si assunse negli anni fra le due guerre la funzione di difensore del
liberismo dagli attacchi che, nell'Italia fascista, provenivano da
parte corporativista, ma che altrove erano avanzati da keynesiani,
democratici rooseveltiani e socialisti più o meno
marxisti.Nell'arco del decennio 1931-1941 Einaudi discusse a lungo
con Benedetto Croce su liberismo e liberalismo. Per il filosofo i
due concetti sono posti su due piani completamente differenti, in
quanto il primo ha carattere empirico ed è quindi transeunte,
mentre il secondo ha autentico carattere filosofico ed è
eterno. Ma obietta Einaudi che in questo modo la religione della
Libertà predicata da Croce è adatta a un popolo di
anacoreti, non agli uomini comuni, desiderosi di vedere la
Libertà incarnarsi nella varietà delle scelte
economiche, nella facoltà di lavoro e di movimento, ecc. (v.
Croce ed Einaudi, 1957; v. Faucci, 1986, pp. 297-300).
Mentre Croce non mutò le sue idee circa il carattere non
filosofico del liberismo, Einaudi - anche per la suggestione su di
lui esercitata dal pensiero dell'economista tedesco Wilhelm Roepke
(su cui v. Frumento, 1968) - fu spinto a caricare il liberismo di
nuovi contenuti intellettuali. Egli identificò il sistema di
libero mercato non con l'economia capitalistica vigente, ma con una
specie di 'città divina' affiorante qua e là nel corso
dei secoli: l'Atene di Pericle, i Comuni medievali, alcuni momenti
della società europea del Settecento e Ottocento. Tale 'terza
via', peraltro, non avrebbe mai dovuto aver a che fare con i 'piani'
(v. Einaudi, 1942).
Allievo di Einaudi fu Ernesto Rossi. Antikeynesiano, sensibile alla
lezione di Pareto e di De Viti De Marco oltre che degli utilitaristi
inglesi, egli coniugò liberismo e radicalismo riformatore,
denunciando in numerosi volumi sprechi, inefficienze e indebiti
favori statali ai privati, e animando l'attività degli Amici
del "Mondo" su temi come la politica antimonopolistica (v., per
esempio, Piccardi e altri, 1955). La nazionalizzazione
dell'industria elettrica, avvenuta nel 1962, mentre fu osteggiata
dai liberisti di destra presenti nel Partito Liberale di Giovanni
Malagodi, fu sostenuta dai liberisti di sinistra, che la ritenevano
necessaria per risolvere una situazione di monopolio privato (v.
Rossi, 1962). Si trattò peraltro di posizioni politicamente
minoritarie, in un panorama dominato dal nuovo interventismo
keynesiano coniugato con l'antico solidarismo cattolico (mentre
l'intelligencija marxista non era liberista per ragioni
ideologiche).
5. Luci e ombre del neoliberismo contemporaneo
La ricostruzione economica del dopoguerra fu condotta, in Italia
come nel resto dell'Europa, su basi keynesiane di sostegno della
domanda aggregata attraverso una massiccia spesa pubblica e
investimenti pubblici in infrastrutture. Queste politiche
consentirono per molti anni il 'miracolo' di una crescita stabile e
senza disoccupazione, favorita peraltro dall'ampliamento degli
scambi internazionali e dai processi di liberalizzazione e
unificazione dei mercati (Comunità Europea del Carbone e
dell'Acciaio, 1951; Comunità Economica Europea, 1957) e, nel
caso italiano, dall'imponente flusso di migrazione dal Sud al Nord.
Liberoscambismo internazionale e liberismo interno non hanno
marciato di pari passo.
È a partire dagli anni settanta che il modello keynesiano
viene messo in discussione dall'aggravarsi dell'inflazione, da una
parte, e dal ristagno produttivo con crescita della disoccupazione,
dall'altra. Soprattutto nell'area anglosassone gli economisti si
riavvicinano al liberismo, ritenendo che la burocratizzazione
dell'economia per effetto della crescita del settore pubblico - con
conseguente mortificazione dell'iniziativa privata - abbia gravi
responsabilità per la situazione. Il neoliberismo presenta
però un fronte eterogeneo. Alcune proposte di politica
economica sono ormai largamente condivise, come quelle di
deregulation (v. Cassese e Gerelli, 1985) di molti settori economici
nei quali si ritiene che l'intervento statale abbia effetti
controproducenti (per esempio le tariffe aeree). Altre proposte di
privatizzazione (specie nel settore sanitario e pensionistico)
incidono invece profondamente sul Welfare State (v. Caffè,
1986). I risultati di queste politiche liberiste-privatiste -
sperimentate soprattutto negli Stati Uniti durante l'amministrazione
Reagan (1980-1988) - sono di difficile valutazione, anche
perché l'innegabile sviluppo economico americano di quegli
anni ha coinciso con una crescita della spesa pubblica (bellica) che
certo non fa parte della dottrina liberista.
Sul piano delle idee il neoliberismo economico ha il suo centro
forse più importante nell'Università di Chicago, dove
ha insegnato il premio Nobel Milton Friedman. Fondatore
dell'indirizzo 'monetarista', più interessato alla politica
economica che alla teoria e alla storia del pensiero, Friedman
è sostenitore, in polemica con i keynesiani, di una politica
priva di interventi discrezionali e rivolta soprattutto a mantenere
costante la crescita dell'offerta di moneta (v. i saggi raccolti in
Bellone, 1972). In vari testi per il grande pubblico Friedman esalta
il ruolo del capitalismo concorrenziale nei risultati ottenuti nel
dopoguerra da Germania, Giappone e Hong Kong, rispetto ai risultati
insoddisfacenti di paesi 'pianificatori' come l'India (v. Friedman,
1962; v. Friedman e Friedman, 1980 e 1984).
Maggiore profondità concettuale hanno le riflessioni di
Friedrich A. von Hayek, anch'egli per molti anni professore a
Chicago e capofila, insieme al suo maestro Ludwig von Mises, della
cosiddetta scuola neoaustriaca (v. Cubeddu, 1992). Partito negli
anni trenta dall'analisi economica delle crisi, nella quale si era
opposto alle tesi keynesiane (ma le sue teorie sul credito sono
state di recente riprese e valorizzate), nel dopoguerra si è
rivolto prevalentemente alla speculazione filosofico-politica.
Centrale in essa è il rapporto fra individuo, conoscenza e
mercato (v. Hayek, 1988). Il primo è dotato di forze limitate
e di conoscenza imperfetta; il mercato è l'istituzione che
consente a queste forze e a questa conoscenza di raggiungere
risultati che si pongono al di là degli scopi individuali.
Hayek contrappone al 'costruttivismo' (credere che le istituzioni
dipendano da un preciso atto di volontà degli individui) la
nota idea settecentesca della loro origine spontanea e non
intenzionale: idea che egli fa risalire a Vico, Smith e Ferguson, ai
quali aggiungeremmo Galiani. Hayek è particolarmente efficace
nel presentare il mercato come il luogo in cui avviene nel modo
migliore la selezione naturale. Interessanti anche le sue
riflessioni sulla differenza fra cósmos (ordine spontaneo) e
táxis (ordine artificiale) nei fenomeni economici. Avversario
di ogni regime democratico-giacobino, ai partiti politici (portatori
dell'aborrita 'volontà generale') propone di sostituire
gruppi di opinione di sapore ottocentesco (v. Hayek, 1978). Per
molti versi egli appare un epigono di Bastiat (della cui traduzione
inglese è prefatore: v. Bastiat, 1964) e di Ferrara: a
cominciare dalla critica del concetto di 'giustizia sociale'
(cioè distributiva), che ritiene incompatibile con l'ordine
naturale di un'economia autenticamente competitiva (v. Jossa, 1994,
p. 12).
Nonostante la fortuna di Hayek, le tendenze più recenti
sembrano approfondire, anziché colmare, il divario fra
liberismo e liberalismo (v. Ricossa, 1989, pp. 65 ss.). Alcuni
pensatori liberali si sono maggiormente interessati al problema
della giustizia, rovesciandone il tradizionale rapporto di
subordinazione con la libertà e facendone il cardine del
liberalismo politico (v. per tutti Rawls, 1971 e 1993). Dal canto
loro autori come il premio Nobel James Buchanan, seppure liberisti e
insieme liberali, procedono con maggiore prudenza nella critica
delle istituzioni, distinguendo fra un livello 'costituzionale' -
che detta le regole ed è necessario a un'economia
autenticamente liberista - e un livello amministrativo e
discrezionale, che va sfrondato radicalmente (v. Buchanan, 1977 e
1986; v. Brennan e Buchanan, 1985). Non è dunque da escludere
un ritorno di tipo benthamiano del liberismo nell'alveo del pensiero
democratico.