Lavoro 
    
    Enciclopedia del Novecento
    (1978)
    
    
    di Jean Fourastié e Gino Giugni
  
  LAVORO
  
  Lavoro di Jean Fourastié 
  
  sommario: 1. Introduzione generale. a) Il
    
    ‛fatto' del lavoro è millenario, il termine
      ‛lavoro' è recente. b) Concezione tradizionale e
        concezione contemporanea del lavoro. 2. Considerazioni
    generali sul lavoro. Storia del lavoro umano. a) L'umanità
      
      senza il lavoro. b) Lavoriamo per produrre. c) Come
        
        lavoriamo. d) Le scienze, le tecniche e la
          produttività del lavoro. 3. L'organizzazione del
    lavoro. La divisione del lavoro. Costrizioni, gerarchie,
    subordinazione. a) Preparazione del lavoro e organizzazione del
      lavoro. b) Effetti della produttività del lavoro. c) Settore primario, secondario e terziario. d) Costrizioni, gerarchie, subordinazione.
    4. La durata del lavoro. a) L'evoluzione della durata del
      lavoro. b) Lavoro e tempo libero. c) La
        ripartizione delle ore di lavoro e di libertà. d) L'opzione
          
          ‛durata del lavoro/livello di vita' e le ‛40.000 ore'. 5.
    Occupazione, disoccupazione e sottoccupazione. a) L'evoluzione
      della struttura dell'occupazione. b) Disoccupazione e
        sottoccupazione. c) Lotta contro la disoccupazione e la
          sottoccupazione. 6. Prospettive del lavoro. a) I 
            problemi già affrontati. b) Gli sviluppi in
              corso. c) I problemi dell'avvenire. □
    Bibliografia.
    
    1. Introduzione generale
  
    a) Il ‛fatto' del lavoro è millenario, il
      termine ‛lavoro' è recente
    Tentiamo di dare una definizione del lavoro: esso è
    costituito da tutte le attività umane necessarie alla
    sopravvivenza, cioè alla conservazione della vita umana in un
    ambiente che, senza queste attività, sarebbe assai
    sfavorevole per l'uomo. Non c'è vita senza lavoro; questo
    è vero per gli uomini come per gli animali: anche le specie
    più elementari sono obbligate a ‛lavorare' per sopravvivere.
    Devono ricercare il loro nutrimento, sceglierlo in mezzo a una
    moltitudine di materie e di esseri in maggioranza inutili e ostili;
    per la maggior parte del tempo devono attaccare e distruggere gli
    esseri (animali e vegetali) che ‛consumano'; devono inoltre
    difendersi, a loro volta, da quegli esseri che, al contrario, li
    ricercano per ‛consumarli'.
    L'uomo non si limita però a consumare cibo, ed è
    l'unico tra gli animali a essere caratterizzato da una
    molteplicità di bisogni che esigono un'appropriazione e una
    trasformazione della natura. Col passare del tempo, gli uomini sono
    diventati sempre più ambiziosi riguardo a ciò che
    chiamano il ‛minimo vitale'. In origine gli ominidi si contentavano,
    come gli altri animali, di una vita vegetativa, in cui il lavoro
    serviva unicamente a procurarsi il cibo; ma più aumentava
    l'efficienza del lavoro, più diventava loro possibile
    accedere a condizioni di vita meno elementari. Gli uomini, dunque,
    sono oggi capaci di lavorare non solo per assicurarsi la
    sopravvivenza, ma anche per acquisire beni che, ai nostri antenati,
    sarebbero potuti sembrare inutili, se non addirittura scandalosi,
    immorali o grotteschi (per es.: il comfort moderno, i film e i libri
    erotici, lo smalto per le unghie dei cani di lusso).
    Il termine ‛lavoro' deriva da parole che significano
    difficoltà e persino pena o sofferenza; gradualmente, una
    parola che, nelle lingue europee, designava ogni tipo di
    difficoltà è diventata il termine oggi usuale per
    indicare lo sforzo compiuto per la produzione economica di beni e di
    servizi. Che quest'accezione sia così recente in tutte le
    lingue è un fatto assai istruttivo, derivante essenzialmente
    da due circostanze. In primo luogo i nostri antenati non
    distinguevano ciò che noi oggi chiamiamo lavoro dal
    non-lavoro. Non esisteva un impiego del tempo, non esistevano orari;
    gli uomini non avevano un'idea precisa della durata; per esempio,
    non sapevano mai esattamente la loro età; lo storico francese
    L. Febvre ha descritto in maniera eccellente il ‛tempo dormiente' e
    indeterminato in cui vivevano i nostri antenati. In tali condizioni
    era impossibile suddividere il tempo, come facciamo noi, in tempi
    ‛specializzati' e misurati.
    Cosa ancora più importante, ai nostri antenati non veniva in
    mente l'idea di distinguere tra lo sforzo destinato a ciò che
    noi chiamiamo la produzione e ogni altro sforzo, tra un certo tipo
    di fatica o di difficoltà e tutti gli altri. Ripartire la
    vita tra lavoro, sonno, festa, tempo libero, pasti, ecc., sarebbe
    sembrato loro non soltanto inutile e senza interesse, ma ridicolo,
    arbitrario e nocivo. Il gioco, antenato del tempo libero, era per
    esempio un modo di iniziarsi all'azione e di padroneggiarla. Il
    gioco è un'attività molto importante, un fattore
    essenziale non solo della condizione umana, ma anche della
    condizione animale. Il gioco serve a misurarsi gli uni con gli
    altri, è un'integrazione della vita che,
    nell'antichità, era molto più spontanea che ai nostri
    giorni; continuando anche in età avanzata, era
    indissolubilmente intrecciato con gli altri atti della vita, e in
    particolare con quegli sforzi che oggi chiamiamo lavoro.
    
    b) Concezione tradizionale e concezione contemporanea del
      lavoro
    Esse sono radicalmente diverse. E ben vero, tuttavia, che si tratta
    in entrambi i casi di attività necessarie alla vita (alla
    sopravvivenza e all'esistenza). Lo scopo è dunque il
    medesimo. Ma i ‛mezzi' sono concepiti in modo del tutto differente.
    Il lavoro tradizionale era una ‛preghiera', un atto rituale; il
    processo fisico non era altro che il riflesso di un atteggiamento
    mentale che aveva come oggetto la modificazione di una realtà
    concepita come ‛soprannaturale'. Il lavoro era molto più
    faticoso, ma era anche molto meglio accetto, essendo la
    manifestazione formale di un'adesione spirituale all'ordine del
    mondo. Il lavoro contemporaneo è invece, com'è noto,
    una tecnica, un atto puramente naturale, senz'altro effetto che
    quello di modificare la realtà fisica naturale: è
    privo di ripercussioni sul ‛soprannaturale'.
    Per i nostri antenati, la realtà naturale non era altro che
    l'apparenza di una realtà soprannaturale, che dava alla prima
    ordine ed esistenza. Il corpo è ‛animato' dall'anima; un
    corpo senz'anima è un cadavere ‛inanimato'. Il mondo della
    vita sembrava loro distinto dal mondo della materia in virtù
    dell'animazione impressa dallo spirito - soprannaturale - il quale
    è la verità e la potenza. La vita è
    caratterizzata dal movimento; questa vita, questo movimento non sono
    dovuti alla materia, al corpo fisico, ma alla presenza di un'anima
    nel corpo fisico. La morte è la perdita dell'anima. Questa
    nozione veniva applicata a ogni essere vivente. Tutto ciò che
    vive, vive grazie all'anima, cioè grazie a realtà
    soprannaturali, a ‛spiriti'.
    Questa rappresentazione del mondo, che distingue lo spirito dalla
    materia, può essere paragonata al nostro modo attuale di
    concepire l'energia. Oggi diremmo che in ogni corpo vivente
    dev'esserci dell'energia; l'energia non è però
    ‛spirito': è una forma, in verità molto misteriosa,
    della materia; è il risultato di una disintegrazione della
    materia.
    Perché un granello di frumento germogli, sono necessarie
    forze che lo valorizzino. I nostri antenati spiegavano questo
    spettacolo abituale che avevano sotto gli occhi attraverso il
    soprannaturale. Soltanto il soprannaturale - l'anima, lo spirito -
    può modificare il reale, far germogliare il frumento, far
    nascere un bambino. In questa concezione del mondo, lavorare
    significa per l'uomo tentare di dominare le forze soprannaturali, o
    per lo meno tentare di ottenere un accordo di quelle forze
    spirituali che trasformano la natura e che, partendo da un granello
    di frumento, danno altri venti o trenta granelli di frumento. Di qui
    la concezione ‛magica' del lavoro propria dei nostri antenati: si
    trattava di conciliarsi le potenze soprannaturali per ottenerne
    quelle azioni che esse sole potevano compiere. È necessario
    assicurarsi la benevolenza degli spiriti soprannaturali per poter
    modificare il reale inanimato in modo vantaggioso per l'uomo.
    Il lavoro tradizionale era quindi una preghiera rivolta da una
    persona a una persona, un atto religioso; il lavoro più duro,
    più ripugnante comportava ‛entusiasmo'. Oggi, l'entusiasmo
    per il lavoro è diventato inconcepibile. In altri tempi,
    anche uno schiavo costretto a fare lavori penosi, di cui non avrebbe
    goduto i frutti, aveva la soddisfazione di compiere un atto
    religioso. Lavorando, pensava di partecipare all'ordine del mondo e,
    a un tempo, con i suoi meriti, con le sue prove, di elevarsi nella
    gerarchia in esso implicita.
    La nozione di giustizia era radicalmente differente da quella
    odierna. Essere giusto equivaleva a dare a ciascuno la posizione,
    l'autorità e la funzione che gli spettavano nell'ordine del
    mondo: il re e l'imperatore erano riconosciuti come tali, il
    capofamiglia come pater familias, il cittadino come
    cittadino, lo schiavo come schiavo, ciascuno faceva ciò che
    la propria posizione gli imponeva di fare.
    Oggi noi siamo privati di quel ruolo sacro che i nostri antenati
    svolgevano in una natura ‛stregata' dal soprannaturale. Il
    lavoratore è ridotto a svolgere un ruolo meccanico in un
    mondo laicizzato, che deve bastare a se stesso. Al di sopra della
    realtà dura e piatta non c'è più un cielo.
    Questa introduzione, che forse può sembrare a certi lettori
    estranea all'argomento, permette invece di comprendere la
    gravità dei problemi del lavoro nel mondo attuale. Il
    considerarli dal solo punto di vista della tecnica e dell'efficienza
    equivale a votarsi a errori gravidi di conseguenze. L'uomo vive
    ‛mentre' lavora, ed è vano sperare in un'umanità che
    sopravviva come tale, se la ricerca degli obiettivi economici a
    breve o medio termine mutila l'uomo, nel lavoro, della sua
    dignità di uomo e della sua fede nella finalità del
    mondo. Non voglio certo dire che l'umanità debba ritornare
    alle sue ingenue concezioni magiche del lavoro; ma neppure
    può accettare in modo duraturo una concezione puramente
    tecnica, analitica ed economica della propria esistenza e, di
    conseguenza, del proprio lavoro.
    L'umanità ha appena vissuto e sta vivendo, unitamente a un
    progresso scientifico ed economico che supera in modo stupefacente
    le sue millenarie speranze, un trauma culturale e spirituale. Gli
    ingegneri, gli uomini d'azione, i Ford, i Citroën, che hanno
    dato inizio a questo sviluppo prodigioso e oggi lo accelerano,
    debbono sapere che la massa del popolo, pur beneficiando del
    miglioramento del livello di vita e dell'allungamento della durata
    della vita che le tecniche industriali e mediche permettono, si
    trova oggi sempre più spaesata e disorientata nell'ambiente
    razionale, meccanicizzato e organizzato che lo ‛sviluppo'
    sostituisce rapidamente all'ambiente naturale. Rappresentando con
    Atala gli elementi sentimentali, affettivi, poetici e sensibili che
    costituiscono il cuore dell'uomo (Atala, un'indiana Natchez,
    è un personaggio ben noto di un celeberrimo racconto di
    Chateaubriand), si può dire, per esemplificare la crisi del
    nostro tempo, che ‛Atala lavora alla Citroën'.
    Per riconciliare Atala con il suo lavoro, con il genere di vita, le
    gerarchie, le organizzazioni, gli organigrammi che la Citroën
    le impone in nome dell'efficienza e del livello di vita, non bastano
    tutte le scienze fisiche e umane: non solo le tecnologie
    industriali, ma la psicologia, la biologia, la sociologia, la
    storia, l'etnologia ecc. È vano e pericoloso pensare che si
    possa separare il lavoro dalle altre attività dell'uomo e
    dare all'umanità un equilibrio vitale senza darglielo
    anzitutto nel lavoro. I problemi del lavoro sono problemi umani.
    Questi problemi sono numerosi e non possiamo pensare di affrontarli
    tutti qui. I trattati di diritto, di tecnologia, di organizzazione e
    di sociologia del lavoro abbondano in tutte le lingue. La
    bibliografia sull'argomento è vastissima.
    Enumeriamone rapidamente le principali suddivisioni classificandole,
    abbastanza arbitrariamente, in quattro gruppi: a) implicazioni degli
    aspetti fisici e biologici, specialmente in materia di sicurezza del
    lavoro, d'igiene, di prevenzione delle malattie e di incidenti sul
    lavoro; b) diritto del lavoro, diritto delle assicurazioni sociali e
    poi della previdenza sociale, che sono diventati uno dei settori
    principali dell'insegnamento e della prassi del diritto; esso
    comprende in particolare lo studio del contratto di lavoro, dei
    contratti collettivi, delle assicurazioni contro gli incidenti di
    lavoro e la disoccupazione; comprende anche gli importanti capitoli
    relativi al diritto sindacale, agli scioperi, ecc.; c) economia del
    lavoro, che implica la nozione di impresa e di produzione nazionale;
    comprende i problemi di ripartizione dei frutti della produzione,
    dunque i salari e i profitti, l'ampiezza del ventaglio dei redditi -
    dal manovale al direttore generale -, le relazioni tra salari,
    potere di acquisto, livello di vita e produttività; d)
    sociologia del lavoro, che comprende i grandi capitoli della
    psicologia dei gruppi e delle organizzazioni, le ‛relazioni umane
    nel lavoro', i conflitti collettivi, i problemi di
    responsabilità, di ‛partecipazione' alle decisioni, di
    gerarchia, di circolazione dell'informazione, ecc.
    In questo articolo il lavoro sarà esaminato dal punto di
    vista economico e sociale, dunque dal punto di vista della vita
    quotidiana dell'uomo medio, degli sviluppi recenti e delle
    prospettive per il prossimo avvenire.
    
    2. Considerazioni generali sul lavoro. Storia del
    lavoro umano
    
    In passato il lavoro era la vita stessa. Si è potuto dire:
    ‟L'uomo è nato per il lavoro così come l'uccello
    è nato per cantare" (Saci), poiché nulla è
    stato dato gratuitamente all'uomo. Rousseau ha potuto vantare la
    bellezza della natura che può esser fonte d'ispirazione per i
    poeti; ma, secondo un'espressione un po' semplicistica, essa ‛non
    nutre l'uomo'. La risposta all'interrogativo ‛perché
    lavoriamo?' è semplice: lavoriamo per produrre, per
    sopravvivere. 
    Tutto quello che consumiamo è creazione del lavoro umano,
    anche quei beni che giudichiamo i più ‛naturali', come il
    grano, le patate o la frutta.
    
    a) L'umanità senza il lavoro
    Esiste una netta tendenza a collocare nel passato l'età d'oro
    dell'umanità. Secondo quest'idea, tutto sarebbe stato dato
    gratuitamente all'uomo in una sorta di paradiso terrestre, mentre ai
    giorni nostri, al contrario, tutto sarebbe diventato guasto e
    difficile. Questa tendenza, che assume nel pensiero di Rousseau una
    colorazione popolare e persino rivoluzionaria, è rimasta viva
    nello spirito dell'uomo medio. Dappertutto si sente parlare ancora
    dei vantaggi dei prodotti naturali; e d'altra parte molti oggi
    pensano sinceramente che la vita d'altri tempi fosse più
    ‛sana' di quella attuale.
    In realtà possiamo affermare, e tutte le attuali scoperte
    della storia e della preistoria lo confermano, che la natura allo
    stato naturale è una dura matrigna per l'umanità. Il
    latte cosiddetto ‛naturale' di vacche allevate in modo ‛naturale'
    può dare la tubercolosi e la vita chiamata ‛sana', in altri
    tempi, sotto il profilo della mortalità (in particolare della
    mortalità infantile) dava risultati spaventosi: un bambino su
    tre moriva prima di raggiungere l'anno di età e, dei due
    rimasti, uno solo superava in Francia, Italia e Inghilterra - ancora
    fino al 1750 - i 25 anni d'età.
    A un'umanità senza lavoro e soprattutto senza tecnica, il
    globo terrestre consentiva unicamente una vita limitata e
    vegetativa. Alcune centinaia di milioni di individui sopravvivevano
    a un livello di vita animale nelle regioni subtropicali.
    Tutti gli attuali consumi degli uomini sono resi possibili, infatti,
    da invenzioni del lavoro umano, anche quelli generalmente ritenuti i
    più ‛naturali', come i consumi di cereali, patate e frutta. I
    cereali sono stati trasformati e migliorati attraverso un lento
    lavoro, con la selezione di alcune graminacee; il nostro grano
    odierno, per esempio, è così poco ‛naturale' che, se
    gli uomini sparissero dalla faccia della terra, sparirebbe anch'esso
    in meno di 50 anni, così come tutti gli altri cereali. La
    stessa sorte seguirebbero tutte le altre piante coltivate: alberi da
    frutta, rosai, verdure, ecc., come pure il bestiame da macello;
    questi perfezionamenti profondi, questi miglioramenti introdotti
    dall'uomo resistono soltanto perché sono difesi contro la
    natura; essi hanno valore per l'uomo, ma hanno valore solo per suo
    mezzo.
    E che dire poi degli oggetti manufatti, dei tessili, della carta,
    degli apparecchi televisivi, delle lavatrici, di tutti i prodotti
    artificiali creati, fabbricati dal solo lavoro umano! Che concludere
    da tutto quest'insieme di cose, se non che l'uomo è un essere
    vivente, i cui bisogni non sono in accordo totale con il mondo in
    cui vive? Per armonizzare i bisogni della sua vita con la natura
    è necessaria una lotta, una trasformazione, un lavoro.
    Per meglio chiarire la cosa, è necessario paragonare l'uomo
    agli animali, compresi quelli più evoluti nella gerarchia
    biologica. Un mammifero, un bue, un lupo, un gatto o una capra si
    contentano dei soli prodotti naturali: per un montone non c'è
    niente di meglio dell'erba, per un gatto affamato non c'è
    niente di meglio di un topo; e, una volta sazi di cibo, gli animali
    non pensano certo a procurarsi oggetti come orologi, pipe o
    cappelli. Soltanto l'uomo ha bisogni non naturali. E questi bisogni
    non naturali sono immensi. La terra non può produrre tutto
    quello che l'uomo desidera consumare: egli ha infatti bisogno di
    pane, di pesce (pescato e cotto), di ciliege (che però non
    siano selvatiche), eccetera. Ma bisognerebbe anche, per
    accontentarlo, che le case sorgessero dalla terra in modo naturale,
    come le piante, con riscaldamento centrale, bagno e televisione.
    Per precisare ancor meglio i fatti, si può affermare che, sul
    nostro globo terrestre, l'ossigeno è il solo elemento
    naturale che possiamo sfruttare senza lavoro. È infatti la
    natura che soddisfa, senza restrizioni e senza sforzo, a uno dei
    nostri bisogni essenziali: la respirazione. Perché
    l'umanità potesse sopravvivere senza il lavoro, sarebbe
    necessario che la natura desse all'uomo tutto quello di cui sente il
    bisogno così come gli dà l'ossigeno dell'aria (non si
    può citare l'acqua, perché occorre attingerla,
    trasportarla e, a volte, filtrarla).
    
    b) Lavoriamo per produrre
    Perché lavoriamo dunque? Per trasformare la natura, che allo
    stato naturale non può soddisfarci, in elementi artificiali
    capaci di appagare i nostri più svariati bisogni. Lavo riamo
    per trasformare l'erba selvatica in grano e poi in pane, le rose di
    macchia in rosai, i ciottoli in acciaio e poi in automobili.
    Comprendiamo, allora, come si tratti di un compito difficile, che
    è ben lontano dal soddisfare con facilità i nostri
    bisogni; c'è, infatti, un gran divario tra quello che la
    natura allo stato naturale ci offre e quello che noi desidereremmo
    ricevere!
    Da quando sono comparsi sulla terra - la loro storia ha già
    500 milioni di anni - gli ominidi hanno appreso, dapprima lentamente
    e poi, da circa un secolo, in modo tumultuoso, ad accrescere il loro
    potere di trasformare la natura; hanno lavorato, hanno creato
    tecniche, hanno specializzato il proprio lavoro.
    Il divario esistente tra i nostri bisogni potenziali - cioè
    il volume dei beni che saremmo capaci di consumare se la natura ce
    li fornisse allo stesso modo in cui ci fornisce l'ossigeno - e i
    beni effettivamente prodotti attraverso il nostro lavoro -
    cioè strappati alla natura e resi consumabili - è
    così considerevole che tutti i sistemi economici finora
    osservati e osservabili sul nostro pianeta comportano un meccanismo
    di razionamento.
    
    c) Come lavoriamo
    Possiamo facilmente comprendere come il globo terrestre non possa
    sostentare, se non a malapena, la vita umana. È infatti
    necessario, per sopravvivere, modificare la natura e, talvolta,
    anche distruggerla. Ma l'uomo, ridotto alle sole sue forze, è
    un essere debole; per migliaia di anni, schiacciato dal solo compito
    di tentare di sopravvivere, è stato ridotto a una vita
    vegetativa in cui venivano adoperate soltanto le sue facoltà
    biologico-animali. E questa, senza dubbio, è ancora la
    situazione di metà dell'umanità dei nostri giorni.
    Il progresso è arduo: non è facile ‛realizzare
    l'umanità'. Ed è attraverso un'evoluzione estremamente
    lenta che gli uomini hanno appreso a sfruttare la natura con una
    certa efficienza. Gli abitanti dell'India e della Cina non sanno
    ancora cavar fuori dalla terra se non dieci o quindici quintali di
    grano o di riso per ogni anno di lavoro. Ora, con un lavoro
    infinitamente meno faticoso e meno lungo - ma sempre nel corso di un
    anno - un lavoratore americano che coltivi ‛da solo' 100 ettari, ne
    ricava non dieci quintali, ma trenta tonnellate, cioè trenta
    volte più del lavoratore asiatico. Quest'enorme differenza
    tra l'Oriente e l'Occidente illustra la potenza della
    produttività del lavoro. Il fatto che una gran parte
    dell'umanità sia ancor oggi non solo incapace di scoprire
    queste tecniche, ma anche scarsamente in grado di utilizzarle o di
    imitarle quando vengano scoperte, mostra quanto tempo occorra allo
    spirito scientifico sperimentale per nascere, per svilupparsi e per
    prevalere nella prassi abituale. Ma da 100-150 anni la scienza
    sperimentale comincia a rivelare la sua fecondità modificando
    profondamente la maggior parte delle nostre tecniche di lavoro.
    
    d) Le scienze, le tecniche e la produttività
      del lavoro
    Il lavoro dell'uomo è valorizzato dallo spirito scientifico;
    dalla conoscenza del mondo ingegneri, innovatori e scienziati
    deducono tecniche, cioè metodi di lavoro sempre più
    efficienti. Ma l'evoluzione ha richiesto lunghi secoli, o piuttosto
    millenni; se miliardi di uomini sono nati sulla terra, pochissimi
    sono stati infatti gli innovatori, pochissimi hanno dato
    all'umanità nuove tecniche.
    La ricerca dell'efficienza del lavoro è difficile, lenta e
    complessa. Questa ricerca conduce, o costringe, gli uomini a
    costituire gruppi di lavoratori specializzati, chiamati ‛imprese':
    la produttività obbliga in tal modo l'umanità a
    ricorrere alla divisione del lavoro, la quale obbliga a sua volta
    allo scambio. Lo scambio si fa sempre tra due prodotti differenti,
    per esempio tra dei vestiti e un apparecchio radiofonico, tra una
    certa quantità di carne e dei tegami, ecc.; la determinazione
    del tasso di scambio non è cosa semplice e dà luogo a
    problemi di giustizia sociale, risolti in modo più o meno
    soddisfacente. Tale è tuttavia l'efficienza della divisione e
    della specializzazione del lavoro, che l'umanità si impegna
    sempre più in questa direzione. Ciascuno di noi, quindi,
    ciascun operaio produce sempre più, nell'impresa, cose che
    non consuma e, inversamente, sempre più consuma cose che non
    ha prodotto.
    Si comprende facilmente come i gruppi umani e le nazioni che hanno
    accettato le costrizioni, lo scotto della divisione del lavoro, le
    organizzazioni gerarchiche e i molteplici altri obblighi che ne
    derivano, abbiano acquistato molto presto sugli altri gruppi e
    nazioni grandi vantaggi economici e politici, e ciò proprio a
    motivo dell'efficienza che della divisione del lavoro è la
    principale conseguenza. Questo è uno dei tratti essenziali
    della storia contemporanea, che è dominata da quei fenomeni
    cui si dà il nome di ‛crescita' o ‛sviluppo'. Oggi, questi
    fenomeni hanno cominciato a rivelare la loro ‛faccia nascosta', le
    loro conseguenze impreviste. I vantaggi della crescita (e in
    particolare quelli relativi al livello di vita, alla salute, alla
    durata media della vita) sono stati, è vero, confermati
    (è questa la faccia visibile del fenomeno, l'obiettivo
    desiderato e voluto); ma la divisione del mondo tra paesi sviluppati
    e paesi non sviluppati, tra i quali l'abisso si approfondisce
    anziché colmarsi, i limiti fisici che la crescita incontra in
    alcuni paesi sviluppati, le insoddisfazioni che persistono e si
    sviluppano nei paesi più progrediti, sono tutti fatti che
    pongono all'umanità di oggi gravi sfide. L'organizzazione
    mondiale del lavoro non può più essere presa in
    considerazione unicamente dal punto di vista dell'efficienza del
    lavoro orario.
    
    3. L'organizzazione del lavoro. La divisione del
    lavoro. Costrizioni, gerarchie, subordinazione
    
    Nonostante quanto abbiamo appena scritto, è evidente che
    l'efficienza del lavoro resta uno degli obiettivi più
    importanti (anche se non deve più essere considerato come il
    solo determinante). Si comprende dunque facilmente come
    l'organizzazione del lavoro e le costrizioni che ne derivano - i
    conflitti tra spontaneità e creatività da una parte,
    pianificazione e calcolo razionale dall'altra - siano uno dei
    problemi principali del lavoro contemporaneo.
    
    a) Preparazione del lavoro e organizzazione del lavoro
    Gli scienziati, con le loro ricerche, aiutano oggi l'uomo nel suo
    compito di valorizzazione del proprio lavoro; è infatti dalla
    scienza che derivano le tecniche. Queste tecniche vengono applicate
    a due stadi del lavoro: il primo relativo alla preparazione, il
    secondo all'esecuzione.
    La preparazione è indubbiamente la più feconda delle
    due operazioni: il pensiero e la riflessione guidano la mano
    dell'uomo. Nel caso dell'agricoltura, è necessario studiare
    in anticipo la natura del terreno, il clima, la coltura, il concime,
    le lavorazioni, le epoche della semina, i procedimenti. Si tratta di
    definire con precisione: a) il prodotto; b) il lavoro, cioè
    il quadro particolareggiato delle operazioni necessarie per la
    produzione.
    Nel caso dei prodotti dell'industria, bisogna orientare il lavoro in
    modo da permettere il più possibile procedimenti automatici
    e, dunque, l'impiego di macchine. Di qui le tecniche di
    organizzazione del lavoro: scegliere i procedimenti e le macchine e
    quindi armonizzarli; calcolare gli investimenti e gli ammortamenti;
    minimizzare la quantità di lavoro necessaria per il totale
    della produzione, cioè minimizzare il prezzo di costo (sotto
    il controllo del profitto). Le macchine hanno un costo: sono state
    fabbricate, comportano un lavoro preliminare, non immediatamente
    produttivo. Gli investimenti rappresentano, in un paese sviluppato,
    circa il 20% del totale della produzione nazionale; senza di essi,
    la produttività del lavoro può essere accresciuta solo
    attraverso l'organizzazione. Sebbene l'organizzazione e il metodo
    predominino in genere sull'investimento, ci sono tuttavia numerosi
    settori dell'economia, come la siderurgia, le industrie meccaniche
    ed elettriche, l'industria tessile, in cui gli investimenti sono
    fondamentali.
    Gli uomini non sanno organizzare il proprio lavoro spontaneamente:
    seguono tradizioni millenarie, riprendono antichi gesti, praticati
    dai loro antenati, la cui efficienza è spesso minima. Noi
    oggi sappiamo che si tratta di abitudini che apportano al lavoro
    ostacoli piuttosto che valide soluzioni.
    Vi sono, dunque, atteggiamenti e mentalità che ritardano il
    progresso. È una legge del pensiero umano che esso trovi
    raramente la soluzione più semplice di primo acchito; deve
    sperimentare una quantità di soluzioni complicate e poco
    efficienti prima di scoprire la più semplice, la più
    efficiente. La scienza dell'organizzazione del lavoro permette di
    superare questi svantaggi e di arrivare più rapidamente,
    attraverso esperienze feconde, a soluzioni accettabili. L'esame di
    un laboratorio o di un'officina rivela per lo più numerosi
    esempi di cattiva organizzazione, che un consulente scientifico
    può, progressivamente, scoprire e correggere.
    
    b) Effetti della produttività del lavoro
    Tutti questi progressi (divisione del lavoro, sua organizzazione,
    utilizzazione delle macchine) hanno lo scopo di aumentare
    l'efficienza dei lavoratori; ne deriva un'economia di lavoro umano
    e, dunque, la riduzione del costo reale dei prodotti.
    La produttività del lavoro è il rapporto tra il volume
    della produzione e la durata del lavoro umano necessario a
    ottenerlo. Le numerose misure di produttività escogitate da
    ingegneri, contabili e statistici mostrano due cose: a) i progressi
    degli ultimi cinquant'anni nelle nazioni occidentali sono, in certi
    settori dell'economia, considerevoli; per esempio, la durata del
    lavoro umano necessario per fornire un'illuminazione di 10 lumen
    è stata ridotta, in Francia, dal 1750 al 1960, da 400 a 1; b)
    questi progressi variano però irregolarmente da una
    produzione all'altra e anche da un periodo all'altro. Basta vedere
    la tab. I, per valutare le divergenze che si sono manifestate tra la
    produzione di uno specchio e quella di un quintale di grano (si
    prende qui, come esempio, la Francia, ma l'andamento è lo
    stesso in tutta l'Europa occidentale).
    
    Tabella 1
    
    Da qualche decennio, il lavoro degli uomini si differenzia in modo
    radicale rispetto al suo passato millenario. Esso consiste sempre
    meno in un dispendio di energia muscolare e sempre più nella
    manipolazione di simboli: esige un'attenzione intellettuale
    crescente. L'uomo, il cui pensiero si è per millenni nutrito
    di sogni e d'immaginazioni, si vede ora incessantemente messo a
    confronto con una realtà esterna che lo domina.
    Il lavoratore è sottoposto alle esigenze della tecnica: la
    meccanizzazione, l'automazione introducono nella vita e nel lavoro
    durate e ritmi che modificano i tempi fisiologici; i determinismi
    della divisione del lavoro si oppongono allo Spirito di sintesi
    proprio dell'uomo che, tagliato fuori dalla ‛natura naturale', dalle
    proprie origini biologiche, si vede spesso dotato di un eccesso di
    potenza che non è preparato a utilizzare.
    
    c) Settore primario, secondario e terziario
    Le diverse produzioni presentano, riguardo alla produttività
    del lavoro, comportamenti differenti. Sono terziarie le produzioni
    poco influenzate dalla produttività. Sono secondarie quelle
    che lo sono in grande misura. Si riserva il termine di primarie alle
    produzioni agricole; la storia mostra che nelle produzioni primarie
    il progresso tecnico è abbastanza lento nei primi decenni di
    progresso economico, ma può diventare in seguito rapidissimo:
    dal 1950 - nei paesi sviluppati - i progressi nell'agricoltura
    eguagliano, o anche superano, i progressi nell'industria.
    Questa classificazione in tre comportamenti tipici spiega molti
    fenomeni economici. Si comprende l'afflusso crescente dei lavoratori
    nel settore terziario, dove i tempi di produzione non possono
    diminuire e, al contrario, la diminuzione o la stabilità
    della manodopera impiegata nei due settori dove la
    produttività del lavoro cresce fortemente. L'evoluzione
    dell'occupazione è regolata dall'equazione: 
    
    Formula
    
    d) Costrizioni, gerarchie, subordinazione
    La divisione del lavoro prese l'avvio decine di millenni or sono,
    essendo sempre esistiti uomini più adatti di altri a
    intagliare le selci o i raschiatoi d'osso. Ma con l'introduzione
    delle macchine, con la Scoperta e l'utilizzazione del vapore,
    comincia un'era di rivoluzione industriale; nello stesso tempo, la
    divisione del lavoro entra in una nuova fase e prende un nuovo
    slancio. Le manifatture comportavano da sempre mansioni
    parcellizzate, ma si trattava di ben poca cosa a paragone della
    parcellizzazione propria del lavoro moderno. Le macchine si
    specializzano ogni giorno di più; ogni razionalizzazione
    ‛scientifica' del lavoro si accompagna a una frantumazione delle
    mansioni, che aumenta il rendimento dei lavoratori.
    Nelle fabbriche d'automobili, per esempio, le mansioni si riducono a
    operazioni assai limitate e ripetute; certune non durano che alcuni
    secondi. Accade lo stesso in quasi tutte le moderne imprese di
    produzione; c'è ben poco rapporto tra il lavoro della sarta
    di altri tempi e quello di un'operaia in una fabbrica di confezioni.
    Nella fabbrica, l'ufficio studi stabilisce, una volta composto il
    modello, schede particolareggiate con l'elenco delle diverse
    mansioni che saranno poi svolte alla catena. L'apprendistato
    è allora assai ridotto: basta qualche ora per l'addestramento
    di un'operaia cosiddetta ‛qualificata'.
    Si potrebbero dare mille esempi di questa situazione, tanto nel
    campo dell'industria metallurgica che in quello delle industrie
    alimentari, della fabbricazione di armi, ecc. (F.W. Taylor; A.G.
    Stachanov).
    Le qualità richieste agli operai di oggi non sono più
    le stesse di altri tempi: né l'immaginazione, né lo
    spirito creativo trovano più posto nei gesti compiuti e
    ripetuti alla catena di montaggio. La velocità, la
    precisione, la destrezza costituiscono invece una nuova gamma di
    qualificazioni. Capacità di attenzione continua sono anche
    richieste nei numerosi casi nei quali il lavoro consiste
    essenzialmente nell' osservazione di macchine. Si pone allora la
    questione della soddisfazione nel lavoro; le mansioni parcellizzate,
    alle quali molti operai sono inchiodati, sembrano ingenerare la noia
    e la fatica, mentre la soddisfazione sembra spesso legata a una
    certa complessità interna dei gesti da compiere. La questione
    non può esser risolta con principi semplicistici, dato che
    molti lavoratori preferiscono una mansione facile, ripetuta e
    abituale, a lavori più complessi. Nell'opera Le travail
      en miettes, G. Friedmann registra le reazioni di numerosi
    operai qualificati; certi operai di una fabbrica di materiali
    radioelettrici preferiscono i lavori semplici, che comportano un
    piccolo numero di operazioni elementari; se aumenta la
    difficoltà dei lavori, diminuisce il loro rendimento. In
    altre imprese, al contrario, altri operai qualificati cercano un
    lavoro che richieda maggiore iniziativa. Bisogna considerare una
    complessa combinazione di fattori, alcuni attinenti alla psicologia
    collettiva, altri alla psicologia individuale.
    D'altra parte, fin d'ora e ancor più in un futuro assai
    vicino, l'automatismo libera e libererà l'operaio da molti
    dei suoi gesti monotoni. Il lavoro alla catena, ai nostri giorni,
    è ben lontano da quello che era nel 1935, quando Charlie
    Chaplin ne fece una celebre satira. Ed è altrettanto certo
    che in 40 anni il progresso economico, se ha dato all'operaio
    qualificato il livello di vita che avevano antecedentemente i quadri
    superiori, è però ben lontano dall'avergli dato le
    iniziative e le motivazioni proprie di questi ultimi. Ed è
    qui, senza dubbio, il tratto principale della ‛crisi' odierna
    dell'operaio qualificato.
    Attualmente, molte officine non hanno potuto essere ancora
    completamente automatizzate. Il lavoro dell'operaio qualificato
    resta necessario in misura assai notevole (circa un terzo
    dell'occupazione nell'industria). Ora, tale lavoro ha scarso
    significato per l'operatore troppo specializzato, che si sente poco
    responsabile nei confronti della sua mansione elementare. Il lavoro
    dell'operaio qualificato, pur guadagnando incessantemente in
    tecnicità, perde però, più che non guadagni, in
    fatto di autonomia e di originalità: le qualità,
    cioè, che lo rendevano interessante.
    Questa organizzazione razionale del lavoro, basata su calcoli di
    efficienza, controllata quotidianamente attraverso i calcoli
    contabili dei prezzi di costo e sanzionata automaticamente dal
    profitto, obbliga l'uomo a un comportamento quotidiano che è
    ben lontano dalla fantasia, dalla spontaneità, dalla
    libertà d'iniziativa. Le organizzazioni efficienti sono
    quelle in cui i processi sono regolati in anticipo, attraverso
    ricerche complesse e lunghe, e poi imposti agli esecutori. Le
    critiche che possono loro rivolgere questi ultimi si rivelano quasi
    sempre superficiali.
    Il cronometraggio tayloriano e i suoi succedanei, volti
    all'efficienza immediata, vanno a caccia dei ‛tempi morti'.
    Si comprende facilmente come la selezione naturale abbia agito e
    continui ad agire in favore degli individui e, a lungo andare, dei
    gruppi e dei popoli che praticano queste competizioni brevi e
    incruente, seguite da durature sottomissioni. Per la specie umana fu
    dapprima la rivalità con altre specie animali che
    comportò tale selezione e poi le rivalità tra gruppi
    umani. Oggi, è l'efficienza economica che privilegia le
    società nelle quali la massa del popolo si sottomette
    all'ordine razionale dell'organizzazione scientifica. Ê chiaro
    che la sottomissione degli operai qualificati ai dirigenti e dei
    dirigenti ai managers cesserebbe in un batter d'occhio,
    se le società basate sulla spontaneità e sull'anarchia
    fossero più efficienti delle società basate sul
    calcolo e sulla gerarchia.
    
    4. La durata del lavoro
  
    In passato gli uomini lavoravano dall'alba al tramonto, per tutta la
    durata del giorno e, se momenti di ricreazione, di distensione erano
    strettamente mescolati alla fatica, non v'era certo né vero
    tempo libero, né svago nel senso attuale del termine.
    Ma a poco a poco questa situazione si venne modificando,
    allorché i beni di consumo necessari alla sopravvivenza,
    prodotti in abbondante quantità grazie al progresso delle
    tecniche di produzione, si fecero meno rari.
    
    a) L'evoluzione della durata del lavoro
    Tuttavia, all'inizio dell'era industriale, il miglioramento del
    livello di vita rimase la preoccupazione dominante. Pure, è
    con la nascita dell'industria e la conseguente civiltà
    urbana, con l'urbanizzazione, che è nato il tempo libero, il
    tempo cioè di cui usiamo a nostro piacimento. Il tempo libero
    si colloca in una civiltà caratterizzata da un tempo
    frazionato e continuamente contato. Se l'orologio individuale aveva
    già fatto la sua apparizione nel sec. XVI, a quell'epoca
    però non era altro che un ornamento riservato a pochi
    elegantoni, gioiello costoso quanto inutile; solo molto più
    tardi esso ricevette la sua vera consacrazione: nelle manifatture e
    nelle amministrazioni. Come ha scritto G. Hourdin ‟non è
    certo un caso se l'imprenditore del XIX secolo appariva nelle
    litografie di Daumier con la catena d'oro sul pancione: vuol
    mostrare che in tasca ha l'orologio e che conosce il valore del
    tempo" (La civilisation des loisirs, Paris 1961, p. 52).
    Come controparte degli orari esatti, delle ore contate, si sviluppa
    la nozione del tempo ‛che si ha a disposizione per sé'.
    Questa nuova organizzazione della giornata, avvenimento importante
    nella vita degli uomini, si è instaurata molto presto, dopo
    la creazione delle officine, ma i suoi effetti sono stati lenti
    poiché, dopo dieci o dodici ore giornaliere nelle officine
    disagevoli del passato, gli ‛svaghi' avevano poco valore; non si
    poteva anzi decentemente dar loro questo nome.
  È utile ricordare qui alcune pagine di L.-R. Villermé,
    del 1840, che illustrano la natura del lavoro nelle filande del nord
    e dell'est: ‟A Mulhouse, a Dornach, ecc. [...] le filande e le
    tessiture meccaniche si aprono generalmente alle cinque del mattino
    per chiudersi la sera alle otto, qualche volta alle nove. D'inverno,
    l'entrata viene ritardata di frequente fino all'alba, ma non per
    questo gli Operai ci guadagnano un minuto. La loro giornata è
    quindi di almeno quindici ore, durante le quali hanno una mezz'ora
    per il pranzo e un'ora per la cena; questo è tutto il riposo
    loro accordato. Di conseguenza, non fanno mai meno di tredici ore e
    mezza di lavoro al giorno [...]. A Thann e a Wesserling, le
    condizioni sono identiche; a Bischwiller, il lavoro effettivo arriva
    a 16 ore". A Sainte-Marie-aux-Mines, ‟la giornata è di 14
    ore, con una sospensione di un'ora e mezzo [...]. A Saint-Quentin,
    varia da 14 a 15 ore, alle quali si deve aggiungere il tempo
    dedicato allo spostamento la mattina e la sera" (L.-R.
    Villermé, Tableau de l'état physique et moral des
      ouvriers employés dans les manufactures de coton,
    Paris 1840, p. 21). Questi orari valevano tanto per gli uomini che
    per le donne, e trovano conferma nelle indagini sulle fabbriche di
    Reims, d'Amiens, di Lille, di Torino, di Milano, di Liverpool... E
    non è ancor tutto! Anche la giornata lavorativa dei ragazzi
    era assai lunga; Villermé si sforzò di ottenere per
    loro miglioramenti di orario. Egli scriveva in Francia per tentare
    di denunciare gli ‛abusi' del liberalismo, e portava come modello
    l'Austria, dove ‟grazie alle premure del governo, non si possono
    assumere ragazzi nelle manifatture prima dell'età di otto
    anni compiuti, e per una durata che non deve oltrepassare le dieci
    ore giornaliere" (ibid., p. 22). Poco dopo la pubblicazione
    di queste righe, intervenne in Francia la legge del marzo 1841, che
    limitava a otto ore giornaliere il lavoro dei ragazzi dagli otto ai
    dodici anni.
  È passato poco più di un secolo dal tempo di
    Villermé! Non c'è bisogno di istituire un paragone
    particolareggiato tra la vita di lavoro di uno dei nostri ‛cari
    piccoli' oggi e quella dei ‛giovani' del 1840; per tacere delle
    condizioni penose, insalubri, in cui si trovavano in generale tutti
    i lavoratori.
    Dal 1850, e soprattutto dopo il 1920, la durata del lavoro è
    stata ridotta in due modi: dapprima con la diminuzione dell'orario
    giornaliero per l'uomo adulto, e questo è il fenomeno
    più appariscente; poi con l'estensione dell'età
    scolare.
    
    Tabella 2
    
    La tab. III indica il numero di ore di lavoro settimanali, nel
    settore industriale, in Francia e negli Stati Uniti.
    
    Tabella 3
    
    Nel periodo 1919-1939 si colloca la fase più importante per
    la riduzione della durata del lavoro; in questo periodo sono state
    infatti approvate leggi che hanno rivoluzionato il mondo operaio e
    abitudini secolari: in Francia, per esempio, le leggi dell'aprile
    1919, che istituiscono la giornata di otto ore, e quelle del giugno
    1936, che garantiscono le ferie pagate e pongono il principio della
    settimana di quaranta ore. Si scorgono chiaramente i diversi
    orientamenti. Nel 1937, si è creduto in Francia di poter
    ridurre di molto la durata del lavoro, il che ha condotto il paese a
    una stagnazione, anzi a una recessione economica che è stata
    senza dubbio una delle cause della sua disfatta nel 1940; è
    stato perciò necessario ritornare a valori un po' più
    alti, paragonabili a quelli degli altri paesi d'Europa.
    Si constata così che, in media, si è lavorato
    più in Francia che negli Stati Uniti prima della guerra del
    1914, e in Francia meno che negli Stati Uniti tra le due guerre.
    C'è qui un'anomalia, poiché è appunto dopo il
    1920 che la Francia si è impoverita. Dopo il 1945, invece, le
    necessità della ricostruzione e della modernizzazione hanno
    fatto risalire fino a 46 ore, in Francia, la durata abituale del
    lavoro. L'operaio lavora, tuttavia, sensibilmente meno nel 1973 che
    non nel 1910; sono soppresse circa 17 ore la settimana, ossia quasi
    il 30%. Egli ha inoltre almeno 21 giorni, e spesso 28, di ferie
    pagate ogni anno. Il tempo libero concesso all'uomo adulto è
    uno degli elementi fondamentali del tenore di vita; questo elemento
    è mutato nello stesso senso in tutti i paesi industriali.
    Ecco qual era, nella Comunità Economica Europea, la durata
    media del lavoro settimanale, nel settore industriale, nel 1966:
    
    Tabella
    
    Come si può constatare, la Francia occupa il secondo posto in
    questa graduatoria del 1966, subito dopo il Lussemburgo. Le tendenze
    attuali, come quelle future, andranno nuovamente verso la maggiore
    riduzione possibile dei tempi di attività (certi salariati
    arrivano persino a reclamare la riduzione per poter fare delle ore
    di straordinario, il che sembra, a prima vista, una specie di
    contraddizione; sennonché queste ore hanno, psicologicamente,
    un carattere differente dalle altre, essendo oggetto di una libera
    scelta).
    
    b) Lavoro e tempo libero
    In un prossimo futuro avremo ‛forse' la civiltà del tempo
    libero; non siamo però ancora a questo stadio, ma ci troviamo
    piuttosto a una specie di svolta, in un periodo di transizione in
    cui si pongono mille problemi. G. Douart, nel suo libro L'usine
      et l'homme cita un esempio, tra vari altri, della situazione
    presente e della scelta possibile tra tempo di lavoro e tempo
    libero, ricordando la testimonianza di un operaio edile: ‟La vita
    è cara [...] mi son voluto procurare onestamente il mio
    comfort, a forza di straordinari. Per il frigorifero e la
    televisione mi sono sbarazzato di inutili perdite di tempo: le
    riunioni sindacali, le passeggiate in centro, le bevute con gli
    amici. Per un'automobile, ho venduto le mie ore di bricolage,
    le mie serate di giardinaggio, le partite di pesca: come se quelli
    che si sono battuti per strappare le 40 ore lo avessero fatto per
    permettermi di fare gli straordinari. Per dei mobili Ségalot,
    ho barattato le letture, il cinema e tutti quei momenti benedetti in
    cui mi perdevo in fantasticherie senza avere un padrone alle spalle.
    Per un appartamento moderno, ho dato ascolto alle confidenze: da
    Untel, di ore al 50% ne puoi fare quante ne vuoi; da Machin, puoi
    fare del ‛lavoro nero' la domenica; e così ho rinunciato ai week-ends nei quali, con la moglie e i ragazzi, si andava a fare il
    bagno, ci si stendeva sulla sabbia e si ascoltava il vento tra i
    pini! Per il denaro ho trascurato il sonno, le mie ferie, e mi sono
    fatto rubare la salute. Non sono più che una macchina per
    lavorare [...]. Così ho venduto tutto, perduto tutto:
    l'accordo con mia moglie, la mia vita di famiglia, l'amore dei miei
    figli. Non sono più né un padre né un marito.
    Tu, che ad ogni costo vuoi il benessere materiale, non comprano col
    tuo tempo libero, non vendere mai quello che fa di te un uomo;
    è una verità vecchia quanto il mondo e sempre vera,
    che il denaro non dà la felicità!" (O. Douart, L'usine
      
      et l'homme, Paris 1967, p. 270).
    Questa citazione mostra quanto, nell'odierno mondo del lavoro, si
    sia ancora lontani dalla civiltà del tempo libero. E sarebbe
    facile moltiplicare gli esempi: certe commesse con bassi salari che
    la domenica fanno un ‛lavoro nero', diventando per un giorno
    sguattere o cameriere, oppure domestiche a ore; operai, imbianchini,
    idraulici, meccanici, che al loro orario di lavoro abituale
    aggiungono delle serate, dei sabati.
  È certo che l'uomo cerca, prima di tutto, di migliorare il
    proprio livello di vita. E i progressi tecnici, che possono
    permettere di produrre di più con minore sforzo, rendono
    possibile un aumento dei consumi. Sembra ciononostante che, almeno
    in Francia, non sia vicino il momento in cui i limiti di tale
    aumento saranno raggiunti.
    Orbene, quest'aumento della produttività può offrire
    all'uomo varie possibilità: o produrre di più
    mantenendo il lavoro costante, o lavorare di meno per una produzione
    eguale, o ancora lavorare di meno per una produzione minore. In
    realtà, noi non sappiamo molto bene ciò che vogliamo e
    ancor meno ciò che è meglio per noi. Quel che è
    certo è che la durata degli orari è subordinata a
    decisioni volontarie: il problema non è più quello di
    restare nell'officina, in ufficio, nei campi per tutta la giornata,
    senza interruzione. A poco a poco ci si comincia a liberare dalla
    schiavitù del lavoro, mentre fa la sua comparsa un bisogno
    concorrenziale: il miglioramento del genere di vita, di cui la
    diminuzione del lavoro è un elemento essenziale. Ed è
    per questo che ormai, almeno nei paesi industrializzati, non si
    tratta più tanto di aumentare la produzione, quanto di
    trovare un equilibrio armonioso, in grado di soddisfare la duplice
    aspirazione dell'uomo: elevare il livello di vita e migliorare la
    qualità della vita; armonia difficile perché
    contraddittoria: bisogna infatti, più o meno, sacrificare
    l'uno per avere l'altra. È qui operante un'opzione
    volontaria, anzitutto a livello personale: ogni individuo è
    infatti libero di scegliere un lavoro piuttosto che un altro; in
    parecchi casi può optare tra diverse possibilità: il
    denaro, il tempo libero, la soddisfazione. Tra il capo di un'impresa
    con un considerevole giro d'affari, che non può prendersi
    senza apprensione qualche giorno di vacanza (con il telefono a
    portata di mano), e il vagabondo che dorme tranquillamente sulle
    rive della Senna c'è tutta una gamma di possibilità.
    C'è poi un'altra opzione, collettiva questa volta, a livello
    della fabbrica, della bottega, dell'ufficio, o anche della nazione
    (per es. la legge dell'aprile 1919, che istituisce la giornata di
    otto ore).
    Nella sua scelta, l'uomo è diviso tra il desiderio di
    consumare e la preoccupazione di dover produrre. È evidente
    che la soluzione ottimale sarebbe per molti quella di viver bene
    senza dover svolgere attività obbligatorie.
    
    c) La ripartizione delle ore di lavoro e di libertà
    Un altro problema è legato alla durata del lavoro: quello del
    modo in cui si possono distribuire nel tempo le ore di
    libertà. La soluzione desiderata può variare da un
    individuo all'altro e i risultati possono essere assai differenti a
    seconda delle diverse modalità scelte. Non è certo la
    stessa cosa avere per sé un'ora ogni giorno, tornando dal
    lavoro, oppure avere la possibilità di rilassarsi, ad esempio
    per sei ore, una volta la settimana. Le soluzioni possibili a questo
    riguardo sono matematicamente assai numerose.
    A partire dal 1936 la diminuzione del tempo lavorativo aveva preso
    un notevole slancio: parecchie ore al giorno, due settimane all'anno
    e, in seguito, con il prolungamento dell'età scolare e
    l'abbassamento dell'età pensionabile, si è avuta una
    riduzione del numero di anni lavorativi nell'intera vita; è
    in questo quadro che possono venir considerate molteplici soluzioni.
    Lo scopo, per numerosi salariati, è l'abbreviamento della
    vita lavorativa attraverso un precoce pensionamento. Altri ritengono
    tuttavia più interessante prolungare per tutti la
    scolarità. B. de Jouvenel (Arcadie. Essai sur
      le mieux vivre, Paris 1968, p. 83) propone a questo riguardo
    la seguente alternativa: ‟Supponete che di qui a vent'anni nel tal
    paese le fasi di una vita umana si succedano secondo il modello
    seguente: scuola fino a quindici anni; 35 ore lavorative alla
    settimana; tre settimane di ferie più una, in media, di
    malattia; pensionamento a 62 anni: tutto questo equivale a 78.960
    ore lavorative in una vita. Contrapponete ora il modello seguente:
    scuola fino a 20 anni; pensionamento a 68 anni; settimana di 38 ore,
    con cinque settimane di ferie e tre settimane di scuola, più
    una settimana, in media, di malattia: ossia in totale 78.432 ore. Il
    secondo modello sarebbe, mi sembra, più civile del primo: una
    popolazione più istruita godrebbe meglio il suo tempo
    libero".
    Quest'ultima sistemazione, beninteso, richiederebbe un considerevole
    sforzo nell'insegnamento; d'altra parte, questo sembra proprio
    corrispondere alle tendenze del mondo di domani: sempre meno tempo
    per la fabbricazione degli oggetti, ma sempre più tempo
    dedicato alla formazione della mente.
    Circa gli effetti che potrebbe avere un prolungamento o una
    differente suddivisione delle ferie annuali, non si dispone di dati
    sufficienti che permettano precise conclusioni. È certo che
    il mese di vacanze in estate, dal punto di vista psicologico, ha
    un'innegabile attrattiva, mentre sembrerebbero spesso preferibili,
    per lo stato di salute dei lavoratori, brevi periodi di riposo
    durante il semestre invernale. Ma questo dipende evidentemente dalle
    condizioni climatiche del luogo di riposo.
    Così pure, una minore durata del lavoro giornaliero è
    senza dubbio più valida di un prolungamento delle settimane
    di vacanza, e non solo per l'equilibrio fisiologico, ma anche per le
    possibilità di studio, di promozione sociale, di
    perfezionamento professionale e personale.
    Non possiamo indicare qui tutto quello che sarebbe possibile o
    desiderabile riguardo alla ripartizione del tempo; le soluzioni sono
    infinite. Bisogna notare tuttavia l'interesse che presenta l'orario
    unico, che permette, lasciando per il pasto un intervallo molto
    breve, di avere per sé un periodo di tempo lungo e senza
    interruzioni. Ci sarebbe anche molto da dire a proposito del lavoro
    a mezzo tempo - soltanto mezza giornata con un limitato numero di
    ore al giorno - che sembra una soluzione valida per certe situazioni
    intermedie: la madre di famiglia che ha ancora il peso dei figli
    piccoli, le persone in età pensionabile che desiderano
    conservare un'attività, gli artisti... che sono alla ricerca
    di se stessi, certi handicappati fisici, ecc. Parleremo più
    avanti degli ‛orari flessibili' (v. sotto, cap. 6, § b).
    Conviene qui aprire una parentesi per affermare che non esiste e non
    dovrebbe esistere una totale uniformità dei tempi di lavoro
    nei diversi mestieri. Nei campi, per esempio, l'agricoltore ha
    ancora un lavoro da uomo libero; essendo generalmente padrone di se
    stesso (ben presto non ci saranno altro che padroni
    nell'agricoltura), egli è padrone del suo ritmo; può
    chiacchierare con i vicini, fare una pausa a suo piacere quando ha
    fame, quando è stanco o quando vuol parlare con una bella
    ragazza; la sua situazione è più vicina alla
    condizione tradizionale e il suo tempo libero, ch'egli dichiara a
    volte inesistente, è mal definito, non regolamentato. Non
    è certo questo il caso delle attività industriali, in
    cui un più duro lavoro impone necessariamente orari
    delimitati, con precise pause di tempo libero.
    I diversi ritmi di lavoro dovrebbero essere legati alla
    diversità di durata delle varie attività. Potrebbe
    dunque rivelarsi necessario in avvenire, se si dovessero realizzare
    nuove riduzioni della durata del lavoro, non introdurle
    uniformemente in tutte le attività. Per esempio, può
    darsi che si sarà indotti a diminuire gli orari specialmente
    nelle attività basate sulla forza muscolare, su lavori fisici
    pesanti, con occasioni di affaticamento nervoso (rumori, odori,
    ritmo continuo...), mentre ci si potrebbe regolare differentemente
    per mestieri ‛più leggeri': guardiani di museo, giovani di
    studio, impiegati di banca o di assicurazioni, ecc.
    D'altro canto, non deve contare solamente la fatica fisica per
    stabilire i tempi di riposo: certi uomini, gravati da schiaccianti
    responsabilità ne hanno anch'essi un urgente bisogno, non
    foss'altro che per riflettere, dato che si trovano spesso presi in
    un ingranaggio di compiti che richiede 60 o 70 ore settimanali, e
    sono ben lontani dall'avere i mezzi di distensione a disposizione
    del loro usciere o del loro fattorino.
    Attualmente, esistono differenze importanti tra i diversi mestieri;
    lasciando da parte i settori nazionalizzati, i cui orari sono stati
    ridotti, la gerarchia dei settori di attività è la
    seguente: al primo posto ci sono l'edilizia e i lavori pubblici,
    dove la durata giornaliera del lavoro è massima; poi vengono
    l'estrazione dei minerali, le industrie del legno, la costruzione di
    macchine e di veicoli, la produzione dei metalli (questi settori
    hanno durate di 49-47 ore settimanali). Per contro, nelle industrie
    tessili, nelle banche, nelle assicurazioni, nelle agenzie e
    nell'abbigliamento le durate sono solo di 44-41 ore. Questo gruppo
    ha una forte proporzione di manodopera femminile. Sussistono infine
    differenze su scala regionale: per esempio, si lavora di più
    nel nord-est della Francia, nella regione parigina, che nel
    sud-ovest.
    
    d) L'opzione ‛durata del lavoro/livello di vita' e le ‛40.000
      ore'
    Le cifre citate sono importanti. Si è spesso parlato, per il
    futuro, della possibilità di ridurre a 40.000 ore l'intera
    vita di lavoro (v. Fourastié, 1972). Quali probabilità
    abbiamo di vivere quei tempi? Entro quali scadenze le nazioni
    dell'Europa occidentale potranno istituire orari del genere?
    Si sa che, allo stato attuale delle cose, una riduzione di due ore
    settimanali delle durate medie ‛costa' circa il 2,7% del livello di
    vita. Ora, la crescita del livello di vita, nelle nostre nazioni,
    varia da una decina d'anni tra il 3 e il 4% (è preferibile
    per l'avvenire mantenere il ritmo del 3%). Si può dunque
    ammettere che ogni riduzione di due ore della durata settimanale del
    lavoro ritardi di quasi un anno l'innalzamento del livello di vita
    o, più esattamente, assorba un anno di aumento della
    produttività; pressoché le stesse conseguenze hanno
    una settimana e mezzo di ferie annue, il prolungamento di un anno
    dell'età media scolare e la diminuzione di un anno
    dell'età media di pensionamento. Ora, le 40.000 ore
    presuppongono: 33 anni di lavoro in tutta la vita contro i 50
    attuali; 12 settimane di ferie annue contro le nostre 4 attuali; 30
    ore di lavoro settimanale contro le 48. Di modo che, se scegliessimo
    una riduzione della durata del lavoro piuttosto che un accrescimento
    del livello di vita, dovremmo bloccare l'attuale livello di consumi
    per i tempi seguenti: a) 17 anni, per la riduzione del numero degli
    anni di lavoro da 50 a 33; b) 6 anni, per ottenere le 8 settimane
    supplementari di ferie pagate; c) 9 anni, per la riduzione di 18 ore
    della durata settimanale del lavoro.
    Il totale risultante supera i 30 anni. Le 40.000 ore verrebbero
    dunque ottenute poco dopo l'anno 2000. Naturalmente, questo calcolo
    non vuol determinare altro che una possibilità affatto
    aleatoria, e la data indicata è da prendere in considerazione
    soltanto per valutare la probabile velocità dell'evoluzione.
    
    5. Occupazione, disoccupazione e sottoccupazione
  
    Tutto quanto precede conferma che l'esercizio di un'attività
    da parte dell'uomo va analizzato sotto due aspetti: l'uno
    individuale e l'altro collettivo. Riguardo all'individuo, il lavoro
    professionale risponde al bisogno di esercitare le facoltà
    del corpo e dello spirito; inoltre, in un mondo in cui il consumo di
    beni e di servizi non è possibile senza una preliminare
    trasformazione, difficile e onerosa, della natura, il lavoro
    individuale rappresenta la partecipazione normale dell'individuo
    all'opera collettiva. Riguardo alla collettività, il lavoro
    degli individui è, d'altra parte, necessario alla vita e alla
    sopravvivenza dei gruppi umani.
    
    a) L'evoluzione della struttura dell'occupazione
    Poiché i bisogni primari sono quelli legati alla nutrizione,
    nelle società primitive, dove le tecniche di produzione erano
    assai rozze e conseguentemente la produttività del lavoro
    molto debole, la quasi totalità del lavoro umano si doveva
    concentrare sull'agricoltura. Le altre attività necessarie
    alla sopravvivenza del gruppo (vestiario, abitazione, culti
    religiosi o magici, e poi, progressivamente, amministrazione,
    polizia, giustizia) non assorbivano che un numero molto scarso di
    individui. Senza risalire alla preistoria né ai gruppi
    più primitivi dell'attuale Amazzonia, si può ammettere
    che nella maggior parte delle nazioni ‛civili' l'agricoltura, nel
    XVI o nel XVII secolo, occupasse dall'80 all'85% dei lavoratori,
    l'artigianato e le manifatture dal 5 al 7% e le altre
    attività, che oggi vengono chiamate terziarie, quanto
    restava, cioè circa il 10%.
    Man mano che il progresso tecnico ha fatto sentire i suoi effetti,
    l'umanità ne ha utilizzato i frutti dapprima per nutrirsi
    meglio; in particolare le carestie sono a poco a poco scomparse
    dalle nazioni occidentali. Ma il progresso della produttività
    agricola ha superato molto presto il fabbisogno alimentare degli
    uomini. Se i bisogni umani si fossero limitati al nutrimento,
    avremmo assistito allora a una riduzione graduale, ma in definitiva
    massiccia, della durata del lavoro. Per esempio, verso il 1700 un
    agricoltore francese, italiano o americano non arrivava a nutrire,
    in media, che 2,2 persone (il che significava che 10 lavoratori
    agricoli arrivavano, in media, a nutrire, oltre se stessi, altre 12
    persone). Oggi, pur assicurando un nutrimento molto più
    abbondante e molto più equilibrato, comprendente in
    particolare una proporzione molto maggiore di carne (che richiede, a
    egual numero di calorie, una quantità di lavoro umano quasi
    10 volte maggiore che non i cereali), un agricoltore americano nutre
    quasi 75 persone e un agricoltore francese più di 20. Queste
    cifre mostrano che, nell'ipotesi sopra enunciata, gli Stati Uniti
    avrebbero potuto ridurre la durata del lavoro nella proporzione di
    75 a 2,2 e la Francia nella proporzione di 20 a 2,2. Ciò
    significa che negli Stati Uniti si potrebbe lavorare solo circa
    mezz'ora per ogni giorno lavorativo e in Francia 1 ora e 20 minuti!
    Se le cose non stanno così, si deve al fatto che gli uomini
    si sono rivelati avidi di consumare una quantità di altri
    beni e servizi che non erano prodotti nei secoli passati o che lo
    erano solo in quantità assai scarse (per esempio, i manufatti
    di ogni genere, le automobili, gli aeroplani, ecc.). Il risultato
    è stato che la popolazione attiva in eccedenza
    nell'agricoltura (settore primario) ha cercato e ha trovato
    occupazione nell'industria (settore secondario) e poi nel settore
    terziario. L'incremento del settore secondario è stato nel
    corso del XVIII e XIX secolo così spettacolare da far dare al
    movimento il nome di ‛rivoluzione industriale'. E, a partire
    all'incirca dal 1900, nelle nazioni più progredite gli
    aumenti di produttività nel settore secondario sono tali che
    bastano ad assicurare il consumo, che pure è sempre in forte
    crescita. L'occupazione nell'industria rimane dunque stazionaria,
    nelle nazioni evolute, a cifre che non sorpassano di molto il 50% e
    sono anche molto inferiori nelle nazioni il cui commercio estero non
    sia basato sui prodotti industriali. Essendo quindi pressoché
    fermo il settore secondario, il terziario assorbe la totalità
    dei lavoratori che continua a perdere l'agricoltura. La tab. IV ci
    dà un'immagine statistica di questo movimento.
    
    Tabella 4
    
    b) Disoccupazione e sottoccupazione
    Leggendo le righe precedenti, può sembrare che i
    trasferimenti della popolazione attiva si verifichino senza
    difficoltà in un economia idillicamente progressiva, in cui
    gli uomini si troverebbero trasferiti senza scosse e senza
    sofferenze dal settore primario a quello terziario. Disgraziatamente
    non è affatto così. Non esiste infatti alcun
    meccanismo automatico che assicuri questo trasferimento nella
    specifica concretezza della vita quotidiana. Soltanto la rovina
    delle imprese, la disoccupazione e la sottoccupazione obbligano gli
    uomini a cambiare mestiere. Senza entrare nei particolari di questi
    processi complicati che sono di competenza della scienza economica,
    si comprende abbastanza facilmente come si tratti di processi
    dolorosi, che dipendono essenzialmente dall'intervallo che esiste
    inevitabilmente tra il momento in cui l'occupazione di un uomo nel
    proprio mestiere diventa inutile e il momento in cui egli
    troverà un'altra occupazione o un altro mestiere.
    Sono questi i processi che danno luogo a ciò che nei paesi
    sviluppati si chiama disoccupazione. La lotta contro la
    disoccupazione o, inversamente, la lotta per la piena occupazione,
    è stata e resta uno degli aspetti più importanti della
    politica sociale contemporanea. L'obiettivo della piena occupazione
    figura a chiare lettere nella Carta delle Nazioni Unite.
    Gli elementi essenziali della lotta contro la disoccupazione sono
    l'informazione e l'orientamento professionale da una parte, le
    misure finanziarie atte a facilitare le riconversioni dall'altra.
    Circa il primo punto troviamo gli sforzi per adattare la scuola ai
    mestieri richiesti dallo sviluppo economico e per ridurre, al
    contrario, le formazioni professionali tipiche dei mestieri
    superati, come pure le misure amministrative e i regolamenti
    relativi alla ‛formazione professionale accelerata'; inoltre, la
    costituzione di pubblici uffici di collocamento e gli aiuti
    materiali intesi a favorire la mobilità geografica della
    manodopera hanno dato notevoli risultati. Le misure finanziarie ed
    economiche riguardano soprattutto le imprese: riconversione di
    attività, creazione di nuove attività in territori
    precedentemente agricoli, ecc.
    Nei paesi sviluppati, infine, le indennità individuali di
    disoccupazione, che non sono tuttavia che un ripiego, sono diventate
    quasi uguali a piccoli salari e permettono di attendere la pensione
    a tutta una categoria di lavoratori anziani, difficilmente
    riconvertibili.
    Nei paesi non sviluppati e nei paesi dell'Est a regime comunista, il
    problema dominante non è la disoccupazione, ma la
    sottoccupazione. In effetti, non essendo l'impresa sottoposta al
    controllo dei suoi prezzi di costo da parte del profitto, la
    tendenza a conservare lavoratori inutili o poco utili è
    incoercibile. L'assenza di disoccupazione ha dunque come
    contropartita un eccesso di manodopera per un lavoro determinato.
    Non è possibile limitare questi eccessi se non attraverso
    ispezioni e controlli amministrativi, che sono evidentemente molto
    difficili e comportano in pratica decisioni di natura politica.
    Nei paesi sottosviluppati non socialisti, la sottoccupazione assume
    un carattere più doloroso: gli uomini in soprannumero nelle
    campagne, dove già non trovano che un impiego insufficiente,
    affluiscono verso le città, dove si trovano ugualmente in
    soprannumero. Mancando imprese sufficienti per assorbirli, si
    ammassano nelle bidonvilles, in cui sopravvivono
    suddividendosi salari irrisori. Il problema della sottoccupazione,
    drammatico in tutto il Terzo Mondo, è l'aspetto più
    importante del conflitto tra progresso economico e progresso
    demografico.
    
    c) Lotta contro la disoccupazione e la sottoccupazione
    La paura della disoccupazione tecnologica è una reazione
    naturale dell'uomo che vede la macchina sostituirlo nel suo lavoro.
    Questa paura comparve sin dall'introduzione delle prime macchine
    nelle officine e basta citare i massacri di Peterloo in Gran
    Bretagna per ricordare quanto violenta sia stata, all'inizio del
    sec. XIX, la rivolta dei lavoratori contro le macchine, e quanto
    crudele la repressione.
    Questa paura trova il suo fondamento nei licenziamenti che vengono
    effettuati in numerose imprese in seguito all'installazione di nuove
    macchine o a una migliore organizzazione del lavoro negli
    stabilimenti. Siffatte misure impressionano, giustamente, non
    soltanto i lavoratori che ne sono oggetto, ma anche i loro compagni,
    che cercano di difendersi da un tale pericolo.
    I progressi rapidi dell'automazione risvegliano la paura di una
    disoccupazione non più limitata ad alcuni casi particolari,
    ma massiccia e generale.
    La naturale paura degli operai non sembra tuttavia giustificata.
    Anzitutto, è fondamentale sapere che non ogni progresso
    tecnico si traduce necessariamente in una riduzione del bisogno di
    manodopera. Circa gli effetti sull'occupazione, bisogna distinguere
    nettamente due categorie di progresso. Gli uni, i progressi
    ‛recessivi', costituiscono un ampliamento della sfera dell'uomo
    rispetto a quella della natura: ne sono un esempio, in agricoltura,
    tutte le tecniche che danno all'uomo la possibilità di
    ricavare dal suolo la stessa quantità di prodotti con minore
    manodopera e in minor tempo. I progressi ‛processivi', invece,
    costituiscono un ampliamento della sfera della natura rispetto a
    quella dell'uomo. Così, la scoperta di materie prime amplia
    il quadro dell'economia, e lo sviluppo industriale che ne risulta
    porta alla creazione di nuovi posti di lavoro. La scoperta di un
    nuovo prodotto: l'automobile o la radio, per esempio, agisce nella
    stessa direzione. Lo sviluppo dell'industria automobilistica in un
    paese come la Francia, in cui non ha tuttavia la stessa importanza
    che negli Stati Uniti, si è tradotto in una richiesta
    considerevole di manodopera: si stima infatti che il numero di
    persone che vivono dell'automobile, siano essi operai nelle officine
    di fabbricazione delle vetture, conducenti o garagisti, sia
    superiore a un milione (1 persona attiva su 20).
    I progressi recessivi permettono all'uomo di soddisfare con meno
    lavoro i propri bisogni precedenti; quelli processivi, al contrario,
    soddisfano bisogni che non potevano essere soddisfatti per l'innanzi
    (si dice, talvolta, in modo inesatto, che il progresso crea nuovi
    bisogni); danno vita, dunque, a nuovi lavori.
    Ora, si stabilisce un equilibrio tra i progressi processivi e quelli
    recessivi? Il progresso tecnico, a parità di occupazione,
    accresce il volume della produzione. Ma l'effetto di una produzione
    crescente sul consumo dipende dal grado di saturazione del mercato.
    In un'economia poco sviluppata, dove la popolazione soffre di
    sottoalimentazione, un progresso tecnico nell'agricoltura si traduce
    in un accrescimento del consumo dei prodotti alimentari. In
    un'economia più sviluppata, dove la popolazione ha
    un'alimentazione sufficiente, lo stesso progresso non porterà
    a una crescita del consumo.
    A partire dal 1935, cominciò a farsi strada l'opinione che lo
    Stato poteva lottare contro la disoccupazione e la sottoccupazione.
    Da una parte, negli Stati Uniti, furono varati grandi programmi di
    interventi pubblici; dall'altra J. M. Keynes, economista di fama
    mondiale, raccomandò vivamente di stimolare le economie in
    fase depressiva attraverso provvedimenti monetari e finanziari. Nel
    1944, il libro di W. H. Beveridge Full employment in a free
      society ebbe una grande risonanza.
    Dopo la guerra, la responsabilità dello Stato in materia di
    occupazione è stata affermata in tutte le nazioni del mondo.
    Fin dal 1942, il Regno Unito aveva adottato il principio del Piano
    Beveridge. La Carta delle Nazioni Unite fa della piena occupazione
    uno degli obiettivi di tutta la politica economica e sociale. Nel
    1962, il Congresso degli Stati Uniti approvò il Man-power
      
      development and training act. La Costituzione francese
    dà esplicitamente allo Stato l'incarico di adoperarsi per la
    piena occupazione.
    Da allora l'azione rivolta verso la piena occupazione fu condotta su
    due linee. La prima, in cui domina l'empirismo e una quantità
    di iniziative differenti si sovrappongono senza una pianificazione
    preliminare, fu adottata quasi esclusivamente dai paesi anglosassoni
    fin verso il 1965. La seconda, più sistematica, legata alla
    previsione dello sviluppo economico, imperniata su una previsione
    dell'occupazione per settori di attività collettiva e per
    tipi di qualificazione individuale, fu elaborata a partire dal 1950
    soprattutto in Francia, nel quadro del Commissariat
    général au plan.
    Fra gli interventi destinati a garantire e a sviluppare
    l'occupazione, si possono dunque distinguere quelli che sono
    specifici di questo o quel problema del lavoro e quelli che si
    rivolgono all'economia nel suo insieme.
    Allorché i governi cominciarono a prender coscienza delle
    loro responsabilità e dei loro poteri in materia di
    occupazione, la loro tendenza spontanea fu il ricorso a interventi
    specifici, ‛puntuali', imposti dal luogo, dal tempo e dalle
    circostanze propri del problema da risolvere: le prime iniziative
    assunsero la forma di aiuti ai disoccupati e campagne di lavori
    pubblici. Ai nostri giorni, l'arsenale dei mezzi specifici si
    è largamente accresciuto.
    Data per scontata l'instabilità fondamentale dell'occupazione
    in periodi di progresso tecnico ed economico, uno dei primi
    requisiti di ogni azione è un'informazione, la più
    vasta e la più precisa possibile, dei candidati
    all'occupazione, dei datori di lavoro, degli insegnanti e dei poteri
    pubblici circa il mercato del lavoro, la sua situazione locale e la
    sua probabile evoluzione.
    Per il singolo, quest'informazione deve vertere non solo sulle
    prospettive del mercato locale o regionale del lavoro (o anche
    nazionale e, al limite, mondiale), ma sulle sue stesse
    capacità personali di svolgere, o di prepararsi a svolgere,
    una certa mansione. Di qui il ricorso a consulenti per
    l'orientamento professionale, idonei a informare contemporaneamente
    sulle offerte di lavoro da parte dei datori di lavoro e sulle
    attitudini psicologiche e fisiche degli uomini, delle donne e dei
    giovani in cerca di lavoro. Oggi, tutte le grandi nazioni hanno
    creato, e poi sviluppato sotto nomi diversi (Agence Nationale de
    l'Emploi, Bureaux Nationaux ou Regionaux de l'Emploi, Information
    for Career Guidance, ecc...), organismi sparsi su tutto il
    territorio, destinati a favorire un collegamento, sia sul momento
    che in prospettiva, tra l'offerta e la domanda di lavoro. È
    però evidente che la complessità delle economie
    più progredite e la rapidità della loro evoluzione
    rendono questo adeguamento sempre imperfetto.
    In molti casi questi problemi si acuiscono notevolmente su scala
    regionale. L'intervento tende allora sia ad accrescere la
    mobilità della popolazione dalle regioni meno favorite verso
    le altre, sia a stimolare l'economia delle regioni arretrate (per
    es., la pianificazione regionale in Francia; negli Stati Uniti
    s'è avuta una quantità di interventi diversi, che
    vanno dal Trade expansion act del 1962 e dal Revenue
      act del 1964 all'Indian affairs mobility program).
    Questi interventi, a seconda dei paesi, delle regioni e dei tempi,
    prendono forme assai diverse, che cambiano continuamente. In certi
    casi, come nella Gran Bretagna a partire dal 1960 e soprattutto dal
    1965, il problema essenziale non è più quello di
    ridurre la disoccupazione, ma di accrescere l'efficienza di quelli
    che lavorano.
    Gli interventi suddetti, anche se condotti a fondo e con la massima
    sensibilità, non possono annullare né la
    disoccupazione né gli effetti dolorosi del mutamento di
    occupazione. Certi economisti arrivano anche a considerare come
    incompatibili la piena occupazione e la stabilità dei prezzi;
    altri giudicano che la piena occupazione comporti necessariamente un
    notevole rallentamento del progresso economico. Comunque sia, i
    tassi più bassi di disoccupazione restano, nelle nazioni
    occidentali, superiori all'1%. Questo minimum di
    disoccupazione si spiega con gli inevitabili trasferimenti e con una
    reale ‛incapacità di adattamento' di certi uomini a un lavoro
    regolare.
    Tutte le nazioni sviluppate cercano oggi di attenuare le sofferenze
    umane attraverso vari sistemi di sussidi ai disoccupati, di
    sicurezza sociale, di imposte sul reddito negative, di assicurazioni
    contro la disoccupazione, di aiuti alla riqualificazione o alla
    riconversione, ecc.
    Alcuni di questi aiuti finanziari o tecnici vengono elargiti alle
    stesse imprese, per spronarle a riconvertirsi senza procedere a
    licenziamenti di manodopera ma organizzando esse stesse il planning di riqualificazione del personale.
    Dopo Keynes si è compreso che, a questi molteplici interventi
    puntuali, si potevano aggiungere politiche globali della
    fiscalità, della moneta e del credito. Ma solo
    recentissimamente si è cominciato ad affermare il bisogno di
    una vera politica dell'occupazione, collegata a - e fondata su - una
    politica economica d'insieme.
  È chiaro, per chi abbia letto l'inizio di questo articolo,
    che i difficili e mutevoli problemi dell'occupazione e della
    sottoccupazione non possono essere separati dall'insieme dei
    problemi dello sviluppo economico e sociale. Fu questa, a partire
    dal 1945 e soprattutto dal 1950, l'idea-forza dei Plans francesi,
    
    lo spirito dei quali era stato definito da J. Monnet. Sia lo spirito
    informatore che i metodi sono esposti nei Rapports della
    Commissione per la manodopera del Commissariat gènéral
    au plan (cfr. in particolare quelli del 1954, 1958, 1961 e 1966);
    questi rapporti hanno però avuto scarsa influenza e scarsa
    risonanza all'estero, dove, malgrado la notorietà della
    pianificazione francese, le idee keynesiane conservano tutto il loro
    prestigio e dove, di conseguenza, le procedure monetarie sembrano la
    forma più compiuta e più ‛globale' possibile di
    politica dell'occupazione.
    Il perdurare e persino, si può dire, l'aggravarsi del
    ‛marasma' economico britannico, e soprattutto, forse, la comparsa di
    una perniciosa inflazione monetaria negli Stati Uniti, che
    ineluttabilmente si estende all'intero mondo occidentale, spingono
    almeno dal 1968 la maggior parte dei grandi paesi alla revisione
    della loro politica dell'occupazione, e anche di tutta la loro
    strategia monetaria, economica e sociale. Quel che A. Stoffier ha
    chiamato future shock e Z. Brzezinski l'‛eta
    tecnetronica' riguarda sicuramente anche la politica
    dell'occupazione: la crisi profonda della civiltà industriale
    avanzata obbliga a integrare i problemi dell'occupazione e della
    sottoccupazione in un contesto infinitamente più vasto di
    quello costituito dagli uffici di collocamento, dagli
    incoraggiamenti alla mobilità, dai prezzi, dalla
    fiscalità e dalla moneta.
  È dunque verso una strategia d'insieme, comprendente non
    soltanto i problemi monetari e finanziari, ma la globalità
    dei problemi economici, sociali e culturali, che sembrano doversi
    orientare le politiche dell'occupazione. Ne sono indizi, per
    esempio, gli emendamenti successivamente apportati negli Stati Uniti
    al Man-power development and training act e al Vocational
      
      education act, l'istituzione delle Conferenze industriali
    tripartite in Giappone e la nozione di ‛relazioni industriali',
    sviluppatasi, come si è detto, nella Gran Bretagna.
    Più in generale, il posto dato ai problemi dell'occupazione
    nelle grandi ricerche prospettiche delle Commissioni economiche
    dell'ONU e dell'OCDE testimonia lo sforzo intrapreso per collocare i
    problemi dell'occupazione in un quadro economico e sociale molto
    più ampio che in passato.
    
    6. Prospettive del lavoro
  
    Le pagine precedenti permettono di comprendere facilmente che il
    lavoro umano, in pieno mutamento, continuerà a evolversi
    assai profondamente nel corso dei prossimi anni. Si può
    tentare di classificare in tre categorie le questioni sul tappeto: i
    problemi già affrontati e più o meno mal risolti; i
    problemi già posti in modo serio ma non risolti; infine i
    problemi appena formulati.
    
    a) I problemi già affrontati
    I problemi già affrontati, ma mal risolti, sono innumerevoli.
    Ricorderemo solo i più importanti, tutti comunque dominati
    dall'opzione: durata del lavoro/livello di vita. Il problema
    è sapere se manterremo la durata del lavoro così
    com'è oggi, o se la ridurremo e in che misura: donde la
    necessità di una scelta, in quanto sappiamo che ridurre la
    durata del lavoro, data una certa produttività, significa
    ridurre anche la produzione e perciò il livello di vita.
    Questo problema è già stato prospettato prima ed
    è in realtà classico; qui bisogna però ripetere
    che le decisioni da prendere sono legate a una concezione della
    felicità e dell'equilibrio della vita. La tendenza attuale
    resta quella di sacrificare il genere di vita al livello di vita;
    essa ingenera una vita frenetica, durante la quale l'uomo consuma
    con frenesia quanto egli stesso produce con frenesia. È molto
    probabile che si sia vicini ai limiti tollerabili da parte dell'uomo
    medio e che l'avvenire vedrà, partendo dagli eccessi, un
    ritorno ai valori della saggezza.
    Da almeno un ventennio le preoccupazioni di umanizzare il lavoro
    sono dappertutto all'ordine del giorno. È da parecchio tempo,
    infatti, che Friedmann ha denunciato gli inconvenienti del ‛lavoro
    in frantumi'. Tale lavoro - specializzato, come abbiamo detto, per
    motivi d'efficienza - risulta in effetti mal sopportato da uomini il
    cui livello di vita e il cui livello culturale non cessano di
    aumentare. Il nostro tempo presenta il paradosso di milioni di
    operai qualificati il cui livello di vita ha lo stesso ordine di
    grandezza di quello dei quadri superiori di 30 anni or sono, ma il
    cui lavoro resta elementare, parcellizzato, ripetitivo, a
    compartimenti stagni, limitato.
    La frantumazione del lavoro non è, d'altra parte, il solo
    fattore di insoddisfazione; anche lo stato di soggezione
    dell'operaio nel suo lavoro viene avvertito con grande disagio. Un
    caso particolare è indicativo al riguardo: il mestiere di
    domestica tuttofare non è affatto parcellizzato; continua ad
    abbracciare tutti gli atti della vita quotidiana di cui ha
    necessità la vita familiare; eppure è oggetto di una
    disaffezione così profonda che il personale domestico sarebbe
    già praticamente scomparso nei paesi ricchi se non fosse
    stato in parte alimentato dall'immigrazione. Oggi una ragazza
    preferisce un lavoro ‛in frantumi' da operaia qualificata al lavoro
    variato della casa, nonostante salari spesso superiori. La causa sta
    nel rifiuto di un rapporto servile.
    Finora si è più o meno tentato di risolvere
    empiricamente questi problemi con una quantità di mezzi
    differenti, come la gerarchia dei salari, il cottimo a unità,
    il cottimo a compito e una quantità di altri congegni
    salariali, l'avanzamento, la selezione, l'orientamento, la
    formazione professionale. L'uso sempre fluttuante di questi mezzi
    ingenera una profonda instabilità non soltanto dei salari, ma
    anche dei regolamenti di fabbrica e della stessa definizione delle
    mansioni. Le qualifiche, per esempio, sono incessantemente in
    movimento; altro esempio: i livelli di remunerazione sono anch'essi
    incessantemente rimessi in discussione. Per dare un'idea
    dell'ampiezza del movimento, basterà notare che una domestica
    a ore, in una città come Parigi, guadagnava nel 1910 la
    quarta parte di quel che guadagnava un manovale, mentre oggi
    guadagna circa il 20% in più.
    Non si può trovare alcuno schema generale in grado di
    semplificare la descrizione delle oscillazioni e
    dell'instabilità che ne risulta. La ‛meritocrazia' (che
    consisterebbe nel dare una maggiore remunerazione a una maggiore
    efficienza) si mescola irrazionalmente allo squilibrio tra l'offerta
    e la domanda in certi mestieri e in certe specialità. Tutto
    sommato, non si può far altro che constatare
    l'instabilità cronica di un mal definito empirismo.
    
    b) Gli sviluppi in corso
    In questo empirismo privo di una linea generale d'evoluzione,
    prevalso dal 1920 al 1970, due orientamenti hanno cominciato, da
    qualche anno, a farsi strada. Essi sono ancora troppo recenti
    perché si possa giudicare la loro vitalità profonda;
    fanno nondimeno bene sperare. Sono per lo più designati con i
    termini di ‛orario flessibile' e di ‛antitaylorismo'.
    Il sistema degli orari flessibili consiste nel dare ai lavoratori la
    libertà di scegliere i propri orari di lavoro, pur nel
    quadro, evidentemente, di una regolamentazione e di una durata
    globale prefissata. Per esempio, il salariato che ha una giornata di
    8 ore potrà cominciare il suo lavoro in un momento di sua
    scelta, tra le ore 8 e le 10 del mattino. Se comincia alle 9,07,
    lavorerà quindi fino alle 17,07. Il regime presuppone un
    periodo di tempo (nel nostro caso, dalle 8 alle 10 e poi dalle 16
    alle 18) in cui l'ufficio, o l'officina, ‛girano' con gli effettivi
    incompleti: questo è il principale inconveniente del sistema
    dal punto di vista della produzione, cioè dal punto di vista
    dell'impresa. Si ottiene però, come contropartita, un
    vantaggio importante: diminuisce cioè l'assenteismo e
    scompaiono i ‛rosicchiamenti' d'orario. Tutto il personale timbra il
    cartellino, dal manovale al presidente, e ciascuno viene pagato in
    base al suo orario reale.
    Il salariato perde evidentemente i suoi vantaggi in fatto di
    rosicchiamento d'orario che sono però, in molte imprese, di
    lieve entità. Egli guadagna enormemente, al contrario, in
    fatto di indipendenza e di elasticità. Diventa inutile
    prendere un treno che parte mezz'ora prima perché il seguente
    arriva quattro minuti dopo; diventa inutile correre quando si
    è in ritardo; diventa inutile la richiesta di autorizzazioni
    ad assentarsi per piccoli impegni. L'esperienza dimostra che i
    salariati, spesso reticenti prima di farne l'esperienza, si
    attaccano presto all'orario flessibile, tanto che diventa
    impossibile ritornare al regime precedente. L'evoluzione avviene, in
    genere, nel senso di una elasticità sempre maggiore; e
    l'impresa, alla fine, deve resistere a una tendenza all'allargamento
    dei varchi. Vengono anche sperimentati, attualmente, regolamenti che
    consentono ai lavoratori di trasferire crediti di ore da una
    settimana all'altra, persino da un mese all'altro. Per esempio, nel
    caso sopracitato di una giornata di 8 ore, un salariato potrebbe
    fare una settimana di 50 ore, e nella settimana successiva fare
    soltanto 3 giorni di 10 ore.
    Ci si deve rammaricare del nome di ‛antitaylorismo' dato alla
    tendenza a diminuire la rigidità del lavoro alla catena e,
    più in generale, del lavoro che richiede mansioni ripetitive.
    C'è infatti da presumere che, nelle circostanze attuali, se
    fosse ancora tra di noi, Taylor sarebbe un pioniere
    dell'antitaylorismo. Si tratta infatti di definire il lavoro
    industriale non più in funzione del rozzo manovale del 1900,
    ma in funzione delle capacità d'attenzione, d'adattamento, di
    comprensione e d'iniziativa dei giovani operai d'oggi. Questi ultimi
    sono infatti da una parte molto più istruiti e dall'altra
    molto più creativi dei loro bisnonni di 70 anni or sono. Sono
    molto più esigenti nei riguardi dell'impresa, ma sono anche
    capaci di dare ad essa un contributo molto maggiore. Partendo da
    questo fatto, si tratta quindi di organizzare il lavoro in funzione
    di squadre che abbiano un'autonomia relativamente larga, sia nella
    loro costituzione che nella ripartizione delle mansioni tra i
    membri. Se la sfera di attività è abbastanza vasta, i
    membri della squadra possono occupare a turno i differenti posti di
    lavoro, rompendo così almeno in parte la monotonia del lavoro
    o riducendone la pesantezza. Beninteso, un tale orientamento non
    trasformerà certo in un piacere permanente il lavoro
    industriale. Si può tuttavia pensare ch'esso sia un anello
    importante di un'evoluzione destinata senza dubbio a non aver mai
    termine.
    Un'altra notevole tendenza di questi ultimi anni è quella
    alla mensilizzazione del salario. Si sa che, tradizionalmente, e in
    particolare dall'inizio della rivoluzione industriale, gli operai
    erano pagati a ore, mentre gli impiegati venivano pagati a mese.
    Questa differenza era una di quelle che separavano ‛i colletti blu'
    dai ‛colletti bianchi'; e per gli operai si materializzava in un
    computo molto più rigoroso delle ore di lavoro effettivo e in
    una moltitudine di regolamenti che rendevano la loro occupazione
    assai instabile. Per tutto il primo periodo del sec. XX c'è
    stata un'evoluzione convergente, tendente non solo ad accrescere la
    stabilità dell'occupazione e la retribuzione dei lavoratori
    ‛a mese', ma anche ad avvicinare lo status dei lavoratori
    ‛a ora' a quello dei lavoratori ‛a mese'. Un passo ancor più
    decisivo è stato fatto alcuni anni or sono: lo status di
    
    
    lavoratori ‛a mese' è stato accordato a un numero crescente
    di operai. Così, in Francia si è passati, dal 1970 al
    1973, da una situazione in cui meno del 10% degli operai aveva lo status di lavoratori ‛a mese', a una situazione in cui tale status è prerogativa di quasi i quattro quinti.
    Si può così pensare che la distinzione tra operai e
    impiegati, per tanto tempo cruciale, sparirà quasi
    completamente. Quest'evoluzione è parallela a quella che
    ravvicina da una parte le condizioni di lavoro e dall'altra i
    livelli culturali di tutti i salariati. Resta nondimeno il fatto che
    in alcuni paesi, come la Francia, la remunerazione degli impiegati e
    dei quadri rimane nettamente più alta di quella degli operai,
    mentre questo non accade in altri paesi, quali la Germania, gli
    Stati Uniti e i paesi dell'Europa orientale.
    Questi fatti danno un'idea dei cambiamenti in atto, sia nella
    realtà sia nelle idee, che rendono i problemi del lavoro uno
    dei settori attualmente in più rapida evoluzione in una
    società in pieno rivolgimento. In essi le organizzazioni
    internazionali quali per esempio, l'Ufficio Internazionale del
    Lavoro (BIT) e l'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo
    Economico (OCDE) svolgono un ruolo molto importante. L'OCDE, che
    raggruppa, com'è noto, le nazioni occidentali, il Giappone,
    la Finlandia, l'Australia e la Iugoslavia (con statuto speciale)
    convocò nel 1974 un'importantissima Conferenza sul lavoro
    nelle società industriali. L'Ufficio Internazionale del
    Lavoro, che raggruppa praticamente tutte le nazioni del mondo, a
    partire dal 1919 ha svolto un ruolo molto importante riguardo sia
    alla regolamentazione che alla realtà effettiva del mondo del
    lavoro. Oltre alle sue sessioni abituali e in occasione del suo
    cinquantesimo anniversario, il BIT ha lanciato la preparazione del
    suo Programma mondiale dell'occupazione, la cui maggiore
    preoccupazione è quella di adattare l'economia dei paesi in
    via di sviluppo alla formidabile crescita demografica che li
    caratterizza fin dal 1960 e che è destinata ad aumentare
    ancora dal 1975 al 1985.
    
    c) I problemi dell'avvenire
    Per ampie che siano queste ricerche e per numerose e diverse che
    siano le ricerche analoghe intraprese e perseguite in tutti i grandi
    paesi industriali e in parecchi dei paesi in via di sviluppo, esse
    sembrano destinate a prendere uno slancio ancora maggiore nel
    prossimo avvenire e a richiamare ancor più l'attenzione. Il
    fatto è che il lavoro è un fattore essenziale della
    condizione umana e la presente crisi della civiltà comporta
    quindi un nuovo atteggiamento dell'uomo nei suoi confronti.
    Come si è detto nell'introduzione, il lavoro era da millenni
    un elemento della condizione umana, in un senso simile a quello in
    cui potremmo dire ch'esso lo è per gli animali: un processo
    vitale che non si può distinguere dalla vita stessa e che
    mette in opera le forze stesse della vita. Le tecniche scientifiche
    ci hanno insegnato a distinguere il lavoro dalle altre
    manifestazioni della vita e a giudicarlo secondo criteri di
    efficienza.
    Al limite, un lavoro così concepito può essere nello
    stesso tempo molto efficiente e molto costrittivo per l'uomo che lo
    compie, molto ‛specializzante' e molto ‛disumanizzante'. È
    chiaro che l'umanità non potrà accettare
    indefinitamente di sottoporre il lavoro al solo criterio
    dell'efficienza; e questo sia perché, avendoci l'efficienza
    consentito l'accesso a un alto potere di consumo, non si può
    più concepire che uomini con un alto livello di vita (pari a
    quello delle classi dirigenti di ieri) accettino un lavoro da robot
    (come gli operai qualificati di oggi); sia perché i problemi
    di efficienza sono destinati a passare in secondo piano, dato che la
    rarefazione delle materie prime e dello spazio vitale
    obbligherà l'umanità, più presto di quanto essa
    lo desideri, a metter fine alla crescita economica.
    I problemi del lavoro, quindi, dovranno esser pensati daccapo nella
    prospettiva stessa della vita. Daccapo l'uomo chiederà al suo
    lavoro un modo di essere, un modo di esistere.
    Guardando la gente quando fa dello sport, per esempio uomini e donne
    sui campi di sci, ho pensato spesso al contrasto esistente tra
    l'attività volontaria e l'attività salariata. Nel
    primo caso la gente fa volentieri lunghi spostamenti molto gravosi
    per poter poi compiere faticosi e pericolosi esercizi; nel secondo,
    le stesse persone, protestando contro il loro sfruttamento da parte
    dell'impresa o dello Stato, compiono un lavoro remunerato e molto
    meno faticoso. Il contrasto, senza alcun dubbio, è dovuto
    anzitutto alla libertà d'iniziativa e poi all'ambiente. Non
    si potrebbe, non si potrà mai trovare nel lavoro
    professionale la duplice soddisfazione di compiere, in un ambiente
    gradevole, azioni che realizzino l'individuo, la ‛persona'?
    Allo stato attuale delle cose, queste soddisfazioni le troviamo
    già certamente in certi mestieri privilegiati e in persone
    privilegiate, persone cioè che presentano un adattamento
    particolarmente buono al loro mestiere (per es. uomini di lettere,
    professori, artisti, ma anche ingegneri, commercianti, uomini
    politici, sindacalisti militanti, ecc.). Si potrà senza
    dubbio estendere la gamma di questi mestieri, soprattutto se si
    accetta, come si è detto sopra, di non far più della
    produttività l'unico criterio per l'organizzazione del
    lavoro.
    Sembra tuttavia chiaro, per quanto si può umanamente
    prevedere, che molti mestieri resteranno poco attraenti, fisicamente
    e psichicamente faticosi. Per questi mestieri i soli compensi
    prevedibili restano le alte remunerazioni e la breve durata del
    lavoro. Per i più duri, come quelli dei metallurgici o degli
    spazzini delle città (finché non si sarà potuto
    sostituire con canalizzazioni urbane gli attuali sistemi di
    autocarri con cassoni ribaltabili), si prenderà certamente in
    considerazione l'idea di servizi civili, analoghi al nostro servizio
    militare.
    Ma c'è un fattore che può dare a questi gravi problemi
    una svolta inattesa e, in fin dei conti, abbastanza bizzarra. Come
    oggi si vedono, per esempio, i minatori di carbone e gli operai
    degli altiforni denunciare la faticosità del loro lavoro e
    nello stesso tempo rifiutare un mutamento o uno scambio (preferendo,
    in ultima analisi, monetizzare in salario il loro disagio), allo
    stesso modo vedremo molto probabilmente che la rarefazione del
    lavoro gli conferirà nella mente degli uomini una
    considerazione, un prestigio molto differenti da quelli di cui gode
    al giorno d'oggi. Presto o tardi, dato che le tecniche scientifiche
    non cesseranno di perfezionarsi mentre al contrario la crescita
    economica dovrà rallentare e poi arrestarsi, la durata del
    lavoro necessario alla produzione nazionale si ridurrà a
    valori bassi. Già oggi vediamo la gente ricercare volentieri
    il ‛lavoro nero' (oltre gli orari regolamentari). Quando la durata
    del lavoro sarà ridotta a 40.000 ore in una intera vita,
    è probabile che il lavoro diventerà molto ricercato.
    
    
    Diritto del lavoro di Gino Giugni
    
    sommario: 1. La legislazione sociale e il
    diritto del lavoro. 2. La dottrina. 3. I contenuti. 4. Il contratto
    di lavoro: origine e costruzione giuridica. 5. I limiti
    dell'autonomia individuale. 6. La libertà e l'organizzazione
    sindacale. 7. Il contratto collettivo di lavoro. 8. Lo sciopero. 9.
    Le innovazioni delle strutture e delle tecniche giuridiche. 10. Le
    frontiere attuali del diritto del lavoro. 11. Le ideologie e i
    modelli normativi. □ Bibliografia.
    
    1. La legislazione sociale e il diritto del lavoro
  
    La formazione del diritto del lavoro come area normativa o
    disciplina speciale è un fenomeno tipico di questo secolo. Le
    prime leggi protettive, che costituiscono la più immediata
    risposta alla ‛questione sociale' e riguardano particolarmente il
    lavoro delle donne e dei fanciulli o la materia degli infortuni,
    fanno invero la loro comparsa nel pieno sec. XIX. Il primo Factory
      
      act inglese è del 1833; la prima legge francese sul
    lavoro dei fanciulli è del 1841. Il più tardivo
    avvento della legislazione sociale negli altri paesi dipende da vari
    fattori, riferibili o meno ai tempi di sviluppo del sistema
    produttivo industriale; in Italia esso è dovuto certamente
    allo sviluppo industriale tardivo; negli Stati Uniti si spiega con
    la forte resistenza opposta dalle classi proprietarie in nome dei
    principi di non intervento e di libertà contrattuale; nella
    Germania guglielmina, invece, la legislazione sociale nasce nella
    penultima decade del sec. XIX, ma è coeva con le leggi
    speciali antisocialiste.
    Già in questo periodo si delineano un modello liberale
    d'intervento, di cui è antesignana l'Inghilterra, e uno di
    tipo autoritario e paternalistico, che caratterizza la Germania
    imperiale. Il modello liberale corrisponde in genere a condizioni di
    egemonia politica della borghesia industriale; l'altro, al protrarsi
    del potere dei ceti agrari e delle caste militari, nonché al
    parziale perdurare di strutture produttive corporative. L'intervento
    sociale nell'ambito di regimi autoritari troverà la
    più coerente espressione nei regimi fascisti.
    Questi primi interventi legislativi, pur essendo ricchi di contenuti
    innovativi di per sé idonei a porre le prime basi per un
    nuovo diritto, non danno luogo tuttavia a una compiuta elaborazione
    scientifica fino al nuovo secolo. Essi appaiono in un primo tempo
    come massi erratici nel gran mare del diritto e in specie del
    diritto civile. Con singolare sincronia, invece, nei primi dieci
    anni del sec. XX escono opere sistematiche di alto impegno, dovute
    ad autori prestigiosi o destinati a diventare tali, che pongono le
    fondamenta del diritto del lavoro. Rammentiamo in proposito tra i
    più significativi: Ph. Lotmar e H. Sinzheimer in Germania, P.
    Pic e (per il diritto dei sindacati) M. Leroy in Francia, L. Barassi
    e G. Messina in Italia. D'altro lato il famoso Industrial
      democracy di S. e B. Webb, studio non ispirato da
    metodologia giuridica, o l'opera delle scuole istituzionalistiche
    americane (J. R. Commons, J. C. Adams), influenzate dall'europeo
    ‛socialismo della cattedra', svolgono nei rispettivi paesi un ruolo
    analogo, e cioè quello di porre sotto la lente
    dell'osservazione scientifica il nuovo tessuto istituzionale che si
    era venuto formando soprattutto nella seconda metà del sec.
    XIX: le leghe operaie, i concordati o contratti collettivi, lo
    sciopero, il contratto o il rapporto di lavoro.
    Il processo di sviluppo delle istituzioni sarà comunque
    più accelerato che non il flusso di indagini e la
    sistemazione teorica, e sarà esso, soprattutto, a porre in
    crisi il rigoroso impianto individualistico del diritto borghese, e
    di quello civile in particolare. Notevole sarà fin dagli
    inizi la circolazione internazionale dell'informazione legislativa,
    mentre emergerà presto anche una pronunciata tendenza
    all'internazionalizzazione del problema. Tale tendenza vedrà
    la sua prima manifestazione nel 1890, con la Conferenza
    internazionale di Berlino convocata da Guglielmo II, e
    culminerà nel 1919 a Versailles con la costituzione
    dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro, patrocinata dal
    presidente Wilson.
    Profondo sarà infine l'impatto di fattori politici di portata
    storica, quali l'avvento delle dittature in Germania e in Italia da
    un lato, e il New Deal statunitense dall'altro; o anche
    delle esigenze sociali poste in essere dalle due guerre mondiali. Il
    fascismo e il nazismo, in particolare, ebbero un effetto distruttivo
    sulle istituzioni come sulle dottrine, ma le prime apparvero
    più capaci di immediato recupero che non le seconde. Negli
    Stati Uniti il New Deal rovesciò completamente e
    durevolmente l'atteggiamento dello Stato federale nei confronti dei
    rapporti sindacali. L'emergenza bellica indusse molti paesi ad
    adottare misure di controllo e di protezione, che sopravvissero ad
    essa.
    In mezzo a tali sequenze di avvenimenti, mentre l'evoluzione degli
    istituti legali, della giurisprudenza e dei contratti collettivi
    mutava il modo di essere di questa importante area di relazioni
    sociali ed economiche, la dottrina, pur abbondante e, nel complesso,
    sensibile e originale, avrebbe continuato a vedere nel diritto del
    lavoro un diritto nuovo o ‟un diritto enfant che è
    tenuto per mano dal vegliardo diritto civile" (v. Scelle, 1922). La
    verità è che il diritto del lavoro appariva sempre
    nuovo perché cambiava e cambia continuamente, con un ritmo
    dinamico certamente più accentuato di quello di altri rami
    del diritto (ma non di tutti: si pensi al diritto dell'economia o a
    quello tributario). Ciò che non veniva percepito
    adeguatamente era l'insufficienza della metodologia dominante, la
    cosiddetta dogmatica, ossia la tecnica costruttiva procedente per
    grandi sistemazioni concettualizzanti, a tenere il passo con il
    fenomeno del cambiamento.
    
    2. La dottrina
  
    Se la nascita di questo nuovo ramo della scienza giuridica
    può essere datata con certezza e appare quasi contemporanea
    in alcuni paesi, l'evoluzione sarà diseguale nell'ambito di
    essi e delle varie aree della cultura giuridica. Una posizione
    dominante viene comunque assunta subito dalla dottrina tedesca, che
    eserciterà per lungo tempo una grande influenza, in
    particolare nell'area latina. Il periodo preweimariano è
    qualificato da autori come Lotmar e Sinzheimer. Il primo, che era un
    romanista, seguì una metodologia storico-dogmatica. Il
    secondo, uno tra gli esponenti più rappresentativi del
    socialismo giuridico, accanto a Renner e a Radbruch, fu anche membro
    dell'Assemblea di Weimar e contribuì all'elaborazione della
    Costituzione; nel tempo apparve sempre più orientato verso le
    metodologie sociologiche. Nel periodo weimariano nuove scuole
    fioriscono (ancora Sinzheimer, e poi W. Kaskel, E. Jacobi e molti
    altri). L'impatto del nazismo però è distruttivo,
    tanto più che non pochi di questi autori appartenevano alla
    razza ebraica.
    In Italia, l'avvento del fascismo e dello Stato corporativo genera
    un'abbondante produzione di monografie e di testi che, abbandonando
    in massima parte i temi che erano stati di L. Barassi (soprattutto
    il contratto di lavoro), faranno da chiosa ai fasti del regime,
    anche se in qualche caso saranno raggiunti notevoli livelli di
    analisi (N. Jaeger) e anche poco permeati dall'ideologia ufficiale
    (G. Chiarelli). In Francia sembra dominare un orientamento
    limpidamente esegetico; alcuni autori proporranno la confluenza del
    diritto del lavoro nel diritto sociale, terzo genere accanto al
    diritto pubblico e al privato (G. Gurvitch): tale idea vivrà
    una breve stagione e lascerà una traccia più che altro
    verbale (‛diritto sociale' è talvolta l'equivalente di
    diritto del lavoro, particolarmente in Francia e in America Latina).
    Nei paesi anglosassoni prevale invece in un primo tempo un metodo
    strettamente ancorato alle esigenze empiriche di commento al diritto
    vigente.
    Fuori dell'orto giuridico, tuttavia, l'impiego del metodo storico o
    storico-economico dà risultati di rilievo per la scienza
    giuridica; val la pena di rammentare la scuola del Wisconsin creata
    da J. R. Commons. Di notevole importanza, come canale tra l'economia
    e il diritto, è l'opera di sodalizi scientifici come il
    Verein für Sozialpolitik (si ram- menti il nome di L. von
    Brentano) e l'American Economic Association. Il nesso si
    spezzerà più tardi con il prevalere di indirizzi
    formalistici nell'ambito delle varie e specifiche scienze sociali.
    La circolazione internazionale della dottrina, a differenza di
    quella sull'informazione legislativa (v. sopra, cap. 1), è
    però a quel tempo scarsa, e si può dire che ogni
    diritto del lavoro vive nella sua provincia nazionale, se si
    eccettua la sensibile influenza della dottrina tedesca fino alla
    caduta della Repubblica di Weimar. È nel secondo dopoguerra
    che cominciano a porsi le basi per la formazione di una scienza
    transnazionale del diritto del lavoro, assimilabile per questo
    aspetto al diritto civile o a quello costituzionale. Ciò
    avviene in parte per la politica di ravvicinamento perseguita dalle
    organizzazioni internazionali e da quelle europee in particolare, ma
    soprattutto grazie all'influenza di O. KahnFreund, allievo di
    Sinzheimer, emigrato dalla Germania in Inghilterra per ragioni
    razziali e posto perciò in condizione di confrontare due
    culture giuridiche così diverse in contesti economici di
    altrettanto avanzata industrializzazione. L'opera di Kahn-Freund,
    anche quand'è volta a far comprendere le ragioni
    dell'atteggiamento empirico dei giuristi inglesi, impiega, dove
    occorre, categorie concettuali di provenienza eurocontinentale, e
    ciò rende possibile la comparazione e la costruzione di
    discorsi metodologicamente uniformi. Un'altra conseguenza è
    che la stessa dottrina giuslavoristica inglese diventa, come si vede
    nell'opera di K. W. Wedderburn, più omogenea al diritto
    eurocontinentale.
    In quest'ultimo (e nell'area linguistica spagnola, inclusiva di
    quella latino-americana) le tendenze in atto sono diverse e,
    naturalmente, anche contrastanti. Nella Repubblica Federale Tedesca
    si ha per un periodo il predominio di giuristi formati sotto il
    nazismo e orientati secondo un metodo formalistico temperato da un
    uso piuttosto disinvolto della giurisprudenza degli interessi (H. C.
    Nipperdey); cospicue appaiono ancora le influenze dell'organicismo
    gierkiano (A. Nikisch). Ambedue queste tendenze interpretano in modo
    notevolmente moderato il clima di restaurata libertà
    sindacale ma appaiono certamente in sintonia con gli orientamenti
    conservatori prevalenti nella nuova Germania. Negli anni sessanta
    rinasce la scuola di Sinzheimer attraverso la mediazione di
    Kahn-Freund (Th. Ramm), e si sviluppa la critica politica delle
    concezioni giuridiche (W. Däubler); l'influenza di Kahn-Freund
    è anche visibile in Scandinavia (F. Schmidt). In Francia la
    prima opera sistematica è quella di P. Durand, a cui seguono
    autori con forte sensibilità comparativistica, portati quindi
    a inserirsi nel contesto della scienza comune del diritto del lavoro
    di cui si parlava prima (G. Lyon Caen).
    In Italia, dopo un periodo tutto sommato benefico di influenza delle
    metodologie civilistiche (efficaci come sbarramento alle ideologie
    fasciste, e anche forti di un alto livello tecnico: per tutti, Fr.
    Santoro Passarelli e L. Mengoni), si assiste negli anni sessanta a
    un radicale rinnovamento conseguente all'affermarsi di metodologie
    sociologiche e di ‛politica del diritto' (G. Giugni, F. Mancini, U.
    Romagnoli). Oggi è opinione comune che il diritto del lavoro
    italiano sia uno dei campi sperimentali più fertili per il
    rinnovamento metodologico di tutta la scienza giuridica (soprattutto
    del diritto civile e della procedura civile). Una notevole
    importanza sembra infine destinata ad assumere quest'area della
    scienza giuridica in Spagna, dopo la fine della dittatura
    franchista; assai notevole vi appare l'influenza della dottrina
    italiana, come pure di quella tedesca e francese.
    Il diritto del lavoro, dunque, come dimostra questo capitolo di
    storia della cultura giuridica pur appena tratteggiato, non è
    il commento tecnico di questa o quella legge nazionale, ma è
    un campo fertile di esperienze e di rinnovamento della cultura
    giuridica. In esso il superamento del tradizionale metodo dogmatico,
    in una con l'impiego della critica politica e sociologica,
    l'apertura interdisciplinare, la comparazione internazionale,
    appaiono oramai elementi distintivi costanti.
    
    3. I contenuti
  
    In un primo tempo (più o meno a cavallo tra i due secoli) il
    diritto del lavoro ha per oggetto la posizione di una serie di
    consistenti limiti all'autonomia dei soggetti, diretti a contenere
    le forme più intense di sfruttamento: restrizioni
    all'occupazione dei fanciulli e delle donne, durata massima
    dell'orario di lavoro, riposi settimanali, ecc. Questa sfera del
    diritto del lavoro viene chiamata legislazione del lavoro o sociale
    o protettiva. Posto che i vari divieti da essa previsti sono
    sanzionati penalmente e che, in genere, alla loro osservanza sono
    preposti servizi ispettivi facenti parte dell'amministrazione dello
    Stato (factory inspectors in Gran Bretagna, ispettori del
    lavoro in Francia e in Italia), si riconosce l'appartenenza di
    questa sfera al diritto pubblico.
    Un altro aspetto che viene regolato fin dagli inizi è quello
    indennitario per gli infortuni e le malattie professionali. Il
    meccanismo dell'assicurazione obbligatoria, una novità per
    l'epoca (Germania 1884; Italia 1898), è impiegato per coprire
    il rischio d'impresa per l'infortunio del lavoratore, un principio
    che andava affermandosi nella giurisprudenza, ma che non costituiva
    una soddisfacente protezione del lavoratore soprattutto nei casi di
    fallimento o di cessazione dell'impresa. Con cadenze molto diverse
    da paese a paese (primo, la Germania imperiale, ultimi, e tuttora
    lontani dai livelli degli altri paesi, gli Stati Uniti) si
    diffondono forme di copertura: di altri rischi: vecchiaia,
    invalidità, disoccupazione, malattie non professionali.
    Quando la tecnica assicurativa tende a essere sostituita dalla
    copertura della finanza pubblica, e quando il diritto alle
    prestazioni non ha più la sua fonte in un rapporto di lavoro
    ma nella condizione di membro della comunità sociale, si ha
    il passaggio dal sistema delle assicurazioni sociali a quello della
    sicurezza sociale, come realizzato in Gran Bretagna nel secondo
    dopoguerra (Piano Beveridge). In questo caso, la materia dei rischi
    esce dal campo del diritto del lavoro ed entra in quello
    dell'intervento pubblico diretto alla soddisfazione dei bisogni
    sociali. Tale processo è in fase avanzata anche in Italia (M.
    Persiani).
    La regolamentazione legislativa del contratto o rapporto di lavoro
    compare più tardivamente nella forma legislativa, e sovente
    è limitata a particolari aspetti, o a particolari rapporti,
    come quello degli impiegati, oggetto di speciale cura come ceto di
    servizio della classe industriale. Tuttavia, giurisprudenza e
    dottrina, anche in carenza totale o parziale di norme esplicite,
    sono subito impegnate sul terreno dell'individuazione della
    fattispecie del lavoro dipendente e delle regole da applicare ad
    esso. È anzi questo il terreno di formazione del diritto del
    lavoro come sistema scientifico ed è qui una delle parti
    più importanti e vitali di tale disciplina.
    In genere è stato considerato estraneo al diritto del lavoro
    il rapporto di pubblico impiego, anche se (v. sotto, cap. 10) tale
    esclusione è sempre meno condivisa.
    Infine, la branca più accidentata, anche perché la
    più sensibile al mutamento politico e all'interazione dei
    rapporti e delle forze sociali, è il diritto sindacale. Esso
    riguarda le condizioni di esistenza giuridica delle organizzazioni
    costituite dai lavoratori e dai datori di lavoro per il
    perseguimento dei loro interessi, nonché l'attività
    delle stesse, con particolare riguardo alla stipulazione e agli
    effetti dei contratti collettivi; e, infine, le forme
    dell'autotutela, che del diritto sindacale costituiscono una
    caratteristica saliente e unica. Questo insieme normativo si forma
    all'inizio con la rimozione di divieti o di altri impedimenti
    giuridici alla costituzione e attività delle coalizioni
    sindacali, o allo svolgimento di talune forme di autotutela, e
    soprattutto dello sciopero. Più tardi esso si può
    evolvere in una disciplina di tipo garantistico, che frequentemente
    viene accolta nel corpo dei principî costituzionali. Un tipo
    di intervento che compare in Svezia e negli Stati Uniti negli anni
    trenta e si diffonde altrove soprattutto negli anni settanta
    è quello di promozione dell'attività sindacale.
    La linea di spartiacque tra i vari sistemi è comunque il
    riconoscimento e l'effettività del principio di
    libertà sindacale. Da esso, che è carattere proprio e
    distintivo di regime, dipendono caratteristiche differenziali
    pressoché totali, quali non si riscontrano negli altri rami
    del diritto del lavoro, dove è anzi in atto una tendenza a
    marcate uniformità, anche tra regimi sociopolitici diversi.
    Al di là di queste ripartizioni, poi, si può affermare
    che il diritto del lavoro percorre in senso orizzontale quasi tutte
    le divisioni tradizionali della scienza giuridica, configurando
    così un diritto internazionale del lavoro, pubblico e
    privato, un diritto penale, un diritto processuale del lavoro. Il
    diritto processuale merita una specialissima menzione, perché
    esso appare quasi sempre costruito su normative speciali o
    addirittura su giurisdizioni speciali, con partecipazione sindacale
    (corti del lavoro, probiviri), oppure su sistemi arbitrali regolati
    dalla contrattazione collettiva. L'importanza del meccanismo
    processuale è dovuta non soltanto alla funzione di
    quest'ultimo di realizzare l'effettività delle norme, ma
    anche al fatto che le decisioni enunciate da tali giurisdizioni
    speciali o nell'ambito di tali procedimenti ad hoc, in
    numerosi ordinamenti, hanno posto in essere il primo corpo normativo
    sostanziale (E. Redenti) o ne alimentano tuttora il rinnovamento.
    È oggi corrente, nella Repubblica Federale Tedesca, la
    definizione di tali corti come ‛i veri maestri del diritto del
    lavoro'. Appare anche degna di menzione la tendenza alla
    valorizzazione dell'elemento collettivo, pur in una struttura
    processuale che era stata costruita a misura della lite tra soggetti
    individuali, e del potere dispositivo ad essi attribuito.
    
    4. Il contratto di lavoro: origine e costruzione
    giuridica
    
    Nella citata quadripartizione del diritto del lavoro (diritto
    sindacale, diritto del contratto o del rapporto di lavoro,
    legislazione sociale, previdenza sociale), in realtà i due
    settori rappresentativi ai fini di un esame critico delle
    peculiarità di questa disciplina sono il primo e il secondo.
    Quella che fu storicamente introdotta come legislazione sociale,
    infatti, può essere utilmente trattata come limite
    all'autonomia delle parti nel contratto di lavoro. A sua volta, il
    diritto previdenziale si è distaccato dal ceppo originario e
    si muove velocemente in una direzione propria.
    La vicenda del contratto di lavoro è una delle più
    significative dell'esperienza giuridica contemporanea. Lo scambio
    tra lavoro e mercede, pressoché ignorato dalla codificazione
    napoleonica (che vi dedica solo due articoli), oggi, se ponderato
    sulla durata del rapporto che ne discende, è il contratto
    statisticamente più frequente e certamente quello socialmente
    più importante. La cessione di opera contro un compenso
    è alle origini della stessa rivoluzione industriale che si
    avvale del lavoro salariato, caratterizzato, a differenza di quello
    servile, dalla massima mobilità, e non soggetto ai vincoli
    giuridici che erano posti dall'antico regime vuoi nelle strutture
    feudali, vuoi in quelle delle arti o corporazioni o gilde. Se la
    società per azioni è la struttura giuridica che ha
    consentito la raccolta e l'impiego dei capitali, il contratto di
    lavoro è l'istituto che ha reso possibile l'organizzazione
    della produzione su scala mai conosciuta, e quindi la riproduzione
    del capitale stesso.
    Il passaggio dai rapporti di soggezione personale, in cui si
    svolgeva il lavoro per conto altrui nei sistemi feudali, alla libera
    contrattazione della merce lavoro segue moduli molto diversi tra
    loro, che lasceranno tracce nella stessa conformazione finale del
    contratto di lavoro. Nei paesi latini, la frattura è forse
    più netta, per la forza dirompente della codificazione; in
    quelli tedeschi permangono fino alla prima guerra mondiale tipi di
    rapporti di natura personale e quasi servile (come regolati dalle Gesindeordnungen di vari Stati); in America Latina si avverte a lungo
    l'influenza dell'encomienda; nella common law,
    lento e graduale, ma sicuro, è il passaggio dal contratto di
    servizio (master and servant) a quello di lavoro (contract
      
      of employment). La necessità di dare al lavoro
    salariato un'adeguata veste giuridica è a ogni modo avvertita
    dovunque. I giuristi dell'inizio del secolo (Lotmar, Barassi), in
    armonia con le tendenze dell'epoca, cercheranno di dimostrare che il
    contratto di lavoro era già scritto nel libro della perenne
    saggezza giuridica dei Romani. In realtà, la locatio
      conductio romana, come è stato validamente dimostrato
    (L. Amirante), non ha nulla in comune con il contratto di cessione
    d'opere da svolgere sotto le direttive di un imprenditore e
    nell'ambito di un'organizzazione produttiva predisposta a tal fine
    da quest'ultimo. L'operazione compiuta da questi giuristi fu di
    individuare la fattispecie, e di lavorare sullo schema della
    locazione (di cose e di servizi), il solo contemplato dai codici di
    impronta napoleonica o dal diritto romano attualizzato in alcuni
    ordinamenti (in Germania prima del 1900), per ricavarne una serie di
    regole di condotta (per es., la garanzia del preavviso di recesso)
    idonee a fornire un minimo di tutela al contraente prestatore
    d'opere, compatibile con la massima mobilità del fattore
    lavoro. E poiché, dominando ancora la grande sistematica
    pandettistica, si riteneva per certo che il diritto non è
    inventato dal giurista, ma trovato nelle fonti, il fondo
    inesauribile a cui si attinse, di fronte alla carenza dei codici
    borghesi, fu il diritto romano. In realtà, quel che oggi si
    intende come rapporto di lavoro vive, fino a che non si desta la
    coscienza sociale del problema, una vita di fatto più che di
    diritto, ed è a tutti gli effetti un rapporto di dominio da
    parte del contraente forte (A. Menger), occultato sotto lo schermo
    del contratto.
    Nei sistemi giuridici di common law l'evoluzione segue un
    modulo diverso. Il rapporto di master and servant viene
    fissato nel tardo sec. XVIII nell'elaborazione di W. Blackstone, ma
    ancora con un'accentuazione degli elementi di status di
    origine feudale rispetto ai principi di libertà contrattuale.
    Questa elaborazione è parallela all'affermazione del factory
      
      system e al contenzioso che si sviluppa intorno ad alcune
    conseguenze indotte dall'accertamento di un rapporto di lavoro,
    quale l'applicabilità di benefici previsti dalla Poor
      law. La relazione master and servant viene poi
    gradualmente rigenerata per opera di leggi speciali e di contratti
    collettivi, o, ma con impatto meno sensibile, della giurisprudenza,
    fino a perdere l'impronta di rapporto di dominio e convertirsi nel contract
      
      of employment.
    L'individuazione del moderno rapporto di lavoro richiede peraltro un
    ulteriore passo oltre l'individuazione di un tipo contrattuale
    distinto dalla locazione. Quest'ultima operazione era stata
    realizzata dal Codice civile entrato in vigore in Germania il 1°
    gennaio 1900, ma con uno schema sistematico non ancora coincidente
    con quello su cui si sarebbe sviluppato il moderno diritto del
    lavoro, in quanto orientato piuttosto a distinguere i contratti di
    lavoro secondo il criterio, anch'esso di impropria derivazione
    romanistica, dell'obbligo di svolgere un'opera, contrapposto a
    quello di rendere servizi.
    La subordinazione alle direttive dell'imprenditore come criterio di
    individuazione del rapporto di lavoro costituisce l'ulteriore passo
    innanzi, il momento finale di questo processo, ed esso si
    generalizza rapidamente nei vari ordinamenti nel primo quarto di
    secolo.
    L'evento nuovo, portato dall'industrialismo, è infatti la
    concentrazione del lavoro nell'ambito dell'organizzazione produttiva
    di forma manifatturiera, che sostituisce gradatamente la commessa
    esterna ai lavoranti a domicilio, propria delle prime fasi del
    capitalismo. Sovente tuttavia questa modalità di prestazione
    ha una fisionomia incerta, di difficile qualificazione: nei lavori
    di specializzazione artigiana, e così pure nel lavoro a
    cottimo, è ancora possibile intravvedere i segni del
    contratto per un'opera definita o comunque misurabile nella
    quantità, svolta, anche se all'interno della fabbrica, in
    condizioni di autonomia esecutiva rispetto all'altro contraente, e
    cioè al creditore di lavoro. Ma il cerchio si chiude mano
    mano che si consolida la forma produttiva della manifattura, e
    l'indice caratterizzante del contratto di lavoro è allora
    definito nella subordinazione. Lo stesso lavoro a cottimo,
    soprattutto a seguito della trasformazione che subisce per
    l'introduzione dell'organizzazione scientifica del lavoro o
    taylorismo, assume i caratteri di una variante retributiva del
    lavoro subordinato. Lavoro a tempo e lavoro a cottimo, che in
    origine, sempre nella prestazione operaia, sono ambedue fornitura di
    lavoro retribuita a misura, si congiungono, anche per effetto della
    pressione sindacale e del garantismo legislativo, in un rapporto
    tendenzialmente continuativo.
    L'asse portante di questo rapporto è il concetto di
    subordinazione, che però è molto vago, se non
    rarefatto, e certamente di difficile applicazione pratica. Tale
    concetto comunque consente una costruzione unitaria del rapporto di
    lavoro nei termini più elementari di scambio tra prestazione
    e retribuzione, che ingloba via via tipi di attività con
    origine diversa da quella del lavoro industriale (lavoro
    impiegatizio, domestico, salariati agricoli, fino ai dirigenti
    aziendali). Per effetto di questa operazione concettuale, peraltro,
    il diritto del lavoro viene a perdere i caratteri dell'originario droit
      
      ouvrier, e finisce in sostanza per coprire un'area
    interclassista: la piccola borghesia impiegatizia dapprima (v. Pic,
    19225, p. 4) e, gradatamente e in misura diversa nei vari
    ordinamenti, la nuova classe dei managers.
    In effetti, il riferimento alla condizione sociale proletaria o, il
    che è lo stesso, alla condizione dell'operaio dell'industria,
    è frequente tra scrittori di derivazione marxista o
    appartenenti all'eterogenea area del socialismo giuridico (si
    rammenti in particolare l'opera di Menger, che eserciterà per
    altri aspetti una profonda influenza). Tuttavia, mentre la
    letteratura giuridica marxista appare impegnata piuttosto sul fronte
    del diritto sindacale, nella dottrina e nella pratica giudiziale si
    impone il criterio formale della ‛dipendenza' o ‛subordinazione',
    che non solo diviene l'elemento qualificante del rapporto ma anche,
    sebbene con tonalità diverse (e con particolare accentuazione
    in Italia), il presupposto per l'applicazione del diritto del lavoro
    in generale. Il tentativo di qualificare più corposamente
    l'elemento della subordinazione ricorre più volte con la
    valorizzazione dell'elemento impresa o organizzazione del lavoro.
    Questo orientamento, che persegue il superamento della concezione
    atomistica e individualistica del contratto, viene enunciato in
    Germania da giuristi di ispirazione socialista (H. Potthoff, H
    Sinzheimer), che pongono in speciale evidenza il rapporto di potere
    che discende dal contratto di lavoro. Esso si ripropone, tuttavia, e
    con maggiore anche se effimero successo, nel clima culturale delle
    dittature fasciste; il collegamento lavoro-impresa viene evocato per
    rinsaldare il principio di autorità (Führerprinzip e
    art. 2086 del Codice civile italiano) (W. Siebert) o quanto meno per
    dare fondamento a una concezione organicista del rapporto di lavoro,
    di ispirazione romantico-medievalista, impostata sulla
    fedeltà del lavoratore e sulla protezione dell'imprenditore
    (von Gierke, Nikisch). Nei paesi ad alto livello industriale, il
    rapporto di protezione si presenta tuttora in Giappone, al di
    là dello schema contrattuale, come la nota tipica della
    prestazione di lavoro, soprattutto nella grande impresa. La
    concezione opposta del rapporto di scambio, applicabile al lavoro
    nell'impresa come a quello fuori di essa, domina invece,
    pressoché incontrastata, nel mondo anglosassone (T.
    Ascarelli), e prevale anche nei paesi a economia statizzata (v.
    Weltner, 1970, p. 117).
    Collaterale all'individuazione del rapporto di dipendenza è
    quella, più densa di contenuto politico-sociale, della
    posizione del lavoratore come contraente più debole (v.
    Menger, 1890, p. 23; v. Commons e Andrews, 19364, p.
    502). Kahn-Freund (v., 19772, p. 6) potrà pertanto
    affermare che ‟l'oggetto principale del diritto del lavoro è
    sempre stato, e mi azzardo a dire che sempre sarà, di
    costituire una forza di bilanciamento atta a compensare la
    diseguaglianza di potere contrattuale che è inerente, e tale
    non può non essere, al rapporto di lavoro". Questa
    constatazione è all'origine delle limitazioni poste
    all'autonomia delle parti, in quanto comporta l'abbandono
    dell'ipotesi di eguaglianza tra i due soggetti e del rapporto
    contrattuale come effetto di un incontro tra volontà libere
    ed eguali. Lo stesso problema, in altri ambienti culturali, viene
    formulato accentuando gli aspetti di tutela della persona piuttosto
    che quelli inerenti al rapporto di mercato: posto che il lavoro non
    è assimilabile a un bene dato in locazione, e poiché
    la prestazione coinvolge la personalità del lavoratore, ne
    viene dedotta la necessità di limitare, nella determinazione
    dei termini di scambio, una libertà che finisce per volgersi
    a danno di una delle parti.
    Sia che l'argomento venga fondato su basi socioeconomiche, sia che
    riveli le tracce di un'ispirazione personalistica, l'esito di
    diritto positivo è lo stesso, nel senso che il rilievo del
    momento volontario viene progressivamente ridotto, fin quasi ad
    annullarsi. I contenuti del contratto sono determinati da fonti
    sovrastanti alle parti - le leggi o gli accordi collettivi - mentre
    anche il momento della costituzione del rapporto viene sottoposto in
    taluni ordinamenti a vincoli intensi (si pensi alle assunzioni
    obbligatorie di soggetti a ridotta capacità lavorativa, o al
    collocamento obbligatorio, come vige in Italia, per vero con scarsa
    effettività).
    Conseguentemente, numerose voci si sono levate in dottrina per
    sostenere la non contrattualità del rapporto di lavoro. Nei
    paesi di common law, tale problema è stato
    formulato (A. V. Dicey) come un processo inverso rispetto al
    passaggio dallo status al contratto, che aveva invece
    caratterizzato il sec. XIX. D'altra parte, vi è da rammentare
    che il diritto nordamericano, a differenza di quello inglese,
    rifiuta in genere la nozione di contract of employment, e
    privilegia il momento del rapporto (employment relationship);
    
    
    e ciò anche a seguito della diversa efficacia e funzione del
    contratto collettivo rispetto a quello del diritto britannico (v.
    Wedderburn, 19712, p. 79; v. sotto, cap. 7).
  È pur vero, tuttavia, che un nucleo di rilevanza della
    volontà sussiste pur sempre, vuoi nella stipulazione di
    condizioni più favorevoli di quelle prestabilite in sede
    eteronoma - come è ammessa nella maggior parte degli
    ordinamenti - vuoi nella costituzione del rapporto che richiede la
    volontà delle parti, anche nei pur limitati casi in cui essa
    è oggetto di costrizione: per esempio, quando il lavoratore
    che non accetti un'offerta di lavoro adeguata perde determinati
    benefici oppure quando il datore di lavoro sia obbligato ad assumere
    i lavoratori di ridotta capacità lavorativa (obbligo a
    contrarre). La soluzione del problema dipende in ultima analisi
    dalla nozione di ‛contratto' che lo studioso premette
    all'argomentazione (v. Rodotà, 1970, p. 25); nozione che oggi
    è tutt'altro che univoca. Ove si accetti la concezione di
    impronta giusnaturalistica del contratto come strumento di
    libertà, arduo sarebbe infatti riferirvi la moderna
    disciplina del rapporto di lavoro.
    La nozione di contraente più debole viene in genere data come
    coincidente con quella di dipendenza o subordinazione. Anche sotto
    questo aspetto è dato individuare la contraddizione,
    già posta in luce, tra la definizione del contratto e la
    funzione economico-sociale del diritto del lavoro. Infatti la
    condizione di contraente più debole copre un'area in taluni
    casi più ampia del rapporto di dipendenza (questo dicasi per
    esempio con riguardo a rapporti associativi in agricoltura o a certe
    forme di agenzia o di lavoro autonomo continuativo con gli stessi
    committenti); in taluni casi più circoscritta, dato che non
    tutti i lavoratori subordinati sono economicamente ‛deboli' (questo
    dicasi per tutte le alte posizioni direttive o tecniche). L'aver
    privilegiato il criterio formale (la subordinazione nell'esecuzione
    del rapporto) rispetto a quello reale (l'esistenza effettiva di uno
    squilibrio di forza contrattuale) ha probabilmente contribuito a
    distorsioni del sistema, poiché ha iperprotetto rapporti che
    già si svolgevano in condizioni di relativo equilibrio, e ha
    lasciato invece fuori rapporti sociali di intenso sfruttamento.
    
    5. I limiti dell'autonomia individuale
  
    Il diritto del lavoro, per l'aspetto che concerne il contratto di
    lavoro, è un sistema di limiti all'autonomia privata. Esso si
    realizza con le tecniche giuridiche dell'invalidità (per es.
    nullità del contratto stipulato dal minore non provvisto di
    capacità giuridica lavorativa o del patto di mutamento
    peggiorativo delle mansioni); delle clausole imposte (per es.
    nullità di clausole difformi dalla legge o dal contratto
    collettivo e sostituzione di diritto con quelle previste da tali
    fonti, tra cui principalmente quelle relative alla misura del
    salario); dell'obbligazione risarcitoria (frequente nei casi di
    licenziamenti illeciti, ma non qualificati come invalidi); e, non di
    rado, della sanzione penale.
    Una tecnica ‛promozionale', articolata su incentivi o sanzioni
    positive (per es., la costituzione di un rapporto in caso di mancata
    assunzione per motivi illeciti), appare negli anni più
    recenti, soprattutto nelle leggi antidiscriminatorie (v. sotto, cap.
    9).
    La materia oggetto di queste norme restrittive dell'autonomia
    privata è amplissima e variamente distribuita tra leggi e
    contratti - né va sottaciuto l'influsso che per es. negli
    Stati Uniti o in Italia hanno avuto le Costituzioni. A un sommario
    esame, si possono indicare tra gli argomenti più ricorrenti
    nella fonte legislativa: capacità di lavoro, forma del
    contratto, durata massima del lavoro, ferie e festività,
    sicurezza e igiene del lavoro, invalidità del contratto,
    obbligazioni accessorie del datore di lavoro e del lavoratore,
    licenziamenti. Tra gli argomenti propri piuttosto dei contratti
    collettivi: minimi retributivi e classificazioni professionali,
    lavoro straordinario, indennità relative alle condizioni di
    lavoro, incentivi, cottimi e premi di produzione, trattamenti di
    risoluzione del rapporto e, più di recente, livelli di
    occupazione, controllo del decentramento industriale. Sovente,
    comunque, la legislazione fissa i principi e i contratti collettivi
    vi danno applicazione, ovvero questi ultimi introducono innovazioni
    che la legge consolida e generalizza. A tali materie si aggiungono
    ora le legislazioni contro la discriminazione, soprattutto razziale
    e per sesso, che hanno la prima realizzazione con il Civil
      rights act emanato negli Stati Uniti nel 1963. Inoltre,
    è recentissima una tendenza a estendere l'area normativa
    oltre la protezione degli interessi patrimoniali o del benessere
    fisico, per fornire una tutela della libertà e dignità
    del lavoratore nella vita di relazione in fabbrica (in Italia,
    Statuto dei lavoratori, 1970). Ciò può essere
    realizzato anche mediante l'attribuzione di specifiche competenze ai
    consigli di fabbrica (RFT, 1972) o ai sindacati (Svezia, 1976).
    Il progresso della normativa del contratto di lavoro segue comunque
    due tracciati ideologicamente divergenti. Da una parte si ribadisce
    la natura ‛personale' del rapporto, per cui il sistema delle
    garanzie viene articolato sulla premessa, che è a un tempo
    descrittiva e ottativa, del pieno coinvolgimento del lavoratore
    nella vita dell'impresa e del dovere di fedeltà a
    quest'ultima. L'esito politico coerente di tale concezione, che
    presenta forti impronte organicistiche, è stato
    l'attribuzione ai lavoratori di poteri di cogestione, in una con
    l'attenuazione degli elementi di conflitto d'interessi con l'altra
    parte: e questo è apparso il caso della Repubblica Federale
    Tedesca. Dall'altra, soprattutto nei paesi anglosassoni, ma anche in
    Francia o in Italia, l'orientamento di principio è piuttosto
    nel senso di tutelare la persona, impedendo che venga coinvolta
    nella sfera di interessi dell'imprenditore a cui, a costanza di
    sistema politico e sociale, essa appare sostanzialmente estranea. La
    linea di tendenza in questo caso è verso il potenziamento
    delle garanzie giuridiche contro l'imprenditore, la riduzione dei
    doveri del lavoratore al puro ambito della prestazione convenuta,
    nonché verso il riconoscimento dei diritti di libertà
    nei luoghi di lavoro. Tuttavia, ad onta delle diverse premesse
    ideologiche, gli esiti sono sovente omogenei; così, a
    proposito di esercizio della libertà sindacale (ma assai meno
    in tema di sciopero) o di tutela della dignità del
    lavoratore, sia nel posto di lavoro sia, anche con l'affermarsi del
    principio dell'irrilevanza della vita privata nelle vicende del
    rapporto (v. cap. 10), fuori di esso. La stessa partecipazione agli
    organi dell'impresa, che ha celebrato i suoi fasti, come si
    ricordava, nella Repubblica Federale Tedesca, è ora oggetto,
    nel ben diverso ambiente culturale britannico, di una proposta
    ufficiale (Rapporto Bullock, 1976).
    Infine, la prevalenza degli elementi di collaborazione su quelli
    conflittuali, nel nome della disciplina socialista del lavoro,
    è connaturata all'ideologia giuridica dei paesi comunisti
    dove, comunque, non è venuto meno l'apparato garantistico del
    lavoratore nei confronti della proprietà collettiva (v.
    Weltner, 1970, p. 172). Anche qui sono rilevabili tendenze non
    uniformi. Così il riferimento alla disciplina socialista
    (cfr. Codice del lavoro cecoslovacco, 1970 e il Codice del lavoro
    della Repubblica Federale Tedesca, 1961), cui è propria
    l'idea di una intensa fedeltà all'impresa, non compare nel
    recentissimo Codice del lavoro polacco (1976), che (art. 12) impone
    al lavoratore, in termini più cauti, il dovere di ‟impegnarsi
    a conseguire dal proprio lavoro i migliori risultati possibili e di
    manifestare a tal fine l'appropriato spirito di iniziativa
    nonché ad aver cura dell'interesse e dei beni dell'azienda".
    
    6. La libertà e l'organizzazione sindacale
  
    Come abbiamo ricordato, per diritto sindacale si intende il sistema
    di norme che si pone come cornice all'attività dei gruppi
    organizzati. Condizione di esistenza del diritto sindacale è
    pertanto che vi siano gruppi organizzati o coalizioni. I rapporti di
    diritto sindacale sono rapporti tra ‛po teri collettivi': le
    coalizioni dei lavoratori e le imprese, intese queste ultime come
    ‟accumulazioni di risorse materiali e umane che ne fanno un potere
    collettivo" (v. KahnFreund, 19772, p. 6). La formazione
    delle coalizioni operaie, in conflitto con il potere collettivo
    delle imprese, è fenomeno tipico del sec. XIX, ed è
    effetto indotto dall'industrialismo, anche se non sempre dalla
    concentrazione del lavoro nelle manifatture (o factory system)
    (v. Commons e altri, 1918, vol. I, p. 8, con riferimento alla storia
    americana, in cui le prime coalizioni si formano nello stadio del
    capitalismo mercantile).
    La tipologia del diritto sindacale è variegata, e dipende a
    sua volta dalla tipologia delle relazioni industriali in ciascun
    determinato paese. Un quadro compiuto e analitico, al di là
    della comparazione tra le istituzioni legali, potrebbe oggi essere
    definito con l'ausilio della disciplina delle ‛relazioni
    industriali' approfondita soprattutto nei paesi anglosassoni (v.
    Sellier, 1976). Essa, secondo la definizione di Spyropoulos (v.,
    1976, p. 17), ‟si riferisce ai modi con cui vengono stabilite e
    applicate le norme di lavoro e ai modi con cui vengono adottate le
    decisioni per distribuire tra i produttori i frutti
    dell'attività produttiva". In questo ambito disciplinare sono
    state elaborate tipologie differenziali, che tengono conto di
    variabili, tra cui le principali sono: regime politico; livello
    dell'industrializzazione; struttura del mercato del lavoro;
    motivazioni e comportamenti dei soggetti (imprese, sindacati,
    operatori pubblici). Ogni data combinazione delle variabili genera
    un sistema di relazioni industriali; che è comunque un
    sistema di norme di lavoro (v. Fox e Flanders, 1969).
    Da un punto di vista rigorosamente giuridico, deve riconoscersi che
    il diritto sindacale appare in tutti gli ordinamenti in cui è
    ammessa l'esistenza del gruppo organizzato. Sotto questo aspetto,
    pertanto, è dato affermare l'universalità del diritto
    dei gruppi organizzati, apparendo ormai del tutto superate quelle
    strutture legali rigorosamente individualistiche che, in polemica
    con l'ancien régime, avevano improntato costituzioni
    e codici del secolo passato.
    Questa ‛universalità' del diritto sindacale, testimoniata
    anche dalla quasi totale adesione delle nazioni all'OIL
    (Organizzazione Internazionale del Lavoro), non vale peraltro a
    sfumare la discriminante fondamentale, che è quella tra gli
    ordinamenti caratterizzati dal riconoscimento e
    dall'effettività della libertà sindacale, e quelli
    invece dove questa, di diritto o di fatto, non è operante:
    vuoi nei regimi autoritari, qualificati o no da ordinamenti
    corporativi della produzione, vuoi nei regimi di modello sovietico,
    per la particolare posizione che ivi assume il sindacato. In tali
    sistemi, comunque, è dato sovente constatare una discrepanza
    clamorosa tra la normativa, che consacra il principio di
    libertà, e la realtà di fatto. Tali contraddizioni
    hanno formato oggetto in alcuni casi di denunce o di interventi nel
    seno di varie organizzazioni internazionali (Comitato per la
    libertà sindacale dell'OIL, Comitato di esperti per
    l'attuazione della Carta sociale europea presso il Consiglio
    d'Europa).
    In una trattazione che, come la presente, non si propone
    direttamente obiettivi di comparazione giuridica, ma intende
    piuttosto porre in luce i tratti più originali di questo ramo
    del diritto, attingendo i dati significanti dei vari ordinamenti,
    appare opportuno concentrare l'attenzione sulle strutture che
    traggono origine dall'antagonismo tra capitale e lavoro, e che sono
    perciò costruite sul rapporto ‛conflittuale' tra i poteri
    collettivi dianzi rammentati. I sistemi conflittuali presuppongono:
    a) un'identità dell'organizzazione sindacale del tutto
    distinta da quella dello Stato e libera da ingerenze di
    quest'ultimo; b) la disponibilità di strumenti di autotutela,
    e perciò, principalmente, dello sciopero. L'antagonismo
    conflittuale può avere o no connotazioni riconducibili alla
    lotta di classe; quest'ultima appare pressoché irrilevante,
    per esempio, in un sistema di relazioni industriali pur accesamente
    conflittuale come quello degli Stati Uniti. Tale antagonismo non
    viene a priori escluso, almeno sul piano teorico, in
    regimi che si definiscono di dittatura del proletariato (cfr. per
    esempio, la Costituzione cinese del 1975, che ammette la
    libertà di sciopero).
    Nel diritto sindacale così inteso acquistano rilevanza
    centrale tre istituti o gruppi di istituti giuridici: la
    libertà sindacale e il sindacato; il contratto collettivo di
    lavoro e le procedure per la stipulazione di esso; le forme di
    autotutela.
    Prima di esaminare, sia pure in forma sintetica, tali istituti,
    è peraltro necessario porre in rilievo una peculiarità
    ulteriore di questo ramo del diritto, propria soprattutto dei
    sistemi di antagonismo conflittuale; e cioè che la materia di
    esso non si identifica sempre con quella dell'ordinamento giuridico
    dello Stato, potendosi avere in taluni e non infrequenti casi una
    produzione normativa ‛non azionabile' in sede di giurisdizione
    statuale e rimessa a meccanismi sanzionatori interni allo stesso
    sistema delle relazioni industriali. Tale fenomeno è visibile
    nel sistema britannico dove, come si accennerà più
    oltre, il contratto collettivo è una realtà viva e
    operante, ma normalmente priva di enforceability diretta;
    e lo stesso è stato riscontrato (v. Giugni, 1960) in alcuni
    momenti e aspetti dei rapporti collettivi di lavoro in Italia.
    Il tema della libertà sindacale, principio elevato a valore
    costituzionale solo nelle costituzioni di questo secolo (Messico,
    1917; Germania, 1919; Francia, 1946; Italia, 1948; RFT, 1949; Carta
    delle Nazioni Unite, 1945) si pone in primo luogo con riferimento
    agli individui, e acquista valore problematico soprattutto nel
    profilo della cosiddetta libertà sindacale negativa, e
    cioè della libertà di non aderire a una determinata o
    a nessuna organizzazione sindacale. Tale problema è
    particolarmente sentito nei paesi (soprattutto anglosassoni) in cui
    è diffusa nelle sue numerose varianti la pratica dell'union
      
      shop, in forza della quale l'iscrizione al sindacato diviene
    condizione per l'occupazione. Qualora non si ritenga che la
    libertà sindacale sia riferibile anche all'aspetto negativo
    di essa, sorge un conflitto, che può tingersi di forti
    cariche polemiche, con riguardo al principio, anch'esso a volte
    costituzionalmente garantito, del diritto al lavoro. In questo
    contrasto tra interesse collettivo e individuale, di non rara
    ricorrenza nel diritto sindacale, l'obiettivo di rafforzare
    l'organizzazione e rendere effettiva la libertà collide con
    la costruzione della libertà stessa in termini rigorosamente
    individualistici. La stessa consistenza del problema varia a seconda
    che sia operante un sindacalismo unitario e non ideologico, oppure
    un sindacalismo pluralistico fondato su differenze di credo
    politico, che rendono più essenziale la garanzia del diritto
    di non appartenenza, e cioè della libertà sindacale
    negativa. Si può comunque rilevare, nel complesso, un
    atteggiamento restrittivo da parte dei vari ordinamenti nei
    confronti delle clausole di appartenenza obbligatoria: limitate
    negli Stati Uniti, soprattutto dalle leggi statali (le leggi sul right
      
      to work, vivacemente contrastate dal movimento sindacale),
    esse sono state dichiarate incostituzionali dalla Corte federale del
    lavoro della Repubblica Federale Tedesca.
    Un ulteriore importante sviluppo viene dall'applicazione della
    garanzia di libertà anche nei rapporti interprivati
    (l'effetto di Drittwirkung, v. sotto, cap. 9), laddove la
    concezione dei diritti di libertà come diritti pubblici
    soggettivi vedeva come termine di essi solo lo Stato. Intesa in
    questo senso, la libertà sindacale diviene diritto alla non
    discriminazione da parte del datore di lavoro, e genera lo sviluppo
    di tecniche giuridiche appropriate. Già in tal modo essa
    acquisisce una dimensione collettiva come fattore di equilibrio
    rispetto al potere ‛collettivo' dell'imprenditore.
    Tale valenza collettiva appare naturalmente più netta quando
    la normativa riguarda il sindacato in quanto tale. Si noti
    però che negli ultimi decenni il problema della
    qualificazione giuridica del sindacato inteso come associazione
    è stato ridimensionato e condotto nei suoi giusti termini;
    l'attribuzione della personalità giuridica è apparsa
    di per sé come uno strumento valido soprattutto ai fini
    patrimoniali, peraltro non tipici né di primaria importanza
    nell'esperienza sindacale, ma non come presupposto necessario per
    altri effetti di maggior rilievo.
    L'associazione sindacale appare pertanto oscillare tra la figura
    della persona giuridica vera e propria, forme di soggettività
    attenuata (Francia) o di certificazione (Gran Bretagna, 1975) e la
    qualificazione di associazione di fatto, ma pur sempre idonea a
    costituire un centro di imputazione unitario per alcuni rapporti
    giuridici (Italia, Repubblica Federale Tedesca). Una menzione a
    parte meritano invece le rappresentanze aziendali, perché
    sovente esse appaiono fondate sulla rappresentanza elettorale
    anziché su quella associativa. Nell'ordinamento tedesco, e
    fin dal tempo di Weimar, il consiglio di fabbrica non è
    organo associativo né sindacale. Nell'esperienza italiana di
    questi ultimi anni, il consiglio di fabbrica si è invece
    sviluppato secondo un modulo riconducibile sul piano funzionale
    all'organizzazione sindacale, mentre sul piano strutturale permane
    una dicotomia tra l'associazione fondata sul principio di adesione e
    l'istituzione aziendale alla cui formazione possono partecipare
    tutti i lavoratori.
    Nonostante la variabile qualificazione giuridica, l'associazione
    sindacale presenta, in vario grado, ricorrenti forme di
    capacità, come alcune legittimazioni processuali, la
    legittimazione a stipulare contratti collettivi, a proclamare lo
    sciopero o, sul piano pubblicistico, a designare rappresentanti in
    corpi o collegi pubblici. A tal fine può essere richiesto il
    requisito della rappresentatività, che è una
    valutazione di effettività dell'organizzazione: così,
    in Francia, dal 1971 la capacità contrattuale è
    riservata ai sindacati rappresentativi; l'Employment protection
      act emanato nel 1975 in Gran Bretagna impone invece il
    requisito della indipendenza.
    Una linea di tendenza in espansione è quella della normativa
    di sostegno dell'attività sindacale, che è in
    realtà un conseguente sviluppo della garanzia di
    libertà sindacale, nelle forme di esercizio collettivo di
    essa. Anche qui l'attività del sindacato, in genere, viene
    presa in considerazione, per implicito o espressamente, in base alla
    rappresentatività e cioè in ragione della rilevanza
    sociale dell'attività dispiegata dal sindacato stesso. A
    vantaggio di questo l'ordinamento riconosce specifiche
    capacità o diritti, a cui corrisponde, generalmente, una
    restrizione della sfera giuridica dell'imprenditore. Permessi
    retribuiti per lo svolgimento dell'attività sindacale,
    facoltà di indire assemblee anche nel luogo di lavoro,
    diritto di affissione e di sede nei locali aziendali, diritto di
    prelievo dei contributi: l'una o l'altra di queste forme
    dell'attività sindacale trovano espliciti riconoscimenti
    nella legislazione francese (1968), nello Statuto dei lavoratori
    italiano (1970), nel Trade unions and labour relations act britannico
    
    
    (1974). Si possono menzionare inoltre le sovvenzioni da parte degli
    imprenditori previste da contratti collettivi nel Belgio. La legge
    può infine intervenire a sancire veri e propri diritti di
    informazione, di negoziazione o di codeterminazione: siamo allora
    peraltro in un campo che non attiene più all'attività
    sindacale in quanto tale ma ai rapporti tra i contrapposti poteri
    collettivi, ed è materia che può essere affrontata
    nell'ambito dei problemi connessi all'attività di
    contrattazione collettiva, soprattutto nei suoi più recenti
    sviluppi (v. sotto, cap. 10).
    
    7. Il contratto collettivo di lavoro
  
    Il contratto collettivo di lavoro è lo strumento che
    stabilisce la misura e la qualità del rapporto di equilibrio
    tra i due poteri collettivi antagonistici. Con il contratto
    collettivo viene posta in essere una composizione temporanea del
    conflitto, generato, il più delle volte, dalle
    ‛rivendicazioni' dei lavoratori: nulla impedisce peraltro che siano
    l'imprenditore o la coalizione degli imprenditori a proporre proprie
    rivendicazioni, e così avviene ad esempio quando il conflitto
    insorge a seguito di riduzioni del personale.
    Il contratto assume pertanto una funzione sociale di ‛trattato di
    pace' (v. Scelle, 1922; v. Kahn-Freund, 19772, p. 122) e,
    riguardo al suo contenuto, pur ribelle a ogni definizione
    ontologica, esso può essere individuato in: a) norme che
    regolano in via diretta i contenuti dei rapporti di lavoro; b) norme
    che regolano le procedure per la determinazione delle prime, ponendo
    vincoli ‟ai comportamenti e alle modalità d'azione delle
    diverse organizzazioni formali e informali che fanno parte del
    sistema di relazioni industriali" (v. Fox e Flanders, 1969). Questa
    tipologia funzionale di contenuti corrisponde a quella tra norme di
    condotta e norme sulla produzione giuridica, ben nota nella
    giuspubblicistica, ma è stata resa nel diritto del lavoro,
    coltivato soprattutto da scrittori di cultura civilistica, in base
    alle differenze degli effetti discendenti da esse. Si è
    così consolidata una distinzione, la quale trae origine dalla
    dottrina tedesca (v. Sinzheimer, 1908, pp. 92 ss.) e appare
    ampiamente diffusa (in Italia per opera di Messina, in Francia di
    Durand), tra la parte normativa (ricollegabile a sua volta alla
    specie del contratto normativo) e la parte obbligatoria del
    contratto. La distinzione è importante e tuttora
    attualissima; tuttavia essa, per la ragione anzidetta, può
    risultare deviante rispetto a una cognizione funzionale
    dell'istituto, ed è mal adattabile alle clausole o parti
    procedurali e istituzionali (per es., commissioni miste, procedure
    arbitrali e di conciliazione, fondi previdenziali) tutt'altro che
    infrequenti nell'esperienza contrattuale.
    La funzione primaria di composizione del conflitto è comune a
    tutti i contratti che sono, per l'appunto, atti di composizione di
    interessi. La tipicità del contratto qui in esame è
    data dalla natura collettiva dei soggetti coinvolti, per cui gli
    interessi in gioco divengono interessi collettivi. La funzione ‛di
    pace' assume peraltro caratteri specifici dove e quando si prolunga
    in un impegno di non modificare l'assetto di interessi per un tempo
    determinato. In Germania fu acquisito fin dalle origini (v.
    Sinzheimer, 1908, pp. 171 ss.) che ogni contratto collettivo
    comprendesse come effetto naturale il dovere di tregua o di pace
    sociale, nel senso che ne derivasse un obbligo per i sindacati
    stipulanti di astenersi da scioperi inerenti alle materie regolate
    dal contratto stesso, fino alla sua scadenza.
    Il dovere di pace ‛relativo' (da distinguersi dal dovere ‛assoluto',
    che è l'impegno, questa volta non implicito, a non ricorrere
    all'azione diretta neppure per materie non regolate nel contratto),
    è invece altrove ritenuto un effetto del contratto solo se
    abbia formato oggetto di un esplicito accordo (clausola di tregua o
    di no-strike). In paesi dove il diritto di sciopero ha un
    riconoscimento costituzionale, in particolare in Italia e in
    Francia, si è persino dubitato della validità di tali
    clausole, in quanto comportano una rinuncia, sia pure temporanea,
    all'esercizio di un diritto costituzionale. Al di là di tali
    dispute, è dato constatare che l'intensità del vincolo
    che deriva dal contratto è un riflesso, in sede di disciplina
    legale, del grado di vocazione conflittuale del sindacato e/o di
    accettazione del conflitto stesso da parte del sistema politico. Non
    è casuale il fatto che la dottrina dell'obbligo di pace come
    effetto naturale del contratto collettivo sia propria di un paese
    dove i conflitti di lavoro sono fortemente contenuti, mentre, sia
    pure in modo diverso, la vincolatività dei contratti nel
    senso qui esaminato è stata ed è oggetto di accesa
    controversia in Gran Bretagna, come in Italia e in Francia.
    Sotto il profilo economico, il contratto collettivo, in quanto posto
    in essere da una coalizione di operatori nel mercato del lavoro, o
    (qualora anche gli imprenditori siano organizzati) da due coalizioni
    contrapposte, è uno strumento limitativo della concorrenza;
    tende cioè a creare un mercato monopolistico. Per tale
    ragione esso, in passato, fu colpito negli Stati Uniti mediante la
    legislazione anti-trust. Trattandosi di un mercato
    caratterizzato da spiccati aspetti di imperfezione e di squilibrio,
    la limitazione della concorrenza è tuttavia apparsa come un
    fattore di normalizzazione del mercato stesso.
    Tale funzione normalizzatrice può svolgersi in due modi: con
    il controllo dell'accesso al lavoro e con l'imposizione della norma
    comune (Webb). Il primo metodo si attua con il collocamento
    sindacale, ed eventualmente con l'adesione obbligatoria (union
      shop; v. sopra, cap. 6), integrata sovente da condizioni
    restrittive di ammissione. Quest'ultima forma appare tipica del
    sindacalismo di mestiere (v. sindacalismo).
    
    
    Il secondo metodo è quello che si giova, soprattutto, del
    contratto collettivo. Esso può essere orientato alla
    determinazione dei minimi, derogabili dai soggetti individuali solo
    con trattamenti più favorevoli ai lavoratori, e questo
    è tipico della maggior parte dei paesi europei; oppure, come
    negli Stati Uniti, può fissare le condizioni effettive, e in
    tal caso il contratto collettivo vanifica praticamente quello
    individuale.
  È in ragione di tale funzione normalizzatrice del mercato che
    si avverte la necessità di attribuire al contratto collettivo
    la più ampia sfera di efficacia. E poiché negli
    ordinamenti ispirati ai principî privatistici esso ha effetti
    circoscritti agli stipulanti (sindacati e loro iscritti), si pone il
    problema di generalizzarne l'area di applicazione.
    Tale risultato può essere conseguito di fatto quando il tasso
    di sindacalizzazione è molto elevato, mentre nel caso diverso
    vengono in genere sperimentati vari meccanismi di estensione: da
    quello dell'union shop, che indirettamente estende il
    contratto a tutti i lavoratori dell'azienda, alla generalizzazione
    del contratto a un intero ramo produttivo mediante un atto
    normativo, fino all'efficacia direttamente erga omnes.
    Quest'ultima fu introdotta in Italia dal regime corporativo e,
    prevista dalla Costituzione, ma con norma rimasta inattuata (art.
    39, comma 3), venne realizzata nel 1959 da una legge ‛transitoria',
    che diede forza normativa ai contratti collettivi allora esistenti.
    In questi ultimi anni il generale rafforzamento dei sindacati,
    congiunto a indirizzi giurisprudenziali equitativi, hanno comunque
    prodotto anche in Italia una situazione di quasi generalizzazione di
    fatto. Si noti che, quando è elevata la sindacalizzazione,
    anche dove è prevista la possibilità di estensione con
    atto normativo, raramente a essa vien fatto ricorso (così
    nella Repubblica Federale Tedesca).
    Le due funzioni di regolamentazione dei rapporti di lavoro e di
    controllo sul mercato (v. Kahn-Freund, 19772) appaiono
    perciò strettamente connesse, fino a fondersi in una sola. La
    variabile da prendere in considerazione è invece quella
    relativa alla forza organizzativa del sindacato: dove questa
    è rilevante, la norma comune si impone senza l'apporto della
    forza statale, altrimenti questa viene evocata per consolidare i
    risultati contrattuali.
    Il fatto che il contratto collettivo e la legge spesso riguardino le
    medesime materie e che sia frequente l'assunzione di norme
    contrattuali in norme di legge o in provvedimenti muniti di pari
    efficacia, sta a indicare che questo istituto, quanto ai contenuti,
    è il più delle volte assimilabile a un atto normativo
    generale e astratto. È però importante avvertire che
    la cognizione di questo complesso sistema di regolamentazione dei
    rapporti di lavoro sarebbe parziale ove, come accade di frequente
    nelle trattazioni giuridiche, l'attenzione fosse circoscritta al
    contratto collettivo in sé e per sé considerato e non
    fossero presi in esame i nessi che collegano un contratto all'altro,
    sia in senso temporale, sia con riguardo alle aree geografiche e
    professionali coinvolte: vale a dire, il processo o sistema di
    contrattazione. Nei cosiddetti sistemi ‛dinamici', come quello
    britannico, il flusso di accordi continuativi, sovente mediati da
    istituzioni paritarie, è di gran lunga più importante
    del testo formale, via via rinnovato con modifiche a scadenza, che
    segna piuttosto il ritmo della contrattazione nella tradizione
    europea continentale e in quella statunitense. Ma anche in queste
    ultime, a ben guardare, il momento dinamico esiste e si esprime
    nell'applicazione dei testi tra una scadenza e l'altra; un momento
    applicativo che, soprattutto quando è calato nella
    concretezza dei rapporti aziendali, si svolge con integrazioni e
    innovazioni che danno corpo, per l'appunto, a un modello dinamico.
    Come tutti i modelli, anche quello che distingue tra forme statiche
    e forme dinamiche è schematico, epperciò, se elevato a
    dogma, può anche essere deformante. È certo comunque
    che nell'esperienza sindacale dell'Europa continentale i contratti
    collettivi appaiono sovente nella forma di codici professionali,
    rispondenti a una funzione più spiccatamente normativa,
    laddove il modello dinamico esalta piuttosto gli aspetti
    procedimentali della contrattazione.
    L'identità giuridica del contratto collettivo (natura
    contrattuale, regolamentare, mista; v. Despax, 1966) è
    notevolmente controversa, e si può dire che un dibattito
    durato più di cinquant'anni non sia giunto a una conclusione
    sicura. Che una produzione normativa possa avvenire anche con
    l'impiego dello strumento contrattuale è noto al diritto
    pubblico, e in particolare al diritto internazionale. I problemi che
    si pongono in ordine al contratto collettivo riguardano soprattutto
    la natura di esso in rapporto agli effetti giuridici. Così,
    la non enforceability, salvo espressa volontà delle
    parti, confermata dalla più recente legislazione britannica
    (1974), qualifica il contratto collettivo come un'espressione di
    autonomia sociale operante fuori della sfera dei rapporti assunti
    come rilevanti dall'ordinamento statuale. Al contrario, è
    abbastanza consolidata negli Stati Uniti l'opinione che il contratto
    collettivo sia un accordo a contenuto normativo (legislative),
    
    del tutto estraneo alle forme contrattuali tutelate dalla common
      
      law; a simili, anche se più elaborate, conclusioni si
    perviene dove, come in Germania o in Francia, è il diritto
    positivo stesso ad attribuire al contratto collettivo una forza
    imperativa diretta. Diverso è il caso in cui, in assenza di
    una tale statuizione positiva, l'istituto venga ricondotto
    nell'ambito del diritto comune delle obbligazioni, dove la deroga
    dei soggetti individuali alla norma comune può essere
    costruita solo in termini di inadempimento. Questa è stata la
    vicenda di tutti gli ordinamenti di civil law prima
    dell'emanazione di leggi ad hoc, e in particolare
    dell'Italia prima e dopo il sistema corporativo, anche se ormai una
    giurisprudenza consolidata, congiunta a indirette prescrizioni
    legislative, ha in sostanza sancito l'effetto inderogabile e
    configurato pertanto una funzione normativa imperativa, sia pure di
    diritto privato.
    Vero è che il contratto collettivo è un istituto con
    tratti irriducibili sia alle fonti come categorizzate dal diritto
    pubblico moderno, sia al contratto come definito dalle
    codificazioni. La persistente difficoltà di costruzione
    giuridica può pertanto in parte essere imputata alla
    pervicace tendenza delle scuole giuridiche tradizionali a elevare le
    proprie definizioni dei meccanismi normativi a essenze, a cui
    debbono ricondursi per necessità logica tutte le forme
    dell'esperienza giuridica. Tale vizio di metodo rende ovviamente
    ardua più del necessario la definizione di un istituto che
    è stato generato da rapporti sociali del tutto specifici
    rispetto alla struttura statuale che produce la legge, così
    come ai rapporti prevalentemente mercantili su cui si fonda la
    vicenda storica del contratto; e che, in ultima analisi, si muove
    secondo regole interne che non è apparso azzardato definire
    come ‛esoteriche' (v. Kahn-Freund, 19772, p. 56).
    
    8. Lo sciopero
  
    Anche questo è un istituto tipico e inconfondibile del
    diritto del lavoro, di cui si è tentato di tracciare analogie
    più o meno plausibili con il diritto di resistenza o con i
    poteri di veto. In realtà il fenomeno dello sciopero è
    la diretta derivazione di due aspetti tipici dell'industrialismo e
    cioè: a) la sostituzione del contratto di lavoro ai rapporti
    servili o vincolati dell'età precedente: da questo punto di
    vista lo sciopero è null'altro che il ritiro collettivo e
    concertato della forza lavoro dal mercato; b) l'agglomerazione di
    masse di lavoratori nelle manifatture, e la conseguente formazione
    di condizioni favorevoli all'organizzazione di azioni collettive.
    Lo sciopero risulta essere storicamente il primo modo di espressione
    della protesta collettiva, che dà forma a coalizioni
    più o meno temporanee, dalla cui graduale stabilizzazione ha
    origine il sindacato (v. Kahn-Freund, 1954).
    La prima reazione degli ordinamenti, in omaggio a una concezione
    rigorosamente individualistica dei rapporti economici, è
    dovunque repressiva: la coalizione per provocare il rialzo del
    prezzo del lavoro è punita nei codici penali o dalla dottrina
    della conspiracy. Quest'ultima è fondata sul
    principio per cui ciò che è lecito al singolo (nel
    nostro caso: il rifiuto del lavoro) può non esserlo se
    attuato da più soggetti in forma concertata. All'inizio del
    secolo, peraltro, appare abbastanza generalmente consolidato il
    principio della non punibilità, ovvero dello
    sciopero-libertà; il rifiuto del lavoro è
    inadempimento, e come tale è perseguibile, ma solo in sede
    civile. Gli stessi valori fondamentali dello Stato liberale
    rendevano difficilmente sostenibile la negazione della
    libertà di disporre del proprio lavoro contenuta nel divieto
    delle coalizioni. Forme di repressione dello sciopero, anche se
    episodiche, permangono negli Stati Uniti fino agli anni trenta. La
    repressione è invece ripristinata e applicata con estremo
    rigore nei regimi fascisti e in quelli di modello sovietico.
    Il diritto di sciopero forma oggetto di garanzia costituzionale per
    la prima volta nella Carta di Querétaro (Messico, 1917) e,
    dopo la seconda guerra mondiale, nelle Costituzioni francese,
    italiana e, più di recente, nella Costituzione portoghese del
    1976. Interessa rilevare che tale riconoscimento si ha anche nella
    Costituzione cinese del 1975 e si può infine aggiungere che
    il diritto di sciopero è affermato da importanti Carte
    internazionali, sia pure di variabile efficacia (art. 6 della Carta
    sociale europea, 1965; art. 8 del Patto internazionale sui diritti
    economici, sociali e culturali dell'ONU, 1966).
    La novità del diritto di sciopero rispetto alla
    libertà di sciopero viene essenzialmente individuata
    nell'effetto che l'inadempimento all'obbligo di lavorare produce sul
    rapporto di lavoro. Dove è ammesso che lo sciopero ha per
    effetto la sospensione di quest'ultimo senza altra conseguenza che
    la perdita del salario, si può affermare che esiste un vero e
    proprio diritto di sciopero (v. Calamandrei, 1952). A parte i casi
    del riconoscimento costituzionale, per cui non sorge problema,
    l'effetto sospensione è ormai quasi generalmente acquisito
    nell'ambito degli ordinamenti a libertà sindacale. Un analogo
    risultato producono le norme che dispongono l'immunità dello
    sciopero dalle varie conseguenze di common law.
    Il diritto di sciopero, tuttavia, non si esaurisce necessariamente
    nella sospensione, e anzi è improprio definire un diritto in
    base agli effetti giuridici prodotti dall'esercizio di esso. E
    infatti vanno riportati al contenuto del diritto anche alcuni
    comportamenti, tutelati dalla legge in misura e modo variabile, che
    costituiscono i vari elementi in cui si snoda l'azione dello
    sciopero nel suo complesso: vale a dire, oltre la sospensione del
    lavoro, la deliberazione, la diffusione e la propaganda, il
    picchettaggio pacifico ecc. Anch'esse riferibili al contenuto del
    diritto, perché dirette a garantirne l'effettività,
    sono le norme che impediscono comportamenti ostativi, quali: la
    sostituzione degli scioperanti, gli atti di discriminazione, la non
    riammissione al lavoro a sciopero terminato. La sospensione del
    lavoro è il fatto centrale, ma non è tutto, nello
    svolgimento di uno sciopero; eppertanto la garanzia della
    facoltà di astenersi dal lavoro, e cioè l'effetto
    sospensivo, non è sufficiente a esaurire il contenuto del
    diritto di sciopero.
    Raramente lo sciopero si sottrae a una qualche forma di
    regolamentazione dettata dalla legge o elaborata dalla
    giurisprudenza o, infine, definita dai contratti collettivi o da
    norme interne dei sindacati stessi. La regolamentazione si snoda in
    genere in ragione di: a) i fini dello sciopero (economico, politico,
    ecc.); b) le modalità di attuazione (preavviso, limiti alle
    cosiddette forme anomale, salvaguardia degli impianti e servizi
    essenziali, ecc.); c) i soggetti (lavoratori del settore privato,
    dipendenti pubblici, funzionari, personale militare, ecc.); d) le
    procedure di conciliazione e mediazione, l'arbitrato. La serie dei
    problemi è vastissima e non è qui possibile darne
    conto, apparendo invece utile tentare di definire i tratti
    essenziali di un diritto comune, insieme con una indicazione degli
    argomenti più dibattuti nel momento attuale.
    In linea di massima, è dato riscontrare che la
    titolarità dello sciopero è estesa ormai anche al
    settore pubblico, se pure non alla totalità di esso (vedi per
    es. l'eccezione dei funzionari o Beamte della Repubblica
    Federale Tedesca e altrove, e quella pressoché generale dei
    militari); lo sciopero politico è stato espressamente
    dichiarato ammissibile solo in Italia (con la sentenza n. 290 del
    1974 della Corte costituzionale); la salvaguardia dei servizi
    essenziali è prevista da norme di legge o, come in Italia e
    nella Repubblica Federale Tedesca, da orientamenti giurisprudenziali
    o da forme di autodisciplina.
    Raro è il ricorso a vere e proprie forme di arbitrato che,
    d'altronde, nella sua versione obbligatoria, sarebbe difficilmente
    compatibile con il diritto di sciopero, ma crescente appare
    l'intervento degli organi politici nella mediazione dei conflitti o
    nella preventiva determinazione dei limiti degli aumenti salariali
    (politica dei redditi, guidelines). In altre parole,
    mentre si è consolidato un ampio riconoscimento della
    legalità del conflitto (se pur con scarti notevoli, basti
    raffrontare la Repubblica Federale Tedesca all'Italia), crescenti
    sono le tendenze verso forme di gestione politica di esso.
    Ciò ha determinato anche la scarsa funzionalità degli
    organi di mediazione di tipo paragiurisdizionale (v. Lyon Caen,
    1974, p. 242), che, soprattutto per la suggestione delle singolari
    esperienze dell'Australia e della Nuova Zelanda, avevano avuto una
    certa diffusione nei primi decenni del secolo.
    Un altro dato da registrare è, in generale, la scarsa
    incisività della regolamentazione non sostenuta dal consenso
    dei lavoratori organizzati oppure da quello di una vasta parte
    dell'opinione pubblica. La vicenda dell'industrial relations act,
    emanato nel 1971 in Gran Bretagna e abrogato solo tre anni dopo,
    è stata la manifestazione più clamorosa di fallimento
    di una regolamentazione imposta in pieno contrasto con i principali
    destinatari; si può notare invece che le regolamentazioni
    restrittive introdotte negli Stati Uniti nel 1947 e gradualmente
    elaborate nella Repubblica Federale Tedesca dalla Corte federale del
    lavoro, soprattutto nel periodo di presidenza del prof. H. C.
    Nipperdey, abbiano sostanzialmente resistito alla più o meno
    compatta ostilità dei sindacati. Al contrario, in Italia e in
    Francia la resistenza di questi ultimi ha in pratica vanificato la
    forza repressiva di leggi o di indirizzi giurisprudenziali,
    concernenti peraltro soltanto conflitti o modalità di
    conflitto particolarmente gravi per la collettività (servizi
    pubblici) o per la controparte (gli scioperi cosiddetti articolati o
    a scacchiera o a intermittenza).
    Un particolare rilievo ha manifestato il problema dell'attribuzione
    del diritto di sciopero ai singoli ovvero ai sindacati,
    epperciò quello del trattamento del cosiddetto sciopero
    selvaggio. La legittimità di quest'ultimo è ora
    ammessa (Italia, Francia), ora negata (Repubblica Federale Tedesca,
    Stati Uniti) e anche qui le scelte dell'ordinamento sono spie di
    concezioni diverse del sindacato e dell'azione sindacale, a seconda
    che venga privilegiato l'elemento di spontaneità e di
    movimento ovvero quello dell'organizzazione.
    Mentre in tema di sciopero, al termine di un'elaborazione
    pluridecennale, alcuni punti fermi sono stati posti, più
    aperti sono i problemi concernenti le altre forme di tutela: dalla
    serrata degli imprenditori, che è illecita in Italia,
    pienamente ammessa altrove (Svezia, per esempio), allo sciopero
    bianco o alle varie forme di rallentamento concertato della
    produzione e infine all'occupazione dell'azienda che, sovente usata
    come mezzo di difesa da licenziamenti, è stata, in
    quest'ultimo decennio, al centro di clamorose vicende in vari paesi
    (più clamoroso di tutti, il caso Lip in Francia).
    L'autotutela, questo aspetto singolare e nel contempo essenziale del
    diritto sindacale, è apparsa restia a collocarsi in un ordine
    statico e, così come indeterminati appaiono tuttora in alcuni
    casi i limiti del diritto di sciopero, un cono d'ombra resta
    proiettato sulle altre forme di azione diretta.
  È apparsa abbastanza chiara, d'altronde,
    l'ingovernabilità del fenomeno con i normali strumenti
    sanzionatori, sia di tipo civile sia di tipo penale, che, anzi, nei
    conflitti più generalizzati finiscono sovente per essere
    accantonati o sostituiti da mediazioni politiche. Ciò
    può indurre a importanti riflessioni sulla natura degli Stati
    a democrazia sociale, nei quali il principio di legalità
    può essere sottoposto a verifiche di consenso in conflitti
    che, trascendendo o sfiorando i limiti della legalità,
    pongono in essere soluzioni di continuità dell'ordine legale
    stesso. Diversamente dalla rivoluzione o dallo sciopero generale
    soreliano, tali vicende peraltro non sono state fattori di
    rovesciamento dell'ordine legale ma hanno al più prodotto la
    modificazione di equilibri politici nell'ambito della
    continuità del sistema.
    
    9. Le innovazioni delle strutture e delle tecniche
    giuridiche
    
    Il diritto del lavoro ha esercitato una profonda influenza sulla
    trasformazione delle strutture giuridiche in cui esso si evolve, e
    particolarmente di quelle riferibili al diritto costituzionale e al
    diritto civile.
    Un vero e proprio impatto sulle strutture dello Stato
    rappresentativo si verifica invero soltanto nei regimi che
    sostituiscono o integrano le rappresentanze politiche con quelle
    sindacali: l'idea dello ‛Stato sindacale', abbastanza diffusa nei
    primi decenni del secolo e proposta come alternativa alla crisi
    dello Stato liberale, trova realizzazione nei regimi autoritari a
    partito unico e si confonde con la concezione corporativa dello
    Stato. Nelle costituzioni di modello sovietico, la partecipazione
    sindacale agli organi rappresentativi assume la forma indiretta del
    diritto di presentare candidati o di intervenire nella formazione
    delle liste elettorali unitarie; essa perciò non genera una
    sostanziale modificazione nella struttura rappresentativa, che
    rimane impostata su base elettiva.
    Di maggiore interesse è l'esame delle modificazioni
    intervenute, presso i regimi di democrazia rappresentativa, nel
    rapporto tra i poteri dello Stato. Sotto questo aspetto, i due
    fenomeni di più spiccato rilievo sono: a) l'impulso alla
    centralizzazione verificatosi negli Stati federali o anche a
    struttura legislativa ‛composita' come il Regno Unito (v.
    Kahn-Freund, 1976, p. 245), determinato in primo luogo, specie negli
    Stati Uniti nella fase del New Deal, dall'esigenza
    politica di superare le resistenze locali, e, in secondo luogo, da
    quella di stabilire standard di condotta uniformi, vuoi per i
    lavoratori, vuoi per gli imprenditori; b) l'assunzione di un ruolo
    centrale da parte del Parlamento a seguito della diffusione di leggi
    speciali che sovrastano le tradizionali fonti del diritto tra
    privati (codici, common law) e parallelamente, soprattutto
    nell'area di common law, comprimono la
    discrezionalità del potere giudiziario. Tale effetto è
    solo in parte controbilanciato dall'importante ruolo assunto dalle
    Corti costituzionali, dove queste operano. L'intervento legislativo
    si è cospicuamente esteso, nell'ultimo periodo, anche in Gran
    Bretagna, dove l'‛astensione della legge' dal campo dei rapporti di
    lavoro era diretta non già ad ampliare l'area
    giurisdizionale, quanto invece, stante la natura ‛non azionabile'
    delle fonti collettive, a porre ad essa un argine (v. Wedderburn,
    19712, p. 23).
    Infine, è soprattutto attraverso il varco aperto dal diritto
    del lavoro che si è verificata la penetrazione dei diritti
    costituzionali nella sfera dei rapporti interprivati. Negato negli
    Stati Uniti, tale effetto (Drittwirkung) è stato
    riconosciuto nella Repubblica Federale Tedesca soprattutto da parte
    delle corti del lavoro (v. Ramm, 19742) e, con minori
    resistenze, in Italia.
    Il campo di elezione delle capacità di trasformazione del
    diritto del lavoro è stato comunque il diritto privato. Le
    nuove tecniche giuridiche in esso generate e sperimentate si sono
    sovente rivelate capaci di effetti diffusivi su tutta l'area
    privatistica. L'antica discussione sull'affrancamento del diritto
    del lavoro dal diritto civile (v. Lyon Caen, 1974, p. 231) appare
    forse superabile dal momento che quest'ultimo, aprendosi a nuovi
    indirizzi metodologici, corre in un processo di trasformazione
    parallelo a quello del diritto del lavoro.
    Tra le nuove tecniche giuridiche introdotte o diffuse con il diritto
    del lavoro, sembrano particolarmente meritevoli di elencazione le
    seguenti.
    1. Le norme imperative che si impongono alla volontà delle
    parti e modificano direttamente il contenuto dei negozi da esse
    posti in essere. La sostituzione della legge (o del contratto
    collettivo) ai contenuti negoziali voluti effettivamente dalle parti
    - successivamente largamente praticata anche nei contratti di
    vendita, di somministrazione, di locazione ecc. - trasforma
    profondamente l'essenza stessa del contratto che, da strumento per
    produrre effetti giuridici voluti diviene un mezzo per realizzare
    effetti legali, talvolta ignoti, o neppure prevedibili dai
    contraenti (v. Rodotà, 1970).
    L'imperatività - come si è rilevato (v. sopra, cap. 7)
    - si estende anche ai contratti collettivi ed esprime in tal modo un
    rapporto di prevalenza dell'interesse del gruppo sull'interesse
    individuale. Tale rapporto appare ancor più evidente a fronte
    del principio di irrinunciabilità da parte del lavoratore ai
    benefici del contratto (come pure a quelli della legge), che viene
    in genere derivato dal principio di inderogabilità.
    2. L'obbligo a contrarre, quale viene stabilito ad esempio nelle
    assunzioni obbligatorie di persone con minore capacità
    lavorativa, colpisce l'autonomia contrattuale nel suo stesso momento
    genetico. Non destano sorpresa pertanto la forte resistenza che vi
    è ancora ad ammettere la costituzione coattiva del rapporto,
    e le inclinazioni della giurisprudenza, quando manchino esplicite
    norme positive, ad attestarsi sulla responsabilità
    risarcitoria. Nel diritto sindacale emerge, invece, la distinta
    figura dell'obbligo dell'imprenditore a negoziare, e cioè a
    condurre le trattative per il contratto collettivo, senza peraltro
    l'obbligo di venirne a termine. Ammesso dalle legislazioni svedese
    (del 1936 e ampliata nel 1976; v. Schmidt, 1977, p. 80) e
    nordamericana (1935), nonché dall'Industrial relations
      act britannico (1971-1974), l'obbligo a negoziare è
    in prevalenza negato dalla giurisprudenza italiana, nel quadro delle
    numerose pronuncie in materia di repressione della condotta
    antisindacale (art. 28 dello Statuto dei lavoratori). Si è
    infatti ritenuta estranea alla considerazione del legislatore,
    nell'atto in cui ha disposto una speciale tutela
    dell'attività del sindacato, la materia dei rapporti di
    quest'ultimo con la controparte, che oltretutto avrebbe affidato
    alla discrezione del giudice la soluzione di complessi problemi di
    rappresentatività e di legittimazione a negoziare.
    L'Employment protection act (1975) britannico, infine, ha
    configurato un obbligo del datore di lavoro a consultare il
    sindacato e a fornirgli informazioni utili per la contrattazione;
    può parlarsi, in proposito, di un obbligo a negoziare
    attenuato.
    3. L'incoercibilità delle obbligazioni di fare, principio
    fortemente radicato nel diritto civile, anche se non privo di
    eccezioni nella procedura civile francese e tedesca, è stata
    incrinata dalle leggi limitative del potere di licenziamento, quando
    esse hanno riconosciuto (il che non è di tutti gli
    ordinamenti) il diritto alla reintegrazione. Infatti, se ancora
    persiste l'impossibilità naturale di costringere
    l'imprenditore a dar lavoro al prestatore reintegrato per ordine del
    giudice, è stato chiarito che ciò non è
    sufficiente a sostenere il dogma dell'incoercibilità,
    perché appare pur sempre possibile la coazione indiretta
    mediante l'impiego di sanzioni afflittive. Questo ha condotto,
    almeno in taluni ordinamenti, a superare la soluzione
    dell'erogazione indennitaria, variamente sperimentata, e sempre
    risultata inidonea a garantire l'effettività della tutela dai
    licenziamenti arbitrari. In ragione di questi sviluppi normativi si
    è parlato di un ‛diritto al posto di lavoro' che, con enfasi
    eccessiva, è stato talvolta assimilato ai diritti reali (su
    tale argomento v. Meyers, 1964).
    4. Non meno indebolito appare il concetto di corrispettività.
    Il riconoscimento della continuità del rapporto, a volte con
    retribuzione, nei casi di temporanea impossibilità della
    prestazione, o, in ipotesi individuate in ragione di esigenze
    politico-sociali (dalle ferie ai permessi retribuiti per
    attività sindacale) ha reso impraticabile il ricorso al
    principio dell'equilibrio tra le prestazioni nell'esecuzione del
    contratto, o, più probabilmente, lo ha ridotto a operare in
    un'area residuale che appare poi sempre più ristretta.
    È oggi controverso se si debba ritener ammissibile la
    sospensione della retribuzione per mancanza temporanea di lavoro,
    come veniva tranquillamente dedotto, in passato, dal principio della
    corrispettività, o se debba invece darsi per avvenuto il
    trasferimento del rischio al datore di lavoro, fatta salva
    naturalmente la possibilità di copertura assicurativa dello
    stesso (per l'Italia, la Cassa integrazione guadagni).
    5. Notevoli sono poi gli effetti indotti nelle tecniche
    sanzionatorie. A parte l'introduzione della vigilanza amministrativa
    sull'esecuzione di contratti privati, che fu a suo tempo un
    innovazione cospicua, sempre più marcata appare oggi la
    tendenza ad attribuire al giudice poteri di intervento con
    fisionomia ingiuntiva, e a delineare forme di esecuzione non
    più soltanto patrimoniale in funzione risarcitoria. Esempi
    possono essere attinti dalla legislazione sindacale statunitense,
    imitata dall'effimero Industrial relations act britannico;
    
    
    dalla legislazione svedese (dove la condanna patrimoniale ai ‛danni
    generali' è in realtà una sanzione); dallo Statuto dei
    lavoratori italiano e dai nuovi comportamenti processuali da esso
    sollecitati; nonché, infine, dalle leggi antidiscriminatorie,
    compresa quella italiana (1977) sulla parità tra uomo e donna
    nel lavoro. La funzione giurisdizionale, una volta destinata non
    più soltanto a dirimere controversie tra possessori di beni,
    bensì a garantire le regole del gioco nei conflitti
    collettivi o la soddisfazione di interessi del lavoratore non
    immediatamente traducibili in valori economici né a
    realizzazione posponibile indefinitamente nel tempo, richiede
    rapidità di procedure e ampiezza di mezzi istruttori ed
    esecutivi che sono del tutto estranei al processo dispositivo
    proprio della tradizione eurocontinentale.
    In sintonia con questa linea di evoluzione appare l'attribuzione di
    legittimazioni processuali al sindacato, per la tutela di interessi
    propri o di gruppo; si noti, peraltro, che parallela a questo
    rafforzamento dello strumento giurisdizionale opera la tendenza alla
    devoluzione della materia contenziosa a sedi conciliative e
    arbitrali, regolate nell'ambito della contrattazione collettiva. In
    tale sede di ‛giurisdizione privata', azione individuale e azione
    collettiva sfumano sovente le loro differenze, o, quanto meno, ha
    luogo la devoluzione della prima al pieno controllo sindacale. Tale
    è la caratteristica delle grievance procedures nordamericane,
    
    che hanno origine nel ricorso aziendale e terminano in vere e
    proprie decisioni arbitrali munite di piena efficacia giuridica.
    6. Infine è emerso, soprattutto nell'ambito delle recenti
    legislazioni antidiscriminatorie, come neppure la sanzione
    afflittiva sia sufficiente per la realizzazione di alcuni obiettivi
    di politica legislativa. Si profila allora il ricorso all'affirmative
      
      action (v. Schmidt e altri, 1978), e cioè
    l'intervento giurisdizionale ovvero amministrativo, diretto a
    modificare le situazioni in atto, con mezzi quali: l'avviamento al
    lavoro (con tecniche compulsive - v. sopra, punto 2 - ma anche, e
    più frequentemente, persuasive) di soggetti appartenenti a
    gruppi discriminati; la determinazione di condizioni di lavoro
    conformi alle particolari esigenze di tali soggetti (quale l'obbligo
    fatto all'imprenditore, negli Stati Uniti, di far ogni sforzo
    ragionevole per adattare lo svolgimento del lavoro alle esigenze
    delle minoranze religiose). L'azione affermativa viene qui
    menzionata come tecnica giuridica: è evidente che essa
    può dilatarsi in un indirizzo di politica generale (piena
    occupazione, politica attiva della manodopera, qualificazione
    professionale di gruppi sottoprotetti) e acquisire anche maggiore
    efficacia, ponendosi però in una cornice estranea all'oggetto
    della presente trattazione per divenire un capitolo di politica
    sociale.
    
    10. Le frontiere attuali del diritto del lavoro
  
    Per tutta una serie di argomenti è particolarmente vivace il
    susseguirsi di innovazioni normative; in taluni ordinamenti esse
    già hanno avuto corso; in altri è intenso il dibattito
    preparatorio e fortemente probabile l'innovazione stessa.
    L'istituto che ha subito i più profondi mutamenti è
    stato senza dubbio quello del licenziamento, che si è
    radicalmente trasformato dalla forma ad nutum in un atto
    motivato e sottoposto a controllo giudiziale. Con tale mutamento si
    è praticamente chiuso il ciclo evolutivo che ha origine dal
    contratto di fornitura di opere (v. sopra, cap. 4), misurabili nella
    quantità a seconda delle esigenze della produzione e del
    mercato, rimesse, a loro volta, alla libera valutazione
    dell'imprenditore. Restano tuttavia aperti i problemi inerenti alla
    reintegrazione effettiva nel posto di lavoro e quelli connessi ai
    licenziamenti per riduzione del personale, frequentemente sottoposti
    a controlli sindacali e amministrativi preventivi, ma in genere non
    ritenuti assoggettabili a un controllo di motivi, che si
    risolverebbe in un controllo sulla politica d'impresa.
    Un altro settore in pieno sviluppo è quello della tutela del
    lavoratore dalla discriminazione. La discriminazione antisindacale
    è stata la prima a essere affrontata con le leggi di sostegno
    dell'attività sindacale e dispone quasi dovunque di un
    corredo ampio di difese giuridiche. Nel concetto di discriminazione
    in senso più lato si annoverano tutti i casi in cui lo
    squilibrio contrattuale tra le due parti è aggravato
    dall'appartenenza del lavoratore a gruppi sociali emarginati o
    minoritari. Vengono in rilievo primario, naturalmente, i gruppi
    razziali ed etnici, gli stranieri e le minoranze linguistiche. Ormai
    attualissimo è il problema dell'eguaglianza di
    opportunità tra uomo e donna, al quale sono stati dedicati
    alcuni tra i più recenti e significativi testi legislativi
    (Stati Uniti, 1963 e 1972; Gran Bretagna, 1975; Italia, 1977). Giova
    ricordare che la politica legislativa antidiscriminatoria ha
    comportato l'adozione di tecniche giuridiche alquanto nuove e
    più efficaci che non le normali invalidità
    civilistiche. La stessa qualificazione del motivo discriminatorio
    come illecito non è apparsa sufficiente a coprire l'intera
    area del fenomeno: donde, nella normativa americana e britannica, il
    ricorso al criterio statistico, per cui può essere
    considerata discriminatoria la situazione in cui un gruppo risulti
    statisticamente emarginato, a prescindere dalla ragione di tale
    evenienza.
    La discriminazione per motivi religiosi e politici è oggetto
    di diretta attenzione legislativa, mentre appare meritevole di
    menzione la tendenza, percepibile soprattutto nella giurisprudenza,
    ad affermare l'irrilevanza della condotta privata nel rapporto di
    lavoro (v. Schmidt e altri, 1978). Questi vari aspetti si muovono
    secondo linee non parallele. L'irrilevanza della vita privata segue
    dappresso i profondi mutamenti intervenuti nel costume e che
    riguardano la condotta morale così come l'abbigliamento e
    l'aspetto esterno, ecc. Essa è un aspetto del più
    generale problema della tutela della privacy (vedi, nello
    Statuto dei lavoratori italiano, il divieto di indagine in materia)
    e, nel nostro caso, concorre ad accentuare la spersonalizzazione
    legale del rapporto, in quanto assume il coinvolgimento della
    persona come un dato di fatto da limitare con lo strumento giuridico
    (v. anche, con riferimento alle dottrine più accentuatamente
    personalistiche, il precedente cap. 4). In tema di discriminazione
    religiosa, poi, val la pena di osservare che si è posto
    addirittura il problema di adattare per quanto possibile i metodi di
    lavoro alle esigenze di pratica di culto (così in
    particolare, negli Stati Uniti, ma anche nei paesi europei con forti
    aliquote di immigrati musulmani). La discriminazione politica,
    infine, è oggetto di generale esecrazione, ma in
    realtà si mantiene in forme attenuate o mascherate
    soprattutto nel pubblico impiego, fino a emergere in alcuni casi in
    tutta evidenza (vedi tra i regimi a pluralismo democratico, il caso
    del Berufsverbot nella Repubblica Federale Tedesca).
    Degna di rilievo, comunque, è l'affermazione, comune alla
    Corte suprema americana e a quella della Repubblica Federale
    Tedesca, che la semplice appartenenza a un partito ritenuto
    sovversivo non è sufficiente a giustificare la
    discriminazione.
    Un vero e proprio campo di frontiera è costituito dal
    pubblico impiego. Escluso tradizionalmente dal campo del diritto del
    lavoro, anche in omaggio a una concezione acontrattuale e tutta
    pubblicistica del rapporto, il pubblico impiego si appropria
    gradualmente di tutti gli strumenti del diritto sindacale e, in
    tutto o in parte, viene estesa a esso la fonte contrattuale
    collettiva. In parallelo a tale processo viene messa in discussione
    la natura stessa del rapporto e ne viene contestata la
    acontrattualità: in effetti, la predeterminazione eteronoma
    dei contenuti è ormai propria anche del rapporto privato,
    mentre la ‛nomina' all'ufficio, che deve pur sempre essere accettata
    dal preposto, appare come una mera variante procedimentale nella
    formazione del contratto. Fatta eccezione per gli alti livelli
    amministrativi (i Beamte del diritto tedesco), è
    profezia avverabile quella che il pubblico impiego verrà
    gradualmente attratto nel diritto del lavoro.
    Nel rapporto di lavoro privato si profila d'altronde una nuova marca
    di frontiera, che in parte appare invece già occupata
    nell'impiego pubblico, e si tratta del diritto allo svolgimento
    effettivo del lavoro. Dato per acquisito per le prestazioni di alto
    valore tecnico o artistico (il caso esemplificato più
    frequentemente è quello dell'interesse del cantante lirico
    all'esecuzione della scrittura) ma negato nelle altre ipotesi, tale
    restrizione appare sempre meno giustificata, a fronte di
    orientamenti tendenti alla salvaguardia dello sviluppo e
    dell'esperienza professionale. Mentre la realizzazione del diritto
    al lavoro, principio o utopia della rivoluzione del 1848, appare,
    nella sua pienezza, tema di politica sociale (v. Mancini, 1976, p.
    67), il diritto allo svolgimento della prestazione sembra avviarsi,
    in particolare nella giurisprudenza tedesca (v. Hueck e Nipperdey,
    19637, vol. I, pp. 380 ss.), verso prospettive
    sconosciute e irrealizzabili nella costruzione civilistica del
    contratto di lavoro come mero scambio tra prestazione e
    retribuzione.
    Il rapporto lavoro-impresa resta infine il tema aperto alle
    prospettive più problematiche e, a un tempo,
    all'immaginazione creativa. Appare evidente che lo stesso concetto
    di impresa, come mutuato dal diritto commerciale, è
    insufficiente a inquadrare la normativa giuslavoristica (v. Lyon
    Caen, 1974, p. 235). L'impresa, infatti, è trattata
    dall'ordinamento giuridico nella specie di attività
    dell'imprenditore sul mercato, non sotto il profilo, che qui invece
    rileva, dell'organizzazione del lavoro. Più rispondente a
    quest'ultima esigenza è apparso pertanto il concetto di Betrieb,
    o di ‛unità produttiva', che esprime un fenomeno
    organizzativo. Lungi dall'essere risolto, tuttavia, appare il
    problema, pur antico come è antica la produzione in forma
    manifatturiera, del collegamento tra la pluralità di rapporti
    di lavoro che coesistono in una unità produttiva. La
    posizione dell'imprenditore come unico titolare vale ai fini del
    coordinamento a uno scopo comune; ma l'esecuzione dei molteplici
    rapporti può comportare momenti di collaborazione diretta, o
    anche di conflitto (per es. in caso di sciopero parziale), tra i
    prestatori di lavoro.
    Le dottrine organicistiche, più diffuse nell'area germanica,
    sono state certamente in grado di affrontare il problema con
    strumenti più adeguati che non quelle rigorosamente
    contrattualistiche. Dalle premesse dottrinali, peraltro, emergono
    esiti di politica del diritto molto diversi, poiché
    l'affermazione di una solidarietà giuridica tra i lavoratori
    può far affiorare una responsabilità degli uni per
    comportamenti di altri (vedi ancora l'esempio dello sciopero
    parziale, e inoltre i rallentamenti produttivi, le assenze non
    giustificate, gli infortuni). Tale conclusione può apparire
    incompatibile con la natura di un rapporto la cui caratteristica
    è proprio l'assunzione da parte dell'imprenditore del rischio
    per il risultato della prestazione lavorativa.
    La verità è che il consenso intorno a determinate
    premesse teoriche non trae radici dalla loro congruenza logica,
    quanto piuttosto da una valutazione politica, e da ciò
    discende che l'argomento non può essere disgiunto dal
    problema che a esso soggiace: e cioè da quello dei rapporti
    di potere nell'impresa. Quest'ultimo aspetto chiama direttamente in
    causa la definizione dell'area di intervento del ‛potere collettivo'
    dei lavoratori nel campo delle scelte economiche dell'imprenditore.
    Trattasi del problema dei managerial rights o, visto
    dall'altro lato, della partecipazione o codeterminazione dei
    lavoratori alla gestione dell'impresa.
    La linea di tendenza è molto marcata nel senso di una
    contrazione dell'area di libera valutazione dell'imprenditore, e di
    ciò vi sono indici o realizzazioni significative, occorse
    quasi contemporaneamente negli anni più recenti: la
    generalizzazione della cogestione nella RFT (1976), sia pur in forma
    non esaurientemente paritaria; la sostituzione del principio di joint
      
      regulation a quello di riserva delle managerial
        prerogatives in Svezia (1976); il rapporto della Commissione
    reale presieduta da lord Bullock in Gran Bretagna, contenente
    proposte di cogestione paritaria; la contrattazione sugli
    investimenti, iniziata in Italia a partire dal 1974. Senza dubbio,
    questo è uno dei campi più fecondi di evoluzione, che
    non potrà non sollecitare profonde revisioni nella stessa
    dottrina giuridica. Le linee del mutamento, peraltro, sono
    dipendenti da variabili di ordine politico, la cui valutazione
    critica sarà materia di altri articoli (v., tra l'altro, sindacalismo).
    
    11. Le ideologie e i modelli normativi
  
    Le indagini sulle ideologie sottostanti alle dottrine giuridiche
    hanno posto in rilievo come tra l'ideologia professata e
    l'operazione concettuale che viene di volta in volta compiuta si
    interpone un'opzione, a volte professa, a volte inconsapevole, per
    un ‛modello' normativo che interpreta il diritto pubblico in
    funzione di una scelta di politica del diritto espressa in un
    linguaggio tecnico-giuridico (G. Tarello). Da questo punto di vista
    si può affermare una relativa autonomia dei modelli normativi
    rispetto alle ideologie, cosicché mentre apparirebbe povera
    di risultati di rilievo una classificazione degli autori (o anche
    delle decisioni) in ragione dell'ideologia degli stessi (o degli
    estensori delle stesse), ben più feconda di risultati appare
    la ricostruzione di modelli di riferimento a cui possano essere
    accostati i protagonisti della vicenda del diritto del lavoro come
    scienza sociale. Al solo fine di fornire un'ulteriore chiave di
    lettura dell'argomento, è dato formulare, con larga
    approssimazione, una classificazione nei termini che seguono: essa
    viene elaborata con riferimento pressoché esclusivo agli
    ordinamenti giuridici fondati sull'antagonismo conflittuale (v.
    sopra, cap. 5).
    1. Il modello del diritto di classe che, quando non è
    affermazione retorica come appare frequentemente nei primi autori di
    orientamento socialista, concepisce il diritto del lavoro (e quello
    sindacale in ispecie) come struttura giuridica alternativa al
    diritto borghese, immessa nell'ordinamento giuridico al fine di
    lievitarne la trasformazione in senso socialista.
    2. Il modello personalista e organicista, acclimatato nelle dottrine
    di origine cattolica, ma non infrequente visitatore di quelle
    socialiste (specie in Germania), in cui vengono esaltati i valori di
    solidarietà professionale e/o anche interclassista. In tali
    modelli, il diritto sindacale ruota intorno alla
    autoresponsabilità delle categorie o delle professioni
    organizzate, e il contratto di lavoro si intinge di contenuti
    associativi o si collega a istituzioni collettive cogestionali. Il
    transito verso i modelli corporativi veri e propri talvolta appare
    agevole, e non richiede salti concettuali.
    3. I diversi modelli d'impronta riformistica, che ripetono la loro
    origine dal ‛socialismo giuridico' o dai vari movimenti di riforma
    sociale, in cui viene in genere valorizzato il momento dell'azione
    collettiva, ma è privilegiato nettamente l'intervento
    legislativo a tutela del contraente più debole. Il nuovo
    diritto non è però inteso come premessa e momento di
    un processo di trasformazione, bensì piuttosto come un valore
    in se stesso, idoneo a realizzare risultati definitivi, anche se
    graduali, di giustizia sociale.
    4. I modelli del conflitto industriale, elaborati soprattutto sulle
    esperienze e condizioni storico-politiche dei paesi a capitalismo
    avanzato, in cui confluiscono elementi di tradizione socialista,
    anche marxista, in una con le concezioni competitive e
    antagonistiche proprie del pensiero liberale. Coerente con questi
    modelli è la valorizzazione della contrattazione collettiva e
    della funzione del sindacato come ‛contropotere', di cui viene
    sovente affermata la permanente necessità storica anche in
    una prospettiva di trasformazione socialista compiuta.
    Gli scrittori, le dottrine, le varie tendenze di politica del
    diritto (legislative e giudiziali) analizzate in questa sede possono
    essere ascritti all'una o all'altra voce della tipologia
    testé enunciata, sebbene l'operazione presenti considerevoli
    margini di incertezza e di rischio, dovuti al fatto che raramente le
    operazioni concettuali dei giuristi vengono compiute con coerenza a
    modelli di riferimento, atti a esplicitarne le valenze politiche. Le
    stesse ricerche in tal senso appaiono scarse, anche se è
    meritevole di segnalazione il fatto che contributi significativi si
    sono avuti proprio in tema di diritto del lavoro (Tarello,
    Däubler).
    
    Enciclopedia delle Scienze
    Sociali (1996)
  
  di Alessandro Roncaglia e Marino Regini e Giuseppe Pera
  LAVORO 
  
  Economia 
di Alessandro Roncaglia 
sommario: 1. Introduzione. 2. Il lavoro come
    sacrificio e come fonte di ricompensa. 3. Il lavoro nelle
    società precapitalistiche. 4. Capitalismo e divisione del
    lavoro. 5. Lavoro produttivo e improduttivo. 6. La teoria classica
    del valore-lavoro e la teoria marginalista del lavoro come fattore
    di produzione. 7. Il mercato del lavoro. 8. Settori economici e
    orari di lavoro nello sviluppo del capitalismo. 9. Evoluzione della
    struttura economica e della stratificazione sociale: verso il
    superamento del lavoro costrittivo? □ Bibliografia. 
    
1. Introduzione
È necessario innanzitutto precisare che ci occuperemo del
    lavoro solo dal punto di vista della teoria economica. Si tratta di
    una semplificazione drastica, che comunque lascia un campo
    vastissimo di problemi e teorie da passare in rassegna. La
    considerazione dei problemi relativi al lavoro accompagna infatti il
    cammino della riflessione sui temi economici per secoli, fin dagli
    albori di quella che solo a partire da un'epoca relativamente
    recente (XVII secolo circa) può essere considerata fra le
    scienze sociali, l'economia politica. Né possiamo limitarci a
    considerare le teorie oggi prevalenti, sia perché spesso
    alcune tesi degli economisti del passato, pur cadute in un relativo
    oblio, sono di un'attualità e un'importanza sorprendenti, sia
    perché le teorie contemporanee incorporano concetti - a
    cominciare da quello stesso di lavoro - ricchi di contenuti
    acquisiti nel corso del tempo. Per vari aspetti, comunque,
    sarà possibile rinviare ad altri articoli che approfondiscono
    temi specifici o collaterali. 
    
2. Il lavoro come sacrificio e come fonte di
      ricompensa
      
Il tema del lavoro come condanna - e come condanna che riguarda
    l'intero arco della vita terrena dell'uomo - è affiancato,
    nella tradizione biblica, dal tema del frutto del lavoro come
    ricompensa. Da un lato: "Il suolo sarà maledetto per causa
    tua; ne mangerai il frutto con affanno, tutti i giorni della tua
    vita. Esso ti produrrà spine e triboli [...] mangerai il pane
    col sudore della tua fronte finché ritornerai alla terra da
    cui sei stato tratto; perché tu sei polvere e in polvere
    ritornerai" (Genesi, 3, 17-19). Dall'altro lato: "L'anima del
    pigro desidera e non ha nulla, ma l'anima dei diligenti sarà
    soddisfatta appieno" (Proverbi, 13, 4).
Questi due temi costituiscono, in un certo senso, lo sfondo di ogni
    riflessione economica, fino ai giorni nostri. Adam Smith (v., 1776)
    parla del lavoro come toil and trouble, fatica e fastidio; la
    tradizione marginalista, a partire da William Jevons (v., 1871),
    considera il lavoro come 'disutilità' che si contrappone
    all'utilità del prodotto. Quanto al tema della giustizia
    distributiva, secondo il quale ciascuno dovrebbe ricevere una quota
    del prodotto sociale proporzionale al suo contributo lavorativo,
    esso non solo accompagna il dibattito medievale sul 'giusto prezzo'
    (che corrisponde al costo di produzione, spesso ridotto al solo
    lavoro) e sull'usura (che è condannata proprio perché
    chi presta denaro non compie un'attività lavorativa), ma
    è percepibile anche dietro la teoria del valore-lavoro degli
    economisti classici, come dietro la teoria marginalista per la quale
    in concorrenza ognuno riceve un reddito proporzionale al proprio
    contributo al processo produttivo.Tuttavia le cose non sono
    così semplici. La condanna dell'umanità al lavoro e la
    giustizia distributiva non sono principî assoluti o, forse
    meglio, pur essendo tali in un certo ambito, coesistono con
    principî di segno opposto relativi all'organizzazione della
    società. 
Per tutta la storia conosciuta, le élites sono sfuggite, in
    misura notevole se non del tutto, alla condanna al lavoro. Anzi, la
    libertà dalla schiavitù del lavoro era considerata
    elemento essenziale di superiorità rispetto alla gente
    comune. Questo atteggiamento è chiarissimo
    nell'ostilità verso qualsiasi attività economica, e in
    particolare verso il lavoro manuale, da parte dei nobili anche
    impoveriti nella fase di transizione verso il capitalismo.Solo agli
    occhi dei pensatori utopisti e rivoluzionari ("il mondo capovolto"
    di cui parla C. Hill: v., 1975) la divisione dell'umanità tra
    lavoratori e signori esenti dal lavoro va superata, perché il
    lavoro necessario per la sopravvivenza della società va
    diviso fra tutti. Questa, anzi, è la caratteristica comune di
    tutte le utopie socialiste degli ultimi secoli, da Thomas More (v.,
    1516) e Tommaso Campanella (v., 1602) a Lafargue (v., 1883), fino a
    Ernesto Rossi (v., 1946). Passando in rassegna le proposte di
    società ideali e i connessi movimenti riformatori, Spini (v.,
    1992) ne sottolinea i legami con i filoni più eretici del
    protestantesimo. In fondo, lo stesso protestantesimo si qualifica
    almeno originariamente come eretico, fra l'altro, proprio per
    l'attribuzione di un valore positivo al lavoro, in quanto
    l'elevazione sociale che esso consente su questa terra
    corrisponderebbe alla manifestazione della benevolenza divina.
    Com'è noto, Weber (v., 1904-1905) sostiene che questa
    convinzione ebbe importanza centrale per l'affermazione del
    capitalismo.Il significato attribuito al concetto di lavoro si
    interseca qui con il tema della divisione del lavoro: un altro tema
    ricorrente nella riflessione economica, che riguarda
    contemporaneamente l'assetto politico e la stratificazione sociale,
    il cambiamento tecnologico, lo sviluppo della produzione e la
    distribuzione del reddito. Su questi temi ci soffermeremo più
    avanti, dopo avere brevemente considerato l'organizzazione del
    lavoro nelle società precapitalistiche. 
    
3. Il lavoro nelle società
      precapitalistiche
      
Nelle società schiavistiche dell'antica Grecia e dell'antica
    Roma, com'è noto, l'obbligo al lavoro riguardava la grande
    maggioranza della popolazione; inoltre, si trattava di una condanna
    a una vita non solo di fatiche, ma anche di stenti. Del prodotto
    sociale toccava agli schiavi e agli strati più bassi della
    popolazione solo quanto bastava per mantenerli in vita e in
    condizioni di continuare a lavorare; in caso di carestia, comunque,
    gli schiavi erano i primi a morire. Non che questo rendesse agiata,
    secondo gli standard moderni, la vita dei 'cittadini': quelli che, a
    leggere la letteratura dell'epoca, sembrano i soli sulla scena. Una
    stratificazione sociale rigida, generalmente basata sulle
    qualità mostrate in fanciullezza, è indicata come
    norma ottimale anche in opere quale la Repubblica di
    Platone.
Poco migliore di quella degli schiavi è la vita dei servi
    della gleba nelle società feudali del Medioevo. Legati alla
    terra per obbligo di nascita, sono se non altro liberi di
    organizzare il proprio lavoro - pur se, ancora una volta, la scarsa
    produttività dell'agricoltura e il peso dei tributi da
    corrispondere, a beneficio di nobiltà e clero, anche sotto
    forma di lavoro (le corvées), li costringono a una vita di
    stenti e di fatiche. Nella società feudale la vita economica
    è organizzata essenzialmente sulla base di relazioni
    ripetitive di tipo tradizionale, e solo limitatamente è
    centrata sul mercato (v. Kula, 1962). Il rapporto tra signori
    feudali e servi della gleba non corrisponde a quello tra
    proprietario terriero e bracciante agricolo: il signore feudale
    esercita contemporaneamente la sovranità politica e il
    controllo economico sulle terre del suo feudo; i servi della gleba,
    oltre a una parte del raccolto ottenuto sulle terre tradizionalmente
    affidate alla loro cura (le terre servili), debbono al padrone anche
    prestazioni lavorative sulle terre dominiche, il cui raccolto va
    interamente al signore. Le difficoltà dei trasporti
    ostacolano i commerci a lunga distanza di merci base; i commerci
    sono essenzialmente limitati a beni di lusso, come le spezie, i
    metalli preziosi, i merletti. Così il territorio è
    suddiviso in un gran numero di unità produttive abbastanza
    autosufficienti (il castello con le terre circostanti). Solo in
    minima parte i beni necessari alla sussistenza - alcuni tipi di
    cereali, tessuti, ecc. - sono oggetto di scambi contro denaro, in
    genere in mercati che si svolgono a intervalli regolari nei centri
    abitati principali, nei quali viene offerto il prodotto in
    sovrappiù rispetto al normale autoconsumo dei produttori.
    Anche l'attività lavorativa è prevalentemente regolata
    dalla tradizione: in una fase in cui la stragrande maggioranza della
    popolazione è dedita all'agricoltura, vengono comunemente
    scambiati contro denaro solo i servizi di un numero estremamente
    limitato di artigiani o professionisti. 
    
4. Capitalismo e divisione del lavoro
Lo sviluppo graduale dei commerci e delle città dal Trecento
    al Cinque-Seicento avvia una trasformazione radicale della struttura
    sociale, sulle cui caratteristiche non ci soffermiamo (v. Cipolla,
    1976). Quel che importa sottolineare qui è il cambiamento
    drastico che subisce l'attività lavorativa con lo sviluppo
    della divisione del lavoro non solo tra processi produttivi diversi,
    ma anche e soprattutto all'interno di ciascun processo
    produttivo.Come si è già accennato, il tema della
    divisione del lavoro è ricorrente negli scritti su questioni
    economiche fin dall'antichità. Tuttavia, la sua trattazione
    subisce modifiche importanti, come riflesso delle modifiche della
    divisione del lavoro nella realtà, negli scritti di autori
    come William Petty (1623-1687) o Adam Smith.Innanzitutto, gli
    scrittori dell'antichità classica sottolineano come effetto
    della divisione del lavoro il miglioramento qualitativo del
    prodotto: un aspetto evidente se, ad esempio, confrontiamo la
    qualità dei mobili o dei vestiti rozzamente prodotti per il
    proprio consumo dalla famiglia agricola a lato del proprio consueto
    lavoro, con i prodotti del sarto o del falegname che hanno imparato
    il mestiere in anni di apprendistato. Viceversa, Petty (v., 1899) -
    e, dopo di lui, tutti gli studiosi della divisione del lavoro
    manifatturiero, quando sorgono gli opifici e poi le fabbriche in cui
    viene sfruttata la forza meccanica della macchina a vapore -
    sottolineano l'aspetto quantitativo: l'effetto principale del
    progresso nella divisione del lavoro consiste nell'aumento della
    produttività, cioè della produzione media per
    lavoratore, e quindi nella riduzione dei costi medi unitari.In
    secondo luogo, la divisione del lavoro passa da oggetto di
    osservazioni casuali a elemento centrale della teorizzazione sul
    funzionamento dell'economia e più in generale della
    società umana. 
Così Adam Smith (v., 1776) concentra l'attenzione su due
    fattori che determinano la ricchezza delle nazioni (sostanzialmente
    identificata con il reddito pro capite, cioè con il reddito
    nazionale di un paese diviso per il numero dei suoi abitanti): la
    produttività di ciascun lavoratore e la quota dei lavoratori
    produttivi sul totale della popolazione. Dietro il primo di questi
    fattori, l'elemento cruciale è costituito dalla divisione del
    lavoro, a sua volta legata all'allargamento dei mercati. Inoltre,
    per Smith, come più tardi per autori quali Marx (v.,
    1867-1894) e Weber (v., 1922), la divisione del lavoro è
    anello di congiunzione decisivo tra struttura economica e struttura
    sociale. Gli aspetti economici si collegano così a quelli
    politici, e financo ai principî morali.Soffermiamoci su
    quest'aspetto. Smith insiste sul fatto che la ripartizione dei
    lavoratori tra i vari tipi di lavoro non avviene in base a
    qualità originarie dei lavoratori stessi: è il
    mestiere che plasma, col tempo, la natura del lavoratore. La
    stratificazione sociale legata alla divisione del lavoro,
    perciò, non deriva da differenze innate di capacità:
    non può quindi essere considerata un fenomeno 'naturale'. Val
    la pena di sottolineare la differenza tra questa posizione e quella
    comune a un critico conservatore contemporaneo di Smith come Pownall
    (v., 1776) e alla teoria marginalista della distribuzione (e dei
    differenziali salariali), basata sulla dotazione originaria di
    risorse e capacità di ciascun individuo.Smith considera
    invece 'originaria' o 'naturale' la tendenza degli esseri umani a
    entrare in rapporto gli uni con gli altri, e quindi a costituire una
    società, al cui interno possono svilupparsi forme di
    cooperazione come quelle insite nella divisione del lavoro. La
    teoria economica, secondo Smith, ha per l'appunto il compito di
    studiare il funzionamento di una società basata sulla
    divisione del lavoro, e in cui quindi ciascun lavoratore collabora
    per ottenere un prodotto di cui può non avere direttamente
    bisogno, mentre deve procurarsi mezzi di produzione e di sussistenza
    da altri.Più in generale, Smith vede la divisione del lavoro
    come fonte di conseguenze positive e negative allo stesso tempo:
    positive, dal punto di vista della crescita della
    produttività e quindi del benessere economico generale;
    negative per il carattere limitante della divisione del lavoro, che
    condanna "la grande maggioranza della popolazione" a
    un'attività monotona di scarso interesse con il concreto
    rischio di un "abbrutimento". Secondo alcuni commentatori, Smith
    precorre l'idea marxiana dell'alienazione derivante dalla
    costrizione al lavoro diviso (in un'economia capitalistica, per il
    lavoratore sono 'altro da sé' sia il prodotto del suo lavoro
    sia i mezzi di produzione impiegati, entrambi di proprietà
    del capitalista, sia il processo produttivo, di cui a causa della
    divisione del lavoro controlla solo una parte: v. Marx, 1844).
    Tuttavia, a differenza di Smith, Marx ritiene possibile il
    superamento del lavoro costrittivo, al termine di un processo in cui
    lo sviluppo delle forze produttive porta al regno della
    libertà, dove "tutte le sorgenti delle ricchezze collettive
    scorrono in abbondanza" (v. Marx, 1875; tr. it., p. 39). Smith
    invece cerca di fare i conti con una realtà destinata a
    permanere ricca di luci e di ombre, proponendo di favorire la
    divisione del lavoro, in quanto decisiva per lo sviluppo economico,
    ma allo stesso tempo di combatterne gli effetti negativi
    (attraverso, fra l'altro, un intervento pubblico che garantisca a
    tutti l'istruzione di base).
Sul legame tra divisione del lavoro e sviluppo economico si
    soffermano vari economisti. Fra questi, Charles Babbage (v., 1832)
    pone in luce due aspetti. Da un lato egli illustra come la
    scomposizione di un'attività lavorativa complessa riduca i
    costi di produzione in quanto permette di utilizzare lavoratori meno
    qualificati, e quindi pagati meno (il cosiddetto primo principio di
    Babbage). Infatti è sufficiente che ciascun lavoratore sia
    dotato solo di una parte delle qualifiche necessarie a compiere
    l'intero complesso delle operazioni lavorative di un determinato
    ciclo produttivo. Dall'altro lato - il secondo principio di Babbage
    - egli sostiene che lo sviluppo della divisione del lavoro, portando
    a scomporre ogni operazione lavorativa nei suoi costituenti
    elementari, favorirebbe la sostituzione delle macchine agli uomini,
    riservando a essi le attività più nobili e complesse
    di organizzazione del processo produttivo e ricerca dello sviluppo
    tecnologico. Questi due aspetti compariranno in varie forme nel
    successivo dibattito fra la tesi - assai diffusa tra i marxisti -
    della tendenza a una proletarizzazione e depauperizzazione del
    lavoratore e la contrapposta tesi del crescente contenuto
    professionale delle attività lavorative. Su questi temi,
    comunque, torneremo più avanti. 
    
5. Lavoro produttivo e improduttivo
Come abbiamo accennato sopra, accanto alla produttività del
    lavoro l'altro fattore della ricchezza delle nazioni identificato da
    Smith è costituito dalla quota dei lavoratori produttivi sul
    totale della popolazione. Per Smith era importante sottolineare la
    centralità di questo fattore: sia per ribadire il ruolo
    positivo del lavoro nella società (in contrapposizione, molto
    probabilmente, all'atteggiamento diffuso nei paesi cattolici
    dell'epoca di considerare il lavoro un marchio di inferiorità
    sociale), sia perché, almeno nella sua fase iniziale, il
    sistema capitalistico coesisteva con forti residui del sistema
    feudale - dalle corti ai monasteri - che a parere di Smith
    costituivano uno spreco di risorse e quindi un ostacolo allo
    sviluppo economico. Non si trattava di un tema nuovo, naturalmente:
    già molti scrittori utopisti (e alcuni non utopisti, come
    Petty) avevano ricordato il peso per la società costituito da
    quella parte della popolazione che non collabora alla produzione.
    Campanella ad esempio, scrivendo nel 1602 rileva che a Napoli
    lavoravano solo 50.000 persone su 300.000 abitanti.Lo stesso tema
    della distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo era
    già stato dibattuto a lungo prima di Smith. In genere,
    è considerato produttivo il lavoro che contribuisce alla
    ricchezza sociale. Tuttavia, possiamo intendere questa in due
    accezioni (v. Perrotta, 1988): come insieme di valori d'uso e come
    valore di scambio, cioè come potere d'acquisto. Per i
    'bullionisti' del Cinquecento, che identificavano nell'oro e
    nell'argento la ricchezza, è produttivo il lavoro che fa
    affluire metalli preziosi nel paese. Tra gli scrittori del Seicento
    - i cosiddetti mercantilisti - domina invece la prima accezione. In
    un autore come Petty abbiamo una gerarchia di attività
    produttive apparentemente collegata al contributo che ciascuna
    può fornire al processo di accumulazione, ovvero al grado di
    durevolezza del prodotto. Per i fisiocrati francesi, a metà
    del Settecento, è produttivo il solo settore agricolo,
    perché mette capo a un sovrappiù, mentre il settore
    manifatturiero è considerato sterile, in quanto il prodotto
    semplicemente incorpora il valore dei mezzi di produzione impiegati
    (compresi i mezzi di sussistenza dei lavoratori).
In Smith non abbiamo una definizione univoca: il lavoro produttivo
    è identificato con quello che mette capo a beni materiali, o
    con quello che dà luogo a un profitto, mentre i lavori
    improduttivi - che possono essere utili o inutili, ma Smith non
    approfondisce questa distinzione - abbracciano sostanzialmente il
    settore dei servizi. Possiamo forse interpretare la posizione di
    Smith come centrata sull'identificazione del lavoro produttivo con
    quello svolto all'interno del nucleo capitalistico dell'economia,
    all'epoca ancora minoritario ma già chiaramente base della
    forza economica del paese.In opposizione a Smith, e senza
    comprenderne le motivazioni di fondo, con Jean-Baptiste Say (v.,
    1803) si iniziò a considerare produttivo qualsiasi lavoro
    utile, anche se diretto a fornire servizi, cioè 'beni
    immateriali'. Questa impostazione è rimasta dominante anche
    con l'affermazione della teoria marginalista del valore, che fonda
    la determinazione del valore di scambio sul valore d'uso,
    cioè sull'utilità dei vari beni o servizi. Tuttavia,
    con la ripresa dell'impostazione degli economisti classici ad opera
    di Piero Sraffa (v., 1960), alcuni aspetti almeno della distinzione
    tra lavoro produttivo e improduttivo sono tornati ad attirare
    l'attenzione degli economisti. È ipotizzabile, in
    particolare, un collegamento tra questa distinzione e la maggiore o
    minore funzionalità allo sviluppo economico delle diverse
    attività lavorative. 
    
6. La teoria classica del valore-lavoro e la
      teoria marginalista del lavoro come fattore di produzione
      
Con la divisione del lavoro tra unità produttive diverse (e,
    all'interno di ciascuna di queste, tra compiti diversi affidati ai
    vari lavoratori) sorge la necessità di una rete di scambi.
    Infatti, ogni unità produttiva ottiene un bene (o un gruppo
    di beni) specifico al termine del processo produttivo, mentre per
    produrre ha bisogno di altri beni come mezzi di produzione (materie
    prime, macchinari, semilavorati) e mezzi di sussistenza per i
    lavoratori impiegati nel processo produttivo. Come si è
    accennato, nel Medioevo l'economia era basata su una serie di
    unità locali in misura notevole autosufficienti. Gli scambi
    riguardavano principalmente i beni di lusso, e solo in misura
    marginale (rispetto alla dimensione dell'autoconsumo da parte degli
    stessi produttori) quelli necessari alla vita normale dei lavoratori
    agricoli, che costituivano la grande maggioranza della popolazione.
    Scambi di bestiame e di attrezzi agricoli, oltre che di prodotti
    dell'artigianato e di specifici prodotti agricoli, si verificavano
    in occasione delle fiere, raduni di breve durata di mercanti e
    acquirenti. I prezzi che si formavano nelle fiere (come i prezzi
    delle merci trasportate per nave nei porti di sbarco) dipendevano in
    modo cruciale dal rapporto occasionale, variabile nel tempo e da
    luogo a luogo, tra la quantità di merci offerta in vendita e
    il potere d'acquisto dei compratori.
In un certo senso, le teorie neoclassiche del prezzo basato
    sull'equilibrio tra domanda e offerta, corrispondono alla struttura
    economica tipica di una società feudale. Tuttavia tra gli
    scrittori dell'epoca non troviamo teorie di questo tipo, in quanto
    l'andamento degli scambi e dei prezzi non presenta quelle
    regolarità che sono il presupposto necessario perché
    sorga il problema di determinare i valori 'normali' delle variabili.
    Le riflessioni sui fenomeni economici riguardano piuttosto il
    problema del 'giusto prezzo', ovvero del comportamento che i
    mercanti dovevano tenere per non macchiarsi dei peccati di frode e
    violenza: un problema normativo, quindi, non interpretativo.Il
    'giusto prezzo', in altri termini, era quel prezzo al quale era
    moralmente lecito per il mercante vendere le proprie merci. Alcuni
    commentatori dell'epoca identificano molto semplicemente tale prezzo
    con quello liberamente accettato dai partecipanti all'accordo di
    scambio. Altri, ritenendo mercanti e acquirenti non dotati di eguale
    potere contrattuale, propongono un prezzo tale da permettere il
    recupero dei costi di produzione. Altri ancora, semplificando questa
    tesi tramite una riduzione dei costi di produzione ai soli costi di
    lavoro, collegano i prezzi alla quantità relativa di lavoro
    necessaria alla produzione delle varie merci. Abbiamo così
    una rudimentale teoria del valore-lavoro, normativa più che
    descrittiva.
La teoria del valore-lavoro riaffiora in William Petty, come
    semplificazione di una teoria dei prezzi basata sull'elemento
    oggettivo della difficoltà di produzione piuttosto che su
    quello soggettivo delle preferenze di venditori e acquirenti (v.
    Roncaglia, 1977). Adam Smith limita l'applicazione della teoria del
    valore-lavoro contenuto (cioè direttamente o indirettamente
    necessario alla produzione di una merce) a uno stadio primitivo
    della società. In tale situazione, infatti, non si è
    ancora verificata la suddivisione in classi sociali tra proprietari
    terrieri, capitalisti (cioè proprietari dei mezzi di
    produzione) e lavoratori: ogni lavoratore produce da sé i
    suoi mezzi di produzione (l'arco per il cacciatore, l'amo e l'esca
    per il pescatore), mentre la popolazione è sufficientemente
    scarsa perché la terra su cui cacciare o pescare sia
    disponibile per tutti. Per le società sviluppate Smith
    propone una teoria del valore-lavoro comandato, secondo la quale il
    valore di ogni merce è misurato dalla quantità di
    lavoro che essa può acquistare (ed è quindi pari al
    prezzo della merce diviso per il salario). Questa teoria,
    ovviamente, presuppone che siano noti sia il prezzo della merce sia
    il salario, e non costituisce quindi un tentativo di spiegare il
    prezzo della merce stessa, ma semplicemente un tentativo di
    misurarlo.
L'utilizzo del lavoro in questo senso, come misura del valore dei
    beni, costituisce un criterio semplice e di significato intuitivo
    per confrontare il valore di una stessa merce in paesi o in tempi
    diversi: se ad esempio dico che una bicicletta vale venti ore di
    lavoro in Italia (cioè che per comprarla occorre venti volte
    il salario orario medio) mentre in Cina, o nell'Italia di un secolo
    fa, valeva duecento ore di lavoro, mi esprimo in termini sicuramente
    più significativi che se confrontassi grandezze eterogenee
    come lire di oggi con lire di ieri, o lire con moneta cinese. Il
    lavoro comandato, quindi, conserva tutt'oggi un ruolo nell'analisi
    comparata dei sistemi economici e negli studi dello sviluppo
    economico.
David Ricardo (v., 1817) e, sulla sua scia, Karl Marx (v.,
    1867-1894) ripropongono la teoria del valore-lavoro contenuto anche
    per le società capitalistiche: non solo come spiegazione -
    che essi stessi ammettono essere imperfetta - di come vengono
    determinati i prezzi relativi, ma anche, specie nel caso di Marx,
    come espressione del 'valore assoluto' delle merci (Marx parla del
    lavoro come della 'sostanza' del valore: v. Lippi, 1976). Sia le
    difficoltà analitiche incontrate dalla teoria del
    valore-lavoro, sia le implicazioni rivoluzionarie che ne avevano
    tratto Marx e, prima di lui, i socialisti ricardiani (come ad
    esempio Hodgskin: v., 1825), favoriscono comunque l'abbandono
    dell'impostazione degli economisti classici e l'affermazione della
    teoria del valore marginalista, basata sul confronto fra preferenze
    dei soggetti economici e dotazioni originarie di risorse.
Nell'ambito della teoria marginalista tradizionale del valore e
    della distribuzione, che a partire dalla fine dell'Ottocento e fino
    ai giorni nostri domina incontrastata nei manuali di economia, il
    lavoro è uno dei 'fattori di produzione'. Come per gli altri
    fattori di produzione - terra e capitale -, e come per ogni altro
    bene, il prezzo del lavoro corrisponde all'equilibrio tra
    quantità domandata e quantità offerta. La domanda di
    lavoro da parte delle imprese dipende dal contributo del lavoro al
    processo produttivo; in base al postulato della produttività
    marginale decrescente, l'utilizzo di dosi addizionali di lavoro
    assieme a una dotazione invariata di capitale e terra genera aumenti
    di prodotto man mano più piccoli. Poiché
    l'imprenditore in concorrenza è disposto a impiegare dosi
    aggiuntive di lavoro fin quando il costo - il salario - è
    inferiore al ricavo - il valore del prodotto addizionale -, la
    domanda di lavoro è funzione decrescente del salario reale.
    L'offerta di lavoro da parte del lavoratore, viceversa, è
    funzione crescente del salario reale: il lavoro è un
    sacrificio, e in base al principio della penosità marginale
    crescente ogni lavoratore percepisce come un sacrificio sempre
    più pesante ogni dose successiva di lavoro prestato, e
    richiede perciò un compenso crescente per fornire dosi man
    mano maggiori di lavoro. 
(Sottolineiamo qui la differenza tra il concetto di
    produttività media, o produttività tout court, che
    è quella di cui parla Smith nello spiegare la ricchezza delle
    nazioni e sulla quale in genere concentrano l'attenzione gli
    economisti classici, e il concetto di produttività marginale,
    utilizzato dalla teoria marginalista. La produttività media
    ha un immediato riscontro empirico, corrispondendo al rapporto tra
    produzione complessiva e numero di lavoratori o ore di lavoro
    impiegate nella produzione; la produttività marginale,
    invece, indica le variazioni puramente virtuali di prodotto
    corrispondenti a variazioni ipotetiche di un fattore di produzione,
    ferme restando la tecnologia e le quantità utilizzate degli
    altri fattori di produzione. La produttività del lavoro,
    intesa come produttività media per ora lavorata, tende a
    crescere nel tempo in seguito al progresso tecnico che si traduce in
    nuove macchine, e quindi a un ritmo che dipende dall'ammontare degli
    investimenti, in particolare di quelli in macchinari, che sono
    stimolati da un aumento dei salari più rapido di quello delle
    macchine, ma anche in seguito a piccoli miglioramenti introdotti nel
    processo produttivo in base all'esperienza - il cosiddetto learning
    by doing). 
    
7. Il mercato del lavoro
Il modello che abbiamo appena descritto - la teoria marginalista del
    lavoro come fattore di produzione - costituisce ovviamente solo una
    base semplificata sulla quale è possibile innestare l'esame
    di aspetti più specifici, tramite complicazioni successive.
In primo luogo, per quanto riguarda l'offerta di lavoro occorre
    ricordare l'influenza di fattori demografici e sociali. Tramite i
    tassi di natalità e mortalità, l'emigrazione e
    l'immigrazione, questi fattori determinano l'andamento della
    popolazione di un paese, e in particolare della popolazione in
    età lavorativa. Gli stessi limiti dell'età lavorativa
    dipendono da consuetudini sociali (come i tassi di
    scolarità), norme (come le leggi sul lavoro minorile),
    istituzioni (come il sistema pensionistico). Solo una parte della
    popolazione in età lavorativa, comunque, fa parte della
    popolazione attiva (persone che lavorano o che sono alla ricerca di
    un lavoro). Il cosiddetto tasso di attività (o tasso di
    partecipazione), cioè il rapporto tra popolazione attiva e
    popolazione complessiva, che nei paesi sviluppati è in genere
    compreso fra il 39 e il 45%, dipende anch'esso da fattori sociali ed
    economici. Per individuarli, conviene calcolare i tassi di
    attività specifici, per sesso e classi di età: ad
    esempio, per le donne comprese tra i 30 e i 39 anni, il rapporto tra
    occupate o in cerca di lavoro e totale delle donne in quella classe
    di età. Confrontando i tassi di attività specifici tra
    paesi diversi o, per uno stesso paese, tra periodi di tempo diversi,
    si scopre che proprio i tassi di attività femminile
    contribuiscono in misura determinante a spiegare le differenze nel
    tasso di attività generale. Queste differenze dipendono,
    ovviamente, da consuetudini sociali, in particolare relative alla
    posizione della donna nella società, ma anche da fattori
    economici quali l'andamento della domanda di lavoro e il tipo di
    lavoro offerto: quando la disoccupazione è elevata, molti
    potenziali lavoratori, e soprattutto molte potenziali lavoratrici,
    rinunciano ai tentativi di trovare lavoro ed escono dalla
    popolazione attiva. Se ricordiamo quanto diceva Smith a proposito
    della ricchezza delle nazioni, che dipende sia dalla
    produttività del lavoro sia dalla quota dei lavoratori
    produttivi sul totale della popolazione, possiamo comprendere
    l'importanza del tasso di attività e degli elementi che lo
    determinano per il tenore di vita di un paese.In secondo luogo,
    è chiaro che nel modello marginalista base illustrato sopra
    la disoccupazione risulta nulla se il libero gioco della domanda e
    dell'offerta è in grado di determinare un salario reale che
    le renda eguali. L'esistenza della disoccupazione come dato di fatto
    comune a tutte le economie capitalistiche richiede quindi
    spiegazioni specifiche (o critiche al modello teorico, come quelle
    di Keynes, che qui non possiamo considerare; per Keynes,
    l'occupazione dipende sostanzialmente dalla domanda di lavoro, e
    quindi dalle decisioni degli imprenditori su quanto e come
    produrre).
Le spiegazioni della disoccupazione nell'ambito della tradizione
    marginalista si richiamano, per un aspetto o per l'altro, alle
    deviazioni del mercato del lavoro dall'ideale della concorrenza
    perfetta. Ad esempio, il salario può risultare troppo elevato
    rispetto al livello di equilibrio che assicurerebbe la piena
    occupazione, a causa del potere contrattuale dei sindacati o a causa
    di limiti nell'informazione disponibile o di difficoltà nel
    controllare l'efficienza dei lavoratori. Ancora, le informazioni
    disponibili sul mercato del lavoro possono essere insufficienti e
    generare decisioni errate (ad esempio, nella scelta delle
    qualifiche: troppi laureati in lettere e troppo pochi ingegneri).
    Infine, l'aggiustamento ai cambiamenti che si verificano nella
    realtà (ad esempio, le migrazioni dalle aree e dai settori in
    declino a quelli in crescita) può risultare incompleto o
    troppo lento; è necessario tempo anche per la ricerca della
    prima occupazione o per la ricerca di un'occupazione migliore da
    parte di chi ha lasciato per insoddisfazione il suo posto di lavoro,
    e che per il momento risulta disoccupato. Istituzioni quali gli
    uffici di collocamento o le agenzie del lavoro hanno un ruolo
    importante nel far fronte ad alcuni di questi problemi, che hanno
    comunque un loro peso anche nell'opinione di quanti non accettano la
    teoria marginalista. La segmentazione del mercato del lavoro in
    mercati specifici - differenziati per territorio, per settori di
    attività e soprattutto per qualifiche - è l'estensione
    più ovvia e immediata della teoria di base. I differenziali
    salariali - territoriali, settoriali e di qualifica - vengono
    comunque a dipendere dal gioco della domanda e dell'offerta su
    ciascun mercato specifico. In particolare, i differenziali per
    qualifica debbono compensare le spese sostenute dal lavoratore
    qualificato per l'investimento addizionale in costi di formazione
    rispetto al lavoratore comune (v. Blaug, 1972). Lungo queste linee
    può essere analizzata anche la distinzione tra lavoro
    dipendente e lavoro autonomo: nel secondo caso, oltre a un
    differenziale retributivo corrispondente alle eventuali differenze
    di qualifica, il reddito incorporerà anche la retribuzione
    del capitale utilizzato e del rischio. Quest'ultimo elemento - gli
    investimenti in 'capitale umano', cioè le spese sostenute sia
    dallo Stato sia dal singolo perché il lavoratore acquisisca
    una maggiore capacità professionale e quindi migliori
    prospettive di guadagno - ha assunto notevole rilievo nella moderna
    teoria dello sviluppo economico. Infatti la maggiore qualificazione
    della forza lavoro viene comunemente valutata come uno dei
    principali fattori di sviluppo economico oltre che come uno dei
    principali fattori di competitività internazionale (v., ad
    esempio, Reich, 1991). 
La considerazione delle differenze di qualifica tra lavoratori porta
    a rappresentare la classe lavoratrice come un insieme non omogeneo
    al suo interno. La semplice dicotomia tra lavoro comune e lavoro
    qualificato o tra lavoro semplice e lavoro complesso (dove l'accento
    viene posto nel primo caso sulla formazione e la capacità
    professionale del lavoratore, e nel secondo caso sulle
    caratteristiche di maggiore o minore complessità del processo
    lavorativo) viene sostituita da un'articolazione in ceti, prestando
    attenzione anche a elementi quali differenze di posizione sociale
    (potere e prestigio oltre che reddito). Si riconosce così che
    i differenziali salariali non rispondono a puri criteri di mercato
    ma incorporano un importante elemento di tradizione sociale.
Per analogia possiamo ricordare qui anche i differenziali salariali
    per sesso: le differenze tra uomini e donne, che si sono ridotte nel
    tempo ma sono tutt'altro che scomparse, riguardano sia i livelli
    retributivi per eguali qualifiche e grado, sia la difficoltà
    di fare carriera a parità di livello d'istruzione. In alcuni
    paesi, come gli Stati Uniti, sono rilevanti e oggetto di un'ampia
    messe di studi anche i differenziali retributivi etnici.Ricordiamo
    infine che mentre in vari paesi arretrati è importante la
    piccola proprietà contadina, nei paesi capitalistici avanzati
    è tutt'altro che trascurabile la quota dei lavoratori
    autonomi nella popolazione attiva (piccoli commercianti, artigiani,
    liberi professionisti). Di fronte a questa molteplicità di
    elementi di differenziazione tra lavoratori, anche le moderne
    analisi della struttura sociale considerano generalmente
    inappropriata la visione dicotomica della società (proletari
    e capitalisti) tipica della tradizione marxista più
    ortodossa. Poiché le differenze di collocazione nel mondo del
    lavoro - come nel caso della distinzione tra lavoratori dipendenti e
    autonomi - influiscono sulla 'visione del mondo' e quindi
    sull'orientamento politico, pur non determinandolo in modo rigido,
    la stratificazione per ceti sociali e la sua evoluzione nel corso
    del tempo costituiscono fattori essenziali nello studio delle
    vicende politiche (v. Sylos Labini, 1974). 
    
8. Settori economici e orari di lavoro nello
      sviluppo del capitalismo
      
Solo quando si considera il mondo del lavoro nella sua articolazione
    diviene possibile cogliere l'enorme ampiezza dei cambiamenti
    intervenuti in esso nel corso degli ultimi decenni, e delle
    differenze tuttora esistenti tra paesi diversi.Se consideriamo le
    cose secondo una prospettiva di più lungo periodo, i
    cambiamenti sono tali da implicare una modifica delle stesse
    categorie utilizzate per l'analisi. All'inizio del Settecento, le
    statistiche elaborate dagli aritmetici politici (Gregory King,
    Charles Davenant) classificavano reddito e lavoratori non in base al
    settore di attività ma in base a ripartizioni territoriali:
    una visione che riflette la frammentazione dell'economia nazionale
    in unità locali non necessariamente autosufficienti ma assai
    meno legate fra loro di quanto avvenga oggi. Solo in seguito si
    afferma la suddivisione per settori economici. Anche in questo caso,
    però, le categorie comunemente utilizzate nel recente passato
    - agricoltura, industria, servizi - tendono oggi a essere sostituite
    da nuove categorie, con la distinzione tra servizi destinati e non
    destinati al mercato (o tra servizi pubblici e privati), mentre
    sempre meno peso viene attribuito alla distinzione tra agricoltura e
    industria.La ragione di queste tendenze recenti può essere
    compresa se guardiamo alle modifiche intervenute negli ultimi
    decenni nelle quote dei lavoratori impiegate rispettivamente
    nell'agricoltura, nell'industria e nei servizi. Quella che Colin
    Clark (v., 1951²) ha battezzato, alquanto impropriamente,
    'legge di Petty', prevede che nel tempo la quota del lavoro occupata
    nell'agricoltura tenda a diminuire, e che crescano quelle occupate
    nell'industria e nei servizi. Se consideriamo i dati più
    recenti, vediamo che nei paesi più sviluppati il peso degli
    occupati in agricoltura è ormai drasticamente ridotto, mentre
    la quota degli occupati nell'industria, dopo essere cresciuta per
    vari decenni fino a raggiungere quasi il 50% dei lavoratori, ha
    iniziato a ridimensionarsi a vantaggio della quota degli occupati
    nei servizi, pubblici e privati, che in molti paesi cosiddetti
    'postindustriali' ha ormai superato il 60%.
Lo stesso fenomeno può essere colto da un altro punto di
    vista, confrontando la struttura dell'occupazione in paesi a livelli
    diversi di sviluppo. L'agricoltura ha un ruolo ancora dominante nei
    paesi a più basso reddito, mentre nei cosiddetti paesi di
    nuova industrializzazione diminuisce la quota degli occupati in
    agricoltura e aumenta quella degli occupati nei servizi e
    soprattutto nell'industria; quest'ultima quota è superiore a
    quella che riscontriamo nei paesi postindustriali, dove è
    nettamente dominante l'occupazione nei servizi. Rispetto al profilo
    dell'evoluzione storica, il confronto tra paesi a diversi livelli di
    sviluppo mostra oggi una quota relativamente maggiore di occupati
    nei servizi - specie nei servizi pubblici - nei paesi a basso e
    medio reddito.
Per quanto riguarda le prospettive per il futuro, non sembra
    opportuno ricorrere a estrapolazioni delle tendenze più
    recenti, come fanno molti 'futurologi' che prevedono una continua
    crescita del settore dei servizi. Questa è dipesa, nella fase
    più recente, da tre circostanze che non è detto
    persistano in futuro. Il primo elemento è costituito dalla
    crescente quota di domanda dei consumatori finali rivolta ai servizi
    - in particolare per il tempo libero, per l'istruzione, per cure
    mediche - , considerati 'beni superiori', cioè beni non di
    prima necessità, la cui domanda cresce d'importanza al
    crescere del reddito. In secondo luogo abbiamo l''esternalizzazione'
    di molti servizi per la produzione, cioè il ricorso da parte
    delle imprese a fornitori esterni per servizi legali, di
    contabilità, di ricerche di mercato e simili, in precedenza
    svolti all'interno delle stesse imprese manifatturiere. In terzo
    luogo ricordiamo la minore crescita della produttività nel
    settore dei servizi rispetto a quella verificatasi nell'agricoltura
    e nell'industria manifatturiera.
È plausibile che il primo dei tre elementi appena indicati
    persista almeno nel futuro prossimo. Anche per il secondo elemento
    è possibile che non sia stata ancora raggiunta la soglia di
    saturazione, di fronte alle crescenti esigenze di
    flessibilità delle imprese. Per il terzo elemento, tuttavia,
    le cose potrebbero cambiare notevolmente, se l'impatto della
    microelettronica riguarderà il settore dei servizi più
    che gli altri settori. Inoltre, l'espansione del settore pubblico
    collegata alla crescita dei servizi destinati al mercato sembra aver
    raggiunto un limite difficilmente valicabile in vari paesi a causa
    delle reazioni sempre più vive a un'elevata pressione
    fiscale. Un rallentamento della crescita dei servizi (in Italia nel
    1994 per la prima volta questo settore ha conosciuto un calo in
    assoluto nel numero degli occupati) può dar luogo non
    semplicemente a nuove tendenze nella struttura settoriale
    dell'occupazione, ma a un crescente problema di disoccupazione
    tecnologica. Di fronte a questo problema, uno degli sbocchi
    più frequentemente proposti richiama una delle principali
    tendenze di lungo e lunghissimo periodo che caratterizzano il mondo
    del lavoro, quella alla riduzione degli orari di lavoro
    (giornalieri, settimanali, annui e riferiti all'intero arco di vita
    attiva del lavoratore: v. tabella).
Occorre sottolineare, comunque, che la tendenza di lungo periodo a
    una riduzione delle ore lavorate si afferma su una base di
    oscillazioni collegate all'andamento della congiuntura economica. In
    particolare, gli orari lavorativi di fatto seguono un andamento
    grosso modo prociclico (cioè crescono nelle fasi di
    espansione dell'economia e diminuiscono nelle fasi di rallentamento
    congiunturale), mentre gli orari contrattuali si mostrano sensibili
    soprattutto ai problemi di competitività internazionale dei
    singoli paesi. Infatti un paese non può perseguire
    isolatamente una politica di riduzione degli orari di lavoro senza
    correre il rischio di peggiorare la propria competitività
    internazionale, e quindi di aggravare anziché ridurre la
    propria disoccupazione. A parità di lavoratori occupati,
    l'aumento della produttività oraria si deve tradurre in
    maggiore produzione o in minori orari di lavoro. Nel corso
    dell'ultimo secolo, la riduzione degli orari di lavoro ha assorbito
    una quota degli aumenti di produttività oraria pari grosso
    modo a un terzo, mentre due terzi si sono tradotti in aumento della
    produzione pro capite. 
Di fronte a questa situazione, i sostenitori di una società
    più attenta alla salvaguardia dell'ambiente, e quindi meno
    orientata verso la produzione materiale, ritengono che sarebbe
    necessario uno sforzo coordinato per modificare quelle proporzioni,
    perseguendo una drastica riduzione del tempo dedicato al lavoro a
    favore di quello dedicato alla cultura e ad attività libere.
    In questo senso, le più recenti tendenze dell'ecologismo
    più radicale si ricollegano a quei filoni del socialismo
    utopistico, ai quali si è accennato sopra, che auspicano
    riforme della società dirette ad assicurare una radicale
    riduzione del lavoro complessivo richiesto per il funzionamento
    della società accompagnata da una sua più equa
    riallocazione. Quest'ultimo problema concerne in particolare i
    lavori meno gradevoli, ma pur sempre necessari; per quanto riguarda
    quei servizi personali la cui prestazione può avere valore in
    sé - ad esempio, l'assistenza agli anziani e ai malati -
    è possibile favorire il ricorso al volontariato; per altre
    attività lavorative che non hanno questo tipo di
    gratificazione - ad esempio, la raccolta delle immondizie - è
    stato proposto il ricorso a un 'esercito del lavoro', in modo che
    ogni cittadino dedichi una parte limitata della sua vita a
    prestazioni di questo tipo, senza che nessuno sia condannato a esse
    per tutta la durata della propria vita attiva; questa proposta
    dunque ha finalità diverse da quella, analoga ma diretta
    principalmente a combattere la disoccupazione, di affidare a
    disoccupati, per periodi di tempo limitati, l'esecuzione di lavori
    socialmente utili in cambio di un salario minimo. 
    
9. Evoluzione della struttura economica e della
      stratificazione sociale: verso il superamento del lavoro
      costrittivo?
      
L'immagine del lavoro ereditata dai testi ottocenteschi o della
    prima metà di questo secolo (e da film come Tempi moderni di Chaplin) e collegata all'immagine dell'operaio comune
    utilizzato alla catena di montaggio appare non totalmente superata -
    specie se guardiamo ai paesi in via di sviluppo, nei quali vengono
    decentrate le attività produttive a minore contenuto
    professionale - ma poco adeguata a cogliere le tendenze in atto
    nella fase più recente, specie nei paesi postindustriali. In
    questa fase ha ripreso vigore la crescita delle piccole e medie
    imprese, dotate di una maggiore flessibilità, spesso
    organizzate in 'distretti industriali'; in parallelo, si è
    avuto uno spostamento d'importanza dalle tecnologie basate sulla
    divisione scientifica del lavoro (Taylor) e sulle catene di
    montaggio a tecnologie più flessibili permesse dallo sviluppo
    della microelettronica e basate sulle macchine a controllo numerico.
    Inoltre, l'alternanza tra il primo e il secondo principio di Babbage
    - un frazionamento delle attività lavorative diretto a
    ridurne il contenuto di professionalità e quindi a ridurre il
    costo del lavoro, e la sostituzione con macchine delle
    attività più semplici - genera sia una tendenza di
    lungo periodo all'arricchimento delle capacità professionali
    (e soprattutto dell'istruzione di base) richieste ai lavoratori, sia
    una crescente varietà di mestieri e professioni. Se a questa
    tendenza si unisce quella alla diffusione dell'azionariato popolare
    (in vari paesi, in particolare negli Stati Uniti e in Germania,
    tramite un ruolo centrale dei fondi pensionistici), possiamo
    cogliere una situazione in cui la dicotomia di classe tra lavoratori
    e capitalisti perde importanza rispetto alla stratificazione per
    ceti sociali. In questa stessa direzione potrebbe operare una
    maggiore diffusione del cooperativismo nella produzione, già
    proposta nell'Ottocento da un filone del 'socialismo ricardiano'
    (Robert Owen, William Thompson) e da John Stuart Mill, le cui idee
    furono praticamente sommerse dall'ostilità delle ideologie
    marxiste e comuniste, che privilegiavano invece la proprietà
    pubblica dei mezzi di produzione. Fra l'altro, la diffusione del
    cooperativismo potrebbe essere favorita dal crescente contenuto
    professionale delle attività lavorative e quindi dalle
    crescenti difficoltà di controllare l'adeguatezza delle
    prestazioni dei lavoratori dipendenti.Il progresso tecnico apre
    dunque spazi notevoli: riduzione degli orari di lavoro,
    arricchimento professionale di molte attività lavorative,
    miglioramenti nell'ambiente di lavoro. 
Allo stesso tempo pone problemi difficili: disoccupazione
    tecnologica, differenziazioni sociali, effetti sull'ambiente. In
    questo contesto, l'analisi delle tendenze in atto nel mondo del
    lavoro non può essere disgiunta dallo studio di proposte
    d'intervento. Fra queste, quelle forse più interessanti, non
    solo in via diretta ma anche per cogliere meglio le
    potenzialità della situazione in cui viviamo, sono le
    più radicali e solo apparentemente più utopistiche.
    Infatti, può apparire decisamente irrealistica la prospettiva
    suggerita da Marx di una liberazione completa dal lavoro
    costrittivo; ma assai meno irrealizzabili, almeno in linea di
    principio, appaiono le proposte di inserire sulla tendenza secolare
    alla riduzione del tempo dedicato al lavoro nell'arco della vita
    umana riforme anche radicali - come la promozione di lavori non
    produttivi di merci o servizi vendibili ma socialmente utili o
    l'istituzione di un 'esercito del lavoro' sulle linee sopra indicate
    - per ripartire in modo più equo sull'intera popolazione il
    carico ineliminabile del lavoro costrittivo e ridurre il peso delle
    differenziazioni sociali. Come si vede, comunque, il tema del lavoro
    è indissolubilmente legato a quello degli assetti della
    società: le trasformazioni in corso nel campo del lavoro,
    ricordate sopra, non potranno non avere effetti profondi
    sull'organizzazione delle società umane e sulla nostra vita. 
    
    Sociologia 
    di Marino Regini 
    
    sommario: 1. Introduzione. a) Lavoro
      dipendente e non. b) Il lavoro gerarchicamente subordinato.
    c) Il futuro del lavoro tra vecchio e nuovo. 2. Il lavoro
    nelle economie capitalistiche. a) I mercati del lavoro e le
      altre istituzioni regolative. b) Tendenze alla
      flessibilità. c) Il lavoro fuori dal mercato
      capitalistico. 3. Il lavoro nell'impresa. a) Il
      taylor-fordismo e le conseguenze del mutamento tecnologico. b) La riorganizzazione post-fordista del lavoro. c) Tra
      forza lavoro e risorse umane. d) Le attività
      terziarie e le forme di lavoro atipico. 4. La
    centralità sociale del lavoro e le sue trasformazioni. □
    Bibliografia. 
    
1. Introduzione
Il lavoro è un'attività sociale complessa, a cui gli
    studiosi di scienze sociali hanno guardato in modi differenti e con
    differenti interessi, a seconda delle preoccupazioni che prevalevano
    nei diversi periodi storici. Negli ultimi vent'anni, ad esempio, vi
    è stato uno spostamento significativo dell'attenzione dai
    problemi della qualità a quelli della quantità di
    lavoro. Se fra gli anni cinquanta e settanta la preoccupazione
    dominante era infatti quella della 'umanizzazione' del lavoro - una
    preoccupazione giustificata dai metodi di lavorazione prevalenti e
    da una visione pessimistica degli effetti del progresso tecnico -
    negli anni ottanta, entrato in crisi il modello del Welfare State
    keynesiano che garantiva pieno impiego e sicurezza sociale,
    l'attenzione si è spostata verso i problemi della
    disoccupazione e delle conseguenti opportunità di
    redistribuire il lavoro, di accorciarne i tempi, e così via.
Ma ciò non significa che la riflessione sulla natura e sul
    futuro del lavoro sia diventata obsoleta. Anzi, proprio il dibattito
    su occupazione e disoccupazione ha indotto a riprendere quella
    riflessione, che ha toccato tre aspetti principali. Il primo, solo
    apparentemente definitorio, riguarda la stessa nozione di lavoro e
    ciò che essa ricomprende. Lavoro è sinonimo di
    occupazione, o è una categoria in cui rientrano anche altri
    tipi di rapporto sociale (v. Pahl, 1988)? È facile, ma tutto
    sommato poco significativo, osservare che, in realtà, anche
    quelli che vengono definiti come disoccupati e inoccupati spesso
    lavorano nell'economia nascosta e in quella irregolare. Più
    importante è notare che, se si adotta una definizione di
    lavoro, in contrapposizione a quella di tempo libero, troppo
    ricalcata su quella di occupazione - cioè come 'qualcosa che
    dobbiamo fare, che preferiremmo non fare, e per cui veniamo pagati'
    (v. Grint, 1991, p. 11) - si rischia di non considerare come
    attività lavorativa né il lavoro domestico né
    le molte forme di lavoro volontario. Decidere che cosa è
    lavoro e che cosa non lo è dipende insomma dalla definizione
    sociale, storicamente variabile, delle diverse attività
    umane; e in particolare dipende dal grado di egemonia che alcune
    forme di lavoro esercitano nei diversi periodi storici.
Il secondo aspetto della riflessione sul lavoro riguarda la sua
    natura, e quindi la valutazione sociale che di esso viene data.
    Partendo ancora una volta dai problemi della disoccupazione, si
    può notare che il lavoro che si cerca o che viene a mancare
    ha al tempo stesso la natura di labor - che nel significato latino
    comprende le nozioni di fatica, pena, sacrificio - e di opera,
    cioè di attività che strutturano la vita e che
    forniscono identità sociale (v. Touraine, 1986, p. 195). I
    due aspetti sono presenti in misura variabile nei diversi tipi di
    lavoro, che tuttavia ha sempre, inevitabilmente, una natura ambigua
    e contraddittoria. Da un lato è il simbolo della punizione
    per il peccato originale e della costrizione presente nella
    condizione umana: 'si lavora perché si deve'. In quanto tale
    implica non solo fatica e sacrificio, ma per lo più anche
    subordinazione ed eteronomia. Dall'altro, è un mezzo con cui
    l'individuo può dimostrare a se stesso e agli altri quanto
    vale: 'si lavora per affermare le proprie capacità'. Dunque
    il lavoro è uno strumento non solo di reddito, ma anche di
    status, di autorealizzazione, di identità sociale; tanto che
    "chi non ha un lavoro, molto spesso trae la propria
    autoconsiderazione o il prestigio sociale da altri a lui prossimi,
    come i genitori, il coniuge, i quali hanno un'occupazione" (v.
    Dahrendorf, 1988, p. 114). L'enfasi posta dagli scienziati sociali
    sull'uno o sull'altro di questi caratteri del lavoro dipende, come
    vedremo, non solo da convinzioni metascientifiche, ma anche dalla
    diversa lettura dei processi di mutamento che lo hanno interessato.
    Le trasformazioni del lavoro hanno per effetto di potenziare il
    primo o il secondo di questi caratteri contraddittori? E l'idea di
    una nuova società deve contenere in sé quella di una
    liberazione dal lavoro - attraverso una drastica riduzione
    dell'orario e un'ampia ripartizione sociale delle attività
    faticose e alienanti in nessun modo eliminabili - o di una
    liberazione nel lavoro, valorizzando cioè sempre di
    più le componenti di autonomia, responsabilità e
    autorealizzazione che dipendono dal modo di disegnare i lavori (v.
    Gorz, 1988)?
Infine, il terzo aspetto della riflessione riguarda il futuro del
    lavoro e della sua centralità sociale nei paesi industriali
    avanzati. La contrazione dell'occupazione dipendente e la riduzione
    dell'attività lavorativa stabile nell'esperienza di vita
    degli individui hanno l'effetto di ridimensionare la
    centralità sociale del lavoro, e addirittura portano alla
    'fine della società del lavoro' (v. Dahrendorf, 1980; v.
    Offe, 1983), o implicano semplicemente una maggiore diversificazione
    delle esperienze lavorative, cioè il passaggio 'dal mondo del
    lavoro a quello dei lavori' (v. Accornero, 1992)?
La riflessione su questi diversi aspetti del lavoro ha posto fine a
    una lunga e curiosa disattenzione della teoria sociale e politica
    contemporanea nei confronti di questo fenomeno centrale della vita
    umana (v. Gallino, 1988, p. 138). Se nell'International
      encyclopaedia of social sciences addirittura non si trova una
    voce Work (ma solo quelle affini di Workers, Labor force e
    Occupations and careers), il dibattito fra gli studiosi di scienze
    sociali si è invece acceso più di recente sui temi
    sopra indicati inerenti ai confini, alla natura, e al futuro del
    lavoro.L'emergere di questo dibattito è rivelatore di
    profondi mutamenti avvenuti nella forma 'tipica' del lavoro come lo
    abbiamo conosciuto in questo secolo, cioè il lavoro
    dipendente (o lavoro salariato) e gerarchicamente subordinato,
    svolto normalmente a tempo pieno all'interno di un'organizzazione.
    È la contrazione e al tempo stesso la trasformazione di
    questo tipo storicamente determinato di lavoro che legittima gli
    interrogativi più astratti su che cosa rientri nella
    definizione di lavoro e su quali siano le tendenze prevedibili.Nei
    prossimi paragrafi, dunque, dovremo analizzare brevemente le
    caratteristiche del lavoro dipendente (v. § 1a) e
    gerarchicamente subordinato (v. § 1b), per poi valutare la
    portata dei suoi mutamenti e delle possibili alternative (v. §
    1c). Questi temi verranno poi ripresi per esteso nei capitoli
    successivi. 
    
a) Lavoro dipendente e non
L'occupazione alle dipendenze, o lavoro salariato, non è che
    una delle forme possibili di lavoro, anche se è quella che ha
    dominato la vita economica e il pensiero sociale dopo l'affermazione
    del capitalismo. Il concetto del posto di lavoro fisso come fonte
    pressoché esclusiva del reddito personale è emerso per
    la prima volta nell'Ottocento. Benché un mercato del lavoro
    sia esistito in molti paesi europei per diversi secoli, infatti,
    un'occupazione regolare a tempo pieno non era la norma, e il reddito
    ricavato dal lavoro salariato costituiva solo una componente non
    essenziale al mantenimento dell'individuo e della famiglia (v. Pahl,
    1988, p. 12). Nonostante la specificità storica della nozione
    di occupazione dipendente e il periodo relativamente breve in cui si
    è affermata, ben presto essa viene a coincidere, nell'analisi
    sociale non meno che nel senso comune, con quella di lavoro tout
    court. Il manuale americano più usato negli anni cinquanta,
    ad esempio, definisce il lavoro come "occupazione permanente nella
    produzione di beni e servizi in cambio di una retribuzione" (v.
    Dubin, 1958).
È difficile sostenere che questa forma di lavoro non conservi
    anche oggi la sua centralità; essa ha tuttavia subito
    trasformazioni rilevanti, e soprattutto una notevole contrazione.
    L'aumento della disoccupazione cui si è accennato sopra non
    ne è che una delle cause. Le altre vanno ricercate
    nell'estensione e nel prolungamento del sistema di istruzione e di
    quello pensionistico, che hanno sottratto al mercato del lavoro
    quote crescenti di popolazione in età giovanile e in
    età anziana, nonché nella generalizzata riduzione
    dell'orario di lavoro.In diversi paesi, a questa contrazione del
    lavoro dipendente ha fatto invece riscontro una crescita del lavoro
    professionale e autonomo (artigiani, commercianti, lavoratori
    free-lance). E, soprattutto, non vi sono segnali che sia in calo il
    lavoro domestico, svolto in modo preponderante dalle donne,
    benché in molti paesi l'organizzazione familiare del lavoro
    abbia subito mutamenti rilevanti. 
    
b) Il lavoro gerarchicamente subordinato
Anche la forma di lavoro gerarchicamente subordinato e svolto
    all'interno di un'organizzazione, che implica la
    disponibilità temporale piena del lavoratore a prestazioni
    standardizzate piuttosto che l'offerta di una prestazione specifica,
    è una costruzione sociale relativamente recente, esito di un
    duplice processo (v. Chiesi, 1990).Il processo più noto e
    ampiamente richiamato è quello che, nel corso di questo
    secolo, ha portato alla costituzione della grande impresa -
    un'impresa che produce in grande serie beni standard, mediante l'uso
    di macchine e di una forza lavoro che svolge compiti routinizzati.
    L'esigenza fondamentale che si poneva rispetto a quest'ultima era
    quella del controllo e della standardizzazione della prestazione, e
    a tale esigenza hanno a lungo risposto l'innovazione tecnologica
    nella fabbrica e negli uffici, e i metodi di organizzazione del
    lavoro, o 'concetti di produzione' prevalenti (v. Kern e Schumann,
    1984).
Nei paesi industriali avanzati, un secondo processo si è poi
    affiancato al primo nel sancire la centralità del lavoro
    gerarchicamente subordinato e nell'assicurare il conseguimento di
    una standardizzazione, uniformità e 'rigidità' della
    prestazione lavorativa. Si tratta del costituirsi di sistemi di
    relazioni industriali volti alla tutela contrattuale di un tale
    rapporto di lavoro, e quindi alla sua stabilizzazione. Se
    l'organizzazione della grande fabbrica o dell'ufficio tradizionale
    era di fatto un sistema di regole relativamente uniformi, i sistemi
    di relazioni industriali che le corrispondevano consistevano in
    pratica nella contrattazione di queste regole secondo criteri
    altrettanto uniformi e standardizzati (v. Regini, 1991, pp.
    149-150).Anche il lavoro gerarchicamente subordinato e svolto a
    tempo pieno in un'organizzazione, tuttavia, ha subito profonde
    trasformazioni e si è quantitativamente ridimensionato. Sono
    invece fortemente cresciute forme ibride fra lavoro subordinato e
    lavoro autonomo, ovvero forme di lavoro atipico. 
    
c) Il futuro del lavoro tra vecchio e nuovo
Dunque, le trasformazioni del lavoro - quelle recenti e quelle
    prevedibili - appaiono importanti, ma né dirompenti né
    univoche. La forma 'tipica' del lavoro dipendente e gerarchicamente
    subordinato conserva ancora un predominio economico e sociale
    rilevante. Accanto a questa forma tipica, altri generi di lavoro
    riconquistano un'attenzione a lungo perduta o negata - è il
    caso del lavoro autonomo e di quello domestico - o si presentano
    come novità alla ricerca di un consolidamento - è il
    caso dei vari lavori atipici.Anche le conseguenze dei processi di
    mutamento appaiono spesso ambigue e contraddittorie. È
    così, ad esempio, per quanto riguarda la duplice natura del
    lavoro. Con un trend iniziato da alcuni decenni, e che ha conosciuto
    una forte accelerazione nell'ultimo, il grado di fatica, di
    sacrificio, di costrizione è fortemente diminuito per quasi
    tutte le mansioni (v. Bonazzi, 1993) - anche se ciò ha reso
    per certi versi ancor più evidente il limite contro cui tale
    diminuzione si scontra, rappresentato dal permanere degli aspetti di
    subordinazione e di eteronomia nella maggior parte dei lavori.
    Tuttavia, alla diminuzione della componente di labor non ha fatto
    sempre riscontro un aumento di quella di opera, se non per alcune
    categorie professionali. Le possibilità di autorealizzazione
    attraverso il lavoro sono un aspetto intorno al quale si ricreano
    nuovi dualismi, fra gruppi occupazionali che ricavano dal lavoro
    soddisfazione e prestigio sociale e altri gruppi che continuano a
    scorgervi soltanto sacrificio e costrizione, sia pure attenuati.
    Mentre i secondi cercano di circoscrivere nel tempo e
    nell'esperienza di vita l'attività lavorativa, i primi si
    identificano sempre di più in tale attività. "Nulla
    caratterizza meglio le posizioni superiori del fatto che i loro
    appartenenti si lamentano di continuo d'aver troppo lavoro da
    svolgere [...]. Il grande consumo di lavoro è diventato il
    moderno equivalente del grande consumo di agiatezza" (v. Dahrendorf,
    1988, p. 120). 
    
2. Il lavoro nelle economie capitalistiche
È nelle economie capitalistiche che si sviluppa la forma del
    lavoro dipendente o lavoro salariato, regolata da un mercato anomalo
    qual è il mercato del lavoro e, successivamente, anche da
    istituzioni politiche e associative, mediante la legislazione, la
    contrattazione collettiva, le politiche del lavoro. Nel corso di
    questo secolo, tale forma di lavoro assume quelli che oggi
    consideriamo i suoi caratteri standard, e che recentemente sono
    stati sottoposti a trasformazioni più o meno accentuate.
    Anche nelle economie capitalistiche, tuttavia, rimangono in vita
    forme di lavoro non salariato, alcune delle quali hanno di recente
    riguadagnato un'attenzione da tempo perduta. 
    
a) I mercati del lavoro e le altre istituzioni regolative
Un mercato è un meccanismo regolativo che consente la
    formazione del prezzo di un bene attraverso contrattazioni
    formalmente libere fra chi domanda e chi offre il bene stesso.
    Quando il bene scambiato è quella merce decisamente anomala
    costituita dal lavoro umano, si parla di mercato del lavoro. In
    realtà, vi sono diversi mercati per diversi tipi di lavoro.
    La domanda di lavoro è fortemente differenziata in base alle
    competenze richieste (se un'impresa ha bisogno di un ingegnere non
    assume ovviamente un cameriere) e in base ad altre caratteristiche.
    Ma anche l'offerta (cioè l'insieme delle persone disponibili
    a ricoprire un posto di lavoro) è diversificata per livello
    di istruzione, qualifica, esperienza lavorativa, nonché per
    età, sesso, provenienza etnica, ecc. Proprio perché le
    caratteristiche della domanda e dell'offerta di lavoro sono
    così eterogenee, sarebbe costosissimo e inefficiente, se non
    impossibile, utilizzare metodi amministrativi per coprire i posti di
    lavoro disponibili in un'economia sviluppata. Il mercato del lavoro
    si è invece rivelato uno strumento semplice e relativamente
    efficiente per fissare i livelli retributivi relativi (quindi i
    differenziali salariali) per le diverse figure professionali,
    imprese, aree geografiche e settori industriali. Tuttavia, esso
    presenta anche molti limiti e problemi di funzionamento, e i suoi
    esiti suscitano forti opposizioni, così che, storicamente, ha
    dovuto essere affiancato e in parte sostituito da altre istituzioni
    regolative. In primo luogo, vi sono aspetti del lavoro che il
    mercato non può regolare. 
A differenza dei livelli retributivi, le condizioni in cui viene
    effettuata la prestazione lavorativa, o condizioni di lavoro - quali
    i ritmi di lavoro, le condizioni ambientali, o il grado di
    coinvolgimento nelle decisioni - vengono variamente regolate dalla
    gerarchia aziendale, dalla legislazione o dalla contrattazione
    collettiva. Così pure, non è il mercato del lavoro che
    può determinare interamente il livello desiderabile di
    occupazione complessiva (o di domanda di lavoro aggregata), o quello
    di garanzia del reddito per chi esca temporaneamente o
    permanentemente dal mercato del lavoro stesso. A ciò
    provvedono solitamente, in varia misura, le politiche statali, o la
    concertazione fra gli interessi organizzati. In secondo luogo, il
    ricorso al mercato può rivelarsi in vari casi meno efficiente
    dell'uso di meccanismi organizzativi. È questa, ad esempio,
    la ragione per la quale, per ricoprire posizioni relativamente
    qualificate, si sono diffusi quelli che gli economisti americani
    Doeringer e Piore (v., 1971) hanno chiamato 'mercati del lavoro
    interni', in contrapposizione a quelli 'esterni'. In molte imprese,
    soprattutto dove la produzione è altamente specifica e dove
    l'esperienza lavorativa e l'identificazione dei lavoratori con
    l'impresa stessa sono beni preziosi, le posizioni superiori vengono
    infatti ricoperte mediante promozione interna - cioè mediante
    meccanismi organizzativi - anziché mediante ricorso al
    mercato 'esterno'.Infine, lo scambio che ha luogo nel mercato del
    lavoro è uno scambio diseguale. 
Benché la retribuzione e i termini del rapporto di lavoro
    vengano stabiliti attraverso una contrattazione formalmente libera,
    infatti, il potere di mercato - e quindi contrattuale - del datore
    di lavoro è di solito enormemente superiore a quello del
    lavoratore. Tranne che per figure professionali di difficile
    reperibilità, la domanda di lavoro è normalmente
    inferiore all'offerta e non ha le caratteristiche di urgenza e
    talvolta di drammaticità di quest'ultima. In tutti i paesi,
    la legislazione è intervenuta in diversa misura a temperare
    questa disuguaglianza presente nei mercati del lavoro, ponendo
    limiti alla facoltà delle imprese di licenziare, favorendo
    l'assunzione dei più deboli tra quanti si offrono su tale
    mercato, e così via. In tutti i paesi, inoltre, l'azione
    collettiva dei lavoratori, che ha portato alla formazione di
    sindacati, ha contribuito a trasformare lo 'scambio atomistico' che
    avviene nel mercato del lavoro in 'contrattazione collettiva' e
    talvolta in 'scambio politico' (v. Pizzorno, 1977), alterando
    così profondamente la natura di tale mercato.Nelle economie
    capitalistiche contemporanee, dunque, il mercato del lavoro è
    ancora il meccanismo principale per fare incontrare la domanda e
    l'offerta e per consentire che il lavoro si svolga nella forma
    tipica dell'occupazione dipendente. Ma gli altri meccanismi
    regolativi - dalle gerarchie aziendali allo Stato, alla
    contrattazione collettiva - hanno assunto un ruolo fondamentale sia
    nel fornire all'occupazione dipendente quei caratteri che
    consideriamo 'tipici' (quali il contratto a tempo indeterminato e
    con orario standard), sia nell'assecondarne i principali mutamenti. 
    
b) Tendenze alla flessibilità
Se la forma di lavoro dipendente a tempo pieno e indeterminato
    è una costruzione sociale relativamente recente, ancor
    più recenti sono alcune tendenze al suo parziale
    ridimensionamento.In primo luogo, è l'aspetto del tempo pieno
    ad avere subito una ridefinizione. Già le prime lotte
    sindacali per la riduzione della giornata di lavoro e la
    legislazione sulla sua durata avevano messo in evidenza che il
    significato di tale termine è socialmente variabile e va
    perciò giuridicamente definito. Tuttavia, nonostante la
    drastica riduzione della giornata e della settimana lavorative dagli
    inizi del capitalismo a oggi, l'idea che il lavoro dipendente non
    potesse che assorbire la gran parte della vita attiva di una persona
    era rimasta sostanzialmente immutata fino al secondo dopoguerra.
    È solo con la crescita del benessere nelle società
    industriali avanzate, e in particolar modo con il forte aumento del
    tasso di attività femminile (che in alcuni settori porta a
    una vera e propria femminilizzazione della forza lavoro), che si
    diffondono forme di lavoro a tempo parziale, organizzate secondo
    diverse modalità. Su diciannove paesi dell'area OECD, nel
    1979 soltanto tre avevano una percentuale di occupati part-time
    superiore al 20% degli occupati totali; ma nel 1990 questi paesi
    erano divenuti sette (v. OECD, 1991, p. 46).
In secondo luogo, l'idea del lavoro a tempo indeterminato in cui si
    svolgono stabilmente le stesse mansioni per una retribuzione
    anch'essa prefissata - idea che si era affermata in questo secolo
    come esito della contrattazione sindacale non meno che
    dell'intervento statale - viene anch'essa messa in discussione negli
    anni ottanta. In questo decennio, l'esigenza delle imprese di
    rispondere in modo più agile e tempestivo alle turbolenze dei
    mercati porta ovunque a richieste di 'flessibilizzazione' del
    rapporto di lavoro. Queste richieste sono in taluni casi -
    particolarmente nei paesi anglosassoni - assecondate da propositi
    politici di deregulation; in altri paesi - ad esempio in Germania e
    in Italia - vengono di fatto contrattate con i sindacati (v. Regini,
    1991).
Il primo obiettivo delle imprese è quello di ottenere
    maggiore flessibilità in entrata e in uscita dal mercato del
    lavoro (si parlerà allora di flessibilità numerica o
    esterna), contravvenendo così al carattere di sostanziale
    stabilità - difficoltà di licenziamento, divieto di
    assunzioni a tempo determinato - che i posti di lavoro erano venuti
    assumendo negli anni sessanta e settanta nelle economie industriali
    avanzate. Mentre la flessibilità esterna o numerica ha
    giocato un ruolo chiave nella ristrutturazione industriale dei tardi
    anni settanta e primi anni ottanta, un'importanza sempre maggiore
    è stata in seguito assunta dalla flessibilità interna
    o funzionale - cioè la possibilità di impiegare un
    lavoratore in mansioni diverse - e da quella temporale - vale a dire
    la possibilità di modulare il tempo effettivo di lavoro sulle
    esigenze della produzione. Molte delle imprese che avevano cercato
    in un primo momento un tipo di riaggiustamento basato su una
    contrazione dell'organico, infatti, non hanno tardato a scoprire che
    la riorganizzazione delle mansioni, lo sviluppo professionale della
    forza lavoro e l'elasticità dell'orario potevano costituire
    fattori di competitività ancora più importanti.Infine,
    l'egemonia del lavoro dipendente a tempo indeterminato è
    messa in discussione dalla crescita - che negli ultimi vent'anni ha
    interessato in varia misura tutti i paesi industrialmente avanzati -
    del numero e dell'importanza dei lavoratori con uno status incerto
    nel mercato del lavoro. Gli esempi sono svariati: dai lavoratori
    dipendenti che svolgono anche un lavoro in proprio, talvolta
    preparandosi a diventare piccoli imprenditori, a quanti sono usciti
    dal mercato del lavoro regolare con un pensionamento anticipato che
    poi lavorano nell'economia informale, a coloro che svolgono un
    lavoro free-lance, spesso intrattenendo un rapporto continuativo e
    di fatto stabile con un'impresa. 
    
c) Il lavoro fuori dal mercato capitalistico
Come si è più volte accennato, anche in un'economia
    capitalistica non tutto il lavoro assume la forma standard del
    lavoro dipendente e retribuito. Tre altri tipi principali di lavoro
    hanno mantenuto una rilevanza quantitativa durante tutto lo sviluppo
    capitalistico, benché offuscati dall'egemonia della forma
    standard, e mostrano oggi una ripresa di importanza economica o
    sociale. Si tratta del lavoro autonomo e professionale, del lavoro
    domestico e di quello volontario.Le professioni liberali sono
    naturalmente una forma di occupazione antica, per le cui
    caratteristiche particolari esse vengono solitamente trattate sotto
    una categoria diversa - definita appunto 'professione' - da quella
    di lavoro. Altre figure sociali (artigiani, commercianti, ecc.)
    svolgono invece un'attività lavorativa normalmente in forma
    self-employed, cioè indipendente. Sia le interpretazioni
    evoluzioniste dell'analisi di Karl Marx, sia le teorie della
    modernizzazione industriale (v. Kerr e altri, 1960) hanno fatto a
    lungo considerare queste figure sociali come un residuo
    precapitalistico o preindustriale, quindi destinato a una
    inevitabile perdita di importanza, se non all'estinzione. In diversi
    paesi industrialmente avanzati, invece, la quota dei lavoratori
    autonomi sul totale della forza lavoro è andata aumentando a
    partire dagli anni settanta (v. OECD, 1986), in conseguenza sia del
    formarsi di nuove figure professionali e imprenditoriali create
    dallo sviluppo economico, sia di politiche di sostegno pubblico
    volte a ottenere consenso (v. Berger e Piore, 1980).
Il lavoro domestico è stato tradizionalmente svolto dalle
    donne che - ancor oggi si usa dire - 'non lavorano', cioè che
    non hanno un'occupazione dipendente. Se il linguaggio comune
    è rivelatore del perché questa categoria di lavoro sia
    stata a lungo esclusa dal concetto di lavoro più in generale,
    l'arbitrarietà di questa esclusione emerge non appena si
    consideri che le stesse attività di cui consiste il lavoro
    domestico possono costituire parte del lavoro salariato
    nell'economia formale. Ciò vale non solo per le
    attività svolte nell'abitazione in senso stretto, ma anche
    per molte altre al di fuori di essa, quali il giardinaggio, la
    manutenzione dell'auto o l'accompagnare i figli a scuola. D'altro
    canto, le possibilità per le donne di presentarsi sul mercato
    del lavoro sono state limitate e determinate dalle loro
    attività domestiche, dando luogo a modelli occupazionali
    basati sulle distinzioni di sesso. Per diverse ragioni, è
    dunque difficile non considerare il lavoro dipendente e quello
    domestico come strettamente connessi fra loro (v. Grint,
    1991).Infine, il lavoro volontario è diventato più
    importante con la moltiplicazione dei servizi sociali connessi
    all'espansione del Welfare State e della cittadinanza sociale. La
    crisi fiscale dello Stato e la caduta di qualità dei servizi
    sociali che ne è seguita ha in molti paesi dato nuovo impulso
    al volontariato - chiamato spesso anche 'terzo settore' - quale
    alternativa alle deficienze dello Stato, del mercato e della
    famiglia nel fornire prestazioni sociali. 
    
3. Il lavoro nell'impresa
La grande impresa e l'amministrazione pubblica sono i due contesti
    organizzativi nei quali il lavoro salariato ha assunto le
    caratteristiche tipiche della sua forma standard: non già
    lavoro svolto autonomamente per quanto riguarda gli strumenti e le
    procedure lavorative - come nel caso degli artigiani o dei
    professionisti - ma lavoro 'gerarchicamente subordinato'.
È nell'impresa industriale che le grandi problematiche poste
    da questo tipo di lavoro si sono originariamente sviluppate. Ed
    è alla grande impresa industriale che si è rivolta in
    via prioritaria l'attenzione delle scienze sociali interessate al
    tema del lavoro e dei suoi effetti sulle persone. Dal vecchio
    dibattito sulle conseguenze del mutamento tecnologico - intorno a
    cui si sono sviluppate gran parte della sociologia industriale e
    della psicologia del lavoro - e sull'umanizzazione del lavoro in una
    fase di parcellizzazione elevata delle mansioni, si è passati
    più di recente alle discussioni sul superamento
    dell'organizzazione del lavoro taylor-fordista, sulla sua portata e
    sui nuovi modelli emergenti.
Contemporaneamente al superamento del fordismo, tuttavia, due forme
    di lavoro al di fuori del tipo standard hanno acquistato rilevanza
    sociale: si tratta del lavoro nel settore dei servizi - che come
    vedremo racchiude in sé tipi di prestazione fortemente
    differenziati dal punto di vista qualitativo - e di quella
    costellazione di forme di lavoro che si usa ormai definire
    'atipico'. 
    
a) Il taylor-fordismo e le conseguenze del mutamento tecnologico
Negli anni cinquanta e sessanta le scienze sociali scoprirono i
    problemi del 'macchinismo' prima e dell'automazione poi, e delle
    profonde conseguenze che essi provocavano sul lavoro in termini di
    parcellizzazione delle mansioni (v. Friedmann, 1946) e di
    alienazione (v. Blauner, 1964). Gli studiosi si divisero fra chi
    vedeva il macchinismo come una tendenza secolare a dequalificare il
    lavoro umano e chi invece, con una visione dialettica presa in
    prestito dal marxismo, lo considerava come una semplice fase in
    procinto di essere superata da quella dell'automazione, che avrebbe
    portato a una ricomposizione e riqualificazione del lavoro (v.
    Touraine, 1955; v. Mallet, 1963). La sociologia del lavoro francese,
    in particolare, sviluppò un ampio filone di analisi intorno a
    tali questioni (v. Friedmann e Naville, 1961). E negli anni settanta
    questo dibattito fra pessimisti e ottimisti riprese, particolarmente
    influenzato da lavori come quello di Braverman (v., 1974), che
    vedeva nella razionalizzazione capitalistica un processo
    inevitabilmente destinato a 'degradare' il lavoro professionalmente,
    a renderlo più pesante e a peggiorare le condizioni
    lavorative.Questi orientamenti dell'analisi sociologica del lavoro
    derivavano dal fatto che, fino alla metà degli anni settanta,
    la produzione industriale nei paesi capitalistici sviluppati si era
    andata organizzando secondo i principî fordisti (v. Piore e
    Sabel, 1984; v. Boyer e Wolleb, 1986), collegati a una
    organizzazione del lavoro di ispirazione taylorista che implicava
    appunto parcellizzazione delle mansioni e dequalificazione. A
    cavallo del secolo, l'ingegnere americano Frederick W. Taylor
    sostenne infatti che vi era one best way di organizzare il lavoro in
    fabbrica: osservare attentamente come veniva eseguita ciascuna
    mansione, scomporla nei suoi movimenti elementari, misurare i tempi
    necessari a eseguirli, e ridefinire poi la mansione stessa in modo
    rigido e standardizzato, senza alcuna autonomia per gli esecutori
    (v. Taylor, 1911).
Ciò naturalmente implicava una netta separazione fra
    concezione ed esecuzione del lavoro, che costituiva del resto il
    principio guida della produzione di massa. L'efficienza della
    produzione di massa dipende infatti dalle economie di scala; e per
    ottenere economie di scala, come sappiamo da Adam Smith, è
    necessario suddividere il lavoro in una serie di operazioni
    altamente parcellizzate, alcune delle quali possono venire
    meccanizzate, precisamente per il fatto che sono state semplificate,
    mentre le altre possono venire eseguite da lavoratori non
    specializzati, per la stessa ragione (v. Smith, 1776). Questa
    divisione del lavoro richiedeva un complesso sistema di controlli. I
    capi controllavano che gli operai si attenessero alle norme; una
    divisione incaricata del controllo di qualità verificava i
    risultati ottenuti dai capi; e un settore 'aggiustaggio' a valle
    delle linee di montaggio riparava i difetti che erano sfuggiti ai
    continui controlli. Essendo le mansioni così parcellizzate,
    non vi era motivo di acquisire un'ampia qualificazione sul lavoro o
    vaste conoscenze di base. La maggior parte degli operai - e dei
    managers - perciò imparava sul lavoro. Gli operai
    percorrevano una carriera di mansioni semiqualificate, ciascuna
    delle quali richiedeva una certa familiarità con la mansione
    precedente (v. Regini e Sabel, 1989).Naturalmente, si tratta di una
    descrizione idealtipica. Il taylor-fordismo si diffuse in modo
    diseguale nei paesi industriali, e con ritardo notevole in alcuni di
    questi (v. Boyer e Wolleb, 1986). Ma il 'caso da manuale'
    tratteggiato sopra chiarisce perché le preoccupazioni diffuse
    fino a tutti gli anni settanta fossero quelle di una umanizzazione
    del lavoro - o, a seconda dell'ideologia prevalente, di una
    organizzazione del lavoro non capitalistica. 
    
b) La riorganizzazione post-fordista del lavoro
Molti studi in diversi paesi ci hanno mostrato come, negli anni
    settanta e ottanta, si sia passati dal predominio dell'impresa
    taylor-fordista a una crescente diversificazione dei modi di
    organizzare l'impresa, la produzione e il lavoro (v. Piore e Sabel,
    1984; v. Kern e Schumann, 1984; v. Boyer e Wolleb, 1986). Se si
    prescinde per il momento da tali differenze (per le quali v. §
    3c), si può parlare in generale dell'emergere di un sistema
    post-fordista e post-taylorista, basato sulla necessità di
    rispondere in modo flessibile, tempestivo e differenziato alla
    crescente instabilità dei mercati. Dai tardi anni settanta in
    poi, la frammentazione dei mercati di massa e le continue
    oscillazioni nel livello e nella composizione della domanda appaiono
    infatti come fenomeni generali, quasi universali. E questa
    accresciuta instabilità dei mercati ha costretto le imprese a
    mettere in discussione il principio guida della produzione di massa,
    cioè la separazione fra concezione ed esecuzione.
Le conseguenze sul lavoro nell'impresa sono, almeno potenzialmente,
    di enorme portata. La piena utilizzazione delle capacità dei
    lavoratori non viene, infatti, più ostacolata dal dogma
    taylor-fordista. La ricerca di maggiore efficienza può
    cessare di fondarsi sull'esasperata suddivisione delle operazioni e
    sulla rigida frammentazione dei compiti, per puntare invece sullo
    strumento opposto, vale a dire l'integrazione delle mansioni e
    l'ampliamento della sfera di responsabilità del lavoratore
    (v. Kern, 1992, p. 64). Nei nuovi sistemi di produzione flessibile,
    insomma, operai altamente qualificati dovrebbero sostituire gli
    operai a bassa o media qualificazione.In effetti, alcune ricerche
    hanno documentato che si sta invertendo la precedente tendenza a
    separare nettamente i compiti di esecuzione da quelli di concezione;
    che per molti lavoratori aumenta il contenuto professionale delle
    mansioni; che mutano sia il controllo sul lavoro, sia le funzioni
    della gerarchia e delle regole che intorno a questo problema erano
    state create. Con una sintesi efficace, anche se certamente
    ottimistica, si può dire che nei 'nuovi concetti di
    produzione' l'intelligenza umana viene vista come una risorsa da
    utilizzare al meglio nel luogo di lavoro anziché come un
    vincolo intorno al quale costruire un sistema di regole che la
    disciplini (v. Kern e Schumann, 1984). 
Secondo altre ricerche, vi è una crescita dell'astrazione e
    della 'complessificazione' del lavoro. Astrazione nel senso che il
    lavoro consiste sempre più nella capacità di
    interpretare dati più o meno formalizzati proposti dai
    dispositivi di controllo degli automatismi; complessificazione in
    quanto aumenta la parte di attività cerebrale e mentale, che
    si traduce ad esempio nello sforzo di sottoporre a un controllo
    quasi permanente i vari circuiti e collegamenti fra macchine, a
    scopo di regolazione o di diagnosi (v. Coriat, 1990, p. 219). Ma gli
    effetti dei sistemi post-fordisti sul lavoro non sono soltanto, e
    neppure principalmente, relativi alla qualificazione tecnica
    richiesta. È soprattutto la dipendenza gerarchica e
    organizzativa dei lavoratori - che era imposta dal taylor-fordismo -
    a diminuire, mentre aumentano nettamente le loro possibilità
    di coinvolgimento, partecipazione e controllo (v. Accornero, 1992,
    p. 99). Molti lavoratori vengono così a condividere in
    qualche misura l'orizzonte degli obiettivi aziendali, a differenza
    di quanto accadeva in precedenza, quando tali obiettivi venivano
    passivamente accettati o, occasionalmente, messi in discussione (v.
    Burawoy, 1979). 
    
c) Tra forza lavoro e risorse umane
Le tendenze di mutamento sopra delineate rappresentano
    generalizzazioni assai ampie, utili principalmente a confrontare le
    caratteristiche che il lavoro industriale può assumere nella
    nuova fase con quelle tipiche del periodo taylor-fordista. Ma il
    quadro che emerge dalla crisi del fordismo è assai più
    variegato e incerto. I modelli organizzativo-produttivi secondo cui
    si è andata riorganizzando la grande impresa industriale
    negli anni ottanta sono diversi, e a ciascuno di essi corrisponde un
    diverso ruolo assegnato al lavoro.
Un primo modello è quello che è stato chiamato
    'produzione diversificata di qualità' (v. Streeck, 1992);
    esso è proprio di imprese che puntano a competere sulla
    qualità dei prodotti più che sul prezzo. In questo
    modello un ruolo cruciale è svolto dalla elevata e ampia
    qualificazione della forza lavoro a tutti i livelli, dalla sua
    capacità di integrare diversi compiti nonché di
    cambiare e imparare rapidamente nuove mansioni, e dal suo
    coinvolgimento negli obiettivi aziendali di miglioramento costante e
    di innovazione incrementale. Da ciò consegue l'utilizzo di
    una quota molto ampia di forza lavoro con una formazione
    professionale - sia di base sia specifica per l'azienda - estesa,
    con capacità sociali quali iniziativa, attitudine al problem
    solving e alla collaborazione con gli altri, e con una buona dose di
    identificazione con la cultura aziendale. Un secondo modello, che
    può essere definito 'produzione di massa flessibile' (v.
    Boyer, 1988), è invece basato sulla produzione di massa di
    una varietà di beni (anziché di beni standard come nel
    fordismo classico), per rispondere alla variabilità della
    domanda senza rinunciare a contenere i prezzi. L'automazione
    programmabile, che consente di produrre in massa un'ampia gamma di
    prodotti, riduce drasticamente sia la domanda di figure
    professionali a bassa qualificazione (operai di produzione e
    impiegati amministrativi), sia l'utilizzo delle competenze tecniche
    del personale mediamente qualificato, al quale vengono soprattutto
    richieste adattabilità al mutamento e cooperazione. La
    domanda di qualificazioni elevate si concentra invece su alcuni
    gruppi cruciali, come i quadri, i tecnici e il personale dell'area
    commerciale. Ne deriva una netta segmentazione fra personale ad alta
    qualificazione, appartenente a questi gruppi professionali, e
    personale a medio-bassa qualificazione, con competenze
    obsolete.Infine, un terzo modello è quello giapponese del
    just-in-time e della lean production, o 'toyotismo', che basa la
    propria competitività in parte sul prezzo dei prodotti, in
    parte sulla loro qualità (v. Dore, 1987; v. Bonazzi, 1993).
    Rispetto al fordismo tradizionale, esso comporta una assai
    più ampia valorizzazione delle risorse umane. Resta la
    divisione fra funzioni di progettazione e funzioni esecutive, ma
    assai più attenuata. Vi è uno sforzo collettivo teso a
    favorire e utilizzare conoscenze diffuse piuttosto che alla loro
    concentrazione nell'ambito di una ristretta élite, una
    maggiore attenzione allo sviluppo delle risorse umane complessive, e
    un minore distacco fra il mondo della scuola e quello del lavoro. Il
    lavoro di squadra e i circoli della qualità, che insieme
    all'automazione programmabile e ai macchinari polivalenti sono
    caratteristiche tipiche dell'organizzazione della produzione di tipo
    giapponese, rappresentano sia schemi organizzativi sia una politica
    di coinvolgimento pieno dei lavoratori nell'impresa. Questo modello
    si basa infatti su un elevato grado di consenso e di partecipazione
    dei lavoratori anche ai livelli più bassi, e su una
    condivisione di fatto degli obiettivi aziendali. A tale
    coinvolgimento fa peraltro da supporto una struttura fortemente
    dualistica del mercato del lavoro, che prevede, per l'ampia quota di
    lavoratori occupati nelle grandi imprese, la stabilità
    dell'occupazione sotto forma dell'impiego a vita, mentre ne scarica
    i costi sul resto della forza lavoro che opera nel mercato
    secondario.
Il dualismo fra i lavoratori che sono fortemente beneficiati dai
    nuovi modi di organizzare il lavoro e quelli che da tali benefici
    restano esclusi non è del resto limitato al caso giapponese.
    Anzi, l'impresa flessibile - a qualunque dei modelli indicati
    appartenga - è fortemente caratterizzata da un nucleo
    centrale di lavoratori polivalenti e da una periferia di
    subfornitori, lavoratori a domicilio e categorie varie di lavoro
    temporaneo (v. Pahl, 1988, p. 171). E anche all'interno dei
    dipendenti stabili, vi è chi individua alcuni gruppi che
    vengono valorizzati dai mutamenti in corso, altri che vengono
    esclusi, e altri ancora che vengono destabilizzati (v. Coriat,
    1990); sembra pertanto che un effetto diretto delle nuove strategie
    post-fordiste possa essere proprio quello della segmentazione. Non
    è dunque un caso che, anche nelle nuove concezioni
    manageriali, una parte dei lavoratori venga considerata come
    'risorse umane', mentre un'altra parte rimane semplice 'forza
    lavoro'. 
    
d) Le attività terziarie e le forme di lavoro atipico
La 'scoperta' della crescente importanza e al tempo stesso delle
    peculiarità del lavoro nei servizi è una conseguenza
    indiretta del dibattito sulla società postindustriale, che ha
    avuto largo spazio nelle scienze sociali particolarmente negli anni
    settanta (v. Bell, 1973). In un primo momento, l'attenzione degli
    osservatori si è concentrata sugli aspetti quantitativi della
    trasformazione sociale in corso: in particolare, sul fenomeno comune
    a tutti i paesi avanzati di un costante declino dell'occupazione
    industriale e di una crescita dei posti di lavoro nel settore
    terziario. In seguito ci si è resi conto anche delle
    intrinseche differenze di attività che consistono
    nell'offrire servizi anziché produrre beni. Quando si tratta,
    in particolare, di offrire servizi alla persona, si verifica spesso
    una certa intermittenza delle prestazioni, una flessibilizzazione
    dell'orario rispetto a quello standard, un proliferare delle
    richieste di tempo parziale, e così via.
Poiché tali fenomeni hanno marginalmente interessato anche il
    settore industriale, forte è stata la tentazione di
    individuare una tendenza alla 'terziarizzazione' del lavoro tout
    court, cioè alla generalizzazione di tratti tipici del lavoro
    nei servizi a tutte le attività che si svolgono nella
    società postindustriale. Ma si tratta di scenari assai
    semplicistici, derivanti da una visione unilineare del mutamento,
    che hanno presto lasciato il campo a un quadro molto più
    articolato e sfumato, che emerge in particolare dal confronto fra le
    diverse traiettorie di sviluppo seguite dai paesi industriali
    avanzati. Le ricerche di Esping-Andersen (v., 1990, pp. 191 ss.), ad
    esempio, mostrano come tre paesi industrialmente avanzati quali gli
    Stati Uniti, la Germania e la Svezia presentino non solo livelli di
    terziarizzazione differenti, ma anche strutture occupazionali assai
    diverse, con differenti proporzioni di lavori qualificati e lavori
    dequalificati.
Lavoro terziario non è, infatti, sinonimo di lavoro
    più ricco e gratificante, come spesso si sostiene. Se il
    cosiddetto terziario avanzato - cioè le attività di
    servizio all'impresa quali marketing, pubblicità, consulenza
    fiscale, ecc., tradizionalmente svolte dentro l'impresa stessa e poi
    largamente esternalizzate a causa della crescente specializzazione -
    ha visto in effetti lo sviluppo di nuove professioni altamente
    qualificate, ciò non si è invece verificato che in
    piccola parte nelle attività di servizio alla persona. Che il
    contesto lavorativo sia una grande organizzazione pubblica, come un
    ospedale o una piccola impresa privata, come un bar o un servizio di
    recapito postale celere, l'universo emergente dei lavori in questo
    campo vede una netta prevalenza di quelli dequalificati, cioè
    del cosiddetto terziario manuale (v. Esping-Andersen, 1990).
Se non vi è stata, dunque, una terziarizzazione del lavoro,
    si è invece avuta una generale crescita delle forme di lavoro
    'atipico', sia pure con alcune differenze nei vari paesi. Per lavori
    atipici si intendono generalmente quelle attività che mancano
    di uno o più requisiti del lavoro subordinato standard (v.
    Chiesi, 1990). Si tratta dunque di una nozione residuale; come nel
    caso della società 'postindustriale' o dell'organizzazione
    produttiva 'post-fordista', la mancanza di un termine appropriato
    indica la relativa incertezza sulla reale natura del fenomeno.
    È facile cogliere che cosa lo distingue dalle realtà
    tradizionali a cui lo si contrappone, ma meno facile identificarne
    in positivo gli elementi costitutivi. Esempi di queste forme di
    attività atipiche sono il lavoro free-lance (o prestazione
    senza vincolo di subordinazione), il lavoro a domicilio, i rapporti
    a termine, quelli stagionali, quelli retribuiti a risultato, i casi
    di secondo lavoro. Rilevanti sono anche i casi ibridi fra lavoro
    dipendente e attività professionale (come quelli di chi
    svolge una professione alle dipendenze di una organizzazione
    pubblica o privata) e fra lavoro subordinato e attività
    imprenditoriale (come nei contratti di franchising o per molti
    subfornitori strettamente legati a un'impresa più grande).
    Come è stato osservato (v. Accornero, 1992, p. 101), in
    questo caso la natura residuale del termine corrisponde bene alla
    tradizionale marginalità di queste attività rispetto
    al mondo del lavoro ufficiale. Stati e sindacati, legislazione e
    contrattazione, hanno a lungo perseguito l'obiettivo di una
    uniformazione sociale e di una stabilizzazione del lavoro; e in
    questa ottica le forme diverse dal lavoro subordinato standard
    venivano mal tollerate. Ma, a partire dagli anni ottanta,
    l'imperativo aziendale della flessibilità e la
    diversificazione degli stili individuali di vita hanno contribuito
    ad aumentarne la legittimità sociale, e ne hanno quindi
    consentito una notevole espansione. 
    
4. La centralità sociale del lavoro e le
      sue trasformazioni
      
I mutamenti che hanno determinato le nuove caratteristiche del
    lavoro fin qui discusse hanno dato vita, negli ultimi quindici anni,
    a un acceso dibattito fra gli studiosi di scienze sociali sul futuro
    del lavoro stesso.Un interrogativo emerge con forza quando si
    discute sul futuro del lavoro: nella nuova società
    (postindustriale, postmoderna, neoindustriale, o comunque la si
    voglia definire) che si va delineando, il lavoro continuerà
    ad avere quella centralità che indubbiamente ha avuto nella
    fase della società industriale? Continuerà a
    strutturare le condizioni e il tempo di vita della gente, a
    costituire la base della stratificazione sociale, a influenzare
    profondamente il sistema dei valori sociali? La centralità
    sociale del lavoro è un fenomeno moderno, legato
    all'affermarsi del mercato e all'idea che le chances di reddito e di
    vita degli individui dipendano dal suo operare. Per gli antichi
    Greci, ad esempio, il lavoro non era affatto un valore, ma era anzi
    il segno di una condizione sociale inferiore, mentre l'opposto era
    per le attività del tempo libero. È solo da quando,
    per reclutare i potenziali lavoratori, ci si deve affidare al
    'libero' scambio sul mercato del lavoro anziché a strumenti
    coercitivi o alla tradizione, che un'ideologia del lavoro - tesa a
    nobilitare anche le attività più faticose, sporche e
    abbrutenti - si sviluppa in Europa, come complemento dell'etica
    protestante.
Tuttavia questa centralità - che si è tradotta nel
    progressivo affermarsi di una vera e propria 'società del
    lavoro' - è messa oggi in discussione da una importante
    scuola di pensiero (v. Dahrendorf, 1980; v. Offe, 1983; v. Handy,
    1984; v. Gorz, 1988). Secondo Dahrendorf - che è stato
    l'iniziatore di questo dibattito e probabilmente il più
    importante degli autori che vi hanno partecipato - il fattore
    cruciale di questa perdita di centralità va individuato nel
    fatto che il lavoro, in conseguenza dei processi di riduzione degli
    orari, di allungamento del periodo scolare o formativo, di
    anticipazione del pensionamento, e di estensione e organizzazione
    del tempo libero, ha assunto un ruolo meno importante nella vita
    umana (v. Dahrendorf, 1988). Il lavoro inteso come occupazione
    retribuita è diventato socialmente scarso, e da ciò -
    richiamandosi a Hannah Arendt (v., 1958) - si fa discendere un
    passaggio dal regno del 'lavoro' eteronomo a quello
    dell''attività' autonoma, intesa come ciò che facciamo
    come risultato delle nostre intenzioni, desideri e interessi (v.
    Dahrendorf, 1988, p. 113). 
Questa impostazione utopica è fortemente criticata da altri
    autori, alcuni dei quali giungono ad affermare l'opposto:
    cioè che "il lavoro sta diventando la questione personale,
    sociale e politica cruciale degli ultimi anni di questo secolo" (v.
    Pahl, 1988, p. 1). A ben vedere, la ragione della diatriba sta
    precisamente nelle diverse nozioni di lavoro, e nei modi di
    considerarne le trasformazioni, che abbiamo discusso in questo
    articolo. Se si considera solo quella forma tipica costituita
    dall'occupazione dipendente (per lo più maschile e
    manifatturiera) in contesti organizzati, allora non vi sono dubbi
    sulla sua notevole contrazione e quindi sulla crisi della
    società del lavoro. Ma l'analisi precedente ha mostrato che
    emergono nuovi modi di lavorare e che il lavoro si trasforma e
    assume nuove caratteristiche e nuovi significati, senza per questo
    ridurre il suo ruolo complessivo nella società e nella vita
    degli individui. Dunque, la centralità sociale del lavoro
    stesso non appare intaccata. Da un punto di vista generale, si
    può rilevare come il sistema dei valori sociali resti ancora
    largamente centrato sul lavoro. La crisi della sua forma tipica, e
    la conseguente diversificazione delle esperienze lavorative, ha
    fatto definitivamente tramontare le vecchie subculture fortemente
    omogenee e ha contribuito ad articolare il tessuto sociale e il
    quadro dei valori che lo reggono; ma non sembra aver diminuito il
    ruolo del lavoro come fonte di identità, di socialità
    e di orientamento politico-culturale - oltre che di stratificazione
    sociale, come continuano a documentare anche le ricerche più
    recenti. Dal punto di vista soggettivo di chi lavora, le molte
    ricerche esistenti sugli atteggiamenti verso il lavoro sembrano
    indicare, da un lato, un diffuso rifiuto a farne la principale fonte
    di senso e di strutturazione della propria vita, ma, dall'altro
    lato, il permanere del suo ruolo come strumento di valutazione di
    sé e di autostima sociale. Ciò che è più
    importante notare, tuttavia (v. Littler, 1985, p. 278), è che
    il significato attribuito al lavoro varia profondamente per uomini e
    donne, per i lavoratori occidentali e per quelli asiatici, e
    così via. Il che rende ancora più azzardata qualunque
    generalizzazione sulla centralità futura del lavoro
    nell'esperienza soggettiva. 
    
    
    Diritto 
    di Giuseppe Pera
    
    sommario: 1. Concetti generali. 2. La
    rivoluzione industriale. 3. La questione operaia. 4. Il
    sindacalismo. 5. Il sindacalismo e la legge. 6. L'intervento
    pubblico. 7. La soluzione collettivistica. 8. L'alternativa
    corporativistica. 9. L'evoluzione inglese. 10. L'evoluzione
    nordamericana. 11. Il Giappone. 12. L'evoluzione nel continente
    europeo. 13. Previdenza e sicurezza sociale. 14. L'evoluzione
    italiana. 15. La crisi e le sue implicazioni. 16. Il costo del
    lavoro. □ Bibliografia. 
    
1. Concetti generali
Il diritto del lavoro, genericamente inteso, presenta ripartizioni
    interne. In primo luogo il diritto sindacale, cioè quanto
    attiene alla posizione giuridica delle associazioni professionali,
    alla contrattazione collettiva, ai mezzi di autotutela (sciopero e
    serrata). In secondo luogo il diritto del lavoro in senso stretto,
    cioè il rapporto tra le parti del contratto di lavoro, datore
    di lavoro e lavoratore. In terzo luogo almeno la previdenza sociale
    (v. cap. 13). Il diritto del lavoro, quindi, comprende tutto quanto
    attiene, in senso strumentale-istituzionale o di regolamentazione
    dei rapporti, alla condizione del lavoro e alla sua tutela
    nell'esperienza giuridica. Si può anche dire che esso
    riguarda, in senso lato, i diritti che derivano dal fatto di
    lavorare alle dipendenze e a favore di un terzo; ivi compresa la
    libertà di attivarsi per la tutela mediante la coalizione di
    quanti si ritengono accomunati dal medesimo interesse. Si tratta di
    un diritto sviluppatosi all'incirca nella seconda metà
    dell'Ottocento e giunto a maturazione nell'ultimo cinquantennio;
    esso fa corpo con le vicende politico-sociali verificatesi dopo la
    Rivoluzione francese e non è possibile 'depurarlo' dalle
    esigenze emerse nel corpo sociale durante tale periodo. 
    
2. La rivoluzione industriale
La rivoluzione industriale, sviluppatasi dapprima in Inghilterra
    verso la metà del Settecento e poi, con notevoli scarti nel
    tempo, in diversi altri paesi, ha costituito sul piano sociale
    l'humus in cui sono nate e si sono precisate le esigenze e le forze
    motrici di questo settore del diritto rispetto a quello tradizionale
    borghese. Per cercare di capire questa evoluzione non se ne possono
    trascurare le origini, anche se poi, nella sua fase matura, questo
    diritto si è andato estendendo oltre l'industria, in tutti i
    settori dell'economia e anche, talora, oltre l'ambito del lavoro
    subordinato in senso stretto. Ad esempio oggi il diritto italiano
    considera, almeno in parte e solo a certi fini, anche il lavoro
    cosiddetto 'parasubordinato', cioè le forme di
    collaborazione, di per sé autonoma, prevalentemente
    personale, allorquando essa sia continuativa e coordinata dal
    committente (Codice di procedura civile, art. 409 n. 3). 
    
3. La questione operaia
Durante la rivoluzione industriale, nelle manifatture e poi nelle
    fabbriche, andò sorgendo una nuova classe sociale, quella
    degli operai o proletariato, formata da persone strappate ai lavori
    agricoli o artigianali, il cui unico bene era la propria forza
    lavoro in senso materiale, posta al servizio dell'imprenditore (ma
    quando ciò non era possibile si determinava il dramma della
    disoccupazione) e da questi comandata (il datore di lavoro aveva il
    potere giuridico di comandare in ordine alla prestazione e alla
    disciplina nel luogo di lavoro, e poteva altresì sanzionare
    in via disciplinare le eventuali disobbedienze). La rivoluzione
    industriale, con la sua produzione di massa, cancellò
    pressoché interamente i vecchi mestieri e indusse le classi
    dirigenti a eliminare le vecchie forme assistenziali di soccorso al
    pauperismo. Si formò così una vasta 'armata di
    riserva' di manodopera disponibile alla quale era sempre possibile
    attingere, secondo la ferrea legge del rapporto tra domanda e
    offerta di lavoro nel mercato, con salari fissati al minimo
    indispensabile per la sopravvivenza. In tal modo, come notò
    Marx, la condizione dell'operaio moderno risultò per un certo
    aspetto peggiorata rispetto a quella dello schiavo
    dell'antichità o del servo della gleba. Il padrone doveva
    comunque alimentare lo schiavo affinché questo suo bene si
    conservasse, mentre l'imprenditore poteva, senza problemi, liberarsi
    del lavoratore di cui non aveva più bisogno, licenziandolo.
    Si ebbe così la cosiddetta 'dittatura contrattuale' dei
    datori di lavoro. Secondo le categorie del diritto borghese, il
    vincolo che legava datore e lavoratore era, formalmente, un 'libero'
    contratto, stipulato con il consenso del collaboratore. Ma, in
    concreto, le condizioni di questo contratto erano fissate dalla
    parte datoriale e l'operaio doveva accettarle o rinunciare al lavoro
    riducendosi alla disoccupazione e alla fame. Ancora oggi, del resto,
    le condizioni di lavoro, di norma, sono dettate unilateralmente
    dalla parte datoriale, in un contratto d'adesione; ma vi sono
    precisi limiti al potere datoriale fissati dalla legge e dalla
    contrattazione sindacale. Come talora è stato detto, si
    è almeno passati dalla monarchia assoluta a quella
    'costituzionale'. Si deve poi ricordare che, per molto tempo, i
    lavoratori come classe furono svantaggiati anche sul piano politico.
    Nei regimi costituzionali a 'democrazia censitaria' il voto era
    limitato per ragioni di cultura e di censo (e di norma la cultura
    era legata al censo). In Italia, ad esempio, il suffragio universale
    maschile si ebbe solo nel 1913 (quello femminile nel 1946). Tutto
    giocava contro le classi lavoratrici, anche sul piano processuale:
    per il Codice Napoleonico, nel dubbio, il giudice doveva credere al
    padrone e non attribuire attendibilità al lavoratore.Non vi
    era nulla di artificiale in questa concezione, dato che essa
    scaturiva dalle teorie rigide del primo liberismo, secondo le quali
    la legge della società era quella della concorrenza degli
    egoismi individuali e il potere doveva essere riservato a quanti
    avessero vinto nella dura lotta per l'esistenza. 
    
4. Il sindacalismo
La risposta naturale a tale situazione fu lo sviluppo delle
    organizzazioni sindacali, dapprima in forma di coalizioni
    temporanee, sorte per conflitti specifici, e poi in forma di
    associazioni stabili. In linea generale, il sindacato è il
    raggruppamento di quanti nel mondo del lavoro (lavoratori e datori)
    ritengono di essere accomunati da un identico interesse nei
    confronti della controparte, secondo lo schieramento di classe.In
    termini più specifici, il sindacalismo dei lavoratori nasce
    dalla consapevolezza dell'impotenza individuale di fronte al
    padrone; da qui l'imperativo di raccogliersi in un 'fascio' e di
    costringere gli imprenditori a trattare con l'entità
    collettiva. Ne deriva il contratto collettivo, cioè la
    regolamentazione, tra padronato e sindacato, delle condizioni di
    lavoro, al fine di determinare i diritti rispettivi delle parti del
    contratto individuale di lavoro (parte normativa) nonché i
    salari (i primi contratti ebbero a oggetto esclusivo la
    determinazione della tariffa salariale, per cui si chiamarono
    'concordati di tariffa'). Lo strumento per piegare il padronato alla
    trattativa è lo sciopero, cioè l'astensione generale
    dal lavoro. Sindacato, contratto collettivo, sciopero sono i tre
    pilastri dell'azione dei lavoratori. Di fronte al sindacato
    c'è in un primo momento la singola impresa, che può
    ben essere parte della contrattazione (contratto collettivo
    aziendale); ma anche le imprese formano col tempo le loro
    organizzazioni sindacali: si tratta, in questo caso, di un
    sindacalismo di risposta a quello dei lavoratori. Dopo di che tra il
    sindacalismo dell'una e dell'altra sponda si stabiliscono
    persistenti relazioni conflittuali, nel giuoco al compromesso
    periodico. Si hanno, così, le relazioni industriali
    (espressione d'origine anglosassone); ma è meglio parlare,
    data la diffusione del fenomeno oltre i confini dell'industria, di
    relazioni sindacali.
Il sindacalismo presenta una grande varietà di strutture
    organizzative. In tutti i paesi, nelle prime esperienze, il
    sindacato fu in prevalenza di mestiere, cioè un
    raggruppamento di lavoratori accomunati dalla stessa qualifica
    professionale specifica (ad esempio i carpentieri), che operava in
    qualsivoglia settore dell'attività economica. Nella prima
    fase, per quanti avevano una qualificazione professionale precisa,
    fu facile organizzarsi, mentre restava esclusa la gran massa della
    manodopera non qualificata. Tali organizzazioni esprimevano i
    mestieri dell'epoca preindustriale e pertanto in ogni tipo
    d'industria l'imprenditorialità aveva a che fare con
    più organizzazioni sindacali: si componeva il conflitto con
    un certo sindacato e subito dopo ne sorgeva un altro con un diverso
    sindacato, con inevitabili complicazioni.
In una fase successiva (allorché si organizzò anche la
    manodopera generica) in tutti i paesi si passò a un diverso
    modello, ancor oggi prevalente, quello del sindacato d'industria,
    che raggruppa tutti i lavoratori di ogni tipo di
    professionalità e livello secondo i diversi settori: ad
    esempio metalmeccanico, tessile, ecc. Quando oggi, con formula
    abbreviata, parliamo di sindacato 'dei chimici' alludiamo non solo
    ai lavoratori che hanno competenza specifica per la chimica, ma a
    tutti i dipendenti dell'industria chimica: i chimici, ma anche gli
    impiegati amministrativi, i custodi, tutti coloro che lavorano in
    questo tipo d'impresa, dal più basso al più alto
    livello, con l'esclusione dei dirigenti, che hanno una loro
    specifica organizzazione sindacale. Lo stesso avviene, in Italia,
    per la nuova categoria dei quadri, riconosciuta con una legge del
    1985. Altre organizzazioni di mestiere sono sorte ultimamente per
    specifiche professionalità, in dissenso con il sindacalismo
    tradizionale onnicomprensivo, accusato di praticare una politica
    egualitaria; questo è avvenuto, ad esempio, nel caso dei
    macchinisti delle ferrovie. Per altro verso il sindacato è
    una organizzazione complessa. In Italia e in Francia sussistono
    varie confederazioni (o centrali) divise, almeno originariamente,
    secondo la diversa ispirazione ideologica e, talora, anche
    partitica. La confederazione è un'associazione complessa, una
    associazione di associazioni; in essa confluiscono i diversi
    sindacati di categoria, ognuno dei quali ha le sue strutture
    territorialmente decentrate: sindacati provinciali, comunali, ecc. A
    livello periferico esistono orizzontalmente istanze di collegamento
    tra le organizzazioni periferiche dei diversi sindacati, in funzione
    di servizi comuni (immobili, impiegati, ecc.). In Italia,
    tradizionalmente, queste istanze di collegamento sono rappresentate
    dalle camere del lavoro. Le diverse istanze sindacali sono, ai vari
    livelli, agenti contrattuali, parti stipulanti della contrattazione
    collettiva. In Italia le confederazioni stipulano talora, per
    questioni generalissime che interessano tutto il mondo del lavoro
    (ad esempio in tema di scala mobile dei salari, v. cap. 16, o per le
    rappresentanze sindacali a livello d'impresa), accordi
    interconfederali. Agenti contrattuali massimi sono i sindacati
    nazionali di categoria, che stipulano, appunto, il contratto
    collettivo nazionale, una sorta di piccolo codice a portata
    normativa, con la regolamentazione delle condizioni di lavoro.
    Possono esservi, inoltre, contratti provinciali e, soprattutto,
    contratti aziendali, con delicati problemi in ordine ai rapporti tra
    i contratti di diverso livello. Tutto questo è costitutivo
    della normativa dei rapporti di lavoro; del resto, il Codice civile
    afferma, in linea generale, che il contratto ha forza di legge tra
    le parti. 
    
5. Il sindacalismo e la legge
 
Quale sia in concreto la situazione del sindacalismo risulta dalla
    diversa qualificazione dello sciopero nei vari ordinamenti. Secondo
    una fortunata formula di Calamandrei, storicamente lo sciopero
    è stato variamente qualificato o come reato o come
    libertà o come diritto.Alle origini il regime fu ovunque di
    repressione legale; nel pieno della Rivoluzione francese la legge Le
    Chapelier proscrisse le organizzazioni professionali. Il delitto di
    coalizione (formalmente anche di serrata, cioè la sospensione
    dell'attività per decisione imprenditoriale a fini di lotta
    sindacale) fu presente nelle varie legislazioni e nei diversi
    codici.
Nella più arcaica concezione liberistica, infatti, il
    sindacalismo era valutato negativamente, come un assurdo tentativo
    di intralciare il libero giuoco naturale della concorrenza nei
    rapporti tra offerta e domanda di lavoro. Il salario era considerato
    un prezzo di mercato come tutti gli altri.Con tempi diversi nei vari
    paesi, il reato venne poi soppresso e la legge penale non
    considerò più tale lo sciopero: il sindacato si era
    imposto con la sua grande capacità di lotta. Maturò
    quindi una diversa concezione neoliberale (rappresentata in Italia
    da Einaudi) secondo cui la libertà sindacale dei lavoratori
    costituiva una naturale libertà di tutela degli interessi,
    alla pari delle altre libertà. Si passò, così,
    alla tolleranza legale. Non si trattava, tuttavia, di una
    libertà garantita in senso proprio, in quanto, sul piano del
    rapporto individuale di lavoro, secondo le tradizionali categorie
    privatistiche, era diffusa l'opinione che lo sciopero, come rifiuto
    del lavoro dovuto per contratto, si traducesse in inadempimento
    contrattuale suscettibile di sanzioni disciplinari o di
    licenziamento. Ma di fatto, in una situazione sindacalmente forte,
    queste reazioni padronali restarono solo teoriche.
Nella terza e ultima fase, formalmente compiuta in alcuni
    ordinamenti contemporanei (ad esempio in Italia con l'art. 40 della
    Costituzione, che riprese il preambolo della Costituzione francese
    del 1946), lo sciopero diventa diritto su tutti i piani, senza
    possibilità di sanzioni penali o civili.Spesso i patti di
    lavoro sono socialmente iniqui ed è giusto, si disse, che i
    lavoratori abbiano un'arma per ricondurli a equità. Solo
    eccezionalmente i fatti di azione diretta sono inibiti ed espongono
    a possibili reazioni: nel nostro ordinamento, per ragioni di
    sicurezza, lo sciopero è impedito nelle attività
    nucleari e, di recente, sono state introdotte sanzioni anche nella
    legge sullo sciopero dei servizi pubblici essenziali. 
    
6. L'intervento pubblico
Negli ordinamenti contemporanei vi è un intreccio costante
    tra regolamentazione sindacale-contrattuale e disciplina di legge.
    Lungo tutto il corso dell'Ottocento vennero progressivamente
    approvate le diverse leggi sul lavoro, in modo però del tutto
    episodico e occasionale. A poco a poco gli Stati abbandonavano il
    dogma del non intervento in questioni economico-sociali (proclamato
    dall'originario liberismo assoluto) e in diverse occasioni si
    reputò inevitabile l'intervento statale per ragioni di ordine
    pubblico. Si sviluppò, così, un corpo di leggi
    variamente denominato come legislazione sociale, operaia ecc.In
    linea generale, il primo intervento fu ovunque quello a tutela delle
    cosiddette 'mezze forze', cioè bambini e donne. Durante la
    prima rivoluzione industriale questi lavoratori di ridotte
    capacità fisiche (anche bambini in tenera età) vennero
    utilizzati su larga scala e questo determinò forti
    preoccupazioni, soprattutto nelle diverse correnti del filantropismo
    sociale (molti esponenti socialisti infatti erano medici), per le
    ripercussioni che ciò poteva avere sulla loro
    salute.Successivamente, e in particolare in questo secolo, lo
    sviluppo della legislazione è stato ingente, e ha interessato
    praticamente tutti gli aspetti centrali dei rapporti di lavoro. In
    taluni ordinamenti, come quello italiano a partire dal 1948, la
    legislazione del lavoro è costituzionalmente dovuta. Per la
    nostra Costituzione il lavoro deve essere protetto in tutte le forme
    e applicazioni, lo Stato deve garantire il diritto al lavoro, una
    giusta retribuzione, la disciplina dell'orario, ecc.In epoca
    più recente è stata adottata una legislazione
    limitativa dei licenziamenti, per i quali si richiede un
    giustificato motivo che deve essere comprovato dal datore di lavoro.
    Nella combinazione di legge e di contrattazione sindacale, ben poco
    spazio resta quindi per la terza fonte regolatrice dei rapporti di
    lavoro, cioè per il contratto individuale. 
    
7. La soluzione collettivistica
Tutto quanto è stato detto finora si è verificato
    nelle società borghesi-capitalistiche tradizionali, rimaste
    immutate nei loro pilastri malgrado il forte condizionamento che
    esse hanno subito nella direzione del benessere sociale. Per avere
    un quadro completo del problema, si deve aggiungere che questa
    evoluzione del sistema ha conosciuto delle alternative radicali,
    perseguite storicamente nell'ambito del filone socialcomunista, che
    tendevano a una piena emancipazione dei lavoratori attraverso un
    cambiamento del sistema stesso. Per i socialisti d'ispirazione
    marxista, che partivano dall'interpretazione della storia come lotta
    di classe, il cambiamento finale doveva verificarsi con l'integrale
    collettivizzazione dell'economia e con l'egemonia proletaria. Il
    Partito Socialista Italiano, ad esempio, si costituì a Genova
    nell'agosto del 1892, ponendosi l'obiettivo minimo della lotta dei
    'mestieri' (cioè sindacale) nonché l'obiettivo della
    lotta politica per la distruzione integrale dell'ordine borghese. In
    quasi tutta l'Europa continentale, e in particolare nel centro e nel
    nord, di fatto si ebbe uno sviluppo in senso
    social-democratico-riformista, grazie alla diffusione di potenti
    movimenti sindacali legati a forti partiti presenti con
    rappresentanti sempre più numerosi nelle aule parlamentari e
    orientati verso una politica gradualistica dei piccoli passi. Un
    cambiamento radicale si ebbe nell'ex impero zarista con la
    Rivoluzione dell'ottobre 1917 e l'avvento al potere, in forme
    dittatoriali, del partito comunista bolscevico. L'economia venne
    pressoché interamente collettivizzata, con la motivazione che
    ora i lavoratori erano al governo. Nell'ambito dell'economia
    pianificata venne meno il sindacalismo con le sue funzioni
    tradizionali. I salari costituivano solo, ovviamente, un capitolo
    del piano economico quinquennale; inoltre, essendo il partito della
    classe operaia al governo, lo sciopero non aveva più ragion
    d'essere. I sindacati sopravvissero come 'cinghie di trasmissione'
    tra il partito e le masse; a essi vennero conferite funzioni
    importanti di gestione del sistema previdenziale. Dopo il secondo
    conflitto mondiale questo modello venne esteso di massima alle
    'democrazie popolari' dell'Est e si affermò poi in tutti i
    paesi a egemonia comunista. Com'è noto questo sistema
    è crollato nel 1989. Ora in quei paesi si va, confusamente e
    con molte tensioni, verso la privatizzazione dell'economia e verso
    il mercato. Sono tornati i sindacati in senso tradizionale ed
    è tornato, di fatto, lo sciopero. È una evoluzione in
    corso, di cui non è facile prevedere gli sbocchi. 
    
8. L'alternativa corporativistica
Nel tentativo di risolvere la questione sociale è stata anche
    praticata un'altra alternativa volta ad affermare la collaborazione
    di classe in luogo della lotta. Prima di descrivere brevemente le
    diverse soluzioni organiche, occorre ricordare che vi sono sempre
    stati, nell'ambito dei più diversi filoni ideologici, anche
    in quello di un liberalismo socialmente illuminato, numerosi
    tentativi orientati a eliminare, o quanto meno a ridurre,
    l'antagonismo di classe: ad esempio associando i lavoratori (e le
    loro organizzazioni rappresentative) alla gestione delle aziende
    (nella convinzione che se i rappresentanti del lavoro avessero
    partecipato ai consigli di amministrazione si sarebbero resi conto
    dei vincoli economici alle contrattazioni); oppure dando vita
    all'azionariato operaio, cioè facendo diventare i lavoratori
    compartecipi del capitale. Si potrebbe anche ricordare il contributo
    di Mazzini ("capitale e lavoro nelle stesse mani"), ma le soluzioni
    organiche tentate sono state quella cattolica e quella
    autoritario-fascista. La scuola cristiano-sociale (espressa nelle
    encicliche Rerum Novarum di Leone XIII e Quadragesimo
      Anno di Pio XI) partiva da una denuncia dei mali sociali
    indotti dal capitalismo liberista non meno violenta di quella dei
    socialisti, imputando ai liberali di aver dimenticato che l'uomo,
    oltre che cittadino, è anche produttore, concretamente
    inserito in un tessuto di corpi intermedi. Si riconosceva la piena
    legittimità della tutela degli interessi di categoria e,
    quindi, del sindacato; i conflitti del lavoro però non
    dovevano degenerare nelle forme rovinose della lotta di classe
    contro l'interesse generale superiore e doveva essere istituita una
    magistratura del lavoro per affrontarli pacificamente. I teorici di
    questo corporativismo (ad esempio Giuseppe Toniolo) rispolveravano
    quello medievale. Infine si auspicava, sul piano costituzionale,
    l'introduzione di un senato rappresentativo delle professioni e
    delle autonomie accanto alla camera politica. Questa scuola,
    tuttavia, non tradusse mai in realtà le sue idee (fatta
    eccezione, forse, per l'esperimento Dollfuss, in Austria, tra le due
    guerre). Diverse forme di attuazione ebbe invece, nello stesso
    periodo, il corporativismo d'ispirazione nazionalistico-autoritaria
    di destra; ma con non trascurabili differenze tra i diversi paesi.
    Antesignana fu l'esperienza fascista italiana. Come nel caso dei
    cristiano-sociali, queste esperienze intesero superare sul piano
    ideologico i due estremismi, ritenuti egualmente negativi, del
    liberalismo e del socialismo; anch'esse ricercarono, nella
    collaborazione tra le classi, il perseguimento dell'interesse
    superiore della nazione e dello Stato: una via intermedia che
    intendeva riaffermare l'assetto privatistico-proprietario ma con un
    incisivo condizionamento sociale. Si ebbe una prima fase
    esclusivamente sindacale e una seconda definita più
    propriamente corporativa.
Nell'aprile del 1926 venne varata la fondamentale legge Rocco e nel
    1927 il Gran Consiglio del Fascismo approvò la Carta del
    lavoro, che esprimeva i principî generali dell'ordinamento,
    tradotti poi sul piano giuridico da una successiva legge del 1941.
    Secondo tali principî, l'inquadramento collettivo delle
    categorie veniva realizzato dall'alto, attraverso provvedimenti
    ministeriali, ma si ammetteva il riconoscimento giuridico di una
    organizzazione sindacale per ogni categoria. Più
    precisamente, pur venendo riaffermata la libertà sindacale
    sul piano teorico e quindi una possibile pluralità di
    organizzazioni, il governo poteva del tutto discrezionalmente
    riconoscere un solo sindacato; requisito sufficiente e necessario
    era la rappresentatività di almeno il 10% della categoria
    (quindi non la maggioranza) e il fatto che l'organizzazione fosse
    diretta da uomini di "sicura fede nazionale" (cioè fascista);
    nel contempo, i precedenti sindacati liberi venivano sciolti. Il
    sindacato riconosciuto acquisiva la personalità giuridica di
    diritto pubblico (con soggezione al controllo sugli atti da parte
    degli organi di governo) e quindi si vedeva riconosciuta la
    rappresentanza legale della categoria. In ragione di questa
    rappresentatività esclusiva, il contratto collettivo diveniva
    generalmente obbligatorio; mentre nel contratto individuale erano
    possibili pattuizioni difformi rispetto al contratto collettivo solo
    se più favorevoli al lavoratore (Codice civile, art. 2077).
    La pubblicistica del regime esaltò questa 'conquista', a
    seguito della quale si affermava che era stato raggiunto un
    risultato che le vecchie democrazie parlamentari avevano invano
    perseguito.
Per la risoluzione dei conflitti collettivi di lavoro era inibito,
    invece, il ricorso allo sciopero e alla serrata, che tornavano a
    essere reati; in caso di conflitto si doveva far ricorso alla
    magistratura del lavoro, che poteva emanare una sentenza sostitutiva
    del contratto collettivo mancato.La fase cosiddetta corporativa,
    iniziata formalmente nel 1930 e mai giunta a conclusione (come fu
    ufficialmente riconosciuto), mirava alla realizzazione di un
    obiettivo più ambizioso: la programmazione dell'economia non
    secondo il modello dirigistico sovietico, ma sulla base
    dell'autogoverno dei produttori, anche se subordinato all'interesse
    superiore. Più precisamente, per ogni settore dell'economia i
    vari sindacati sarebbero stati collegati in un'entità di
    diritto pubblico, la corporazione, che poteva regolamentare le varie
    attività emanando ordinanze corporative. Le corporazioni
    vennero costituite nel 1934, ma furono scarsamente incisive;
    successivamente venne soppressa la vecchia Camera dei deputati e in
    suo luogo, nel 1939, venne costituita la 'Camera dei fasci e delle
    corporazioni', che riuniva i due massimi organi direttivi del
    partito e delle corporazioni; chi occupava certe cariche era
    automaticamente consultore nazionale, per il principio della
    rappresentanza 'istituzionale' (in base al quale colui che occupa
    certe posizioni è automaticamente rappresentativo).Il modello
    italiano venne largamente ripreso dal Portogallo, sotto la dittatura
    di Salazar. Seguì l'esperienza spagnola del franchismo, ma
    con notevoli differenze rispetto all'originale; ad esempio la
    contrapposizione di classe, formalmente mantenuta nel modello
    italiano, venne eliminata in Spagna con il sindacato misto, che
    raggruppava insieme datori di lavoro e lavoratori.
Ideologicamente ispirata a questi principî fu anche
    l'esperienza nazionalsocialista, peraltro assai diversa sul piano
    istituzionale. In Germania tutti i vecchi sindacati vennero
    soppressi e non vennero sostituiti da organizzazioni legate al
    regime. Il Fronte Tedesco del Lavoro era una colossale
    organizzazione non sindacale, che raggruppava datori e lavoratori
    con compiti propagandistici e dopolavoristici. Tutto venne impostato
    rigidamente secondo il Führerprinzip. Al vertice del sistema
    c'era il Führer con i suoi ministri; non erano ammesse
    entità antagonistiche, in quanto non era possibile incrinare
    il principio dell'unità totalitaria. Nelle imprese il datore
    di lavoro, assistito soltanto da un 'consiglio di fiducia' reclutato
    fra il personale, era egualmente il capo, subordinato al governo ma
    con pienezza di poteri sui lavoratori.Tentativi di soluzione
    corporativa furono attuati, sempre tra le due guerre, in altri paesi
    europei a regime autoritario e anche altrove: si pensi, ad esempio,
    al Brasile di Vargas. Nel secondo dopoguerra, inoltre, si
    affermò in Argentina il regime di Peron, con sue specifiche
    particolarità. 
    
9. L'evoluzione inglese
L'Inghilterra ha conosciuto per prima lo sviluppo del sindacalismo
    (con le Trade Unions: unioni di mestiere), in quanto in questo
    paese, già nel Settecento, la rivoluzione industriale
    cominciò a svilupparsi in proporzioni imponenti (al punto che
    l'agricoltura diventò marginale nell'ambito del sistema
    economico complessivo).Già nel 1824-1826 vennero approvate
    leggi che attenuarono un poco il regime di repressione legale del
    sindacalismo. Da allora lo sviluppo sindacale fu inarrestabile;
    inoltre, intorno agli anni sessanta del secolo scorso si
    attuò per la gran parte il passaggio dal sindacato di
    mestiere a quello d'industria (anche se la prima formula è
    sopravvissuta). Con le leggi del 1871 (Trade Union act) e del 1875
    (Conspirancy and protection of property act) sul piano penalistico
    si determinò il passaggio alla tolleranza legale del
    sindacato; questa trasformazione avvenne, singolarmente, a opera di
    una maggioranza conservatrice nell'ambito di una contrapposizione
    elettorale con i liberali. Merita sottolineare con quale tecnica si
    sia attuato questo passaggio nel particolare contesto del diritto
    britannico. In un paese che non aveva e non ha costituzione scritta
    e dove impera la common law, la riforma si realizzò in
    termini di immunità dalle possibili interferenze
    statuali-legali; nel senso che, rispetto ai fatti di azione diretta
    in ambito sociale, la legge negava la possibilità di azione
    in giudizio; i sindacalisti, cioè, non potevano più
    essere incriminati per i loro specifici comportamenti.
Si ebbe così lo sviluppo del diritto del lavoro,
    caratterizzato da un basso tasso di regolamentazione legislativa,
    più accentuato solo rispetto a taluni aspetti (ad esempio la
    tutela delle 'mezze forze') e arricchito attraverso la
    contrattazione collettiva, che pure non era nemmeno essa formalmente
    riconosciuta nell'ordinamento. Il contratto collettivo non prevedeva
    sanzioni legali, ma valeva di fatto, come 'contratto tra
    gentiluomini', il cui rispetto era legato alla forte presenza delle
    organizzazioni sindacali. Strumento specifico dell'egemonia
    sindacale furono le cosiddette clausole di sovranità
    sindacale (largamente diffuse anche nel diritto statunitense):
    clausole di varia intensità cogente, con l'obbligo per il
    datore di lavoro di assumere solo lavoratori iscritti al sindacato o
    con l'obbligo per i lavoratori dell'impresa di iscriversi al
    sindacato entro un certo termine, pena il licenziamento. Da queste
    clausole derivarono controversie che si sono trascinate fino a epoca
    recente.
Immediatamente dopo si aprì un nuovo capitolo sul piano dei
    rapporti tra sindacalismo e legge. Se non era più possibile,
    di massima, perseguire penalmente per i fatti d'azione diretta, era
    tuttavia possibile, secondo i principî della common law, agire
    civilmente contro il sindacato promotore dello sciopero, proponendo
    azione risarcitoria per i danni conseguenti all'ingiustificata
    'rottura' degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro. Si
    sviluppò pertanto una massiccia offensiva giudiziaria (ad
    esempio l'affare Taff Vale), che ottenne dai giudici numerose
    sentenze di condanna di facile esecuzione sul non irrilevante
    patrimonio delle Unioni. Si decise allora di agire sul piano
    politico-parlamentare, cercando di far approvare una legge che
    riconoscesse l'immunità sindacale anche sul piano civile. In
    occasione delle elezioni del 1900 vennero eletti alcuni deputati
    legati ai sindacati e poco dopo venne costituito il Partito
    Laburista: un partito con caratteristiche peculiari formato non solo
    attraverso adesioni individuali, secondo il modello continentale
    (partito 'territoriale'), ma soprattutto grazie all'affiliazione dei
    sindacati, nonché di altre organizzazioni del lavoro. In
    quanto tale, questo partito raggruppava formalmente milioni di
    aderenti (che erano individualmente liberi di votare per uno degli
    altri due partiti, il conservatore e il liberale). Si ebbe
    così, senza alcun ideologismo, il partito del lavoro,
    caratterizzato da un legame organico col sindacalismo che solo
    recentemente è venuto meno. La battaglia venne vinta e con
    una legge del 1906 (Trade disputes act) vennero 'tagliate le unghie'
    alla magistratura. 
Successivamente sorse una questione legale in ordine alla
    liceità o meno del finanziamento sindacale del partito
    politico. Un operaio, certo Osborne, fece causa per impedire al
    sindacato di versare parte della sua contribuzione al partito. Venne
    quindi approvata una legge, nel 1913, che legalizzò tale
    forma di finanziamento, prevedendo tuttavia la facoltà
    individuale di sottrarvisi. A questo punto il sistema britannico di
    'democrazia industriale' era consolidato, arrivando spesso a
    costituire un modello per gli stranieri (ad esempio nella
    teorizzazione di Luigi Einaudi).Pochi cenni sugli sviluppi
    successivi. A seguito del grande sciopero del 1926 nel settore del
    carbone, l'anno successivo venne emanata una legge 'antisindacale',
    che prevedeva talune restrizioni per il diritto di sciopero e altre
    limitazioni. Il Partito Laburista, vittorioso nel 1945, per 'onor di
    firma' fece abrogare la legge del 1927, anche se per diversi anni,
    nel difficile periodo del dopoguerra, venne istituito l'arbitrato
    obbligatorio per i conflitti di lavoro con proibizione dello
    sciopero. Si tornò poi alla normalità, ma
    reiteratamente, sia coi governi conservatori che con quelli
    laburisti, le relazioni industriali furono rimesse in discussione,
    in particolare sul punto decisivo della politica dei redditi. Infine
    con il governo conservatore degli anni ottanta, nel quadro di
    declino della potenza britannica, il sistema è profondamente
    cambiato, con decisivi interventi legislativi che hanno scalzato
    l'antica egemonia dell'unionismo, riportando il sistema verso il
    modello continentale. 
    
10. L'evoluzione nordamericana
Nella grande democrazia nordamericana il sindacalismo e il diritto
    del lavoro si sono sviluppati tardivamente, non già per un
    ritardo della rivoluzione industriale, ma a causa di altri specifici
    fattori; in particolare perché, fino alla fine
    dell'Ottocento, vi era la 'frontiera aperta' dall'Atlantico verso il
    Pacifico. Offrendo la possibilità di spostarsi per acquisire
    nuove terre, essa costituiva la grande valvola di sfogo di tutte le
    potenziali tensioni sociali, in una situazione caratterizzata da un
    naturale individualismo.Un ruolo importante ebbe anche la struttura
    federale, nel giuoco delle competenze tra i singoli Stati e la
    Confederazione; quest'ultima era costretta a cercare di far passare
    i primi interventi di legislazione sociale tra le maglie strette
    della competenza federale. I primi interventi a favore delle 'mezze
    forze' furono pertanto presentati come atti tesi a disciplinare il
    commercio 'interstatale', nel senso che la Confederazione poteva
    inibire la circolazione dei prodotti provenienti da fabbriche ove
    era diffuso uno sfruttamento indiscriminato di queste forze.
Solo sul finire dell'Ottocento si ebbe un certo sviluppo del
    sindacalismo. A parte l'azione pionieristica e presindacale
    dell'associazione detta dei 'Cavalieri del lavoro', costituitasi nel
    1869, solo nel 1881 si costituì la Federazione Americana del
    Lavoro come centrale dei sindacati di mestiere. Nel 1938 si ebbe una
    scissione che portò alla costituzione del Congresso delle
    Organizzazioni Industriali (CIO), basato sulla diversa formula
    organizzativa del sindacalismo d'industria; successivamente le due
    centrali si sono collegate tra loro. La caratteristica specifica del
    sindacalismo statunitense è la neutralità ideologica:
    mentre in Europa il sindacalismo è sempre stato variamente
    collegato a partiti politici, in America il movimento ha sempre
    accettato l'ideologia corrente della libera impresa e del mercato.
    Ma questo non significa totale disimpegno politico. Posto che dei
    due partiti tradizionali, il repubblicano e il democratico, il
    secondo ha una maggiore attenzione per il mondo del lavoro, il
    sindacalismo solitamente lo appoggia secondo la parola d'ordine
    'aiutare gli amici e punire i nemici', cioè far eleggere
    possibilmente parlamentari favorevoli al mondo del lavoro e
    boicottarne gli avversari. Anche negli Stati Uniti si ebbe un lungo
    periodo di repressione legale dell'attività sindacale,
    seguito poi da un graduale passaggio alla tolleranza, seppure nella
    decisa opposizione del mondo imprenditoriale, che spesso
    cercò di dar vita a forme rappresentative del personale poste
    sotto il suo controllo (company unions o sindacalismo 'giallo').
Dopo alcuni interventi ispirati alla tolleranza, soprattutto per
    inibire o contenere la pratica delle ingiunzioni giudiziarie
    antisindacali (come la legge Norris-La Guardia del 1932, a seguito
    della grande crisi del 1929), la svolta decisiva si ebbe col New
    Deal di Roosevelt e col riconoscimento della libertà d'azione
    sindacale. Ma un primo intervento in questo senso si scontrò
    con l'opposizione della Corte Suprema, per cui il Presidente
    reagì minacciando una diversa composizione della Corte
    medesima. Si arrivò così alla legge Wagner del 1935,
    secondo la quale i lavoratori erano chiamati a esprimere in libere
    votazioni la loro volontà in materia, nell'ambito di units
    discrezionalmente determinate in vario modo (al livello di singola
    azienda, a diverso raggio territoriale, di categoria)
    dall'Amministrazione. In base a tale legge, i lavoratori possono
    rifiutare il sindacato preferendo la libertà del contratto
    individuale, oppure possono conferire la rappresentanza a un
    sindacato che ne ha l'esclusiva per un periodo predeterminato e che
    deve essere accettato dalla controparte datoriale. Nel 1947 si ebbe
    poi la legge Taft-Hartley, a carattere nettamente restrittivo;
    ultimamente si è avuta una svolta in senso nettamente
    liberistico durante la presidenza Reagan, mentre è ancora in
    via di realizzazione la virata impressa dall'attuale amministrazione
    Clinton.In quest'immenso paese il sindacalismo è stato ed
    è egemone solo in aree ristrette, mentre nel complesso il
    grado di sindacalizzazione è assai più basso della
    media europea. 
    
11. Il Giappone
Un breve cenno merita l'esperienza giapponese, così lontana
    da quella occidentale. Formalmente il Giappone riconosce la
    libertà sindacale con le sue tipiche manifestazioni; di
    fatto, vi sono però alcune peculiarità che
    fondamentalmente non hanno base in testi formali di legge,
    bensì nella concezione sociale diffusa in un paese in cui il
    sottofondo feudale-patriarcale è tuttora presente. Vi
    è una netta distinzione tra la manodopera assunta in forma
    stabile e il precariato. Di norma, per la copertura dell'organico
    permanentemente necessario, i lavoratori assunti, salva l'ipotesi
    della giusta causa, restano in servizio per tutta la vita, fino al
    pensionamento, in un rapporto di fedeltà all'impresa; vi
    è poi la grande massa della manodopera precaria e fluttuante,
    utilizzata a seconda dell'andamento della congiuntura. In sostanza
    siamo quindi in presenza di un contesto in cui domina l'ideologia
    comunitaria e solidaristica. Secondo lo stesso ordine d'idee, le
    imprese sogliono assumere, una volta all'anno, una certa aliquota di
    lavoratori, anche se non suscettibili di utile impiego
    nell'immediato. Sotto questo aspetto l'impresa opera come
    istituzione sociale. Anche altrove, del resto, al di là del
    dato formale, si risente l'influsso di convinzioni radicate nel
    comune sentire. In Germania, ad esempio, domina tuttora la
    convinzione che i pubblici dipendenti, in quanto al servizio della
    nazione, debbano di massima astenersi dallo sciopero. 
    
12. L'evoluzione nel continente europeo
In tutti i paesi dell'Europa occidentale e settentrionale si
    è avuto lo stesso processo di avanzata del sindacalismo e di
    incremento della legislazione sociale. Specialmente nella prima
    fase, il sindacalismo fu spesso diviso in centrali di diversa
    ispirazione ideologica: socialdemocratica, socialcristiana e talora
    liberale, come nel caso della Germania imperiale. Un incremento
    particolarmente rilevante della legislazione sociale si ebbe nella
    Germania di Weimar tra le due guerre; un incremento che aveva come
    punto di riferimento la Costituzione del 1919 con la sua larga
    ispirazione sociale, anche se restava inattuato il disegno di
    combinare armoniosamente il parlamentarismo d'ispirazione liberale
    con la strutturazione consiliare in materia
    economico-sociale.Marcate sono state, e in parte sono tuttora, le
    differenze tra i paesi latini e gli altri. In Francia, in Italia e
    anche in Spagna il sindacalismo è più nettamente
    diviso secondo l'ispirazione ideologica; nel primo paese fu a lungo
    egemone nella CGT il sindacalismo rivoluzionario teorizzato da
    Sorel. In questo paese il sindacato non ha mai avuto un forte
    livello di rappresentatività e ciò ha determinato
    talora conflitti tra base e apparato. Il sindacalismo dei paesi
    latini è generalmente più turbolento, come risulta in
    particolare dalle modalità dello sciopero: di norma si
    ricorre infatti allo sciopero articolato, a singhiozzo (alternando
    astensione dal lavoro e ripresa, almeno formale, dello stesso), a
    scacchiera (a turno tra i vari reparti) o altrimenti in varia
    combinazione, con l'obiettivo di disorganizzare al massimo la
    produzione, col minimo danno per i lavoratori in termini di
    riduzione retributiva. Tutto questo ha determinato aspri dibattiti
    dottrinari, e soprattutto giurisprudenziali, in merito alla
    distinzione tra forme lecite e non di azione diretta.
Nei paesi nordici la situazione è del tutto diversa. Il
    sindacalismo è forte e compatto ed è in genere
    collegato ai partiti socialdemocratici, che in molti casi guidano
    anche il governo, e ha al suo attivo imponenti realizzazioni di
    tutela sociale. Secondo quanto emerge in larga parte della
    pubblicistica, in questi casi saremmo in presenza di un sistema
    'neocorporativo' o 'neocorporato', basato sul confronto e l'accordo
    tra il governo e le parti sociali fortemente istituzionalizzate sul
    piano associativo, dove la pace negli ambienti di lavoro è
    normale e la lotta eccezionale. 
    
13. Previdenza e sicurezza sociale
Parallelamente al processo descritto si è andata sviluppando
    ovunque la previdenza sociale, istituto che fa parte in senso lato
    del diritto del lavoro. Oltre al posto di lavoro e a una giusta
    retribuzione, occorre garantire una tutela per il lavoratore
    ammalato, vittima di un infortunio del lavoro o collocato a riposo
    per l'età avanzata. Il sistema al quale si è fatto
    ricorso è quello della previdenza sociale basata
    sull'assicurazione obbligatoria. A questo fine vengono creati
    istituti ad hoc; datori di lavoro e lavoratori debbono
    obbligatoriamente versare all'ente preposto al settore contributi
    proporzionali alle retribuzioni; se si verifica uno degli eventi
    considerati (infortunio, malattia, pensionamento, ecc.), l'ente
    verrà chiamato a erogare prestazioni sanitarie e prestazioni
    economiche periodiche (pensioni o rendite).
Il sistema si sviluppò organicamente negli ultimi decenni
    dell'Ottocento nei paesi di lingua tedesca. Bismarck combinò
    politicamente le leggi antisocialiste e la Kulturkampf, vanamente
    sperimentate contro socialdemocratici e cattolici, con una forte
    politica previdenziale che, in un disegno organico, prese l'avvio
    con apposite istituzioni per la tutela in caso di malattia
    (istituzioni che vennero conservate, dopo la prima guerra mondiale,
    nelle provincie redente conquistate dall'Italia). In questo modo,
    nei paesi di lingua tedesca, i governi si garantirono la
    fedeltà delle masse lavoratrici alle istituzioni, come si
    poté verificare nel primo e nel secondo conflitto mondiale.
Questa politica ebbe ulteriori impulsi nel secondo dopoguerra, in
    particolare, a partire dal 1945, nell'Inghilterra a governo
    laburista, dove ebbe corso il programma di protezione di Beveridge,
    detto 'dalla culla alla bara'. In alcuni casi si passò dal
    sistema di previdenza a quello di sicurezza sociale: mentre nella
    previdenza la tutela era riservata, specialmente alle origini, ai
    lavoratori in senso stretto, la sicurezza intende tutelare il
    cittadino (e anche lo straniero) in quanto tale, a prescindere dalla
    sua collocazione nel mondo del lavoro. Un esempio di sicurezza
    sociale si è avuto, almeno formalmente, in Italia, con
    l'istituzione nel 1978 del Servizio Sanitario Nazionale garantito a
    tutti (e con questo non siamo più nell'ambito del diritto del
    lavoro, ma in quello del diritto amministrativo). Il prodotto di
    queste evoluzioni è il Welfare State, o Stato del benessere,
    recentemente entrato in crisi per la constatata impossibilità
    di poter garantire tutto a tutti. In questo contesto è stato
    talora adottato il 'salario di cittadinanza', in base al quale il
    soggetto ha diritto a una tutela economica, anche se non collocato
    nel mondo del lavoro. 
    
14. L'evoluzione italiana
In Italia lo sviluppo del sindacalismo operaio in senso proprio si
    ebbe solo a partire dall'ultimo decennio dell'Ottocento, in quanto
    soltanto allora si verificò un sia pur limitato sviluppo
    industriale. Prima di tale data vi erano stati movimenti popolari
    non direttamente legati alla classe operaia, di diversa ispirazione
    ideologica: dapprima il filantropismo moderato, poi i mazziniani e
    quindi l'anarchismo internazionalista. In Italia, anzi, venne prima
    creato il partito della classe operaia e poi il sindacato: infatti
    il Partito Socialista si costituì a Genova nell'agosto del
    1892, mentre la Confederazione Generale del Lavoro, sempre
    d'ispirazione socialista, si costituì nel 1906. Accanto al
    sindacalismo socialista si formò poi quello d'ispirazione
    cattolica e quello estremista dei sindacalisti rivoluzionari.
Il primo periodo fu caratterizzato, anche in Italia, dalla
    repressione legale. Il Codice penale sardo del 1859, primo
    dell'Italia unita (fatta eccezione per la Toscana, che
    conservò il più illuminato codice del 1853), puniva
    scioperi e (in teoria) serrate. Il Codice Zanardelli del 1889 non
    contemplava più esplicitamente i reati di azione diretta.
    Dopo i tumultuosi eventi dell'ultimo decennio, caratterizzati da
    turbative dell'ordine pubblico (Fasci siciliani, fatti della
    Lunigiana del 1894 e di Milano del 1898) e dalla prospettiva
    politica del sonniniano 'ritorno allo Statuto' non parlamentare del
    1848, con l'avvento del neoliberalismo, rappresentato da Giolitti e
    teorizzato da Einaudi, ci si avviò alla tolleranza, al libero
    sviluppo dei sindacati e alla prima contrattazione collettiva. Si
    ebbero così le prime leggi sociali per le 'mezze forze' e per
    l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (1898 e 1904). Si
    posero anche le fondamenta del diritto del lavoro in senso stretto,
    attraverso l'esperienza giurisprudenziale dei probiviri. Nelle
    diverse categorie, in base a una legge del 1893, si potevano
    costituire collegi eletti da datori di lavoro e lavoratori con
    presidente imparziale, con il compito di risolvere i conflitti del
    lavoro. Poiché questi giudici non avevano a disposizione
    leggi specifiche, dovevano giudicare secondo equità.
    Attraverso il ripetersi dei lodi (nel primo periodo studiati
    organicamente da Enrico Redenti), si vennero precisando delle regole
    in realtà nuove, che costituirono i primi elementi di un
    nuovo diritto. Solo nell'ultimo scorcio dell'età liberale si
    ebbe la prima legge organica sul rapporto di lavoro; organica, ma
    parziale, perché riferita solo agli impiegati (1919 e 1924).
Allo Stato liberale subentrò il corporativismo fascista, di
    cui si è già detto (v. cap. 8). Oltre alla disciplina
    giuridica del sindacalismo secondo i principî fascisti,
    durante il ventennio vennero anche emanate molte e importanti leggi
    in materia di lavoro: ad esempio sull'orario di lavoro, sul riposo
    settimanale, sul lavoro delle donne e dei fanciulli, ecc., alcune
    delle quali sopravvivono tuttora. Nel 1942, col nuovo Codice civile,
    si ebbe la prima organica regolamentazione del rapporto individuale
    di lavoro, che non fu però di tipo corporativo ma, nella
    sostanza, liberale, in quanto consacrava la piena libertà di
    licenziamento (mentre il franchismo spagnolo aveva coerentemente
    introdotto la regola del giustificato motivo). Venne altresì
    completato l'edificio della previdenza sociale, allorché si
    aggiunse all'assicurazione contro gli infortuni quella per
    invalidità, vecchiaia e superstiti e quella per le malattie
    (1943). Caduto il fascismo, si tornò al libero sindacalismo,
    in un primo momento organizzato unitariamente per l'accordo delle
    tre grandi correnti: comunista, democristiana e socialista. A
    partire dal 1949, il movimento sindacale si divise nuovamente in tre
    centrali, CGIL, CISL, UIL, e in altre organizzazioni autonome in
    conseguenza della guerra fredda e della dura contrapposizione in
    atto col Partito Comunista. Riprese anche la contrattazione
    collettiva ma, non essendosi attuata la previsione costituzionale
    (art. 39) circa il riconoscimento del sindacato e l'efficacia
    generalizzata dei contratti stipulati dai sindacati maggiormente
    rappresentativi, si concluse che il contratto cosiddetto 'di diritto
    comune' valeva solo per le imprese sindacalmente affiliate.
    L'impatto sociale negativo di questa conclusione venne attenuato
    attraverso la consolidata giurisprudenza sulla giusta retribuzione,
    ai fini della determinazione del salario, facendo i magistrati
    riferimento alle tariffe sindacali. L'esercizio dello sciopero,
    garantito dalla Costituzione come diritto, non conobbe alcuna
    restrizione.
Nel primo quindicennio postbellico non vi furono significative
    evoluzioni del diritto del lavoro: erano i tempi difficili della
    ricostruzione, caratterizzati dal contenimento dei salari praticato
    spontaneamente dalle parti sociali (vi fu un accordo
    interconfederale in questo senso, definito specificamente 'di tregua
    salariale'). Le decisioni in materia salariale vennero avocate alle
    confederazioni e solo nel 1954 venne ripristinata la competenza dei
    sindacati di categoria. 
La situazione si mise in movimento a metà degli anni
    cinquanta con il cosiddetto 'miracolo economico', durante il quale
    divenne prevalente l'economia industriale e si verificarono grandi
    spostamenti di manodopera dal sud al nord. Nel decennio successivo,
    nella stagione politica del centro-sinistra che vide l'accesso dei
    socialisti al governo, cominciarono a raccogliersi i frutti di
    alcune grandi inchieste parlamentari degli anni cinquanta sulla
    disoccupazione, sulla miseria e, in generale, sulle condizioni dei
    lavoratori. Del 1962 è la legge che limita la
    possibilità di assunzioni a termine; del 1963 è quella
    sul divieto di licenziamento della donna a causa di matrimonio. Nel
    giugno del 1965 la Corte Costituzionale statuisce la non decorrenza
    della prescrizione dei diritti in costanza di rapporto (allorquando
    - si preciserà poi - non vi siano adeguate garanzie contro il
    licenziamento arbitrario). Finalmente, nel luglio 1966, viene
    emanata la legge che introduce la regola del giustificato motivo per
    i licenziamenti individuali; ma tale tutela opera solo nei confronti
    dei datori di lavoro che occupano più di 35 dipendenti (le
    piccole e piccolissime unità sono privilegiate) ed è
    una tutela debole: in pratica il datore se la cava pagando una
    penale oscillante tra 5 e 12 mensilità di retribuzione.
Dal 1962, oltre alla tradizionale contrattazione collettiva a
    livello nazionale di categoria, comincia la pratica della
    contrattazione articolata a livello di azienda o di gruppo. A
    partire da tale data la conclusione del conflitto a livello
    nazionale non garantisce affatto la pace in azienda dove, anzi, il
    conflitto spesso si riaccende aprendo un capitolo dei più
    tormentati. Illustri giuristi affermano che il contratto collettivo
    obbliga solo gli imprenditori, mentre lascia liberi i lavoratori di
    riprendere il conflitto a qualsiasi livello per ulteriori
    rivendicazioni. È nello stesso periodo che viene enunciata la
    teoria del salario 'variabile indipendente', in base alla quale si
    deve corrispondere ai lavoratori la retribuzione sufficiente, quali
    che siano le condizioni delle imprese e dell'economia in generale.
Sopravviene quindi la contestazione e l'autunno 'caldo' del 1969,
    con lotte sindacali di notevole durezza che vanno spesso oltre il
    limite della legalità; le violenze contro i crumiri, specie
    tra gli impiegati, sono all'ordine del giorno. In questo clima viene
    varata la legge sullo Statuto dei diritti dei lavoratori, emanata
    nel maggio 1970. Questa legge fondamentale, in sé di ottimi
    principî, ma stravolta nelle applicazioni prevalenti, da una
    parte garantisce il rispetto della personalità morale del
    lavoratore nell'ambito dei rapporti di lavoro, dall'altra prevede la
    costituzione in azienda di un vero e proprio 'contropotere
    sindacale', con la formazione di rappresentanze sindacali
    nell'ambito dei sindacati affiliati alle confederazioni maggiormente
    rappresentative e con una serie di diritti conseguenti (ad esempio
    di assemblea, di permessi e aspettative), e col prelevamento dei
    contributi sindacali sulle retribuzioni, cosicché il datore
    diventa un comodo esattore per conto delle organizzazioni. Ne segue
    una sorta di abusivismo a livello di massa, mentre l'assenteismo
    giustificato con compiacenti certificazioni mediche tocca punte
    elevate. La bilancia dei rapporti si è ormai del tutto
    spostata.Il ciclo si conclude nel 1973 con la legge sul processo del
    lavoro, demandato al pretore giudice monocratico, con la normale
    efficacia esecutiva della sentenza di primo grado e con la
    rivalutazione automatica dei crediti di lavoro. Sul piano della
    contrattazione collettiva il ciclo del 1973 è segnato
    dall'inquadramento unico retributivo delle diverse categorie
    (impiegati, intermedi, operai); quello del 1976 per l'introduzione
    dei diritti d'informazione, cioè l'obbligo per la parte
    imprenditoriale di comunicare periodicamente alla parte sindacale
    numerose informazioni. Questa richiesta, formulata inizialmente in
    chiave di ulteriore e accentuata conflittualità, poi, invece,
    nella crisi presto sopravvenuta, è sembrata piuttosto
    favorire possibili sviluppi concertativi e partecipativi nella
    gestione delle aziende. 
    
15. La crisi e le sue implicazioni
La situazione comincia a cambiare dapprima con la crisi petrolifera
    del 1973 e quindi con le successive ondate di una recessione che
    dopo venti anni non ha ancora esaurito i suoi effetti. Mentre
    continua l'onda lunga ispirata, anche per forza d'inerzia, dalla
    precedente impostazione del movimento, l'intero assetto dei rapporti
    di lavoro viene rimesso in discussione o da destra o in forma
    autocritica. Si lamenta autorevolmente che l'impresa sia irretita e
    impacciata da 'lacci e laccioli' derivanti dalla rigidità del
    fattore lavoro. In tutti i paesi si caldeggia la flessibilità
    nella gestione della forza lavoro, mentre si depreca ogni vincolismo
    eccessivo. Ovunque si invoca una deregolamentazione delle condizioni
    di lavoro (il che porterebbe in pratica alla fine del diritto del
    lavoro) o quanto meno una larga delegificazione della materia,
    mentre si auspica che la legge lasci degli spazi agli aggiustamenti
    possibili con la contrattazione sindacale.
Negli stessi anni comincia a crescere la disoccupazione, alla quale,
    almeno in Italia, si pone riparo con l'utilizzazione sempre
    più intensa della 'cassa integrazione'; una cassa gestita
    dall'INPS, che eroga una sostanziosa indennità nel caso di
    sospensione del lavoro o di riduzione dell'orario (di fatto molti
    lavoratori sono rimasti in cassa integrazione per anni e si sono
    verificati perfino casi di imprese 'fantasma', esistenti cioè
    solo sulla carta, create esclusivamente ai fini della formale
    imputazione di rapporti di lavoro inesistenti, e quindi come
    presupposto della tutela). 
La legislazione e la contrattazione si sono mosse e si muovono in
    vario modo per tamponare la crisi: tutte le occasioni di occupazione
    sono comunque coltivate; le possibilità di contratti a
    termine sono cresciute, e si è infine consentito che la
    contrattazione collettiva preveda ulteriori casi oltre quelli
    stabiliti dalla legge. Inoltre, superando l'ostilità
    sindacale che ha sempre preferito il lavoro a tempo pieno, si
    ammette formalmente il contratto a tempo parziale; si introducono i
    contratti di solidarietà, con i quali i lavoratori accettano
    riduzioni di orario, con proporzionale riduzione del salario al fine
    di evitare i licenziamenti collettivi, contratti sostenuti da forti
    incentivi garantiti dallo Stato. Nel contempo si proclama la
    volontà di una svolta partecipativa che, coinvolgendo le
    organizzazioni dei lavoratori nella gestione delle aziende,
    favorisca un costruttivo dialogo sociale, in un sistema complessivo
    di compromesso a tre: tra parti sociali contrapposte e parte
    pubblica.Infine, con la legge 146 del 1990, si disciplina lo
    sciopero nei servizi pubblici essenziali, dannoso per la
    collettività e quindi anche per i lavoratori. In questo
    settore la legge prescrive attualmente tre regole: preavviso minimo
    di 10 giorni; comunicazione della durata dello sciopero;
    assicurazione, in ogni caso, delle prestazioni indispensabili per
    garantire il rispetto dei diritti fondamentali dell'utenza. Per
    garantire l'equo contemperamento nel rispetto dei principî
    della legge, si è costituita una Commissione di garanzia. 
    
16. Il costo del lavoro
Negli ultimi anni si è lamentato da più parti che il
    costo del lavoro è eccessivo, anche perché comprende
    una contribuzione previdenziale mediamente pari a circa il 50% dei
    trattamenti retributivi. I tentativi di risposta a tale problema
    costituiscono un capitolo particolarmente aspro e controverso in
    questa lunga fase di assestamento del diritto del lavoro, che dura
    ormai da vent'anni. Si è seguita, in generale, una politica
    di contenimento del costo del lavoro, che ha ottenuto qualche
    risultato. Nel 1976, ad esempio, vennero praticamente confiscati in
    buoni del tesoro, per due anni, gli aumenti retributivi per i
    livelli più elevati. Un accordo interconfederale incise poi
    sull'ammontare dell'indennità di anzianità; ne
    derivò una controversia nella quale ebbe modo di interloquire
    anche la Corte Costituzionale. L'intera materia venne disciplinata,
    nel 1982, da una nuova legge che sostituì alla vecchia
    indennità un nuovo istituto, il 'trattamento di fine
    rapporto', assai meno oneroso per le imprese.Per molti anni si
    è anche trascinata la vertenza relativa al meccanismo di
    rivalutazione automatica dei salari, detto della 'scala mobile',
    istituito per neutralizzare le conseguenze dell'inflazione. Si
    seguiva l'andamento dei prezzi per la famiglia tipo e ciò
    comportava periodicamente l'aumento in scatti dell'indennità
    di contingenza. Questo meccanismo, che alimentava ulteriormente
    l'inflazione, è stato definitivamente abolito nel 1992-1993.
    Ora si prevede solo che, in caso di ritardo nei rinnovi
    contrattuali, scatti un'indennità (destinata a sparire con la
    rinnovata tariffa salariale) detta 'carsica'.
L'ultimo risultato è l'accordo trilaterale (parti sociali e
    governo) del 23 luglio 1993 per la risistemazione del sistema
    contrattuale. Le parti si sono impegnate a perseguire la politica
    dei redditi e a far sì che gli aumenti salariali siano
    mantenuti nei limiti dell'inflazione programmata. Il contratto
    collettivo nazionale di categoria ha ora cadenza quadriennale per la
    parte normativa e biennale per la parte economica. La contrattazione
    articolata è ammessa, ma nelle sole materie cui rinvia il
    contratto nazionale, evitando così duplicazioni rispetto al
    livello più generale. Si prevedono anche innovazioni per i
    contratti di solidarietà a tempo parziale, di formazione e
    lavoro, con l'introduzione di 'salari d'ingresso'. È ammesso
    anche il lavoro 'in affitto' da parte di entità che
    dovrebbero essere soggette a un rigoroso controllo. Infine si
    procede verso un sistema di rinnovo delle rappresentanze sindacali
    aziendali su base elettiva, un sistema che dovrebbe essere volto ad
    accertare l'effettiva consistenza rappresentativa dei vari
    sindacati, abbandonando quello precedente, fondato sulla
    rappresentatività 'presunta' delle organizzazioni affiliate a
    CGIL, CISL, UIL. Queste le principali innovazioni in un settore che,
    in gran parte, attende ancora ulteriori trasformazioni.
    
Enciclopedia del
            Novecento III Supplemento (2004)
            di Igor Piotto, Mario Rusciano
di Igor Piotto e Mario Rusciano
LAVORO
Organizzazione del lavoro di Igor Piotto
sommario: 1. Introduzione. Le vie di
    uscita dalla crisi del taylorismo. 2. I principî essenziali
    del just in time. a) Eliminazione degli sprechi e
      'fabbrica minima'. b) Rapporto dell'impresa con i suoi
      fornitori. c) Polivalenza professionale dei lavoratori e
      gerarchie intermedie. d) La qualità totale.
    3. Cambiamenti qualitativi nella prestazione di lavoro: dalla
    'mansione' alla 'missione'. 4. Dalla lean production alla
    produzione modulare. 5. Conclusioni. Problemi e prospettive. □
    Bibliografia.
    
1. Introduzione. Le vie di uscita dalla crisi del
      taylorismo
      
Con il concetto di 'organizzazione del lavoro' si vuole indicare la
    concomitanza di tre ordini di fattori necessari a conseguire gli
    obiettivi produttivi desiderati: la divisione tecnica delle
    attività lavorative (suddivise in compiti), la loro
    integrazione e attribuzione a uomini e macchine in relazione alle
    caratteristiche professionali dei primi e ai vincoli tecnologici
    delle seconde, e infine il loro coordinamento (funzionale, temporale
    e spaziale) in ragione delle interdipendenze presenti nel processo
    produttivo.
L'integrazione delle attività prevede che singoli compiti
    siano incorporati in specifici ruoli organizzativi per quanto
    riguarda sia le relazioni di subordinazione che percorrono la catena
    del comando, sia le relazioni orizzontali di cooperazione tra ruoli
    appartenenti allo stesso livello gerarchico. Il coordinamento
    interviene sulle interdipendenze tra le attività lavorative
    attraverso meccanismi gerarchici operanti su linee verticali o
    attraverso meccanismi di adattamento reciproco basato su decisioni
    congiunte.
La divisione del lavoro è una "caratteristica ineliminabile
    dell'impresa industriale" (v. Pichierri, 1979, p. 135); le diverse e
    articolate forme attraverso cui si esprime sono date dalla natura e
    dalla combinazione di questi due concetti. Nel taylorismo - che
    rappresenta l'estremizzazione 'scientifica' degli studi
    precedentemente avviati da Smith (v., 1776) e da Babbage (v., 1833)
    circa la correlazione tra efficienza e specializzazione della
    prestazione lavorativa - tale combinazione produce un modello
    organico finalizzato a irreggimentare il lavoro in mansioni
    ripetitive, parcellizzate, standardizzate e integrate in rigide
    catene di comando gerarchico-burocratiche (v. Bonazzi, 1998).
In questa sede, partendo dalla definizione data di organizzazione
    del lavoro, si procederà con l'analisi dei nuovi modelli
    produttivi emersi con la crisi del taylor-fordismo; una crisi,
    annunciata negli anni settanta e proseguita sino alla metà
    del decennio successivo, che ha segnato la fine di una condizione di
    egemonia sulle culture organizzative delle società
    industrializzate durata più di mezzo secolo.
In questi anni la produzione su vasta scala di beni standardizzati,
    la cosiddetta produzione di massa, subì una battuta d'arresto
    causata principalmente dalla differenziazione dei mercati e dal
    conseguente ampliamento dell'offerta di prodotti non più
    soddisfacibile con l'architettura dell'organizzazione scientifica
    del lavoro (ibid.), la quale, per via delle sue intrinseche
    rigidità, non era più in grado di assorbire le
    incertezze economiche generate da un ambiente di mercato in continua
    trasformazione; le decisioni organizzative non potevano più
    fare riferimento a routines e certezze consolidate (v.
    March e Simon, 1958). Per far fronte a tali incertezze, il management aziendale fu così costretto a ricorrere a misure di
    flessibilità in grado di mettere le imprese nelle condizioni
    di rispondere ai tempi stretti delle fluttuazioni ambientali,
    rappresentate da una crescente diversificazione della domanda di
    prodotti/servizi sino agli estremi di una loro 'personalizzazione'
    in base alle specificità del cliente. L'introduzione delle
    nuove tecnologie meccatroniche - dai sistemi CAD/CAM (Computer
      Aided Design/Manufacturing) alla CIM (Computer
      Integrated Manufacturing) - aveva alimentato la convinzione
    che si potesse configurare un sistema produttivo, particolarmente
    nel settore industriale, ad alta automazione e ridurre con il
    supporto delle tecnologie informatiche la rigidità dei
    programmi di produzione. Si andava così diffondendo l'idea
    che le imprese avrebbero potuto conseguire alti livelli di
    efficienza quanto più consistenti fossero stati gli
    investimenti di carattere tecnologico; questo orientamento avrebbe
    consentito anche una riduzione degli organici e un conseguente
    allentamento del potere vulnerante dei lavoratori, specie in
    contesti ad alta conflittualità sociale.
L'automazione non richiama solo processi meccanizzati, ma rimanda
    anche a proprietà di autoregolazione da parte delle
    tecnologie; questo passaggio, oltre a costituire un fattore di
    indiscusso vantaggio, fu anche all'origine delle difficoltà
    che la fabbrica ad alta automazione incontrò nel corso della
    sua sperimentazione.
L'intreccio delle tecnologie meccatroniche e di quelle informatiche
    si rivelò efficace nell'inglobare parti della
    complessità nel processo produttivo, il quale richiedeva
    interventi di regolazione che non potevano avvenire per via
    automatica; in altre parole, era necessaria una valorizzazione del
    lavoro vivo quale risorsa di controllo e di conduzione degli
    impianti. In termini più generali, la via ipertecnologica
    alla flessibilità organizzativa comportava forme di
    decentramento decisionale per i lavoratori esecutivi incompatibili
    con la concezione taylor-fordista di gerarchia affermatasi sino a
    quel momento (v. Bonazzi, 1993).
L'utopia tecnocratica della fabbrica ad alta automazione non divenne
    mai una prospettiva realizzabile; la sua architettura non
    mutò gli assetti gerarchici precedenti e lasciò
    irrisolto il legame tra la complessità dei processi
    automatizzati e le interdipendenze che si venivano a determinare al
    loro interno. Questa esperienza mise in luce come il lavoro umano
    non avesse affatto il ruolo residuale ipotizzato nell'orientamento
    iniziale, soprattutto nelle fasi in cui risultavano determinanti gli
    interventi di regolazione del processo produttivo.
Lo spostamento verso una prospettiva antropocentrica (v.
    Brödner, 19852) di organizzazione della produzione
    favorì la ricerca di vie d'uscita dalla crisi del taylorismo.
    È in questo contesto che l'organizzazione del lavoro adottata
    negli stabilimenti automobilistici della Toyota - definita just
      in time - riuscì ad attrarre l'attenzione del mondo
    manageriale dei paesi a capitalismo avanzato e - grazie alla
    concettualizzazione elaborata principalmente da Taiichi Ohno (v.,
    1978) e Yasuhiro Monden (v., 1983) su queste esperienze
    organizzative - a esercitare su di esso una ormai indiscussa
    egemonia culturale.
A partire dal lavoro di ricerca di James P. Womack, Daniel T. Jones
    e Daniel Roos (v. Womack e altri, 1990), che per primi analizzarono
    le ragioni del successo del modello giapponese in particolare
    nell'industria statunitense, l'espressione just in time trovò un'altra definizione e venne convertita in quella di
    'produzione snella' (lean production) - una differenza non
    puramente terminologica. Il just in time sperimentato alla
    Toyota giapponese costituisce l'idealtipo, weberianamente inteso, di
    una politica dell'organizzazione della produzione in cui la
    dimensione sociale e quella tecnologica convergono nel definire un
    modello considerato capace di assorbire la varianza di mercati
    dinamici. Quando è stata esportata al di fuori del contesto
    giapponese, questa 'politica organizzativa' ha richiesto modifiche
    di 'riaggiustamento', non tali, peraltro, da snaturare la concezione
    originaria; il concetto di 'produzione snella' denota così il
    carattere ibrido che di volta in volta può assumere il just
      in time a seconda delle specificità dei sistemi locali
    (v. Negrelli, 2000), nazionali e dei settori industriali in cui
    trova applicazione (v. Abo, 1994; v. Kochan e altri, 1997).
I nuovi modelli di organizzazione del lavoro e della produzione,
    maturati con la crisi del taylorismo, si sono affermati inizialmente
    nel settore industriale; specificamente, sono state le grandi
    imprese automobilistiche (GM, Chrysler, Toyota, Volkswagen, Opel,
    FIAT, Renault) a trainare la loro espansione. Solo successivamente
    il just in time è diventato un riferimento
    organizzativo per altri settori produttivi, in particolare il
    terziario. Dati i limiti imposti da questo articolo, non potremo
    analizzare la diffusione del modello just in time nelle
    imprese non industriali. Pertanto, focalizzeremo l'attenzione
    esclusivamente sul lavoro industriale e la sua organizzazione.
    
2. I principî essenziali del just in
        time
        
Il just in time può essere definito come un
    "sistema produttivo che garantisce la continua e perfetta simmetria
    tra l'offerta dei beni prodotti e la domanda che proviene dal
    mercato" (v. Monden, 1983; tr. it., p. 7); l'incontro tra le due
    curve avviene grazie a una razionalizzazione dei processi
    organizzativi che si compone di quattro aspetti essenziali (v.
    Gohlar e Stamm, 1991): eliminazione degli sprechi e snellimento dei
    processi organizzativi, rapporti con i fornitori, polivalenza
    professionale dei lavoratori e qualità.
    
a) Eliminazione degli sprechi e 'fabbrica minima'
La strategia dell'eliminazione degli sprechi consiste nella
    progressiva riduzione di tutte quelle risorse che risultano
    ridondanti o che hanno una funzione marginale nella produzione di
    valore. Si delinea una sorta di 'fabbrica minima', nella quale
    tendono a scomparire, o ad assottigliarsi in modo consistente, gli stocks di magazzino e i relativi costi di gestione. Gli stocks nella produzione di massa costituivano certamente una fonte di
    costi, ma consentivano anche di assorbire sia le criticità
    interne, dovute a problemi di rallentamento, guasti e perdite di
    produzione, sia quelle esterne, derivanti dalle oscillazioni di
    mercato.
L'obiettivo del just in time è quello di utilizzare
    i fattori di produzione (materiali, tecnologie e forza lavoro) in
    modo strettamente circoscritto a quanto viene richiesto dal cliente
    in un dato momento, e più estesamente dal mercato. Da qui
    deriva una complessiva ridefinizione dei tempi organizzativi
    dell'impresa. In primo luogo, sulle linee di produzione devono
    giungere semilavorati e componenti nella misura e nei tempi
    previsti; il sincronismo dei tempi di lavoro e di movimentazione
    delle risorse materiali diventa un vincolo organizzativo che
    struttura l'intero impianto del just in time.
Inoltre, negli impianti industriali questo sincronismo viene
    favorito da una disposizione spaziale degli impianti (layout)
    che riduce i problemi di incertezza nei flussi produttivi. Le
    singole unità produttive vengono strutturate secondo una
    forma a 'U', accentuando la dimensione orizzontale del coordinamento
    nei gruppi di lavoro e favorendo sia la mobilità dei
    lavoratori tra le postazioni dell'unità - con un utilizzo
    efficace delle risorse umane, specie nei momenti di maggiore
    criticità (v. Suzaki, 1993) - sia una distribuzione dei tempi
    di lavoro non più imposta, come nel sistema tayloristico,
    attraverso un'analisi 'scientifica' di microgesti e microtempi, ma
    piuttosto ripartita nel gruppo di lavoro a seconda delle
    necessità produttive che si presentano in un dato momento (v.
    Coriat, 1991).
Infine, l'assottigliamento dei 'tempi morti', determinato dalla
    contrazione dei tempi di attrezzaggio e di quelli di attraversamento
    del prodotto, contribuisce ad alleggerire il carico dei magazzini
    necessario a garantire continuità nella fornitura di
    materiali alle fasi del processo produttivo.
La riduzione dei tempi morti e delle scorte non va unicamente intesa
    come operazione di bilancio aziendale, finalizzata all'eliminazione
    degli sprechi e quindi dei costi ridondanti; essa è
    inseparabile dalla strategia del 'miglioramento continuo' (in
    giapponese, kaizen), ovvero dalla mobilitazione di tutte
    le risorse, prevalentemente umane, impegnate nel processo produttivo
    e chiamate a un'attività di individuazione e sperimentazione
    di interventi migliorativi del processo di lavoro e del prodotto (v.
    Bonazzi, 1993). Questa specifica correlazione disegna un modello
    organizzativo nel quale i flussi produttivi sono costantemente
    impegnati a integrare - secondo l'efficace formula della innovation
      mediated production suggerita da Martin Kenney e Richard
    Florida (v., 1993) - innovazione e produzione, lavoro manuale e
    lavoro intellettuale in modo pressoché indissolubile.
    
b) Rapporto dell'impresa con i suoi fornitori
Il sistema del just in time comporta anche un'inversione
    della direzione del processo produttivo: nel fordismo, attraverso
    piani consistenti di programmazione produttiva a medio e lungo
    termine, l'impresa era in grado di determinare con largo anticipo il
    volume e la qualità dei consumi; ora mercati frammentati e
    fortemente variabili non consentono più produzioni
    standardizzate su grande scala. La crescente domanda di prodotti
    diversificati 'traina' il processo produttivo, offrendo margini
    molto ristretti per la programmazione temporale degli ordini. Come
    rimarcato da Monden (v., 1983), la simmetria tra domanda e offerta
    richiede un'organizzazione non dispersiva e fortemente adattabile ai
    mutamenti nell'indirizzo delle richieste. In questo contesto, la
    catena di fornitura di un prodotto viene profondamente modificata; i
    rapporti tra l'impresa e i suoi fornitori non si risolvono
    unicamente nella scelta dell'economicità della fornitura. La
    richiesta rivolta dal cliente è quella di una prestazione che
    coinvolga il fornitore, soprattutto quello di primo livello, anche
    nella 'ingegnerizzazione' del prodotto. Vengono richiesti alti
    livelli di cooperazione che spingono le imprese di fornitura
    più a ridosso dell'impresa finale nella progettazione del
    prodotto, oltre che nella sua fabbricazione; l'obiettivo è
    trasferire sul terreno delle relazioni di fornitura una strategia di
    incremento degli standard di qualità e una riduzione di quei
    costi causati dall'utilizzo ridondante delle risorse.
La progettazione congiunta dei prodotti presenta anche il vantaggio
    di alimentare economie di apprendimento; ovvero la produzione di
    "quasi-rendite relazionali" (v. Aoki, 1988) rappresentate dal
    patrimonio di conoscenze, specifiche e localizzate, che provengono
    dal rapporto di collaborazione tra le imprese, le quali però
    non possono essere assimilate unilateralmente da uno dei partners contrattuali senza mettere a rischio la riproduzione di
    comportamenti cooperativi.
Sul versante organizzativo interno della singola impresa,
    l'inversione della direzione del processo produttivo necessita di un
    "sistema di informazione per controllare armoniosamente le
    quantità da produrre in ciascuna fase di lavoro" (v. Monden,
    1983; tr. it., p. 5). Questo spiega perché la semplificazione
    dei criteri di approvvigionamento introdotta dal kanban costituisca una delle innovazioni più radicali del just
      in time sul piano della logistica e della struttura aziendale
    di incanalamento ed elaborazione delle informazioni.
Letteralmente kanban significa 'cartellino', e sta a
    indicare una scheda che viene applicata su particolari raccoglitori
    di componenti per regolare il flusso di materiali allo scopo di
    evitare le ridondanze e gli sprechi. È un sistema di
    semplificazione dei criteri di approvvigionamento che può
    avere ripercussioni sui rapporti tra le unità produttive:
    infatti, i lavoratori dislocati in una unità produttiva a
    valle del processo produttivo diventano i clienti dell'unità
    produttiva situata a monte. Questa disposizione logistica rende
    praticabile la sincronizzazione dei processi, proprio perché
    consente alle singole unità di lavoro di modulare la
    quantità della produzione attraverso i continui feedback provenienti dalle unità successive, le quali instaurano
    reciprocamente rapporti di cooperazione e competizione improntati
    alla logica di mercato di cliente e fornitore: tale relazione entra
    in concorrenza con il criterio gerarchico che invece vantava un
    indiscusso primato nei meccanismi di strutturazione dell'impresa
    taylor-fordista.
    
c) Polivalenza professionale dei lavoratori e gerarchie
      intermedie
La gerarchia non scompare, ma l'organizzazione si trova costretta,
    per esigenze di competitività, a riconoscere una maggiore
    autonomia decisionale alle strutture periferiche
    dell'organizzazione, soprattutto quelle con funzioni esecutive.
    Verso la fine degli anni ottanta cresce nel management aziendale la consapevolezza che gli interventi di risoluzione dei
    problemi devono essere elaborati il più possibile a ridosso
    dei contesti in cui si manifestano le maggiori criticità.
La tecnica logistica del kanban si inserisce in questo
    nuovo orientamento, rendendo possibile il decentramento di compiti
    di micro-regolazione giornaliera del flusso produttivo, i quali
    erano, nel taylorismo, prevalentemente concentrati in strutture
    centralizzate di staff non direttamente coinvolte nel
    processo produttivo (uffici di programmazione e avanzamento della
    produzione). Questo spostamento decisionale (dal livello di
    stabilimento al livello di officina), per quanto sempre parziale,
    richiede che il lavoro esecutivo venga investito di una maggiore
    discrezionalità e sia accompagnato da richieste sempre
    più frequenti di polivalenza professionale.
La decentralizzazione di alcuni dei compiti di regolazione rende
    impraticabile la parcellizzazione del lavoro in 'microgesti', che
    aveva determinato per decenni il controllo sulla gestualità
    operaia, mettendo in tal modo in discussione uno dei principî
    fondanti la visione tecnocratica del taylorismo, quello della
    presunta oggettività scientifica dei criteri di formazione
    delle decisioni.
Si afferma, invece, nell'indirizzo manageriale, una prospettiva
    gestionale che stempera il modello decisionale autoritario e tende a
    sostituirlo con la sperimentazione di forme di lavoro di gruppo
    ritenute maggiormente efficienti sul terreno della
    flessibilità produttiva.
Al gruppo di lavoro sono demandati compiti gestionali che si
    estendono alla manutenzione ordinaria degli impianti,
    all'elaborazione delle procedure di lavoro, alla gestione di parti
    del processo produttivo. Il team è considerato una
    'cellula produttiva' nella quale, sotto la supervisione di una
    struttura di coordinamento individuata nel team leader e
    nei tecnici (tecnologi, metodisti, manutentori), si combinano
    professionalità polivalenti in grado di governare la domanda
    di qualità e diversificazione dei prodotti che proviene da
    mercati variabili.
L'obiettivo organizzativo del lavoro di gruppo è quello di
    favorire la socializzazione di compiti e funzioni che prima erano
    demandati a strutture tecniche di staff laterali al
    processo produttivo, con risvolti rilevanti sullo stesso profilo
    professionale del management intermedio (capireparto,
    capisquadra), non più riconducibile, almeno sotto il profilo
    teorico, al ruolo di 'vicariato' della direzione aziendale o di shock
      absorber (v. Walker e altri, 1956) delle tensioni tra management e lavoratori esecutivi.
Il ricorso a espressioni anglosassoni come quella di team
      leader in sostituzione del più noto termine
    'caposquadra' richiama certamente la natura indiscutibilmente
    autoritativa del ruolo, ma mette comunque in rilievo la dimensione
    collegiale dell'attività decisionale che queste figure del management intermedio assumono nel sistema just in time. Il
    responsabile del team mantiene un ruolo di 'comando'
    soprattutto nell'allocazione delle risorse (definizione dei percorsi
    professionali e di mobilità interna al gruppo, sistemi
    premianti e di incentivazione), ma a tale ruolo si affiancano
    competenze di coordinamento dei gruppi di lavoro e di gestione degli
    interventi di miglioramento incrementale (processo/prodotto).
    
d) La qualità totale
L'ultimo tassello che compone il complesso sistema del just in
      time è la qualità totale. È questo il
    concetto che percorre tutta l'elaborazione teorica e la prassi del
    modello giapponese.
L'attenzione manageriale per il sistema della qualità non
    nasce con la scoperta del modello giapponese, verso la fine degli
    anni ottanta, ma si focalizza prevalentemente sul ricorso a metodi
    di natura statistica quali strumenti privilegiati per verificare la
    qualità della performance aziendale.
Le tecniche statistiche non sono state trascurate da quanti hanno
    più marcatamente contribuito a elaborare il concetto di
    qualità totale in chiave organizzativa (v. Juran, 19743;
    v. Deming, 1982); piuttosto, tali tecniche diventano operative
    all'interno di una struttura organizzativa ampiamente modificata. Il
    mutamento è prima di tutto di ordine culturale: l'incremento
    di prodotti progettati e ingegnerizzati in base alle richieste di
    gruppi ristretti di clienti richiede una competitività che
    non è conseguibile solo attraverso un abbassamento dei costi,
    ma deriva anche dall'offerta qualitativamente superiore a quella dei
    concorrenti di mercato.
In questa prospettiva la ricerca della qualità non può
    essere ancorata a una specifica funzione aziendale di cui si compone
    un'impresa. Essa è un principio organizzativo - sintetizzato
    nel lessico manageriale dall'espressione total quality
      management - che struttura l'organizzazione, è il
    criterio di riferimento nella progettazione dei processi e dei
    prodotti, e costituisce pertanto il nucleo fondante di tutto il just
      in time. Ciascun sottosistema aziendale (logistica,
    produzione, marketing, servizi, approvvigionamenti,
    sviluppo delle tecnologie e delle risorse umane) deve attivare al
    proprio interno misure tese a ridurre il saldo negativo tra la
    prestazione attesa e quella effettivamente realizzata.
Sul versante dell'organizzazione del lavoro, il risalto dato alla
    qualità trova riscontro nel concetto di autocontrollo: con
    esso si indica la gamma di nuove responsabilità assegnate ai
    singoli lavoratori, anche quelli che ricoprono ruoli esecutivi, di
    monitoraggio e verifica di standard qualitativi circa i prodotti e
    parti specifiche del processo produttivo. Con l'autocontrollo si
    rafforza l'obiettivo di assegnare alla riduzione di scarti e difetti
    un ruolo determinante nell'integrazione delle funzioni e delle
    attività dell'impresa.
    
3. Cambiamenti qualitativi nella prestazione di
      lavoro: dalla 'mansione' alla 'missione'
      
La diffusione della produzione snella comporta che il lavoro operaio
    sia prevalentemente caratterizzato da attività di
    'micro-regolazione' degli impianti e della gestione di obiettivi
    produttivi, e questo può essere considerato l'archetipo della
    configurazione emergente del lavoro esecutivo industriale (v. Kern e
    Schumann, 1984; v. Cerruti, 1994).
La conduzione di processi sincronizzati comporta un arricchimento
    del contenuto delle informazioni da elaborare insieme a un
    ampliamento delle competenze possedute. Con il just in time il singolo lavoratore deve sviluppare un rapporto attivo con il
    sistema informativo, che implica la convergenza di due specifiche
    "logiche di incremento" (v. Rieser, 1992).
Da un lato, si estende la discrezionalità del lavoratore
    nella scelta di soluzioni non programmabili per via gerarchica, o
    non totalmente incorporabili nelle tecnologie di processo. Un
    esempio è dato dal concetto di 'autonomazione', neologismo
    ricavato dalla contrazione di automazione e autonomia, col quale si
    indica la possibilità da parte degli operatori di arrestare
    automaticamente la linea di produzione ogni qual volta si presentano
    delle criticità. Questo potere di interdizione riconosciuto
    agli operatori è di estrema importanza per comprendere la
    logica che ispira siffatto modello organizzativo; esso assegna un
    ruolo attivo al lavoro esecutivo e lo colloca in una posizione
    cruciale nel perseguimento delle strategie di controllo di
    qualità. Nonostante l'entusiasmo con cui è stato
    accolto il principio dell'autonomazione, esso resta in molti casi
    scarsamente perseguito, per il permanere di una rigidità
    temporale dei programmi di produzione, ma anche per ragioni che
    vanno ricercate nella difficoltà, soprattutto dei quadri
    intermedi, di emanciparsi dai condizionamenti culturali del
    taylorismo, i quali portano a guardare con sospetto qualsiasi
    modifica organizzativa che vada nella direzione di un riconoscimento
    di discrezionalità al lavoro esecutivo.
Dall'altro lato, aumentano le informazioni che il singolo è
    chiamato a gestire. La 'de-gerarchizzazione' del flusso di
    informazioni, di cui il sistema kanban è
    l'espressione più visibile, richiede al lavoratore un ruolo
    di 'microterminale attivo' nello scambio delle informazioni, che si
    esplica essenzialmente nella capacità di micro-regolazione
    degli impianti e nell'individuazione dei segnali deboli che possono
    provenire dal processo produttivo (v. Rieser, 1992). Quello
    informativo diventa dunque il 'sistema nervoso' di tutti i processi
    produttivi. Strutturato secondo una logica di "concentrazione senza
    accentramento" (v. Bennett, 1994), il sistema informativo nel just
      in time richiede sedi decentrate di incanalamento ed
    elaborazione delle informazioni. Questa tendenza però non
    comporta, realisticamente, la completa destrutturazione del
    monopolio di competenze riconosciuto nel taylorismo alle figure
    gerarchiche elevate o di staff, quanto invece il
    restringimento, variabile, del loro raggio di intervento. Ma
    soprattutto, attraverso l'utilizzo delle tecnologie informatiche, la
    visione complessiva del circuito informativo dell'impresa viene
    concentrata in specifiche memorie tecniche e monitorata in 'presa
    diretta' con l'andamento della produzione.
Nel just in time vincoli di ordine tecnologico,
    organizzativo (la sincronizzazione dei processi produttivi tra le
    unità di lavoro) e informativo (il sistema kanban)
    delineano il profilo di una prestazione sempre meno focalizzata sul
    controllo della 'dimensione materiale del lavoro', a vantaggio del
    controllo sulla 'dimensione processuale del lavoro' (v. Kern, 1991),
    determinando un cambiamento di prospettiva che va nella direzione di
    quello che Kazuo Koike (v., 1988) ha definito come "white-collarization
      of blue collars". Questa tesi può risultare
    eccessivamente ottimistica, ma il dato importante è che il
    mutamento delle caratteristiche qualitative della prestazione, in
    particolare industriale, costituisce la rottura più
    significativa rispetto ai vincoli che l'organizzazione tayloristica,
    incardinata sulla disciplina della corporeità operaia,
    imponeva al lavoro esecutivo. In quel caso la scarsa
    variabilità delle mansioni era accompagnata dalla ricerca da
    parte del management intermedio di soluzioni operative
    finalizzate, attraverso la proceduralizzazione delle operazioni
    imposta per via gerarchica, a ridurre in modo crescente i margini di
    libertà riconosciuti al lavoro esecutivo.
Come è stato messo in rilievo dalla Scuola delle relazioni
    umane (v. Roethlisberger e Dickson, 1939), anche nell'organizzazione
    più restrittiva le maglie del controllo gerarchico non sono
    in grado di trattenere tutte le relazioni sociali che prendono forma
    al suo interno. Ulteriori studi hanno sottolineato che
    l'informalità nelle relazioni di lavoro non contiene
    unicamente aspetti di "disfunzionalità" (v. Crozier, 1963):
    l'informalità, nell'impresa tayloristica, ha fornito al
    lavoratore maggiori possibilità di negoziazione delle
    condizioni di lavoro con la gerarchia aziendale e, al tempo stesso,
    ha consentito all'organizzazione di mantenere una condizione di
    stabilità rispetto alle criticità esterne e interne a
    essa.
Nel sistema just in time il singolo lavoratore non
    è più chiamato a rispettare 'vincoli espliciti di
    obbedienza' definiti dalla direzione e dagli staff tecnici
    secondo una logica di 'conformità alla regola'; da qui deriva
    che la qualità della prestazione di lavoro non può
    essere correlata allo scostamento del comportamento umano dalle
    regole formali. L'aspetto prescrittivo della norma non cessa di
    esercitare la sua influenza, ma si traduce in 'obblighi impliciti di
    produzione' (v. De Terssac, 1992), ovvero in regole 'invisibili',
    implicite, che sono in grado di assicurare una cooperazione attiva
    nella gestione degli obiettivi di produzione (normalizzazione degli
    stati di criticità e continuità del processo
    produttivo). Queste 'regole invisibili' costituiscono un tessuto di
    significati condivisi, che indirizzano il singolo lavoratore nelle
    sue scelte di 'attenzione' e svolgono così una funzione
    'metaregolativa dell'azione'.
La dicotomia formale/informale si rivela, dunque, inadeguata a
    cogliere il mutamento qualitativo della prestazione di lavoro,
    soprattutto alla luce dell'indebolimento del concetto di mansione,
    intesa come aggregato di compiti e considerata dal sistema
    tayloristico come l'unità elementare nella progettazione dei
    compiti esecutivi, a vantaggio di quello di 'missione', che denota
    una maggiore complessità organizzativa. La missione richiede
    un elevato grado di cooperazione attiva e la disponibilità ad
    attivare in modo continuativo interventi specifici e polivalenti,
    difficilmente programmabili nelle singole fasi operative e quindi
    meno soggetti a un monitoraggio parcellizzato. Tale attività
    micro-regolatrice fa emergere un patrimonio variegato di astuzie
    conservate in forma tacita e maturate nel corso dell'esperienza;
    questa visibilità fornisce al management la
    possibilità di appropriarsi di quella conoscenza produttiva
    che, nel sistema tayloristico, i lavoratori custodivano e
    utilizzavano quale risorsa difensiva rispetto alla
    pervasività del controllo gerarchico.
Il merito di Ohno (v., 1978) fu quello di comprendere che gli
    incrementi di produttività non erano conseguibili frantumando
    le mansioni degli operai professionali, con la degradazione del loro
    ruolo organizzativo e sociale, ma sovraccaricando il loro impegno
    lavorativo. Tale sovraccarico, unito all'eliminazione degli stocks di magazzino, avrebbe causato una tensione del processo produttivo,
    richiesto un maggiore coinvolgimento dei lavoratori nelle
    attività di regolazione, e conseguentemente esteso le
    prerogative manageriali di controllo sul sapere produttivo.
Infatti, il lavoro subisce un processo di "simbolizzazione pubblica
    dell'esperienza" (v. Zuboff, 1988): astuzie nascoste ed esperienze
    professionali vengono alla luce e, attraverso il supporto di
    tecnologie informatiche, codificate in artefatti cognitivi,
    incorporate nelle memorie tecniche dell'organizzazione, favorendo
    così l'aggiornamento continuo delle conoscenze utilizzabili.
    Anzi, l'attivazione di circuiti virtuosi di conversione della
    conoscenza da tacita a esplicita è stata assunta quale
    elemento distintivo di superiorità della produzione snella
    sul modello taylor-fordista (v. Nonaka e Takeuchi, 1995).
Il lavoro è sempre il prodotto della combinazione dinamica di
    vincoli e autonomia nella divisione tecnica, nell'integrazione e
    distribuzione delle attività. Nel just in time i
    dispositivi di controllo aziendale divengono più pervasivi
    che in passato (v. Sewell e Wilkinson 1992; v. Baremberg, 1994; v.
    Delbridge, 1998). Il modello autoritario, fondato sul principio
    dell'organizzazione gerarchico-burocratica, è stato
    sostituito da un nuovo modello di autorità che si avvale di
    forme di comando meno visibili, non più espresse in forma
    imposta ma attraverso l'interiorizzazione, da parte dei subordinati,
    di quei vincoli impliciti di obbedienza che Gilbert De Terssac (v.,
    1992) ha individuato quale criterio strutturante i modelli
    flessibili di organizzazione del lavoro.
Il rafforzamento del controllo aziendale sui comportamenti umani non
    avviene più tramite la funzione disciplinare della norma, ma
    attraverso le 'politiche di produzione' (incentivi di natura
    economica e psicologica, responsabilizzazione). Viene aggredita la
    natura intrinseca della norma esplicita, quella di essere da un lato
    strumento di pressione ma, dall'altro, anche un vincolo all'arbitrio
    nelle relazioni di potere; non è infatti casuale che la
    definizione delle norme esplicite sia stata uno dei terreni di
    maggior conflitto nelle relazioni industriali fordiste. Si affermano
    relazioni di potere capaci di condizionare i comportamenti umani in
    modo più restrittivo di quanto non accadesse nel taylorismo,
    senza però riproporre la struttura verticale e autoritaria
    della trasmissione degli ordini.
Finora si è parlato indistintamente di polivalenza, ma non si
    tratta di un concetto che rimanda a condizioni di lavoro e
    professionali omogenee. Il just in time contiene almeno
    due tipologie di polivalenza: verticale e orizzontale.
La prima rimanda a competenze necessarie alla conduzione di impianti
    appartenenti a diverse famiglie tecnologiche e a svolgere funzioni
    eterogenee per contenuto tecnico (v. Cerruti e Rieser, 1989). Qui la
    polivalenza verticale consente al lavoratore di interagire in misura
    decisiva sia all'interno del proprio gruppo professionale di
    appartenenza, con attività di problem solving, sia
    al di fuori di esso, con relazioni di interscambio informativo con
    il personale di staff (tecnologi, metodisti, manutentori,
    uffici tecnici e di progettazione), garantendo così una
    continuità tra gestione della produzione e innovazione. In
    questo frangente l'aumento di discrezionalità, spesso
    rafforzato da un ampliamento delle opportunità di formazione
    e apprendimento, è accompagnato dalla intensificazione dei
    ritmi di lavoro (v. Parker e Slaughter, 1995).
Sull'altro versante la polivalenza orizzontale richiama competenze
    deboli, che permettono al lavoratore di muoversi entro uno scenario
    più limitato di postazioni, caratterizzate da un contenuto
    tecnico affine e da impianti che fanno parte di una stessa "famiglia
    tecnologica" (v. Cerruti e Rieser, 1989). La forza lavoro è
    dislocata in contesti statici di apprendimento, con scarse
    possibilità di rigenerazione del patrimonio professionale e
    cognitivo, da cui deriva un restringimento delle opportunità
    di mobilità interaziendale.
Questa distinzione aiuta a capire la natura ibrida
    dell'organizzazione. L'egemonia culturale esercitata da un modello
    di riferimento (è questo attualmente il peso del just in
      time nell'orientamento manageriale) convive con segmenti
    organizzativi ancora strutturati secondo modalità
    tayloristiche di subordinazione della forza lavoro, spesso
    sottoposta a processi di spersonalizzazione soffocante. È
    questo il caso di imprese che hanno uno scarso ruolo nella catena
    del valore del prodotto, mentre conservano un ruolo non marginale
    nella catena del processo; ad esempio, le migliaia di piccole
    imprese che rimandano all'esperienza delle maquiladoras messicane dislocate ai confini con gli Stati Uniti e impegnate in
    produzioni fortemente standardizzate, nelle quali opera una forza
    lavoro altamente intercambiabile, di sesso femminile e con limitate
    possibilità di crescita professionale.
D'altra parte, non va trascurata la pluralità di forme
    organizzative e di prestazioni lavorative che si sono sviluppate
    all'ombra dell'impresa a produzione di massa, ma che non si sono mai
    affermate come alternativa praticabile al taylor-fordismo. È
    questo il caso, nel contesto italiano, del modello della
    "specializzazione flessibile" (v. Piore e Sabel, 1984; v. Barca e
    Magnani, 1989; v. Brusco, 1989), caratterizzato dalla maggiore
    elasticità posseduta da piccole e medie imprese
    nell'utilizzare competenze professionali e tecnologie in modo
    sufficientemente versatile da soddisfare bisogni crescenti di
    diversificazione della domanda (introduzione di nuovi prodotti,
    personalizzazione dei prodotti/servizi e modifiche dei processi di
    lavorazione).
Nel contesto internazionale una potenziale alternativa
    all'organizzazione del lavoro taylorista, ma implicitamente anche al just in time, è stata quella sperimentata in Svezia,
    sul finire degli anni ottanta, negli stabilimenti della Volvo di
    Uddevalla e Kalmar. In quell'occasione venne adottato come criterio
    di progettazione organizzativa il principio della 'ricomposizione
    delle mansioni', in aperta polemica con la logica della
    parcellizzazione dei compiti e dei movimenti di origine
    tayloristica. Vennero formati gruppi di lavoro dotati di ampia
    autonomia nella ripartizione dei compiti e dei tempi di lavoro (pur
    all'interno di programmi produttivi definiti dalla direzione),
    composti da operai altamente qualificati in grado di gestire interi
    segmenti del processo produttivo. Il progetto venne interrotto
    all'inizio degli anni novanta, per ragioni di competitività
    del prodotto non tanto sul versante della qualità, quanto su
    quello dei tempi di consegna dei prodotti e dei costi.
    Quell'esperienza, anche per la nicchia di mercato in cui andava a
    inserirsi (la fascia alta della produzione automobilistica), non
    riuscì mai a proporsi come alternativa praticabile rispetto
    al modello giapponese del just in time.
Non va sottovalutato il legame che unisce la polivalenza nella
    specializzazione flessibile e nel caso svedese con la filosofia
    della gestione delle risorse umane avanzata dal just in time,
    soprattutto sul versante della progressiva "risoggettivazione del
    lavoro operaio" (v. Revelli, 1997). Sottolineare questa
    continuità è utile per far luce sulle molteplici
    esperienze organizzative e produttive che sono maturate tra gli
    interstizi del modello taylor-fordista, ma è altrettanto
    necessario mettere in rilievo che la valorizzazione delle risorse
    umane e delle capacità cognitive e professionali che queste
    esprimono, pur con consistenti differenziazioni interne, ha potuto
    rappresentare un'alternativa quando ha soddisfatto esigenze di
    rinnovamento organizzativo nelle grandi imprese finali di produzioni
    di beni e servizi, emancipandosi dall'ambito ristretto della
    sperimentazione di mercati periferici o di nicchia.
    
4. Dalla lean production alla produzione
      modulare
      
Il riconoscimento del mercato quale principio di strutturazione
    degli assetti aziendali costituisce una delle svolte più
    innovative introdotte dal modello giapponese, in aperta rottura con
    quello esclusivamente gerarchico di matrice taylor-fordista.
    L'introduzione dei principî del just in time ridisegna il profilo della prestazione lavorativa sottoponendola a
    nuovi vincoli esecutivi e a gerarchie intermedie, mentre sul fronte
    dei rapporti con le imprese di fornitura la sincronizzazione
    logistica (movimentazione materiali, incanalamento informazioni) si
    traduce in una crescente necessità di integrare i rapporti
    tra cliente e fornitore attraverso l'intensificazione dei momenti di
    'progettazione congiunta' dei prodotti e dei servizi.
Nei primi anni novanta, quando il modello just in time si
    trovava in fase di piena espansione, il concetto di 'riduzione degli
    sprechi' - che aveva aperto una breccia innovativa nella riflessione
    manageriale - è stato nuovamente rielaborato, proseguendo e
    intensificando la strategia dell'alleggerimento delle funzioni e
    degli organici aziendali. Un primo tentativo risale all'elaborazione
    del concetto di re-ingegnerizzazione dei processi organizzativi (v.
    Hammer e Champy, 1993), che vede nella 'esternalizzazione' (outsourcing),
    ovvero nell'affidamento all'esterno delle attività che non
    risultano cruciali nella catena del valore dell'impresa, la via
    più efficiente per conseguire un vantaggio competitivo sul
    mercato.
Quello dell'outsourcing è un concetto poliedrico che
    può rimandare a significati tra loro molto differenti a
    seconda dell'oggetto che viene esternalizzato (che cosa), delle
    modalità contrattuali di trasferimento (come), delle ragioni
    che ispirano tale strategia (perché). Tuttavia, nella
    comunità scientifica c'è una sostanziale convergenza
    verso una definizione piuttosto versatile; per outsourcing si intende quel processo che accompagna la decisione delle imprese
    di cedere a fornitori la proprietà o la gestione operativa di
    parti del processo produttivo.
Soprattutto con la cessione della proprietà di parti del
    processo produttivo, che rappresenta la modalità più
    radicale di esternalizzazione, il ciclo produttivo dell'impresa
    cedente viene scomposto in una rete di proprietà distinte;
    quello che prima veniva realizzato all'interno di una struttura
    aziendale autonoma, sotto il profilo dei confini societari, ora
    è l'esito di attività che sono riconducibili al
    concorso di aziende giuridicamente autonome. La ricomposizione del
    processo produttivo viene garantita da un fascio di contratti di
    appalto, stipulati dall'impresa cedente e dall'impresa che
    acquisisce o gestisce le attività esternalizzate.
A seguito di queste considerazioni, si può definire
    'multisocietaria' quella impresa che si configura come un
    'contenitore' di realtà societarie diverse e autonome
    impegnate a condividere un comune 'spazio' di produzione; con questo
    termine si intende descrivere quel modo di organizzazione della
    produzione, adottato da una singola impresa, che consiste nella
    cessione a imprese esterne, prevalentemente tramite contratto di
    compravendita, della proprietà di funzioni aziendali (outsourcing),
    prossime al core business, e nella internalizzazione
    operativa (insourcing), tramite un contratto d'appalto di
    fornitura, delle loro attività nel sito produttivo
    originario, mediante il ricorso a un'architettura modulare del
    prodotto, dei processi e della catena di fornitura.
La modularizzazione è la soluzione organizzativa che rende
    possibile il trasferimento delle attività esternalizzate
    nell'area operativa dell'impresa cedente, e può riguardare la
    configurazione dei processi e la progettazione del prodotto. Sul
    versante dei processi, la modularizzazione prevede che interi
    sistemi di componenti vengano prodotti e combinati da fornitori
    specializzati operanti nel sito produttivo dell'impresa finale su
    linee di sotto-assemblaggio. Ciò determina un
    riposizionamento spaziale del fornitore 'sulle linee del cliente
    finale', insieme a una nuova configurazione degli assetti
    organizzativi e della dotazione tecnologica. Più articolata
    risulta la modularizzazione del prodotto. Infatti, il 'prodotto'
    viene inteso come un 'sistema di componenti', ciascuno dei quali
    può essere a sua volta scomposto in sotto-unità, e le
    loro interdipendenze tecnologiche sono definite da una comune logica
    di progettazione. Il baricentro dell'attività produttiva
    diventa il modulo, che rappresenta l'unità elementare, quindi
    non ulteriormente scomponibile, dell'intera architettura del
    prodotto. La combinazione variabile dei moduli indipendenti, che
    interagiscono attraverso interfacce standardizzate di connessione
    (v. Sanchez e Mahoney, 1996), può così determinare un
    ampliamento dell'offerta e dare origine a diverse soluzioni dello
    stesso prodotto.
La simultaneità dei processi di esternalizzazione e
    internalizzazione descrive un doppio movimento contraddittorio e
    rappresenta un elemento distintivo rispetto alle strategie di
    decentramento produttivo e deverticalizzazione degli assetti
    aziendali adottate dalle grandi imprese italiane nella prima
    metà degli anni settanta (v. Barca e Magnani, 1989); in quel
    caso, infatti, l'impresa cessionaria e quella cedente non
    condividevano lo stesso spazio produttivo, non si verificava,
    cioè, la condizione di internalizzazione delle
    attività cedute.
Con l'esternalizzazione l'impresa cedente sposta sui fornitori parti
    del rischio di impresa legato a un prodotto, ma allo stesso tempo
    chiede agli stessi di operare in prossimità o all'interno dei
    suoi impianti produttivi. Il passaggio della internalizzazione del
    fornitore nel sito dell'impresa finale rende possibile la riduzione
    dei costi, ma soprattutto favorisce il trasferimento di conoscenze
    esperte; qui la relazione di fornitura non riguarda solo lo scambio
    di prodotti o semilavorati, ma concerne l'instaurazione di economie
    di apprendimento e innovazione che derivano dalla fusione di due
    sistemi tecnologici.
Sul piano propriamente organizzativo del lavoro, con l'impresa
    modulare la prestazione non subisce radicali mutamenti; tuttavia,
    l'offuscamento dei confini dell'impresa stessa e, sull'altro
    versante, l'aumento dei punti di integrazione tra le attività
    aziendali generano nuove richieste di professionalità, ovvero
    aree di compiti che si espandono nei ruoli preesistenti e si vanno a
    innestare sulle trasformazioni già introdotte dal modello
    giapponese. In particolare, diventa cruciale la presenza di
    'produttori di integrazione' (management intermedio, operai
    e impiegati altamente qualificati privi di ruolo gerarchico), i
    quali operano ai confini dell'impresa, intrattengono comunicazioni
    tecniche con clienti e fornitori, e hanno il compito di elaborare
    efficacemente informazioni e dati in modo da facilitare la
    collaborazione tra le imprese (v. Butera e altri, 1997). Queste
    professionalità di integrazione sono il segno di una
    'sfasatura' tra le attività del sito produttivo, che
    può essere ricomposta se l'integrazione non incontra
    ostacoli, ma che in taluni casi può causare diseconomie
    organizzative dovute alla presenza di relazioni competitive tra
    ruoli ridondanti o sovrapposti.
Il profilo di questa popolazione lavorativa si compone di due aree
    distinte di competenza. In primo luogo, essa svolge attività
    di 'integrazione organizzativa', che consistono nel mettere in
    collegamento studi progettuali, saperi specialistici, risorse umane
    e finanziarie; in secondo luogo, essa costituisce una risorsa di
    supporto nella gestione dei contratti commerciali tra le imprese del
    sito produttivo; infatti, questo lavoro di scambio e integrazione di
    risorse non è facilmente governabile attraverso i contratti,
    i quali tutelano solo in parte le imprese dai rischi di opportunismo
    (pre- e post-contrattuale) degli altri partners aziendali,
    rendendo così necessaria la presenza di altre figure
    professionali, come il management intermedio, o, in un
    numero minore di casi, lavoratori altamente qualificati esterni alla
    catena di comando aziendale.
I produttori di integrazione definiscono un insieme di
    professionalità che vanno a integrare il modello giapponese
    di articolazione delle competenze, qualificandosi come una sorta di
    ulteriore specificazione della polivalenza verticale.
    
5. Conclusioni. Problemi e prospettive
Il primato della dimensione processuale del lavoro nei nuovi modelli
    di produzione ha determinato il passaggio della relazione di lavoro
    da una condizione contrassegnata dallo 'scambio di certezze' (gesti,
    movimenti, operazioni, ritmi, orari) - espressione di una visione
    onnicomprensiva della razionalità produttiva - a una
    condizione sempre più caratterizzata da uno 'scambio di
    impegni' (impegno attivo nel raggiungimento di sotto-obiettivi
    produttivi, connessione di più fonti informative, intervento
    sui fattori di criticità), dove invece si afferma una visione
    limitata della razionalità, proprio perché tali
    impegni non sono facilmente programmabili e comportano continui
    aggiustamenti in fase esecutiva. La prestazione di lavoro, pur con
    le sue profonde differenziazioni in termini di competenze possedute,
    richiede l'impiego continuo di risorse specifiche (conoscenze
    esperte), che costituiscono una delle leve più importanti per
    far fronte alle criticità che scaturiscono da processi
    produttivi complessi e - per i loro vincoli organizzativi
    (sincronizzazione tempistica e progettuale, integrazione delle
    attività interaziendali) - fragili. Allo stesso tempo, una
    quota consistente dei contenuti della prestazione di lavoro viene
    sottratta alla possibilità di standardizzazione e
    programmazione capillare, determinando così un indebolimento
    degli strumenti tradizionali di valutazione del lavoro erogato (v.
    Goldthorpe, 2000).
Certamente, il just in time e successivamente l'impresa
    multisocietaria hanno favorito, con il decentramento decisionale, la
    creazione di nuovi spazi di discrezionalità per il lavoro
    esecutivo e lo sviluppo di prestazioni polivalenti. Questo non
    è stato sufficiente ad accelerare la sperimentazione di nuove
    forme di umanizzazione del lavoro, spesso contrastate dall'emergere
    di condizioni di subalternità e di catene di comando non
    più incardinate sul 'ruolo', ma sul sapere posseduto e sulle
    opportunità di apprendimento e accrescimento delle
    competenze.
All'interno di un'impresa, o di un sistema di fornitura, convivono
    'destini' professionali e condizioni di lavoro sempre più
    determinati dal divario tra una popolazione lavorativa impegnata
    nelle attività strategiche dell'impresa, inserita in circuiti
    virtuosi di apprendimento, a cui vengono richieste prestazioni
    specifiche difficilmente standardizzabili e per questo soggette a
    rapporti fiduciari da parte del management, e una
    popolazione lavorativa a polivalenza debole, che opera in condizioni
    di continuità con la tradizione tayloristica e si trova
    maggiormente esposta alla precarietà del rapporto di lavoro.
    Tenuto conto dei limiti analitici delle schematizzazioni
    dualistiche, questa divaricazione delle traiettorie professionali e
    delle condizioni di lavoro può essere indicativa di una
    polarizzazione che rischia di sostituire, come ha fatto notare Aris
    Accornero (v., 1997), quella taylor-fordista tra colletti bianchi e
    colletti blu.
Tuttavia, tale polarizzazione non va intesa in modo deterministico e
    non ripropone una prospettiva pessimistica circa le conseguenze che
    la razionalizzazione produttiva dell'impresa capitalistica
    genererebbe, con una complessiva tendenza all'impoverimento dei
    contenuti e delle condizioni di lavoro (v. Braverman, 1974). La
    traiettoria della produzione snella, come abbiamo visto, va in una
    direzione opposta e sollecita piuttosto la regolazione di un nuovo
    rapporto tra lavoro e conoscenza, soprattutto per quanto concerne i
    rapporti di lavoro e la gestione delle risorse umane nell'impresa.
Infatti, la regolazione del rapporto di lavoro, calibrata
    sull'organizzazione taylor-fordista, si rivela inadeguata a
    comprendere e regolare la prestazione di lavoratori impegnati in
    attività di gestione di micro-obiettivi, conduzione di
    impianti, integrazione organizzativa; e questo vale non solo per le
    figure ad alta professionalità, ma anche per lavoratori meno
    qualificati. Il rapporto tra lavoro e conoscenza viene sempre
    più determinato dallo scambio di beni immateriali, e
    ciò genera un crescente indebolimento dell'efficacia dei
    contratti, a partire dalla capacità di aderire alle
    condizioni materiali dell'organizzazione del lavoro e quindi alla
    fenomenologia della prestazione individuale.
Inoltre, la divisione tecnica del lavoro produce sempre una
    stratificazione del potere organizzativo; nei modelli snelli di
    organizzazione del lavoro l'accesso al sapere può determinare
    i confini entro i quali maturano nuove disuguaglianze e quindi nuovi
    assetti di dominio, non più basati sulla standardizzazione
    delle mansioni, ma sulla inclusione o esclusione dei singoli
    lavoratori da opportunità di arricchimento del loro
    patrimonio cognitivo e professionale. Questo rischio viene
    ulteriormente aggravato dal ritardo nell'introduzione di nuovi
    criteri di valutazione delle competenze professionali all'interno
    degli stessi contratti di lavoro.
Sul versante della gestione delle risorse umane, occorre ricordare
    che il lavoro contiene una particolare specificità: la
    prestazione lavorativa è fisicamente inseparabile dalla
    persona che la eroga, e questo rende cruciale il tema del consenso e
    della cooperazione dei singoli. Il comportamento manageriale risulta
    fortemente condizionato da questo 'vincolo' strutturale del lavoro
    vivo, soprattutto alla luce del ruolo crescente e strategico assunto
    dalla conoscenza nel governo dei processi produttivi. Si determina
    nel management aziendale un mutamento nelle strategie di
    costruzione del consenso, sempre meno orientate a oscurare i fattori
    di conflitto che possono derivare dalla erogazione dello sforzo
    fisico - come aveva efficacemente messo in rilievo Michael Burawoy
    (v., 1979) osservando i "giochi di produzione" - e sempre più
    impegnate a creare condizioni favorevoli per convertire il sapere
    tacito dei singoli lavoratori (informazioni, pratiche, metodologie)
    in conoscenze esplicite utilizzabili da tutta l'organizzazione,
    attivando così un processo di espropriazione del patrimonio
    professionale individuale.
Complessivamente, la debolezza dei meccanismi di regolazione del
    rapporto tra lavoro e conoscenza e, non da ultimo, i ritardi nella
    modifica dell'istituto contrattuale, hanno agevolato l'impegno delle
    imprese nel riconfigurare unilateralmente i sistemi di gestione
    delle risorse umane, prime fra tutte le misure di 'fidelizzazione'
    dei lavoratori come parte integrante di una strategia più
    complessiva di produzione del consenso aziendale. A fianco del
    filone classico della scuola motivazionalista - che trae nuovamente
    vigore dalla prospettiva del comunitarismo aziendale, anche in
    relazione al fascino esercitato dalla prospettiva giapponese
    dell'impresa-comunità (v. Dore, 1987), dove non è
    trascurabile il ruolo che la cultura aziendale esercita nel
    rafforzare il controllo normativo sui comportamenti individuali - si
    sviluppano interventi finalizzati a produrre comportamenti
    cooperativi per mezzo di un coinvolgimento dei dipendenti in
    'processi distributivi' di natura economica e finanziaria. Questo
    determina una accentuazione della flessibilità retributiva:
    una parte del rischio di impresa viene incorporata nel salario -
    attraverso forme di azionariato dei dipendenti, oppure, più
    diffusamente, tramite l'agganciamento del salario a parametri
    variabili di produttività, qualità e
    redditività dell'impresa - quale contrappeso alla incertezza,
    da parte del management, circa i risultati della
    produzione.
Più limitata è l'esperienza della costruzione del
    consenso attraverso modelli di coinvolgimento dei dipendenti tramite
    la partecipazione collettiva ai 'processi decisionali' dell'impresa
    o del sito produttivo (nel caso dell'impresa multisocietaria), che
    invece presuppongono trasferimenti di quote di autorità dal management ai dipendenti e consentono a questi ultimi di esercitare un ruolo
    attivo nella determinazione delle scelte organizzative, con
    conseguenze sulla qualità della vita di lavoro (v. Baglioni,
    2001).
La sfida della partecipazione nelle sue diverse articolazioni,
    distributiva e decisionale, raccoglie insieme i nodi cruciali dei
    mutamenti che hanno investito il lavoro e la sua organizzazione. In
    particolare, il legame tra consenso e sapere ridefinisce i contorni
    della conflittualità e della cooperazione nell'impresa, ma
    apre anche la via alla sperimentazione di modalità
    organizzative capaci di accrescere il potenziale di apprendimento,
    arginare nuove disuguaglianze e riconoscere al lavoro vivo spazi di
    autonomia ed emancipazione rimasti sinora allo stato di
    potenzialità.
    
    Diritto del lavoro di Mario Rusciano
    
    sommario: 1. Il paradosso della fine del
    lavoro e il cambiamento del diritto del lavoro. 2. Specialità
    del diritto del lavoro e immutabilità del suo codice
    genetico. 3. Lo scenario del cambiamento. a) Innovazione
      tecnologica, trasformazioni economico-produttive e
      flessibilità. b) II ruolo del sindacato. c) Dalla 'contrattazione' alla 'concertazione'. 4.
    Terziarizzazione del conflitto e limiti allo sciopero nei servizi
    essenziali. 5. Europeismo e regionalismo nel diritto del lavoro. 6.
    L'evoluzione del sistema delle fonti. 7. Unione Europea e diritto
    del lavoro. 8. Il policentrismo normativo: regionalizzazione e
    delegificazione. 9. Nuove funzioni del contratto collettivo. 10. Il
    primato della Costituzione a difesa dei diritti fondamentali dei
    lavoratori. 11. Il ruolo della giurisprudenza: giudici, arbitri e Authorities.
    12. L'estensione del diritto del lavoro. a) Tutela nel
      contratto e nel mercato del lavoro. b) Dal lavoro ai
      lavori. c) Diritto del lavoro e pubblico impiego.
    13. Flessibilità delle tecniche giuridiche. a) Norma
      inderogabile. b) Controllo sindacale. c) Norma
      incentivante. d) Autonomia individuale. e) Soft
      law. □ Bibliografia.
      
1. Il paradosso della fine del lavoro e il
      cambiamento del diritto del lavoro
      
Nel passaggio dal XX al XXI secolo, alla svolta del millennio, non
    manca chi, specie tra i sociologi, arriva a profetizzare la 'fine
    del lavoro' e, dunque, del diritto del lavoro, quale insieme di
    regole (legali e convenzionali) che disciplinano il fenomeno del
    lavoro nella sua moderna complessità: dai rapporti
    individuali a quelli collettivi e sindacali, dai meccanismi del
    mercato del lavoro ai rischi esistenziali dei lavoratori durante e
    dopo la vita lavorativa. Partendo dall'idea secondo cui
    l'innovazione tecnologica (delle comunicazioni, dell'informatica,
    ecc.) determinerà la progressiva sostituzione del lavoro
    umano con macchine sempre più complete e perfette in quasi
    tutti i settori produttivi, si giunge a ipotizzare un "mondo senza
    lavoratori", tale da lanciare "la comunità mondiale nella
    Terza grande rivoluzione industriale" e nell'"era post-mercato" (v.
    Rifkin, 1995; tr. it., pp. 15-16).
Un'ipotesi del genere è paradossale: se non altro
    perché il superamento di un certo modo di lavorare non
    elimina la necessità del lavoro umano e non può,
    quindi, tradursi nella scomparsa dei milioni di persone che, nelle
    diverse attività produttive o nei servizi, rispondono a
    questa necessità, impiegando le proprie energie alle
    dipendenze (o, comunque, nell'interesse) di altri, allo scopo di
    ottenere in cambio non solo un reddito, ma anche identità,
    inclusione e promozione sociale. Tuttavia, quell'ipotesi fa
    riflettere su un fenomeno evidente: il rapido cambiamento della
    morfologia del lavoro, provocato dal cambiamento radicale
    dell'organizzazione economica e produttiva, in corso da una ventina
    d'anni (v. Accornero, 1994). Ovviamente, il cambiamento del lavoro
    produce il cambiamento del diritto del lavoro. Mutando
    modalità, quantità e qualità della prestazione
    d'opera, mutano pure le condizioni economico-sociali e giuridiche
    dello scambio tra lavoro e retribuzione: sia sul piano individuale,
    sia su quello collettivo. Un cambiamento epocale, come vedremo.
    
2. Specialità del diritto del lavoro e
      immutabilità del suo codice genetico
      
Per la verità, in Italia, il diritto del lavoro, nato dalla
    rivoluzione industriale (fine Ottocento-primi Novecento), ha
    conosciuto nell'arco di un secolo altri cambiamenti, analoghi se non
    eguali, dovuti all'intrinseca natura di ramo del diritto capace di
    registrare i fatti economico-politici e socio-antropologici legati
    all'uso delle energie lavorative, per temperare, e non vanificare,
    le istanze del sistema capitalistico del quale esso costituisce un
    effetto e, nello stesso tempo, uno strumento essenziale (v.
    Ascarelli, Norma..., e Ordinamento..., 1959).
La subalternità del diritto del lavoro (soprattutto)
    all'economia, se per un verso lo costringe a cambiare spesso
    'pelle', a ridefinire i suoi confini, a rivedere costantemente le
    sue tecniche, per un altro verso ne rende immutabile la ratio naturale: proteggere chi, non possedendo altro che energie
    psico-fisiche, le offre a chi, potendo invece permettersi
    economicamente un'organizzazione produttiva o personale, domanda di
    'comprare' o 'affittare' (secondo le concezioni dei giuristi di
    inizio Novecento) le medesime energie per utilizzarle a propri fini.
    È vero che, dal punto di vista giuridico, questo scambio
    avviene con un contratto, ma è vero pure che, nel contratto
    di lavoro, i soggetti contraenti solo formalmente sono eguali;
    sostanzialmente, invece, il lavoratore è, per definizione,
    contraente debole: se vuole lavorare, deve accettare le condizioni
    del datore di lavoro, il cui 'dispotismo contrattuale' nasce dal
    fatto che molte persone sono disposte a lavorare a quelle
    condizioni. Inoltre, a differenza degli altri rapporti obbligatori,
    nel rapporto che nasce dal contratto di lavoro come contratto di
    durata, anzitutto, sono implicati non soltanto valori economici, ma
    anche la persona del lavoratore, dato il carattere personale
    dell'adempimento, nel tempo, dell'obbligazione lavorativa; e, in
    secondo luogo, è il creditore a decidere - quasi momento per
    momento - la prestazione del debitore. Il lavoratore, infatti,
    è "legato da un vincolo che, fra tutti i vincoli di contenuto
    patrimoniale, è il solo a porre, sia pure per
    necessità istituzionale, un soggetto alle dipendenze di un
    altro soggetto" (v. Santoro Passarelli, 1985, p. 17). Questa
    specialità del rapporto (non a caso concepito, all'inizio,
    come locatio operarum) spiega la specialità del
    diritto del lavoro (v. Scognamiglio, 1960), caratterizzato dalla
    penetrante ingerenza della legge (e della contrattazione sindacale)
    nell'autonomia negoziale individuale. E spiega la compresenza, in
    esso, di modelli e logica sia del diritto privato, sia del diritto
    pubblico. Inoltre, siccome l'organizzazione produttiva richiede
    l'impiego di molti lavoratori, particolare rilievo assume la
    dimensione sociale del rapporto di lavoro: quanti, per vivere, sono
    legati da un rapporto di lavoro con un imprenditore, ben presto si
    coalizzano per rivendicare più denaro e più potere,
    sostituendo così alla debolezza del singolo la forza del
    gruppo. Dalla sintesi degli interessi individuali di un gruppo
    omogeneo nasce l'interesse collettivo, pietra angolare
    dell'organizzazione sindacale nelle sue varie articolazioni (di
    azienda, di mestiere, di categoria e confederale), la quale mira
    appunto a contrattare collettivamente con la controparte migliori
    condizioni di lavoro e di vita: se necessario, sostenendo le
    rivendicazioni con la lotta, anche aspra (sciopero, ecc.).
Con un fenomeno sociale di queste proporzioni devono fare i conti
    tutte le ideologie politiche del XX secolo. Ecco perché,
    storicamente, nel passaggio dallo Stato liberale allo Stato fascista
    (instauratore, dal 1926, dell'ordinamento corporativo) e poi, da
    questo, allo Stato sociale, fondato sulla Costituzione repubblicana
    del 1948 - frutto dell'intesa antifascista tra cattolici, comunisti,
    socialisti e liberali -, ciò che cambia, nel diritto del
    lavoro, è il segno, l'intensità o, se si vuole, la
    filosofia della tutela, ma resta inalterato, almeno in linea
    teorica, il suo codice genetico di ordinamento protettivo di quanti
    traggono dal lavoro i mezzi di sussistenza: insomma, un "diritto a
    misura d'uomo" (v. Romagnoli, 1995, p. 19). In tal senso il diritto
    del lavoro serve a tenere sotto controllo l'antica questione
    sociale, che cambia storicamente, ma continuamente si ripropone e
    costringe il legislatore a intervenire per motivi di ordine
    pubblico, per evitare, cioè, che le insopprimibili tensioni
    tra datori di lavoro e lavoratori in merito a una distribuzione equa
    (tra profitti e salari) della ricchezza prodotta sfocino in veri
    scontri sociali, sempre deleteri per la crescita economica e civile
    di una democrazia industriale.
    
3. Lo scenario del cambiamento
a) Innovazione tecnologica, trasformazioni economico-produttive
      e flessibilità
Le trasformazioni del diritto del lavoro negli ultimi vent'anni,
    oltre che alla crisi economica di fine anni settanta-primi anni
    ottanta - la quale ha reso predominanti, per le imprese, gli
    obiettivi della riduzione del costo del lavoro e dell'aumento della
    produttività - sono da imputare alla diffusione delle nuove
    tecnologie che hanno provocato ristrutturazioni e riconversioni
    aziendali senza precedenti. L'innovazione tecnologica, come è
    noto, incide pesantemente sulla prestazione di lavoro. Gli strumenti
    elettronici e informatici o si sostituiscono del tutto al lavoro
    umano, oppure, pur semplificando e velocizzando il processo
    produttivo, impongono ai lavoratori nuovi ritmi, sottoponendoli, per
    giunta, a nuovi e penetranti controlli che spesso ne compromettono
    la privacy. Di conseguenza, o i lavoratori vengono espulsi
    da tale processo, oppure la prestazione diviene meno faticosa in
    senso tradizionale e più faticosa in senso moderno, aprendo
    nuovi problemi di sicurezza del lavoro. In ogni caso, si verificano
    straordinari sommovimenti sociali: chi conserva il lavoro deve
    accettare ritmi e vincoli nuovi; chi lo perde deve riciclarsi per
    trovare altra occupazione, magari facendo, anziché l'operaio
    metalmeccanico, il maestro di tennis!
Ma la diffusione delle nuove tecnologie, per intuibili reazioni a
    catena, incide sul sistema economico anche in altri sensi. Col
    superamento dei confini geografici e delle barriere nazionali, essa
    rivoluziona i mercati di beni e servizi, ne favorisce la
    globalizzazione e provoca fusioni societarie, decentramenti
    produttivi, trasferimenti d'azienda ed esternalizzazioni, tutte
    iniziative capaci di fronteggiare - si ritiene - la spietata
    competizione mondiale tra imprese e, persino, tra sistemi produttivi
    nazionali. Non esistendo autorità sovranazionali e regole
    universali di governo della globalizzazione, sono le grandi
    società multinazionali, guidate dalla logica privatistica
    della convenienza, a dettare legge in materia, attraverso scelte
    economico-finanziarie che sconvolgono mercati e occupazione. 
Si tratta infatti di scelte che, oltre ad accendere nuove
    conflittualità sociali da un capo all'altro della Terra (si
    pensi al fenomeno del movimento no global, ecc.),
    comportano di solito esuberi di manodopera, spesso professionalmente
    'vecchia', e licenziamenti per riduzione di personale.
    Parallelamente, le migrazioni di proporzioni bibliche dall'Est e dal
    Sud del mondo verso l'Occidente consentono lo sfruttamento di
    ingenti masse di immigrati, disposti a fare qualunque lavoro
    (regolare o irregolare, e soprattutto i lavori umili) che i
    cittadini della società opulenta si rifiutano di fare,
    sebbene si tratti spesso di lavoratori espulsi dal sistema
    industriale in età matura e quindi incapaci di apprendere un
    nuovo mestiere per mantenersi attivi. Senza contare che, negli
    ultimi trent'anni, il mercato del lavoro ha visto, in tutti i
    settori, un incremento della presenza (non più irregolare)
    delle donne, grazie al cambiamento culturale di fine anni sessanta.
Si tratta di processi di enorme portata, che stanno generando vere e
    proprie mutazioni socio-antropologiche, con notevoli costi umani.
    Tra di essi, due meritano una particolare attenzione, se si vuol
    comprendere il cambiamento del lavoro e del diritto del lavoro. In
    primo luogo, la sostituzione della grande impresa
    taylorista-fordista con piccole unità produttive che
    utilizzano pochi addetti, spesso temporanei. In secondo luogo, la
    terziarizzazione dell'economia, con il conseguente spostamento
    dell'occupazione dall'industria ai servizi. Al centro di questi
    fenomeni sta l'esigenza di flessibilità del lavoro (mansioni,
    tempi e luogo della prestazione, ecc.), indispensabile al nuovo modo
    di produrre e di organizzare i servizi (dal commercio al terziario
    avanzato, ai servizi del tempo libero, ecc.).
Tutto ciò rivoluziona non solo modi e tempi di lavoro, ma
    anche stili di vita, fino a mettere in discussione i modelli
    culturali fondati sulla stabilità del lavoro in fabbrica.
    Tramonta la classica figura sociale del 'lavoratore' -
    maschio-capofamiglia, occupato a tempo pieno e indeterminato
    nell'industria privata, per lo più di dimensione medio-grande
    - da sempre tipica destinataria della tutela del diritto del lavoro
    (v. D'Antona, 1998), e con essa tramonta il diritto del lavoro nato
    nell'industria, mentre prendono forma nuove regole plasmate sulle
    esigenze produttive più diverse. Si apre così la
    'stagione della flessibilità'.
    
b) Il ruolo del sindacato
Prima ancora che sulla politica del diritto del lavoro, la stagione
    della flessibilità ha pesanti effetti sul sistema dei
    rapporti sindacali, concepito in Italia, dagli anni sessanta in poi,
    come ordinamento autonomo rispetto all'ordinamento dello Stato
    (seppure con questo collegato). Tale concezione si basa su una
    lettura, realistica e avanzata, del 1° comma dell'art. 39 della
    Costituzione - secondo cui "l'organizzazione sindacale è
    libera" - e sulla mancata attuazione dei commi successivi al primo,
    nei quali si disegnava un meccanismo di riconoscimento statale dei
    sindacati, mediante registrazione di quelli 'democratici', e di
    rappresentanza unitaria proporzionale dei medesimi, per la
    stipulazione di contratti collettivi erga omnes (v.
    Giugni, 1960). La centralità del sistema sindacale autonomo,
    nel diritto del lavoro, costituisce un dato indiscusso (per il
    legislatore, per la dottrina e per la giurisprudenza) finché
    le maggiori Confederazioni sindacali (CGIL, CISL, UIL) riescono ad
    aggregare gli interessi collettivi di milioni di lavoratori delle
    grandi imprese industriali e delle grandi categorie operaie. Grazie
    all'omogeneità, di massima, degli interessi rappresentati,
    non è difficile l'identificazione dell'interesse del singolo
    lavoratore con un interesse collettivo ampio, che per tradizione il
    sindacato difende, seguendo soprattutto il paradigma degli operai
    dell'industria. Ma la scomparsa della grande fabbrica e della figura
    antropologica del lavoratore standard, nonché l'atomizzazione
    del lavoro fuori della fabbrica diversificano e frammentano gli
    interessi di chi lavora, rendendo assai difficile il compito di
    aggregarli. A questa difficoltà si aggiunge la comprensibile
    ritrosia dei lavoratori flessibili a iscriversi al sindacato,
    ritrosia dovuta alla diffidenza, alle discriminazioni e alle
    rappresaglie da parte dei datori di lavoro. Precarietà del
    lavoro e moltiplicazione di nuovi mestieri, gruppi e categorie
    professionali abbassano l'indice di sindacalizzazione, dando vita,
    però, a nuove conflittualità, tanto da far prevedere
    che in futuro più diversificato, diffuso e precario
    sarà il lavoro, più spontaneo, multiforme e
    incontrollabile sarà il conflitto. In altre parole, è
    difficile pensare che i modelli variabili di organizzazione del
    lavoro e di uso delle risorse umane - tra i quali il datore di
    lavoro può scegliere a suo piacimento, aggravando la
    solitudine e la debolezza contrattuale del lavoratore - non
    finiscano col rompere la coesione sociale cementata da eguaglianza e
    solidarietà, pilastri dell'esperienza collettiva del lavoro e
    dell'ordinata convivenza civile.
Logicamente, il superamento della grande impresa, la diffusione di
    piccole unità produttive (con pochi addetti e assenza
    sindacale), la terziarizzazione dell'economia e la gestione
    più flessibile di criteri e regole di scambio della
    forza-lavoro rendono ormai inutile o impraticabile il controllo
    sindacale dei poteri del datore nei luoghi di lavoro (previsto dallo
    Statuto dei lavoratori, legge 20 maggio 1970, n. 300, e plasmato sul
    ricordato modello di relazioni industriali nella grande impresa di
    quarant'anni fa), vera linfa del potere sindacale. Ciò mette
    in crisi quel congegno, tipico del diritto del lavoro (e fissato,
    appunto, nello Statuto), per cui tutela individuale e tutela
    collettiva dei lavoratori interagiscono in un sistema circolare:
    attraverso il potenziamento del sindacato, come contropotere
    nell'impresa, si arriva a rendere effettivo l'esercizio dei diritti
    individuali e, attraverso la garanzia legale dei diritti individuali
    dei lavoratori, specie del diritto alla stabilità reale del
    posto di lavoro (art. 18 dello Statuto), si rafforza
    l'attività sindacale nei luoghi di lavoro.
Ora la crisi del sindacalismo operaio fa vacillare lo storico ruolo
    sociale del sindacato (v. Cella, 1999, p. 111). In effetti esso vive
    oggi una crisi senza precedenti - e, secondo alcuni, addirittura
    irreversibile - anche a causa di vecchi nodi non risolti. Primo fra
    tutti il problema della rappresentanza sindacale (v. Rusciano, 2003,
    pp. 216 ss.), al quale il legislatore ha tentato di rispondere in un
    primo tempo, negli anni settanta, attraverso il ricorso alla figura
    del sindacato maggiormente rappresentativo, e poi, vista la crisi di
    tale criterio (culminata con l'abrogazione referendaria, nel 1995,
    della lettera a dell'art. 19 dello Statuto dei lavoratori),
    attraverso la recente introduzione della figura del sindacato
    comparativamente più rappresentativo. Tuttavia, queste figure
    sono adatte a fasi in cui la rappresentatività è
    indiscussa o abbastanza accettata dalla coscienza collettiva; ma
    quando è messa in dubbio la legittimazione stessa del
    sindacato, è giocoforza andare alla ricerca di nuovi criteri,
    tanto di aggregazione degli interessi collettivi, quanto di
    acquisizione e misurazione del consenso (democrazia sindacale). Non
    meraviglia, allora, che il sindacato stesso fatichi, oggi, a trovare
    la strada per farsi portatore di interessi più ampi, non solo
    tra i lavoratori occupati, ma anche tra quelli aspiranti a
    un'occupazione e persino tra i pensionati. 
A queste figure standard vanno inoltre aggiunti i lavoratori
    flessibili, nonché quelli para-subordinati o coordinati e
    continuativi. Per questa via, il sindacato finirà col
    rappresentare l'istanza protettiva del "lavoratore in quanto
    cittadino" (v. Romagnoli, 2001, p. 818). Del resto, già da
    qualche tempo, esso si atteggia anche a erogatore di servizi
    (assistenza legale, fiscale, ecc.). Questa penetrazione sindacale
    nel nuovo mondo del lavoro non scioglie di per sé i nodi
    della rappresentatività e della democrazia sindacale, per
    risolvere i quali occorre un (non facile) intervento legislativo, da
    tempo atteso. Perciò lascia perplessi la strada del tutto
    diversa, imboccata dal legislatore con la legge 14 febbraio 2003, n.
    30, e con il relativo decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276:
    che, senza nulla stabilire circa i criteri di misurazione della
    rappresentatività e di sostegno della democrazia sindacale,
    assegnano comunque al sindacato nuove funzioni istituzionali, le
    quali richederebbero, invece, proprio la fissazione di codesti
    criteri. E infatti, prevedere la partecipazione 'insieme' alla
    contrapposta rappresentanza datoriale, a 'enti' od 'organismi
    bilaterali' - con compiti di mediazione tra domanda e offerta di
    lavoro, di formazione, di certificazione del tipo di rapporto di
    lavoro e di attestazione dell'esercizio, da parte del lavoratore,
    del potere dispositivo dei propri diritti, ecc. - significa affidare
    al sindacato funzioni parapubbliche. Le quali, oltre a essere
    estranee al nostro attuale sistema (evocando, anzi, la passata
    esperienza corporativa), trovano il sindacato medesimo non
    attrezzato giuridicamente. In realtà, per essere esercitate
    con efficacia, tali funzioni esigono appunto certezza giuridica
    sulla rappresentatività e sulla democrazia sindacale.
    
c) Dalla ' contrattazione' alla 'concertazione'
L'inserzione del sindacato in un ente bilaterale, con funzioni
    parapubbliche, esprime bene la metamorfosi e la confusione della
    rappresentanza degli interessi generate dalle trasformazioni del
    lavoro. La stessa inserzione, peraltro, è coerente con una
    stagione politica incline a ridisegnare il ruolo del sindacato,
    alterandone l'identità: nell'ente bilaterale,
    l'alterità delle posizioni rappresentative dei contrapposti
    interessi si smarrisce nella forzosa ricerca di posizioni comuni.
    Insomma, le difficoltà, per il sindacato, di svolgere il
    ruolo genuino di rappresentante degli interessi collettivi omogenei
    dei lavoratori (di una categoria, di un'impresa), secondo il modello
    della partecipazione conflittuale, lo caricano, per uno strano gioco
    di compensazione, di ruoli nuovi, per lo più istituzionali:
    da quello di semplice interlocutore dei pubblici poteri a quello di
    gestore di funzioni, nell'ente bilaterale. E difatti nell'ultimo
    decennio, mentre prende corpo, come vedremo, una tendenza
    legislativa a investire di nuove funzioni la contrattazione
    collettiva, si diffonde pure il metodo della concertazione sociale:
    i pubblici poteri mirano ad acquisire consenso sulle impopolari
    decisioni di politica economica, con il coinvolgimento
    responsabilizzante del sindacato e delle associazioni
    imprenditoriali. Il cosiddetto 'modello neocorporativo' si comincia
    ad affermare proprio con la conclusione di grandi accordi
    triangolari (per lo scambio politico-economico tra governo,
    imprenditori e sindacati), i cui contenuti influenzano poi
    legislazione e contrattazione.
Negli accordi di concertazione dell'ultimo decennio (il Protocollo
      sulla politica dei redditi e dell'occupazione, sugli assetti
      contrattuali, sulle politiche del lavoro e sul sostegno al sistema
      produttivo, del 23 luglio 1993; l'Accordo per il lavoro,
    del 24 settembre 1996; il Patto sociale per lo sviluppo e
      l'occupazione, del 22 dicembre 1998, il cosiddetto 'Patto di
    Natale'; il Patto per l'Italia - Contratto per il
      lavoro, del 5 luglio 2002) temi cruciali, come la politica
    dei redditi e di contenimento dell'inflazione, si intrecciano con
    nuovi obiettivi e priorità: dalla politica della spesa
    pubblica e dell'occupazione, alla riforma del mercato del lavoro (e,
    più in generale, del Welfare State), dalla
    previsione di assetti della contrattazione collettiva (con una
    precisa distinzione di competenze tra contrattazione nazionale e
    decentrata), sino alla formalizzazione delle procedure della stessa
    concertazione (nel 'Patto di Natale' del 1998). Alla fine degli anni
    ottanta e negli anni novanta, poi, la concertazione, oltre che a
    livello 'macro' (di sistema economico), si è sviluppata a
    livello 'meso' (di categoria) e 'micro' (di impresa), dando vita sia
    a una contrattazione aziendale, orientata alla partecipazione dei
    lavoratori, sia a una nuova contrattazione territoriale, che si
    traduce nei patti territoriali e nei contratti d'area.
Il modello neocorporativo, se mantenuto entro confini sorvegliabili,
    ha dei vantaggi: basta ricordare che, senza gli accordi del
    1992-1993 tra governo e parti sociali, l'Italia non avrebbe
    raggiunto una situazione economica compatibile con i parametri di
    Maastricht per la realizzazione dell'unità monetaria europea.
    Ma con questo modello, mentre si rafforza il sindacato-istituzione,
    fatalmente si indebolisce il sindacato-movimento: lo squilibrio tra
    queste due anime, specie in una stagione politica che presenta i
    tratti prima richiamati, è socialmente nefasto, perché
    accentua sia l'antagonismo sociale di aggregazioni spontanee o
    extrasindacali (Cobas, Rappresentanze di base, ecc.), sia i
    conflitti endosindacali, fino a spaccare l'interesse dei lavoratori:
    un tempo divisi da ragioni ideologiche, oggi divisi da un
    bipolarismo politico all'italiana, non privo di contraddizioni (si
    veda il Patto per l'Italia del 5 luglio 2002, firmato
    dalla CISL e dalla UIL e contestato duramente dalla CGIL).
    
4. Terziarizzazione del conflitto e limiti allo
      sciopero nei servizi essenziali
      
La terziarizzazione dell'economia, di cui si è detto,
    comporta la terziarizzazione del conflitto sociale: l'asse del
    conflitto si sposta dall'industria ai servizi. Qui la frammentazione
    degli interessi collettivi è vistosa: fioriscono più
    sindacati autonomi, di taglio corporativo, magari con pochi
    iscritti, ma con grande potere vulnerante, dato il tipo di
    organizzazione del lavoro. Ora, quando il conflitto tocca servizi
    pubblici essenziali, dove l'utenza è più vulnerabile,
    oltre che inerme, la necessità di tutelare l'interesse
    generale diviene ineludibile (v. Treu, 2001, p. 221). Fallito il
    tentativo delle Confederazioni sindacali, vent'anni fa, di
    raggiungere, con l'autoregolamentazione, l'ambizioso obiettivo di
    contemperare diritto di sciopero (ex art. 40 Cost.) e
    diritti dei cittadini costituzionalmente tutelati, è
    intervenuta la legge 12 giugno 1990, n. 146 (in parte modificata
    dalla legge 11 aprile 2000, n. 83). Una normativa di grande rilievo
    politico-sindacale e tecnico-giuridico: in essa si sceglie un
    meccanismo di regolazione adeguato alla complessità e
    delicatezza del fenomeno da regolare e all'esigenza di rispetto
    concreto delle regole. Quelle legali sono ridotte al minimo
    (preavviso di sciopero, comunicazione della durata, delle
    modalità di attuazione e delle motivazioni), mentre il
    compito più importante, cioè l'individuazione delle
    prestazioni indispensabili in caso di sciopero, è affidato
    alla contrattazione (ai cosiddetti 'accordi sulle prestazioni
    indispensabili'), la quale, riferendosi a specifiche realtà
    organizzative, produce regole diversificate (per settore, azienda,
    ente, categoria) aderenti al contesto e accettate dai destinatari.
    Completa il meccanismo regolativo l'istituzione di un'apposita
    Commissione di garanzia dell'attuazione della legge, cui spetta
    valutare l'idoneità degli accordi, dettare una provvisoria
    regolamentazione (quando mancano gli accordi), segnalare
    all'autorità amministrativa le misure necessarie, da adottare
    con apposita ordinanza (la vecchia precettazione), per evitare "un
    pregiudizio grave e imminente ai diritti della persona
    costituzionalmente tutelati" (art. 8, l. 146), e infine comminare
    sanzioni, collettive e individuali, in caso di violazione delle
    regole.
    
5. Europeismo e regionalismo nel diritto del
      lavoro
      
Sul diritto del lavoro degli ultimi anni hanno inciso anche i
    cambiamenti del quadro politico-istituzionale, dovuti alla parallela
    crescita, nella vita economica e sociale, della dimensione europea e
    della dimensione locale (tendenze solo apparentemente contrastanti,
    perché l'ampliamento dei confini geografici accresce, nelle
    persone, tanto l'aprirsi al mondo, quanto il rinchiudersi nei
    confini della propria realtà territoriale). Da una parte,
    dunque, il processo di integrazione comunitaria (culminato a
    Maastricht, nel 1992, con l'istituzione dell'Unione Europea, e
    rafforzatosi ad Amsterdam, nel 1997, e a Nizza, nel 2000) comporta
    l'apertura delle frontiere del diritto del lavoro, non potendo certo
    esso restare, nell'era della globalizzazione, un diritto
    esclusivamente nazionale, chiuso entro i confini dello Stato.
    Dall'altra parte, il progressivo affermarsi, a livello nazionale,
    della cultura del federalismo - basata sull'idea che lo sviluppo
    economico e sociale deve contare prevalentemente sulle risorse
    (economiche, umane) delle comunità locali ed essere gestito
    dai poteri locali - fa sempre più sentire, negli ultimi anni,
    l'esigenza di una maggiore rilevanza delle realtà
    territoriali anche nel diritto del lavoro.
L'istanza di federalismo trova il suo sbocco politico-istituzionale
    nella legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che riforma, in
    modo tecnicamente criticabile, il titolo V, parte II, della
    Costituzione nel duplice senso: a) di realizzare un nuovo e
    paritario riparto di competenze legislative tra Stato e Regione,
    attribuendo a quest'ultima un'ampia potestà legislativa,
    nonché la potestà regolamentare (art. 117); b) di
    costituzionalizzare il 'principio di sussidiarietà' (art.
    118), con l'ampliamento delle funzioni amministrative di Regioni ed
    Enti locali (il cosiddetto 'federalismo amministrativo'; v.
    Mariucci, 2001). La Regione assume una posizione centrale nel nuovo
    assetto istituzionale, con ripercussioni sulle fonti del diritto,
    anche del lavoro, e col rischio di aumentare, anziché
    ridurre, antichi divari territoriali.
    
6. L'evoluzione del sistema delle fonti
I mutamenti del quadro istituzionale si ripercuotono sulle fonti del
    diritto, sebbene il diritto del lavoro ne risenta meno, in quanto in
    esso, accanto alle fonti in senso formale (Costituzione, legge,
    normativa subprimaria), hanno da sempre notevole peso le fonti in
    senso materiale: dalle prassi sindacali di partecipazione e
    concertazione - al centro delle quali si collocano contratti
    collettivi e accordi sindacali - alla giurisprudenza. A dire il
    vero, nell'ultimo ventennio, pure i metodi e i contenuti delle fonti
    in senso materiale vengono messi a dura prova dalle trasformazioni
    del lavoro e dalla frammentazione degli interessi che ne deriva,
    perché si reggono proprio sulla coesione e su un certo
    stabile equilibrio degli interessi. Ciò rende complicate
    tanto la contrattazione, quanto le decisioni giurisprudenziali,
    condizionate dalla realtà economico-produttiva, ma nello
    stesso tempo tese a incidere, a loro volta, su tale realtà,
    onde evitarne pericolose distorsioni sociali. Sta di fatto che, in
    un contesto del genere, l'operazione non è semplice, sebbene
    soltanto la contrattazione e la giurisprudenza possano davvero
    ricondurre a sistema armonico tante regole, originate dall'intreccio
    di atti formali e comportamenti materiali. Specie in tempi critici,
    il piano formale prevale, benché talmente affastellato (per
    il moltiplicarsi di 'atti', 'fatti' e 'livelli' di formazione delle
    regole) da mettere in difficoltà gli interpreti e gli
    operatori più esperti. A ogni modo, può dirsi che
    oggi, alla stregua dell'intera produzione giuridica (formale e
    materiale), il diritto del lavoro si presenti a tre dimensioni:
    europea, regionale e nazionale (che resta comunque la più
    consistente).
    
7. Unione Europea e diritto del lavoro
Nella produzione giuridica sul lavoro è penetrata una logica
    europea, in virtù dei condizionamenti dell'Unione Europea, a
    partire dai contenuti dello stesso Trattato istitutivo della
    Comunità Europea, nella versione modificata dei Trattati di
    Maastricht, nel 1992, di Amsterdam, nel 1997, e di Nizza, nel 2000
    (come, per esempio, la compatibilità delle regole nazionali
    sul lavoro col diritto comunitario della concorrenza: in proposito,
    v. Sciarra, 2000). Condizionamenti che aumenteranno (assieme alle
    difficoltà politiche) con l'allargamento dell'Unione ai paesi
    che attendono di farne parte e che hanno ordinamenti diversi, oltre
    ad avere differenti caratteristiche socio-antropologiche ed
    economiche e, in genere, più bassi standard di tutela del
    lavoro (retribuzioni, ecc.). Ma, già oggi, il diritto del
    lavoro deve adeguarsi ai minimi di tutela, dettati dalle direttive
    comunitarie - sempre più numerose negli ultimi anni, e
    riguardanti una varietà crescente di profili del rapporto e
    del mercato del lavoro (per esempio: pari opportunità,
    congedi parentali, sicurezza nei luoghi di lavoro, trasferimenti
    d'azienda, rapporti flessibili, ecc.) -, per le quali esiste, per
    gli Stati membri, l'obbligo di trasposizione negli ordinamenti
    interni. 
Questa influenza del diritto comunitario sul diritto del lavoro
    nazionale, iniziata nella seconda metà degli anni settanta -
    in coincidenza con una maggiore sensibilità della
    Comunità per la tutela del lavoro nelle crisi economiche e
    ristrutturazioni industriali - si è intensificata negli
    ultimi anni, con l'apertura dell'Unione Europea alla politica
    sociale, realizzatasi dapprima col Protocollo sociale allegato al
    Trattato di Maastricht del 1992, e in seguito con le modifiche al
    Trattato istitutivo della CE, contenute nel Trattato di Amsterdam
    del 1997 e nel Trattato di Nizza del 2000 (v. Roccella e Treu,
    2002). Ormai l'influenza comunitaria sugli ordinamenti nazionali
    (che, come vedremo, riguarda contenuti e tecniche giuridiche) si
    può considerare diffusa, sebbene talora politicamente
    strumentalizzata: non più solo circoscritta, cioè, al
    rispetto di regole e limiti, posti da fonti vincolanti, ma
    esercitata, da una parte, mediante la stessa azione comunitaria -
    che spesso è accompagnata dalla predisposizione di atti e
    documenti di varia origine ed efficacia (raccomandazioni, libri
    bianchi, ecc.) - e, dall'altra, mediante la promozione del
    cosiddetto 'dialogo sociale europeo', considerato uno strumento
    privilegiato con cui perseguire l'equilibrio di interessi richiesto
    per contemperare competitività e socialità a livello
    comunitario (v. Treu, 2001, p. 91). Del resto, l'unica
    controindicazione all'adeguamento al diritto comunitario del diritto
    nazionale - l'eventuale abbassamento del livello delle tutele
    previste da quest'ultimo - viene evitata mediante il 'principio di
    non regresso' (inserito nelle direttive sociali), per cui il diritto
    nazionale prevale, in tal caso, su quello comunitario.
    
8. Il policentrismo normativo: regionalizzazione e
      delegificazione
      
Nell'ordinamento interno del lavoro, il cosiddetto 'policentrismo
    normativo' prende forma insieme all'affermarsi del livello europeo
    della produzione di regole e all'esigenza di una nuova distribuzione
    del carico legislativo tra i livelli nazionale e regionale:
    distribuzione che modifica il tipico tratto statuale e nazionale del
    diritto del lavoro, per effetto della non felice riforma del titolo
    V della Costituzione. Ma, sforzandosi di guardare in positivo tale
    riforma, la valorizzazione del livello regionale può offrire
    l'opportunità di un avvicinamento di alcuni aspetti del
    diritto del lavoro alle realtà economico-sociali dei diversi
    territori, cosa che in precedenza avveniva soltanto attraverso la
    contrattazione locale (patti territoriali, contratti d'area, ecc.),
    oppure attraverso la devoluzione alle Regioni di potere normativo
    attuativo e tramite il decentramento di funzioni e compiti
    amministrativi.
Sia chiaro: il nucleo duro del diritto del lavoro - vale a dire la
    disciplina del contratto individuale e le garanzie minime di tutela
    del lavoro - continua a essere di competenza 'esclusiva' del
    legislatore nazionale (facendo parte dell'"ordinamento civile" e dei
    "livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
    sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio
    nazionale": così, testualmente, l'art. 117, comma 2, lett. l
    ed m della Costituzione), mentre le Regioni acquistano competenza
    legislativa 'concorrente' in talune materie, riconducibili ai
    profili amministrativi della "tutela e sicurezza del lavoro" (v.
    Rusciano, 2001), e competenza 'esclusiva' per altre (come, per
    esempio, la formazione).
Il nuovo ruolo che si va delineando per le Regioni in materia di
    lavoro, se da un lato, come già detto, consente di dar vita a
    discipline più rispondenti a specifiche esigenze
    territoriali, dall'altro comporta qualche rischio: quello, in
    particolare, di una 'balcanizzazione' del diritto del lavoro,
    risultante da talune letture troppo audaci e disinvolte del
    principio di sussidiarietà, le quali conducono alla
    disuguaglianza regionale eletta a sistema (a discapito delle regioni
    meridionali), che può risultare assai insidiosa per la
    coesione sociale e, in ultima analisi, per gli stessi interessi
    economici nazionali.
Oltre che della spinta verso la regionalizzazione, il policentrismo
    normativo è conseguenza della tendenza alla delegificazione,
    all'attribuzione cioè, da parte del legislatore, del potere
    di regolare materie prima disciplinate dalla legge a fonti
    subprimarie (i regolamenti 'autorizzati' o 'di delegificazione').
    È vero che gli obiettivi di questo processo -
    diversificazione, semplificazione e snellezza normativa - sono
    apprezzabili sul piano della tecnica legislativa in generale, e
    quindi anche per il diritto del lavoro, ma è altrettanto vero
    che il medesimo processo contiene il germe della frammentazione,
    assai pericoloso per un ordinamento che voglia garantire un certo
    livello di eguaglianza sostanziale, solidarietà e pace
    sociale, in un delicato equilibrio di interessi e valori.
    
9. Nuove funzioni del contratto collettivo
Quando si parla di delegificazione, nel diritto del lavoro, si
    allude anche all'attribuzione di potere normativo ai contratti
    collettivi. Questo metodo, nella sua versione moderna, viene
    utilizzato a cavallo degli anni settanta e ottanta e si afferma
    pienamente nella seconda metà degli anni ottanta e negli anni
    novanta, come conseguenza sia dei cambiamenti economici,
    organizzativi e produttivi - che richiedono discipline concordate e
    differenziate, secondo le diverse situazioni concrete -, sia della
    valorizzazione di principio degli accordi sindacali a opera della
    legislazione promozionale degli anni settanta (in primis,
    dello Statuto dei lavoratori). E così, sempre più
    spesso il legislatore, invece di intervenire direttamente in una
    materia, delega agli accordi sindacali la funzione di attuare,
    integrare o sostituire la normativa di determinati istituti, per lo
    più in tema di mercato del lavoro e di gestione delle crisi
    aziendali, talora riconoscendo al contratto collettivo la
    facoltà di introdurre discipline peggiorative rispetto a
    quelle di legge. Tale orientamento nasce, per un verso, dalla
    necessità di coinvolgere il sindacato nell'adozione di misure
    forse vantaggiose per l'economia, ma non vantaggiose, almeno
    nell'immediato, per i singoli lavoratori (v. Mengoni, 1988, p. 25),
    e, per altro verso, dalla natura della contrattazione collettiva,
    che oltre a costituire il luogo naturale del contemperamento delle
    esigenze dell'impresa e di quelle dei lavoratori, riesce anche a
    soddisfare il bisogno di elasticità e di adattamento delle
    regole alle diverse situazioni particolari.
Il contratto collettivo, da strumento di autoregolazione degli
    interessi delle contrapposte parti sociali, nato per svolgere la
    funzione normativo-acquisitiva, assume allora anche nuove funzioni
    (v. Persiani, 1999): da quella definita 'di autorizzazione', che
    concede alle parti individuali di scegliere un tipo contrattuale
    flessibile (per esempio, art. 23, legge 28 febbraio 1987, n. 56, sul
    contratto a termine; legge 24 giugno 1997, n. 196, sul lavoro
    interinale; legge 18 dicembre 1984, n. 863, e decreto legislativo 25
    febbraio 2000, n. 61, sul part time), a quella chiamata
    'gestionale' o 'ablativa', per la gestione di crisi e
    ristrutturazioni aziendali che hanno inevitabili ricadute
    occupazionali (per esempio, il contratto di solidarietà
    difensivo, ex art. 1, legge 863 del 1984; gli accordi
    sindacali sui criteri di scelta dei lavoratori da licenziare
    collettivamente, ex art. 5, comma 1, legge 23 luglio 1991,
    n. 223); dalla funzione di individuare le prestazioni indispensabili
    in caso di sciopero nei servizi pubblici essenziali (legge 12 giugno
    1990, n. 146), a quella relativa alla disciplina del lavoro nelle
    pubbliche amministrazioni (decreto legislativo 30 marzo 2001, n.
    165); a quella, infine, più recente e assai importante, di
    attuazione delle direttive comunitarie (ex art. 137, par.
    3, del Trattato CE in precedenza citato).
Il moltiplicarsi delle funzioni del contratto collettivo conferma la
    rilevanza, nel diritto del lavoro, del ruolo svolto dalla fonte
    extrastatuale autonoma, accanto alle classiche fonti eteronome. In
    molti casi, il contratto collettivo viene a essere lo strumento
    tecnico-giuridico di acquisizione del consenso a politiche
    legislative che avrebbero avuto difficoltà a realizzarsi
    compiutamente nella sola dimensione eteronoma, al di fuori
    cioè della tipica espressione dell'autonomia sociale. In
    queste ipotesi, però, è evidente che la cura degli
    interessi pubblici (o, se si vuole, il perseguimento dell'interesse
    generale, richiesto alla contrattazione) comporta inevitabilmente la
    riduzione, da parte del legislatore, degli spazi di tale autonomia,
    che appare così vincolata nei fini. La contrattazione,
    indirizzata dalla legge nello svolgimento dei compiti regolativi a
    essa delegati, non di rado viene, per così dire,
    funzionalizzata: emblematico l'esempio del contratto collettivo del
    pubblico impiego ex decreto legislativo 165 del 2001 (v.
    Rusciano, 2003) o quello degli accordi sulle prestazioni
    indispensabili ex legge 146 del 1990.
È appena il caso di notare, a questo proposito, che
    l'arricchimento dei contenuti e delle funzioni del contratto
    collettivo non è privo di paradossi: oltre a quello,
    già segnalato, di sottolineare il ruolo istituzionale del
    sindacato, va ricordato il paradosso della sproporzione tra il ruolo
    sostanziale di fonte giuridica del contratto collettivo e la sua
    natura privatistica, che molti si ostinano a qualificare 'di diritto
    comune' perché in alcuni casi ha un'efficacia limitata ai
    soli aderenti alle associazioni stipulanti. Infine, va segnalato il
    paradosso dell'inadeguatezza delle soluzioni di volta in volta
    adottate provvisoriamente dal legislatore, mentre si avverte sempre
    più la necessità di individuare criteri certi di
    legittimazione dei soggetti sindacali, al fine di evitare, per
    esempio, che l'intensificarsi della contrattazione gestionale
    (ablativa) mini alla base la funzione di rappresentanza del
    sindacato, quando i lavoratori si oppongono, in sede giudiziaria,
    alle previsioni contrattuali derogatorie o peggiorative dei
    preesistenti standard di trattamento.
    
10. Il primato della Costituzione a difesa dei
      diritti fondamentali dei lavoratori
      
Il rischio che la moltiplicazione e diversificazione dei livelli di
    produzione normativa - sommati alla precarizzazione del lavoro e a
    qualche cedimento sindacale - conducano alla dispersione, se non
    alla perdita, delle principali garanzie dei lavoratori viene
    comunque scongiurato dal primato della Costituzione, che, essendo
    'rigida', occupa formalmente il vertice nella gerarchia delle fonti
    statuali e impone il rispetto dei diritti fondamentali dei
    lavoratori, espressamente sanciti. Il lavoro occupa un posto
    centrale nella Costituzione italiana del 1948: è elevato a
    fondamento stesso della Repubblica democratica (art. 1) e sancito
    come diritto-dovere del cittadino (art. 4), in un quadro di
    solidarietà sociale (art. 2) e di eguaglianza formale e
    sostanziale (art. 3). Nel titolo III della parte I della
    Costituzione, dedicato ai "Rapporti economici" - che si apre con la
    solenne affermazione della tutela del lavoro "in tutte le sue forme
    e applicazioni" (art. 35) -, sono previste le principali situazioni
    giuridiche (individuali, collettive e sindacali) relative ai
    lavoratori: dal diritto all'equo trattamento economico e normativo
    (art. 36: su retribuzione, orario di lavoro, riposo settimanale e
    ferie) al diritto alla parità tra lavoratori e lavoratrici
    (art. 37, comma 1); dalla tutela del lavoro dei minori e dei
    disabili (artt. 37, comma 3, e 38, comma 3) ai diritti di sicurezza
    sociale (art. 38, commi 1 e 2) e alla formazione professionale (art.
    35, comma 2); dal diritto di organizzazione sindacale e di sciopero
    (artt. 39 e 40) al diritto di partecipazione dei lavoratori alle
    politiche aziendali (art. 46), fino all'ipotesi che a
    "comunità di lavoratori" venga affidata la gestione di
    imprese (di "servizi pubblici essenziali", di "fonti di energia" o
    in "situazioni di monopolio") con "carattere di preminente interesse
    generale" (art. 43). In ciò la Costituzione italiana - pur in
    una rilettura moderna, adatta alle trasformazioni del quadro
    strutturale - si pone all'avanguardia tra le Costituzioni europee,
    con un modello originale di economia sociale di mercato la cui
    filosofia è racchiusa nell'art. 41, là dove viene
    sancita la libertà di iniziativa economica privata,
    precisando però che essa "non può svolgersi in
    contrasto con l'utilità sociale o in modo da recar danno alla
    sicurezza, alla libertà e alla dignità umana".
La modernità del dato costituzionale trova riscontro
    nell'ordinamento comunitario, che tende a una tutela forte (rectius,
    di tipo costituzionale) dei diritti sociali. Dopo importanti
    decisioni, in materia, della Corte di Giustizia, si è giunti
    all'emanazione, nel dicembre 2000, di una Carta dei diritti
    fondamentali dell'UE: in vista della Costituzione dell'Unione, tra i
    diritti fondamentali dei cittadini europei hanno trovato grande
    spazio i diritti del lavoro, sempre più riconducibili ai
    diritti di cittadinanza (v. Ballestrero, 2000).
    
11. Il ruolo della giurisprudenza: giudici,
      arbitri e Authorities
      
Nel diritto del lavoro, un ruolo importante, spesso
    'creativo', viene da sempre svolto dalla giurisprudenza, annoverata
    ormai comunemente tra le fonti extralegislative. È
    sufficiente ritornare alle radici della disciplina e riflettere sul
    ruolo decisivo dell'esperienza dei 'Collegi dei probiviri', che, a
    cavallo tra Ottocento e Novecento, hanno prodotto principî e
    regole (non solo sui rapporti individuali di lavoro, ma anche sulle
    nascenti relazioni sindacali e sulle prime forme di contrattazione
    collettiva) che sono stati poi in gran parte recepiti nella
    successiva legislazione e, infine, nel Codice civile del 1942. Anche
    in seguito, la giurisprudenza, soprattutto con la sua
    interpretazione evolutiva, spesso anticipa linee poi accolte dalla
    legge o dalla contrattazione, talvolta esercitando una sorta di
    supplenza di un legislatore inerte o di un sistema sindacale non
    maturo. L'attività interpretativo-creativa dei giudici
    risulta preziosa anche perché soddisfa l'esigenza di una
    produzione di regole aderenti alla realtà dei rapporti
    sociali. Basti dire che vi sono addirittura intere aree della
    materia rimaste per molto tempo regolate esclusivamente dalla
    giurisprudenza, la quale viene perciò considerata una delle
    sedi parallele di produzione del diritto del lavoro, sebbene nel
    sistema italiano (non basato sulla common law, e quindi
    sul valore vincolante del precedente) essa non sia stricto iure fonte del diritto e al giudice spetti soltanto il compito di
    interpretare e applicare la norma.
Ciò nonostante, il diritto giurisprudenziale ha accompagnato
    le metamorfosi del lavoro anche negli ultimi vent'anni e tuttora
    continua a svolgere una funzione determinante nella produzione delle
    regole: o perché lo stesso legislatore, in una determinata
    materia, formula norme in bianco e/o norme elastiche che solo il
    giudice può completare, valutando il caso concreto
    (dall'individuazione del lavoro subordinato, alla precisa
    distinzione concettuale tra 'giusta causa' e 'giustificato motivo'
    di licenziamento, dalla nozione di 'condotta antisindacale' al
    requisito delle 'ragioni produttive' per stipulare contratti a
    termine, ecc.), ovvero perché la stessa giurisprudenza
    individua l'utilizzo innovativo di strumenti processuali (quale, per
    esempio, l'art. 700 del Codice di procedura civile) capaci di
    ripristinare con urgenza i diritti del lavoratore, nel fondato
    timore di un loro grave e irreparabile pregiudizio.
Non c'è da meravigliarsi che, in una società
    complessa, conflittuale e caratterizzata dalla segmentazione degli
    interessi, cresca il ruolo del giudice. In fondo è
    inevitabile - benché in astratto sia auspicabile il contrario
    - che tanto le parti sociali quanto il legislatore tendano a
    rimettere al giudice la soluzione di molteplici nodi giuridici;
    questi ultimi, infatti, non possono essere sciolti in sede di
    contrattazione oppure tramite lo strumento legislativo a causa del
    carattere spesso compromissorio - e, perciò, equivoco e
    contraddittorio - delle regole (contrattuali o legali) e, più
    in generale, a causa della difficoltà di emanare norme che
    contemplino una vastissima varietà di ipotesi e situazioni.
    D'altronde questo problema, se nel diritto del lavoro è
    eclatante, non è sconosciuto agli altri rami
    dell'ordinamento: la complessità della 'società
    postindustriale' richiede la presenza di sedi e di soggetti,
    più o meno istituzionali, preposti alla composizione dei
    conflitti, soprattutto collettivi, in grado di dettare regole certe,
    condivise e accettate perché vicine alla realtà da
    regolare. Perciò, oltre che quella dei giudici, cresce
    l'importanza (sebbene discussa) sia dei 'Collegi di conciliazione e
    di arbitrato', sia delle Authorities, che toccano pure i
    lavoratori, o direttamente, come la Commissione di garanzia della
    legge sullo sciopero, o indirettamente, come il Garante della privacy e l'Antitrust (v. Rusciano, Utenti senza...,
    1996, p. 73). Sorprende, piuttosto, che a tale importanza
    legislatore e governo non abbiano adeguato, in proporzione,
    l'organizzazione della giustizia, le cui disfunzioni finiscono per
    vanificare il riconoscimento formale delle garanzie dei lavoratori,
    contenute nelle norme elastiche di origine legale o contrattuale, e
    la particolare tutela processuale, introdotta con la legge 533 del
    1973 sul processo del lavoro. Ma questo problema riguarda ormai
    tutti i cittadini, fino a investire la stessa tenuta dello Stato di
    diritto.
    
12. L'estensione del diritto del lavoro
a) Tutela nel contratto e nel mercato del lavoro
Le metamorfosi del lavoro, oltre a incidere sul sistema delle fonti,
    ampliano i confini del diritto del lavoro. Va sottolineato anzitutto
    che, di fronte ai problemi pressanti della disoccupazione, specie
    nel settore dell'industria - problemi derivanti dalle trasformazioni
    produttive e dalla crisi economica della seconda metà degli
    anni settanta, più volte ricordate -, l'obiettivo primario
    degli anni ottanta e novanta, non solo a livello nazionale ma anche
    in ambito comunitario, è stato quello di incrementare, o
    almeno mantenere, i livelli occupazionali. Un obiettivo che permane
    e che anzi, in Italia, è quanto mai attuale a seguito della
    crisi, per esempio, di un settore trainante come quello
    automobilistico (e del suo indotto) e dei connessi rischi di un
    lento ma inesorabile declino del sistema industriale nazionale.
    Ciò significa che il diritto del lavoro, nato per la tutela
    del contraente debole circoscritta al rapporto di lavoro, estende il
    suo raggio d'azione al mercato del lavoro, ampliando così la
    sfera dei destinatari della tutela: il prototipo di essi non
    è più solo il lavoratore occupato, ma anche chi aspira
    a un'occupazione, in quanto è 'non ancora' o 'non più'
    occupato. Il punto di partenza di siffatto processo sta
    nell'acquisita consapevolezza che il contratto di lavoro,
    diversamente dagli altri contratti, si costituisce, si modifica e si
    estingue dentro una ben definita (benché ampia) struttura
    economico-sociale, appunto il mercato del lavoro, che risente
    dell'andamento del ciclo economico. Non si può allora
    trascurare che la persona umana è direttamente implicata
    anche in tale struttura: prima dell'instaurazione o dopo
    l'estinzione di un rapporto di lavoro. Sicché l'esigenza di
    tutela di quanti non sono ancora lavoratori dipendenti, o non lo
    sono più e aspirano perciò a un'occupazione, è
    pressante né più né meno di quella di coloro
    che hanno un rapporto di lavoro. Anzi, forse è maggiore,
    perché la posizione dei primi è certamente più
    debole.
Il diritto del lavoro, dunque, va configurandosi come un insieme di
    regole volte a correggere non solo il dispotismo contrattuale del
    singolo datore, ma anche la manifestazione totalmente libera e
    spontanea delle forze e degli interessi nel mercato del lavoro, al
    fine di evitare quelle distorsioni sociali che possono derivare dal
    perenne e naturale squilibrio tra domanda e offerta. Peraltro,
    questa nuova funzione trova pur sempre titolo nel codice genetico
    del diritto del lavoro: se esso, per principio, tende alla tutela
    del lavoratore, è naturale che consideri quest'ultimo non
    solo quale contraente debole, ma anche quale persona economicamente
    subalterna e socialmente sottoprotetta. E non c'è bisogno di
    dire che tali condizioni sono, di solito, due facce della stessa
    medaglia.
La legislazione sul mercato del lavoro degli ultimi vent'anni - dopo
    una fase iniziale in cui, a causa delle congiunture economiche, ha
    assunto i caratteri di una legislazione dell'emergenza e, in
    seguito, di una legislazione della crisi - si pone l'obiettivo di
    rendere le regole del lavoro rispondenti alle nuove e mutevoli
    esigenze dell'organizzazione dell'azienda, in una logica di
    contemperamento tra esigenze protettive ed esigenze produttive,
    supponendo che una maggiore attenzione a queste ultime incentivi gli
    investimenti delle imprese e, in tal modo, crei nuove occasioni di
    lavoro. È questa la ratio della legislazione sulla
    flessibilità, che cerca di rispondere alla domanda delle
    imprese di rendere flessibili i rapporti e le condizioni di lavoro
    (v. Treu, 2001, p. 25). In tale legislazione rientra, da una parte,
    la disciplina dei rapporti di lavoro 'flessibili' o 'atipici' (part
      time, lavoro a termine, lavoro interinale, lavoro 'a
    chiamata', lavoro occasionale e accessorio, job sharing,
    apprendistato, contratti 'formativi', ecc.), i quali si discostano
    dai canoni del rapporto di lavoro 'tipico' o standard, a tempo pieno
    e indeterminato (la 'flessibilità in entrata'); da un'altra
    parte, la previsione di tutele del lavoro dipendente, ridotte e
    differenziate a seconda delle diverse realtà organizzative e
    delle caratteristiche concrete del lavoro (per esempio,
    l'allentamento dei vincoli e limiti all'estinzione del rapporto di
    lavoro consente, a volte, maggiore flessibilità in uscita,
    come nel caso del superamento della "reintegrazione nel posto di
    lavoro", di cui all'art. 18, legge 300 del 1970: sull'argomento, v.
    Accornero, 1999; v. Napoli, 2002).
Accanto all'obiettivo della flessibilità, la legislazione sul
    mercato del lavoro si pone quello del potenziamento degli strumenti
    per favorire l'incontro tra domanda e offerta di lavoro, adatti
    cioè a creare nuove occasioni e opportunità d'impiego.
    Viene anzitutto privatizzato, oltre che decentrato, il vecchio
    collocamento, facendone un servizio non burocratico, con l'apporto
    anche delle società fornitrici di lavoro interinale (legge n.
    196 del 1997), oggi superate in seguito al decreto legislativo n.
    276 del 2003, che ha istituito varie 'Agenzie per il lavoro' (art.
    4) e ha, in particolare, introdotto la cosiddetta 'somministrazione
    di lavoro' (alla quale è dedicato l'intero titolo III). Si
    tenta inoltre di realizzare, negli interventi sull'occupazione,
    l'integrazione tra servizi per l'impiego, politiche attive del
    lavoro e politiche formative, con una particolare attenzione al
    ruolo della formazione professionale, da intendere come formazione
    continua e permanente, capace di rimettere sul mercato del lavoro
    soggetti espulsi per l'obsolescenza della loro
    professionalità. Un'esigenza, in Italia, sempre trascurata,
    ma sempre più sentita, date le ricorrenti riconversioni
    produttive, le quali, per la maggior parte dei lavoratori, rendono
    illusoria l'idea di fare lo stesso lavoro per tutta la vita e li
    costringono a imparare mestieri diversi, in archi temporali
    più o meno definiti.
È evidente che tali misure tendono a valorizzare, almeno in
    teoria, le caratteristiche peculiari delle differenti realtà
    territoriali, dovendosi sempre più tener conto dei vari
    mercati del lavoro, alimentati da risorse (umane e finanziarie)
    locali, con interventi differenziati di politica attiva del lavoro,
    molti dei quali di competenza, ovviamente, delle Regioni e degli
    Enti locali. Così, per esempio, la crisi dell'automobile
    nell'area torinese spinge a ipotizzare l'utilizzazione, nella stessa
    area, in agricoltura o nell'agroalimentare (settori anch'essi
    modernizzati dalle nuove tecnologie), degli operai espulsi dal
    settore automobilistico. In altri casi, invece - specie nel Sud,
    dove esiste una grave disoccupazione strutturale -, l'espulsione di
    lavoratori dall'industria, per la chiusura di un'impresa, spesso si
    traduce nella definitiva disoccupazione dei medesimi e nella
    necessità di ricorrere ad ammortizzatori sociali, cioè
    a mezzi di sostegno (di almeno una parte) del reddito, finanziati
    dalla collettività (cassa integrazione guadagni,
    indennità di mobilità breve o lunga, prepensionamenti,
    ecc.).
Certo, la rimodulazione della tutela sull'andamento del mercato (o
    dei mercati) del lavoro, piuttosto che sul contratto (e sul
    rapporto), pone il problema - a volte enfatizzato, a volte
    sottovalutato - dell'interdipendenza e dell'equilibrio, in termini
    di costi aziendali e/o pubblici, tra tutele nel rapporto e tutele
    nel mercato. Problema che non ha 'una' soluzione e, tanto meno, una
    soluzione una volta per tutte. La complementarità di ambedue
    le tutele è la sfida più ardua che attende il diritto
    del lavoro nel XXI secolo.
    
b) Dal lavoro ai lavori
L'esigenza di una maggiore flessibilità del lavoro, imposta
    dall'innovazione tecnologica e dalla globalizzazione dei mercati,
    viene soddisfatta dalle imprese soprattutto grazie all'allentamento
    dei vincoli nel lavoro subordinato. Non manca però un'altra
    strada, forse anche più comoda e conveniente economicamente:
    quella del ricorso a prestazioni di lavoro non subordinato. Si
    è parlato molto, negli anni novanta, di una vera e propria
    'fuga dalla subordinazione', per indicare la notevole diffusione non
    solo del lavoro autonomo e del lavoro in cooperativa, ma soprattutto
    del lavoro prestato in collaborazione coordinata e continuativa e,
    in generale, del lavoro 'parasubordinato'. Tali forme di lavoro
    vengono anch'esse denominate, sempre con termine improprio e
    ambiguo, 'lavori atipici', perché, in astratto, si
    allontanano dal 'lavoro subordinato tipico', che sarebbe contemplato
    nell'art. 2094 del Codice civile. In realtà, tale articolo,
    più che prevedere una "fattispecie tipica" di contratto di
    lavoro, definisce il "prestatore di lavoro subordinato" colui che
    "si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell'impresa,
    prestando il proprio lavoro [...] alle dipendenze e sotto la
    direzione dell'imprenditore".
Ovviamente, in questi casi, non si deve parlare tanto di
    flessibilità, quanto di assenza di tutela: se si sta fuori
    della fattispecie (o della definizione) del lavoro subordinato, non
    si applica il diritto del lavoro. In realtà, però,
    proprio gli sviluppi degli ultimi anni - ossia il patologico
    intensificarsi del ricorso al 'lavoro non subordinato' - fanno
    dubitare della possibilità di pensare ancora il diritto del
    lavoro come un ordinamento applicabile soltanto in presenza
    dell'unica fattispecie legale ex art. 2094. È il
    problema della legalizzazione e della disciplina di queste forme
    altrettanto atipiche di lavoro - entrate indirettamente e quasi di
    soppiatto nell'ordinamento, grazie all'elaborazione fattane in
    trent'anni circa da dottrina e giurisprudenza, valorizzando l'art.
    409 del Codice di procedura civile (riformulato, nel 1973, dalla
    citata legge 533 sul processo del lavoro) - per garantire a esse
    alcune tutele e compensare così, almeno in parte, la
    situazione di debolezza e di sottoprotezione in cui, in assenza di
    norme, spesso versano questi lavoratori atipici.
L'alternativa è, in sostanza, tra due modelli: la creazione
    per legge di un tertium genus, il lavoro 'coordinato' -
    accanto al lavoro 'subordinato' e 'autonomo' - cui riconoscere
    alcune tutele, riguardanti rapporto individuale (salute e sicurezza,
    malattia e maternità, libertà e dignità,
    divieto di discriminazioni, criteri d'uso della prestazione e
    calcolo del corrispettivo), diritti sindacali e previdenziali;
    oppure l'allestimento di uno statuto dei lavori che individui uno
    zoccolo duro e inderogabile di diritti fondamentali, di garanzie
    minime da applicare a tutte le forme di lavoro, indipendentemente
    dalla qualificazione giuridica del rapporto, e la creazione di un
    sistema di tutele ulteriori, a geometria variabile, modulate e
    diversificate a seconda del grado effettivo di subordinazione (v.
    Treu, 2001, p. 196). Oggi il legislatore, non so quanto felicemente,
    ha scelto la prima strada, legalizzando il cosiddetto 'lavoro a
    progetto' (artt. 61-69 del decreto legislativo n. 276 del 2003): una
    nuova fattispecie il cui riscontro nella realtà del lavoro
    sarà tutto da verificare.
In realtà, la questione ha una rilevanza soprattutto sul
    piano formale, in quanto la subordinazione continua a essere il
    principale modello di utilizzazione del lavoro altrui, di modo che
    la qualificazione di un rapporto giuridico avente a oggetto il
    lavoro difficilmente può uscire dalla dicotomia
    'autonomia/subordinazione'. Non ci si riesce neppure escogitando
    nuove formule, come quelle della legge 3 aprile 2001, n. 142, sul
    rapporto di lavoro del socio di cooperativa, ove si ritrova un
    ambiguo intreccio tra rapporto associativo e rapporto di lavoro "in
    qualsiasi forma", in linea con i tentativi di destrutturazione
    normativa dei rapporti di lavoro.
In fondo, è questo il senso della sentenza n. 121 del 1993
    della Corte costituzionale: proprio per frenare la diffusione di
    rapporti di lavoro "in frode alla legge", la Corte afferma che il
    quadro dei diritti costituzionali dei lavoratori impedisce comunque
    (e persino al legislatore) di non qualificare formalmente come
    subordinati quei rapporti di lavoro che sostanzialmente ne hanno
    tutte le caratteristiche. Una posizione così chiara non
    può essere scalfita neanche dalla 'certificazione', nella
    quale l'organo pubblico o l'ente bilaterale qualifica la relazione
    di lavoro sulla base delle dichiarazioni delle parti. Sarà
    sempre e soltanto il concreto svolgimento del rapporto a fornire al
    giudice, ex post, i dati per la sua esatta qualificazione
    giuridica. In un'epoca in cui l'obiettivo della qualità
    totale, in un sistema di forte competizione globale, induce
    l'imprenditore a esigere dal lavoratore massima collaborazione e
    assoluta fedeltà, senza dare in cambio alcuna
    stabilità, non è priva di effetti l'esistenza di un
    invalicabile limite costituzionale alla flessibilità dei
    rapporti di lavoro.
    
c) Diritto del lavoro e pubblico impiego
Un ampliamento eclatante, nell'ultimo ventennio, del diritto del
    lavoro è costituito dalla legislazione che unifica con i
    rapporti privati, nell'ordinamento comune del lavoro, i rapporti
    nelle amministrazioni pubbliche (persino quelli dell'alta
    burocrazia), prima rientranti nel diritto amministrativo e
    disciplinati, in via esclusiva e unilaterale, da leggi e da fonti
    subprimarie statali, nonché da atti amministrativi, per
    garantire, in applicazione del principio di legalità,
    l'imparzialità dell'azione amministrativa, secondo una
    lettura un po' datata dell'art. 97, comma 1, della Costituzione. Si
    tratta, in realtà, di un processo lungo, complesso e
    stratificato, iniziato circa a metà degli anni settanta. Un
    processo che però - dopo la tappa intermedia della
    legge-quadro 29 marzo 1983, n. 93, ispirata a una logica
    compromissoria e non priva di contraddizioni - ha cominciato a
    realizzarsi in toto con il decreto legislativo 3 febbraio
    1993, n. 29, attuativo della delega contenuta nella legge 23 ottobre
    1992, n. 421, e che ha continuato a svilupparsi nell'arco
    dell'ultimo decennio, con varie modifiche e integrazioni
    dell'impianto originario (dai decreti del 1993, correttivi del
    decreto legislativo 29/1993, a quelli attuativi della delega 15
    marzo 1997, n. 59, cioè i decreti legislativi 4 novembre
    1997, n. 396, 31 marzo 1998, n. 80, e 29 ottobre 1998, n. 387; fino,
    poi, al decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che riordina
    l'intera disciplina, benché pur esso modificato dalla legge
    15 luglio 2002, n. 145, in talune parti riguardanti, in particolare,
    la dirigenza statale).
La riforma realizza due obiettivi, caldeggiati negli ultimi decenni
    dalle confederazioni sindacali e condivisi anche dal mondo
    imprenditoriale e da quanti lamentano, guardando ai parametri
    europei, la proverbiale inefficienza della burocrazia italiana, per
    via di privilegi, scarsi controlli e anche eccessiva
    stabilità del personale. Il primo obiettivo è la
    'unificazione normativa', di cui si è detto - capace di
    introdurre eguaglianza tra lavoratori privati e pubblici e controllo
    sociale della burocrazia -, con l'applicazione al rapporto di lavoro
    pubblico della disciplina del capo I, titolo II, del libro V del
    Codice civile e delle leggi sul lavoro nell'impresa, pur,
    naturalmente, con il mantenimento di alcuni tratti di
    specialità della disciplina, dovuti alle peculiarità
    del lavoro pubblico rispetto a quello privato, scontata la
    diversità dell'interesse perseguito (interesse generale, nel
    primo caso; interesse privato, nel secondo). Il secondo obiettivo
    è la 'contrattualizzazione' del rapporto di lavoro dei
    pubblici dipendenti, vale a dire la relativa regolazione tramite
    contratti individuali e collettivi, anche se, come già detto,
    le peculiarità del pubblico impiego spingono il legislatore a
    disegnare un modello di contratto collettivo dai tratti molto
    singolari, quanto a natura, struttura ed efficacia, per l'importanza
    della funzione a esso affidata (v. Rusciano, 2003). Coerentemente
    con la contrattualizzazione, completa la riforma il passaggio alla
    cognizione del giudice ordinario delle controversie di lavoro dei
    pubblici dipendenti, dopo più di settant'anni di
    giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.
Si tratta, evidentemente, di un grande processo di trasformazione
    dei rapporti di lavoro pubblico. Un processo che affonda le sue
    radici, anzitutto, nel dato politico-istituzionale (visto il ruolo
    che, nella società, riveste non da oggi la burocrazia, e che
    la legge vuole tenere ben distinto da quello della politica), ma che
    comporta cambiamenti di tipo economico-sociale, sindacale e, in
    senso lato, culturale, e che, probabilmente, influenzerà in
    futuro l'evoluzione stessa di tutto il diritto del lavoro,
    rafforzandone le caratteristiche di "diritto della gestione delle
    risorse umane in ogni tipo di organizzazione" (v. Rusciano, 1993).
    
13. Flessibilità delle tecniche giuridiche
Quando nel linguaggio corrente si parla di 'flessibilità del
    lavoro', si allude all'aumento della discrezionalità offerta
    dall'ordinamento al datore di lavoro: quest'ultimo può
    infatti scegliere tra diversi modelli di rapporto e gestire
    contenuti e tempi della prestazione d'opera, secondo la convenienza
    dell'impresa. È naturale che siffatto obiettivo, per la sua
    complessità, venga raggiunto mediante la predisposizione di
    vari strumenti (o tecniche giuridiche). Certamente ogni tecnica
    è frutto del contesto storico-giuridico nel quale
    l'ordinamento interviene, ma ciò non vuol dire che una
    tecnica nuova si sostituisca del tutto alla vecchia; vuol dire
    piuttosto che si arricchisce il ventaglio degli strumenti tra i
    quali scegliere il più appropriato alle diverse esigenze che
    l'ordinamento medesimo vuole soddisfare. Si può così
    parlare anche di una 'flessibilità delle tecniche giuridiche'
    di tutela del lavoro.
    
a) Norma inderogabile
Poiché il diritto del lavoro nasce per correggere lo
    squilibrio tra le parti del contratto di lavoro, la tecnica
    tradizionale è quella della inderogabilità (da parte
    delle clausole individuali, tranne se più favorevoli al
    lavoratore), attribuita alle norme, legali e collettive, di tutela
    del lavoratore, e della sostituzione automatica, a opera di queste
    ultime, delle eventuali clausole difformi (artt. 1339, 1418, comma
    1, 1419, comma 3, e 2077 Cod. civ.). Si blocca così
    l'eccessivo potere contrattuale del datore di lavoro, limitandone
    l'autonomia negoziale e, per altro verso, si invalida l'esercizio,
    da parte del lavoratore, del potere di disposizione dei propri
    diritti (art. 2113 Cod. civ.; v. De Luca Tamajo, 1976).
    
b) Controllo sindacale
La tecnica della norma inderogabile ha una sua rigidità
    formale, non appropriata alla tutela sostanziale del lavoratore. In
    effetti, nella relazione giuridica tra datore e lavoratore ha
    maggiore rilevanza il rapporto come concreta esecuzione del
    contratto, che è atto formale contenente il regolamento degli
    interessi (integrato dalle norme inderogabili). Ora, tale tecnica,
    imperniata più sul contratto che sul rapporto, rivela la sua
    efficienza solo quando, concluso il secondo, venga (eventualmente)
    affidata al giudice la valutazione della regolarità del
    primo. Ciò non è nell'interesse del lavoratore, che ha
    da essere tutelato giorno per giorno durante il rapporto, ma (forse)
    non è nell'interesse neppure del datore di lavoro, che,
    magari a distanza di anni, si vede chiamato davanti a un giudice cui
    spetta riscrivere regole e cifre di un vecchio contratto. Nasce
    così, negli anni settanta, la tecnica del controllo
    sindacale: piuttosto che prevedere norme inderogabili, che limitano
    in modo astratto il potere imprenditoriale, il legislatore affida
    alle rappresentanze dei lavoratori in azienda - secondo la logica di
    politica del diritto dello Statuto dei lavoratori - il compito di
    concordare con la controparte imprenditoriale i contenuti della
    tutela e di verificarne l'effettiva applicazione (v. De Luca Tamajo,
    1978). Questa tecnica presenta dei vantaggi cui si è
    già avuto occasione di accennare: anzitutto, la tutela viene
    plasmata sulle reali esigenze dei lavoratori in un determinato
    contesto produttivo; in secondo luogo, si valorizza e si promuove
    l'attività sindacale nei luoghi di lavoro; infine, si apre la
    strada, prima, alla 'partecipazione conflittuale' in azienda e, poi,
    alla 'concertazione sociale' anche fuori dell'azienda, fino ad
    arrivare alla 'concertazione legislativa'. Una prassi, quest'ultima
    (diffusasi soprattutto negli ultimi vent'anni), di negoziazione
    preventiva, tra legislatore e rappresentanze degli interessi, del
    contenuto di futuri provvedimenti legislativi (riguardanti
    specialmente problemi di rilevanza politico-economica e sociale),
    sul quale il legislatore vuole dettare regole condivise (o
    addirittura concordate) con i destinatari delle stesse, al fine di
    garantirne l'effettività applicativa ('leggi negoziate').
    
c) Norma incentivante
Negli ultimi anni, la crisi della inderogabilità (oltre che
    per le ragioni appena dette, anche per l'avanzare del lavoro
    irregolare e sommerso cui i datori ricorrono per sfuggire alle norme
    inderogabili di tutela dei lavoratori), il ridimensionamento del
    controllo sindacale in azienda (per le ragioni più volte
    ricordate) e la prevalenza dei problemi del mercato del lavoro e
    della flessibilità (per la riduzione dell'occupazione) hanno
    spinto ad adottare la tecnica della norma incentivante:
    quest'ultima, anziché imporre limiti al potere
    imprenditoriale (con norme inderogabili e/o col controllo
    sindacale), prevede benefici e sanzioni promozionali per incentivare
    comportamenti e realizzare obiettivi voluti dalla legge (ad esempio, bonus per assunzioni, incentivi
    all'imprenditorialità, specie giovanile e femminile, azioni
    positive, ecc.; v. Ghera, 1979, p. 362).
    
d) Autonomia individuale
Di recente, poi, sempre per soddisfare le crescenti esigenze di
    flessibilità, piuttosto che l'autonomia collettiva, è
    stata rilanciata l'autonomia contrattuale individuale: in pratica si
    è ridotto e modificato il ruolo del contratto collettivo (e,
    dunque, del sindacato). Questa scelta del legislatore, che si
    rinviene, per esempio, nelle discipline dei lavori flessibili degli
    anni 2000-2001 (decreto legislativo 25 febbraio 2000, n. 61, sul part
      time; decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, sul
    contratto a termine), lascia perplessi, perché i casi in cui
    il lavoratore può scrollarsi di dosso i panni del contraente
    debole (in pratica: è subordinato dal punto di vista
    tecnico-funzionale, non lo è dal punto di vista personale e
    psicologico) sì da poter regolare da solo i propri interessi,
    non sono molti (essi sono circoscritti per lo più ad alte e
    sofisticate professionalità). Se allora il prevalere
    dell'autonomia individuale si limita a questi casi, se ne può
    ammettere la legittimità (oltre che l'utilità),
    essendo evidente che l'aumento della professionalità fa
    diminuire la subordinazione. Altrimenti, esso non fa altro che
    accentuare la debolezza e la solitudine del lavoratore e, quindi,
    non può sottrarsi alla censura di incostituzionalità.
    
e) Soft law
Infine, è importante registrare la tendenza a importare
    nel nostro ordinamento strumenti regolativi propri dell'ordinamento
    comunitario o di altri paesi europei, come le soft laws e
    i codes of practice (v. Snyder, 1993): regolamentazioni
    leggere, non cogenti (somiglianti, ma non paragonabili, alle nostre
    norme dispositive), le quali, più che altro, si limitano a
    fissare obiettivi o ad auspicare in alcune aree 'buone pratiche' per
    orientare l'attività dei soggetti destinatari senza
    costringerli a uno specifico comportamento. Si tratta di una tecnica
    abbastanza distante, dunque, da quella della norma inderogabile, la
    quale, invece, non lascia spazio a libere pattuizioni, se non in
    senso più favorevole al lavoratore. Sulla capacità di
    tale tecnica - nata in contesti giuridico-culturali assai diversi
    dal nostro, fosse anche solo per i livelli etici più elevati
    che ne costituiscono il terreno naturale di coltura - di realizzare
    una compiuta tutela del lavoro è difficile ora pronunziarsi,
    perché non ancora abbastanza collaudata. Nel collaudo,
    comunque, andrà valutata la legittimità costituzionale
    di siffatto mezzo rispetto al fine (di tutela del lavoro), che
    verrebbe sicuramente a mancare, se esso dovesse rivelarsi incapace
    di garantire l'effettività dei diritti costituzionali dei
    lavoratori.
    
Dizionario di Storia
        (2010) 
        Lavoro 
        
        Complesso delle energie fisiche e intellettuali che l’uomo
          traduce nella creazione di oggetti, beni o opere di utilità
          individuale o collettiva; rappresenta una delle principali chiavi
          di lettura per comprendere l’evoluzione delle diverse
          società storiche e della specie umana, più in
          generale. La definizione stessa di preistoria, delle sue distinte
          età, si fonda sul valore assegnato per convenzione alla
          comparsa dei primi utensili. Dalla pietra al ferro, il cammino
          dell’uomo verso la storia (verso la conquista della scrittura,
          dell’agricoltura e dell’allevamento, accompagnata dalla nascita
          dei primi insediamenti) fu già caratterizzato da
          innovazioni tecniche e dallo sviluppo di nuovi ambiti del sapere,
          la cui applicazione pratica ebbe il determinato scopo di
          migliorare la produzione delle risorse necessarie alla
          sopravvivenza della comunità, accelerando il processo di
          suddivisione dei ruoli produttivi (anzitutto tra i sessi), e la
          gerarchizzazione sociale e politica. 
        L’Età antica. Lavoro
          
          schiavile e lavoro libero. La fisionomia delle
          civiltà più antiche fu contrassegnata da molteplici
          mansioni lavorative, ovvero da un livello di specializzazione
          produttiva e intellettuale già elevato. Alla base del
          sistema economico, sociale e politico si collocò il l.
          schiavile, fondato sull’esistenza di individui non liberi,
          considerati proprietà della comunità o di taluni
          suoi membri; possedere servi garantiva il diritto di esigerne le
          più varie prestazioni lavorative, in cambio delle garanzie
          minime di sostentamento. Una consistente parte delle opere
          pubbliche e monumentali dell’antichità venne realizzata
          mediante l’impiego di schiavi (dalle fortificazioni ai luoghi di
          culto, dalle imprese di controllo del regime dei fiumi alla
          costruzione di porti, edifici amministrativi e arterie viarie), ma
          questa tipologia di lavoratori, uomini e donne, fu indispensabile
          anche per lo sviluppo delle attività private
          (dall’agricoltura ai commerci, dall’artigianato ai lavori
          domestici), ed ebbe talora impieghi di carattere militare. Gli
          studi prodotti negli ultimi decenni sono tuttavia orientati a
          interpretare in modo meno rigido il quadro socioeconomico del
          mondo antico, e cioè a porre in evidenza il nesso tra il l.
          dei servi e quello degli uomini liberi, anche sul piano della
          cooperazione e dell’interscambio materiale, culturale e persino
          affettivo, specie entro la dimensione familiare, del forno o della
          bottega. In quest’ottica, il l. poté anche rappresentare
          una chance di emancipazione dalla schiavitù e di
          ascesa sociale, ove la legislazione lo consentiva; un fenomeno che
          è ormai documentato per la civiltà egizia e presso i
          fenici, come pure in Grecia e a Roma. Il contributo
          dell’archeologia ha assicurato importanti avanzamenti alla ricerca
          storica, consentendole di riportare in luce un panorama di
          mestieri e professioni ben più ricco e articolato di quanto
          si ritenesse in passato. Per l’Egitto, accanto ai noti profili
          dell’architetto Kha, del giudice Gemenefherback e di numerosi
          scribi (funzionari, amministratori), sepolti assieme agli
          strumenti (reali o figurati) del loro l., possiamo oggi
          tratteggiare un mondo di agricoltori e allevatori di bestiame,
          proprietari di miniere e persino di birrifici, di ricchi
          artigiani, artisti, tessitrici, né mancarono operai e
          piccoli contadini, miseri ma liberi, impiegati anche per la
          costruzione di piramidi e grandi opere pubbliche (solo di rado al
          fianco o in sostituzione degli schiavi). Il codice di Hammurabi
          (2° millennio a.C.) testimonia l’esistenza di svariate
          professioni anche in area mesopotamica (legate alla medicina, ai
          commerci, alla produzione di cibi, bevande, armi e utensili),
          regolamentate in modo specifico e rigoroso, né vanno
          dimenticati i maestri d’ascia e i vetrai fenici, gli artisti
          dell’oreficeria etrusca e quelli della produzione ceramica (dal
          Mediterraneo alla Cina, già di età protostorica),
          accanto ai pescatori e ai domatori di animali (Creta) e agli
          agrimensori (Valle dell’Indo). Anche il mondo ellenico evolse
          gradualmente verso un assetto socio-economico più largo e
          più duttile, che in specie a partire dalla costituzione del
          sistema coloniale giunse a concedere apprezzabili spazi alle
          professioni e ai mestieri maschili, supportati talora dal l. dei
          servi e delle donne (nell’artigianato e nel piccolo commercio
          soprattutto). La società ateniese del 5°-4° sec.
          a.C. fu animata anche da figure di intellettuali come Socrate,
          figlio di uno scultore e di una levatrice (in base alla
          tradizione), o Fidia, emblema del nuovo rilievo conquistato dai
          grandi artisti. Dai ritrovamenti archeologici e dalle fonti
          letterarie (si pensi al teatro di Aristofane), emerge d’altro
          canto un variegato universo di scrittori, sofisti, attori, musici,
          ginnasti, etère, e poi meteci, individui in prevalenza
          originari delle colonie (e perciò esclusi dal godimento dei
          diritti politici), assurti in taluni casi a ruoli di prestigio,
          mediante l’esercizio delle professioni mercantili, mediche o
          intellettuali (Ippocrate, Erodoto, Gorgia). La distanza che
          separava ormai il panorama ateniese dalla società ellenica
          delle origini, caratterizzata dal prevalente modello della
          famiglia come autonoma realtà produttiva e da una rigida
          suddivisione in classi, si coglie bene nel confronto tra Atene e
          Sparta, città-Stato che conservò istituzioni e
          costumi di impronta dorica, tradottisi nella forte autorità
          esercitata dall’aristocrazia guerriera (spartiati) sulle classi
          lavoratrici che ne garantivano la sopravvivenza materiale: perieci
          e iloti. Neppure la condizione degli iloti, schiavi di
          proprietà statale, conobbe variazioni di rilievo, ma a
          partire dal 5° sec. a.C. si intensificò il fenomeno
          delle loro periodiche rivolte, un aspetto che appare
          indissolubilmente intrecciato al declino dell’egemonia spartana.
          L’età ellenistica fu invece contrassegnata dalla
          progressiva diminuzione della manodopera servile e dalla
          diffusione di scuole per le arti, i mestieri e le professioni. Al
          contrario, nella società romana, l’incidenza della
          componente schiavile aumentò progressivamente fino agli
          ultimi secoli dell’impero, suscitando il malcontento della plebe.
          Rispetto alla cronica piaga della disoccupazione plebea (di larghe
          fasce della popolazione romana la cui sopravvivenza dipendeva da
          lavori occasionali o piccoli espedienti), la categoria degli
          schiavi fu interessata da un intenso processo di suddivisione e
          specializzazione del lavoro. L’istituto della manumissio prevedeva inoltre che il rapporto tra schiavo e dominus potesse evolvere in quello tra liberto (schiavo liberato) e patronus.
          A fronte dell’obbligo di prestazioni di l. gratuite, il percorso
          di emancipazione dei liberti si concluse generalmente
          nell’acquisizione della cittadinanza romana e fu talora
          contrassegnato da concessioni tese a favorire l’inserimento di
          questa categoria in determinati mestieri o ambiti produttivi.
          Alcuni liberti si distinsero per il successo ottenuto nei
          commerci, per meriti intellettuali (Fedro, Terenzio), militari o
          politici. Fu verosimilmente un liberto anche il fornaio Eurisace,
          il cui sepolcro riproduce dettagli e strumenti anche minuti del
          mestiere che lo rese un cittadino agiato. Come i fornai, anche gli
          altri esponenti delle arti meccaniche (artigiani, mercanti, osti,
          medici, attori) si dotarono di sodalizi con funzioni grosso modo
          equivalenti a quelle dei collegi delle professioni liberali (i
          forensi, i gromatici), e con Traiano (98-117), quando l’impero
          raggiunse la sua massima estensione e la capitale si
          trasformò in una gigantesca città di consumi, le
          associazioni di mestiere divennero alcune centinaia. La
          trasmissione dell’arte avveniva solitamente nell’ambito familiare
          o dipendeva dalle tradizioni peculiari di alcune regioni,
          risalenti talora all’epoca preromana (quella della ceramica e
          della lavorazione del bronzo in Etruria, l’artigianato del vetro
          in Campania). In questo contesto economico e sociale, si crearono
          opportunità di iniziativa anche per le donne di condizione
          plebea, quelle che come Atistia, moglie di Eurisace, affiancarono
          il consorte nella conduzione dell’attività familiare, o
          figure come Eumachia, patrona dei fullones e degli infectores di Pompei (lavandai e tintori) che questi ultimi vollero ritratta
          all’interno del luogo che fu sede del loro mestiere. Più in
          generale, anche a Roma, il l. femminile rimase prevalentemente
          legato allo svolgimento delle mansioni domestiche, di alcuni
          lavori agricoli e alla cura della prole, come spiegano i semplici
          oggetti di innumerevoli corredi funerari (fusi, rocchetti,
          stoviglie). Nella sfera pubblica, il l. della donna fu solo
          eccezionalmente disgiunto da quello dell’uomo (padrone, padre,
          marito), come nei casi di vedove, levatrici, fattucchiere o
          prostitute, mentre la donna di condizione aristocratica non
          svolgeva alcuna mansione di carattere lavorativo al di fuori della domus. Il diritto romano prestò inoltre
          particolare attenzione alla regolamentazione del l. nelle campagne
          e dei rapporti socio-economici del mondo agricolo; figure
          caratteristiche di quest’ultimo furono il libero agricoltore o
          allevatore (spesso un piccolo proprietario, talora un veterano
          dell’esercito), il bracciante salariato e la manodopera schiavile
          (posseduta o affittata in occasione dei raccolti). In questo
          contesto, a partire dal tardo impero, assunse notevole importanza
          il colonato, istituto in base al quale i coloni (in origine liberi
          contadini affittuari di un latifondista) si trasformarono in
          dipendenti di un dominus, e quindi in manodopera
          soggetta a prestazioni di l. gratuite. 
        L’Età medievale. Città
          
          e curtes: il lavoro tra dinamismo e immobilismo. Tra 5° e 8° sec., nel quadro della transizione verso
          l’economia curtense, la condizione dei contadini concessionari
          delle terre del signore (pars massaricia) si
          avvicinò ulteriormente a quella dei servi di quest’ultimo,
          variamente impiegati nella pars dominica, cioè la
          porzione della villa che divenne residenza dello stesso dominus/feudatario
          
          
          e gradualmente attrasse anche artigiani e piccoli amministratori.
          Il declino del potere imperiale in Occidente e le invasioni
          barbariche avevano determinato la rapida crisi delle città
          e del sistema economico tradizionale, incoraggiando il
          trasferimento della popolazione urbana nelle curtes,
          centri nevralgici di una nuova economia rurale di sussistenza.
          Alla contrazione dei commerci, alla pressoché totale
          scomparsa della mercatura di lungo raggio, si accompagnò un
          fenomeno che rimane in larga parte oscuro: nel giro di poche
          generazioni, il prezioso patrimonio di arti e mestieri che aveva
          caratterizzato la storia romana scomparve. L’archeologia medievale
          ha variamente attestato la dispersione di questo know-how,
          che si tradusse soprattutto nella perdita di tutte quelle
          maestranze specializzate nella manutenzione di strade, ponti,
          porti, acquedotti, terme e altri edifici pubblici, come pure nella
          vigilanza notturna e nello spegnimento di incendi (mansioni degli
          antichi vigiles). Numerose figure dell’amministrazione
          imperiale vennero invece recuperate all’interno della compagine di
          governo pontificia, dei regni romano-barbarici e di quello franco,
          in particolare; giovani realtà politico-statuali il cui
          rafforzamento dipese in larga misura dal contributo di questi
          burocrati (tabularii, tabelliones ecc.). Il
          notaio rappresenta invece un nuovo profilo professionale,
          all’interno dell’Europa altomedievale, evolutosi nei secoli
          attraverso l’esercizio di funzioni (di certificazione,
          interpretazione, archiviazione e conferimento della publica
            fide) che furono di capitale importanza per lo sviluppo dei
          commerci, la regolamentazione delle disposizioni ereditarie e
          degli stessi rapporti di lavoro. Dall’età carolingia alla
          rinascita tardomedievale, la civiltà europea fu
          contrassegnata da una lenta ma incessante ripresa economica,
          sociale e politica, che può essere efficacemente
          argomentata rimanendo nell’ottica della storia delle arti e delle
          professioni; un processo in cui tornò a essere protagonista
          la città. Rispetto alla rigidità normativa che aveva
          fossilizzato ogni aspetto del l. libero e servile nelle campagne
          (dal servo della gleba al mezzadro), la crescita dei centri urbani
          (di impianto romano o di nuova fondazione), la costituzione dei
          primi circuiti fieristici, la nascita di nuove e potenti
          associazioni di mestiere, come pure dei collegi professionali
          (notai, medici) e delle università (anche per le
          professioni mediche, come a Salerno), sono fenomeni emblematici
          del dinamismo commerciale, produttivo e intellettuale che
          investì l’Europa mediterranea e continentale.
          L’autorità e il prestigio conquistato da alcuni sodalizi di
          arti e mestieri marcò in modo talora significativo
          l’architettura e la toponomastica urbana, traducendosi cioè
          nella realizzazione di edifici (banchi, logge, opifici, luoghi di
          culto) strettamente connessi all’esercizio di determinati lavori.
          Anche le committenze artistiche sono una testimonianza preziosa
          per comprendere l’evoluzione della stessa idea di l.,
          perché consentono di indagare il piano delle appartenenze e
          delle identità socio-professionali, fino ad attestare la
          comparsa di atteggiamenti che somigliano a un vero e proprio
          orgoglio di categoria (Orsanmichele a Firenze, chiesa delle arti). 
        L’Età moderna. Il
          lavoro come liberazione o coercizione di forze. Nella Napoli del 16° sec., una delle città più
          ricche e popolose d’Europa, accanto a svariate tipologie di
          artigiani, mercanti e pubblici ufficiali (tutte quelle figure che
          caratterizzavano ormai l’articolata fisionomia amministrativa
          degli Stati moderni, dagli alti magistrati ai semplici scrivani),
          prosperarono individui che si professarono appartenenti a
          categorie del tutto nuove, che spesso è anzi impossibile
          definire se non adottando terminologie ante litteram (la
          mediazione finanziaria o «arte de far trovar denari»).
          Questa liberazione di forze ed energie fisiche e intellettuali,
          anche come rinnovamento delle conoscenze e delle tecniche
          lavorative e professionali, rappresenta una delle due fondamentali
          linee interpretative della stessa Età moderna, ed è
          un processo che investì pure il mestiere delle armi,
          evolutosi dalle antiche compagnie di mercenari di ventura (in cui
          militarono contadini e braccianti costretti ad allontanarsi
          occasionalmente dalle campagne) fino alla nascita dei primi
          eserciti moderni, composti di specialisti della guerra. Il mercato
          di queste nuove professionalità non conobbe confini di
          patria e di cultura, come dimostra il caso dei numerosi esperti di
          marineria e guerra di corsa reclutati entro la compagine militare
          dell’impero ottomano. L’altra faccia della medaglia, ossia
          l’interpretazione (di impostazione marxista) dell’evo moderno come
          epoca di coercizione dell’uomo, in specie sul piano delle
          coordinate giuridico-politiche in cui rimasero inscritti i
          rapporti di l., è ricorrente nella lettura di taluni
          fenomeni come il ritorno del l. schiavile (introdotto dai
          colonizzatori europei a danno delle popolazioni indigene e
          africane nelle Americhe), le rivolte contadine (➔ jacquerie) che
          venarono la storia europea fino al termine dell’antico regime, o
          l’irrigidimento statutario e l’intensa conflittualità che
          finirono col caratterizzare la vita delle arti e dei mestieri.
          Serrate corporative che, in specie a partire dal 17° sec.,
          tesero a salvaguardare i privilegi di categoria (ma anche quelli
          di maestri e proprietari di bottega rispetto a dipendenti e
          apprendisti), e che per lo più si tradussero in meccanismi
          di mutuo soccorso e di cooptazione all’arte tanto ferrei da
          escludere la possibilità di accesso a essa da parte di
          individui che vi fossero estranei per nascita. D’altro canto,
          proprio nel corso della crisi del Seicento, si posero alcune
          importanti premesse per il definitivo superamento dei tradizionali
          rapporti di potere che condizionavano i diversi ambiti del l.,
          nelle città e nelle campagne. Il mondo rurale, che incluse
          oltre l’80% della popolazione europea, fino alla Rivoluzione
          industriale, sebbene caratterizzato da una maggiore
          staticità rispetto al panorama urbano, non fu immune da
          importanti trasformazioni e rivoluzioni. Anzitutto, in Europa
          occidentale, le antiche corvées vennero
          gradualmente sostituite dal pagamento di censi in denaro; la
          definizione di servitù della gleba (la cui effettiva
          abolizione si colloca al termine dell’Età moderna) risulta
          in larga parte impropria per descrivere un quadro che almeno a
          partire dal 16° sec. è sostanzialmente fatto di terre
          signorili o soggette all’autorità ecclesiastica, e tenures non feudali: quelle demaniali e quelle affittate o possedute da
          patrizi, notabili borghesi, ma anche da contadini. Alla
          ricomparsa, dopo secoli, della libera proprietà contadina
          (come pure di vaste aree di microproprietà, ad agricoltura
          intensiva) e del bracciantato salariato, si affiancò
          l’operosità talora caratteristica di altre figure
          intermedie tra la grande proprietà fondiaria e la
          manodopera (mezzadri, massari, fittavoli). Figure che in taluni
          casi seppero trarre vantaggio dalla crisi dei poteri tradizionali
          (l’indebitamento dell’aristocrazia, l’alienazione del latifondo
          ecclesiastico, l’allargamento del mercato dei feudi) per
          incamerare vasti patrimoni terrieri o per avviare processi di
          modernizzazione delle tecniche agricole o di vera e propria
          protoindustrializzazione. È un fenomeno illustrato in sommo
          grado dall’Inghilterra, i cui caratteri economici, sociali e
          politici furono tali da innescare la Rivoluzione industriale,
          processo che cambiò radicalmente la storia del l., ponendo
          termine all’antico regime. 
        L’Età contemporanea. Dalla
        fabbrica al quarto settore: uomini e donne verso il lavoro come
        diritto inviolabile. L’avvento del sistema di
    fabbrica e del capitalismo ha stimolato la nascita della Labour
    history, ambito della ricerca sociologica, filosofica, giuridica e
    storiografica che ha assunto il carattere di vera e propria
    disciplina, nel corso del Novecento (stimolata soprattutto dalla
    vasta riflessione di K. Marx, e dai contributi di F. Engels, F.M.
    Eden). Essa ha il compito di studiare il l. in chiave di sviluppo
    tecnologico e di assetti produttivi, finanziari e sociali (mercato
    del l. e oscillazioni salariali, condizioni delle classi
    lavoratrici), accanto al nesso tra l. e storia politica (le riforme
    sociali, la nascita di associazioni, movimenti, sindacati, camere
    del l. e partiti degli operai e dei lavoratori). In una panoramica
    di grande scala, vanno evidenziate anzitutto la scomparsa delle
    tradizionali corporazioni di mestiere (abolite dal riformismo
    illuminato del 18° sec. o nel corso dell’Ottocento) e
    l’abolizione della servitù della gleba anche in Europa
    orientale, accanto alla crescita dei lavoratori urbani. Le
    città europee, e in specie i centri di maggiore rilevanza
    industriale, divennero meta di sostenuti flussi migratori
    provenienti dalle campagne. Con la prospettiva di esistenze spesso
    miserabili, uomini, donne e bambini ingrossarono a dismisura le file
    del ceto salariato, impiegato nelle fabbriche o in altre
    attività (garzoni, domestici). La conflittualità
    sociale crebbe rapidamente, con esiti talora drammatici, mentre il
    capitale, gli strumenti della produzione e inizialmente anche il know-how si separarono dal l., divenendo una prerogativa di datori o
    supervisori del l. in fabbrica. L’Inghilterra del 19° sec. fu
    teatro di violente proteste contro le macchine (➔ luddismo), della
    nascita delle prime organizzazioni sindacali (Trade unions, 1824) e
    di movimenti come quello cartista (1839), che inaugurarono la strada
    delle rivendicazioni politiche, da parte di larghe frange di
    lavoratori, favorendone la coesione e il coordinamento,
    incoraggiando la formazione di una cultura operaia e di una
    embrionale coscienza di classe. L’approssimarsi di una nuova fase
    dell’industrializzazione (la cosiddetta seconda Rivoluzione
    industriale), corrispondeva all’avvento di un’epoca ormai matura per
    il graduale accoglimento delle rivendicazioni (economiche ma anche
    sociali e politiche) avanzate da categorie di lavoratori ora
    numerose, organizzate e coese. Le spinte economiche del secondo
    Ottocento, l’esigenza di aumentare in quantità e
    qualità la produzione di beni e servizi rendevano d’altra
    parte superato il problema del macchinismo, nel quadro di una
    costante crescita di valore della manodopera specializzata e delle
    macchine perfezionate, a un tempo. Una significativa parte della
    manodopera non specializzata (proveniente in specie da aree
    scarsamente industrializzate, come il Meridione italiano) produsse
    invece nuovi fenomeni migratori, ora diretti verso l’Europa
    continentale e le Americhe. In quegli stessi decenni, la maggior
    parte degli Stati occidentali dovette pertanto dotarsi di normative
    atte a disciplinare la durata, le caratteristiche e le
    modalità del l. salariato, fissando, in taluni casi, i minimi
    salariali e stipendiali (Inghilterra, 1802, 1867-91; Francia, 1848,
    1874; Svizzera, 1874-90; Italia, 1871-1886; USA e Canada, 1867-94).
    Guardando al piano delle sostanziali conquiste giuridiche, è
    invece necessario attendere il primo dopoguerra e anzi la fine del
    secondo conflitto mondiale perché si elabori, in tutto
    l’Occidente, un diritto del l. conforme al rispetto dell’infanzia e
    dei fondamentali obiettivi raggiunti da uomini e donne (abolizione
    del l. minorile, giornata lavorativa di 8 ore, diritto di sciopero,
    festività, previdenza). Lavoratori su cui anzi specificamente
    si fonda il dettato costituzionale di alcune tra le più
    giovani democrazie europee (così nel caso italiano): è
    il traguardo del l. come diritto inviolabile, da cui derivano
    diritti ulteriori, celebrato in occasione della festività
    internazionale del 1° maggio (istituita negli USA, negli anni
    Ottanta del 19° sec.). Una conquista che scaturì da
    ennesime battaglie sociali e politiche (il biennio rosso, 1919-20,
    le agitazioni americane dopo la crisi del 1929), come pure dal
    rilevante contributo di alcuni dei massimi pensatori dell’Otto e del
    Novecento (si pensi al dibattito sulla divisione del l. e sul
    taylorismo, che ha impegnato studiosi marxisti e liberisti).
    Rispetto allo scenario mondiale degli ultimi decenni, il l. è
    tornato a rappresentare un tema-chiave della riflessione politica,
    giuridica, sociologica, filosofica e storiografica, sotto lo
    stimolo, da un lato, delle recenti tendenze dell’economia di mercato
    (la complessità dei sistemi produttivi, la continua esigenza
    di ristrutturarne i comparti, la nascita del cosiddetto quarto
    settore), e d’altro canto la persistente piaga (in Asia e in Africa,
    in particolare), di nuove forme di schiavitù e dello
    sfruttamento del l. femminile e minorile, in specie.