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F.A. von Hayek definì la c. una procedura per la scoperta del nuovo, per sottolinearne la natura dinamica e indicare che l’esplorazione libera delle opportunità, anche attraverso l’innovazione, ne è il carattere principale. L’operare della c. richiede un quadro legislativo chiaro, che tuteli i diritti di proprietà e definisca le regole dell’interazione sul mercato. La nozione generale di c. si applica a ogni forma di attività economica. Si parla di c. tra beni diversi sostituibili l’uno all’altro per scopi di produzione o di consumo.
In materia di commercio internazionale si dice che vi è libera c., quando gli scambi tra paesi non sono ostacolati da vincoli legislativi o dazi doganali.
1. La c. perfetta
Nell’accezione teorica dei modelli economici, la c. pura o perfetta indica un mercato ideale caratterizzato dalle seguenti proprietà: a) la numerosità degli agenti economici, dal lato della domanda e dell’offerta, nessuno dei quali è in grado d’influire in modo significativo e diretto sul prezzo; b) l’apertura del mercato all’ingresso di nuovi produttori o la possibilità di uscita dal mercato e la completa mobilità della domanda e dell’offerta; c) la perfetta omogeneità, e quindi la perfetta sostituibilità delle varie unità di ciascun bene scambiato; d) la trasparenza del mercato, per cui ogni operatore è al corrente delle condizioni in cui si svolgono le contrattazioni, a parità d’informazioni rispetto a tutti gli altri; e) la mancanza di preferenze dei venditori nei confronti dei singoli compratori e viceversa; f) la mancanza di barriere di natura legale alla libertà del mercato; g) il vincolo che le imprese non possono ricorrere a coalizioni.
In c. perfetta, il prezzo di equilibrio sul mercato per tutte le unità omogenee di ogni prodotto è unico (legge di indifferenza o legge del prezzo unico di W.S. Jevons). La c. perfetta, infatti, esprime analiticamente una situazione limite del mercato, dove né imprese né consumatori hanno il potere di mercato; non possono, quindi, con la propria offerta o domanda addizionale, influire sul prezzo. La nozione di c. perfetta è, perciò, applicata nei modelli di equilibrio economico generale adottando l’ipotesi detta di price-taking , ossia l’ipotesi che gli agenti compiono le scelte ottimali, assumendo come dato all’atto della scelta il vettore che esprime i prezzi relativi di mercato. L’ottimalità del mercato di c. perfetta in condizioni di equilibrio generale è studiata nei teoremi dell’economia del benessere (➔ economia). L’ipotesi di c. perfetta si applica, inoltre, all’analisi di equilibrio parziale e impresa rappresentativa, derivata dagli studi di A.-A. Cournot e A. Marshall.
Nel mercato di un bene perfettamente omogeneo in c. perfetta, in condizioni di equilibrio parziale, il prezzo di equilibrio coincide con il costo di produzione marginale; nel lungo periodo il prezzo di equilibrio eguaglia il costo medio minimo dell’impresa rappresentativa. Per definizione, in tale mercato ogni impresa fronteggia una curva di domanda orizzontale al prezzo di mercato, per le dimensioni irrilevanti rispetto al fatturato totale. Per superare alcune ipotesi restrittive nella definizione teorica di c. perfetta, è stata definita e studiata la forma di mercato detta di c. monopolistica.
2. La c. imperfetta o monopolistica
È una situazione di mercato in cui le imprese sono numerose e vi è libertà d’ingresso e uscita dal mercato, come in c. perfetta, ma ogni impresa produce un prodotto specifico, differenziato. Il mercato di c. monopolistica è caratterizzato da un numero elevato d’imprese, che producono e vendono beni simili, con stretta sostituibilità per il consumatore. In questa forma di mercato le imprese in c., che producono i beni simili e sostituti, fronteggiano ognuna la curva di domanda inclinata negativamente per il proprio prodotto specifico, anche se la differenziazione tra i beni è dovuta alla pubblicità, al marchio, alla localizzazione, più che a caratteristiche intrinseche. In c. monopolistica, il mercato si frammenta in zone e settori in cui le imprese godono di una posizione di monopolio relativo, spesso anche per rapporti privilegiati tra clienti e imprese. Si suppone che ogni impresa operi le sue scelte, ritenendo che queste sfuggano ai concorrenti e, di conseguenza, essi non adottino misure di ritorsione.
3. La c. in condizione di oligopolio
Se la struttura di mercato è caratterizzata dalla presenza di un numero ridotto d’imprese (c. tra pochi ) e, quindi, dalla stretta interdipendenza tra le scelte che ogni impresa compie sul mercato, si parla di oligopolio. In condizioni di oligopolio, la c. si esercita, se non vi sono accordi collusivi vincolanti tra le imprese, soprattutto con strategie d’innovazione tecnologica e commercializzazione, che le imprese mettono in atto per conquistare o consolidare quote di mercato. Nei mercati di oligopolio differenziato (beni sostituti, ma non identici) è specialmente vivace la c. sulle caratteristiche del prodotto o sull’introduzione di beni innovativi. La c. opera e i mercati sono detti ‘contendibili’, secondo la definizione di W.J. Baumol, se le imprese presenti sul mercato, anche in numero limitato, riconoscono la possibilità di entrata sul mercato di nuove imprese e adottano strategie di limitazione del prezzo per scoraggiare i potenziali concorrenti.
4. C. dinamica e c. operante
Si parla di o schumpeteriana (dal nome dell’economista J.A. Schumpeter che ne sottolineò l’importanza) per indicare specificamente la c. tra imprese che si esercita con l’innovazione e che impegna le imprese a investire in ricerca e sviluppo.
C. operante è un
concetto proposto da J.B.
Clark (dall’ingl. workable competition), poi sviluppato in
un indirizzo di studi e di politica economica, che mira a comporre
elementi d’iniziativa privata e d’intervento pubblico. Il concetto
di c. operante è usato non con riferimento alla definizione
formale di c. perfetta, ma per indicare situazioni di mercato in
cui non è possibile consolidare posizioni di privilegio,
anche grazie all’azione dei poteri pubblici in materia di
regolazione. Gli accordi tra imprese per limitare la c. sono in
molti paesi ritenuti illeciti e perseguiti da leggi (➔ antitrust).
Enciclopedia di Scienze Sociali (1992)
di Ruggero Paladini
Concorrenza
Sommario: 1. Introduzione. 2. La
concorrenza come processo: i movimenti dei capitali. 3. La
concorrenza come processo: asimmetria tra i produttori: a) Cournot
e il vantaggio temporaneo; b) Bertrand e l'asimmetria
nel prezzo; c) Schumpeter e l'innovazione. 4. La
concorrenza come processo: il meccanismo degli scambi. 5. La
concorrenza come situazione caratterizzata. 6. Insoddisfazioni
nella teoria della concorrenza. 7. La concorrenza potenziale e le
barriere all'entrata. 8. La teoria dei giochi e i processi
concorrenziali. 9. Concorrenza e innovazione. 10. Teoria della
concorrenza e politica antimonopolistica. □ Bibliografia.
1. Introduzione
La nozione di concorrenza sorge con il definirsi dell'economia
politica come scienza autonoma. È strettamente connessa con
l'idea di libertà, che dal punto di vista economico implica
la libera iniziativa, il laissez faire, laissez passer, e con la
fondamentale ipotesi che gli individui, in quanto operatori
economici, si muovono secondo un comportamento razionale volto a
massimizzare la propria soddisfazione.
Una delle idee più rilevanti elaborata da Adam Smith
è quella per cui il libero agire di una pluralità di
individui egoisti non determina il caos, ma al contrario un
sistema sociale ordinato - sul quale è quindi possibile
un'investigazione scientifica - e tale per cui l'operato del
singolo, volto a procurarsi il maggior vantaggio possibile, torna,
con apparente paradosso, a vantaggio di tutti gli altri.
Ora, per l'operare della 'mano invisibile' è essenziale la
funzione della concorrenza. La concorrenza è quindi un
principio 'virtuoso': il suo operare ha effetti positivi, la sua
assenza, e quindi la presenza del monopolio, determina al
contrario effetti negativi. Per i critici dell'economia politica e
del libero mercato, invece, la concorrenza è un meccanismo
che distrugge l'equilibrio sociale ed economico, peggiora la
posizione dei più deboli e avvantaggia ulteriormente quella
dei più forti. Tuttavia per Marx, certo non un apologeta
del libero mercato, la concorrenza è il processo economico
che rende possibile l'analisi scientifica del sistema
capitalistico.Il termine 'concorrenza' è usato nell'analisi
economica in molte accezioni: innanzitutto occorre distinguere tra
concorrenza come processo economico e concorrenza come stato,
cioè forma di mercato. Nella prima accezione si intende un
susseguirsi logico e/o temporale di azioni e reazioni da parte
degli operatori economici, che trova un termine quando si viene a
determinare una situazione nella quale non vi è più
per alcuno un incentivo a mutare la propria condotta: situazione
detta di equilibrio.
Nella seconda accezione invece la concorrenza è individuata
come un regime di mercato, caratterizzato da una serie di
presupposti e di elementi tipici e tale comunque da cogliere la
realtà economica della maggior parte dei mercati.Nei
capitoli che seguono ci occuperemo prima delle diverse nozioni di
concorrenza come processo; vedremo quindi le ragioni che hanno
portato l'attenzione sulla seconda nozione di concorrenza,
cioè la concorrenza come stato, per esaminare poi il
ritorno alla prima nozione che si è manifestato
nell'analisi economica più recente.
2. La concorrenza come processo: i movimenti dei
capitali
La prima nozione di processo concorrenziale è quella degli
economisti classici, da Smith a Marx. Consiste nel processo di
gravitazione dei prezzi di mercato verso i prezzi naturali, o
prezzi di produzione, e nel processo di riduzione di questi
ultimi, nel lungo periodo, in seguito al progresso tecnico (v.
Sylos Labini, 1976). Il fenomeno economico alla base del processo
concorrenziale è quello della tendenza dei capitali a
muoversi verso i settori dove il saggio del profitto è
più elevato. Si supponga, partendo da una situazione di
equilibrio, che in un dato momento si determini un aumento della
domanda in alcuni settori e una diminuzione in altri. Vi
sarà una tendenza dei capitali ad allontanarsi dai settori
dove i prezzi di mercato sono diminuiti e a dirigersi dove sono
aumentati. Questo processo determina delle variazioni della
produzione tali per cui gli squilibri tra prezzi di mercato e
prezzi naturali si attenuano e, in tendenza, si annullano,
ripristinando l'eguaglianza nei saggi di profitto nei vari
settori.
È dunque l'ipotesi della libertà di movimento dei
capitali che rende possibile la concorrenza e con essa l'analisi
scientifica dei prezzi naturali, cioè una teoria del valore
e della distribuzione: i prezzi naturali o di produzione sono i
prezzi della libera concorrenza.I classici ritenevano che la
maggior parte delle barriere poste al libero movimento dei
capitali derivasse dalla pubblica autorità, cioè
dalla concessione di privilegi ad alcuni operatori, o
dall'imposizione di dazi e tariffe; tali interventi determinano
inevitabilmente situazioni di monopolio, o comunque restrizioni
alla concorrenza, con effetti negativi in termini di prezzi
più elevati e produzione minore. Venivano anche
riconosciute barriere naturali, dovute ad esempio ai costi di
trasporto, che limitavano la zona di influenza dei produttori.
Se la libertà di movimento dei capitali è alla base
del processo concorrenziale dei classici, ci si può
chiedere quale ruolo svolgano la numerosità dei produttori
e, connessa con questa, l'impossibilità da parte del
singolo produttore di influire sul prezzo di mercato, a causa
della limitatezza della sua produzione. In linea di massima si
può dire che il processo concorrenziale descritto dai
classici comporta la presenza di numerosi produttori in ciascun
ramo; nel modello di base da essi formulato, infatti, a capitale
circolante, il capitale del singolo imprenditore è limitato
e non ci sono economie di scala.
3. La concorrenza come processo: asimmetria tra
i produttori
a) Cournot e il vantaggio temporaneo
Il problema che si pone Augustin Cournot è il seguente:
perché i duopolisti non colludono? La risposta consiste
nella constatazione dell'esistenza di un vantaggio momentaneo, da
parte di ciascun duopolista, nel non collaborare. Cournot assume
che sul mercato si realizzi l'equilibrio tra domanda e offerta con
un prezzo determinato dall'incontro delle due curve: i produttori
decidono ciascuno la quantità da offrire e, data la
domanda, il prezzo dipenderà dalla somma delle
quantità prodotte.
Sulla base di questa impostazione Cournot stabilisce un rapporto
molto preciso tra numero dei produttori e intensità della
concorrenza: più alto è il numero, maggiore è
la produzione e più basso è il prezzo. La tecnica
analitica è quella dell'ipotesi di massimizzazione del
profitto, supponendo date le quantità degli altri
produttori. In questo modo si stabilisce che, dato un certo numero
di imprese, l'entrata di un nuovo produttore porta a una
contrazione della produzione da parte delle imprese già
esistenti; ciò favorisce l'incremento della produzione da
parte dell'ultimo entrato, finché, supponendo che tutte le
imprese abbiano una eguale funzione di costo, la produzione non
sia ripartita tra esse in parti eguali. Con l'aumento del numero
delle imprese, pur essendo minore la produzione pro capite,
aumenta la produzione totale, finché il prezzo non diventa
eguale al costo unitario; in tale situazione di concorrenza
illimitata la produzione di ciascuna impresa è infinitesima
rispetto al totale, e quindi qualsiasi variazione da parte del
singolo produttore non avrebbe influenza sull'equilibrio del
mercato. L'intensità della concorrenza dipende quindi dal
numero dei produttori: tuttavia, se l'entrata sul mercato non
è libera, il numero non basta ad assicurare una vera e
propria concorrenza. La posizione dei classici che davano rilievo
alla libertà di entrata, e non al numero, da Cournot in poi
è dunque capovolta.
b) Bertrand e l'asimmetria nel prezzo
Come si è accennato, il meccanismo di funzionamento del
mercato cournotiano è il seguente: i produttori fissano le
quantità e i consumatori in concorrenza tra loro
determinano un unico prezzo di equilibrio al quale la produzione
è venduta senza eccessi di domanda o di offerta. Questo
meccanismo dovrebbe rappresentare in forma stilizzata il fenomeno
del ritardo nella produzione, e quindi dell'impossibilità
da parte del singolo produttore di reagire istantaneamente a
scelte effettuate dagli altri produttori. Supponiamo ora un
meccanismo diverso: i produttori fissano indipendentemente il
prezzo di vendita; i consumatori, noti i vari prezzi di offerta,
si rivolgono a chi ha offerto il prezzo più basso; questo
produttore soddisfa il mercato, mentre gli altri rimangono
completamente esclusi.Il comportamento asimmetrico è qui
centrato sul prezzo e il risultato che si ottiene differisce
nettamente da quello cournotiano; è chiaro infatti che, a
parità di costi tra i produttori, le imprese fisseranno il
prezzo a livello del costo medio minimo, e ciò si
verificherà purché vi siano almeno due produttori.
Qui il risultato pienamente concorrenziale non dipende dal numero
delle imprese.Va notato peraltro che, malgrado questa importante
differenza, il meccanismo concorrenziale qui ipotizzato (che
prende il nome da Joseph Bertrand, il matematico francese che
avanzò questa ipotesi in una recensione critica di Cournot)
è del tutto analogo a quello di Cournot: ciascun produttore
fissa il prezzo in modo da avvantaggiarsi sul concorrente o
evitare di essere superato da questi. Il criterio di fissare il
prezzo più basso possibile presenta una duplice natura,
offensiva e difensiva al tempo stesso. A parità di costi il
processo asimmetrico si svolge in un tempo logico e determina
immediatamente il risultato di un comportamento simmetrico: tutti
i concorrenti fissano il prezzo a livello di costo (v. Bertrand,
1883).
c) Schumpeter e l'innovazione
Anche alla base del processo concorrenziale di Joseph Schumpeter
vi sono il verificarsi di una situazione di asimmetria e il suo
ricomporsi. Tale meccanismo tuttavia si svolge effettivamente nel
tempo, e si verifica a causa del fatto che alcune imprese si
trovano in una situazione diversa da quella delle altre, per una
particolare capacità innovativa degli imprenditori che le
dirigono. L'innovazione pone queste imprese in una posizione di
vantaggio e di profitti più alti, cioè in una
situazione di temporaneo monopolio; ma questa situazione è
appunto solo temporanea, in quanto si verifica una serie di atti
di imitazione e di emulazione da parte delle altre imprese, che
non vogliono permanere in una situazione di inferiorità. In
tal modo avviene la diffusione dell'innovazione e quindi la
scomparsa del potere monopolistico. Se questo è l'effettivo
funzionamento del meccanismo concorrenziale, è chiaro che
monopolio e concorrenza non sono due ipotesi inconciliabili, ma
semplicemente due momenti diversi ed entrambi necessari di un
comune processo di sviluppo. Schumpeter considera anche l'ipotesi
che il meccanismo non operi nella seconda fase e quindi che
l'innovazione non possa generalizzarsi; in tal caso la posizione
di vantaggio dell'impresa diviene permanente e il profitto si
trasforma in una rendita di monopolio. Tale ipotesi, peraltro,
appare atipica nel sistema di Schumpeter, mentre il caso normale
è rappresentato dal processo concorrenziale sopra
delineato.
Va detto che sin dalla sua prima opera (Teoria dello sviluppo
economico) Schumpeter sottolineava come uno dei casi di
innovazione da lui considerati, cioè il mutamento
nell'organizzazione della produzione, comportasse l'aumento delle
dimensioni aziendali attraverso l'introduzione della produzione su
larga scala.In un'opera successiva (Cicli economici) vengono
distinte due diverse fasi storiche, quella del capitalismo
concorrenziale, in cui le dimensioni delle imprese sono piccole
rispetto al mercato e le innovazioni comportano normalmente la
costituzione di nuove imprese, e quella del capitalismo dei grandi
trust, dove invece si assiste all'affermarsi delle grandi
unità produttive e il processo innovativo si verifica
prevalentemente all'interno di tali aziende, senza quindi la
nascita di nuovi complessi.
Tuttavia nella sua ultima opera (Capitalismo, socialismo,
democrazia) Schumpeter esprime una valutazione positiva delle
pratiche monopolistiche poste in essere da queste grandi imprese,
e critica la politica antimonopolistica degli Stati Uniti. Se
infatti la concorrenza non avviene tra le piccole imprese che
producono tutte le stesse merci con gli stessi metodi, ma tra gli
imprenditori innovatori e gli imprenditori imitatori, allora va
considerato che la grande impresa svolge un ruolo determinante
proprio nel campo dell'innovazione. Quindi iniziative come i
contratti vincolanti a lungo termine, la fissazione di prezzi
rigidi, e simili, sono certamente pratiche monopolistiche che
determinano la sospensione del funzionamento della concorrenza per
un certo periodo di tempo e il conseguimento di sovraprofitti da
parte dei grandi gruppi; ma sono al tempo stesso forme di
assicurazione contro i rischi cui questi ultimi vanno incontro e
che essi non affronterebbero altrimenti, così come non li
affrontano le piccole imprese concorrenziali dei libri di testo.
Inoltre in tali modi si ottengono i mezzi necessari per affrontare
programmi di ricerche a vasto raggio; queste pratiche
monopolistiche proteggono quindi lo sviluppo più che
danneggiarlo: è un'affermazione non più paradossale
di quella per cui le automobili possono correre più veloci
proprio perché sono dotate di freni.
4. La concorrenza come processo: il meccanismo
degli scambi
Una terza nozione di processo concorrenziale è quella
elaborata nell'ambito dell'impostazione neoclassica da Francis
Edgeworth. La scuola neoclassica di Stanley Jevons, Léon
Walras e Alfred Marshall fonda la propria teoria del valore sulla
nozione di utilità marginale e sul processo di scambio. La
concorrenza è quindi intimamente legata al funzionamento
del mercato; ora, se avviene uno scambio tra due individui
è perché ciascuno apprezza il bene dell'altro
più del proprio. Tuttavia in un atto isolato di baratto i
termini di scambio, o prezzi relativi tra i due beni, non possono
essere fissati con esattezza, ma si possono stabilire solo dei
prezzi minimi e massimi, che ciascuno è disposto a ricevere
o a pagare.L'idea fondamentale è che questa
indeterminatezza cede il posto a un'estrema determinatezza nel
caso di un mercato perfettamente funzionante, e cioè in un
mercato in cui vi sono numerosi scambisti, che agiscono
indipendentemente e sono ben informati sulla situazione del
mercato. In questo caso non esiste più spazio per
l'abilità nella trattativa tra le parti, perché per
ogni bene in un dato mercato si stabilisce un solo prezzo di
equilibrio tra le quantità offerte e quelle domandate.
Il problema è di chiarire in qual modo vengono annullate le
tendenze collusive tra alcuni scambisti ai danni di altri. Jevons
afferma esplicitamente che si ha concorrenza se non vi è
collusione per limitare l'offerta e determinare rapporti
innaturali di scambio; del resto già Smith aveva parlato di
spontanee tendenze collusive tra i produttori. L'analisi di
Edgeworth si propone quindi il compito di spiegare il processo che
porta dall'indeterminatezza del baratto alla determinatezza del
prezzo relativo in un perfetto terreno concorrenziale. Tale
processo analizzato astrattamente richiede due condizioni: la
libertà di ricontrattazione da parte di ciascun soggetto
con qualunque altro, in modo che lo scambio avvenga effettivamente
solo dopo che tutti gli operatori avranno verificato che non
esiste un'occasione migliore; la perfetta divisibilità dei
beni oggetto dello scambio, che si traduce nella
possibilità da parte di ciascun individuo di scambiare dosi
infinitesime e quindi di disporre, ultimati gli scambi, di un
insieme continuo di possibili combinazioni di beni.
Va sottolineato che l'ipotesi di ricontrattazione impedisce la
formazione di tendenze collusive, e questo fenomeno si verifica
non solo quando vi sono numerosi, al limite infiniti, scambisti,
ma già quando abbiamo un paio di venditori e compratori. La
condizione di numerosità è peraltro necessaria per
eliminare l'indeterminatezza del prezzo di equilibrio. L'ipotesi
di ricontrattazione svolge una funzione essenziale, soprattutto
perché elimina la possibilità e la convenienza degli
operatori a stabilire accordi collusivi. Ora questa ipotesi,
essenziale nell'analisi astratta, deve trovare un sostituto, per
quanto imperfetto, per i normali mercati competitivi; l'ipotesi di
Edgeworth è quella della libera informazione tra gli
scambisti. Egli immagina scambisti presenti fisicamente in uno
stesso luogo o collegati per telefono. Questo requisito di una
perfetta conoscenza della situazione di mercato diverrà,
come vedremo, uno dei requisiti della concorrenza perfetta come
forma di mercato.
5. La concorrenza come situazione caratterizzata
Nella maggior parte degli autori tra Ottocento e Novecento la
concorrenza non viene analizzata quale processo determinato da
precisi meccanismi, ma come una situazione caratterizzata da
alcuni risultati e legata a presupposti che vengono ipotizzati
come esistenti. La concorrenza si presenta come un fenomeno
definibile sotto vari aspetti che, a seconda degli interessi dei
vari autori, vengono diversamente sottolineati. Così, ad
esempio, la concorrenza viene definita come il meccanismo di
incontro tra domanda e offerta legato al grado di perfezione del
mercato (Walras), oppure come eguaglianza dei ricavi marginali in
tutti i settori (Clark), e infine come quella situazione in cui la
curva di domanda per il singolo produttore è infinitamente
elastica. Questa definizione di concorrenza è
implicitamente presente negli autori citati in precedenza, in
Walras come in Marshall. Proprio nell'appendice matematica dei
Principî di economia, ad esempio, Marshall definisce
correttamente il ricavo marginale come la somma algebrica delle
due componenti: variazione della quantità moltiplicata per
il prezzo, e variazione del prezzo moltiplicata per la
quantità. Ora la variazione del prezzo operata da una
singola impresa risulta estremamente limitata - o addirittura
trascurabile - in un mercato in cui le imprese sono molto
numerose. Come si vede il ragionamento è del tutto analogo
a quello di Cournot.D'altra parte Marshall parla anche di un
mercato particolare di ciascun produttore, immerso, per
così dire, in quello più ampio dell'intero settore
industriale, e di una curva di domanda relativamente rigida, in
riferimento alla singola impresa. Questa non è presentata
come una situazione inconciliabile con l'ipotesi di concorrenza;
Marshall ne parla come di una situazione da esaminare in
un'ulteriore approssimazione alla realtà e, in special
modo, quando si fa riferimento al breve periodo e in condizioni di
recessione. Tuttavia, volendo definire analiticamente la
concorrenza perfetta, Arthur C. Pigou e gli altri autori della
scuola marshalliana ipotizzano l'eguaglianza tra ricavo marginale
e prezzo, e in questo non si può dire che tradiscano
esplicitamente Marshall.
Su questa definizione si incentra una delle critiche fondamentali
di Piero Sraffa (v., 1926). Se il prezzo, infatti, è dato,
la singola impresa può trovare un limite alla produzione
solo se i costi marginali, e quindi anche i medi, sono crescenti.
La curva dei costi dell'impresa deve quindi presentare la tipica
forma a U.Nel caso della produzione agricola e mineraria questa
definizione della concorrenza perfetta può essere
facilmente conciliabile con il reale funzionamento del mercato. In
questi settori la produzione avviene a costi crescenti e il
singolo produttore è realmente price taker; non a caso,
peraltro, in questi mercati il compito di determinare l'equilibrio
tra domanda e offerta è svolto da un limitato numero di
intermediari, la cui essenziale funzione è già stata
sottolineata da Walras.
Nei settori industriali, invece, questo modello di concorrenza va
incontro a due formidabili critiche: innanzitutto le condizioni di
produzione non possono essere descritte da una curva a U quanto
piuttosto da una curva a L, e in effetti i produttori, al livello
di produzione di equilibrio, si trovano ancora in una situazione
di costi decrescenti. Inoltre il singolo produttore industriale
non è normalmente un price taker, non fronteggia un'unica
domanda comune agli altri produttori, sia proveniente dalla massa
dei consumatori sia da intermediari specializzati. Il problema
tipico dell'impresa industriale deriva invece dal fatto che una
maggior produzione sarebbe perfettamente possibile a prezzi
costanti, ma la possibilità di espanderla è limitata
alla domanda. Il ricavo marginale non coincide più col
prezzo; la seconda componente di Marshall è rilevante e
sistematicamente presente.
Un mercato composto da numerosi produttori non è quindi
necessariamente un mercato che approssima, per quanto
imperfettamente, il modello puro della concorrenza perfetta; le
imprese che vi operano possono essere del tutto indipendenti le
une dalle altre, e tuttavia dotate ciascuna di una propria curva
di domanda inclinata negativamente. Sraffa invita quindi a
dirigere l'analisi non verso il modello di concorrenza perfetta ma
verso l'opposto, il modello di monopolio. Le cause che determinano
la rottura del mercato in una serie di micromercati collegati tra
loro sono estremamente varie; il punto da sottolineare è
che esse non sono elementi di frizione, ma fattori sistematici e
permanenti.
Le ulteriori argomentazioni di Sraffa indicano una soluzione
analoga alla massimizzazione congiunta dei profitti, limitata
però dalla possibilità di entrata di qualche
concorrente potenziale; l'entrata è peraltro ostacolata
proprio dalle cause che determinano un mercato preferenziale per
le imprese esistenti, sicché questi ostacoli potrebbero
essere superati solo in caso di profitti particolarmente superiori
al normale.È ben noto come l'articolo di Sraffa abbia
svolto un ruolo fondamentale nella critica dell'apparato
marshalliano e abbia ispirato il lavoro di Joan Robinson sulla
concorrenza imperfetta. Peraltro la Robinson non approfondisce le
indicazioni di Sraffa sul tema dell'entrata limitata: si limita a
svolgere l'analisi dell'equilibrio del monopolista con l'uso della
nozione di ricavo marginale e dell'equilibrio di tangenza tra
costo medio e prezzo.
L'ordine di considerazioni che porta Edward Chamberlin a
sviluppare la sua teoria della concorrenza monopolistica come
teoria più generale, in grado di comprendere la concorrenza
perfetta come caso particolare, è diverso nell'impostazione
e nelle finalità da quello di Sraffa, anche se per molti
aspetti le analisi presentano delle somiglianze, come ad esempio
per quanto riguarda le cause che determinano le curve di domanda
individuali. Si considerino i seguenti elementi caratterizzanti un
mercato: 1) numerosità delle imprese; 2) libertà di
entrata; 3) effetto trascurabile dell'iniziativa del singolo
produttore sugli altri. Se aggiungiamo l'ipotesi di un prodotto
omogeneo abbiamo la concorrenza perfetta e curve di domanda
orizzontali per i singoli produttori, mentre se aggiungiamo un
prodotto eterogeneo abbiamo curve di domanda inclinate. Dunque la
concorrenza perfetta è la situazione in cui l'elemento
della differenziazione del prodotto tende a scomparire. Il
risultato è ben noto: tangenza della curva dei costi,
decrescente, con la curva di domanda, anch'essa decrescente;
l'elasticità della domanda nel punto di equilibrio è
maggiore dell'unità.
Questo equilibrio concorrenziale del 'largo gruppo' di Chamberlin
si differenzia dalla concorrenza perfetta, quindi, solo per
l'elasticità finita della domanda; come conseguenza le
dimensioni delle imprese sono subottimali, ma questa
caratteristica non va considerata come un aspetto negativo,
bensì come la necessaria conseguenza degli elementi che
soddisfano le preferenze dei consumatori. Si tenga presente che
Chamberlin ipotizza anche uno stato di conoscenza perfetta, e
pertanto non sono elementi di ignoranza a determinare
l'inclinazione delle curve di domanda. L'impostazione di
Chamberlin si propone quindi di salvare la sostanza
dell'impostazione marshalliana eliminandone l'aspetto più
debole.Il problema di questa impostazione consiste nella
compatibilità tra l'ipotesi di differenziazione del
prodotto e le due ipotesi di libertà di entrata e di non
rivalità, cioè di mancanza di effetti percepibili
dell'iniziativa del singolo.
Quest'ultima ipotesi implica che le conseguenze della manovra su
prezzo e quantità da parte della singola impresa si
diffondano uniformemente su tutti gli altri concorrenti e siano
quindi trascurabili. Viceversa l'azione dell'insieme degli altri
produttori è rilevante e determina uno spostamento della
curva di domanda del singolo.
Tuttavia la natura stessa degli elementi che determinano la
differenziazione - caratteristiche oggettive del prodotto o
soggettive del produttore, localizzazione geografica - fa
sì che, definito un gruppo di prodotti simili ma
differenziati, esisterà sempre al loro interno una
graduazione nella differenziazione, con la conseguenza che
l'iniziativa di un singolo produttore avrà delle
ripercussioni differenziate sugli altri. Connesso con questo
problema si presenta quello della libertà d'entrata; essa
sarà più o meno difficile, nel senso che
comporterà costi più o meno elevati, in riferimento
a diversi prodotti e produttori del largo gruppo. Queste
osservazioni portano a concludere che la presenza simultanea delle
quattro caratteristiche della concorrenza monopolistica di largo
gruppo non sia logicamente sostenibile, e che quindi una teoria
della concorrenza fondata su questa base presenti inconvenienti
analoghi a quelli dell'impostazione marshalliana.
Al posto di un largo gruppo avremmo allora una catena di piccoli
gruppi i cui prodotti sono differenziati; ogni produttore si trova
a far parte di più gruppi che parzialmente si
sovrappongono. In ciascuno di essi esiste una rivalità
potenziale e le variazioni dei prezzi di ciascun produttore
troverebbero una reazione da parte degli altri. Questa situazione,
analizzata da Chamberlin come oligopolio più
differenziazione, è più simile a quella che aveva
delineato Sraffa ed esplorato la Robinson, e non è un caso
che anche Chamberlin arrivi a conclusioni in parte simili. In
questa situazione infatti è probabile che i concorrenti non
usino la manovra del prezzo come strumento concorrenziale, ma
piuttosto le spese di vendita; inoltre, nella misura in cui esiste
la libertà di entrata, si determina un eccesso di
capacità produttiva, mentre se la libertà di entrata
è limitata persistono sovraprofitti. La differenziazione
del prodotto non è più corrispondente a quella
richiesta dai gusti e dalle necessità dei consumatori, ma
diviene eccessiva. La concorrenza non implica più
l'efficienza nell'allocazione delle risorse.
Questa conclusione critica cui si perviene tramite la concorrenza
monopolistica era stata prevista da almeno due autori, Vladimir
Karpovič Dmitriev e Harold Hotelling. Il primo, in un saggio
critico su Cournot, pone in luce il fatto che il processo di
concorrenza comporta inevitabilmente degli sprechi in termini di
eccessi di produzione invenduti o di scorte, in modo analogo agli
armamenti che le nazioni devono produrre al fine di garantire il
mantenimento della pace; le armi vengono prodotte e devono essere
prodotte anche se si è consci che non saranno mai usate (v.
Dmitriev, 1898-1902).
Il secondo autore, esaminando in particolare il fenomeno della
differenziazione spaziale, cioè della diversa
localizzazione delle imprese, mostra come il meccanismo alla
Bertrand non necessariamente fa sì che l'impresa che fissa
il prezzo più alto perda tutta la clientela; vi è
infatti un fattore di vicinanza che può rendere ancora
conveniente al consumatore rivolgersi a una certa impresa
(più vicina) anche se il prezzo è più alto.
Esaminando il comportamento delle imprese volte a scegliere la
migliore localizzazione, Hotelling mostra che la tendenza delle
imprese è di concentrarsi geograficamente in una stessa
zona, laddove dal punto di vista sociale l'ottimizzazione della
localizzazione dovrebbe seguire un criterio del tutto diverso.
Questa conclusione viene poi generalizzata affermando che il
processo concorrenziale caratterizzato da qualche forma di
differenziazione non comporta il raggiungimento di una situazione
di efficienza (v. Hotelling, 1929).
6. Insoddisfazioni nella teoria della
concorrenza
La posizione della nozione di concorrenza agli inizi degli anni
cinquanta appare per alcuni versi paradossale: mentre da un lato,
infatti, essa assume un ruolo fondamentale per una serie di
risultati ottenuti dall'analisi dell'equilibrio economico generale
(al punto che John Hicks dichiara che mettere in dubbio l'ipotesi
di concorrenza pura equivale a minare buona parte dei risultati
della teoria economica), da un altro lato, quello dell'analisi
degli equilibri parziali, i risultati sono negativi.In effetti le
ben note proprietà ottimali del sistema concorrenziale,
enunciate da Walras e ulteriormente definite da Vilfredo Pareto,
richiedono l'ipotesi di mercati di libera concorrenza e quindi un
comportamento da price takers degli operatori. In tali condizioni
sarebbe assicurata la massima soddisfazione possibile per tutti
gli operatori, soggetta alle famose condizioni di un unico prezzo
d'equilibrio, cioè un prezzo tale da eguagliare domanda e
offerta e da essere eguale ai costi dei servizi necessari per
produrlo.Walras sostanzialmente si limita a contare il numero
delle equazioni e delle incognite, cosa questa che non assicura
né la stabilità né l'unicità, e
proprio sul tema dell'unicità è stato criticato da
Knut Wicksell. Da questo punto di vista Gerard Debreu e Kenneth J.
Arrow portano nei primi anni cinquanta un contributo analitico
fondamentale sul tema dell'esistenza dell'equilibrio. Tuttavia
questa analisi tralascia il problema del meccanismo di
funzionamento del mercato di concorrenza; il doppio mercato d'asta
di Walras, ad esempio, non trova in realtà riscontro nel
funzionamento della maggior parte dei mercati, in particolare di
quelli industriali. La teoria assiomatica dell'equilibrio
economico generale deve quindi assumere esplicitamente come
postulato il comportamento da price takers degli operatori, senza
essere in grado di spiegare come e se il funzionamento di un
mercato e degli operatori conduca a questo risultato.
D'altra parte, anche sulla base dell'analisi degli equilibri
parziali i risultati sono sostanzialmente negativi. La concorrenza
pura è riconoscibile solo nei mercati agricoli e minerari;
in quelli industriali il modello che cerca di adattarsi meglio
è quello della concorrenza monopolistica di largo gruppo di
Chamberlin, che - come si è visto - ha grosse
difficoltà di coerenza interna e inoltre presenta risultati
non corrispondenti alle caratteristiche dei mercati industriali.
È infatti assente il dato più saliente della
concentrazione industriale, e quindi delle economie di scala e
delle discontinuità tecnologiche. Non a caso gli esempi
più frequenti di tale modello si rifanno al mercato delle
vendite al dettaglio: in tale settore John Stuart Mill e Knut
Wicksell avevano osservato che l'eccessivo numero dei dettaglianti
non è a vantaggio ma a svantaggio dei consumatori,
capovolgendo con questa affermazione quanto era stato sostenuto
proprio a questo proposito da Smith.
Né l'analisi dell'oligopolio sembra fornire qualche utile
indicazione; questa forma di mercato viene esaminata in genere con
modelli di mercato chiuso, con pochi produttori in grado di
influenzarsi a vicenda. Ora in tale situazione non è
utilizzabile con profitto il metodo di partire da alcuni dati, o
variabili esogene, e, attraverso l'ipotesi di comportamento
massimizzante, trovare la soluzione di equilibrio, mentre lo
è con i modelli della concorrenza perfetta e del monopolio.
Malgrado numerosi sforzi l'impressione generale è che sia
confermata l'idea che la gamma di casi intermedi non sia
riducibile a una coerente analisi economica; l'ipotesi più
probabile resta quella di una massimizzazione congiunta dei
profitti (v. Fellner, 1949), ma si tratta pur sempre di un'ipotesi
tra le tante possibili.
7. La concorrenza potenziale e le barriere
all'entrata
La concorrenza proveniente da nuove imprese è talvolta
indicata da vari autori come la causa che limita la facoltà
delle imprese di elevare i prezzi, anche in situazioni di
monopolio.Il problema dei costi d'ingresso trova un ampio spazio
nei primi tentativi di elaborare una teoria che non sia basata
sull'ipotesi di massimizzazione di breve periodo, ma su un pur
vago concetto di profitto normale di lungo periodo (v. Andrews,
1949; v. Fellner, 1949). È tuttavia con Joe Bain e Paolo
Sylos Labini che il problema della concorrenza potenziale e dei
fattori limitanti viene posto al centro di una teoria della
determinazione dei prezzi nei mercati industriali.
Già in un primo lavoro Bain (v., 1949) aveva utilizzato
l'idea dell'entrata potenziale come modo per limitare la
fissazione di un prezzo di tipo monopolistico, ma è con il
lavoro sulle barriere alla nuova concorrenza che l'autore sviluppa
l'analisi delle cause da cui dipende il prezzo limite, inteso come
un livello di prezzo che non stimola l'entrata di nuove imprese.
Il concetto di entrata è definito come l'aggiunta di nuova
capacità produttiva a quella esistente nel settore; per
quanto restrittiva, tale definizione ha dei vantaggi in un'analisi
di tipo parziale, e si ricollega direttamente alla nozione dei
classici. Le cause che determinano le barriere sono:
differenziazione del prodotto, vantaggi di costo in termini
assoluti, elevati fabbisogni iniziali di capitale, economie di
scala. Si ricorderà che uno dei punti deboli del modello di
largo gruppo di Chamberlin è la contemporanea presenza
delle condizioni di differenziazione del prodotto e di
libertà di entrata. Bain sottolinea appunto che la
differenziazione comporta inevitabilmente un vantaggio del
produttore già esistente rispetto a quello nuovo, vantaggio
che si riflette nei costi aggiuntivi cui l'impresa nuova deve
andare incontro. Nella sua ampia indagine su venti settori
produttivi Bain ha indicato proprio la differenziazione come il
fattore che più contribuisce alle barriere all'entrata, non
solo tra i beni di consumo ma anche tra quelli strumentali.
Tralasciamo le altre due forme di barriera e veniamo alle economie
di scala, fenomeno essenzialmente tecnologico. Il fatto che per la
produzione di determinate merci siano necessari impianti di
notevoli dimensioni e quindi ingenti capitali iniziali è
stato sottolineato da molti autori. I due aspetti rilevanti sono:
1) esiste una quantità di prodotto minima al di sotto della
quale i costi fissi hanno una tale incidenza da rendere il
prodotto assolutamente non competitivo; 2) esiste una tendenza del
costo medio, al di là del livello minimo, a mantenersi
costante fino alla piena utilizzazione dell'impianto, quando i
costi medi divengono fortemente crescenti (v. Bain, 1956).Sylos
Labini (v., 1956) analizza solo le barriere all'entrata che
derivano da economie di scala. L'ipotesi sull'andamento dei costi
è in parte simile a quella di Bain, ma con qualche
diversità significativa: il costo medio è composto
da un costo fisso, unitario, che diminuisce al crescere della
produzione, e un costo variabile costante: quindi più che
un livello minimo esiste una fascia di produzione dove il costo
medio è fortemente decrescente. Ma più importante
è il fatto che Sylos Labini sottolinea l'importanza delle
discontinuità di scala; esistono diverse tecnologie con
coppie di costi fissi e variabili inversamente correlati, mentre
la massima capacità produttiva per ciascuna tecnologia
è funzione diretta del costo fisso.
Sylos Labini suppone che ciascuna impresa operi con un solo
stabilimento e che ogni stabilimento, compreso quello del
potenziale entrante, produca al massimo della capacità;
mentre la prima ipotesi è solo semplificativa, la seconda
ha maggiore importanza e si può giustificare proprio
ricordando che il costo medio minimo si trova appunto a quel
livello. Implicitamente, quindi, vi è l'idea che a ciascuna
singola impresa, indipendentemente dalla dimensione, convenga
ampliare il più possibile la produzione, anche se
ciò comporta un prezzo più basso, perché
questo fatto è compensato da un costo medio più
basso.Le caratteristiche della domanda, nonché le
caratteristiche della tecnologia, determinano la strategia delle
grandi imprese; queste hanno l'obiettivo di non far entrare altre
grandi imprese e a questo scopo fissano la produzione a un livello
tale che, nel caso di entrata di un'altra grande impresa, la
quantità totale determinerebbe un prezzo più basso
del costo minimo. In questo modo viene fornita una base teorica
alle ipotesi di variazioni del prezzo secondo la formula del costo
pieno (mark up). La teoria della concorrenza potenziale, salutata
come una svolta risolutiva per spiegare il comportamento
concorrenziale delle moderne strutture produttive, ha ricevuto una
serie di critiche che vanno dalla negazione della nozione stessa a
diverse ipotesi e complicazioni del modello di base, soprattutto
in contesti dinamici.La critica più radicale è stata
condotta alla nozione stessa di barriera all'entrata; si è
argomentato che per l'esistenza di un ostacolo all'entrata di un
concorrente potenziale deve sussistere un costo addizionale,
netto, rispetto a quelli sopportati dalle imprese operanti. Come
si è visto, per Bain questo è un caso di barriera, e
la situazione più tipica è costituita da un
brevetto; per i critici invece solo in questa situazione si
può parlare di barriera. È stata quindi sviluppata
un'analisi delle implicazioni in termini di benessere che
ciò può comportare; in questa sede si può
solo accennare al legame tra questa critica e quella che si
è sviluppata all'interno della teoria dei giochi, su cui ci
soffermeremo più avanti.
Una seconda critica riguarda invece il prezzo di esclusione, che
concorrerebbe a determinare il prezzo effettivamente praticato
dalle grandi imprese. Infatti se tutte le imprese, operanti o
potenziali, sono a conoscenza delle funzioni di domanda e di
costo, allora appare decisiva l'ipotesi formulata dall'impresa
potenziale circa il comportamento delle imprese operanti nel caso
del suo ingresso. Quindi le imprese operanti possono anche fissare
un livello di prezzo più elevato di quello d'esclusione; si
tratta di vedere se esse hanno effettivamente una capacità
produttiva tale da rendere credibile l'ipotesi eventualmente
formulata dall'impresa potenziale circa un loro atteggiamento non
collaborativo o addirittura aggressivo.La capacità
produttiva inutilizzata sarebbe la vera arma strategica che rende
credibile la barriera all'entrata. L'implicazione di questa
critica è che il ruolo della concorrenza potenziale e gli
ostacoli a essa sarebbero essenziali per comprendere il
comportamento delle imprese, ma piuttosto dal lato dell'eccesso di
capacità che da quello dei prezzi d'equilibrio.Agli inizi
degli anni ottanta una nuova teoria generale delle strutture dei
mercati industriali, quella dei mercati accessibili (contestable
markets), ha di nuovo posto il tema della concorrenza potenziale
al centro di un'analisi dei meccanismi di competizione tra le
imprese. L'ipotesi di base della teoria dei mercati accessibili
è quella della concorrenza sui prezzi, alla Bertrand, e
ciò distingue questa impostazione da quella di Bain e Sylos
Labini che ipotizzano un meccanismo alla Cournot.
La conseguenza è che il risultato concorrenziale si
raggiunge immediatamente anche con due sole imprese, e anzi una
delle due imprese può essere anche un'impresa potenziale,
cioè pronta a entrare qualora ritenga di poter praticare un
prezzo tale da assicurarsi il mercato. Per questo motivo l'impresa
formalmente monopolista non può mantenere un livello di
prezzo maggiore del costo, pena la perdita del mercato a favore
dell'impresa non ancora operante (v. Baumol e altri, 1982).Una
delle differenze della teoria dei mercati accessibili rispetto a
quella di Bain-Sylos Labini è che, mentre in quest'ultima
un ruolo rilevante è svolto dai costi fissi, nella prima il
costo fisso pone una barriera all'entrata solo se si tratta di un
costo irrecuperabile (sunk). Un settore caratterizzato, ad
esempio, da alti costi fissi ma non irrecuperabili è quello
del trasporto, in particolare quello aereo: la teoria dei mercati
accessibili ha svolto un ruolo importante nel campo delle premesse
teoriche delle politiche di deregulation.
8. La teoria dei giochi e i processi
concorrenziali
L'ultima analisi della concorrenza come processo era stata quella
di Schumpeter del 1912; per circa quarant'anni non vi erano
più stati contributi sulla concorrenza come meccanismo da
spiegare e non da presupporre. Uno dei motivi era la grossa
difficoltà di analizzare le situazioni in cui gli operatori
sono pochi; uno dei presupposti di base all'analisi della
concorrenza come forma di mercato era, in fondo, che ciascuna
impresa si limitava a considerare il prezzo, che per essa era un
dato, e la funzione del costo, senza predisporre alcuna
particolare strategia nei confronti dei rivali.
La teoria del comportamento economico di John von Neumann e Oskar
Morgenstern è stata formulata esplicitamente sulla base
della teoria dei giochi, secondo cui il risultato del gioco
dipende dall'interazione tra la propria condotta e quella degli
altri partecipanti; il criterio di razionalità, comune a
tutti i partecipanti, non può essere quello proprio
dell'impostazione tradizionale. Le metodologie sviluppatesi nel
filone della teoria dei giochi hanno riportato l'attenzione degli
studiosi sul concetto di concorrenza come processo; sono stati
individuati due diversi approcci, definiti l'uno approccio
cooperativo e l'altro approccio non cooperativo. Il primo fa
riferimento all'impostazione di Edgeworth, il secondo a quella di
Cournot. In entrambe le impostazioni gli operatori economici hanno
un atteggiamento attivo nelle scelte riguardanti prezzi o
quantità; il risultato rilevante è che al crescere
del numero degli agenti economici le soluzioni di equilibrio
convergono verso l'equilibrio concorrenziale, cioè verso
una situazione in cui gli operatori agiscono come price takers e
in cui valgono le condizioni walrasiane (v. Shubik, Strategy...,
1959; v. Shapley e Shubik, 1967; v. Mas-Colell, 1982).
Entrambi gli approcci hanno rappresentato un sensibile passo in
avanti dal punto di vista della teoria dell'equilibrio economico
generale, perché hanno permesso di ottenere i risultati
walrasiani senza dover assumere come postulato iniziale quello
degli operatori come price takers . L'equilibrio competitivo viene
raggiunto in modelli chiusi attraverso la sola estensione del
numero degli operatori; la numerosità degli agenti
economici appare quindi come la caratteristica fondamentale della
concorrenza basata sulla teoria dei giochi. Sia l'approccio
cooperativo che quello non cooperativo, tuttavia, presentano dei
problemi e degli aspetti non risolti in modo soddisfacente. Vi
è innanzitutto l'ipotesi della conoscenza perfetta da parte
degli operatori economici; si è mostrato che in situazioni
in cui l'informazione è limitata e costosa il processo di
convergenza al risultato competitivo incontra dei problemi (v.
Rubinstein, 1982). Ma il problema più serio è posto
dalla difficoltà di trovare una convincente spiegazione
alla ragione per cui in un modello chiuso - in cui quindi i
produttori non temono l'entrata di nuovi rivali - non si
determinano fenomeni di coalizioni tra imprese.
La questione, è stato osservato (v. Arrow, 1974), è
anche connessa con l'asimmetria nella distribuzione delle
informazioni; è più facile infatti che gli accordi
si formino tra gli operatori dello stesso settore piuttosto che
tra alcuni venditori e alcuni compratori. Per affrontare questi
problemi sono stati compiuti dei tentativi di introdurre
limitazioni e vincoli alle ipotesi di comportamento razionale e
massimizzante degli operatori, in modo analogo, quindi, alla
teoria della razionalità limitata di Herbert Simon.
L'estensione dell'equilibrio non cooperativo alla teoria della
concorrenza potenziale e delle barriere all'entrata è un
altro tema sul quale si è sviluppata dalla fine degli anni
settanta una crescente letteratura. Dal punto di vista formale,
infatti, non occorrono particolari complicazioni per costruire un
gioco in cui vi siano un'impresa operante e un'impresa potenziale
entrante: si tratta di esaminare due momenti della strategia delle
due imprese, il momento della scelta se entrare o no, e quello
della scelta dei prezzi o della quantità di produzione.
Un primo risultato di rilievo fu ottenuto dimostrando che la
teoria del prezzo di esclusione alla Bain-Sylos Labini non trova
conferma nell'ambito dei giochi non cooperativi. La ragione
è sostanzialmente analoga a quella adottata da coloro che
ritengono infondata la nozione stessa di barriera all'entrata, a
parte il caso del vantaggio assoluto nei costi. Infatti l'impresa
potenziale entrante non può credere all'ipotesi di una
produzione invariata da parte delle imprese esistenti, in quanto
sa che tale comportamento non sarebbe nell'interesse delle imprese
già operanti, una volta che l'entrata sia avvenuta. In
questo caso, infatti, a quelle imprese conviene l'accordo
piuttosto che un atteggiamento non cooperativo (v. Friedman,
1979). Un discorso analogo vale per la minaccia da parte
dell'impresa operante dell'uso della sua capacità
produttiva come deterrente contro la potenziale entrante: in
realtà anche questa minaccia è poco credibile agli
occhi della potenziale entrante.
Sulla base di una distinzione effettuata da Thomas Schelling si
è cercato quindi di individuare i casi in cui la minaccia
può essere credibile: sono i casi in cui l'impresa operante
sul mercato pone in essere un comportamento che la obbliga a un
atteggiamento non cooperativo nel caso di entrata effettiva
dell'altra impresa. Un esempio tipico è quello dell'impresa
che stipula accordi con i clienti, garantendo un prezzo almeno
pari a quello che potrebbe essere offerto da un'altra impresa. Se
la sanzione, in caso di mancato rispetto dell'accordo, è
sufficientemente elevata, questo comportamento pone in atto una
minaccia credibile e viene quindi a costituire una vera barriera
all'entrata (v. Schelling, 1960; v. Stiglitz, 1985).
Anche l'esistenza di una capacità produttiva inutilizzata
può costituire una minaccia credibile, non in se stessa, ma
in quanto collegata, come del resto è plausibile che sia, a
costi fissi perduti di tale ampiezza da rendere comunque non
conveniente la produzione a un potenziale entrante che voglia
entrare aggiungendo i suoi costi fissi a quelli già
esistenti. Sono stati comunque condotti dei tentativi di
conciliare la teoria dell'entrata potenziale e del prezzo
d'esclusione con l'equilibrio non cooperativo; in sostanza si sono
introdotte limitazioni nei gradi di conoscenza da parte dei
produttori: ad esempio, i potenziali entranti potrebbero non
conoscere la funzione del costo del produttore operante sul
mercato, e potrebbero assumere il prezzo che questi pratica come
indicatore dei costi. Ma forse il vero problema risiede nelle
limitazioni delle assunzioni di base dei giochi non cooperativi.
Ad esempio lo schema impresa operante-impresa potenziale entrante
assume implicitamente che la prima impresa sappia quanti (e quali)
siano i concorrenti potenziali. Vale la pena di sottolineare che
ciò che importa non è che i potenziali entranti
siano in numero di uno, ma che siano in numero definito e in una
ben definita sequenza dal punto di vista temporale.
Diversamente si pone invece il problema nel caso in cui l'impresa
non sappia quanti e quali concorrenti potenziali può
trovarsi a fronteggiare; in questo caso un atteggiamento non
cooperativo volto a contrastare l'entrata del primo potenziale
entrante può servire all'impresa per costruirsi una
'reputazione' tale da scoraggiare l'entrata di altre imprese e
risultare redditizia a lungo andare (v. Kreps e Wilson, 1982).
Situazioni di questo tipo si possono paragonare ai risultati
raggiunti nell'applicazione della teoria dei giochi all'etologia
(v. Smith, 1982): ad esempio il comportamento 'borghese', non
cooperativo sul proprio terreno e cooperativo sul terreno altrui,
potrebbe suggerire un modello valido anche per il comportamento
dell'impresa. Altri sviluppi interessanti si possono cogliere nei
tentativi di applicare la nozione di strategie miste al
comportamento delle imprese (v. Dasgupta e Maskin, 1986). In ogni
caso un accordo tra teoria dell'entrata potenziale e del prezzo di
esclusione e teoria dei giochi sembra implicare il superamento di
alcuni aspetti della nozione di equilibrio propria dei giochi non
cooperativi.
9. Concorrenza e innovazione
Per lungo tempo i rapporti tra i processi innovativi e i regimi di
mercato sono stati oggetto più di ipotesi convenzionali che
di vere e proprie analisi. Se si prescinde da Schumpeter, occorre
giungere a Josef Steindl e a Sylos Labini per un approfondimento
degli effetti dell'innovazione nei diversi regimi di mercato; in
sostanza l'ipotesi era che in presenza della concorrenza si
determina un processo di diffusione dei frutti del progresso
tecnico in tutto il sistema attraverso la riduzione dei prezzi;
mentre invece posizioni monopolistiche determinano il permanere
dei guadagni all'interno dei settori dove si è verificata
l'innovazione. Questa differenza avrebbe una serie di conseguenze
sul livello degli investimenti e sulla distribuzione del reddito.
In base a questa ipotesi si ritiene che il regime di mercato
concorrenziale produca una spinta all'innovazione più forte
di quello monopolistico; la concorrenza agirebbe come una 'frusta'
sugli imprenditori, indipendentemente dalle loro inclinazioni
naturali. In questa visione tuttavia la concorrenza viene
concepita implicitamente come presenza di un alto grado di
rivalità, effettiva o potenziale, tra le imprese, mentre la
situazione monopolistica sarebbe caratterizzata proprio
dall'assenza di tale rivalità. La critica di Schumpeter a
questa tesi, e sulla sua scia quella di Galbraith, consiste, a ben
vedere, in due distinte proposizioni: si nega innanzitutto che la
rivalità sia propria del regime concorrenziale e la sua
assenza di quello monopolistico, così come sono definiti
tradizionalmente; si ritiene poi che la capacità
finanziaria di predisporre la somma necessaria alle spese di
ricerca sia maggiore nelle imprese dotate di potere di mercato,
dato che le soglie minime necessarie per avviare programmi di
ricerca sono piuttosto elevate ed esistono forse economie di scala
nella produzione della ricerca.
Il dibattito sviluppatosi negli anni sessanta ha fornito alcune
indicazioni interessanti ma non conclusive; il saggio di Arrow
(v., 1962) può essere considerato come la prima
dimostrazione analitica della tesi convenzionale. Si può
notare tuttavia che la maggiore propensione all'innovazione del
regime concorrenziale rispetto a quello monopolistico viene a
dipendere dalle stesse ragioni che stabiliscono la
superiorità in termini di efficienza allocativa della
concorrenza rispetto al monopolio; infatti se l'equilibrio di
mercato nella concorrenza è definito dall'eguaglianza tra
costo marginale e prezzo, mentre nel monopolio è definito
dall'eguaglianza tra il ricavo marginale e il costo marginale,
allora il monopolio si caratterizza per una minore quantità
prodotta e un più alto prezzo, e quindi esso comporta una
'perdita secca' per la collettività. In tale situazione
un'innovazione che riduca il costo di produzione determina un
vantaggio maggiore nell'ipotesi di concorrenza che in quella di
monopolio, esattamente per le stesse ragioni per le quali si
determina una perdita secca.
Il problema è tuttavia se sia corretto caratterizzare nei
termini anzidetti il meccanismo di determinazione del prezzo nei
due regimi di mercato. In effetti l'innovazione determina
tipicamente una situazione di monopolio, almeno temporaneamente,
dell'impresa che ha avuto successo; il problema si presenta quindi
come una questione di scelta tra una condizione di efficienza
statica e una di efficienza dinamica.Le indagini empiriche hanno
mostrato che esiste un ammontare minimo necessario per dare il via
a progetti di ricerca, ma non esistono economie di scala; che le
spese di ricerca e sviluppo crescono con la dimensione
dell'impresa, ma in proporzione oltre un certo limite il rapporto
decresce (con qualche eccezione, per esempio l'industria chimica).
Sembra quindi che situazioni di 'eccesso di concorrenza', intesa
come grande numerosità di imprese, o di 'troppo limitata
concorrenza' nel caso opposto non giovino all'innovazione; sembra
quindi necessario un certo grado di potere di mercato che non deve
però essere eccessivo (v. Kamien e Schwartz, 1982).
L'analisi teorica dell'innovazione e delle spese per la ricerca e
lo sviluppo è stata condotta da molti studiosi attraverso
la teoria dei giochi; la metodologia è evidentemente quella
dei giochi non cooperativi e vi hanno trovato un'applicazione le
due ipotesi di concorrenza, quella alla Cournot e quella alla
Bertrand. Nella prima i frutti della ricerca dipendono
essenzialmente dalle spese effettuate da ciascuna impresa,
indipendentemente da ciò che fanno le altre, mentre nella
seconda ipotesi il frutto della ricerca, in senso economico, si ha
solo quando l'impresa sia la prima a giungere a un determinato
risultato; esso dipende quindi dalla brevettabilità o meno
dell'innovazione.I risultati che si ottengono riflettono questi
due diversi approcci. Nel primo caso, ad esempio, si mostra come
il volume della ricerca dipenda dal numero dei concorrenti, ma la
caratteristica nuova messa in luce è che le spese di
ricerca hanno un effetto sulla struttura del mercato, ponendo un
limite al numero delle imprese che vi possono operare e
costituendo così una barriera all'entrata, con evidenti
riflessi sulla determinazione dei prezzi. Nel secondo caso invece
è dubbio che esistano soluzioni di equilibrio; in sostanza
si può dire che in questo caso il problema delle imprese
è decidere se le probabilità di vittoria nella
ricerca sono buone o meno. Solo nel caso che siano buone conviene
investire. Ciò può portare sia a eccessi di spesa
per la ricerca, sia a carenze rispetto a ciò che sarebbe
socialmente adeguato.
Un altro aspetto interessante che emerge quando la ricerca e lo
sviluppo sono caratterizzati da meccanismi di gara, cioè
nel caso della piena brevettabilità dell'innovazione da
parte dell'impresa che ottiene per prima il risultato, è
che l'analisi del comportamento strategico in situazioni
asimmetriche indica la possibilità per l'impresa dominante
di determinare delle barriere all'entrata attraverso una politica
di ricerca volta alla 'saturazione' delle innovazioni. In questo
caso avremmo una produzione di innovazioni che non vengono
utilizzate se non quando gli investimenti effettuati in precedenza
siano stati completamente ammortizzati (v. Dasgupta e Maskin,
1986).
La letteratura sul tema non è ancora giunta a una
soddisfacente sistemazione della tematica; i problemi connessi con
la formalizzazione di situazioni complesse sono infatti numerosi.
I casi reali difficilmente rientrano nei casi estremi analizzati:
la brevettabilità dell'innovazione non è mai
né piena né nulla, i rapporti tra azionisti,
managers, addetti ai laboratori sono complessi e i risultati
dipendono da ipotesi specifiche sulle motivazioni delle singole
parti (v. Stiglitz, 1985). Allo stato attuale si può dire
che esiste una generale convinzione che tra innovazione e
concorrenza ci siano una notevole interdipendenza e nessi di
causalità reciproci.
10. Teoria della concorrenza e politica
antimonopolistica
Nei paesi anglosassoni, in particolare negli Stati Uniti, la
politica antimonopolistica trova le sue radici nella common law, e
ciò spiega perché l'antitrust sia una elaborazione
dei tribunali. È chiaro tuttavia che vi sono sempre state
strette relazioni tra teoria economica e antitrust e da questo
punto di vista può sembrare sorprendente constatare che la
maggioranza degli economisti ha un atteggiamento critico verso la
legislazione antitrust, considerata in fondo inutile, se non
controproducente dal punto di vista dello sviluppo dei processi
concorrenziali. Questo atteggiamento critico è basato
sull'evoluzione della teoria economica che, come si è
cercato di mostrare nelle pagine che precedono, si è andata
via via allontanando da una visione della concorrenza che la
considera come caratteristica di un sistema atomistico, in cui
ciascuna impresa è priva di potere nella fissazione del
prezzo, e dove vige quindi la regola fondamentale dell'eguaglianza
tra prezzo e costo marginale. In effetti, quando gli economisti
ritenevano fondamentalmente valida questa concezione della
concorrenza, la loro valutazione antitrust era certamente
più positiva; nel noto pamphlet di Henry Simons (v., 1948)
l'eliminazione del monopolio privato in tutte le sue forme era
indicata come il primo obiettivo di un programma positivo per il
laissez faire, e la Federal Trade Commission veniva considerata
come la più importante delle agenzie governative.
Con la crisi della teoria tradizionale della concorrenza si pone
in dubbio che il mercato atomistico abbia le caratteristiche di
efficienza ipotizzate e si indicano invece nella libertà
d'entrata e nell'innovazione le vere radici dei processi
concorrenziali, e quindi la base di un'efficienza intesa in senso
dinamico.Come conseguenza di ciò alcune categorie
dell'antitrust vengono poste in discussione: si prenda ad esempio
il caso del predatory pricing. Sulla base della teoria
tradizionale l'esistenza di una politica sleale di concorrenza sul
prezzo sarebbe confermata da un prezzo inferiore al costo
marginale, ma le teorie della concorrenza monopolistica e
dell'oligopolio hanno dimostrato che quella condizione non
è né necessaria né sufficiente perché
l'atteggiamento dell'impresa che lo persegue possa essere
qualificato come predatory pricing (v. Scherer, 1976).
Le analisi economiche che hanno colpito più in
profondità la legislazione antitrust sono quelle che hanno
messo in discussione il principio secondo cui gli accordi tra le
imprese ricadono nella giurisdizione dei tribunali sulla base di
una presunzione iuris et de iure, cioè di quella che nella
tradizione statunitense è definita la per se rule. La
distinzione, in effetti, tra tendenze alla collusione tra imprese
diverse e tendenze alla monopolizzazione era stata stabilita dallo
stesso Sherman act, dando luogo a due sezioni separate della
legge; veniva considerata in modo nettamente più severo la
prima sezione rispetto alla seconda. Le teorie dei costi di
transazione e dei diritti di proprietà di Oliver Williamson
e di Harold Demsetz hanno portato a una riconsiderazione degli
accordi verticali tra le imprese; tali accordi possono essere
spiegati da considerazioni di efficienza produttiva in presenza di
costi di transazione, piuttosto che dalla smithiana conspiracy
against the public (v. Williamson, 1975; v. Demsetz, 1982).
Il colpo più duro all'antitrust è stato inferto
dall'analisi di Lester Telser, che ha sottoposto a critica anche
la condanna dei cartelli orizzontali tra le imprese, condanna che
si poteva considerare come l'unico punto sicuro di incontro tra
giuristi dell'antitrust ed economisti. Basandosi sulla teoria dei
giochi, in particolare sull'approccio cooperativo, Telser ha
sostenuto che in condizioni di eccesso di capacità e/o di
costi decrescenti può mancare un equilibrio stabile nel
settore. In queste circostanze la fissazione di quote di
produzione può essere un modo per raggiungere una soluzione
di equilibrio che altrimenti mancherebbe (v. Telser, 1987). Il
dibattito su queste tesi è in corso e al momento non
è possibile prevederne gli sviluppi; si può tuttavia
ricordare che nelle situazioni di assenza di equilibrio, quali
quelle descritte da Telser e che egli stesso ritiene più
diffuse nei mercati industriali di quanto gli studiosi
dell'equilibrio economico generale non abbiano ammesso finora, i
prezzi perdono la loro fondamentale funzione di allocazione delle
risorse; il problema è allora se la realizzazione
dell'equilibrio debba essere lasciata all'iniziativa delle parti o
non richieda piuttosto qualche forma di intervento pubblico.