Enciclopedia delle Scienze Sociali (1993)
    di Alessandro Roncaglia, Paolo Sylos Labini
    Economia 
    
    Sommario: 1. Le basi concettuali
    dell'economia: l'oggetto e il metodo. L'economia e la storia.
    L'economia e le altre scienze sociali. 2. Gli sviluppi della
    riflessione economica. a) L'economia preclassica. b) La
      nascita dell'economia politica: William Petty. c) L'economia
      politica classica: Adam Smith. d) David Ricardo. e) Karl
      Marx. f) Il marginalismo. g) La scuola austriaca.
    h) Dalla statica alla dinamica. i) Joseph Schumpeter e
      lo sviluppo ciclico dell'economia. l) Max Weber, la
      sociologia e il processo di burocratizzazione. m) John
      Maynard Keynes e la disoccupazione di equilibrio. 3.
    Il dibattito contemporaneo. a) La sintesi neoclassica. b) Monetaristi
      e teorici delle aspettative razionali. c) I
      postkeynesiani. d) L'offerta di moneta in Keynes e nei
      monetaristi. e) Piero Sraffa. 4. L'analisi dinamica.
    a) Diversi tipi di modelli; il processo di meccanizzazione.
    b) Le variazioni di lungo periodo dei salari e dei prezzi.
    c) Il sottosviluppo. d) I problemi dell'ambiente e
      lo sviluppo sostenibile. 5. Considerazioni conclusive. 
      
1. Le basi concettuali dell'economia: l'oggetto e
      il metodo. L'economia e la storia.
      L'economia e le altre scienze sociali
      
Su quali siano l'oggetto e il metodo dell'economia, esistono oggi e
    sono esistite in passato opinioni diverse. Per questo non cercheremo
    di fornire una definizione esatta di questo campo di studi, ma
    piuttosto di delineare in estrema sintesi le concezioni che si sono
    succedute nel tempo e quelle che sono presenti nel dibattito di
    oggi. Prima di imboccare questo sentiero, tuttavia, proveremo a
    fornire alcune indicazioni generali sul campo di lavoro degli
    economisti e sui suoi rapporti con le altre scienze. 
    
Gli economisti hanno di fronte una realtà complessa e in
    continuo movimento. Da questa isolano alcuni aspetti che assumono a
    oggetto del loro lavoro d'analisi; quindi procedono alla costruzione
    di teorie, introducendo ipotesi semplificatrici per isolare quelli
    che ritengono i principali elementi del problema che intendono
    affrontare. Le differenze tra i vari approcci dipendono dalle scelte
    compiute in questo processo di astrazione, e particolarmente da
    quelle compiute nella sua prima fase.
    
Possiamo distinguere per quest'aspetto due impostazioni di fondo,
    radicalmente diverse, sulle quali torneremo in dettaglio più
    avanti: l'impostazione degli economisti classici e quella degli
    economisti marginalisti. 
    
Secondo la concezione classica, prevalente nel periodo della nascita
    dell'economia come scienza e fino alla seconda metà
    dell'Ottocento, l'economia politica riguarda l'organizzazione di una
    società caratterizzata dalla divisione del lavoro e dallo
    scambio di merci tramite il mercato; si tratta quindi di una scienza
    sociale, che studia questioni quali la distribuzione del reddito o
    il ritmo di accumulazione del capitale. 
    
Secondo la concezione marginalista, affermatasi a partire dagli
    ultimi decenni dell'Ottocento, il problema economico coincide con
    quello del calcolo razionale: come ottenere il massimo risultato in
    presenza di un dato ammontare di risorse disponibili; si tratta
    quindi di un problema logico, in quanto tale suscettibile di
    trattazione matematica (come problema di massimo - o minimo -
    vincolato), e che come tutti i ragionamenti assiomatici risulta
    'astorico', nel senso che la struttura dell'analisi - il complesso
    delle cosiddette leggi economiche, o più precisamente dei
    teoremi di base - non cambia quando ci si riferisca a società
    lontane fra loro nel tempo e nello spazio e radicalmente diverse fra
    loro quanto ad assetto istituzionale.
    
L'economista austriaco Joseph
      Schumpeter (1883-1950) distingueva tre fasi principali nel
    lavoro dell'economista: la fase della 'visione preanalitica', che
    suggerisce i problemi da studiare e, almeno nelle grandi linee, il
    modo in cui iniziare ad affrontarli; la fase della
    'concettualizzazione', in cui si tenta di 'razionalizzare' la
    complessa realtà che ci si trova di fronte creando categorie
    mentali che permettono di eliminare dalla scena - di astrarre da -
    gli aspetti secondari, concentrando l'attenzione sulle
    caratteristiche distintive considerate più rilevanti (come
    accade, appunto, con i concetti di salario, rendita, profitto);
    infine, la fase della 'teorizzazione' vera e propria, in cui si
    collegano in strutture logiche - in modelli - gli elementi
    identificati nella fase precedente.
    
Le differenze tra approcci economici come quello classico e quello
    marginalista cui si accennava sopra vengono spesso discusse
    considerando solo l'ultima delle tre fasi di lavoro di cui parla
    Schumpeter, cioè i modelli teorici che costituiscono il
    risultato ultimo della ricerca economica; in realtà,
    tuttavia, queste differenze dipendono principalmente dal
    procedimento di astrazione-concettualizzazione, cioè dalla
    prima delle due fasi, e possono essere identificate in modo
    più preciso confrontando le diverse concezioni del problema
    economico e il diverso 'contenuto' dei concetti utilizzati.
    
Il rapporto tra l'economia e le altre scienze sociali, e in
    particolare tra economia e storia, si pone in modo diverso a seconda
    di come viene concepita l'economia. Consideriamo ad esempio la
    semplice dicotomia tra impostazione classica e impostazione
    marginalista proposta sopra, cioè tra la concezione
    dell'economia come scienza sociale e storicamente determinata, e la
    concezione dell'economia come scienza assiomatica del comportamento
    razionale. Vediamo subito che nel primo caso tutta la struttura
    teorica - la base concettuale prima ancora che i sistemi di modelli
    analitici - va sviluppata e modificata nel tempo in una continua
    interazione tra ricerca economica e ricerca storica. Nel secondo
    caso, invece, quelli che mutano nel tempo sono considerati dati
    esogeni del problema economico: la tecnologia, le preferenze del
    consumatore, o altri più specifici vincoli al funzionamento
    del mercato, che l'economista marginalista assume come dati il cui
    studio è demandato a campi di ricerca separati da quello
    dell'economia, mentre la struttura del problema economico permane
    invariata nel tempo. 
    
Allo stesso modo, la concezione dell'economia come studio dei
    fattori che determinano l'evoluzione nel tempo della divisione del
    lavoro e le sue conseguenze (principalmente in termini di
    accumulazione, occupazione, distribuzione del reddito) implica una
    stretta interrelazione tra il lavoro dell'economista e quello, ad
    esempio, del sociologo che analizza l'evolversi della struttura
    sociale. Viceversa, la concezione dell'economia come scienza del
    comportamento razionale - ogni soggetto è un homo œconomicus che fonda ogni sua azione su un calcolo razionale - implica
    l'esclusione dal campo dell'economia di problemi quali il contrasto
    tra passioni e interessi nel determinare la condotta umana di cui
    tanto si è discusso dal XVI al XVIII secolo (v. ad es.
    Hirschman 1977), mentre le determinanti delle preferenze del
    consumatore, ad esempio, vengono considerate come problema di
    pertinenza della psicologia sociale, il cui campo d'analisi viene
    nettamente distinto da quello dell'economia.
    
Un rapporto di condizionamento reciproco può essere infine
    individuato fra diritto ed economia. Sul piano dell'analisi è
    bene ricordare che il fondatore dell'economia moderna, Adam Smith,
    si è occupato sistematicamente di diritto e che, per un altro
    verso, il sociologo Max Weber si è occupato, sia pure
    marginalmente, oltre che di economia, anche di diritto. Se ci
    poniamo dal punto di vista dello sviluppo economico, possiamo
    rilevare che le stesse innovazioni tecnologiche sono talvolta
    favorite e talvolta contrastate dal sistema giuridico, e che
    quest'ultimo muta nel tempo anche per effetto di impulsi generati
    dalle innovazioni tecnologiche: basti pensare
    all'elettricità, all'automobile, all'aeroplano,
    all'elettronica. 
  
Sui problemi dell'oggetto e del metodo dell'economia e del suo
    rapporto con le altre scienze sociali avremo più volte
    occasione di tornare nel seguito, esaminando lo sviluppo del
    pensiero economico. Qui ci limitiamo a sottolineare che l'economia,
    come tutte le scienze che studiano la società, è
    storicamente condizionata, giacché la società stessa
    cambia in modo irreversibile nel tempo storico: le scienze sociali
    vanno viste come cerchi che in parte si sovrappongono e che si
    muovono tutti nella storia. 
    
2. Gli sviluppi della riflessione economica
 
a) L'economia preclassica
L'economia politica inizia a essere riconosciuta come disciplina
    distinta dalle altre scienze sociali assai gradualmente, a partire
    dalla seconda metà del XVII secolo; ma solo nella seconda
    metà del secolo scorso, con l'istituzione delle prime
    cattedre di economia nelle università, l'economista viene
    identificato come una figura professionale autonoma. Naturalmente,
    cenni più o meno sparsi a problemi oggi comunemente ritenuti
    di competenza degli economisti appaiono già
    nell'antichità e nel Medioevo. Autori come Diodoro Siculo,
    Senofonte o Aristotele considerano ad esempio gli aspetti economici
    della divisione del lavoro, sostenendo fra l'altro che essa permette
    di raggiungere una migliore qualità del prodotto. Ma nel
    complesso per lungo tempo - almeno fino al XVII secolo - i problemi
    economici sono stati affrontati in modo sostanzialmente diverso da
    come li si affronta oggi. 
    
I filosofi e i teologi medievali in particolare, più che
    tentar di descrivere e interpretare il modo di funzionamento del
    sistema economico, si proponevano il compito di fornire indicazioni
    sul comportamento moralmente più giusto da tenere nel campo
    dei rapporti economici. Così il problema dell'usura non era
    quello di fornire la spiegazione del livello del tasso d'interesse,
    ma quello di giustificare la condanna morale del prestito a
    interesse e di individuare le eccezioni a questo rigoroso precetto
    morale. Analogamente, il problema del giusto prezzo riguardava non
    il tentativo di spiegare perché sul mercato i vari beni
    venivano scambiati a certi prezzi piuttosto che a prezzi più
    alti o più bassi, ma il tentativo di fornire ai mercanti
    criteri di condotta. (In questo senso, e non come anticipazioni
    delle successive teorie del valore classica e marginalista, vanno
    interpretati i riferimenti ai costi di produzione dei beni
    scambiati, o alla loro scarsità e utilità per
    l'acquirente, come criteri di riferimento da utilizzare per fissare
    rapporti di scambio moralmente corretti.).
    
Per comprendere il cambiamento intervenuto attorno al XVII secolo
    nel modo di considerare i problemi economici, occorre ricordare i
    radicali mutamenti verificatisi nell'organizzazione della vita
    economica e sociale. Il 'mercato' - inteso come scambio di beni contro denaro - esisteva anche
    nell'Atene di Pericle o nella Roma di Cesare; ma gli scambi
    coprivano una quota relativamente limitata della produzione
    complessiva della società, e le condizioni in cui si
    svolgevano erano caratterizzate dalla massima irregolarità, a
    causa di fattori quali l'incidenza dei fenomeni meteorologici sui
    raccolti, le difficoltà dei trasporti, la diffusa insicurezza
    rispetto alla criminalità privata e agli interventi arbitrari
    delle autorità. (Per il primo aspetto - portata limitata
    degli scambi - possiamo ricordare, ad esempio, che nel Medioevo,
    secondo Kula - v., 1970 -, gli scambi sul mercato interessano
    tipicamente solo i beni che rientrano nel sovrappiù,
    cioè quella parte del prodotto che non è necessaria
    come mezzo di produzione o di sussistenza per continuare
    l'attività produttiva. 
    
In particolare esisteva già una rete di scambi di prodotti
    'di lusso' - spezie, merletti, metalli preziosi - che collegava fra
    loro aree geografiche anche assai distanti; accanto a essa, era
    gradualmente sorta una rete di rapporti finanziari tra i maggiori
    centri commerciali, basata soprattutto su 'lettere di cambio'. Ma
    l'autoproduzione - cioè la produzione per il consumo diretto
    dei produttori - che caratterizza le piccole comunità
    agricole perde terreno rispetto alla produzione per il mercato solo
    con l'affermarsi del sistema di fabbrica, quando i lavoratori non
    sono proprietari dei beni che producono, e comunque questi ultimi
    sono beni diversi da quelli che essi consumano, e quando diviene
    comune l'utilizzo di mezzi di produzione specializzati - macchinari
    e impianti - prodotti da altre imprese. Per il secondo aspetto -
    irregolarità degli scambi - richiamiamo solo una delle
    manifestazioni più caratteristiche dell'assenza di
    uniformità nelle condizioni di scambio: la
    molteplicità e continua variabilità delle unità
    di misura delle merci - unità di peso, di lunghezza, di
    volume -, superata solo gradualmente a partire, non a caso, dal XVII
    secolo).
    
Proprio l'assenza di regolarità e uniformità
    nell'attività economica è probabilmente alla base dei
    generici rinvii che gli autori del periodo fanno alle condizioni di
    domanda e di offerta come determinanti dei prezzi sul mercato. In
    presenza di una forte variabilità della domanda e
    dell'offerta, e in assenza di indicazioni sui fattori che le
    determinano, questi generici rinvii non possono essere considerati
    una teoria del prezzo,
    né tantomeno un'anticipazione della teoria marginalista.
    Quest'ultima, infatti, come vedremo meglio più avanti, spiega
    il prezzo di equilibrio dei vari beni come corrispondente al punto d'incontro tra domanda e offerta del bene in questione,
    considerate come funzioni (continue e differenziabili) - la prima
    decrescente e la seconda crescente - del prezzo del bene stesso, ed
    eventualmente di altre variabili come i prezzi degli altri beni e il
    reddito dei consumatori; mentre nei generici rinvii alle condizioni
    di domanda e offerta cui si accennava sopra non è
    riscontrabile - del tutto comprensibilmente, date le condizioni
    dell'epoca - alcuna idea di una ben specificata e stabile relazione
    funzionale tra la domanda e l'offerta, e altre variabili come il
    prezzo del bene in questione. 
    
b) La nascita dell'economia politica: William Petty
Un punto di svolta fondamentale è costituito dalla
    nascita e dal consolidarsi, attorno al XV-XVI secolo, degli Stati
    nazionali, i quali vengono posti al centro della riflessione degli
    scienziati sociali; a essi corrisponderà, in campo economico,
    la nozione di sistema economico che fin dal XVI secolo costituisce
    un concetto-base per la nascente scienza dell'economia politica. In
    breve: ai tempi dell'antica Grecia e di Roma gli scambi sul mercato
    sono massimamente irregolari; poi, via via, diventano meno
    irregolari; ma è solo nel secolo XVII che cominciano ad
    assumere caratteristiche di relativa regolarità e
    uniformità, dopo i cambiamenti politici che si sono affermati
    nei secoli XV, XVI e XVII. Nello stesso periodo, cambiamenti
    decisivi si verificano anche nel campo delle scienze naturali, nelle
    quali si afferma l'idea che compito dello scienziato è quello
    di 'scoprire', al di sotto della superficie complessa e variegata
    dei fenomeni sperimentati dai nostri sensi, le 'leggi' - cioè
    relazioni quantitative precise e invariabili - che costituiscono
    l'intelaiatura del mondo naturale. 
    
La ricerca di leggi quantitative corrisponde, nel pensiero di Hobbes
    (1588-1679), a una concezione materialistico-meccanica dell'uomo e
    del mondo: il metodo d'indagine - la logica delle quantità (logica
      sive computatio, come dice Hobbes) - corrisponde alla natura
    stessa dell'oggetto indagato. A parere di vari studiosi dell'epoca,
    la perfezione matematica delle leggi naturali è sanzionata
    dal fatto che in essa si rispecchia la mano del Creatore.
    Caratteristica in questo senso è l'affermazione di Galileo
    (1564-1642), secondo il quale "questo grandissimo libro che
    continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo)
    [...] è scritto [da Dio] in lingua matematica" (cfr. G.
    Galilei, Il saggiatore, 1623, in Opere, 1890-1909, a
    cura di A. Favaro, vol. VI, Firenze 1896, p.232). Così fra il
    XVII e il XVIII secolo la vecchia fisica e la vecchia chimica intese
    come descrizione delle qualità sensibili degli oggetti
    lasciano il campo alla scienza moderna di Newton (1642-1727) e
    Lavoisier (1743-1794). Il metodo induttivo baconiano, fusione di
    empirismo e razionalismo, è ripreso alla metà del XVII
    secolo dai fondatori della Royal Society inglese, fra i quali appare
    una figura chiave per la nascita dell'economia politica, William
    Petty (1623-1687).
    
Fra gli autori che, nel XVI e XVII secolo, affrontano questioni
    economiche, sono ancora numerosi quelli che ne discutono
    considerandole innanzitutto un problema morale, come accade negli
    innumerevoli trattati sull'usura pubblicati in quel periodo. Ma sono
    molti anche quanti, sulla scia di Machiavelli (1469-1527),
    indirizzano le loro opere ai sovrani consigliandoli su come
    mantenere e accrescere la potenza economica dei loro Stati: i
    cosiddetti cameralisti, spesso osservatori intelligenti della
    realtà in cui operano, ma nel complesso non molto sensibili a
    quella esigenza di sistematicità che costituisce un requisito
    fondamentale della scienza moderna. Di frequente i cameralisti
    vengono inclusi, assieme a vari altri autori di scritti
    sull'economia del periodo che va dal XVI alla seconda metà
    del XVIII secolo, sotto l'etichetta di mercantilisti (un'etichetta
    che in realtà vari storici del pensiero economico considerano
    troppo generica, riferita ad autori molto diversi l'uno dall'altro). 
    
Il termine 'mercantilisti' designa tradizionalmente i fautori di uno Stato interventista, in
    particolare attraverso dazi sul commercio e divieti alle
    importazioni, al fine di assicurare una bilancia commerciale attiva
    e quindi l'afflusso di metalli preziosi, ma anche al fine di
    favorire lo sviluppo delle manifatture nazionali proteggendole dalla
    concorrenza estera. Lo spirito 'laico' di Niccolò Machiavelli
    e dei cameralisti - per fare solo due esempi che illustrano la nuova
    concezione del mondo che comincia ad affermarsi - si fonde con la
    nuova metodologia scientifica dell'induttivismo baconiano e con la
    concezione materialistico-meccanica di Hobbes nel caso di William Petty, il fondatore
    dell' 'aritmetica politica'. 
    
"Il metodo che intendo seguire è tuttora inconsueto: invece
    di usare solo comparativi e superlativi, e argomenti intellettuali,
    ho deciso di esprimermi in termini di numero, peso e misura (come
    esempio dell'aritmetica politica che ho tanto perseguito); di usare
    solo argomenti fondati sulla sensazione, e di considerare unicamente
    quelle cause che hanno fondamenta visibili nella Natura; lasciando
    quelle che dipendono dalle mutevoli menti, opinioni, appetiti e
    passioni di singoli uomini, alla considerazione di altri." (v. Petty
    1963, p.244).
    
L'aritmetica politica, come si vede, si contrappone al metodo
    logico-deduttivo proprio della Scolastica: Petty non intende
    semplicemente rilevare e descrivere la realtà "in termini di
    numero, peso e misura", ma piuttosto sceglie di esprimersi in quei
    termini nel tentativo di interpretare la realtà
    individuandone le caratteristiche principali. In questo senso, e per
    il suo contributo alla formazione del sistema dei concetti (prezzo
    naturale, merce e mercato, sovrappiù, ecc.) che costituiscono
    le fondamenta della scienza economica, Petty può essere
    considerato - come afferma Marx - il fondatore dell'economia
    politica. 
    
Prima di Adam Smith, al quale spesso viene attribuito questo ruolo,
    dobbiamo ancora ricordare almeno François
      Quesnay, medico di Madame de Pompadour e fondatore della
    scuola dei fisiocrati, come più tardi furono chiamati i suoi
    seguaci (allora noti come les économistes): sostenitori
    dell'esistenza di un 'ordine naturale' che, pur non implicando un
    rifiuto assoluto dell'intervento dello Stato nell'economia, avrebbe
    dovuto comportare una maggiore libertà da vincoli per gli
    sviluppi spontanei dell'economia. Quesnay (1694-1774) fornisce, con
    i suoi celebri Tableaux économiques, una
    rappresentazione analitica del funzionamento del sistema economico,
    come società divisa in classi sociali tra le quali ha luogo
    un circuito di scambi che realizza contemporaneamente la
    distribuzione del reddito tra le diverse classi e la condizione per
    il ripetersi regolare del processo produttivo: l'attività
    economica è concepita come un 'flusso circolare' di
    produzione e di scambio, una concezione che caratterizzerà
    tutta l'economia politica classica fino a Marx e che, come vedremo,
    è stata riproposta in epoca recente da Piero Sraffa. 
    
c) L'economia politica classica: Adam Smith
Adam Smith (1723-1790) non può essere considerato il
    fondatore dell'economia politica, ma è comunque assai
    più di un semplice sistematizzatore di teorie sviluppate dai
    suoi predecessori. A lui infatti dobbiamo una visione moderna dei
    compiti e del metodo dell'economia politica, e alcuni importanti
    contributi analitici attuali per vari aspetti ancora oggi.Il
    problema al centro della riflessione di Smith è quello della
    divisione del lavoro: come può funzionare (sopravvivere e
    prosperare) una società basata sulla divisione del lavoro?
    Nell'affrontare questo problema Smith raccoglie in un sistema
    teorico ben strutturato varie linee d'analisi proposte e sviluppate
    da autori precedenti. Così Smith riprende dai fisiocrati la
    concezione di produzione, distribuzione e consumo del reddito come
    processo circolare; e dal filone dell'illuminismo sociologico
    scozzese una visione della società in cui 'passioni' e
    'interessi' si intrecciano e possono integrarsi, anziché
    entrare necessariamente in conflitto; e su queste basi sviluppa la
    sua teoria della 'natura e cause della ricchezza delle nazioni',
    basata sul legame tra sviluppo della divisione del lavoro e
    allargamento degli scambi di mercato.
    
Vediamo meglio, sia pur solo per brevi cenni, i principali aspetti
    di questo sistema teorico, esposto da Smith in un ampio trattato
    organico di economia politica, Indagine sulla natura e le cause
      della ricchezza delle nazioni (1776), che costituirà
    la base dei successivi sviluppi dell'economia politica classica fino
    a Marx. Innanzitutto, come si è appena accennato, l'approccio
    classico rappresenta il funzionamento del sistema economico come un
    processo circolare (o, meglio ancora, a spirale). All'inizio del
    processo produttivo abbiamo determinate quantità di varie
    merci, che vengono utilizzate come mezzi di produzione e come mezzi
    di sussistenza per i lavoratori impiegati nel processo produttivo.
    Al termine del processo produttivo otteniamo un prodotto che
    è costituito dalle stesse merci, anche se in quantità
    diverse. 
    
Possiamo dire che il sistema produttivo è 'vitale' se la
    quantità prodotta di ogni merce è eguale o superiore
    alla quantità della stessa merce che era stata utilizzata nei
    vari settori come mezzo di produzione o di sussistenza. Il sovrappiù (un concetto
    centrale nelle analisi della scuola classica, prima e dopo Smith)
    è costituito dall'eccesso del prodotto rispetto alle
    quantità utilizzate nel processo produttivo; il
    sovrappiù è quindi composto di varie merci.In un
    sistema economico basato sulla divisione del lavoro, il prodotto
    delle imprese appartenenti a ciascun settore non corrisponde al
    fabbisogno di mezzi di produzione del settore stesso (inclusi i
    mezzi di sussistenza per i lavoratori impiegati nel settore);
    perciò ciascun settore preso isolatamente non è in
    grado di continuare la propria attività, ma deve entrare in
    contatto con gli altri settori dell'economia per ottenere da essi i
    propri mezzi di produzione in cambio di una parte almeno del proprio
    prodotto. Si ha così quella rete di scambi che caratterizza
    le economie 'di mercato'.
    
I rapporti di scambio tra i vari settori, e quindi tra le varie
    merci, sono vincolati dalla necessità di permettere la
    'riproduzione' del sistema: ogni settore deve ottenere, grazie alla
    cessione dei propri prodotti, almeno i mezzi di produzione e di
    sussistenza necessari per continuare il processo produttivo. Ma,
    data l'esistenza del sovrappiù, questa condizione da sola non
    è in grado di permettere la determinazione univoca dei
    rapporti di scambio tra le varie merci: questi rapporti di scambio
    infatti, oltre a garantire a ciascun settore la disponibilità
    di mezzi di produzione e di sussistenza per continuare la
    produzione, determinano la ripartizione del sovrappiù tra i
    vari settori e tra le varie classi sociali. Quesnay assumeva
    rapporti di scambio tali che di tutto il sovrappiù, generato
    dalla classe 'produttiva' (cioè nel settore agricolo), si
    appropriavano le classi proprietarie (nobili e clero), mentre la
    classe 'sterile' (imprenditori e lavoratori delle manifatture) non
    faceva altro che trasmettere nel prodotto il valore dei mezzi di
    produzione e di sussistenza impiegati nel processo produttivo. Smith
    invece distingue tra suddivisione in settori del sistema economico e
    suddivisione in classi sociali della popolazione; e propone quella
    che dopo di lui è divenuta la partizione standard in tre
    classi sociali: lavoratori, capitalisti e proprietari terrieri, cui
    corrispondono tre tipi di reddito: salari, profitti e rendite.
    
Nell'analizzare il funzionamento del sistema sociale così
    schematizzato, Smith abbandona la vecchia identificazione tra
    ricchezza delle nazioni e produzione economica complessiva del
    paese, tipica del punto di vista degli economisti 'consiglieri del
    principe'; e adotta una concezione moderna, identificando la
    ricchezza di un paese con il grado di sviluppo raggiunto dal sistema
    economico, misurabile attraverso il reddito pro capite. Di
    conseguenza, per Smith spiegare la ricchezza delle nazioni significa
    essenzialmente spiegare il livello del reddito pro capite.
    
Tale livello corrisponde al prodotto di due variabili: la
    produttività per lavoratore e la quota dei lavoratori
    produttivi sul totale della popolazione. La seconda variabile
    dipende sia da fattori economici sia dalle consuetudini sociali;
    Smith contrappone ripetutamente le consuetudini di una
    società feudale a quelle della nascente società
    capitalistica a tutto vantaggio di quest'ultima. La
    produttività per lavoratore dipende dallo sviluppo raggiunto
    dalla divisione del lavoro (grazie, dice Smith, "a tre diverse
    circostanze: primo, all'aumento di destrezza di ogni singolo
    operaio; secondo, al risparmio del tempo che di solito si perde per
    passare da una specie di lavoro a un'altra; e infine all'invenzione
    di un gran numero di macchine che facilitano e abbreviano il lavoro
    e permettono a un solo uomo di fare il lavoro di molti"). Ma la
    divisione del lavoro progredisce solo se c'è un allargamento
    dei mercati, che è necessario per assorbire il maggior
    prodotto di un'impresa in cui cresce il numero dei lavoratori e
    simultaneamente cresce la produttività di ciascuno di essi. 
    
Di qui la posizione liberista di Smith. Infatti egli è
    favorevole all'abbattimento degli ostacoli al libero commercio, che
    può mettere in moto una spirale virtuosa: l'allargamento dei
    mercati favorisce una crescente divisione del lavoro, e quindi un
    aumento della produttività, che permette un aumento del
    reddito pro capite, e quindi un ulteriore allargamento dei mercati.
    L'espansione dell'area del mercato nella società, inoltre,
    stimola un aumento della quota dei lavoratori produttivi sul totale
    della popolazione.
    
Il coordinamento delle attività individuali è
    assicurato dal mercato, che 'premia' quanti producono ciò che
    è maggiormente richiesto, e 'punisce' quanti si dedicano ad
    attività che gli altri considerano inutili. L'interesse
    individuale agisce quindi da molla per il conseguimento
    dell'interesse collettivo. 
    
Tuttavia, come si accennava sopra, ciò non significa che
    Smith sposi le tesi del medico e filosofo olandese Bernard de
    Mandeville (1670-1733): tesi sintetizzate nel detto "vizi privati,
    pubbliche virtù", e centrate sul riconoscimento dell'egoismo
    come fondamento del benessere collettivo. Nella sua opera La
      teoria dei sentimenti morali, infatti, Smith sottolinea il
    ruolo di una 'morale della simpatia' (nel senso etimologico di
    'sentire insieme') nel guidare le azioni individuali. La ricerca
    dell'interesse personale risulta automaticamente vincolata da tale
    morale, escludendo quelle azioni (come la sofisticazione degli
    alimenti da parte dei commercianti) che potrebbero danneggiare
    altri. La diffusa adesione dei cittadini alla 'morale della
    simpatia', affiancata e sostenuta dalle istituzioni pubbliche per la
    difesa dell'ordine e l'amministrazione della giustizia, costituisce
    dunque un presupposto necessario per la tesi liberista, sostenuta da
    Smith nella Ricchezza delle nazioni, secondo cui il
    benessere collettivo è meglio conseguito affidandosi al
    libero perseguimento degli interessi individuali nell'ambito di
    un'economia di mercato concorrenziale. 
    
Conviene sottolineare qui che Smith propone questa tesi, senza
    sviluppare un concetto preciso di massimizzazione del benessere
    collettivo e prescindendo dalla distribuzione del reddito tra le
    diverse classi sociali, essenzialmente in base al confronto fra le
    istituzioni feudali ancora persistenti nella sua epoca e le nuove
    istituzioni dell'economia di mercato, ancora in via di affermazione.
    I meriti della costruzione smithiana, come si vede, risiedono
    principalmente nell'aver fornito un quadro concettuale organico e
    solido per l'interpretazione dello sviluppo dei sistemi economici.
    Per vari aspetti tuttavia l'analisi di Smith lasciava ampio spazio
    per ulteriori progressi, specie nel senso di una maggiore coerenza
    formale; e ciò anche su questioni centrali come la teoria del
    valore e della distribuzione. 
    
d) David Ricardo
La costruzione di una solida struttura analitica per l'economia
    politica classica costituisce il contributo principale dell'opera
    dell'inglese David Ricardo (1772-1823). Punto di partenza della sua
    riflessione analitica è il contrasto d'interessi tra i
    proprietari terrieri, politicamente dominanti, e la nascente
    borghesia industriale, contrasto che si manifestava nel dibattito
    sui dazi all'importazione dei cereali. A parere di Ricardo, i dazi
    spingevano verso l'alto i prezzi dei cereali e quindi, data la loro
    importanza nei consumi dei lavoratori, anche i salari; ciò
    spingeva verso il basso i profitti, rallentando il processo di
    accumulazione e frenando lo sviluppo del sistema economico.
    
Alla base dell'analisi di Ricardo è il concetto di
    sovrappiù, definibile - come si è già accennato
    - come la parte del prodotto che resta disponibile una volta
    ricostituite le scorte iniziali di mezzi di produzione e di mezzi di
    sussistenza per i lavoratori impiegati. Ricardo, seguendo la teoria
    della popolazione di Thomas R.
      Malthus (1766-1834), assume che il salario sia pari al
    livello di sussistenza (inteso non in senso biologico, ma come
    minimo tenore di vita accettabile da parte dei lavoratori di una
    data società in un dato periodo storico), e in tal modo
    considera i salari come corrispondenti ai consumi necessari dei
    lavoratori. Perciò, accogliendo la tripartizione smithiana
    della società nelle classi dei lavoratori, proprietari
    terrieri e capitalisti, il sovrappiù risulta ripartito tra
    rendite - che vengono utilizzate essenzialmente in consumi di lusso
    - e profitti, largamente destinati agli investimenti. Il problema
    della rendita viene poi superato grazie alla teoria della rendita
    differenziale; secondo tale teoria, la rendita viene pagata solo
    sulle terre più fertili e corrisponde alla differenza tra i
    costi di produzione relativi alla meno fertile tra le terre in
    coltivazione, e i costi relativi alle terre più fertili. 
    
Il profitto risulta così definito come grandezza residuale,
    cioè come quella parte del sovrappiù che non viene
    assorbita dalla rendita. Il saggio di profitto è allora
    determinabile come rapporto tra profitti e capitale anticipato. Ma
    ciò richiede che profitti e capitale anticipato siano
    espressi in termini di grandezze omogenee: o interpretandoli come
    quantità diverse di una stessa merce, il 'grano' (come,
    secondo l'interpretazione di Sraffa, Ricardo fa in un saggio del
    1815), o misurando prodotto e mezzi di produzione in valore, come
    Ricardo fa nei Principî dell'economia politica e della
      tassazione del 1817. 
      
In quest'opera, infatti, egli - come vari altri economisti classici
    prima e dopo di lui - ricorre a una teoria del valore-lavoro contenuto, secondo la
    quale le merci si scambiano in proporzione alle quantità di
    lavoro direttamente o indirettamente necessario alla loro
    produzione; ma occorre sottolineare che Ricardo è consapevole
    delle carenze di questa teoria. (Tali carenze consistono
    essenzialmente nel fatto che beni prodotti con le stesse
    quantità di lavoro ma su un arco di tempo più o meno
    lungo - ad esempio vino 'giovane' e vino 'invecchiato' - dovranno
    avere prezzi diversi).
    
Ricardo è anche noto per la sua 'teoria dei costi comparati',
    con cui mostra i vantaggi della divisione internazionale del lavoro
    permessa dal commercio internazionale. 
    
e) Karl Marx
La struttura analitica sviluppata dalla scuola classica fino
    alle opere di Ricardo viene ripresa dal tedesco Karl Marx
    (1818-1883), che pone però al centro della sua attenzione il
    contrasto d'interessi tra borghesia e proletariato. Con la sua
    'teoria dello sfruttamento', Marx cerca di mostrare che i profitti
    derivano da 'lavoro non pagato' pur in un sistema che rispetti il
    criterio capitalistico di scambio tra valori eguali. A tale scopo
    egli riprende la teoria del valore-lavoro contenuto - dei cui
    limiti, peraltro, è ben consapevole. (Marx tentò anche
    - ma senza successo - di mostrare che i risultati ottenuti in base a
    tale teoria restano validi quando ci si basa piuttosto sui 'prezzi
    di produzione', che rispettano la condizione di uniformità
    del saggio di profitto nei vari settori). Marx, dunque, assume che
    le merci si scambino sul mercato in proporzione al lavoro contenuto
    in esse, cioè alle quantità di lavoro direttamente e
    indirettamente necessario a produrle. Ciò vale anche per la
    forza-lavoro, che ha un valore pari al lavoro contenuto nei mezzi di
    sussistenza che costituiscono il consumo necessario dei lavoratori.
    Il valore d'uso della forza-lavoro (che è cosa diversa dal
    valore di scambio, così come il valore di scambio del carbone
    è ben distinto dal suo valore d'uso, che consiste nel fornire
    calore) sta nel fornire lavoro al capitalista che l'ha acquistata:
    tanto lavoro quanto il capitalista riesce a ottenere e quindi, date
    le consuetudini sociali che regolano la lunghezza della giornata
    lavorativa, di regola un numero di ore di lavoro superiore a quelle
    'contenute' nella forza-lavoro stessa. 
    
Questo eccesso di lavoro prestato rispetto a quello richiesto per la
    semplice riproduzione dei beni necessari al consumo dei lavoratori,
    o 'pluslavoro', corrisponde
    al valore del 'plusprodotto' o sovrappiù, e costituisce
    quindi la fonte dei profitti e delle rendite. Questa situazione di
    sfruttamento è celata agli occhi dell'osservatore
    superficiale dal 'feticismo delle merci', cioè dal fatto che
    i rapporti di cooperazione per il funzionamento del sistema
    economico tra i lavoratori appartenenti ai vari settori appaiono in
    un'economia capitalistica come rapporti di scambio tra merci sul
    mercato. 
    
Occorre rilevare che nel Marx del Capitale il concetto di
    sfruttamento sostituisce quello giovanile, di derivazione smithiana
    ed hegeliana, di alienazione, corrispondente al fatto che sono
    sottratti al controllo del lavoratore, e costituiscono quindi 'altro
    da sé' (alius), sia i mezzi di lavoro, sia il prodotto del
    lavoro, sia il processo produttivo, e che, di conseguenza, il lavoro
    risulta per il lavoratore come un mezzo per un fine distinto -
    procurarsi il salario, e quindi i mezzi di sussistenza -,
    anziché come diretta autorealizzazione dell'individuo nella
    società.
    
Lo sfruttamento che caratterizza il modo di produzione capitalistico
    (e, in forma ancor più diretta, i modi di produzione
    precedenti, come il feudalesimo e lo schiavismo) è a parere
    di Marx superabile con il passaggio a un modo di produzione
    più avanzato, il comunismo.
    La transizione dal capitalismo al socialismo, caratterizzato dalla
    proprietà collettiva dei mezzi di produzione e che sembra
    costituire nella visione di Marx una fase di preparazione al
    comunismo, sarebbe inevitabile conseguenza di alcune 'leggi di
    movimento del capitalismo', in particolare la crescente
    bipolarizzazione tra un proletariato sempre più vasto
    ('processo di proletarizzazione') e sempre più povero ('legge
    dell'immiserimento crescente') e una borghesia sempre più
    ricca e più forte ('legge della concentrazione
    capitalistica'), che sarebbe alla fine sfociata in una rivoluzione. 
    
Di fatto, questa parte almeno della visione di Marx è stata
    direttamente contraddetta dall'evoluzione concreta delle
    società capitalistiche, nelle quali si sono verificati un
    notevole miglioramento del tenore di vita dei lavoratori e la
    crescita di una classe media impiegatizia e professionale, con
    interessi distinti sia da quelli dei grandi capitalisti industriali
    e finanziari sia da quelli dei lavoratori non qualificati.
    
Marx prospetta due schemi di analisi generale, quello della
    riproduzione semplice e quello della riproduzione su scala
    allargata, o dell'accumulazione. Il primo rientra nella categoria
    degli schemi circolari, il secondo nella categoria degli schemi a
    spirale, in cui una parte almeno del sovrappiù è
    impiegata produttivamente. 
    
Entrambi gli schemi debbono rispettare la condizione della
    riproducibilità: le quantità delle merci prodotte che
    entrano fra i mezzi di produzione debbono essere eguali o superiori
    alle quantità delle stesse merci impiegate nel processo
    produttivo. Inoltre, se si fa l'ipotesi che in tutti i mercati viga
    la concorrenza, deve verificarsi una seconda condizione:
    l'unicità del saggio del profitto. In una successiva
    approssimazione si può fare l'ipotesi che certi mercati siano
    non concorrenziali, con profitti più alti della norma;
    tuttavia, prima d'introdurre una tale ipotesi occorre assicurarsi
    della coerenza logica dell'analisi nel caso più semplice
    della concorrenza generalizzata, dimostrando che in una tale ipotesi
    il saggio del profitto è unico. 
    
Ora, già nello schema di riproduzione semplice di Marx, la
    prima condizione - quella della riproducibilità - è
    rispettata, ma non lo è la seconda, quella relativa
    all'unicità del saggio del profitto. È questo il
    famoso problema della trasformazione dei valori-lavoro in prezzi di
    produzione cui si è già accennato; per esso Marx
    indica, con un breve accenno, una soluzione puramente intuitiva,
    proponendosi di fornirne in seguito una trattazione analitica,
    ciò che tuttavia poi non fa effettivamente. Seguendo
    l'analisi di Sraffa - di cui parleremo più avanti -
    l'erroneità della teoria del valore-lavoro risulta in modo
    ancora più compiuto: fra i 'valori' espressi dal lavoro
    contenuto e i prezzi vi è proporzionalità solo
    nell'ipotesi, non rilevante in un'economia capitalistica, di un
    saggio dell'interesse, e quindi del profitto, pari a zero. 
    
La teoria del valore-lavoro si muove a un alto livello di
    astrazione. A un livello molto più vicino alla realtà
    concreta si muove invece una tesi che in Marx è appena
    accennata, ma che assume poi grande rilievo per essere stata
    sostanzialmente accolta anche da economisti non marxisti come Joseph Schumpeter e lo
    statunitense John Kenneth
      Galbraith (n. 1908): è la tesi della tendenza alla
    progressiva concentrazione delle unità produttive, un
    processo che troverebbe il suo principale impulso nella diffusione
    delle economie di scala, a loro volta imputabili al progresso
    scientifico e organizzativo. Un tale processo sembrava trovare ampio
    riscontro nel fenomeno delle fusioni e poi nella comparsa e nella
    crescita di grandi e grandissime imprese, nazionali e
    transnazionali, un fenomeno che assume particolare rilievo tra la
    fine del secolo scorso e il principio del nostro e quindi dopo la
    seconda guerra mondiale. Secondo diversi economisti questo processo
    avrebbe spinto le economie capitalistiche nella direzione di una
    sorta di collettivismo privato, preludio di un collettivismo
    pubblico. 
    
Tuttavia, negli ultimi due decenni il processo di concentrazione ha
    subito un netto rallentamento o addirittura un rovesciamento, in
    quanto, grazie anche a grandi innovazioni, come quelle connesse con
    l'elettronica, si sono creati nuovi spazi per le piccole imprese.
    Inoltre, la tesi del processo di concentrazione trascura il fatto
    che non di rado le piccole imprese avviano innovazioni poi
    sviluppate dalle grandi imprese: in tal modo, le piccole imprese
    possono contrastare gli effetti negativi sull'efficienza e sulla
    capacità d'innovare che le grandi imprese potrebbero subire
    con la loro burocratizzazione. 
    
f) Il marginalismo
Il momento cruciale per la 'rivoluzione marginalista' è
    comunemente indicato negli anni tra il 1871 e il 1874, quando escono
    le opere principali dei capifila della scuola marginalista
    austriaca, Carl Menger (1840-1921), di quella inglese, William
      Stanley Jevons (1835-1882), e di quella francese, Léon Walras (1834-1910). Infatti nel 1871 escono sia i Principî
      di economia pura di Menger sia la Teoria dell'economia
      politica di Jevons, nel 1874 gli Elementi di economia
      politica pura di Walras. Va ricordato comunque che la
    rivoluzione marginalista aveva avuto importanti precursori, quali il
    francese Antoine-Augustin Cournot (1801-1877), e che tra i suoi cofondatori, per quanto riguarda il
    ramo inglese, Alfred Marshall (1842-1924; i suoi Principî di economia appaiono nel
    1890) riveste probabilmente un'importanza superiore a quella di
    Jevons; in Italia, le idee di Marshall conseguono una discreta
    diffusione grazie soprattutto agli scritti di Maffeo Pantaleoni (1857-1924). 
    
Le differenze fra l'approccio austriaco dell'imputazione, quello
    francese dell'equilibrio economico generale, e quello marshalliano
    degli equilibri parziali sono notevolissime, sia per quanto riguarda
    il metodo sia per quanto riguarda la visione di fondo del
    funzionamento del sistema economico. Ma prima di considerare
    più da vicino i tre principali filoni di ricerca
    tradizionalmente inclusi sotto l'etichetta del marginalismo conviene
    indicare alcuni elementi di fondo che li accomunano,
    contrapponendoli all'approccio classico illustrato sopra.
    
La contrapposizione è stata sintetizzata da Sraffa
    individuando nell'approccio classico la "presentazione del sistema
    della produzione e del consumo come processo circolare", "in netto
    contrasto con l'immagine offerta dalla teoria moderna di un corso a
    senso unico che porta dai 'fattori della produzione' ai 'beni di
    consumo"' (v. Sraffa, 1960, p. 121). In questo modo, Sraffa richiama
    sinteticamente le differenze di fondo tra l'approccio classico e
    quello marginalista, relative alla visione del problema economico e
    del funzionamento dell'economia, e alla struttura dell'analisi,
    particolarmente nel campo della teoria del valore e della
    distribuzione che è quello dove più direttamente si
    esprime l'impostazione di fondo dei diversi approcci economici. Come
    si accennava sopra presentando l'approccio classico, esso ha al
    centro della sua analisi il problema del modo in cui può
    riprodursi, e crescere nel tempo, una società basata sulla
    divisione del lavoro; l'approccio marginalista invece considera il
    problema economico come consistente nell'individuare l'ottima
    distribuzione delle risorse scarse tra gli usi alternativi
    possibili, date le preferenze dei soggetti economici.
    
Pertanto, l'impostazione marginalista tradizionale concepisce il
    problema del valore come relativo alla determinazione di prezzi e
    quantità 'di equilibrio', cioè tali da assicurare
    l'eguaglianza tra domanda e offerta, derivati dal confronto fra le
    dotazioni iniziali di risorse produttive e le preferenze degli
    agenti economici. (L'impostazione non muta nella sostanza, quando
    dai modelli di puro scambio si passa ai modelli di scambio e
    produzione, di modo che il rapporto tra le dotazioni iniziali e la
    soddisfazione dei desideri è mediato dall'attività
    produttiva, oltre che dall'attività di scambio e di consumo;
    o quando fra le risorse produttive sono inclusi anche mezzi di
    produzione prodotti). 
    
Di fronte al problema del valore così concepito, la tesi
    centrale delle teorie marginaliste tradizionali (quelle che Keynes
    chiama teorie classiche, e tra le quali prende ad esempio l'analisi
    di Arthur Cecil Pigou,
    1877-1959, successore di Marshall sulla cattedra di economia
    politica dell'Università di Cambridge) è che un
    sistema economico in cui prevalga la concorrenza perfetta e che non
    sia soggetto a continui disturbi esogeni tende a raggiungere una
    posizione di equilibrio dotata di caratteristiche di
    ottimalità, nel senso che non è possibile migliorare
    la posizione di qualche soggetto economico senza peggiorare la
    posizione di qualcun altro. In particolare, le teorie marginaliste
    tradizionali sostengono che in regime di concorrenza pura il salario
    reale si muove, assieme a tutti gli altri prezzi relativi, verso un
    livello tale da assicurare l'eguaglianza tra domanda e offerta di
    lavoro, cioè la piena occupazione.
    
Fra i meccanismi riequilibratori automatici che portano il sistema
    economico verso la piena occupazione, alcuni teorici marginalisti
    hanno messo in rilievo la flessibilità del rapporto tra
    capitale e lavoro: se sotto la pressione della disoccupazione il
    salario reale diminuisce, le imprese troveranno più
    conveniente utilizzare tecniche produttive che sostituiscono
    lavoratori a capitale, di modo che il rapporto capitale-lavoro
    diminuisce, e una data dotazione originaria di 'capitale' permette
    d'impiegare un numero di lavoratori via via crescente, fino a
    giungere alla piena occupazione. 
    
Questa tesi e in generale l'impostazione stessa della teoria del
    valore e della distribuzione, come si accennava, hanno assunto forme
    diverse in autori appartenenti a filoni diversi dell'approccio
    marginalista tradizionale. Ad esempio il filone francese
    dell'equilibrio economico generale inaugurato da Walras, ripreso e
    sviluppato al principio del secolo dall'italiano Vilfredo Pareto (1848-1923) e
    poi, negli ultimi trent'anni, da autori quali lo statunitense
    Kenneth Arrow (n. 1921, premio Nobel nel 1972) e il francese Gerard
    Debreu (n. 1921, premio Nobel nel 1983), è basato
    sull'ipotesi che siano considerate date, da un lato, le preferenze
    dei soggetti, dall'altro le quantità disponibili, specificate
    in termini fisici, delle risorse iniziali (diversi tipi di
    capacità lavorative, di terre, di beni capitali). 
    
Il filone inglese di Jevons e Marshall, a differenza del filone
    francese, tende a considerare come variabili da determinare
    all'interno della teoria anche le quantità disponibili delle
    varie risorse, utilizzando come dati esogeni le funzioni di
    utilità e disutilità dei vari soggetti economici
    (cioè considerando l'offerta di lavoro, ad esempio, come
    determinata dal confronto fra il salario, e quindi l'utilità
    dei beni acquistabili con esso, e il sacrificio che il lavoratore
    compie, cioè la disutilità del lavoro). Inoltre
    Marshall presenta la sua analisi come tentativo di sintesi tra
    l'approccio classico e quello marginalista 'puro', sostenendo che
    l'analisi classica commette l'errore di concentrarsi 'sul lato
    dell'offerta', mentre quella marginalista nella versione più
    estrema commette l'errore speculare di concentrarsi 'sul lato della
    domanda'. Marshall, viceversa, concentrando l'attenzione sulla
    singola impresa o sulla singola industria (con il metodo
    'dell'analisi parziale', cioè considerando offerta e domanda
    di ciascun bene come indipendenti da quanto contemporaneamente
    avviene sugli altri mercati), individua prezzo e quantità
    'normali'. Le variabili 'normali' corrispondono a una situazione di
    equilibrio del mercato considerato, e sono determinate
    dall'intersezione di una curva di offerta, che esprime l'andamento
    dei costi di produzione al variare della quantità prodotta, e
    una curva di domanda, che esprime le preferenze del consumatore. Le
    due curve rappresentano due funzioni che legano la quantità
    offerta e quella domandata all'andamento del prezzo del singolo
    bene. L'offerta è considerata funzione crescente del prezzo,
    almeno a partire da un certo livello di produzione in poi, in
    quanto, secondo il cosiddetto 'postulato della produttività
    marginale decrescente', il costo necessario a ottenere una
    unità addizionale di prodotto cresce al crescere della
    quantità prodotta, e pertanto gli imprenditori sono disposti
    ad aumentare la quantità offerta solo se il prezzo aumenta
    compensando l'aumento dei costi. 
    
Le varie giustificazioni addotte per il postulato della
    produttività marginale decrescente sono comunque risultate o
    irrealistiche, o incompatibili con l'ipotesi di concorrenza e/o con
    l'ipotesi di 'isolabilità' delle vicende del mercato
    considerato rispetto agli altri mercati, ipotesi che è alla
    base del metodo degli equilibri parziali. Di fatto, il postulato
    della produttività marginale decrescente è motivato
    essenzialmente da un'esigenza analitica di simmetria con il
    postulato dell'utilità marginale decrescente. Secondo
    quest'ultimo, l'utilità di una dose addizionale di bene
    consumato diminuisce al crescere della quantità consumata;
    perciò il consumatore sarà disposto ad acquistare dosi
    addizionali del bene solo a prezzi man mano decrescenti, e la
    domanda risulterà funzione decrescente del prezzo.
    
Abbiamo infine la scuola austriaca di Menger e dei suoi allievi,
    delle cui caratteristiche distintive ci occuperemo nel prossimo
    paragrafo. È possibile attribuire una concezione di fondo
    sostanzialmente unitaria ai vari filoni dell'approccio marginalista:
    quella cui si accennava sopra, di un 'corso a senso unico',
    caratterizzato da un punto di partenza (sia esso costituito dalle
    risorse inizialmente disponibili, o dalle risorse originarie, o
    dalle disutilità) e da un punto di arrivo, costituito dalla
    soddisfazione dei gusti dei consumatori. Ma questa comune concezione
    di fondo assume poi una varietà notevole di connotati nelle
    diverse scuole che si ricollegano ad essa. 
    
Comunque, la comune concezione di fondo facilita una valutazione
    sintetica del contributo teorico delle scuole marginaliste, in
    quanto essa implica l'esistenza di aspetti centrali comuni anche
    nella struttura analitica delle diverse scuole. Intanto, per quanto
    riguarda le preferenze dei singoli consumatori è comune
    l'ipotesi di indipendenza del sistema di preferenze di ciascun
    soggetto economico dalle preferenze degli altri: l'unica influenza
    riconosciuta delle scelte altrui sulle scelte di ciascun singolo
    consumatore è quella indiretta, che passa attraverso i prezzi
    che si determinano sul mercato. Le 'esternalità', cioè
    il fatto che il comportamento degli altri ha un'influenza decisiva
    sul mio sistema di preferenze - come nel caso degli 'effetti di
    dimostrazione', per cui se tutti i miei vicini comprano la
    televisione a colori anch'io sarò indotto a comprarla -, sono
    escluse dalla struttura analitica della teoria marginalista
    tradizionale. Questa concezione delle scelte di consumo è
    caratterizzata da un individualismo estremo: ciascun individuo
    decide per sé, sulla base di preferenze che la teoria assume
    come date e che quindi si suppone non interagiscano con il
    comportamento altrui. In tal modo essa appare contrapposta
    all'assunzione classica, forse valida soprattutto come prima
    approssimazione rudimentale, ma probabilmente più 'concreta'
    di quella marginalista, di un comportamento di consumo
    sostanzialmente simile all'interno di ciascuna classe sociale. 
    
In quella che è tradizionalmente chiamata 'ipotesi classica',
    infatti, i profitti sono destinati all'accumulazione di capitale,
    cioè agli investimenti, e le rendite dei proprietari terrieri
    sono destinate essenzialmente a consumi di lusso; quanto ai salari,
    per i classici - che avevano ben presenti le condizioni del tempo in
    cui vivevano - il comportamento di consumo è reso omogeneo da
    ragioni obiettive, cioè dal fatto che il salario si colloca
    al livello di sussistenza (un livello che tuttavia, come si è
    già accennato, dipende dalle condizioni storico-sociali).
    
Un secondo elemento comune alla struttura analitica dei vari filoni
    dell'approccio marginalista è costituito dal ruolo centrale
    che in essi gioca il 'principio di sostituzione', nella produzione
    come nel consumo: al variare dei prezzi relativi dei diversi beni di
    consumo, la quantità consumata dei beni il cui prezzo
    è cresciuto si riduce, mentre viceversa cresce quella dei
    beni il cui prezzo è diminuito; analogamente, al variare dei
    prezzi relativi dei 'fattori di produzione', quelli il cui prezzo
    è aumentato vengono sostituiti da quelli il cui prezzo
    è diminuito. 
    
Un terzo elemento comune, che appare una conseguenza logica della
    struttura analitica dell'approccio marginalista, e che lo
    differenzia nettamente dall'approccio classico, è dato dalla
    simmetria nella trattazione delle variabili distributive. Infatti
    salario e saggio del profitto (o, nelle trattazioni 'disaggregate',
    i prezzi dei servizi dei diversi fattori produttivi) sono posti su
    uno stesso piano, come determinati (assieme alle quantità
    utilizzate di capitale e lavoro) dalla realizzazione sui rispettivi
    mercati dell'equilibrio tra domanda e offerta. Così salario e
    saggio di profitto corrispondono, dal lato della domanda, alla
    produttività marginale di lavoro e capitale. 
    
Simultaneamente, dal lato dell'offerta, salario e saggio del
    profitto corrispondono al 'costo reale' dei rispettivi fattori di
    produzione: la penosità marginale del lavoro e il sacrificio
    dell'astinenza dal consumo nel caso del capitale. In altre
    formulazioni teoriche dell'approccio marginalista, specie nelle
    moderne riformulazioni assiomatiche della teoria dell'equilibrio
    economico generale, il saggio d'interesse (che spesso nella
    terminologia marginalista sostituisce il saggio del profitto come
    'prezzo' dell'uso del capitale) è collegato alle 'preferenze
    intertemporali' dei soggetti economici tra consumo presente e
    consumo futuro.
    
Le critiche al marginalismo, che nel passato assumevano carattere
    occasionale o frammentario, in tempi recenti si sono intensificate,
    soprattutto dopo la pubblicazione dell'opera di Sraffa nel 1960.
    Torneremo più oltre su tali critiche; qui ci limitiamo a
    ricordare alcuni aspetti particolarmente problematici della teoria
    dell'equilibrio economico generale formulata da Léon Walras e
    poi ripresa e ampliata da Vilfredo Pareto. 
    
Walras rappresenta il sistema economico con un sistema di equazioni
    elaborate originariamente dai cultori della meccanica razionale
    (Walras aveva studiato ingegneria, Pareto era ingegnere). Walras
    sviluppa la sua teoria attraverso tre approssimazioni successive,
    rappresentate rispettivamente da: 1) equazioni dello scambio; 2)
    equazioni dello scambio e della produzione e, infine, 3) equazioni
    dello scambio, della produzione, dell'accumulazione e del credito.
    L'assunzione di partenza - che resta valida anche nelle successive
    approssimazioni - è che esista una dotazione iniziale di beni
    capitali fisici (che includono le risorse naturali) e di capitali
    personali (capacità di lavoro delle persone). Inoltre sono
    incluse fra i dati del problema le preferenze - le funzioni di
    utilità - dei singoli soggetti e la tecnologia; le imprese
    operano tutte in condizioni di concorrenza. Sulla base di queste
    premesse Walras dimostra che il numero delle equazioni eguaglia il
    numero delle incognite - prezzi e quantità dei beni e dei
    servizi - e che il sistema di equazioni, nei tre casi che egli
    considera, è determinato.
    
Sulla scia di Walras, numerosi economisti matematici affrontano i
    problemi dell'esistenza, unicità e stabilità delle
    soluzioni per il modello di puro scambio; i risultati cui è
    giunto questo filone di ricerca possono essere sintetizzati come
    segue: a) sotto condizioni sufficientemente generali, il sistema ha
    soluzioni economicamente significative (con valori non negativi per
    i prezzi e le quantità di equilibrio delle varie merci); b)
    in generale è possibile una molteplicità di equilibri;
    c) la stabilità dell'equilibrio è dimostrabile solo
    ricorrendo a ipotesi particolari, troppo specifiche perché a
    tali dimostrazioni possa essere attribuita validità generale.
    (Questi risultati sono stati elaborati in modo rigoroso in
    riferimento a modelli assiomatici di equilibrio economico generale
    proposti negli anni cinquanta da Arrow e Debreu; tali modelli
    considerano anche 'equilibri intertemporali', trattando come merci
    diverse una stessa merce in momenti diversi del tempo e prendendo
    come date le preferenze dei soggetti economici tra diverse
    quantità di beni non solo in un dato momento nel tempo, ma
    anche tra momenti diversi: meno uova e più galline oggi e
    più uova e meno galline domani). 
    
Comunque, la fragilità - secondo alcuni critici
    l'insostenibilità - della costruzione di Walras e Pareto
    appare in piena luce nella terza approssimazione. Walras infatti
    assume che all'inizio di un certo periodo vi sia una dotazione "data
    a caso" ("criée au hasard") di beni capitali, intesi in senso
    lato; nella terza approssimazione egli ammette che si producano
    nuovi beni capitali, particolarmente quelli che risultano scarsi e
    che forniscono il più alto rendimento. Ma, nella logica della
    sua costruzione, suppone che tali beni entrino in funzione, non
    nello stesso periodo, bensì nel periodo successivo; nulla
    però assicura che, in tale periodo successivo, avrà
    luogo l'unicità dei rendimenti dei beni capitali. Mentre nel
    caso dei beni di consumo l'aggiustamento dei prezzi e delle
    quantità avviene in uno stesso periodo e quindi le correzioni
    potranno dar luogo a movimenti convergenti verso certi livelli
    normali, così non è nel caso dei beni capitali, in
    particolare di quelli fisici. Pertanto, nel sistema di Walras non si
    ha in generale un unico tasso di rendimento in tutti i settori
    produttivi; ciò è una logica conseguenza del fatto che
    tale teoria segue 'l'ottica della scarsità' anziché
    'l'ottica della riproducibilità', in quanto essa si fonda non
    sulla concezione classica dell'attività economica come
    processo circolare o a spirale, ma sulla concezione di un corso a
    senso unico, che parte da una certa dotazione di fattori produttivi
    e si conclude con l'offerta di un certo gruppo di beni di consumo:
    le risorse "date a caso" portano a rendimenti "dati a caso". 
    
g) La scuola austriaca
I teorici della scuola austriaca (oltre a Menger, vanno ricordati almeno i suoi allievi Friedrich von Wieser,
    1851-1926, ed Eugen von
      Böhm-Bawerk, 1851-1914) adottano un'ottica soggettiva
    radicale, in base alla quale il valore di ciascun bene o servizio
    viene dedotto dall'utilità che esso ha per il consumatore
    finale, direttamente nel caso dei beni di consumo o indirettamente
    nel caso dei beni di produzione; in quest'ultimo caso si 'imputa' al
    mezzo di produzione una quota dell'utilità che il bene
    prodotto ha per il consumatore, calcolando tale quota in proporzione
    al contributo del bene o servizio considerato al processo produttivo
    (da cui l'espressione 'teoria dell'imputazione').
    
Le prime fasi di sviluppo della scuola austriaca furono comunque
    caratterizzate dall'aspro scontro metodologico con la cosiddetta
    'scuola storica tedesca', tra i cui rappresentanti ricordiamo
    Wilhelm Roscher (1817-1894) e Gustav von Schmoller (1838-1917). La
    scuola storica attribuiva importanza centrale allo studio
    dell'evolversi delle istituzioni, criticando l'eccesso di astrazione
    e di astoricismo dell'impostazione marginalista; ma finiva in
    realtà col ridurre l'economia alla semplice descrizione di
    vicende e situazioni specifiche. Contro questa posizione, la scuola
    austriaca sostenne la necessità di ragionamenti deduttivi
    rigorosi basati su premesse generali, riportando nel complesso una
    vittoria culturale schiacciante. Una influenza della scuola storica
    tedesca può comunque essere individuata nella cosiddetta
    scuola istituzionalista, attiva ancora oggi soprattutto negli Stati
    Uniti, dove il suo principale esponente è stato Thornstein Veblen (1857-1929). 
    
La scuola austriaca 'moderna', in particolare con Friedrich von Hayek (1899-1992), si caratterizza per un deciso sostegno a posizioni
    radicalmente liberiste, e si differenzia dal marginalismo
    tradizionale nella visione del funzionamento dell'economia: in
    particolare, l'atto di scelta compiuto dal soggetto economico
    è visto come esperimento in condizioni di incertezza, il cui
    risultato modifica le aspettative e le conoscenze iniziali in un
    processo continuo; rispetto all'approccio marginalista francese e
    anglosassone, il concetto di equilibrio perde così il suo
    tradizionale ruolo analitico centrale come soluzione del problema
    economico.
    
Tra la fine degli anni venti e i primi anni trenta, inoltre, Hayek,
    riprendendo e sviluppando una teoria proposta da un altro esponente
    di rilievo della scuola austriaca, Ludwig von Mises (1881-1973), sostenne in vari
    scritti una teoria monetaria del ciclo economico (la cosiddetta
    'teoria del risparmio forzato'), che dopo un discreto successo
    iniziale fu relegata in secondo piano dall'affermazione della teoria
    keynesiana. Secondo la teoria del risparmio forzato, mentre il
    livello di equilibrio di lungo periodo della produzione corrisponde
    alla piena occupazione dei lavoratori e al pieno utilizzo della
    capacità produttiva disponibile, nel breve periodo è
    possibile un'accelerazione degli investimenti finanziati da
    un'espansione dell'offerta di moneta da parte delle banche, a
    scapito di una riduzione non desiderata dei consumi, cioè di
    un risparmio non desiderato - o 'forzato' - prodotto dall'aumento
    dei prezzi che riduce il potere d'acquisto dei lavoratori salariati;
    in un secondo momento, quando entra in funzione la nuova
    capacità produttiva corrispondente agli investimenti
    addizionali, l'accresciuta offerta di prodotti genera una spinta
    deflazionistica, e quindi un aumento del potere d'acquisto dei
    lavoratori e una ripresa dei consumi, con una distruzione di
    risparmio che riporta il sistema economico alla situazione di
    partenza. 
    
Questa teoria permette di conciliare il riconoscimento di
    un'influenza dei fenomeni monetari sui livelli di produzione con la
    concezione marginalista tradizionale secondo la quale prezzi
    relativi e quantità di equilibrio (inclusi i livelli di
    produzione e di occupazione) sono determinati esclusivamente dai
    fattori reali: disponibilità di risorse, tecnologia,
    preferenze dei consumatori. In questo senso, nonostante le
    caratteristiche specifiche che abbiamo appena richiamato, la scuola
    austriaca può essere a buona ragione collocata all'interno
    della tradizione marginalista. 
    
h) Dalla statica alla dinamica
Come si è accennato sopra, l'approccio marginalista in
    tutte le sue varie formulazioni imposta il problema economico come
    centrato sul confronto fra risorse disponibili e preferenze dei
    consumatori finali, e risolve tale problema determinando prezzi e
    quantità di equilibrio che assicurino l'eguaglianza tra
    quantità domandate e offerte dei vari beni e servizi. Tramite
    l'operare del principio di sostituzione, i mercati assicurano
    l'eliminazione di scarsità ed eccedenze, e quindi l'ottima
    utilizzazione delle scarse risorse disponibili. In particolare, in
    condizioni di concorrenza il normale funzionamento del mercato del
    lavoro fissa il salario a un livello tale da assicurare la piena
    occupazione della forza-lavoro disponibile. L'impostazione
    marginalista è dunque essenzialmente statica: dati
    l'ammontare di risorse disponibili, la tecnologia e i gusti dei
    consumatori prevalenti in un dato momento del tempo, la teoria
    determina prezzi e quantità di equilibrio. 
    
L'evoluzione di un sistema economico nel tempo è legata al
    cambiamento dei dati: risorse disponibili, tecnologia e gusti dei
    consumatori. Così essa può essere studiata in due
    modi: o tramite analisi di statica comparata, cioè
    determinando prezzi e quantità di equilibrio prima con
    l'iniziale insieme di dati e poi con quello nuovo, e confrontando le
    due soluzioni per individuare l'effetto del cambiamento dei dati;
    oppure tramite analisi dinamiche, cioè introducendo una
    precisa ipotesi sull'evoluzione nel tempo di uno o più fra i
    dati del problema, e determinando così un sentiero regolare
    per lo sviluppo del sistema economico. In entrambi i casi, comunque,
    restano generalmente esclusi dall'analisi sia i problemi di
    transizione da un equilibrio all'altro, sia quelli di spiegare
    all'interno della scienza economica i cambiamenti nella tecnologia o
    nelle abitudini di consumo.
    
L'aspetto sorprendente della 'rivoluzione marginalista', se
    consideriamo la sua natura essenzialmente statica, è che essa
    ha luogo proprio in un tempo in cui i cambiamenti tecnologici, che
    hanno caratterizzato il capitalismo industriale sin dal suo
    apparire, tendono a crescere, non a diminuire, d'importanza, come
    tendono a crescere d'importanza i cambiamenti nelle abitudini di
    consumo (e spesso questo secondo fenomeno è condizionato dal
    primo). D'altra parte, i cambiamenti tecnologici sono all'origine
    del processo di sviluppo economico, che costituiva il problema
    teorico fondamentale per economisti classici come Smith, ma che
    scompare del tutto dall'orizzonte teorico dei marginalisti. 
    
Per spiegare tale svolta paradossale sono state indicate diverse
    ragioni, tre in particolare, che qui ci limitiamo a ricordare e a
    commentare molto concisamente. La prima ragione si ricollega
    all'aspirazione a un maggior rigore. Ciò implica
    l'applicazione sistematica dei metodi matematici, cosa agevole se si
    assumono costanti la tecnologia e le abitudini di consumo, ma ben
    più difficile nel caso di problemi dinamici. Quella statica
    era considerata solo un'analisi di prima approssimazione; ma i
    modelli di norma erano concepiti in modo da rendere impossibile il
    passaggio all'analisi dinamica: per far questo occorreva
    ricominciare da capo.
La seconda ragione è legata a motivi di natura ideologica. La
    teoria classica era sfociata nei cosiddetti socialisti ricardiani e
    poi nell'analisi di Marx, che aveva finalità dichiaratamente
    rivoluzionarie. Per esorcizzare gli sviluppi di tipo marxista, e
    quindi rivoluzionari, si diffuse la tendenza a rifiutare
    l'impostazione stessa delle teorie classiche, abbandonando l'esame
    oggettivo dei rapporti sociali di produzione e rivolgendo lo studio
    verso le caratteristiche soggettive dei bisogni e quindi
    dell'individuo astrattamente considerato. 
    
La terza ragione si ricollega alla crescita del reddito individuale
    di strati sempre più ampi della popolazione. Mentre al tempo
    dei classici la gran massa della popolazione viveva al livello della
    sussistenza e il problema delle preferenze dei consumatori si poneva
    solo per un'esigua minoranza di privilegiati, nelle nuove condizioni
    quel problema si poneva invece per una maggioranza sempre più
    ampia; e le teorie marginaliste davano il massimo rilievo alle
    preferenze dei consumatori. 
    
Le tre ragioni vanno forse considerate congiuntamente, ricordando
    che i classici non erano riusciti a risolvere in modo soddisfacente
    il problema del valore. Un'ulteriore spinta all'affermazione del
    marginalismo fu data dalla sua vittoria nello scontro con la nuova
    scuola storica, che tendeva a risolvere la teoria nella storia
    economica.
    
Non sarebbe esatto, tuttavia, affermare che la costruzione
    marginalista sia integralmente statica. In effetti, vari economisti
    tentano di affrontare, all'interno dei diversi filoni dell'approccio
    marginalista, il problema delle situazioni 'di squilibrio',
    generalmente considerate come oscillazioni di breve periodo attorno
    alle situazioni 'di equilibrio' implicanti, come si è detto,
    il pieno utilizzo delle risorse disponibili. In questo quadro viene
    affrontato il problema del ciclo economico. Esso è attribuito
    a shock, cioè a variazioni improvvise e impreviste dei dati
    del problema che spingono il sistema economico fuori dell'equilibrio
    per qualche tempo prima che l'operare delle forze di mercato ve lo
    riporti; oppure a fenomeni monetari che si sovrappongono alle forze
    'reali' determinanti l'equilibrio di mercato. Si tratta, in ogni
    caso, di eventi che rendono non più di equilibrio i prezzi
    relativi prevalenti nella situazione precedente; il protrarsi dello
    squilibrio e la sua trasformazione in ciclo economico sono
    ricollegati all'incapacità del mercato di condurre
    istantaneamente i prezzi relativi ai valori coerenti con il nuovo
    equilibrio. 
    
Da questa base comune, le specifiche teorie del ciclo si
    differenziano per l'accento posto su prezzi relativi particolari,
    quali salario reale, tasso d'interesse e tasso del profitto. In
    particolare Marshall e vari economisti americani della Scuola di
    Chicago mettono l'accento sui movimenti del salario e del tasso
    d'interesse confrontati con le aspettative sulle variazioni dei
    prezzi; lo svedese Knut Wicksell (1851-1926) sugli scostamenti del tasso d'interesse monetario da
    quello 'naturale' corrispondente al tasso di rendimento degli
    investimenti; l'inglese Ralph Hawthrey (1879-1975) sui movimenti dei
    tassi d'interesse sui crediti a breve termine, e quindi sul 'ciclo
    delle scorte'; l'inglese Dennis Robertson (1890-1963) su cause
    monetarie per quanto riguarda i cicli brevi, e sull'addensarsi degli
    acquisti per il rinnovo di impianti e beni di consumo durevoli
    determinato dall'alternarsi di 'sciami' di innovazioni con periodi
    di relativo ristagno tecnologico per quanto riguarda i cicli di
    media durata. Alle teorie austriache del risparmio forzato che
    almeno in parte derivano da quella di Wicksell, si è
    già accennato nel paragrafo precedente.
Da queste tradizioni provengono anche due economisti che tuttavia si
    scostano dalle fondamenta tradizionali dell'approccio marginalista
    in misura sufficiente da essere considerati 'eretici', fondatori di
    nuove scuole di pensiero: Schumpeter e Keynes. 
    
i) Joseph Schumpeter e lo sviluppo ciclico dell'economia
L'economista austriaco Joseph
      Schumpeter (18831950) si contrappone alla tradizione
    marginalista (di cui pure dichiara di accettare le principali
    elaborazioni teoriche, come soluzione però di un problema
    specifico, quello 'statico', concernente la raffigurazione di un
    sistema economico che non cambia nel tempo) per il suo tentativo di
    costruire una teoria dello sviluppo. Tale teoria è basata
    sulle innovazioni, introdotte dagli imprenditori e finanziate dai
    banchieri; imprenditori e banchieri risultano così le figure
    attive, le cui scelte determinano l'evoluzione dell'economia, mentre
    le scelte di consumo e di risparmio, che risultavano centrali nella
    teoria tradizionale, appaiono qui come secondarie. 
    
Tutte le principali nozioni della teoria tradizionale risultano
    modificate da questo cambiamento d'ottica; ad esempio, la nozione di
    concorrenza della teoria statica risulta 'travolta' dalla forza
    della concorrenza dinamica, che viene dagli imprenditori che
    introducono nuovi processi produttivi o nuovi prodotti. I profitti
    degli imprenditori-innovatori derivano da beni nuovi, che riescono
    ad affermarsi nel mercato, e dai minori costi rispetto alle imprese
    che utilizzano i vecchi metodi produttivi; e, dato che la domanda di
    finanziamenti alle banche proviene essenzialmente dagli
    imprenditori-innovatori, sono le opportunità d'investimento
    aperte dalle innovazioni e la loro redditività che
    determinano i tassi d'interesse.
    
Il ciclo economico è spiegato dall'andamento irregolare del
    flusso delle innovazioni. Queste, d'altra parte, sono d'importanza
    molto diversa: le innovazioni di portata storica - la macchina a
    vapore per usi fissi e per il trasporto per terra o per mare,
    l'elettricità, l'automobile, l'aereo, oggi la
    microelettronica - danno origine a 'cicli di lunga durata' (i 'cicli
    Kondrat'v' di durata approssimativamente cinquantennale); le
    innovazioni di minor rilievo, che spesso s'innestano in quelle
    maggiori e ne costituiscono sviluppi specifici, danno origine a
    cicli di durata più breve: i 'Juglar', di circa nove anni, e
    i 'Kitchin', di circa tre anni (dal nome degli economisti che li
    hanno studiati sistematicamente, anche sul piano empirico). 
    
Il modello teorico di Schumpeter è originariamente presentato
    nella Teoria dello sviluppo economico del 1912 ed è
    poi riproposto, con diverse importanti modificazioni, nel trattato
    su I cicli economici del 1939, nel quale l'analisi teorica
    si combina con quella empirica (storica e statistica). 
    
Schumpeter parte dall'analisi del 'flusso circolare', ossia del
    processo economico che riproduce uniformemente se stesso: un
    concetto simile, se pure non identico, a quello dei classici e di
    Sraffa. La rottura di tale flusso è provocata dagli
    imprenditori tramite le innovazioni, ossia nuove e più
    efficienti combinazioni di fattori produttivi, dalle quali emerge il
    profitto. Gli imprenditori-innovatori per finanziare le innovazioni
    domandano prestiti alle banche, le quali creano mezzi di pagamento
    addizionali. Compare quindi una schiera di imitatori, crescono gli
    investimenti e, di conseguenza, la domanda di beni di consumo; si
    sviluppa così la fase di prosperità. Dalla
    prosperità si passa alla flessione, man mano che vengono a
    maturazione i frutti delle innovazioni e man mano che crescono le
    produzioni delle imprese che non s'innovano ma si avvantaggiano
    della generale prosperità. Alla fine del ciclo, il sistema
    dei prezzi risulta cambiato e i redditi reali accresciuti. Pertanto,
    il nuovo ciclo parte da un livello più alto del reddito
    complessivo e di quasi tutti i redditi individuali: cicli e sviluppo
    risultano le manifestazioni di un unico processo, il processo dello
    sviluppo ciclico.
    
Secondo Schumpeter, tale processo è caratterizzato da una
    tendenza di lungo periodo verso la concentrazione delle imprese, una
    tendenza condizionata dalla crescente importanza delle economie di
    scala nelle principali attività economiche. In tal modo sono
    emerse quelle grandi o grandissime imprese, specialmente
    nell'industria e nella finanza, che in diversi casi hanno assunto
    rilevanza internazionale. Schumpeter sostiene che nelle grandi
    imprese, le quali organizzano grandi laboratori di ricerca,
    l'innovazione tende a essere trasformata in un'attività di
    routine. 
    
La crescita assoluta e relativa delle grandi imprese e la
    burocratizzazione del processo innovativo renderebbero superflua la
    figura centrale del capitalismo moderno, l'imprenditore, e
    renderebbero pertanto sempre più difficile la sopravvivenza
    del capitalismo, favorendo l'avvento del socialismo centralizzato:
    il collettivismo pubblico verrebbe a sostituire un sistema che tende
    ad assumere sempre più le caratteristiche di un collettivismo
    privato. In tal modo Schumpeter, che ideologicamente era un
    conservatore, analiticamente si avvicina a Marx che aveva già
    considerato, sia pure per brevi cenni, la tendenza alla
    concentrazione; Marx, tuttavia, sosteneva l'ineluttabilità
    dell'avvento del socialismo su basi in gran parte diverse: il ruolo
    principale era svolto dal crescente immiserimento delle masse.
    
Oggi appare chiaro che la tendenza alla concentrazione, che è
    stata osservata in diverse importanti attività economiche,
    è stata interpretata in termini troppo schematici sia da Marx
    sia da Schumpeter. In particolare, Schumpeter ha sottovalutato
    gravemente il ruolo che tuttora svolgono gli inventori individuali e
    il ruolo dei ricercatori e degli inventori che operano in istituti
    universitari e in altri organismi autonomi. Il flusso delle nuove
    idee e delle invenzioni che hanno una tale origine riveste
    importanza essenziale anche per le grandi imprese, i cui laboratori
    spesso sviluppano invenzioni di provenienza esterna. Schumpeter ha
    inoltre sottovalutato il ruolo che piccole e piccolissime imprese
    possono avere e spesso hanno avuto nell'avviare importanti
    innovazioni, che in seguito sono riprese e sviluppate dalle grandi.
    Per di più, anche come conseguenza di certe innovazioni, come
    quelle connesse all'elettronica, sono sorti nuovi spazi per le
    piccole imprese, il cui peso, nonostante la tendenza verso la
    concentrazione, era sempre rimasto considerevole e negli ultimi due
    decenni è progressivamente cresciuto in tutti i paesi
    industrializzati. 
    
l) Max Weber, la sociologia e il processo di burocratizzazione
Joseph Schumpeter è un economista, ma è anche un
    sociologo e un politologo: possono essere classificate con queste
    ultime due etichette alcune sue opere, come L'imperialismo e le
      classi sociali e Capitalismo, socialismo e democrazia.
    Un altro grande studioso, quasi contemporaneo di Schumpeter, Max Weber (1864-1920), viene
    generalmente considerato come un sociologo, ma è stato
    professore di economia politica (prima a Friburgo, poi a Heidelberg)
    e si è occupato fra l'altro anche di temi strettamente
    economici (quali i fondamenti della teoria marginalista del valore,
    in una recensione del 1908 a un libro di Brentano). La sua opera
    principale comunque resta Economia e società,
    pubblicata postuma nel 1922. 
    
Weber e Schumpeter sono due cospicui esempi dell'ampia
    sovrapposizione che spesso si crea fra le scienze sociali, in
    particolare fra economia e sociologia. Un altro esempio dello
    stretto collegamento tra economia e sociologia è fornito
    dall'opera dell'italiano Vilfredo Pareto, anche se, come si è
    accennato sopra, il contributo di Pareto alla teoria economica
    rientra nel filone marginalista dell'equilibrio economico generale e
    fa capo quindi a una concezione che ha contribuito più a
    separare che ad avvicinare le due discipline.
    
L'opera di Weber riguarda l'interpretazione del capitalismo moderno,
    concepito come un grandioso processo di trasformazione, che, a sua
    volta, è in primo luogo l'espressione di un processo di
    razionalizzazione non solo dell'attività economica, ma
    dell'organizzazione della società intera. Tale processo
    s'incontra e per certi versi si scontra con le convinzioni
    religiose, che possono essere più o meno favorevoli allo
    'spirito del capitalismo'; tale processo s'incarna, fra l'altro, in
    una progressiva burocratizzazione dell'organizzazione statale e del
    sistema produttivo. Il processo di cui parla Weber si contrappone
    sotto diversi aspetti, se non altro sotto l'aspetto quantitativo, al
    processo di crescente proletarizzazione delineato da Marx. 
    
L'evoluzione storica ha dato ragione a Weber, non a Marx,
    giacché la burocrazia pubblica e privata è cresciuta
    enormemente nei paesi sviluppati, mentre la quota dei proletari -
    operai salariati- è cresciuta fin verso la fine del secolo
    scorso, e in seguito, durante questo secolo, ha mostrato tendenza a
    declinare. (Negli ultimi cento anni la massa degli impiegati
    è cresciuta dal 5 al 30% della popolazione attiva in Italia,
    dal 12 al 45% in Inghilterra e dal 14 al 49% negli Stati Uniti, con
    l'avvertenza che oggi in Italia la burocrazia pubblica rappresenta
    oltre la metà del totale, in Inghilterra poco meno della
    metà e negli Stati Uniti un terzo. La quota del
    'proletariato', dopo aver toccato o superato il 50% della
    popolazione attiva, negli ultimi decenni è scesa nettamente
    sotto tale livello. Com'è noto, oltre che dagli impiegati e
    dagli operai, la popolazione attiva è costituita da
    lavoratori autonomi).
    
L'economista deve considerare il processo di burocratizzazione
    congiuntamente all'espansione degli interventi pubblici nella vita
    economica e, nei tempi più vicini a noi, alla crescita dello
    Stato sociale e degli apparati fiscale e parafiscale. Le stesse
    teorie economiche vanno considerate con riferimento a queste
    tendenze. Così, le politiche economiche ispirate da Keynes
    non sarebbero state concepibili se il processo di burocratizzazione
    nel senso di Weber non fosse andato molto avanti. Non pochi modelli
    teorici vanno visti nella stessa prospettiva. Ad esempio, una teoria
    delle retribuzioni - salari e stipendi - che miri ad avere efficacia
    interpretativa non può non riconoscere che nel nostro tempo
    le retribuzioni nominali sono rigide verso il basso: una
    rigidità che si ricollega in vari modi alle forme
    organizzative prevalenti nella burocrazia pubblica e privata e ai
    sindacati, che per diversi aspetti rientrano nel processo weberiano
    di burocratizzazione. 
    
m) John Maynard Keynes e la disoccupazione di equilibrio
In opposizione alle tradizioni precedenti (classica e marginalista),
    che considerano la moneta un semplice 'velo', cioè priva di
    influenza sui livelli di equilibrio delle variabili 'reali'
    (quantità prodotte, prezzi relativi di equilibrio e variabili
    distributive), Keynes (1883-1946) insiste sull'influenza persistente, e non solo come
    fattore di disturbo ciclico, che le vicende monetarie possono avere
    su quelle reali. La formulazione matura della teoria keynesiana -
    quella della Teoria generale del 1936 - può essere
    illustrata a partire da tre elementi fondamentali: il concetto di
    domanda effettiva, la teoria degli investimenti e del moltiplicatore
    del reddito e una teoria monetaria basata sulla 'preferenza per la
    liquidità'. Consideriamo rapidamente questi tre elementi. 
    
La domanda effettiva esprime, per ogni livello di occupazione,
    l'ammontare di prodotto che gli imprenditori si attendono di vendere
    sul mercato; ed è considerata da Keynes come funzione
    crescente - ma a velocità decrescente - del livello di
    occupazione. Gli imprenditori decidono quanto produrre, e quindi in
    quale misura utilizzare la capacità produttiva disponibile e
    quanti lavoratori impiegare, confrontando la curva di domanda
    effettiva con la curva di offerta. Quest'ultima indica, in
    corrispondenza di ciascun livello di occupazione, l'ammontare di
    vendite che gli imprenditori ritengono necessario per recuperare i
    costi e ottenere un profitto appena sufficiente a indurli a
    continuare la produzione. La curva di offerta è quindi una
    funzione crescente del livello di occupazione; inoltre, nella Teoria
      generale, Keynes afferma che essa tende a crescere man mano
    più rapidamente a causa dell'aumento progressivo del costo
    unitario di produzione (postulato della produttività
    marginale decrescente). Pertanto, per livelli sufficientemente bassi
    dell'occupazione la curva di domanda effettiva risulterà
    superiore alla curva di offerta, mentre a un certo punto (detto
    'punto di domanda effettiva') le due curve si incontreranno, e per
    livelli di occupazione superiori la curva di offerta
    risulterà superiore a quella di domanda.
    
Il livello di occupazione scelto dagli imprenditori corrisponde al
    punto di domanda effettiva. In questo modo, osserva Keynes, tutto
    dipende dalle aspettative degli imprenditori, e più
    precisamente dalle 'aspettative di breve periodo', relative alle
    possibilità di smercio dei prodotti. Inoltre, non vi è
    alcuna ragione per cui il livello di occupazione così
    determinato debba corrispondere a quello che assicura il pieno
    utilizzo della capacità produttiva disponibile e,
    soprattutto, la piena occupazione della forza-lavoro. Le aspettative
    degli imprenditori risultano realizzate quando la domanda per beni
    di consumo e d'investimento corrisponde al livello di produzione da
    loro prescelto; in questo caso, rileva Keynes, anche in presenza di
    disoccupazione e di capacità produttiva inutilizzata gli
    imprenditori non hanno alcuno stimolo a espandere produzione e
    occupazione. A sostenere quest'ultima tesi concorrono gli altri
    elementi costitutivi della teoria keynesiana, in particolare la
    teoria dell'investimento e quella della preferenza per la
    liquidità che illustreremo tra poco. 
    
In sintesi, Keynes ricorda che i consumi dipendono essenzialmente
    dal reddito e quindi dai livelli di produzione, mentre lo stimolo
    esterno alle variazioni della domanda aggregata viene dagli
    investimenti; questi, a loro volta, dipendono dalle aspettative
    degli imprenditori e dal tasso d'interesse, determinato sul mercato
    monetario: non vi è motivo per cui questi elementi debbano
    rispondere alla presenza di disoccupazione in modo da stimolarne il
    riassorbimento. Di qui la tesi della possibilità di
    'equilibri di sottoccupazione', cioè di situazioni di
    disoccupazione persistente.
    
Il secondo elemento costitutivo della teoria keynesiana, come si
    è accennato, è la sua teoria dell'investimento. Anche
    in questo caso Keynes si pone dal punto di vista dell'imprenditore,
    che decide se e quanto investire confrontando i costi
    dell'investimento con i ricavi che ci si attendono da esso. Le
    aspettative dell'imprenditore - che in questo caso sono 'aspettative
    di lungo periodo', in quanto riguardano un arco di tempo piuttosto
    lungo, corrispondente alla vita attiva degli impianti in cui si
    concreta l'investimento - sono secondo Keynes piuttosto 'volatili',
    in quanto riguardano un futuro incerto, e sono quindi estremamente
    sensibili a variazioni del 'clima generale di opinioni'. Per
    confrontare i costi dell'investimento con i ricavi che ci si attende
    di ottenere da esso negli anni di funzionamento dell'impianto
    occorre scontare - cioè ridurre a valori attuali, in lire di
    oggi - il valore atteso dei ricavi, utilizzando il tasso
    d'interesse; per questa via le vicende monetarie, che come vedremo
    fra poco determinano il livello dei tassi d'interesse, influiscono
    sulle vicende 'reali' dell'economia, contribuendo a determinare il
    livello degli investimenti e, tramite esso, il livello della
    produzione e dell'occupazione. Infatti il livello della produzione
    è collegato agli investimenti tramite il cosiddetto
    'moltiplicatore': un concetto originariamente elaborato da un
    allievo di Keynes, Richard Kahn (1905-1989), in un articolo del
    1931, per indicare l'impulso espansivo prodotto da un investimento
    (o da una spesa pubblica) addizionale sul reddito in condizioni di
    diffusa disoccupazione; l'effetto espansivo è superiore al
    volume dell'investimento addizionale a causa dell'espansione della
    spesa per consumi da parte dei lavoratori precedentemente
    disoccupati e che ora trovano un impiego.
    
Il terzo elemento fondamentale della teoria keynesiana è
    costituito dalla teoria della 'preferenza per la liquidità'.
    Keynes respinge sia la 'teoria quantitativa della moneta', sia la
    teoria del tasso d'interesse basata sul confronto fra domanda e
    offerta di 'fondi disponibili per i prestiti'. Consideriamo per
    prima la teoria quantitativa. Essa si basa sull'equazione degli
    scambi, MV = PQ, che indica semplicemente che il valore dei beni e
    servizi scambiati sul mercato (pari a quantità Q moltiplicata
    prezzo P) è pari al valore della moneta che passa di mano in
    senso inverso (pari a M, quantità di moneta in circolazione,
    moltiplicata per V, velocità di circolazione, cioè
    numero di volte in cui viene utilizzata in media ciascuna
    unità di moneta in circolazione). La teoria quantitativa
    sostiene che il livello generale dei prezzi varia in proporzione
    alle variazioni dell'offerta di moneta (cioè che P varia in
    proporzione a M), in quanto suppone che sia possibile considerare
    relativamente stabili sia la velocità di circolazione della
    moneta V, determinata da fattori istituzionali che cambiano solo
    molto lentamente, sia il prodotto Q, che le forze di mercato tendono
    a mantenere al livello di piena occupazione. Viceversa, Keynes
    sostiene che né l'una né l'altra ipotesi possono
    essere considerate valide; infatti la velocità di
    circolazione della moneta cambia anche nel breve periodo, in
    conseguenza di spostamenti da moneta a titoli e viceversa nelle
    preferenze dei soggetti economici; il prodotto Q, come si è
    appena accennato, può variare in quanto per Keynes è
    possibile che gli imprenditori decidano di non utilizzare appieno la
    capacità produttiva e la forza-lavoro disponibili.
    
Come si è accennato sopra, Keynes respinge anche la teoria
    del tasso d'interesse dominante nella tradizione marginalista,
    secondo cui esso è determinato sul mercato dei fondi
    prestabili dal confronto tra l'offerta di tali fondi (i risparmi,
    che sono funzione crescente del tasso d'interesse) e la domanda, che
    viene essenzialmente dagli imprenditori. Questi ultimi infatti
    chiedono denaro in prestito per finanziare gli investimenti, che
    sono funzione decrescente del tasso d'interesse. Keynes replica che
    sia i risparmi sia gli investimenti dipendono essenzialmente da
    altre variabili: i risparmi dal livello del reddito, gli
    investimenti dalle aspettative degli imprenditori. Il tasso
    d'interesse risulta invece determinato sul mercato monetario dalla
    'preferenza per la liquidità', cioè dalle scelte dei
    soggetti economici sulla forma in cui tenere la ricchezza accumulata
    (che è uno stock, e quindi generalmente ha dimensioni ben
    maggiori del flusso annuo di risparmi e investimenti). Tale scelta
    riguarda essenzialmente titoli (azioni e obbligazioni) e moneta
    (legale o bancaria); e dipende sia dai rendimenti, sia soprattutto
    dalle aspettative di variazioni dei prezzi delle attività
    finanziarie, che continuamente determinano guadagni e perdite in
    conto capitale. Le attività più 'liquide' sono quelle
    che all'occorrenza è più facile trasformare in moneta
    legale, con probabilità minime di ottenere guadagni o subire
    perdite in conto capitale: dopo le banconote vengono i depositi di
    conto corrente, e poi man mano, in ordine di liquidità
    decrescente, i buoni del Tesoro, le obbligazioni, le azioni, beni
    rifugio come l'oro e i diamanti, gli immobili. 
    
Il tasso d'interesse dipende dall'offerta di attività liquide
    (moneta a corso legale e moneta bancaria), cioè dalle scelte
    delle autorità monetarie, e dalla domanda di moneta,
    cioè dalla 'preferenza per la liquidità' dei privati.
    Pertanto il tasso d'interesse risulta determinato sul mercato
    monetario, e non rappresenta una variabile 'reale' determinata dalle
    scelte di risparmio e investimento. In questo modo, come si
    accennava, le vicende monetarie influiscono su investimenti, reddito
    e occupazione. 
    
L'obiettivo fondamentale di Keynes consiste dunque nel mostrare che
    un'economia di mercato non tende automaticamente alla piena
    occupazione. Ma il ristagno produttivo e la disoccupazione
    costituiscono una minaccia per l'organizzazione civile della
    società. Perciò la stessa sopravvivenza del
    capitalismo, che sarebbe messa in discussione da condizioni di
    disoccupazione elevata e persistente, richiede, secondo Keynes, un
    vigoroso intervento pubblico per stimolare l'attività
    economica e sostenere l'occupazione.
    
Negli ultimi cinquant'anni, e in particolare negli anni cinquanta e
    sessanta, numerosi economisti 'keynesiani' hanno identificato tale
    intervento pubblico in politiche fiscali e monetarie espansive,
    cioè in politiche di spesa pubblica in disavanzo per
    sostenere la domanda aggregata di beni e servizi, e in politiche di
    espansione della liquidità dirette a ridurre i tassi
    d'interesse e quindi a favorire gli investimenti. In realtà,
    Keynes proponeva soprattutto di creare un ambiente di consuetudini e
    istituzioni, anche internazionali, tale da stimolare sia un clima di
    aspettative imprenditoriali favorevoli agli investimenti, sia una
    riduzione dell'incertezza che condiziona le decisioni sui livelli di
    produzione delle imprese; in quest'ambito rientrano proposte quali
    la predisposizione di programmi d'investimento pubblici da
    realizzare nei momenti di ristagno, o la riforma delle istituzioni
    monetarie e finanziarie internazionali diretta a favorire i commerci
    e lo sviluppo economico.
    
L'analisi di Keynes, concentrando l'attenzione su alcuni aspetti del
    funzionamento del sistema economico, fa passare in secondo piano
    altri aspetti non meno importanti di quelli considerati; in gran
    parte degli economisti postkeynesiani, ciò si traduce in una
    visione eccessivamente semplificata dell'economia. In particolare,
    l'assunzione della tecnologia data, fatta da Keynes nella Teoria
      generale per focalizzare l'attenzione sugli elementi al
    centro della sua analisi, ha spesso indotto gli economisti
    keynesiani a trascurare il ruolo del cambiamento tecnologico, e
    quindi a sottovalutare l'importanza dei fattori, anche 'di breve
    periodo', che lo favoriscono, come dei suoi effetti su reddito e
    occupazione, ma anche sulla struttura stessa del sistema economico.
    L'ottica 'aggregata' dell'analisi keynesiana, evidente nell'uso di
    un indice unico per il 'livello dei prezzi' (un uso che Keynes
    stesso aveva criticato nel suo Trattato della moneta del
    1930), ha portato non solo a trascurare il rapporto tra mutamenti
    strutturali dell'economia da un lato e andamento del reddito e
    dell'occupazione dall'altro, ma anche a una perniciosa separazione
    tra analisi microeconomica (teoria dei prezzi relativi, della
    struttura dei consumi, delle forme di mercato e della distribuzione
    del reddito) e analisi macroeconomica (teoria della moneta, del
    reddito e dell'occupazione), già criticata dallo stesso
    Keynes ma ormai cristallizzata nella pratica di molti corsi
    d'insegnamento universitari. Anche da questo probabilmente deriva la
    scarsa attenzione spesso prestata nella concreta attuazione di
    politiche fiscali e monetarie espansive alla distinzione tra spese
    produttive e improduttive. 
    
3. Il dibattito contemporaneo
Nel variegato panorama contemporaneo sono presenti diversi gruppi di
    economisti, i principali fra i quali si richiamano più o meno
    direttamente alle maggiori scuole economiche illustrate sopra.
    Distinguiamo quattro gruppi principali: gli economisti della
    'sintesi neoclassica', dominanti per oltre trent'anni dopo la
    conclusione della seconda guerra mondiale, caratterizzati
    dall'innesto di elementi keynesiani - particolarmente per quel che
    riguarda la politica economica - sul tronco della tradizione
    marginalista; gli economisti monetaristi e la scuola delle
    aspettative razionali, caratterizzati dal rifiuto più o meno
    radicale dell'intervento pubblico nell'economia e, sul piano
    più strettamente teorico, da un rifiuto della teoria
    keynesiana in quanto contraddittoria con la struttura analitica
    dell'approccio marginalista; gli economisti postkeynesiani, che
    tendono a sviluppare gli elementi della teoria keynesiana più
    eterodossi rispetto alla tradizione marginalista; Sraffa e gli
    economisti che condividono il suo progetto culturale di un ritorno
    all'impostazione della scuola classica. 
    
a) La sintesi neoclassica
Di fronte all'esperienza della grande depressione degli anni trenta,
    molti economisti sono indotti a prestare orecchio alle idee di
    Keynes sui rimedi di politica economica alla disoccupazione, pur
    senza abbandonare la teoria marginalista del valore e della
    distribuzione che costituisce la base della loro formazione
    professionale. Questi economisti perciò cercano di
    reinterpretare la teoria di Keynes introducendo alcune ipotesi per
    rendere l'esistenza di disoccupazione compatibile con la teoria
    marginalista. Lungo questa strada procede in particolare John Hicks (1904-1989, premio
    Nobel nel 1972). 
    
In un articolo del 1939, Hicks propone il cosiddetto schema IS-LM,
    che traduce la teoria keynesiana nei termini più tradizionali
    di un modello di equilibrio economico generale semplificato,
    caratterizzato dalla presenza di tre mercati: il mercato dei beni,
    quello della moneta e quello dei titoli (quest'ultimo però
    gioca un ruolo puramente passivo, mentre l'attenzione si concentra
    sui primi due). Il mercato dei beni è in equilibrio quando
    l'offerta, cioè la produzione, è eguale alla domanda
    aggregata (che nell'ipotesi semplificata di un sistema senza
    rapporti con l'estero, senza spesa pubblica e senza prelievo fiscale
    corrisponde alla somma della domanda per beni di consumo e di quella
    per beni d'investimento); e ciò si verifica quando i
    risparmi, che sono funzione crescente del reddito, sono eguali agli
    investimenti, considerati funzione decrescente del tasso
    d'interesse. Il mercato della moneta è in equilibrio quando
    offerta e domanda di moneta sono eguali; secondo l'ipotesi della
    moneta esogena, l'offerta di moneta è determinata dalle
    autorità monetarie che controllano l'emissione di moneta a
    corso legale e, indirettamente, la quantità di moneta
    creditizia che può essere creata dalle banche; la domanda di
    moneta è pari alla somma della domanda di moneta a scopo di
    transazione, che è funzione crescente del reddito, e della
    domanda di moneta a scopo speculativo - quella su cui Keynes aveva
    concentrato l'attenzione, e che esprime la scelta sulla forma,
    moneta o titoli, in cui tenere la propria ricchezza -, che è
    considerata funzione decrescente del tasso d'interesse.
    
Lungo la strada intrapresa da Hicks procede anche Franco Modigliani (n. 1918,
    premio Nobel nel 1985), economista statunitense di origine italiana,
    emigrato negli Stati Uniti per sfuggire alle persecuzioni razziali.
    Per certi aspetti Modigliani accetta lo schema IS-LM; accanto al
    mercato dei beni e a quello della moneta (e a quello dei titoli
    finanziari, che come si è detto resta sullo sfondo), egli
    però considera esplicitamente anche il mercato del lavoro.
    Come per gli altri mercati, le variazioni del prezzo tendono ad
    assicurare l'equilibrio tra domanda e offerta: nel nostro caso,
    dunque, le variazioni del salario reale - che è il prezzo dei
    servizi dei lavoratori -, portando in equilibrio domanda e offerta
    di lavoro, tendono ad assicurare la piena occupazione. Per ottenere
    il risultato keynesiano, cioè la possibilità di una
    situazione di disoccupazione persistente, occorre allora introdurre
    qualche ostacolo che impedisca il libero funzionamento del mercato
    del lavoro. Quest'ostacolo è individuato nella natura non
    concorrenziale del mercato del lavoro dovuta alla forza contrattuale
    dei sindacati. In questo modo la teoria keynesiana viene presentata
    come un caso particolare della teoria marginalista: quel caso in cui
    l'equilibrio di piena occupazione non può essere raggiunto,
    perché il mercato del lavoro non è concorrenziale, per
    cui la presenza di disoccupazione non influisce sui salari monetari
    e, tramite questi, sui salari reali. 
    
Si ha così la sintesi neoclassica, che in questo dopoguerra,
    e fino a un'epoca relativamente recente, ha dominato l'insegnamento
    della macroeconomia nelle università di tutto il mondo
    (grazie anche al successo del testo Economia di Paul Samuelson - n. 1912,
    premio Nobel nel 1970 -, che ha avuto oltre 10 milioni di lettori
    dal 1948 a oggi). 
    
La sintesi neoclassica riassorbe la tesi keynesiana della
    possibilità di equilibri di sottoccupazione nell'ambito della
    concezione marginalista tradizionale, legata all'idea di mercati in
    cui le variazioni del prezzo tendono ad assicurare l'equilibrio tra
    domanda e offerta. La natura non concorrenziale del mercato del
    lavoro spiega la disoccupazione, causata come si è detto
    dalla rigidità dei salari verso il basso; ciò apre la
    strada a riconoscere l'utilità dell'intervento pubblico
    nell'economia, perché la disoccupazione può essere
    combattuta tramite l'utilizzo della politica fiscale e monetaria,
    utili in generale per regolare l'andamento dell'economia evitandone
    o riducendone le oscillazioni cicliche. Naturalmente, in presenza di
    un qualche potere di mercato da parte dei sindacati, l'intervento
    pubblico diretto a favorire la riduzione della disoccupazione
    può contemporaneamente favorire un aumento del tasso di
    crescita dei salari monetari, e quindi dell'inflazione. Il trade-off
    (relazione inversa) tra disoccupazione e tasso d'inflazione è
    stato riproposto in un celebre articolo del 1958 dall'economista
    neozelandese A.W. Phillips (1914-1975); la curva decrescente che
    rappresenta tale relazione inversa (detta 'curva di Phillips')
    costituisce, per gli economisti della 'sintesi neoclassica',
    l'insieme delle possibili scelte di politica economica. Ma, come si
    accennerà più avanti, tale concezione è stata
    oggetto di varie critiche negli ultimi venticinque anni. 
    
b) Monetaristi e teorici delle aspettative razionali
All'interno della tradizione marginalista si apre, a partire
    dagli anni cinquanta, un vivace dibattito sulla plausibilità
    delle ipotesi necessarie per assicurare il risultato 'keynesiano' di
    una disoccupazione persistente. Questo dibattito in sostanza
    riguarda la forza dei meccanismi di mercato nel ristabilire
    l'equilibrio tra domanda e offerta nel caso del lavoro, e
    l'opportunità dell'intervento pubblico in campo economico.
    Fra quanti nutrono fiducia nei meccanismi riequilibratori del
    mercato e ostilità verso l'intervento pubblico nell'economia,
    particolare rilievo ha la Scuola di Chicago. Milton Friedman (n. 1912,
    premio Nobel nel 1976) è considerato il massimo esponente di
    questa scuola. Egli sviluppa una teoria della moneta diversa da
    quella di Keynes, riprendendo e sviluppando le tesi della vecchia
    teoria quantitativa. In particolare, nel lungo se non nel breve
    periodo, il livello di equilibrio del reddito dipende da fattori
    'reali' come le dotazioni di risorse, la tecnologia e le preferenze
    dei soggetti economici; la velocità di circolazione della
    moneta è considerata come funzione stabile dei tassi di
    rendimento dei vari tipi di attività (moneta, titoli, beni,
    'capitale umano'). 
    
Friedman sostiene quindi che le vicende monetarie, in particolare
    l'offerta di moneta (che è considerata esogena), possono
    influire sul reddito e sull'occupazione solo nel breve periodo; nel
    lungo periodo le variazioni dell'offerta di moneta influiscono solo
    sul livello generale dei prezzi (in altri termini, la 'curva di
    Phillips' risulta inclinata negativamente solo nel breve periodo, ma
    diventa verticale nel lungo periodo). 
    
Inoltre Friedman condanna gli interventi di politica monetaria e
    fiscale diretti a sostenere la domanda globale e quindi il reddito e
    l'occupazione; non solo perché l'efficacia di questi
    interventi è limitata al breve periodo, ma anche
    perché gli stessi effetti di breve periodo sono incerti, e
    possono anzi risultare negativi. Infatti, ricorda Friedman, gli
    interventi di politica economica sono soggetti a tre tipi di ritardi
    e di incertezze: 1) quelli inerenti alla valutazione della
    situazione su cui intervenire; 2) quelli inerenti al passaggio dalla
    valutazione alla decisione dell'intervento e alla sua attuazione; e,
    infine, 3) quelli relativi al passaggio dall'attuazione
    dell'intervento al momento in cui si esplicano i suoi effetti. A
    causa di questi ritardi e incertezze è possibile, ad esempio,
    che gli interventi esercitino gli effetti previsti ma in una
    situazione diversa, in cui sarebbero necessari interventi di segno
    opposto. Quindi gli interventi di politica economica possono avere
    un effetto destabilizzante, cioè ampliare, anziché
    ridurre, le fluttuazioni del reddito. 
    
Una tesi ancora più estrema viene sostenuta dai teorici delle
    'aspettative razionali' (gli statunitensi J.F. Muth, R.E.
      Lucas, T.J. Sargent).
    Secondo questi ultimi, i soggetti economici imparano a tener conto
    dell'intervento pubblico nell'economia, scontandone gli effetti in
    anticipo; così, ad esempio, una spesa pubblica in disavanzo,
    cioè non finanziata con un aumento contemporaneo delle tasse,
    decisa per stimolare la domanda globale, viene controbilanciata da
    una riduzione dei consumi privati, decisa per accantonare i risparmi
    con cui pagare le tasse che prima o poi dovranno venire imposte per
    far fronte agli oneri del debito pubblico con cui viene finanziata
    la spesa pubblica. Pertanto, la 'curva di Phillips' risulta
    verticale anche nel breve periodo: gli interventi di politica
    monetaria e fiscale espansivi possono produrre solo aumenti del
    tasso d'inflazione, e non del livello di disoccupazione. (Si
    può notare, per inciso, che queste ipotesi presuppongono che
    tutti i soggetti economici condividano uno stesso modello di
    funzionamento dell'economia, e siano dotati di una cultura economica
    e di una capacità di previsione che sarebbe un eufemismo
    definire irrealistiche).
    
L'unico tipo di politica economica ammessa dai teorici delle
    aspettative razionali è quello diretto a ridurre le frizioni
    nel funzionamento del mercato: le cosiddette 'politiche
    dell'offerta', consistenti ad esempio nel facilitare la
    mobilità dei lavoratori da un posto di lavoro a un altro, o
    nell'assicurare che le qualifiche di cui la forza-lavoro del paese
    viene dotata corrispondano agli sbocchi professionali offerti dal
    mercato. 
    
c) I postkeynesiani
Di fronte alla reinterpretazione della teoria di Keynes proposta
    dalla sintesi neoclassica e alle critiche monetariste, si è
    avuta una decisa reazione da parte di un gruppo di economisti noti
    come postkeynesiani (come gli inglesi Joan Robinson, 1903-1983, e Richard Kahn; l'ungherese,
    naturalizzato inglese, Nicholas
      Kaldor, 1908-1986 ; gli statunitensi Sidney Weintraub, 1914-1983, e Hyman Minsky, n. 1920).
      
Questi economisti sottolineano che lo schema IS-LM proposto da Hicks
    e condiviso dagli economisti della sintesi neoclassica relega in
    secondo piano l'elemento più caratteristico della concezione
    keynesiana: l'incertezza sul futuro che domina le decisioni degli
    operatori economici. Nel caso della funzione degli investimenti, ben
    più importanti del tasso d'interesse sono le aspettative
    degli imprenditori sulla redditività dei vari progetti
    d'investimento: aspettative che Keynes considera 'volatili', nel
    senso che cambiano continuamente, a seconda ad esempio del clima
    politico e delle condizioni economiche generali. 
    
Nel caso della domanda di moneta, Keynes considera le aspettative
    sul futuro (per la precisione, sull'andamento futuro del tasso
    d'interesse) essenziali nel determinare la domanda di moneta a scopo
    speculativo, che egli considera la componente principale della
    domanda di moneta, e soprattutto quella che ne determina la continua
    variabilità. Di fronte alla rilevanza dell'incertezza sul
    futuro, alla volatilità delle aspettative, e alla conseguente
    variabilità delle relazioni che legano gli investimenti e la
    domanda di moneta a scopo speculativo al tasso d'interesse, gli
    economisti postkeynesiani considerano fuorviante la rappresentazione
    di mercati in equilibrio, per i beni come per la moneta, cioè
    la concezione che è alla base dello schema IS-LM. 
    
In luogo dell'equilibrio simultaneo dei vari mercati, tipico della
    tradizione marginalista e ripreso nello schema IS-LM, gli economisti
    postkeynesiani propongono una caratterizzazione del sistema
    economico basata su una sequenza di nessi di causa ed effetto: la
    domanda speculativa di moneta, assieme alla politica monetaria della
    banca centrale, influisce sul tasso d'interesse; questo a sua volta,
    assieme alle aspettative, influisce sul livello degli investimenti;
    gli investimenti, tramite il moltiplicatore, determinano il livello
    del reddito e dell'occupazione. In questo modo si sottolinea
    l'influenza che le vicende dei mercati monetari e finanziari
    esercitano sul reddito e sull'occupazione, in contrapposizione alle
    tesi della tradizione classica e marginalista sulla
    'neutralità' della moneta. Inoltre, vari economisti
    postkeynesiani sostengono che l'offerta di moneta è endogena:
    cioè che la quantità di moneta in circolazione
    (particolarmente la moneta bancaria) non è controllata in
    modo rigido dalle autorità monetarie, ma dipende, almeno in
    parte, dalle decisioni di altri soggetti. 
    
d) L'offerta di moneta in Keynes e nei monetaristi
Data l'importanza non solo teorica ma anche pratica che riveste la
    questione del modo di concepire l'offerta di moneta, conviene
    ritornare sui punti di vista espressi da Keynes e dai monetaristi.
    Si è già ricordato che vari economisti postkeynesiani
    hanno sostenuto che l'offerta di moneta è endogena; hanno
    sostenuto tale tesi in chiave critica sia dello schema IS-LM di
    Hicks sia delle teorie dei monetaristi. Ora, è necessario
    ricordare che la massa monetaria si compone di diversi tipi di mezzi
    monetari, fra cui i principali sono i biglietti della banca centrale
    e i depositi presso le banche ordinarie. Se per i biglietti il
    controllo dell'autorità monetaria è diretto, pur se
    neppure qui totale, per i depositi è solo indiretto. Le
    variazioni dei depositi dipendono infatti principalmente dalle
    decisioni delle imprese; tuttavia, le loro iniziative assumono
    rilevanza monetaria solo se le banche ordinarie accolgono le
    richieste di prestiti concedendo aperture di credito o trasformando
    titoli di credito che non hanno funzioni monetarie, come le
    cambiali, in depositi, che costituiscono moneta bancaria. A loro
    volta, le decisioni delle banche ordinarie nel creare depositi
    possono incontrare un limite superiore nella politica della banca
    centrale; tuttavia, l'affermazione che la banca centrale è in
    grado di porre un limite all'espansione della moneta bancaria
    è ben diversa dall'affermazione che la massa dei mezzi
    monetari sia determinata dalla banca centrale. 
    
Questi due flussi di mezzi monetari dipendono dunque da impulsi
    significativamente, anche se solo parzialmente, diversi: come
    è dimostrato dal fatto che in certe circostanze, quali quelle
    che si verificarono all'insorgere della grande depressione nel 1929,
    la massa dei biglietti non diminuì e anzi ebbe un sia pur
    limitato aumento, mentre la massa dei depositi subì una forte
    contrazione. Fra l'altro, ciò indica che anche nelle
    fluttuazioni cicliche l'influenza della politica monetaria adottata
    dalla banca centrale è importante ma non dominante, almeno di
    norma.
    
Né la tesi del carattere endogeno né quella del
    carattere esogeno della moneta sono dunque pienamente valide; sembra
    tuttavia più vicina al vero la prima tesi. Sia Keynes nella Teoria
      generale, sia Friedman assumono come esogena la moneta; sotto
    questo aspetto Hicks nel suo modello IS-LM non tradisce il pensiero
    di Keynes. Tuttavia, mentre nel caso della teoria keynesiana
    l'assunzione di moneta esogena può essere abbandonata senza
    gravi conseguenze (le conseguenze possono essere gravi per lo schema
    di Hicks), ciò non vale per la teoria monetarista, la quale
    non può fare a meno di quell'assunzione: soltanto con essa,
    infatti, la moneta può apparire come motore e non come
    cinghia di trasmissione. La teoria monetarista tuttavia - l'abbiamo
    già accennato - considera la moneta come motore non delle
    quantità reali (che possono variare per effetto della
    politica monetaria solo in via transitoria), ma solo delle
    quantità nominali, in particolare dei prezzi. 
    
La grave limitazione che i moderni monetaristi hanno in comune con i
    sostenitori dell'antica teoria quantitativa della moneta - tra cui
    emerge lo statunitense Irving
      Fisher (1867-1947) - sta proprio in ciò, che essi
    non riescono a concepire variazioni generalizzate dei prezzi che non
    siano da attribuire a variazioni della quantità di moneta,
    mentre in realtà hanno luogo sia diminuzioni sia aumenti
    generalizzati dei prezzi non provocati da impulsi monetari. Ad
    esempio, la moneta non gioca un ruolo attivo quando i prezzi variano
    perché i salari monetari crescono più rapidamente
    della produttività del lavoro, o perché variano i
    prezzi delle materie prime e delle fonti di energia, o per misure di
    politica tributaria capaci d'influire sui prezzi attraverso i costi;
    e gli esempi potrebbero continuare. Si verificano indubbiamente
    circostanze in cui variazioni generalizzate dei prezzi dipendono da
    quelle della massa dei mezzi monetari; così, per esempio,
    quando durante una guerra o in tempo di pace la banca centrale
    aderisce alla richiesta del governo di finanziare il disavanzo del
    bilancio statale con la creazione di biglietti, può aver
    luogo un processo inflazionistico. 
    
In breve, la formula con cui Fisher aveva sintetizzato l'antica
    teoria quantitativa della moneta, rielaborata ma non radicalmente
    modificata da Friedman, e cioè MV = PQ ovvero P = MV/Q, ha la
    natura di una tautologia e non può non essere sempre vera;
    per trasformarla in una formula esplicativa, occorre fare delle
    ipotesi su quali fra le quattro variabili che compaiono nella
    formula vadano considerate date, cioè determinate da fattori
    esterni alla teoria (o 'esogeni'). Se si assumono come dati la
    velocità di circolazione, V, e la quantità di beni, Q,
    lasciando liberi di variare M e P; se inoltre si assume che M vari
    per effetto del finanziamento di un deficit pubblico; allora
    è vero che le variazioni del livello dei prezzi dipendono da
    quelle di M. Ma se si ipotizza che il livello dei prezzi vari per
    impulsi esterni alla formula, come quelli provenienti dai costi cui
    si è fatto riferimento poco fa, allora la massa dei mezzi
    monetari e la velocità di circolazione giocano un ruolo
    passivo e non attivo nelle variazioni dei prezzi. Anzi, se
    l'autorità monetaria adotta una politica accomodante e
    accresce la quantità di moneta, man mano che i prezzi
    aumentano per effetto dell'aumento di certi costi, allora
    all'aumento di P si accompagna l'aumento di M, ma il secondo aumento
    è essenzialmente effetto e non causa del primo aumento. 
    
Se invece l'autorità monetaria adotta una politica non
    accomodante ma restrittiva, può aver luogo una recessione
    senza che essa blocchi l'aumento dei prezzi. (In un secondo momento,
    tuttavia, la crescita dei prezzi potrà rallentare o
    arrestarsi, se proviene da un aumento dei salari, e se questo viene
    frenato dall'aumento della disoccupazione che si accompagna alla
    recessione).Il fatto che la relazione P = MV/Q è sempre vera
    non autorizza dunque ad attribuire sempre alla massa monetaria la
    responsabilità di aumenti generalizzati dei prezzi.
    Osservazioni analoghe valgono per flessioni generalizzate dei
    prezzi, come quelle che avvennero ripetutamente nel secolo scorso:
    queste flessioni vanno collegate principalmente ad aumenti della
    produttività del lavoro accompagnati da aumenti più
    lenti nei salari nominali. In contrasto con certe spiegazioni che
    s'ispiravano a qualche variante della teoria quantitativa, il ruolo
    giocato dalla moneta - nel secolo scorso nei paesi più
    sviluppati la moneta di base era l'oro - fu, se non proprio nullo,
    decisamente secondario. 
    
e) Piero Sraffa
Il disegno culturale perseguito da Piero Sraffa (1898-1983) è decisamente di
    vasta portata: operare un capovolgimento delle linee di ricerca
    della scienza economica, detronizzando l'approccio marginalista
    dominante e proponendo in suo luogo l'impostazione originaria degli
    economisti classici. In analogia con la linea d'indagine seguita
    dagli economisti classici, in Produzione di merci a mezzo di
      merci (pubblicato nel 1960) Sraffa pone al centro della sua
    analisi i rapporti che intercorrono in condizioni 'normali' tra i
    vari settori, o industrie, in cui si articola un sistema economico
    basato sulla divisione del lavoro. Come si è già
    accennato a proposito dell'economia politica classica, ciascun
    settore deve entrare in contatto con gli altri settori dell'economia
    per ottenere da essi i propri mezzi di produzione in cambio di una
    parte almeno del proprio prodotto. Si ha così quella rete di
    scambi che caratterizza le economie basate sulla divisione
    intersettoriale del lavoro. Come mostra Sraffa, il problema della
    determinazione dei rapporti di scambio che si stabiliscono tra i
    vari settori va affrontato, in un'economia capitalistica,
    simultaneamente al problema della distribuzione del reddito tra le
    classi sociali dei lavoratori, dei capitalisti e dei proprietari
    terrieri. L'intersezione tra questi due problemi costituisce
    ciò che nella tradizione classica è indicato come
    problema del valore.
    
La critica dell'approccio marginalista proposta da Sraffa pone in
    rilievo il fatto che il 'capitale' è in realtà un
    insieme di mezzi di produzione prodotti, i cui prezzi variano in
    modo non univoco al variare della distribuzione del reddito, di modo
    che non è possibile affermare a priori che una riduzione del
    salario provochi una riduzione nell'utilizzo di 'capitale' rispetto
    al lavoro. 
    
Senza entrare nei dettagli analitici del dibattito, ci limitiamo a
    osservare che la critica di Sraffa colpisce una tesi vitale per la
    tradizione marginalista: l'idea che la riduzione del salario reale
    causata dalla disoccupazione nel caso di un mercato del lavoro
    concorrenziale porti a un riassorbimento della disoccupazione
    stessa, inducendo gli imprenditori a scegliere tecniche a maggiore
    intensità di lavoro (e a minore intensità di
    capitale). Questo meccanismo è essenziale per sostenere la
    tesi della capacità autoregolatrice del mercato, e la visione
    dell'economia come scienza che studia, appunto, i meccanismi
    equilibratori del mercato.Inoltre, Sraffa ripropone l'approccio
    classico (di cui con la sua edizione critica delle opere di Ricardo
    aveva riscoperto le fondamenta concettuali e la struttura
    analitica), risolvendo il problema centrale del valore lasciato
    aperto dagli economisti classici e da Marx. 
    
La soluzione di Sraffa consiste nel determinare simultaneamente
    prezzi relativi e una variabile distributiva 'residuale' (salario o
    saggio del profitto), data la tecnologia corrispondente a un
    determinato insieme di livelli di produzione e una variabile
    distributiva 'esogena'. Sulla scia del lavoro di Sraffa, numerosi
    economisti - fra i quali diversi italiani - hanno sviluppato i vari
    aspetti del progetto culturale di ripresa della concezione classica:
    con analisi di storia del pensiero economico, dirette a chiarire le
    fondamenta concettuali dell'approccio classico e a distinguerle da
    quelle proprie dell'approccio marginalista; con lavori di critica a
    specifiche teorie marginaliste, in particolare relative alla teoria
    della distribuzione, dell'occupazione, dell'accumulazione, del
    commercio internazionale, e così via; con sviluppi analitici
    diretti ad approfondire su punti specifici (come la produzione
    congiunta, il capitale fisso, la scelta delle tecniche) il
    contributo offerto nel libro di Sraffa; infine, con lavori meno
    direttamente connessi all'analisi sraffiana, ma diretti a proporre
    teorie d'impostazione classica sui diversi problemi dell'economia
    politica, dalla teoria della distribuzione e dello sviluppo alla
    teoria delle forme di mercato. 
    
Attualmente fra le forme di mercato sembrano preminenti quelle di
    tipo oligopolistico, il cui studio può essere utilizzato sia
    in analisi parziali (analisi di singoli mercati), sia in analisi di
    carattere generale (come quella consentita dal sistema di Sraffa),
    sia nell'analisi delle variazioni nel tempo dei prezzi e delle quote
    distributive. (Un'analisi di questo tipo è stata elaborata
    dal polacco Michal Kalecki, 1899-1970, noto soprattutto per aver
    precorso e poi sviluppato in modo originale alcuni aspetti centrali
    della teoria keynesiana). 
    
4. L'analisi dinamica
 
a) Diversi tipi di modelli; il processo di meccanizzazione
Le variazioni su cui si concentra l'analisi marginalista sono
    variazioni istantanee e ipotetiche, fuori dal tempo. In
    realtà, l'impostazione di quest'analisi è
    essenzialmente statica: i pochi modelli teorici dinamici che sono
    stati elaborati nell'ambito del marginalismo comportano spostamenti
    ipotetici delle funzioni, un metodo che è dubbio rientri
    nella dinamica. I modelli dell'analisi marginalista non soltanto
    sono statici, ma soprattutto non sembrano suscettibili, neppure
    attraverso successive approssimazioni, di sviluppi dinamici.
    È un limite grave, se si considera che la nostra epoca
    è dominata dai mutamenti tecnologici e dal processo di
    sviluppo economico.
    
Gli economisti classici, segnatamente Adam Smith e David Ricardo,
    attribuivano invece importanza fondamentale a entrambi i fenomeni.
    Questo è manifestamente vero per Smith (il processo della
    crescente divisione del lavoro consiste appunto in una serie
    ininterrotta di mutamenti grandi e piccoli dei metodi produttivi da
    cui consegue un aumento sistematico della produttività del
    lavoro), ma è vero anche per Ricardo, non solo e non tanto
    per la sua famosa analisi riguardante i possibili effetti negativi
    sull'occupazione derivanti dall'introduzione di macchine, quanto per
    il fatto che l'analisi delle tendenze delle quote distributive
    (salari, profitti e rendite) è posta al centro della sua
    costruzione teorica proprio per la sua importanza fondamentale in
    relazione al processo di accumulazione e di sviluppo. In particolare
    Ricardo pensava che la tendenza, da lui presunta, all'aumento
    progressivo della quota del reddito nazionale destinata alle rendite
    fondiarie fosse preoccupante proprio perché avrebbe
    comportato la progressiva compressione della quota destinata ai
    profitti, da cui dipende il processo di accumulazione.
    
Fra i modelli teorici di sviluppo non formalizzati, oltre quelli
    degli economisti classici, troviamo il modello dello sviluppo
    ciclico di Schumpeter, di cui si è detto, e il modello di
    Marco Fanno (1878-1965), che riguarda principalmente il ciclo
    economico ma, subordinatamente, anche il processo di sviluppo. Fra i
    modelli formalizzati troviamo quello proposto dal grande matematico John von Neumann (1903-1957),
    e i modelli di derivazione keynesiana elaborati in Gran Bretagna da
    Roy Harrod (1900-1978) e negli Stati Uniti da Evsey Domar (n. 1914). 
    
L'originaria teoria keynesiana aveva essenzialmente carattere
    statico, ma si è rivelata suscettibile di sviluppi dinamici.
    Ci sono poi modelli formali di crescita collegati più alla
    lontana con la teoria keynesiana, come quelli di Nicholas Kaldor e
    di Luigi Pasinetti (n.
    1930). In questi modelli, come già nelle analisi di Smith, si
    attribuisce il massimo rilievo al progresso tecnico, visto come
    originato all'esterno del sistema economico. 
    
Quest'ultimo punto merita riflessione. Infatti, mentre certe
    innovazioni possono essere considerate indipendenti da impulsi
    economici, altre invece provengono essenzialmente da impulsi di tal
    genere, come l'espansione della domanda e l'aumento dei costi,
    cosicché è compito dell'economista studiarli. È
    da notare che Smith, secondo il quale la divisione del lavoro
    è condizionata dall'estensione del mercato, aveva già
    ben compreso che la crescita della domanda influisce in modo
    significativo sul ritmo del progresso tecnico. Di norma, possono
    essere considerate in gran parte indipendenti da impulsi economici
    le innovazioni di grande rilievo, originate da invenzioni
    scientifiche fuori dall'ordinario, mentre le innovazioni più
    frequenti, di rilievo più modesto, spesso semplici
    perfezionamenti di grandi innovazioni, sono indotte principalmente
    da impulsi economici, fra cui sono appunto l'espansione della
    domanda e l'aumento dei costi. Particolare importanza assumono le
    innovazioni determinate da aumenti del costo relativo del lavoro,
    ossia da aumenti del rapporto fra salari e prezzi delle macchine. 
    
In effetti, lo sviluppo del capitalismo industriale moderno è
    stato caratterizzato da un processo di progressiva meccanizzazione
    (e in tempi recenti di progressiva automazione) dei processi
    produttivi. L'aumento della produttività del lavoro che
    accompagna la meccanizzazione può aver luogo in presenza di
    salari monetari tendenzialmente stabili, o crescenti più
    lentamente della produttività; ovvero può aver luogo
    in presenza di salari monetari che crescono con la stessa
    velocità o più rapidamente della produttività.
    In tutti i casi, cresce il rapporto fra salari e prezzi (compresi i
    prezzi delle macchine); e l'aumento di questo rapporto stimola la
    sostituzione di macchine a lavoro. Il processo si autoalimenta, nel
    senso che l'aumento di quel rapporto, che stimola l'introduzione di
    nuove macchine, fa crescere la produttività; a sua volta,
    tale aumento consente un aumento dei salari rispetto a tutti i
    prezzi, compresi i prezzi degli stessi beni acquistati dai
    lavoratori; di conseguenza, quel rapporto subisce un nuovo aumento.
    Il processo comporta un aumento sistematico dei salari reali.
    
Nei periodi in cui l'aumento della domanda globale di beni è
    stato più lento dell'aumento di produttività è
    emersa una disoccupazione, che può essere vista come
    disoccupazione tecnologica in quanto l'aumento di
    produttività di norma trae origine da innovazioni
    tecnologiche. Non è affatto necessario, tuttavia, che le
    innovazioni determinino disoccupazione: spesso la domanda aggregata
    aumenta alla stessa velocità e anche più rapidamente
    della produttività, cosicché la disoccupazione non
    compare o, al contrario, ha luogo un aumento dell'occupazione.
    D'altra parte, in certe condizioni la domanda aggregata diminuisce:
    compare allora una disoccupazione particolare, di tipo keynesiano. 
    
b) Le variazioni di lungo periodo dei salari e dei prezzi
L'aumento dei salari reali può aver luogo quando i prezzi
    dei beni acquistati dai lavoratori diminuiscono mentre i salari
    monetari restano stabili o aumentano limitatamente; oppure quando i
    salari monetari aumentano mentre i prezzi restano stabili o crescono
    più lentamente dei salari. La prima tendenza ha avuto luogo
    nel secolo scorso (in Inghilterra i prezzi dei prodotti finiti sono
    diminuiti di oltre il 70%, negli Stati Uniti di quasi la
    metà, mentre i salari monetari sono aumentati,
    rispettivamente, del 70% e del 90%, ossia, in media, dello 0,5 o 0,6
    % l'anno). La seconda tendenza - salari che aumentano più
    rapidamente dei prezzi, anch'essi in aumento - ha avuto luogo dopo
    la fine della seconda guerra mondiale. (Nel periodo compreso fra le
    due guerre mondiali salari e prezzi hanno subito violente
    oscillazioni; questo periodo è stato dominato dalla grande
    depressione e richiede un'analisi a sé stante). 
    
Non è indifferente che l'aumento di produttività dia
    luogo a un aumento dei salari reali attraverso una flessione dei
    prezzi mentre i salari monetari restano stabili o in moderato
    aumento, ovvero attraverso un aumento dei salari monetari mentre i
    prezzi restano stabili o in moderato aumento. Il primo meccanismo
    infatti stimola il processo di sviluppo, tramite una catena di
    diminuzioni di costi che si verifica quando l'aumento di
    produttività ha luogo in un settore che produce mezzi di
    produzione: in regime di concorrenza, la diminuzione dei costi crea
    extra-profitti che inducono le imprese a espandere la produzione,
    provocando diminuzioni di prezzo del prodotto (e quindi ulteriori
    diminuzioni dei costi nei settori che lo utilizzano come mezzo di
    produzione) fino a quando gli extra-profitti non vengono
    riassorbiti. 
    
Questa specifica sequenza, favorevole al processo di sviluppo, viene
    meno quando - come accade se prevalgono forme di mercato
    oligopolistiche - i prezzi non diminuiscono e i lavoratori
    partecipano ai frutti del progresso tecnico tramite aumenti dei
    salari monetari. In quest'ultimo caso restano, come stimoli allo
    sviluppo già presenti nel periodo precedente (ma con
    importanza minore), le innovazioni e gli aumenti della domanda
    proveniente dall'estero o dal settore pubblico.
    
La transizione dalla prima alla seconda delle due tendenze
    alternative, che contrassegnano due successivi periodi storici,
    è collegata a profonde trasformazioni nella struttura delle
    moderne economie capitalistiche. Le principali trasformazioni sono
    la conseguenza del processo di concentrazione, che ha condotto alla
    formazione di grandi e grandissime imprese, spesso di dimensioni
    internazionali, e del processo di differenziazione dei prodotti,
    consentito da un crescente livello del reddito individuale anche
    nelle fasce relativamente più povere della popolazione e
    favorito dalla diffusione della pubblicità. I due processi si
    sono verificati nei mercati dei prodotti industriali e, con
    caratteristiche particolari, nelle attività finanziarie e
    creditizie. 
    
Al tempo stesso, si sono rafforzati i sindacati dei lavoratori e si
    sono diffuse, nel mercato del lavoro, varie forme di contrattazione
    collettiva, ciò che ha contribuito a determinare una
    crescente rigidità verso il basso dei salari. Nel secolo
    scorso e ancora fino alla seconda guerra mondiale accadeva che i
    salari monetari diminuissero; nei moderni paesi capitalistici
    ciò non si è più verificato dopo la seconda
    guerra mondiale, anzi, in questi paesi, i salari aumentano almeno in
    proporzione alla produttività. Corrispondentemente, i prezzi
    all'ingrosso dei prodotti finiti ben di rado diminuiscono e, se
    ciò accade, la diminuzione è minima. Restano
    flessibili verso l'alto come verso il basso i prezzi delle materie
    prime, nei cui mercati hanno avuto scarsa rilevanza i due processi,
    sopra ricordati, di concentrazione delle imprese e di
    differenziazione dei prodotti.
    
Con salari rigidi verso il basso e flessibilità minima dei
    prezzi dei prodotti finiti, quando si verifica una crisi o una
    depressione, la ripresa, che nel passato era pressoché
    automatica, oggi incontra difficoltà molto maggiori. Infatti,
    l'aumento della domanda reale non è più stimolato dal
    meccanismo concorrenziale di diffusione a catena di riduzioni dei
    costi, extra-profitti, aumenti di produzione e riduzioni dei prezzi.
    Nelle nuove condizioni, la ripresa può avere luogo o per
    effetto d'investimenti stimolati da innovazioni, o per un aumento
    della domanda estera, o per un'azione del governo. Nel caso che le
    prime due spinte siano insufficienti, è il governo che deve
    intervenire: la sua azione può consistere non solo in un
    aumento delle spese pubbliche, ma anche in una politica creditizia
    attiva. Gli stessi sindacati, spingendo in alto i salari, possono
    contribuire all'aumento della domanda.
    
Le considerazioni appena svolte si collegano alla storia economica
    più che alla teoria economica, e costituiscono elementi di
    un'interpretazione che non è generalmente accolta. Ciò
    nonostante le abbiamo proposte, perché i più recenti
    sviluppi della teoria economica (di cui si è discusso sopra,
    nel cap. 3) ben difficilmente possono essere compresi se non si fa
    riferimento alle trasformazioni strutturali verificatesi nelle
    moderne economie capitalistiche. Inoltre, quelle considerazioni
    possono servire a illustrare un tema fondamentale già
    ricordato al principio della nostra trattazione, cioè i
    rapporti fra teoria economica e storia. Gli economisti che ignorano
    la necessità di tali rapporti continuano imperterriti a
    costruire modelli fondati sulle ipotesi, del tutto irrealistiche nel
    mondo di oggi, della concorrenza atomistica e della
    flessibilità verso il basso come verso l'alto dei prezzi e
    dei salari.
    
Pur non analizzandole esplicitamente, Keynes aveva correttamente
    interpretato le conseguenze di quelle trasformazioni, raccomandando,
    in particolari condizioni, una politica attiva del credito e una
    vigorosa espansione delle spese pubbliche, anche in deficit, per
    promuovere la ripresa economica. Sulla scia di queste
    raccomandazioni per l'assunzione di un ruolo attivo dello Stato
    nell'economia, e sulla scia del crescente peso politico dei
    lavoratori, un programma di spese sociali fu poi sistematicamente
    elaborato da lord Beveridge (1879-1963), la cui opera Pieno
      impiego in una società libera (1946), preparata con la
    collaborazione di Kaldor e ricollegandosi esplicitamente alle teorie
    keynesiane, ebbe grande influenza sulle politiche sociali di tutti i
    paesi capitalistici. 
    
Già in passato lo Stato era intervenuto per proteggere le
    fasce più deboli della popolazione in diversi campi,
    segnatamente in quelli delle pensioni, della sanità e della
    disoccupazione. Ma solo dopo la seconda guerra mondiale l'azione
    pubblica ha assunto le dimensioni che tutti conosciamo. Ciò
    è stato reso possibile, fra l'altro, dall'accresciuto reddito
    individuale medio. Tuttavia in alcuni paesi una spesa pubblica
    eccessiva (anche per il suo utilizzo come 'ammortizzatore sociale'
    dopo la crisi petrolifera del 1973-1974) ha contribuito negli anni
    settanta e ottanta alla formazione e alla crescita dei disavanzi
    pubblici non di breve ma di lungo periodo. A sua volta, ciò
    ha contribuito - assieme alla diffusione, soprattutto negli Stati
    Uniti e in Inghilterra, di dottrine monetariste favorevoli all'uso
    di politiche monetarie restrittive come strumento di lotta
    all'inflazione - a spingere verso l'alto il tasso dell'interesse,
    frenando così gli investimenti e la crescita produttiva (non
    solo nei paesi sviluppati, ma anche e soprattutto nei paesi del
    Terzo Mondo, spesso appesantiti da enormi debiti esteri). Al tempo
    stesso, in vari paesi sviluppati si è avuta una reazione
    dell'opinione pubblica contro l'aumento della pressione fiscale (la
    cosiddetta 'rivolta fiscale'), e contro l'espansione delle spese
    pubbliche o, più in generale, contro gl'interventi pubblici
    nell'economia. La diffusione del monetarismo o di teorie come quella
    delle aspettative razionali, alle quali si è accennato sopra,
    costituiscono espressioni teoriche di questa reazione.
    
L'importanza dell'azione pubblica nella vita economica, comunque,
    non deve essere misurata semplicemente considerando il peso delle
    spese pubbliche rispetto al prodotto interno lordo: un peso che in
    certi paesi giunge al 50% e che nella patria del capitalismo
    privato, gli Stati Uniti, si aggira sul 35%. Occorre anche
    considerare il carattere dell'azione pubblica nei diversi settori,
    specialmente nel fondamentale settore del credito, il cui vertice -
    la banca centrale - è ormai in tutti i paesi un'istituzione
    pubblica, pur dotata di autonomia, e la cui base - le aziende di
    credito - è in vari modi controllata dall'autorità
    monetaria o è addirittura, in parte, posseduta dallo Stato o
    da enti pubblici (in Italia la quota dei depositi che fa capo ad
    aziende di credito pubbliche raggiunge il 70%; in altri paesi
    sviluppati la quota è minore, ma non è mai
    trascurabile). D'altra parte, il gran peso assunto dai titoli
    pubblici nei mercati finanziari ha reso possibile un controllo
    pubblico della politica creditizia impensabile nel secolo scorso.
    Anche questi interventi di carattere istituzionale hanno dato luogo
    ad abusi molto gravi, cosicché anche in questo caso le
    reazioni contro gl'interventi pubblici sono ben comprensibili.
    
Tuttavia, il rimedio non sta nella condanna globale e acritica di
    tali interventi; il rimedio sta nell'introduzione di cambiamenti
    organizzativi tendenti a eliminare gli abusi, promuovendo con
    decisione, non la riprivatizzazione generalizzata delle aziende -
    creditizie e non creditizie - controllate dallo Stato, il che non
    sarebbe possibile, ma una privatizzazione ampia e differenziata
    secondo un ben meditato ordine di priorità.Si deve osservare
    tuttavia che l'idea, condivisa da parecchi economisti, che lo Stato
    da un lato e i sindacati dall'altro costituiscano un male in
    sé per l'economia, è un'idea erronea. Il fatto
    è che pur in presenza di sindacati relativamente forti e di
    un accresciuto ruolo dello Stato nell'economia, dopo la fine della
    seconda guerra mondiale lo sviluppo economico e civile è
    stato più, e non meno, sostenuto che nel passato: nonostante
    errori, eccessi e sprechi di ogni genere, la somma algebrica
    è stata positiva. 
    
c) Il sottosviluppo
Fra i modelli dinamici ve ne sono alcuni che riguardano lo sviluppo
    dei paesi arretrati. Quello del sottosviluppo è forse il
    maggiore problema della nostra epoca, per i suoi riflessi umani,
    civili, ambientali. Qui possiamo fornire solo alcuni brevissimi
    cenni. In via preliminare, si può osservare che per diversi
    importanti aspetti l'analisi dei paesi sottosviluppati può
    trovare un valido punto di partenza nelle opere degli economisti
    classici, a cominciare dall'opera di Adam Smith, giacché la
    situazione odierna dei diversi paesi del Terzo Mondo, pur con
    profonde differenze, presenta non poche analogie con i paesi europei
    del Settecento. Gli economisti classici insistevano sull'impiego,
    produttivo o improduttivo, del sovrappiù, che allora era
    costituito da tutti i redditi non da lavoro (profitti, interessi e
    rendite), i quali potevano essere in parte risparmiati o tassati.
    Oggi la distinzione fra impieghi produttivi e improduttivi non
    è considerata rilevante dalla teoria moderna, mentre lo
    è se si considerano i paesi del Terzo Mondo, nei quali
    pertanto acquista importanza essenziale esaminare sia il reimpiego
    produttivo del sovrappiù da parte delle stesse unità
    produttive, sia l'apparato per il trasferimento volontario di una
    parte del sovrappiù (sistema creditizio), sia l'apparato per
    il trasferimento coattivo (sistema tributario). 
    
Al tempo stesso, acquista importanza essenziale distinguere il
    sovrappiù che è tale per l'intera economia dal
    'sovrappiù' che è tale solo per singoli privati: il
    primo comporta una crescita del reddito, il secondo una sua
    redistribuzione. Con riferimento ai profitti, questa distinzione
    corrisponde a quella proposta, sulla scia degli economisti classici,
    da Alberto Breglia (1900-1955), fra profitti 'sterili' e profitto 'fecondo'. I primi
    sono profitti 'da sottrazione', in quanto corrispondono a un
    trasferimento di risorse da un soggetto a un altro, e non a un
    aumento delle risorse complessive. I profitti 'da sottrazione'
    possono essere imputati a posizioni di monopolio o a operazioni
    puramente speculative in periodi di inflazione ovvero - ma qui i
    profitti sarebbero 'distruttivi' e non soltanto sterili - possono
    provenire dalla produzione e dal commercio di sostanze stupefacenti
    e attività consimili. Il profitto 'fecondo' o 'da addizione',
    invece, è quello proveniente da una crescita della
    produttività e dalla conseguente riduzione dei costi. Se si
    ammette che i soggetti economici tendono a ripetere le operazioni
    alle quali sono abituati, si può presumere che di regola
    coloro che ottengono un profitto 'fecondo' tendono a reimpiegarlo
    produttivamente, cosicché la spirale produttiva tende a
    perpetuarsi, originando un processo di sviluppo che è tale
    sia per il singolo sia per la società. 
    
Questi concetti sono tutti presenti, esplicitamente o
    implicitamente, nell'impostazione stessa delle analisi elaborate dai
    classici, e riacquistano tutta la loro importanza nello studio dei
    paesi sottosviluppati. 
Tra i modelli teorici relativi ai paesi sottosviluppati quello di Arthur Lewis (n. 1915, premio
    Nobel nel 1979) - che riguarda specialmente i paesi delle fasce
    tropicali e subtropicali - si ricollega, sotto importanti aspetti,
    alle analisi degli economisti classici, e comunque si situa fuori
    dalla tradizione marginalista. Il modello di Lewis concentra
    l'attenzione sulle condizioni dell'offerta di lavoro, che in quei
    paesi è economicamente illimitata (com'era nella prima fase
    dell'industrializzazione dei paesi oggi sviluppati), non solo per la
    crescita demografica, ma anche per la possibilità, per le
    imprese capitalistiche, di reclutare manodopera sottraendola ad
    attività premoderne, come quelle svolte nelle tribù.
    Il modello considera inoltre le condizioni delle produzioni di beni
    alimentari di base, nelle quali, per la bassa produttività,
    è assai limitato il sovrappiù che può essere
    investito sia nella stessa agricoltura sia in attività
    extra-agricole: come già avevano messo in rilievo i classici,
    infatti, un sovrappiù limitato frena l'accumulazione. D'altra
    parte, l'offerta economicamente illimitata di lavoro - anche questa
    è una caratteristica che nella sostanza troviamo già
    nelle analisi dei classici - comporta un livello dei salari basso,
    vicino al livello di sussistenza, e relativamente stazionario,
    cosicché ogni aumento di produttività nelle
    attività basate sul lavoro salariato, come quelle svolte
    nelle piantagioni e nelle miniere, tende a tradursi in una flessione
    dei prezzi relativi (che nelle relazioni internazionali sono
    denominati 'ragioni di scambio'), in direzione sfavorevole ai paesi
    produttori, cioè in genere ai paesi in via di sviluppo. 
    
Da notare che durante gran parte del secolo scorso, un periodo in
    cui gli aumenti di produttività si traducevano in flessioni
    dei prezzi dei beni prodotti dai paesi sviluppati, le 'ragioni di
    scambio' variavano non contro ma a favore dei paesi in via di
    sviluppo, giacché nell'industria manifatturiera dei paesi
    sviluppati la produttività cresceva e i prezzi diminuivano a
    ritmi più rapidi di quanto accadeva nei paesi arretrati.Il
    modello di Lewis riguarda in modo particolare i paesi
    sottosviluppati tropicali che producono materie prime agrarie e
    minerarie: paesi che si trovano in larghe zone dell'Africa e
    dell'Asia, e in zone più ristrette dell'America Latina. Per
    numerosi paesi sottosviluppati dell'America Latina e dell'Asia,
    tuttavia, valgono modelli interpretativi alquanto diversi. Occorre
    rilevare che in un numero ancora piccolo ma in continua crescita di
    paesi asiatici ha avuto luogo un processo di sviluppo economico e,
    in particolare, industriale, relativamente vigoroso: sono i 'paesi
    di nuova industrializzazione', fra i quali troviamo la Corea del Sud
    e Taiwan; l'Indonesia sta entrando in una fase di crescita
    sostenuta. L'India, oltre a un non trascurabile sviluppo
    industriale, è riuscita, grazie anche a innovazioni di tipo
    agrario ('rivoluzione verde'), a ottenere una crescita della
    produzione di beni alimentari un po' più rapida della pur
    ragguardevole crescita demografica, cosicché le frazioni
    della popolazione colpite dalla fame si stanno decisamente
    restringendo, mentre permangono estese le fasce di popolazione che
    soffrono di malnutrizione.
    
Non solo per l'India, ma in generale per molti paesi in via di
    sviluppo è importante la questione del rapporto fra crescita
    delle produzioni di beni alimentari e crescita demografica. Tale
    questione può essere risolta da paesi arretrati relativamente
    piccoli procurandosi i beni alimentari di cui hanno bisogno
    attraverso gli scambi internazionali piuttosto che attraverso la
    produzione diretta; ma per paesi grandi e popolosi come l'India tale
    via può rappresentare solo un contributo parziale. Accanto
    alla questione dello sviluppo produttivo c'è dunque un
    problema di crescita demografica. Dopo la seconda guerra mondiale
    nei paesi del Terzo Mondo tale crescita si è accelerata, non
    per un aumento della natalità ma per una rapida diminuzione
    della mortalità, imputabile alla costruzione di strutture
    igieniche e alla diffusione dei farmaci moderni e dei servizi
    sanitari. In larga misura, il problema della miseria del Terzo Mondo
    è da attribuire proprio alla rapida crescita demografica. 
    
È bene osservare che agli inizi della scienza economica
    moderna i problemi dello sviluppo produttivo e quelli della crescita
    demografica erano considerati congiuntamente e non separatamente,
    come oggi accade. Il problema demografico chiama direttamente in
    causa i problemi dell'evoluzione culturale e del grado
    dell'istruzione. Infatti per i demografi è ormai un dato
    acquisito che il grado dell'istruzione, in particolare quello delle
    donne (che nei paesi arretrati di regola hanno un'istruzione
    inferiore, non di rado assai inferiore, a quella degli uomini),
    condiziona la velocità del declino del saggio di
    natalità: a parità di reddito individuale, maggiore
    è il grado d'istruzione delle donne, più rapida
    è la flessione del saggio di natalità. (La flessione
    della mortalità prima o poi porta con sé quella della
    natalità, ma la velocità relativa delle due flessioni
    ha importanza fondamentale per l'andamento del reddito pro capite.)
    Una politica demografica tendente ad accelerare la flessione della
    natalità deve pertanto collegarsi alla politica di diffusione
    dell'istruzione; si possono poi utilizzare anche incentivi e
    disincentivi di carattere economico.
    
Questi temi vengono tutti trattati, spesso separatamente, da
    demografi e da economisti. Anche questi temi rientrano nell'ambito
    della dinamica economica, intesa in senso ampio; e anche per questi
    temi c'è una ripresa d'interesse da parte degli economisti,
    alcuni dei quali si rifanno esplicitamente, per questo come per
    altri aspetti, agli economisti classici come Adam Smith. 
    
d) I problemi dell'ambiente e lo sviluppo sostenibile
Il processo di sviluppo ha portato con sé, nei paesi in
    cui ha avuto luogo, cospicui benefici, ma ha avuto e sta avendo
    altresì costi rilevanti sotto l'aspetto dei valori morali e
    umani e sotto l'aspetto economico. Già al principio di questo
    secolo, alcuni economisti mettevano in rilievo i costi economici che
    lo sviluppo economico può comportare, per esempio, per via
    dell'inquinamento. Negli ultimi decenni gli effetti della crescita
    esplosiva delle produzioni industriali si sono manifestati in forme
    sempre più allarmanti. Si può stimare che nei paesi
    sviluppati la produzione industriale sia cresciuta di oltre venti
    volte negli ultimi cento anni; se si ammette che le esalazioni, i
    fumi, i rifiuti provenienti dai processi produttivi e i rifiuti
    provenienti dai consumatori siano cresciuti in una proporzione
    simile, ci si rende conto delle dimensioni gigantesche assunte dai
    problemi che oggi vengono definiti ambientali. Questi problemi
    inoltre sono stati fortemente aggravati dal fatto che certe
    produzioni sono risultate non semplicemente inquinanti ma
    addirittura tossiche, con effetti che si propagano attraverso
    l'aria, le acque e i terreni, e quindi attraverso le produzioni
    alimentari. 
    
Di fronte a questi problemi, molti studiosi - economisti e non
    economisti - si sono chiesti in quale misura e in quale modo lo
    sviluppo economico sia 'sostenibile', cioè tale da non
    danneggiare l'ambiente naturale in cui viviamo. Il concetto di
    'sviluppo sostenibile' ha attratto sempre più l'attenzione in
    questi ultimi anni; dal nostro punto di vista, il problema
    principale non riguarda la sua concreta definizione, che è
    affidata a campi scientifici in rapido sviluppo genericamente
    indicati con il termine 'ecologia', ma il modo in cui ci si
    può assicurare che le scelte degli operatori economici si
    muovano nella direzione desiderata. Le questioni rilevanti, da
    questo punto di vista, riguardano il conflitto tra interessi privati
    e interesse pubblico, e tra mercato e Stato, ma anche il rapporto
    tra economia e morale. Si tratta di questioni che sono state al
    centro del dibattito fin dalla nascita dell'economia politica, alle
    quali in parte abbiamo già accennato sopra parlando della
    concezione di Adam Smith (v. § 2b), e che di recente sono
    tornate a costituire oggetto di riflessione (ricordiamo ad esempio
    le ricerche di Amartya Sen). Così come non potrebbe
    funzionare un'economia di mercato in cui il macellaio e il fornaio
    fossero liberi di adulterare la loro merce, non sarebbe possibile
    evitare il degrado dell'ambiente naturale senza una coscienza civica
    che abbia interiorizzato la sua importanza per il benessere sociale,
    e senza istituzioni capaci di intervenire per imporre il rispetto
    dei vincoli ambientali nei casi di violazione della norma morale. Il
    problema del rapporto tra intervento pubblico e libera iniziativa
    privata nell'ambito di un'economia di mercato appare così
    come una questione di complementarità, piuttosto che di
    opposizione. Ma questo non vale solo per le macrostrutture
    giuridiche e amministrative: vale anche per gli interventi
    più specifici di politica economica. A titolo
    esemplificativo, consideriamo alcuni problemi relativi al settore
    energetico.
    
La crescita del settore energetico e i cambiamenti nella sua
    struttura interna sono collegati da complesse relazioni di causa ed
    effetto all'evoluzione dell'economia nel suo complesso. Così
    è evidente che i consumi energetici complessivi dipendono
    strettamente dall'andamento della produzione e del reddito; ed
    è altrettanto evidente che una crescente disponibilità
    di energia costituisce un prerequisito per lo sviluppo economico. In
    altri termini, lo sviluppo economico è condizionato
    dall'offerta di energia, ma allo stesso tempo ne determina la
    domanda. Non dobbiamo trascurare poi il ruolo del cambiamento
    tecnologico: da un lato la crescente meccanizzazione e l'aumento del
    prodotto pro capite spingono nella direzione di un'espansione dei
    consumi energetici; ma dall'altro lato il progresso tecnico, nella
    costante ricerca della riduzione dei costi di produzione, è
    anche la fonte di una riduzione dei fabbisogni energetici per
    unità di prodotto, e di una maggiore efficienza nell'uso di
    energia in generale. 
    
Il risultato netto di queste due spinte contrastanti dipende in
    misura probabilmente decisiva dall'andamento dei prezzi delle varie
    forme di energia: nei periodi di crescita di tali prezzi, si ha un
    processo di 'sostituzione dinamica', in cui imprese e famiglie
    dedicano maggiore attenzione allo sviluppo e all'applicazione
    pratica di nuove tecnologie che consentono risparmi energetici;
    mentre nei periodi di prezzi calanti dell'energia (non
    necessariamente in assoluto, ma rispetto ai prezzi degli altri mezzi
    di produzione e di consumo) la spinta a una riduzione dei consumi
    energetici viene meno, e questi ultimi tendono a seguire da vicino
    l'andamento della produzione e del reddito. Anzi, i consumi
    energetici possono crescere più rapidamente della produzione
    e del reddito, sia per i motivi indicati sopra (crescente
    meccanizzazione, e quindi crescente 'intensità energetica',
    della produzione), sia perché i consumi energetici delle
    famiglie corrispondono in misura notevole alla domanda di beni e
    servizi per soddisfare bisogni di ordine superiore, che per loro
    natura assorbono una quota crescente del reddito. 
    
Il progresso tecnico, che procede a velocità diseguale nei
    vari campi, è il fattore principale anche nel determinare i
    cambiamenti nella struttura interna del settore energetico. La sua
    importanza è confermata da due circostanze. In primo luogo,
    la sequenza legna-carbone-petrolio-fissione nucleare e gas
    naturale-fusione nucleare ed energia solare, che indica la
    successione delle fonti di energia dominanti (dove l'ultimo anello
    della catena indica lo scenario più verosimile, anche se non
    l'unico possibile, per la metà del prossimo secolo), appare
    come una sequenza di miglioramenti nella capacità tecnologica
    dell'uomo di estrarre energia dalla natura, caratterizzata da
    fortissimi aumenti dell'offerta di energia a costi mediamente
    decrescenti. In secondo luogo c'è da registrare la crescente
    penetrazione dell'elettricità, cioè l'aumento della
    quota dei consumi di energia soddisfatti dall'elettricità.
    Tale tendenza assicura maggiore flessibilità all'offerta di
    energia, dato che l'elettricità può essere prodotta
    usando diverse fonti primarie, e quindi assicura una maggiore
    autonomia di politica energetica ai vari paesi, che possono compiere
    scelte diverse a seconda delle proprie dotazioni di risorse
    naturali; inoltre, nei sistemi industriali moderni
    l'elettricità permette un uso più flessibile
    dell'energia, oltre a costituire il supporto necessario per la
    diffusione dell'informatica nelle imprese manifatturiere
    (automazione) e nei servizi.
    
Lo sviluppo dei consumi di energia ha posto problemi gravissimi per
    la salvaguardia dell'ambiente naturale che, come si accennava sopra,
    vanno affrontati dalle autorità pubbliche. Infatti gli
    effetti sull'ambiente della produzione e dell'utilizzo delle diverse
    fonti di energia sono un caso classico di 'esternalità',
    cioè di effetti dell'attività di uno specifico gruppo
    di produttori o consumatori che non costituiscono costi o benefici
    per il singolo produttore o consumatore, ma vantaggi o svantaggi per
    un gruppo più ampio di agenti economici, talvolta per la
    società nel suo complesso. Nel caso di una
    'esternalità negativa' (ad esempio le emissioni di sostanze
    inquinanti), l'impresa o il consumatore che ne sono responsabili non
    hanno alcun incentivo economico a limitarne la portata.
    Perciò, tradizionalmente, la teoria economica suggerisce di
    controbilanciare le 'esternalità negative' tramite apposite
    tasse o tramite specifiche norme che impongano limiti o interventi
    di depurazione. Tuttavia, in pratica, la difficoltà di
    individuare gli effetti ambientali delle varie attività
    umane, e in particolare di quelle connesse alla produzione e
    all'utilizzo di energia, e poi la difficoltà di determinarne
    con precisione la portata, hanno favorito in passato un
    atteggiamento lassista. Solo negli ultimi anni è diventato
    evidente che le conseguenze ambientali della produzione e del
    consumo di energia sono state sottovalutate, se non completamente
    ignorate, nei decenni successivi alla rivoluzione industriale e fino
    a un'epoca molto recente. Questioni come l'effetto serra,
    completamente ignorate fino a pochi anni fa, sono ora al centro
    dell'attenzione. Possiamo prevedere, dunque, che i problemi
    ambientali avranno un peso crescente nelle scelte strategiche nel
    campo dell'energia.
    
La necessità di favorire scelte compatibili con il rispetto
    dell'ambiente naturale implica sia una normativa sempre più
    precisa e vincolante sulle diverse fonti di energia (ad esempio
    sulla sicurezza delle centrali nucleari, o sulle emissioni
    inquinanti derivanti dall'utilizzo di combustibili fossili), sia un
    deciso stimolo a ricerche tecnologiche finalizzate a migliorare
    l'impatto ambientale delle diverse fonti di energia, sia una
    politica di imposte specifiche anche assai elevate (come quella sui
    consumi di benzina). Una politica decisa in questo senso può
    contribuire a ridurre l'elasticità rispetto al reddito dei
    consumi di energia, e in casi estremi a renderla negativa,
    permettendo una crescita del reddito accompagnata da una riduzione
    dei consumi di energia. Questa riduzione, tuttavia, potrà
    riguardare i paesi sviluppati, non quelli in via di sviluppo, molti
    dei quali presentano oggi consumi energetici pro capite bassissimi,
    destinati a crescere se appena - come tutti desiderano - il loro
    reddito pro capite tenderà a salire verso quello attuale dei
    paesi oggi industrializzati. La politica energetica dovrà
    perciò assicurare che la disponibilità di fonti di
    energia non costituisca un ostacolo per lo sviluppo economico; la
    compatibilità dello sviluppo con la difesa dell'ambiente
    dovrà essere assicurata, oltre che frenando i consumi di
    energia per unità di prodotto, anche favorendo le scelte
    più opportune tra le varie fonti di energia disponibili, e
    assicurando nell'utilizzo di ciascuna di esse il rispetto dei
    vincoli ambientali.
    
Accanto ai contrasti tra interessi privati e pubblici, un altro tipo
    di contrasti emerge sul piano internazionale: se in un certo paese
    le imprese vengono obbligate ad adottare costosi accorgimenti per
    ridurre o eliminare l'inquinamento, tali imprese possono trovarsi in
    condizioni svantaggiose, nella concorrenza internazionale, rispetto
    alle imprese di altri paesi in cui questi obblighi non siano stati
    introdotti. I contrasti di questo tipo possono essere ridotti
    attraverso accordi internazionali che stabiliscano obblighi comuni.
    Lo sviluppo sostenibile non può essere conseguito da un solo
    paese, ma solo da una cooperazione internazionale su vasta scala: lo
    stesso tipo di cooperazione che è necessaria per affrontare i
    problemi drammatici del sottosviluppo. 
    
5. Considerazioni conclusive
Mentre nelle scienze chiamate sperimentali la costante
    preoccupazione degli studiosi è di verificare empiricamente i
    loro modelli teorici, in economia una simile preoccupazione è
    più l'eccezione che la regola. Ciò dipende solo
    limitatamente dal fatto che in questa disciplina, come nelle altre
    discipline sociali, non ci sono e non possono esserci laboratori:
    dipende soprattutto dalle caratteristiche assunte nel nostro tempo
    dalla teoria economica dominante, che ha privilegiato i ragionamenti
    assiomatici, nei quali ciò che conta è essenzialmente
    il rigore logico, mentre la rilevanza empirica conta poco o nulla.
    In effetti, nelle analisi economiche si assiste a una sorta di
    polarizzazione: da un lato troviamo modelli puramente astratti;
    dall'altro lato, indagini essenzialmente empiriche. Sono
    relativamente rari i lavori che mirano a combinare la riflessione
    teorica con l'analisi empirica: da un lato ci si preoccupa
    essenzialmente del rigore, dall'altro lato essenzialmente della
    rilevanza, mentre in qualsiasi disciplina scientifica entrambi i
    requisiti sono importanti. 
    
Ciò non significa affatto sostenere che non siano
    apprezzabili e anzi raccomandabili i modelli astratti; né che
    non si debba far ricorso a metodi formali, particolarmente a metodi
    matematici; significa invece sostenere che quando si elaborano
    modelli astratti ci si deve domandare se potenzialmente siano
    suscettibili di successive approssimazioni che consentano di
    avvicinarsi progressivamente alla realtà economica e di
    interpretare i fenomeni concreti. Se gli economisti non dispongono
    di laboratori, dispongono tuttavia di una serie di strumenti
    analitici ausiliari, come quelli forniti dalla statistica e
    dall'econometria che, pur non consentendo controlli paragonabili
    agli esperimenti dei fisici e dei chimici, rendono possibili
    verifiche di carattere empirico. Si tratta di verifiche assai meno
    robuste di quelle compiute dagli scienziati sperimentali, che
    tuttavia, se usate con prudenza, possono suggerire ipotesi e
    problemi interessanti, stimolare dubbi e riflessioni critiche, e,
    più in generale, ridurre quelle incertezze e quella
    indeterminazione che sono connaturate a tutte le scienze, ma che
    sono particolarmente estese nelle discipline sociali. 
    
In conclusione, le pecche più gravi della teoria economica
    moderna sono tre. In primo luogo, sono relativamente scarsi i lavori
    che combinano la riflessione teorica con l'analisi empirica. In
    secondo luogo, dominano ancora i modelli statici, che prescindono
    dal tempo e quindi ignorano in via di principio i più
    importanti fenomeni dell'epoca in cui viviamo, cioè il
    progresso tecnico e lo sviluppo economico. Infine, c'è una
    sorta di spaccatura fra microeconomia e macroeconomia, ossia, da un
    lato l'analisi dei prezzi e di tutti quei fenomeni che si collegano
    ai singoli soggetti, come le imprese e i consumatori, e dall'altro
    lato l'analisi dei grandi aggregati economici, come il reddito
    nazionale e l'occupazione. La divisione del lavoro, di cui Adam
    Smith parlava in senso concreto, è andata crescendo anche
    nelle diverse discipline, e quindi fra le discipline sociali e, in
    particolare, nell'economia. In questa esposizione abbiamo cercato di
    fornire un ragguaglio estremamente conciso dello stato e delle
    tendenze osservabili nell'analisi economica; la menzione delle
    tendenze non poteva non comportare l'indicazione di alcuni problemi
    e dibattiti critici oggi in corso. In trattazioni specifiche di
    questa Enciclopedia vengono illustrate, non meno concisamente, le
    linee essenziali sia delle discipline ausiliarie, come
    l'econometria, sia dei diversi rami in cui, a questo stadio della
    sua evoluzione, l'economia si è suddivisa (economia agraria,
    industriale, internazionale, monetaria, pubblica). Analogamente,
    resta affidata a trattazioni specifiche l'illustrazione di alcune
    tendenze recenti che qui non è stato possibile considerare:
    come il neoistituzionalismo, che spiega le istituzioni economiche e
    sociali mediante modelli contrattualistici; o come l'utilizzo di
    modelli di disequilibrio economico per spiegare la disoccupazione; o
    come la diffusione della teoria dei giochi nelle analisi
    dell'equilibrio economico generale da un lato e nelle moderne teorie
    dell'organizzazione industriale dall'altro lato, per considerare la
    possibilità di 'ragionamenti strategici' dei soggetti
    economici, che nelle loro decisioni tengono conto delle possibili
    reazioni degli altri alle loro scelte.
    
Un ultimo aspetto al quale è necessario dedicare almeno un
    cenno è costituito dai rapporti fra conoscenza e azione,
    ossia fra clima culturale e modelli teorici da un lato, e strategie
    politiche generali e linee di politica economica dall'altro lato. 
    
A titolo illustrativo conviene considerare tre fra gli economisti
    precedentemente ricordati, e cioè Adam Smith, Karl Marx e
    John Maynard Keynes. Con la sua grande opera, Smith ha certamente
    contribuito a determinare un mutamento radicale nella cultura
    politica del suo tempo e, ancora di più, del tempo
    successivo. Sul piano pratico, Smith raccomandava la progressiva
    eliminazione delle barriere e dei vincoli all'attività
    economica che provenivano dall'epoca feudale e dalle politiche
    mercantilistiche. Il liberismo di Smith va inteso appunto in questo
    senso e non, come spesso si sostiene, nel senso di un atteggiamento
    passivo o inerte della pubblica autorità - governo e
    parlamento - nell'attività economica. (Così Smith era
    favorevole all'istruzione elementare pubblica, una posizione
    assolutamente minoritaria ai suoi tempi; era favorevole a interventi
    dello Stato per diverse opere pubbliche; raccomandava una riforma
    dei contratti agrari per favorire lo sviluppo agricolo: e questi
    sono solo tre esempi). L'analisi di Marx deve essere valutata con
    riferimento alle condizioni osservabili nel primo stadio del
    capitalismo, una fase in cui i salari erano ancora assai vicini al
    livello di sussistenza e molte donne e molti bambini erano costretti
    a svolgere lavori pesanti nelle fabbriche. È nota la grande
    influenza che le idee di Marx hanno esercitato su intellettuali -
    non solo economisti -, su partiti politici e su sindacati,
    soprattutto in Europa e in Asia: un'influenza che è stata
    enorme in certi paesi a regime dittatoriale, in cui la dottrina
    marxista era divenuta addirittura la dottrina ufficiale.
    
Il crollo dei regimi che si richiamavano al marxismo, verificatosi
    in diversi paesi a partire dal 1989, è almeno in parte legato
    al peggioramento delle condizioni economiche di tali paesi,
    imputabile principalmente alla loro incapacità d'introdurre
    innovazioni. Questa incapacità non si è manifestata in
    una prima fase, fino a quando è stato possibile concentrare
    lo sforzo economico sulle fondamentali infrastrutture, né in
    una seconda fase immediatamente successiva, quando è stato
    possibile acquistare dai paesi a economia di mercato impianti
    'chiavi in mano' per l'industria di base; si è invece
    manifestata in modo drammatico quando dalle grandi unità
    industriali utilizzate per la produzione di beni di base
    qualitativamente omogenei è stato necessario passare alle
    medie e piccole unità produttive, che spesso impiegano
    tecnologie relativamente più sofisticate. Infatti, in
    un'economia pianificata, i dirigenti delle aziende monopolistiche di
    Stato potevano eseguire più o meno efficacemente gli ordini
    dell'ufficio centrale di pianificazione, ma non avevano alcun
    incentivo a introdurre innovazioni: un'attività che
    necessariamente presuppone l'iniziativa individuale e la
    disponibilità a correre rischi. Ciò vale non solo per
    le grandi innovazioni, ma anche per le piccole, quasi sempre
    scientificamente irrilevanti, ma molto importanti per lo sviluppo
    economico. Innovazioni di questo genere sono particolarmente
    rilevanti in agricoltura, a condizione che i contadini abbiano la
    proprietà della terra, ovvero operino nell'ambito di
    contratti agrari che riconoscano i miglioramenti introdotti da chi
    coltiva la terra.
    
Oggi nei paesi dell'ex Unione Sovietica e dell'Europa orientale si
    discute sulla necessità di passare da un'economia pianificata
    a un'economia di mercato, e non di rado si ragiona come se
    l'economia di mercato fosse sinonimo di puro laissez faire; ma non
    è così. Il mercato è l'espressione di un
    sistema di contratti e, più in generale, di un complesso
    sistema istituzionale. Il passaggio da un'economia pianificata a
    un'economia di mercato implica il passaggio a un nuovo sistema
    istituzionale, in cui sia consentita la proprietà privata dei
    mezzi di produzione (pur con correttivi e limitazioni, come ad
    esempio una legislazione antimonopolistica), siano incoraggiate le
    innovazioni grandi e piccole, e in cui lo Stato abbia un suo ruolo,
    non onnicomprensivo, ma neppure insignificante. Una tesi di questo
    tipo, per quanto riguarda il ruolo dello Stato, è stata
    sostenuta da Keynes, la cui influenza è stata grande
    soprattutto nei paesi occidentali. La principale opera teorica di
    Keynes è nata quando, a causa della grande depressione
    (1929-1939), la disoccupazione aveva raggiunto proporzioni
    straordinariamente ampie. In generale, per combattere la
    disoccupazione e sostenere la crescita dell'economia, Keynes e i
    suoi discepoli raccomandano, oltre a politiche monetarie e fiscali
    espansive, anche il "controllo sociale degli investimenti". Gli
    interventi pubblici nell'area della sicurezza sociale hanno origini
    assai antiche, ma la teoria keynesiana ha dato alla loro crescita un
    nuovo vigoroso impulso, senza il quale il moderno Stato sociale,
    almeno in Europa, non avrebbe probabilmente assunto l'importanza che
    conosciamo. L'influenza di Keynes, tuttavia, ha fortemente
    indebolito le resistenze presenti nella fase precedente, almeno nei
    periodi di pace, alla diffusione dei controlli pubblici
    sull'attività produttiva e alla crescita delle spese
    pubbliche. 
    
In tempi recenti gli eccessi hanno dato luogo a reazioni; tali
    reazioni hanno trovato una giustificazione teorica in certi modelli,
    come il monetarismo di Friedman e il modello delle aspettative
    razionali. 
    
Da queste teorie emergevano precettistiche di carattere
    ultraliberistico, che negli ultimi vent'anni hanno influenzato in
    modo significativo le politiche economiche di diversi governi. Le
    misure di riduzione dei controlli - interventi di privatizzazione
    delle imprese pubbliche e di deregolamentazione - in vari casi hanno
    avuto effetti tutto sommato positivi. La stessa cosa non si
    può dire però per gli effetti delle nuove politiche
    monetarie e fiscali; fra l'altro, le politiche fiscali hanno
    accentuato la diseguaglianza nella distribuzione dei redditi e,
    quanto alle spese pubbliche, hanno determinato un freno alla loro
    espansione, ma non una loro riduzione. Inoltre, le politiche
    monetarie restrittive adottate nei paesi più sviluppati hanno
    avuto un pesantissimo effetto negativo a livello internazionale,
    frenando la crescita dei paesi in via di sviluppo, particolarmente
    attraverso l'aumento dei tassi d'interesse e quindi dell'onere per i
    debiti internazionali.
    
Conoscenza e azione sono i due termini riscontrabili in ogni ramo
    della cultura e non solo nelle scienze sociali. Le forme sono
    tuttavia diverse: nelle scienze sociali, e soprattutto in economia,
    l'aspetto dell'intervento pubblico assume un rilievo tutto
    particolare, sia al livello delle manovre contingenti di politica
    economica, sia al livello delle grandi strategie.