Enciclopedia delle Scienze
Sociali (1992)
di Stefano Zamagni e Gerardo Ragone
CONSUMI
di Stefano Zamagni
sommario: 1. Introduzione. 2. La posizione
del consumo nell'economia politica classica. 3. Il consumo come
determinante della domanda: a) il consumo nel sistema teorico
keynesiano; b) verifiche empiriche della funzione
keynesiana del consumo: le teorie del reddito relativo; c) le
nuove teorie del consumo; d) la ripresa delle tesi
sottoconsumistiche: Baran e Sweezy. 4. La teoria neoclassica
del consumo: a) usi teorici della categoria 'consumo' e
principio della sovranità del consumatore; b) approcci
alternativi allo studio del comportamento del consumatore. 5.
Cardinalismo, ordinalismo e preferenze rivelate: a) l'influenza
del reddito sul consumo: le curve engeliane; b) l'influenza
del prezzo sulle decisioni di consumo; c) preferenze e
scelte: l'ordinalismo paretiano. 6. Sviluppi recenti
dell'analisi economica del consumo. □ Bibliografia.
1. Introduzione
Definendo il consumo come l'atto economico mediante il quale i beni
vengono distrutti per soddisfare bisogni oppure per produrre nuovi
beni, si ha una prima distinzione importante tra il consumo
realizzato nella sfera personale, il cosiddetto consumo finale, e il
consumo intermedio che si realizza nella sfera della produzione,
cioè l'impiego di beni o servizi per produrre altri beni o
servizi. Qui ci si occuperà soltanto della prima accezione,
cioè del consumo come attività di fruizione di beni o
servizi da parte di un soggetto economico.
La teoria economica si è occupata del consumo da un punto di
vista prevalentemente funzionale, soffermando l'attenzione su
funzioni che si possono far rientrare in tre categorie generali: 1)
il consumo come mantenimento della capacità produttiva umana;
2) il consumo come componente della domanda di merci; 3) il consumo
come attività volta al conseguimento degli obiettivi di un
agente economico.
La concezione del consumo come condizione della conservazione della
capacità produttiva umana, e dunque come costo di
riproduzione della forza lavoro, ha grande rilievo nell'economia
politica classica e in Karl Marx. I concetti di sussistenza e di
salario naturale trovano infatti la loro ragion d'essere in questa
concezione, che genera automaticamente anche la distinzione fra
consumo necessario - quello di cui è evidente la funzione
produttiva - e consumo superfluo (o di lusso), che non ha funzioni
produttive. Tale distinzione non deriva dall'applicazione di
categorie morali, ma è un risultato dell'analisi della
struttura sociale che, fin dal Settecento, individuava le principali
classi sociali servendosi della linea di divisione tra classe
produttiva e classe oziosa. Il consumo necessario è allora il
consumo effettuato dai membri della classe produttiva, mentre il
consumo superfluo è quello dei componenti della classe
oziosa.
La posizione teorica che mira a spiegare il livello del consumo
globale, le sue determinanti e il suo ruolo come componente della
spesa aggregata in rapporto all'occupazione e alla produzione di
ricchezza è soprattutto legata al nome di John Maynard
Keynes, anche se essa ha una lunga storia che risale ai
mercantilisti del XVII secolo e percorre il pensiero fisiocratico e
il dibattito sul sottoconsumo della prima metà
dell'Ottocento.
Infine, la nozione del consumo come espressione delle libere scelte
di mercato di individui il cui obiettivo è il
soddisfacimento, al più alto grado, di bisogni o preferenze
è tipica del pensiero neoclassico, per il quale la teoria del
consumo si riduce senz'altro alla teoria del comportamento del
consumatore. Vedremo più avanti che la scuola neoclassica ha
sviluppato, a partire dalla rivoluzione marginalista, tre diversi
approcci alla teoria del consumatore.
2. La posizione del consumo nell'economia politica
classica
Il consumo, momento marginale e residuale del comportamento
nei sistemi che precedono la nascita della moderna economia di
scambio, diviene in quest'ultima uno dei momenti di maggior rilievo.
Non è quindi casuale che l'inizio di una riflessione
sistematica sul problema del consumo coincida proprio con la nascita
della scuola di pensiero classica. Con le parole di Adam Smith: "Il
consumo è il solo fine di ogni produzione, e non ci si
dovrebbe mai prendere cura dell'interesse del produttore se non in
quanto ciò possa tornare necessario per promuovere quello del
consumatore" (v. Smith, 1776; tr. it., p. 301). E Ricardo, in modo
ancora più marcato: "Nessuno produce se non allo scopo di
consumare o di vendere, e non vende mai se non con l'intenzione di
comprare qualche altra merce che possa essergli immediatamente utile
o che possa contribuire alla produzione futura" (v. Ricardo, 1817;
tr. it., p. 290).
Una prima osservazione si rende a questo punto necessaria. Da queste
due citazioni parrebbe doversi dedurre che nel sistema classico il
consumo è lo scopo del processo economico. Eppure
nell'economia classica manca, per quanto ciò possa apparire
paradossale, una vera e propria teoria del consumatore. Per
risolvere il paradosso, vediamo di capire in quale accezione gli
autori classici impiegano il concetto di consumo.
Come sappiamo, uno dei pilastri dell'edificio teorico classico
è la distinzione, introdotta da Smith, tra consumo produttivo
e consumo improduttivo. Il primo è quello necessario alla
sopravvivenza di coloro (i lavoratori produttivi) che assicurano la
riproducibilità del processo economico; il secondo è
il consumo di coloro che non concorrono alla formazione del
sovrappiù (siano essi lavoratori che consumano più di
quanto strettamente richiesto dalla sussistenza oppure capitalisti e
rentiers). La distinzione tra consumo produttivo e non produttivo
segue dunque, in parallelo, l'analoga distinzione tra lavoro
produttivo - quello che si scambia direttamente col capitale e crea
quindi un profitto per il capitalista che lo impiega - e lavoro
improduttivo - quello che si scambia direttamente con un reddito, e
genera semplicemente la soddisfazione di un bisogno del consumatore.
Il consumo viene quindi qualificato in rapporto alla produzione,
così che questa e non quello è la categoria
fondamentale, il riferimento obbligato per l'analisi. E, infatti, il
criterio con cui viene in realtà giudicata l'attività
economica non è la massimizzazione dei consumi, e dunque del
grado di soddisfacimento dei bisogni che ne sono la causa, ma la
massimizzazione di quanto resta del prodotto sociale, una volta
dedotta la quota necessaria alla produzione: il sovrappiù,
appunto. Ciò equivale a dire che il consumo è solo un
momento intermedio, seppure necessario, del processo mediante il
quale il sistema persegue il suo proprio fine, che è la
formazione e l'estensione del sovrappiù. È quindi
rispetto a tale fine che si giudica la positività o
negatività dell'attività di consumo. Ecco
perché al consumatore, come agente che sceglie fra beni
diversi disponibili sul mercato, non viene assegnato alcun ruolo
né nella teoria del valore, né in quella della
distribuzione del reddito, né, più in generale, nella
spiegazione della dinamica del sistema.Il ruolo subordinato del
consumo rispetto alla produzione - quantunque non sia mai
esplicitamente affermato dagli economisti classici - risulta
evidente dalla scarsa attenzione che gli autori classici e Marx
dedicano, nei loro scritti, ai problemi riguardanti il lato della
domanda e, primo fra tutti, la sua stessa definizione. Non solo il
termine 'domanda' significa cose diverse per autori diversi, ma
addirittura abbiamo esempi in cui uno stesso autore impiega nel
corso di una medesima analisi la nozione di domanda con significati
assai diversi.
Come spiegare l'apparente contraddizione tra la dichiarazione
esplicita del consumo come fine dell'attività economica e la
mancanza, nel pensiero classico, di un qualche serio tentativo di
sistemazione teorica del problema del consumatore? Quali assunti o
quali circostanze consentono ai classici di prescindere dalla
domanda nella costruzione del loro edificio teorico?
Per rispondere è necessario tener presente che una
caratteristica saliente della metodologia classica è quella
di adottare un principio di separazione in forza del quale la
determinazione del prodotto - il cui livello è regolato dalla
domanda effettiva e la cui composizione dipende da fattori di natura
socioeconomica - precede logicamente la determinazione dei prezzi
relativi. Questi ultimi risultano fissati una volta note una delle
variabili distributive e la struttura del prodotto. Le condizioni
della domanda non concorrono minimamente alla determinazione dei
prezzi naturali, i quali risultano funzionalmente indipendenti dal
sistema delle quantità prodotte. Dove la domanda viene
chiamata in causa è nella determinazione del livello e della
composizione del prodotto. Senonché il tipo di società
e le condizioni storiche che i classici si trovano a osservare sono
tali da legittimare una sottovalutazione, per così dire, del
ruolo della domanda rispetto a tale uso teorico.
Non è difficile rendersene conto. Relativamente alla domanda
di investimento, la teoria classica, con la notevole eccezione di
Malthus, fa propria la versione iniziale della legge di Say, secondo
cui la figura del capitalista racchiude in sé le funzioni sia
del risparmiatore che dell'investitore: in questo modo essa non ha
più alcun bisogno di affrontare problemi di adeguamento tra
risparmio e investimento. D'altra parte, per quanto concerne l'altro
segmento della domanda, quello relativo ai beni di consumo, la
realtà che i classici osservano è quella tipica di una
società multicentrata. I beni finali sono classificati in
categorie distinte - merci salario, merci di lusso, beni strumentali
- gerarchizzate in base al ruolo specifico che esse ricoprono nel
mantenimento di ben definiti rapporti sociali. In un quadro del
genere, eccezion fatta per la sezione opulenta della società,
la gran massa degli individui è titolare di un reddito a
livello di sussistenza, storicamente determinato. È allora
comprensibile che anche in riferimento a questo segmento della
domanda non abbia molto senso parlare di una composizione del
prodotto che muta in seguito alle libere scelte dei consumatori sul
mercato: la forza che le preferenze dei singoli possono esercitare
sulla composizione del prodotto non può che apparire modesta
agli occhi degli autori classici. Inoltre i modelli di spesa delle
masse che i classici osservano restano sostanzialmente inalterati
nel tempo. Come non scelgono il tipo di lavoro, così i
lavoratori che i classici, e Ricardo in particolare, si trovano di
fronte non scelgono né i beni con cui soddisfare i loro
bisogni né i bisogni stessi da soddisfare. Ciò aiuta a
comprendere perché nell'economia classica non vi sia posto
per alcuna ipotesi di razionalità del consumatore. Fino a
Mill, nessuno dei classici è sfiorato dall'idea che la
domanda di un bene possa dipendere dai prezzi di tutti i beni, come
la considerazione del semplice vincolo di bilancio lascia
chiaramente intendere.
3. Il consumo come determinante della domanda
Due sono gli aspetti sotto i quali si può considerare il
consumo come determinante della domanda globale. Il primo è
quello del consumo visto nella sua funzione di sostegno dei livelli
complessivi di attività e prosperità del sistema
economico. Come si è anticipato nel cap. 1, questo aspetto ha
una lunga storia e, dopo un periodo di relativa latenza durante la
seconda metà dell'Ottocento e i primi decenni del Novecento,
è tornato in evidenza soprattutto per opera di John Maynard
Keynes. Il secondo aspetto è quello del consumo considerato
all'interno della problematica riguardante le conseguenze del
passaggio dal capitalismo concorrenziale al capitalismo
monooligopolistico, ed è l'aspetto studiato, in epoca
recente, soprattutto da Paul Baran e Paul Sweezy.
a) Il consumo nel sistema teorico keynesiano
L'interesse preminente di Keynes per la spesa monetaria
aggregata come determinante dei livelli di attività e di
occupazione lo porta a considerare non problematica la composizione
del prodotto e dunque irrilevante l'analisi dei fattori da cui essa
dipende. Poiché tutte le decisioni riguardanti la domanda
vengono racchiuse nell'unica decisione riguardante la spesa
monetaria, il problema principale che deve affrontare una teoria
della domanda effettiva è la determinazione del vincolo sulla
domanda. La scuola neoclassica aveva posto il reddito come vincolo,
ma ciò non poteva certo soddisfare le esigenze di chi - come
Keynes - si prefiggeva di spiegare i livelli del prodotto. La
soluzione accolta da Keynes consiste nel sostituire la teoria
tradizionale della domanda basata sull'utilità e sul
principio di sostituzione con quello che Marshall aveva chiamato il
"punto di offerta", cioè l'insieme delle decisioni di offerta
dei produttori.
Il disinteresse di Keynes per il problema della composizione del
prodotto è dunque la conseguenza diretta della separazione
netta che egli istituisce tra le determinanti della spesa monetaria
aggregata e quelle delle funzioni microeconomiche di domanda delle
merci. Tale separazione, su cui poggia il principio della domanda
effettiva, trova la sua ragion d'essere nella scoperta della legge
di decrescenza della propensione al consumo, scoperta che autorizza
Keynes a relegare in posizione di secondo piano la componente
consumi della domanda aggregata e a porre al centro dell'analisi la
componente investimenti. A questo punto non deve essere difficile
comprendere - e non lo fu certo per Keynes - come le armi
dell'analisi tradizionale della domanda si spuntino contro
l'esigenza di spiegare il livello dell'investimento. La moneta e i
vari mezzi finanziari sono le effettive variabili esplicative della
domanda di investimento, e sono dunque queste le determinanti ultime
dei livelli del prodotto e dell'occupazione.
Keynes non parla in modo specifico delle decisioni di consumo
individuali. Si limita a enunciare una "legge psicologica
fondamentale" ricavata "a priori dalla nostra conoscenza della
natura umana" e da "minuti fatti dell'esperienza quotidiana",
secondo cui "come regola generale e in media" gli individui
aumentano il proprio consumo all'aumentare del proprio reddito, ma
in misura minore dell'aumento di questo. Anzi, di regola, gli
incrementi di reddito provocano incrementi percentuali di consumo
via via inferiori, cosicché il consumo viene a crescere meno
che proporzionalmente rispetto al reddito.Chiamando propensione
media al consumo il rapporto tra il livello del consumo e il livello
del reddito e propensione marginale al consumo il rapporto tra
l'incremento del consumo e l'incremento del reddito che l'ha
provocato, dalle affermazioni precedenti deriva che la propensione
marginale al consumo è inferiore a quella media.La più
semplice funzione algebrica che abbia le caratteristiche indicate
è data da una retta di equazione
Ci = ai + ciYi, ai>0 e 0<ci<1, (1)
dove Ci è il consumo e Yi è il reddito dell'individuo
i-mo e ai e ci sono parametri, il primo dei quali rappresenta
l'intercetta della retta sull'asse verticale e il secondo la
pendenza della retta rispetto all'asse orizzontale. In base alle
definizioni precedenti, si ha che ci, che rappresenta la propensione
marginale al consumo, è inferiore alla propensione media. La fig. 1 può servire a illustrare le
proprietà della (1). Nel tratto in cui il reddito è
compreso tra 0 e Ȳi l'individuo consuma più del proprio
reddito, e cioè attinge al proprio patrimonio, si indebita o
vive di sussidi. A livelli di reddito superiori i suoi consumi
aumentano, ma aumenta anche il risparmio dato dalla differenza tra
reddito e consumo. Nel generico punto P, la propensione media
è misurata dal rapporto P=Yi/0=Yi, cioè dall'ampiezza
dell'angolo α. La propensione marginale è invece misurata da
Ci/ΔYi, cioè dall'ampiezza dell'angolo β. Come si vede
immediatamente, α>β.
Se sono note le funzioni individuali del consumo, per passare da
queste a una funzione che leghi il consumo globale di una
collettività al suo reddito globale è necessario fare
delle assunzioni piuttosto restrittive riguardanti la distribuzione
del reddito tra i diversi individui. È evidente, infatti, che
l'effetto sul consumo aggregato sarà diverso se il reddito
è variamente distribuito tra individui con differenti
propensioni al consumo. Nel caso più semplice, ma anche meno
realistico, in cui la distribuzione del reddito non muti al mutare
dello stesso, cioè nell'ipotesi in cui il reddito individuale
sia sempre una certa percentuale del reddito nazionale, si dimostra
facilmente che la funzione del consumo globale è ottenibile
come somma delle funzioni del consumo individuali supposte dello
stesso tipo (per esempio lineari):
C = a + cY (2)
dove
formula
(n è il numero dei consumatori e γi la quota costante del
reddito dell'individuo i-mo sul reddito globale, cioè Yi
=γiY). Quindi, nel caso particolarissimo di una distribuzione del
reddito invariata, è possibile ricavare per la
collettività una funzione del consumo univoca rispetto al
reddito. Non così però in generale, quando siano
previsti mutamenti significativi nella distribuzione.
b) Verifiche empiriche della funzione keynesiana del consumo: le
teorie del reddito relativo
L'affermazione che la propensione marginale al consumo è
sempre inferiore alla propensione media implica che quest'ultima
diminuisca al crescere del reddito, come si evince dalla fig. 1. Senonché, parecchie indagini
empiriche, e in particolare il monumentale lavoro di Simon Kuznetz,
degli anni quaranta e cinquanta hanno dimostrato che, se si
esaminano le serie temporali di redditi e consumi di un sistema
economico, si osserva che la propensione media al consumo tende a
rimanere costante nel tempo anche se, nel periodo considerato, il
reddito è aumentato di molto. È chiaro che risultati
del genere contraddicono l'ipotesi su cui è basata la
funzione keynesiana del consumo, il che ha spinto non pochi studiosi
a elaborare teorie del consumo basate su assunti meno generici della
"legge psicologica fondamentale" di Keynes. In particolare, si
è cercato di dare ragione dei risultati contraddittori da una
parte facendo esplicito riferimento a fattori soggettivi determinati
dall'educazione, dalle convenzioni sociali, dal contesto
istituzionale e così via - fattori esplicitamente considerati
come dati da Keynes ai fini della determinazione della propensione
marginale al consumo ("la forza di tutti questi motivi
varierà enormemente secondo le istituzioni e le
organizzazioni della società presa in considerazione [...].
Per quel che riguarda questo libro [...] prenderemo come dato il
retroterra dei motivi soggettivi per risparmiare e consumare
rispettivamente": v. Keynes, 1936; tr. it., pp. 109-110) -,
dall'altra facendo riferimento al ruolo svolto dalla ricchezza nelle
decisioni di consumo individuali, sulla base del modello fisheriano
di ottimizzazione intertemporale.
Le teorie del primo tipo vengono usualmente indicate come teorie del
reddito relativo, quelle del secondo tipo come "nuove teorie del
consumo", con un'espressione introdotta da M.J. Farrell (v., 1959).
Alla base delle teorie del reddito relativo, la più celebre
delle quali è quella di J.S. Duesenberry (v., 1949), sta
l'idea secondo cui le scelte di consumo individuali sarebbero
influenzate dalle scelte fatte dagli altri (il cosiddetto effetto
del 'mantenersi al passo con il vicino'). Ne consegue che coloro che
fruiscono di un più basso livello di reddito avrebbero una
più alta propensione media al consumo rispetto ai soggetti
che beneficiano di un livello di reddito più elevato.
Poiché l'effetto ricordato agisce sulla propensione media al
consumo delle classi a più basso livello di reddito, non
v'è alcun motivo per aspettarsi che, nel lungo periodo, un
incremento del reddito comporti un aumento del consumo aggregato.
D'altro canto, sul consumo aggregato agirebbe, nel breve periodo,
un'ulteriore determinante, il cosiddetto 'effetto aggancio' (ratchet
effect), in virtù del quale l'individuo, date le abitudini di
consumo contratte nei periodi precedenti, anche in presenza di
diminuzioni cicliche nel livello del reddito tenderebbe a mantenere
il consumo sui livelli dei periodi precedenti: quanto a dire che la
propensione marginale al consumo durante tali fluttuazioni
tenderebbe a oscillare. Da quanto precede si ricava che nel caso in
cui la serie dei dati osservati fosse molto lunga, la propensione
media al consumo tenderebbe a risultare stabile in forza
dell'effetto di emulazione, mentre risulterebbe oscillante, in forza
dell''effetto aggancio', qualora si considerassero periodi brevi.In
termini geometrici i fattori illustrati tendono a spostare verso
l'alto la funzione del consumo, il che rende possibile conciliare i
risultati delle indagini sui bilanci familiari con quelli che si
ricavano dai dati forniti dalle serie storiche. Si consideri,
infatti, la fig. 2. Le rette indicate con Ct, Ct+1,
Ct+2 rappresentano le funzioni di consumo
empiricamente stimate mediante indagini su bilanci familiari
effettuate alle date t, t+1, t+2. Ciascuna di tali funzioni rispetta
le ipotesi keynesiane. Per comodità esse sono state tracciate
parallele tra loro, il che implica che la propensione marginale al
consumo rimanga costante nel tempo. Si indichino ora con Yt,
Yt+1, Yt+2 e con C(t), C(t+1), C(t+2) i
redditi e i consumi delle famiglie rappresentative, alle rispettive
date, quali essi appaiono dalle serie storiche relative all'intero
sistema. È possibile che, come è indicato nella fig. 2, i punti così individuati
(cioè C0, C1, C2) giacciano
tutti lungo una retta uscente dall'origine. In tal caso la stima
basata sulle serie storiche non può che portare a individuare
come funzione del consumo la C(Y) che ha per equazione C = cY
(0<c<1), dove il coefficiente c misura sia la propensione
media sia quella marginale (infatti formula). In definitiva, si può avere
una propensione media al consumo che non decresce col passare del
tempo e all'aumentare del reddito, pur avendosi, in ogni singolo
momento o periodo, una propensione marginale inferiore a quella
media (il che lascerebbe presumere una riduzione di quest'ultima al
crescere del reddito). Dunque una funzione come la (2) si presta
meglio alla descrizione degli andamenti di breve periodo, mentre una
del tipo C = cY è più adatta alle analisi di lungo
periodo.
c) Le nuove teorie del consumo
Gli elementi chiave nelle teorie del reddito relativo sono
dunque le ipotesi di emulazione e di persistenza negli standard di
consumo degli individui, e ciò implica che i soggetti
economici, all'atto di prendere le proprie decisioni, abbiano un
orizzonte temporale limitato al solo periodo corrente.Al contrario,
le nuove teorie del consumo si caratterizzano per l'ipotesi di un
orizzonte temporale lungo, e quindi per l'assunto che un reddito
futuro scontato abbia, nelle scelte effettuate dal soggetto, la
stessa importanza di un flusso equivalente di reddito corrente. In
altri termini, ciò che queste teorie (la teoria del ciclo
vitale del consumo - di Franco Modigliani, Robert Brumberg e Anthony
Ando - e la teoria del reddito permanente - di Milton Friedman)
hanno in comune è l'interpretazione del consumo come
risultato della scelta, da parte dei soggetti, di piani
intertemporali di consumo e risparmio - entro un orizzonte temporale
tanto lungo da coincidere con la vita attesa - vincolati dalla
ricchezza disponibile e dal reddito atteso. Vediamo invece le
differenze specifiche.Secondo la teoria del ciclo vitale gli
individui programmano le proprie decisioni di consumo in modo da
garantirsi un livello di consumo soddisfacente, cioè non
troppo variabile, lungo tutto l'arco della propria vita. Sulla base
di ipotesi adeguate, Modigliani giunge alle seguenti conclusioni: a)
le persone anziane tendono ad avere una propensione al consumo
più elevata di quella dei consumatori in età
lavorativa; b) il consumo dipende non solo dal reddito corrente ma
anche dalla ricchezza; perciò, se con il passar del tempo e
come effetto della crescita economica la ricchezza degli individui e
del sistema aumenta, ci si deve aspettare uno spostamento verso
l'alto della funzione del consumo, che ostacolerà
l'altrimenti inevitabile caduta della propensione media; c) se con
l'andar del tempo si registra un innalzamento dell'età media
della popolazione, senza un corrispondente aumento dell'età
di pensionamento, nel sistema aumenterà la quota della
popolazione che consuma le risorse finanziarie accumulate in
precedenza e diminuirà quella di coloro che risparmiano e
accumulano risorse. Si avrà cioè, a livello di
sistema, un aumento della propensione al consumo e una diminuzione
di quella al risparmio. Pertanto i sistemi economici soggetti a un
rapido invecchiamento della popolazione rischiano di veder aumentare
nel tempo la propensione al consumo pur in presenza di aumenti,
anche rilevanti, del reddito.
La teoria del reddito permanente di Friedman parte da un'ipotesi
empirica simile a quella di Modigliani, e cioè che i
consumatori preferiscono un profilo temporale del consumo stabile
piuttosto che uno molto variabile in relazione alla
variabilità del reddito. Inoltre anche Friedman accetta
l'impostazione secondo cui il consumo dipende, quasi esclusivamente,
dal reddito, ma si chiede di quale reddito si tratti. Non certo di
quello corrente, perché questo può avere una notevole
variabilità nel tempo. La tesi di Friedman è che
l'individuo decida il proprio consumo tenendo conto del reddito di
lungo periodo o reddito permanente, che egli stima calcolando una
media ponderata dei redditi passati e attribuendo maggior peso ai
redditi più recenti e pesi via via minori a quelli più
lontani.
Questa procedura di stima fa sì che il reddito permanente
risulti meno disturbato dei redditi passati da fluttuazioni di
carattere accidentale, così che l'andamento temporale del
consumo dovrebbe risultare più uniforme di quello del reddito
corrente. La maggior instabilità verrebbe invece a
riflettersi sull'andamento del risparmio corrente: una conclusione
che vale anche per la teoria del ciclo vitale, in quanto le
fluttuazioni accidentali del reddito corrente verrebbero a
compensarsi nel lungo periodo.
Le nuove teorie del consumo, oltre a far dipendere il consumo da
fattori strutturali come la composizione demografica della
popolazione e il tasso di crescita della ricchezza, si distaccano da
Keynes soprattutto perché ipotizzano che la scelta dei piani
di consumo sia influenzata in modo determinante dal tasso di
interesse e dai prezzi dei beni, fattori cui Keynes assegnava invece
un ruolo secondario. La base di queste teorie sta nella teoria
microeconomica del comportamento del consumatore in situazioni di
mercato date, di cui diremo più avanti. In questo senso
entrambe le reinterpretazioni della funzione del consumo di Keynes
possono essere definite neo-fisheriane piuttosto che keynesiane, dal
momento che il loro vero principio ispiratore è tratto da
Irving Fisher.
d) La ripresa delle tesi sottoconsumistiche: Baran e Sweezy
Un'altra posizione critica nei confronti di Keynes, sostenuta da
autori come Joseph Steindl (v., 1952), Paul Baran e Paul Sweezy (v.
Baran e Sweezy, 1966), è quella che in qualche modo si
rifà alle tesi sottoconsumistiche, ispirandosi a Karl Marx e
a Michał Kalecki. In un passo del Capitale Marx scrive: "La causa
ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre la
povertà e la limitazione di consumo delle masse in contrasto
con la tendenza della produzione capitalistica a sviluppare le forze
produttive a un grado che pone come unico suo limite la
capacità di consumo assoluta della società" (v. Marx,
1867-1894; tr. it., vol. III, p. 569). Non pochi commentatori hanno
interpretato il brano come un'adesione da parte di Marx alle tesi
sottoconsumistiche. In realtà Marx respinge la teoria
sottoconsumistica di tipo ingenuo, secondo cui le masse sfruttate
non possono comperare ciò che un apparato produttivo, che si
deve espandere continuamente, produce senza sosta. Marx considera
ingenua la posizione di Rodbertus e di Proudhon secondo cui in
periodi di prosperità la quota dei salari sul reddito
nazionale diminuisce determinando una caduta del potere d'acquisto
dei lavoratori e perciò una crisi di sottoconsumo. In
effetti, Marx accoglie ed elabora la tesi della sovrapproduzione
secondo cui la crisi si verificherebbe non perché si siano
prodotte relativamente troppo poche merci destinate al consumo
(degli operai o dei capitalisti), ma al contrario perché se
ne sono prodotte troppe, rispetto non al consumo, ma all'esigenza di
mantenere la giusta proporzione tra consumo e valorizzazione del
capitale. Dunque, l'intero processo di accumulazione si risolve in
sovrapproduzione, la quale pone, a sua volta, le premesse per
l'insorgere delle crisi. Pertanto la ripresa, in epoca recente,
della tesi sottoconsumistica ad opera di Baran e Sweezy si
può far risalire a Marx solo in parte e in senso molto lato.
In effetti, l'analisi dei due autori si pone come un tentativo di
aggiornamento del quadro concettuale in cui si muoveva Marx, un
quadro che non poteva certo tener conto delle conseguenze derivate
dal prevalere di forme di capitalismo monopolistico. Se il consumo
è sistematicamente incapace di utilizzare tutta la
capacità produttiva creata con l'accumulazione del capitale,
la radice del problema va ricercata - secondo Baran e Sweezy - nel
modo in cui il capitalismo contemporaneo risolve i problemi legati
alla produzione e distribuzione del reddito.
L'idea fondamentale è che sia il grado di concentrazione
mono-oligopolistica dell'industria a determinare la distribuzione
fra profitti e salari. D'altra parte, è un fatto che la
propensione al consumo dei percettori di salari è più
alta di quella dei percettori di profitti. E ciò per due
ragioni distinte. In primo luogo i lavoratori hanno in media un
reddito più basso di quello dei percettori di altre forme di
reddito e perciò, come indicano gli studi sui bilanci
familiari, hanno una propensione al consumo più elevata. In
secondo luogo i profitti non affluiscono direttamente e nella loro
totalità alle famiglie. La quota dei profitti non distribuiti
viene integralmente risparmiata (e investita) dalle imprese
determinando, indirettamente, soltanto un debole aumento della
propensione al consumo delle famiglie proprietarie di azioni che
vedrebbero aumentare il valore del proprio patrimonio. Si ha
pertanto che una variazione nella distribuzione del reddito a favore
dei lavoratori provoca un aumento della propensione media al consumo
della collettività; e viceversa quando la distribuzione varia
contro i salariati e a favore dei percettori di altri redditi.
Come si comprende, la critica implicita a Keynes è di aver
trascurato il collegamento strutturale fra sottoconsumo e
distribuzione del reddito, quale si realizza per il tramite
dell'organizzazione dell'industria. È la crescita del
'capitale monopolistico' a far sì che la quota del
sovrappiù tenda ad aumentare in misura maggiore dell'aumento
della produzione totale, senza che al tempo stesso entri in funzione
un adeguato meccanismo per il suo assorbimento.
La spiegazione che Baran e Sweezy offrono della tendenza del
sovrappiù ad aumentare deriva dal modo in cui essi intendono
il meccanismo della determinazione dei prezzi. La struttura sempre
più oligopolistica dei mercati contemporanei è tale
che i prezzi non sono determinati in base alle forze della domanda e
dell'offerta (come appunto avviene nei mercati perfettamente
concorrenziali) ma - come è efficacemente spiegato da Paolo
Sylos Labini (v., 1957) - in base a regole del tipo 'costo pieno'
(full cost pricing). Ciò comporta una tendenza alla crescita
dei margini lordi di profitto delle imprese e quindi della quota di
profitti sul reddito. Secondo Baran e Sweezy nel capitalismo
contemporaneo la tendenza del sovrappiù a crescere
sostituisce la tendenza del saggio di produzione a cadere,
caratteristica quest'ultima del capitalismo concorrenziale cui
pensava Marx. Ne deriva che nel capitalismo monopolistico le cause
della crisi vanno individuate nella sfera della realizzazione
piuttosto che in quella della produzione di plusvalore. Il
sovrappiù può essere consumato, investito oppure
sprecato. Ma in un'economia oligopolistica solo una parte del
sovrappiù può essere assorbita dagli investimenti dei
capitalisti e dai consumi dei lavoratori. Infatti, è
bensì vero che nuovi investimenti potrebbero assorbire il
sovrappiù, ma - in quanto aumentano la capacità
produttiva - i nuovi investimenti tenderebbero ad accrescere i
profitti, aumentando così il sovrappiù, il che
aggraverebbe il problema. L'unica valvola di sfogo è
rappresentata dalle varie forme di 'spreco': le spese crescenti di
pubblicità da parte del sistema delle imprese; il consumo
opulento dei ceti medio-alti della popolazione; la spesa militare e
civile dello Stato. Come si intuisce, ricompare dietro queste forme
di 'spreco' la categoria classica del consumo superfluo visto come
la risposta del capitalismo maturo al problema del sottoconsumo.
4. La teoria neoclassica del consumo
a) Usi teorici della categoria 'consumo' e principio della
sovranità del consumatore
Se ci si interroga sull'uso specifico della categoria 'consumo'
all'interno dell'economia neoclassica, nella versione walrasiana, si
trova che il ruolo a essa assegnato è, in primo luogo, quello
di cardine della teoria simmetrica del valore. È infatti sul
principio unificante della domanda e dell'offerta che il programma
neoclassico fonda la determinazione dei prezzi relativi delle merci
unitamente alla distribuzione e alla composizione dell'output.
Di qui l'esigenza di formulare una teoria che sappia spiegare, in
primo luogo, come gli individui arrivino a manifestare i loro piani
di consumo (teoria del consumatore) e, secondariamente, come i
messaggi dei consumatori vengano inviati al mercato per costituire
la domanda complessiva di merci (teoria della domanda). Ma, a ben
considerare, le teorie del consumatore e della domanda sono chiamate
ad assolvere anche un'altra funzione all'interno del sistema teorico
neoclassico.
Per comprendere tutto ciò è necessario tenere a mente
che il pensiero neoclassico non si propone semplicemente di spiegare
il funzionamento di un'economia di mercato di tipo capitalistico, ma
anche di dimostrare che questa forma di organizzazione è, tra
quelle possibili, la forma che realizza un 'ottimo sociale':
ottimalità da intendersi nel duplice senso di equità
dei risultati che il sistema garantisce a ogni individuo e di
efficienza economica della configurazione produttiva che esso
realizza. Relativamente al primo aspetto, si tratta di dimostrare
che in un'economia perfettamente concorrenziale non esiste alcuna
forma di sfruttamento, né a livello di classi sociali,
né a livello di rapporti intersoggettivi. A ciò
provvede la teoria neoclassica della distribuzione del reddito,
fondata sul principio della produttività marginale:
poiché a ciascun agente viene assegnata una quota di reddito
correlata al contributo che questi ha dato alla sua formazione, non
ha senso parlare di redditi privilegiati e, tanto meno, di
appropriazione indebita - da parte di alcuni - di quote del prodotto
sociale spettanti ad altri. Relativamente al secondo aspetto
dell'ottimalità, si tratta invece di dimostrare che
un'economia capitalistico-concorrenziale realizza una configurazione
produttiva che corrisponde in pieno alle preferenze dei consumatori.
Si può in tal modo affermare che sono i consumatori - quali
destinatari finali dell'intera attività produttiva - a
determinare in ultima istanza, con le loro decisioni di consumo, le
scelte in campo produttivo. Conviene soffermare ora l'attenzione su
tale aspetto, che è centrale nel sistema teorico neoclassico.
Con l'avvento della rivoluzione marginalista (gli anni settanta del
secolo scorso) si assiste a una radicale riformulazione dei termini
del discorso economico. Ciò che muta è, in
particolare, il giudizio di economicità dell'attività
produttiva, che trova il suo fondamento nel momento del consumo,
cioè nella soddisfazione dei bisogni: una certa
configurazione produttiva dovrà preferirsi a un'altra se
soddisfa meglio della seconda i bisogni degli individui. Solo il
punto di vista di questi ultimi in quanto consumatori conta al
momento di stabilire il funzionamento di una data economia. Le
imprese e gli altri centri decisionali sono entità anonime e
'senza volto'. Che un'impresa consegua profitti o fallisca non ha,
di per sé, alcuna implicazione in termini di benessere; ma
che un consumatore peggiori o migliori la propria situazione
è della massima rilevanza. Il consumatore è dunque la
figura centrale, tanto centrale da risultare sovrano. Il celebre
principio della 'sovranità del consumatore', infatti,
equivale nella sostanza all'affermazione secondo cui il consumatore,
consapevolmente e razionalmente, mediante la sua domanda di mercato
orienta l'offerta in modo tale che questa soddisfi i suoi bisogni
sulla base di ben definite scale di priorità, graduate dal
prezzo.
Che poi, talvolta, la composizione merceologica della domanda non
corrisponda alla composizione in merci dell'offerta - così
che possono prodursi, alternativamente, fenomeni di sottoproduzione
o di sovrapproduzione parziale - non compromette la validità
della teoria, dal momento che non vi sono livelli permanenti di
reddito e di produzione in corrispondenza dei quali la domanda non
è in grado di assorbire l'offerta. Quest'ultima è
sempre collegata alla propria domanda perché, come insegnava
J.-B. Say, "i prodotti si scambiano con prodotti". Il consumatore
è sempre libero sul mercato, sa quello che vuole e si
comporta razionalmente per ottenerlo.
Naturalmente, non mancano rigorose obiezioni a questa linea
interpretativa. A parte Marx, una voce di dissenso è
già presente nel pensiero classico. Per Malthus, domanda e
offerta non tendono necessariamente ad adeguarsi. Di qui la ben nota
tesi secondo cui il consumo improduttivo (il consumo, cioè,
della classe improduttiva dei proprietari terrieri) deve essere
visto come elemento indispensabile allo svolgimento del processo
economico. Occorrerà tuttavia attendere Keynes perché
la constatazione di un possibile divario tra produzione e spesa
assurga a proposizione teorica in grado di togliere fondamento al
principio stesso della sovranità del consumatore.Invero, una
volta riconosciuta (perché empiricamente accertata) la
possibilità di squilibri permanenti tra domanda e offerta, il
comportamento razionale e la libertà di scelta del
consumatore non sono più in grado di assicurargli il
soddisfacimento pieno dei suoi bisogni, secondo le priorità
da lui fissate in base al suo reddito e ai prezzi delle merci. Al
contrario, egli dovrà adeguare il suo comportamento alle
fluttuazioni dell'offerta, vale a dire alla quantità e
qualità delle merci disponibili sul mercato - quantità
e qualità che possono, anche nel lungo periodo, non
corrispondere affatto alle sue scelte.
Quanto detto indica il posto di rilievo occupato dal principio della
sovranità del consumatore nel dibattito tra le varie scuole
di pensiero economico, anche per le implicazioni di politica
economica che da esso inevitabilmente discendono. In particolare, si
riesce ora a comprendere perché il pensiero neoclassico,
nella misura in cui accoglie in pieno quel principio, non può
fare a meno di una teoria del comportamento del consumatore.
b) Approcci alternativi allo studio del comportamento del
consumatore
Nella spiegazione della curva della domanda compaiono due
insiemi di variabili: quelle osservabili (i prezzi delle merci, le
quantità acquistate, il reddito dei soggetti) e quelle che
non possono essere osservate (le preferenze o, più in
generale, tutto quanto ha a che fare con la sfera decisionale del
soggetto). Obiettivo centrale della teoria neoclassica è
stabilire un collegamento, una sorta di relazione causale, tra i due
ordini di variabili.
L'idea di base è che il consumatore possegga una ben definita
struttura di preferenze esprimibili mediante una certa relazione di
preferenza tra panieri alternativi di beni. Il problema della
domanda è allora teoricamente risolto se si riesce a
dimostrare che la funzione di domanda, la quale sintetizza tutte le
variabili osservabili, deriva da una certa relazione di preferenza,
nel senso che, quali che siano i prezzi dei beni e il reddito del
soggetto, il paniere acquistato è veramente quello preferito.
Stando così le cose, si dirà che la relazione di
preferenza genera la funzione di domanda. L'esigenza di un'analisi
del comportamento del consumatore nasce dunque dalla
necessità di individuare quali restrizioni occorre imporre
alla relazione di preferenza affinché essa sia in grado di
generare una funzione di domanda dotata di certe proprietà.
Il problema del consumatore può essere sinteticamente posto
nei seguenti termini: data una certa configurazione dei prezzi e del
reddito, il consumatore è tenuto a scegliere tra panieri
alternativi di beni - tutti appartenenti al suo campo di scelta -
quello che il criterio di razionalità gli indica come
ottimale. Ora, poiché prezzi, reddito e beni rappresentano,
dal punto di vista del singolo, variabili esogenamente determinate,
cioè dei parametri, il problema del consumatore si riduce a
quello di attribuire un contenuto specifico al criterio di
razionalità.
La teoria neoclassica ha sviluppato, nel corso del tempo, tre
diversi approcci alla formulazione del criterio di
razionalità del consumatore. Il primo, in senso storico,
è quello dei fondatori della scuola soggettivista (Hermann
Gossen, William S. Jevons, Carl Menger, Friedrich von Wieser). Sua
caratteristica centrale è di esprimere la struttura
preferenziale del consumatore mediante una funzione di
utilità cardinale. Il secondo approccio, legato ai nomi di
Vilfredo Pareto, Eugen Slutsky, John Hicks, Roy G. Allen, ha il suo
fondamento nella nozione di utilità ordinale. La versione
moderna di questo approccio, nota come teoria delle scelte, è
stata sviluppata, a partire dal secondo dopoguerra, da Kenneth
Arrow, William M. Gorman, Hirofumi Uzawa, Gerard Debreu. Lo schema
di analisi adottato dai teorici del modello della rational choice
è quello tipico di ogni assiomatizzazione: si parte da un
certo insieme di postulati riguardanti la struttura delle preferenze
del consumatore e poi, per deduzione logica, si arriva alla
dimostrazione della legge della domanda. Il terzo approccio, infine,
è quello delle preferenze rivelate, originariamente dovuto a
Paul A. Samuelson e a Hendrik S. Houthakker.
5. Cardinalismo, ordinalismo e preferenze rivelate
Allo scopo di mettere a fuoco i tratti essenziali dei tre
approcci, si pensi a un ipotetico consumatore. Le sue decisioni di
spesa per un certo arco di tempo, poniamo un anno, determinano il
suo bilancio, che eguaglia il reddito corrente più i risparmi
passati più i prestiti meno i risparmi correnti. I panieri di
beni che il consumatore può acquistare sono limitati dal suo
vincolo di bilancio e dai prezzi dei beni stessi, in sostanza dal
suo potere reale d'acquisto.Se per semplicità assumiamo che i
beni acquistabili siano due soli - cibo e vestiario - possiamo
rappresentare le loro varie combinazioni come nella fig. 3. Così, se il soggetto ha un
bilancio, R, di 1.000 lire, e se il prezzo, p₁, del cibo
è 40 lire e il prezzo, p₂, del vestiario è
20 lire, egli può acquistare 25 unità di cibo (punto
A), oppure 50 unità di vestiario (punto B), oppure
combinazioni come 8 unità di cibo e 34 di vestiario (punto
C), e così via. Tutti i punti situati sul segmento AB
denotano combinazioni di beni per il cui acquisto il consumatore
spende interamente il suo bilancio. Pertanto p1x1 + p2x2 = R, dove x2 sta per la
quantità acquistabile del primo bene e x2 per la
quantità acquistabile del secondo bene. Un punto interno al
triangolo 0AB, quale H, è tale per cui non tutto il bilancio
viene speso; mentre un punto esterno al medesimo triangolo, quale K,
è un punto irraggiungibile con quel dato bilancio. La linea
AB, che possiamo chiamare linea di bilancio, rappresenta dunque la
frontiera che separa l'insieme dei panieri economicamente
accessibili dall'insieme di quelli economicamente non accessibili al
consumatore. La pendenza (negativa) della linea di bilancio è
misurata dal rapporto tra i prezzi dei beni (p1/p2).
La fig. 3 mostra anche le implicazioni delle
variazioni dei prezzi dei beni. Se i prezzi dei due beni
raddoppiano, la linea di bilancio diventa la DE, che è
parallela alla AB dal momento che il rapporto dei prezzi non
è mutato. Dunque variazioni equiproporzionali dei prezzi non
mutano la pendenza della linea di bilancio, mentre modificano la sua
posizione, cioè a dire la sua distanza dall'origine. Un
aumento equiproporzionale dei prezzi, con il bilancio immutato,
equivale, nella sostanza, a una diminuzione del bilancio con prezzi
invariati. Pertanto, se il bilancio a disposizione del consumatore
aumenta, fermi restando i prezzi, la linea di bilancio si sposta
verso destra parallelamente a se stessa e viceversa. Infine, se il
prezzo del cibo resta immutato, mentre raddoppia il prezzo del
vestiario, la linea di bilancio diventa la AE, la cui pendenza
è doppia della AB.
a) L'influenza del reddito sul consumo: le curve engeliane
Assumendo che reddito e bilancio di un consumatore si eguaglino
sempre, si può studiare la relazione tra andamento del
reddito di un consumatore e quantità domandate dei vari beni.
Un importante punto di partenza è rappresentato da un
pionieristico contributo dello statistico tedesco Ernst Engel,
pubblicato nel 1857 e dedicato all'analisi delle connessioni tra
livello del reddito e struttura dei consumi. In tale lavoro viene
enunciata la celebre 'legge di Engel': "Più povera è
una famiglia, maggiore è la percentuale della spesa totale
destinata all'acquisto di generi alimentari"; e inoltre: "Più
ricca è una nazione, più piccola è la
percentuale di generi alimentari nella spesa totale". Ciò
significa che all'aumento del reddito i soggetti mutano la
proporzione in cui domandano i vari beni. Si osservi la fig. 4, in cui sono tracciate tre diverse
curve di domanda rispetto al reddito.
Le curve D2 e D3 evidenziano l'esistenza di
un livello di saturazione, geometricamente rappresentato dalla linea
orizzontale tratteggiata. Nel caso della D2 si parla di
saturazione assoluta: una volta arrivato al livello di reddito
¯R, il consumatore, anziché aumentare, diminuisce la
quantità domandata del bene. Nel caso della D3 ci
troviamo di fronte a una saturazione relativa: al crescere del suo
reddito il soggetto aumenta la quantità domandata del bene
ma, superato il livello di reddito =R, tende a stabilizzare i suoi
consumi. Infine, il caso della D1 è quello in cui
all'aumentare del reddito diminuisce la quantità domandata
del bene. Al di là delle forme specifiche sopra indicate,
è importante sottolineare che non esiste una forma unica
della curva di domanda rispetto al reddito, valida per qualsiasi
categoria di beni. Esiste piuttosto un ventaglio di curve engeliane
di domanda: per certe categorie di beni, i cosiddetti beni di lusso,
la domanda aumenta più che proporzionalmente rispetto al
reddito; per i beni di primaria necessità, la quantità
consumata aumenta meno che proporzionalmente rispetto al reddito;
infine, per i cosiddetti beni inferiori, la quantità
domandata dal consumatore diminuisce all'aumentare del reddito.
Dopo i pionieristici contributi di Engel, la ricerca empirica ha
notevolmente esteso la conoscenza dei nessi tra domanda di beni e
livelli di reddito. Da un lato, si è constatato che per
diversi gruppi di beni è diverso l'ammontare del reddito in
corrispondenza del quale viene raggiunto il livello di saturazione
(assoluto o relativo a seconda dei casi); dall'altro, si è
scoperto che quanto più alto è il reddito di un
soggetto tanto più diversificata è la struttura dei
suoi consumi. Il che significa che, all'aumentare del reddito, si
verifica soprattutto un mutamento qualitativo, e cioè
strutturale, dei consumi: il soggetto diminuisce, in senso assoluto
o relativo, il consumo di certi beni per dirigere la sua scelta su
altre categorie di beni, sempre più diversificate.
b) L'influenza del prezzo sulle decisioni di consumo
Cosa accade alla quantità consumata di un bene al variare
del suo prezzo? Si consideri una situazione in cui il consumatore ha
un bilancio di lire 1.000 da spendere nell'acquisto di due beni,
cibo e vestiario. Il prezzo del vestiario rimane fermo a lire 20,
mentre il prezzo del cibo passa da lire 40 a lire 50. Nella fig. 5 la AB denota la 'vecchia' linea di
bilancio, la AC la 'nuova' linea di bilancio. Come si può
notare, l'aumento del prezzo del cibo produce due effetti sulla
linea di bilancio: ne modifica la pendenza (muta, infatti, il
rapporto dei prezzi) e ne sposta la posizione verso l'origine,
così da restringere il campo di scelta del consumatore.Il
secondo effetto della variazione del prezzo è, in un certo
senso, simile all'effetto di una riduzione del reddito del
consumatore, nel senso che entrambi riducono il suo potere
d'acquisto, ma è opportuno separare i due effetti. A tale
scopo si assuma che quando il prezzo del cibo è di lire 40,
il consumatore scelga la combinazione di beni indicata nella fig. 5 dal punto D. In seguito all'aumento del
prezzo del cibo a lire 50, la medesima combinazione verrebbe a
costare lire 1.150, quanto a dire che 150 è la variazione
compensativa del reddito necessaria a controbilanciare l'effetto
della variazione del prezzo del cibo. La linea di bilancio EF
rappresenta una situazione compensata in cui il prezzo del cibo
è di lire 50, il prezzo del vestiario è di lire 20 e
il bilancio della famiglia è di lire 1.150. Siamo ora in
grado di analizzare separatamente i due effetti della variazione del
prezzo.
Nella situazione compensata il consumatore è in grado di
acquistare, se lo desidera, il paniere D, così che, rispetto
alla situazione iniziale, la sua posizione di benessere non risulta
peggiorata. Ora, il confronto delle due situazioni - iniziale e
compensata - ci consente di esaminare la misura in cui il
consumatore sostituisce l'un bene all'altro in seguito a variazioni
del rapporto dei prezzi, senza però che il suo potere reale
d'acquisto risulti minimamente ridotto. Questa variazione della
quantità domandata è l'effetto di sostituzione della
variazione dei prezzi relativi.
Si è detto che nella situazione compensata il consumatore
può acquistare D, cioè lo stesso paniere acquistato
nella situazione iniziale, e questo significherebbe che non vi
è sostituzione alcuna tra i beni, e che l'effetto di
sostituzione è nullo. Se acquista un paniere situato sul
segmento DE - poniamo G - l'effetto di sostituzione sulla domanda di
cibo è negativo: il prezzo del cibo è aumentato e la
quantità domandata dello stesso è diminuita. Infine,
se acquista un paniere situato sul segmento DF - ad esempio H -
l'effetto di sostituzione sulla domanda di cibo è positivo:
è aumentato il prezzo del cibo, ma anche la quantità
domandata dello stesso.
In realtà, se l'effetto di sostituzione risulta positivo, il
consumatore si comporta in modo incoerente. Infatti, nella
situazione iniziale egli sceglie D pur potendo acquistare H, e
questa scelta rivela che il soggetto preferisce D ad H; d'altro
canto, nella situazione compensata egli sceglie H, anche se potrebbe
continuare a scegliere D, rivelando di preferire ora H a D. Di qui
l'incoerenza di comportamento.
Ebbene, l'assioma delle preferenze rivelate esclude tale
possibilità: se il consumatore sceglie il paniere x in una
situazione in cui il paniere y è pure accessibile, egli non
procederà poi a scegliere y in una qualunque altra situazione
in cui x sia ancora accessibile. L'assioma implica perciò che
il consumatore non sceglierà alcun paniere situato sul
segmento DF nella situazione compensata, dato che D è ancora
accessibile. In altri termini, esso esclude che l'effetto di
sostituzione possa risultare positivo e quindi assicura che la
quantità domandata del bene diminuisce (o resta invariata)
quando il suo prezzo aumenta.
Nella situazione compensata la linea di bilancio è EF; nella
nuova situazione, quella cioè che viene a determinarsi dopo
l'aumento del prezzo del cibo, la linea di bilancio è AC.
Come si nota, AC ed EF sono tra loro parallele; infatti i prezzi
sono gli stessi nelle due situazioni. Ora, l'analisi engeliana della
domanda ci dice che la domanda di beni normali (beni di lusso e beni
di primaria necessità) è più bassa nella
situazione nuova che non nella situazione compensata, dal momento
che la AC è più vicina all'origine della EF; la
domanda di beni inferiori è invece maggiore nella situazione
nuova che non in quella compensata. Per definizione, la variazione
della domanda di un bene dovuta al passaggio dalla situazione
compensata alla situazione nuova è l'effetto di reddito
associato alla variazione del prezzo di quel bene. Pertanto, se
nella situazione compensata il consumatore domanda il paniere G,
nella nuova situazione egli acquisterà: 1) un paniere situato
sul segmento KA se il cibo è un bene normale (il punto K ha
la medesima ordinata del punto G), in quanto ogni paniere su KA
include quantità minori di cibo rispetto a G e, come
già sappiamo, la domanda di un bene normale decresce quando
il reddito diminuisce; 2) un paniere situato sul segmento KC se il
cibo è un bene inferiore, dato che ogni paniere su KC
contiene quantità maggiori di cibo rispetto a G e la domanda
di un bene inferiore aumenta al diminuire del reddito.
La variazione della domanda di un bene dovuta alla variazione del
suo prezzo, vale a dire l'effetto prezzo, è la somma
algebrica degli effetti di reddito e di sostituzione. Ora,
poiché l'effetto di sostituzione è sempre negativo e
l'effetto di reddito fa diminuire la domanda di un bene normale il
cui prezzo è aumentato, si conclude che la domanda di un bene
normale diminuisce all'aumentare del suo prezzo e viceversa:
è la celebre legge della domanda, la quale resta valida nel
caso di beni normali. Per un bene inferiore, invece, mentre
l'effetto di sostituzione continua a risultare negativo, l'effetto
di reddito risulta positivo. L'effetto prezzo dipende perciò
da quello dei due effetti che sarà dominante: la domanda di
un bene inferiore diminuisce all'aumentare del suo prezzo e
viceversa qualora l'effetto di sostituzione prevalga sull'effetto di
reddito.
D'altro canto, nel caso in cui sia l'effetto di reddito a dominare
quello di sostituzione, si ha una violazione della legge della
domanda, perché all'aumentare del prezzo del bene la domanda
dello stesso aumenta. È questo il 'paradosso di Giffen', dal
nome di Robert Giffen, l'economista statistico inglese del XIX
secolo che per primo attirò l'attenzione degli studiosi su
una plausibile eccezione alla legge della domanda. Dunque la domanda
di un bene inferiore aumenta all'aumentare del suo prezzo quando
l'effetto di reddito supera quello di sostituzione.È chiaro
che, perché si possa verificare la situazione del paradosso
di Giffen sono necessarie due condizioni: che si tratti di un bene
inferiore e che la percentuale di reddito destinata all'acquisto del
bene in questione sia piuttosto rilevante.
c) Preferenze e scelte: l'ordinalismo paretiano
La conoscenza del solo assioma delle preferenze rivelate ci
permette di predire la direzione delle variazioni di domanda dei
beni conseguenti alle variazioni dei prezzi degli stessi. Se fossimo
in grado di conoscere i gusti ovvero la struttura preferenziale del
consumatore, potremmo conoscere anche l'entità delle
variazioni di domanda e non solo la direzione.Per descrivere le
preferenze del soggetto, la teoria delle scelte parte dalla nozione
di relazione di preferenza o di indifferenza tra panieri di beni.
L'assunto è che il consumatore sia in grado di confrontare
fra loro coppie qualsiasi di panieri, poniamo x e y, e di decidere,
a confronto avvenuto, se preferisce x a y oppure y a x, oppure
ancora se x e y sono per lui indifferenti nel senso che entrambi i
panieri soddisfano allo stesso modo quei bisogni al cui
soddisfacimento è orientata la sua attività di
consumo.
Indicando con P la relazione di preferenza e con I la relazione di
indifferenza, scriveremo xPy per significare che il soggetto
preferisce x a y, e xIy per indicare che egli non ha motivo di
preferire x a y. Quando un consumatore è sempre in grado di
decidere quale delle seguenti relazioni tra due panieri qualsiasi
è per lui rilevante - xPy, yPx, xIy - si dice che egli
possiede un campo ordinato di preferenze. Una proprietà
importante delle relazioni P e I è quella che si riferisce
alla coerenza delle scelte del soggetto, e viene resa esplicita
mediante il postulato di transitività dell'ordinamento di
preferenza: dati tre panieri, x, y, z, se xPy e yPz, allora xPz e,
se xIy e yIz, allora xIz. Il significato operativo del postulato
è di scongiurare la formazione di cicli nel campo ordinato di
preferenze dell'individuo. Infatti, se si avesse, poniamo, xPy, yPz,
zPx, si verrebbero a creare situazioni nelle quali il soggetto
dichiarerebbe di preferire x a z e altre nelle quali dichiarerebbe
di preferire z a x, cosa che manifesterebbe un comportamento
incoerente e contraddittorio.
Sulla base di quanto precede è possibile formulare il
criterio razionale di scelta del consumatore: data libertà di
scelta, il soggetto sceglie, tra tutti i panieri appartenenti al suo
campo di scelta, il paniere x* tale che x*Py, dove y denota un
qualsiasi paniere. La qualificazione di razionalità discende
dal presupposto che la preferenza denoti benessere: se il
consumatore preferisce x a y si deve presumere che il consumo di x
aumenti il suo benessere più di quanto non faccia il consumo
di y. Ecco perché egli è razionale se sceglie il
paniere x. Negli scritti dei primi autori marginalisti il criterio
di razionalità del consumatore viene formulato in termini
diversi, e precisamente in termini di massimizzazione della funzione
di utilità del soggetto. Dopo aver definito l'utilità
di un bene come la capacità dello stesso di soddisfare
bisogni, i marginalisti assumono l'esistenza di una funzione che
associa a quantità consumabili di beni un valore che ne
misura l'utilità totale. Così, se con U si indica
l'utilità che il soggetto è in grado di derivare dal
consumo di x, U=U(x) indica la sua funzione di utilità.
Inoltre, poiché man mano che si consumano quantità
successive di un certo bene per appagare un bisogno, quest'ultimo
decresce di intensità e poiché, come si è
detto, l'utilità di un bene dipende dall'intensità del
bisogno da soddisfare, ne deriva che l'incremento di utilità
conseguente all'incremento della quantità consumata di un
bene è via via decrescente. È questo il significato
del celebre principio dell'utilità marginale decrescente,
dove per utilità marginale si intende l'incremento di
utilità totale dovuto a un incremento unitario del bene
consumato. Tale principio ci suggerisce una spiegazione del
comportamento razionale del consumatore. Questi, infatti,
comincerà ad acquistare il bene che possiede la più
elevata utilità marginale, ma via via che egli procede nel
consumo di questo bene, l'utilità marginale decresce
progressivamente. Non appena questa scende al di sotto
dell'utilità marginale del bene che, tra quelli considerati,
possiede ora la più alta utilità marginale, il
soggetto passa a consumare quest'ultimo bene e così via.
Ora, poiché ciascun bene ha un prezzo di mercato, il
ragionamento di cui sopra ci porta a concludere che, nella
situazione di equilibrio, il consumatore spenderà interamente
il suo reddito eguagliando le utilità marginali dei diversi
beni ai rispettivi prezzi.
La soluzione del problema della massimizzazione dell'utilità
da parte del consumatore presenta però una grave
difficoltà. Nella condizione che definisce l'equilibrio del
soggetto i prezzi sono espressi in unità monetarie; ma in
quale unità di misura sono espresse le utilità
marginali dei beni che eguagliano quei prezzi? Si può parlare
di utilità marginale di un bene se l'utilità che il
soggetto deriva dal consumo dello stesso è una grandezza
misurabile in senso cardinale. (Matematicamente è cardinale
una misurazione che è unica a meno di una trasformazione
lineare). L'utilità cardinale ci dà informazioni non
solo circa l'ordine delle preferenze, ma anche circa la loro
intensità. Senonché, come si può
ragionevolmente assumere che un attributo essenzialmente qualitativo
come quello di utilità possa essere assoggettato a una
misurazione di tipo cardinale?
La prima critica sistematica al concetto di utilità cardinale
risale a Vilfredo Pareto. Secondo Pareto l'utilità, non
essendo una proprietà fisica dei beni consumati, non è
esprimibile mediante un'unità oggettiva di misura. Non
è infatti possibile ipotizzare che il consumatore, per quanto
perfetta si possa considerare la sua conoscenza, sia in grado di
stabilire di quanto l'utilità del paniere x superi
l'utilità del paniere y. Egli potrà senz'altro
avvertire che l'intensità della sua situazione di bisogno
è diversa nelle varie circostanze, ma non sarà mai in
grado di pronunciarsi in modo univoco sull'ampiezza delle differenze
di intensità.
Ma v'è di più. La misurazione cardinale
dell'utilità, osserva Pareto, oltre che concettualmente
impossibile è anche non necessaria ai fini dello studio del
comportamento razionale del consumatore. A tale riguardo è
sufficiente conoscere il modo in cui il soggetto ordina le varie
alternative di consumo aperte alla sua scelta. In sostanza, occorre
solo conoscere la sua funzione di utilità ordinale. Se il
consumatore sceglie x piuttosto che y, ciò è dovuto al
fatto che x è preferito a y; dunque se con u si indica
l'utilità in senso ordinale avremo: u(x) > u(y) se e solo
se xPyu(x) = u(y) se e solo se xIy. Vale a dire che, se xPy,
l'utilità di x dovrà risultare maggiore di quella di
y, mentre se xIy, ai panieri x e y verrà associato lo stesso
indice di utilità. Nella misurazione ordinale (che è
unica a meno di una trasformazione monotona crescente) è
rilevante solo il segno delle differenze tra grandezze, non le
differenze stesse, come è invece il caso con la misurazione
cardinale.In definitiva, il consumatore risolve il suo problema - e
si comporta in modo razionale - quando sceglie il paniere di beni
cui è associato il più elevato indice della funzione
ordinale di utilità. La novità dell'approccio
ordinalista rispetto a quello cardinalista sta nel fatto che, pur
rinunciando all'attributo della misurabilità in senso
cardinale dell'utilità, è egualmente possibile
arrivare a conoscere l'entità delle reazioni del consumatore
a variazioni dei prezzi dei beni e/o del suo reddito. (V. Decisioni,
teoria delle).
6. Sviluppi recenti dell'analisi economica del
consumo
La teoria del consumo sta vivendo una situazione di crisi,
cioè di passaggio: mentre si accresce l'insoddisfazione per
il vecchio e glorioso paradigma dell'ordinalismo paretiano, essa non
dispone ancora di un'alternativa soddisfacente. È però
possibile indicare alcune significative linee di tendenza verso un
nuovo paradigma.
Una prima importante presa di distanza dall'ordinalismo paretiano
è costituita dall'abbandono del postulato della
comparabilità completa delle preferenze, secondo il quale, se
si creano condizioni anche minime per ritenere y migliore di x, la
valutazione distinta di queste due alternative fornisce una misura
capace di valutare tutte le altre. La distinzione tra x e y dovrebbe
cioè fornire un metro capace di esaurire, considerando le
alternative migliori di x e quelle peggiori di y, l'insieme delle
alternative accessibili. Cosa implica il postulato in questione?
Quando vale la condizione di comparabilità completa, non vi
è alcuna differenza tra la scelta come processo e la scelta
come funzione di scelta e ciò perché i massimali sono
anche dei massimi e quindi il punto finale del processo di scelta
non dipende dal sentiero che è stato in effetti percorso.
Invece, quando i massimali non sono anche dei massimi, diventa
indispensabile prendere in considerazione l'elemento da cui ha
inizio il processo di scelta, dato che è questo che decide
quale massimale verrà alla fine raggiunto. In circostanze del
genere, pur senza alterare la struttura preferenziale del soggetto,
è possibile influire sullo stato finale che questi
potrà raggiungere guidando opportunamente la scelta della
posizione iniziale e/o di quella per cui passa il sentiero di
scelta. Come si può comprendere, parecchie e di grande
momento sono le conseguenze che discendono da un'impostazione che
non presupponga la comparabilità completa (v. Zamagni, 1986).
Un'altra linea di ricerca che innova radicalmente rispetto
all'ordinalismo paretiano è quella che inserisce
l'attività di consumo in un profilo temporale.
Nell'impostazione tradizionale si assume che il consumatore agisca
secondo uno schema a due stadi: nel primo egli decide quanto reddito
ottenere dalla vendita dei suoi servizi lavorativi, nel secondo
massimizza la propria utilità attraverso la spesa del reddito
così ottenuto nei vari beni di consumo. In questo modo il
tempo sottratto al lavoro e la spesa in consumi vengono considerati
argomenti separabili della funzione di utilità. In un recente
contributo G.G. Winston (v., 1983) studia le decisioni di consumo
entro un esplicito contesto temporale che, da un lato, rende
possibile ricavare il timing ottimale delle attività di
consumo e di lavoro e, dall'altro, consente di ricavare le
conseguenze del fatto che il soggetto fa cose diverse in momenti
diversi dell'unità di tempo presa come riferimento. L'idea
base è che vi sono cose che è piacevole fare e altre
che è piacevole aver fatto, un'idea che consente a Tibor
Scitovsky (v., 1976) di abbozzare una nuova teoria del consumo.
Un insieme di contributi recenti rompe con l'impostazione
tradizionale su un punto di centrale importanza: la sua
incapacità di fornire una teoria delle credenze in grado di
dare sostanza al principio, che pure essa accoglie, secondo cui le
scelte di consumo vanno spiegate in termini di preferenze e di
credenze. È un fatto evidente che i soggetti hanno preferenze
non solo riguardo agli stati del mondo, ma anche alle proprie
credenze circa quegli stati. Inoltre gli individui hanno un certo
potere di controllo sulle loro credenze e cioè possono
manipolarle selezionando opportunamente le fonti di informazione in
grado di confermare le credenze desiderate e smentire quelle non
desiderate. Infine, le credenze, una volta scelte dal soggetto,
tendono a durare nel tempo, mostrando una certa stabilità. La
'teoria dei prospetti' (prospect theory) di Kahneman e Tversky (v.,
1979), le ricerche di Akerlof e Dickens (v., 1982) sulla dissonanza
cognitiva e i lavori recenti di H. Simon (v., 1986) costituiscono
promettenti passi in questa direzione.Infine, un'altra interessante
linea di ricerca è quella seguita da autori che, da
angolature diverse e con strumenti diversi, studiano la formazione
dei gusti e il loro mutamento endogeno. L'idea di base, sottolineata
con forza da A. O. Hirschman (v., 1982), è che
attività di consumo intraprese perché ci si attende
che procurino soddisfazione possono procurare anche delusione e
insoddisfazione. Il consumatore che desidera una cosa può,
ottenendola, scoprire con disappunto di non desiderarla quanto
pensava e di desiderare realmente qualcos'altro di cui non era bene
a conoscenza. Nella misura in cui la delusione non è
completamente eliminata da un aggiustamento verso il basso delle
aspettative, ogni modello di consumo porta dentro di sé i
semi della sua distruzione. Ora, lo studio dei processi di
apprendimento e di formazione di abitudini nel consumo conduce a
modifiche sostanziali della teoria tradizionale. In primo luogo
perché, negando il principio dell'autonomia delle preferenze,
si viene a intaccare il fondamento utilitaristico dell'economia
neoclassica; in secondo luogo perché, se i gusti sono
malleabili, il primo teorema fondamentale dell'economia del
benessere (il teorema che, in breve, dimostra che un equilibrio
competitivo è un ottimo paretiano) si riduce a un corollario
della proposizione, di per sé banale, secondo cui i soggetti
desiderano ciò che in effetti riescono a ottenere.
La matematica - dichiarò John von Neumann - quando perde il
contatto con le scienze fisiche tende a diventare 'barocca', nel
senso che si contrappone allo stile 'classico' di pensiero che
è continuamente rivitalizzato dal contatto con la
realtà. L'ordinalismo paretiano ha raggiunto oggi lo stadio
barocco, perdendo sempre più terreno proprio in rapporto a
quei problemi che originariamente - agli inizi del secolo -
rappresentarono la sua ragion d'essere. Di qui le aporie, i
risultati controintuitivi, le smentite empiriche che la più
recente letteratura sull'argomento ha posto in evidenza. Quello che
da più parti viene sollecitato - e le linee di ricerca sopra
ricordate ne sono una chiara testimonianza - è un paradigma
per l'analisi della scelta individuale sufficientemente ricco,
quanto a struttura informativa incorporata, da consentire di
spiegare in modo non tautologico i più significativi fenomeni
connessi al comportamento di consumo di soggetti che operano in
economie a sviluppo avanzato. (V. anche Bisogni; Domanda).
Sociologia
di Gerardo Ragone
sommario: 1. Introduzione. 2. La direttrice
socioeconomica. 3. La direttrice socioculturale. □
Bibliografia.
1. Introduzione
Lo sviluppo della sociologia dei consumi è avvenuto lungo tre
direttrici: la prima di carattere socioeconomico, orientata in
prevalenza a integrare l'analisi economica del consumo e, in
particolare, la teoria della domanda; la seconda di ispirazione
sociopolitica, indirizzata invece a un'analisi critica dei consumi e
del 'consumismo' nelle società economicamente avanzate; la
terza, infine, di tipo socioculturale, mirante all'elaborazione di
una teoria del consumo interamente al di fuori degli schemi
dell'analisi economica. Nel primo caso l'attenzione è stata
posta sul consumatore, sulle sue motivazioni, i suoi atteggiamenti,
quindi sui fattori non economici che influenzano le sue decisioni di
acquisto. Al centro invece della discussione sociopolitica è
stato posto il problema del rapporto tra produzione e consumo e, in
particolare, la questione del condizionamento dei bisogni da parte
della produzione. Quanto alla direttrice socioculturale, essa ha
posto in prevalenza l'accento sulle funzioni simboliche
dell'attività di consumo e sul ruolo dei beni nei rituali di
comunicazione e di integrazione sociale. Questa tripartizione non va
intesa, però, rigidamente. Essa intende proporre uno schema
degli sviluppi di una disciplina dai confini estremamente incerti,
in quanto il consumo è una nozione al crocevia tra economia,
sociologia, psicologia e antropologia. Non è raro, infatti,
incontrare autori che, pur occupando un posto centrale in una delle
tre direttrici, hanno tuttavia esercitato un'influenza considerevole
anche nelle altre due. Essa però è anche utile per
porre bene in risalto il fatto che, nella sua lunga storia, la
sociologia dei consumi ha seguito strade molto diverse e che la
fragilità concettuale e teorica che talvolta le viene
contestata dipende probabilmente proprio da questa pluralità
di percorsi. Come infatti vedremo più avanti, a una
ricchissima produzione sul piano della ricerca empirica non ha mai
fatto riscontro un'adeguata riflessione teorica, pur essendo il
cammino di questa disciplina costellato di acute osservazioni e di
intuizioni talvolta geniali. Osservava alcuni anni fa Francesco
Alberoni (v., 1964) che "la mancanza di un sistema di riferimento
sociologico valido ha impedito la collocazione dei risultati di
ricerche sui consumi entro un sistema di riferimento concettuale
passibile di elaborazione teorica e di verifica sperimentale".
C'è però anche un altro motivo alla base delle
difficoltà che la sociologia dei consumi ha incontrato - e
tuttora incontra - lungo il suo cammino, ed è la costante
presenza nelle sue analisi di variabili di tipo qualitativo, di
variabili cioè che presentano in genere non poche
difficoltà di trattamento, e che pongono poi seri ostacoli
quando devono interagire con grandezze quantitative, come quelle che
sono comunque al centro della problematica dei consumi. Di qui,
probabilmente, il difficile rapporto con gli economisti e il
fallimento dei non pochi tentativi di integrazione tra questi due
diversi approcci allo studio del consumo (v. Leibenstein, 1950, p.
186).
Se però è vero che è stata proprio questa
considerazione degli aspetti qualitativi ad accentuare le
difficoltà sia teoriche che di ricerca della sociologia dei
consumi, ostacolandone anche l'incontro con l'analisi economica,
è anche vero che sono proprio questi aspetti qualitativi del
consumo ad assumere oggi, nelle società del benessere, un
peso considerevole nella formazione delle preferenze e delle
decisioni di spesa dei consumatori e che quindi è proprio con
questo tipo di problemi che qualunque approccio al consumo è
costretto a misurarsi. Come ha infatti osservato Zamagni (v., 1986,
p. 458) "proprio perché cosa e quanto il consumatore trae dai
beni dipende da parecchi fattori e circostanze e non solo dalla
quantità disponibile degli stessi, è necessario andare
oltre le sole informazioni di utilità, se si vuole dar conto
dei comportamenti effettivi di consumo". Ciò che, quindi,
poteva essere tranquillamente accantonato in passato dalla teoria
economica della domanda, acquista invece oggi anche per essa un
particolare rilievo, lasciando così intravvedere nuove
possibilità di convergenza tra l'analisi economica e quella
sociologica dei consumi.
Ecco perché, delle tre direttrici prima indicate, quella
socioeconomica appare oggi certamente la più fertile e
promettente ed è, pertanto, a essa che converrà
dedicare la maggiore attenzione. Tratteremo invece solo
limitatamente l'approccio socioculturale dal momento che le
accentuazioni etno-antropologiche in esso presenti, per quanto
suggestive e stimolanti (v. in particolare Douglas e Isherwood,
1980), rischiano in realtà di alterare radicalmente la
nozione di consumo, nozione che, per quanto suscettibile - come si
è detto - di integrazioni qualitative, non può
tuttavia essere collocata completamente al di fuori della
problematica economica. Per quanto riguarda, infine, la direttrice
sociopolitica, ci sembra che si possa soprassedere in questa sede,
dato che le principali tematiche in essa presenti vengono trattate
in altre parti di questa opera (v. Bisogni;
v. Produzione).
2. La direttrice socioeconomica
Le origini di questo primo indirizzo della sociologia dei consumi
risalgono al XVIII secolo, quando, in seguito alla rivoluzione
industriale, cominciano a costituirsi nelle città europee i
primi nuclei di popolazione operaia. Anche se l'interesse degli
studiosi dell'epoca verso i consumi delle nuove classi emergenti era
in realtà strumentale, trattandosi più che altro di
indagini tese a individuare nuove misure di politica sociale, non
c'è dubbio però che furono proprio queste prime
rilevazioni - condotte attraverso i 'bilanci' delle famiglie - ad
aprire la strada alla riflessione sociologica sul consumo.
Già nel 1672 William Petty aveva studiato i consumi delle
famiglie operaie inglesi allo scopo di individuare nuovi criteri di
tassazione. Circa cento anni dopo il reverendo David Davies
ripeté l'operazione raccogliendo centocinquanta bilanci di
famiglie contadine inglesi, al fine di definire un livello minimo di
salario calcolato sul costo della vita. E qualche anno dopo, sempre
in Inghilterra, Frederick Eden svolse indagini analoghe allo scopo,
questa volta, di riformare le leggi inglesi sulla povertà.
Malgrado l'importanza delle finalità sociali che le
ispiravano, queste prime esplorazioni sociologiche del consumo non
andavano però molto al di là di una semplice
registrazione ed elencazione di spese. Per trovare infatti
osservazioni più accurate e sistematiche su questi temi,
occorrerà attendere le famose monografie sui redditi e sui
consumi delle famiglie operaie europee che Frédéric Le
Play pubblicò intorno alla metà del secolo scorso e
che costituiscono senz'altro le prime vere indagini sociologiche sul
consumo. Furono proprio i risultati di queste ricerche a sollecitare
l'interesse di Ernst Engel, uno statistico prussiano che,
perfezionando la metodologia dei bilanci familiari, riuscì a
raccogliere dati ancora più dettagliati sulle entrate e le
uscite delle famiglie, individuandone anche alcune importanti
regolarità di fondo. Risale infatti proprio a Engel (1895) la
prima 'legge generale sul consumo' - nota appunto come 'legge di
Engel' - secondo cui la quota percentuale di spesa per
l'alimentazione di una famiglia o di una collettività
è tanto più elevata rispetto alla spesa totale, quanto
più basso risulta il reddito di quella famiglia o di quella
collettività, e viceversa.
Queste prime analisi sulla ripartizione delle spese delle famiglie
vennero ulteriormente approfondite da Maurice Halbwachs che, circa
quarant'anni dopo Engel, puntualizzò quelli che sicuramente
costituiscono i due punti centrali dell'approccio socioeconomico al
consumo, e cioè: a) a parità di reddito, i consumi
delle famiglie sono influenzati da numerosi fattori sociali, come,
ad esempio, l'occupazione del capofamiglia, la zona di residenza,
ecc.; b) i bisogni, e per conseguenza i modelli di consumo e gli
stili di vita, non dipendono dal livello del salario, ma sono
piuttosto un prodotto storico, determinato cioè dalle
condizioni sociali, economiche e culturali che caratterizzano una
determinata epoca, e pertanto è impossibile pensare a salari
fissi - come in precedenza avevano sostenuto economisti classici
come Turgot e Ricardo - dal momento che non esistono bisogni
essenziali fissi.
Ciò che, quindi, questo primo tipo di studi cominciava a
mettere in luce era l'insufficienza delle tradizionali variabili
prezzo e reddito nella spiegazione del comportamento del
consumatore. Iniziava cioè a farsi strada l'ipotesi che,
prima ancora che dal prezzo dei beni e dal reddito personale, le
scelte del consumatore fossero fortemente condizionate dal sistema
di relazioni sociali in cui questi era inserito e che, pertanto, il
problema del tipo di beni da possedere e dello stile di vita da
adottare poteva in molti casi sovrastare quello delle singole
quantità desiderate di ciascun bene. Halbwachs aveva, ad
esempio, mostrato come i modelli di consumo degli operai e degli
impiegati differissero notevolmente anche quando il reddito era lo
stesso, nel senso che, mentre gli operai destinavano gran parte del
loro reddito ai consumi alimentari, gli impiegati tendevano a
contenere questo tipo di spesa allo scopo di incrementare quelle per
l'abbigliamento e per l'abitazione. E prima di Halbwachs anche Le
Play era giunto a conclusioni analoghe, evidenziando appunto il
ruolo centrale che lo status individuale giocava nella formazione
dei gusti e delle preferenze degli individui.Oltre a intaccare i due
cardini centrali della teoria neoclassica della domanda, quelli
cioè dell'utilità e della razionalità,
l'introduzione di questo nuovo fattore nella problematica del
consumo consentiva di affermare che non solo la domanda poteva
variare in alcuni casi in funzione diretta anziché inversa
del prezzo, ma che la stessa ripartizione del reddito individuale
tra consumo e risparmio poteva realizzarsi in modi diversi da quelli
previsti dalla teoria economica.La ricerca nordamericana degli anni
quaranta e cinquanta del nostro secolo confermò ampiamente il
peso dei fattori extraeconomici nelle scelte di consumo. Una delle
più note indagini di questo periodo fu quella che Warner e
Lunt condussero a Yankee City. Oltre a confermare le leggi di Engel,
come appare chiaramente dalla fig. 1, l'indagine di Warner e Lunt mise
appunto in luce il ruolo che i fattori di status giocano nella
determinazione della domanda individuale; nella fig. 2 si può infatti osservare il
diverso comportamento di spesa delle nuove e delle vecchie
élites in relazione a fattori di prestigio come l'istruzione
o come l'automobile, nonché il notevole distacco tra strato
sociale 'inferiore-inferiore' e strato sociale 'inferiore-superiore'
per quanto riguarda le spese culturali e ricreative. In
realtà la questione delle pressioni di status sulle scelte di
consumo era già stata magistralmente teorizzata da Thorstein
Veblen alla fine del secolo scorso. Nella sua celebre opera La
teoria della classe agiata Veblen aveva infatti mostrato non solo
che i beni di consumo servono per rappresentare la posizione sociale
degli individui e che, pertanto, la 'razionalità' del
consumatore ha più a che fare con la massimizzazione del
prestigio che non con la massimizzazione dell'utilità, ma che
questi comportamenti di esibizione competitiva, certamente
caratteristici degli strati sociali privilegiati, avrebbero finito
per essere assunti anche dagli altri strati sociali tramite quel
processo di diffusione (che i sociologi chiameranno trickle effect,
ossia 'caduta', 'gocciolamento': v. in particolare Fallers, 1954) in
base al quale ogni gruppo o strato sociale adotta come modello di
riferimento per i propri consumi il gruppo o lo strato sociale che
lo precede nella gerarchia degli status.
La teoria di Veblen meriterebbe certamente più spazio di
quanto non sia consentito in questa sede, in considerazione appunto
dell'influenza che l'ipotesi del 'consumo vistoso' ha esercitato sia
in campo economico che sociologico. Basterà tuttavia mettere
qui in luce solo un punto centrale, e cioè che Veblen
introduce nell'analisi del comportamento del consumatore una
categoria di razionalità assolutamente estranea alla logica
economica, quella cioè di razionalità dello spreco,
dello sperpero, una razionalità quindi in negativo rispetto
al fondamento utilitaristico della teoria economica della domanda.
Secondo Veblen, infatti, il fine che il consumatore persegue
attraverso le sue strategie di spesa sarebbe in realtà quello
di ottenere sempre più stima e apprezzamento da parte di
coloro con cui egli entra in contatto. Ma poiché nelle
società capitalistiche questa stima e questo apprezzamento
sono strettamente legati alle capacità di spesa
dell'individuo, ecco che l'ostentazione e lo spreco finiscono per
costituire i criteri di fondo per le sue scelte di consumo. È
questo il motivo per cui, secondo Veblen, il consumo dei beni
costosi sarebbe particolarmente apprezzato in questo tipo di
società, al punto che "i beni che contengono un elemento di
costo notevolmente superiore a ciò che loro conferisce
l'utilità per il loro evidente scopo meccanico, sono
onorifici" (v. Veblen, 1899; tr. it., p. 127).
Non è difficile immaginare quali conseguenze derivino
dall'assumere, nella teoria del consumo, l'ipotesi vebleniana
dell'esibizione competitiva. La prima, e forse più importante
di tutte, è che, venendo a cadere il presupposto
dell"indipendenza' delle scelte - presupposto che, come è
noto, è alla base sia della microeconomia che della
macroeconomia del consumo - sorgono serie difficoltà per
l'individuazione della domanda collettiva. La possibilità
infatti di sommare curve individuali di domanda è
condizionata all'ipotesi che i consumatori non si influenzino
reciprocamente. In caso contrario la somma delle scelte individuali
non indica più la quantità totale domandata di un
certo bene e, quindi, la curva collettiva risulta indeterminabile
(v. Leibenstein, 1950).
La seconda conseguenza è che diventa inevitabile, nella
teoria della domanda, affrontare un problema sul quale gli
economisti hanno sempre preferito sorvolare (v. Weizsäcker,
1971; v. Pollak, 1978), quello cioè della formazione dei
gusti e del loro mutamento endogeno. La variabilità dei gusti
mette infatti in discussione alcune proprietà delle funzioni
individuali di domanda, ed è questo, appunto, il motivo per
cui, come è stato osservato, "una lunga pratica scientifica
ha sempre ritenuto che l'economia non avesse nulla a che fare con
l'approfondimento delle ragioni per cui le preferenze sono quelle
che sono e ancor meno con l'indagine sul come e perché esse
possono cambiare" (v. Zamagni, 1986, p. 447).
Va infine ricordato che una conseguenza più generale
derivante dall'assunzione delle ipotesi di Veblen è il
radicale spostamento della problematica del consumo dal livello
micro a quello macro. Se infatti si ritiene che, nelle sue scelte,
il consumatore sia rigidamente condizionato da un complesso sistema
di vincoli sociali, perdono interesse le questioni attinenti alle
motivazioni, agli atteggiamenti e alle aspettative, e si pone in
primo piano il circuito strutturale di diffusione dei beni tra i
vari strati che compongono la società. Nello schema di
Veblen, in altre parole, oggetti, beni di consumo, valori, abitudini
e stili di vita transiterebbero da uno strato sociale all'altro
secondo le caratteristiche del sistema di stratificazione sociale.
In questa prospettiva lo studio dei consumi verrebbe a coincidere
con lo studio dei fenomeni di 'moda': è, come vedremo
più avanti, la tesi sostenuta dal sociologo francese Jean
Baudrillard, che in passato era già stata formulata da
Pitirim Sorokin nella sua famosa opera sulla mobilità
sociale. Va ricordato, infine, che questa nuova prospettiva dello
studio dei consumi ha trovato interessanti applicazioni all'interno
di quella corrente di pensiero che va sotto il nome di
'diffusionismo' e, in particolare, nello studio dei processi di
diffusione delle innovazioni (v. Rogers, 1962; v. Mahajan e
Peterson, 1985).
Per quanto dibattuto e controverso, sia in campo economico che
sociologico (v. Alberoni, 1964; v. Fabris, 1970), il contributo di
Veblen ha comunque segnato una tappa fondamentale nella storia
dell'analisi del consumo, una tappa che ha reso possibile, a
distanza di molti anni, l'avvio di due distinti filoni di ricerca:
quello socioeconomico, di cui ci stiamo appunto ora occupando e che,
come vedremo tra poco, ha trovato in Duesenberry uno degli esponenti
più rappresentativi, e quello, invece, socioculturale dove,
come si è detto, viene particolarmente esaltata la funzione
simbolica esercitata dai beni e dai consumi in generale. Nel primo
caso la nozione vebleniana di 'consumo vistoso' è stata
semplicemente utilizzata per aprire la strada all'ipotesi
dell'interdipendenza; nel secondo caso, invece, questa nozione viene
dilatata al punto da sostenere che i beni, più che alla
sussistenza e all'esibizione competitiva, servirebbero in
realtà per "rendere visibili e stabili le categorie della
cultura" (v. Douglas e Isherwood, 1980).
Come accennato in precedenza, quest'ultimo indirizzo di studi, per
quanto suggestivo, altera tuttavia in modo così sostanziale
la nozione di consumo da renderla poi difficilmente ricollegabile
con le categorie economiche di prezzo, di reddito e di risparmio
che, comunque, definiscono nei suoi tratti centrali la problematica
del consumo. Di ciò parleremo più avanti, mentre ora
converrà accennare a quello che è stato sicuramente lo
sviluppo più interessante dell'ipotesi di Veblen, cioè
la teoria di Duesenberry (v., 1949).Secondo questo autore, nelle
società caratterizzate da alti livelli di benessere - qual
era la società nordamericana degli anni quaranta, quella,
appunto, che Duesenberry aveva sotto gli occhi quando elaborò
la sua teoria - il consumatore verrebbe sottoposto a continue
sollecitazioni all'acquisto derivanti dal confronto tra i beni da
lui posseduti e quelli di qualità superiore posseduti dai
consumatori di status superiore al suo con i quali, in questo tipo
di società con labili confini di classe, egli sicuramente
entra in contatto ('privazione relativa'). L'insoddisfazione
derivante da questi continui confronti, da ciò che
Duesenberry chiama "effetto dimostrativo", provocherebbe l'impulso a
migliorare continuamente il proprio tenore di vita, sostituendo
appunto i beni posseduti con beni di qualità superiore. Di
qui un'espansione notevole delle spese di consumo a scapito del
risparmio, che è la conclusione esattamente opposta a quella
cui perviene la teoria economica e, in particolare, la teoria
keynesiana del consumo. Quest'ultima, infatti, partendo dall'assunto
dell'indipendenza delle scelte di consumo, sostiene che al crescere
del reddito - stante una certa difficoltà del consumatore a
modificare subito il proprio tenore di vita - il consumo crescerebbe
in misura inferiore al risparmio. Duesenberry, al contrario,
accogliendo l'ipotesi vebleniana dell'interdipendenza delle scelte,
sostiene che, al crescere del reddito, il consumatore, oltre a
desiderare quantità maggiori degli stessi beni, desidera
anche beni di qualità superiore e, pertanto, grazie a questa
ulteriore sollecitazione, la crescita del consumo può
risultare proporzionale alla crescita del reddito.
La tesi di Duesenberry ha due importanti implicazioni, una di tipo
sociologico, l'altra di tipo economico. Sotto il profilo sociologico
l'ipotesi dell'effetto dimostrativo pone subito il problema del
rapporto tra crescita dei consumi e stratificazione sociale: dire
infatti che i bisogni, e quindi i consumi, sono continuamente
stimolati dai rapporti interindividuali e, in particolare, dai
rapporti tra soggetti con status differente, significa in
realtà sostenere che questa crescita trova la sua causa
principale proprio nella disuguaglianza sociale, o comunque nella
presenza di margini ottimali di disuguaglianza all'interno della
società, ed è facile immaginare quali interrogativi di
tipo politico ed etico sollevi questo assunto. L'implicazione
economica è altrettanto importante, dal momento che l'ipotesi
dell'effetto dimostrativo viene di fatto a infirmare la tesi
keynesiana circa la possibilità di stimolare il consumo (e,
quindi, il reddito e l'occupazione) attraverso una redistribuzione
del reddito nazionale. Nello schema keynesiano, infatti, una
situazione di depressione economica dovuta a insufficienza della
domanda interna potrebbe esser risolta con una redistribuzione di
reddito dalle classi più ricche a quelle più povere,
considerando appunto che la propensione marginale al consumo di
queste ultime è maggiore di quella delle prime. Per
Duesenberry, invece, gli effetti sul consumo di questa
redistribuzione sarebbero estremamente incerti. Riducendosi infatti
la disuguaglianza tra i redditi, verrebbe a restringersi il margine
in cui opera l'effetto dimostrativo, con la conseguenza che le
classi che ricevono reddito addizionale potrebbero anche non
destinarlo all'incremento del consumo nella misura in cui la
propensione marginale lasciava prevedere.Il binomio
Veblen-Duesenberry costituisce, dunque, sul piano teorico, l'asse
portante dell'indirizzo socioeconomico. Collocando infatti il
consumo all'interno del sistema di stratificazione e introducendo il
problema della 'qualità' dei beni, Veblen prima e Duesenberry
in un secondo momento spostano l'intera problematica dal piano dei
beni e dei valori d'uso a quello più ampio, anche se
più complesso e incerto, degli stili di vita. In un saggio
dal titolo I limiti sociali allo sviluppo l'economista Fred Hirsch
ha teorizzato una categoria di beni, i beni 'posizionali', che
è assai vicina a quella dei consumi vistosi di Veblen e che,
allo stesso tempo, prevede processi di influenza tra i consumatori
analoghi all'effetto dimostrativo di Duesenberry.
Il ragionamento di Hirsch parte dalla considerazione che, nelle
società economicamente avanzate, una parte consistente della
domanda dei consumatori si rivolge verso beni non fondamentali,
beni, cioè, che in parte sono rappresentati dai tradizionali
beni di lusso, in parte da quei prodotti e servizi che assicurano un
alto livello di qualità della vita (si pensi al comfort
abitativo, alla disponibilità di verde, di aria pura, ecc.),
in parte infine da quelle opportunità e da quei privilegi,
quali ad esempio i lavori ben remunerati e ad alta
responsabilità, che pur non essendo beni di consumo si
collocano tuttavia ugualmente al centro delle aspirazioni dell'uomo
della società 'affluente'. La tesi di Hirsch è che
mentre l'offerta dei beni materiali tradizionali cresce regolarmente
al crescere della relativa domanda, l'offerta di beni 'posizionali'
è invece limitata, sia perché essi scarseggiano in
senso assoluto (un terreno panoramico) o sociale (i prodotti della
moda), sia perché il loro godimento si deteriora man mano che
aumenta il numero delle persone che vi accedono. Hirsch li definisce
'posizionali' appunto perché l'accesso a essi è
funzione dello status dell'individuo, vale a dire del suo reddito
'relativo'. Il vero problema dello sviluppo sarebbe pertanto quello
di spingere inesorabilmente la domanda dei consumatori verso beni la
cui offerta è limitata, generando così insoddisfazioni
e frustrazioni nella maggior parte degli individui.
L'idea di un settore posizionale di beni ripropone, dunque, la
questione delle ineguaglianze strutturali nella crescita dei
consumi. Veblen aveva posto in luce le funzioni sociali di queste
disuguaglianze; Duesenberry ne teorizza, alla fine degli anni
quaranta, gli effetti diretti sulla domanda e sul risparmio; Hirsch
ne trae le conseguenze in termini di sviluppo economico.
Nell'indirizzo socioeconomico si può dunque parlare
più propriamente di un 'asse' Veblen-Duesenberry-Hirsch, al
quale sembrano oggi guardare con interesse non solo i sociologi, ma
anche gli economisti e i politologi (v. Sen, 1982; v. Scitovsky,
1976; v. Hirschman, 1982).
L'approccio socioculturale cui ora accenneremo costituisce, come si
è detto, una variante di questa prospettiva, nel senso che la
tesi vebleniana dei beni come strumento di esibizione competitiva
viene qui portata alle estreme conseguenze, considerando il consumo
come un'attività di produzione e di manipolazione di
significati sociali e, quindi, come un vero e proprio linguaggio.
3. La direttrice socioculturale
In realtà la tesi secondo cui gli oggetti e i beni di
consumo servono anche per soddisfare esigenze di comunicazione e di
integrazione sociale non si può attribuire unicamente a
Veblen. Gli antropologi si sono infatti sempre occupati di questo
tipo di problemi, mostrando come i prodotti della 'cultura
materiale' possano favorire i processi che sono alla base della
coesione sociale. D'altronde lo stesso Veblen, nel suo saggio sulla
"classe agiata", fa un costante riferimento a materiali e a
riflessioni di tipo antropologico. Pertanto, il tentativo condotto
da sociologi come Jean Baudrillard e da antropologi come Mary
Douglas, di costruire una teoria 'culturale' del consumo, va in
parte ricondotto all'analisi vebleniana, ma va anche collocato nella
tradizione di studi dell'antropologia economica.
Per Baudrillard (v., 1970 e 1972) il consumo non sarebbe altro che
uno scambio socializzato di segni. Poiché infatti nelle
società del benessere diventa vitale per l'individuo
collocarsi nel modo migliore possibile all'interno della gerarchia
sociale - dal momento che, come aveva mostrato Duesenberry e come ha
sostenuto Hirsch, è proprio da questo posizionamento che
dipende l'accesso ai beni e ai servizi cosiddetti 'superiori' - la
funzione principale che i beni di consumo finiscono per svolgere
è proprio quella di rappresentare questa posizione, di
mostrare, cioè, al meglio, la capacità di spesa
dell'individuo. Ecco perché in società di questo tipo
i beni non verrebbero più tanto desiderati e acquistati per
ciò che possono fornire in termini di uso, quanto soprattutto
per ciò che possono dare in termini di prestigio e quindi di
posizione sociale. Alla base del consumo non vi sarebbe pertanto,
secondo Baudrillard, una logica economica di soddisfazione dei
bisogni, quanto una logica sociale di differenziazione, la stessa,
cioè, che governa i fenomeni di moda.
Tre aspetti di questa tesi vanno qui sottolineati. Il primo è
che, una volta posto alla base del consumo il bisogno di
'differenze' (sociali) piuttosto che il bisogno di beni, il problema
della razionalità delle scelte, così com'è
inteso dalla teoria neoclassica della domanda, esige una sostanziale
revisione. Il secondo aspetto è che, poiché i bisogni
di beni possono comunque trovare un punto di saturazione, mentre
ciò è da escludere per i bisogni di 'differenze', si
comprende bene perché nelle società capitalistiche
avanzate le domande dei consumatori si spostino verso livelli sempre
più elevati. Il terzo aspetto da sottolineare è che,
ragionando in tal modo, Baudrillard, esattamente come Veblen, sposta
il problema del consumatore dal campo micro a quello macro, nel
senso che la quantità di beni che questi riesce a ottenere
non dipenderebbe né dal suo reddito, né dalle sue
motivazioni, ma sarebbe strutturalmente determinata dalla logica
stessa della differenziazione di classe.
Nel saggio dal titolo Il mondo delle cose, anche l'antropologa Mary
Douglas e l'economista Baron Isherwood sostengono una tesi del
genere. Anche per loro, cioè, l'attività di consumo
sarebbe qualcosa di più del semplice uso di beni per il
soddisfacimento di bisogni umani; solo che, mentre per Baudrillard,
come d'altronde per Veblen, questo 'di più' riguarderebbe
esclusivamente l'esibizione competitiva, per i due studiosi inglesi
si tratterebbe di una funzione più ampia e complessa,
riguardante, come si è detto, la visibilità e la
stabilità delle categorie della cultura.
Dal 'consumo vistoso' di Veblen, dunque, alla manipolazione di
beni-segno secondo Baudrillard, ai beni, infine, intesi come
'accessori rituali' per dare un senso al mondo degli eventi. Come si
vede, l'indirizzo socioculturale si è andato via via
arricchendo di nuove ipotesi e di nuove interpretazioni, certamente
suggestive e stimolanti per la ricerca sui consumi. Il rischio
tuttavia è che, con questa alterazione sostanziale della
nozione di consumo, l'indirizzo socioculturale si allontani talmente
dai tradizionali interrogativi che sono alla base della problematica
dei consumi, da compromettere ogni possibilità d'integrazione
con l'approccio socioeconomico.