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  Globalizzazione
  
    Termine adoperato, a partire dagli anni 1990, per indicare un
    insieme assai ampio di fenomeni, connessi con la crescita
    dell’integrazione economica, sociale e culturale tra le diverse aree
    del mondo. 
  1. G. dei
    mercati
  Fenomeno di unificazione dei
    mercati a livello mondiale, consentito dalla diffusione delle
    innovazioni tecnologiche, specie nel campo della telematica, che
    hanno spinto verso modelli di consumo e di produzione più
    uniformi e convergenti. Da un lato, si assiste, infatti, a una
    progressiva e irreversibile omogeneità nei bisogni e a
    una conseguente scomparsa delle tradizionali differenze tra i
    gusti dei consumatori a livello nazionale o regionale;
    dall’altro, le imprese sono maggiormente in grado di sfruttare
    rilevanti economie
      di scala nella produzione, distribuzione e marketing dei
    prodotti, specie dei beni di consumo standardizzati, e di
    praticare politiche di bassi prezzi per penetrare in tutti i
    mercati. L’impresa che opera in un mercato globale, pertanto,
    vende lo stesso bene in tutto il mondo e adotta strategie uniformi, a differenza dell’impresa
    multinazionale, il cui obiettivo è invece quello di
    assecondare la varietà delle condizioni presenti nei
    paesi in cui opera. 
   Il termine g. è spesso usato, come sinonimo di liberalizzazione, per
    indicare la progressiva riduzione, da parte di molti paesi, degli
    ostacoli alla libera circolazione delle merci e dei capitali.
    Questo, tuttavia, è solo un aspetto dei fenomeni di g., che
    comprendono, in particolare, una tendenza al predominio
    sull’economia mondiale da parte di grandi imprese multinazionali,
    operanti secondo prospettive sempre più autonome dai
    singoli Stati, e una crescente influenza di tali imprese, oltre
    che delle istituzioni finanziarie internazionali, sulle scelte di
    politica economica dei governi, in un quadro caratterizzato
    dall’aumento progressivo dell’integrazione economica tra i diversi
    paesi, ma anche dalla persistenza (o addirittura
    dall’aggravamento) degli squilibri fra questi. Tali fenomeni
    scaturiscono dai processi di integrazione
      internazionale sviluppatisi nel 19° sec., interrotti
    nella prima metà del Novecento dalle guerre mondiali e
    dalla Grande depressione, e ripresi nella seconda metà
    (soprattutto dopo il 1960) con rinnovato vigore. Tra gli ultimi
    decenni del 20° e gli inizi del 21° sec. il progresso
    tecnologico, divenuto sempre più veloce, ha ridimensionato
    le barriere naturali agli scambi e alle comunicazioni,
    contribuendo alla forte crescita registrata dal commercio
    internazionale e dagli investimenti diretti all’estero. In
    particolare, la diffusione delle tecnologie informatiche ha
    favorito i processi di delocalizzazione delle imprese e lo
    sviluppo di reti di produzione e di scambio sempre meno
    condizionate dalle distanze geografiche, alimentando la crescita
    dei gruppi multinazionali e i fenomeni di concentrazione su scala
    mondiale; ha favorito inoltre un’espansione enorme della
    finanza internazionale, tanto che il valore delle transazioni
    giornaliere sui mercati valutari è divenuto ormai superiore
    allo stock delle riserve valutarie esistenti. Contemporaneamente,
    la tendenza alla riduzione degli ostacoli, di ordine tariffario,
    fiscale o normativo, alla libera circolazione delle merci e dei
    capitali si è approfondita ed estesa, coinvolgendo anche
    molti paesi, ex socialisti o in via di sviluppo, che in passato
    avevano adottato politiche assai più restrittive. 
  2. Effetti della
    globalizzazione
  I fenomeni sopra ricordati hanno
    suscitato un ampio dibattito. Secondo alcuni studiosi, la g.
    può esercitare effetti positivi sull’economia mondiale
    sotto il profilo sia dell’efficienza sia dello sviluppo: in
    particolare, la liberalizzazione e la crescita degli scambi
    commerciali e finanziari potrebbero stimolare un afflusso degli
    investimenti verso le aree meno dotate di capitali e favorire
    una tendenziale riduzione del divario economico fra i paesi
    sviluppati e quelli in via di sviluppo. Altri sostengono,
    invece, che, dati gli squilibri e le forti differenze
    (economiche, tecnologiche, culturali, politiche) esistenti tra i
    diversi paesi, nonché la presenza di condizioni di
    mercato assai lontane da quelle di concorrenza perfetta
    postulate dai modelli tradizionali, gli eventuali effetti
    positivi dei processi di g. non si distribuiscono in modo
    uniforme: in particolare, per i paesi in via di sviluppo tali
    processi possono comportare conseguenze anche molto sfavorevoli,
    mentre negli stessi paesi sviluppati si verifica un contrasto
    tra i settori sociali che traggono vantaggio dai processi di g.
    e quelli che invece ne sono danneggiati (per es., i lavoratori
    impegnati in attività produttive che vengono trasferite
    all’estero). Va inoltre tenuto presente che, in un quadro
    caratterizzato da una crescente integrazione internazionale e
    dalla stabilizzazione dei tassi di cambio tra le monete di
    diversi paesi, l’adozione, a fronte di squilibri e tensioni
    interne, di provvedimenti di carattere sociale o anticiclico
    viene resa più difficile dalla riduzione dell’autonomia
    dei singoli governi nella gestione della politica economica. 
   La g. riguarda non soltanto la produzione di merci ma anche
    delle idee. Le figure professionali ad alta qualificazione, in
    particolare ingegneri informatici, ma a basso salario presenti in
    alcuni paesi in via di sviluppo, soprattutto in India, hanno
    spinto molti colossi della produzione hi-tech a delocalizzare in
    questi paesi i laboratori di ricerca e sviluppo. Paesi come gli
    Stati Uniti, che tradizionalmente attraevano cervelli da ogni
    parte del pianeta, oggi vedono messo in crisi tale meccanismo
    dalla concorrenza di alcuni paesi in via di sviluppo. 
  3. I
    flussi commerciali
  L’indice più comunemente
    usato per valutare il grado d’integrazione dell’economia
    mondiale è il rapporto fra esportazioni e PIL nei diversi
    paesi. Questo rapporto, che aveva raggiunto un minimo storico
    dopo la Seconda
      guerra mondiale, è nuovamente cresciuto, nella
    maggior parte dei paesi, durante la seconda metà del
    20° secolo. Per quanto riguarda la partecipazione al
    commercio internazionale, i paesi sviluppati hanno mantenuto un
    peso preponderante, anche se dal finire del secolo si è
    manifestata una tendenza alla crescita del ruolo dei paesi in
    via di sviluppo. A partire dagli anni 1980 si è assistito
    all’espansione di aree di integrazione regionale, come l’UE o il
    NAFTA, che, se da un lato accentuano i processi di liberalizzazione
      degli scambi tra i paesi membri, dall’altro possono
    favorire il mantenimento di barriere commerciali nei confronti
    degli altri Stati. I processi di integrazione commerciale hanno
    in ogni caso continuato a estendersi, sia per l’adesione,
    comunque diffusa, alle politiche di liberalizzazione degli
    scambi con l’estero, sia per la riduzione dei costi delle
    telecomunicazioni e dei trasporti indotta dall’incremento
    tecnologico, sia per gli investimenti da parte di imprese dei
    paesi industrializzati nei paesi in via di sviluppo. 
  4.
    I movimenti di capitali
  La libertà di movimento dei
    capitali raggiunta verso la fine del 20° secolo è
    paragonabile a quella degli anni precedenti la Prima
      guerra mondiale, quando si era realizzato un alto grado di
    integrazione dei mercati finanziari (nel 1913 i rapporti tra i
    flussi totali di capitali e il commercio o la produzione
    mondiale erano superiori a quelli degli anni 1970). Dopo le
    restrizioni del periodo fra le due guerre, la seconda
    metà del secolo ha visto una graduale liberalizzazione,
    mentre rilevanti modifiche si verificavano per quanto riguarda
    l’origine e la composizione dei flussi di capitali. Tra la
    Seconda guerra mondiale e gli anni 1960 ampi flussi di
    investimenti esteri diretti, per lo più indirizzati verso
    l’industria manifatturiera e il settore petrolifero, provenivano
    dagli Stati Uniti, divenuti in quel periodo il maggiore
    esportatore netto di capitali. Nel corso degli anni 1970 il Giappone assunse un ruolo di rilievo, fino a diventare nel decennio
    successivo una delle principali fonti mondiali sia di capitali
    speculativi a breve termine sia di investimenti diretti. A
    partire dagli anni 1980 gli Stati Uniti sono stati
    caratterizzati da forti deficit della bilancia commerciale e da
    cospicue importazioni nette di capitali (con l’accumulo quindi
    di un ingente debito estero). A partire dagli anni 1980,
    inoltre, grazie anche allo sviluppo delle tecnologie
    informatiche e delle telecomunicazioni e alle politiche di
    liberalizzazione dei mercati finanziari, si è verificato
    un enorme aumento dei flussi speculativi a breve termine, che ha
    coinvolto gli stessi paesi in via di sviluppo, influendo
    pesantemente sull’andamento delle loro economie. 
   La crescita del debito e del rapporto debito/PIL nei paesi in
    via di sviluppo, spesso alimentata da processi cumulativi perversi
    (nuovo indebitamento per fare fronte ai debiti pregressi), ha
    inciso pesantemente sulla loro situazione economica, sociale e
    politica; in particolare, essi sono stati costretti a comprimere
    quanto più possibile la domanda interna (con gravi
    conseguenze sulle condizioni di vita della popolazione) nel
    tentativo di realizzare, malgrado l’andamento poco favorevole
    delle ragioni di scambio, onerosi attivi della bilancia
    commerciale e finanziare così il servizio del debito
    estero. All’inizio del nuovo millennio il problema del debito
    estero dei paesi in via di sviluppo rappresenta uno dei principali
    squilibri del processo di g. in corso. 
   Per quanto riguarda, infine, la Comunità Europea, a
    partire dal 1992 sono stati rimossi tutti i vincoli ai movimenti
    di capitali e si è verificata una progressiva perdita di
    autonomia dei governi nazionali nei campi della politica monetaria
    e dell’allocazione dei capitali all’interno dei paesi membri. 
  5.
    Il mercato del lavoro
  Aumenti della disuguaglianza tra
    paesi e all’interno dei paesi indotti dal progresso di
    integrazione vengono spiegati anche attraverso i mutamenti del
    mercato del lavoro, che hanno comportato un allargamento dei
    differenziali retributivi nei paesi industrializzati (wage gap). Il progresso
    tecnico avrebbe infatti ridotto marcatamente la domanda di
    lavoro a bassa qualifica (unskilled)
    a favore di quello a più alto contenuto di conoscenza (skilled). Data l’inerzia
    dell’offerta ad adeguarsi a questa maggiore domanda, questo ha
    di fatto creato un eccesso di domanda di lavoro a più
    alto contenuto di conoscenza che si è concretizzato in un
    incremento salariale di questi lavoratori. Il wage gap indotto dal
    progresso tecnico skill biased è visto come uno dei principali responsabili degli
    incrementi di disuguaglianza tra paesi ricchi e poveri ma anche
    all’interno dei paesi maggiormente industrializzati. Tuttavia
    questo meccanismo ha avuto impatti diversi nei paesi con
    differenti istituzioni a protezione dei lavoratori. Non è
    un caso che gli USA registrino un forte incremento di
    disuguaglianza indotto dal wage
      gap, date le scarse protezioni sociali e
    sindacali dei lavoratori a bassa qualifica. Nei paesi europei
    maggiormente sindacalizzati, questi effetti sono stati in parte
    mitigati dalla rigidità salariale.
    
  
  Enciclopedia del Novecento II
    Supplemento (1998)
  
  di Henri Bartoli
  
  Globalizzazione
  
  sommario: 1. Introduzione. 2. La
    globalizzazione: un processo a più dimensioni. 3. Gli attori
    della globalizzazione: a) le imprese e i gruppi multinazionali,
      attori primari della globalizzazione; b) gli Stati.
    4. La globalizzazione crea ordine o disordine?: a) rischi di
      collasso del sistema finanziario e ostacoli alla politica
      economica degli Stati; b) costi sociali e pericoli di
      regresso sociale; c) i problemi posti da una
      civiltà e una cultura mondiali. 5. Globalizzazione,
    governo e governabilità: a) governo e
      governabilità a livello globale; b) governo e
      governabilità a livello locale. □ Bibliografia.
      
1. Introduzione
‛Globale' è ciò che è connesso, compatto,
    ciò che va ‛preso in blocco'. In topologia una
    proprietà di uno spazio S è ‛locale' se, per
    ogni punto x di tale spazio, esiste un intorno di x in cui essa è ‛vera'; è invece ‛globale' se è
    vera nell'intero spazio S. ‛Locale' e ‛globale' possono
    essere equivalenti: ogni punto di un ologramma (nel senso di D.
    Gabor) è memorizzato dall'intera immagine fisica, e a sua
    volta contiene la totalità delle informazioni che essa
    rappresenta; quindi, pur essendo locale, informa in modo globale
    sull'oggetto registrato. Si ‛totalizza' ciò che è
    costituito da elementi omogenei aggregati mediante un calcolo; si
    ‛globalizza' ciò che tende a divenire un insieme retto da
    regole operazionali, così che il ‛tutto' organizzato sia
    più ricco della semplice somma o giustapposizione delle
    parti. Dal ‛globale' si passa quindi agevolmente al ‛sistemico',
    ossia a una concatenazione complessa e finalizzata di azioni
    interdipendenti, vista nella sua unità, nella sua coerenza o
    nella sua progettualità.
Dire che oggi il mondo si va globalizzando significa constatare che
    a un mondo strutturato come un campo di forze, in cui Stati sovrani
    mossi da una logica geopolitica si affrontano e si adattano gli uni
    agli altri, tende a sostituirsi un mondo organizzato come una rete
    gerarchizzata, definito da centri e da periferie i cui spazi hanno
    perso la rigidità delle divisioni statali. Questo mondo,
    definito da K. Ohmae (v., 1990) ‟senza confini", non è ancora
    globale ma lo sta diventando, mosso com'è da molteplici
    processi evolutivi che contemporaneamente diffondono eventi,
    provocano mutamenti nelle parti, le strutturano e le coordinano:
    nella complessa dialettica di tutti questi processi è
    possibile scorgere il tutto nell'atto di organizzare le parti.
Alcuni, bruciando le tappe, parlano già dell'emergere di una
    comunità internazionale, comprendente le relazioni tra gli
    Stati, l'economia, gli scambi tra le società civili e anche
    le istituzioni internazionali. Altri, per i quali l'economia
    mondiale è al tempo stesso locale, regionale, nazionale e
    internazionale o multinazionale, la vedono evolversi in un sistema
    in cui si delineano vari sottoinsiemi strutturati, diversi per
    dimensioni e per potenza, legati da relazioni asimmetriche e
    soggetti a retroazioni non in grado di produrre in modo sicuro e
    rapido equilibri sia pure approssimativi. Altri ancora, dimenticando
    ogni cautela, vanno elaborando una concezione tecnoglobalistica,
    secondo cui tutte le attività umane sono soggette, come
    quelle biologiche, alla legge dell'autoorganizzazione, o annunciano
    l'ingresso dell'umanità nell'era del ‟villaggio planetario"
    (McLuhan), oppure, mescolando neopaganesimo (il ‟reincantamento del
    mondo") e un teilhardismo male inteso (l'‟incarnazione" a livello
    della Terra), sacrificano al mito di Gaia, il pianeta ‛vivente' che
    bisogna salvare proteggendo l'ambiente (J. Lovelock) e di cui
    occorre preservare il senso vegliando sulla sua autoorganizzazione
    evolutiva (L. Margulis).
Più realisticamente, bisogna riconoscere che si vanno
    moltiplicando i segni della nascita di una formazione mondiale che
    tende a gestire le chiusure e le aperture delle entità
    nazionali in un sistema di interazioni generalizzate. Elementi
    costitutivi di tale formazione sono sempre le economie nazionali e
    regionali, che però ormai interagiscono secondo rapporti
    diversi dai tradizionali rapporti di scambio fra territori
    nazionali. La struttura reticolare di questa formazione riflette la
    partecipazione di paesi di vari continenti alla produzione, agli
    investimenti e al commercio, attraverso imprese intermediarie,
    spesso multinazionali o transnazionali; il compenetrarsi dei mercati
    è tanto più rapido quanto più i flussi di beni
    e di servizi che li collegano vanno perdendo di materialità.
    Le aree d'influenza e di egemonia delle grandi potenze continuano a
    oltrepassare le frontiere nazionali, ma ciò avviene anche per
    i grandi gruppi economici e finanziari, le cui politiche e le cui
    strategie non sempre coincidono con quelle degli Stati.
Marx affermò che la tendenza a creare un mercato mondiale
    è ‟inerente al concetto stesso di capitalismo": questo
    infatti tende a ‟superare le barriere e i pregiudizi nazionali", a
    ‟distruggere" i confini di un ‟soddisfacimento limitato" e a
    ‟infrangere" tutto ciò che vincola le forze produttive. Il
    suo ‟grande influsso civilizzatore" è tale da ‟innalzare la
    società a un livello rispetto al quale tutti gli stadi
    precedenti appaiono come evoluzioni locali dell'umanità e
    come idolatrie della natura". Fra tutti i sistemi economici e
    sociali, il capitalismo è l'unico dotato di una logica della
    riproduzione e della crescita che lo spinge a svilupparsi su scala
    mondiale. Come osservò giustamente Raymond Aron (v., 1984)
    all'epoca della guerra fredda, solo il capitalismo può
    definirsi ‛mondiale', mosso com'è da una logica implacabile
    che lo porta a invadere e a trasformare tutte le sfere dell'economia
    e della società, tutte le regioni del globo, e a
    ‛mercificare' ogni cosa.
In precedenza l'internazionalizzazione dell'economia e della
    società comportava la partecipazione di operatori economici
    nazionali che conservavano intatta la propria autonomia; nella
    multinazionalizzazione, alcuni operatori economici di un paese
    esercitavano un influsso o addirittura un controllo su attori
    economici e sociali di un altro paese, contribuendo a orientarne il
    futuro. La mondializzazione oggi in atto - detta anche, secondo
    l'uso anglosassone, ‛globalizzazione' - ha un carattere diverso:
    essa si basa su una complessa rete di interconnessioni che uniscono
    gli Stati e le società, in modo tale che gli eventi, le
    decisioni e le attività che hanno luogo in un punto del globo
    sortiscono effetti su individui e collettività anche
    lontanissimi. Si tratta di un fenomeno di estensione e
    d'intensità ancora molto disuguali, con conseguenze
    largamente differenziate e imprevedibili: la mondializzazione
    globalizza l'economia-mondo trasformandola in un vero e proprio
    ‛sistema' in cui il gioco della competizione oligopolistica
    oltrepassa le frontiere e perturba le aree di coesione e
    d'integrazione nazionali, giacché ‟dietro il teatrino dei
    meccanismi del mercato, a governare quest'ultimo sono in
    realtà le imprese" (C. A. Michalet).
Negli anni cinquanta Gunnar Myrdal (v., 1956) era preoccupato per
    gli enormi problemi che si ponevano alla comunità mondiale e
    per le scarse possibilità d'azione di cui ‟le nostre deboli
    organizzazioni internazionali" disponevano per risolverli. Da allora
    senza dubbio sono stati compiuti dei progressi sulla strada dello
    sviluppo umano; tuttavia gli ‛enormi' problemi ‛globalizzati'
    attuali - la disoccupazione, la povertà, l'ambiente, l'AIDS,
    il culto del dio denaro, la guerra economica - richiedono più
    che mai di essere trattati su scala planetaria.
Nel 1976 il Club di Roma richiamava a una ‛pianificazione'
    internazionale nel quadro delle Nazioni Unite ristrutturate; da
    allora si sono moltiplicati gli studi e i rapporti
    sull'ingovernabilità del mondo attuale e sull'urgenza di una
    politica di ‛sicurezza umana' a livello mondiale. La capacità
    da parte del governo di un paese di condurre una politica autonoma
    è divenuta uno dei temi centrali di riflessione della Banca
    Mondiale, e l'Istituto di Studi Strategici di Londra s'interroga
    sulla crisi di tale capacità. La globalizzazione impone di
    prendere in considerazione il ‛governo' e la governabilità a
    livello mondiale e contemporaneamente a livello locale (v. cap. 5),
    essendo i due livelli indissociabili tra loro. Si pone così
    il problema della riforma delle organizzazioni internazionali, del
    coordinamento delle loro attività e della loro armonizzazione
    con le politiche nazionali. Occorre elaborare un diritto
    internazionale ispirato al principio d'ingerenza, anziché al
    rigido rispetto delle sovranità statali, che però non
    possa servire come pretesto per manovre imperialistiche o come
    strumento di interessi particolari. Ciò presuppone una presa
    di coscienza generale dei valori propri della comunità umana,
    come pure un livello di solidarietà e una disciplina
    collettiva che sono ancora lontani dall'essere raggiunti.
    
2. La globalizzazione: un processo a più
      dimensioni
      
Ciò che è internazionale, e a maggior ragione
    ciò che è mondiale, è sempre a più
    dimensioni. I fattori d'integrazione di cui è intessuto il
    sistema mondiale sono molteplici: crescente ‛estroversione' delle
    economie nazionali, enorme aumento dei flussi di scambio di beni e
    servizi, investimenti diretti all'estero, diffusione delle nuove
    tecnologie, migrazioni e ‛delocalizzazioni', nascita di città
    globali, nuova configurazione dei mercati finanziari all'insegna
    dell'arbitraggio generalizzato, diffusione a livello mondiale di una
    ‛cultura dei consumi'.
Basta costruire un grafo dei flussi netti dei pagamenti tra i
    principali attori del commercio mondiale per constatare che si
    tratta di una struttura con ruoli differenziati ma complementari:
    l'insieme dei flussi netti presenta l'aspetto di un sistema ad
    anelli, anziché di una somma di economie nazionali. Tra il
    1950 e il 1995, a fronte di una crescita della produzione mondiale
    di 5,5 volte, il commercio mondiale è aumentato di 14 volte.
    In nessuna parte del globo è diminuito il rapporto tra le
    esportazioni e il Prodotto Interno Lordo (PIL). Tra i mercati di
    approvvigionamento e quelli di sbocco si crea una certa
    dissociazione, mentre ciascuna economia nazionale diventa sempre
    più dipendente dall'estero; aumentano sia la quota degli
    scambi incrociati (commercio intra-settoriale), sia quella degli
    scambi di beni intermedi (commercio intra-aziendale), a causa della
    segmentazione internazionale dei processi produttivi. Le
    esportazioni sembrano essere il vero motore della crescita
    economica.
Ancor più che dagli scambi, la globalizzazione riceve impulso
    dagli investimenti diretti all'estero, grazie ai flussi di
    attrezzature, di prodotti e di profitti che essi generano, ai
    notevoli adattamenti che richiedono e ai mutamenti duraturi che
    introducono quasi ovunque. I flussi medi annui di questi
    investimenti sono passati da 21 miliardi di dollari nel 1970 a 126
    miliardi nel 1992; i flussi annui cumulati sono passati da 220
    miliardi di dollari nel quinquennio 1981-1985 a 650 miliardi in
    quello successivo. Gli investimenti diretti all'estero continuano a
    riguardare per la maggior parte i paesi industrializzati: si
    intensificano i flussi dal Giappone e dall'Europa verso gli Stati
    Uniti, dal Giappone verso l'Europa, dagli Stati Uniti verso
    l'America Latina e soprattutto tra i paesi dell'Unione Europea. I
    flussi verso i paesi in via di sviluppo si sono quadruplicati tra il
    1980 e il 1993, a beneficio soprattutto della Cina (circa il 26% del
    totale), seguita dal Sudest asiatico e dall'America Latina.
    Ristagnano invece gli investimenti verso i paesi a basso reddito, in
    particolare verso l'Africa subsahariana. Poiché i servizi
    sono per loro natura difficili da esportare, la loro
    internazionalizzazione si traduce in notevoli flussi di investimenti
    diretti all'estero: la quota relativa ai servizi supera ormai il
    50%, contro il 25% circa dei primi anni settanta. Ciò si
    avverte particolarmente nei grandi paesi membri dell'OCSE: la quota
    spettante alle banche, alle assicurazioni e ai servizi finanziari
    supera il 44% in Italia, il 26% negli Stati Uniti e in Francia, il
    20% in Giappone e in Germania.
Le nuove tecnologie, riducendo le distanze e i costi, agiscono come
    condizioni che permettono la globalizzazione e come fattori che la
    intensificano. Le telecomunicazioni e le tecnologie connesse sono al
    centro del mercato mondiale: esse trattano e diffondono in tutto il
    mondo, continuamente e quasi istantaneamente, enormi quantità
    di informazioni. Le attività economiche e sociali dipendono
    sempre più dai sistemi multimediali e dalle autostrade
    informatiche, di cui Internet è il prototipo; le grandi
    imprese industriali e commerciali e gli istituti bancari e
    finanziari dispongono di reti mondiali private di telecomunicazioni.
    La telematica consente il ricorso alla subfornitura a distanza, la
    delocalizzazione delle attività di routine, la
    segmentazione dei processi produttivi, la riduzione delle scorte e
    dei fondi di cassa, l'estensione del franchising; inoltre,
    essa accresce la capacità delle imprese di reagire alle
    mutevoli condizioni del mercato e al tempo stesso favorisce
    potentemente l'adozione di una struttura di gruppo da parte delle
    imprese multinazionali.
Anche la globalizzazione delle tecnologie è molto avanzata.
    Le conoscenze più astratte sono state tradotte in concreti
    processi produttivi; si è quindi notevolmente rafforzato il
    nesso fra le tecnologie finalizzate alla competitività, fra
    la ricerca di base e la ricerca applicata, e pertanto i laboratori e
    i centri di sperimentazione dei gruppi industriali hanno assunto un
    ruolo strategico. Le attività di ricerca e sviluppo
    accrescono la capacità di innovazione delle imprese e al
    tempo stesso la loro capacità di assimilare le conoscenze
    prodotte all'esterno, mettendole in grado di sfruttare meglio le
    possibilità offerte dal progresso tecnico e rendendole
    più competitive. Dopo una fase in cui le imprese e i gruppi
    conducevano la ricerca nel paese d'origine o in quelli vicini,
    demandando a laboratori periferici ausiliari il solo compito di
    adattare i procedimenti e i prodotti alle caratteristiche locali, si
    tende oggi a un certo decentramento: i gruppi affidano l'intera
    ricerca riguardante un prodotto o una linea di prodotti a laboratori
    situati presso alcune delle loro filiali, in considerazione dei
    vantaggi che queste presentano, compiendo tale scelta in funzione di
    una divisione internazionale della ricerca.
La globalizzazione del lavoro procede rapidamente: si stima che nel
    2000 la quota di lavoratori non ancora integrati nell'economia-mondo
    sarà inferiore al 10%. Sebbene importanti, le migrazioni
    internazionali sono soltanto una delle sue cause; esse non hanno
    ancora raggiunto una dimensione mondiale: dai paesi in via di
    sviluppo partono ogni anno, legalmente o no, da 2 a 3 milioni di
    nuovi emigranti (più o meno l'1% della popolazione), circa la
    metà dei quali è diretta verso i paesi
    industrializzati - dove oggi, come nel 1970, rappresentano circa il
    5% dei residenti. Le migrazioni tra i paesi industrializzati sono
    diminuite; i flussi migratori verso gli Stati Uniti e la Germania,
    dopo un periodo di ristagno, hanno avuto una ripresa sul finire
    degli anni ottanta. Nuovi flussi sono apparsi in Europa, provenienti
    dalle regioni centrali e orientali del continente, e in Asia, in
    direzione del Giappone e di Taiwan. I tradizionali paesi di
    emigrazione dell'Europa meridionale (Spagna, Grecia, Italia) sono
    diventati paesi di immigrazione. Si sono rallentati i flussi
    migratori verso il Golfo Persico; in Africa gli emigranti si
    dirigono prevalentemente verso altri paesi africani. In Europa, per
    effetto dei numerosi arrivi dalle ex colonie, è calata la
    percentuale degli immigrati di origine europea: nella popolazione
    dei paesi industrializzati la quota di stranieri si aggira intorno a
    un valore medio del 5% (Canada 15,6; Stati Uniti 7,9; Germania 8,5;
    Francia 6,3; Italia 1,7; Giappone 1,1).
Come vedremo esaminando i rischi della globalizzazione (v. cap. 4),
    la mondializzazione del lavoro si attua, più che con le
    migrazioni, con il flusso degli scambi: un contributo notevole
    è dato dagli investimenti diretti all'estero e dalle
    delocalizzazioni. Nel delocalizzare la produzione, le imprese
    multinazionali utilizzano gli stessi sistemi tecnici e organizzativi
    usati nei paesi d'origine: risulta così profondamente
    trasformata la vecchia organizzazione del lavoro nei nuovi paesi
    industriali, che adottano i metodi dei paesi già da tempo
    industrializzati, salvo apportarvi delle innovazioni. Durante la
    lunga crisi organizzativa degli anni settanta e ottanta, riguardante
    tutto il complesso delle funzioni e dei livelli gerarchici
    dell'impresa, la ricerca di una forma di organizzazione più
    flessibile e partecipativa si è richiamata ad alcune
    esperienze nazionali (modello scandinavo, californiano, giapponese).
Con la globalizzazione urbana nasce una nuova centralità,
    basata non più sulle nazioni o sulle regioni, ma su
    città integrate nell'economia-mondo e divenute ‛globali'.
    Possono considerarsi tali le città in cui gli operatori
    economici trovano le risorse necessarie per svolgere la propria
    attività su scala mondiale (‛emittenti universali'), o quelle
    a cui hanno libero accesso gli operatori di ogni paese (‛riceventi
    universali'). Queste città, vere postazioni di comando e di
    controllo, rispondono all'esigenza di centralizzazione e di
    unità sorta dalla dispersione delle attività delle
    imprese transnazionali e dall'adozione, da parte loro, di strutture
    reticolari.
Il fenomeno è particolarmente evidente nella sfera
    finanziaria. Man mano che essa si globalizza, si formano dei centri
    che offrono alle imprese i capitali da investire e le valute ai
    tassi più favorevoli; questa tendenza è accentuata
    dalle esigenze di copertura dei deficit pubblici. I tre
    centri dominanti sono Londra, New York e Tokyo, seguiti da
    Francoforte e Parigi.
Inseparabile dall'ingegneria finanziaria è la fornitura di
    servizi alle imprese; perciò sia le grandi società che
    si occupano di tecnologie dell'informazione e della comunicazione,
    sia le grandi società legali e di consulenza, si sono
    insediate nelle città globali. New York è un'emittente
    universale di servizi giuridici, in quanto ospita le più
    importanti società specializzate in questo campo; Londra
    è al tempo stesso emittente e ricevente, grazie anche alle
    sue reti mondiali di banche e di società di assicurazione;
    Tokyo è scarsamente ricevente e non emittente; Parigi
    è una ricevente universale (nel settore della consulenza
    legale le grandi società francesi sono poco numerose e in
    diretta concorrenza con quelle anglo-americane).
La globalizzazione finanziaria costituisce senza dubbio la punta
    avanzata del fenomeno che stiamo esaminando: l'espansione dei flussi
    finanziari internazionali ha assunto infatti dimensioni che non
    hanno riscontro nella mondializzazione delle attività
    produttive. Negli anni ottanta il volume delle transazioni sui
    mercati dei cambi è aumentato di 10 volte, e solo il 3% di
    esse ha riguardato scambi di merci; tra il 1982 e il 1992 il volume
    delle operazioni internazionali su azioni e obbligazioni è
    passato dall'11,8 al 109,3% del PIL negli Stati Uniti, dal 12,5 al
    90,8% in Germania e dall'1 al 118,4% in Italia.
Per fronteggiare l'instabilità dei tassi di cambio e di
    interesse sono stati ideati nuovi ‛prodotti' finanziari, tutti
    rispondenti a una logica di controllo dei rischi. Questi prodotti,
    sempre più complessi, hanno rapporti sempre meno stretti con
    gli attivi cui si riferiscono e possono dare origine a transazioni a
    catena in cui uno stesso credito viene negoziato prima come credito
    principale e poi come suo ‛derivato'; più il derivato
    è complesso, più sono elevate le spese, e con esse gli
    utili dell'istituto finanziario che lo ha creato. La globalizzazione
    finanziaria è ulteriormente intensificata da queste
    innovazioni perché i paesi economicamente più
    importanti, lungi dal contrastare lo scatenarsi dell'inventiva in
    questo campo, la incoraggiano per mantenere competitivo il proprio
    sistema finanziario di fronte al crescente intervento delle banche e
    degli istituti finanziari esteri sui mercati nazionali.
La globalizzazione è favorita anche dalla disintermediazione
    dovuta allo sviluppo della finanza diretta da impresa a impresa e
    alla ‛titolizzazione' (la sostituzione di attivi poco o niente
    affatto negoziabili con titoli finanziari facilmente trattabili sui
    mercati secondari). Le grandi imprese - in competizione con lo
    Stato, costretto a emettere buoni del Tesoro e obbligazioni per
    coprire il disavanzo pubblico - soddisfano le proprie esigenze di
    finanziamento al di fuori delle istituzioni e dei circuiti
    tradizionali, collocando direttamente titoli con formule variabili
    in modo praticamente illimitato. Le banche rispondono diversificando
    le proprie attività in direzione delle operazioni ‛fuori
    bilancio', ossia verso attività di mercato (tesoreria,
    prodotti derivati, gestione di attivi, ecc.) anziché di
    finanziamento, dando così origine alla ‛banca di servizi',
    contrapposta alla ‛banca industriale'.
La globalizzazione ha ricevuto impulso anche dalla comparsa degli
    euromercati, enormi mercati sovranazionali nati dalle operazioni di
    dare e avere su conti in dollari gestiti fuori degli Stati Uniti,
    luogo della loro emissione; gli euromercati sono fonte di una
    notevole integrazione internazionale riguardante sia la finanza
    indiretta, in quanto sono aperti all'intermediazione bancaria
    internazionale, sia quella diretta, in quanto sono luoghi di
    emissione di eurotitoli (eurobbligazioni, euronotes).
    È nato così un nuovo spazio finanziario, che ignora o
    quasi le frontiere statali; e anche un nuovo tempo, giacché
    le tecnologie odierne consentono l'interconnessione in tempo reale
    dei mercati, la cui distribuzione geografica su tutti i fusi orari
    consente il funzionamento continuo del sistema su tutto l'arco delle
    24 ore. Numerosi collegamenti uniscono su scala nazionale e mondiale
    banche, investitori istituzionali (fondi pensione, fondi
    d'investimento), imprese industriali e commerciali: tutti vendono e
    comprano valute, prodotti derivati, titoli, e tutti operano sui
    mercati dei cambi e su quelli dei capitali. Mutuatari e investitori
    hanno accesso a un'infinità di prodotti finanziari, offerti
    su tutte le piazze del mondo, mentre il successo della finanza
    diretta implica una rinnovata specializzazione degli operatori a
    beneficio di attori che intervengono su mercati aventi una funzione
    espressamente speculativa (mercato a termine di contratti
    finanziari, mercato secondario di euronotes, mercato
    interbancario). È nato un mondo ‛virtuale' in cui i fenomeni
    monetari e finanziari vanno visti in primo luogo a livello globale e
    solo in seguito a livello locale; è il mondo del denaro, un
    mondo di concorrenza e di speculazione in cui tutto è
    arbitraggio e in cui al ‛reale' subentra il ‛nozionale'.
La globalizzazione oggi in atto è un processo a più
    dimensioni e dai molteplici aspetti, portatore di una civiltà
    e di una cultura mondiali: 1) di una civiltà, ossia di un
    modo di vivere, in quanto - nonostante le gravi carenze residue -
    favorisce la diffusione di un benessere elementare, non più
    riservato a una piccola parte dell'umanità, ma conseguito o
    atteso da masse di uomini in tutti i continenti; 2) di una cultura,
    ossia di ragioni di vita, in quanto consente a popoli per lungo
    tempo sfruttati e oppressi di accedere a un sapere di base e a
    valori di dignità e di autonomia da cui finora erano rimasti
    esclusi. Questa civiltà e questa cultura, derivanti entrambe
    dallo sviluppo tecnologico, unificano l'umanità sia in
    astratto, esprimendo una specie di unità di diritto, sia in
    concreto, facendo da tramite alla diffusione del progresso. Non
    mancano, peraltro, le contropartite (v. cap. 4).
    
3. Gli attori della globalizzazione
Di fronte alla globalizzazione i politologi tendono a definire le
    relazioni internazionali come flussi di vario genere e di varia
    origine che attraversano le frontiere. Vi è in ciò una
    parte di verità, perché ormai l'economia si sottrae
    sotto molti aspetti alla politica; ma vi è anche una certa
    esagerazione, perché il potere su base territoriale
    sopravvive e l'economia-mondo, anche se è dominata dalle
    imprese e dai gruppi multinazionali, si presenta come un tessuto
    gerarchizzato di reti in cui gli scambi che generano la
    globalizzazione sono in ogni campo il risultato del gioco combinato
    degli interventi e delle strategie non solo delle imprese e dei
    gruppi, ma anche degli Stati.
    
a) Le imprese e i gruppi multinazionali, attori primari della
      globalizzazione
Non sono le nazioni a essere in competizione, ma le imprese, le
    quali, a cominciare dagli anni cinquanta e sessanta, hanno intuito
    che l'economia mondiale si andava evolvendo verso una maggiore
    apertura dei mercati. La crisi degli anni settanta e ottanta,
    sopraggiunta mentre la capacità di produzione cresceva per
    effetto delle nuove tecnologie, ha accentuato fortemente questa
    tendenza. Le imprese non cercano di dominare il mondo, ma di trarne
    profitto, e ciò le porta a ridisegnarne la mappa.
La globalizzazione nasce anzitutto dalle decisioni delle imprese e
    dei gruppi che si sforzano di cogliere le occasioni per accumulare e
    valorizzare i propri capitali, in una dinamica
    dell'internazionalizzazione che ha come meta l'impresa ‛globale',
    capace di produrre e di vendere in tutto il mondo. Quale che sia la
    loro forma (global companies, cosmos
      sociétés), le multinazionali operano in uno
    spazio che non è senza frontiere, ma che tende a ridurne
    l'importanza.
F. Chesnais (v., 1994) chiama ‟oligopolio mondiale" lo ‟spazio di
    competizione" delimitato dai rapporti d'interdipendenza esistenti
    nella ristretta schiera di imprese che riescono ad acquistare e a
    conservare una posizione di effettiva concorrenza su scala mondiale
    in un settore industriale (o in un complesso di tali settori)
    disponendo di una tecnologia generica comune. Poiché ogni
    impresa conosce le sue rivali, la lotta tra di esse è
    spietata. Le strategie usate per condurre questa lotta sono
    molteplici: talvolta le imprese si avvalgono di un aumento di
    concentrazione e di potere sul mercato, oppure aggirano i costi di
    transazione e i costi-opportunità mediante integrazioni a
    valle e a monte; in altri casi cercano di ampliare l'area di
    controllo del processo produttivo o della gamma di prodotti, o
    addirittura di assicurarsi i vantaggi legati al possesso di attivi
    immateriali o di beni comuni. Le imprese globali tendono a
    realizzare volumi di vendite molto grandi, e quindi i loro prodotti
    sono concepiti e realizzati in vista di una clientela universale;
    tuttavia la tensione tra ‛globale' e ‛locale' è così
    forte che in molti casi le imprese devono tener conto delle
    peculiarità culturali che ostacolano la formazione di uno
    spazio isotropo e associare alla globalizzazione la localizzazione
    (‛glocalizzazione'), differenziando le loro attività secondo
    i paesi o le ‛regioni' (insiemi di paesi). Un'altra strada è
    quella della delocalizzazione, per cui le imprese si insediano in
    paesi che presentano caratteristiche vantaggiose - come
    infrastrutture adatte, manodopera abbondante e a buon mercato o
    particolarmente qualificata, legislazione sociale e fiscale
    favorevole, sindacati deboli, mercato destinato a espandersi o di
    facile penetrazione, ecc. Le imprese giapponesi utilizzano spesso le
    capacità intellettuali locali, installando all'estero
    laboratori di ricerca e sviluppo o partecipando a programmi di
    ricerca.
Per lungo tempo l'internazionalizzazione degli scambi commerciali ha
    preceduto quella della produzione, perché le imprese
    preferivano accrescere la produzione per esportarla anziché
    impiantare nuovi stabilimenti su un'area geografica più
    estesa. Oggi la globalizzazione esige una strategia diversa, in cui
    sono associati il lancio dei prodotti sui grandi mercati, la
    costituzione di una fitta rete di partners e di
    subfornitori con stabilimenti in loco e una gestione su
    scala mondiale capace di conciliare le esigenze di qualità,
    flessibilità e accettabilità politica. È questo
    il prezzo che le imprese globali devono pagare per garantirsi la
    sopravvivenza e la crescita, in una situazione in cui lo sviluppo
    tecnologico richiede un'attenta ‛vigilanza' e fa aumentare i costi
    di ricerca, la vita dei prodotti si abbrevia, le economie di scala
    si possono ottenere solo con quote di mercato abbastanza grandi e
    l'informazione ha assunto un ruolo fondamentale.
La globalizzazione accelera il passaggio dalle vecchie forme
    organizzative, fondate sulla centralizzazione (concorrenza
    attraverso i costi, economie di scala, marketing di massa)
    o sul decentramento (diversificazione in base alla qualità, marketing segmentato), a forme moderne fondate sulle reti (partnerships esterne e internalizzate, diversificazione mediante la divisione dei
    valori, marketing adattativo). L'impresa allora non
    è più una ‛grande' impresa (o un insieme di imprese
    più piccole), ma una rete di imprese in cui il centro
    fornisce la visione strategica e coordina i vari elementi, spesso
    dotati di un'autonomia sufficiente per stabilire accordi vantaggiosi
    con altre reti. Non vi è una separazione netta fra l'interno
    e l'esterno dell'impresa: variano solo le distanze tra le
    unità componenti e il centro, per lo più finanziario,
    che governa il complesso.
Grazie alla sua struttura, costituita da una rete di unità
    complementari o sostituibili, con un'integrazione internazionale
    permanente dovuta agli scambi intra-aziendali di beni intermedi,
    l'impresa globale è in grado di attuare una strategia
    realmente planetaria. La sua forza sta nella capacità di
    organizzare operazioni complesse, che richiedono una combinazione di
    varie attività alle quali collaborano imprese industriali,
    società d'ingegneria, organismi di ricerca, banche e istituti
    finanziari, società commerciali, aventi tutti status e regime giuridico differenti; il coordinamento e l'integrazione su
    scala mondiale delle attività strategiche avvengono
    nell'ambito stesso dell'organizzazione. Gli alleati strategici
    vengono scelti in quanto arrecano vantaggi comparati, complementari
    o compatibili, perché non c'è motivo di temere che si
    trasformino in concorrenti o perché si vuole evitare che si
    associno con imprese rivali.
Un settore industriale è ‛nazionale' quando riunisce un
    gruppo di imprese interessate essenzialmente al mercato interno;
    è ‛internazionale' quando implica una pluralità di
    imprese interconnesse e quando i gruppi rivali si affrontano su una
    base veramente mondiale; è ‛globalizzato' quando la posizione
    di un'impresa in un paese è influenzata in misura
    significativa dalla sua posizione in altri paesi e l'interdipendenza
    tra gruppi rivali è tale che essi sanno di essere in uno
    stato di reciproca dipendenza di mercato, e quindi di conflitto e al
    tempo stesso di collaborazione. Nei settori industriali che hanno
    raggiunto questo stadio intervengono accordi tra imprese, talvolta
    dopo un periodo di ostilità, talvolta come premessa a una
    fusione o a un assorbimento. Molti di questi accordi riguardano le
    tecnologie e comprendono cessioni di licenze, conduzione in comune
    di ricerche, ripartizione di rischi, definizione di norme che
    consentano la concorrenza su prodotti specifici; le imprese non
    partecipanti all'accordo sono tenute all'oscuro delle nuove
    conoscenze acquisite.
Lo sviluppo della globalizzazione non è uniforme: il suo
    influsso diretto e indiretto è meno sensibile
    nell'agricoltura, nell'artigianato e anche in alcuni settori
    industriali. Nelle industrie meccaniche e in quelle ad alta
    tecnologia la globalizzazione presuppone la capacità di
    portare la concorrenza in campo avversario, di andare là dove
    la domanda è forte e il mercato è promettente; per
    competere efficacemente è necessario essere un global
      insider, superare le barriere che proteggono gli oligopoli
    nazionali compiendo investimenti diretti all'estero; ciò
    provoca, per reazione, dei movimenti di capitali in senso inverso, e
    quindi un gioco di investimenti incrociati. Invece, nelle industrie
    che producono beni di largo consumo le imprese con struttura
    reticolare si espandono mediante subappalti a imprese locali, senza
    bisogno di investimenti diretti importanti; spesso si assume il
    controllo di una rete di distribuzione per poter disporre di mercati
    vincolati e per evitare prelievi sui profitti realizzabili.
Un esempio di industria globalizzata è rappresentato dal
    settore delle telecomunicazioni. In esso le decisioni riguardanti la
    standardizzazione delle tecnologie vengono spesso elaborate nel
    quadro di riunioni informali; le imprese che non vi partecipano, o
    che addirittura ne ignorano l'esistenza, non hanno quasi nessuna
    possibilità d'influenzare il contenuto delle applicazioni; i
    fornitori sono esclusi dal processo. Si tratta quindi di veri e
    propri sbarramenti e di una scelta di traiettorie tecnologiche a
    beneficio di un ristretto numero di partecipanti. Nel 1994 erano
    presenti sul mercato mondiale delle telecomunicazioni solo otto
    gruppi, quattro dei quali coprivano il 70% delle vendite.
Un altro esempio di industria globalizzata è il comparto
    tessile e dell'abbigliamento, in cui i cambiamenti intervenuti nella
    domanda e nelle tecnologie e il sufficiente livello di
    qualificazione e di affidabilità raggiunto dai produttori dei
    paesi in via di sviluppo hanno portato a delocalizzazioni su vasta
    scala, realizzate dapprima con investimenti diretti, trasferimenti
    di tecnologie e accordi di cooperazione, poi col ricorso alla
    subfornitura. Nelle imprese a struttura reticolare il centro
    nevralgico è collegato per via informatica da un lato a una
    rete di produzione decentrata, formata spesso da parecchie centinaia
    di subfornitori, e dall'altro a una rete di vendita al minuto che
    conta talvolta alcune migliaia di negozi affiliati; entrambe le reti
    si estendono su un gran numero di paesi.
    
b) Gli Stati
Il mondo è costituito dal complesso delle società
    umane con le loro aree culturali, le loro religioni e ideologie, le
    loro attività e i loro mercati, ma anche dalle divisioni
    territoriali, marcate dai confini che delimitano i vari Stati
    costituendone le linee di contatto con quelli adiacenti: essi
    rappresentano, è stato detto, ‟l'unica norma di carattere
    universale" (v. Foucher, 1988). La Carta delle Nazioni Unite vede
    nella sovranità nazionale che si esercita entro i confini dei
    singoli Stati la base delle relazioni internazionali; popoli e
    governanti continuano a considerare fondata su di essa
    l'organizzazione del mondo. La perdita d'importanza delle frontiere,
    condizione necessaria per la globalizzazione, dipende anche - per
    quanto ciò possa apparire paradossale - dagli stessi Stati
    sovrani, tramite la liberalizzazione e la deregolamentazione, subito
    sfruttate dalle imprese, dei movimenti di beni, servizi, capitali e
    manodopera.
La grande depressione degli anni trenta portò a un
    protezionismo così spinto da far parlare di
    ‛neomercantilismo'; all'indomani della seconda guerra mondiale
    prevalse invece l'idea che si dovesse metter fine al protezionismo e
    aprire i mercati nazionali, nella convinzione che solo la
    concorrenza fra attori in grado di utilizzare nel modo migliore i
    vantaggi comparati avrebbe potuto assicurare il progresso e l'ordine
    internazionale. Questo principio trovò applicazione
    nell'Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (GATT,
    General Agreement on Tariffs and Trade) stipulato all'Avana nel
    1948, inteso a ottenere una liberalizzazione generale degli scambi
    mediante sessioni di negoziati multilaterali fondati sul criterio
    della reciprocità: l'attenuazione delle barriere sarebbe
    quindi risultata da mutue concessioni degli Stati. Le sessioni
    finora svoltesi hanno permesso una notevole riduzione dei dazi
    doganali, il cui livello medio è sceso nei paesi
    industrializzati dal 40% del 1948 al 5% del 1993.
Verso la metà degli anni settanta hanno cominciato tuttavia a
    manifestarsi delle tendenze neoprotezionistiche, sotto forma di
    provvedimenti non tariffari. Alcuni di questi (limitazioni
    ‛volontarie' delle esportazioni, sistemi di distribuzione che si
    oppongono alla penetrazione di prodotti stranieri, ostacoli alla
    partecipazione di imprese straniere al capitale di imprese
    nazionali, come pure alla fusione tra imprese straniere e imprese
    nazionali) non si attengono alla normativa fissata dal GATT; altri,
    pur essendo in teoria compatibili con essa, la applicano in
    realtà in modo improprio (dazi compensativi e anti-dumping contro gli attacchi giudicati ‛sleali' dei concorrenti,
    regolamentazioni tecniche e sanitarie, prescrizione di un contenuto
    minimo di produzione locale nel prodotto finale); altri infine
    attuano politiche industriali intese a sostenere alcuni settori
    (settori in declino o, al contrario, settori di punta ad alta
    tecnologia). Tutti questi provvedimenti tendono a essere bilaterali:
    ciò spiega perché ci siano voluti sette anni di
    negoziati, segnati da parecchi fallimenti, prima che nel 1993
    l'ottava sessione del GATT, l'Uruguay Round, si concludesse
    positivamente. Gli obiettivi da raggiungere erano: colmare le lacune
    delle sessioni precedenti includendo nell'Accordo alcuni settori
    tradizionalmente esclusi (prodotti agricoli, prodotti tessili),
    stabilire nuovi diritti e obblighi in campi non ancora sottoposti
    alla disciplina del GATT (servizi, investimenti all'estero,
    proprietà intellettuale) e, soprattutto, sanzionare
    l'ingresso nel sistema dei paesi di nuova industrializzazione.
    Questi obiettivi sono stati in gran parte conseguiti, malgrado in
    alcuni casi le nuove disposizioni vengano applicate con molta
    gradualità, siano state rafforzate le norme anti-dumping e contro le contraffazioni, siano state istituite barriere
    protettive per evitare l'invasione del mercato europeo da parte
    degli Stati Uniti e dei loro associati (paesi del gruppo Cairns
    esportatori di prodotti agricoli), sia stata redatta una ‛lista
    verde' delle sovvenzioni (aiuti alla ricerca e alle aree regionali,
    tutela dell'ambiente) e l'Europa sia riuscita a conservare le sue
    barriere nel settore degli audiovisivi. In futuro le legislazioni
    nazionali dovranno adeguarsi ai testi che saranno elaborati dalla
    neonata Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO, World Trade
    Organization); le controversie verranno risolte mediante un
    meccanismo quasi giurisdizionale, automatico e coattivo.
L'economia mondiale è al tempo stesso locale, e quindi la
    globalizzazione dipende, oltre che dai provvedimenti presi a livello
    mondiale, anche dalle misure di liberalizzazione e di
    deregolamentazione decise a livello nazionale. Un esempio al
    riguardo è dato dalla sfera finanziaria.
Prevale dappertutto l'idea che il denaro debba essere mobile,
    affinché prestatori e mutuatari dispongano della
    libertà di scelta e di arbitraggio richiesta dall'economia
    moderna e dalla guerra dei capitali. Nel corso degli anni settanta e
    ottanta le autorità di tutti i paesi industrializzati hanno
    ceduto sempre più alle pressioni delle banche a favore della
    liberalizzazione del sistema finanziario. Si è ovunque
    attenuato il controllo del credito: sono diminuiti i controlli sui
    possessori di attivi e le quote di riserva obbligatoria delle banche
    sono state ridotte o regolamentate in modo nuovo, tenendo conto dei
    rischi indotti dalle innovazioni finanziarie. Questa
    deregolamentazione favorisce la formazione di vasti mercati
    finanziari: il mercato monetario, quello delle obbligazioni e quello
    ipotecario sono ormai intercomunicanti; sono sorti mercati a termine
    di strumenti finanziari che applicano ai titoli le tecniche della
    contrattazione a termine delle materie prime; le istituzioni
    finanziarie possono diversificare i loro portafogli di prestiti
    grazie alla deregolamentazione del loro passivo ed è
    tollerata l'esistenza di mercati paralleli a quelli ufficiali
    (mercati a trattativa privata), sui quali è possibile
    ottenere liquidità vendendo opzioni senza verificare
    l'identità del prestatore. È stata intrapresa una
    riforma delle piazze finanziarie per adattarle alle nuove tecniche
    di comunicazione e d'informazione: su numerose piazze i titoli, i
    buoni del Tesoro e gli altri valori mobiliari non sono più
    materializzati su carta, ma inseriti con una scrittura informatica
    su un conto titoli, e ogni grande mercato borsistico ha un indice
    che misura i rendimenti di un paniere di azioni e funge da base
    degli arbitraggi (indice Dow Jones a New York, CAC 40 a Parigi,
    Nikkei a Tokyo). La liberalizzazione dei flussi di cambio e dei
    movimenti di capitali e l'apertura dei mercati finanziari nazionali
    alle banche e agli istituti finanziari esteri portano alla
    formazione di un mercato unico dotato di un forte grado di
    autonomia, che ingloba e subordina a sé i mercati nazionali.
Vi è infine un'altra dimensione dell'economia mondiale,
    quella regionale. Liberalizzazione e deregolamentazione sono
    particolarmente intense nell'ambito dei mercati comuni e delle aree
    di libero scambio, comprendenti più paesi; la loro esistenza
    è diventata una delle basi delle relazioni internazionali,
    come dimostra il fatto che fino all'inizio del 1995 erano stati
    registrati ed esaminati dal GATT più di 70 accordi regionali.
    Su questi strumenti d'integrazione economica vi sono due tesi
    contrapposte. Secondo la prima, la conclusione di accordi regionali
    tende a stimolare la globalizzazione, in quanto l'apertura dei
    mercati interni permette alle imprese di servirsi dei mercati
    regionali come basi per sviluppare le proprie strategie mondiali. Le
    economie nazionali interessate da questi accordi sono più
    idonee ad affrontare la concorrenza su scala mondiale, essendo
    divenute più competitive grazie agli adattamenti richiesti
    dalla perdita d'importanza delle frontiere, all'attrazione
    esercitata sugli investimenti diretti dall'esistenza di un vasto
    mercato integrato e infine, qualora tale mercato implichi una
    dimensione nord-sud, grazie alla possibilità di giocare sulle
    disparità dei salari e degli oneri sociali. Secondo l'altra
    tesi, le vie della storia sono più tortuose e non vi è
    un'unica forma di regionalizzazione, bensì due: la prima
    è promossa dalla politica, anche se le imprese vi svolgono un
    ruolo non trascurabile; l'altra è stimolata dall'economia,
    anche se i governi vi partecipano attivamente. La logica della
    globalizzazione s'impone anzitutto alle imprese, e solo in seguito
    agli Stati: in entrambe le forme la regionalizzazione tende quindi a
    rafforzare il potere delle imprese, più che quello degli
    Stati, anche se questi sono dotati di organi sopranazionali. Le
    eventuali collusioni d'interessi possono tuttavia produrre dei
    movimenti in senso opposto, e la globalizzazione può cedere
    il posto alla costituzione di tante fortezze protezionistiche quanti
    sono gli accordi regionali.
A favore della prima tesi si sostiene che l'abbattimento delle
    barriere non tariffarie può ottenersi più facilmente
    nel quadro di aree regionali organizzate che non nel quadro del
    GATT: grazie all'ampliamento del sistema delle preferenze
    commerciali è stato possibile stabilire rapporti più
    stretti tra i paesi dell'Unione Europea e quelli aderenti
    all'Associazione europea di libero scambio (EFTA, European Free
    Trade Association), ponendo così le premesse per la
    costituzione dell'Area Economica Europea (1992) e per l'estensione a
    essa di molte disposizioni del mercato comune. A ciò si
    può obiettare, a sostegno della seconda tesi, che i giochi
    non sono ancora fatti e che non vi sono oggi su scala mondiale casi
    di egemonia assoluta. Ciò che è chiamata pax
      triadica è piuttosto l'espressione di un equilibrio
    precario dovuto al raggrupparsi della maggior parte delle economie
    nazionali intorno a tre poli: l'Europa occidentale, il Nordamerica e
    il Pacifico occidentale. Ciascuno di essi presenta uno o più
    paesi-guida in grado di scegliere in modo pressoché autonomo
    le proprie strutture e i propri programmi, e la cui area d'influenza
    non coincide con quella degli accordi regionali in cui sono
    integrati. La Germania tende così a diventare il paese-guida
    di un'area che si estende, soprattutto a est, oltre le frontiere
    dell'Unione Europea; il Giappone è al centro di un sistema
    produttivo di ambizioni mondiali; e il predominio degli Stati Uniti
    si esercita molto al di là delle frontiere dell'Accordo
    nordamericano di libero scambio (NAFTA, North America Free Trade
    Agreement). Nell'ambito di ciascun polo si manifestano
    rivalità e resistenze sia tra paesi-guida d'importanza
    diversa, sia tra questi e i paesi satelliti. Dev'essere quindi la
    politica, e non l'economia, a costituire la base per la formazione
    delle varie aree regionali e per la regolazione dei rapporti che
    ciascuna di esse ha con le altre.
    
4. La globalizzazione crea ordine o disordine?
Stando all'ideologia del libero scambio, il benessere mondiale
    cresce necessariamente quando, in condizioni di concorrenza
    perfetta, tutti i paesi si aprono agli scambi internazionali e si
    specializzano nelle produzioni in cui godono di un vantaggio
    comparato. Ma la realtà è ben diversa: la
    globalizzazione non è il risultato finale di
    un'internazionalizzazione che procede senza traumi e che per
    mantenere il suo ritmo ha bisogno solo di attuare le disposizioni
    contenute nel documento finale dell'Uruguay Round (ossia che i
    governi favoriscano una maggiore apertura delle economie nazionali e
    il libero gioco dei meccanismi della concorrenza). La
    globalizzazione in atto non è conforme a questo modello: essa
    non rappresenta l'‛ordine' e la pace, ma piuttosto sostituisce alla
    ‛guerra fredda' del recente passato una ‛guerra calda' economica,
    fatta di strategie competitive, di aggressività
    imprenditoriale, di sicurezza da garantire di fronte alle ‛pratiche
    sleali' degli altri. Si tratta di uno scontro senza precedenti,
    finanziario e monetario ma anche economico e sociale, e naturalmente
    politico, connesso con un indebolimento delle compagini nazionali e
    con una destrutturazione delle società umane.
    
a) Rischi di collasso del sistema finanziario e ostacoli alla
      politica economica degli Stati
In un certo senso la globalizzazione è dovuta anzitutto alla
    mondializzazione della finanza e dell'informazione, i cui effetti
    vengono amplificati dai provvedimenti di deregolamentazione. La
    rivoluzione in corso nella sfera finanziaria - con l'introduzione di
    nuovi prodotti, mercati e meccanismi, la quasi completa
    smaterializzazione dei capitali, lo sviluppo dell'informatizzazione
    e la comparsa della ‛moneta informatica' - permette agli attori
    economici di compiere sui mercati monetari e finanziari operazioni,
    al limite, prive di ogni substrato concreto, provocando così
    una forte tendenza alla sconnessione tra finanza ed economia reale.
Il capitalismo finanziario globalizzato è in qualche modo
    prigioniero dell'organizzazione che esso stesso si è dato.
    L'ampliamento del campo di sostituzione e l'aumento del grado di
    sostituibilità tra gli attivi finanziari suscitano vasti
    movimenti di ridistribuzione dei portafogli e contribuiscono a
    rendere instabile la domanda di moneta, tutte le valute essendo
    ridotte al livello di attivi il cui valore dipende dalla loro
    circolazione (acquisto e vendita, richiesta e concessione di
    prestiti); l'accresciuta volatilità dei capitali e delle
    valute provoca brusche variazioni dei tassi e dei prezzi; aumentano,
    a livello sia nazionale che internazionale, i rischi di collasso del
    sistema finanziario.
L'ultramonetarismo e l'ultraliberismo dei paesi capitalistici
    industrializzati rischiano di portarli sull'orlo della catastrofe.
    Ormai il denaro produce denaro senza passare attraverso la
    produzione: si può comprare senza pagare e vendere senza
    possedere. Tra risparmio e moneta regna la confusione: gli
    investimenti a lungo termine sono finanziati mediante fondi presi in
    prestito a breve, vengono remunerati depositi esigibili
    immediatamente, e gli arbitraggi sono guidati da indici puramente
    monetari e finanziari. In borsa si ottengono plusvalenze nominali
    che non hanno alcun rapporto con i profitti realizzati nella
    produzione e col valore reale delle imprese. Le motivazioni sempre
    più speculative degli operatori, il successo da essi
    decretato ai finanziamenti a breve rinnovabili e ai mercati
    secondari, i continui aggiornamenti delle loro previsioni fanno
    sì che i titoli si trasformino in supporti di plusvalenze a
    breve, scarsamente legate all'effettiva situazione di chi li ha
    emessi. Le banche e gli istituti finanziari si assumono rischi che -
    in presenza di eventi traumatici di vaste dimensioni (deficit di bilancio, sospensioni dei pagamenti tra istituti finanziari
    nazionali e internazionali, fallimenti a catena di istituti di vario
    tipo, ecc.) o in caso di improvvisi mutamenti della congiuntura
    (settore immobiliare) - riescono a coprire (quando vi riescono) solo
    in modo molto imperfetto. Ne conseguono delle disfunzioni:
    operazioni non regolate su valori mobiliari, insufficiente
    assunzione di rischi, errori nella previsione dei guadagni e delle
    perdite, reticenze su una situazione reale d'insuccesso, in attesa
    di un'evoluzione dei mercati che si spera favorevole, soprassalti
    del mercato obbligazionario e arbitraggi incerti tra questo e il
    mercato azionario, con conseguenti manifestazioni di febbre o di
    debolezza nelle borse. Il sopraggiungere di queste disfunzioni
    aggrava i rischi sistemici dovuti alla latente o cronica
    instabilità dei mercati internazionali derivante dalla
    globalizzazione.
La più importante e più redditizia tra le
    attività finanziarie dei gruppi industriali e degli istituti
    finanziari è quella che si svolge sui mercati dei cambi. Essa
    viene giustificata con la necessità di coprire le operazioni
    eseguite sui prodotti e con gli indispensabili arbitraggi che ogni
    istituto finanziario internazionale deve compiere su mercati a
    termine flessibili; ma la principale motivazione è data dagli
    enormi profitti ottenibili con la mobilitazione a fini speculativi
    delle ingenti liquidità di cui i suddetti gruppi e istituti
    dispongono. Si formano così delle ‛bolle speculative' che
    provocano crisi monetarie, dimostrando come nell'era della
    globalizzazione i mercati abbiano il potere di far precipitare o di
    salvare qualsiasi valuta. È ben difficile resistere alla
    speculazione quando i movimenti internazionali di capitali superano
    ogni giorno - come avvenne durante la tempesta monetaria dell'estate
    1993 - l'intero ammontare delle riserve valutarie mondiali, pari al
    triplo di quelle delle banche centrali dei paesi della
    Comunità Europea.
In seguito all'accresciuta mobilità dei capitali e alla
    finanziarizzazione dei determinatori del cambio, le politiche dei
    tassi d'interesse possono esercitare un rapido e forte influsso sui
    tassi di cambio: i governi tendono quindi a considerare la
    correlazione fra tassi d'interesse e tassi di cambio come uno
    strumento privilegiato per reagire alle riallocazioni di portafoglio
    su scala internazionale mediante i cambiamenti che le variazioni dei
    due tassi inducono nei prezzi e nei margini di profitto dei settori
    dell'economia nazionale aperti alla concorrenza estera.
Ma la globalizzazione rende assai incerti i risultati di queste
    politiche. In seguito alla deregolamentazione, le banche centrali
    hanno un minore controllo sui tassi d'interesse: la loro
    capacità d'intervento è limitata a una parte della
    curva dei tassi (in particolare dei tassi del mercato monetario),
    essendo la determinazione della gamma affidata alle previsioni degli
    operatori finanziari e al gioco dei premi di rischio. Oggi i
    rendimenti finanziari della maggior parte delle attività
    economiche dipendono dai tassi di mercato, i mercati esteri
    costituiscono fonti di finanziamento supplementari sottratte
    all'influsso delle autorità nazionali, e insieme con la
    ‛moneta informatica' circolano, attraverso le interpretazioni degli
    operatori finanziari, anche i movimenti politici e sociali: tutto
    ciò fa sì che la politica economica degli Stati sia
    soggetta a vincoli molto pesanti. La manifestazione più
    evidente di questa situazione è data dalle difficoltà
    che incontra, quando non sia coordinata su scala internazionale,
    ogni politica di riduzione dei tassi d'interesse per favorire
    l'espansione: una simile politica provoca, fra l'altro, un
    trasferimento dei capitali verso piazze più remunerative.
    È chiaro dunque il messaggio che i mercati inviano ai
    governi: essi si oppongono a ogni tentativo di ridurre le rendite
    parassitarie consentite dal mantenimento di tassi d'interesse reali
    elevati, e chiedono che sia legittimato lo sfruttamento a fini di
    lucro di tutte le possibilità offerte dai differenziali tra i
    tassi. Il sistema finanziario mondiale, globalizzato e tendente a
    rendersi autonomo dalle economie nazionali, obbedisce a una
    ‛razionalità' di corte vedute, propria di speculatori
    incuranti della deontologia e delle conseguenze dannose che le
    turbolenze monetarie da cui essi traggono profitto possono avere per
    i popoli. Lo Stato nazionale, in seguito all'erosione del suo potere
    economico e alla sua dipendenza da fattori esterni legati ai
    processi di globalizzazione, perde in gran parte il controllo
    dell'economia del paese, che vede indebolirsi i suoi sistemi di
    difesa immunitaria.
    
b) Costi sociali e pericoli di regresso sociale
Partendo dal principio, caro alla tradizione liberista, che i
    benefici sociali dell'economia sono massimizzati dal libero gioco
    delle forze di mercato, alcuni autori non hanno esitato a definire
    questo gioco ‛una politica sociale internazionale per difetto'.
    Ciò significa però dimenticare che la globalizzazione
    comporta già oggi dei costi sociali elevati, i quali
    rischiano di aggravarsi se ci si accontenta di affermare che sono
    temporanei e che a lungo termine tutta l'umanità
    risulterà avvantaggiata.
All'inizio degli anni settanta non vi era ancora un problema di
    ‛competitività tra poveri', ma la ridistribuzione dei flussi
    commerciali mondiali negli anni ottanta, la formidabile crescita di
    potenza dei paesi asiatici nei primi anni novanta e il manifestarsi
    degli effetti attuali e potenziali della delocalizzazione e del
    subappalto della produzione di beni e di servizi suscitano ormai
    serie preoccupazioni e mettono in luce, accanto a quelli positivi,
    gli effetti sociali negativi della globalizzazione.
Effetti negativi si hanno nei paesi industrializzati, dove i
    lavoratori non qualificati, già colpiti più duramente
    degli altri dalla disoccupazione, dalla diminuzione dei salari
    relativi (e talvolta anche di quelli assoluti) e dalla minore
    offerta di lavoro, subiscono in pieno gli effetti della concorrenza
    dei paesi con manodopera a buon mercato. Ciò avviene
    specialmente nei settori ad alta intensità di lavoro, che
    producono in grande serie manufatti standardizzati e ordinati con
    molto anticipo (vestiario, calzature, componenti elettronici): in
    questi settori, grazie all'evoluzione tecnologica, le maggiori
    imprese segmentano il processo produttivo in più stadi,
    mantenendo nel paese d'origine la progettazione e la fase iniziale
    della lavorazione (ad esempio il taglio del vestiario),
    delocalizzando o subappaltando l'assemblaggio e conservando il
    controllo del marketing e dei circuiti di distribuzione.
    Alle perdite di occupazione che questa strategia determina occorre
    aggiungere quelle provocate dal diffondersi nel sistema produttivo
    di innovazioni di tipo offensivo e difensivo intese ad accrescere la
    produttività, come pure quelle derivanti dalla non
    istantaneità della compensazione tra i nuovi posti di lavoro
    e quelli soppressi (disoccupazione, difficoltà di adattamento
    ‛strutturali').
Si hanno invece effetti positivi nei paesi in via di sviluppo, nella
    misura in cui il mercato mondiale affranca i lavoratori dalle
    limitazioni imposte dalla scarsità di domanda interna: nelle
    economie del Sudest asiatico le industrie manifatturiere a forte
    coefficiente di manodopera non hanno decollato immettendo la loro
    produzione sul mercato interno, ancora essenzialmente agricolo, ma
    accedendo ai mercati internazionali. Occorre tuttavia sfumare
    quest'affermazione. I paesi in via di sviluppo costretti a ricorrere
    a politiche di stabilizzazione e di riduzione del debito non possono
    metterle in atto senza danneggiare la produzione e l'occupazione,
    perché in tempi di rigore finanziario si ha una contrazione
    della spesa pubblica per le infrastrutture e gli investimenti
    privati sono scarsi, a causa delle incertezze e degli effetti
    negativi derivanti da tale contrazione. D'altra parte, i paesi in
    cui l'industria si è sviluppata al riparo di solide barriere
    protezionistiche non possono diventare competitivi senza incorrere a
    breve e a medio termine in gravi difficoltà, che provocano
    una riduzione dell'occupazione nei settori più deboli.
    Nascono in ogni caso dei problemi di arbitraggio nel tempo, la cui
    soluzione è complicata dal fatto che l'attrazione esercitata
    dai nuovi posti di lavoro fa affluire nelle città masse di
    poveri non qualificati, destinati alla disoccupazione, al
    sottoimpiego, al precariato o tutt'al più al settore
    ‛sommerso'.
La globalizzazione, inoltre, mette in forse le istituzioni di base
    del ‛patto sociale' che è all'origine del Welfare State.
    I ‛leaders globali' di ogni livello, per i quali il mondo
    non è altro che un mercato su cui dislocare produzioni e
    capitali, si preoccupano solo delle ‛rigidità' del lavoro che
    vorrebbero fossero eliminate: salari troppo alti, minimi di legge,
    regolamentazione del lavoro che ostacola l'adattamento alle
    condizioni macroeconomiche generali e settoriali, oneri sociali
    eccessivi, entità e durata dei sussidi di disoccupazione,
    sicurezza del posto di lavoro, gravosità del sistema di
    sicurezza sociale - di tipo sia bismarckiano (copertura dei rischi
    di perdita del reddito legati alla degradazione del capitale umano),
    sia beveridgiano (assistenza ridistributiva e politica di piena
    occupazione) - e conseguente crescita incontrollata dei costi
    sociali relativi soprattutto alla sanità e alle pensioni.
Il capitale è connesso con l'insieme delle relazioni
    economiche e sociali interne alle nazioni, e in primo luogo col
    rapporto di lavoro salariato; pertanto la sua espansione su scala
    mondiale richiede, oltre all'apertura di uno spazio economico il
    più possibile ampio e omogeneo, la normalizzazione dei
    rapporti di forza mediante dispositivi istituzionali. Storicamente
    quest'esigenza si è tradotta nello sviluppo del diritto del
    lavoro e della sicurezza sociale e quindi nell'avanzata verso il Welfare
      State, vista da Myrdal come un processo graduale ma
    inarrestabile; sembrava lecito pensare che il Welfare State fosse divenuto una caratteristica stabile dei paesi
    industrializzati, e, al tempo stesso, una meta importante per i
    paesi in via di sviluppo. Peraltro, allorché prevale
    l'obiettivo dell'adattamento concorrenziale, appartiene alla logica
    della globalizzazione il reclamare, in nome della
    flessibilità, l'attenuazione generalizzata delle normative e
    la riorganizzazione delle forme istituzionali in materia di
    regolamentazione del lavoro e di sicurezza sociale. Si profilano
    allora gravi rischi: aumento delle discriminazioni e della
    segmentazione del mercato del lavoro a danno delle categorie
    più vulnerabili (donne, giovani, immigrati non qualificati);
    accentuazione delle disuguaglianze e delle divisioni sociali;
    formazione di una categoria di salariati meno tutelata per quanto
    riguarda l'osservanza del diritto del lavoro e l'accesso alla
    previdenza sociale; tentazione di ricorrere, anziché
    all'innovazione, a uno sfruttamento del lavoro che sembrava
    appartenere ormai al passato; prevalenza del regresso sociale sulla
    capacità di adattamento. Si potrebbero così
    compromettere sia la ridefinizione del rapporto di lavoro salariato
    e della socialità, assolutamente necessaria in una
    società che vive profonde lacerazioni, sia l'indispensabile
    coordinamento tra politica sociale e politica economica generale nel
    quadro di un progetto collettivo.
    
c) I problemi posti da una civiltà e una cultura
      mondiali
L'avvento di un'unica civiltà mondiale - cui contribuiscono
    scienza e tecnica, economia e finanza - e la contemporanea
    universalizzazione dei valori, con la presa di coscienza di
    un'umanità comune e del diritto incondizionato di ogni uomo a
    essere rispettato in quanto tale, rappresentano potenti fattori di
    progresso dell'umanità; ma la globalizzazione che ne è
    alla base implica gravi rischi di deriva incontrollata.
I ‛valori' omogenei di cui la globalizzazione è portatrice
    sono quelli del consumo di massa. Nonostante le spettacolari
    esibizioni di solidarietà, alle nuove generazioni viene
    trasmesso un messaggio perverso secondo cui il denaro e il potere
    sono più importanti della vita. Le industrie dei mass
      media, operanti su un immenso mercato mondiale, producono e
    diffondono dappertutto una sottocultura (o piuttosto una ‛non
    cultura'), procedendo a un condizionamento ‛morbido' dei popoli che
    mira a una mercificazione totale delle attività umane e a
    un'omologazione della domanda. La cultura che così sta
    nascendo è stata da R. J. Barnet e J. Cavanagh (v., 1994)
    assimilata a un ‟centro commerciale mondializzato" (global
      shopping mall); secondo P. Ricoeur, l'affermarsi in tutto il
    mondo di una civiltà dei consumi uniforme e integralmente
    anonima corrisponderà, al limite, al ‟grado zero della
    cultura creativa", al ‟nichilismo assoluto nel trionfo del
    benessere". L'imposizione di vincoli alla creatività non
    avviene più soltanto negli Stati totalitari, ma anche negli
    Stati cosiddetti ‛liberi', attraverso le costrizioni messe in atto
    dal potere del denaro e dei gruppi di pressione e dalla logica del
    mercato.
In realtà non esiste una cultura ‛universale', ma una cultura
    ‛dell'universalità', avente come postulati il rispetto della
    diversità delle culture e il dialogo tra esse. La
    globalizzazione tende a generalizzare uno stile di vita, ritenuto il
    migliore, e un'ideologia, quella della modernità: l'uno e
    l'altra portatori di un ordine mondiale il cui avvento presuppone
    l'assimilazione da parte di tutti i popoli delle usanze e dei valori
    così proposti. Si pone allora il problema dell'erosione e
    dell'eliminazione delle differenze culturali che già si sono
    espresse o che attendono di esprimersi e, a un livello ancora
    più profondo, delle personalità individuali. Vengono
    colpiti modi di vivere che rappresentano una moralità di
    fatto, e istituzioni che riflettono il pensiero dei vari gruppi
    umani in un dato momento della loro storia, come pure immagini,
    simboli e valori da essi accettati. Si mette in moto un processo
    internazionale la cui penetrazione, nel migliore dei casi, consente
    il mantenimento di una precaria autonomia, oppure comporta la
    colonizzazione e l'assoggettamento integrale; esso dà origine
    a giustificati risentimenti delle coscienze umiliate e a
    ripiegamenti sulla propria identità, ma anche a spinte
    nazionalistiche, integralistiche o razziste che mettono in pericolo
    la pace.
L'avvento di un'unica civiltà mondiale può
    rappresentare un progresso solo se essa, animata da uno slancio di
    umanità, permette a un numero crescente di uomini, grazie
    all'universalizzazione degli strumenti che continuamente essi
    inventano, di acquistare la consapevolezza di poter costruire la
    propria storia e di appartenere a un'unica comunità.
    Perché ciò avvenga è necessario che le ragioni
    di vita siano condivise e che emerga gradualmente, nel rispetto
    delle diversità, un fondo comune di valori.
Si può ritenere che non vi sarà una guerra tra
    civiltà, anche se alcuni temono che essa possa sostituire la
    guerra tra le ideologie, al di là della guerra tra gli Stati.
    C'è piuttosto da temere che, in mancanza di un progetto
    economico e politico capace di sfruttare le possibilità di
    maggior benessere insite nella globalizzazione, le tensioni e i
    conflitti derivanti dal rifiuto dell'alterità si associno a
    quelli suscitati dalla logica della lotta di mercato, dando come
    risultato un ordine mondiale poliziesco, in assetto di guerra
    permanente, al servizio dei ricchi, delle oligarchie o delle potenze
    egemoniche.
    
5. Globalizzazione, governo e governabilità
Ciò che diventa globale dev'essere ‛governato'. Già
    molto tempo prima di diventare, da J. Watt a J. C. Maxwell, un
    termine tecnico equivalente a ‛regolazione', il vocabolo ‛governo'
    (in francese gouvernance, in inglese governance)
    indicava il controllo permanente dell'universo da parte del
    Creatore, fonte suprema di un ordine cosmico in cui ciascun evento
    era riconducibile alla totalità. Lo stesso termine è
    usato oggi per designare la necessità di una ‛regolazione'
    dell'‛universo economico' che non è più affidata
    né a Dio né a un determinismo generale, bensì
    ad azioni che attuano procedure e programmi tesi a dominare il
    funzionamento e lo sviluppo dell'economia e a organizzarne le
    interdipendenze.
Il dramma sta nel fatto che mentre tutti gli abitanti del globo
    hanno ormai un destino comune, le strutture di gestione e di governo
    dell'economia-mondo non sono all'altezza della situazione. Le
    politiche sono sempre più sfasate rispetto alla realtà
    di un mondo economico e finanziario che sfugge alla loro presa: i
    loro sforzi, troppo spesso costretti entro le frontiere degli Stati
    nazionali, sono inadeguati alla nuova dimensione globale. La
    necessità urgente è di arrivare a un consenso minimo
    su un ordine internazionale da edificare: e nessuno Stato, neanche
    il più potente, è in grado di soddisfarla.
    Perché ciò avvenga, ‛governo' e
    ‛governabilità', capacità e possibilità di
    ‛governare', vanno considerati insieme su due livelli
    indissociabili, quello globale (il mondo) e quello locale (gli Stati
    nazionali).
    
a) Governo e governabilità a livello globale
Già nel 1962 Jan Tinbergen, premio Nobel per l'economia,
    sosteneva la necessità di aprire gli occhi sulle catastrofi
    prevedibili e di affidare a un organismo mondiale alcune decisioni
    di vitale importanza, come quelle riguardanti gli aiuti
    internazionali. Nel 1976 il tema fu ripreso nel rapporto del Club di
    Roma intitolato Reshaping the international order,
    coordinato dallo stesso Tinbergen: in esso si evidenziavano le
    azioni concrete da intraprendere e si insisteva sul progressivo
    trasferimento di almeno una parte dei poteri economici dal livello
    nazionale a quello internazionale, mediante la creazione di un certo
    numero di ‛autorità', veri strumenti di pianificazione
    globale e di gestione delle principali risorse disponibili nel
    mondo.
Nel corso degli anni ottanta e novanta, attraverso una serie di
    rapporti coordinati da W. Brandt (1980), O. Palme (1982), G. H.
    Brundtlandt (1987) e J. Nyerere (1990), si è gradualmente
    imposta nelle organizzazioni internazionali l'idea di un ‛governo
    globale', e con essa la riflessione collettiva su uno sviluppo umano
    durevole e sulla sicurezza della vita quotidiana in un mondo
    interdipendente in cui è facile smarrire i propri punti di
    riferimento. La Banca Mondiale si rifà a quest'idea,
    definendo il governo globale come ‟il modo di gestire le risorse
    economiche e sociali di un paese per sostenerne lo sviluppo"; sulla
    base della sua cinquantennale esperienza di cooperazione con quasi
    tutti i paesi in via di sviluppo, la Banca lancia nuove iniziative
    per aiutare i paesi debitori a rafforzare la governabilità
    della loro economia. Al governo e alla governabilità
    dell'economia-mondo fanno riferimento esplicito o implicito anche le
    istituzioni specializzate delle Nazioni Unite e gli organismi
    autonomi con esse collegati: sia quelli aventi come finalità
    la tutela degli esseri umani (lavoro, sanità, istruzione,
    lotta contro la povertà), la salvaguardia del patrimonio
    comune dell'umanità (sostegno biofisico alla sopravvivenza
    del sistema-mondo) e la cooperazione scientifica internazionale, sia
    quelli operanti in alcuni settori tecnici specifici (comunicazioni,
    agricoltura, finanziamenti). Gli stessi concetti sono argomento dei
    dibattiti che si svolgono durante le conferenze e i vertici a
    livello mondiale.
Le organizzazioni che fanno capo alle Nazioni Unite hanno avuto
    spesso occasione di collaborare tra loro e con gli organismi non
    governativi per realizzare vasti programmi (azione sociale,
    inquinamento, fondali marini, lotta contro l'AIDS, ecc.) e per
    mobilitare e gestire i fondi occorrenti. Queste organizzazioni
    continuano tuttavia a presentare gravi insufficienze, come dimostra
    la pretesa, più volte avanzata, di discutere della
    regolazione mediante il mercato e i meccanismi della libera
    concorrenza senza prenderne in esame i costi umani e ambientali. Non
    sorprende quindi che proprio nell'ambito delle suddette
    organizzazioni sia stato proposto, per ovviare alla mancanza di
    collegamenti a livello tecnico e politico tra esse e con i governi,
    di promuovere e realizzare un duplice meccanismo: le organizzazioni
    internazionali prepareranno ogni anno un complesso di
    raccomandazioni per migliorare il funzionamento dell'economia
    mondiale in una prospettiva di benessere comune, e questo complesso
    verrà sottoposto per l'attuazione a una riunione di ministri
    rappresentanti i governi.
Nello stesso spirito, durante la preparazione del vertice mondiale
    sullo sviluppo sociale di Copenaghen (marzo 1995), è stato
    proposto di formulare in termini chiari e precisi, mediante una
    Carta sociale mondiale, il nuovo concetto di ‛sicurezza umana', di
    istituire un Consiglio di sicurezza economica che analizzi i rischi
    esistenti in questo campo su scala mondiale e definisca le azioni da
    intraprendere per evitarli, e di predisporre, a cura del Segretario
    generale dell'ONU, un'agenda per lo sviluppo. Al termine del vertice
    è stata approvata una dichiarazione in cui si annunciava la
    promozione di una campagna mondiale per il progresso e lo sviluppo
    sociale e di un programma d'azione la cui peculiarità e la
    cui importanza consistono nell'approccio integrato agli impegni, ai
    principî e alle raccomandazioni risultanti dalle conferenze
    sui problemi globali (occupazione, inquinamento, povertà,
    ecc.), così che i provvedimenti presi si compongano in
    strategie nazionali e internazionali coerenti. Le istituzioni nate
    dagli accordi di Bretton Woods e le altre organizzazioni delle
    Nazioni Unite sono state inoltre invitate a intensificare e a
    coordinare le loro attività e i loro programmi e a
    collaborare maggiormente con i paesi interessati, dovendo gli
    interventi ispirarsi non solo a politiche macro- e microeconomiche,
    ma anche a politiche sociali.
Le difficoltà, quindi, non dipendono solo dai contenuti delle
    politiche di governo e dai criteri con cui essi vengono scelti, ma
    anche dal fatto che nessuno spazio internazionale organizzato
    può nascere spontaneamente dal mercato libero e che la
    globalizzazione colpisce, con i rischi che essa implica, gli
    interessi nazionali che gli Stati devono tutelare. Nel 1945 la Carta
    dell'Avana assegnava alle Nazioni Unite, ‟luogo di armonizzazione
    degli sforzi delle nazioni" (art. 1, § 4), finalità
    così ampie da poter essere assimilate a quelle di un vero e
    proprio governo mondiale, e concepiva l'ONU come un'associazione di
    Stati a carattere universale. La tutela delle sovranità
    statali ha permesso di salvaguardare l'universalità dell'ONU,
    e il fatto che ai rapporti bilaterali si sia sovrapposta una rete di
    relazioni istituzionalizzate ha contribuito in misura non
    trascurabile alla cooperazione internazionale. Tuttavia gli Stati
    non hanno finora rinunziato alla loro sovranità e, malgrado
    l'attività di legittimazione politica ed economica svolta
    dalle istituzioni sopranazionali, non sono ancora pronti tutti gli
    strumenti indispensabili per un governo e una governabilità a
    livello globale.
Il mondo è diventato sede di un pluralismo giuridico ordinato
    che combina entro spazi a geometria variabile tecniche giuridiche
    differenti, di subordinazione e unificazione in alcuni settori e di
    coordinamento e armonizzazione in altri. Ogni Stato è preso
    in un intreccio di risoluzioni, raccomandazioni, convenzioni e
    accordi, ma in molti paesi - che pure hanno recepito quelle
    raccomandazioni e ratificato quei patti - continua a essere grande
    il divario fra la tutela prevista dalle norme sovranazionali e la
    prassi imposta a popolazioni le cui condizioni di vita e di lavoro
    rimangono miserabili; così come rimangono notevoli le
    disuguaglianze tra i vari paesi, alcuni dei quali sono vittime di
    un'emarginazione generalizzata.
Oggi tutti gli interventi su scala mondiale, e non solo quelli
    ‛umanitari', si ispirano al ‛diritto d'ingerenza', che costituisce
    un nuovo capitolo, ancora da scrivere, del diritto internazionale, e
    un elemento portante, ancora da costruire, dell'ordine
    internazionale. È necessario che esso sia definito e disposto
    in modo da non poter servire come pretesto per manovre
    imperialistiche (anche le grandi potenze vanno disciplinate quando
    la loro politica o quella delle loro imprese danneggia il resto del
    mondo), e da opporsi, grazie alla definizione di una base di diritti
    che nessuno Stato abbia il potere di limitare, agli effetti perversi
    delle disuguaglianze in materia di sicurezza sociale e di sviluppo.
In politica e in economia non c'è molto spazio per i
    miracoli. Le molteplici forme che l'ingerenza assume già oggi
    nei settori in cui è giudicata necessaria tendono a delineare
    una forma di cittadinanza che oltrepassa le frontiere statali. Se
    finora è prevalsa la regola dell'uguaglianza tra le
    sovranità, è tempo che prevalga l'obbligo di
    rispettare i principî fondamentali su cui poggia la nascente
    società internazionale. Al termine dell'Uruguay Round
    è stato attribuito all'Organizzazione Mondiale del Commercio
    il potere di applicare sanzioni commerciali ai paesi che non si
    attengono alle norme di libero scambio stabilite dal GATT. Sarebbe
    giusto che nei vari campi interessati dal nascente diritto
    d'ingerenza (sanità, lavoro, ambiente, sviluppo durevole) un
    apposito tribunale internazionale o una sezione speciale della Corte
    Internazionale di Giustizia dell'Aia avessero il potere di emanare
    sentenze vincolanti contro i violatori di quelle norme. Per quanto
    riguarda il lavoro, il trattato istitutivo del NAFTA indica una
    strada: una procedura per ristabilire barriere doganali qualora in
    un paese non venga osservata la vigente legislazione del lavoro, e
    una disposizione per cui le norme internazionali non possano essere
    modificate in senso restrittivo.
    
b) Governo e governabilità a livello locale
Secondo R. O'Brien, nel campo dell'economia e della finanza il
    concetto di Stato nazionale è superato ed è destinato
    a scomparire molto prima che i politici e i popoli rinunzino alle
    loro idee di sovranità e d'indipendenza. R. Reich difende
    invece una visione positiva del nazionalismo economico: ogni nazione
    dovrebbe considerare suo dovere primario migliorare la
    capacità dei propri cittadini di contribuire all'economia
    mondiale, rinunziando sia al liberismo cosmopolita, sia al
    nazionalismo negatore degli altri popoli, e gli Stati dovrebbero
    aprire all'universalità le nazioni di cui hanno la tutela.
Il governo dell'economia mondiale rimanda a quello delle economie
    nazionali e non è attuabile senza o contro le nazioni e gli
    Stati: questi ultimi continuano a essere la fonte legittima del
    potere, anche se nell'ambito mondiale le regole del gioco che essi
    dovrebbero definire vengono anticipate dalle grandi imprese. Spetta
    agli Stati, e non a organismi internazionali lontani e spesso
    tecno-burocratici, far emergere una ‛razionalità' capace di
    esprimere una ‛convenienza collettiva'; ed è per il loro
    tramite che devono essere attuate le azioni deliberate al termine
    dei negoziati internazionali, ai quali, a giudizio delle stesse
    organizzazioni che li conducono, vanno associati anche gli Stati.
Da qui l'importanza della governabilità delle economie
    nazionali, anche quando la globalizzazione tende a ridurla; e da qui
    la coerenza della posizione assunta dall'Ufficio Internazionale del
    Lavoro quando, ritenendo che la disoccupazione, il sottoimpiego e i
    bassi salari non siano conseguenze inevitabili della globalizzazione
    e che esistano delle soluzioni, si schiera a favore di nuove forme
    di cooperazione tra Stato e mercato. È importante, infatti,
    che il primo regoli il funzionamento del secondo, ne corregga gli
    effetti perversi e ne valuti gli influssi potenziali; ed è
    necessario che una politica volontaristica intervenga per promuovere
    la giustizia sociale allorché il mercato non la garantisca o
    addirittura vi si opponga. Vi sono due possibilità. La prima
    è accettare, in conformità con l'ideologia
    neoliberista (o di un marxismo volgare), che lo sviluppo
    tecnico-economico prevalga su ogni altra forma di sviluppo e che le
    forze economiche agiscano in modo incontrollato, non essendovi
    nessuna possibilità di arrestarne o invertirne il corso.
    Poiché, come si è detto, nessuno spazio internazionale
    organizzato può nascere spontaneamente dal mercato libero,
    c'è da temere che, al manifestarsi di tendenze positive
    nell'economia mondiale, i paesi industrializzati, per far fronte
    all'accresciuta concorrenza dei paesi di nuova industrializzazione e
    dei paesi meno sviluppati, alla perdita della propria libertà
    d'azione e ai propri conflitti interni, ricorrano a provvedimenti
    protezionistici difensivi e offensivi. In tal caso non ci si
    avvierebbe verso un ordine internazionale pacificato, ma verso un
    mondo diviso, in cui le grandi potenze lotterebbero per l'egemonia,
    mentre si moltiplicherebbero le aree d'instabilità economica
    e politica e i conflitti locali autodistruttivi.
L'altra possibilità è che gli Stati si rendano conto
    che le reazioni di tipo protezionistico non sono adeguate ai
    processi di globalizzazione, con le opportunità e i rischi
    che essi implicano, e preferiscano seguire una politica di
    cooperazione. In tal caso, per adattarsi senza eccessivi costi alla
    rapida evoluzione dell'economia mondiale, essi dovranno definire
    alcuni principî comuni, prendere in esame i problemi sociali,
    economici e politici più importanti e adottare i
    provvedimenti istituzionali necessari affinché tali problemi
    possano essere trattati con continuità. Non si può
    peraltro escludere l'ipotesi che gli Stati, non riuscendo a mettersi
    d'accordo sugli obiettivi prioritari comuni e sul modo di coordinare
    le proprie politiche per conseguirli, blocchino il processo
    d'integrazione mondiale.
Gli Stati nazionali possono dunque contribuire all'integrazione nel
    sistema mondiale, oppure essere luoghi privilegiati di ricerca di
    autonomia e d'indipendenza. La necessaria articolazione del governo
    e della governabilità tra il livello globale e quello locale
    potrebbe essere attuata con la costruzione di un ordine mondiale a
    più livelli, avente il suo fulcro nel livello intermedio,
    quello regionale. L'Unione Europea - nonostante tutte le sue
    difficoltà e incertezze - e il NAFTA stanno a testimoniare
    una ripresa dell'interesse per i dispositivi d'integrazione
    regionale, ancorati alla realtà di spazi reticolari in cui
    gli scambi intraregionali si sviluppano senza soffocare quelli
    interregionali. Da questo punto di vista, costituire l'Area
    Economica Europea significa andare decisamente al di là dei
    rapporti interni tra i paesi dell'Unione per puntare sulle loro
    relazioni con l'Europa centrale e orientale, i paesi del
    Mediterraneo meridionale, l'Africa e il resto del mondo.
Le grandi aree regionali, a cominciare dall'Europa, sono spazi
    d'intenso scambio tra nazioni che presentano numerose
    affinità nei confronti della concorrenza mondiale e che hanno
    sistemi sociali originati da vicende storiche e politiche parallele;
    sono spazi composti da reti interconnesse, con margini fluidi
    soggetti a una dialettica di aperture e di ripiegamenti; sono infine
    spazi simbolici, oltre che materiali. Queste aree consentono ai
    governi e ai popoli di sperimentare, al di là dei comuni
    interessi economici, una vita politica a più livelli (di cui
    uno sopranazionale) e di allenarsi così ad affrontare la
    dimensione mondiale.
L'ambito ottimale per il governo e per la governabilità nel
    campo dell'economia internazionale è certamente il mondo. Ma
    è anche evidente che, almeno per un lungo periodo di tempo,
    la raccolta e l'elaborazione dei dati, la riflessione collettiva e
    il dibattito che essa implica, la ricerca dell'armonizzazione delle
    politiche micro- e macroeconomiche e delle logiche di competizione e
    di cooperazione, saranno realizzabili solo nel quadro di ampi spazi
    regionali. È significativa a questo proposito la sorte
    toccata ai ‛libri', decisa nel 1993 dalla Commissione delle
    Comunità Europee per promuovere la riflessione e il dibattito
    sulle sfide del XXI secolo e sui modi per affrontarle: questi
    documenti sono stati accolti favorevolmente dalle organizzazioni
    europee, ma le proposte in essi contenute sono state ridotte ai
    minimi termini. Al di là di una volontà di
    cooperazione economica ancora fragile, mancano la coesione e la
    coerenza, e la logica federalista - l'unica in grado di conciliare
    l'autonomia delle parti con l'unità dell'insieme - non si
    è ancora presentata all'appuntamento con la storia.
Il mondo, scriveva J. M. Keynes nella General theory, ‟ha
    oggi un estremo e ansioso bisogno di una diagnosi meglio fondata
    [...] ed è pronto ad accettarla e desideroso di verificarla,
    anche se è solo plausibile". Il mondo è tuttora
    così: pieno di sfide globali e terribilmente privo di un
    progetto di civiltà. Il vero problema posto dalla
    globalizzazione è in fondo quello del senso: ancora una volta
    l'umanità è chiamata a cercare di ricondurre le cose,
    le organizzazioni e le coscienze nel vasto moto che costituisce la
    trama della storia, e a cercare di raggiungere, per liberarla, la
    corrente totale della vita.
    
Enciclopedia delle Scienze Sociali I Supplemento (2001)
di M. Rosaria Ferrarese; Ronald Dore 
GLOBALIZZAZIONE
Aspetti istituzionali di M. Rosaria Ferrarese 
sommario: 1. Globalizzazione e profezie
    marxiane. 2. Istituzioni e patti sociali. 3. Lo Stato e le sue
    trasformazioni. 4. Spazio nazionale e spazio transnazionale. 5.
    Autori e coautori dell'ordine giuridico transnazionale. 6.
    Policentrismo istituzionale. 7. Pragmatismo istituzionale. 8.
    Ingegnerie sociali del diritto: dalle norme alle regole del gioco.
    9. La globalizzazione e la sfera del 'dover essere'. □ Bibliografia. 
    
1. Globalizzazione e profezie marxiane
Della globalizzazione sono state date svariate definizioni, che
    volta a volta mettono a fuoco gli aspetti fenomenici in cui essa si
    manifesta o le cause che li producono. Ad esempio, dire che la
    globalizzazione consiste in una sempre più rilevante
    interconnessione dei mercati o in una mutua interdipendenza tra
    varie aree geografiche (v. Giddens, 1990) descrive il fenomeno ma
    tace le cause. Se vogliamo cogliere le cause, dobbiamo far
    riferimento innanzitutto alla pervasività di nuove tecnologie
    che, abbattendo i limiti spaziali e temporali, permettono forme di
    comunicazione immediata e spesso 'in tempo reale'. Tuttavia,
    nonostante la centralità delle tecnologie, queste non bastano
    da sole a spiegare la globalizzazione. Le comunicazioni che questa
    mette in moto richiedono anche altri requisiti: innanzitutto un
    requisito di natura sociale, consistente nella condivisione di una
    lingua comune basata sugli interessi e sulla ragione dello scambio
    economico (v. Hirschman, 1977); in secondo luogo, un requisito di
    natura economica, consistente nella liberalizzazione dei mercati
    finanziari, che permette ai capitali di circolare liberamente,
    facendo da sostegno all'espansione delle imprese nello spazio
    transnazionale (v. Strange, 1998). 
La globalizzazione è dunque non solo globalizzazione
    dell'economia, ma anche diffusione di ciò che è stata
    chiamata la "pastorale moderna" (v. Berman, 1982), ossia una sorta
    di evangelizzazione planetaria al credo della modernità, al
    suo stile, ai suoi riti e alle sue istituzioni.Per quanto
    rivoluzionaria possa apparire questa fase, per quanto i cambiamenti
    che essa presenta, sempre più veloci e imprevedibili,
    sembrino segnare una fase del capitalismo del tutto nuova rispetto
    al passato, la gran parte delle sue dinamiche appare chiaramente
    tracciata già nel Manifesto del partito comunista, opera del
    1848 che, riletta oggi, mentre appare superata nella sua analisi
    politica, appare invece dotata di acume profetico nell'analisi delle
    tendenze proprie dell'evoluzione capitalistica e persino della
    globalizzazione (v. Marx ed Engels, 1848). In particolare, due
    tendenze sono lì già perfettamente colte. Da una parte
    la tendenza verso "l'insicurezza e il movimento perpetui",
    nonché a una sorta di dissoluzione e smaterializzazione dei
    rapporti che il capitalismo porta con sé, fino alla
    dissoluzione di tutto ciò che è 'solido' (v. Berman,
    1982). Questa profezia trova oggi conferme innanzitutto in una
    struttura industriale in cui la base della ricchezza è
    completamente nuova rispetto al passato ed è una risorsa del
    tutto immateriale, mobile e impianificabile: la conoscenza,
    piuttosto che la terra o il denaro è la nuova base
    dell'economia (v. Thurow, 2000). Si può in tal senso parlare
    di una 'terza rivoluzione industriale', caratterizzata da una
    estrema mobilità dei processi produttivi, organizzativi e
    commerciali, in cui vincenti sono non più le hierarchical
    firms, ma le entrepreneurial firms, che perseguono una strategia di
    continui cambiamenti dei propri prodotti, e riescono così ad
    anticipare la concorrenza, piuttosto che subirla (v. Porter,
    1985).La seconda tendenza individuata da Marx ed Engels è
    quella per cui "la borghesia ha spogliato della loro aureola tutte
    le attività fino ad allora guardate con rispetto e pia
    soggezione. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il
    poeta, lo scienziato in suoi operai salariati" (v. Marx ed Engels,
    1848; tr. it., p. 9). 
In termini più teorici, altrove Marx ed Engels parleranno di
    una 'struttura' economica che diventa determinante e che riduce nel
    suo cono d'ombra la politica, le istituzioni, le credenze, facendone
    delle mere luci riflesse, delle 'sovrastrutture' senza una propria
    anima e, si direbbe oggi, senza una propria
    'autoreferenzialità' (v. Marx ed Engels, 1932). Via via che
    il capitalismo conquista nuove nazioni e le costringe ad adottare il
    proprio "sistema di produzione", esso crea un mondo "a propria
    immagine e somiglianza".Queste due profezie marxiane ci possono
    guidare nell'analisi delle trasformazioni istituzionali che la
    globalizzazione porta con sé. Trasformazioni che, nel loro
    insieme, si possono ricondurre per un verso a una dinamica di
    alleggerimento delle istituzioni, di perdita di peso e di
    rigidità, per un altro verso a una dinamica di sempre
    maggiore aderenza alle ragioni dell'economia.Ciò che si va
    disegnando davanti ai nostri occhi è un orizzonte
    istituzionale assai più mobile e indefinito che nel passato.
    Via via che si espande la capacità delle forze economiche di
    agire in maniera transnazionale, superando limiti e confini di
    carattere nazionale, si configurano uno spazio e un tempo
    dell'economia che non si riconoscono più nel tempo e nello
    spazio delle istituzioni tradizionali. È nella sfida alle
    istituzioni tradizionali, soprattutto allo Stato e al suo diritto,
    specie nella loro versione europeo-continentale, che si può
    riconoscere una vera rivoluzione, una rivoluzione che chiude un
    periodo storico contrassegnato dalla centralità e
    dall'esclusività degli Stati, e apre una nuova fase, per
    così dire, di maggiore complessità
    istituzionale.L'economia globalizzata è alla ricerca di
    istituzioni che siano temporalmente e spazialmente capaci di
    corrispondere alle sue esigenze o cerca di adattare quelle
    tradizionali alle proprie esigenze. Essa trascina con sé non
    solo nuove forme di organizzazione e di comunicazione sociale, ma
    anche nuovi assetti istituzionali. Assetti istituzionali improntati
    a quella leggerezza e a quella ratio economica di cui le imprese
    hanno bisogno per espandere i propri scambi. Stati e istituzioni
    giuridiche assecondano ritmi e movenze dei mercati. Ed è a
    queste istituzioni che rivolgeremo la nostra attenzione. Non prima
    di aver precisato meglio cosa si intende con il termine
    'istituzioni'. 
    
    2. Istituzioni e patti sociali
    
Stato, diritto e mercato sono tre importanti istituzioni delle
    società moderne. Le istituzioni altro non sono che insiemi di
    regole, formali e informali, ma comunque accettate socialmente e
    stabili nel tempo, che orientano le azioni e i comportamenti sociali
    in determinate sfere. Ma è importante integrare questo
    significato, sociologicamente consolidato, delle istituzioni, con un
    altro aspetto: ossia con l'idea che esse contribuiscono a disegnare
    i patti sociali che regolano gli scambi tra le varie parti. In tal
    senso, le istituzioni sono puntelli essenziali dell'identità
    sociale e contribuiscono a comporre la griglia di diritti e doveri,
    di poteri e libertà, conformando ruoli che agiscono in forma
    interrelata e reciproca. Specialmente lo Stato (con il suo diritto)
    e il mercato, tipicamente, sono parte preminente di un invisibile
    patto sociale che lega governanti e governati, ripartendo i poteri e
    le sfere di libertà, i diritti e gli obblighi, ciò che
    è privato e ciò che è pubblico.Le teorie
    contrattualiste, all'alba degli Stati moderni, incarnarono questa
    idea, vedendo nello Stato la filigrana essenziale di tale scambio.
    Dietro un'apparente unità di modelli, tuttavia,
    nell'Occidente presero forma due diverse versioni di questo scambio.
    Nell'Europa continentale prese corpo una tradizione, ispirata
    prevalentemente al modello hobbesiano, che sosteneva uno Stato forte
    e un diritto di ispirazione essenzialmente pubblicistica, formulato
    in termini di comandi destinati a dare ordine alla società.
    In questo modello il mercato, visto come zona tendenzialmente
    anarchica (v. Macpherson, 1964), restava costretto negli argini di
    controlli e restrizioni statali che ne ridimensionavano il ruolo di
    istituzione autonoma. Ad esempio, nella concezione weberiana, il
    diritto del mercato, nella sua versione europeo-continentale,
    risponde a un intento di 'calcolabilità' e associa attese di
    pianificazione e governo dell'economia (v. Weber, 1922). 
Nel mondo anglosassone, e soprattutto negli Stati Uniti, ebbe luogo
    una diversa tradizione, ispirata al modello lockiano, in cui a uno
    Stato debole corrispondeva la preminenza della libertà degli
    individui, che trovava nella proprietà privata il suo
    fondamento più significativo. La contaminazione con le teorie
    utilitariste portava poi questo modello, specie nella sua versione
    americana, ad attribuire al mercato un ruolo strategico nella
    salvaguardia delle libertà. In ragione di questa diversa
    ispirazione, il diritto qui rifuggiva da una conformazione
    pubblicistica e trovava piuttosto negli istituti privati della
    proprietà e del contratto il proprio centro ispiratore. Il
    mercato, pertanto, piuttosto che essere un puro prodotto delle
    decisioni giuridiche, contribuiva esso stesso a fornire criteri
    ispiratori per le regole giuridiche (v. Ferrarese, 1997).All'ombra
    di questi due modelli, hanno avuto luogo due diverse civiltà
    giuridiche, note come di common law e di civil law, la cui
    differenza è possibile cogliere non solo e non tanto per i
    diversi istituti che le caratterizzano, ma per il diverso peso
    specifico che in esse assumono le tre istituzioni dette. Nella
    civiltà di civil law, lo Stato è in posizione di
    eminenza rispetto al mercato ed il suo diritto è strumento di
    riduzione e di addomesticamento del mercato. Nella civiltà di
    common law, Stato e mercato sono istituzioni che si fronteggiano e
    si bilanciano a vicenda (v. Ferrarese, 1992), con la conseguenza che
    il diritto (nelle faccende economiche, ma non solo) è un
    prodotto in movimento, soggetto a tensioni non del tutto diverse da
    quelle che sono proprie della vita economica.Dietro queste due
    tradizioni si nascondono le ragioni di un diverso impatto che la
    globalizzazione, portando alla ribalta i mercati, ha rispettivamente
    sulla civiltà giuridica europeo-continentale e sulla
    civiltà giuridica anglo-americana e specie americana. 
Se quest'ultima, a partire dalla centralità della common law
    fino alla scelta dell'assetto federale, si è costruita su un
    modello di concorrenza e dunque di non esclusività del
    referente statale, ben diversamente stanno le cose per la prima:
    questa, infatti, avendo a proprio fondamento esclusivamente gli
    Stati, viene messa a più dura prova dalle tendenze globali,
    che sembrano superare e sfidare quella logica di monopolio, di
    confini e di rigide ripartizioni del potere statale: una logica che,
    storicamente, si può far risalire al trattato di Westfalia
    del 1648, che negli Stati individuò le coordinate essenziali
    dell'ordine europeo, chiudendo la lunga stagione delle guerre di
    religione.Osservata da questa prospettiva, la globalizzazione, come
    suggerisce Strange (v., 1996), è un processo di rottura di
    quest'ordine giuridico incentrato sugli Stati, con un consistente
    travaso di poteri dagli Stati verso i mercati. Questa
    interpretazione della globalizzazione in termini di mutate
    costellazioni di potere e di concorrenza tra Stati e mercati
    è importante per comprendere i profondi cambiamenti
    istituzionali che accompagnano la perdita di centralità degli
    Stati e i mutati patti sociali che li accompagnano. Se il mercato
    acquista centralità come istituzione globale a danno degli
    Stati, che appaiono istituzioni locali, anche l'ispirazione
    centralistica del diritto statale appare in gran parte superata: il
    diritto, se vuol essere a misura di un mercato e di un mondo di
    relazioni globali, è chiamato a decontestualizzarsi, a
    cercare nuove misure di riferimento e ad affidarsi a nuovi soggetti
    creatori. Non si tratta solo di un allargamento della sfera delle
    libertà economiche, ma, ancor più, della
    capacità del mercato di fungere da punto di orientamento
    anche per le istituzioni tradizionali. 
    
    3. Lo Stato e le sue trasformazioni
    
Il primo aspetto da affrontare per comprendere i cambiamenti
    istituzionali prodotti dalla globalizzazione è dunque il
    ruolo nuovo svolto dagli Stati in questo processo. Certamente ogni
    profezia di scomparsa degli Stati appare sbagliata o almeno assai
    prematura. Gli Stati sono destinati a sopravvivere nel futuro
    prossimo e forse persino meno prossimo. Ciò che invece si
    è già estinta è la sovranità statale,
    intesa come istanza assoluta, ossia incontrollabile ed originaria,
    superiorem non recognoscens, come si leggeva nei libri che davano
    fondamento teorico alla nozione. Oggi una nozione così
    vecchia della sovranità residua solo in Stati che non
    brillano per civiltà e democrazia e dove la corteccia statale
    serve soprattutto a rivestire regimi autocratici e
    dittatoriali.Questo declino della sovranità statale intesa
    nel suo senso originario significa la scomparsa degli Stati come
    soggetti interni e internazionali capaci di pensare in grande e di
    decidere in assoluta autonomia. Cambia, in altri termini, il potere
    degli Stati che diventa relativo, piuttosto che assoluto. Ma
    relativo non vuol dire insignificante o di poco conto: vuol dire
    invece che vive in un rapporto dialettico pressoché costante
    con altri poteri esterni e diversi. In un mondo globale in cui si
    affermano nuovi poteri sia sovranazionali, che si situano
    cioè al di sopra del potere degli Stati (come l'Unione
    Europea), che transnazionali, che prescindono cioè dai
    confini nazionali e li attraversano (come le grandi corporations), i
    due caratteri più significativi dello Stato sovrano sono
    compromessi entrambi: sia il controllo esclusivo del proprio
    territorio, sia l'esclusiva sull'uso legittimo della forza fisica. 
Nella situazione attuale, specie il primo attributo è
    indebolito da una situazione di sviluppo tecnologico che rende
    porosi e spesso irrilevanti i confini statali. Ad esempio, in
    materia di mercati finanziari, gli Stati possono varare e di fatto
    hanno varato diversi sistemi regolativi. Ma, a causa della
    mobilità dei capitali, questi sistemi regolativi sono
    tutt'altro che indipendenti e sono continuamente sfidati dalla
    crescente interdipendenza tra le economie di diversi paesi (v.
    Strange, 1998). Maggiori poteri mantiene lo Stato in presenza di
    normazioni sovranazionali: rispetto a questi nuovi poteri esterni,
    lo Stato rimane nella posizione di un decisivo gate keeper, che
    conserva un significativo potere di contrattazione e di veto; anche
    laddove non può non ratificare trattati, decisioni e regole
    sovranazionali, proprio perché questi non sono
    "autoesecutivi" (v. Yoo, 1999), lo Stato può gestire
    significativamente l'atto di ratifica, sia nei modi che nei tempi,
    determinando esiti almeno in parte diversi delle normazioni comuni.
    Ma, anche in questo caso, si tratta di un potere parziale e
    interstiziale, piuttosto che intero ed assoluto.Questa
    trasformazione degli Stati, che da detentori di un potere assoluto
    diventano detentori di un potere relativo, d'altra parte, è
    sintomatica delle trasformazioni della stessa arena globale, che si
    caratterizza per la sua natura negoziale: il trattato, il contratto,
    l'accordo, il negoziato diventano sempre più i modi tipici
    per assumere decisioni giuridiche. Se nel modello giuspositivistico
    le norme apparivano frutto di una decisione ascrivibile a
    volontà sovrana e il contratto era una modalità
    residuale di assumere decisioni, disponibile soprattutto per i
    privati, ora sono delle norme di tipo negoziale a costituire il
    principale mezzo di espressione giuridica transnazionale.La
    riduzione degli Stati al linguaggio del contratto e dell'accordo
    è peraltro sintomo di una crisi della normatività che
    si può registrare nel mondo globalizzato. La
    normatività era, per così dire, il carattere del
    'dover essere' nella sfera giuridica e trovava nelle norme
    giuridiche emanate dagli Stati una espressione parallela, per quanto
    soggetta a variabilità, a quella dei precetti morali. 
Lo Stato, rendendo precettivi i propri comandi giuridici, da una
    parte assicurava certezza e uniformità del diritto,
    dall'altro pianificava un futuro tendenzialmente in
    continuità con il presente. La normatività era infatti
    basata su premesse di stabilità e di controllo della
    stabilità sociale, politica ed economica.Con la
    globalizzazione, invece, la stabilità perde attrattiva e
    comunque diventa impossibile: il cambiamento, come si è
    detto, diventa la scommessa continua dell'economia in modi che
    profilano una sorta di rivoluzione perpetua in atto. Con la fine di
    un contesto caratterizzato dalla stabilità, si creano le
    premesse per una crisi perpetua delle pretese normative. Le nuove
    istituzioni della globalizzazione tendono dunque ad assumere uno
    stile prevalentemente regolativo, piuttosto che strettamente
    normativo. Esse cioè fissano recinti di tipo procedurale dei
    quali i soggetti debbono tenere conto, ma entro i quali possono
    muoversi con qualche libertà per perseguire i propri fini.
    Ciò non significa la fine di ogni normatività, come si
    dirà più avanti, ma certamente un suo drastico
    ridimensionamento. 
    
4. Spazio nazionale e spazio transnazionale
Se gli Stati non sono più i detentori del monopolio della
    produzione giuridica, è perché altri soggetti si sono
    via via appropriati di una capacità di creazione del diritto
    e hanno invaso uno spazio che prima era di esclusiva pertinenza
    dello Stato. Più in generale, al di là del momento
    normativo, è l'intera vita del diritto, anche nei suoi
    processi di enforcement sociale e istituzionale, ad essere cogestita
    da soggetti molteplici, non necessariamente a configurazione
    pubblica, che si attivano nella sfera giuridica al fine di produrre
    regole o adattamenti di regole acconci alle loro esigenze.Il potere
    degli Stati, in altri termini, viene insidiato da numerosi soggetti,
    sia pubblici che privati, che si pongono come suoi concorrenti,
    perché tendono a sottrargli quote di potere, o attraverso
    processi formali o attraverso processi informali. Se gli organismi
    sovranazionali, come l'Unione Europea o la World Trade Organization
    hanno il loro fondamento in un atto di adesione degli stessi Stati,
    e dunque in un atto formale, e restano soggetti a fondamento
    pubblico, i mercati e le imprese che li animano, che sono
    rigorosamente privati, fanno concorrenza agli Stati senza aver
    bisogno di alcun atto formale.
Ma il protagonismo di nuovi soggetti nello scenario giuridico va
    letto innanzitutto come un effetto legato alla moltiplicazione degli
    spazi della comunicazione giuridica. Tradizionalmente, lo spazio
    della giuridicità era tutto occupato dagli Stati, che, nel
    proprio territorio, godevano di un monopolio come legislatori. A
    ciò corrispondeva uno spazio internazionale che veniva via
    via disegnato da alcuni Stati i quali, in accordo con altri Stati,
    stringevano patti, accordi e trattati, secondo modalità
    registrate dal diritto internazionale. La globalizzazione ci fa oggi
    apparire un nuovo spazio, che possiamo definire transnazionale, che
    non coincide più con la somma dei territori di alcuni Stati:
    questo spazio non ha rigidi confini prefissati, e costruisce di
    volta in volta i propri limiti attraverso le comunicazioni che lo
    attraversano: sono dunque i flussi comunicativi, ovviamente mobili e
    continuamente variabili, che danno misura a questo spazio.
È importante sottolineare questo nesso consustanziale tra lo
    spazio transnazionale e i flussi della comunicazione, perché
    così appare con chiarezza il carattere dinamico di tale
    spazio; in altri termini, con la globalizzazione è nata una
    nuova concezione dello spazio, non solo perché esso è
    virtuale o potenzialmente infinito, ma anche perché esso
    è, per così dire, reattivo: non è destinato a
    recepire passivamente qualcosa, ma contribuisce a creare di volta in
    volta i caratteri e le regole necessari alla sua stessa esistenza.
    Ciò spiega altresì perché le istituzioni della
    globalizzazione sono assai diverse da quelle tradizionali,
    perché vivono in funzione di questo spazio che è assai
    esteso e potenzialmente illimitato, ma al contempo incerto e
    precario, come tutti i fenomeni della comunicazione.In questo spazio
    emerge una nuova funzionalità del diritto indirizzata alla
    comunicazione. Il diritto dello spazio transnazionale mostra una
    sorta di mutazione genetica e non è più riconoscibile
    nella vecchia foto fatta dai giuspositivisti. Il bisogno di mettere
    in connessione giuridica soggetti appartenenti a diversi contesti e
    culture spinge il diritto a privilegiare questa finalità, con
    conseguente erosione della tradizionale funzione di controllo
    sociale. Il diritto diventa una sorta di nuovo jus commune, come una
    lingua sovranazionale, che si rifrange in una molteplicità di
    dialetti che ognuno parla a suo modo, con le proprie inflessioni e
    il proprio accento (v. Ferrarese, 2000).Va tuttavia precisato che il
    ritorno a forme di apparente unità del diritto, specie in
    alcune aree, sia di diritto privato che di diritto pubblico, non
    può intendersi come una vera unificazione del diritto: dietro
    l'apparenza dell'unificazione delle regole e degli standard vi
    è, in realtà, una molteplicità di diverse
    interpretazioni ed applicazioni, che rispecchiano, come si
    dirà, storie e contesti diversi.
Lo spazio transnazionale non ricade in alcuna competenza giuridica
    territoriale già esistente e mostra una giuridicità
    indefinita, ancora in fieri, che si va formando attraverso un
    continuo work in progress, con protagonisti e modalità del
    tutto nuovi. Esso, a differenza dello spazio statale (e in qualche
    modo anche dello spazio internazionale, che ha tradizionalmente
    assunto atteggiamenti tendenzialmente mimetici rispetto allo spazio
    statale), è contrassegnato da consistenti vuoti giuridici
    invece che dall'idea, tipica del giuspositivismo, secondo cui tutto
    ciò che era o accadeva sul territorio statale ricadeva sotto
    il dominio del diritto o, al limite, di una deliberata scelta di non
    renderlo di rilevanza giuridica. Sono proprio questi vuoti che
    creano lo spazio per nuove regole, per nuovi soggetti giuridici, per
    nuove gerarchie di potere e di prestigio, che non coincidono
    più con quelli nazionali. 
    
5. Autori e coautori dell'ordine giuridico
      transnazionale
      
Lo spazio transnazionale non è del tutto privo di regole:
    delle regole giuridiche si sono formate e si vanno formando via via
    che emergono nuovi bisogni o esigenze legati alla globalizzazione.
    Tali regole, che si vanno assemblando a macchia di leopardo,
    tuttavia, sono ben lungi dal comporre un corpus organico, completo e
    definito: esse costituiscono piuttosto degli abbozzi, in parte
    spontanei, di regolazione giuridica per alcune aree di vita
    transnazionale, anziché delle sicure guide giuridiche per la
    vita transnazionale nelle sue varie espressioni. Né si
    può parlare della loro giuridicità in un senso
    tradizionale, come derivante dal soggetto che le pone e dalle
    modalità attraverso cui vengono poste in essere. Lo stesso
    concetto di rule of law, spesso evocato nei dibattiti sul diritto
    globale, viene spesso inteso piuttosto come un attributo culturale,
    che assicura affidabilità soprattutto per la vita economica,
    anziché come un sicuro requisito giuridico. 
La formazione e la vita di queste regole è affidata in gran
    parte ai soggetti che si attivano per produrle: questi soggetti, di
    varia natura, si inseriscono come abitanti autoctoni dello spazio
    globale, affermando in via di fatto un proprio ruolo nella creazione
    delle norme, o nel cambiamento di quelle esistenti.A differenza
    degli organismi internazionali tradizionali, che si avvalgono del
    potere degli Stati e intervengono, per così dire, dall'alto,
    vincolando precisi territori e attori statali, questi soggetti sono
    spesso soggetti privati che intervengono piuttosto dal basso, in
    qualità di portatori o rappresentanti di specifici interessi
    o valori a dimensione transnazionale, pur non avendo alcuna
    competenza o forma di potere ufficiale. Il fatto che questi soggetti
    siano spesso privati non vuol dire che siano necessariamente deboli:
    al contrario, possono avere una forza superiore a quella di alcuni
    Stati: la loro forza può provenire dal potere economico,
    com'è nel caso delle grandi imprese transnazionali, le
    cosiddette transnational corporations, o dal possesso di una rete di
    riferimento e di comunicazione di natura globale, com'è nel
    caso delle non governmental organizations (NGOs).
Specie nell'area economica, si è assistito alla produzione di
    nuove regole, note come lex mercatoria, che in gran parte consistono
    in una rielaborazione continua del diritto contrattuale, e
    nell'introduzione di nuovi schemi contrattuali cosiddetti 'atipici'.
    Questo corpo di nuove regole è frutto di un processo di
    autonormazione degli stessi gruppi economici, proprio come avveniva
    nella società medievale, dove le corporazioni dei mercanti
    iniziarono questa pratica. La creazione di regole giuridiche per
    assecondare la circolazione e gli scambi dei prodotti non vede
    tuttavia comparire le imprese direttamente nel ruolo di
    legislatrici. Sono piuttosto le grandi transnational law firms,
    ossia i grandi studi associati di giuristi esperti in diritto
    dell'economia, che accompagnano giuridicamente i percorsi economici
    delle imprese, elaborando regole e moduli contrattuali sempre nuovi.
    Il modello organizzativo di queste 'imprese del diritto', che
    possono contare anche centinaia di giuristi esperti al proprio
    interno, è americano. E americano è anche il tipo di
    professionalità che esse coltivano: una
    professionalità 'imprenditoriale', che non lavora con stile
    esegetico sulle norme, ma le rielabora in maniera creativa, al fine
    di assecondare nuove esigenze della vita economica o di predisporre
    nuove forme di scambio. Questi nuovi "mercanti del diritto" (v.
    Dezalay, 1992), mentre agiscono nell'interesse delle imprese, che li
    pagano copiosamente per i loro servigi, sono tuttavia organizzati in
    forma indipendente, e così riescono a conservare il capitale
    simbolico del diritto, con le sue riserve di legittimazione e di
    valori di giustizia.
Sono altresì i grandi arbitri internazionali, chiamati a
    risolvere le grandi dispute di affari, ad avere nelle proprie mani
    gli standard delle decisioni relative alle condotte d'impresa. Anche
    in questo caso siamo di fronte a modalità di produzione del
    diritto del tutto private, dipendenti dalla 'virtù'
    attribuita all'arbitro (v. Dezalay e Garth, 1996) e tuttavia proprio
    tale lawlessness, se talora non ha mancato di suscitare
    perplessità, appare la qualità principale delle
    decisioni arbitrali (v. McConnaughay, 1999).
Come si vede, nello spazio transnazionale si va disegnando una nuova
    élite giuridica, a base professionale, la cui
    centralità è basata su competenze e
    professionalità che sono a misura del processo di
    globalizzazione. In primo luogo, essa non è legata a una
    specifica cultura nazionale e, pur avendo alle spalle una
    familiarità con le istituzioni americane, è in grado
    di adattarsi a contesti diversi e di servire esigenze sempre nuove.
    In secondo luogo, essa si afferma nella misura in cui si mostra
    capace di introdurre nel diritto cambiamenti creativi, in grado di
    assecondare le relazioni di scambio, attraverso nuove regole: essa,
    in altri termini, si richiama a una funzione che è in certo
    senso antitetica rispetto a quella tradizionale, di salvaguardia
    della continuità delle regole. In tal senso, questa
    élite transnazionale è parte di nuove gerarchie e di
    nuovi assetti giuridici che non coincidono più con quelli
    nazionali, non solo perché perdono quelle coordinate
    prevalentemente statali che li caratterizzavano nel passato, ma
    anche perché rispondono a una logica di 'realizzazione'
    piuttosto che ad una logica di 'ascrizione' (v. Parsons, 1951; tr.
    it., pp. 108 ss.).
Le grandi imprese transnazionali fanno concorrenza giuridica agli
    Stati e si candidano a coautrici dell'ordine giuridico globale,
    oltre che avvalendosi delle law firms, anche in altri modi
    più diretti, se pure di difficile percezione. Innanzitutto,
    il loro stesso modo di essere, la loro dimensione transnazionale, il
    non appartenere più ad uno spazio giuridico predeterminato,
    le mette in condizione di non dipendere più da un sistema
    giuridico e di guardare ai diversi sistemi giuridici come a oggetti
    tra cui poter scegliere in funzione dei propri interessi. Ciò
    significa altresì che esse hanno un non trascurabile potere
    di indurre i paesi che vogliono promuovere il loro insediamento ad
    adottare standard di legalità adatti alla produzione
    capitalistica, a partire dalla tutela del diritto di
    proprietà fino a tutte quelle libertà di espressione,
    di pensiero e di parola che accompagnano il mercato.
Un secondo modo che rende le imprese coautrici dell'ordine giuridico
    è attraverso la produzione stessa di merci, siano esse
    materiali o immateriali. Ad esempio, un oggetto prodotto dal
    mercato, come un oggetto elettronico, o un frutto geneticamente
    manipolato, contiene un rinvio implicito alla legittimità di
    quel prodotto. Tale legittimità può essere
    problematica, contestata e persino negata in uno o più Stati,
    ma dal momento in cui quella merce esiste, con la sua seduzione di
    oggetto di consumo, e appare in una delle vetrine della
    comunicazione globale, non mancherà di sfidare la
    prescrizione giuridica che la tiene al bando dei confini nazionali.
    Ancor più evidente appare questa sfida nel caso di una merce
    immateriale come Internet, ossia di una modalità di
    comunicazione mediata da una specifica tecnologia del mercato, che
    può, ad esempio, introdurre pornografia in uno Stato che la
    vieta, o reclamizzare un prodotto che è illegale, o
    permettere comunicazioni con uno Stato con cui si è in
    guerra.Le imprese, dunque, attraverso le loro tecnologie e le loro
    merci, diventano produttrici di modelli di vita e di
    identità, di stili di esistenza, di modalità
    comunicative estremamente pervasivi. 
Nella misura in cui il capitalismo globale si atteggia sempre
    più a capitalismo 'culturale', ossia mira non più solo
    a produrre oggetti di consumo ma piuttosto, attraverso questi, a
    gestire la sfera dell'identità dei soggetti, le grandi
    imprese transnazionali si pongono come le più importanti
    istituzioni del futuro. Ciò significa altresì che esse
    diventano non solo autrici dell'ordine economico globale, ma anche
    coautrici dell'ordine giuridico globale.Se i nuovi soggetti
    giuridici fin qui enumerati gravitano nell'orbita delle imprese e
    dunque della logica del profitto, le non governmental organizations
    sono invece al di fuori di questa logica: esse sono portatrici,
    nella sfera globale, di cause non profit e di valori, e sono
    indirizzate a fini di giustizia, di filantropia, di tutela dei
    deboli e dei diseredati del mondo, o di salvaguardia e tutela
    dell'ambiente. Esse possono perseguire un fine specifico, ad esempio
    lo sminamento degli ex territori di guerra, o la tutela dei bambini
    abbandonati, o possono battersi per fini di ampia portata, come la
    tutela dell'ambiente, ma in ogni caso le caratterizza un intento
    'militante'. I loro fini, avendo dimensione transnazionale, non si
    prestano più a essere perseguiti localmente. 
Alla luce delle interdipendenze globali, cambiano infatti non solo i
    termini dei problemi, ma anche gli interlocutori. Altrettanto
    caratterizzante per le NGOs è la loro natura non statale, che
    le fonda su risorse di mobilitazione e di iniziativa private.In che
    senso queste organizzazioni sono anch'esse coautrici dell'ordine
    giuridico mondiale? Esse possono agire in vari modi, con vari
    alleati e contro vari bersagli, per promuovere regole, accordi e
    trattati che agevolano le loro cause. Esse possono avere come
    interlocutori sia uno o più Stati, sia un'impresa o un gruppo
    di imprese. Soprattutto questa seconda contrapposizione appare di
    grande interesse: in un mondo che sembra avviato a subire una
    pesante egemonia della logica economica, sono queste organizzazioni
    private a rappresentare una possibilità di contraddittorio.
    Anche se, per il loro carattere casuale e instabile, per
    l'insufficienza di mezzi, per la limitatezza degli obiettivi che
    possono perseguire, esse sembrano difficilmente in grado di
    candidarsi a veri e stabili contropoteri. Le transnational
    corporations agiscono ormai in troppe sfere, e hanno una tale
    capacità di penetrazione capillare nella società
    mondiale, per prestarsi ad essere adeguatamente contrastate o
    bilanciate da questi nuovi soggetti privati transnazionali. 
    
6. Policentrismo istituzionale
Com'è emerso da questa pur breve e incompleta
    enumerazione di soggetti della sfera giuridica, con la
    globalizzazione si va disegnando un paesaggio istituzionale
    complesso, caratterizzato da decentramento e policentrismo.
    Poiché lo spazio transnazionale non ha barriere all'entrata,
    si possono dare sempre nuovi attori e sempre nuove modalità
    di accesso, ma anche sempre nuove modalità di interazione.
    Così, alle solenni costruzioni statali si sono via via
    affiancate numerose altre presenze private, che contendono loro
    spazio e centralità. La privatizzazione dunque coincide con
    un sensibile decentramento istituzionale.La globalizzazione tende a
    rifuggire da organizzazioni di tipo centralistico e sistematico e le
    sue istituzioni sono molteplici e concorrenti, piuttosto che
    distribuite secondo un ordine gerarchico. Lo stesso diritto globale
    segue percorsi centrifughi: la cosiddetta lex mercatoria, ad
    esempio, avendo nel contratto il suo strumento essenziale, si
    presenta tipicamente con un centro poco sviluppato e cresce
    piuttosto nelle periferie, via via che 'regole paralegali' vengono
    elaborate 'ai margini del diritto', laddove esso confina con il
    processo economico e tecnologico (v. Teubner, 1998). Ma, anche al di
    là del diritto privato, nello stesso diritto pubblico
    transnazionale, la tendenza a utilizzare strumenti di tipo
    contrattuale, come trattati e negoziati, è assai diffusa.
Il policentrismo trova inoltre espressione nella tendenza a un
    universo istituzionale caratterizzato non solo da un più alto
    numero di soggetti, secondo la dinamica tipica che accompagna ogni
    caduta di monopolio, ma anche da una più ampia varietà
    di tipologie di attori rispetto al quadro tradizionale. Il numero
    degli attori non è individuabile con certezza, perché
    lo spazio transnazionale è uno spazio incerto, che si
    costruisce ogni volta in funzione di specifici obiettivi e di
    specifiche forme di comunicazione, e dunque resta inevitabilmente
    aperto e tollera sempre nuove immissioni. Ma anche il carattere
    degli attori istituzionali non è predeterminato e si
    può dare una notevole varietà di tipologie. Numero e
    qualità dei soggetti contribuiscono a creare un paesaggio
    istituzionale variato e policentrico, con dinamiche molteplici.
    Alcuni esempi possono essere illuminanti.Gli attori istituzionali
    dello scenario transnazionale possono essere, come si è
    detto, sia pubblici che privati. Accanto agli Stati, istituzioni
    pubbliche per eccellenza, si possono trovare, ad esempio, soggetti
    privati per eccellenza, come le grandi imprese transnazionali. Anzi
    proprio questi due attori così diversi interagiscono di
    frequente, specie per 'contrattare' le condizioni di un insediamento
    industriale o commerciale, o per coordinare piattaforme di accordi
    internazionali. Ad esempio, uno Stato può concedere sostegni
    e infrastrutture in cambio di investimenti economici che danno
    occupazione e sviluppo. Oppure, un'impresa può chiedere a uno
    o più Stati di portare negli organismi internazionali di cui
    sono parte istanze o richieste di condizioni giuridiche favorevoli.
    Come si vede da questi esempi, soggetti pubblici e privati
    contrattano tra loro e si influenzano reciprocamente. Più in
    generale, si assiste a una significativa ibridazione, specie nelle
    istituzioni transnazionali, tra carattere pubblico e carattere
    privato. 
Ciò può essere inteso in vari sensi. Innanzitutto nel
    senso che le istituzioni pubbliche assumono connotazioni, caratteri
    e moduli di azione propri della sfera privata. Ad esempio, gli Stati
    accedono a considerazioni di opportunità e di convenienza
    economica, inseguono moduli ispirati alla concorrenza, persino
    all'efficienza. Per converso, anche i soggetti e le organizzazioni
    private internazionali tendono ad assumere connotazioni,
    responsabilità e forme di comunicazione pubbliche.Più
    in generale, specie nella sfera transnazionale, il carattere
    pubblico e il carattere statale non coincidono più
    necessariamente e si assiste alla tendenziale mescolanza tra il
    linguaggio degli 'argomenti', ossia dei valori, e il linguaggio
    della 'negoziazione', ossia degli 'interessi', in maniere e in forme
    in precedenza sconosciute specie in Europa (v. Elster, 1993). In
    secondo luogo, gli attori istituzionali transnazionali possono
    essere mossi da alti valori di giustizia, di solidarietà, di
    difesa della pace, ma possono anche essere indirizzati innanzitutto
    al profitto. Questa distinzione non coincide con quella precedente
    perché, ad esempio, le NGOs, che sono spesso animate da cause
    di alto valore morale, e sono dunque rigorosamente non profit, sono
    altresì rigorosamente private: anzi, come si è detto,
    il loro carattere privato è fondante per la loro
    identità.Infine, le istituzioni transnazionali possono avere
    competenze giuridiche o essere del tutto prive di caratteri
    giuridici e tuttavia svolgere un ruolo significativo nell'arena
    giuridica globale. 
Ad esempio, le transnational law firms e i grandi avvocati e arbitri
    internazionali, pur avendo carattere privato, sono pur sempre
    soggetti con formazione e competenze giuridiche, se pure ritagliate
    su scala globale piuttosto che con riferimento privilegiato a uno
    Stato. Essi pertanto sono portatori di una specifica forma di sapere
    che è un frutto, sia pure rinnovato e moderno, di una lunga
    tradizione e dei suoi presupposti. Al contrario, le associazioni
    transnazionali private, dette NGOs, attive nei più svariati
    campi e per le cause più diverse, non hanno alcuna qualifica
    giuridica. Ma, pur non avendo un interesse di natura direttamente
    giuridica, esse tendono a intercettare il processo giuridico
    transnazionale o nella fase di formazione delle regole, o nella fase
    di esecuzione delle stesse, attraverso varie forme di litigation,
    facendo sentire le proprie indicazioni, preferenze o
    necessità. Esse finiscono così per svolgere, con
    riferimento al proprio ambito di riferimento, un ruolo di
    'guardiani' nell'ordine giuridico transnazionale, denunciando le
    inosservanze tanto degli Stati, quanto delle corporations o di altri
    soggetti, sia alla pubblica opinione mondiale che a veri e propri
    organismi giurisdizionali internazionali. 
    
7. Pragmatismo istituzionale
Parlando di pragmatismo delle istituzioni si intende qui far
    riferimento a uno stile istituzionale che rifugge dall'aderenza a
    moduli rigidi e prefissati e che sceglie di volta in volta la
    propria fisionomia in funzione degli obiettivi che si vogliono
    perseguire o di circostanze, situazioni o luoghi diversi. Le
    istituzioni pragmatiche sono in antitesi con il formalismo: il
    formalismo presumeva infatti di racchiudere i percorsi della
    realtà entro norme e istituzioni rigide, che non lasciassero
    spazio alla discrezionalità e alla scelta. Si suole in
    proposito parlare della flessibilità come di un attributo
    richiesto dalla globalizzazione (v. Sennett, 1998). Ma si preferisce
    qui parlare di pragmatismo, per mettere meglio a fuoco non solo gli
    attributi, ma anche le cause e i fini delle istituzioni
    'flessibili'.Il pragmatismo (v. Santucci, 1992), corrente filosofica
    sorta nella seconda metà del secolo scorso negli Stati Uniti,
    interpretò lo spirito irrequieto della modernità
    industriale e l'ispirazione sperimentalista che lo sostiene. Una
    delle acquisizioni di questa scuola fu la teorizzazione del
    vantaggio conoscitivo di moduli di azione sperimentali e soggetti a
    continua convalida rispetto a moduli di azione rigidi e prefissati
    in quanto rispondenti a ideologie o credenze assolute. Del resto,
    sul suolo americano aveva già trovato applicazione, in varia
    guisa, l'idea di un sistema istituzionale aperto alla
    sperimentazione e alla concorrenza. Ad esempio, attraverso
    l'organizzazione federale, l'idea di una concorrenza tra le
    istituzioni era quasi esplicita. E nella stessa struttura giuridica,
    la tradizionale prevalenza della common law aveva poi trovato nella
    legislazione quasi una sfida di tipo concorrenziale.
Su questo terreno, l'approccio filosofico del pragmatismo
    completava, anche in termini teorici, l'idea di uno sviluppo di tipo
    evolutivo, che bandiva l'aderenza a progetti e idee assoluti e si
    affidava alla concorrenza tra le varie forze in gioco. Ora, questo
    indirizzo di pensiero, che ebbe significative ripercussioni anche
    sul pensiero giuridico attraverso l'influente voce di O. W. Holmes,
    sembra ispirare un'idea di diritto e uno stile istituzionale che
    sono assai distanti dal nostro normativismo. Si pensi al principio
    del learning by doing, che sembra interpretare il nesso tra
    conoscenza e azione secondo questa scuola. Vi sono almeno tre
    conseguenze insite in tale principio, che è utile
    osservare.Innanzitutto, tale principio suggerisce l'idea di un
    inesausto sperimentalismo, di una continua variabilità dei
    moduli di azione: è proprio assicurando una ininterrotta
    capacità di autocorrezione, sulla base dell'esperienza, che
    ci si può approssimare al fine perseguito o capire di volta
    in volta a che distanza si è da esso. Lo sperimentalismo non
    è un modo di procedere alla cieca, ma è anzi la sola
    possibilità di avvicinarsi ai propri fini, così come
    alla verità o alla giustizia. In secondo luogo, esso
    suggerisce una visione economica delle scelte di azione: ogni scelta
    comporta perdite e guadagni che si possono confrontare con quelli
    che deriverebbero da scelte alternative. Solo adottando queste
    strategie di calcolo si ha una scala di confronto certa, non
    soggetta ad apriorismi e ideologie. Questa visione economica
    può essere adottata per qualunque tipo di azione, sia essa
    economica o indirizzata ad affermare un valore: in ogni caso, ci si
    può avvicinare alla meta abbassando i costi. In terzo luogo,
    lo sperimentalismo suggerisce l'idea che ogni azione sia esposta al
    rischio e alla possibilità di errore. L'errore, piuttosto che
    essere visto come qualcosa da evitare e bandire, fa parte delle
    possibilità da sperimentare. 
Solo includendo il rischio nell'orizzonte dell'azione ci si
    può spingere a mete più elevate: le opportunità
    valgono più dei rischi. Ciò significa la dissoluzione
    di ogni forma di certezza assoluta e un'accettazione convinta della
    concorrenza, in ragione dei benefici delle sue spinte. Affidare le
    istituzioni globali a una ispirazione pragmatista significa dunque
    accettare questo triplice ordine di conseguenze. Entra in crisi
    l'idea di un disegno istituzionale rigido, congegnato in astratto,
    che si presume completo e perfetto: le istituzioni rispondono
    piuttosto a schemi che non sono interamente definiti, e contengono
    la possibilità di itinerari diversi, che verranno via via
    decisi sul campo, in funzione di circostanze, fini e contesti
    diversi. Si pensi al principio di 'sussidiarietà', il quale,
    suggerendo che le istituzioni si collocano più in alto solo
    laddove più in basso non trovano spazio, riproduce
    perfettamente questa logica, tracciando la possibilità di
    varie distribuzioni di pesi istituzionali a seconda delle specifiche
    condizioni di un dato territorio.Si può altresì
    parlare di una 'fattualità' delle istituzioni globali, in
    quanto i loro percorsi, così come i loro comportamenti,
    vengono in parte affidati all'esperienza. Essi pertanto non sono mai
    del tutto completi e vengono continuamente adattati, in funzione di
    condizioni, contesti e obiettivi cangianti. Le istituzioni
    transnazionali tendono a essere fattuali innanzitutto perché
    sono 'globali', ossia rispondono alla finalità di connettere
    adeguatamente le specificità di contesti particolari con la
    generalità dello spazio globale; perché esse
    funzionino, occorre dunque che si affidino anche a quella
    fattualità che deriva dall'aderenza a particolari contesti:
    se una parte delle regole è già radicata in questi
    contesti, ciò implica un funzionamento più agevole. Le
    istituzioni nate nello spazio transnazionale, e dunque non legate ad
    alcun particolare territorio, sono in un certo senso senza storia,
    ma, radicandosi in luoghi specifici, contraddistinti da proprie
    culture e da consolidati abiti mentali, inevitabilmente entreranno
    in relazione con queste specificità e con il loro sostrato
    storico.
La fattualità si esprime sia come interpenetrazione tra il
    sistema degli interessi e il sistema normativo, sia come intreccio
    di norme giuridiche e di norme sociali, e in entrambi i casi
    può essere sia un'opportunità, persino in senso
    economico, che un rischio. Il sistema giuridico può stabilire
    diversi tipi di rapporto con gli interessi: ad esempio, nella
    tradizione europea, gli interessi, pur essendo riconosciuti in varie
    forme e modalità nel sistema giuridico, non hanno mai avuto
    una legittimazione a interagire con l'organizzazione giuridica,
    com'è invece avvenuto negli Stati Uniti. Qui la differenza
    è data proprio da un sistema giuridico che è sempre
    rimasto esposto agli interessi, non solo attraverso le maglie della
    common law, che è tipicamente un diritto 'dal basso', ma
    anche nella sua espressione legislativa, che risponde a una
    concezione open door, e persino nella sfera del diritto pubblico e
    amministrativo. Le istituzioni globali tendono ad avvicinarsi a
    questa seconda concezione, mantenendo un nesso più diretto e
    aperto con gli interessi. In tal modo, esse cercano di evitare
    contrapposizioni inutili e di arrivare a fruttuose sinergie tra
    perseguimento degli interessi e percorsi istituzionali. Il rischio
    è che le istituzioni possano essere 'catturate' dagli
    interessi o che le regole, troppo esposte alle dinamiche di mercato,
    producano 'un mercato delle regole'.Sul nesso tra vincoli formali e
    vincoli informali è illuminante il contributo di D. North,
    economista di scuola neoistituzionalista, che insegna a guardare
    alle istituzioni proprio in termini di 'regole del gioco', ossia
    come insiemi dinamici di norme esplicite e vincoli impliciti (v.
    North, 1990): è solo questa tessitura invisibile ma continua,
    che si costruisce in maniera diversa in ogni società, a dare
    compiutamente senso al sistema normativo. 
Con la globalizzazione, questo intreccio acquista anche maggiore
    importanza e spiega perché l'emanazione delle stesse regole
    globali non basta a omologare società e paesi che hanno
    diversi sistemi di regole informali. Le differenze tra paesi
    sviluppati e paesi meno sviluppati sono destinate a sopravvivere.
    Solo laddove le regole formali trovano un sostegno nei vincoli
    informali, esse possono affermarsi a basso costo; se la loro
    affermazione è ostacolata da vincoli informali che le
    contrastano, e genera eccessivi costi di transazione, vinceranno i
    vincoli informali. Questi ultimi hanno dunque una doppia faccia:
    possono facilitare i percorsi delle istituzioni, abbassandone i
    costi, o possono innalzare tali costi fino a sfidare l'efficacia
    stessa delle istituzioni. 
    
8. Ingegnerie sociali del diritto: dalle norme
      alle regole del gioco
      
La stessa dinamica istituzionale che è stata appena descritta
    si vede in atto anche con riferimento alle unità di misura
    del diritto. Per i sistemi giuridici tradizionali, di concezione
    normativista, l'unità di misura era costituita dalle norme.
    Nei termini di Kelsen (v., 1979), la norma, in quanto comando, era
    espressione di un diritto essenzialmente a carattere sostanziale,
    che cioè imponeva o vietava un preciso modello di azione.
    Forse non è del tutto inutile notare come il termine norma,
    che trova una perfetta corrispondenza nelle lingue dei paesi di
    cultura giuridica continentale, non abbia invece alcun radicamento
    nei paesi di lingua inglese e specie negli Stati Uniti, dove si
    parla piuttosto di legal rules. 
Ora, al contrario della norma, il concetto di regola ha un immediato
    riferimento di carattere procedurale, poiché rimanda
    prevalentemente a griglie di condotta all'interno delle quali
    è possibile esperire diversi comportamenti. Quindi, il fatto
    che le unità del sistema giuridico siano le regole
    anziché le norme, suggerisce una diversa consistenza del
    sistema giuridico, che è di carattere prevalentemente
    procedurale anziché sostanziale. Cogliere questa
    diversità è importante al fine di comprendere
    l'evoluzione giuridica oggi in atto: specie il diritto globale tende
    a essere non più un tessuto a maglie strette, com'era con le
    norme, ma un tessuto a maglie larghe, costituite dalle regole. Il
    diritto, in quanto predispositore di regole, rimanda ovviamente a un
    diverso tipo di Stato: lo Stato 'regolatore' è uno Stato che
    rinuncia a imporre stringenti modelli di condotta e si accontenta di
    costruire delle corsie lungo le quali i soggetti possono
    procedere.Il diritto globale tende dunque ad assumere moduli
    procedurali piuttosto che sostanziali, e dunque a perdere sostanza,
    diventando una silhouette, un profilo, uno schema: consistendo in
    regole, che sono un mix di vincoli e di libertà d'azione,
    diventa più leggero, meno autoritario. Le regole sono vincoli
    per l'azione, ma non vincoli che dettano completamente il contenuto
    dell'azione. Esse piuttosto preludono a molteplici
    possibilità di azione. In tal senso, un diritto basato su
    regole, anziché su norme, è un diritto che si apre ad
    apporti e opzioni che provengono anche dai soggetti destinatari. 
Ciò vuol dire che il diritto diventa una sorta di impresa
    collettiva, che acquista senso non solo in rapporti verticali,
    basati sull'autorità, ma anche in rapporti di carattere
    orizzontale tra vari soggetti. I rapporti di autorità
    sottintesi dalle norme non lasciano opzioni ai soggetti, se non
    quella tra l'osservanza e l'inosservanza. Il soggetto non può
    spingere le proprie opzioni al di là di questo limite.
    Viceversa, quando prevalgono le regole, queste fissano dei recinti
    entro i quali i soggetti possono esprimere le proprie opzioni.Norme
    e regole presuppongono due forme diverse di agire rispettivamente
    ispirate a una razionalità 'parametrica' e ad una
    razionalità 'strategica' (v. Magri, 1994), per usare termini
    e concetti propri della teoria dei giochi. I soggetti che usano una
    razionalità parametrica si confrontano con conseguenze
    dell'azione che sono definite dall'esterno e sulle quali il loro
    intervento è ininfluente. Ad esempio, il soggetto di diritto,
    secondo la concezione kelseniana, può decidere di osservare o
    non osservare la norma, ma in entrambi i casi le conseguenze sono
    predefinite ed egli non può modificare né la norma
    né le sue conseguenze. Un soggetto che agisce con
    razionalità strategica si rapporta invece a un contesto di
    interdipendenza con altri attori razionali e decide, tenendo conto
    delle regole, volta per volta la propria condotta, cercando di
    massimizzare le sue utilità. Ciò significa che i
    soggetti, con le regole, contribuiscono continuamente a ridisegnare
    l'ambiente normativo intorno a loro, e quindi si vanifica l'idea di
    un ordine normativo interamente scritto nelle norme e definito a
    priori.
La differenza appare più chiaramente quando si pensi alle
    regole giuridiche come 'regole del gioco': queste esistono non per
    se stesse, ma in quanto servono a strutturare il gioco e a definire
    i modi in cui esso può essere giocato (v. Huizinga, 1951).
    Regola e gioco si sostengono a vicenda e, in un certo senso, l'una
    non può esistere senza l'altro e viceversa: il gioco non
    esiste se non all'interno di regole, ma le regole, a loro volta, non
    hanno senso se poi qualcuno non dà luogo a un
    gioco.Perché il diritto del mondo globalizzato tende a subire
    questo cambiamento di paradigma? Si può pensare che questo
    cambiamento derivi innanzitutto da una minore forza normativa in
    capo a soggetti statali o sovranazionali, che preferiscono ricorrere
    a moduli regolativi più elastici e meno autoritari. Ad
    esempio, gli organi comunitari ricorrono a forme di diritto
    cosiddette soft, fatte di direttive, raccomandazioni, linee-guida,
    non certo a rigide norme.Vi è inoltre una minore convenienza
    a emanare norme perché queste sono fatte per società
    culturalmente compatte o sufficientemente uniformi: esse mancano
    infatti di quel livello di elasticità che è invece
    necessario per affrontare le diversità di un mondo
    pluralistico (v. Habermas e Taylor, 1998). Né va trascurata
    una tendenza degli stessi soggetti pubblici, anche sovranazionali, a
    comportarsi come soggetti 'razionali', ricorrendo a moduli di azione
    strategica nei rapporti con altri Stati o nelle scelte di governo
    (v. Gruber, 2000).Più in generale, oggi si tende a parlare di
    diritto 'fluido', 'debole', 'mite', 'liquido', 'ibrido', come per
    indicare il suo distacco dal mondo delle norme, per assolvere
    soprattutto a finalità comunicative: un diritto strutturato
    come insieme di 'regole del gioco' tende ad incrociare meglio le
    diversità di opzione e di atteggiamento che derivano da un
    mondo complesso e pluralistico, in cui i significati delle regole
    navigano in un contesto comunicativo fluido ed esteso, qual è
    quello transnazionale. 
    
9. La globalizzazione e la sfera del 'dover
      essere'
      
Nell'attuale crisi della concezione assolutistica degli Stati, va
    notato un paradosso: questa concezione era figlia dell'idea che ogni
    Stato, al proprio interno, fosse signore e padrone delle proprie
    decisioni giuridiche, e che nessun controllore potesse erigersi a
    sindacarle. Vi era, nel potere dello Stato, qualcosa di simile a
    quello del proprietario privato, che, come insegnano i classici del
    liberalismo, nella sua casa non è soggetto ad alcuna
    supervisione o limitazione di libertà. Questa logica
    fondamentalmente 'proprietaria' non impedì che gli Stati
    europei divenissero la culla dello jus publicum, pur nell'assenza
    del riconoscimento di una razionalità sovrastatale a cui
    fosse necessario attingere.Così, mentre gli Stati hanno
    costituito un aspetto importante del processo di modernizzazione,
    fissando le garanzie giuridiche e una griglia certa di diritti e
    doveri, per un altro verso essi hanno continuato a racchiudere il
    germe di una vecchia logica delle appartenenze, cosicché gli
    stessi sistemi giuridici e gli organigrammi dei diritti risentivano
    vistosamente del collocamento in uno Stato piuttosto che in un
    altro. Sotto questo profilo, fu più 'moderna' la riflessione
    filosofico-giuridica settecentesca, con le sue inclinazioni
    giusnaturalistiche, e intenta, specie con Kant, a indagare la
    possibilità di un ordine giuridico di tipo cosmopolita.
    Rispetto a queste aperture, la scienza ottocentesca degli Stati
    appare richiudere gli spazi della riflessione e del diritto. Oggi,
    con la potenza comunicativa che è propria della
    globalizzazione, vengono in evidenza nuove tendenze all'unificazione
    del pensiero giuridico, al ritrovamento di una radice comune o di
    una comune ispirazione del diritto e dei diritti, che tendono a
    emanciparsi dall'appartenenza statale.
Abbiamo già visto in atto una sfida ai diritti statali in
    quella lex mercatoria che viene guidata dalla razionalità
    economica delle grandi imprese transnazionali: questa è una
    sfida dal basso, che travalica i confini statali in via di fatto,
    senza particolari clamori, configurando infiniti "diritti delle
    possibilità" basati sulle potenzialità dello schema
    contrattuale (v. Ferrarese, 2000). Ma la sfida che si pone dall'alto
    agli Stati e ai diritti statali è ben più visibile e
    clamorosa: essa tende a produrre un sistema di vincoli e di norme
    per gli stessi Stati, a metterli di fronte a nuove forme di 'dover
    essere', a un "diritto della necessità", che chiede
    ubbidienza (v. Ferrarese, 2000). In altri termini, va crescendo nel
    mondo un sistema di produzione di vincoli esterni agli Stati, che si
    radicano in una razionalità di pace o di giustizia o di
    salvaguardia dei diritti fondamentali o di tutela del patrimonio
    ambientale, inteso come patrimonio dell'intera umanità. Con
    un paradosso significativo: quella normatività che, con la
    globalizzazione, è in crisi nel rapporto tra governanti e
    governati all'interno degli Stati, trova una riaffermazione proprio
    nello spazio transnazionale: una riaffermazione clamorosa in quanto
    tende a imporsi proprio a quegli Stati che erano esenti da qualunque
    controllo e che non riconoscevano alcuna entità superiore.
Per la verità, potrebbe sembrare che non vi sia nulla di
    nuovo sotto il sole: in fondo, è stata la civiltà
    illuminista a parlare di diritti universali e già Kant, nel
    suo Per la pace perpetua, sosteneva che si fosse giunti a un punto
    in cui "la violazione di un diritto avvenuta in un punto della terra
    è avvertita in tutti i punti". Quello odierno potrebbe dunque
    essere un semplice ritorno a un pensiero e a un progetto maturati
    nella temperie dell'illuminismo giuridico, oltrepassando quei muri
    statali che la cultura giuridica ottocentesca aveva innalzato. Ma,
    com'è noto, la storia, anche quando sembra riproporsi, si
    ripropone sempre in forme nuove e mutate. Ed è il carattere
    nuovo di questo apparente giusnaturalismo della globalizzazione che
    occorre cogliere.Allora, in che senso si può parlare oggi di
    una nuova normatività transnazionale? E quali soggetti
    istituzionali potrebbero farsene portatori?La centralità dei
    mezzi di comunicazione di massa, l'enorme facilità di
    diffusione dell'informazione possono costituire con grande
    rapidità un uditorio globale. Un uditorio globale è
    cosa ben diversa dall'opinione pubblica settecentesca di cui parlava
    Habermas (v., 1998) e sono in tanti oggi a denunciare l'assenza di
    un'opinione pubblica mondiale. Ciò non toglie che un uditorio
    mondiale abbia una sua forza e una sua potenza, per quanto precarie
    e passeggere queste possano essere. Questa forza potenziale è
    una sfida virtualmente sempre aperta contro gli Stati e i loro
    governanti, ma appunto, è affidata in forme precarie e
    incerte alla comunicazione globale.Quando si parla di
    normatività, tuttavia, si intende qualcosa di più e di
    diverso da questa aumentata capacità di controllo sociale
    globale sui governi statali. La normatività si avvale
    innanzitutto di norme certe a cui dare enforcement. 
Ma soprattutto di un apparato sanzionatorio da poter mettere in
    opera per punire l'avvenuta inosservanza delle norme. Si tratta di
    due caratteri di cui si può difficilmente disporre nella
    sfera internazionale, dove manca un soggetto fornito di potere e
    autorità confrontabili con quelli tradizionalmente di
    pertinenza statale: essendo il diritto internazionale fondato
    proprio sul presupposto della sovranità degli Stati, sono
    questi, in ultima istanza, i veri gate-keepers delle sue norme e
    della loro applicazione. Infatti, in materia di giustizia
    internazionale sono ben note le insolvenze, dovute a uno statuto da
    sempre fragile del diritto internazionale. Bobbio (v., 1990),
    d'altra parte, ha messo in guardia sulla fragilità dei
    diritti: questi si prestano molto bene a essere oggetto di solenni
    dichiarazioni, ma si rivelano assai precari quando vengono davvero
    violati e disattesi, specie se a violarli sono proprio gli Stati.A
    maggior ragione, i caratteri della normatività diventano
    problematici nell'arena transnazionale, che ha confini, soggetti e
    pertinenze assai meno definiti. Tuttavia, quello che oggi osserviamo
    è che nella sfera transnazionale si vuole andare oltre il
    livello delle dichiarazioni dei diritti e dei 'progetti filosofici',
    imitando i tratti della normatività con maggior zelo che
    nella sfera internazionale, proprio nell'intento di perseguire la
    lesione dei diritti umani, o della pace, della giustizia e
    dell'ambiente. 
Ed è l'istituzione giudiziaria che appare candidata a
    svolgere un ruolo centrale nell'affermazione di questa nuova
    normatività, una istituzione non a caso dotata di quel
    carattere 'qui ed ora' che è particolarmente affine alla
    globalizzazione. Per la prima volta nella storia, ad esempio, noi
    assistiamo alla nascita di organismi di giustizia internazionale
    permanenti per punire i crimini contro l'umanità (v.
    Robertson, 1999). E per la prima volta nella storia i giudici di una
    nazione hanno osato perseguire governanti di un'altra nazione,
    com'è avvenuto nel caso Pinochet.L'intento di perseguire
    crimini e ingiustizie, tuttavia, paradossalmente procede non come
    naturale conseguenza di un sistema normativo certo, ma proprio in
    assenza di quelle norme sostanziali e procedurali che gli darebbero
    senso, misura e fondamento. Questa assenza appare vistosa specie
    agli occhi del penalista, che è abituato a requisiti di
    legalità e tassatività delle norme piuttosto
    stringenti, per ottemperare a esigenze di garantismo (v. Illuminati
    e altri, 2000). Sembra realizzarsi così, nell'arena
    transnazionale, una strana normatività, per così dire,
    a posteriori, indirizzata più a fini di giustizia che di
    rispetto della legalità, quasi una sorta di
    normatività senza legalità.