Enciclopedia delle Scienze
    Sociali (1992)
  
  
  di Stefano Zamagni e Gerardo Ragone 
  CONSUMI 
   
  di Stefano Zamagni 
  
  sommario: 1. Introduzione. 2. La posizione
    del consumo nell'economia politica classica. 3. Il consumo come
    determinante della domanda: a) il consumo nel sistema teorico
      keynesiano; b) verifiche empiriche della funzione
      keynesiana del consumo: le teorie del reddito relativo; c) le
      nuove teorie del consumo; d) la ripresa delle tesi
      sottoconsumistiche: Baran e Sweezy. 4. La teoria neoclassica
    del consumo: a) usi teorici della categoria 'consumo' e
      principio della sovranità del consumatore; b) approcci
      alternativi allo studio del comportamento del consumatore. 5.
    Cardinalismo, ordinalismo e preferenze rivelate: a) l'influenza
      del reddito sul consumo: le curve engeliane; b) l'influenza
      del prezzo sulle decisioni di consumo; c) preferenze e
      scelte: l'ordinalismo paretiano. 6. Sviluppi recenti
    dell'analisi economica del consumo. □ Bibliografia. 
    
1. Introduzione
Definendo il consumo come l'atto economico mediante il quale i beni
    vengono distrutti per soddisfare bisogni oppure per produrre nuovi
    beni, si ha una prima distinzione importante tra il consumo
    realizzato nella sfera personale, il cosiddetto consumo finale, e il
    consumo intermedio che si realizza nella sfera della produzione,
    cioè l'impiego di beni o servizi per produrre altri beni o
    servizi. Qui ci si occuperà soltanto della prima accezione,
    cioè del consumo come attività di fruizione di beni o
    servizi da parte di un soggetto economico.
La teoria economica si è occupata del consumo da un punto di
    vista prevalentemente funzionale, soffermando l'attenzione su
    funzioni che si possono far rientrare in tre categorie generali: 1)
    il consumo come mantenimento della capacità produttiva umana;
    2) il consumo come componente della domanda di merci; 3) il consumo
    come attività volta al conseguimento degli obiettivi di un
    agente economico.
La concezione del consumo come condizione della conservazione della
    capacità produttiva umana, e dunque come costo di
    riproduzione della forza lavoro, ha grande rilievo nell'economia
    politica classica e in Karl Marx. I concetti di sussistenza e di
    salario naturale trovano infatti la loro ragion d'essere in questa
    concezione, che genera automaticamente anche la distinzione fra
    consumo necessario - quello di cui è evidente la funzione
    produttiva - e consumo superfluo (o di lusso), che non ha funzioni
    produttive. Tale distinzione non deriva dall'applicazione di
    categorie morali, ma è un risultato dell'analisi della
    struttura sociale che, fin dal Settecento, individuava le principali
    classi sociali servendosi della linea di divisione tra classe
    produttiva e classe oziosa. Il consumo necessario è allora il
    consumo effettuato dai membri della classe produttiva, mentre il
    consumo superfluo è quello dei componenti della classe
    oziosa.
La posizione teorica che mira a spiegare il livello del consumo
    globale, le sue determinanti e il suo ruolo come componente della
    spesa aggregata in rapporto all'occupazione e alla produzione di
    ricchezza è soprattutto legata al nome di John Maynard
    Keynes, anche se essa ha una lunga storia che risale ai
    mercantilisti del XVII secolo e percorre il pensiero fisiocratico e
    il dibattito sul sottoconsumo della prima metà
    dell'Ottocento.
Infine, la nozione del consumo come espressione delle libere scelte
    di mercato di individui il cui obiettivo è il
    soddisfacimento, al più alto grado, di bisogni o preferenze
    è tipica del pensiero neoclassico, per il quale la teoria del
    consumo si riduce senz'altro alla teoria del comportamento del
    consumatore. Vedremo più avanti che la scuola neoclassica ha
    sviluppato, a partire dalla rivoluzione marginalista, tre diversi
    approcci alla teoria del consumatore. 
    
2. La posizione del consumo nell'economia politica
      classica
      
Il consumo, momento marginale e residuale del comportamento
    nei sistemi che precedono la nascita della moderna economia di
    scambio, diviene in quest'ultima uno dei momenti di maggior rilievo.
    Non è quindi casuale che l'inizio di una riflessione
    sistematica sul problema del consumo coincida proprio con la nascita
    della scuola di pensiero classica. Con le parole di Adam Smith: "Il
    consumo è il solo fine di ogni produzione, e non ci si
    dovrebbe mai prendere cura dell'interesse del produttore se non in
    quanto ciò possa tornare necessario per promuovere quello del
    consumatore" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 301). E Ricardo, in modo
    ancora più marcato: "Nessuno produce se non allo scopo di
    consumare o di vendere, e non vende mai se non con l'intenzione di
    comprare qualche altra merce che possa essergli immediatamente utile
    o che possa contribuire alla produzione futura" (v. Ricardo, 1817;
    tr. it., p. 290).
Una prima osservazione si rende a questo punto necessaria. Da queste
    due citazioni parrebbe doversi dedurre che nel sistema classico il
    consumo è lo scopo del processo economico. Eppure
    nell'economia classica manca, per quanto ciò possa apparire
    paradossale, una vera e propria teoria del consumatore. Per
    risolvere il paradosso, vediamo di capire in quale accezione gli
    autori classici impiegano il concetto di consumo.
Come sappiamo, uno dei pilastri dell'edificio teorico classico
    è la distinzione, introdotta da Smith, tra consumo produttivo
    e consumo improduttivo. Il primo è quello necessario alla
    sopravvivenza di coloro (i lavoratori produttivi) che assicurano la
    riproducibilità del processo economico; il secondo è
    il consumo di coloro che non concorrono alla formazione del
    sovrappiù (siano essi lavoratori che consumano più di
    quanto strettamente richiesto dalla sussistenza oppure capitalisti e
    rentiers). La distinzione tra consumo produttivo e non produttivo
    segue dunque, in parallelo, l'analoga distinzione tra lavoro
    produttivo - quello che si scambia direttamente col capitale e crea
    quindi un profitto per il capitalista che lo impiega - e lavoro
    improduttivo - quello che si scambia direttamente con un reddito, e
    genera semplicemente la soddisfazione di un bisogno del consumatore.
Il consumo viene quindi qualificato in rapporto alla produzione,
    così che questa e non quello è la categoria
    fondamentale, il riferimento obbligato per l'analisi. E, infatti, il
    criterio con cui viene in realtà giudicata l'attività
    economica non è la massimizzazione dei consumi, e dunque del
    grado di soddisfacimento dei bisogni che ne sono la causa, ma la
    massimizzazione di quanto resta del prodotto sociale, una volta
    dedotta la quota necessaria alla produzione: il sovrappiù,
    appunto. Ciò equivale a dire che il consumo è solo un
    momento intermedio, seppure necessario, del processo mediante il
    quale il sistema persegue il suo proprio fine, che è la
    formazione e l'estensione del sovrappiù. È quindi
    rispetto a tale fine che si giudica la positività o
    negatività dell'attività di consumo. Ecco
    perché al consumatore, come agente che sceglie fra beni
    diversi disponibili sul mercato, non viene assegnato alcun ruolo
    né nella teoria del valore, né in quella della
    distribuzione del reddito, né, più in generale, nella
    spiegazione della dinamica del sistema.Il ruolo subordinato del
    consumo rispetto alla produzione - quantunque non sia mai
    esplicitamente affermato dagli economisti classici - risulta
    evidente dalla scarsa attenzione che gli autori classici e Marx
    dedicano, nei loro scritti, ai problemi riguardanti il lato della
    domanda e, primo fra tutti, la sua stessa definizione. Non solo il
    termine 'domanda' significa cose diverse per autori diversi, ma
    addirittura abbiamo esempi in cui uno stesso autore impiega nel
    corso di una medesima analisi la nozione di domanda con significati
    assai diversi.
Come spiegare l'apparente contraddizione tra la dichiarazione
    esplicita del consumo come fine dell'attività economica e la
    mancanza, nel pensiero classico, di un qualche serio tentativo di
    sistemazione teorica del problema del consumatore? Quali assunti o
    quali circostanze consentono ai classici di prescindere dalla
    domanda nella costruzione del loro edificio teorico?
Per rispondere è necessario tener presente che una
    caratteristica saliente della metodologia classica è quella
    di adottare un principio di separazione in forza del quale la
    determinazione del prodotto - il cui livello è regolato dalla
    domanda effettiva e la cui composizione dipende da fattori di natura
    socioeconomica - precede logicamente la determinazione dei prezzi
    relativi. Questi ultimi risultano fissati una volta note una delle
    variabili distributive e la struttura del prodotto. Le condizioni
    della domanda non concorrono minimamente alla determinazione dei
    prezzi naturali, i quali risultano funzionalmente indipendenti dal
    sistema delle quantità prodotte. Dove la domanda viene
    chiamata in causa è nella determinazione del livello e della
    composizione del prodotto. Senonché il tipo di società
    e le condizioni storiche che i classici si trovano a osservare sono
    tali da legittimare una sottovalutazione, per così dire, del
    ruolo della domanda rispetto a tale uso teorico.
Non è difficile rendersene conto. Relativamente alla domanda
    di investimento, la teoria classica, con la notevole eccezione di
    Malthus, fa propria la versione iniziale della legge di Say, secondo
    cui la figura del capitalista racchiude in sé le funzioni sia
    del risparmiatore che dell'investitore: in questo modo essa non ha
    più alcun bisogno di affrontare problemi di adeguamento tra
    risparmio e investimento. D'altra parte, per quanto concerne l'altro
    segmento della domanda, quello relativo ai beni di consumo, la
    realtà che i classici osservano è quella tipica di una
    società multicentrata. I beni finali sono classificati in
    categorie distinte - merci salario, merci di lusso, beni strumentali
    - gerarchizzate in base al ruolo specifico che esse ricoprono nel
    mantenimento di ben definiti rapporti sociali. In un quadro del
    genere, eccezion fatta per la sezione opulenta della società,
    la gran massa degli individui è titolare di un reddito a
    livello di sussistenza, storicamente determinato. È allora
    comprensibile che anche in riferimento a questo segmento della
    domanda non abbia molto senso parlare di una composizione del
    prodotto che muta in seguito alle libere scelte dei consumatori sul
    mercato: la forza che le preferenze dei singoli possono esercitare
    sulla composizione del prodotto non può che apparire modesta
    agli occhi degli autori classici. Inoltre i modelli di spesa delle
    masse che i classici osservano restano sostanzialmente inalterati
    nel tempo. Come non scelgono il tipo di lavoro, così i
    lavoratori che i classici, e Ricardo in particolare, si trovano di
    fronte non scelgono né i beni con cui soddisfare i loro
    bisogni né i bisogni stessi da soddisfare. Ciò aiuta a
    comprendere perché nell'economia classica non vi sia posto
    per alcuna ipotesi di razionalità del consumatore. Fino a
    Mill, nessuno dei classici è sfiorato dall'idea che la
    domanda di un bene possa dipendere dai prezzi di tutti i beni, come
    la considerazione del semplice vincolo di bilancio lascia
    chiaramente intendere. 
    
3. Il consumo come determinante della domanda
Due sono gli aspetti sotto i quali si può considerare il
    consumo come determinante della domanda globale. Il primo è
    quello del consumo visto nella sua funzione di sostegno dei livelli
    complessivi di attività e prosperità del sistema
    economico. Come si è anticipato nel cap. 1, questo aspetto ha
    una lunga storia e, dopo un periodo di relativa latenza durante la
    seconda metà dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento,
    è tornato in evidenza soprattutto per opera di John Maynard
    Keynes. Il secondo aspetto è quello del consumo considerato
    all'interno della problematica riguardante le conseguenze del
    passaggio dal capitalismo concorrenziale al capitalismo
    monooligopolistico, ed è l'aspetto studiato, in epoca
    recente, soprattutto da Paul Baran e Paul Sweezy. 
    
a) Il consumo nel sistema teorico keynesiano
L'interesse preminente di Keynes per la spesa monetaria
    aggregata come determinante dei livelli di attività e di
    occupazione lo porta a considerare non problematica la composizione
    del prodotto e dunque irrilevante l'analisi dei fattori da cui essa
    dipende. Poiché tutte le decisioni riguardanti la domanda
    vengono racchiuse nell'unica decisione riguardante la spesa
    monetaria, il problema principale che deve affrontare una teoria
    della domanda effettiva è la determinazione del vincolo sulla
    domanda. La scuola neoclassica aveva posto il reddito come vincolo,
    ma ciò non poteva certo soddisfare le esigenze di chi - come
    Keynes - si prefiggeva di spiegare i livelli del prodotto. La
    soluzione accolta da Keynes consiste nel sostituire la teoria
    tradizionale della domanda basata sull'utilità e sul
    principio di sostituzione con quello che Marshall aveva chiamato il
    "punto di offerta", cioè l'insieme delle decisioni di offerta
    dei produttori.
Il disinteresse di Keynes per il problema della composizione del
    prodotto è dunque la conseguenza diretta della separazione
    netta che egli istituisce tra le determinanti della spesa monetaria
    aggregata e quelle delle funzioni microeconomiche di domanda delle
    merci. Tale separazione, su cui poggia il principio della domanda
    effettiva, trova la sua ragion d'essere nella scoperta della legge
    di decrescenza della propensione al consumo, scoperta che autorizza
    Keynes a relegare in posizione di secondo piano la componente
    consumi della domanda aggregata e a porre al centro dell'analisi la
    componente investimenti. A questo punto non deve essere difficile
    comprendere - e non lo fu certo per Keynes - come le armi
    dell'analisi tradizionale della domanda si spuntino contro
    l'esigenza di spiegare il livello dell'investimento. La moneta e i
    vari mezzi finanziari sono le effettive variabili esplicative della
    domanda di investimento, e sono dunque queste le determinanti ultime
    dei livelli del prodotto e dell'occupazione.
Keynes non parla in modo specifico delle decisioni di consumo
    individuali. Si limita a enunciare una "legge psicologica
    fondamentale" ricavata "a priori dalla nostra conoscenza della
    natura umana" e da "minuti fatti dell'esperienza quotidiana",
    secondo cui "come regola generale e in media" gli individui
    aumentano il proprio consumo all'aumentare del proprio reddito, ma
    in misura minore dell'aumento di questo. Anzi, di regola, gli
    incrementi di reddito provocano incrementi percentuali di consumo
    via via inferiori, cosicché il consumo viene a crescere meno
    che proporzionalmente rispetto al reddito.Chiamando propensione
    media al consumo il rapporto tra il livello del consumo e il livello
    del reddito e propensione marginale al consumo il rapporto tra
    l'incremento del consumo e l'incremento del reddito che l'ha
    provocato, dalle affermazioni precedenti deriva che la propensione
    marginale al consumo è inferiore a quella media.La più
    semplice funzione algebrica che abbia le caratteristiche indicate
    è data da una retta di equazione 
Ci = ai + ciYi, ai>0 e 0<ci<1, (1) 
dove Ci è il consumo e Yi è il reddito dell'individuo
    i-mo e ai e ci sono parametri, il primo dei quali rappresenta
    l'intercetta della retta sull'asse verticale e il secondo la
    pendenza della retta rispetto all'asse orizzontale. In base alle
    definizioni precedenti, si ha che ci, che rappresenta la propensione
    marginale al consumo, è inferiore alla propensione media. La fig. 1 può servire a illustrare le
    proprietà della (1). Nel tratto in cui il reddito è
    compreso tra 0 e Ȳi l'individuo consuma più del proprio
    reddito, e cioè attinge al proprio patrimonio, si indebita o
    vive di sussidi. A livelli di reddito superiori i suoi consumi
    aumentano, ma aumenta anche il risparmio dato dalla differenza tra
    reddito e consumo. Nel generico punto P, la propensione media
    è misurata dal rapporto P=Yi/0=Yi, cioè dall'ampiezza
    dell'angolo α. La propensione marginale è invece misurata da
    Ci/ΔYi, cioè dall'ampiezza dell'angolo β. Come si vede
    immediatamente, α>β.
Se sono note le funzioni individuali del consumo, per passare da
    queste a una funzione che leghi il consumo globale di una
    collettività al suo reddito globale è necessario fare
    delle assunzioni piuttosto restrittive riguardanti la distribuzione
    del reddito tra i diversi individui. È evidente, infatti, che
    l'effetto sul consumo aggregato sarà diverso se il reddito
    è variamente distribuito tra individui con differenti
    propensioni al consumo. Nel caso più semplice, ma anche meno
    realistico, in cui la distribuzione del reddito non muti al mutare
    dello stesso, cioè nell'ipotesi in cui il reddito individuale
    sia sempre una certa percentuale del reddito nazionale, si dimostra
    facilmente che la funzione del consumo globale è ottenibile
    come somma delle funzioni del consumo individuali supposte dello
    stesso tipo (per esempio lineari):
C = a + cY   (2) 
dove 
formula
(n è il numero dei consumatori e γi la quota costante del
    reddito dell'individuo i-mo sul reddito globale, cioè Yi
    =γiY). Quindi, nel caso particolarissimo di una distribuzione del
    reddito invariata, è possibile ricavare per la
    collettività una funzione del consumo univoca rispetto al
    reddito. Non così però in generale, quando siano
    previsti mutamenti significativi nella distribuzione. 
    
b) Verifiche empiriche della funzione keynesiana del consumo: le
      teorie del reddito relativo
L'affermazione che la propensione marginale al consumo è
    sempre inferiore alla propensione media implica che quest'ultima
    diminuisca al crescere del reddito, come si evince dalla fig. 1. Senonché, parecchie indagini
    empiriche, e in particolare il monumentale lavoro di Simon Kuznetz,
    degli anni quaranta e cinquanta hanno dimostrato che, se si
    esaminano le serie temporali di redditi e consumi di un sistema
    economico, si osserva che la propensione media al consumo tende a
    rimanere costante nel tempo anche se, nel periodo considerato, il
    reddito è aumentato di molto. È chiaro che risultati
    del genere contraddicono l'ipotesi su cui è basata la
    funzione keynesiana del consumo, il che ha spinto non pochi studiosi
    a elaborare teorie del consumo basate su assunti meno generici della
    "legge psicologica fondamentale" di Keynes. In particolare, si
    è cercato di dare ragione dei risultati contraddittori da una
    parte facendo esplicito riferimento a fattori soggettivi determinati
    dall'educazione, dalle convenzioni sociali, dal contesto
    istituzionale e così via - fattori esplicitamente considerati
    come dati da Keynes ai fini della determinazione della propensione
    marginale al consumo ("la forza di tutti questi motivi
    varierà enormemente secondo le istituzioni e le
    organizzazioni della società presa in considerazione [...].
    Per quel che riguarda questo libro [...] prenderemo come dato il
    retroterra dei motivi soggettivi per risparmiare e consumare
    rispettivamente": v. Keynes, 1936; tr. it., pp. 109-110) -,
    dall'altra facendo riferimento al ruolo svolto dalla ricchezza nelle
    decisioni di consumo individuali, sulla base del modello fisheriano
    di ottimizzazione intertemporale.
Le teorie del primo tipo vengono usualmente indicate come teorie del
    reddito relativo, quelle del secondo tipo come "nuove teorie del
    consumo", con un'espressione introdotta da M.J. Farrell (v., 1959).
Alla base delle teorie del reddito relativo, la più celebre
    delle quali è quella di J.S. Duesenberry (v., 1949), sta
    l'idea secondo cui le scelte di consumo individuali sarebbero
    influenzate dalle scelte fatte dagli altri (il cosiddetto effetto
    del 'mantenersi al passo con il vicino'). Ne consegue che coloro che
    fruiscono di un più basso livello di reddito avrebbero una
    più alta propensione media al consumo rispetto ai soggetti
    che beneficiano di un livello di reddito più elevato.
    Poiché l'effetto ricordato agisce sulla propensione media al
    consumo delle classi a più basso livello di reddito, non
    v'è alcun motivo per aspettarsi che, nel lungo periodo, un
    incremento del reddito comporti un aumento del consumo aggregato.
D'altro canto, sul consumo aggregato agirebbe, nel breve periodo,
    un'ulteriore determinante, il cosiddetto 'effetto aggancio' (ratchet
    effect), in virtù del quale l'individuo, date le abitudini di
    consumo contratte nei periodi precedenti, anche in presenza di
    diminuzioni cicliche nel livello del reddito tenderebbe a mantenere
    il consumo sui livelli dei periodi precedenti: quanto a dire che la
    propensione marginale al consumo durante tali fluttuazioni
    tenderebbe a oscillare. Da quanto precede si ricava che nel caso in
    cui la serie dei dati osservati fosse molto lunga, la propensione
    media al consumo tenderebbe a risultare stabile in forza
    dell'effetto di emulazione, mentre risulterebbe oscillante, in forza
    dell''effetto aggancio', qualora si considerassero periodi brevi.In
    termini geometrici i fattori illustrati tendono a spostare verso
    l'alto la funzione del consumo, il che rende possibile conciliare i
    risultati delle indagini sui bilanci familiari con quelli che si
    ricavano dai dati forniti dalle serie storiche. Si consideri,
    infatti, la fig. 2. Le rette indicate con Ct, Ct+1,
    Ct+2 rappresentano le funzioni di consumo
    empiricamente stimate mediante indagini su bilanci familiari
    effettuate alle date t, t+1, t+2. Ciascuna di tali funzioni rispetta
    le ipotesi keynesiane. Per comodità esse sono state tracciate
    parallele tra loro, il che implica che la propensione marginale al
    consumo rimanga costante nel tempo. Si indichino ora con Yt,
    Yt+1, Yt+2 e con C(t), C(t+1), C(t+2) i
    redditi e i consumi delle famiglie rappresentative, alle rispettive
    date, quali essi appaiono dalle serie storiche relative all'intero
    sistema. È possibile che, come è indicato nella fig. 2, i punti così individuati
    (cioè C0, C1, C2) giacciano
    tutti lungo una retta uscente dall'origine. In tal caso la stima
    basata sulle serie storiche non può che portare a individuare
    come funzione del consumo la C(Y) che ha per equazione C = cY
    (0<c<1), dove il coefficiente c misura sia la propensione
    media sia quella marginale (infatti formula). In definitiva, si può avere
    una propensione media al consumo che non decresce col passare del
    tempo e all'aumentare del reddito, pur avendosi, in ogni singolo
    momento o periodo, una propensione marginale inferiore a quella
    media (il che lascerebbe presumere una riduzione di quest'ultima al
    crescere del reddito). Dunque una funzione come la (2) si presta
    meglio alla descrizione degli andamenti di breve periodo, mentre una
    del tipo C = cY è più adatta alle analisi di lungo
    periodo. 
    
c) Le nuove teorie del consumo
Gli elementi chiave nelle teorie del reddito relativo sono
    dunque le ipotesi di emulazione e di persistenza negli standard di
    consumo degli individui, e ciò implica che i soggetti
    economici, all'atto di prendere le proprie decisioni, abbiano un
    orizzonte temporale limitato al solo periodo corrente.Al contrario,
    le nuove teorie del consumo si caratterizzano per l'ipotesi di un
    orizzonte temporale lungo, e quindi per l'assunto che un reddito
    futuro scontato abbia, nelle scelte effettuate dal soggetto, la
    stessa importanza di un flusso equivalente di reddito corrente. In
    altri termini, ciò che queste teorie (la teoria del ciclo
    vitale del consumo - di Franco Modigliani, Robert Brumberg e Anthony
    Ando - e la teoria del reddito permanente - di Milton Friedman)
    hanno in comune è l'interpretazione del consumo come
    risultato della scelta, da parte dei soggetti, di piani
    intertemporali di consumo e risparmio - entro un orizzonte temporale
    tanto lungo da coincidere con la vita attesa - vincolati dalla
    ricchezza disponibile e dal reddito atteso. Vediamo invece le
    differenze specifiche.Secondo la teoria del ciclo vitale gli
    individui programmano le proprie decisioni di consumo in modo da
    garantirsi un livello di consumo soddisfacente, cioè non
    troppo variabile, lungo tutto l'arco della propria vita. Sulla base
    di ipotesi adeguate, Modigliani giunge alle seguenti conclusioni: a)
    le persone anziane tendono ad avere una propensione al consumo
    più elevata di quella dei consumatori in età
    lavorativa; b) il consumo dipende non solo dal reddito corrente ma
    anche dalla ricchezza; perciò, se con il passar del tempo e
    come effetto della crescita economica la ricchezza degli individui e
    del sistema aumenta, ci si deve aspettare uno spostamento verso
    l'alto della funzione del consumo, che ostacolerà
    l'altrimenti inevitabile caduta della propensione media; c) se con
    l'andar del tempo si registra un innalzamento dell'età media
    della popolazione, senza un corrispondente aumento dell'età
    di pensionamento, nel sistema aumenterà la quota della
    popolazione che consuma le risorse finanziarie accumulate in
    precedenza e diminuirà quella di coloro che risparmiano e
    accumulano risorse. Si avrà cioè, a livello di
    sistema, un aumento della propensione al consumo e una diminuzione
    di quella al risparmio. Pertanto i sistemi economici soggetti a un
    rapido invecchiamento della popolazione rischiano di veder aumentare
    nel tempo la propensione al consumo pur in presenza di aumenti,
    anche rilevanti, del reddito.
La teoria del reddito permanente di Friedman parte da un'ipotesi
    empirica simile a quella di Modigliani, e cioè che i
    consumatori preferiscono un profilo temporale del consumo stabile
    piuttosto che uno molto variabile in relazione alla
    variabilità del reddito. Inoltre anche Friedman accetta
    l'impostazione secondo cui il consumo dipende, quasi esclusivamente,
    dal reddito, ma si chiede di quale reddito si tratti. Non certo di
    quello corrente, perché questo può avere una notevole
    variabilità nel tempo. La tesi di Friedman è che
    l'individuo decida il proprio consumo tenendo conto del reddito di
    lungo periodo o reddito permanente, che egli stima calcolando una
    media ponderata dei redditi passati e attribuendo maggior peso ai
    redditi più recenti e pesi via via minori a quelli più
    lontani.
Questa procedura di stima fa sì che il reddito permanente
    risulti meno disturbato dei redditi passati da fluttuazioni di
    carattere accidentale, così che l'andamento temporale del
    consumo dovrebbe risultare più uniforme di quello del reddito
    corrente. La maggior instabilità verrebbe invece a
    riflettersi sull'andamento del risparmio corrente: una conclusione
    che vale anche per la teoria del ciclo vitale, in quanto le
    fluttuazioni accidentali del reddito corrente verrebbero a
    compensarsi nel lungo periodo.
Le nuove teorie del consumo, oltre a far dipendere il consumo da
    fattori strutturali come la composizione demografica della
    popolazione e il tasso di crescita della ricchezza, si distaccano da
    Keynes soprattutto perché ipotizzano che la scelta dei piani
    di consumo sia influenzata in modo determinante dal tasso di
    interesse e dai prezzi dei beni, fattori cui Keynes assegnava invece
    un ruolo secondario. La base di queste teorie sta nella teoria
    microeconomica del comportamento del consumatore in situazioni di
    mercato date, di cui diremo più avanti. In questo senso
    entrambe le reinterpretazioni della funzione del consumo di Keynes
    possono essere definite neo-fisheriane piuttosto che keynesiane, dal
    momento che il loro vero principio ispiratore è tratto da
    Irving Fisher. 
    
d) La ripresa delle tesi sottoconsumistiche: Baran e Sweezy
Un'altra posizione critica nei confronti di Keynes, sostenuta da
    autori come Joseph Steindl (v., 1952), Paul Baran e Paul Sweezy (v.
    Baran e Sweezy, 1966), è quella che in qualche modo si
    rifà alle tesi sottoconsumistiche, ispirandosi a Karl Marx e
    a Michał Kalecki. In un passo del Capitale Marx scrive: "La causa
    ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre la
    povertà e la limitazione di consumo delle masse in contrasto
    con la tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze
    produttive a un grado che pone come unico suo limite la
    capacità di consumo assoluta della società" (v. Marx,
    1867-1894; tr. it., vol. III, p. 569). Non pochi commentatori hanno
    interpretato il brano come un'adesione da parte di Marx alle tesi
    sottoconsumistiche. In realtà Marx respinge la teoria
    sottoconsumistica di tipo ingenuo, secondo cui le masse sfruttate
    non possono comperare ciò che un apparato produttivo, che si
    deve espandere continuamente, produce senza sosta. Marx considera
    ingenua la posizione di Rodbertus e di Proudhon secondo cui in
    periodi di prosperità la quota dei salari sul reddito
    nazionale diminuisce determinando una caduta del potere d'acquisto
    dei lavoratori e perciò una crisi di sottoconsumo. In
    effetti, Marx accoglie ed elabora la tesi della sovrapproduzione
    secondo cui la crisi si verificherebbe non perché si siano
    prodotte relativamente troppo poche merci destinate al consumo
    (degli operai o dei capitalisti), ma al contrario perché se
    ne sono prodotte troppe, rispetto non al consumo, ma all'esigenza di
    mantenere la giusta proporzione tra consumo e valorizzazione del
    capitale. Dunque, l'intero processo di accumulazione si risolve in
    sovrapproduzione, la quale pone, a sua volta, le premesse per
    l'insorgere delle crisi. Pertanto la ripresa, in epoca recente,
    della tesi sottoconsumistica ad opera di Baran e Sweezy si
    può far risalire a Marx solo in parte e in senso molto lato.
    In effetti, l'analisi dei due autori si pone come un tentativo di
    aggiornamento del quadro concettuale in cui si muoveva Marx, un
    quadro che non poteva certo tener conto delle conseguenze derivate
    dal prevalere di forme di capitalismo monopolistico. Se il consumo
    è sistematicamente incapace di utilizzare tutta la
    capacità produttiva creata con l'accumulazione del capitale,
    la radice del problema va ricercata - secondo Baran e Sweezy - nel
    modo in cui il capitalismo contemporaneo risolve i problemi legati
    alla produzione e distribuzione del reddito.
L'idea fondamentale è che sia il grado di concentrazione
    mono-oligopolistica dell'industria a determinare la distribuzione
    fra profitti e salari. D'altra parte, è un fatto che la
    propensione al consumo dei percettori di salari è più
    alta di quella dei percettori di profitti. E ciò per due
    ragioni distinte. In primo luogo i lavoratori hanno in media un
    reddito più basso di quello dei percettori di altre forme di
    reddito e perciò, come indicano gli studi sui bilanci
    familiari, hanno una propensione al consumo più elevata. In
    secondo luogo i profitti non affluiscono direttamente e nella loro
    totalità alle famiglie. La quota dei profitti non distribuiti
    viene integralmente risparmiata (e investita) dalle imprese
    determinando, indirettamente, soltanto un debole aumento della
    propensione al consumo delle famiglie proprietarie di azioni che
    vedrebbero aumentare il valore del proprio patrimonio. Si ha
    pertanto che una variazione nella distribuzione del reddito a favore
    dei lavoratori provoca un aumento della propensione media al consumo
    della collettività; e viceversa quando la distribuzione varia
    contro i salariati e a favore dei percettori di altri redditi.
Come si comprende, la critica implicita a Keynes è di aver
    trascurato il collegamento strutturale fra sottoconsumo e
    distribuzione del reddito, quale si realizza per il tramite
    dell'organizzazione dell'industria. È la crescita del
    'capitale monopolistico' a far sì che la quota del
    sovrappiù tenda ad aumentare in misura maggiore dell'aumento
    della produzione totale, senza che al tempo stesso entri in funzione
    un adeguato meccanismo per il suo assorbimento.
La spiegazione che Baran e Sweezy offrono della tendenza del
    sovrappiù ad aumentare deriva dal modo in cui essi intendono
    il meccanismo della determinazione dei prezzi. La struttura sempre
    più oligopolistica dei mercati contemporanei è tale
    che i prezzi non sono determinati in base alle forze della domanda e
    dell'offerta (come appunto avviene nei mercati perfettamente
    concorrenziali) ma - come è efficacemente spiegato da Paolo
    Sylos Labini (v., 1957) - in base a regole del tipo 'costo pieno'
    (full cost pricing). Ciò comporta una tendenza alla crescita
    dei margini lordi di profitto delle imprese e quindi della quota di
    profitti sul reddito. Secondo Baran e Sweezy nel capitalismo
    contemporaneo la tendenza del sovrappiù a crescere
    sostituisce la tendenza del saggio di produzione a cadere,
    caratteristica quest'ultima del capitalismo concorrenziale cui
    pensava Marx. Ne deriva che nel capitalismo monopolistico le cause
    della crisi vanno individuate nella sfera della realizzazione
    piuttosto che in quella della produzione di plusvalore. Il
    sovrappiù può essere consumato, investito oppure
    sprecato. Ma in un'economia oligopolistica solo una parte del
    sovrappiù può essere assorbita dagli investimenti dei
    capitalisti e dai consumi dei lavoratori. Infatti, è
    bensì vero che nuovi investimenti potrebbero assorbire il
    sovrappiù, ma - in quanto aumentano la capacità
    produttiva - i nuovi investimenti tenderebbero ad accrescere i
    profitti, aumentando così il sovrappiù, il che
    aggraverebbe il problema. L'unica valvola di sfogo è
    rappresentata dalle varie forme di 'spreco': le spese crescenti di
    pubblicità da parte del sistema delle imprese; il consumo
    opulento dei ceti medio-alti della popolazione; la spesa militare e
    civile dello Stato. Come si intuisce, ricompare dietro queste forme
    di 'spreco' la categoria classica del consumo superfluo visto come
    la risposta del capitalismo maturo al problema del sottoconsumo. 
    
4. La teoria neoclassica del consumo
a) Usi teorici della categoria 'consumo' e principio della
      sovranità del consumatore
Se ci si interroga sull'uso specifico della categoria 'consumo'
    all'interno dell'economia neoclassica, nella versione walrasiana, si
    trova che il ruolo a essa assegnato è, in primo luogo, quello
    di cardine della teoria simmetrica del valore. È infatti sul
    principio unificante della domanda e dell'offerta che il programma
    neoclassico fonda la determinazione dei prezzi relativi delle merci
    unitamente alla distribuzione e alla composizione dell'output.
Di qui l'esigenza di formulare una teoria che sappia spiegare, in
    primo luogo, come gli individui arrivino a manifestare i loro piani
    di consumo (teoria del consumatore) e, secondariamente, come i
    messaggi dei consumatori vengano inviati al mercato per costituire
    la domanda complessiva di merci (teoria della domanda). Ma, a ben
    considerare, le teorie del consumatore e della domanda sono chiamate
    ad assolvere anche un'altra funzione all'interno del sistema teorico
    neoclassico.
Per comprendere tutto ciò è necessario tenere a mente
    che il pensiero neoclassico non si propone semplicemente di spiegare
    il funzionamento di un'economia di mercato di tipo capitalistico, ma
    anche di dimostrare che questa forma di organizzazione è, tra
    quelle possibili, la forma che realizza un 'ottimo sociale':
    ottimalità da intendersi nel duplice senso di equità
    dei risultati che il sistema garantisce a ogni individuo e di
    efficienza economica della configurazione produttiva che esso
    realizza. Relativamente al primo aspetto, si tratta di dimostrare
    che in un'economia perfettamente concorrenziale non esiste alcuna
    forma di sfruttamento, né a livello di classi sociali,
    né a livello di rapporti intersoggettivi. A ciò
    provvede la teoria neoclassica della distribuzione del reddito,
    fondata sul principio della produttività marginale:
    poiché a ciascun agente viene assegnata una quota di reddito
    correlata al contributo che questi ha dato alla sua formazione, non
    ha senso parlare di redditi privilegiati e, tanto meno, di
    appropriazione indebita - da parte di alcuni - di quote del prodotto
    sociale spettanti ad altri. Relativamente al secondo aspetto
    dell'ottimalità, si tratta invece di dimostrare che
    un'economia capitalistico-concorrenziale realizza una configurazione
    produttiva che corrisponde in pieno alle preferenze dei consumatori.
    Si può in tal modo affermare che sono i consumatori - quali
    destinatari finali dell'intera attività produttiva - a
    determinare in ultima istanza, con le loro decisioni di consumo, le
    scelte in campo produttivo. Conviene soffermare ora l'attenzione su
    tale aspetto, che è centrale nel sistema teorico neoclassico.
Con l'avvento della rivoluzione marginalista (gli anni settanta del
    secolo scorso) si assiste a una radicale riformulazione dei termini
    del discorso economico. Ciò che muta è, in
    particolare, il giudizio di economicità dell'attività
    produttiva, che trova il suo fondamento nel momento del consumo,
    cioè nella soddisfazione dei bisogni: una certa
    configurazione produttiva dovrà preferirsi a un'altra se
    soddisfa meglio della seconda i bisogni degli individui. Solo il
    punto di vista di questi ultimi in quanto consumatori conta al
    momento di stabilire il funzionamento di una data economia. Le
    imprese e gli altri centri decisionali sono entità anonime e
    'senza volto'. Che un'impresa consegua profitti o fallisca non ha,
    di per sé, alcuna implicazione in termini di benessere; ma
    che un consumatore peggiori o migliori la propria situazione
    è della massima rilevanza. Il consumatore è dunque la
    figura centrale, tanto centrale da risultare sovrano. Il celebre
    principio della 'sovranità del consumatore', infatti,
    equivale nella sostanza all'affermazione secondo cui il consumatore,
    consapevolmente e razionalmente, mediante la sua domanda di mercato
    orienta l'offerta in modo tale che questa soddisfi i suoi bisogni
    sulla base di ben definite scale di priorità, graduate dal
    prezzo.
Che poi, talvolta, la composizione merceologica della domanda non
    corrisponda alla composizione in merci dell'offerta - così
    che possono prodursi, alternativamente, fenomeni di sottoproduzione
    o di sovrapproduzione parziale - non compromette la validità
    della teoria, dal momento che non vi sono livelli permanenti di
    reddito e di produzione in corrispondenza dei quali la domanda non
    è in grado di assorbire l'offerta. Quest'ultima è
    sempre collegata alla propria domanda perché, come insegnava
    J.-B. Say, "i prodotti si scambiano con prodotti". Il consumatore
    è sempre libero sul mercato, sa quello che vuole e si
    comporta razionalmente per ottenerlo.
Naturalmente, non mancano rigorose obiezioni a questa linea
    interpretativa. A parte Marx, una voce di dissenso è
    già presente nel pensiero classico. Per Malthus, domanda e
    offerta non tendono necessariamente ad adeguarsi. Di qui la ben nota
    tesi secondo cui il consumo improduttivo (il consumo, cioè,
    della classe improduttiva dei proprietari terrieri) deve essere
    visto come elemento indispensabile allo svolgimento del processo
    economico. Occorrerà tuttavia attendere Keynes perché
    la constatazione di un possibile divario tra produzione e spesa
    assurga a proposizione teorica in grado di togliere fondamento al
    principio stesso della sovranità del consumatore.Invero, una
    volta riconosciuta (perché empiricamente accertata) la
    possibilità di squilibri permanenti tra domanda e offerta, il
    comportamento razionale e la libertà di scelta del
    consumatore non sono più in grado di assicurargli il
    soddisfacimento pieno dei suoi bisogni, secondo le priorità
    da lui fissate in base al suo reddito e ai prezzi delle merci. Al
    contrario, egli dovrà adeguare il suo comportamento alle
    fluttuazioni dell'offerta, vale a dire alla quantità e
    qualità delle merci disponibili sul mercato - quantità
    e qualità che possono, anche nel lungo periodo, non
    corrispondere affatto alle sue scelte.
Quanto detto indica il posto di rilievo occupato dal principio della
    sovranità del consumatore nel dibattito tra le varie scuole
    di pensiero economico, anche per le implicazioni di politica
    economica che da esso inevitabilmente discendono. In particolare, si
    riesce ora a comprendere perché il pensiero neoclassico,
    nella misura in cui accoglie in pieno quel principio, non può
    fare a meno di una teoria del comportamento del consumatore. 
    
b) Approcci alternativi allo studio del comportamento del
      consumatore
Nella spiegazione della curva della domanda compaiono due
    insiemi di variabili: quelle osservabili (i prezzi delle merci, le
    quantità acquistate, il reddito dei soggetti) e quelle che
    non possono essere osservate (le preferenze o, più in
    generale, tutto quanto ha a che fare con la sfera decisionale del
    soggetto). Obiettivo centrale della teoria neoclassica è
    stabilire un collegamento, una sorta di relazione causale, tra i due
    ordini di variabili.
L'idea di base è che il consumatore possegga una ben definita
    struttura di preferenze esprimibili mediante una certa relazione di
    preferenza tra panieri alternativi di beni. Il problema della
    domanda è allora teoricamente risolto se si riesce a
    dimostrare che la funzione di domanda, la quale sintetizza tutte le
    variabili osservabili, deriva da una certa relazione di preferenza,
    nel senso che, quali che siano i prezzi dei beni e il reddito del
    soggetto, il paniere acquistato è veramente quello preferito.
    Stando così le cose, si dirà che la relazione di
    preferenza genera la funzione di domanda. L'esigenza di un'analisi
    del comportamento del consumatore nasce dunque dalla
    necessità di individuare quali restrizioni occorre imporre
    alla relazione di preferenza affinché essa sia in grado di
    generare una funzione di domanda dotata di certe proprietà.
Il problema del consumatore può essere sinteticamente posto
    nei seguenti termini: data una certa configurazione dei prezzi e del
    reddito, il consumatore è tenuto a scegliere tra panieri
    alternativi di beni - tutti appartenenti al suo campo di scelta -
    quello che il criterio di razionalità gli indica come
    ottimale. Ora, poiché prezzi, reddito e beni rappresentano,
    dal punto di vista del singolo, variabili esogenamente determinate,
    cioè dei parametri, il problema del consumatore si riduce a
    quello di attribuire un contenuto specifico al criterio di
    razionalità.
La teoria neoclassica ha sviluppato, nel corso del tempo, tre
    diversi approcci alla formulazione del criterio di
    razionalità del consumatore. Il primo, in senso storico,
    è quello dei fondatori della scuola soggettivista (Hermann
    Gossen, William S. Jevons, Carl Menger, Friedrich von Wieser). Sua
    caratteristica centrale è di esprimere la struttura
    preferenziale del consumatore mediante una funzione di
    utilità cardinale. Il secondo approccio, legato ai nomi di
    Vilfredo Pareto, Eugen Slutsky, John Hicks, Roy G. Allen, ha il suo
    fondamento nella nozione di utilità ordinale. La versione
    moderna di questo approccio, nota come teoria delle scelte, è
    stata sviluppata, a partire dal secondo dopoguerra, da Kenneth
    Arrow, William M. Gorman, Hirofumi Uzawa, Gerard Debreu. Lo schema
    di analisi adottato dai teorici del modello della rational choice
    è quello tipico di ogni assiomatizzazione: si parte da un
    certo insieme di postulati riguardanti la struttura delle preferenze
    del consumatore e poi, per deduzione logica, si arriva alla
    dimostrazione della legge della domanda. Il terzo approccio, infine,
    è quello delle preferenze rivelate, originariamente dovuto a
    Paul A. Samuelson e a Hendrik S. Houthakker. 
    
5. Cardinalismo, ordinalismo e preferenze rivelate
Allo scopo di mettere a fuoco i tratti essenziali dei tre
    approcci, si pensi a un ipotetico consumatore. Le sue decisioni di
    spesa per un certo arco di tempo, poniamo un anno, determinano il
    suo bilancio, che eguaglia il reddito corrente più i risparmi
    passati più i prestiti meno i risparmi correnti. I panieri di
    beni che il consumatore può acquistare sono limitati dal suo
    vincolo di bilancio e dai prezzi dei beni stessi, in sostanza dal
    suo potere reale d'acquisto.Se per semplicità assumiamo che i
    beni acquistabili siano due soli - cibo e vestiario - possiamo
    rappresentare le loro varie combinazioni come nella fig. 3. Così, se il soggetto ha un
    bilancio, R, di 1.000 lire, e se il prezzo, p₁, del cibo
    è 40 lire e il prezzo, p₂, del vestiario è
    20 lire, egli può acquistare 25 unità di cibo (punto
    A), oppure 50 unità di vestiario (punto B), oppure
    combinazioni come 8 unità di cibo e 34 di vestiario (punto
    C), e così via. Tutti i punti situati sul segmento AB
    denotano combinazioni di beni per il cui acquisto il consumatore
    spende interamente il suo bilancio. Pertanto p1x1 + p2x2 = R, dove x2 sta per la
    quantità acquistabile del primo bene e x2 per la
    quantità acquistabile del secondo bene. Un punto interno al
    triangolo 0AB, quale H, è tale per cui non tutto il bilancio
    viene speso; mentre un punto esterno al medesimo triangolo, quale K,
    è un punto irraggiungibile con quel dato bilancio. La linea
    AB, che possiamo chiamare linea di bilancio, rappresenta dunque la
    frontiera che separa l'insieme dei panieri economicamente
    accessibili dall'insieme di quelli economicamente non accessibili al
    consumatore. La pendenza (negativa) della linea di bilancio è
    misurata dal rapporto tra i prezzi dei beni (p1/p2).
La fig. 3 mostra anche le implicazioni delle
    variazioni dei prezzi dei beni. Se i prezzi dei due beni
    raddoppiano, la linea di bilancio diventa la DE, che è
    parallela alla AB dal momento che il rapporto dei prezzi non
    è mutato. Dunque variazioni equiproporzionali dei prezzi non
    mutano la pendenza della linea di bilancio, mentre modificano la sua
    posizione, cioè a dire la sua distanza dall'origine. Un
    aumento equiproporzionale dei prezzi, con il bilancio immutato,
    equivale, nella sostanza, a una diminuzione del bilancio con prezzi
    invariati. Pertanto, se il bilancio a disposizione del consumatore
    aumenta, fermi restando i prezzi, la linea di bilancio si sposta
    verso destra parallelamente a se stessa e viceversa. Infine, se il
    prezzo del cibo resta immutato, mentre raddoppia il prezzo del
    vestiario, la linea di bilancio diventa la AE, la cui pendenza
    è doppia della AB. 
    
a) L'influenza del reddito sul consumo: le curve engeliane
Assumendo che reddito e bilancio di un consumatore si eguaglino
    sempre, si può studiare la relazione tra andamento del
    reddito di un consumatore e quantità domandate dei vari beni.
Un importante punto di partenza è rappresentato da un
    pionieristico contributo dello statistico tedesco Ernst Engel,
    pubblicato nel 1857 e dedicato all'analisi delle connessioni tra
    livello del reddito e struttura dei consumi. In tale lavoro viene
    enunciata la celebre 'legge di Engel': "Più povera è
    una famiglia, maggiore è la percentuale della spesa totale
    destinata all'acquisto di generi alimentari"; e inoltre: "Più
    ricca è una nazione, più piccola è la
    percentuale di generi alimentari nella spesa totale". Ciò
    significa che all'aumento del reddito i soggetti mutano la
    proporzione in cui domandano i vari beni. Si osservi la fig. 4, in cui sono tracciate tre diverse
    curve di domanda rispetto al reddito.
Le curve D2 e D3 evidenziano l'esistenza di
    un livello di saturazione, geometricamente rappresentato dalla linea
    orizzontale tratteggiata. Nel caso della D2 si parla di
    saturazione assoluta: una volta arrivato al livello di reddito
    ¯R, il consumatore, anziché aumentare, diminuisce la
    quantità domandata del bene. Nel caso della D3 ci
    troviamo di fronte a una saturazione relativa: al crescere del suo
    reddito il soggetto aumenta la quantità domandata del bene
    ma, superato il livello di reddito =R, tende a stabilizzare i suoi
    consumi. Infine, il caso della D1 è quello in cui
    all'aumentare del reddito diminuisce la quantità domandata
    del bene. Al di là delle forme specifiche sopra indicate,
    è importante sottolineare che non esiste una forma unica
    della curva di domanda rispetto al reddito, valida per qualsiasi
    categoria di beni. Esiste piuttosto un ventaglio di curve engeliane
    di domanda: per certe categorie di beni, i cosiddetti beni di lusso,
    la domanda aumenta più che proporzionalmente rispetto al
    reddito; per i beni di primaria necessità, la quantità
    consumata aumenta meno che proporzionalmente rispetto al reddito;
    infine, per i cosiddetti beni inferiori, la quantità
    domandata dal consumatore diminuisce all'aumentare del reddito.
Dopo i pionieristici contributi di Engel, la ricerca empirica ha
    notevolmente esteso la conoscenza dei nessi tra domanda di beni e
    livelli di reddito. Da un lato, si è constatato che per
    diversi gruppi di beni è diverso l'ammontare del reddito in
    corrispondenza del quale viene raggiunto il livello di saturazione
    (assoluto o relativo a seconda dei casi); dall'altro, si è
    scoperto che quanto più alto è il reddito di un
    soggetto tanto più diversificata è la struttura dei
    suoi consumi. Il che significa che, all'aumentare del reddito, si
    verifica soprattutto un mutamento qualitativo, e cioè
    strutturale, dei consumi: il soggetto diminuisce, in senso assoluto
    o relativo, il consumo di certi beni per dirigere la sua scelta su
    altre categorie di beni, sempre più diversificate. 
    
b) L'influenza del prezzo sulle decisioni di consumo
Cosa accade alla quantità consumata di un bene al variare
    del suo prezzo? Si consideri una situazione in cui il consumatore ha
    un bilancio di lire 1.000 da spendere nell'acquisto di due beni,
    cibo e vestiario. Il prezzo del vestiario rimane fermo a lire 20,
    mentre il prezzo del cibo passa da lire 40 a lire 50. Nella fig. 5 la AB denota la 'vecchia' linea di
    bilancio, la AC la 'nuova' linea di bilancio. Come si può
    notare, l'aumento del prezzo del cibo produce due effetti sulla
    linea di bilancio: ne modifica la pendenza (muta, infatti, il
    rapporto dei prezzi) e ne sposta la posizione verso l'origine,
    così da restringere il campo di scelta del consumatore.Il
    secondo effetto della variazione del prezzo è, in un certo
    senso, simile all'effetto di una riduzione del reddito del
    consumatore, nel senso che entrambi riducono il suo potere
    d'acquisto, ma è opportuno separare i due effetti. A tale
    scopo si assuma che quando il prezzo del cibo è di lire 40,
    il consumatore scelga la combinazione di beni indicata nella fig. 5 dal punto D. In seguito all'aumento del
    prezzo del cibo a lire 50, la medesima combinazione verrebbe a
    costare lire 1.150, quanto a dire che 150 è la variazione
    compensativa del reddito necessaria a controbilanciare l'effetto
    della variazione del prezzo del cibo. La linea di bilancio EF
    rappresenta una situazione compensata in cui il prezzo del cibo
    è di lire 50, il prezzo del vestiario è di lire 20 e
    il bilancio della famiglia è di lire 1.150. Siamo ora in
    grado di analizzare separatamente i due effetti della variazione del
    prezzo.
Nella situazione compensata il consumatore è in grado di
    acquistare, se lo desidera, il paniere D, così che, rispetto
    alla situazione iniziale, la sua posizione di benessere non risulta
    peggiorata. Ora, il confronto delle due situazioni - iniziale e
    compensata - ci consente di esaminare la misura in cui il
    consumatore sostituisce l'un bene all'altro in seguito a variazioni
    del rapporto dei prezzi, senza però che il suo potere reale
    d'acquisto risulti minimamente ridotto. Questa variazione della
    quantità domandata è l'effetto di sostituzione della
    variazione dei prezzi relativi.
Si è detto che nella situazione compensata il consumatore
    può acquistare D, cioè lo stesso paniere acquistato
    nella situazione iniziale, e questo significherebbe che non vi
    è sostituzione alcuna tra i beni, e che l'effetto di
    sostituzione è nullo. Se acquista un paniere situato sul
    segmento DE - poniamo G - l'effetto di sostituzione sulla domanda di
    cibo è negativo: il prezzo del cibo è aumentato e la
    quantità domandata dello stesso è diminuita. Infine,
    se acquista un paniere situato sul segmento DF - ad esempio H -
    l'effetto di sostituzione sulla domanda di cibo è positivo:
    è aumentato il prezzo del cibo, ma anche la quantità
    domandata dello stesso.
In realtà, se l'effetto di sostituzione risulta positivo, il
    consumatore si comporta in modo incoerente. Infatti, nella
    situazione iniziale egli sceglie D pur potendo acquistare H, e
    questa scelta rivela che il soggetto preferisce D ad H; d'altro
    canto, nella situazione compensata egli sceglie H, anche se potrebbe
    continuare a scegliere D, rivelando di preferire ora H a D. Di qui
    l'incoerenza di comportamento.
Ebbene, l'assioma delle preferenze rivelate esclude tale
    possibilità: se il consumatore sceglie il paniere x in una
    situazione in cui il paniere y è pure accessibile, egli non
    procederà poi a scegliere y in una qualunque altra situazione
    in cui x sia ancora accessibile. L'assioma implica perciò che
    il consumatore non sceglierà alcun paniere situato sul
    segmento DF nella situazione compensata, dato che D è ancora
    accessibile. In altri termini, esso esclude che l'effetto di
    sostituzione possa risultare positivo e quindi assicura che la
    quantità domandata del bene diminuisce (o resta invariata)
    quando il suo prezzo aumenta.
Nella situazione compensata la linea di bilancio è EF; nella
    nuova situazione, quella cioè che viene a determinarsi dopo
    l'aumento del prezzo del cibo, la linea di bilancio è AC.
    Come si nota, AC ed EF sono tra loro parallele; infatti i prezzi
    sono gli stessi nelle due situazioni. Ora, l'analisi engeliana della
    domanda ci dice che la domanda di beni normali (beni di lusso e beni
    di primaria necessità) è più bassa nella
    situazione nuova che non nella situazione compensata, dal momento
    che la AC è più vicina all'origine della EF; la
    domanda di beni inferiori è invece maggiore nella situazione
    nuova che non in quella compensata. Per definizione, la variazione
    della domanda di un bene dovuta al passaggio dalla situazione
    compensata alla situazione nuova è l'effetto di reddito
    associato alla variazione del prezzo di quel bene. Pertanto, se
    nella situazione compensata il consumatore domanda il paniere G,
    nella nuova situazione egli acquisterà: 1) un paniere situato
    sul segmento KA se il cibo è un bene normale (il punto K ha
    la medesima ordinata del punto G), in quanto ogni paniere su KA
    include quantità minori di cibo rispetto a G e, come
    già sappiamo, la domanda di un bene normale decresce quando
    il reddito diminuisce; 2) un paniere situato sul segmento KC se il
    cibo è un bene inferiore, dato che ogni paniere su KC
    contiene quantità maggiori di cibo rispetto a G e la domanda
    di un bene inferiore aumenta al diminuire del reddito.
La variazione della domanda di un bene dovuta alla variazione del
    suo prezzo, vale a dire l'effetto prezzo, è la somma
    algebrica degli effetti di reddito e di sostituzione. Ora,
    poiché l'effetto di sostituzione è sempre negativo e
    l'effetto di reddito fa diminuire la domanda di un bene normale il
    cui prezzo è aumentato, si conclude che la domanda di un bene
    normale diminuisce all'aumentare del suo prezzo e viceversa:
    è la celebre legge della domanda, la quale resta valida nel
    caso di beni normali. Per un bene inferiore, invece, mentre
    l'effetto di sostituzione continua a risultare negativo, l'effetto
    di reddito risulta positivo. L'effetto prezzo dipende perciò
    da quello dei due effetti che sarà dominante: la domanda di
    un bene inferiore diminuisce all'aumentare del suo prezzo e
    viceversa qualora l'effetto di sostituzione prevalga sull'effetto di
    reddito.
D'altro canto, nel caso in cui sia l'effetto di reddito a dominare
    quello di sostituzione, si ha una violazione della legge della
    domanda, perché all'aumentare del prezzo del bene la domanda
    dello stesso aumenta. È questo il 'paradosso di Giffen', dal
    nome di Robert Giffen, l'economista statistico inglese del XIX
    secolo che per primo attirò l'attenzione degli studiosi su
    una plausibile eccezione alla legge della domanda. Dunque la domanda
    di un bene inferiore aumenta all'aumentare del suo prezzo quando
    l'effetto di reddito supera quello di sostituzione.È chiaro
    che, perché si possa verificare la situazione del paradosso
    di Giffen sono necessarie due condizioni: che si tratti di un bene
    inferiore e che la percentuale di reddito destinata all'acquisto del
    bene in questione sia piuttosto rilevante. 
    
c) Preferenze e scelte: l'ordinalismo paretiano
La conoscenza del solo assioma delle preferenze rivelate ci
    permette di predire la direzione delle variazioni di domanda dei
    beni conseguenti alle variazioni dei prezzi degli stessi. Se fossimo
    in grado di conoscere i gusti ovvero la struttura preferenziale del
    consumatore, potremmo conoscere anche l'entità delle
    variazioni di domanda e non solo la direzione.Per descrivere le
    preferenze del soggetto, la teoria delle scelte parte dalla nozione
    di relazione di preferenza o di indifferenza tra panieri di beni.
    L'assunto è che il consumatore sia in grado di confrontare
    fra loro coppie qualsiasi di panieri, poniamo x e y, e di decidere,
    a confronto avvenuto, se preferisce x a y oppure y a x, oppure
    ancora se x e y sono per lui indifferenti nel senso che entrambi i
    panieri soddisfano allo stesso modo quei bisogni al cui
    soddisfacimento è orientata la sua attività di
    consumo.
Indicando con P la relazione di preferenza e con I la relazione di
    indifferenza, scriveremo xPy per significare che il soggetto
    preferisce x a y, e xIy per indicare che egli non ha motivo di
    preferire x a y. Quando un consumatore è sempre in grado di
    decidere quale delle seguenti relazioni tra due panieri qualsiasi
    è per lui rilevante - xPy, yPx, xIy - si dice che egli
    possiede un campo ordinato di preferenze. Una proprietà
    importante delle relazioni P e I è quella che si riferisce
    alla coerenza delle scelte del soggetto, e viene resa esplicita
    mediante il postulato di transitività dell'ordinamento di
    preferenza: dati tre panieri, x, y, z, se xPy e yPz, allora xPz e,
    se xIy e yIz, allora xIz. Il significato operativo del postulato
    è di scongiurare la formazione di cicli nel campo ordinato di
    preferenze dell'individuo. Infatti, se si avesse, poniamo, xPy, yPz,
    zPx, si verrebbero a creare situazioni nelle quali il soggetto
    dichiarerebbe di preferire x a z e altre nelle quali dichiarerebbe
    di preferire z a x, cosa che manifesterebbe un comportamento
    incoerente e contraddittorio.
Sulla base di quanto precede è possibile formulare il
    criterio razionale di scelta del consumatore: data libertà di
    scelta, il soggetto sceglie, tra tutti i panieri appartenenti al suo
    campo di scelta, il paniere x* tale che x*Py, dove y denota un
    qualsiasi paniere. La qualificazione di razionalità discende
    dal presupposto che la preferenza denoti benessere: se il
    consumatore preferisce x a y si deve presumere che il consumo di x
    aumenti il suo benessere più di quanto non faccia il consumo
    di y. Ecco perché egli è razionale se sceglie il
    paniere x. Negli scritti dei primi autori marginalisti il criterio
    di razionalità del consumatore viene formulato in termini
    diversi, e precisamente in termini di massimizzazione della funzione
    di utilità del soggetto. Dopo aver definito l'utilità
    di un bene come la capacità dello stesso di soddisfare
    bisogni, i marginalisti assumono l'esistenza di una funzione che
    associa a quantità consumabili di beni un valore che ne
    misura l'utilità totale. Così, se con U si indica
    l'utilità che il soggetto è in grado di derivare dal
    consumo di x, U=U(x) indica la sua funzione di utilità.
Inoltre, poiché man mano che si consumano quantità
    successive di un certo bene per appagare un bisogno, quest'ultimo
    decresce di intensità e poiché, come si è
    detto, l'utilità di un bene dipende dall'intensità del
    bisogno da soddisfare, ne deriva che l'incremento di utilità
    conseguente all'incremento della quantità consumata di un
    bene è via via decrescente. È questo il significato
    del celebre principio dell'utilità marginale decrescente,
    dove per utilità marginale si intende l'incremento di
    utilità totale dovuto a un incremento unitario del bene
    consumato. Tale principio ci suggerisce una spiegazione del
    comportamento razionale del consumatore. Questi, infatti,
    comincerà ad acquistare il bene che possiede la più
    elevata utilità marginale, ma via via che egli procede nel
    consumo di questo bene, l'utilità marginale decresce
    progressivamente. Non appena questa scende al di sotto
    dell'utilità marginale del bene che, tra quelli considerati,
    possiede ora la più alta utilità marginale, il
    soggetto passa a consumare quest'ultimo bene e così via.
Ora, poiché ciascun bene ha un prezzo di mercato, il
    ragionamento di cui sopra ci porta a concludere che, nella
    situazione di equilibrio, il consumatore spenderà interamente
    il suo reddito eguagliando le utilità marginali dei diversi
    beni ai rispettivi prezzi.
La soluzione del problema della massimizzazione dell'utilità
    da parte del consumatore presenta però una grave
    difficoltà. Nella condizione che definisce l'equilibrio del
    soggetto i prezzi sono espressi in unità monetarie; ma in
    quale unità di misura sono espresse le utilità
    marginali dei beni che eguagliano quei prezzi? Si può parlare
    di utilità marginale di un bene se l'utilità che il
    soggetto deriva dal consumo dello stesso è una grandezza
    misurabile in senso cardinale. (Matematicamente è cardinale
    una misurazione che è unica a meno di una trasformazione
    lineare). L'utilità cardinale ci dà informazioni non
    solo circa l'ordine delle preferenze, ma anche circa la loro
    intensità. Senonché, come si può
    ragionevolmente assumere che un attributo essenzialmente qualitativo
    come quello di utilità possa essere assoggettato a una
    misurazione di tipo cardinale?
La prima critica sistematica al concetto di utilità cardinale
    risale a Vilfredo Pareto. Secondo Pareto l'utilità, non
    essendo una proprietà fisica dei beni consumati, non è
    esprimibile mediante un'unità oggettiva di misura. Non
    è infatti possibile ipotizzare che il consumatore, per quanto
    perfetta si possa considerare la sua conoscenza, sia in grado di
    stabilire di quanto l'utilità del paniere x superi
    l'utilità del paniere y. Egli potrà senz'altro
    avvertire che l'intensità della sua situazione di bisogno
    è diversa nelle varie circostanze, ma non sarà mai in
    grado di pronunciarsi in modo univoco sull'ampiezza delle differenze
    di intensità.
Ma v'è di più. La misurazione cardinale
    dell'utilità, osserva Pareto, oltre che concettualmente
    impossibile è anche non necessaria ai fini dello studio del
    comportamento razionale del consumatore. A tale riguardo è
    sufficiente conoscere il modo in cui il soggetto ordina le varie
    alternative di consumo aperte alla sua scelta. In sostanza, occorre
    solo conoscere la sua funzione di utilità ordinale. Se il
    consumatore sceglie x piuttosto che y, ciò è dovuto al
    fatto che x è preferito a y; dunque se con u si indica
    l'utilità in senso ordinale avremo: u(x) > u(y) se e solo
    se xPyu(x) = u(y) se e solo se xIy. Vale a dire che, se xPy,
    l'utilità di x dovrà risultare maggiore di quella di
    y, mentre se xIy, ai panieri x e y verrà associato lo stesso
    indice di utilità. Nella misurazione ordinale (che è
    unica a meno di una trasformazione monotona crescente) è
    rilevante solo il segno delle differenze tra grandezze, non le
    differenze stesse, come è invece il caso con la misurazione
    cardinale.In definitiva, il consumatore risolve il suo problema - e
    si comporta in modo razionale - quando sceglie il paniere di beni
    cui è associato il più elevato indice della funzione
    ordinale di utilità. La novità dell'approccio
    ordinalista rispetto a quello cardinalista sta nel fatto che, pur
    rinunciando all'attributo della misurabilità in senso
    cardinale dell'utilità, è egualmente possibile
    arrivare a conoscere l'entità delle reazioni del consumatore
    a variazioni dei prezzi dei beni e/o del suo reddito. (V. Decisioni,
      teoria delle). 
      
6. Sviluppi recenti dell'analisi economica del
      consumo
      
La teoria del consumo sta vivendo una situazione di crisi,
    cioè di passaggio: mentre si accresce l'insoddisfazione per
    il vecchio e glorioso paradigma dell'ordinalismo paretiano, essa non
    dispone ancora di un'alternativa soddisfacente. È però
    possibile indicare alcune significative linee di tendenza verso un
    nuovo paradigma.
Una prima importante presa di distanza dall'ordinalismo paretiano
    è costituita dall'abbandono del postulato della
    comparabilità completa delle preferenze, secondo il quale, se
    si creano condizioni anche minime per ritenere y migliore di x, la
    valutazione distinta di queste due alternative fornisce una misura
    capace di valutare tutte le altre. La distinzione tra x e y dovrebbe
    cioè fornire un metro capace di esaurire, considerando le
    alternative migliori di x e quelle peggiori di y, l'insieme delle
    alternative accessibili. Cosa implica il postulato in questione?
    Quando vale la condizione di comparabilità completa, non vi
    è alcuna differenza tra la scelta come processo e la scelta
    come funzione di scelta e ciò perché i massimali sono
    anche dei massimi e quindi il punto finale del processo di scelta
    non dipende dal sentiero che è stato in effetti percorso.
    Invece, quando i massimali non sono anche dei massimi, diventa
    indispensabile prendere in considerazione l'elemento da cui ha
    inizio il processo di scelta, dato che è questo che decide
    quale massimale verrà alla fine raggiunto. In circostanze del
    genere, pur senza alterare la struttura preferenziale del soggetto,
    è possibile influire sullo stato finale che questi
    potrà raggiungere guidando opportunamente la scelta della
    posizione iniziale e/o di quella per cui passa il sentiero di
    scelta. Come si può comprendere, parecchie e di grande
    momento sono le conseguenze che discendono da un'impostazione che
    non presupponga la comparabilità completa (v. Zamagni, 1986).
Un'altra linea di ricerca che innova radicalmente rispetto
    all'ordinalismo paretiano è quella che inserisce
    l'attività di consumo in un profilo temporale.
    Nell'impostazione tradizionale si assume che il consumatore agisca
    secondo uno schema a due stadi: nel primo egli decide quanto reddito
    ottenere dalla vendita dei suoi servizi lavorativi, nel secondo
    massimizza la propria utilità attraverso la spesa del reddito
    così ottenuto nei vari beni di consumo. In questo modo il
    tempo sottratto al lavoro e la spesa in consumi vengono considerati
    argomenti separabili della funzione di utilità. In un recente
    contributo G.G. Winston (v., 1983) studia le decisioni di consumo
    entro un esplicito contesto temporale che, da un lato, rende
    possibile ricavare il timing ottimale delle attività di
    consumo e di lavoro e, dall'altro, consente di ricavare le
    conseguenze del fatto che il soggetto fa cose diverse in momenti
    diversi dell'unità di tempo presa come riferimento. L'idea
    base è che vi sono cose che è piacevole fare e altre
    che è piacevole aver fatto, un'idea che consente a Tibor
    Scitovsky (v., 1976) di abbozzare una nuova teoria del consumo.
Un insieme di contributi recenti rompe con l'impostazione
    tradizionale su un punto di centrale importanza: la sua
    incapacità di fornire una teoria delle credenze in grado di
    dare sostanza al principio, che pure essa accoglie, secondo cui le
    scelte di consumo vanno spiegate in termini di preferenze e di
    credenze. È un fatto evidente che i soggetti hanno preferenze
    non solo riguardo agli stati del mondo, ma anche alle proprie
    credenze circa quegli stati. Inoltre gli individui hanno un certo
    potere di controllo sulle loro credenze e cioè possono
    manipolarle selezionando opportunamente le fonti di informazione in
    grado di confermare le credenze desiderate e smentire quelle non
    desiderate. Infine, le credenze, una volta scelte dal soggetto,
    tendono a durare nel tempo, mostrando una certa stabilità. La
    'teoria dei prospetti' (prospect theory) di Kahneman e Tversky (v.,
    1979), le ricerche di Akerlof e Dickens (v., 1982) sulla dissonanza
    cognitiva e i lavori recenti di H. Simon (v., 1986) costituiscono
    promettenti passi in questa direzione.Infine, un'altra interessante
    linea di ricerca è quella seguita da autori che, da
    angolature diverse e con strumenti diversi, studiano la formazione
    dei gusti e il loro mutamento endogeno. L'idea di base, sottolineata
    con forza da A. O. Hirschman (v., 1982), è che
    attività di consumo intraprese perché ci si attende
    che procurino soddisfazione possono procurare anche delusione e
    insoddisfazione. Il consumatore che desidera una cosa può,
    ottenendola, scoprire con disappunto di non desiderarla quanto
    pensava e di desiderare realmente qualcos'altro di cui non era bene
    a conoscenza. Nella misura in cui la delusione non è
    completamente eliminata da un aggiustamento verso il basso delle
    aspettative, ogni modello di consumo porta dentro di sé i
    semi della sua distruzione. Ora, lo studio dei processi di
    apprendimento e di formazione di abitudini nel consumo conduce a
    modifiche sostanziali della teoria tradizionale. In primo luogo
    perché, negando il principio dell'autonomia delle preferenze,
    si viene a intaccare il fondamento utilitaristico dell'economia
    neoclassica; in secondo luogo perché, se i gusti sono
    malleabili, il primo teorema fondamentale dell'economia del
    benessere (il teorema che, in breve, dimostra che un equilibrio
    competitivo è un ottimo paretiano) si riduce a un corollario
    della proposizione, di per sé banale, secondo cui i soggetti
    desiderano ciò che in effetti riescono a ottenere.
La matematica - dichiarò John von Neumann - quando perde il
    contatto con le scienze fisiche tende a diventare 'barocca', nel
    senso che si contrappone allo stile 'classico' di pensiero che
    è continuamente rivitalizzato dal contatto con la
    realtà. L'ordinalismo paretiano ha raggiunto oggi lo stadio
    barocco, perdendo sempre più terreno proprio in rapporto a
    quei problemi che originariamente - agli inizi del secolo -
    rappresentarono la sua ragion d'essere. Di qui le aporie, i
    risultati controintuitivi, le smentite empiriche che la più
    recente letteratura sull'argomento ha posto in evidenza. Quello che
    da più parti viene sollecitato - e le linee di ricerca sopra
    ricordate ne sono una chiara testimonianza - è un paradigma
    per l'analisi della scelta individuale sufficientemente ricco,
    quanto a struttura informativa incorporata, da consentire di
    spiegare in modo non tautologico i più significativi fenomeni
    connessi al comportamento di consumo di soggetti che operano in
    economie a sviluppo avanzato. (V. anche Bisogni; Domanda). 
 
Sociologia 
di Gerardo Ragone 
sommario: 1. Introduzione. 2. La direttrice
    socioeconomica. 3. La direttrice socioculturale. □
    Bibliografia. 
    
1. Introduzione
Lo sviluppo della sociologia dei consumi è avvenuto lungo tre
    direttrici: la prima di carattere socioeconomico, orientata in
    prevalenza a integrare l'analisi economica del consumo e, in
    particolare, la teoria della domanda; la seconda di ispirazione
    sociopolitica, indirizzata invece a un'analisi critica dei consumi e
    del 'consumismo' nelle società economicamente avanzate; la
    terza, infine, di tipo socioculturale, mirante all'elaborazione di
    una teoria del consumo interamente al di fuori degli schemi
    dell'analisi economica. Nel primo caso l'attenzione è stata
    posta sul consumatore, sulle sue motivazioni, i suoi atteggiamenti,
    quindi sui fattori non economici che influenzano le sue decisioni di
    acquisto. Al centro invece della discussione sociopolitica è
    stato posto il problema del rapporto tra produzione e consumo e, in
    particolare, la questione del condizionamento dei bisogni da parte
    della produzione. Quanto alla direttrice socioculturale, essa ha
    posto in prevalenza l'accento sulle funzioni simboliche
    dell'attività di consumo e sul ruolo dei beni nei rituali di
    comunicazione e di integrazione sociale. Questa tripartizione non va
    intesa, però, rigidamente. Essa intende proporre uno schema
    degli sviluppi di una disciplina dai confini estremamente incerti,
    in quanto il consumo è una nozione al crocevia tra economia,
    sociologia, psicologia e antropologia. Non è raro, infatti,
    incontrare autori che, pur occupando un posto centrale in una delle
    tre direttrici, hanno tuttavia esercitato un'influenza considerevole
    anche nelle altre due. Essa però è anche utile per
    porre bene in risalto il fatto che, nella sua lunga storia, la
    sociologia dei consumi ha seguito strade molto diverse e che la
    fragilità concettuale e teorica che talvolta le viene
    contestata dipende probabilmente proprio da questa pluralità
    di percorsi. Come infatti vedremo più avanti, a una
    ricchissima produzione sul piano della ricerca empirica non ha mai
    fatto riscontro un'adeguata riflessione teorica, pur essendo il
    cammino di questa disciplina costellato di acute osservazioni e di
    intuizioni talvolta geniali. Osservava alcuni anni fa Francesco
    Alberoni (v., 1964) che "la mancanza di un sistema di riferimento
    sociologico valido ha impedito la collocazione dei risultati di
    ricerche sui consumi entro un sistema di riferimento concettuale
    passibile di elaborazione teorica e di verifica sperimentale".
C'è però anche un altro motivo alla base delle
    difficoltà che la sociologia dei consumi ha incontrato - e
    tuttora incontra - lungo il suo cammino, ed è la costante
    presenza nelle sue analisi di variabili di tipo qualitativo, di
    variabili cioè che presentano in genere non poche
    difficoltà di trattamento, e che pongono poi seri ostacoli
    quando devono interagire con grandezze quantitative, come quelle che
    sono comunque al centro della problematica dei consumi. Di qui,
    probabilmente, il difficile rapporto con gli economisti e il
    fallimento dei non pochi tentativi di integrazione tra questi due
    diversi approcci allo studio del consumo (v. Leibenstein, 1950, p.
    186).
Se però è vero che è stata proprio questa
    considerazione degli aspetti qualitativi ad accentuare le
    difficoltà sia teoriche che di ricerca della sociologia dei
    consumi, ostacolandone anche l'incontro con l'analisi economica,
    è anche vero che sono proprio questi aspetti qualitativi del
    consumo ad assumere oggi, nelle società del benessere, un
    peso considerevole nella formazione delle preferenze e delle
    decisioni di spesa dei consumatori e che quindi è proprio con
    questo tipo di problemi che qualunque approccio al consumo è
    costretto a misurarsi. Come ha infatti osservato Zamagni (v., 1986,
    p. 458) "proprio perché cosa e quanto il consumatore trae dai
    beni dipende da parecchi fattori e circostanze e non solo dalla
    quantità disponibile degli stessi, è necessario andare
    oltre le sole informazioni di utilità, se si vuole dar conto
    dei comportamenti effettivi di consumo". Ciò che, quindi,
    poteva essere tranquillamente accantonato in passato dalla teoria
    economica della domanda, acquista invece oggi anche per essa un
    particolare rilievo, lasciando così intravvedere nuove
    possibilità di convergenza tra l'analisi economica e quella
    sociologica dei consumi.
Ecco perché, delle tre direttrici prima indicate, quella
    socioeconomica appare oggi certamente la più fertile e
    promettente ed è, pertanto, a essa che converrà
    dedicare la maggiore attenzione. Tratteremo invece solo
    limitatamente l'approccio socioculturale dal momento che le
    accentuazioni etno-antropologiche in esso presenti, per quanto
    suggestive e stimolanti (v. in particolare Douglas e Isherwood,
    1980), rischiano in realtà di alterare radicalmente la
    nozione di consumo, nozione che, per quanto suscettibile - come si
    è detto - di integrazioni qualitative, non può
    tuttavia essere collocata completamente al di fuori della
    problematica economica. Per quanto riguarda, infine, la direttrice
    sociopolitica, ci sembra che si possa soprassedere in questa sede,
    dato che le principali tematiche in essa presenti vengono trattate
    in altre parti di questa opera (v. Bisogni;
    v. Produzione). 
    
2. La direttrice socioeconomica
Le origini di questo primo indirizzo della sociologia dei consumi
    risalgono al XVIII secolo, quando, in seguito alla rivoluzione
    industriale, cominciano a costituirsi nelle città europee i
    primi nuclei di popolazione operaia. Anche se l'interesse degli
    studiosi dell'epoca verso i consumi delle nuove classi emergenti era
    in realtà strumentale, trattandosi più che altro di
    indagini tese a individuare nuove misure di politica sociale, non
    c'è dubbio però che furono proprio queste prime
    rilevazioni - condotte attraverso i 'bilanci' delle famiglie - ad
    aprire la strada alla riflessione sociologica sul consumo.
    Già nel 1672 William Petty aveva studiato i consumi delle
    famiglie operaie inglesi allo scopo di individuare nuovi criteri di
    tassazione. Circa cento anni dopo il reverendo David Davies
    ripeté l'operazione raccogliendo centocinquanta bilanci di
    famiglie contadine inglesi, al fine di definire un livello minimo di
    salario calcolato sul costo della vita. E qualche anno dopo, sempre
    in Inghilterra, Frederick Eden svolse indagini analoghe allo scopo,
    questa volta, di riformare le leggi inglesi sulla povertà.
Malgrado l'importanza delle finalità sociali che le
    ispiravano, queste prime esplorazioni sociologiche del consumo non
    andavano però molto al di là di una semplice
    registrazione ed elencazione di spese. Per trovare infatti
    osservazioni più accurate e sistematiche su questi temi,
    occorrerà attendere le famose monografie sui redditi e sui
    consumi delle famiglie operaie europee che Frédéric Le
    Play pubblicò intorno alla metà del secolo scorso e
    che costituiscono senz'altro le prime vere indagini sociologiche sul
    consumo. Furono proprio i risultati di queste ricerche a sollecitare
    l'interesse di Ernst Engel, uno statistico prussiano che,
    perfezionando la metodologia dei bilanci familiari, riuscì a
    raccogliere dati ancora più dettagliati sulle entrate e le
    uscite delle famiglie, individuandone anche alcune importanti
    regolarità di fondo. Risale infatti proprio a Engel (1895) la
    prima 'legge generale sul consumo' - nota appunto come 'legge di
    Engel' - secondo cui la quota percentuale di spesa per
    l'alimentazione di una famiglia o di una collettività
    è tanto più elevata rispetto alla spesa totale, quanto
    più basso risulta il reddito di quella famiglia o di quella
    collettività, e viceversa.
Queste prime analisi sulla ripartizione delle spese delle famiglie
    vennero ulteriormente approfondite da Maurice Halbwachs che, circa
    quarant'anni dopo Engel, puntualizzò quelli che sicuramente
    costituiscono i due punti centrali dell'approccio socioeconomico al
    consumo, e cioè: a) a parità di reddito, i consumi
    delle famiglie sono influenzati da numerosi fattori sociali, come,
    ad esempio, l'occupazione del capofamiglia, la zona di residenza,
    ecc.; b) i bisogni, e per conseguenza i modelli di consumo e gli
    stili di vita, non dipendono dal livello del salario, ma sono
    piuttosto un prodotto storico, determinato cioè dalle
    condizioni sociali, economiche e culturali che caratterizzano una
    determinata epoca, e pertanto è impossibile pensare a salari
    fissi - come in precedenza avevano sostenuto economisti classici
    come Turgot e Ricardo - dal momento che non esistono bisogni
    essenziali fissi.
Ciò che, quindi, questo primo tipo di studi cominciava a
    mettere in luce era l'insufficienza delle tradizionali variabili
    prezzo e reddito nella spiegazione del comportamento del
    consumatore. Iniziava cioè a farsi strada l'ipotesi che,
    prima ancora che dal prezzo dei beni e dal reddito personale, le
    scelte del consumatore fossero fortemente condizionate dal sistema
    di relazioni sociali in cui questi era inserito e che, pertanto, il
    problema del tipo di beni da possedere e dello stile di vita da
    adottare poteva in molti casi sovrastare quello delle singole
    quantità desiderate di ciascun bene. Halbwachs aveva, ad
    esempio, mostrato come i modelli di consumo degli operai e degli
    impiegati differissero notevolmente anche quando il reddito era lo
    stesso, nel senso che, mentre gli operai destinavano gran parte del
    loro reddito ai consumi alimentari, gli impiegati tendevano a
    contenere questo tipo di spesa allo scopo di incrementare quelle per
    l'abbigliamento e per l'abitazione. E prima di Halbwachs anche Le
    Play era giunto a conclusioni analoghe, evidenziando appunto il
    ruolo centrale che lo status individuale giocava nella formazione
    dei gusti e delle preferenze degli individui.Oltre a intaccare i due
    cardini centrali della teoria neoclassica della domanda, quelli
    cioè dell'utilità e della razionalità,
    l'introduzione di questo nuovo fattore nella problematica del
    consumo consentiva di affermare che non solo la domanda poteva
    variare in alcuni casi in funzione diretta anziché inversa
    del prezzo, ma che la stessa ripartizione del reddito individuale
    tra consumo e risparmio poteva realizzarsi in modi diversi da quelli
    previsti dalla teoria economica.La ricerca nordamericana degli anni
    quaranta e cinquanta del nostro secolo confermò ampiamente il
    peso dei fattori extraeconomici nelle scelte di consumo. Una delle
    più note indagini di questo periodo fu quella che Warner e
    Lunt condussero a Yankee City. Oltre a confermare le leggi di Engel,
    come appare chiaramente dalla fig. 1, l'indagine di Warner e Lunt mise
    appunto in luce il ruolo che i fattori di status giocano nella
    determinazione della domanda individuale; nella fig. 2 si può infatti osservare il
    diverso comportamento di spesa delle nuove e delle vecchie
    élites in relazione a fattori di prestigio come l'istruzione
    o come l'automobile, nonché il notevole distacco tra strato
    sociale 'inferiore-inferiore' e strato sociale 'inferiore-superiore'
    per quanto riguarda le spese culturali e ricreative. In
    realtà la questione delle pressioni di status sulle scelte di
    consumo era già stata magistralmente teorizzata da Thorstein
    Veblen alla fine del secolo scorso. Nella sua celebre opera La
    teoria della classe agiata Veblen aveva infatti mostrato non solo
    che i beni di consumo servono per rappresentare la posizione sociale
    degli individui e che, pertanto, la 'razionalità' del
    consumatore ha più a che fare con la massimizzazione del
    prestigio che non con la massimizzazione dell'utilità, ma che
    questi comportamenti di esibizione competitiva, certamente
    caratteristici degli strati sociali privilegiati, avrebbero finito
    per essere assunti anche dagli altri strati sociali tramite quel
    processo di diffusione (che i sociologi chiameranno trickle effect,
    ossia 'caduta', 'gocciolamento': v. in particolare Fallers, 1954) in
    base al quale ogni gruppo o strato sociale adotta come modello di
    riferimento per i propri consumi il gruppo o lo strato sociale che
    lo precede nella gerarchia degli status.
La teoria di Veblen meriterebbe certamente più spazio di
    quanto non sia consentito in questa sede, in considerazione appunto
    dell'influenza che l'ipotesi del 'consumo vistoso' ha esercitato sia
    in campo economico che sociologico. Basterà tuttavia mettere
    qui in luce solo un punto centrale, e cioè che Veblen
    introduce nell'analisi del comportamento del consumatore una
    categoria di razionalità assolutamente estranea alla logica
    economica, quella cioè di razionalità dello spreco,
    dello sperpero, una razionalità quindi in negativo rispetto
    al fondamento utilitaristico della teoria economica della domanda.
    Secondo Veblen, infatti, il fine che il consumatore persegue
    attraverso le sue strategie di spesa sarebbe in realtà quello
    di ottenere sempre più stima e apprezzamento da parte di
    coloro con cui egli entra in contatto. Ma poiché nelle
    società capitalistiche questa stima e questo apprezzamento
    sono strettamente legati alle capacità di spesa
    dell'individuo, ecco che l'ostentazione e lo spreco finiscono per
    costituire i criteri di fondo per le sue scelte di consumo. È
    questo il motivo per cui, secondo Veblen, il consumo dei beni
    costosi sarebbe particolarmente apprezzato in questo tipo di
    società, al punto che "i beni che contengono un elemento di
    costo notevolmente superiore a ciò che loro conferisce
    l'utilità per il loro evidente scopo meccanico, sono
    onorifici" (v. Veblen, 1899; tr. it., p. 127).
Non è difficile immaginare quali conseguenze derivino
    dall'assumere, nella teoria del consumo, l'ipotesi vebleniana
    dell'esibizione competitiva. La prima, e forse più importante
    di tutte, è che, venendo a cadere il presupposto
    dell"indipendenza' delle scelte - presupposto che, come è
    noto, è alla base sia della microeconomia che della
    macroeconomia del consumo - sorgono serie difficoltà per
    l'individuazione della domanda collettiva. La possibilità
    infatti di sommare curve individuali di domanda è
    condizionata all'ipotesi che i consumatori non si influenzino
    reciprocamente. In caso contrario la somma delle scelte individuali
    non indica più la quantità totale domandata di un
    certo bene e, quindi, la curva collettiva risulta indeterminabile
    (v. Leibenstein, 1950).
La seconda conseguenza è che diventa inevitabile, nella
    teoria della domanda, affrontare un problema sul quale gli
    economisti hanno sempre preferito sorvolare (v. Weizsäcker,
    1971; v. Pollak, 1978), quello cioè della formazione dei
    gusti e del loro mutamento endogeno. La variabilità dei gusti
    mette infatti in discussione alcune proprietà delle funzioni
    individuali di domanda, ed è questo, appunto, il motivo per
    cui, come è stato osservato, "una lunga pratica scientifica
    ha sempre ritenuto che l'economia non avesse nulla a che fare con
    l'approfondimento delle ragioni per cui le preferenze sono quelle
    che sono e ancor meno con l'indagine sul come e perché esse
    possono cambiare" (v. Zamagni, 1986, p. 447).
Va infine ricordato che una conseguenza più generale
    derivante dall'assunzione delle ipotesi di Veblen è il
    radicale spostamento della problematica del consumo dal livello
    micro a quello macro. Se infatti si ritiene che, nelle sue scelte,
    il consumatore sia rigidamente condizionato da un complesso sistema
    di vincoli sociali, perdono interesse le questioni attinenti alle
    motivazioni, agli atteggiamenti e alle aspettative, e si pone in
    primo piano il circuito strutturale di diffusione dei beni tra i
    vari strati che compongono la società. Nello schema di
    Veblen, in altre parole, oggetti, beni di consumo, valori, abitudini
    e stili di vita transiterebbero da uno strato sociale all'altro
    secondo le caratteristiche del sistema di stratificazione sociale.
    In questa prospettiva lo studio dei consumi verrebbe a coincidere
    con lo studio dei fenomeni di 'moda': è, come vedremo
    più avanti, la tesi sostenuta dal sociologo francese Jean
    Baudrillard, che in passato era già stata formulata da
    Pitirim Sorokin nella sua famosa opera sulla mobilità
    sociale. Va ricordato, infine, che questa nuova prospettiva dello
    studio dei consumi ha trovato interessanti applicazioni all'interno
    di quella corrente di pensiero che va sotto il nome di
    'diffusionismo' e, in particolare, nello studio dei processi di
    diffusione delle innovazioni (v. Rogers, 1962; v. Mahajan e
    Peterson, 1985).
Per quanto dibattuto e controverso, sia in campo economico che
    sociologico (v. Alberoni, 1964; v. Fabris, 1970), il contributo di
    Veblen ha comunque segnato una tappa fondamentale nella storia
    dell'analisi del consumo, una tappa che ha reso possibile, a
    distanza di molti anni, l'avvio di due distinti filoni di ricerca:
    quello socioeconomico, di cui ci stiamo appunto ora occupando e che,
    come vedremo tra poco, ha trovato in Duesenberry uno degli esponenti
    più rappresentativi, e quello, invece, socioculturale dove,
    come si è detto, viene particolarmente esaltata la funzione
    simbolica esercitata dai beni e dai consumi in generale. Nel primo
    caso la nozione vebleniana di 'consumo vistoso' è stata
    semplicemente utilizzata per aprire la strada all'ipotesi
    dell'interdipendenza; nel secondo caso, invece, questa nozione viene
    dilatata al punto da sostenere che i beni, più che alla
    sussistenza e all'esibizione competitiva, servirebbero in
    realtà per "rendere visibili e stabili le categorie della
    cultura" (v. Douglas e Isherwood, 1980).
Come accennato in precedenza, quest'ultimo indirizzo di studi, per
    quanto suggestivo, altera tuttavia in modo così sostanziale
    la nozione di consumo da renderla poi difficilmente ricollegabile
    con le categorie economiche di prezzo, di reddito e di risparmio
    che, comunque, definiscono nei suoi tratti centrali la problematica
    del consumo. Di ciò parleremo più avanti, mentre ora
    converrà accennare a quello che è stato sicuramente lo
    sviluppo più interessante dell'ipotesi di Veblen, cioè
    la teoria di Duesenberry (v., 1949).Secondo questo autore, nelle
    società caratterizzate da alti livelli di benessere - qual
    era la società nordamericana degli anni quaranta, quella,
    appunto, che Duesenberry aveva sotto gli occhi quando elaborò
    la sua teoria - il consumatore verrebbe sottoposto a continue
    sollecitazioni all'acquisto derivanti dal confronto tra i beni da
    lui posseduti e quelli di qualità superiore posseduti dai
    consumatori di status superiore al suo con i quali, in questo tipo
    di società con labili confini di classe, egli sicuramente
    entra in contatto ('privazione relativa'). L'insoddisfazione
    derivante da questi continui confronti, da ciò che
    Duesenberry chiama "effetto dimostrativo", provocherebbe l'impulso a
    migliorare continuamente il proprio tenore di vita, sostituendo
    appunto i beni posseduti con beni di qualità superiore. Di
    qui un'espansione notevole delle spese di consumo a scapito del
    risparmio, che è la conclusione esattamente opposta a quella
    cui perviene la teoria economica e, in particolare, la teoria
    keynesiana del consumo. Quest'ultima, infatti, partendo dall'assunto
    dell'indipendenza delle scelte di consumo, sostiene che al crescere
    del reddito - stante una certa difficoltà del consumatore a
    modificare subito il proprio tenore di vita - il consumo crescerebbe
    in misura inferiore al risparmio. Duesenberry, al contrario,
    accogliendo l'ipotesi vebleniana dell'interdipendenza delle scelte,
    sostiene che, al crescere del reddito, il consumatore, oltre a
    desiderare quantità maggiori degli stessi beni, desidera
    anche beni di qualità superiore e, pertanto, grazie a questa
    ulteriore sollecitazione, la crescita del consumo può
    risultare proporzionale alla crescita del reddito.
La tesi di Duesenberry ha due importanti implicazioni, una di tipo
    sociologico, l'altra di tipo economico. Sotto il profilo sociologico
    l'ipotesi dell'effetto dimostrativo pone subito il problema del
    rapporto tra crescita dei consumi e stratificazione sociale: dire
    infatti che i bisogni, e quindi i consumi, sono continuamente
    stimolati dai rapporti interindividuali e, in particolare, dai
    rapporti tra soggetti con status differente, significa in
    realtà sostenere che questa crescita trova la sua causa
    principale proprio nella disuguaglianza sociale, o comunque nella
    presenza di margini ottimali di disuguaglianza all'interno della
    società, ed è facile immaginare quali interrogativi di
    tipo politico ed etico sollevi questo assunto. L'implicazione
    economica è altrettanto importante, dal momento che l'ipotesi
    dell'effetto dimostrativo viene di fatto a infirmare la tesi
    keynesiana circa la possibilità di stimolare il consumo (e,
    quindi, il reddito e l'occupazione) attraverso una redistribuzione
    del reddito nazionale. Nello schema keynesiano, infatti, una
    situazione di depressione economica dovuta a insufficienza della
    domanda interna potrebbe esser risolta con una redistribuzione di
    reddito dalle classi più ricche a quelle più povere,
    considerando appunto che la propensione marginale al consumo di
    queste ultime è maggiore di quella delle prime. Per
    Duesenberry, invece, gli effetti sul consumo di questa
    redistribuzione sarebbero estremamente incerti. Riducendosi infatti
    la disuguaglianza tra i redditi, verrebbe a restringersi il margine
    in cui opera l'effetto dimostrativo, con la conseguenza che le
    classi che ricevono reddito addizionale potrebbero anche non
    destinarlo all'incremento del consumo nella misura in cui la
    propensione marginale lasciava prevedere.Il binomio
    Veblen-Duesenberry costituisce, dunque, sul piano teorico, l'asse
    portante dell'indirizzo socioeconomico. Collocando infatti il
    consumo all'interno del sistema di stratificazione e introducendo il
    problema della 'qualità' dei beni, Veblen prima e Duesenberry
    in un secondo momento spostano l'intera problematica dal piano dei
    beni e dei valori d'uso a quello più ampio, anche se
    più complesso e incerto, degli stili di vita. In un saggio
    dal titolo I limiti sociali allo sviluppo l'economista Fred Hirsch
    ha teorizzato una categoria di beni, i beni 'posizionali', che
    è assai vicina a quella dei consumi vistosi di Veblen e che,
    allo stesso tempo, prevede processi di influenza tra i consumatori
    analoghi all'effetto dimostrativo di Duesenberry.
Il ragionamento di Hirsch parte dalla considerazione che, nelle
    società economicamente avanzate, una parte consistente della
    domanda dei consumatori si rivolge verso beni non fondamentali,
    beni, cioè, che in parte sono rappresentati dai tradizionali
    beni di lusso, in parte da quei prodotti e servizi che assicurano un
    alto livello di qualità della vita (si pensi al comfort
    abitativo, alla disponibilità di verde, di aria pura, ecc.),
    in parte infine da quelle opportunità e da quei privilegi,
    quali ad esempio i lavori ben remunerati e ad alta
    responsabilità, che pur non essendo beni di consumo si
    collocano tuttavia ugualmente al centro delle aspirazioni dell'uomo
    della società 'affluente'. La tesi di Hirsch è che
    mentre l'offerta dei beni materiali tradizionali cresce regolarmente
    al crescere della relativa domanda, l'offerta di beni 'posizionali'
    è invece limitata, sia perché essi scarseggiano in
    senso assoluto (un terreno panoramico) o sociale (i prodotti della
    moda), sia perché il loro godimento si deteriora man mano che
    aumenta il numero delle persone che vi accedono. Hirsch li definisce
    'posizionali' appunto perché l'accesso a essi è
    funzione dello status dell'individuo, vale a dire del suo reddito
    'relativo'. Il vero problema dello sviluppo sarebbe pertanto quello
    di spingere inesorabilmente la domanda dei consumatori verso beni la
    cui offerta è limitata, generando così insoddisfazioni
    e frustrazioni nella maggior parte degli individui.
L'idea di un settore posizionale di beni ripropone, dunque, la
    questione delle ineguaglianze strutturali nella crescita dei
    consumi. Veblen aveva posto in luce le funzioni sociali di queste
    disuguaglianze; Duesenberry ne teorizza, alla fine degli anni
    quaranta, gli effetti diretti sulla domanda e sul risparmio; Hirsch
    ne trae le conseguenze in termini di sviluppo economico.
    Nell'indirizzo socioeconomico si può dunque parlare
    più propriamente di un 'asse' Veblen-Duesenberry-Hirsch, al
    quale sembrano oggi guardare con interesse non solo i sociologi, ma
    anche gli economisti e i politologi (v. Sen, 1982; v. Scitovsky,
    1976; v. Hirschman, 1982).
L'approccio socioculturale cui ora accenneremo costituisce, come si
    è detto, una variante di questa prospettiva, nel senso che la
    tesi vebleniana dei beni come strumento di esibizione competitiva
    viene qui portata alle estreme conseguenze, considerando il consumo
    come un'attività di produzione e di manipolazione di
    significati sociali e, quindi, come un vero e proprio linguaggio. 
    
3. La direttrice socioculturale
In realtà la tesi secondo cui gli oggetti e i beni di
    consumo servono anche per soddisfare esigenze di comunicazione e di
    integrazione sociale non si può attribuire unicamente a
    Veblen. Gli antropologi si sono infatti sempre occupati di questo
    tipo di problemi, mostrando come i prodotti della 'cultura
    materiale' possano favorire i processi che sono alla base della
    coesione sociale. D'altronde lo stesso Veblen, nel suo saggio sulla
    "classe agiata", fa un costante riferimento a materiali e a
    riflessioni di tipo antropologico. Pertanto, il tentativo condotto
    da sociologi come Jean Baudrillard e da antropologi come Mary
    Douglas, di costruire una teoria 'culturale' del consumo, va in
    parte ricondotto all'analisi vebleniana, ma va anche collocato nella
    tradizione di studi dell'antropologia economica.
Per Baudrillard (v., 1970 e 1972) il consumo non sarebbe altro che
    uno scambio socializzato di segni. Poiché infatti nelle
    società del benessere diventa vitale per l'individuo
    collocarsi nel modo migliore possibile all'interno della gerarchia
    sociale - dal momento che, come aveva mostrato Duesenberry e come ha
    sostenuto Hirsch, è proprio da questo posizionamento che
    dipende l'accesso ai beni e ai servizi cosiddetti 'superiori' - la
    funzione principale che i beni di consumo finiscono per svolgere
    è proprio quella di rappresentare questa posizione, di
    mostrare, cioè, al meglio, la capacità di spesa
    dell'individuo. Ecco perché in società di questo tipo
    i beni non verrebbero più tanto desiderati e acquistati per
    ciò che possono fornire in termini di uso, quanto soprattutto
    per ciò che possono dare in termini di prestigio e quindi di
    posizione sociale. Alla base del consumo non vi sarebbe pertanto,
    secondo Baudrillard, una logica economica di soddisfazione dei
    bisogni, quanto una logica sociale di differenziazione, la stessa,
    cioè, che governa i fenomeni di moda.
Tre aspetti di questa tesi vanno qui sottolineati. Il primo è
    che, una volta posto alla base del consumo il bisogno di
    'differenze' (sociali) piuttosto che il bisogno di beni, il problema
    della razionalità delle scelte, così com'è
    inteso dalla teoria neoclassica della domanda, esige una sostanziale
    revisione. Il secondo aspetto è che, poiché i bisogni
    di beni possono comunque trovare un punto di saturazione, mentre
    ciò è da escludere per i bisogni di 'differenze', si
    comprende bene perché nelle società capitalistiche
    avanzate le domande dei consumatori si spostino verso livelli sempre
    più elevati. Il terzo aspetto da sottolineare è che,
    ragionando in tal modo, Baudrillard, esattamente come Veblen, sposta
    il problema del consumatore dal campo micro a quello macro, nel
    senso che la quantità di beni che questi riesce a ottenere
    non dipenderebbe né dal suo reddito, né dalle sue
    motivazioni, ma sarebbe strutturalmente determinata dalla logica
    stessa della differenziazione di classe.
Nel saggio dal titolo Il mondo delle cose, anche l'antropologa Mary
    Douglas e l'economista Baron Isherwood sostengono una tesi del
    genere. Anche per loro, cioè, l'attività di consumo
    sarebbe qualcosa di più del semplice uso di beni per il
    soddisfacimento di bisogni umani; solo che, mentre per Baudrillard,
    come d'altronde per Veblen, questo 'di più' riguarderebbe
    esclusivamente l'esibizione competitiva, per i due studiosi inglesi
    si tratterebbe di una funzione più ampia e complessa,
    riguardante, come si è detto, la visibilità e la
    stabilità delle categorie della cultura.
Dal 'consumo vistoso' di Veblen, dunque, alla manipolazione di
    beni-segno secondo Baudrillard, ai beni, infine, intesi come
    'accessori rituali' per dare un senso al mondo degli eventi. Come si
    vede, l'indirizzo socioculturale si è andato via via
    arricchendo di nuove ipotesi e di nuove interpretazioni, certamente
    suggestive e stimolanti per la ricerca sui consumi. Il rischio
    tuttavia è che, con questa alterazione sostanziale della
    nozione di consumo, l'indirizzo socioculturale si allontani talmente
    dai tradizionali interrogativi che sono alla base della problematica
    dei consumi, da compromettere ogni possibilità d'integrazione
    con l'approccio socioeconomico.