Crisi economica

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Improvviso passaggio dalla prosperità alla depressione nella vita economica; anche il protrarsi di una situazione di ristagno degli affari, di disoccupazione e di basso livello dei prezzi, dei salari, dei profitti e dell'interesse. Per antonomasia la grande c.e. è identificata con la depressione generale dell'attività economica iniziatasi nel 1929 negli USA con il crollo della borsa di Wall Street, estesasi agli altri paesi e protrattasi fino alla Seconda guerra mondiale.

Enciclopedia delle Scienze Sociali (1992)

di Pierluigi Ciocca e Gian Enrico Rusconi

CRISI

Crisi economica e finanziaria
di Pierluigi Ciocca

sommario: 1. Il concetto. 2. Le crisi nella storia: a) la mappa delle crisi; b) crisi mancate o sventate. 3. Le cause delle crisi. Tre scenari di teoria: a) il filone Thornton-Bagehot; b) speculazione e ciclo creditizio; c) la dinamica del capitalismo e le crisi. 4. La probabilità delle crisi: crescente o decrescente? □ Bibliografia.

1. Il concetto

Le crisi sono qui intese come fasi in cui, nelle economie di mercato, una contrazione profonda e non breve delle attività produttive e d'investimento si unisce a rapide, forti flessioni nei valori di cespiti patrimoniali, 'reali' o finanziari. Fra le manifestazioni di mal funzionamento, non ci si riferisce quindi a quelle indicate con termini generici che, sia pure in vario grado, s'applicano a ogni sistema economico-sociale: difficoltà, instabilità, trasformazione, decadenza. Ma non ci si riferisce neppure, fra le manifestazioni più propriamente tipiche del capitalismo industriale dell'età contemporanea, teorizzate dalla scienza economica, a quelle ricomprese in altri concetti e termini specifici: ciclo, recessione, depressione, ristagno, stagflazione. I fenomeni d'instabilità che queste diverse categorie logiche rappresentano sono legati da molteplici nessi; solo i principali, concernenti in modo più diretto le crisi, potranno essere richiamati in questa voce. Le ripercussioni sociali e politiche delle crisi economiche possono essere estremamente gravi. Nascono dallo spreco, irreparabile, delle risorse disponibili ma non utilizzate; dal rischio che l'intensità della contrazione rallenti la crescita dello stesso potenziale produttivo attraverso cui soddisfare, nel lungo periodo, i bisogni della società civile; dal trauma della perdita del lavoro per chi lo aveva e dalla prospettiva della inoccupazione per i giovani; dalle spinte disgregatrici che il calo delle attività economiche e le mutazioni di prezzo dei cespiti patrimoniali imprimono attraverso una redistribuzione di reddito e di ricchezza arbitraria, incontrollata.
Il crinale della crisi si situa fra la dimensione 'reale' e la dimensione monetaria dell'economia. Nei sistemi di mercato quel crinale è reso strettissimo dalle aspettative dei produttori-investitori, da un lato, e dei risparmiatori, dall'altro. Sebbene in questi casi sia meno probabile, la crisi può scoppiare anche se l'economia non è entrata nella fase discendente di un ciclo, o non versa in uno stato di depressione, o non subisce il prevalere di tendenze al ristagno. La mutevolezza delle aspettative e la centralità che esse assumono nel processo economico possono provocare cadute di produzione e forti scompensi nei mercati monetari e finanziari, autonomamente ovvero amplificando spinte in atto. Per la natura stessa di queste forze, nelle economie capitalistiche le crisi, sempre possibili, non sono affatto periodiche o ineluttabili. Dai primi tentativi di inizio Ottocento sino alle più recenti teorie statistico-matematiche la scienza economica è stata costantemente impegnata a identificare i fattori capaci di provocare le crisi, la politica economica a prevenirle e a circoscriverne le conseguenze.In un'economia di mercato sviluppata è diffusa la detenzione, e sono intensi gli scambi, di beni patrimoniali (terreni, fabbricati, mezzi di produzione) e di valori mobiliari. L'una e gli altri trovano alimento nel credito, bancario e non bancario. Allorché prevale l'attesa che cespiti reali e titoli diminuiscano di prezzo, vi sarà una corsa a venderli e ad acquisire moneta (oro, argento, biglietti di Stato o degli istituti di emissione, depositi presso le banche più solide), per detenerla o per rimborsare i debiti prima che le passività eccedano le attività, provocando l'insolvenza. Gli investimenti produttivi possono risentire fortemente delle peggiorate previsioni di profitto, del più elevato costo del capitale, della convenienza ad acquistare i beni strumentali che già esistono, meno cari di quelli di nuova produzione; il calo della ricchezza e del reddito, il deterioramento delle prospettive di lavoro contraggono i consumi. Il ridursi della domanda globale provoca la flessione del prodotto, degli scambi con l'estero, dell'occupazione, dello stesso livello generale dei prezzi. Le spinte recessive interagiscono sinché forze di segno opposto, spontaneamente espresse dal sistema o sollecitate dall'intervento della politica economica, non arrestano e invertono il movimento.
La sequenza attraverso cui il processo si svolge e la misura in cui l'economia viene colpita nei suoi diversi aspetti variano in relazione a un'ampia gamma di elementi. In questo senso ogni crisi presenta una propria specificità di forme e si propone pertanto quale oggetto d'indagine all'analisi storica, prima ancora che a quella teorica. Una sequenza stilizzata viene riprodotta nella tabella. Compilata (v. Fisher, 1933) sulla base dell'esperienza accumulata sino agli anni trenta, essa dà l'idea della complessità delle forze in gioco, sebbene l'accento posto sull'indebitamento e sulla flessibilità dei prezzi verso il basso (deflazione dei debiti) sia apparso a più d'uno studioso, in seguito, eccessivo.Va sottolineata la natura intrinsecamente monetaria delle economie capitalistiche. In tali economie il circuito produttivo è messo in moto ed è diretto dagli imprenditori. Essi hanno la proprietà, o il controllo, degli impianti, dei macchinari, dell'organizzazione della produzione. Hanno, inoltre, la disponibilità di ampi mezzi finanziari: possiedono moneta o possono procurarsela a credito, attraverso le banche, gli altri intermediari finanziari, la borsa. Con questi mezzi liquidi è possibile pagare i salari ai lavoratori prima ancora di aver prodotto e venduto la merce. La vendita dei prodotti e il denaro così incassato devono consentire poi il rimborso dei prestiti e il pagamento degli interessi ai creditori, l'ottenimento di un profitto netto - scopo ultimo della produzione, realizzato in forma monetaria attraverso l'accumulo di una ricchezza fungibile - e l'inizio di un nuovo ciclo su scala più larga.La moneta e il credito sono essenziali allo svolgersi di questo ciclo produttivo, a cui ne corrisponde uno monetario e creditizio. Tendono quindi ad assumere le caratteristiche tecnico-organizzative richieste da un mercato improntato alle esigenze delle imprese e condizionato dalle loro scelte. E tuttavia, da formidabile leva di sviluppo, moneta e credito possono trasformarsi in fattore di acuta instabilità dell'intera economia. Entrano, direttamente o indirettamente, nella produzione di tutte le altre merci. Ma il tesoreggiamento può essere preferito all'investimento produttivo; il credito a chi produce può così rapidamente venir meno. Ancorché tutelata da vincoli contrattuali e da norme di legge, la fitta rete di obbligazioni finanziarie si fonda da ultimo sulla fiducia, riferita sia all'intero mondo degli affari, sia alla specifica attività e al particolare debitore. Lo scemare della fiducia riduce la propensione agli investimenti, o a finanziare a lunga scadenza e a costi accettabili chi li effettua; accresce la propensione a detenere mezzi liquidi, quale precauzione di fronte all'incertezza e al rischio; può provocare effetti di contrazione a catena, tanto più intensi ed estesi quanto più brusco è il calo di fiducia e minore è la misura in cui la domanda straordinaria di mezzi liquidi viene soddisfatta.
Uno scompenso monetario e finanziario è quindi parte integrante della crisi, sia quale manifestazione sia quale concausa. Storicamente, alle recessioni produttive profonde si sono associati dissesti e forte instabilità nel sistema bancario, nei mercati monetari e finanziari. Ciò spiega anche perché i banchieri siano stati fra i primi a comprendere la natura e la gravità del problema, e le banche centrali fra le prime istituzioni a ricercare, attraverso il 'credito di ultima istanza' accordato alle banche in difficoltà, una risposta di politica economica.

2. Le crisi nella storia

La consapevolezza dell'esposizione del sistema al rischio di crisi è documentabile presso i 'pratici', operatori dell'industria e della finanza, già fra lo scorcio del Settecento e gli inizi dell'Ottocento. Quella consapevolezza si fondava sulle esperienze d'instabilità del mondo degli affari nella fase dell'ascesa e dell'affermarsi del capitalismo industriale, segnatamente nell'Inghilterra del XVIII secolo. Essa si estese poi nel secolo successivo ai governanti e agli studiosi, di fronte al dato, ovvio ma illuminante, che le crisi avvenivano: sperimentate più spesso da singoli paesi, talvolta, e con sincronismo tendenzialmente crescente, dal complesso delle economie di mercato.Una visione d'assieme è stata a lungo ostacolata da carenze statistiche. Mentre le cronache coeve e gli stessi resoconti analitici successivi delle vicende monetarie e finanziarie abbondano, sono a lungo mancati dati quantitativi di sintesi, sia pure di prima approssimazione, sull'attività produttiva. Contributi quali quelli di Bairoch, Maddison, Mitchell, consentiti dalla costruzione di serie di contabilità nazionale relative a ciascuna economia, hanno colmato in par te la lacuna: per l'Europa a partire dal 1830, per gli Stati Uniti e pochi altri paesi a partire dal 1870. Al tempo stesso, per la storia d'Europa, ma con ampio riferimento agli Stati Uniti, Kindleberger ha censito le fasi di tensione finanziaria in senso stretto, definite come "il deterioramento - acuto, concentrato nel tempo, metaciclico - dell'insieme o di un sottoinsieme di indicatori finanziari" (v. Kindleberger, 1987, p. 339). Se a ognuno di questi casi di tensione finanziaria si accostano i dati ora disponibili sull'attività produttiva, diviene possibile tracciare una mappa delle crisi, 'reali' e finanziarie, nei secoli XIX e XX.
Emerge, quale primario elemento fattuale, che nelle attività economiche le fasi di caduta forte, non breve, non limitata all'accidente dei cattivi raccolti, racchiudono tensioni finanziarie, ovvero sono da queste di poco precedute o seguite. Forse meno scontata è una convinzione da sempre espressa dai banchieri centrali: più d'una crisi, che avrebbe potuto avvenire, sarebbe stata evitata attraverso misure di sostegno. Non di rado gli interventi sarebbero riusciti a prevenire gli stessi focolai dell'instabilità. Naturalmente, manca la controprova: la storia con i 'se', controfattuale, non è forse impossibile, ma è certo difficile. Nondimeno, in altri casi le tensioni finanziarie si sono palesate e hanno teso a diffondersi, ma non sono arrivate a intaccare l'attività produttiva, anche grazie all'azione di un prestatore di ultima istanza, o ad altri provvedimenti correttivi.

a) La mappa delle crisi
Se si prescinde dai periodi bellici e postbellici, le crisi su scala internazionale più gravi, che hanno segnato la storia economica dell'età contemporanea, si situano negli anni 1833-1842, negli anni settanta sempre dell'Ottocento, negli anni trenta del Novecento.Durante il primo di questi tre periodi, il prodotto lordo in termini reali diminuì in Europa del 9% nel 1833, del 4% nel 1841; in entrambe le occasioni l'attività economica restò per circa un biennio sui più bassi livelli toccati. Negli Stati Uniti la contrazione produttiva probabilmente si limitò al settore dei beni strumentali. Le tensioni finanziarie divennero acute alla fine del 1836 nel Regno Unito, nel giugno e nel settembre del 1837, rispettivamente, in Francia e negli Stati Uniti. Nel Regno Unito si arrestò la tendenza a creare nuove società bancarie; divennero frequenti i fallimenti di banche, specialmente di quelle più esposte con i settori cotoniero e ferroviario; la fiducia subì un crollo generale. Negli Stati Uniti il panico finanziario del 1837 si estese al mercato azionario, con una catastrofica flessione dei corsi, connessa anche con la caduta dei prezzi dei terreni, in particolare di quelli utilizzati per la produzione di cotone; fra il 1838 e il 1843 la quantità di moneta diminuì di un terzo, a seguito dei ritiri dei depositi bancari, il numero delle banche di un quarto. Attraverso una rete di relazioni commerciali e finanziarie che aveva già raggiunto dimensioni internazionali, la crisi inglese e quella americana ebbero ripercussioni sul sistema creditizio e sul mercato monetario della Francia, del Belgio, della Prussia.
Negli anni settanta del secolo scorso prese l'avvio una tendenza cedente dei prezzi che ha a lungo indotto a connotare l'intero periodo 1873-1896 come periodo di 'grande depressione' internazionale. Gli studi più recenti hanno invece negato che alla deflazione si sia unito, nell'intero ventennio, un generale ristagno economico. E tuttavia gli anni settanta furono segnati da fasi di caduta del prodotto lordo in Europa - non solo nel 1870, in connessione col conflitto franco-prussiano (-7%), ma anche nel 1875-1876 (-4% nel biennio) e nel 1879-1880 (-7% sempre nel biennio) - e dalla fase di crescita zero (il 1874-1875) di una giovane economia in forte, tendenziale sviluppo, come quella degli Stati Uniti. Nella sfera finanziaria le difficoltà più acute su scala mondiale presero l'avvio nel 1873. La tensione che allora si determinò nelle principali piazze del mondo fu probabilmente la più acuta ed estesa del secolo. Essa cominciò a Vienna, in maggio; toccò altri paesi europei, come l'Olanda, l'Italia, il Belgio; poi si estese agli Stati Uniti, in settembre, e infine al Regno Unito, alla Francia, alla Russia. Furono severamente colpiti gli intermediari bancari e finanziari esposti con i settori delle ferrovie, dei prodotti primari, dell'edilizia. Ma il malessere finanziario, esploso nel 1873, proseguì negli anni successivi. Sul fronte bancario i dissesti furono numerosi ovunque. Negli Stati Uniti il numero complessivo delle banche commerciali - che era raddoppiato, da 1.500 a 3.000, nel periodo 1863-1873 - diminuì di 200 unità nel 1874 dopo la moratoria del 1873 e vide la sua crescita arrestarsi per circa un decennio. In Italia, fra il 1874 e il 1879, il numero delle società bancarie per azioni scese da 143 a 101, il loro capitale nominale complessivo da 792 a 269 milioni di lire dell'epoca. Profondità e durata dello squilibrio finanziario emergono soprattutto nella caduta dei corsi azionari. Dopo la chiusura di Wall Street, dal 20 al 30 settembre 1873, i mercati borsistici vissero ripetuti momenti di panico, dominati come furono da "vendite di titoli massicce e concentrate, con considerazione solo secondaria per il prezzo di realizzo" (v. Morgenstern, 1959, p. 543). Da allora i corsi restarono in flessione per diversi anni in quasi tutte le borse: la discesa fu del 40% negli Stati Uniti, sino al 1877, del 60% in Germania, sino al 1877-1878, del 35% nel Regno Unito, sino al 1879, del 30% in Italia, sino al 1877.
La crisi degli anni 1929-1932 prospetta un nesso ancor più evidente fra dimensione 'reale' e dimensione finanziaria, nel disastro che allora colpì il complesso delle economie di mercato, incluse quelle periferiche, e che in Europa concorse all'ascesa del nazismo. Se si considera il prodotto lordo complessivo di sedici paesi - i principali paesi dell'Europa occidentale, gli Stati Uniti, il Giappone, l'Australia, il Canada - le statistiche registrano una caduta continua per un triennio, pari, rispetto al livello del 1929, al 17% nel 1932; la produzione tornò ai livelli del 1929 solo nel 1936. La disoccupazione colpì la forza lavoro, anch'essa in diminuzione, in una misura compresa, nei diversi paesi, fra il 15 e il 30%. Il volume del commercio mondiale si contrasse più del reddito, di circa un quarto, a seguito delle barriere, tariffarie e non tariffarie, introdotte quasi ovunque. I movimenti internazionali dei capitali a medio termine furono prossimi ad annullarsi. La grande depressione degli anni trenta passò alla storia come 'crisi del 1929', in ragione del fatto che sul fronte finanziario essa prese le mosse dal crollo del mercato azionario di New York nell'ottobre di quell'anno (v. Galbraith, 1955). Dopo un calo del 5% il giorno 3 e del 6% il 23, i corsi precipitarono il 28 e il 29: la flessione del 23% in questi ultimi due giorni è rimasta la più acuta registrata in cento anni negli Stati Uniti, sino alle due giornate operative 16 e 19 ottobre 1987, allorché l'indice accusò una discesa del 26%. Ma anche in Europa la fase acuta della recessione coincise con i dissesti della Creditanstalt, la prima banca d'Austria, nel maggio del 1931, e della tedesca Danat-Bank, in giugno, oltre che con forti pressioni sia sulla sterlina, ampiamente convertita in oro dai non residenti, sia sul mercato bancario e monetario interno inglese, in luglio. L'eccesso d'offerta dei titoli si estese a tutti i mercati azionari: rispetto al 1929, nel 1932 i corsi erano diminuiti del 90% negli Stati Uniti, del 60% in Germania, del 70% in Francia, del 50% nel Regno Unito. Difficoltà, fallimenti, fusioni, dure razionalizzazioni non risparmiarono le banche di nessun paese. Nell'economia più colpita, quella degli Stati Uniti, nel 1930-1932 lo stock di moneta, prevalentemente costituito da depositi bancari, diminuì del 27%, sebbene la base monetaria non avesse subito contrazioni. La flessione del livello medio dei prezzi fu del 31%. Delle 24.000 banche commerciali esistenti 5.000 fallirono; nel complesso, anche attraverso autoliquidazioni e fusioni, il loro numero si ridusse del 40%; i dissesti si estesero alle casse di risparmio e alle compagnie di assicurazione; fu necessario riedificare la struttura bancaria e finanziaria dalle fondamenta, a partire dalla generale chiusura delle banche proclamata dal presidente Roosevelt il 9 marzo del 1933. Ma il travaglio del sistema bancario non fu minore, ad esempio, in Italia, dove il numero delle aziende di credito diminuì da 4.657 a 2.042 fra il 1926 (l'anno d'inizio delle difficoltà per l'economia italiana, con l'apprezzamento della lira verso 'quota 90' rispetto alla sterlina) e il 1936 (l'anno della nuova 'legge bancaria', tuttora vigente).
Questi tre periodi storici si staccano dagli altri per entità di manifestazioni e vastità di ripercussioni. Ma altre crisi generali ebbero luogo, ancorché estese a un numero più limitato di paesi e di più breve durata. Un esempio lontano nel tempo è quello dell'Europa nel 1847-1848. Il fatidico anno 1848 vide il prodotto lordo diminuire del 7%. Nel biennio 1847-1848 decine di ditte industriali e di case bancarie fallirono nel Regno Unito e in Francia, altre in Olanda, in Prussia, in Italia. La tensione monetaria indusse a sospendere il Bank act in Inghilterra nell'ottobre 1847; richiese un sostegno di riserve auree alla Banca di Francia da parte della Banca d'Inghilterra. Ma la crisi, oltre a essere relativamente breve, venne acuita da fattori speciali: la speculazione sui cereali indotta da raccolti eccezionalmente cattivi nel 1845-1846 e molto migliori nel 1847, le forti oscillazioni nei prezzi delle scorte, le convulsioni politiche nel continente, il timore di una rivolta cartista in Inghilterra.
Un esempio meno lontano è quello della crisi nell'area dell'OCSE, innescata nel 1973-1975 dal brusco rialzo del prezzo del petrolio e dalle fluttuazioni del dollaro. La crescita si arrestò nel 1974, e nel 1975 si trasformò in una flessione del volume degli investimenti privati non residenziali dell'8% e in una, più lieve (0,2%), del prodotto lordo. I sistemi bancari del Regno Unito (insolvenza delle fringe banks londinesi), della Repubblica Federale Tedesca (fallimento della Herstatt) e degli Stati Uniti (fallimenti della Franklin Bank e della Security National Bank, instabilità estesa a grandi gruppi bancari) attraversarono momenti difficili, che vennero tuttavia superati, sia pure grazie anche a massicci interventi di sostegno da parte delle autorità monetarie e di supervisione bancaria.Qualora si facesse riferimento a singoli paesi, piuttosto che all'insieme delle economie di mercato, la mappa delle crisi, 'reali' e finanziarie, si amplierebbe notevolmente. Fra gli episodi più noti relativi alle principali economie vi sono quelli degli Stati Uniti nel 1893-1894 e nel 1908, della Francia nel 1883-1885, del Regno Unito nel 1892-1893, dell'Italia nel 1889-1894, gli "anni più neri" dell'economia italiana (v. Luzzatto, 1968).

b) Crisi mancate o sventate
Sono quindi rari, forse inesistenti, i casi in cui una contrazione produttiva non sia stata accompagnata da tensioni bancarie e finanziarie. Meno rari sono quelli in cui gli scompensi manifestatisi nel mondo della banca e della finanza non si sono risolti in una contrazione estesa al reddito reale, agli investimenti produttivi, all'occupazione. Nella maggior parte di questi ultimi casi la crisi venne tuttavia circoscritta da avvenimenti, più spesso da provvedimenti, che ristabilirono in tempo la fiducia. Gli espedienti più comuni per arrestare il panico finanziario, precedenti e poi talora complementari a una politica monetaria incentrata sul credito di ultima istanza, furono la sospensione della convertibilità dei biglietti in metallo prezioso, la moratoria dei pagamenti, la chiusura temporanea di banche e borse, l'offerta di garanzie ad hoc da parte dello Stato o da parte di associazioni di banche, l'assicurazione dei depositi.
Intercorrono circa due secoli fra l'esempio di Londra nel 1793 e quello di Wall Street nel 1987, ma l'intervento esterno fu in entrambe le occasioni risolutivo. Nel 1793 il panico si diffuse, nella City e nel paese, a seguito del fallimento di banche operanti fuori Londra; la domanda dei biglietti della Banca d'Inghilterra crebbe a dismisura, per ragioni precauzionali; la stretta monetaria si fece rapidamente durissima. La catena dei dissesti venne però spezzata, e non si estese al mondo della produzione: bastò allo scopo il mero annuncio della decisione del Parlamento di mettere a disposizione dei mercanti solvibili titoli a breve dello Scacchiere, facilmente liquidabili. Nell'ottobre del 1987 la 'guerra' dei tassi d'interesse fra Stati Uniti, Giappone e Germania Federale, a sostegno dei cambi delle rispettive monete, sospinse il tasso d'interesse a lungo termine molto al di sopra del rendimento dei titoli azionari, sopravvalutati; al crollo da primato storico dei corsi azionari a Wall Street fecero seguito quelli delle altre principali borse. Ma il cedimento venne contrastato dalla rapida correzione di segno della politica monetaria e dalla dichiarata determinazione delle banche centrali a impedire, con ampia immissione di liquidità nei mercati, che l'attività produttiva venisse pregiudicata.
Se gli episodi locali di tensione finanziaria rientrata, per accidente o per intervento esterno, sono stati non infrequenti (di nuovo l'Inghilterra nel 1797, 1810, 1825, 1866, 1890; la Francia nel 1818; l'Italia nel 1907), sono solo sporadici quelli in cui la tensione bancaria e finanziaria ebbe pieno corso, con manifestazioni acute e diffuse fra gli intermediari, senza tuttavia associarsi a una contrazione delle attività produttive. Almeno un episodio va richiamato. Il 1857 fu un anno di crisi finanziaria di notevole gravità, di vasta portata internazionale. Essa prese l'avvio in agosto dal tracollo della speculazione sui titoli ferroviari negli Stati Uniti; in poche settimane coinvolse le ditte inglesi più impegnate negli scambi con gli Stati Uniti e quelle di Amburgo. In Inghilterra venne elevato sino al 12% il tasso di sconto e fu sospeso il Bank act. Ciò creò il panico nella Borsa di Parigi e tutti i centri finanziari dell'Europa centro-settentrionale ne risultarono scossi. Nonostante tutto nel periodo 18561858 il prodotto lordo dell'Europa si accrebbe considerevolmente.

3. Le cause delle crisi. Tre scenari di teoria

Il laboratorio della storia offre, dunque, una casistica variegata: prova che le crisi sono un'eventualità più che possibile; mette in luce il nesso fra l'acutezza delle crisi più gravi e la loro duplice dimensione, a un tempo 'reale' e finanziaria; esclude che una tensione finanziaria, pur forte, si risolva inevitabilmente in una contrazione profonda dell'attività produttiva; suscita la questione delle politiche economiche anticrisi. Sollecitata dai fatti della storia, l'analisi economica ha ricondotto a tre fondamentali famiglie di teorie l'identificazione dei fattori e delle condizioni che tendono a provocare la crisi e dei modi per prevenirla o superarla.

a) Il filone Thornton-Bagehot
Il primo filone è quello che nell'Ottocento, con Thornton e con Bagehot, diede nobiltà teorica e veste istituzionale alla pratica del credito di ultima istanza. Secondo questa linea d'analisi, in un'economia monetaria, ancorché non soggetta a fluttuazioni endogene, la fiducia può venir meno. Se non viene ripristinata, può aver luogo una crisi: finanziaria prima, a seguito della stretta monetaria risultante dal tesoreggiamento e dalla minor velocità di circolazione della moneta, 'reale' poi, a seguito del diffondersi del pessimismo e del più elevato costo del credito per i produttori. Un prestatore di ultima istanza può ristabilire la fiducia: con la sua disponibilità a far credito, prima ancora che con l'effettiva immissione di mezzi monetari nel mercato.
Lo schema è di una chiarezza cristallina, nella sua semplicità. Implica un concetto d'instabilità analogo a quello che il senso comune applica di fronte all'equilibrista che percorre il filo teso fra i due campanili di una piazza. L'uomo può cadere per mille motivi. È opportuno quindi usare una rete di protezione, che, dandogli sicurezza, ridurrà le stesse probabilità di caduta.
Nella versione originaria di Henry Thornton, "le cause che possono far variare la rapidità di circolazione delle banconote sono molteplici. In generale, una situazione di elevata fiducia favorisce un aumento della velocità di circolazione, [...] contribuirà a far sì che occorrano minori riserve per far fronte agli imprevisti. In una situazione siffatta, ciascuno confida che, se una richiesta di pagamento, oggi dubbia ed eventuale, dovesse effettivamente pervenirgli, sarebbe possibile farvi fronte al momento: si è riluttanti all'idea di incorrere nei costi connessi con la vendita di merci o con il presentare una cambiale allo sconto con lo scopo di costituirsi una riserva con molto anticipo rispetto a quando sarà necessaria. All'opposto, allorché sopraggiunge una stagione di sfiducia, la prudenza consiglia di non dar peso alla perdita di interesse risultante dal detenere banconote per qualche giorno in più. [...] [Nel 1793] a diffondere una sensazione di generale solvibilità bastò l'aspettativa di un'offerta di buoni dello Scacchiere, che quasi ogni commerciante avrebbe potuto ottenere e, come era risaputo, vendere in cambio di banconote, a loro volta convertibili in ghinee" (v. Thornton, 1802; tr. it., pp. 47-50).
Il sistema bancario, con riserve liquide che rappresentano una frazione di passività a vista e a breve, è particolarmente esposto a cali di fiducia. L'illiquidità e la temuta insolvenza di una banca possono provocare ritiri di depositi, panico finanziario, dissesti aziendali, decurtazione d'attività nell'intera economia. I banchieri hanno da sempre ravvisato nella natura strettamente bilaterale del rapporto di fido, fra il cliente finanziato e la banca, e nella mobilità dei depositi che la banca si è impegnata a restituire le ragioni per cui le probabilità che la crisi di una unità scuota la credibilità generale sono più alte nel sistema bancario che in ogni altra industria. Nel linguaggio della teoria economica odierna (Arrow) i contratti di debito-credito, di necessità proiettati nel futuro, sono intrinsecamente contrassegnati dalla con-certezza del loro rispetto e da carenze d'informazione. La fiducia, da ultimo fondata sulla consuetudine di rapporti fra banca e cliente, integra e sostituisce le informazioni trasmesse attraverso i mercati, là dove esse sono insufficienti, asimmetriche, mancanti. La completezza dell'informazione sui debitori non v'è neanche da parte delle banche nei confronti dei clienti usuali. Ancor meno può esservi da parte del mercato in generale. Il mercato secondario, sviluppato nel caso dei titoli azionari e obbligazionari, è sostanzialmente inesistente nel caso dei fidi bancari.
Proprio perché non fondabile sulla pienezza dell'informazione, il 'credito' di cui le banche e i loro clienti godono può rapidamente e diffusamente dissolversi. La stabilità del sistema bancario e finanziario costituisce la ragion d'essere originaria, permanente, anche se non più la sola, delle banche centrali. Prevenire l'insolvenza di banche solo illiquide, contrastare il pericolo di dissesti a catena: queste sono state, e restano, le primarie responsabilità assunte dalle banche centrali, già nel corso dell'Ottocento.
Elasticità e discrezionalità sono a fondamento del central banking. Esse nascono storicamente nel campo d'attività detto 'credito di ultima istanza': quello dei fidi accordati dalla banca centrale, direttamente e su base bilaterale, a singoli intermediari finanziari. Lo strumento del credito di ultima istanza deve esistere per dare al sistema bancario la sicurezza che sarà arrestato l'effetto 'domino' dell'illiquidità, con crisi a catena; al tempo stesso, le singole banche non devono aver mai la certezza d'accedervi, che le indurrebbe a comportamenti imprudenti e lassisti.
La protezione dall'illiquidità non va data agli insolventi: qualità ed efficienza dell'attività bancaria e finanziaria sarebbero altrimenti minate alla radice. Se solvibile e riconosciuto tale, l'intermediario finanziario illiquido non incontrerà difficoltà, purché il mercato monetario sia ragionevolmente concorrenziale. Altrimenti, mancando queste due condizioni, occorrerà un intervento esterno. Dovrà effettuarlo un soggetto istituzionale dotato delle necessarie risorse, capace di sceverare, eventualmente anche attraverso gli strumenti della vigilanza sulle banche, i casi di illiquidità da quelli in cui essa è commista con l'insolvenza. Qualora vi sia sospetto di insolvenza, la valutazione che la banca centrale è chiamata comunque a dare, spesso in tempi brevi e sotto la pressione degli eventi, deve estendersi alla probabilità che negare il sostegno estenda la tensione. Se questa probabilità viene giudicata alta, le conseguenze di una crisi economica devono essere poste a confronto con le inefficienze che nel più lungo periodo deriveranno dal fare eccezione alla regola di non rifinanziare intermediari insolventi. È evidente la delicatezza di una siffatta valutazione costi-benefici da parte della banca centrale, stretta fra i due estremi di non sostenere gli intermediari mal gestiti e di non consentire che l'instabilità dilaghi.

b) Speculazione e ciclo creditizio
Il tratto caratterizzante dell'indirizzo Thornton-Bagehot è di non inscrivere la crisi in una teoria delle fluttuazioni. Quanto all'impulso generatore della crisi, l'analisi resta aperta alla considerazione di un'ampia gamma di possibili fattori, interni e internazionali, economici e non, esogeni ed endogeni. L'economia è in ogni momento, qualunque sia la sua condizione congiunturale e strutturale, soggetta a turbative della fiducia. L'acutezza delle ripercussioni viene quindi a dipendere, oltre che dalla natura e dall'intensità dell'impulso destabilizzante, dallo stato dell'economia in quel particolare momento.
Questa apertura analitica, che pure per un verso costituiva il pregio dello schema Thornton-Bagehot, suscitò insoddisfazione in chi cercava di delineare un meccanismo di instabilità radicato nel modus operandi del sistema economico: un meccanismo capace di generare la crisi, o il rischio della crisi, in modo endogeno e ricorrente, ancorché non necessariamente con periodica regolarità. La frequenza delle fluttuazioni economiche e il loro più sistematico censimento nel corso dell'Ottocento contribuirono a stimolare questo indirizzo di ricerca: "Nel XIX secolo l'andamento dell'industria e del commercio fu segnato da cicli chiaramente definiti. Prosperità, boom, crisi, recessione e ripresa si susseguirono con una regolarità che fece pensare all'inevitabilità: divenne naturale riguardare la crisi come portato del boom, la depressione come portato della crisi. Nel XVIII secolo i cicli ricorrenti avevano presentato un'evidenza molto minore: vi furono fasi di espansione e di contrazione delle attività economiche e una crisi poteva avvenire, durante tali fasi, in ogni momento. Gli accadimenti connessi con guerre o conflitti interni bastano a dar ragione del panico nel 1701, 1715, 1745, 1778 e forse nel 1797. A chi ne subì le ripercussioni, queste crisi erano apparse non come eventi nell'ordine delle cose, che persone d'esperienza avrebbero potuto attendersi, ma come fulmini a ciel sereno. Furono (o sembrarono) causa, non conseguenza, del disordine economico" (v. Ashton, 1959, p. 136).
Dagli inizi dell'Ottocento la costante osservabile con maggiore immediatezza nelle fluttuazioni economiche fu rappresentata dalla correlazione degli alti e bassi speculativi con l'espansione e contrazione del credito. Non sorprende, quindi, che in questa coppia di elementi venisse in primo luogo individuata la ragione della frequenza, se non del ricorrere, delle fluttuazioni e, all'interno di queste, delle crisi.
Da un lato, nuove occasioni di rapido guadagno, all'esaurirsi di quelle già sfruttate, si prospettano quasi senza soluzione di continuità a chi è più pronto, stando alla 'specula', ad approfittarne (v. Kindleberger, 1978 e 1987). Gli investimenti speculativi trovano sostegno in un'offerta di credito entro certi limiti elastica. Stimolo agli affari ed espansione del credito si autoalimentano, sino a degenerare in diffusa euforia. La tensione giunge al culmine allorché la stessa elevatezza di prezzo dei beni oggetto della speculazione - prodotti, cespiti 'reali' o finanziari - ingenera il timore di un'inversione di tendenza, ovvero quando l'accesso al credito diviene più difficile e costoso. Il processo allora s'inverte, con un movimento che va dalle attività su cui la speculazione si è incentrata ai mezzi liquidi. Il moto inverso può essere così rapido da risolversi in un panico finanziario, tanto diffuso da provocare, attraverso le aspettative e le interrelazioni interne al sistema economico, una contrazione produttiva profonda.
Dall'altro lato, l'instabilità è intrinseca al settore creditizio, più pronunciata quando questo è basato su un sistema di banche commerciali capaci di 'moltiplicare' il credito (v. Hawtrey, 1932). Il processo di espansione-contrazione del credito può essere in ogni momento avviato da deviazioni rispetto allo stato iniziale, in grado di cumularsi e autoalimentarsi a lungo per poi mutare di segno. Le banche possono incoraggiare la domanda di credito attraverso una deliberata strategia d'espansione della loro attività, fondata su minori tassi d'interesse, o semplicemente tardando a innalzare i tassi d'interesse quando il futuro si configura per le imprese come più redditizio (v. Wicksell, 1934-1935). Viene così stimolata e sostenuta l'attività, speculativa o produttiva, dei soggetti più attenti alle condizioni di finanziamento. Con essa, lo sono l'attività economica in generale e l'ascesa dei prezzi, sino a quando l'offerta di credito non incontra un limite nella ridotta liquidità delle banche. La contrazione può essere non meno cumulativa e traumatica, in specie se prevalgono aspettative di tipo estrapolativo su prezzi e profitti.
Sia nel caso in cui il primum movens è la speculazione, poi assecondata dal credito, sia nel caso in cui è questo a sollecitarla, il rischio di una caduta produttiva e, insieme, di uno squilibrio finanziario - il rischio di una crisi - si accresce una volta superato il limite superiore di un andamento economico considerato come intrinsecamente oscillatorio. Immediato, in questi stessi schemi, è il tipo di risposta a cui la politica economica è chiamata: stabilizzare il processo e attenuare le fluttuazioni. Ciò significava, analogamente a quanto suggerito dal filone Thornton-Bagehot, sostenere il sistema bancario e, attraverso di esso, l'intera economia, nella fase recessiva. Ma significava anche, forse soprattutto, agire per tempo al fine di graduare la spinta espansiva, prevenendone gli 'eccessi'.
La funzione di creditore di ultima istanza assegnata alla banca centrale veniva quasi naturalmente a estendersi sino a trasformarsi in politica monetaria stabilizzatrice, o anticiclica. Attraverso la manovra dello sconto - a cui si unirono poi le operazioni su titoli nel mercato aperto e l'influenza esercitata sulle riserve detenute dal sistema creditizio presso la 'banca delle banche' - la domanda di fondi andava mitigata e l'offerta frenata prima della fase acuta dell'espansione, fermo restando che, di fronte a un panico finanziario e a una contrazione produttiva incipiente o in atto, ogni sostegno dovesse venire assicurato. La moneta doveva essere, di necessità, manovrata, rimuovendo ogni automatismo o limite rigido alla sua temporanea espansione, quale, ad esempio, il gold standard. Non essendo le oscillazioni, per la natura stessa delle forze in gioco, di ampiezza e durata definite o regolari, veniva demandato all''arte' del banchiere centrale di stabilire tempi, modi, dosaggio dell'azione stabilizzatrice.

c) La dinamica del capitalismo e le crisi
Il terzo indirizzo teorico è meno facilmente sintetizzabile, per l'ampiezza della letteratura e per le caratterizzazioni dei principali contributi. Il filo conduttore consiste nel riguardare le fluttuazioni, e le crisi all'interno di queste, come inerenti alla dinamica di fondo delle economie capitalistiche: del capitalismo visto come "sistema che si evolve [...], generatore intermittente ma incessante di mutamento morfologico" (v. Goodwin, 1986, p. 14). Per Marx e per Schumpeter la speciale capacità del capitalismo di sviluppare le forze produttive e di trasformare la società è insita nella spinta con cui il flusso delle innovazioni tecniche si traduce in più alta produttività, attraverso l'accumulazione di capitale motivata dal profitto. Sia Marx sia Schumpeter erano al tempo stesso convinti che il processo fosse caratterizzato da un'instabilità connaturata, estesa al livello generale dell'attività economica. Il contributo decisivo di Keynes, incentrato sul concetto di domanda effettiva e sull'analisi delle sue determinanti, ha consentito di chiarire come alla base delle fluttuazioni vi siano le decisioni d'investimento degli imprenditori, soggettive, esposte all'incertezza, non coordinabili.Le scelte d'investimento determinano, in quanto spesa, con effetto moltiplicativo, il livello del reddito e il grado di utilizzo degli impianti e del lavoro (v. Kahn, 1931). A capacità pienamente utilizzata, lo sviluppo entra in una regione d'instabilità (v. Harrod, 1973); vi è allora un'alta probabilità che il potenziamento degli impianti, con cui i singoli imprenditori si studiano di corrispondere agli incrementi di domanda attesi globalmente, ecceda quello sostenibile dal risparmio di cui l'economia è capace, ovvero non raggiunga i valori necessari a mobilitare pienamente le risorse non consumate. Il moto dell'economia si fa, ciclicamente ancorché non periodicamente, espansivo e recessivo, entro il limite superiore fissato dalle risorse più scarse e il limite inferiore fissato dagli ammortamenti, da componenti esogene della domanda e soprattutto dalla spinta del progresso tecnico: "Il punto di svolta superiore non è difficile da spiegare: nel mezzo dell'espansione si attiva l'acceleratore e il sistema diviene instabile. I ritmi della crescita si fanno insostenibili. Il limite è nelle risorse e negli alti prezzi relativi del lavoro e delle materie prime. Allora la crescita rallenta e il costo reale del produrre sale, provocando l'inflazione come immediata risposta dei produttori. L'inflazione maschera, ma non può rimuovere, il vero problema: la decelerazione. L'investimento viene tagliato, le aspettative subiscono un crollo drammatico, l'economia diviene stabile al più basso livello dettato dalle spese non sistematiche, come quella governativa o quella proveniente dal commercio estero. Su questo livello inferiore l'economia si attesta, finché un'innovazione adeguata non la risolleva. Si spiegano così le peculiarità storiche delle fluttuazioni. Questi movimenti non sono a stretto rigore dei cicli. Appaiono simili perché la spinta capitalistica al profitto implica un'incessante caccia alle innovazioni capaci di economie nei costi. La crescita, presto o tardi, non può non riavviarsi, ma acquista rapidità eccessiva e torna infine a interrompersi" (v. Goodwin, 1986, p. 21).
È questa l'estrema sintesi di uno schema eclettico Marx-Keynes-Schumpeter, pensatori per altri aspetti diversissimi. L''apporto' di ciascuno di loro allo schema, sebbene di complessa e per taluni aspetti di dubbia individuazione (v. Sylos Labini, 1970), va ricercato nella sottolineatura dei motivi dell'accumulazione capitalistica fatta da Marx; nella centralità che, per Schumpeter, le innovazioni assumono nella dinamica dell'economia; nell'analisi imperniata su domanda effettiva e incertezza, proposta da Keynes. L'accostamento del loro pensiero in una sintesi richiede almeno due ordini di qualificazioni. La prima consiste nel sottolineare ancor più il carattere monetario e finanziario - da 'Wall Street' - dell'economia. La scissione dell'investimento dal risparmio della singola impresa e il ricorso alla finanza esterna ampliano le oscillazioni degli investimenti. Allorché le "aspettative subiscono un crollo drammatico", l'entità e la diffusione delle attività finanziarie e la fuga verso quelle più liquide e meno rischiose acuiscono la recessione, sino alla crisi. In secondo luogo, le fonti d'instabilità dell'intera economia non si limitano alle forze che interessano direttamente la domanda aggregata e l'offerta aggregata. L'instabilità può essere provocata anche da squilibri all'origine microeconomici: se i meccanismi di allocazione delle risorse non operano al meglio, se vi sono asimmetrie nei movimenti dei prezzi e nei comportamenti dei soggetti, se le difficoltà di alcuni settori dell'economia si generalizzano attraverso le aspettative e le interrelazioni tessute dalla finanza (secondo meccanismi che si inscrivono nel filone marxiano delle 'crisi da sproporzioni'). La stessa capacità di crescita e di trasformazione delle economie capitalistiche acuisce il problema, centrale in ogni economia, di far corrispondere alla mutata composizione della domanda gli opportuni adeguamenti di struttura dell'offerta (v. Pasinetti, 1984).
È evidente come da questo terzo filone d'analisi, e segnatamente dall'apporto di Keynes, sia discesa l'indicazione di una più articolata politica economica volta a stabilizzare l'economia e a prevenirne le crisi, configurabili sempre più come un rischio connaturato al sistema, non rimuovibile. Il suggerimento, ampiamente recepito dai governi, soprattutto dopo la crisi del 1929 e sino agli anni settanta, è stato di unire al credito di ultima istanza e alla politica monetaria della banca centrale una serie di altre politiche: di bilancio e fiscali, valutarie, dei redditi, allocative, strutturali. Si è comunque affermato il convincimento che la recessione e l'eventuale crisi vadano contrastate sostenendo con ogni mezzo la domanda globale.
Le difficoltà degli anni settanta, che l'attivismo della politica economica non sventò, e poi il buon andamento delle economie di mercato industrializzate negli anni ottanta, detti di deregulation, hanno riproposto antichi motivi liberisti, di non intervento dello Stato sull'andamento ciclico dell'economia. La convinzione analitica secondo cui l'operare della mano invisibile che guida i mercati non vada comunque turbato si unì durante tutto l'Ottocento all'idea vagamente puritana secondo cui dagli eccessi della speculazione ci si poteva mondare solo lasciando che la crisi facesse il suo corso. Ancora nel Novecento questi orientamenti hanno trovato più d'un conforto teorico (v. Hayek, 1931) sino alle elaborazioni che, pur non escludendo interventi nelle crisi più acute, considerano la politica economica attiva come fattore →d'instabilità, causa o concausa delle fluttuazioni e delle stesse contrazioni produttive (v. Friedman, 1959; v. Lucas, 1983). La querelle fra interventisti e astensionisti prosegue irrisolta sul piano analitico. Sul piano politico e istituzionale, di fatto, gli stessi governi più liberisti, sotto la pressione degli eventi e dell'opinione pubblica, sono di rado riusciti a trattenersi dall'agire per cercare di contrastare una grave crisi, in atto o soltanto temuta.All'altro estremo vi è l'indirizzo critico di matrice marxiana. Marx vide nelle crisi ricorrenti la manifestazione delle contraddizioni di fondo del sistema capitalistico, che egli riteneva insuperabili. Il tema del 'crollo' del capitalismo ha da ultimo perso rilievo presso gli stessi studiosi più vicini al pensiero originario di Marx. L'accento è stato variamente posto sui tre modelli di crisi, ricondotta da Marx alla caduta tendenziale del saggio del profitto, al sottoconsumo, alle sproporzioni, all'interno di una visione unitaria che configurava il rapporto fra denaro (D) e merci (M) nel capitalismo secondo la sequenza D → M → D´ > D, contrapposta alla sequenza M → D → M, propria delle società precapitalistiche. L'intervento statale può solo procrastinare il progressivo acuirsi di tali contraddizioni, che comunque sollecitano, se non il crollo del sistema, la scelta ideologica e politica di una sua profonda trasformazione (v. Sweezy, 1942). Fra le molteplici versioni che tale indirizzo radicalmente critico ha assunto, l'interesse analitico maggiore, anche attraverso importanti apporti di studiosi non marxisti, è stato probabilmente rivolto alle teorie (v. Kalecki, 1971; v. Steindl, 1952) che legano le depressioni a tendenze al ristagno di lungo periodo espresse dai connotati oligopolistici del capitalismo industriale.

4. La probabilità delle crisi: crescente o decrescente?

La migliorata comprensione della natura dell'instabilità, delle sue manifestazioni; la concezione di una politica economica anticiclica, a cui molti continuano a riconoscere efficacia, e l'approntamento degli strumenti per attuarla; la diffusione di correttivi automatici, in una cornice istituzionale disegnata anche per la stabilità dell'economia; l'irrobustimento del settore bancario e finanziario, favorito dalle legislazioni e dalla vigilanza prudenziale; lo stesso mutarsi della struttura produttiva, da prevalentemente agricola a prevalentemente terziaria: questi e altri elementi hanno tendenzialmente agito e agiscono nella direzione di rendere le moderne economie di mercato meno esposte alle crisi e più robuste.
Al tempo stesso altri elementi spingono nella direzione contraria, di accrescere l'instabilità. Fra essi, nella condizione economica e politica con cui si sono aperti gli anni novanta, si situa la mancanza di un paese leader, capace di fungere da prestatore di ultima istanza per l''economia-mondo', mentre il coordinamento fra i tre poli principali - Stati Uniti, Giappone, Europa - stenta a progredire. In assenza di politiche di bilancio e dei redditi coordinate, l'integrazione finanziaria, la dimensione dei flussi dei capitali e la loro velocità di movimento rispetto al flusso delle merci, l'inflazione latente sovraccaricano di compiti le politiche monetarie. L'incertezza è accresciuta, sono sospinti all'insù i tassi dell'interesse. Per entrambe le vie possono determinarsi crolli di borsa, insostenibilità del debito estero dei paesi in via di sviluppo, cadute nella propensione a investire: non può escludersi quindi che la lunga espansione degli anni ottanta venga interrotta da recessioni.
Fra queste forze di segno opposto sembrano prevalenti, non solo agli ottimisti e agli apologeti, ma alla maggioranza degli studiosi, quelle che tendono a ridurre i rischi di instabilità nel lungo periodo. Almeno due fondamentali dati di fatto confortano questa generalissima valutazione. La variabilità annuale del prodotto interno lordo dell'Europa presenta una chiara tendenza di lungo periodo alla riduzione dal 1830 a oggi; la tendenza è ancora più continua se si prescinde, considerandola un caso speciale, dalla crisi del 1929. Una crisi della vastità e dell'acutezza assunte da quella del 1929 non ha più avuto luogo in oltre mezzo secolo, pur essendo stata - negli anni settanta e nel 1987 - da molti paventata o addirittura prevista.
La natura stessa delle crisi, tuttavia, esclude che possa mai darsi la certezza di un loro venir meno. Da ultimo riconducibili all'ingovernabilità delle aspettative e delle decisioni d'investimento in economie intrinsecamente monetarie, le crisi possono riproporsi, sebbene le probabilità che ciò accada siano forse oggi minori di ieri. La risposta all'onesto quesito "può il 1929 ripetersi?" (v. Minsky, 1982) deve quindi essere affermativa. Qualora l'evento si materializzasse, l'efficacia della reazione, allo stato attuale delle nostre conoscenze, resta comunque affidata alla messa in atto dei rimedi estremi suggeriti da Thornton e da Keynes: fornire al sistema tutta la liquidità necessaria e sostenere con ogni mezzo la domanda globale.


Dizionario di Storia (2010)

di Giorgio Ruffolo

crisi economica

Le crisi economiche

Per molto tempo la teoria economica dominante ha ignorato il concetto di crisi. Il paradigma fondamentale di quella teoria era il modello dell’equilibrio generale di L. Walras. Secondo quel modello, in una condizione di concorrenza perfetta il mercato avrebbe sempre trovato, sia pure attraverso aggiustamenti successivi (tatonnements), un equilibrio stabile e ottimale. Questo principio ha ispirato l’ideologia del mercato autoregolato, un’economia deve essere lasciata a sé stessa senza interferenze politiche di alcun genere: mama knows best, la mamma sa quel che fa. Si dimenticava che quel modello era uno schema teorico ideale, non la rappresentazione del mercato reale. Riguardava un’economia chiusa e statica. E presupponeva condizioni di «perfezione», di parità contrattuale, che non si verificano praticamente mai. Quello schema fu corretto, integrato, sviluppato in senso più realistico nell’ambito della stessa corrente del pensiero economico dominante. Lasciando da parte l’antitesi marxista, di un processo di sviluppo conflittuale le cui contraddizioni si risolvono inevitabilmente in una trasformazione rivoluzionaria del sistema, si sono riconosciute le «imperfezioni» monopolistiche del mercato; le oscillazioni strutturali che lo identificano in una serie di cicli economici di espansione e contrazione; le discontinuità tecnologiche che sovrappongono alla visione dell’equilibrio quella dello sviluppo di un sistema imprenditoriale promosso dalle innovazioni e finanziato dal credito. E tuttavia, l’impronta ideologica è rimasta quella dell’equilibrio generale: di una piazza d’armi ove si svolgono manovre ordinate, non di un campo di battaglia teatro di scontri cruenti. Si è riconosciuto che l’economia non si riproduce entro uno schema costante, ma evolve attraverso fluttuazioni, di ondate di espansione e di riflusso della produzione e della domanda, nessuna delle quali è uguale alle altre, ma tutte presentano certe caratteristiche di regolarità. Si sono individuati quattro stati tipici del ciclo economico: due di espansione, iniziale e matura, e due di recessione, contrazione e depressione. Si sono distinti i cicli economici, secondo la loro durata, in cicli brevi, di tre-quattro anni, medi, di circa dieci anni, e lunghi, di circa cinquant’anni. La teoria del ciclo economico è stata sviluppata in diversi modi da diversi autori, ma sulla base comune di un meccanismo endogeno, svolgentesi all’interno del sistema economico. La teoria, anzi le teorie del ciclo economico lasciano inalterato il principio fondamentale della teoria economica dominante (liberale o, più precisamente, liberista) secondo il quale l’economia di mercato è provvista di un meccanismo interno di autoregolazione. Il ciclo sarebbe una caratteristica organica del sistema economico di mercato. Non dunque un segno di crisi del sistema ma, al contrario, della sua vitalità. Negli ultimi decenni la successione dei cicli economici nelle economie capitalistiche si è andata attenuando, tanto da accreditare la tesi che il capitalismo abbia trovato la via di una crescita priva di sistematiche oscillazioni. La teoria economica si è adagiata in una condizione simile a quella della teoria dell’equilibrio generale, dove alla concezione di un equilibrio statico si è sostituita quella, rassicurante, di una crescita continua. È nella crescita che si risolverebbero i conflitti distributivi. È la crescita che consentirebbe di attenuare le fasi di riflusso del ciclo. La convinzione che, specie dopo la scomparsa della sfida comunista, il capitalismo potesse affidarsi alla logica del suo sviluppo, ha avuto però breve durata. Paradossalmente, è proprio nel tempo del suo trionfo che sono riapparse le minacce di crisi: non però oscillazioni del sistema, ma vere e proprie rotture che ne compromettono il funzionamento.

Quella della crisi economica, e in particolare della crisi del capitalismo, non è certo una novità. La sua minaccia ha accompagnato fin dall’inizio l’intero corso della sua storia. Si possono distinguere due approcci che conviene trattare separatamente. Il primo, di marca marxista, riguarda le contraddizioni «interne» del capitalismo generate dal suo stesso sviluppo: le sproporzioni tra produzione e consumo e quelle tra risparmio e investimento. Dunque, crisi di sottoconsumo o di sovraproduzione. È da notare che queste contraddizioni non comportano un avvitamento esplosivo del capitalismo, come nella predizione marxista. Comportano però la necessità di un intervento correttivo esterno: necessità rilevata dall’analisi keynesiana. Malgrado ogni critica che le si possa rivolgere, si deve a quest’ultima se l’intervento dello Stato ha permesso di compensare o di controbilanciare gli squilibri provocati dall’accumulazione capitalistica. Il secondo approccio riguarda le contraddizioni «esterne» del capitalismo. Che sono di due tipi: l’impatto incontrollato della crescita sulle risorse e sugli equilibri ecologici del pianeta (esaurimento e inquinamento); l’impatto incontrollato su risorse economiche non ancora esistenti (indebitamento). Delle crisi ecologiche non c’è molto da dire, essendo chiara la meccanica del fenomeno, anche se discutibili i suoi modi e i suoi tempi. Si tratta non di vere crisi, ma di una condizione diffusa di stress, che può dar luogo in ogni momento a crisi imprevedibili. È probabile che esse diventeranno sempre più numerose e intense. Il che pone il problema della sostenibilità della crescita nel lungo periodo. Quanto alle crisi finanziarie, la loro componente psicologica è fondamentale. L’ha illustrata J.K. Galbraith. Crisi finanziarie ci sono sempre state. Si trattava di perturbazioni patologiche del rapporto tra finanza ed economia reale. Il ruolo della finanza, fondamentale nel processo capitalistico, è quello di indirizzare il risparmio verso gli impieghi più produttivi. Per quanto essenziale, esso è subalterno rispetto agli equilibri che l’evoluzione dell’economia reale comporta: tra consumi e risparmi, tra risparmi e investimenti. Le decisioni di risparmio e di investimento sono però esposte al rischio della speculazione. Il significato essenziale della speculazione sta nella parola stessa. Il «rispecchiamento» dell’economia comporta la possibilità che l’immagine, perturbata da informazioni occasionali, non si limiti a informare il soggetto, ma lo condizioni. Ciò si verifica quando quelle perturbazioni, dovute a informazioni esagerate o distorte, danno luogo a comportamenti cumulativi. Un manufatto o un processo evolutivo in apparenza desiderabile – tulipani in Olanda, oro in Louisiana, terreni in Florida – attrae la mente finanziaria determinando aumenti della domanda generati non dall’aumento dei bisogni ma dalla previsione dell’aumento della domanda. Il prezzo dell’oggetto di speculazione sale. Titoli, terra, oggetti d’arte e altre proprietà, se acquistati oggi, domani varranno di più. Questo incremento e quello prospettato attraggono nuovi acquirenti: questi a loro volta assicurano un ulteriore incremento. Costruendo su sé stessa, la speculazione crea il proprio monumento. Questi fenomeni cumulativi, queste «bolle» speculative sono state promosse nelle economie capitalistiche dal ruolo in esse assunto dalla moneta. È stato soprattutto K. Polanyi a spiegare le conseguenze della mercificazione della moneta. Da misura e intermediaria degli scambi (una istituzione regolatrice dello) essa è diventata oggetto di scambio e di accumulazione. Ciò ha impresso ai fenomeni speculativi una formidabile propulsione. Le crisi finanziarie si sono infittite nella storia del capitalismo moderno. Dai tulipani olandesi all’oro della Louisiana di John Law, dai mari del Sud al crollo del 1929, ogni crisi finanziaria presenta caratteristiche proprie, assai diverse; ma anche un profilo di percorso comune: «dall’euforia al disastro». Secondo Braudel, la prevalenza della finanza è un fenomeno ciclico, caratteristico delle fasi di declino del capitalismo. Ma è indubbio che essa ha assunto una tale portata da far pensare che si tratti di una vera e propria mutazione capitalistica. Questa mutazione ha origine nella liberalizzazione del movimento dei capitali e nella conseguente creazione di un mercato finanziario mondiale ove circolano flussi immensi di denaro e che ha dato origine a un nuovo ceto di intermediari finanziari. Questo ceto ha rapidamente sviluppato la sua potenza e la sua influenza sull’economia mondiale grazie agli strumenti mediatici di cui dispone e alla capacità di creare vera e propria moneta, non riconosciuta per tale, attraverso l’espansione delle emissioni di titoli. In tal modo la nuova classe, che si è presto intesa con la struttura bancaria esistente, modificandone i comportamenti tradizionali nel senso di una sempre maggiore avventurosità, si è posta in grado di modificare lo specchio del mercato finanziario, attivando quel fenomeno di rispecchiamento (speculazione) prima evocato. La modificazione sta nell’avere enormemente ampliato il leverage, il rapporto tra i crediti erogati e il capitale, oltre cento volte. Una colossale ignizione di liquidità. Ne è seguita una enorme espansione dei profitti della finanza, la quale non deve più limitarsi a operare entro uno spazio di mercato definito, ma è in grado di ampliarlo attraverso un sistema quanto mai complesso di strumenti contrattuali (innovazione finanziaria) di difficile comprensione per i risparmiatori e di scarsa trasparenza per gli stessi operatori. La nuova classe, insomma, è in grado di manipolare l’informazione e di realizzare quel paradosso dell’immagine che determina la realtà. Essa acquisisce ricchezza e potere smisurati. La base di questo potere è la mercatizzazione del futuro: la mobilitazione di risorse future ancora inesistenti. Il limite alla loro espansione è l’avidità. Si realizza così il sistema secondo cui il capitalismo è diventato quel particolare regime nel quale i debiti si rinnovano continuamente e non si rimborsano mai. Questo regime è basato su una totale devoluzione di fiducia. Basta una banale incrinatura per determinare un tracollo, con il conseguente avvio di un processo decumulativo (deleverage). Allora vengono alle luce le disinvolte manovre e i veri e propri trucchi che hanno provocato la creazione della mostruosa piramide dell’indebitamento. Questo è il meccanismo esplosivo messo in moto dalla nuova classe dei maghi della finanza. Ma questo è solo parte di una più vasta crisi del capitalismo. La vera e propria controffensiva capitalistica scatenata dalla liberazione dei movimenti di capitale ha messo in moto due grandi processi di mutazione dell’economia. Quello, interno all’economia dominante americana, di un aumento delle diseguaglianze. Quello, internazionale, di uno squilibrio strutturale nell’allocazione del risparmio tra due gruppi di Paesi: gli Stati Uniti e la Cina e i Paesi asiatici. Ambedue questi fenomeni dovrebbero generare una reazione. Delle classi penalizzate dalla diseguaglianza, il primo. Dei Paesi poveri costretti a finanziare il superconsumo dei Paesi ricchi, il secondo. Questa reazione non si verifica. La spiegazione sta, nel primo caso, nell’inflazione finanziaria che consente di finanziare consumi al di là della produzione: l’aumento delle disuguaglianze, prodotto dalla formazione di profitti finanziari, ha una compensazione sociale nell’aumento dei consumi di massa, indotto da una politica di larga permissività del credito. È come se il costo sociale della diseguaglianza si scaricasse sulle generazioni future. Nel secondo caso non c’è alcuna costrizione: Paesi più poveri sembrano felici di finanziare Paesi ricchi perché ciò gli permette di acquistare uno spazio di mercato e, attraverso l’accumulazione dei titoli di credito e di proprietà, una crescente influenza sul mondo delle imprese capitalistiche. È come se la rinuncia ad aumentare nel periodo breve il tenore di vita delle loro masse fosse compensato con un aumento del potere economico e politico nel periodo lungo. Questa condizione è tuttavia alla lunga insostenibile. L’inflazione finanziaria, rappresentata da una massa di titoli pari a quattro volte il prodotto lordo mondiale, ha finito in effetti per provocare una crisi mondiale dagli esiti ancora imprevedibili. E la condizione di disavanzo strutturale degli Stati Uniti non può non determinare una crisi del dollaro (per ora, quella crisi è ritardata dal travaglio dell’euro). Gli stessi dirigenti cinesi sono consapevoli della insostenibilità monetaria di questa condizione, tanto da proporre di resuscitare l’idea keynesiana della moneta unica mondiale. E non possono non preoccuparsi che i contadini cinesi perdano la loro millenaria pazienza. In conclusione: il capitalismo ha i secoli contati. Ma non si può escludere che i suoi deragliamenti, soprattutto le crisi che esso suscita con i suoi eccessi finanziari, abbrevino drammaticamente la conta.