Enciclopedia delle Scienze Sociali (1994)
  di Luciano Cafagna
  Industria 
  
  sommario: 1. Premessa. 2. Industria,
    macchinismo e organizzazione del lavoro. 3. La rivoluzione
    industriale. 4. Le rivoluzioni industriali successive e i modelli di
    industrializzazione. 5. Come funziona il dinamismo industriale: il
    progresso tecnico. 6. La divisione internazionale del lavoro e
    l'industria nel mondo. 7. Conclusioni. Il futuro
    dell'industrialismo. □ Bibliografia. 
    
    1. Premessa
    
Nella sua accezione moderna (fino ai primi decenni del secolo scorso
    il termine, nelle varie lingue, significava genericamente piuttosto
    attività economica o quel che oggi diremmo
    industriosità) l'industria è, insieme, un ramo
    particolare e distinto di attività economica e un modo di
    produzione avente suoi specifici connotati. Di essa si occupano,
    come principali discipline di studio e da angoli visuali spesso
    abbastanza diversi, la teoria dello sviluppo economico (processi e
    modelli di industrializzazione), l'economia industriale (teoria
    della struttura industriale, organizzazione industriale, teoria
    dell'impresa), la sociologia industriale (fenomeni
    dell'industrialismo, relazioni industriali) e la storia economica
    (storia dell'industria, storia dell'impresa industriale). È
    dal punto di vista di quest'ultima che ci si collocherà
    prevalentemente in questa trattazione, con modalità che
    tendono a tener conto, possibilmente integrandole, delle altre
    angolature disciplinari, considerando qui una serie di nozioni
    connesse, come 'industrializzazione', 'industrialismo', 'rivoluzione
    industriale'.
Va subito osservato, inoltre, per evitare equivoci semantici in chi
    voglia fare letture che comportino il passaggio da un campo
    disciplinare all'altro, che in economia industriale si impiega, ai
    fini del ragionamento teorico basato sull'equilibrio parziale,
    largamente usato in tale disciplina, una peculiare nozione di
    'industria'. Impiegando questo termine, secondo una tradizione
    iniziata dal grande economista inglese Alfred Marshall, si
    intenderà allora non una singola unità produttiva, ma
    una specifica partizione settoriale dell'insieme delle imprese
    industriali, e cioè un raggruppamento classificatorio di
    imprese che producono beni similari per il consumatore. Qui, per
    distinguere tale accezione, si farà invece convenzionalmente
    uso dell'espressione 'settore industriale'.
Come ramo particolare di attività economica, l'industria si
    distingue in quanto attività trasformatrice di prodotti
    grezzi o già sottoposti a precedenti lavorazioni. In questo
    è diversa dall'agricoltura - la quale, così come
    l'allevamento, si applica alla sollecitazione e alla cura, per fini
    produttivi, di cicli biologici naturali - e dai servizi, che non
    producono propriamente beni, ma si rivolgono a modificare le
    condizioni e le possibilità di uso di questi ultimi
    (così il commercio, i trasporti di merci, ecc.), oppure
    consistono in prestazioni personali dirette al consumatore.
    L'industria è, quindi, l'attività economica nella
    quale vi è la maggiore applicazione di tecniche accrescitive
    dei rendimenti rispetto ai fattori utilizzati, che schematicamente
    sono in ogni processo produttivo: il lavoro immediatamente
    necessario, i mezzi di produzione prodotti dal lavoro passato, le
    risorse naturali. Detto schema, si badi, non è mai puro,
    poiché le risorse naturali entrano sempre nel processo in
    forme più o meno prelavorate. Questa capacità tecnica
    accrescitiva dell'industria si traduce anche nella creazione di
    nuovi mezzi tecnici per aumentare il rendimento delle altre
    attività, le quali da questo punto di vista le sono, quindi,
    sempre più largamente tributarie. Va tenuto però
    presente che, in senso lato, in quanto attività economica
    riferita alla trasformazione, la dizione 'industria' può
    comprendere settori di attività trasformatrice basati su
    lavorazioni che adottano tecniche più tradizionali, come
    l'artigianato. Ciò riflette la stratificazione storica cui ha
    dato luogo il dinamismo stesso di tale tipo di attività.
Come modo di produzione, invece, l'industria si caratterizza
    storicamente per l'organizzazione del lavoro basata sul concorso di
    molti lavoratori concentrati in officine, e per la sua applicazione
    al servizio produttivo di macchinari azionati da forza motrice non
    umana, nei quali è sempre più largamente contenuto il
    'programma' tecnico della lavorazione, che gli uomini devono
    guidare, controllare e, in varia misura, selezionare e integrare. In
    ciò il modo di produzione propriamente industriale, in senso
    moderno, si distingue dall'attività trasformatrice più
    tradizionale (come l'artigianato individuale o la manifattura
    concentrata con scarso uso di macchinari), in cui mancano in tutto o
    in gran parte i requisiti sopra descritti e prevale ancora
    sostanzialmente l'abilità o solamente l'impegno manuale.
    Periodicamente, lungo l'ormai secolare storia dell'industria
    moderna, ritornano a volte, in taluni settori, scelte organizzative
    decentrate (per esempio quando è possibile trasferire a
    domicilio del lavoratore sia la risorsa energetica che macchinari
    leggeri e non sia necessario uno stretto coordinamento tecnico delle
    operazioni lavorative): sempre però nell'ambito di una
    organizzazione economica sostanzialmente unitaria 'in grande'.
L'industria è comunque forma economica tipicamente
    'capitalistica', in quanto in essa si compie integralmente una
    dissociazione del lavoratore impegnato direttamente nella produzione
    dalla proprietà dei mezzi di produzione stessi, dalla
    gestione del processo produttivo e dalla disponibilità del
    prodotto finale. Ciò avviene su una base che è insieme
    tecnica, economica e sociale, e che appare strettamente inerente al
    modo di produzione, in quanto le dimensioni dei mezzi necessari a
    produrre, della produzione stessa e degli sbocchi di questa tendono
    a soverchiare le possibilità economiche e tecniche di un
    produttore individuale. A ciò si deve aggiungere che
    l'accumulazione finanziaria che si richiede per realizzare
    l'imponente attrezzatura tecnica concentrata, l'approvvigionamento
    dei materiali da trasformare e l'organizzazione di vendita implicano
    necessariamente una ripartizione del reddito prodotto nelle forme di
    un fondo per la retribuzione del lavoro, da un lato, e di un fondo
    per il riutilizzo accrescitivo nell'impresa (o nel sistema delle
    imprese) dall'altro. Karl Marx, che fu il maggiore studioso di
    questo fenomeno, ipotizzò una società industriale non
    capitalistica, in cui alla socializzazione del modo di lavoro
    corrispondesse un'analoga socializzazione sotto il profilo della
    proprietà, della gestione, della possibilità di
    produrre, tale da superare quella dissociazione. Quel tentativo
    rimase però un esercizio di astratta dialettica,
    poiché egli non indicò mai in termini positivi i modi
    concreti di siffatta possibilità. La semplice
    proprietà statale e non privata dei mezzi di produzione,
    ovvero la proprietà azionaria operaia, ovvero ancora forme
    cooperative di proprietà o di conduzione (definite
    autogestionarie) non sembrano configurare un modo di produzione
    effettivamente diverso, ma soltanto forme giuridiche diverse di
    gestire quell'inevitabile dissociazione. Il fallimento delle
    economie dell'Europa orientale, che si dicevano socialiste, prima
    ancora di manifestarsi in termini di funzionamento, si era palesato
    sotto il profilo ora accennato.L'industria, come ramo di
    attività economica, riesce a raggiungere una quota dominante
    del reddito prodotto in una società e dell'occupazione
    complessiva di lavoratori solo quando si afferma come particolare
    modo di produzione nel senso anzidetto. Le economie preindustriali,
    dal punto di vista del modo di produzione, sono generalmente tali
    anche dal punto di vista delle attività prevalenti: sono
    cioè economie prevalentemente agricole, con una quota
    più o meno ampia di attività commerciali e
    artigianali. Ciò avviene perché solo il modo di
    produzione industriale crea, nell'insieme dell'economia, le
    condizioni di produttività e di consumo che consentono un
    massiccio spostamento negli orientamenti produttivi e nella
    distribuzione della forza lavoro complessiva. Quando il modo di
    produzione industriale prevale, i vecchi modi di produzione
    applicati all'attività trasformatrice, che pur possono
    permanere, divengono una semplice appendice o una integrazione del
    nuovo: il che giustifica l'aggregazione a quest'ultimo che
    solitamente se ne fa in sede statistica. Non è però
    sempre vero l'inverso: che, cioè, l'introduzione in un
    tessuto economico tradizionale di unità del nuovo modo di
    produzione - anche se tecnicamente molto avanzate - implichi
    facilmente e rapidamente una loro prevalenza e una emarginazione
    delle vecchie.Il particolare dinamismo tecnologico proprio
    dell'attività industriale nel senso anzidetto ha portato alla
    formulazione di un'ipotesi relativa alle caratteristiche più
    generali dello sviluppo economico moderno sotto il profilo della
    distribuzione complessiva del lavoro umano; tale ipotesi è
    chiamata 'legge dei tre settori'. Essa ha avuto grande diffusione,
    assumendo la forza di un luogo comune che, come tale, ha influenzato
    la maggior parte delle politiche di sviluppo adottate nei vari paesi
    dopo la seconda guerra mondiale, configurandole appunto come
    politiche d'industrializzazione. Secondo tale legge, enunciata per
    la prima volta da A.G.B. Fisher nel 1935, e ripresa e divulgata da
    C. Clark in un fortunato libro del 1940, lo sviluppo economico
    comporterebbe un progressivo passaggio della quota relativamente
    maggiore delle forze di lavoro di un paese da un settore 'primario'
    (agricoltura) a un settore 'secondario' (industria) e infine a un
    'terziario' (servizi). Per il Fisher la base di questa tendenza
    starebbe nella struttura della domanda dei consumatori, regolata nel
    lungo periodo dalla cosiddetta 'legge di Engel' (dal nome dello
    statistico prussiano che la formulò verso la metà del
    XIX secolo). Secondo tale legge, al crescere del reddito vi sarebbe
    un mutamento nella elasticità relativa delle grandi categorie
    dei consumi: i consumi alimentari crescerebbero meno rapidamente
    degli altri. Pertanto, essendo i consumi alimentari soddisfatti
    essenzialmente dalla produzione agricola, la crescita del reddito
    complessivo di una collettività implicherebbe un maggiore
    incremento relativo delle produzioni extragricole e dei servizi, e
    quindi dell'occupazione fuori dell'agricoltura. C. Clark
    approfondì questo punto, sottolineando altresì come
    l'andamento dei rendimenti tenda a crescere da un settore fisheriano
    all'altro per il crescente impiego di tecniche che in questo
    passaggio si realizza. Di conseguenza, l'industrializzazione sarebbe
    praticamente un passaggio obbligato perché possa aversi una
    sensibile crescita del reddito, e quindi dei livelli di vita, in una
    collettività. Paesi ad alto reddito pro capite con struttura
    prevalentemente agricola sono infatti eccezioni, connesse
    solitamente a un particolare rapporto popolazione/terra coltivabile
    e a una 'storia' di colonizzazione dall'esterno.
Nelle economie più mature (per esempio in quella degli Stati
    Uniti) si osserva addirittura l'affermarsi di una preminenza del
    settore terziario. Tale tendenza appare in generale più
    marcata quando si riesca a distinguere un settore di servizi
    'arcaico' (e in declino) da uno moderno (e in espansione).
    Quest'ultimo, in talune sue espressioni tecnologicamente avanzate
    (informatica, ricerca applicata) è stato, a partire dagli
    anni sessanta, chiamato 'terziario avanzato' o addirittura
    'quaternario'. Occorre però osservare a questo riguardo - per
    evitare semplificazioni eccessive - che i presupposti del
    manifestarsi della legge di Engel su scala collettiva possono essere
    alterati nel breve e medio periodo da mutamenti nella distribuzione
    del reddito a favore di gruppi di popolazione precedentemente
    sottoalimentati, e che questo fenomeno può assumere
    proporzioni rilevanti qualora la redistribuzione avvenga con
    caratteri di simultaneità su scala geograficamente estesa.
    È bene precisare dunque che il declino assoluto e relativo
    dell'occupazione in agricoltura e quello relativo delle risorse
    impiegate in tale attività si spiega solo in parte con la
    summenzionata legge di Engel. Per gran parte si spiega, invece, con
    il notevole incremento di produttività derivante dall'apporto
    diretto o indiretto, nello stesso processo di produzione agricolo,
    di beni di provenienza industriale (per esempio meccanici e chimici)
    o di applicazioni scientifiche (per esempio di genetica e selezione
    biologica) accelerate o rese possibili dall'industrialismo e dalla
    scienza. Per contro l'espansione relativa dell'occupazione nei
    servizi sembra dipendere solo in parte da una maggiore domanda di
    prestazioni di questo settore al crescere del reddito. Dipende
    soprattutto, invece, proprio dall'incremento continuo e notevole
    della produttività industriale, dal risparmio di mano d'opera
    che questo comporta, e dal fatto che nell'attività
    industriale stessa cresce il bisogno di servizi specializzati, verso
    i quali si trasferisce in parte l'occupazione prima impiegata nei
    modi tradizionali. Diminuisce perciò l'elasticità
    dell'occupazione rispetto al reddito della collettività e la
    crescita assoluta dell'occupazione resta così sostanzialmente
    affidata a prospettive di forte e continua espansione del sistema
    nel suo insieme. Il ruolo del settore 'secondario', cioè
    dell'industria, sembra perciò restare comunque dominante
    nell'insieme delle tendenze accennate, le quali si svolgono tutte
    sotto il segno dell'industrialismo e sono da questo rese possibili.
Queste ultime considerazioni inducono a concludere questa parte
    introduttiva accennando a una caratteristica generale del processo
    d'industrializzazione, messa in evidenza dagli studi, che ne pone in
    risalto la fondamentale tensione verso l'ampliamento riproduttivo
    del sistema economico. Già Marx aveva individuato nella
    struttura produttiva capitalistica una tendenza intrinseca
    all'aumento del rapporto fra attività rivolte alla produzione
    di mezzi di produzione e attività rivolte alla produzione di
    beni di consumo: condizione, questa, per un continuo ampliamento del
    sistema economico. Dal canto loro, altri economisti che aprivano
    strade diverse - e più formalistiche - di riflessione, come
    Menger, avevano parlato di aumento del rapporto fra produzione
    'indiretta' e produzione 'diretta', come connotato di una economia
    in crescita. In tempi a noi più vicini uno studioso tedesco,
    Hoffmann, riprendendo quest'impostazione e innestandola sulla
    propensione alla 'tassonomia stadiologica' propria della tradizione
    degli studi tedeschi di storia economica, ha creduto di poter
    individuare una successione di stadi dell'industrializzazione
    proprio basandosi sull'aumento del rapporto fra industrie
    produttrici di beni capitali e industrie produttrici di beni di
    consumo. Tale aumento si troverebbe in correlazione all'aumento del
    reddito pro capite.Questo punto di vista, che può
    considerarsi classico nella teoria dell'industrializzazione, e che
    ha portato a una sostanziale identificazione di questa con il
    fenomeno del capitalismo (privato o di Stato), resta fondamentale ma
    con una importante qualificazione: che il capitale stesso si
    presenta sempre più come investimento in ricerca, in
    istruzione, in esperienze, in conoscenze, in software, cioè
    in 'capitale umano' che, come tale, consente un crescente risparmio
    relativo di altri fattori. 
    
    2. Industria, macchinismo e organizzazione del
      lavoro
      
In quanto modo di produzione, l'industria moderna si presenta come
    uno svolgimento insieme generalizzante ed eversivo del principio
    della divisione del lavoro. Questo svolgimento si manifesta in
    triplice modo: come proliferazione di nuove attività per la
    soddisfazione di nuovi bisogni, come separazione e specializzazione
    di attività distinte rispetto a finalità produttive
    prima raggruppate e svolte insieme, e infine come sviluppo su larga
    scala dell'articolazione dei lavori all'interno di una singola
    unità produttiva. Le prime due manifestazioni della divisione
    del lavoro sono antichissime e marcano l'intero cammino della storia
    economica, ma con ritmi molto lenti. L'industria moderna sconvolse
    questi ritmi, accelerandoli drasticamente. 
L'ultima delle forme sopra elencate di divisione del lavoro - quella
    interna all'unità produttiva - aveva invece avuto, prima
    dell'avvento dell'industria moderna, applicazioni assai limitate
    nelle attività economiche, e comunque su piccola scala. La
    più significativa era stata quella delle manifatture, in cui
    si raggruppavano operai anche in buon numero, ma senza ausilio di
    macchinari, o con ausilio molto modesto. Un esempio del genere
    è la manifattura di spilli illustrata in una nota pagina
    della Ricchezza delle nazioni di Adam Smith, nella quale si
    sottolineano i vantaggi per la produttività derivanti dalla
    divisione di un processo composto da fasi distinte di lavorazione
    assegnate a persone diverse in modo coordinato. Caratteristica
    propria di questa forma della divisione del lavoro è che essa
    può andare oltre la produzione separata e distinta di
    prodotti finiti o di parti definite di prodotti, per investire
    processi unitari di lavorazione di un bene determinato che vengono
    scomposti in operazioni specializzate poste in successione (tipico
    delle industrie 'di processo') ovvero applicate simultaneamente a
    parti separate di un prodotto che poi vengono combinate insieme
    (tipico delle industrie 'di montaggio'). In ambedue i casi il lavoro
    individuale si fa unilaterale e parziale e viene via via sostituito
    da macchine e processi automatici nelle varie fasi in cui può
    essere analiticamente scomposto. Tale forma di divisione del lavoro
    (manifatturiera e poi di fabbrica) presuppone un'organizzazione
    unitaria di comando su molti lavoratori, dei quali si deve
    coordinare l'attività dal momento in cui il nuovo modo di
    produzione, sostituendosi al vecchio, a stampo individualistico, li
    priva del controllo dell'insieme del processo produttivo. Essa si
    fonda, d'altra parte, sulla scoperta del carattere frazionabile dei
    processi lavorativi, e dell'economia di tempo realizzabile
    attraverso la reiterazione separata e continua di movimenti
    semplici; in altre parole, trova uno sconfinato campo di
    applicazione nella riduzione meccanica dei movimenti di lavoro. Per
    essa quindi si può dire che il passaggio dalla scomposizione
    dei movimenti del lavoro umano a movimenti parcellari analoghi a
    quelli di una macchina - e quindi essi stessi ulteriormente
    sostituibili, ogni qualvolta che se ne trovi il modo e la
    convenienza, coi movimenti di una macchina - avviene senza soluzioni
    di continuità. Alla stessa logica potrà tendere il
    successivo reinserimento, nel processo lavorativo, dell'apporto
    umano adattato alla intervenuta semplificazione meccanica.
Per una fase storica più o meno lunga, allora, dal lavoro
    umano verrà pretesa una prestazione sempre più simile
    a quella di una macchina, nella forma e, se possibile, anche
    nell'intensità: non potendosi dissociare e contrapporre,
    nell'unità del processo produttivo, due logiche diverse. In
    tal modo il lavoro, come disse Marx, da 'concreto' tende a diventare
    'astratto', cioè ingaggiato come ingrediente fungibile, la
    cui esecuzione è sostanzialmente programmata dall'esterno.
    Questa implicazione del macchinismo per il rapporto uomo-macchina
    è l'aspetto che più ha attirato l'attenzione dal punto
    di vista sociologico. Prima di ritornare su alcuni suoi caratteri
    concreti sarà bene però accennare al fatto che vi
    è un altro aspetto di questa trasformazione non meno
    importante per l'uomo lavoratore: ed è la riduzione del ruolo
    di questi a fonte diretta di energia. Se in molti lavori,
    concretamente considerati, il macchinismo riduce il ruolo
    dell'abilità manuale e dell'ingegno applicativo, in molti
    altri, per contro, riduce la richiesta di sforzo fisico pesante. La
    stessa riduzione 'macchinistica' del lavoro nell'industria si
    è venuta manifestando, nella realtà storica, con
    sfumature diverse che, pur collocandosi entro uno stesso schema
    classificatorio dal punto di vista logico, possono avere risvolti
    sociali di portata assai diversa. Anche perché spesso oggetto
    di una reazione sociale che induce l'impresa a una celere ricerca di
    forme organizzative più avanzate, la strumentalità del
    lavoro umano rispetto alla macchina - ossessivamente considerata nel
    modo reso celebre dal film di Chaplin Tempi moderni - tende a
    divenire nuovamente strumentalità della macchina rispetto
    all'uomo, sia pure entro un processo nel quale le funzioni non sono
    più artigianalmente unitarie. Il taylorismo (da F.M. Taylor)
    è stato il principale modello di 'organizzazione scientifica
    del lavoro' che mirava a valorizzare tale uso parcellizzato del
    lavoro umano combinato con macchinari a questo finalizzati. La
    denominazione di 'fordismo' per questi fenomeni - dall'applicazione
    pratica di criteri siffatti realizzata nelle officine Ford a partire
    dagli anni venti e poi largamente diffusa nel mondo - tende spesso a
    comprendere anche il risvolto sociale di salari (i cosiddetti 'alti
    salari') che beneficiano parzialmente degli incrementi di
    produttività derivanti dal combinare macchine e
    organizzazione del lavoro di questo tipo, nonché dell'accesso
    dei lavoratori ai beni di consumo di massa così prodotti. La
    reazione dei lavoratori a questa tendenza riduttiva nell'uso del
    lavoro umano ha però condotto, specie dopo la fine degli anni
    sessanta, a un vasto movimento di revisione di questi principî
    - ormai a produttività declinante per ragioni sociali e di
    mercato - in direzione di un aumento di flessibilità, sia
    nella destinazione dei macchinari che nell'impiego dei lavoratori
    (post-fordismo). La crisi dei precedenti metodi organizzativi ha
    aperto un periodo di intense sperimentazioni e riflessioni, nel
    quale la cultura industriale occidentale ha prestato una inedita
    attenzione alle forme di organizzazione industriale con le quali il
    Giappone moderno ha coniugato le proprie tradizioni culturali con la
    volontà di industrializzarsi (v. Dore, 1987): si ravvisa nel
    'modello giapponese' una possibilità di post-fordismo
    'snello', basato cioè su una minuziosa partecipazione
    economizzatrice di tutte le componenti aziendali, di contro a un
    post-fordismo 'grasso', di stampo più prettamente americano,
    basato su un dispendio tecnologico tendente alla ridondanza (v.
    Bonazzi, 1993).
Il ruolo modificato dell'uomo lavoratore nell'industria moderna
    è stato, volta a volta, quello di semplice integratore (per
    lo più transitorio) in un ciclo incompleto di movimenti di
    macchine, ovvero di sorvegliante addetto a correggere movimenti di
    macchine costituiti in un ciclo pressoché completo, ovvero
    anche di parziale realizzatore di un coordinamento di movimenti di
    macchine, con responsabilità effettive, ancorché non
    globali, nell'esecuzione di un programma che, a sua volta,
    può essere monotono o variabile. A siffatte schematiche
    distinzioni di forma del rapporto possono corrispondere condizioni
    di onerosità e pericolosità nel lavoro le più
    disparate. Quei diversi ruoli e queste diverse condizioni di lavoro
    si succedono e si sostituiscono, inoltre, in modo non unilineare
    nell'evoluzione dell'industria. Lo sviluppo di nuovi rami di
    attività - per esempio nel settore chimico - può
    ricostituire su altri fronti elementi di pericolosità e
    onerosità del lavoro attenuatisi in altri settori, e
    così può dirsi per l'immissione di nuove tecniche in
    uno stesso settore. Tutto ciò è da porre in
    connessione col fatto che la logica aziendale che presiede
    all'introduzione o sostituzione delle macchine non è, di per
    sé, quella dell'alleviamento progressivo delle condizioni di
    lavoro (anche se questa ne è stata complessivamente e in
    ultima istanza la conseguenza, nel corso di una storia che non
    è solo fatta di sforzi economici ma anche di lotte sociali,
    capaci di correggere le tendenze di una logica puramente
    economico-aziendale). Un punto essenziale per comprendere il
    continuo rivoluzionamento all'interno del quadro dell'organizzazione
    industriale del lavoro è infatti questo: esso trae
    costantemente origine dall'obbedienza a principî di
    minimizzazione degli apporti per unità di prodotto e di
    massimizzazione del prodotto per unità di apporto. Gli
    apporti - si tratti di materiali, di energia motrice, di logorio di
    macchine, di lavoro umano - sono risparmiati o valorizzati secondo i
    medesimi criteri: salvo l'eventuale resistenza dei prestatori di
    lavoro, i quali sono gli unici a poterla opporre, in virtù
    della loro diversa natura rispetto agli altri apporti, a onta
    dell'assimilazione che a questi ne è stata fatta nella
    struttura capitalistica dell'industria. La stessa applicazione di
    miglioramenti o, più in generale, di modifiche tecniche (che
    può implicare ritorni parziali a tecniche già smesse)
    è condizionata pertanto dai mutamenti che intervengono nella
    disponibilità dei prestatori di lavoro a cedere la loro forza
    lavoro a date tariffe e a date modalità. Sviluppandosi e
    complicandosi, quindi, l'industrialismo ha finito con il creare le
    premesse tecniche più favorevoli al rafforzamento del peso
    dei lavoratori implicati direttamente nel processo produttivo -
    seppur finora nella forma passiva del potere di veto - qualora,
    naturalmente, ricorrano le condizioni politiche atte all'esercizio
    di questo potere. Come si è già accennato, questo modo
    di produzione e questa organizzazione del lavoro che gli corrisponde
    hanno però certi caratteri autoritari e centralistici che
    paiono attenuabili, ma non eliminabili. Ciò perché si
    tratta di una struttura organizzativa nella quale i risultati
    dipendono dal funzionamento di un tutto e sono al tempo stesso
    vincolati, nella misurazione, al rapporto di scambio,
    ancorché l'autorità politica adotti dei correttivi per
    il conseguimento di fini speciali o la difesa di interessi
    particolari. In questa struttura il programma del processo
    produttivo sovrasta inevitabilmente la sua esecuzione. Ciò
    implica funzioni distinte e centralizzate di decisione fra
    alternative diverse e di decisione innovativa, rispetto alle quali -
    nell'ambito dell'unità produttiva - possono essere promosse
    autonomie, ove lo stato delle tecniche lo consenta, ma sempre nel
    quadro di vincoli precisi. Tutto questo implica una distinzione fra
    il momento del disporre e il momento dell'eseguire. Ed è
    difficile che tale distinzione non si cristallizzi in una
    distinzione di funzioni e di strati sociali, anche se questa non
    sembra dover essere necessariamente sempre identica alla drastica
    contrapposizione che ha presieduto alla nascita e allo sviluppo del
    sistema industriale di fabbrica. In ogni caso il modo di produzione
    industriale può funzionare solo in quanto sia socialmente
    possibile un rapporto operativo fra queste diverse funzioni, tale da
    comprendere e superare l'eventuale conflittualità. I due casi
    estremi nei quali si può configurare tale possibilità
    sono: o uno stato di coercizione diretta di stampo militare, ovvero
    una situazione di libero mercato in cui avvenga uno scambio di
    prestazioni offerte contro pagamenti e in cui vi siano realmente
    alternative di scelta e potere contrattuale effettivo da parte di
    chi nello scambio cede forza lavoro.
Nella realtà storica non si sono registrate finora siffatte
    forme pure, bensì situazioni più vicine all'una o
    all'altra forma. La formazione del sistema industriale è
    avvenuta storicamente nei modi dello scambio libero di forza lavoro
    contro salario: scambio fra chi non aveva altre possibilità
    di reddito che la vendita, a livelli di puro sostentamento, della
    propria forza di lavoro e chi dall'altra parte disponeva non solo
    del capitale per anticipare il pagamento delle prestazioni prima
    della vendita del prodotto, bensì anche del sostegno del
    potere politico. Suo presupposto era quindi l'esistenza di una
    struttura sociale con larga disponibilità di lavoratori senza
    altre alternative di sostentamento. Nella Gran Bretagna del XVIII
    secolo - patria dell'industria moderna - avevano concorso a formare
    questa situazione sociale le recinzioni (enclosures) di terre prima
    assoggettate a servitù pubbliche o alla coltivazione
    individuale, che furono assunte a simbolo del trasferimento
    più o meno forzoso di forza lavoro dalla terra all'industria.
    Ma la formazione di un 'proletariato' disponibile per il lavoro
    industriale può avvenire in molti modi, con trasferimenti e
    migrazioni da distanze diversissime. Né si deve credere che
    una violenza extramercantile si manifesti soltanto all'origine della
    formazione del rapporto di lavoro salariato. Essa ritorna non di
    rado, nella storia, ad assicurarne la normalità. E questo
    anche in società che dichiarano, o dichiaravano, di essere
    ordinate secondo principî di governo proletari. Tuttavia la
    contrattazione della prestazione di lavoro (o compravendita della
    forza lavoro) non è una finzione, ma un effettivo rapporto
    negoziale, e le condizioni politiche che regolano la situazione
    sociale in cui esso è possibile sono storicamente soggette a
    mutamento. Il portatore della forza lavoro può essere un
    cittadino protetto dalla legge. Nel caso in cui lo sia
    effettivamente e in misura tale da produrre effetti non soltanto
    formali, e nel caso in cui la persistenza di un regime di democrazia
    politica consenta una legislazione provocata dallo stesso mondo del
    lavoro, l'organizzazione per meglio contrattare (sindacati) e lo
    sviluppo della contrattazione possono consentire la difesa
    sostanziale della quota del lavoro nella ripartizione degli
    incrementi del reddito dovuti agli incrementi di produttività
    che il sistema industriale assicura - e quindi un progressivo
    incremento dei redditi reali - o anche miglioramenti di quella
    quota. Possono consentire altresì riduzioni progressive
    nell'orario di lavoro e più favorevoli condizioni di
    prestazione dell'opera. Tutto ciò, nella misura in cui
    può effettivamente verificarsi, diviene possibile in quanto
    è caratteristico dell'industrialismo che possano rendersi
    compatibili - a certe condizioni di equilibrio economico o sociale -
    una maggiore produzione fisica di beni e un minor apporto del lavoro
    corrispondente: e ciò con continuità e
    regolarità, e anche secondo una tendenza accelerativa. Questa
    caratteristica era del tutto sconosciuta a economie ordinate secondo
    altri modi di produzione.Il problema della sopravvivenza
    dell'industrialismo moderno sta nella capacità che le
    società in cui esso prevale mostreranno di sapere o meno
    salvaguardare insieme il miglioramento continuo delle condizioni di
    lavoro e il miglioramento continuo della produttività.
    L'industrialismo è un sistema tale da consentire - come si
    è detto - il realizzarsi di entrambe queste
    possibilità, in quanto è socialmente, in linea di
    principio, non entropico, nel senso che crea più di quanto
    distrugga (altro discorso, pur se non disperante, può essere
    fatto per il suo rapporto con le risorse ambientali di cui si
    dirà più avanti). 
Ma se ciò è possibile, non è però
    ineluttabile, in quanto presuppone, al fondo, qualcosa come un
    'contratto sociale', le cui condizioni possono anche venire
    storicamente a mancare. Le esperienze conflittuali, con momenti di
    alta tensione sociale, che si sono compiute nei maggiori paesi
    industriali, soprattutto negli anni sessanta e settanta di questo
    secolo, hanno attirato l'attenzione sulla complessità della
    'regolazione sociale' che l'industrialismo moderno richiede, e che
    comporta, al variare stesso della maturazione culturale e civile del
    lavoratore, una accettabile combinazione di rapporti sociali,
    economici e politici, dentro e fuori la fabbrica, fra le varie
    espressioni del potere e il cittadino-lavoratore, tale da produrre
    un'adeguata consensualità (v. Salvati, 1988). 
    
    3. La rivoluzione industriale
    
L'industria moderna ha il suo atto di nascita nella 'rivoluzione
    industriale' inglese della seconda metà del XVIII secolo, con
    la quale comparve per la prima volta in un paese il sistema di
    fabbrica (factory system) su larga scala ed entrò in una fase
    di rapida espansione il macchinismo nella produzione manifatturiera.
    Ciò comportò in un tempo breve, per quei tempi (a
    taluni storici più recenti, abituati a ben diversi ritmi,
    questo tempo appare però lungo e lento - v. Crafts, 1985 - ma
    la questione è controversa - v. Mokyr, 1990), una sensibile
    accelerazione nella formazione annua del prodotto nazionale. Questo,
    verso la fine del secolo - proprio quando Malthus pubblicava il suo
    pessimistico saggio sul rapporto fra andamento demografico e
    disponibilità di mezzi di sussistenza -, assumeva in
    Inghilterra un ritmo di crescita superiore a quello della
    popolazione. Nella prima metà del XIX secolo, mentre la
    rivoluzione industriale si dispiegava in tutta la sua ampiezza,
    prodotto nazionale e reddito pro capite continuarono a crescere a
    ritmi ancora superiori. 
Nell'alternanza di tendenze cicliche secolari di crescita e
    decadenza che caratterizza la storia dell'economia europea, per lo
    meno a partire dal Mille d.C., l'Inghilterra e l'Olanda sono i primi
    due paesi che riescono a sottrarsi all'ultima fase ciclica di
    caduta, intervenuta nel XVII secolo. Di tali due paesi, il primo
    è quello che appunto, attraverso la rivoluzione industriale,
    riesce a legare cumulativamente una fase ciclica secolare di
    progressi preindustriali con un nuovo ciclo secolare espansivo
    dotato di nuovi ed eccezionali caratteri accelerativi. Questa
    capacità di espansione senza precedenti nella storia
    dell'economia (paragonabile forse soltanto - come ha notato C.M.
    Cipolla - al mutamento che, fra l'8000 e il 1500 a.C.,
    convertì l'uomo da cacciatore in agricoltore) si estese dalla
    Gran Bretagna ad altri paesi. Polanyi (v., 1944) attribuisce
    praticamente alla rivoluzione industriale l'instaurazione, come
    effettiva nuova realtà di antropologia economica,
    dell'economia di mercato, forma prima non dominante nelle relazioni
    economiche (la 'grande trasformazione'). Si è voluto
    però fortemente sottolineare di recente (v. Pollard, 1981)
    che la trasformazione ha caratteri regionalmente assai ineguali, sia
    in Inghilterra, sia sul continente europeo dove successivamente si
    estese. E altri tendono a sottolineare con particolare evidenza -
    secondo una sensibilità acutizzatasi nella recente
    storiografia dell'età contemporanea - come vi sia spesso una
    prolungata coesistenza di stratificazioni successive, di forme
    produttive vecchie e nuove.Intorno alle origini di questa
    fondamentale trasformazione e alle cause che la provocarono in Gran
    Bretagna, e in altri paesi anch'essi a quell'epoca economicamente
    progrediti (come la Francia), si è molto discusso e ancora si
    discute. Si sono date diverse interpretazioni della sequenza degli
    eventi, sequenza che gli storici hanno impostato nei termini di un
    loro abituale modello esplicativo, fondato sulla coppia di opposti
    continuità-discontinuità. È evidente che
    l'accentuazione di uno dei due poli dipende da quel che l'ottica
    dell'osservatore tende a mettere in rilievo: in passato si era
    colpiti prevalentemente dalla natura delle innovazioni tecniche o
    organizzative, indipendentemente dalla loro diffusione e dalla
    misurazione dei loro effetti macroeconomici. 
L'interpretazione più tradizionale è orientata
    comunque all'affermazione di una netta discontinuità: si
    sarebbe passati, nel breve giro di pochi decenni rivoluzionari
    (1760-1830 oppure 1780-1840), da un'economia sostanzialmente
    stazionaria, o in assai lento sviluppo, a un'improvvisa
    accelerazione intervenuta in una o più variabili decisive per
    la crescita economica: accumulazione del capitale, innovazioni
    tecniche, aumento della popolazione. Un altro e più recente
    genere d'interpretazione è quello che riduce, invece, la
    portata delle discontinuità, individuando precedenti fasi
    nelle quali si sarebbero compiuti sostanziali progressi preparatori,
    sia nell'ambito manifatturiero, sia- soprattutto - in quello
    commerciale e in quello agricolo, nei 100-200 anni che precedono il
    periodo centrale del mutamento. I rapporti che in questo periodo
    legano in 'circolo virtuoso' i fattori politico-istituzionali a
    quelli propriamente economici, i dati culturali e scientifici a
    quelli tecnici, di mentalità e comportamento, nonché
    la concatenazione dell'espansione commerciale e dell'aumento della
    produttività agricola ('rivoluzione agraria') sono
    attualmente oggetto di un fervore di studi in cui si tende a fondere
    la tradizionale sensibilità storiografica individualizzante
    con le formalizzazioni concettuali dell'economia e della sociologia
    contemporanee.
Indipendentemente, però, dal problema delle sue origini o
    cause, nonché dal problema dei tempi del suo dispiegarsi
    nelle grandezze macroeconomiche (reddito complessivo, investimenti,
    consumi), è certo che la rivoluzione industriale si manifesta
    comunque come un mutamento nelle strutture produttive, i cui aspetti
    fondamentali riguardano le innovazioni tecniche e l'organizzazione
    del lavoro - con i conseguenti rapporti sociali - che da quelle
    dipende. La storia di queste innovazioni è stata molte volte
    ricostruita in opere di grande pregio, alcune delle quali, come
    quella di P. Mantoux (v., 1906) o quelle meno remote di T.S. Ashton
    (v., 1948) e di P. Deane (v., 1965), conservano negli anni la loro
    validità, anche se devono essere integrate dalle risultanze
    di ricerche particolari più recenti e sofisticate. La serie
    di tali innovazioni è rappresentabile come un intreccio,
    peraltro visibile solo a posteriori, di progressi tecnici di ordine
    meccanico e chimico, che nel lungo periodo si sostengono
    reciprocamente, nelle lavorazioni tessili, nella siderurgia e nel
    campo delle fonti di energia: vale a dire nei rami essenziali, per
    l'epoca, della produzione di beni di consumo e di beni per la
    produzione.I progressi del settore tessile furono più
    immediatamente percepibili ed ebbero nel giro di pochi decenni
    effetti economici e sociali molto appariscenti: soprattutto in
    questo settore si misurò sia il fenomeno della formazione del
    nuovo proletariato industriale, agglomerato in centri di nuovo tipo
    come Manchester, sia il dominio sui mercati internazionali che il
    nuovo modo di produzione, coi suoi bassi costi, consentiva. Gli
    avanzamenti nella siderurgia seguirono con minore celerità,
    ma costituirono, alla fine, la più solida base di una
    trasformazione veramente radicale e profonda che doveva coinvolgere
    non solo l'intera industria, ma anche i trasporti e l'insieme delle
    attività economiche in genere. L'innovazione fondamentale
    intervenuta in campo energetico, e cioè la macchina a vapore,
    doveva diventare il simbolo della rivoluzione industriale: essa
    consentì progressi decisivi negli altri due campi ora
    ricordati e, a sua volta, schiuse altre e varie possibilità.
    Le prime innovazioni che aprirono il ciclo rivoluzionario nel
    settore tessile risalgono alla prima metà del XVIII secolo e
    si manifestarono nel ramo allora più importante, quello
    laniero. Così è per la spoletta volante per telai di
    John Kay (1730), o per il filatoio di John Wyatt e Lewis Paul
    (1738). La loro diffusione, e il loro successivo moltiplicarsi, si
    verificò tuttavia solo con il volgere della seconda
    metà del secolo ed essenzialmente nel ramo cotoniero. Se la
    produzione laniera era, infatti, quella di gran lunga più
    importante nella precedente struttura manifatturiera inglese, fu
    invece quella cotoniera l'ambito in cui si realizzò il vero
    rivolgimento, il quale ebbe quindi anche come essenziale
    caratteristica l'affermarsi e l'imporsi di un prodotto praticamente
    nuovo. Infatti non soltanto il cotone era poco diffuso in
    precedenza, ma non si era ancora pervenuti tecnicamente alla
    possibilità di un solido tessuto interamente composto con
    tale fibra. La drastica riduzione dei costi che la rivoluzione
    industriale determinò in questo campo mutò le
    possibilità stesse del vestire, aprendo così la lunga
    serie dei mutamenti nel modo di vita prodotti dall'industrialismo.
    Come ha scritto D. Landes, "da secoli era in corso uno spostamento
    irregolare ma quasi ininterrotto verso stoffe più leggere, ma
    [con il cotone] la disponibilità di tessuti lavabili a buon
    mercato diede origine a nuovi modi di vestire dallo sviluppo
    potenziale imprevedibile. Il comfort e l'uso della biancheria non
    furono più riservati ai ricchi; il cotone permise di portare
    mutande e camicie a milioni di persone che prima indossavano
    soltanto i grossolani e sudici indumenti esterni" (v. Landes, 1969,
    p. 83). Questo tipo di processo sociale nei consumi si sarebbe
    ripetuto, nel corso dei successivi 200 anni di sviluppo
    dell'industria, moltissime volte. Le prime innovazioni aprirono
    degli squilibri fra i ritmi delle varie lavorazioni collegate,
    alcune delle quali subivano accelerazioni nei tempi di esecuzione,
    mentre altre segnavano il passo. Si ebbe quindi un effetto di
    sollecitazione al susseguirsi di innovazioni volte a eliminare le
    sfasature insorte nei tempi di approvvigionamento o di utilizzazione
    e le strozzature che l'avanzamento nei ritmi di una fase di lavoro
    provocava in altri. Così la diffusione del telaio di Kay
    provocò una strozzatura nella fornitura di filati che lo
    stesso filatoio ancora solo pionieristico di Paul e Wyatt non era in
    grado di risolvere. Ci riuscirono, invece, i filatoi di Hargreaves
    (1766), di Arkwright (1769) e di Crompton (1779). A questo punto,
    però, rimaneva di nuovo indietro la tessitura: il telaio
    meccanico di Cartwright (1787), che ebbe bisogno di qualche decennio
    di rodaggio, risolse questo problema. Indispensabili a rendere il
    materiale adoperato adatto alle più veloci lavorazioni furono
    alcuni progressi chimici, peraltro elementari. Questo schema di
    innovazioni mutuamente sollecitate e che si rincorrono (asimmetrie
    provocatorie fra processi interdipendenti) sarà poi una
    caratteristica permanente del progresso tecnico dell'età
    industriale. Il fenomeno è stato rappresentato da qualcuno
    con la metafora del 'saliente' in campo militare (v. Hughes, 1991).
In tempi recenti si è tentata una vera e propria
    programmazione dei miglioramenti tecnologici in settori o in grandi
    aziende. La felice reciprocità delle risposte tecnologiche
    intersettoriali è stata infatti una condizione essenziale
    della marcia vittoriosa dell'industrialismo; una crisi in questo
    processo di domande e risposte potrebbe avere conseguenze fatali. La
    molteplicità di avanzamenti tecnici su un largo fronte - sia
    pure diluita in un arco temporale di decenni - è
    perciò un aspetto essenziale della rivoluzione industriale,
    che quindi non può essere ridotta a un avvenimento
    settoriale. L'attività industriale può svilupparsi
    solo sulla base di una larga diversificazione e interconnessione
    interna, ed estende questi requisiti anche alle tradizionali
    attività agricole e a quelle dei servizi, non solo offrendo
    loro nuove potenzialità, ma anche rendendole sempre meno
    autosufficienti. Lo schema delle asimmetrie provocatorie fra
    processi interdipendenti, in certo senso, si ripropone anche a
    livello della struttura industriale, nella diversificazione
    settoriale. Come si è detto prima, infatti, la rivoluzione
    industriale non è solamente il trionfo dell'industria del
    cotone. Questo ebbe bisogno del progresso di altri settori, senza di
    che avrebbe trovato presto una barriera. E, per contro, diede luogo
    a una vera e propria ricaduta di conseguenze (fall out) più o
    meno indirette per altre attività. Talune fra queste (come la
    siderurgia e la meccanica) finirono poi con l'assumere il ruolo di
    'settore traente'. I progressi dell'industria siderurgica ebbero una
    maturazione più lenta, ma prepararono trasformazioni
    più generali e più profonde. Queste derivarono dal
    fatto che si rese largamente disponibile per una molteplicità
    di usi un materiale che prima era di difficile e costosissima
    lavorazione nonché di qualità e prestazioni ineguali.
    I primi progressi si erano avuti agli inizi del XVIII secolo con la
    sostituzione del carbon coke alla legna dei boschi (A. Derby, 1709),
    dapprima per la produzione della ghisa e poi per la successiva
    fucinatura in ferro e per la trasformazione in acciaio (H. Cort,
    1783-1784). Nel frattempo l'introduzione delle macchine a vapore
    nelle ferriere permise di applicare in queste una potenza
    così grande da modificare le possibilità della
    soffiatura nei forni e dell'energia meccanica per battere il metallo
    nelle forge (1775 circa). Questo duplice rapporto del carbon fossile
    con la fabbricazione siderurgica - come elemento combustibile
    più economico e, attraverso la macchina a vapore, come forza
    motrice di elevata potenza - fece dei paesi carboniferi i
    privilegiati dell'industrializzazione per un lungo periodo di tempo:
    sufficiente a determinare un livello differenziale di sviluppo e la
    conservazione della superiorità economica nei confronti di
    rivali sopraggiunti successivamente, pur in un contesto tecnologico
    non più così esclusivo. La funzione del carbone nella
    prima fase di sviluppo della moderna industria chimica, affermatasi
    verso la metà del XIX secolo, consolidò quel
    privilegio. James Watt, l'inventore della macchina a vapore in
    quella versione che ne rese possibile l'irradiarsi delle
    applicazioni (1769), fu salutato per molto tempo come l'eroe della
    nuova era. Watt introdusse in una precedente macchina a vapore
    (quella di Newcomen, 1705) dei perfezionamenti che riducevano a un
    quarto l'energia consumata. Nel giro di qualche decennio si
    arrivò poi, con successivi miglioramenti, a un consumo che
    era un terzo di quello stesso di Watt. L'interazione di questi
    progressi tecnologici fra loro non si fece molto attendere.
    Così come la maggiore potenza motrice consentì uno
    sviluppo senza pari dell'industria tessile e favorì la
    siderurgia, quest'ultima, con i suoi progressi, consentì la
    produzione di macchinari più resistenti e più duttili,
    atti a tollerare le più energiche sollecitazioni di una
    maggiore potenza. Si rese necessario, a questo punto, un progressivo
    affinamento delle lavorazioni meccaniche per la produzione dei
    meccanismi trasmissori e degli utensili ora azionati da forza
    motrice. Questi, per contro, poterono avvalersi di una maggiore e
    migliore siderurgia e quindi estesero progressivamente il campo
    delle loro applicazioni. La più sensazionale fra queste fu la
    trazione mobile per mare e per terra mediante macchina a vapore:
    soprattutto a partire dal 1830 circa si delineò nel mondo una
    rivoluzione nel campo dei trasporti, la quale doveva ridurre
    drasticamente i tempi di percorrimento delle distanze e i costi di
    spostamento per le merci e gli uomini. Questo fu il risultato
    più vistoso della rivoluzione industriale. Era nata, in modo
    evidente per tutti, una nuova economia, avente la capacità di
    coinvolgere nel proprio processo dinamico l'intero orbe terracqueo.
    Mutavano i modi di lavoro e, con essi, i rapporti sociali. 
Mutavano i modi di vita, con la diffusione di nuove merci e nuove
    abitudini, con il crescere dell'urbanizzazione e dei movimenti di
    uomini e merci: ciò che venne chiamato 'industrialismo'.
    Mutavano i rapporti fra le diverse aree del mondo: quelle arretrate
    venivano sottoposte a un più rapido assoggettamento da parte
    dell'area metropolitana industrializzata. Si formava un mercato
    mondiale: le grandi scoperte geografiche, da Colombo in poi, lo
    avevano preparato, ma un mercato mondiale, come sistema integrato e
    continuo di rapporti commerciali, nacque effettivamente solo con la
    rivoluzione industriale. 
    
    4. Le rivoluzioni industriali successive e i
      modelli di industrializzazione
      
Lo sviluppo dell'industria nell'età successiva alla
    rivoluzione industriale deve essere considerato da due punti di
    vista nettamente distinti, anche se connessi. Vi è, in primo
    luogo, la storia per così dire 'interna' dell'industria, la
    fenomenologia della sua diversificazione, della sua struttura
    organizzativa, della sua storia tecnologica, che ha sempre un suo
    livello di 'contemporaneità', di aggiornamento: lo stato
    delle arti, cioè del progresso raggiunto dalle conoscenze
    praticabili e sperimentate, indipendentemente da modi e forme della
    sua diffusione geografica, dalle sue relazioni con l'insieme
    dell'economia sia di un paese determinato che di regioni,
    continenti, mondo. Ma vi è anche un altro punto di vista dal
    quale l'industria va considerata: in quanto componente (essenziale)
    della crescita delle economie dei singoli paesi nel quadro evolutivo
    dell'economia mondiale. In questo senso la storia dell'industria
    è storia dell'industrializzazione, cioè del processo
    economico, e anche economico-politico, della diffusione
    dell'industria stessa: si potrà anche dire 'delle
    industrializzazioni', riferendosi all'unità dei differenti
    ambiti economici (nazionali, regionali, di area) in cui quel
    processo interviene.
Dal primo di questi due punti di vista si potrà parlare di
    fasi successive della storia industriale, che alcuni tendono a
    definire come un susseguirsi di 'rivoluzioni' intervenute nelle
    caratteristiche dominanti dell'attività trasformatrice.
    Ritorna, infatti, spesso, in relazione a queste fasi di mutamento,
    la formula 'seconda rivoluzione industriale' o anche 'terza
    rivoluzione industriale', se chi vuol marcare il carattere
    rivoluzionario del nuovo mutamento è più o meno
    consapevole del fatto che si è già ricorsi, in
    relazione a precedenti periodi di accelerato mutamento, a tale
    periodizzante metafora ordinale. Joseph Schumpeter, la cui teoria al
    riguardo è ancora un punto di riferimento essenziale per gli
    studiosi del progresso tecnico industriale, fece coincidere queste
    fasi con delle onde cicliche 'lunghe' dell'attività
    economica, dette di Kondrat´ev dall'economista russo che
    ritenne di averle individuate, caratterizzate nella fase di avvio
    espansivo dal prodursi di 'grappoli' di innovazioni. Si può
    osservare comunque che, con enfasi diversa, gli studiosi tendono a
    distinguere nella storia industriale moderna almeno quattro grandi
    fasi. La prima, quella della rivoluzione industriale 'classica',
    è contrassegnata dalla predominanza del settore tessile come
    produzione industrializzata e da un accresciuto bisogno di fonti
    energetiche meccaniche, e sollecita tecnicamente, anche se non
    ancora industrialmente, l'attività mineraria, meccanica e
    metallurgica: è l'età simboleggiata dalla macchina a
    vapore di Watt. La seconda, che si fa partire dal 1830 o dal 1840
    circa, sarebbe quella in cui prendono particolare rilievo e ampiezza
    le lavorazioni siderurgiche (e si hanno in questo campo innovazioni
    fondamentali, come il processo Bessemer, 1856, e il processo
    Siemens-Martin, 1857-1864) e che coincide pressappoco con la prima
    età delle ferrovie e della navigazione a vapore (e quindi con
    quella che è stata chiamata, per analogia, la 'rivoluzione
    dei trasporti') e l'uso mobile della macchina a vapore. Una terza
    fase viene generalmente collocata alla fine del XIX secolo, quando
    cominciano a prendere eccezionale rilievo gli aspetti chimici dei
    processi industriali: non soltanto nel senso del sorgere di una
    grande industria chimica (dei coloranti, degli esplosivi e dei
    fertilizzanti agricoli), ma anche nel senso che processi chimici si
    applicano sempre più al trattamento dei materiali
    tradizionali, migliorandone drasticamente le prestazioni e
    consentendo nuove leghe (per esempio l'alluminio) e nuovi materiali,
    come le prime fibre tessili artificiali. Ma il carattere
    rivoluzionario di questa terza fase è accentuato dalla
    comparsa di una nuova grande innovazione nel campo delle fonti di
    energia con l'introduzione dell'elettricità nei processi
    industriali, dopo che vengono perfezionate le tecniche per il suo
    trasporto a distanza (anni ottanta). In questo periodo, fra la fine
    del XIX secolo e gli inizi del XX, sorgono produzioni nuove, come
    quella delle automobili o quella degli aeromobili, si espande
    l'utilizzazione dei combustibili fossili liquidi e si delinea una
    prima traduzione del progresso industriale nei nuovi modi del
    consumo di massa. È allora che si manifesta la prima
    percezione di una 'seconda' rivoluzione industriale. Tuttavia, dopo
    la seconda guerra mondiale, l'eccezionalità della svolta
    costituita da quella precedente fase parve decisamente oscurata da
    nuovi, straordinari avvenimenti scientifico-tecnici, come
    l'utilizzazione dell'energia atomica, la moltiplicazione dei
    materiali sintetici prodotti dalla petrolchimica, e poi, infine e
    soprattutto, l'informatica: in effetti una vera novità
    rivoluzionaria, operante trasversalmente nell'industria e in tutta
    l'economia, che - con l'ausilio decisivo dell'elettronica e di altre
    nuove tecniche specialmente nelle telecomunicazioni - ha preso a
    'industrializzare' la trasformazione di eventi in informazioni
    esattamente programmabili e la loro trasmissione in forme
    suscettibili di trasformarsi istantaneamente in comandi immediati di
    lavoro per uomini, macchine, processi di ogni tipo che siano
    adeguatamente predisposti, ovvero in massicci ausili ai processi
    decisionali, centrali e periferici.
Queste quattro fasi della moderna storia industriale riflettono
    sostanzialmente le grandi svolte del processo di diversificazione
    della struttura industriale nel corso del suo progresso tecnologico:
    la nascita e la crescita di nuovi settori caratterizzanti
    (siderurgica, chimica, nuove fonti energetiche, informatica) hanno
    effetti che si ripercuotono grandemente su tutti gli altri,
    implicando nuovi materiali, nuove possibilità di prodotto,
    nuove capacità dimensionali, nuove forme organizzative.
    Soprattutto va notato, per la macroscopica rilevanza sociale del
    fenomeno, che quelle fasi innovative trovano un certo parallelismo
    nei contemporanei mutamenti degli aspetti organizzativi dei processi
    industriali: così è possibile attribuire alla seconda
    fase indicata (a partire, cioè, dal 1830-1840) il prorompere
    della 'grande' industria, cioè delle grandi concentrazioni
    industriali, che creano le premesse della separazione della
    proprietà dalla gestione (fenomeno dalla lunga e complessa
    storia) con il diffondersi della forma della società per
    azioni nell'iniziativa industriale. Mentre alla terza fase - quella
    che cade fra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo - si possono
    ascrivere l'introduzione del taylorismo nell'organizzazione del
    lavoro e l'istituzionalizzazione generalizzata del negoziato
    sindacale, nonché il diffondersi di forme di controllo del
    mercato da parte dell'industria, con la formazione di trusts e
    cartelli. La quarta fase, infine, che pareva dovesse essere quella
    dell'automazione dei processi industriali, lo è stata solo
    limitatamente, e pare invece piuttosto caratterizzata dalla
    diffusione di tecniche razionali di management, dall'organizzazione
    psicologica del consumo su larga scala (attraverso i mass media),
    dall'ampiezza assunta dal fenomeno della multinazionalità
    delle grandi imprese, nonché da una crescita eccezionale del
    potere sindacale di contrattazione.
Se veniamo ora a considerare l'altro dei due punti di vista da cui
    la storia industriale può essere riguardata - quello
    dell'espansione dell'industria nell'economia mondiale - si assiste,
    anche qui, a fasi ben distinte, in gran parte e a grandi linee
    coincidenti con quelle riscontrabili nella storia 'interna'
    dell'industria. In un primo periodo l'industria moderna è un
    fatto essenzialmente inglese. Soltanto nella seconda metà del
    secolo un 'contagio' assai lento maturato nel frattempo lungo una
    fascia privilegiata dell'Europa continentale - fra Paesi Bassi,
    Francia nordorientale, Germania occidentale, Svizzera e talune
    regioni dell'Impero austro-ungarico (v. Pollard, 1981) - prese le
    proporzioni di un'effettiva e rapida industrializzazione. Si
    avvantaggiarono di più, naturalmente, le regioni che
    disponevano di giacimenti carboniferi e metallurgici. Lo stesso
    'albo d'oro' delle nuove invenzioni industrialmente feconde, il
    quale da Watt a Bessemer era stato praticamente monopolio degli
    Inglesi, cominciò a popolarsi di nomi continentali, in gran
    maggioranza tedeschi (Siemens, Otto, Daimler, Diesel). L'industria
    chimica, la nuova motoristica e l'elettromeccanica - i settori
    avanzati della terza fase della storia industriale moderna - ebbero
    in Germania la patria d'elezione. Contemporaneamente, dall'altra
    parte dell'Atlantico, si assisteva alla trasformazione industriale
    degli Stati Uniti d'America, che doveva assumere dimensioni
    gigantesche nel corso del XX secolo. Tra la fine del secolo e la
    prima guerra mondiale l'industrializzazione investì anche
    alcune regioni europee della Russia nonché il Giappone e
    l'Italia del nord. È singolare che l'industrializzazione,
    intesa come processo che tende a trasformare l'insieme dell'economia
    di singoli paesi, si sia sostanzialmente fermata per lungo tempo
    alle frontiere raggiunte negli anni antecedenti la prima guerra
    mondiale. Dopo di allora nuclei d'industria dei settori più
    svariati sono sorti in molti paesi dei vari continenti, ma non come
    elemento dominante di quelle economie, capace d'indurne una rapida e
    radicale trasformazione. Questo, ovviamente, con qualche eccezione
    che chiaramente si ricollega a un peculiare e stretto rapporto con i
    massimi centri del mondo industrializzato (come Canada o Israele).
    Unico vero fenomeno nuovo di allargamento territoriale
    dell'industrializzazione mondiale, dotato di caratteristiche
    originali, è la formazione di una fascia di aree
    estremo-orientali (Taiwan, Corea del Sud, Hong Kong, Singapore),
    detta del NIC (New Industrial Countries).
Numerosa è invece oggi la schiera dei paesi che si
    considerano 'in via di sviluppo', nei quali sono in corso sforzi
    particolari per un'industrializzazione accelerata: tali paesi sono
    però essi stessi indice di una dicotomia che si è
    venuta cristallizzando nella geografia economica del mondo. Questa
    impasse che si registra nella diffusione delle strutture industriali
    nel mondo pone un complesso problema d'interpretazione
    storico-economica da una parte e un serio interrogativo
    politico-economico dall'altra. Quali fattori l'hanno determinata?
    Con quali mezzi essa può essere superata? Nella visione
    ottocentesca del progresso economico l'industrializzazione non era
    concepita come elemento necessario. La teoria allora dominante della
    divisione internazionale del lavoro induceva a ritenere che ogni
    paese avrebbe potuto massimizzare il proprio dividendo nazionale
    specializzandosi in quelle produzioni che era in grado di effettuare
    - per fattori geografici o d'altra natura - a costi comparativamente
    più bassi: e quindi anche in produzioni esclusivamente
    agricole. In tal modo sarebbe stato possibile procurarsi attraverso
    lo scambio, alle condizioni più vantaggiose, qualsiasi altro
    bene. Tale risultato non si sarebbe potuto ottenere nella stessa
    misura se, viceversa, ciascun paese avesse tentato d'impiantare al
    proprio interno produzioni sfavorite in partenza, vuoi per mancanza
    di materie prime o fonti energetiche adeguate, vuoi anche per la
    scarsa disponibilità di fattori storicamente condizionati,
    come una mano d'opera specificamente addestrata, ecc. Tale teoria -
    benché tutt'altro che priva di fondamenta scientifiche entro
    un determinato quadro di condizioni - si caratterizzava per la sua
    spiccata aderenza agli interessi delle nazioni già
    industrializzate e allora in posizione dominante sui mercati dei
    beni industriali. La sua impostazione era statica e di breve
    periodo: essa tendeva, in primo luogo, a sopravvalutare la
    convenienza derivante dai fattori esistenti e già operanti
    (naturali o storici) rispetto a quelli acquisibili (sia pure a
    prezzo di un periodo intermedio di svantaggi) mediante il potenziale
    dinamismo tecnologico dell'industria, comparativamente assai
    più grande di quello pur possibile in agricoltura, e da cui
    non è illecito, dunque, attendersi un'alterazione vistosa
    nello stesso quadro dei vantaggi comparati. In secondo luogo essa
    ignorava la diversità della forza contrattuale che finisce
    con lo stabilirsi fra paesi a struttura produttiva industriale e
    paesi a struttura produttiva agricola e comunque arcaica, spesso
    'monocolturale', cioè orientata tutta su un solo prodotto
    fondamentale, soggetto, oltre tutto, a grandi incertezze per le
    oscillazioni di prezzo. Ma soprattutto quella teoria non prevedeva i
    fattori sociali che col trascorrere del tempo - essendosi formata
    una sovrappopolazione relativa anche a seguito degli effetti
    destabilizzanti introdotti nelle vecchie strutture dal contatto con
    il mercato mondiale - avrebbero potuto indurre i singoli paesi non
    industriali, già dotati di autonomia politica o pervenuti
    successivamente a questa, a porsi il problema di strutture
    economiche suscettibili di una più elevata creazione di posti
    di lavoro. E ciò si sarebbe verificato soprattutto a partire
    dal momento in cui alcuni parziali effetti civili e sanitari
    dell'industrializzazione si fossero diffusi nel mondo provocando
    un'impennata nell'aumento di popolazione, come conseguenza,
    principalmente, di diminuiti tassi di mortalità.
Le teorie che cercano di spiegare questa grande impasse storica
    dell'industrializzazione mondiale sono riconducibili sommariamente a
    tre punti di vista. Un primo punto di vista è quello che fa
    dipendere lo sviluppo industriale capitalistico dall'esistenza di
    certe condizioni nella struttura sociale precedente, favorevoli a
    una sua trasformazione. Assumendo tale orientamento si finisce con
    il far dipendere più o meno interamente le possibilità
    evolutive presenti da quelle passate. Le società che avevano
    raggiunto fra il XVIII secolo e la fine del XIX un certo ordine
    sociale - maturando in sostanza un superamento più o meno
    completo di un preesistente sistema feudale (che comunque
    sembrerebbe a taluni aver creato premesse forse essenziali) - si
    sono industrializzate. Le altre no, per la mancanza di tali
    prerequisiti istituzionali. Donde la necessità, ove queste
    ultime vogliano superare tale carenza, di un volontaristico ed
    'eroico' salto di fase storica. Il che, naturalmente, taluni
    ritengono possibile e altri, invece, illusorio. Un secondo punto di
    vista - sovente oggetto di una particolare enfasi ideologica in
    quanto è quello che meglio si associa all'impulso
    conflittuale verso l'esterno proprio del nazionalismo dei paesi che
    si rendono politicamente indipendenti - parte dal presupposto che il
    sistema di rapporti economici internazionali creato dallo sviluppo
    con implicazioni colonialistiche e imperialistiche delle prime
    nazioni industriali avrebbe deformato gravemente le economie del
    resto del mondo. L'evoluzione economica degli altri paesi sarebbe
    stata orientata nel senso di una subordinazione, la quale avrebbe
    dato luogo addirittura a situazioni handicappanti, pregiudizievoli
    al loro ulteriore sviluppo, per esempio costringendone la produzione
    in ambiti limitati e senza prospettive di diversificazione, oppure
    consolidando o imponendo in essi un ordinamento sociale retrogrado e
    ostile al progresso. Un terzo punto di vista sottolinea invece le
    crescenti difficoltà storiche d'ingresso nell'area
    economicamente industrializzata del mondo, e questo proprio via via
    che l'industrialismo progredisce, in quanto esso diviene fenomeno
    più complesso tecnologicamente, economicamente e anche
    socialmente, più difficile, pertanto, da recuperare e
    raggiungere. La maggiore complessità della realtà
    industriale imporrebbe a ogni nuova economia nella quale si venga a
    manifestare, o venga politicamente introdotta, una tendenza allo
    sviluppo - dato che questo non potrebbe realizzarsi che a un livello
    aggiornato e rispettando certe indivisibilità proprie di tale
    livello - di concentrare massicciamente, e in breve giro di tempo,
    uno sforzo che i paesi 'primi arrivati' hanno compiuto più o
    meno gradualmente in un periodo a volte secolare. In altre parole,
    la diffusione internazionale dello sviluppo industriale avrebbe
    trovato degli ostacoli proprio per effetto del dispiegarsi stesso di
    questo sviluppo nei paesi della prima ondata (spesso chiamati first
    comers, primi arrivati), essendo l'industrializzazione un fenomeno
    che non 'sta fermo' in attesa di lasciarsi imitare, ma cresce
    continuamente su se stesso. In un primo tempo, pertanto, una certa
    diffusione di strutture industriali, in alcuni paesi non troppo
    dissimili dai primi, sarebbe stata consentita dalla relativa
    semplicità delle prime tecnologie, e quindi dalla loro
    più agevole trasmissibilità e dal costo non
    inaccessibile dell'investimento industriale connesso; d'altra parte,
    l'ancora elevato costo dei trasporti (poi via via ridotto
    dall'introduzione dei portati dell'industrializzazione in questo
    settore) avrebbe svolto oggettivamente la funzione di una barriera
    protettiva per i nuovi paesi avviati all'industria rispetto alla
    maggiore forza competitiva, ai puri costi di produzione, delle
    regioni pioniere. Il venir meno di queste due condizioni - come
    è stato messo in rilievo specialmente da P. Bairoch (v.,
    1963) - avrebbe progressivamente accresciuto le difficoltà
    d'ingresso nell'area industriale. Infatti la rivoluzione dei costi
    di trasporto tende, come è noto, a favorire l'accentramento
    nelle strutture produttive, e, dal canto loro, il più alto
    tasso di accumulazione di capitale necessario e le maggiori
    conoscenze e abilità richieste dall'industria moderna
    spingono nella stessa direzione.
A tali considerazioni si deve aggiungere che la concentrazione
    territoriale dell'industria tende a creare essa stessa - come ora
    vedremo - una maggiore convenienza al sorgere nella medesima area di
    nuove attività, vincendo l'attrattiva di taluni particolari
    vantaggi (come i più bassi costi di mano d'opera non
    qualificata o delle aree da utilizzare) che possono essere talvolta
    offerti in zone vergini. Lo stesso sforzo iniziale
    d'industrializzazione - lo hanno sottolineato soprattutto P.
    Rosenstein-Rodan e A. Gerschenkron - deve a un certo punto della
    storia industriale, per risultare efficace, svolgersi su un fronte
    esteso, per blocchi. Tutto ciò impone allora, col trascorrere
    del tempo, uno sforzo sempre più cospicuo, e una
    mobilitazione di energie più drastica, per conseguire il
    risultato.Ne deriva che il modello gradualistico e più o meno
    liberista, cui corrisponde la vicenda storica dei primi paesi
    industriali, dovrebbe di necessità venire progressivamente
    capovolto per dar luogo a industrializzazioni con un sempre maggiore
    contenuto d'iniziativa centralizzata, estesa però a un largo
    numero di settori industriali capaci di fornirsi reciprocamente: per
    esempio iniziativa di banche, ma anche e - alla fine - soprattutto,
    iniziativa politica con aiuto dello Stato. Il tutto, quindi, con
    accelerazione dei ritmi e con controlli economici e sociali
    più o meno autoritari. Ciò renderebbe organicamente
    impossibile che i processi d'industrializzazione si svolgano in
    obbedienza a un unico modello generale. La gran parte delle
    caratteristiche più salienti della trasformazione si
    presenta, in effetti, nei vari casi storici in cui questa riesce a
    verificarsi, in modo alquanto diverso. Gerschenkron ha tentato di
    elencare una serie significativa di tali caratteri, i quali possono
    presentarsi, in tempi differenti e in differenti paesi, in modo
    affatto opposto. Ad esempio, in taluni casi l'industrializzazione
    appare come un fatto autoctono, in altri derivato, cioè
    fortemente dipendente da sollecitazioni che provengono da altre aree
    dell'economia mondiale; il processo stesso può svolgersi in
    forma autonoma, per effetto di forze spontanee dell'economia, oppure
    venire forzato dall'autorità politica; può
    indirizzarsi prevalentemente verso la produzione di beni di consumo
    oppure fare parte assai larga o addirittura preponderante a quella
    di beni strumentali (e ciò sin dall'inizio); può aver
    luogo in situazione inflazionistica o invece di stabilità
    monetaria; può, o non, mettere capo a vaste trasformazioni
    strutturali nell'insieme dell'economia; il suo svolgimento
    può essere caratterizzato da gradualità e
    continuità o, per contro, da discontinuità,
    cioè da brusca accelerazione; il suo rapporto con il
    preesistente settore agricolo può essere di
    reciprocità nel progredire, ma può anche essere invece
    conflittuale, implicando pertanto nell'agricoltura stagnazione e
    regresso; differenti possono essere le fonti della formazione del
    capitale per l'investimento industriale; infine la sua motivazione,
    negli agenti che principalmente lo hanno promosso, può essere
    prevalentemente economica o politica. A questi elementi per una
    tipologia dell'industrializzazione altri se ne potrebbero aggiungere
    o sostituire: è evidente comunque la diversità delle
    implicazioni di ogni genere - economiche, sociali e politiche - che
    possono accompagnarsi a ciascuna di queste possibilità, il
    che giustifica pienamente la riflessione storiografica al riguardo.
    Per Gerschenkron il problema fondamentale sta nel ricercare se vi
    possa essere un principio esplicativo unitario al quale esse siano
    riconducibili e che permetta di comprendere se esse tendono ad
    associarsi fra loro in base a una logica. La risposta che questo
    autore dà individua nel grado di arretratezza iniziale
    dell'economia in cui si avvia il processo d'industrializzazione la
    variabile indipendente rispetto alla quale tutte le alternative
    riguardanti gli aspetti prima indicati del fenomeno sarebbero
    variabili dipendenti. In pratica, cioè, più
    un'economia viene a trovarsi inizialmente arretrata e più
    imponente dovrebbe essere lo slancio necessario e quindi discontinuo
    il processo; maggiore l'impulso dato alla produzione di beni
    strumentali, quelli cioè necessari all'allargamento della
    produzione nel suo insieme; più grandi le dimensioni delle
    attrezzature iniziali; più drastica la compressione dei
    consumi della popolazione; meno importante la parte dell'agricoltura
    come mercato per i prodotti industriali e quindi più soggetto
    a sproporzione il parallelo sviluppo di essa; più decisiva la
    parte dei finanziatori esterni all'industria stessa, come
    intermediari finanziari, o dello Stato stesso, dato che le
    dimensioni dello sforzo d'avvio e il tempo in cui questo deve
    compiersi non consentono di fondarsi sulla graduale formazione di
    capitale interna alle imprese.
Può ricollegarsi a questo ordine di problemi la fenomenologia
    della diversità dei grandi modelli di capitalismo industriale
    che è oggi oggetto di interesse diffuso: da un lato i modelli
    anglosassoni, quello inglese e quello americano che lo ha seguito
    superandolo per dimensioni; dall'altro quello, tipicamente
    'ritardatario', proprio della Germania e del Giappone (che nella
    seconda metà del XIX secolo guardò molto, per la sua
    politica di industrializzazione, appunto alla Germania). I due
    modelli sarebbero principalmente dissimili in relazione alle
    rispettive strutture 'capitalistiche', di finanziamento, cioè
    di proprietà e di controllo, il che riconduce largamente,
    appunto, alle modalità degli impulsi storici iniziali.
    Nell'area anglosassone l'origine prettamente privatistica della
    formazione del capitale industriale si sarebbe consolidata in una
    struttura di imprese-merce in cui la proprietà e la gestione
    (management) sono nettamente dissociate e che il mercato borsistico
    consente di comprare e vendere, operando al tempo stesso come
    attento giudice, controllore e stimolatore di comportamenti
    efficienti della gestione, oltre che, sempre in relazione a tutto
    questo, come fonte principale della provvista di nuovi capitali per
    l'espansione delle imprese stesse. Del tutto diversa la struttura
    del capitalismo industriale tedesco, nel quale l'origine del
    finanziamento e del controllo bancario continua a farsi sentire,
    dando luogo a una configurazione di imprese fortemente raggruppate,
    coordinate, a proprietà difficilmente trasferibile, in cui la
    banca resta in qualche modo supremo garante del controllo di
    efficienza e decisore in ultima istanza di strategie. Benché
    con peculiarità tutte proprie, derivanti da una storia
    culturale antica e diversa, è analogamente accentrata e
    coordinata, per cerchi concentrici successivi, la struttura
    capitalistica giapponese. Intermedio può considerarsi il caso
    francese, mentre in Italia il fallimento - negli anni trenta - del
    modello tedesco banca-industria, con cui era partita
    l'industrializzazione italiana, ha portato alla formazione di un
    ibrido, oggi ritenuto transitorio, nel quale coesistono un forte
    settore di industria pubblica (nata da salvataggi con cui lo Stato
    impedì il crollo del sistema negli anni trenta), una grande
    impresa ancora molto arroccata nel controllo proprietario familiare
    (difeso da peculiari strutture finanziarie), e un settore di media
    impresa, comparativamente molto diffuso. Le formulazioni di
    Gerschenkron, che definiscono, in fondo, le coordinate storiche di
    questo assetto, costituiscono il più coraggioso tentativo di
    sintesi in materia che sia stato finora compiuto: ancora oggi
    formano il principale punto di riferimento delle maggiori
    discussioni sull'argomento che ritengano utile l'apertura alla
    prospettiva storica. E questo nonostante i loro limiti, fra cui
    principalmente, forse, la modesta considerazione del ruolo delle
    influenze reciproche di aree economiche diverse e delle forme e
    modalità delle 'correnti di trasmissione' che possono
    stabilirsi fra posizioni originarie di centro e di periferia (su
    questo hanno, in modi diversi, aperto una strada, non ancora
    adeguatamente battuta, Fernand Braudel e Sidney Pollard). Tali
    concettualizzazioni interpretative appartengono comunque a quelle
    astrazioni di media portata, sorta di generalizzazioni empiriche non
    suscettibili né bisognose di una rigorosa formalizzazione, ma
    estremamente utili - come ha rilevato un altro importante storico
    dell'industrializzazione, di diverso impianto, Landes - nell'analisi
    di fenomeni storici: soprattutto se tale analisi non vuole
    disperdersi nell'irriducibilmente specifico e individuale e, alla
    fine, meramente descrittivo, ovvero annullarsi in apriorismi
    concettuali estranei allo svolgersi effettivo degli eventi e a una
    visione unitaria del processo storico, come capita sovente
    nell'esercizio puramente teorico di costruzione di modelli formali.
    Diverse pretese ha la cosiddetta new economic history che mira a
    coniugare - nello studio di processi storico-economici - modelli
    econometrici, il più ampio uso dei dati quantitativi e un
    rigoroso ragionamento basato sull'assunzione del calcolo economico
    individualistico (generalmente nella forma della teoria economica
    nota come 'neoclassica'), strumenti con i quali è possibile,
    a volte, tentare la verifica di ipotesi formulate in base alle
    astrazioni 'di media portata'.
Altri tentativi riconducibili nell'area delle astrazioni di media
    portata per lo più non considerano isolatamente il fenomeno
    dell'industrializzazione in senso stretto, ma assumono quello della
    crescita economica nel suo insieme, pur collocando al centro
    dell'analisi, naturalmente, l'industrializzazione stessa. Fra coloro
    che si sono mossi in questa direzione è da segnalare
    soprattutto H. Chenery, il quale non parla di 'tipologie'
    bensì di 'sentieri' dello sviluppo industriale. Egli
    sottolinea altresì l'importanza delle dimensioni territoriali
    del paese cui si riferisce il caso di sviluppo. È evidente
    che le dimensioni dell'area condizionano strettamente sia
    l'entità dei rapporti con l'esterno di una data economia, sia
    la composizione di tali rapporti. Ne risulta quindi influenzato il
    suo grado d'integrazione interna e pertanto l'orientamento nella
    composizione delle sue produzioni. Chenery innesta queste
    considerazioni su una ipotesi relativa alla potenzialità
    differenziata di crescita dei vari settori industriali, condotta in
    termini che discendono dall'impostazione Allan Fisher-Colin Clark
    sopraricordata, e che si basa sulla diversa elasticità della
    domanda di differenti gruppi di prodotti al crescere del reddito.
    Secondo Chenery la stessa struttura industriale si stratificherebbe
    al modo dei grandi settori fisheriani e obbedirebbe, nella crescita,
    a un'analoga logica differenziata: si avrebbero, cioè,
    industrie 'iniziali', industrie 'intermedie' e industrie 'ultime'.
    Viene così delineata una relazione, che può prestarsi
    a fecondi sviluppi, fra dimensioni territoriali, grado di apertura
    esterna, composizione strutturale e capacità di crescita.
    Siffatta impostazione ha il pregio di valorizzare meglio, rispetto a
    quella di Gerschenkron, la variabilità strutturale dipendente
    dalla collocazione internazionale di un'economia in via
    d'industrializzazione, mentre l'impostazione di Gerschenkron
    è invece più sensibile alla funzione del tempo storico
    nel determinare il quadro condizionale dell'industrializzazione, e
    quindi, anche qui, delle forme e della struttura di questa in paesi
    che l'affrontino in tempi diversi. Non è però
    impossibile immaginare una riflessione comprensiva che tenga conto
    di tutti questi aspetti, assegnando a ciascuno di essi il dovuto
    peso. Gli elementi sui quali potrebbe fondarsi un tentativo siffatto
    risalteranno più chiaramente ove si considerino brevemente i
    fattori che regolano la convenienza alla localizzazione delle
    industrie e le loro relazioni con le diversità tipologiche
    dei settori industriali. Queste ultime comportano infatti una
    sensibilità non uniforme ai fattori di localizzazione. Da
    tutto ciò deriva una variabilità storica
    dell'influenza dei fattori di localizzazione in presenza di
    mutamenti tecnologici, economici e sociali. In più, a tutto
    questo si sovrappongono fattori pubblici obbedienti a una logica
    diversa.
Giova sottolineare però, per concludere sul 'mistero' dei
    fattori dell'industrializzazione, che la riflessione più
    recente tende, in misura sempre più accentuata, a valorizzare
    l'importanza decisiva della formazione storica di 'capitale umano':
    l'istruzione generale e specifica, cioè la cultura diffusa, i
    costumi e le abitudini sociali favorevoli all'economia moderna,
    nonché la cultura civica atta a far funzionare le
    istituzioni. Laddove le macchine possono senza difficoltà
    essere importate in una economia, e così gli uomini come
    entità fisiche, non è così facile per i fattori
    culturali, i quali si formano, per lo più, soltanto in tempi
    lunghi. 
    
    5. Come funziona il dinamismo industriale: il
      progresso tecnico
      
Caratteristica dominante dell'industria moderna è,
    come si è detto, il grande dinamismo tecnologico. Il rapporto
    fra scienza e tecnologia nell'attività industriale è
    stato oggetto di una larga messe di studi. In genere si tende ad
    affermare, giustamente, la crescente importanza della scienza per lo
    sviluppo dell'attività industriale, delle sue
    possibilità e dei suoi orizzonti. Ma si osserva anche che la
    tecnologia, come tale, è fenomeno dotato di una sua
    specificità e non si trova in rigida dipendenza dal progresso
    scientifico. Come ha osservato Rosenberg (v., 1991), "se la specie
    umana si fosse limitata al solo sfruttamento di quelle tecnologie
    delle quali avesse compreso in senso scientifico il funzionamento,
    essa sarebbe scomparsa dalla scena già da parecchio tempo".
    Le tecnologie sono conoscenze a livello spesso limitato di
    profondità, ma sono con frequenza esse stesse la base per
    nuovi miglioramenti tecnologici, in modo indipendente e autonomo dai
    progressi della scienza. 
Per contro, anche quando il cambiamento tecnologico dipende da nuove
    conoscenze scientifiche, è un problema affatto specifico, a
    volte più complesso di quello scientifico stesso, convertire
    la conoscenza scientifica in beni e servizi utili.Un problema di
    particolare rilevanza è però la logica
    dell'unità operativa che è il nucleo
    dell'attività industriale, cioè l'impresa, nel suo
    rapporto con la tecnologia. Come, perché e quando le nuove
    tecnologie vengono introdotte nell'attività produttiva
    dell'industria generandone lo specifico dinamismo che si traduce in
    aumento di produttività, miglioramento funzionale di
    qualità, offerta di nuovi prodotti? Per gli economisti, fra i
    quali hanno dato rilievo centrale a questo problema soprattutto Marx
    e Schumpeter, la spiegazione classica sta nella tendenza alla
    ricerca del maggior profitto da parte dell'impresa industriale
    capitalistica, in condizioni di stimolo concorrenziale e di
    variabilità nei prezzi relativi dei fattori occorrenti al
    processo produttivo, o anche, per Schumpeter, in particolari
    circostanze, in condizioni di monopolio. Benché l'andamento
    dei prezzi relativi dei diversi beni che entrano nella produzione
    possa influenzare il progresso tecnico in molti modi, l'attenzione
    è stata principalmente rivolta, a livello macroeconomico, al
    rapporto di scarsità relativa, o comunque di costo relativo,
    fra i grandi fattori della produzione, cioè capitale, lavoro
    e risorse naturali, specie nel lungo periodo. Qui, in effetti,
    può essere trovata una sollecitazione di natura aggregata a
    risparmiare lavoro e a impiegare capitale, quando il primo scarseggi
    e sia caro e il secondo sia disponibile, in quantità e costo
    adeguato, a surrogare il primo, con stimolo alla ricerca delle
    condizioni tecniche che consentono di farlo. Per esempio, una
    comparazione della storia economico-tecnologica americana e inglese
    del XIX secolo mostra come l'evoluzione americana sia stata
    più marcatamente indirizzata verso l'accelerazione
    tecnologica dal fatto che l'offerta di lavoro era più scarsa
    e cara (v. Habakkuk, 1962; v. Toninelli, 1993).
Le condizioni culturali di questa possibilità di trasformare
    capitali in tecniche risparmiatrici di lavoro sono naturalmente un
    problema concettualmente indipendente. Per quanto riguarda le
    origini della prima rivoluzione industriale è probabile che
    solo lo storico in senso stretto possa tentare di ricostruire il
    contesto in cui la presenza di fattori produttivi adeguati e azioni
    economicamente motivate si sono combinate con condizioni culturali
    idonee a rispondere con un'esplosione di innovazioni tecnologiche
    alle sollecitazioni economiche, producendo così una sorta di
    mutazione genetica nella vita economica. Una volta intervenuta,
    questa mutazione ha condizionato i modi successivi della scelta
    economica, il che, come è stato rilevato, avviene anche per
    le forme stesse del progresso tecnico (fenomeno della path
    dipendence, cioè delle abitudini precedenti che condizionano
    il futuro; cfr. P. A. David, in Parker, 1986). Per lungo tempo,
    comunque, gli economisti hanno prudentemente preferito considerare
    il progresso tecnico una variabile esogena, cioè esterna al
    sistema in senso stretto, nei loro modelli di funzionamento
    dell'economia. In tempi più recenti, invece, il progresso
    tecnico ha assunto un andamento di flusso ininterrotto,
    ancorché caratterizzato da discontinuità, e questo ha
    incoraggiato a interinarlo, come variabile endogena, in molti
    modelli economici. Nella pratica stessa si è verificato, del
    resto, che le imprese industriali, specialmente le maggiori, tendano
    ormai a considerare la 'ricerca e sviluppo' (R&S) una posta
    normale, spesso di valore strategico, dei loro investimenti. La
    logica della ricerca conserva evidentemente proprie
    discontinuità e imprevedibilità, ma la sua massiccia
    programmazione consente ormai, su basi probabilistiche, di inserire
    questa variabile nel calcolo dell'impresa industriale.
 
6. La divisione internazionale del lavoro e
      l'industria nel mondo
      
Le attività industriali si distribuiscono sul territorio in
    base a criteri studiati tradizionalmente dalla teoria della
    localizzazione delle attività economiche, assai utile per la
    comprensione non solo delle logiche di distribuzione dell'industria
    all'interno di un paese, ma anche per la sua distribuzione su scala
    macrogeografica, quella che tradizionalmente viene chiamata dagli
    economisti 'divisione internazionale del lavoro'.
I moventi della localizzazione ispirati al calcolo economico partono
    da valutazioni relative ai costi di approvvigionamento, di
    trasformazione e di distribuzione e ai costi di transazione - di
    informazione, negoziazione, autorizzazione, reclutamento, ecc. -
    relativi a ciascuna di queste fasi (e che oggi la teoria economica
    tende a distinguere specificamente, permettendo così di
    spiegare meglio molti fenomeni prima considerati più
    sbrigativamente). Naturalmente l'ampiezza della gamma delle
    alternative considerate varia in funzione delle dimensioni
    dell'operatore che deve compiere la scelta: un piccolo imprenditore
    si porrà un numero minore di alternative possibili che non
    una società multinazionale. Di conseguenza l'effetto
    complessivo delle scelte sarà influenzato dal modo in cui
    è composta la massa di coloro che sono chiamati a prendere le
    decisioni, il che varia storicamente, così come variano
    storicamente, del resto, le stesse possibilità tecniche che a
    questi si offrono di allargare le proprie possibilità di
    scelta, in dipendenza sia dall'evoluzione economica generale, sia
    dallo sviluppo di funzioni amministrative pubbliche che agiscono
    indirettamente sul livello dei costi di transazione in genere.
La teoria distingue per lo più i fattori economici della
    localizzazione in due gruppi, a seconda che prevalga il criterio
    della vicinanza alle risorse impiegate (localizzazione resources
    oriented) o quello della vicinanza ai mercati di smercio
    (localizzazione market oriented). Storicamente sembra aver avuto
    più peso, negli effetti complessivi, l'attrazione dei mercati
    di smercio rispetto a quella delle risorse da impiegare: ciò
    in conseguenza di un processo cumulativo e agglomerativo in cui i
    moventi resources oriented sono in larga misura apparsi sopraffatti
    in molti modi da quelli market oriented, un processo che
    però, a ben vedere, tende alla fine a confondere assai spesso
    i due moventi. La diversificazione produttiva dei sistemi
    industriali, infatti, è venuta moltiplicando enormemente il
    numero delle industrie che hanno per clienti altre industrie,
    formando un amplissimo mercato interindustriale intermedio rispetto
    a quello del consumo finale. L'iniziativa industriale nasce
    così sempre più largamente dalla percezione diretta,
    in loco, della possibilità di sviluppare una nuova produzione
    indipendente, sulla base di precise possibilità di
    approvvigionamento industriale, oltre che di mercato. 
Imprese di grandi dimensioni finiscono col crearsi una rete di
    piccoli e medi subfornitori adiacenti mentre, in circolo, la miriade
    di piccole industrie fa da mercato per le maggiori imprese
    produttrici di beni strumentali. D'altra parte il progresso tecnico
    amplia la possibilità di sostituzione di risorse
    originariamente vincolanti al territorio, per cui l'agglomerazione
    stessa diventa una parte sempre più grande delle complessive
    fonti di offerta da cui si attingono gli inputs da impiegare nella
    produzione. Dall'agglomerazione nasce altresì la formazione
    di funzioni specializzate intermediarie di fornitura alle industrie,
    specie minori, che riduce la necessità della ricerca diretta.
    Ma soprattutto la complessità delle industrie appartenenti
    alla più recente stratificazione tecnologica riduce la
    dipendenza da un solo fattore tecnico della produzione (per esempio
    una materia prima), estendendola a una gamma di altri fattori
    (materie ausiliarie, macchinari, pezzi di ricambio, ecc.).
A tutto ciò si deve aggiungere che l'agglomerazione crea mano
    d'opera addestrata e la capacità di formarla, e ne diviene in
    pratica il più grande serbatoio. Essa, insomma, moltiplica i
    capitali, le capacità imprenditoriali, le suggestioni
    tecniche, le opportunità d'investimento e la domanda di
    lavoro, nonché l'offerta stessa di lavoro in quanto concentra
    da molteplici provenienze mano d'opera migratoria. In un certo senso
    la nozione stessa di agglomerazione finisce con l'annullare la
    distinzione fra situazione geografica caratterizzata da una
    prevalente offerta di risorse originarie e situazione geografica
    caratterizzata da un prevalente sbocco di mercato. Si crea quindi
    una convenienza apparentemente paradossale, nell'avviare una nuova
    impresa, a localizzarla nella stessa area dove si addensano
    più concorrenti; e la possibilità di avvalersi, in
    aree così specializzate, di agevoli forniture esterne
    permette, in molti casi, di mantenere entro dimensioni ridotte le
    imprese (fenomeno dei 'distretti industriali'). In tal modo, dunque,
    ciò che per gli uni è 'mercato', per l'altro è
    risorse, le motivazioni si intrecciano e la localizzazione
    dell'industria finisce per essere orientata dall'industria stessa.
La tendenza agglomerativa di cui si è detto è operante
    sia nell'ambito infranazionale, ove dà luogo a
    disparità regionali, sia nel quadro della divisione
    internazionale delle attività economiche. Contro questa
    logica può agire, però, un movente politico: lo Stato
    o un'altra autorità territoriale possono avere interesse a
    modificare in un'area data le condizioni economiche generali; o
    può esservi una ragione militare o di prestigio, oppure un
    motivo urbanistico o ecologico; ovvero ancora pressioni sociali,
    oppure calcoli politici circoscritti. In tali casi le
    autorità politiche possono promuovere iniziative industriali
    sia direttamente, con considerazione limitata o nulla delle
    convenienze economiche immediate, sia indirettamente, limitandosi in
    tal caso a modificare con sussidi, integrazioni, incentivi, i
    termini del calcolo economico delle imprese. Così si ha un
    trasferimento di maggiori costi dalle imprese alla
    collettività, in previsione di maggiori benefici futuri per
    la collettività stessa o, in casi patologici, per il gruppo
    politico che ha il potere di decisione.
Analogamente può avvenire a livello internazionale.
    Soprattutto a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, uno
    sforzo d'industrializzazione comincia a essere compiuto da un numero
    ognora crescente di paesi ex coloniali o comunque subordinati
    economicamente in passato alle grandi potenze industriali. Criteri
    di localizzazione 'politici', pur fra enormi difficoltà ed
    errori, cominciano ad agire quindi su scala mondiale, modificando -
    ma non sopprimendo - la logica economica dell'agglomerazione.
    Ciò avviene in concomitanza con l'emergere, nei paesi di
    antica industrializzazione, di fenomeni di maturità, di
    congestione, di sovrasviluppo, i quali si manifestano soprattutto
    con il rovesciamento della tendenza tradizionale alla diminuzione
    dei costi manifatturieri e con l'inflazione cronica. Comincia quindi
    a porsi concretamente il problema di una nuova divisione
    internazionale delle attività economiche, determinata
    congiuntamente dalla pressione dei paesi emergenti, nei quali
    compaiono situazioni e opportunità nuove per effetto di
    sforzi politici, e da taluni elementi di crisi nei paesi di vecchia
    industrializzazione. 
Al tempo stesso, la crescita di imprese multinazionali permette a
    questi giganti economici di prendere decisioni di localizzazione in
    orizzonti territorialmente vastissimi, dove il confronto dei costi
    può offrire enormi disparità, ricostituendo a volte il
    vantaggio per la considerazione prioritaria della vicinanza delle
    risorse. Le imprese multinazionali, per l'eccezionalità dei
    mezzi a loro disposizione e la spregiudicatezza e il dinamismo della
    loro conduzione, possono inoltre più facilmente modificare
    queste decisioni al variare delle condizioni di costo originarie:
    ciò crea una tensione molto forte e permanente con le
    autorità politiche di paesi in via di sviluppo. Naturalmente
    questa maggiore agilità delle imprese multinazionali quanto
    alle scelte di localizzazione non si sottrae al condizionamento
    costituito da condizioni di stabilità e affidabilità
    politica in senso convergente agli interessi delle imprese in
    questione.In questo nuovo e diverso contesto - caratterizzato dal
    'volontarismo' sia dei paesi che cercano di aprirsi una strada, sia
    dei paesi che vogliono correggere un itinerario fattosi accidentato,
    nonché dalla presenza di un operatore di nuovo tipo come
    l'impresa multinazionale - prende rilevanza, come fattore di
    localizzazione, la tipologia delle attività industriali (cosa
    diversa, non c'è bisogno di sottolinearlo, dalla tipologia
    dei processi d'industrializzazione di cui si è parlato
    sopra). Ciò avviene in quanto le differenti caratteristiche
    delle varie industrie si pongono come elementi di scelta,
    nell'ambito di processi che si cerca di guidare o di correggere
    politicamente, per il conseguimento di specifici risultati: una
    maggiore autonomia economica, la massimizzazione dell'occupazione,
    il riequilibrio della bilancia dei pagamenti, l'agibilità del
    territorio o dell'ambiente.
La classificazione delle attività industriali non esiste come
    disciplina a sé stante, o come ramo di qualche disciplina. A
    prescindere dalla descrittiva a base merceologica usata per
    finalità strettamente statistiche, essa si è venuta
    praticando, infatti, in ambiti scientifici o operativi diversi in
    relazione a esigenze funzionali alla teoria o alla decisione. In
    questo senso si tratta di distinzioni assai disparate quanto a
    criteri di formulazione, nell'ambito delle quali è
    però possibile individuare due famiglie classificatorie, che
    corrispondono in prevalenza, anche se non in esclusiva, alle
    esigenze di scelta, rispettivamente, dei paesi in via
    d'industrializzazione (non solo di quelli odierni ma già di
    quelli che ieri si trovavano in tale stadio) e dei paesi di vecchia
    industrializzazione. Nel primo gruppo possono farsi rientrare
    distinzioni più tradizionali come quelle di industrie
    'pesanti' e 'leggere', di base e non di base, traenti e non traenti,
    ad alta o bassa intensità di capitale o di lavoro, per la
    produzione di beni strumentali o di beni di consumo. Corrispondono
    invece a esigenze di ragionamento e di scelta più proprie di
    paesi di ormai avanzata industrializzazione altre distinzioni come
    quelle fra industrie ad alto o basso contenuto di ricerca, ad alto o
    basso consumo di energia, 'sporche' o 'pulite', 'mature' o
    'avanzate' (o più semplicemente 'vecchie' e 'nuove'). Le
    distinzioni del primo gruppo sono generalmente funzionali ai
    problemi della crescita, intesa quantitativamente nelle sue
    dimensioni globali o in rapporto a grandi obiettivi aggregati, come
    l'occupazione, l'autonomia economico-politica, ecc. Fra queste, la
    prima - industrie pesanti e leggere - è la più antica
    e riflette il passaggio dalla prima alla seconda fase della prima
    rivoluzione industriale, quando accanto al settore tessile - tipica
    espressione d'industria 'leggera', tale cioè da non
    richiedere impianti massicci - cominciarono a sorgere le grandi
    officine siderurgiche o della meccanica, detta appunto 'pesante',
    vale a dire con elevato impiego di prodotti siderurgici (cantieri
    navali, produzione di caldaie a vapore per ferrovie e industrie,
    ecc.). Si tratta di una distinzione sommaria e allusiva, che si
    rifà alla misura dell'impegno necessario alla realizzazione,
    in termini di capitali, di capacità tecniche e di
    possibilità di mercato. Nella seconda metà
    dell'Ottocento e nei primi anni del XX secolo nuclei d'industria
    leggera cominciavano a diffondersi con minore difficoltà nei
    più diversi paesi, ma solo la presenza di un'industria
    'pesante' diventava sinonimo di una diversità qualitativa,
    della formazione di una 'base' industriale, cioè di una
    struttura portante per l'ulteriore sviluppo, per le esigenze
    politico-militari, ecc. E a questa distinzione è infatti
    vicina l'altra, spesso usata, fra industrie di base e non di base,
    intendendosi per industrie di base quelle che producono beni
    più o meno indispensabili a tutte le altre industrie o a gran
    parte di esse: tali ad esempio le fonti di energia, la siderurgia,
    o, nella chimica tradizionale, l'acido solforico (e, nella moderna
    petrolchimica, l'etilene). Talché si è potuto tentare
    di distinguere - per esempio a proposito di fasi
    d'industrializzazione come quella dell'Italia fra la fine del XIX
    secolo e la prima guerra mondiale - la 'formazione di una base
    industriale', implicante soltanto la nascita di siffatta struttura
    portante diversificata, da una piena industrializzazione, implicante
    invece un peso dominante del settore industriale sull'insieme
    dell'economia (in termini di quota del prodotto lordo o
    dell'occupazione complessiva), che nella fase antecedente non si
    dava ancora.
La nozione d'industria 'traente', elaborata più di recente,
    tende anch'essa a definire il ruolo di un settore industriale in
    rapporto alle possibilità di crescita di altri settori. Ma si
    tratta, appunto, di una pura definizione di ruolo: un'industria
    può essere traente in una situazione e non esserlo in
    un'altra. È traente, ad esempio, un'industria la quale,
    sviluppandosi l'esportazione, raggiunga dimensioni tali da creare
    una domanda interna per altri settori, al punto da permettere il
    sorgere, all'interno, di questi settori con autonome
    possibilità di sviluppo (per esempio l'industria tessile
    inglese, nel corso della rivoluzione industriale, con la domanda di
    macchinari tessili, impianti per la forza motrice, ecc.).
    Naturalmente ha maggiori possibilità di svolgere una funzione
    traente - qualora possa raggiungere certe dimensioni - quel settore
    che, per le caratteristiche della sua produzione, ha un elevato
    bisogno di prodotti industriali disparati e vantaggiosamente
    producibili entro la stessa area. La coppia 'industrie produttrici
    di beni strumentali/industrie produttrici di beni di consumo' ha
    invece un significato economico analiticamente più preciso,
    anche se semplice. È la base degli schemi di riproduzione
    usati da Marx per spiegare la dinamica espansiva del sistema
    capitalistico e le condizioni di equilibrio di questa (in tal senso
    è riferita però all'insieme dell'attività
    produttiva). Nell'età delle industrializzazioni decise in
    sede politica questa distinzione ha ricevuto un rilievo essenziale
    come base di scelta, sostenendosi la necessità, per
    un'industrializzazione in grado di autoalimentarsi e di procedere
    celermente, di una forte preminenza del settore 'beni strumentali'.
    Così è avvenuto soprattutto nell'Unione Sovietica, a
    conclusione di un appassionato dibattito fra economisti e politici
    negli anni venti e, dopo di allora, negli altri paesi governati dai
    partiti comunisti. Ma altri casi d'industrializzazione - come quello
    giapponese - non sembrano confermare la validità di questa
    tesi, sostenuta per lungo tempo come un dogma nei paesi comunisti.La
    rilevanza dell'intensità di capitale e dell'intensità
    di lavoro nei processi produttivi, come criterio distintivo fra le
    industrie, si pone allo spartiacque della suddivisione che si
    è qui tentata fra il gruppo di distinzioni tipologiche
    più funzionali al versante dei paesi in via
    d'industrializzazione e il gruppo più funzionale al versante
    dei paesi già industrializzati. Si tratta, in questo caso,
    del peso proporzionale di un fattore (capitale, lavoro) rispetto
    agli altri impiegati. Ed è importante notare che tale
    distinzione si riferisce a processi produttivi più che a
    'settori', vale a dire che per produrre un medesimo bene possono
    essere seguiti processi produttivi implicanti una diversa
    proporzione di fattori: con più o meno capitale o,
    inversamente, con più o meno apporto di lavoro. Ma,
    naturalmente, vi sono settori in cui il processo produttivo ha
    caratteristiche dominanti di un tipo e settori in cui prevale il
    tipo opposto. La produzione di energia, ad esempio, può
    essere realizzata con intensità di capitale assai diversa, ma
    resta nell'insieme un settore ad alta intensità di capitale.
    Per contro, l'industria tessile può fare un posto più
    o meno grande a impianti automatici, ma resta, nell'insieme, un
    settore a elevata intensità di lavoro. La preferenza per
    industrie e processi produttivi a più alta intensità
    di lavoro dovrebbe affermarsi nei paesi in via d'industrializzazione
    - fatte salve alcune inderogabili necessità di segno opposto
    - qualora questi, come generalmente accade, scarseggino di capitali,
    controllino i costi di mano d'opera e si pongano il problema di
    massimizzare l'occupazione. E, nonostante contrastanti propensioni a
    non rinunciare a industrie di beni strumentali e ambizioni al
    possesso di tecnologie aggiornate, la forza delle cose tende a
    spingere quei paesi nella direzione dei processi ad alta
    intensità di lavoro. Per contro, nei paesi industrializzati
    da tempo, nei quali il costo del lavoro è elevato ed è
    in continuo aumento, si manifesta una tendenza contraria, favorita
    dalla più elevata disponibilità di capitali propria di
    tali paesi. Su tali basi potrebbe orientarsi in futuro una
    diffusione - finora mancata - dell'industrializzazione nel mondo,
    seguendo lo schema di una divisione internazionale del lavoro che
    veda sempre più trasferirsi nei paesi di nuova
    industrializzazione le produzioni a più alta intensità
    di lavoro, mentre lo sforzo industriale dei paesi più
    avanzati potrebbe concentrarsi nei settori e nei processi a
    più alta intensità di capitale, aventi però
    anche altre caratteristiche rispondenti a nuove necessità di
    questi paesi e a particolari attitudini in essi maturate. Valgono, a
    comprendere la natura di questo problema, le distinzioni tipologiche
    del secondo gruppo: il più o meno elevato contenuto di
    ricerca proprio di un'industria, la sua forza inquinante (industrie
    'sporche', come gran parte delle produzioni chimiche, o 'pulite',
    come l'elettronica), il suo grado di 'novità', che implica la
    possibilità di contare su un mercato di consumatori a reddito
    elevato e crescente o su un mercato industriale largamente
    diversificato.
L'individuazione di questa tendenza nella divisione internazionale
    del lavoro, nell'età della decolonizzazione in cui si
    è messo in movimento un più vasto spazio economico
    mondiale, ha dato luogo all'enunciazione della cosiddetta 'teoria
    del ciclo del prodotto'. Questa teoria parte dall'ipotesi che i
    prodotti industriali passino in genere da una fase iniziale,
    tecnologicamente complessa e innovativa, a una fase di
    maturità e di più facile acquisizione anche da parte
    di produttori non particolarmente dotati dal punto di vista
    tecnologico, fino a divenire banali e praticamente alla portata di
    tutte le economie, anche arretrate. Si avrebbero così, se ci
    si colloca nell'ottica delle economie industrializzate, prodotti in
    sviluppo, prodotti maturi e prodotti in declino, e si verificherebbe
    un progressivo passaggio di tali produzioni dai paesi industriali di
    avanguardia (come gli Stati Uniti) agli altri paesi industrializzati
    e poi ai paesi in via di sviluppo. Quest'ipotesi corrisponde
    indubbiamente a taluni aspetti della divisione internazionale del
    lavoro che tendono a manifestarsi, in questa fase storica, sulla
    base di questa duplice premessa: un'accelerazione del progresso
    delle tecnologie e una diffusione della ricettività
    all'industria nel mondo. Ma anch'essa è unilaterale,
    perché il fenomeno dei paesi estremoorientali di nuova
    industrializzazione (NIC) mostra, ad esempio, come alla
    localizzazione di produzioni ormai mature (tessili e simili) possa
    accompagnarsi quella di produzioni nuovissime, come quelle della
    elettronica. Inoltre tutto ciò prescinde dai fattori
    politici, e non può essere considerato, in ultima analisi,
    che come un insieme di altri elementi per una visione comprensiva
    del fenomeno dell'industrializzazione nel mondo, di cui ancora
    manchiamo. 
    
    7. Conclusioni. Il futuro dell'industrialismo
    
Lo stadio al quale è giunto oggi lo sviluppo
    industriale per le sue caratteristiche interne e per i modi della
    sua diffusione nel mondo pone una serie d'interrogativi. Questi
    investono ora direttamente il futuro dell'umanità la quale
    è stata in passato radicalmente influenzata da quello
    sviluppo, che ha provocato rilevanti mutazioni biologiche e
    antropologiche. L'industrialismo ha infatti consentito alle
    popolazioni presso le quali si è affermato nuove
    possibilità di vita, generalizzando forme di benessere, di
    cultura, di comunicazione sociale modellate su quelle che erano un
    tempo prerogative di una cerchia sociale elevata e assai ristretta.
    Tale generalizzazione, però, è nei suoi risultati cosa
    diversa dal modello dal quale trae origine, come una proiezione
    inevitabilmente deformata. Ed è avvenuta e avviene attraverso
    continui sradicamenti sociali, creando ineguaglianze contigue,
    cioè a stretto contatto e quindi in facile frizione,
    determinando gravi disadattamenti. Ciò non sembra favorire,
    all'interno delle società industriali, il conseguimento di
    equilibri tali da consentire il pacifico godimento dei vantaggi
    realizzati, ma piuttosto il crescere dei disagi, tensioni,
    difficoltà di convivenza. Anche sotto il profilo più
    strettamente economico, all'offerta crescente di beni a prezzi
    decrescenti o stabili - che caratterizzava il peculiare dinamismo
    produttivistico dell'attività industriale - si va sostituendo
    un'industria focolaio di inflazione da costi, e quindi di
    instabilità. All'offerta crescente di beni sempre nuovi per
    una vita più agevole si va sostituendo una crescente
    difficoltà di gestione di un paniere statico di beni non
    più nuovi. Al tempo stesso il rapporto fra l'area dei paesi
    prevalentemente industriali e il resto del mondo, nel momento stesso
    in cui hanno cominciato ad affermarsi le condizioni politiche per
    una diffusione dell'industrialismo, si è venuto facendo
    più aspro e conflittuale. Dal colonialismo - forma in cui la
    gran parte del mondo venne coinvolta unilateralmente e
    subalternamente nella trasformazione economica provocata
    dall'industrialismo - si è passati a un sistema di relazioni
    fra indipendenti ineguali, carico di tensioni. Il coinvolgimento
    colonialistico del resto del mondo nell'orbita dell'area
    industrializzata ha sospinto infatti società arcaiche verso
    la ricerca di nuove strutture simili a quelle dei paesi
    colonizzatori, senza fornire però a esse le basi che
    potessero renderle possibili, tranne che per ristrette enclaves,
    cioè per le 'teste di ponte' urbanizzate e modernizzate dal
    commercio con la metropoli.
D'altra parte lo sviluppo industriale si è rivelato - alla
    scala cui è pervenuto - un terribile divoratore di risorse
    naturali. La sua prosecuzione ai ritmi degli ultimi decenni e,
    più ancora, la possibilità di una sua effettiva
    diffusione equilibrata a livello mondiale sono addirittura parse a
    un certo punto incompatibili - ferme restando le sue connotazioni
    tecnologiche - con la disponibilità accertata di risorse.
    Pertanto si fa imperiosa l'esigenza di accelerare la ricerca di
    nuove tecniche risparmiatrici di risorse scarse e quella di
    materiali sostitutivi, di nuove fonti di una risorsa insostituibile:
    l'energia. Di più: industria e forme di vita connesse paiono
    dissanguare la natura stessa dei suoi apporti più elementari
    e più preziosi come la terra che nutre i vegetali, il mare,
    l'aria e l'acqua. Diventa drammatico il problema ambientale. Dunque,
    o l'industria saprà farsi in tempi utili 'pulita', oppure
    l'umanità correrà il rischio di una catastrofe. Mentre
    per il problema della scarsità il meccanismo del mercato,
    mediante i prezzi, può nella sostanza costringere alle
    correzioni necessarie gli operatori dell'economia, non è lo
    stesso per il danno ambientale. Qui occorrono governi sensibili ed
    efficienti, coordinamenti internazionali appropriati. E a questo
    punto ci si scontra, ancora una volta, con una disparità di
    interessi immediati: i paesi che, ancora fuori dell'uscio,
    affannosamente tentano di entrare nella corsa
    dell'industrializzazione considerano il costo della protezione
    ambientale un ulteriore e proibitivo handicap per la loro
    possibilità di entrare nel desiderato circolo.I problemi
    futuri delle società industriali sembrano quindi dispiegarsi
    su un fronte assai ampio e interconnesso: a) come problemi interni a
    ogni società industriale; b) come problemi relativi ai
    rapporti fra i paesi appartenenti all'area industriale; c) come
    problemi relativi ai rapporti fra l'area industriale nel suo
    complesso e il resto del mondo. Si ha l'impressione che i problemi
    drammatici da risolvere tendano a crescere con un ritmo superiore a
    quello con cui nel presente crescono i mezzi per affrontarli.Tali
    problemi si presentano immediatamente come politici. Le loro
    dimensioni sono però di tale ampiezza che essi non paiono
    riconducibili a questioni di pura 'volontà' politica, ove
    questa non sia sorretta dai mezzi tecnici per esercitarsi
    positivamente. Mai come oggi appare chiaro come l'industria - nata,
    secondo le più accreditate opinioni storiografiche (Musson),
    essenzialmente nell'alveo empirico di tecnici e artigiani - dipenda
    ormai per la sua sorte (venuta a coincidere con la sorte stessa
    dell'umanità) dalla scienza e dalla ricerca. Se e in quale
    arco di tempo sia possibile superare questa crisi, oggi non si
    è in grado di dirlo. È solo possibile dire che il
    nostro futuro si trova ora più che mai nelle mani della
    scienza applicata, quella che ci ha permesso di giungere a questo
    punto e le cui capacità ulteriori sono condizione necessaria,
    ancorché non sufficiente, per trarcene fuori, e in avanti.