Enciclopedia delle Scienze Sociali (1994)
di Paul Bairoch
Industrializzazione
sommario: 1. Introduzione: una doppia
definizione e una doppia finalità. a) Industria e
industrializzazione. b) La protoindustrializzazione:
un'industrializzazione prima della rivoluzione industriale? c) Le grandi tappe dell'industrializzazione. 2. La rivoluzione
industriale e la prima fase dell'industrializzazione (dal 1740-1760
al 1820-1840). a) Le conseguenze di alcune innovazioni tecniche.
b) Tecnici più che scienziati. c) L'Inghilterra
centro dell'industria mondiale. d) I primi balzi in
avanti della produttività. e) Nuova origine sociale
degli imprenditori. f) Aumento della concorrenza, ma anche
possibilità di diffusione dell'industrializzazione. g) Cronologia e specificità della rivoluzione industriale al
di fuori dell'Inghilterra. 3. La seconda fase: crescita
dell'industrializzazione (dal 1820-1840 al 1880-1900). a) Lo
squilibrio spaziale. b) La deindustrializzazione del Terzo
Mondo. c) I costi umani delle due prime fasi
dell'industrializzazione. d) Il martirio dei bambini.
e) Un universo di lavoro concentrazionario. 4. La terza
fase: la società industriale (dal 1880-1900 al 1960-1970).
a) I nuovi beni di consumo. b) L'industrializzazione
dei beni culturali. c) L'adattamento degli operai alle
macchine. d) Operai meglio pagati e più protetti.
e) Lo sviluppo delle imprese multinazionali. 5. La quarta
fase: un Terzo Mondo in cerca di industrializzazione, un mondo
sviluppato sulla via della deindustrializzazione. a) Alcuni
precedenti dell'industrializzazione del Terzo Mondo. b) L'industrializzazione
del Terzo Mondo: rapidità e debolezze. c) I
quattro 'draghi': modello o eccezione? d) La Cina: un
modello diverso. e) Dal declino delle regioni di antica
industrializzazione all'arretramento dell'industria manifatturiera.
f) Un'esplosione industriale senza precedenti (nonostante
tutto), con un inquinamento anch'esso senza precedenti. g) Le
multinazionali: un ruolo crescente nell'industria mondiale. h) La scomparsa degli operai. i) Nuove forme di
organizzazione del lavoro industriale: dal 'fordismo' al
'toyotismo'. l) Una frattura fondamentale nelle tendenze
dell'industrializzazione. □ Bibliografia.
1. Introduzione: una doppia definizione e una
doppia finalità
La definizione del termine 'industrializzazione' è a un tempo
semplice e complessa: semplice, in quanto le attività
industriali possono agevolmente essere definite come quelle
attività connesse alla produzione di prodotti grezzi non
agricoli e alla trasformazione di tutti i prodotti grezzi, qualunque
ne sia l'origine; complessa, in quanto già da questa
definizione deriva una distinzione tra l'industria manifatturiera
propriamente detta, da un lato, e le industrie estrattive e quelle
delle costruzioni dall'altro. Possiamo tuttavia trascurare questa
distinzione, in quanto, per consenso pressoché universale, il
concetto di industrializzazione si riferisce essenzialmente
all'industria manifatturiera. La vera complessità risiede nel
fatto che se 'industria' è praticamente sinonimo di una delle
componenti essenziali del processo d'incivilimento, e indica
pertanto un fenomeno il cui inizio può essere fatto risalire
a circa diecimila anni fa, viceversa l'industrializzazione è
considerata una componente fondamentale della rivoluzione
industriale, cioè di un fenomeno che ha cominciato a
manifestarsi tutt'al più tre secoli fa e dal quale discende
il mondo attuale, con la sua drammatica divisione tra mondo
sviluppato e mondo sottosviluppato: una divisione spesso espressa
nei termini di 'paesi industrializzati', da una parte, e 'paesi non
industrializzati' dall'altra (con tutto ciò che questa
definizione implica di realtà e insieme di semplificazione
riduttrice).
D'altra parte l'industria non si è ancora emancipata da una
duplice terribile finalità che ha accompagnato la sua
nascita: i primi prodotti dell'industria sono stati a un tempo armi
e strumenti di lavoro. Le selci del Pleistocene inferiore lavorate
grossolanamente servivano, secondo ogni probabilità, sia per
uccidere che per fare a pezzi gli animali; da allora lo stesso
artigiano, lo stesso operaio, lo stesso laboratorio, la stessa
officina hanno prodotto, separatamente o insieme, armi e strumenti
di lavoro, spade e aratri, carri armati e trattori, missili e
navicelle spaziali. E spesso l'arma ha preceduto lo
strumento.Recentemente anche la produzione degli strumenti di lavoro
e dei beni di consumo, per il volume che ha raggiunto, è
arrivata a trasformare i residui industriali in veleni pericolosi
per l'uomo e per l'ambiente. E a distanza di tempo più o meno
breve si profila il pericolo di vedere il rapidissimo sviluppo
dell'industria approdare alla paralisi per la scarsità delle
risorse naturali.
Tra la spada e il missile si collocano un'infinità di
innovazioni tecniche che sono state una delle conseguenze principali
della rivoluzione industriale e hanno determinato uno sconvolgimento
completo dell'industria. Tale sconvolgimento ha interessato non solo
le dimensioni della produzione industriale, il cui volume
complessivo in due secoli è risultato più che
centuplicato, ma ha interessato altresì il modo e la forma
della produzione: agli artigiani indipendenti (simili in qualche
modo agli artisti) si sono sostituiti gli operai, le cui condizioni
di lavoro sono state per molto tempo assai vicine a quelle dello
schiavo o dell'automa. Alla bottega, vicina per la sua
organizzazione e la sua localizzazione al focolare domestico, si
è sostituita la fabbrica, universo quasi concentrazionario.
Ma la fabbrica, con le sue tecniche d'avanguardia, non solo ha
consentito un innalzamento considerevole del livello di vita medio,
ma ha anche messo a disposizione dei più poveri ciò
che una volta rappresentava un lusso concesso soltanto ai più
ricchi. L'equivalente di una biblioteca privata di tascabili o di
una raccolta di dischi di grande diffusione (e domani di
videocompact) era una volta alla portata soltanto dei ricchi
principi o dei grandi borghesi.
Non è facile fare un bilancio dell'esperienza
dell'industrializzazione. Abbiamo già sottolineato i danni
che sono stati provocati e i rischi ancora maggiori che minacciano
con ogni probabilità l'ecosistema, come pure la
spersonalizzazione che è connessa al modo di produzione
caratteristico dell'industria. A questi gravi problemi si aggiunge
altresì quello dell'assenza di uniformità nella
distribuzione spaziale del processo di industrializzazione.
Nonostante questa difformità, tuttavia, i paesi o le regioni
risparmiati o dimenticati dal processo di industrializzazione non
necessariamente sono stati risparmiati dalle sue conseguenze
negative e, soprattutto, hanno dovuto spesso soffrire per la
condizione di inferiorità connessa alla perdita di ogni
capacità di resistenza sul piano militare, determinata
dall'assenza delle moderne tecniche di guerra derivate
dall'industrializzazione.
È evidente che l'accresciuta disponibilità di
armamenti e la maggiore mobilità dei soldati, rese possibili
dall'industrializzazione, hanno rappresentato un fattore importante
per accelerare la colonizzazione a partire dall'inizio del XIX
secolo. D'altra parte, la concorrenza dei prodotti usciti dalle
fabbriche dei paesi europei detentori delle nuove tecniche ha
determinato nel resto del mondo un processo di
deindustrializzazione.Infine un'altra conseguenza
dell'industrializzazione, importante anche se spesso trascurata,
è rappresentata dal suo impatto decisivo sulla
'monetarizzazione' delle società. Fin quando l'industria ha
conservato una forma legata al modello della produzione artigianale,
tre serie di fattori hanno limitato notevolmente il ricorso al
circuito monetario: in primo luogo la scarsa importanza dei prodotti
manufatti nel consumo privato; poi il fatto che una quota notevole
della produzione fosse effettuata dagli agricoltori per consumo
personale; infine il fatto che anche gli artigiani urbani
barattassero una parte della loro produzione. La situazione cambia
radicalmente con l'avvento dell'industrializzazione, quando lo
smercio dei prodotti implica degli intermediari e porta alla
scomparsa pressoché completa dell'artigiano rurale e del
baratto.
a) Industria e industrializzazione
A questo punto del discorso è opportuno definire con maggiore
precisione i termini 'industria' e 'industrializzazione', e
soprattutto metterne in evidenza l'opposizione. La definizione del
termine 'industria', nel senso in cui esso viene utilizzato in
questa sede, costituisce un problema notevolmente delicato a causa
dell'estensione e della diversità delle attività che
rientrano in questo settore.Per tali motivi si propone qui la
seguente definizione: l'industria è il complesso delle
attività che consistono nel produrre o nel trasformare beni
materiali, fatta eccezione per le attività agricole
propriamente dette (vale a dire per quelle che arrivano fino allo
stadio della raccolta). Mentre il termine 'industria' può
essere utilizzato per queste attività, qualunque sia il
periodo di cui si tratta o il livello delle tecniche utilizzate, il
termine 'industrializzazione', invece, si giustifica soltanto a
partire dai molteplici cambiamenti introdotti dalla rivoluzione
industriale. In effetti, l'industrializzazione può essere
definita come un processo derivato dalla rivoluzione industriale
(della quale costituisce una componente essenziale), che consiste in
profonde trasformazioni delle strutture economiche e sociali
determinate dal rapido sviluppo dell'industria, sviluppo favorito da
nuove tecniche che danno luogo ad aumenti sostanziali di
produttività.
b) La protoindustrializzazione: un'industrializzazione prima
della rivoluzione industriale?
Il problema delle attività artigianali in ambiente
rurale, nelle società tradizionali, è stato impostato
in termini completamente nuovi, nel 1969, da Franklin Mendels, cui
si deve il termine 'protoindustrializzazione'; in seguito,
dall'inizio degli anni settanta, sono stati numerosi gli studiosi
che hanno trattato questa materia. Vediamo quindi la definizione che
Mendels (v., 1984) dà di questo fenomeno. A suo giudizio,
perché si possa parlare di protoindustrializzazione occorre
la presenza contemporanea di questi tre elementi: "1) La
protoindustrializzazione comporta la comparsa e l'espansione di un
tipo di industria la cui produzione finale sia destinata
all'esportazione in un mercato collocato al di fuori della regione.
[...] 2) La protoindustrializzazione riguarda la partecipazione di
famiglie contadine alla produzione. Si tratta di un fenomeno di
consolidamento ed espansione dell'industria rurale o della
manifattura rurale diffusa. [...] 3) La protoindustrializzazione
implica l'associazione tra produttori di surplus agricoli
commercializzati e contadini che coltivano appezzamenti le cui
dimensioni insufficienti rendono necessaria la ricerca di redditi
complementari". Per Mendels si tratta comunque di un fenomeno a
carattere esclusivamente regionale.Se l'industria rurale è
presente già molti secoli prima della rivoluzione
industriale, la protoindustrializzazione si sviluppa soprattutto
durante il XVIII secolo. Allo stato attuale della ricerca non
è facile effettuare un bilancio complessivo delle dimensioni
del processo, ma è indiscutibile che esso ha interessato
molte regioni d'Europa (e anche altre fuori d'Europa, ma questo
aspetto è stato meno studiato), e soprattutto le regioni
cerealicole e a coltura mista piuttosto che quelle a vigneti, dove
era assai raro. La protoindustrializzazione consentiva ai contadini
di svolgere attività che aumentavano i redditi senza ridurre
il lavoro agricolo, e permetteva ai mercanti di sfuggire ai
regolamenti delle corporazioni cittadine. Infine, ma non pretendiamo
di esaurire l'argomento, occorre anche segnalare che questa
protoindustrializzazione ha determinato delle modifiche nelle
strutture e nei comportamenti demografici (in particolare
l'abbassamento dell'età matrimoniale), anche se essa stessa
è stata talvolta attivata da tali cambiamenti.
A giudizio di Mendels la protoindustrializzazione avrebbe creato
delle condizioni favorevoli all'industrializzazione propriamente
detta. Questo è certamente possibile, ma non si devono
dimenticare tre fatti. In primo luogo che l'Inghilterra, culla della
rivoluzione industriale, non ha conosciuto uno sviluppo
significativo del fenomeno dalla protoindustrializzazione, anzi si
può addirittura affermare che è stata una delle
regioni dell'Europa occidentale meno interessate da questo fenomeno.
Poi, che l'industrializzazione si è sviluppata anche in molte
altre regioni senza passare attraverso la protoindustrializzazione.
Infine, che numerose regioni interessate dalla
protoindustrializzazione non si sono poi industrializzate.Se
vogliamo quindi rispondere all'interrogativo proposto nel titolo di
questo paragrafo, la risposta è assai netta. Anche se
è possibile che la protoindustrializzazione abbia avuto
un'influenza positiva sull'industrializzazione, non si trattava
comunque di una forma di industrializzazione nel senso che in questa
sede (e generalmente) viene dato a questo processo. Una delle
differenze essenziali e fondamentali tra i due fenomeni è
l'assenza nella protoindustrializzazione di significativi progressi
tecnologici atti a determinare aumenti notevoli nella
produttività.
c) Le grandi tappe dell'industrializzazione
Lasciando da parte la protoindustrializzazione, si possono fissare,
tra l'inizio della rivoluzione industriale e l'epoca contemporanea,
quattro fasi del processo di industrializzazione. La prima - che
comincia verso il 1740-1760 (cioè con la rivoluzione
industriale) e si conclude verso il 1820-1840 - consiste
essenzialmente in un aumento quantitativo del volume della
produzione, senza che vengano modificati la struttura del consumo di
manufatti e neppure i grandi schemi tecnici della produzione. Questa
fase è caratterizzata da numerose innovazioni tecniche, in
particolare nell'industria e nei trasporti.La seconda fase, che
occupa il periodo tra il 1820-1840 e il 1880-1900, ed è
quella della maturazione della rivoluzione industriale, è
caratterizzata dall'utilizzazione di tecniche nuove, dalla
diffusione dell'industrializzazione e da una specializzazione nella
divisione internazionale del lavoro che conduce alla
deindustrializzazione del Terzo Mondo. Gli anni dal 1880-1900 al
1950-1970 - che corrispondono alla terza fase - sono quelli in cui i
manufatti resi possibili dai progressi tecnici e scientifici dei
periodi precedenti modificano profondamente la struttura dei consumi
personali. Infine, la quarta fase - che è cominciata negli
anni sessanta ed è ancora in pieno svolgimento sotto i nostri
occhi - è quella che unisce a una nuova diffusione spaziale
dell'industrializzazione la nascita di una sua nuova forma che le
consente di non essere più soltanto un sostegno al lavoro
fisico dell'uomo, ma anche a quello intellettuale, e si traduce
inoltre in una diminuzione dell'importanza relativa dell'occupazione
nell'industria manifatturiera.
2. La rivoluzione industriale e la prima fase
dell'industrializzazione (dal 1740-1760 al 1820-1840)
È stato spesso criticato l'uso del termine 'rivoluzione
industriale' per indicare quei cambiamenti - certamente profondi e
carichi d'implicazioni, ma tutto sommato assai graduali - che, in
Inghilterra a partire dall'inizio del XVIII secolo e un po'
più tardi negli altri paesi occidentali, hanno
progressivamente trasformato le società tradizionali, a
carattere essenzialmente agricolo, in società nelle quali
predomina l'attività industriale. Il carattere graduale e
lento che caratterizza la prima fase di queste trasformazioni
è in contrasto con il concetto di rivoluzione, che indica un
cambiamento brusco, quasi repentino. Ma in realtà all'uso di
questo termine può essere mossa un'obiezione molto più
fondata, in quanto, in definitiva, la rivoluzione industriale
è stata in primo luogo condizionata e preparata da una
rivoluzione agricola che, nelle società nelle quali si
è realizzata, ha consentito e promosso uno sviluppo senza
precedenti dei settori industriali e minerari.
Se l'agricoltura ha svolto un ruolo capitale nella rivoluzione
industriale, non è però meno vero che il processo di
industrializzazione ne ha rappresentato ben presto l'elemento
determinante, quello che ha avuto l'impatto più forte sulla
vita quotidiana. Poichè il consumo di prodotti alimentari si
blocca assai presto davanti a un limite oggettivo che praticamente
non esiste per i prodotti manufatti, di conseguenza i prodotti
agricoli e le attività rurali hanno perso d'importanza
relativa a vantaggio delle attività industriali e del
trasporto e della distribuzione di questi manufatti (ai diversi
stadi della loro produzione). Nei paesi sviluppati la produzione
agricola pro capite tra il 1800 e il 1913 è risultata
moltiplicata per 1,5, mentre quella industriale per 9,1. La
manodopera occupata nell'industria ha superato quella occupata
nell'agricoltura fin dal 1815 in Inghilterra, verso il 1880 in
Svizzera, nel 1890 in Belgio e nel 1910 in Germania.Passiamo ora a
esaminare le caratteristiche di questa prima fase
dell'industrializzazione, ricordando che l'abbiamo descritta come
caratterizzata essenzialmente da un aumento quantitativo del volume
della produzione, reso possibile da innovazioni tecniche
significative che non modificano però radicalmente né
la struttura del consumo di manufatti, né i grandi schemi
tecnici di produzione. Allo stesso modo non vengono modificate
sensibilmente le forme di proprietà e di finanziamento delle
imprese industriali e il sistema giuridico non subisce ancora alcun
adattamento né alle nuove forme d'impresa, né
soprattutto alle nuove condizioni di sfruttamento della nascente
classe proletaria. Le leggi sociali che limitano gli abusi
più stridenti saranno realmente in vigore soltanto a partire
dagli anni trenta del secolo scorso. Quanto alla localizzazione,
è caratteristico di questo periodo il fatto che questi
cambiamenti concernono, su vasta scala, quasi esclusivamente
l'Inghilterra. Infine, ma questa è una delle caratteristiche
generali della rivoluzione industriale e forse la più
importante, l'accresciuta produttività non viene utilizzata
soltanto in vista di un aumento dei profitti, ma anche di un
allargamento del mercato. Vediamo quindi in dettaglio alcuni di
questi aspetti.
a) Le conseguenze di alcune innovazioni tecniche
Non è esagerato affermare che la prima fase
dell'industrializzazione è quasi esclusivamente il risultato
degli effetti diretti e indiretti della diffusione di tre
innovazioni tecniche: l'uso del carbon coke nella produzione di
ghisa, la meccanizzazione della filatura e la macchina a vapore.Con
la sostituzione del carbone di legna con il carbon coke nella
produzione di ghisa, ci troviamo di fronte al primo caso in cui un
settore importante della produzione arriva a liberarsi completamente
dai vincoli imposti dalla scarsità delle risorse naturali.
Infatti, per alimentare con il carbone di legna l'industria
siderurgica dell'Inghilterra del 1850 sarebbe stata necessaria una
foresta che coprisse una superficie doppia rispetto a quella
dell'Inghilterra. Se ci si trasferisce idealmente a quei tempi e si
guarda al futuro, anche in una prospettiva a lungo termine, risulta
chiaro che il carbon fossile poteva allora essere considerato come
una risorsa inesauribile. In effetti, nonostante gli oltre due
secoli di sfruttamento intensivo, le riserve attuali accertate di
carbone ammontano ancora a circa 2.400 miliardi di tonnellate, vale
a dire che sono sufficienti a coprire per 500 anni l'equivalente del
consumo attuale e per 160.000 anni il consumo del 1800. Per giunta,
le riserve presumibili sono quattro o cinque volte superiori a
quelle accertate.
La meccanizzazione della filatura comincia verso il 1760. La sua
importanza nello sviluppo della rivoluzione industriale nasce dal
fatto che gli enormi incrementi di produttività che essa ha
determinato riguardano dei prodotti (l'abbigliamento) che
costituivano circa gli otto decimi del consumo totale di
manufatti.La macchina a vapore, infine, grazie alla sua
alimentazione - che utilizza una fonte di energia assai abbondante -
e alla sua mobilità, ha consentito all'industria di
emanciparsi da un determinismo geografico soffocante. Conviene
tuttavia sottolineare che l'intervento della macchina a vapore
nell'industria si colloca al termine della fase qui descritta. In
effetti si può parlare di un'introduzione a livelli
significativi dei motori fissi solo a partire dagli ultimi anni del
XVIII secolo. Quanto alle ferrovie, anche in Inghilterra occorre
attendere il 1825 per l'inaugurazione della prima linea, mentre, sul
piano mondiale, solo nel 1841-1842 saranno aperti alla circolazione
i primi 10.000 km di strade ferrate.
Uno dei più importanti elementi esplicativi del processo
cumulativo di sviluppo cui ha dato il via la rivoluzione industriale
è rappresentato dalle interazioni tra agricoltura e
industria, ma ci sono interazioni importanti anche all'interno della
stessa industria. La produzione di ferro alimentata dal carbon coke
ha permesso di abbassare il prezzo di costo e ciò ha
consentito l'introduzione di macchine in diversi settori. La
meccanizzazione del settore tessile ha rappresentato, per la
richiesta di macchine che comportava, un importante fattore di
domanda di prodotti siderurgici. La domanda di carbone da parte del
settore siderurgico ha incrementato contemporaneamente l'uso delle
macchine a vapore (per le pompe utilizzate nelle miniere) e lo
sviluppo della rete di canali per il trasporto di questi prodotti
pesanti. Accanto alle tre innovazioni tecniche fondamentali alle
quali abbiamo appena accennato (e spesso da esse suscitati) si
collocano numerosi progressi tecnici di minore importanza. Tali
sviluppi tecnici non soltanto costituivano, a partire da quel
momento, il punto di partenza per nuove interazioni, ma erano anche
fattori suscettibili di creare numerose strozzature, che suscitavano
a loro volta dei tentativi di introdurre ulteriori innovazioni
capaci di superarle.
b) Tecnici più che scienziati
Lasceremo da parte il problema importante, ma irrisolto, della
possibile preminenza della scienza europea, prima della rivoluzione
industriale, su quella di altre civiltà tradizionali al loro
apogeo, in quanto la scienza era largamente assente dagli sviluppi
tecnici che accompagnarono gli inizi dell'industrializzazione; e
questa osservazione vale praticamente per tutti i settori. Anche le
prime macchine a vapore operative (verso il 1710) di T. Savery o di
T. Newcomen (che d'altronde era fonditore e fabbro) non dovevano
nulla alla scienza, e la stessa cosa si può dire per i
miglioramenti che vi furono apportati per più di
sessant'anni.Nel settore tessile - che almeno fino a metà del
XIX secolo rappresentò il motore dell'industrializzazione -
furono sempre dei tecnici a mettere a punto o a migliorare le prime
macchine meccaniche. I nomi che accompagnano i progressi della
meccanizzazione del lavoro tessile, anche se non sono direttamente
legati a tale settore, sono comunque tutti estranei alla vita
scientifica. D'altra parte, nei primi decenni della meccanizzazione
dell'industria tessile, le macchine erano di solito fabbricate dalle
stesse imprese tessili. Fu soltanto più tardi che officine
indipendenti si incaricarono della costruzione di queste macchine (e
probabilmente la sostituzione del ferro al legno nella costruzione
delle attrezzature vi ebbe un ruolo importante). Tutto questo
consentì una specializzazione che favoriva l'apporto di
perfezionamenti richiedenti una qualificazione tecnica più
elevata.
Anche se non rientra nei nostri obiettivi esaminare le cause che
hanno fatto sì che la rivoluzione industriale esordisse in
Inghilterra piuttosto che altrove, è comunque significativo
rilevare, anche per evidenziare il ruolo marginale svolto dalla
scienza, che questo paese, agli inizi del XVIII secolo, era ben
lungi dall'occupare in Europa il primo posto in campo scientifico o
anche tecnico. In una classifica dei paesi in base al loro livello
scientifico l'Inghilterra sarebbe venuta dopo l'Italia e la Francia,
e anche per il terzo posto avrebbe avuto un serio concorrente nei
Paesi Bassi. Con l'eccezione forse delle costruzioni navali,
l'Inghilterra non aveva alcuna supremazia in campo tecnico.
c) L'Inghilterra centro dell'industria mondiale
Queste osservazioni ci inducono a sottolineare il carattere
localmente circoscritto di questa prima fase
dell'industrializzazione. In effetti, dato che la rivoluzione
industriale è rimasta per circa 40-60 anni un fenomeno
limitato all'Inghilterra, il processo di industrializzazione
è stato, fino al 1820-1830, concentrato quasi esclusivamente
in questo paese, che rappresentava allora il 4% della popolazione
europea e solo l'1% di quella mondiale. Se riconduciamo questo
rapporto a uno spazio economico più coerente, cioè
alla Gran Bretagna, le proporzioni risultano modificate soltanto
marginalmente (rispettivamente 4,6 e 1,2%), e tuttavia, fino al
1830, in Gran Bretagna si concentrava più del 60% del
potenziale industriale moderno (v. indicativamente tab. I).
Il restante 40% non era concentrato in un solo paese, ma disperso
tra molti, in particolare la Francia, il Belgio, la Svizzera e gli
Stati Uniti, i quali, tutti insieme, avevano una popolazione tre
volte superiore a quella della Gran Bretagna. Non soltanto quindi la
Gran Bretagna fino agli anni trenta del secolo scorso concentrava
presso di sé la parte essenziale dell'industria moderna, ma
il volume della produzione consentito dalle nuove tecniche era
enorme, soprattutto se lo si considera in una prospettiva storica.
L'industria tessile britannica, verso il 1830, produceva una
quantità di filati di cotone probabilmente equivalente alla
metà di quella prodotta da tutto il mondo 60-70 anni prima.
E, sempre verso il 1830, la produzione di ferro della Gran Bretagna
equivaleva alla produzione mondiale di 60-70 anni prima.Non bisogna
dimenticare, tuttavia, che i nuovi settori rappresentavano solo una
frazione di tutta l'industria manifatturiera. Come si può
vedere dalla tab. II, verso il 1860 nel Regno Unito si
effettuava soltanto il 20% della produzione manifatturiera mondiale
complessiva; ma poiché questo paese rappresentava allora solo
il 2% della popolazione mondiale, il suo livello
d'industrializzazione pro capite era nove volte maggiore della media
mondiale e quattro volte maggiore della media dei futuri paesi
sviluppati.
d) I primi balzi in avanti della produttività
Semplificando si può affermare che gli incrementi della
produttività rappresentano l'essenza stessa del progresso
economico e, di conseguenza, che gli incrementi della
produttività industriale costituiscono l'elemento essenziale
dell'industrializzazione. Nel complesso dell'industria
manifatturiera il tasso di crescita della produttività
è stato piuttosto lento. D'altra parte, si tratta di una
delle caratteristiche generali dell'avvio del processo di sviluppo
moderno nel suo complesso, ma la novità di questo sviluppo
è che esso segna una frattura con la quasi-stagnazione dei
secoli e dei millenni precedenti. Si può ritenere che durante
la prima fase dell'industrializzazione (qui esaminata) la
produttività dell'industria manifatturiera nel suo complesso
sia cresciuta solo dell'1-1,5% all'anno, incremento che nel contesto
attuale sembrerebbe assai lento. Tuttavia è improbabile che
nei tre secoli che hanno preceduto la rivoluzione industriale questo
incremento sia stato superiore allo 0,2% - in quanto ciò
avrebbe comportato un raddoppio della produttività - ed
è estremamente poco probabile che nei due millenni precedenti
esso sia stato in media superiore allo 0,1% all'anno, perché
ciò avrebbe implicato una produttività moltiplicata
per sette; gli ordini di grandezza probabili sono una
produttività moltiplicata per 2,2-3,2 tra il 1740-1760 e il
1820-1840, contro una moltiplicazione per 1,1-1,4 durante i tre
secoli precedenti.
Frattura fondamentale, dunque, ma anche incrementi modesti per
l'industria manifatturiera nel suo insieme e a breve termine.
Inoltre, questi incrementi modesti sono la risultante di evoluzioni
settoriali assai diverse. In questo periodo gran parte
dell'industria manifatturiera attraversa una fase di
quasi-stagnazione della produttività, in particolare nelle
industrie del legno, in quelle alimentari, dell'abbigliamento, ecc.
Al contrario, nel settore tessile - soprattutto nella filatura - e
nell'industria siderurgica, si assiste a dei veri e propri balzi in
avanti della produttività, il che spiega, d'altra parte,
perché questi settori siano generalmente definiti come i
'motori dell'industrializzazione'. In termini relativi il settore
tessile era certamente il più importante, in quanto
rappresentava, nel quadro delle attività tradizionali, circa
il 50-60% dell'attività manifatturiera. Ora la filatura, che
richiedeva circa gli otto-nove decimi del lavoro impiegato nella
produzione di tessuti, compie un enorme salto in avanti nella
produttività. Le macchine del tipo Robert - che cominciano a
essere utilizzate in Inghilterra verso il 1825 - richiedono solo 135
ore-uomo per produrre 100 libbre di filato di cotone (n.80), mentre
in India nel XVIII secolo la filatura manuale ne richiedeva oltre
50.000: si ha dunque una produttività di lavoro moltiplicata
per 380 circa. Per i filati meno fini, quelli di uso corrente, la
produttività risultava probabilmente moltiplicata solo per
10-12. Inoltre, mentre nel XVIII secolo la produzione annuale di
ferro grezzo per operaio era dell'ordine di 5-6 tonnellate, nei
paesi sviluppati, alla metà del XIX secolo tale produzione si
aggirava sulle 55-65 tonnellate, e alla vigilia della prima guerra
mondiale sulle 450-500.
Questi salti in avanti della produttività si tradussero in
ribassi dei prezzi che aprirono ai manufatti sbocchi sempre
più numerosi, facilitando allo stesso tempo le integrazioni
di cui abbiamo parlato precedentemente. I ribassi furono resi
possibili anche da un comportamento nuovo da parte di quanti
organizzavano la produzione di questi beni. Agli artigiani e ai
mercanti dell'ancien régime si sostituiscono i capitani
d'industria, i quali non ragionano più sulla base di un
mercato stabile e di un profitto che può essere massimizzato
soltanto rispetto al volume d'affari. Con la rivoluzione industriale
si è di fronte a una situazione in cui il profitto totale
può crescere, e crescere rapidamente, non solo per un forte
aumento dei tassi di profitto, reso possibile dalle nuove tecniche,
ma anche per la rapida espansione del mercato, che deriva, a sua
volta, dal crescente surplus agricolo. In generale, gli incrementi
di produttività non sono soltanto assorbiti dai profitti, ma
si riflettono anche ampiamente sul prezzo dei manufatti. Questo
comportamento nuovo, dominante tra gli imprenditori industriali,
dipende allo stesso tempo dalla diversa origine di questi
imprenditori e dalle nuove condizioni di concorrenza.
e) Nuova origine sociale degli imprenditori
Da un esame complessivo delle biografie degli imprenditori nelle
prime fasi dell'industrializzazione si ricava un elemento comune: la
larga prevalenza di persone di origine modesta e soprattutto di ex
agricoltori tra i fondatori di imprese industriali, non solo nel
settore tessile, ma anche nella maggior parte degli altri settori.
Questa caratteristica, che emerge sempre più nettamente dalle
ricerche storiche, non si applica soltanto all'Inghilterra, ma anche
a tutti i paesi europei che si sono industrializzati durante il XIX
secolo e agli Stati Uniti, e rivela quindi una relativa assenza dei
capitalisti della società tradizionale tra i primi
imprenditori.Questa assenza dei vecchi capitalisti si può
spiegare facilmente con fattori di ordine sociologico: è
estremamente difficile indurre dei gruppi sociali a cambiare
completamente il loro campo d'attività finché le
risorse di cui dispongono consentono loro di condurre ancora, senza
grandi difficoltà, un tipo di vita soddisfacente. E
poiché la rivoluzione industriale non ha comportato una
riduzione delle attività proprie dei vecchi gruppi
capitalistici (anzi, al contrario), la spinta a un cambiamento di
attività ne è risultata attenuata.
f) Aumento della concorrenza, ma anche possibilità di
diffusione dell'industrializzazione
Le possibilità di concorrenza derivano in gran parte da
una delle caratteristiche fondamentali delle nuove tecniche adottate
nella prima e anche, in parte, nella seconda fase
dell'industrializzazione, cioè dalla facilità di
imitazione. Abbiamo già sottolineato il carattere empirico
delle invenzioni che accompagnarono e favorirono gli inizi della
rivoluzione industriale, come pure la ridotta influenza delle
scienze sulla tecnica durante queste fasi dello sviluppo. Queste
caratteristiche hanno avuto come conseguenza essenziale che la
costruzione di macchine e di attrezzature si poteva realizzare con
il concorso di artigiani che disponevano soltanto di tecniche
tradizionali. In altri termini, non vi erano praticamente ostacoli
alla diffusione regionale, ma anche (e questo è assai
importante) internazionale, dei progressi dei procedimenti tecnici,
se non inventati, almeno utilizzati inizialmente in Inghilterra.In
definitiva era sufficiente la semplice informazione, e i pochi
esempi che ora daremo sono significativi. Nel 1776 si decise di
costruire in Francia una prima unità siderurgica moderna: non
si trattava soltanto della prima impresa siderurgica in grado di
fabbricare ghisa con il carbon coke, ma anche di una unità di
grandi dimensioni. Per la costruzione di questa unità il solo
tecnico straniero presente fu William Wilkinson, fratello di John,
un grande esperto inglese di siderurgia, e tutta l'attrezzatura
relativa fu costruita sul posto. Verso il 1770 le autorità
francesi mandarono in Inghilterra il figlio di un emigrato cattolico
inglese "per carpire gli ultimi segreti"; questi riuscì a
comprare una filatrice meccanica Jenny e a farla passare di
contrabbando, e questa macchina costituì il punto di partenza
della meccanizzazione della filatura in Francia. Le due locomotive
importate dall'Inghilterra da Marc Séguin nel 1823 non
entrarono mai in servizio, ma furono piazzate al centro di una
fabbrica e servirono da modello per le prime 12 locomotive francesi.
In breve, le possibilità di imitazione, con l'aiuto di una
manodopera non specializzata e composta da artigiani tradizionali,
costituivano una delle caratteristiche essenziali della tecnica
delle prime fasi dell'industrializzazione. D'altra parte per molto
tempo la costruzione delle attrezzature fu un momento essenziale
nell'attività delle imprese che le utilizzavano poi per la
produzione; anche in seguito, quando la specializzazione sarà
più marcata e la tecnica più evoluta, non vi
sarà ancora frattura tra tecnica tradizionale e tecnica
moderna. Fino alla fine del XIX secolo, praticamente, non ci
sarà ancora un vero e proprio fossato tra l'operaio
specializzato che costruisce e ripara le diverse attrezzature
(macchine tessili, a vapore, o utensili agricoli), e il fabbro o il
calderaio tradizionale. Verso il 1880 il fabbro di un villaggio
francese, inglese, tedesco o italiano era in grado, per esempio, di
riparare i primi modelli di mietitrici del tipo McCormick. Durante
lo stesso periodo il governo giapponese importava macchine destinate
a essere esposte nelle diverse città del paese in modo che
gli artigiani locali potessero riprodurle. La rottura, infatti, si
produrrà soltanto con l'introduzione delle numerose
applicazioni dell'elettricità e dei motori a scoppio.
L'elettronica e l'energia nucleare, naturalmente, allargano
ulteriormente questa frattura tra la tecnica tradizionale e quella
uscita dalla rivoluzione industriale.Esamineremo le conseguenze
sociali della prima e della seconda fase dell'industrializzazione
alla fine del prossimo capitolo. Prima di trattare questi argomenti,
tuttavia, conviene affrontare alcuni problemi relativi alla
cronologia del fenomeno oggetto del nostro studio, come pure le
principali modalità specifiche degli inizi della rivoluzione
industriale al di fuori dell'Inghilterra, paese culla di questa
rivoluzione, che, proprio per questo, è stata finora oggetto
privilegiato della nostra trattazione. Questo ci porterà,
d'altra parte, a oltrepassare i confini cronologici di questa prima
fase dell'industrializzazione.
g) Cronologia e specificità della rivoluzione industriale
al di fuori dell'Inghilterra
Abbiamo appena visto che la Francia ha cercato assai presto di
acquisire le nuove tecniche industriali utilizzate in Inghilterra.
Essa, tuttavia, non è stata la sola che ha cercato di farlo
così precocemente; è probabile che sia stata preceduta
dal Belgio e/o dalla Svizzera. In questo campo la ricerca
comparativa non è sufficientemente sviluppata da consentire
di precisare un ordine cronologico tra questi tre paesi. Senza
considerare le innovazioni nel settore agricolo - che furono anche
precedenti - si può concludere che, per quanto riguarda
questo primo gruppo di tre paesi che hanno imitato l'esempio
inglese, la rivoluzione industriale in senso specifico ha avuto
inizio tra il 1765 e il 1780.Una delle differenze più
significative rispetto agli albori della rivoluzione industriale in
Inghilterra è stata la presenza relativamente importante di
tecnici (inglesi). Questi svolsero due ruoli, intrecciati al punto
che talvolta si confondono tra loro: di consiglieri tecnici e di
fondatori d'imprese. Come vedremo più avanti, poiché
l'Inghilterra aveva vietato l'emigrazione dei suoi artigiani, le
minoranze religiose si sono trovate a svolgere un ruolo
proporzionalmente più importante, in particolare
perché i cattolici erano più portati dei protestanti a
sfidare tale divieto. Parallelamente a questa migrazione di inglesi,
si devono anche segnalare i numerosi viaggi a scopo d'informazione
compiuti dagli industriali di questi tre paesi (e in generale
dell'Europa continentale) in Inghilterra.
Allo stato attuale delle ricerche, il ruolo degli autoctoni che si
sono recati in Inghilterra alla ricerca di innovazioni tecniche
è stato più importante in Svizzera rispetto agli altri
due paesi, mentre, sempre in Svizzera, la presenza di tecnici
inglesi è stata più limitata.Dal punto di vista
cronologico, assai vicino a questi tre paesi troviamo gli Stati
Uniti. Fin dall'indipendenza (1783), uno degli obiettivi di questo
paese è stata l'industrializzazione; d'altra parte, la
moderna dottrina del protezionismo, visto come fattore capace di
favorire l'industrializzazione, è nata proprio negli Stati
Uniti.Nel 1791 Alexander Hamilton, primo segretario per il Tesoro,
pubblicò il suo famoso Report on manufactures, considerato
come la prima formulazione del protezionismo moderno, un testo che
ha influenzato profondamente Friedrich List, figura chiave di questa
teoria. Nel protezionismo si esprime un elemento specifico che ha
interessato la maggior parte dei paesi che si sono industrializzati
dopo l'Inghilterra: l'intervento dello Stato, che non si realizza
soltanto attraverso la politica doganale, ma anche, spesso,
attraverso la ricerca di tecnici e di imprenditori e attraverso
altre forme d'incoraggiamento all'industrializzazione.
La Germania e alcune aree del vasto Impero austroungarico sono i
paesi che troviamo, proseguendo nel nostro ordine cronologico, tra
quelli che hanno imboccato la strada della rivoluzione industriale;
il loro cammino è iniziato tra il 1840 e il 1860.
Naturalmente questo non significa che non vi siano state,
precedentemente, forme embrionali di industrializzazione; ma si
trattava sempre di realtà limitate, sia sul piano settoriale
che regionale. In questi casi, alla presenza di tecnici e
imprenditori inglesi si aggiunge quella di tecnici e imprenditori
dei tre paesi europei che per primi avevano seguito l'esperienza
inglese. L'industria pesante, soprattutto in Germania, ha svolto un
ruolo di grande rilievo, soprattutto a causa delle necessità
nel settore delle ferrovie; inoltre, la creazione di una rete
ferroviaria in questi paesi ha richiesto forti importazioni di
capitali.
La presenza di capitali stranieri sarà ancora più
importante nella maggior parte dei paesi che dettero inizio alle
rispettive rivoluzioni industriali dopo la prima metà del XIX
secolo. È questo, in particolare, il caso della Russia, dove,
per di più, il ruolo del potere centrale è stato
fondamentale. Una delle motivazioni dello zar Alessandro II nella
decisione di abolire la servitù della gleba (1861) consisteva
appunto nella possibilità di consentire una qualche
mobilità della manodopera dall'agricoltura verso l'industria.
Anche se fin dagli anni trenta si possono ritrovare forme embrionali
di industrializzazione, si può affermare che l'inizio della
rivoluzione industriale in Russia va collocato intorno al
1880.Tornando, tuttavia, alla cronologia della rivoluzione
industriale, bisogna osservare che la Russia è stata
preceduta dalla Svezia, paese per il quale la rivoluzione
industriale può essere collocata intorno al
1860.L'industrializzazione della Svezia assumerà forme
originali, soprattutto per la sua specializzazione in settori nuovi
(macchine per la mungitura, cuscinetti a sfera, telefoni, ecc.) e
anche per una minore presenza di tecnici e di capitali stranieri.Gli
inizi della rivoluzione industriale nei due ultimi paesi che hanno
realmente intrapreso questo processo prima della prima guerra
mondiale (Spagna e Italia) si collocano all'incirca nello stesso
periodo della rivoluzione industriale in Russia, vale a dire tra il
1870 e il 1890. Questi due paesi hanno conosciuto un processo di
industrializzazione che si è scontrato con numerosi ostacoli.
Entrambi hanno sentito il peso del loro precedente ruolo economico e
soprattutto commerciale, e in particolare hanno ereditato un sistema
urbano sovradimensionato rispetto al loro ruolo economico nel XIX
secolo. Inoltre, l'Italia ha sofferto per la mancanza di materie
prime e la Spagna per una grave crisi agricola. Complessivamente,
tuttavia, il processo di industrializzazione è stato
più rapido in Italia che in Spagna.
3. La seconda fase: crescita
dell'industrializzazione (dal 1820-1840 al 1880-1900)
Questa seconda fase occupa un posto chiave nel processo di
industrializzazione. Il mondo del 1820 è un mondo ancora
tradizionale, con un'enclave ben circoscritta di società
nuova; ma una gemma isolata non costituisce sempre il segnale di una
larga fioritura. Certo, con il senno di poi, la rivoluzione
industriale inglese appare come il preludio ineluttabile del
processo generale di industrializzazione, ma a conti fatti la Gran
Bretagna del 1820 non rappresentava neppure il 2% della popolazione
mondiale e la produzione industriale pro capite del mondo era
cresciuta solo del 10% rispetto a quella del 1750. Verso il 1900,
invece, non potevano esserci più dubbi in proposito, e poco
importa da quale paese si osservasse la cosa. I paesi toccati
dall'industrializzazione rappresentavano il 30% della popolazione
mondiale e la produzione industriale pro capite mondiale era
aumentata del 150% rispetto a quella del 1750. Le regioni non
toccate direttamente dall'industrializzazione stavano per diventare
il mondo sottosviluppato, anche a causa delle conseguenze di questa
industrializzazione. Ma conviene tornare al 1820 ed esaminare come
si è svolta questa fase di maturazione
dell'industrializzazione.
Le innovazioni destinate a svolgere un ruolo essenziale nella prima
metà del XIX secolo sono quelle legate alla rivoluzione dei
trasporti e realizzate grazie all'assommarsi di due progressi
tecnici precedenti. Il perfezionamento della macchina a vapore e la
diminuzione considerevole del prezzo del ferro aprono la strada alle
ferrovie, a partire dal 1820, e alla navigazione a vapore dopo il
1840. Nel 1860 il mondo contava già 108.000 km di ferrovie in
esercizio in 35 paesi (12 dei quali nel Terzo Mondo), e il
tonnellaggio delle navi a vapore era pari alla metà di quello
delle navi a vela. L'installazione delle linee telegrafiche è
legata a quella delle ferrovie, e si può affermare che verso
il 1870 la rete internazionale era già largamente in
funzione.Queste trasformazioni nell'ambito dei mezzi di trasporto e
di comunicazione svolsero un ruolo ben preciso nell'abbreviare gli
scarti di tempo nella trasmissione delle innovazioni tecnologiche,
accelerando così la diffusione internazionale
dell'industrializzazione. Fino allora, nei paesi che per primi
avevano seguito le tracce dell'Inghilterra, l'intervallo di tempo
necessario per la diffusione delle principali innovazioni tecniche
era stato dell'ordine di mezzo secolo: circa quarant'anni per la
filatura e sessanta per la siderurgia. Per esempio, mentre verso il
1790 la filatura del cotone in Inghilterra era stata meccanizzata
quasi al 100%, in Francia, per raggiungere una situazione analoga,
fu necessario arrivare agli anni venti-trenta del secolo successivo
(e la Francia in questo campo non era in ritardo rispetto agli altri
paesi in via di industrializzazione). La percentuale dell'80% di
ghisa prodotta utilizzando il carbon coke, raggiunta in Inghilterra
fin dal 1790, in Belgio viene raggiunta verso il 1840, in Prussia
verso il 1860 e in Francia verso il 1865. Per quanto concerne
l'introduzione del vapore nel settore dei trasporti, gli scarti di
tempo tra l'Inghilterra e l'Europa continentale sono già
molto più brevi: dai 10 ai 15 anni.
L'accorciamento notevole di queste distanze temporali è
legato non solo alla generale accelerazione dei trasferimenti di
informazione che caratterizza il XIX secolo, ma anche ai tecnici,
alle attrezzature e ai capitali inglesi che partecipano più
ampiamente che in passato all'introduzione delle innovazioni
tecniche sul continente europeo. Questa partecipazione più
ampia è stata favorita da due misure legislative britanniche:
la prima, del 1825, aboliva il divieto di emigrare per gli artigiani
(che era stato sancito fin dal 1717); la seconda, del 1843, aboliva
invece il divieto di esportazione delle attrezzature.Negli anni
1860-1880 si collocano gli inizi di nuovi 'grappoli' di innovazioni
importanti per lo sviluppo dell'industrializzazione: si tratta in
particolare (ma non solo) di procedimenti più economici nella
produzione dell'acciaio e di numerose scoperte nell'industria
chimica. Con queste innovazioni non solo gli scarti temporali nella
diffusione diventano estremamente brevi, ma, soprattutto, viene meno
la supremazia inglese. Questa situazione nuova determina, a partire
dal decennio 1860-1870, la fine del predominio assoluto della Gran
Bretagna nella produzione industriale. Fino a questa data,
nonostante i rapidi progressi realizzati dagli altri paesi, la Gran
Bretagna aveva conservato (o addirittura aumentato) la sua quota
relativa nella produzione industriale mondiale a causa della sua
posizione di largo anticipo sia sul piano qualitativo che
quantitativo.
a) Lo squilibrio spaziale
La tab. II consente di evidenziare un altro
fenomeno importante: quello relativo alla specializzazione
internazionale del lavoro. Quello che si accinge a diventare il
mondo sviluppato, nel 1860 concentra in sé il 63% della
capacità industriale (manifatturiera) mondiale, contro una
percentuale di circa il 27% un secolo prima. Questa concentrazione
è il risultato di due evoluzioni: la prima è quella
che abbiamo appena esaminato, cioè l'espansione
dell'industrializzazione nella maggior parte dei paesi europei e a
popolamento europeo, dove, tra il 1750 e il 1860, il volume della
produzione dell'industria manifatturiera si è moltiplicato
per 13; la seconda evoluzione, anch'essa gravida di conseguenze,
è costituita dal processo di deindustrializzazione che, a
partire dagli anni 1810-1820, ha interessato la maggior parte del
mondo non europeo. Questo processo di deindustrializzazione di
regioni che sono quindi in via di sottosviluppo verrà
esaminato più avanti. Per quanto concerne invece lo
squilibrio spaziale dell'industrializzazione, questo fenomeno
raggiunge il suo punto massimo verso il 1913: a quest'epoca il Terzo
Mondo, che raccoglie circa il 63% della popolazione mondiale,
dispone solo del 5% del potenziale industriale mondiale, quindi il
potenziale pro capite dei paesi sviluppati è circa 40 volte
superiore a quello dei paesi del Terzo Mondo.
Un altro aspetto della specializzazione internazionale del lavoro
concerne le diverse regioni del mondo sviluppato. Questa
specializzazione ha due risvolti: il primo, più importante,
concerne i rapporti tra l'Europa industrializzata e i paesi a
popolamento europeo e consiste essenzialmente in massicce
importazioni agricole da parte dell'Europa; l'altro concerne gli
inizi di una specializzazione nell'ambito dei paesi industriali, che
non è però ancora molto rilevante. Esaminiamo
brevemente questi sviluppi.Per l'effetto combinato della diminuzione
dei costi di trasporto, del perfezionamento delle macchine agricole
e della liberalizzazione della politica doganale, nei paesi
industrializzati d'Europa si assiste, alla fine degli anni sessanta
dell'Ottocento, a una crescita estremamente rapida delle
importazioni di prodotti alimentari, e in particolare di cereali,
provenienti dai paesi a popolamento europeo. Mentre verso il
1865-1867 questi paesi esportavano annualmente solo circa 1,3
milioni di tonnellate di cereali, le esportazioni raggiungono gli
8,2 milioni verso il 1879-1881 e i 15,9 milioni tra il 1898 e il
1900. Quest'ultima cifra rappresenta circa il 25% della produzione
dei paesi europei importatori di cereali (cioè tutta
l'Europa, con l'esclusione della Russia, dell'Austria-Ungheria e
degli Stati balcanici).
Questo tasso d'importazione dei cereali superava addirittura il 60%
nei paesi più industrializzati, quali la Gran Bretagna, il
Belgio e la Svizzera.La specializzazione delle produzioni
industriali nei paesi sviluppati è piuttosto limitata e si
manifesta realmente soltanto dopo gli anni 1870-1890; inoltre, nei
primi tempi, sarà soprattutto un fenomeno caratteristico dei
piccoli paesi e delle esportazioni destinate a paesi non- o
semi-industrializzati: una delle caratteristiche delle due prime
fasi dell'industrializzazione è l'autosufficienza
pressoché completa dei paesi più sviluppati per quanto
concerne i manufatti.
b) La deindustrializzazione del Terzo Mondo
Già nell'ambito di quello che viene definito 'patto
coloniale', vale a dire quel complesso di norme che regolavano i
rapporti tra colonie e metropoli prima del XIX secolo, la produzione
industriale era proibita o appena tollerata nelle colonie. Le
politiche commerciali coloniali, nella maggior parte dei casi, hanno
ignorato questo divieto. E a ragione: infatti non era più
necessario. I progressi realizzati dalla tecnologia occidentale
erano così rilevanti che era sufficiente lasciar entrare
senza restrizioni i prodotti europei perché l'industria
locale crollasse di fronte alle importazioni.
Ricordiamo, per esempio, che un operaio filatore inglese del 1830
poteva produrre, in media, grazie alle macchine che aveva a
disposizione, dieci volte più filo di un artigiano indiano e,
per quanto concerne i filati fini, addirittura 200-300 volte di
più. Quando, nel 1813, la East India Company perse il
monopolio del commercio (fatto questo che aprì praticamente
il mercato indiano ai prodotti tessili britannici), l'India,
tradizionale esportatrice di questi prodotti, vide le importazioni
crescere a un ritmo vertiginoso: 0,8 milioni di iarde nel 1814, 13
milioni nel 1819-1821, 995 milioni nel 1869-1871, 2.050 milioni nel
1890.In queste condizioni ci si può stupire della rapida
scomparsa dell'industria tessile indiana? I dubbi in questo campo si
collocano al livello delle dispute tra specialisti: verso il 1870
questa industria era scomparsa al 100% o sopravvivevano ancora degli
artigiani filatori in alcune regioni isolate? e in caso affermativo,
come è probabile, questi artigiani producevano il 5 o il 10%
del fabbisogno nazionale? L'incertezza è ancora minore per
l'altro settore importante, quello della siderurgia: verso il 1890
sopravviveva una capacità produttiva in grado di fornire l'1
o il 5% del consumo locale?
L'evoluzione è assai simile nelle altre regioni asiatiche,
con l'eccezione della Cina, dove l'industria locale ha potuto
resistere meglio, in quanto la valanga si è messa in moto
più tardi, perché il paese conservava una certa
autonomia ed era anche difeso dalle sue stesse dimensioni. Ma
resistere meglio non significa affatto assenza di un arretramento
del settore industriale, assenza di un processo di
deindustrializzazione. Nel caso cinese la discussione tra gli
specialisti verte, per così dire, intorno al 60%: per
esempio, verso il 1890 l'industria tessile locale copriva il 50 o il
70% del fabbisogno nazionale? Il processo di deindustrializzazione
è altrettanto marcato in America Latina dove, agli inizi del
XIX secolo, l'indipendenza aveva permesso lo sviluppo dei settori
manifatturieri in numerosi paesi: sviluppo tuttavia effimero,
destinato a soccombere sotto l'invasione dei prodotti britannici,
consentita dall'indipendenza appena strappata a metropoli
tecnicamente poco avanzate.
c) I costi umani delle due prime fasi dell'industrializzazione
Conviene anzitutto sottolineare che il processo di
industrializzazione è stato accompagnato da un forte aumento
del numero assoluto e relativo dei salariati, degli operai. Nelle
società tradizionali i salariati erano relativamente poco
numerosi; in questo campo è difficile fornire cifre precise,
in quanto i dati sono fortemente aleatori e le differenze tra i
diversi paesi, e tra le diverse regioni, assai rilevanti. Nelle
società tradizionali è difficile addirittura mettere a
fuoco il concetto di salariato, ma si può valutare che in
media, nelle società tradizionali europee, i salariati non
costituissero mai una percentuale superiore al 20-25% della
popolazione attiva, e spesso anzi assai inferiore. Verso la
metà del XIX secolo, invece, i salariati erano già
più del 60% della popolazione attiva in paesi quali
l'Inghilterra e il Belgio.
Qual era la condizione di questa massa di operai? E soprattutto qual
era la loro condizione paragonata a quella dei gruppi sociali dai
quali essi provenivano, cioè i contadini? Dal punto di vista
della libertà individuale, la condizione operaia non
rappresentava, in generale, un sensibile arretramento, in quanto
gran parte dei contadini non era indipendente: in alcune regioni
europee, infatti, la condizione servile è scomparsa soltanto
durante il XIX secolo. Quanto al lavoro quotidiano, invece,
l'alienazione nel senso marxista del termine era nella maggior parte
dei casi molto forte: perfino i servi disponevano, in questo campo,
di una 'libertà', di un margine d'iniziativa molto maggiore.
Secondo studi recenti, nelle prime fasi dell'industrializzazione il
livello dei salari reali si è mantenuto piuttosto basso; in
molte regioni addirittura al di sotto delle punte raggiunte durante
alcuni periodi favorevoli dei secoli precedenti. La durata del
lavoro era sicuramente più lunga per gli operai delle prime
fasi dell'industrializzazione che per i contadini delle
società tradizionali. Con 15-16 ore al giorno per 6 giorni
alla settimana, l'operaio lavorava effettivamente (sottratti il
riposo e le pause) 3.500 ore all'anno di media, nell'ipotesi che non
vi fossero periodi di disoccupazione; i contadini, a causa dei
periodi vuoti, probabilmente non lavoravano più di
1.800-2.000 ore (effettive) all'anno. Quando, verso la metà
del XIX secolo, il numero delle ore fu ridotto, per gli operai, a 12
al giorno (cioè circa 3.000 ore effettive all'anno), ne
derivò generalmente l'obbligo del lavoro notturno, che fu
richiesto in molti casi. Oggi nelle società sviluppate la
durata annuale del lavoro nel settore industriale oscilla tra 1.900
e 2.000 ore.
d) Il martirio dei bambini
La riduzione delle ore di lavoro appena ricordata è stata
inizialmente determinata dalla presenza massiccia di bambini tra gli
operai. Questo lavoro infantile, per le condizioni che lo hanno
caratterizzato, ha rappresentato uno degli scandali del primo secolo
dell'industrializzazione. Quei fanciulli ai quali la nuova medicina
aveva permesso di evitare una morte precoce, ma che la miseria dei
genitori non consentiva di tenere in casa e ancor meno di mandare a
scuola (non obbligatoria), trovavano lavoro nelle fabbriche che
nascevano un po' dovunque. Questo lavoro era anche favorito dalla
natura stessa della tecnologia dell'epoca e, in particolare, da
quella del settore tessile. Si trattava soprattutto della mancanza
di automatismo della maggior parte delle macchine, cui
l'utilizzazione dei bambini permetteva di ovviare a poco prezzo.
È opportuno sottolineare che, anche se è vero che
nelle società tradizionali i bambini hanno sempre partecipato
all'attività economica, la prima fase della rivoluzione
industriale si caratterizza per un abbassamento dell'età
d'inizio del lavoro: nell'industria cotoniera, per esempio, venivano
utilizzati comunemente bambini con meno di 8 anni se non addirittura
di 6, mentre nelle società tradizionali l'età d'inizio
dell'apprendistato, nel settore tessile, era di 12-14 anni. Si
cominciava quindi a lavorare da giovanissimi e si era obbligati a
farlo, nella maggior parte dei casi, al di fuori dell'ambiente
familiare. Siccome i ragazzi aiutavano gli adulti, ciò
significava orari identici: e questo per un salario irrisorio,
generalmente un quinto o un settimo di quello di un operaio non
qualificato. Un tale salario giornaliero permetteva di comprare meno
di 1 kg di pane e, in molti casi, era inferiore al costo minimo del
sostentamento di un ragazzo. In questo contesto la decisione di un
padre di far lavorare il proprio figlio può sembrare
irrazionale e immorale, ma in realtà non lo era, in quanto,
in mancanza del salario dei figli, il reddito familiare sarebbe
stato insufficiente a permetterne la sopravvivenza.Questo
sfruttamento, questo martirio dei bambini non è stato
circoscritto a un periodo limitato: di fatto, è solo verso la
fine del XIX secolo, quando l'evoluzione tecnologica da un lato
ridusse l'utilità del lavoro infantile e, dall'altro, rese
indispensabile la loro formazione generale, che cessò questo
scandalo e si ebbe la diffusione dell'insegnamento primario
obbligatorio.
e) Un universo di lavoro concentrazionario
L'evoluzione tecnologica, da un lato, e la diminuzione dei costi di
trasporto, dall'altro, sono i principali fattori che hanno favorito
una trasformazione radicale dell'impresa dove venivano prodotti beni
industriali. Come già abbiamo avuto modo di rilevare
nell'introduzione, con l'industrializzazione la bottega artigiana si
trasforma in officina, e - un decennio dopo l'altro - le officine
diventano più grandi. Così, per esempio, nella
siderurgia belga le dimensioni medie delle imprese produttrici di
ghisa passano da 10 persone verso il 1760 a 54 verso il 1860, e a
202 verso il 1900. A quest'epoca il grosso della forza lavoro era
concentrato in due imprese, ciascuna delle quali contava oltre 1.000
operai. Fabbriche con diverse migliaia di operai erano frequenti, il
che comportava non solo condizioni di lavoro simili a un universo
concentrazionario, ma anche tempi più lunghi per gli
spostamenti casa-lavoro.
Per completare il quadro dei costi umani delle prime fasi
dell'industrializzazione bisognerebbe trattenersi ancora a lungo
sulle condizioni di lavoro, sui soprusi, sull'importanza della
disoccupazione e sulla miseria che essa comportava. In breve, il
termine 'martirio' non è certo eccessivo. I costi sociali
della rivoluzione industriale sono stati assai elevati, e questo
è il lato estremamente negativo della medaglia. Dalla
schiavitù dei bambini e anche, non lo dimentichiamo, delle
donne (il cui salario era solo un terzo di quello maschile) al
martirio della classe operaia in generale, dai periodi oscuri di
disoccupazione alle multe vessatorie e salate, dagli scioperi
disperati alle serrate senza pietà, dalle officine
concentrazionarie alle cave di Lilla, ai tuguri di Londra, abbiamo
una processione senza fine di miserie. Le migliaia di tonnellate di
ghisa, i miliardi di metri di cotonina rappresentavano una massa
infinita di sofferenze.
Questa miseria ha dato vita a un movimento di difesa del mondo
operaio: in un primo momento - e dunque durante la prima fase
dell'industrializzazione - questa difesa ha assunto caratteri spesso
anarchici e addirittura violenti (si tratta di quello che viene
chiamato il 'luddismo', dal nome di un personaggio quasi mitico, Ned
Ludd, il quale, alla testa di una banda di operai inglesi, avrebbe
distrutto le macchine, considerate la causa delle miserie della
classe operaia). Solo nella seconda metà del XIX secolo
fecero la loro comparsa i sindacati, che però cominciarono a
organizzarsi piuttosto tardi, dopo il 1850-1860; fino ad allora le
leggi sociali erano state l'espressione della presa di coscienza, da
parte della frazione liberale delle classi dominanti, delle
deplorevoli condizioni di vita degli operai e, in particolare, dei
loro figli.
4. La terza fase: la società industriale
(dal 1880-1900 al 1960-1970)
Le precedenti fasi dell'industrializzazione avevano soprattutto dato
luogo a un'espansione geografica di questo processo e a un
accrescimento quantitativo della produzione (e del consumo) di beni
manufatti tradizionali. In tale periodo i prodotti nuovi
consistevano essenzialmente in attrezzature. Nella fase che stiamo
per esaminare, invece, ci troveremo di fronte prima alla nascita e
poi all'esplosione del consumo di manufatti assolutamente nuovi.
a) I nuovi beni di consumo
La produzione (e il consumo) a livelli significativi delle
automobili comincia fra il 1903 e il 1905: verso il 1900 la
produzione mondiale di automobili era dell'ordine di 7.000
unità all'anno, dopo il 1905 di 60.000 unità, per
raggiungere quasi le 600.000 nel 1913. Nel 1914, alla vigilia della
prima guerra mondiale, erano in circolazione nel mondo circa due
milioni e mezzo di automobili (camion compresi) contro meno di
15.000 nel 1900; nel 1970, nei soli paesi occidentali sviluppati,
erano ben 220 milioni.A partire dagli anni venti il motore elettrico
s'introduce assai largamente nella vita quotidiana; lavatrici e
aspirapolvere cominciano da questo decennio a diventare oggetti di
consumo corrente, soprattutto negli Stati Uniti. In questo paese la
produzione annuale di lavatrici raggiunge le 370.000 unità
nel 1929 (1.505.000 nel 1939, nonostante la depressione), mentre
quella degli aspirapolvere raggiunge, nel 1940, 1.340.000
unità. Nello stesso anno (sempre negli Stati Uniti) si
producevano 1,8 milioni di ventilatori, 26 milioni di ferri da stiro
e 2,3 milioni di tostapane. I frigoriferi, la cui prima
utilizzazione sul piano industriale risale al 1880, cominciano a
essere prodotti per uso domestico a partire dagli anni venti. Nel
1923 gli Stati Uniti producevano circa 5.000 frigoriferi all'anno
per uso domestico, 890.000 nel 1929 e 2.820.000 nel 1937. Alla
vigilia della seconda guerra mondiale c'erano circa 18 milioni di
frigoriferi in funzione nei 35 milioni di famiglie americane. In
Europa questa fase si apre più tardi: comincia infatti
nell'immediato dopoguerra.
b) L'industrializzazione dei beni culturali
La scienza, la tecnologia e i mezzi di produzione creati dalle fasi
precedenti consentono all'industria di allargare notevolmente il suo
intervento nel campo della cultura e del tempo libero. In
realtà si tratta del suo secondo intervento in questo campo,
in quanto il primo è quello legato alla stampa (in Europa nel
XV secolo, in Asia probabilmente qualche secolo prima). Già
durante il XIX secolo l'industrializzazione, diminuendo il prezzo di
costo delle pubblicazioni a stampa, aveva consentito un'espansione
nella produzione di questo bene culturale. Con la terza fase siamo
in presenza, come per i beni di consumo, di prodotti completamente
nuovi, quale il fonografo (e i dischi), la cui diffusione diventa
significativa a partire dal 1890. Nel 1899 negli Stati Uniti si
producono 151.000 fonografi all'anno; questo numero passa a 514.000
nel 1914 e a 2.230.000 nel 1920. Il cinema conosce il suo grande
sviluppo a partire dal 1904-1906: qualche anno prima non c'erano
probabilmente più di alcune centinaia di sale
cinematografiche sparse nel mondo, nel 1909 ve ne erano già
più di 12.000 e nel 1920 circa 47.000. La radio arriva dopo
il 1920, data in cui viene installata la prima stazione pubblica di
radiodiffusione. Nel 1925 ve ne erano già 90 e circa 300 alla
fine del 1935, il che provocò un vero e proprio boom nell'uso
(e nella produzione) degli apparecchi radio. Nel 1921 c'erano meno
di 20.000 apparecchi radio nelle famiglie di tutto il mondo; ma nel
1925 erano circa 6 milioni, nel 1929 26 milioni e nel 1938 95
milioni (dei quali 92 nel mondo sviluppato, ovverosia, in media, 50
apparecchi per 100 famiglie). Anche la macchina fotografica divenne
agli inizi del secolo un prodotto di largo consumo. Ci si può
forse interrogare sul buon uso di questi mezzi audiovisivi, ma
è comunque vero che l'industria ha messo alla portata dei
consumatori delle società sviluppate (anche dei più
modesti) enormi possibilità nel campo della cultura.I
progressi tecnici non determinano soltanto un cambiamento nella
gamma dei prodotti ma anche forme nuove di produzione. I due aspetti
più importanti di questa trasformazione riguardano le nuove
forme di organizzazione del lavoro degli operai e la nascita delle
imprese multinazionali.
c) L'adattamento degli operai alle macchine
Il capolavoro di Chaplin, Tempi moderni, evidenzia in modo ottimale
l'orientamento assunto dall'organizzazione del lavoro all'inizio del
secolo: l'evoluzione tecnologica aveva determinato lo sviluppo di un
macchinismo nel quale la componente umana era ignorata. D'altra
parte, la produzione dei nuovi beni di consumo era molto più
complessa di quella dei prodotti tradizionali e la soluzione
più semplice per l'epoca consisteva nell'adattare l'uomo alla
macchina e non viceversa. Da questi sforzi nacquero soprattutto la
lavorazione a catena, il taylorismo e altre forme di organizzazione
del lavoro che hanno sostituito allo sforzo fisico lo stress
psicologico. A tutt'oggi la lavorazione a catena resta la risposta
prevalente alle costrizioni imposte dalla produzione di massa di
manufatti complessi: essa ha consentito notevoli incrementi di
produttività, tradotti in diminuzioni dei prezzi che spiegano
la rapida diffusione dei nuovi beni di consumo. Dalla parte
dell'operaio tutto questo si è risolto incontestabilmente in
condizioni di lavoro assai dure, che sono state compensate solo
parzialmente da una leggera riduzione degli orari. Per gli operai
americani, per esempio, il numero settimanale delle ore di lavoro
passa da 51 nel 1909 a 45,3 nel 1919-1922 e a 44,5 nel 1927-1929.
d) Operai meglio pagati e più protetti
Poiché il lavoro dei ragazzi aveva costituito uno degli
scandali delle prime due fasi dell'industrializzazione, rileviamo
anzitutto che questa terza fase si caratterizza fin dal suo inizio
per la semiscomparsa di questo tipo di lavoro nell'industria dei
paesi sviluppati, scomparsa dovuta anche al fatto che negli anni
ottanta del secolo scorso comincia a generalizzarsi l'insegnamento
obbligatorio. Inoltre, conquistate dai sindacati o concesse dalla
'lungimiranza' delle classi superiori, a partire dagli stessi anni
vengono effettivamente adottate molte misure volte a migliorare le
condizioni di vita degli operai. La crisi degli anni trenta e il
periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale
accelerano ancora la portata di queste misure sociali che, sia
durante la vita attiva che dopo, tendono ad attenuare gli elementi
negativi della condizione operaia. In molti paesi il giorno di
riposo settimanale si è trasformato in weekend, raddoppiando
quindi la sua durata che diventa pari a quasi un terzo della
settimana.Infine, senza pretese di esaustività, si può
calcolare che tra il 1890 e il 1970 il salario reale degli operai
dei paesi sviluppati occidentali è più che
raddoppiato, anche se (naturalmente) con notevoli differenze tra i
diversi paesi e periodi. Nel periodo 1890-1913, per esempio, le
differenze sono enormi: si va da una crescita annuale del salario
reale dell'1,8% (in particolare per la Svezia) allo 0,6% per il
Regno Unito.
e) Lo sviluppo delle imprese multinazionali
Una storia generale delle imprese multinazionali deve ancora
essere scritta, ma gli elementi di cui disponiamo consentono di
tracciarne le grandi linee. Il sistema è entrato in funzione
tra il 1880 e il 1929: tutte le grandi imprese che sono oggi delle
multinazionali hanno cominciato questa trasformazione durante tale
periodo. Per quanto concerne le multinazionali europee, il sistema
risulta operante fin dal 1914; negli Stati Uniti durante gli anni
1920-1929 si è completato il processo di trasformazione in
questa direzione già largamente avviato prima del 1914. Il
solo caso anomalo è quello del Giappone, il quale, fino agli
anni settanta del nostro secolo, non ha avuto vere e proprie imprese
multinazionali. D'altra parte il Giappone si è sempre
rifiutato di accettare investimenti stranieri sul suo territorio, e
perfino la partecipazione di capitali stranieri; solo dopo la
metà degli anni sessanta alcune imprese giapponesi hanno
cominciato a creare unità produttive all'estero (anche se
all'inizio con una certa timidezza) e sono state parzialmente
abolite le restrizioni alla penetrazione del capitale straniero in
Giappone. Torneremo su questo caso nel prossimo capitolo.
In Europa il processo di trasformazione verso la struttura
multinazionale ha interessato inizialmente i piccoli paesi, dove ha
fatto il suo debutto verso il 1880 precedendo di 10-20 anni gli
altri paesi. In generale, questo processo è nato
principalmente dal nuovo contesto tecnologico e dall'evoluzione
delle politiche commerciali: la crescente complessità dei
processi produttivi dà alle imprese già esistenti
sostanziali vantaggi rispetto alle nuove venute, quando si debbano
installare altre imprese; e d'altra parte questa trasformazione in
senso multinazionale avviene soprattutto nei settori nuovi, quelli
che appartengono alla fine della seconda fase
dell'industrializzazione, e in particolare nel settore chimico.
Inoltre, a partire dagli anni intorno al 1879, il ritorno al
protezionismo nella maggior parte dei paesi che avevano tentato un
esperimento liberista favorisce il trasferimento delle unità
produttive, che tendono in parte a insediarsi nei paesi dove lo
smercio dei loro prodotti è reso difficile dalla presenza di
barriere doganali. Osserviamo a questo proposito che dopo il 1892 il
protezionismo si rafforza in tutti i paesi sviluppati, con
l'eccezione del Regno Unito e dei Paesi Bassi.
Avremo occasione di tornare più avanti sull'importanza
attuale dell'attività delle industrie multinazionali, che
fino alla seconda guerra mondiale resta relativamente poco
importante. Non vi sono analisi valide sull'estensione di questa
attività, ma a partire dai dati disponibili sullo stock di
capitali e da altri parametri abbiamo potuto calcolare che, per
quanto concerne il mondo nel suo complesso, la produzione delle
imprese di proprietà delle multinazionali doveva
rappresentare verso il 1913 circa il 3-6% della produzione
industriale complessiva. Questa percentuale non si modifica
sensibilmente nel periodo 1920-1939; l'uscita della Russia dal
sistema economico liberale, insieme alla depressione degli anni
trenta, è una delle spiegazioni di questa stagnazione.
L'uscita della Russia è importante non tanto per le
conseguenze dirette sugli altri paesi industrializzati, quanto per
le sue ripercussioni sulle strategie di industrializzazione dei
paesi del Terzo Mondo negli anni cinquanta e sessanta. Di
conseguenza è opportuno ricordare alcuni fatti importanti.
Parlare oggi di un successo dell'industrializzazione dell'Unione
Sovietica può sembrare anacronistico; conviene tuttavia fare
due osservazioni. La prima concerne la sfasatura tra la
realtà e l'immagine esterna di questa industrializzazione.
Molti economisti (non soltanto quanti erano comunisti o
simpatizzanti) hanno sopravvalutato il successo del programma di
industrializzazione e ancor di più sottovalutato i suoi
costi. E tuttavia sono state fatte delle scelte proprio sulla base
di questa visione ottimistica. La seconda osservazione è che
oggi, al contrario, si tende a sottovalutare la riuscita tecnica del
processo di industrializzazione dell'URSS nel periodo 1928-1960. La
pianificazione centralizzata - quali che siano i suoi fallimenti
successivi - ha indubbiamente permesso all'Unione Sovietica di
dotarsi molto rapidamente di un'industria di base assai rilevante e
di colmare parzialmente il suo enorme ritardo, dovuto soprattutto a
una partenza assai tardiva. Sulla base delle stime occidentali si
può calcolare che, nonostante le enormi distruzioni dovute
alla seconda guerra mondiale e al fatto che la Russia non ha potuto
beneficiare del Piano Marshall, il potenziale industriale pro capite
dell'URSS - che nel 1928 era il 19-23% di quello dei paesi
occidentali sviluppati - è passato al 61-65% nel 1963 (ma
probabilmente al 50-54% nel 1990).
5. La quarta fase: un Terzo Mondo in cerca di
industrializzazione, un mondo sviluppato sulla via della
deindustrializzazione
L'indipendenza politica del Terzo Mondo in Asia e in Africa è
stata accompagnata da un tentativo largamente riuscito di avviare un
processo di industrializzazione. Sulla scia dell'URSS degli anni
trenta e cinquanta, e in parte sotto la sua influenza ideologica, la
maggior parte dei paesi del Terzo Mondo ha giustamente ritenuto che
una reale indipendenza dovesse essere accompagnata da un appropriato
livello di industrializzazione. L'aspirazione generalizzata a una
rapida industrializzazione ha portato però a numerosi
eccessi: uno dei più gravi è stato l'aver dimenticato
il ruolo fondamentale svolto dalla domanda interna, vale a dire, in
questo caso, dal settore agricolo. In seguito a questo errore
l'agricoltura è stata a lungo trascurata e la dipendenza
alimentare e i pericoli di carestie sono divenuti ostacoli a una
vera indipendenza altrettanto gravi quanto la mancanza di industrie.
a) Alcuni precedenti dell'industrializzazione del Terzo Mondo
Se l'industrializzazione del Terzo Mondo ha conosciuto
indubbiamente un'accelerazione dopo gli anni cinquanta, non si
possono tuttavia dimenticare alcuni precedenti. In effetti si
possono elencare una decina di tentativi di industrializzazione nei
paesi del Terzo Mondo durante il XIX secolo. La maggior parte di
questi tentativi è fallita più o meno rapidamente, ma
gli altri hanno comunque creato una base industriale sulla quale ha
potuto poggiare l'industrializzazione successiva. Tra i fallimenti
possiamo citare in primo luogo l'esperienza tentata da
Moḥàmmed 'Alī in Egitto, tra il 1805 e il 1838, che
rappresenta il primo tentativo di industrializzazione moderno e di
un certo respiro condotto da parte di un futuro paese del Terzo
Mondo. Benché questa esperienza non abbia lasciato traccia
dopo il 1850, essa era stata tuttavia un parziale successo durante
gli anni venti. Senza pretese di completezza, possiamo aggiungere
all'Egitto la Persia dei primi due decenni del secolo scorso, il
Paraguay della metà dello stesso secolo e la Bolivia degli
anni immediatamente successivi.
Alla vigilia della prima guerra mondiale solamente quattro paesi del
Terzo Mondo possedevano una base industriale: Cina, India, Brasile e
Messico. In ciascuno di essi non vi era soltanto un'industria
tessile moderna, ma anche un settore siderurgico. Queste industrie,
anche se dotate di un livello tecnico vicino a quello dei paesi
sviluppati del tempo, avevano tuttavia un'importanza limitata: il
numero totale dei fusi per filare il cotone di questi paesi era
circa 880.000 (cioè meno del 7% del totale mondiale), mentre
la loro popolazione costituiva il 40% di quella del pianeta.
Globalmente, considerando anche le attività artigianali, il
Terzo Mondo rappresentava solo il 7-8% dell'industria mondiale, e
alla vigilia della seconda guerra mondiale questa percentuale era
all'incirca la stessa.
b) L'industrializzazione del Terzo Mondo: rapidità e
debolezze
Anche se dopo il 1975 si è dovuto registrare un certo
rallentamento, tuttavia l'espansione della produzione industriale
del Terzo Mondo tra il 1946 e il 1990 è stata notevole:
infatti nel corso di questi 45 anni il suo volume si è
moltiplicato all'incirca per 15. Questa espansione è dipesa
essenzialmente dalla sostituzione della produzione locale alle
importazioni, un processo inverso rispetto a quello del XIX secolo.
Questo quadro estremamente positivo deve tuttavia essere corretto da
un insieme di elementi negativi. Conviene anzitutto sottolineare
che, dato il basso livello di partenza, il livello di
industrializzazione pro capite del Terzo Mondo intorno al 1990
è di poco maggiore di quello dei paesi sviluppati verso il
1860 (v. tab. II); inoltre una parte essenziale di
questa industrializzazione si è realizzata nei settori
tradizionali (quale quello tessile), ha interessato assai poco i
settori d'avanguardia e ha avuto sprechi notevoli. Infine i settori
d'avanguardia sono stati in gran parte impiantati dalle
multinazionali e, soprattutto, un'importante quota dell'industria
è concentrata in un numero limitato di piccoli paesi, in
particolare i quattro 'draghi' (Corea, Singapore, Hong Kong e
Taiwan).
All'inizio degli anni settanta, prima che la rapidissima espansione
industriale dei quattro paesi sopra citati li conducesse a occupare
un posto di rilievo, sei paesi (i quattro più il Brasile e il
Messico) concentravano già una percentuale notevole del
potenziale industriale del Terzo Mondo a economia di mercato.
Così, nel 1970, mentre la loro popolazione costituiva
soltanto l'11% di quella del Terzo Mondo, la loro percentuale
rispetto al potenziale industriale dell'area era del 27%. Nei
decenni settanta e ottanta l'incremento della produzione industriale
dei quattro paesi è stato estremamente rapido, con un ritmo
del 12% all'anno. Si può calcolare che nel 1990, in questi
quattro piccoli paesi - la cui popolazione costituiva solo il 3% di
quella del Terzo Mondo a economia di mercato - si concentrava il 21%
della produzione industriale di questo settore. Si tratta quindi di
casi che meritano un esame approfondito.
c) I quattro 'draghi': modello o eccezione?
Storicamente il primo 'drago' è stato Hong Kong, la cui
produzione industriale - destinata prevalentemente ai paesi
occidentali sviluppati - ha ricevuto impulso dall'afflusso di
rifugiati provenienti dalla Cina dopo la presa del potere da parte
dei comunisti; questa semicolonia britannica, che nel 1960 contava
solo 3 milioni di abitanti, ha conosciuto a partire da quell'anno
una rapidissima espansione della sua produzione e delle sue
esportazioni di manufatti. Taiwan cominciò la sua espansione
industriale due o tre anni dopo, ma all'inizio il livello si
mantenne più modesto; a partire dal 1968-1969 ha cominciato
la Corea e circa due o tre anni dopo Singapore.Nell'arco di due
decenni questi quattro paesi sono diventati importanti esportatori
di manufatti; lasciando da parte le riesportazioni da Hong Kong
(provenienti soprattutto dalla Cina), queste esportazioni sono
passate, tra il 1960 e il 1973, da 0,7 a 13 miliardi di dollari, e
cioè dal 23 al 53% delle esportazioni di manufatti del Terzo
Mondo a economia di mercato. Nel 1979 esse arrivavano a 44 miliardi
di dollari e nel 1989 a 178 (cioè al 63% delle esportazioni
di manufatti del Terzo Mondo). Ancora più notevole è
il fatto che, progressivamente, i prodotti ad alta tecnologia hanno
assunto un posto sempre più rilevante nell'ambito di queste
esportazioni destinate essenzialmente ai paesi sviluppati
occidentali, per i quali esse hanno rappresentato una percentuale
non trascurabile delle importazioni di manufatti.
Senza voler entrare in questa sede in un'analisi esplicativa
più approfondita, conviene rilevare che questi quattro paesi
già prima della loro industrializzazione possedevano un certo
numero di elementi specifici che li distinguevano dal resto
dell'Asia. Sia Taiwan che la Corea erano state colonizzate dal
Giappone che aveva portato avanti un'attiva politica di sviluppo
agricolo e industriale, e inoltre hanno ricevuto aiuti importanti
soprattutto dagli Stati Uniti. Per Hong Kong invece si è
trattato dell'effetto combinato di due fattori: l'essere stata per
più di un secolo una enclave britannica e l'afflusso di
rifugiati provenienti dalla Cina all'epoca del cambio di regime,
molti dei quali avevano un elevato livello di istruzione. Inoltre i
quattro 'draghi' beneficiavano inizialmente di un tasso di
alfabetizzazione relativamente elevato e hanno avuto un incremento
demografico nettamente inferiore a quello del resto
dell'Asia.Condizioni specifiche, quindi, ma anche possibilità
specifiche connesse, come abbiamo rilevato, alle dimensioni limitate
di questi paesi. È impossibile estendere a tutto il Terzo
Mondo questo modello di sviluppo industriale centrato essenzialmente
sulle esportazioni verso i paesi occidentali, in quanto non sarebbe
possibile per il mondo sviluppato assorbire quantità
così imponenti di manufatti. Se nel 1989 l'intero Terzo Mondo
a economia di mercato avesse esportato altrettanti manufatti pro
capite quanti sono quelli esportati in media dai quattro 'draghi',
ciò avrebbe comportato un totale più che doppio
rispetto al commercio mondiale di questi prodotti e tre volte
superiore alle importazioni globali di manufatti nei paesi
occidentali sviluppati.
d) La Cina: un modello diverso
Se i quattro draghi - talvolta definiti in Estremo Oriente, e
giustamente, 'piccoli draghi' - hanno realizzato la loro
industrializzazione grazie al commercio estero, lo schema è
assai diverso per il 'grande drago', che ha incentrato la sua
industrializzazione sul mercato interno: con una popolazione -
bisogna sottolinearlo - ben 15 volte superiore a quella dei quattro
piccoli draghi tutti insieme. Il carattere esemplare del caso Cina
può essere circoscritto in particolare al periodo della
pianificazione e dell'assenza di proprietà privata nel
settore che stiamo esaminando: diciamo, grosso modo, dal 1949 al
1977. Nonostante il basso livello di partenza, verso il 1977 la Cina
aveva un livello di industrializzazione di circa il 65-75% superiore
a quello del resto del Terzo Mondo, disponeva di un'industria
diversificata e soprattutto di un'industria di base assai diffusa.
Senza parlare dei costi umani, la via cinese non può
costituire un modello applicabile al resto del Terzo Mondo, non
foss'altro che per le dimensioni di questo paese (ricordiamo che un
abitante su cinque del mondo è cinese).
e) Dal declino delle regioni di antica industrializzazione
all'arretramento dell'industria manifatturiera
La nuova divisione internazionale del lavoro, che deriva dalla
parziale industrializzazione del Terzo Mondo, pone al mondo
industriale, e in particolare ad alcune sue regioni, grossi
problemi. Già dagli anni venti in Gran Bretagna, e dagli anni
cinquanta nell'Europa continentale e negli Stati Uniti, la riduzione
della produzione nel settore tessile ha determinato il declino di
numerose regioni specializzate in questo tipo di produzione, che non
hanno trovato settori nuovi capaci di sostituire i vecchi. In Gran
Bretagna le filande di cotone, che verso il 1910-1913 lavoravano
950.000 tonnellate di cotone grezzo all'anno, ne lavoravano appena
665.000 nel 1926-1929 e meno di 50.000 nel 1990 (passando
così dal 19% del totale mondiale, nel 1910-1913, a meno
dell'1% nel 1990). Per l'insieme dei paesi occidentali sviluppati si
è passati da oltre il 70% del totale mondiale, nel 1913, al
21% nel 1990.
A partire dalla seconda metà degli anni sessanta un processo
simile interessa anche la siderurgia e l'elettronica della prima
generazione; in questo caso, come d'altra parte per il fenomeno
precedente, questa redistribuzione industriale avviene anche
all'interno del mondo industrializzato, dalle regioni di antica
industrializzazione a vantaggio dei paesi di nuova
industrializzazione o semi-industrializzati, in particolare il
Giappone, la Spagna, il Brasile e la Corea del Sud. Così la
produzione annuale di acciaio di questi quattro paesi, tra il
1963-1965 e il 1976-1977, passa da 45 a 130 milioni di tonnellate,
mentre quella dei grandi produttori degli anni sessanta (Stati
Uniti, Germania, Francia, Regno Unito, Belgio) tende a ristagnare,
passando da 200 a 210 milioni di tonnellate. Allo stesso modo,
mentre la produzione di apparecchi radio degli Stati Uniti, del
Regno Unito e del Belgio - che nel 1967-1968 raggiungeva i 22,4
milioni di unità all'anno - è caduta a 16,2 milioni
nel 1976, quella di Hong Kong e della Corea passava, nello stesso
periodo, da 14,7 a 57 milioni.Queste redistribuzioni delle
produzioni industriali hanno avuto origine da tre cause: la prima
consiste nelle differenze salariali (connesse alle differenze tra i
diversi livelli di vita); la seconda è da ricercare nella
disponibilità o nella penuria di manodopera; la terza infine
è legata alla liberalizzazione delle politiche commerciali
dei paesi industrializzati.
Mentre all'inizio degli anni cinquanta i diritti doganali sui
manufatti erano nell'ordine del 20-25%, verso il 1970 scendono
invece all'8-11%; inoltre i prodotti del Terzo Mondo beneficiano in
misura sempre maggiore di diritti doganali preferenziali sui mercati
dei paesi sviluppati.Nonostante queste perdite di mercati,
l'importanza del settore manifatturiero rispetto all'occupazione
totale dei paesi sviluppati occidentali ha continuato ad aumentare
fino alla fine degli anni sessanta in termini relativi, e in termini
assoluti anche fino ai primi anni settanta (v. tab. III). Verso il 1910 gli occupati
nell'industria manifatturiera mondiale rappresentavano il 22-23%
della popolazione attiva e passavano al 24,7% nel 1950, per
raggiungere nel 1970 il 28% (che rappresenta il valore più
alto in questo campo). In termini di numero assoluto di persone che
lavorano nell'industria manifatturiera, il valore più elevato
è stato raggiunto nel 1974 con 81,4 milioni, contro 56,8
milioni nel 1950 e circa 39-40 milioni nel 1910. Da quel momento,
fino alla fine degli anni ottanta, si è assistito a un
marcato declino. Dopo il 1980 l'occupazione nel settore
manifatturiero scende al di sotto del 25% del totale per arrivare al
22,3 nel 1985 e al 20,8 nel 1990. La diminuzione è meno
accentuata in termini assoluti, in quanto gli occupati nel settore
passano da 81,4 milioni nel 1974 a 75,1 nel 1990.
Come accade in quasi tutti i fenomeni, l'evoluzione è ben
lungi dall'essere uniforme sul piano internazionale; le regioni
più interessate sono i paesi europei di antica
industrializzazione, Germania Occidentale, Belgio, Francia, Gran
Bretagna, Svezia e Svizzera, dove l'importanza relativa delle
industrie manifatturiere - che era passata dal 15% nel 1800 al 32%
nel 1910 e al 34% a metà degli anni sessanta - scende al di
sotto del 30% nel 1979 e del 25% nel 1988. Tra il 1965 e il 1990
questi paesi hanno perso 6,5 milioni di unità occupate,
cioè circa un quarto del totale. Se questa diminuzione
è stata indiscutibilmente più accentuata nei settori
tradizionali - tessile, abbigliamento e siderurgia - conviene
tuttavia sottolineare che praticamente nessun settore è
potuto sfuggire a questa tendenza. Per il resto dell'Europa
occidentale la perdita è stata assai contenuta; lo stesso
è avvenuto nel Nordamerica, dove in termini relativi la
contrazione è stata comunque registrata: l'industria
manifatturiera passa dal 27% del totale, verso il 1965, al 17,5 nel
1990 (v. tab. III).
La causa principale di queste diminuzioni è legata alle
crescenti importazioni di manufatti provenienti dal Giappone e anche
dai 'quattro draghi'. D'altra parte, tra il 1965 e il 1990,
l'occupazione nell'industria manifatturiera giapponese è
cresciuta di oltre tre milioni di unità (o di circa il 30%).
L'aumento avviene essenzialmente tra il 1965 e il 1973. La bilancia
commerciale giapponese relativa ai manufatti è passata da un
attivo di 6 miliardi di dollari nel 1965 a 23 miliardi nel 1973 e a
175 miliardi nel 1990. Anche nel caso giapponese, tuttavia,
l'importanza relativa dell'occupazione nell'industria manifatturiera
diminuisce leggermente, passando da un valore massimo di circa il
27,5% nel 1973 a meno del 25% nel 1990.
f) Un'esplosione industriale senza precedenti (nonostante
tutto), con un inquinamento anch'esso senza precedenti
Nonostante questi gravi problemi regionali e il crescente ruolo del
terziario, la produzione e, ancora di più, il consumo di
manufatti di tutti i paesi sviluppati hanno conosciuto, durante i
quattro decenni successivi alla seconda guerra mondiale,
un'espansione senza precedenti. Tra il 1948 (anno in cui l'industria
ha nuovamente raggiunto i massimi livelli degli anni trenta) e il
1990 il volume della produzione industriale manifatturiera del mondo
sviluppato è risultato moltiplicato per 7,5, cioè
quanto dal 1870 al 1948. (Questi ottant'anni però hanno visto
due guerre mondiali e la grave crisi del 1929-1930: un complesso di
fenomeni che ha determinato una perdita di sviluppo di circa 7-9
anni).
Poiché la produzione manifatturiera nel Terzo Mondo è
cresciuta più rapidamente che nei paesi sviluppati durante
gli ultimi quarant'anni, sul piano mondiale l'aumento totale della
produzione (e del consumo) di manufatti è stato ancora
più rapido: dal 1948 al 1990 essa si è moltiplicata
per 8,5, e alcuni beni in particolare hanno visto la loro produzione
aumentare secondo ritmi ancora più sostenuti. Durante questi
anni la produzione mondiale di automobili si è moltiplicata
per 7, quella dell'elettricità per 13, quella delle materie
plastiche per più di 50 (v. tab. IV). Poiché ci si trova di fronte
a una curva esponenziale, questo significa enormi quantità,
se si sommano i diversi volumi della produzione. Quindi, per
esempio, per l'industria manifatturiera mondiale il volume
complessivo della produzione dei quattro decenni tra il 1948 e il
1990 è 3,6 volte maggiore di quello dei venti decenni
compresi tra il 1750 e il 1948. Oppure, se si preferisce, è
stato 1,3-1,6 volte maggiore del volume complessivo della produzione
tra l'inizio dell'era cristiana e il 1948.
Questa rapida crescita industriale si è basata, più
che nelle fasi precedenti, su alcune risorse non rinnovabili (si
tratti di materie prime o di energia): le fibre artificiali che
hanno preso in parte il posto di quelle naturali, le plastiche che
hanno sostituito il legno, la gomma sintetica che ha sostituito
quella naturale, derivano tutte da materie prime non rinnovabili.
L'energia idraulica - che verso il 1948 forniva circa il 35%
dell'elettricità mondiale - ne fornisce meno del 19% nel
1988, e come il legno, che svolgeva un ruolo importante per il
riscaldamento e oggi è diventato un fattore trascurabile,
è stata sostituita dal petrolio. Questo significa che la
richiesta di risorse non rinnovabili durante gli ultimi quarant'anni
è stata notevolmente più forte che durante i due
secoli che hanno preceduto l'industrializzazione; sono quindi
giustificati i timori sul rischio di esaurire queste risorse.
Più certe e più gravi sono le conseguenze nel campo
della distruzione dell'ambiente e, soprattutto, in quello
dell'inquinamento. Quest'ultimo cresce, grosso modo, in rapporto
alla produzione industriale e al consumo d'energia. Se c'è
qualche possibilità che vengano trovate soluzioni a questi
problemi, esse dipenderanno, evidentemente, dalla presa di coscienza
della loro gravità.
g) Le multinazionali: un ruolo crescente nell'industria mondiale
Mentre fino alla prima guerra mondiale la maggior parte delle
multinazionali era europea (soprattutto britannica) e le loro sedi
erano l'Europa e i paesi d'oltremare, a partire da questo periodo
comincia quella che potrebbe essere definita come la 'fase
americana' e che è caratterizzata da un ampliamento
geografico delle aree d'insediamento, che aggiunge all'Europa il
Terzo Mondo. Questa tendenza comincia a esaurirsi a metà
degli anni sessanta, quando si notano un ritorno in forze delle
imprese europee e i primi timidi inizi di quelle giapponesi. Si
può calcolare che alla vigilia della crisi del 1974-1975
circa il 13% della produzione industriale manifatturiera dei paesi a
economia di mercato era realizzato nelle sedi estere di imprese
multinazionali. Questa percentuale varia molto da regione a regione:
4% negli Stati Uniti e in Giappone; 18-19% nell'Europa occidentale;
28-31% nel Terzo Mondo (33-36% in America Latina; 16-19% in Asia).
Ma non bisogna cadere nel trabocchetto delle percentuali: se pure le
imprese straniere nel Terzo Mondo sono - proporzionalmente alla
produzione - da due a tre volte più importanti che nel mondo
sviluppato, questo non significa affatto che l'attività delle
multinazionali si concentri prevalentemente nel Terzo Mondo. Dal
momento che la produzione industriale del Terzo Mondo è
complessivamente 1/8 di quella del mondo sviluppato, un altro modo
di presentare le cose potrebbe essere quello di affermare che circa
il 74% delle attività all'estero delle multinazionali si
svolge nei paesi industrializzati e solo il 26% nel Terzo Mondo.
A partire dalla metà degli anni settanta il Giappone
interviene sempre più massicciamente, e dalla metà
degli anni ottanta i paesi dell'Est (compresa la Cina) si aprono
alle multinazionali. Il Giappone, che nel 1960 possedeva lo 0,7% del
totale mondiale degli investimenti diretti all'estero, ne possiede
il 5,7% nel 1975, l'11,7% nel 1985. Esso è così
passato al terzo posto nella classifica mondiale, dietro il Regno
Unito (14,7%) e gli Stati Uniti (35,1%, ma 47,1% nel 1960).
h) La scomparsa degli operai
Parlare della scomparsa degli operai pone dei problemi metodologici
e soprattutto di definizione che rischiano di privare di senso
un'analisi di questo tipo. Basta considerare che l'impiegato della
seconda metà del XX secolo costituisce l'equivalente del
proletario della seconda metà del XIX - il che d'altronde
è vero solo parzialmente - per evitare i trabocchetti che
possono aprirsi nell'interpretare un'evoluzione peraltro assai
significativa e dalle notevoli implicazioni. Noi vogliamo parlare
della rapida diminuzione dell'importanza relativa degli operai in
senso stretto, cioè di quelli che lavorano manualmente. A
questo proposito si rivela di grande utilità la distinzione
americana tra 'colletti blu' e 'colletti bianchi': è
naturale, d'altra parte, che il paese dove questa evoluzione
è più avanzata ne abbia sviluppato anche i concetti
relativi.Vediamo quindi anzitutto cosa è avvenuto in questo
paese la cui evoluzione industriale ha preceduto di due decenni
circa quella del resto del mondo industrializzato: all'inizio di
questo secolo l'insieme dei colletti blu costituiva il 57%
dell'occupazione non agricola negli Stati Uniti; nel 1950 i colletti
blu scendevano al 47% e al 31% nel 1982. In questo arco di tempo
(cioè tra il 1900 e il 1982) i colletti bianchi sono passati
dal 28 al 55%. Se invece ci si vuole limitare a un concetto
più circoscritto di operaio, bisogna eliminare dai colletti
blu gli operai qualificati e i capireparto.
In questo caso la diminuzione relativa è ancora più
sensibile: gli operai, che all'inizio del secolo costituivano il 41%
dell'occupazione non agricola, nel 1982 scendono al 18%.Per quanto
concerne l'Europa, abbiamo cercato di calcolare l'evoluzione
dell'importanza relativa degli operai per i sei paesi di più
antica industrializzazione: Germania Occidentale, Belgio, Francia,
Gran Bretagna, Svezia e Svizzera. Verso il 1890 gli operai
costituivano circa il 55-61% della popolazione attiva; una
percentuale che quasi certamente ha rappresentato la punta massima,
in quanto dopo il 1900 comincia a scendere, arrivando al 52-58%
circa nel 1930; la diminuzione procede a ritmo accelerato dopo il
1950 e nel 1980 la percentuale non supera il 37-42%.Le nuove
tendenze che stanno prevalendo nell'industria (v. sotto)
comporteranno forse una diminuzione sempre più rapida della
presenza degli operai e molto probabilmente verso il 2000 essi
costituiranno meno di un terzo dell'occupazione totale: nei paesi
sviluppati, quindi, il XXI secolo comincerà con una struttura
socioprofessionale molto diversa da quella degli inizi del XX secolo
e anche degli anni cinquanta.
i) Nuove forme di organizzazione del lavoro industriale: dal
'fordismo' al 'toyotismo'
Si può dire molto schematicamente che dall'inizio degli
anni venti alla fine degli anni settanta le forme dominanti di
organizzazione del lavoro non hanno subito cambiamenti di rilievo.
Quello che viene definito 'fordismo' è rimasto, in qualche
modo, il verbo per i settori che richiedevano una produzione di
massa. Il 'toyotismo' - dal nome del costruttore di vetture
giapponesi Toyota, per la cui produzione è stato sviluppato
questo sistema - è caratterizzato anzitutto dal dualismo tra
le modalità di lavoro proprie delle grandi imprese che
formano il nucleo del sistema e quelle delle numerose imprese
subappaltatrici, nelle quali il sistema di lavoro è ancora
quello della fase precedente dell'industrializzazione, in
particolare per quanto concerne l'insicurezza del posto di lavoro.
Le nuove forme di lavoro interessano quindi essenzialmente le grandi
imprese al centro del sistema e sono contraddistinte dai seguenti
elementi: 1) sindacalismo d'impresa, caratterizzato dallo spirito di
collaborazione con il padronato; 2) sicurezza del posto di lavoro
sia per i colletti bianchi che per i colletti blu; 3) sistemi di
promozione che combinano l'anzianità e i meriti, e sono
sostenuti da programmi di formazione; 4) spirito familiare; 5)
'circoli di qualità', che cercano di reintegrare la ricerca e
la qualità nel processo lavorativo.
l) Una frattura fondamentale nelle tendenze
dell'industrializzazione
L'apparizione, nel 1971, dei primi microprocessori, va collocata
in quel processo di miniaturizzazione dell'elettronica del quale si
può dire, con una certa semplificazione, che è
consistito nel ridurre la misura dell'unità di base
rappresentata dal diodo. Nel 1948 il transistor aveva segnato una
tappa importante, riducendo di un fattore da 100 a 1.000, secondo i
casi, l'ingombro e il consumo dei dispositivi elettronici; la tappa
successiva, da cui deriva direttamente il microprocessore, si
colloca nel 1960, con la comparsa dei circuiti integrati, la cui
densità in unità elettroniche da quel momento
raddoppia praticamente ogni anno, raggiungendo nel 1974
l'equivalente di 10.000 transistor per unità di alcuni
millimetri quadrati e, nel 1978, di 100.000. Oggi (1990) non si
calcola più in migliaia, ma in milioni, e le memorie messe a
punto corrispondono, grosso modo, a 64 milioni di transistor.Il
microprocessore può essere definito come un'unità
polivalente di trattamento dell'informazione che, in un volume
estremamente ridotto (alcuni centimetri cubici) e a un prezzo
irrisorio (dell'ordine di qualche decina di dollari) rappresenta
l'equivalente dell'unità centrale dei più grandi
calcolatori dell'inizio degli anni sessanta. Poiché le
memorie centrali hanno raggiunto lo stesso grado di
miniaturizzazione e di prezzo, questo significa che alla fine degli
anni settanta era possibile produrre, per meno di 200 dollari e con
un volume inferiore a quello di una scatola di fiammiferi, la parte
essenziale di un calcolatore che nel 1960 sarebbe costato 1,2-1,4
milioni di dollari (del 1979).
La conseguenza più appariscente di questi cambiamenti
tecnologici è stata la comparsa, nel 1975, dei primi
calcolatori di dimensioni ridotte. La produzione annuale era
dell'ordine di 300.000 unità nel 1979 e di 1,4 milioni nel
1981, anno che segna l'entrata in campo della IBM che avrebbe dato
la sua patente di nobiltà a quello che i 'sacerdoti' della
'vera' informatica definivano sdegnosamente un giocattolo. Nel
gennaio 1983, per la prima volta nella sua storia, la rivista "Time"
scelse il nuovo calcolatore come 'macchina dell'anno' al posto
dell''uomo dell'anno'. Nel 1990 la produzione è stata di 24
milioni di unità.Le conseguenze della disponibilità di
microprocessori a basso prezzo sono già state (e soprattutto
saranno) molteplici e profonde sia nel campo dei consumi che in
quello della produzione industriale. Per quanto concerne i consumi,
si tratta soprattutto della messa a punto di un gruppo di prodotti
nuovi che vanno dalle calcolatrici ai dizionari elettronici, dai
videogiochi alle macchine per insegnare e ai personal computers, per
non parlare della possibilità di veri e propri robot per i
lavori domestici. D'altra parte, e questo è altrettanto
importante, una vasta gamma di prodotti tradizionali in futuro
avrà sempre più tra le proprie componenti sistemi
elettronici a base di microprocessori: in particolare le automobili,
gli elettrodomestici e le stesse abitazioni.
Ancora più profondi rischiano di essere i cambiamenti a
livello della produzione, dove i microprocessori potranno assumere
numerosi compiti di controllo svolti fino a questo momento dagli
uomini. È possibile ipotizzare che l'introduzione dei
microprocessori porterà a una trasformazione dei sistemi
produttivi, rendendo probabile quella che chiameremo una 'produzione
di massa diversificata', che arriva fino alla possibilità di
una 'produzione industriale su misura' a un prezzo di costo da
produzione in serie. D'altra parte, il crescente numero di robot
industriali, sempre più efficaci, probabilmente
trasformerà completamente, entro una ventina d'anni (o anche
meno), l'industria tradizionale. Pur senza portare alla scomparsa
del lavoro umano in questo tipo di attività, il robotismo
lascerà più spazio ai tecnici che agli operai. La
forte diminuzione dell'importanza relativa dei salari nel costo di
produzione ridurrà i vantaggi di una 'dislocazione' della
produzione industriale in paesi con bassi salari, con conseguenze
negative per il Terzo Mondo.E poiché abbiamo cominciato
questa trattazione esaminando il dualismo che presiede alla nascita
dell'industria - armi e strumenti di lavoro - la concludiamo
ricordando la terribile efficacia che l'uso dell'elettronica
può avere, come si è potuto verificare di recente, nel
campo degli armamenti.