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  Capitalismo
  
   
   
Nell’accezione comune, sistema economico in cui il capitale è
    di proprietà privata (sinonimo di ‘economia d’iniziativa
    privata’ o ‘economia di libero mercato’). Nell’accezione originaria,
    formulata con intento fortemente critico da pensatori socialisti e
    poi sviluppata nelle teorie marxiste, sistema economico
    caratterizzato dall’ampia accumulazione di capitale e dalla
    scissione di proprietà privata e mezzi di produzione dal
    lavoro, che è ridotto a lavoro salariato, sfruttato per
    ricavarne profitto. 
    Il termine c. iniziò a circolare negli ambienti del
      socialismo utopistico intorno alla metà del 19° sec.,
      per indicare e stigmatizzare il sistema economico nel quale i
      lavoratori sono esclusi dalla proprietà del capitale. Per
      indicare il sistema di relazioni sociali e l’organizzazione del
      processo produttivo che si basano sullo sfruttamento della
      forza-lavoro salariata K. Marx usò invece l’espressione
      ‘modo di produzione capitalistico’. Questo modo di produzione
      avrebbe compiuto l’enorme sviluppo delle forze produttive,
      alimentando però per la sua dinamica interna (impoverimento
      dei salariati, accumulazione di capitale senza crescita
      corrispondente di consumi e quindi crisi di sovrapproduzione,
      caduta tendenziale del saggio di profitto) il crescente conflitto
      di classe tra capitalisti e salariati. Nell’evoluzione storica, il
      c. segue ai modi di produzione schiavistico e feudale ed è,
      secondo la diagnosi di Marx, destinato a dissolversi per lasciare
      spazio, a lungo termine, al comunismo.
      Agli inizi del Novecento, il termine capitalismo fu adottato anche
      da autori non marxisti, in particolare da M. Weber che ha indicato la peculiarità del c. nel calcolo razionale
      del profitto e ne ha legato la genesi e l’affermazione al
      diffondersi di una nuova etica nata da correnti religiose
      protestanti (L’etica protestante e
        lo spirito del capitalismo, 1904-05). J.A.
          
          
          Schumpeter ha distinto il c. concorrenziale della prima fase
      dell’economia borghese, dominato dall’emergere d’imprenditori
      capitalisti che dirigono imprese a proprietà familiare, dal
      c. trustificato, caratterizzato dalla trasformazione delle imprese
      in società per azioni e dalla loro fusione in trust, gruppi che dominano
      la scena economica e preludono, secondo Schumpeter, all’evoluzione
      verso un’economia di comando e pianificazione centralizzata (Capitalismo, socialismo, democrazia, 1942). Il termine c. è stato poi ampiamente accolto nella
      storiografia economica; è adottato, invece, limitatamente e
      solo da alcune correnti di pensiero negli studi d’economia. 
    In un uso diffuso, l’espressione allude, con intenti critici, a
      una nuova fisionomia che il c. avrebbe assunto nel 20° sec.,
      variamente delineata ponendo l’accento su progresso tecnologico e
      automazione, sul prevalere dell’oligopolio, sulla separazione
      della proprietà dalla gestione o sull’affermarsi delle
      imprese multinazionali. Con l’espressione c. di Stato è
      stato talvolta designato, in modo improprio, il sistema economico
      più correttamente detto socialismo di Stato , che poggia
      sull’intervento pubblico e può arrivare a concentrare nello
      Stato la proprietà dei mezzi di produzione, la direzione
      della produzione stessa e la distribuzione del prodotto tra i
      membri della collettività. 
    Di regola si collocano le origini del c. tra il Basso Medioevo,
      all’epoca della rinascita delle città, e il 15° e
      16° sec., quando iniziò a decollare, grazie anche alle
      scoperte geografiche, la stagione del grande commercio mondiale.
      Accanto al ruolo attivo di nuovi ceti imprenditoriali borghesi,
      furono decisivi i processi di formazione dello Stato moderno, che
      presero avvio nel 16° secolo. Fondamentali furono, in
      particolare, le politiche mercantilistiche dei grandi Stati, che
      presero a finanziare industrie e compagnie commerciali, fecero
      ricorso al protezionismo e avviarono programmi di conquista
      coloniale. Tra Sette e Ottocento la storia del c. entrò in
      una fase di grande accelerazione con la Rivoluzione industriale
      che, a partire dalla Gran Bretagna, investì l’Europa
      occidentale e gli Stati Uniti. Secondo molti autori è in
      questa fase che nacque propriamente il c. moderno il quale,
      soprattutto in Gran Bretagna, rivendicò una completa
      libertà dai controlli dello Stato e il libero scambio.
      Nell’ultimo trentennio dell’Ottocento la grande depressione
      portò a una profonda ristrutturazione del c., che si fece
      sentire soprattutto in paesi come la Germania,
      dove si affermarono grandi concentrazioni industriali e nuove
      forme di intervento dello Stato nei processi economici, e dove
      crebbe il ruolo del capitale finanziario. Intanto si scatenavano
      gli imperialismi, frutto di una ricerca di nuovi mercati tale da
      non arretrare nemmeno dinanzi alla prospettiva della violenza, che
      infatti esplose con la Prima
        
        
        guerra mondiale. La crisi del 1929 segnò una
      gravissima battuta d’arresto nella storia del capitalismo ma fece
      maturare strategie di intervento statale e politiche di welfare che configuravano
      una coerente alternativa alle politiche liberiste e neoliberiste.
      Negli ultimi decenni la globalizzazione ha rappresentato il
      trionfo di un c. di scala planetaria, ormai svincolato da
      qualsiasi vincolo politico-statuale. Questa nuova fase evolutiva
      ha per molti aspetti approfondito il tradizionale divario tra
      paesi sviluppati e quelli arretrati o in via di sviluppo, nel
      quadro però di una crescente interdipendenza generatrice di
      nuove e gravissime tensioni sociali e politiche.
    
    *
    
    Enciclopedia delle Scienze Sociali (1991)
    
    Capitalismo
    
    di Sergio Ricossa e Alessandro Cavalli
    
    Capitalismo 
    di Sergio Ricossa
    
    sommario: 1. Le origini del capitalismo. 2.
    Un'economia fondata sul capitale. 3. Un'economia basata
    sull'innovazione. 4. Il capitalismo e il profitto. 5. La crescita
    del mercato capitalistico. 6. Le trasformazioni del capitalismo. 7.
    Conclusioni. □ Bibliografia. 
    
1. Le origini del capitalismo
Non conviene intendere il capitalismo come un preciso sistema
    economico, con caratteri fissi e ben definibili una volta per tutte.
    Esso è piuttosto un'evoluzione storica dell'economia, che
    comincia verso l'anno Mille, o poco dopo, nell'Occidente europeo, e
    che è tuttora in corso. Durante questo percorso quasi
    millenario, il capitalismo ha mutato di frequente volto e veste, ma
    non tanto da impedirci di riconoscergli una qualche
    continuità 'esistenziale'. E a proposito di
    continuità, va detto subito che la nascita del sistema nuovo
    non venne dal nulla, e che quindi il vecchio sistema
    precapitalistico conteneva in sé i germi e le avvisaglie
    della trasformazione, la quale in principio fu lenta, quasi
    impercettibile.
Oggi, col senno di poi, guardando retrospettivamente i fatti
    accumulatisi nei secoli, parliamo di trasformazione rivoluzionaria;
    ma fu pure una trasformazione inintenzionale, nel senso che nessuno
    dei suoi innumerevoli artefici ne ebbe un progetto d'insieme,
    né poteva averlo. Il capitalismo moderno non era soltanto non
    progettabile: era inimmaginabile. Ancora oggi non sa dove
    andrà, perché inventa la sua strada ogni giorno.
    È un sistema aperto, così aperto che c'è chi
    dubita che sia un sistema, un ordine, un organismo sociale, e non
    invece un caotico insieme di iniziative umane indipendenti e
    contraddittorie.
Le contraddizioni del capitalismo o, se si vuole, dell'economia
    borghese, come Marx preferiva dire: nell'additarle e condannarle
    egli tuttavia non esitava a concedere che provenissero dalla
    "più complessa e sviluppata organizzazione storica della
    produzione" (v. Marx, 1859, Introduzione).
Il socialismo stesso era per lui inconcepibile senza il passaggio
    attraverso la fase capitalistica, e bisognava che tale passaggio
    fosse completo, che profittasse fino in fondo di ognuno dei molti,
    eccellenti contributi del capitalismo al progresso economico. Per
    questo l'economia borghese avrebbe dovuto essere l'ultimo passo
    della storia progressiva prima del socialismo. Ma perché
    chiamarla economia borghese? Perché renderla sinonimo di
    capitalismo?
Poco dopo l'anno Mille fu un nuovo ceto emergente, la borghesia, a
    introdurre sulla scena i cambiamenti che si chiamarono in seguito
    capitalismo. Furono i borghesi (in particolare i mercanti delle
    città medievali, le quali aspiravano a diventare comuni
    liberi dai vincoli feudali) ad avviare quella che possiamo pure
    denominare, con Carlo M. Cipolla, la rivoluzione comunal-cittadina,
    primo atto della rappresentazione capitalistica nei secoli XI-XIII:
    "Il grande mercante, che fu di solito anche imprenditore
    manifatturiero e se del caso anche banchiere, riuscì a
    installarsi ai più elevati gradini della scala sociale, e il
    'popolo grasso' nelle città italiane e il 'patriziato' nelle
    città fiamminghe e tedesche assunsero il controllo della
    comunità identificando gli interessi dello Stato con quelli
    del proprio ceto. Nel quadro della storia dell'umanità il
    fenomeno aveva tutti i caratteri dell'eccezionalità,
    perché dai tempi del Neolitico, salvo poche eccezioni, nella
    stragrande maggioranza le società umane erano state (e fuori
    d'Europa tutt'ora erano) dominate dal ceto dei grossi proprietari
    fondiari" (v. Cipolla, 1988, pp. 465-466).
Dunque: diffusione geografica a chiazze in espansione, cominciando
    principalmente dai comuni dell'Italia centrosettentrionale, dalle
    città delle Fiandre e della Germania renana e anseatica, per
    poi coprire le provincie olandesi e l'Inghilterra, e poi ancora
    quasi tutta l'Europa occidentale e centrale, prima di emigrare
    nell'America settentrionale e, nel nostro secolo, in Giappone. Ma
    che differenza tra la fase per così dire pionieristica - in
    cui il capitalismo è, sì, mercantile, industriale e
    finanziario nel medesimo tempo, ma l'aspetto industriale è
    secondario e si confonde con l'aspetto artigianale - e la fase
    evoluta: questa comincia in Inghilterra nel XVIII secolo col factory
    system che spiazza a poco a poco l'artigianato e pone l'industria al
    primo posto nella graduatoria dei settori produttivi, come fonte
    primaria del progresso tecnologico e merceologico, e come sede di
    imprese e di stabilimenti di dimensioni via via maggiori. E che
    differenza tra il capitalismo avanzato, dominante, originale,
    spontaneo e quello imitativo, artificioso e tardivo, in cui gli
    elementi della nuova economia, appena embrionali, sono mescolati e
    oppressi dai tenaci residui della vecchia economia, che né
    l'iniziativa privata né, talvolta, l'iniziativa pubblica
    riescono a demolire.
Dunque anche: rivoluzione politica, oltre che economica, cui
    seguiranno nel Seicento la rivoluzione scientifica e nel tardo
    Settecento la rivoluzione industriale, secondo e terzo atto della
    grande rappresentazione capitalistica. Ma è sul primo atto
    che dobbiamo insistere, per ora, al fine di capirne la
    novità, capire perché risultasse tanto importante che
    qua e là, al vertice della gerarchia sociale, fossero saliti
    dei mercanti, anziché dei proprietari terrieri. Da sempre la
    storia registrava lotte per la conquista del potere, e da sempre le
    élites 'circolavano', uscivano dalle quinte, giungevano alla
    ribalta, recitavano la loro parte, se ne andavano spinte con buone o
    cattive maniere da altri attori protagonisti. La differenza stava
    negli argomenti dei nuovi attori: se forti soltanto di prepotenza o
    se forieri di qualche forma di progresso, comunque questo venga
    definito.
Marx credeva nel progressismo borghese e non v'è dubbio che
    la prepotenza del ceto mercantile infine emergente non era tutto
    quanto esso aveva da offrire. Di prepotenza ne mostrò
    parecchia, anche perché aveva molti nemici vogliosi di
    soffocarlo e respingerlo in basso; ma inoltre mostrò
    inusitate qualità mentali costruttive, non meramente
    distruttive, uno spirito innovatore e vivificante, non effimero, che
    nel giro di qualche secolo avrebbe innalzato l'Europa occidentale al
    primato del mondo, da una posizione iniziale di grave
    inferiorità. Non dimentichiamo che l'Europa occidentale
    dell'anno Mille era una zona sottosviluppata, rispetto a quelle
    bizantine, islamiche e cinesi. Visti dall'esterno, gli europei erano
    popoli insignificanti, se non barbari, e quando la loro immagine
    cambiò, molto tardi, fu una sorpresa per gli increduli,
    cioè per tutti.
Lo sviluppo europeo, come quasi sempre accade, ebbe nemici interni
    assai più che nemici esterni. Erano i nostri conservatori
    antiborghesi a osteggiare l'incipiente capitalismo di casa e insieme
    la forza propulsiva da cui dipendeva (oggi lo sappiamo) il nostro
    futuro. Era la nostra nobiltà feudale, laica ed
    ecclesiastica, a rintuzzare l'insolenza dei ceti borghesi, che
    pretendevano opporsi ai privilegi della nascita e del sangue,
    sostituire il valore economico a quello militare e religioso,
    riformare il diritto, cambiare il costume, liberare i servi della
    gleba e liberarsi dalle servitù, comprese quelle fiscali,
    verso i signori della terra. Gli interessi delle campagne non
    coincidevano con gli interessi delle città: c'era chi voleva
    vendere caro il proprio grano e chi voleva acquistare a buon mercato
    il proprio pane. C'era soprattutto un contrasto di mentalità:
    da un lato, l'antica e prestigiosa cultura signorile, che coincideva
    con la cultura classica, considerava ignobile e vile l'intera
    attività economica; dall'altro lato, la cultura o
    controcultura borghese contava invece proprio sull'attività
    economica per mettere il mondo sossopra. "L'Italia fu il paese del
    compromesso storico: buona parte della nobiltà feudale
    fiutò dove il mondo sarebbe andato a parare e mise piede
    nelle città" (ibid., p. 463). Anche qui, però, il
    capitalismo ebbe le sue traversie, tant'è vero che l'Italia
    centrosettentrionale, economicamente in testa alle nazioni europee
    nel Duecento, nel Seicento si era lasciata sorpassare e distaccare
    senza rimedio dall'Olanda e dall'Inghilterra. Ovunque, e fino ai
    nostri giorni, lo spirito capitalistico, perseguitato, non muore ma
    emigra dove, di volta in volta, incontra minori difficoltà
    ambientali e culturali a legittimarsi.
Ovunque, tuttavia, le difficoltà ci sono, appunto
    perché il capitalismo, già nel nome, si annuncia come
    una 'scandalosa' pretesa di organizzare la società secondo
    criteri meramente economici. Pur vittorioso sul feudalesimo, il
    capitalismo non si è mai definitivamente imposto sul piano
    etico e politico, né in Occidente né tanto meno
    altrove, e continua a sollevare obiezioni e reazioni perfino dove
    pare essere dominante. Gli accaniti attacchi ideologici che ha
    subito a opera dei movimenti marxistici non sono stati né i
    primi né gli ultimi. Occorre però tornare alle
    origini, alla rivoluzione comunal-cittadina, per percepire
    nell'intera sua estensione la rilevanza del precetto capitalistico
    di anteporre, in un certo senso, l'economia a tutto il resto. Il
    punto da chiarire è che il precetto mutava il contenuto
    dell'economia mentre ne cambiava la collocazione negli ordinamenti
    sociali. L'economia, che avanzava di rango, non era più la
    vecchia economia: era un'economia capace di cose nuove perché
    era l'economia del capitale, anziché l'economia della terra. 
    
2. Un'economia fondata sul capitale
La ricchezza antica era costituita tipicamente da beni naturali,
    come la terra e l'oro. La ricchezza borghese puntò invece su
    beni artificiali, come il capitale. Intendiamoci: il capitale, quale
    strumento produttivo costruito dall'uomo, era sempre esistito e tale
    si poteva già considerare, per esempio, la selce scheggiata
    dall'uomo del Paleolitico per farne un utensile o un'arma. Ma fin
    tanto che la terra e l'oro restavano le basi dell'accumulazione
    della ricchezza, il capitale non acquistava importanza perché
    esso non è in grado di produrre direttamente né terra
    né oro. Essendo questi beni un dono della natura, la nostra
    volontà non può riprodurli in alcun modo: può
    bonificare un terreno, ma il terreno deve esserci già;
    può scavare un filone aurifero, ma il minerale deve esserci
    già.
Nel sentire antico la disponibilità globale di ricchezza era
    fissata dalla natura. Chi ambiva a disporre per sé di
    più terra o di più oro doveva pensare a sottrarre ad
    altri quei beni, con mezzi pacifici o violenti, a parte i casi
    sempre meno numerosi di fondi vergini e di nessuno. Non c'era,
    nitido, il concetto di prodotto netto, di ricchezza creata
    dall'uomo, e creata per così dire dal nulla; o meglio, il
    prodotto netto si riduceva alla fertilità della natura che
    ogni anno fornisce un raccolto, il quale comunque, in epoche di
    scarso o nullo progresso tecnologico, dipendeva rigidamente
    dall'estensione dei campi. Ecco come l'accumulazione della
    ricchezza, nei millenni preborghesi, rispondeva a una
    mentalità predatoria assai più che a una
    mentalità produttivistica, a una mentalità militare
    assai più che a una mentalità economica.
Se non che era proprio l'economia, allora, a rendersi facilmente
    illecita, per un paradosso che è tale soltanto per i
    borghesi. La cultura signorile antieconomica non era affatto ostile
    all'accumulazione della ricchezza, purché ciò servisse
    un fine pubblico, e non era affatto ostile all'impiego, d'altronde
    reputato inevitabile, della forza come mezzo, purché
    ciò corrispondesse a uno scontro col nemico 'ufficiale' (il
    barbaro, l'infedele, o semplicemente lo straniero, chi era fuori del
    sacro suolo patrio e mancava di diritti). L'iniziativa economica
    privata, in cerca del profitto egoistico, esercitava lo stesso
    un'azione predatoria, in assenza di contributi produttivi, che non
    si scorgevano, ma la esercitava senza rispettare le regole del bene
    pubblico e dell'onore militare. Di qui la sua fondamentale
    immoralità, non appena andava oltre lo stretto necessario.
Il cristianesimo aveva modificato poco questa tradizione
    psicologica: la definizione di nemico forse si restrinse, ma
    perdurò l'incapacità di percepire la ricchezza come
    prodotto netto e quindi come sostanza aumentabile senza
    trasferimento. Si predicarono il dono, la carità, talvolta
    l'eguaglianza, più che atti produttivi, e lo stesso lavoro,
    sebbene nobilitato, sebbene strappato all'infamia classica, lo fu
    essenzialmente quale forma di preghiera e di espiazione, non tanto
    ai fini dell'economia. Come avrebbe potuto essere altrimenti, se il
    cristiano collegava la nascita dell'economia alla caduta
    dell'umanità nel peccato originale e alla conseguente
    punizione divina?
Perfino la borghesia, che era anch'essa cristiana, non aveva idee
    chiare su quello che faceva. Di certo rivendicava il diritto di
    arricchirsi e divenire potente senza ricorrere in via preventiva
    alla conquista militare, senza seguire le orme della nobiltà
    feudale: col 'nemico', anziché combattere, si potevano
    realizzare buoni affari, e addirittura, pareva, con beneficio
    reciproco. Inoltre, la borghesia andava scoprendo che, mentre la
    terra non produce terra, il capitale produce capitale, anche se non
    è evidente il perché, e dunque permette un genere di
    arricchimento rapido e illimitato. La scoperta rimase equivoca a
    lungo, il capitale non venne capito subito nella sua intima potenza
    creativa, troppo spesso venne degradato a mero capitale finanziario,
    ovvero nuovamente a moneta d'oro improduttiva (la moneta non
    partorisce moneta). Ci si impegolò nelle dispute
    sull'interesse e sull'usura, ma intanto la società cambiava a
    dispetto dei conservatori e dei moralisti, cambiava in attesa di
    giustificarsi, di giustificare quanto avveniva quasi da sé,
    per prorompente vitalità, incontrollatamente.
Il capitale produce capitale: ecco l'importante. "Il capitale
    è la potenza economica della società borghese che
    domina tutto; esso deve costituire il punto di partenza così
    come il punto d'arrivo, e deve essere trattato prima della
    proprietà fondiaria": Marx, nell'introduzione a Per la
    critica dell'economia politica, affermava l'evidente, dopo alcuni
    secoli di capitalismo, ma lo affermava dubitando che l'economia
    politica avesse già spiegato bene come il capitale si
    autogenerasse. E invero né la scolastica, né il
    mercantilismo, né la fisiocrazia, né la scuola
    classica fondata da Adam Smith avevano fugato ogni ombra. Giacevano
    in fondo alla mente di ognuno gli antichi preconcetti: che il
    guadagno di una parte doveva essere per forza la perdita in pari
    quantità di un'altra parte, e che al massimo era la natura a
    possedere una virtus generativa e a regalarci qualcosa.
Lo stesso Marx non sfuggì alla tentazione di scorgere, dietro
    il capitale che cresce a dismisura, un colossale processo di
    sfruttamento: non sfruttamento della natura a opera dell'uomo, ma
    sfruttamento dell'uomo a opera dell'uomo, del proletario a opera del
    capitalista. L'uomo marxiano era, sì, capace di creare,
    lavorando, un prodotto netto, un di più rispetto al naturale,
    un surplus, un plusvalore, ma, come le api, lo creava per farselo
    predare dal proprietario del capitale. Pertanto, il capitale era il
    mezzo per estorcere plusvalore al lavoratore e quel plusvalore era
    anche pluslavoro, poiché tutto il valore economico veniva dal
    lavoro. Qui stava, secondo Marx, l'efficacia della terribile formula
    capitalistica, che sconfiggeva la "sconcia neghittosità"
    feudale obbligando il lavoratore a cadere nell'eccesso opposto di un
    massacrante pluslavoro prima inimmaginabile.
Nell'epoca di Marx i turni di lavoro nelle fabbriche superavano
    spesso le dodici ore giornaliere, ed era sotto gli occhi di tutti
    che prolungando l'orario, facendo girare le macchine più a
    lungo, si aumentava la produzione industriale. In agricoltura non
    era così: non si otteneva un raccolto doppio, lavorando il
    doppio sul medesimo campo. Ecco un'altra differenza tra il capitale
    e la terra, a vantaggio del capitalista che teneva per sé
    tutto quanto l'operaio produceva in più rispetto al minimo di
    sussistenza. In una giornata lavorativa di dodici ore, se per
    esempio ne bastavano sette all'operaio per produrre il necessario a
    mantenersi in vita e a riprodursi, le cinque rimanenti fornivano
    beni che il capitalista trasformava in profitto per sé e in
    fonte di nuovo capitale. E poiché il capitalista era
    insaziabile nella voglia di accumulare capitale, il capitalismo
    portava a un grado di sfruttamento dell'operaio superiore a quello
    del contadino, del servo della gleba, dello schiavo nei sistemi
    precapitalistici, nei quali vi erano dei limiti dettati da leggi di
    natura riguardanti la terra.
Così "nel suo dominio appena secolare di classe", la
    borghesia aveva creato forze di produzione "più gigantesche e
    imponenti" di quelle di tutte le generazioni passate messe insieme
    (Manifesto del partito comunista). Era la via obbligata verso il
    regno dell'abbondanza, ma una via spinosa, che il proletariato
    sanguinante percorreva prestando un immane pluslavoro sotto la
    sferza del capitale. Lì stava "il grande ruolo storico del
    capitale", la sua "funzione civilizzatrice". "Uno degli aspetti in
    cui si manifesta la funzione civilizzatrice del capitale è
    quello di estorcere pluslavoro in un modo e sotto condizioni che
    sono più favorevoli allo sviluppo delle forze produttive, dei
    rapporti sociali, e alla creazione degli elementi per una nuova e
    più elevata formazione [di capitale], di quanto non avvenga
    nelle forme precedenti della schiavitù, della servitù
    della gleba, ecc." (v. Marx, 1867-1894; tr. it., vol. III, pp.
    932-933).
L'avidità del capitalista serviva uno scopo sociale. E non
    sorprende che, decenni dopo, Keynes mantenesse una visione
    sostanzialmente eguale del capitalismo: "L'immensa accumulazione di
    capitale fisso, che con gran vantaggio dell'umanità venne
    condotta durante il cinquantennio che precedette la guerra [la prima
    guerra mondiale], non si sarebbe potuta formare in una
    società dove la ricchezza fosse egualmente divisa [...].
    Negli inconsci recessi del suo essere, la società sapeva
    quello che si faceva. La torta era realmente piccola in proporzione
    agli appetiti di consumo, e se essa fosse stata ripartita in giro
    fra tutti, ben poco ognuno ne avrebbe potuto godere. La
    società lavorava non per i piccoli piaceri dell'oggi, ma per
    la certezza del futuro e per il miglioramento della specie; in
    sostanza per il 'progresso"' (v. Keynes, 1919; tr. it., pp. 15 e
    19).
Tanto Marx quanto Keynes sostenevano, ovviamente, che il capitalismo
    sarebbe finito, di morte violenta o di dolce eutanasia, terminata la
    sua "funzione civilizzatrice", per lasciar posto a un sistema
    più equo, nel quale l'ottenuta abbondanza diventasse
    finalmente accessibile al benessere di tutti. Per intanto, il
    capitalismo era quello che la storia aveva imposto con certe
    caratteristiche tipiche e fors'anche fatali, che è il momento
    di riassumere: un apprezzamento degli atti economici e in
    particolare degli atti produttivi, che l'antichità aveva
    trascurato e perfino vilipeso; uno spostamento di attenzione dalla
    terra al capitale, dal naturale all'artificiale, dall'agricoltura
    all'industria; uno sfruttamento delle nuove occasioni di ottenere
    pluslavoro e quindi plusvalore, che era stato risparmiato e
    investito, non consumato se non in minima parte, ai fini della
    massima accumulazione di capitale.
Ciò aveva richiesto, fra l'altro, dei profondi mutamenti
    giuridici. Il concetto di proprietà, che il feudalesimo
    applicava alla terra, non poteva certo valere per il capitale della
    borghesia. La terra feudale era una specie di bene in comune su cui
    molti vantavano diversi diritti parziali. Il capitale borghese
    doveva invece essere rigorosamente privato, per essere gestito
    liberamente dal proprietario capitalista e a suo esclusivo profitto.
    Affermatosi il concetto borghese di proprietà, esso si era
    poi esteso anche al settore agricolo (agricoltura capitalistica),
    per esempio col fenomeno delle enclosures, della recinzione dei
    campi una volta aperti alla collettività locale. La terra,
    che era stata a lungo praticamente fuori commercio, col diffondersi
    del capitalismo subiva la stessa sorte del capitale, cioè si
    vendeva, si comperava e si affittava con grande facilità, in
    modo che la gestione finisse col toccare ai più efficienti.Il
    diritto del lavoro non era mutato meno. Quando la borghesia aveva
    dato il colpo di grazia alla servitù feudale, la figura del
    salariato, di infima importanza nell'antichità, si era
    gradatamente moltiplicata fino a costituirsi come figura normale.
    Pagato a tempo, il salariato conveniva a un sistema basato
    sull'indurre l'operaio al pluslavoro e che desiderava assumere e
    licenziare secondo criteri puramente produttivistici. La
    mobilità del salariato non era d'altronde che un aspetto
    della più generale mobilità della gente dalla campagna
    alla città, da una città all'altra, da un mestiere
    all'altro, da un mercato all'altro, in una economia non più
    stazionaria e non più autarchica.
Se ci fermassimo qui, disporremmo di un vasto quadro di cambiamenti
    sociali, senza però esaurire affatto il complesso delle
    innovazioni intervenute con l'irrompere del capitalismo. E anzi
    lasceremmo fuori quello che forse è il cambiamento
    psicologico più radicale e che in modo ellittico possiamo
    chiamare il cambiamento per il cambiamento. L'analisi del
    capitalismo fin qui condotta palesemente non soddisfa, se non altro
    perché non risponde a fondo nemmeno agli interrogativi posti
    da essa stessa. Non sfugge la rozzezza di una spiegazione che faccia
    dipendere il plusvalore soltanto dal pluslavoro e da nient'altro,
    come se non esistessero un progresso organizzativo, un progresso
    tecnologico, un progresso merceologico e via dicendo. È
    indispensabile proseguire l'analisi legando ciò che
    aggiungeremo a ciò che precede, cercando cause comuni e
    fattori omogenei.
Ora, è proprio la passione del cambiamento per il cambiamento
    ciò che più distinse e distingue il capitalismo, nei
    suoi momenti più dinamici, dai sistemi stazionari e
    semistazionari che lo precedettero; ed è pure ciò che
    lo rese e lo rende accanito nella ricerca del progresso di ogni
    genere, vale a dire nel tentativo di aumentare i 'gradi di
    libertà' concessi all'uomo. Fare cose che prima non si
    sapevano fare, accrescere le possibilità o le scelte a noi
    concesse, giungere dove nessuno era mai giunto, sperimentare nuovi
    modi di vita, in una incessante "creazione distruttrice" (per usare
    le note parole di Schumpeter): in questo consistette e consiste lo
    spirito capitalistico allo stato puro, nonché il carattere
    saliente dell'uomo occidentale, che ha finito spesso con l'assumere
    i tratti del borghese trionfante al culmine della sua parabola.
    Così il quadro si completa, fors'anche si dilata
    eccessivamente, ma la timidezza non paga nell'esplorare un sistema
    tanto esteso e tanto complesso quanto il capitalismo. 
    
3. Un'economia basata sull'innovazione
"Il dinamismo sociale, che chiamasi pure progresso sociale, incute
    alle masse un vero terrore, in ragione del suo costo, che, se non
    è per ora misurato e misurabile, è tuttavia vagamente
    sentito. È questo il fondamento delle opposizioni che
    incontra. La grandissima maggioranza è in favore di
    condizioni statiche. Una piccola parte dell'umanità funziona
    da lievito. Nelle nostre società questa parte della
    popolazione è più numerosa e incontra minori
    resistenze che in altre. Eppure, anche nelle nostre società
    sono manifeste molte correnti che tendono a limitare la
    variabilità dei gusti, le invenzioni tecniche o sociali, e la
    concorrenza [...]. Una gran parte del favore che il socialismo trova
    è dovuta alla speranza che riesca a creare condizioni
    più stabili, a burocratizzare la vita, ad assicurare
    pensioni, a eliminare la rivoluzione perpetua che la concorrenza
    produce in ogni situazione" (v. Pantaleoni, 1925, vol. I, pp.
    220-222).
Questa, di Maffeo Pantaleoni, è la costatazione di un fatto
    razionalmente spiegabile: il costo del progresso non è
    immaginario, esso consiste nella pena reale associata alla rottura
    di comode abitudini, nell'offesa che subiscono gli interessi
    precostituiti in seguito all'irrompere del nuovo, e nei rischi
    connessi al sovvertimento dell'equilibrio sociale. Il progresso
    è una serie di salti nel buio: ci pone di fronte a situazioni
    impreviste e non fornisce garanzie che sapremo scegliere bene quando
    avremo allargato il ventaglio delle scelte. Oltre all'istintiva
    diffidenza delle masse per il cambiamento, esiste una concezione
    colta della vita per cui non dobbiamo cambiare per cambiare,
    bensì aderire il più possibile a modelli fissi di
    perfezione, che preesistono e per loro natura non diventano mai
    obsoleti. La ripetizione, non il cambiamento, è allora il
    processo sociale ideale: processo collettivo, poiché i
    modelli sono unici, validi per tutti e non concedono varietà
    soggettive.
Meno convincente è però Pantaleoni quando, per
    esemplificare casi di dinamismo ridotto al minimo, citava "la storia
    secolare della Cina e quella dell'India, e il nostro Medioevo". Al
    contrario, proprio nel nostro Medioevo il cambiamento per il
    cambiamento si impose per la prima volta, pur fra numerosi ostacoli:
    proprio allora si prese gusto a una via moderna contrapposta alla
    via antiqua e cominciò, in nome della ragione, l'attacco
    frontale agli usi, alle consuetudini, alle tradizioni, alle
    credenze, agli assoluti (fino a mettere in dubbio la ragione
    stessa). Il fenomeno non fu affatto limitato al campo dell'economia
    ed ebbe cause recondite su cui si discute senza fine; ma nel campo
    dell'economia fu prorompente, avendo trovato nel mercato di
    concorrenza l'istituzione adatta a dispiegarne gli effetti.Appunto
    perché l'innovazione economica offende gli interessi
    precostituiti, essa è l'arma adatta per attaccare e vincere
    nel mercato di concorrenza. Nel medesimo tempo il mercato di
    concorrenza è l'istituzione opportuna per fomentare
    l'innovazione economica, che in esso diventa una necessità
    vitale: o innovare o perire. Il capitalista accumula capitale,
    è vero; se non che ci sbagliamo di grosso se pensiamo in
    termini puramente quantitativi, come se il capitale accumulato fosse
    sempre della stessa qualità (come accadeva grosso modo con la
    terra). 'Capitale' è parola generica, che nel capitalismo
    designa beni non soltanto diversi fra loro nello spazio, ma diversi
    nel tempo, beni nuovi che sostituiscono incessantemente beni vecchi.
L'accumulazione capitalistica non consiste principalmente
    nell'aggiungere nuovi 'strati' di capitale a quelli già
    creati, bensì nel rimpiazzare quelli già creati con
    nuovi strati di maggior valore. L'obsolescenza e l'ammortamento del
    capitale sono quindi tanto importanti quanto l'investimento. Il
    capitalismo non costruisce più per l'eternità: il suo
    capitale è precario, così come sono precari i suoi
    posti di lavoro. Per accumulare bisogna prima innovare, altrimenti,
    come vedremo, la crescita si inceppa, si arresta e perfino
    regredisce, come spiegherà Keynes. Ma neanche Keynes, al pari
    di tanti altri economisti, riuscirà a svincolarsi del tutto
    dal pregiudizio quantitativo, e pertanto ci fornirà del
    capitalismo (di cui era nemico) un'immagine monca.
Contrariamente a quanto molti credevano in passato, il Medioevo fu
    capitalistico anche perché fu un periodo di sostanziale
    progresso tecnologico. "Lo sviluppo iniziatosi con la rivoluzione
    comunal-cittadina ebbe un alto contenuto tecnologico. Mulini e
    velieri in primo piano. L'applicazione su larga scala dell'energia
    idraulica ed eolica mediante l'uso di mulini ai processi di
    fabbricazione dei tessili, del ferro, della carta e della birra,
    quindi in altre parole la meccanizzazione mediante uso di energia
    inanimata nei processi suaccennati, l'adozione dell'arcolaio, i
    miglioramenti tecnici nell'attività mineraria, i progressi
    nelle tecniche di navigazione e delle costruzioni navali,
    l'invenzione degli occhiali, l'invenzione e il progressivo
    perfezionamento dell'orologio meccanico, l'invenzione della stampa a
    caratteri mobili, i perfezionamenti nella produzione e nell'uso
    dell'artiglieria non furono che i punti salienti di un processo
    cumulativo di sviluppo tecnologico che investì ogni settore
    della produzione economica e ogni paese d'Europa" (v. Cipolla, 1988,
    p. 466).
La ruota idraulica e la vela perfezionate, il mulino a vento,
    l'arcolaio, la bussola, l'orologio, ecc., erano nuove forme di
    capitale create dall'ingegnosità medievale. Distinguiamo
    però da questo progresso tecnologico un altro tipo di
    progresso, che nei secoli successivi si sarebbe dimostrato ancor
    più necessario al capitalismo: il progresso merceologico, che
    consiste nell'invenzione di nuovi beni di consumo, nuovi come
    qualità, non importa se fabbricati con tecniche nuove o
    vecchie. Mentre in pratica il progresso mercantile e quello
    tecnologico vengono solitamente confusi, l'analisi teorica deve
    separarli perché (lo vedremo) essi recitano due parti
    differenti nel sistema di mercato. Gli occhiali sono un esempio di
    nuovo bene di consumo a disposizione degli europei dal XIII secolo,
    ma la rivoluzione dei consumi, che sfocerà nel consumismo
    capitalistico, si realizzerà in massa assai più tardi,
    dopo la rivoluzione industriale del XVIII e XIX secolo.
Il progresso merceologico fu all'inizio soprattutto un progresso
    mercantile, consistente nell'importare da terre lontane prodotti
    esotici, rari o affatto sconosciuti. La vigorosa ripresa del
    commercio facente capo all'Europa, dopo l'anno Mille, non fu
    soltanto una manifestazione dell'avidità di profitto: fu
    anche un modo di esprimere, da parte degli europei, la loro sete di
    novità, di cambiamento, di avventura, di esplorazione, di
    sperimentazione, come testimonia il Milione del mercante Marco Polo
    e come perfino le Crociate in un certo senso confermavano. L'Oriente
    favoloso stimolava la nostra curiosità, e la curiosità
    diveniva un ingrediente dello spirito capitalistico e dello spirito
    scientifico, una nostra caratteristica distintiva, che difettava
    agli orientali. Ficcare il naso in casa d'altri e nei segreti della
    natura, nella fisica, nella geografia, e farlo con intenti
    utilitari, fu senza dubbio uno scopo diffuso in Occidente già
    nel Medioevo e poi destinato a trionfare oltre ogni attesa, fino ai
    nostri giorni.
Per organizzare la nuova rete intercontinentale di traffici venne
    richiesto un progresso finanziario, oltre che dei trasporti: il
    capitalismo, in altre parole, si costruì un suo sistema
    monetario e creditizio per effettuare i pagamenti. Si costruì
    pure un suo sistema contabile, per il calcolo del profitto, e in
    entrambi gli esercizi l'Italia fu all'avanguardia. Nella
    contabilità capitalistica il rischio del cambiamento appare
    nella specie di un costo anticipato rispetto a un ricavo futuro e
    incerto. L'attività capitalistica si traduce dunque in una
    serie di cambiamenti o trasformazioni di costi in ricavi, cui
    corrispondono sempre delle anticipazioni di valori. Chi produce
    anticipa il costo del lavoro, delle materie prime, dei macchinari,
    ecc.; chi commercia anticipa il costo delle merci, che spera di
    rivendere; chi presta anticipa una somma a favore di un debitore,
    che ha l'obbligo di rimborsarlo alla scadenza.
Il capitalista indossa così i panni di colui che si assume il
    rischio del cambiamento e dell'anticipazione dei valori,
    nonché il profitto o la perdita conseguente. Del pari,
    è capitale qualunque valore anticipato, se consideriamo
    l'accezione più estesa del concetto, comprensiva dell'idea di
    capitale quale strumento prodotto in via anticipata per ottenere
    altri prodotti. Un forno da pane va costruito prima di ottenerne il
    pane, perciò è capitale e capitalista è il
    fornaio proprietario. Il quale fornaio mira a ricavare dal pane
    più di quanto a lui siano costati il forno e quant'altro
    occorre per la panificazione. Ma mentre qui è facile
    prevedere con pochi errori il ricavo del pane che il forno
    consentirà di produrre, il rischio dell'anticipazione aumenta
    se il capitalista tenta vie nuove, inusitate, senza precedenti, o
    più lunghe, più perigliose, meno controllabili.
La nave che partiva per l'Oriente non avrebbe fatto ritorno prima di
    mesi e mesi, sempre che le tempeste e i pirati non lo avessero
    impedito, e il suo carico si sarebbe acquistato e venduto a prezzi
    largamente imprevedibili. Analogamente, introdurre una costosa
    novità tecnica, diciamo un nuovo tipo di nave non provato in
    precedenza, poteva costituire un grosso vantaggio, se l'esperimento
    riusciva, o un grosso svantaggio, se non riusciva. Sicché la
    frenesia capitalistica del cambiamento per il cambiamento
    corrispondeva a effettuare anticipazioni più costose e
    più rischiose, e in campo economico, non militare. I rischi
    erano 'calcolati', s'intende, ma calcolarli non significava
    evitarli. Le famiglie borghesi, che sovente non avevano un passato
    illustre, non avevano nemmeno un avvenire assicurato: la loro caduta
    poteva essere tanto repentina quanto la loro ascesa. Il fallimento e
    la bancarotta assunsero un ruolo sociale mai prima osservato, e la
    circolazione delle élites accelerò per cause
    economiche. Mentre a Firenze i Peruzzi e i Bardi si rovinavano,
    'uomini nuovi' salivano alla ribalta in un continuo avvicendamento,
    che la borghesia realizzava ben più della nobiltà.
Va da sé che la borghesia arrivata tendeva a stabilizzare la
    sua posizione ricorrendo, se opportuno, a mezzi corporativi, o a
    mezzi politici, come fu per i Medici a Firenze, o imitando la
    nobiltà proprietaria terriera e ritirandosi dai traffici. Non
    di meno la stessa borghesia aveva irrimediabilmente offeso proprio
    quella mentalità e quelle istituzioni che avrebbero potuto
    meglio proteggerla, ed era in qualche misura vittima di se stessa. I
    borghesi italiani furono pertanto danneggiati da quelli fiamminghi,
    che lo furono da quelli olandesi, che lo furono da quelli inglesi,
    che lo furono da quelli americani. La concorrenza, soffocata in un
    luogo, scoppiava in un altro e ormai tutti i mercati erano poco o
    molto collegati: si era formato ciò che Immanuel Wallerstein
    chiama "l'economia-mondo".
Peggio ancora, la borghesia, responsabile di quanto accadeva,
    stentava a farsi riconoscere una funzione positiva fin nei casi in
    cui aveva innovato con successo e realizzato un indubbio progresso
    generale. Le sue perdite non intenerivano nessuno e i suoi profitti
    erano messi in questione da tutti. È altamente significativo
    che la scienza economica, già nata tardi, dovesse giungere
    addirittura alla fine del XIX secolo per cominciare a fornire
    un'adeguata teoria del profitto, la quale, del resto, è
    tuttora discussa. Ovviamente, senza una tale teoria, non è
    dato di comprendere il capitalismo, né è dato di
    confrontarlo col socialismo o con altri sistemi alternativi.
Con questo non sosteniamo che il profitto sia una categoria valida
    soltanto nel capitalismo, o presente soltanto in esso: anzi, vi sono
    buone ragioni per riconoscerlo come una categoria universale. Il
    fatto è che chiarire la natura del profitto è un
    prerequisito di qualunque indagine comparativa sui sistemi
    economici, appunto per evitare l'errore di pensare che alcuni lo
    usino e altri no. È piuttosto come lo usano ciò che
    separa i sistemi e li classifica, qualunque sia il vocabolario usato
    (il quale può ricorrere ad altri termini equivalenti, se la
    parola 'profitto' urta per le sue risonanze capitalistiche). E, come
    diremo a momenti, il discorso sul profitto si estende subito
    all'interesse, la cui natura è simile. 
    
4. Il capitalismo e il profitto
La teoria del profitto è strettamente connessa alla teoria
    del prodotto netto o del plusvalore, cioè al problema della
    creazione di un valore non preesistente, non semplicemente
    trasferito o trasformato. Nel mondo agrario veniva spontaneo pensare
    che il prodotto netto fosse in qualche modo connesso alla potenza
    generatrice della natura, soluzione cui si attennero i fisiocrati.
    Nel mondo industriale, invece, l'intuizione portava in primo luogo a
    scorgere nel lavoro umano la forza che, aggiungendo qualcosa alla
    ricchezza preesistente, suscitava nuovo valore economico. Se,
    insieme a Marx, sosteniamo che il lavoro sia l'unica "sostanza
    valorificante" e che quindi soltanto il lavoro, anzi soltanto il
    pluslavoro crei plusvalore, allora il profitto non è
    un'aggiunta di valore alla produzione, ma una sottrazione di valore
    al salario.
Con questo Marx non negava che il capitale sia produttivo,
    però ne riduceva la produttività a quella del lavoro,
    che aveva costruito il capitale stesso, lo strumento, la macchina,
    la fabbrica. Si viene a dire che il capitale è nient'altro
    che "lavoro cristallizzato", e che la contabilità in termini
    di lavoro è tutto quanto serve in economia. Contro questa
    interpretazione semplificatrice della realtà produttiva si
    possono tuttavia avanzare dubbi, alcuni dei quali assillarono Marx
    medesimo. Era evidente che gli incrementi di produzione realizzati
    dal capitalismo dipendevano solo in parte dalla sua capacità
    di estorcere pluslavoro mediante il prolungamento della giornata
    lavorativa, tanto più che si incontrano assai presto dei
    limiti naturali a percorrere tale strada, essendo in ogni caso
    impossibile un'attività superiore alle ventiquattr'ore
    giornaliere.
Del pari evidente era che il progresso tecnologico recita una parte
    importante nello sviluppare la produzione. Esso era interpretabile
    come un progresso della conoscenza rivolto a scoprire quale lavoro
    fosse inutile e quindi sopprimibile. Marx ammetteva che non
    qualunque lavoro, ma soltanto il lavoro utile creasse valore
    economico: se non che un lavoro apparentemente utile decadeva a
    lavoro inutile non appena si introduceva una nuova tecnica tale da
    renderlo obsoleto. La nuova tecnica si attuava mediante una nuova
    forma di capitale, il quale, dunque, era sì 'lavoro
    cristallizzato', ma pure 'conoscenza cristallizzata'. Anche se
    accompagnata dal rischio di una disoccupazione tecnologica, ogni
    avanzata della conoscenza offriva la possibilità di
    un'avanzata della produzione, grazie alla scoperta di nuovi e
    migliori tipi di lavoro utile in sostituzione di vecchi tipi di
    lavoro divenuto inutile, e a prescindere dal prolungamento degli
    orari lavorativi, ai quali anzi era consentito di diminuire senza
    ledere la formazione del plusvalore.
Certo, era sostenibile che il tecnico inventore fosse anch'egli un
    lavoratore al pari di tutti gli altri. Non di meno il suo lavoro
    manifestava una produttività in larga misura sganciata dal
    tempo di impegno, nel senso che non bastava pensare durante un tempo
    doppio per farsi venire il doppio di idee. L'invenzione o la
    scoperta in campo tecnico rappresentavano poi appena l'inizio di
    complicati processi innovativi, che occorreva portare a termine per
    rendere le idee operative, per dimostrarne la bontà pratica,
    per trasformarle in realtà produttiva, più produttiva
    di prima. E l'esperienza europea insegnava che, accanto
    all'inventore, doveva solitamente collocarsi a tal fine la figura
    dell'imprenditore, una figura spesso coincidente col capitalista e
    dotata di qualità diverse da quelle del tecnico e dei
    lavoratori in generale. L'inventore James Watt, per esempio, si era
    alleato con l'imprenditore-capitalista Matthew Boulton, e le doti
    d'ingegno del secondo avevano contribuito non meno di quelle del
    primo al successo economico della macchina a vapore nel corso della
    rivoluzione industriale.
Inoltre, osservando più da vicino l'attività tipica
    dell'imprenditore-capitalista, che l'economia borghese spingeva alla
    ribalta, si notavano via via elementi che avevano sempre meno
    attinenza col lavoro vero e proprio e sempre più attinenza
    con la mera assunzione di rischi. Il punto da chiarire era se e come
    l'incertezza, inevitabile nella produzione, avesse rapporti col
    plusvalore: una questione intricata, che il capitalismo esasperava
    in un modo senza precedenti, benché essa fosse presente in
    qualunque sistema economico, compreso il socialismo. In tutti i
    sistemi economici, infatti, la produzione non è immediata, i
    costi precedono solitamente i ricavi, e qualcuno deve assumersi i
    rischi di sopportare dei costi in vista di ricavi futuri e incerti
    (salvo che l'avvenire sia perfettamente prevedibile).
Non si poteva negare che la questione riguardasse anche la natura
    del profitto, il quale per definizione è null'altro che la
    differenza tra i ricavi e i costi; differenza accertabile soltanto a
    posteriori, dopo che i ricavi si siano realizzati, e differenza
    talvolta negativa, non positiva, nel qual caso si parla di perdita.
    Il capitalista percepisce il profitto o si accolla la perdita
    appunto perché anticipa i costi, fornisce un capitale, che
    è sempre un'anticipazione di valore. La natura dell'interesse
    è analoga, come spiega l'etimologia: 'interesse', essere tra
    due valori, uno anticipato, l'altro posticipato. I rischi possono
    essere maggiori o minori, ma nascono sempre dallo sfasamento
    temporale, dalla mancanza di sincronia tra quanto si sborsa ora e
    quanto si incasserà in futuro, se si incasserà.
Non che il passaggio del tempo sia condizione sufficiente del
    plusvalore. Il tempo in sé è una scatola vuota: conta
    quanto si fa dentro il tempo, e quanto si fa è
    un'attività lavorativa, produttiva, creativa, spesso
    innovativa, sempre poco o tanto rischiosa. Ma il passaggio del
    tempo, trasformando il futuro in presente, toglie incertezza e, se
    realizza quanto è in potenza nelle risorse iniziali, se
    mantiene le promesse, costituisce per così dire una forma di
    produzione, suscita plusvalore, in concorso col lavoro. Infatti, una
    promessa realizzata è sicura, una promessa solamente
    annunciata non lo è. La ricchezza fattasi immediatamente
    godibile vale più della stessa ricchezza soltanto probabile
    perché differita. Il lavoro del seminatore non garantisce il
    raccolto, né tanto meno lo garantisce in una misura
    predeterminata: lo annuncia appena, e in quantità variabile,
    in attesa che lo scorrere dei mesi faccia la sua parte nel
    valorizzare il grano. Il carico di spezie a Venezia acquista valore
    per i veneziani non solo perché si carica delle spese di
    trasporto dall'India, ma pure perché la sua
    disponibilità è meno aleatoria di quando era in
    India.Il fatto che il passaggio del tempo possa creare un valore dal
    nulla, riducendo l'incertezza, è un fatto universale, da cui
    discende che, in qualunque sistema economico, il lavoro, in
    qualsiasi forma si presenti, non è l'unica 'sostanza
    valorificante': lo è pure la buona sorte e quanto la
    favorisce, qualora l'uomo non abbia un completo dominio degli eventi
    economici. Nel socialismo, non meno che nel capitalismo, la
    collettività sta meglio nel complesso quando il suo lavoro,
    oltre che essere stato prestato con fatica, mostra infine frutti
    pari all'attesa, o superiori, grazie all'esito positivo della
    produzione. Ma se al contrario l'esito fosse negativo, diremmo che
    la produzione è avvenuta in perdita, anziché con
    profitto, e che la collettività tutta intera manca di un
    plusvalore la cui natura è aleatoria.
Ciò che veramente distingue il capitalismo dal socialismo non
    è la presenza o l'assenza del profitto e della perdita:
    è chi si assume i rischi relativi, se qualche volontario,
    animato dalla speranza che gli tocchi più spesso un profitto
    che una perdita, o la collettività senza esclusioni. Nel
    primo caso, cioè nel caso del capitalismo, il volontario, che
    è il capitalista, deve essere in grado di effettuare le
    anticipazioni opportune, che a lui appaiono come costi da sopportare
    per ottenere il lavoro, il capitale e quant'altro serve alla
    produzione. In un'economia di mercato egli contratta detti costi coi
    lavoratori e i rimanenti fornitori di fattori produttivi, ai quali i
    costi medesimi si presentano al contrario in veste di redditi
    guadagnati per la partecipazione al processo economico. Al
    capitalista toccheranno poi i ricavi futuri e incerti, e questo
    diritto ai ricavi, indeterminati, è la contropartita per il
    servizio di anticipazione da lui prestato.
Nel caso del socialismo, invece, anticipare i costi è un
    compito collettivo, col che cade la distinzione tra lavoratori puri
    e capitalisti puri, tutti i lavoratori divenendo anche in qualche
    misura capitalisti. I redditi spettanti ai lavoratori-capitalisti,
    nel socialismo, sono teoricamente separabili in una quota di salario
    e in una quota di profitto (o di perdita). In pratica la distinzione
    non si fa, perché, se si ragiona a livello collettivo,
    è indifferente che i redditi abbiano questa o quella origine
    e, se si ragiona a livello individuale, il calcolo non è
    fattibile, mancando l'indicazione di quanto ogni lavoratore
    anticipa. Tutto quello che si può dire è che la
    collettività non sfugge alle alee della produzione, ma
    ciascuno le sopporta in modo imprecisato, a causa della confusione
    tra salario e profitto (o perdita): ciascuno bada solo al proprio
    reddito complessivo che di solito è stabilito politicamente.
    Collettivizzare le anticipazioni di capitale suscita problemi
    politici che il capitalismo non conosce. La collettività (a
    maggioranza?) o qualche suo rappresentante deve decidere dove e
    quanto anticipare e come retribuire ciascuno. (È ovvio che la
    retribuzione non è definitiva se non a posteriori, ossia
    quando i ricavi sono divenuti certi e si sa se la buona sorte ha
    operato o no). Anche il più democratico dei socialismi deve
    contenere elementi di coercizione, che si presentano quanto meno
    come ordini della maggioranza alla minoranza: se ogni individuo
    fosse lasciato libero di partecipare o no alle anticipazioni, e di
    parteciparvi molto o poco, si formerebbe presto un mercato del
    capitale che trasformerebbe quel socialismo volontario in
    capitalismo.
È lecito inoltre sospettare che, se fosse lasciata alla
    maggioranza della popolazione la decisione sull'entità e la
    qualità degli investimenti di capitale, prevarrebbe quel
    sentimento avverso al rischio di cui parlava Pantaleoni
    attribuendolo alle masse. Il cambiamento e l'innovazione sarebbero
    forse ridotti al minimo, e lo stesso progresso tecnologico avrebbe
    le ali tarpate. A questo proposito va ricordato che gran parte del
    progresso tecnologico, compreso quello più semplice, esalta
    le anticipazioni: fabbricare dei pezzi metallici a mano, uno per
    uno, richiede scarse anticipazioni; ne richiede di più
    cominciare col fabbricare uno stampo, che ci servirà in
    seguito per rendere più celere la produzione dei pezzi. Oltre
    che essere un costo anticipato, lo stampo è un costo fisso:
    lo sopportiamo nella stessa misura sia che venga usato per produrre
    un pezzo, sia che venga usato per produrne cento o mille,
    sicché torniamo a incappare nel rischio dell'anticipazione,
    se non sappiamo con certezza quanti pezzi saranno richiesti o
    venderemo.
La convenienza di ricorrere allo stampo dipende dunque da previsioni
    incerte: ben difficilmente si può dimostrare a priori che una
    qualsiasi innovazione, per quanto elementare essa sia, giovi a
    tutti, subito e con sicurezza. L'umanità è trascinata
    sulla strada del progresso tecnologico da minoranze attive, che
    però operano in condizioni radicalmente diverse nel
    capitalismo e nel socialismo. Nel capitalismo è il
    capitalista volontario a imporre l'uso dello stampo, se lo ritiene
    opportuno, addossandosi tuttavia la perdita in caso di insuccesso:
    ciò non libererà i lavoratori da tutti i rischi
    economici, ma almeno da alcuni. Nel socialismo, mentre non è
    facile che sia l'intera collettività a scegliere lo stampo,
    è più facile che sia l'intera collettività a
    correre tutti i rischi connessi al suo uso.
Nel capitalismo di concorrenza chiunque è libero di innovare
    se può anticiparne i costi ed è pronto a subirne le
    conseguenze dirette, che sono appunto in primo luogo la perdita dei
    costi anticipati (le conseguenze indirette si diffondono spesso
    incontrollatamente nella popolazione). Nel socialismo
    collettivistico non tutti hanno quella libertà, ma chiunque
    è esposto alle conseguenze dirette e indirette, positive e
    negative, delle scelte fatte da chi ne ha il potere. E ancora: nel
    capitalismo di concorrenza è frequente che libere e diverse
    scelte produttive, effettuate da individui diversi, coesistano per
    qualche tempo, finché l'esperienza non dimostri quale fra
    esse sia la migliore; nel socialismo collettivistico si giunge
    più rapidamente a una scelta uniforme, a causa della minore
    libertà di decidere e della maggiore capacità di
    imporre ovunque la stessa decisione.
Il procedimento socialistico offrirebbe forti vantaggi se fosse dato
    di predeterminare con una certa accuratezza, a opera di esperti, gli
    effetti delle innovazioni proposte e da mettere a confronto; ma
    questi esperti, pur nel caso di loro massima competenza, è
    presumibile sappiano molto sul passato e sul presente, ma poco sul
    futuro. Più l'innovazione è radicale e meno c'è
    ripetizione, meno esistono i precedenti sui quali fondarsi per
    arguire quanto succederà anche nel nostro caso. All'inizio
    del Novecento, tre quarti delle automobili costruite negli Stati
    Uniti erano o a vapore o a elettricità, ed esse sarebbero
    state considerate uno spreco se fosse stato noto che la soluzione
    vincente era costituita dal motore a benzina, sul quale tuttavia gli
    esperti non puntavano. Nessuna gara meriterebbe di essere disputata
    se il suo esito si potesse calcolare a tavolino e il vincitore
    risultasse identificabile in partenza. La concorrenza di mercato
    presuppone che i concorrenti debbano gareggiare per mostrare
    virtù e difetti che soltanto la gara stessa mette in luce.
Il capitalismo europeo, adottando la concorrenza come sistema ideale
    (in pratica, s'intende, più o meno corrotto), si era ispirato
    alle filosofie individualistiche e liberali, insieme alle quali
    crescerà a partire dalla rivoluzione borghese. Ma aveva pure
    contribuito all'adozione la singolare storia politica del
    continente, un continente frammentato in numerosi popoli
    indipendenti e diversamente creativi, ciascuno col suo genio
    particolare e le sue particolari esperienze. Un'innovazione di
    successo in una nazione europea aveva molte probabilità di
    essere imitata dalle nazioni vicine, mentre i fallimenti in un luogo
    insegnavano a evitarli nel resto del continente.
Questo trionfo della varietà, collegato con la mania del
    cambiamento, contrastava con gli impulsi verso l'uniformità e
    la stabilità più tipici degli imperi centralizzati.
    Nell'Europa occidentale vi erano di continuo nazioni con un'economia
    caratterizzata da uno sviluppo originale e altre nazioni con
    un'economia caratterizzata da uno sviluppo imitativo, ma
    l'imitazione era per lo più considerata una fase transitoria
    in vista del superamento delle rivali. Il capitalismo, presentandosi
    come una serie di scommesse sul futuro, premiava la mentalità
    disposta ad affrontare le alee economiche e anzi a suscitarle, e
    ciò faceva fino a farsi paragonare a un onnipresente gioco
    d'azzardo, che trasformava la società in una bisca.
    Ovviamente ne derivavano e ne derivano anche critiche
    anticapitalistiche, perché non tutti, nemmeno in Occidente,
    gradivano e gradiscono quei lati della vita in cui il caso o la
    fortuna sembrano prevalere sul merito.
Tali critiche (noi oggi lo sappiamo dopo tanto discutere) non
    colpiscono sempre il bersaglio. I razionalisti sono propensi ad
    attribuire al caso o alla fortuna qualunque successo che essi siano
    stati incapaci di prevedere. Ora, nel capitalismo di concorrenza gli
    alti profitti sono spesso dovuti a scelte produttive nuove, non
    conformistiche, che urtano la 'saggezza convenzionale' e che gli
    esperti non scorgevano o rifiutavano. Deve essere così: per
    guadagnare molto serve un fattore di sorpresa, non la routine alla
    portata di chiunque. Cessata la sorpresa, gli alti profitti di chi
    ha anticipato i costi vengono 'assaliti' dagli imitatori e da coloro
    ai quali i costi sono pagati (fra cui i lavoratori, che reclameranno
    salari maggiori), secondo processi cui Schumpeter dedicò
    molta attenzione.
Resta comunque vero che nel mercato capitalistico la gara
    concorrenziale non dà la vittoria al 'migliore', secondo
    criteri razionali (e tanto meno secondo criteri etici o estetici),
    bensì al produttore il quale, magari per mero accidente,
    abbia col suo prodotto incontrato la domanda dei consumatori,
    chiunque essi siano. Non vi è alcun presupposto per cui il
    gusto dei consumatori debba essere educato o adeguato a canoni
    convenuti di rispettabilità e la produzione debba mirare
    all'eccellenza qualitativa, come negli intendimenti corporativi
    avversi alla concorrenza. Il mercato capitalistico è
    neutrale, colloca fuori di sé, nella coscienza dei
    consumatori stessi, ogni responsabilità etica ed estetica, e
    pur quando cerca di influire sui loro gusti, con la
    pubblicità commerciale o in altro modo, lo fa esclusivamente
    per vendere di più.
Perciò il mercato capitalistico è disposto a vendere
    anche libri scritti contro il mercato capitalistico, purché
    vi scorga una possibilità di guadagno monetario. Le famiglie,
    le scuole, le chiese, i governi, e altre istituzioni di tal genere
    mantengono importanti funzioni di indirizzo nelle società
    capitalistiche, però separatamente dal mercato, almeno in
    teoria, e nonostante certe inevitabili interferenze reciproche che
    si osservano nella realtà. Nessun sistema sociale funziona
    allo stato puro, non di meno le realizzazioni storiche del
    capitalismo concorrenziale sono ampiamente differenziate da quelle
    del socialismo collettivistico, appunto perché più si
    rinuncia al mercato e più si rinuncia alla sua
    neutralità. Nel socialismo, collettivizzare le anticipazioni
    o gli investimenti di capitale conduce per forza a collettivizzare i
    consumi, e quindi ad accrescere gli elementi politici non neutrali
    che governano i modi di vita.In tutte le società, comprese
    quelle capitalistiche, vi sono dei consumi proibiti per legge e dei
    consumi obbligatori, ma nel socialismo la sfera dei consumi lasciati
    alla discrezionalità individuale è facilmente
    più ridotta. Lo è per ragioni 'tecniche', connesse a
    come si formano le scelte collettive, e lo è per ragioni
    ideologiche, quelle medesime che hanno indotto a collettivizzare.
    Non si può credere che capitalismo e socialismo si
    distinguano soltanto nei mezzi usati e non anche nei fini, e che
    tutto si riduca a stabilire quale sistema sia più efficiente.
    Il discorso, in termini di efficienza, si ferma quasi
    immediatamente, non appena cioè cominciamo a scorgere che
    capitalismo e socialismo hanno talvolta scopi perfino opposti, per
    cui quanto qui è efficienza, là è inefficienza,
    e viceversa. Vi sono buoni motivi per presumere che il capitalismo
    sia il sistema più efficiente per raggiungere i suoi propri
    obiettivi e il socialismo il più efficiente per i suoi
    diversi obiettivi. 
    
5. La crescita del mercato capitalistico
La neutralità del mercato capitalistico si riferisce alla
    domanda dei consumatori, i quali possono acquistare ciò che
    vogliono, purché acquistino, in modo che i capitalisti
    abbiano una prospettiva di profitto. Non è sconosciuto il
    caso di capitalisti animati da uno scopo morale, che li porta a
    condannare certi consumi e a proporne altri in sostituzione: per
    esempio, capitalisti puritani puntarono sull'industria delle bevande
    gassate per combattere l'alcolismo; ma il successo che il mercato
    decretò loro prescindeva dalla loro finalità
    extraeconomica. La funzione del mercato è semplicemente
    quella di captare, dove esiste, una domanda potenziale insoddisfatta
    e di trasformarla in domanda effettiva per soddisfarla con
    profitto.Il mercato non è passivo, non si limita a registrare
    le domande, bensì le suscita, e questo ruolo attivo è
    tanto più rilevante quanto più lo sviluppo economico
    è avanzato e il livello medio dei consumi è alto. I
    bisogni di prima necessità sono dettati dalla natura in una
    dimensione quasi fissa e sono all'incirca i medesimi per tutti; i
    bisogni artificiali e i semplici desideri possono essere invece
    assai differenti da individuo a individuo, perché dipendono
    soltanto da noi e sono suscettibili di crescere illimitatamente. Il
    mercato capitalistico, mediante il progresso merceologico, inventa e
    propone sempre nuovi beni di consumo, che saranno generalmente beni
    voluttuari ('superflui' a tutto, tranne che alla ricerca del
    piacere), per stimolare i bisogni artificiali, i semplici desideri e
    le domande relative.
Mentre perfino Marx lodava il capitalismo per l'enorme
    capacità di produrre e aumentare l'offerta di merci, si
    è dato meno peso alla sua ancor più straordinaria
    capacità di espandere la domanda di merci. E mentre tutti
    insistono sul progresso tecnologico, può sfuggire che al
    capitalismo è ancor più indispensabile il progresso
    merceologico, senza il quale ogni domanda verrebbe presto
    soddisfatta, e la sazietà dei consumatori e la saturazione
    del mercato fermerebbero lo sviluppo economico. Il progresso
    tecnologico è un portato della concorrenza, nel capitalismo,
    ma può risolversi in definitiva in un aumento del tempo
    libero dal lavoro, ciò che non interessa al mercato se non in
    quanto il tempo libero sia esso stesso fomentatore di speciali
    domande di consumo. Il progresso merceologico, al contrario, tende a
    frenare l'aumento del tempo libero, inducendo a lavorare per
    produrre i nuovi beni di consumo, e stuzzica direttamente le
    domande.
Inoltre il progresso merceologico è connesso ai processi
    concorrenziali di mercato anche più del progresso
    tecnologico. I capitalisti non gareggiano tanto per soddisfare
    meglio, a più basso costo, vecchie domande, quanto per
    accaparrarsi nuove domande, che essi stessi cercano di creare dal
    nulla. Detto in altro modo: è spesso più facile
    entrare in un mercato nuovo che allargare la propria quota in un
    mercato vecchio. Ma in realtà tutti i capitalisti, in
    qualunque settore operino, si contendono alla fin fine un unico e
    complessivo potere d'acquisto dei consumatori. Chi vende televisori
    non è in concorrenza soltanto con gli altri venditori di
    televisori: lo è pure con i venditori di automobili, di
    frigoriferi, di qualunque cosa pretenda per sé una fetta del
    reddito delle famiglie acquirenti.
Di qui il relativamente scarso impatto del monopolio nel capitalismo
    di mercato. È vero che la concorrenza stessa, premiando i
    vincitori della gara, può renderli temporaneamente dei
    monopolisti o quanto meno degli oligopolisti, ma (se non
    intervengono fattori, di solito politici, che impediscano ovunque
    alla gara di continuare) è raro che si possa dormire a lungo
    sugli allori. Un ipotetico monopolista nel settore teatrale sarebbe
    stato minacciato egualmente dal cinematografo muto e poi da quello
    sonoro, così come un altro ipotetico monopolista in
    quest'ultimo settore non sarebbe sfuggito all'attacco della
    televisione in bianco e nero e a colori. Nessun capitalista è
    mai stato abbastanza potente da controllare tutti i settori e da
    impedire sempre che ne nascano di nuovi, salvo che la legge gli
    attribuisca una posizione monopolistica assoluta e universale.
Il progresso merceologico, che tanto giova alla concorrenza,
    è ovviamente rischioso per i produttori che lo praticano e
    per quelli che lo subiscono. I produttori che lo praticano vedono
    fra l'altro che esso obbliga di frequente ad allungare i tempi delle
    anticipazioni di capitale, oltre la durata richiesta dal progresso
    tecnologico, col quale in pratica è mescolato. Il progresso
    tecnologico richiede di costruire una nuova macchina, un nuovo
    impianto o una nuova fabbrica prima di avviare la produzione; il
    progresso merceologico aggiunge a ciò l'attesa che si formi a
    poco a poco la domanda in grado di assorbire una nuova produzione.
    Col progresso merceologico non solo i costi precedono i ricavi, ma
    l'offerta precede la domanda, che deve 'imparare' i nuovi consumi.
"Se l'industria cotoniera del 1760 fosse dipesa interamente dalla
    domanda effettiva del momento, le ferrovie dalla domanda effettiva
    del 1830, l'industria automobilistica da quella del 1900, nessuna di
    queste industrie avrebbe iniziato [...]. La produzione capitalistica
    dovette trovare il modo di crearsi i suoi propri mercati in
    espansione" (v. Hobsbawm, 1965). Si comprende quindi perché
    il progresso merceologico rende più acuto il problema dei
    costi fissi e spinge le imprese a sostenere anche ingenti costi di
    propaganda, di pubblicità, di promozione delle vendite. Sono
    manifestazioni del cosiddetto consumismo, fenomeno la cui importanza
    è andata crescendo senza tregua con l'evoluzione
    capitalistica.
Il moderno capitalismo consumistico o opulento sembra totalmente
    opposto al capitalismo pauperistico, del quale ragionava Marx, e al
    capitalismo austero o 'weberiano'. A questo riguardo va ricordato
    che Max Weber non era affatto cieco di fronte alla
    'democratizzazione del lusso', in corso all'epoca in cui scriveva, e
    si limitava a osservare che, in certe fasi del capitalismo
    primitivo, la condotta dei capitalisti respingeva lo sperpero,
    così come l'avarizia, circa i propri guadagni, i quali
    andavano risparmiati e reinvestiti con oculatezza per continuare ad
    accumulare capitale. È indubbio che per certi versi il
    calvinismo ha contribuito a tale spirito capitalistico di
    sobrietà operosa, ma senza mai proporsi l'esaltazione
    dell'economia di mercato. D'altronde, assai prima di Calvino la
    rivoluzione comunal-cittadina era già avvenuta anche con il
    proposito di sostituire la parsimonia borghese alle 'mani bucate'
    del cavaliere feudale, per il quale il disinteresse, la
    prodigalità, la munificenza, la magnificenza erano titoli
    d'onore.
Si aggiunga che il calvinismo dei capitalisti olandesi all'apogeo
    della loro potenza era quello 'dolce' di derivazione arminiana,
    tollerante e per nulla nemico dell'agiatezza. Del pari,
    l'Inghilterra della rivoluzione industriale richiamava sì,
    con Adam Smith, i rimbrotti contro gli sprechi e le vanità
    della nobiltà terriera, ma non predicava l'ascetismo e anzi
    si avviava, con l'utilitarismo di Bentham, a concepire la vita come
    un ininterrotto 'calcolo felicifico'. Lo stesso Weber ammetteva che
    la primitiva austerità del capitalista non era un tratto
    permanente della psicologia propria del sistema di mercato; e oggi a
    noi è dato di sostenere molto tranquillamente che
    l'austerità è caso mai peculiare del socialismo, non
    del capitalismo.
Comunque, merita occuparsi soprattutto del tenore di vita dei
    lavoratori, che costituiscono la gran massa della popolazione, non
    di quello dei capitalisti, per quanto non sia irrilevante che
    costoro talvolta si avvicinino al tipo austero weberiano, talaltra
    appartengano piuttosto alla leisure class di cui parlava Thornstein
    Veblen. La tipologia di Veblen distingue pure tra capitalisti
    industriosi e capitalisti assenteisti, tra capitalisti tecnici e
    capitalisti finanziari. Esiste sicuramente una grande varietà
    di personaggi; dubbio è che essi recitino secondo un copione
    intessuto di leggi sociologiche note.
Dunque, a proposito dei lavoratori, il punto saliente è che
    sino alla fine del Settecento, cioè fino agli albori della
    rivoluzione industriale, il salario reale non aveva ancora mostrato
    alcuna tendenza generale a un duraturo aumento. Il miglioramento
    più vistoso era avvenuto nella seconda metà del
    Trecento, ma il capitalismo non c'entrava: il merito, se così
    si può dire, andava alla peste, che aveva ridotto la
    popolazione e concesso ai pochi sopravvissuti di nutrirsi più
    facilmente limitandosi a coltivare le terre più fertili.
    Ricresciuta la popolazione, il potere d'acquisto del salario era
    disceso verso il consueto minimo di sussistenza.
All'inizio dell'Ottocento celebri economisti come Malthus e Ricardo
    potevano continuare a temere che i fattori demografici avrebbero
    perennemente ancorato il salario al minimo di sussistenza, e alla
    metà dell'Ottocento Marx, pur sostituendo ai fattori
    demografici altre cause, insisteva nel dire che il capitalismo non
    era in grado di fare meglio. Questa pessimistica 'legge ferrea o
    bronzea' del salario persisterà a lungo nelle credenze
    collettive (anche dopo Marx, anche presso i non marxisti), solo un
    poco moderata dal riconoscimento che il minimo di sussistenza non
    era fisso, ma legato al grado di incivilimento della società.
    Se poi qualche ottimista ipotizzava un improbabile progresso
    materiale della classe lavoratrice, c'era subito chi gli opponeva il
    pericolo che essa allora cadesse in preda all'ozio, non appena la
    fame cessasse di costringerla ad andare in fabbrica o nei campi.
Col senno di poi ci è concesso oggi di correggere
    notevolmente il quadro. Il capitalismo, nei luoghi dove la sua
    fioritura fu più copiosa, contribuì assai presto alla
    formazione di un suo caratteristico ceto medio che, sebbene non
    formato da salariati comuni, era abbastanza numeroso. Tale ceto
    medio fu il primo a godere di quella lenta 'democratizzazione del
    lusso' che rientra nella logica del capitalismo industriale e di cui
    il consumismo attuale è una conseguenza che in Occidente si
    estende fino al ceto operaio. La logica a cui pensiamo punta sullo
    sviluppo economico illimitato, il quale non è sostenibile con
    una domanda che derivi esclusivamente dalla sempre piccola frazione
    della collettività costituita dai più ricchi. Non
    importa che questa frazione minima costituisca una leisure class
    dedita a 'consumi vistosi' o un gruppo di capitalisti austeri, che
    vendono a se stessi beni di investimento: in ogni caso, il mercato
    ristretto dimostra la sua fragilità ai fini dello sviluppo, e
    presto o tardi vien fatto esplodere dalla concorrenza e dal
    progresso merceologico, pena, altrimenti, l'arresto dello sviluppo.
L'esperienza storica rivela diversi artifici usati per alimentare la
    domanda esulando dal mercato, artifici che richiedono un intervento
    politico (guerre, lavori pubblici, ecc.); ma un conto è
    rimediare con essi a una breve crisi congiunturale, un altro conto
    è provvedere a uno sviluppo illimitato e non temporaneo. Se
    inoltre la spesa pubblica si finanzia con imposte e tasse, essa
    minaccia di nuocere alla domanda privata e non dà un
    rilevante e sicuro giovamento alla domanda complessiva, se non in
    momenti eccezionali. Così pure, l'imperialismo economico e il
    colonialismo non permettono di ingrossare sistematicamente la
    domanda, se le popolazioni dominate sono e rimangono povere. Si
    esporta di preferenza nei paesi con più reddito, non nei
    paesi con meno reddito di quello del venditore.
Ciò che l'esperienza storica ha di veramente fondamentale da
    insegnarci è che uno sviluppo incentrato su pochi beni di
    gran lusso, destinati a una piccola minoranza, non può essere
    rapido né sostenuto. Lo sperimentò anche l'Italia
    quando, in epoca rinascimentale o poco dopo, sconfitta la sua
    industria laniera dalla concorrenza dei paesi europei
    nordoccidentali, dovette ripiegare sull'industria della seta, ossia
    su produzioni di più alta qualità: fu un espediente
    che servì a frenare la decadenza, non a capovolgerla. A
    differenza dei prodotti artigianali, i prodotti industriali sono
    forniti dalle macchine in massa e per le masse: più si
    allarga il loro volume e meno incidono i costi fissi, finché
    i costi unitari sono così bassi da consentire l'acquisto a
    gran parte della popolazione.
Reciprocamente l'aumento del salario reale, purché contenuto
    entro certi limiti non punitivi del profitto, incita ad adottare
    macchinari che sostituiscono il lavoro e ne accrescono la
    produttività. Si possono così formare 'circoli
    virtuosi', che il capitalismo ha sfruttato varie volte. Si discute
    se, nei paesi industrializzati e nell'ultimo secolo, il continuo
    aumento del salario reale, di pari passo con l'aumento della
    produttività media del lavoro, sia stato strappato dai
    sindacati dei lavoratori ai capitalisti o concesso dai capitalisti
    per loro convenienza, per trasformare i lavoratori in buoni clienti.
    La questione è in parte irrilevante, perché in ogni
    caso sono state le forze del mercato di concorrenza a operare, non
    essendo altro il sindacalismo, come si è affermato in
    Occidente, che un'evoluzione della libertà contrattuale
    tipica del sistema capitalistico.
È a questo punto che gli avversari del capitalismo hanno
    cominciato a lanciare i loro strali contro la sua forma
    consumistica, non più contro la forma pauperistica. Dopo la
    grave crisi mondiale di deflazione del 1929-1934, l'economista
    britannico John M. Keynes e il suo seguace americano Alvin H. Hansen
    avevano ipotizzato che il capitalismo maturo e opulento fosse molto
    vulnerabile e socialmente pericoloso, perché proprio l'alto
    tenore di vita della popolazione rendeva probabile che i risparmi
    eccedessero gli investimenti. La moneta così 'tesoreggiata'
    ristagnava oziosa, non portava ad alcuna domanda di merci, e
    l'offerta invenduta provocava fallimenti, disoccupazione, cadute del
    reddito nazionale e un ritorno alla miseria. Senza una
    socializzazione più o meno ampia degli investimenti il
    capitalismo consumistico era velleitario, non riusciva ad andare
    stabilmente oltre una data soglia di benessere, perché
    l'offerta pletorica stentava sempre più a trovare sbocchi
    adeguati e remunerativi.
La socializzazione degli investimenti si proponeva di rimediare
    istituendo il Welfare State, la fornitura massiccia di servizi
    pubblici di sicurezza sociale in sostituzione dell'iniziativa
    privata; ma, sebbene spesso non lo si dicesse apertamente,
    ciò avrebbe significato, più che un rimedio,
    l'eutanasia del capitalismo consumistico, se non di qualunque
    capitalismo. Nella concezione di Marx il capitalismo pauperistico
    doveva perire di morte violenta, per ribellione dei proletari; nella
    concezione di Keynes il capitalismo consumistico sarebbe trapassato
    senza una rivoluzione sanguinosa e forse addirittura col consenso
    dei capitalisti, che speravano di salvare il salvabile cedendo ai
    governi i loro magazzini ridondanti.I keynesiani e i fautori del
    Welfare State sottostimavano di grosso le capacità di
    recupero del capitalismo consumistico e gli effetti tonici sulla
    domanda dell'ulteriore progresso merceologico (si pensi, per
    esempio, alla valanga di nuovi beni di consumo forniti dalle recenti
    applicazioni dell'elettronica e avidamente assorbiti dal mercato).
    Non si fa però giustizia al pensiero keynesiano e anzi, per
    questo, al pensiero socialistico in generale, se non si aggiunge e
    non si sottolinea che l'illimitato progresso merceologico non era
    giudicato soltanto difficile, ma altresì indesiderabile. Tale
    progresso merceologico veniva posto al passivo, non all'attivo, nel
    fare il bilancio del capitalismo contemporaneo; ossia i suoi aspetti
    più consumistici erano e sono deprecati, indipendentemente
    dall'instabilità economica che possono provocare e dalla
    volgarità del costume in cui talvolta degenerano. Si temeva e
    si teme, non senza giustificazione, che l'eccessivo produrre beni
    'futili' renda più scarsi, per esempio, i servizi sanitari
    pubblici per i redditieri delle fasce basse, sottraendo risorse alla
    sicurezza sociale.
Il pensiero socialisteggiante, nel quale rientra in parte, per certi
    aspetti, quello keynesiano, giunse a riscoprire e a rivalutare, da
    una particolare angolatura, un genere di virtù simili
    all'austerità, alla morigeratezza spartana; un genere che ora
    si opponeva allo sviluppo economico illimitato, come il capitalismo
    moderno prospettava con le sue seduzioni commerciali. Naturalmente
    Marx si era già espresso con abilità sulla questione,
    facendo in modo che il socialismo e più ancora il comunismo
    non apparissero sistemi rinunciatari o mortificanti, bensì
    sistemi in cui la creatività umana fosse piena, benché
    emancipata progressivamente dall'economia. Egli condannava che nel
    mercato "ogni uomo spera di creare all'altro un nuovo bisogno, per
    costringerlo a un nuovo sacrificio, per ridurlo in una nuova
    dipendenza e indurlo a un nuovo modo di godimento e però di
    rovina economica". Denunciava che l'espansione dei prodotti e dei
    bisogni diventasse "schiava ingegnosa e sempre calcolatrice di
    appetiti disumani, raffinati, innaturali e immaginari" (v. Marx,
    1932; tr. it., pp. 236 e 241).
Al di fuori del marxismo sentimenti analoghi erano stati espressi da
    John Stuart Mill nei Principî di economia politica: "Confesso
    che non mi piace l'ideale di vita sostenuto da coloro che pensano
    che lo stato normale degli uomini sia quello di una lotta per
    procedere oltre; che l'urtarsi e lo spingersi gli uni con gli altri,
    che forma il tipo esistente della vita sociale, sia la sorte meglio
    desiderabile per il genere umano, e non uno dei più tristi
    sintomi di una fase del progresso produttivo [...]. La condizione
    migliore per la natura umana è quella in cui, mentre nessuno
    è povero, nessuno desidera di divenire più ricco,
    né deve temere di essere respinto indietro dagli sforzi degli
    altri per avanzare" (v. Mill, 1848; tr. it., pp. 708 e 713).
La conclusione di Mill era che si dovesse puntare, se non sulla fine
    integrale dell'economia, sulla sua riduzione a uno stato
    stazionario, che è l'antitesi dello sviluppo capitalistico
    indefinito. Egli dichiarava che soltanto nei paesi arretrati una
    maggior produzione restava uno scopo importante, lasciando intendere
    che l'evoluta Gran Bretagna del suo tempo fosse ormai prossima al
    punto ottimale e quindi all'arresto della crescita. Morto nel 1873,
    Mill non aveva previsto tutta la serie di nuovi prodotti legati
    all'elettricità, che avrebbero impresso all'economia
    mondiale, e non solo a quella britannica, uno slancio
    impressionante, né la miriade di altre innovazioni
    interamente incompatibili con qualsiasi stato stazionario. Chi
    sosterrebbe che fossero sempre innovazioni da respingere, se non da
    proibire?
Nel secolo successivo Keynes, più prudente, parlava di alcune
    generazioni destinate ancora a continuare gli sforzi produttivi,
    prima di poter tirare i remi in barca e contentarsi dell'abbondanza
    conquistata. Ma Marx, Mill e Keynes erano coscienti di una
    complicazione, alla quale sapevano di non poter sfuggire se non
    dando una spropositata dimensione universale ai loro disegni. La
    loro esortazione a sopprimere gli appetiti 'immaginari' e a
    terminare la gara concorrenziale implica, oltre alla rinuncia a
    quanto non è stato nemmeno immaginato, anche la compressione
    dei desideri di superiorità. Tali desideri, siano essi pure
    immaginari o appartengano alla realtà della natura umana,
    sono in ogni caso in contrasto con i disegni di rallentare la corsa,
    ridurne l'agonismo, darle un traguardo ultimo e definitivo, che
    livelli in seguito la sorte di vinti e vincitori.
Non è sufficiente eliminare la concorrenza all'interno di una
    singola società se permane la concorrenza fra società
    diverse, per cui la stasi di una comporta il sorpasso a opera di
    altre che l'ambizione mantiene in condizioni di sviluppo economico
    capitalistico. Sono troppo stretti i nessi tra potenza economica e
    potenza militare perché la rinuncia unilaterale al progresso
    merceologico illimitato, che in qualche misura frenerebbe anche il
    progresso tecnologico, non susciti ansia nella società
    rinunciataria. La rinuncia o è universale o è
    pericolosa per chi la pratica, e questo falsa la scelta tra
    capitalismo e socialismo.
Se è improbabile che tutti gli individui della medesima
    società optino volontariamente per il socialismo, ancor meno
    probabile è che lo facciano spontaneamente tutte le
    società del mondo. Ma la pacifica coesistenza di nazioni
    capitalistiche e di nazioni socialistiche sembra obbligare
    principalmente queste ultime a non essere completamente ciò
    che vorrebbero (e ciò che potrebbero se fossero sole).
    C'è per esse il problema di schermare i propri consumatori
    dalle tentazioni opulentistiche provenienti dai paesi del
    capitalismo di mercato; e c'è, più serio, il problema
    di come liberarsi gradualmente dalle catene dell'economia, se lo
    sviluppo economico illimitato è richiesto quanto meno dalle
    esigenze militari.
Fin quando ci si illuse che, affrontando un identico o simile piano
    di produzione, il socialismo sarebbe stato molto più
    efficiente del capitalismo nel realizzarlo, le difficoltà di
    cui sopra parvero temporanee. Ma ora si comincia a dubitarne,
    perché si dubita che il socialismo, trascinato a misurarsi
    col capitalismo usando i criteri del capitalismo, possa reggere il
    confronto. E ancora: perde di attrattiva per i suoi seguaci un
    socialismo ideologicamente monco, in cui taluni obiettivi essenziali
    non siano perseguibili fino in fondo; tanto più che, se si
    scende a compromessi, anche il capitalismo consente di realizzarne,
    e per esempio non nega una certa dose di Welfare State, di sicurezza
    sociale, di stabilizzazione dell'economia, di redistribuzione in
    senso egualitario dei redditi, di austerità nel costume
    individuale di vita.
Non che nel capitalismo obiettivi come il pieno impiego e
    l'eguaglianza siano perseguibili a oltranza con la stessa efficacia
    che nel socialismo. Non lo sono ogni volta che essi entrano troppo
    in conflitto con la libertà economica, cui gli imprenditori
    capitalisti non vogliono rinunciare oltre un certo grado. Ma
    l'economia borghese ha capito che sarebbe vittima di una
    insopportabile ostilità sociale qualora non ammettesse
    qualche intervento privato, e soprattutto pubblico, per temperare i
    mali della disoccupazione e della diseguaglianza che essa suscita
    purtroppo largamente. 
    
6. Le trasformazioni del capitalismo
Non v'è dubbio che il capitalismo odierno, per certi versi
    tanto più potente del capitalismo primitivo, sia per altri
    versi più condizionato da forze contrapposte, che ne riducono
    i gradi di libertà. Le corporazioni di un tempo proteggevano
    i padroni assai più degli operai, ma il sindacalismo moderno
    è eminentemente un fenomeno che accresce il peso dei
    lavoratori o dei loro rappresentanti nel momento in cui essi
    contrattano con i datori di lavoro. Poco efficace quando i
    lavoratori sono dispersi nei campi o in una miriade di botteghe
    artigiane, l'organizzazione sindacale si rafforza proprio grazie
    alle grandi fabbriche cittadine, che concentrano i lavoratori e ne
    facilitano la manovra di massa. E se in origine i sindacati
    interessavano soprattutto una élite di lavoratori qualificati
    (i primi ad assumere una 'coscienza sindacale'), poi si è
    passati all'inquadramento della folla sterminata dei lavoratori
    comuni, costituiti per lo più da ex contadini inurbati. Il
    sindacalismo, dunque, ha sfruttato una conseguenza dello sviluppo
    del capitalismo: la trasformazione delle società di contadini
    in società di operai. E non è l'unica conseguenza di
    cui il sindacalismo si sia servito, perché esso ha tratto
    dalla libertà contrattuale cara al mercato la giustificazione
    per negoziare con pieno diritto i contratti collettivi di lavoro. I
    quali d'altronde avrebbero avuto ben poco da ripartire senza la
    consistente capacità del capitalismo di produrre sempre nuova
    ricchezza. Ma vi è ancora un presupposto capitalistico alla
    base dell'ascesa sindacale, un presupposto da ricercare nei nessi
    tra libertà economica e libertà politica, per cui in
    Occidente il progresso della democrazia si è associato spesso
    e volentieri al progresso del sistema borghese di produzione.
Le leggi antimonopolistiche, nate per ostacolare i sindacati, si
    sono risolte infine in seri tentativi politici di impedire la
    formazione di trusts e cartelli industriali e commerciali. Il che
    rende semplicistica la tesi che il potere economico, inteso come
    potere padronale, conquisti regolarmente il potere politico: le cose
    sono oggi più complesse e certo i sindacati occidentali
    hanno, col passare degli anni, trovato appoggi in forti partiti
    politici riformisti, se non rivoluzionari. Il potere capitalistico,
    il potere sindacale e il potere politico giocano una complicata
    partita a tre, con schieramenti mutevoli ed esiti diversi. Vi sono
    momenti in cui prevale la violenza dei contrasti (tutti contro
    tutti) e altri in cui si forma una specie di consenso generale, per
    esempio su misure di protezione doganale (ma in merito i consumatori
    potrebbero parlare di un loro danno causato dalla collusione o
    connivenza fra i tre poteri).
L'abbondante ricchezza capitalistica fa comunque gola al potere
    politico, che attraverso il fisco vi attinge abbondantemente. Quando
    circa la metà dei redditi, dei profitti in specie, viene oggi
    prelevata dalle imposte e dalle tasse, contro appena un decimo o un
    quinto di non molti decenni fa, è lecito concludere che il
    fisco recita ormai una parte leonina. Se le proteste di quei
    contribuenti che non possono o non vogliono evadere sono moderate,
    è appunto perché la ricchezza nel capitalismo
    sviluppato è abbondante, e anche perché i governanti
    usano la spesa pubblica per 'comperare' consensi. Il Welfare State
    ha raggiunto sovente questo scopo, nonostante i vasti sprechi
    commessi in suo nome, e lo ha raggiunto cercando di dare un po' di
    sicurezza ai ceti più deboli di fronte alle vicissitudini
    congiunturali del mercato. Ma altri tipi di spesa pubblica hanno
    favorito i capitalisti, anziché danneggiarli, e c'è
    del vero nella tesi secondo la quale le politiche keynesiane,
    volendo o non volendo, hanno rafforzato il capitalismo, che
    richiedeva una qualche regolamentazione pubblica della domanda
    aggregata. Si pensi poi ai molti servizi pubblici ausiliari alla
    produzione privata: per esempio, il finanziamento statale della
    ricerca scientifica e tecnologica, di cui profittano i produttori
    che ne applicano le scoperte, il credito agevolato agli investitori,
    ecc.
A rendere il quadro ancora più complesso contribuisce la
    presenza di elementi di discordia all'interno dello stesso fronte
    capitalistico, che non è affatto omogeneo. La concorrenza
    è di per sé un motivo di attrito fra capitalisti: in
    particolare, gli innovatori urtano gli interessi preesistenti, che
    vorrebbero mantenere lo status quo. Oltre a questo, il capitalismo
    moderno ha visto talvolta inasprirsi il dissidio tra i proprietari
    del capitale, da un lato, e i tecnici e i managers, dall'altro. La
    cosiddetta rivoluzione manageriale dell'ultimo secolo o mezzo secolo
    corrisponde alla crescita della dimensione delle imprese, che le
    porta facilmente fuori dell'ambito familiare e impone di assumere
    dei professionisti specializzati per la loro direzione. La grande
    impresa societaria può avere il suo capitale frazionato fra
    milioni di azionisti, fino a divenire una corporation 'pubblica', in
    cui i proprietari stentano a formare stabili maggioranze di
    controllo. Si assiste così alle 'scalate' di gruppi, che
    cercano di ottenere il controllo della società per azioni
    sottraendolo a maggioranze precedenti. Tuttavia accade talvolta che
    il vero controllo sia e resti nelle mani di managers, pur quando
    essi non posseggano alcuna quota del capitale.
La crescita della dimensione delle imprese è un fatto
    peraltro fino a un certo punto inevitabile. L'evoluzione tipica
    è quella avvenuta, per esempio, nell'industria
    automobilistica, che all'inizio del nostro secolo, quando il settore
    era giovane, contava migliaia di piccole imprese, il cui numero si
    è quindi ridotto man mano che il settore maturava, fino
    all'attuale oligopolio di pochi grossi produttori: i superstiti
    vincitori, i selezionati dalla concorrenza. Questo non significa
    però la scomparsa di tutte le piccole imprese: molte
    sussistono come fornitrici delle grandi e molte nascono di continuo
    nei settori giovani, in cui il mercato è ancora embrionale.
    Le innovazioni importanti non sono necessariamente opera di grosse
    imprese, che anzi possono rivelarsi conservatrici proprio
    perché già paghe o appesantite dalla burocrazia
    interna.
Senza sottovalutare la rilevanza delle economie di scala, non va
    dimenticato che conta anche l'agilità di comportamento, la
    quale oltre certe dimensioni aziendali si riduce. In anni recenti,
    proprio mentre molti credevano che il futuro della siderurgia fosse
    delle grandi acciaierie a ciclo integrale, i minimills rivelarono in
    America e altrove i vantaggi di accrescere la produzione in piccole
    unità facilmente convertibili e subito sfruttate al cento per
    cento, anziché in grosse unità rigide e poco
    utilizzate per anni e anni. Inoltre le stesse dimensioni assumono
    significati diversi secondo le epoche: è ovvio che il
    progresso delle telecomunicazioni, dei trasporti e dell'informatica
    restringe il tempo e lo spazio, e permette di costruire senza
    problemi reti organizzative una volta impensabili.
Le imprese multinazionali o transnazionali, frequenti nel
    capitalismo moderno (sebbene non sconosciute, a parte il neologismo,
    nei secoli scorsi), testimoniano che funzionano con efficienza
    organizzazioni produttive private a scala mondiale. Esse hanno
    capisaldi in diversi paesi sia per avvicinare la produzione alle
    aree di consumo, sia per sfruttare risorse naturali e forze
    lavorative locali. A questo proposito va notato che nei paesi di
    vecchia industrializzazione, anche per il calo del tasso di
    natalità, si sono esauriti i serbatoi di manodopera, dopo che
    nelle campagne gli addetti all'agricoltura sono scesi enormemente.
    Di qui la duplice nuova politica dell'industria capitalistica:
    trasferire le fabbriche nei paesi ancora sottosviluppati, con
    manodopera abbondante e a basso costo, o automatizzare la produzione
    il più possibile.
Pertanto, nei paesi di vecchia industrializzazione la percentuale
    delle forze di lavoro occupate nell'industria è ormai
    stazionaria o in calo. È il settore terziario o dei servizi
    che invece si espande proporzionalmente, in media potendo
    automatizzare meno (a parte l'effetto dell'aumento del reddito pro
    capite, che favorisce appunto la domanda di molti servizi). Come in
    precedenza si era passati da società di contadini a
    società di operai, ora si sta passando da società di
    'colletti blu' a società di 'colletti bianchi', con profonde
    ripercussioni culturali, oltre che economiche.
La produttività del lavoro, che non migliora in tutti i
    settori al medesimo ritmo, influisce sui salari e sui prezzi. I
    salari tendono ad adeguarsi ovunque alla crescita massima della
    produttività, che si verifica nell'industria automatizzata:
    questo significa il rincaro dei costi e dei prezzi nei settori, come
    il terziario, dove la produttività cresce meno delle punte
    massime o non cresce affatto. Ne risulta una continua pressione
    inflazionistica, giacché i prezzi assoluti non calano dove il
    progresso della produttività è maggiore e salgono dove
    tale progresso è minore. Se mantenuta entro confini prossimi,
    tale pressione inflazionistica è accettata o tollerata
    ampiamente, nonostante i suoi inconvenienti. I venditori sarebbero
    in ogni caso restii a concedere vistosi ribassi di prezzo, che essi
    associano a difficoltà di mercato o a crisi congiunturali
    deflazionistiche. Tutti sono poi contrari alle disordinate
    oscillazioni dei prezzi, che si verificano per ragioni tecniche in
    alcuni mercati come quelli agricoli di concorrenza atomistica, e
    preferiscono le prevedibili regolarità dei prezzi di
    concorrenza oligopolistica, ancorché siano regolarità
    in cui l'inflazione è una presenza costante.
In termini di ore di lavoro necessarie per l'acquisto, i beni fatti
    a macchina diventano sempre più accessibili ai consumatori.
    Non così per i beni la cui produzione non si presta a essere
    automatizzata. I servizi personali, per esempio, sono oggi
    più di ieri difficili da acquisire, anche a causa della
    minore diseguaglianza nella distribuzione dei redditi, che distingue
    le società capitalistiche avanzate da quelle preindustriali.
    Al limite, la perfetta eguaglianza impedirebbe di avere un
    collaboratore domestico a tempo pieno: bisognerebbe pagarlo dandogli
    l'intero reddito del padrone. Per quanto cresca di continuo il
    reddito medio pro capite, alcune forme di vita agiata, che erano
    godute dai ricchi del passato, non si potranno ripetere e non si
    diffonderanno nell'intera popolazione. La ricchezza 'democratica'
    è essenzialmente diversa dalla ricchezza 'aristocratica', per
    cui l'arricchimento generale non sempre riesce a trasformare la
    domanda virtuale di beni in domanda effettiva. I beni per loro
    natura irrimediabilmente scarsi, come le dimensioni limitate di un
    piccolo luogo di grande bellezza turistica, suscitano problemi
    irrisolvibili circa la crescita del benessere e del numero di coloro
    che li appetiscono.
Il capitalismo sopporta l'incessante aumento dei salari reali grazie
    all'incessante aumento della produttività del lavoro, che di
    norma si ottiene dotando ogni lavoratore di più capitale. Ma
    ciò non sarebbe sufficiente a conservare un buon tasso di
    profitto, se il maggior capitale per lavoratore si traducesse anche
    in maggior capitale per unità di prodotto. In quest'ultimo
    deprecabile caso il capitale crescerebbe nel tempo più
    rapidamente della produzione che esso fornisce, per cui sarebbe
    sempre più arduo remunerarlo adeguatamente, dal punto di
    vista dei capitalisti privati. Marx (e non soltanto lui) prevedeva
    nell'Ottocento che la meccanizzazione e l'automazione avrebbero
    effettivamente sortito tale risultato, mettendo in crisi il
    capitalismo. Oggi sappiamo invece che, nelle medie nazionali di
    lungo periodo, il rapporto tra il valore del capitale investito e il
    valore della produzione che ne deriva non ha mostrato alcuna stabile
    tendenza a salire.In definitiva, il più importante
    compromesso del capitalismo è stato quello di riuscire a
    migliorare i salari reali senza danneggiare il tasso di profitto. Un
    tasso di profitto costante, applicato a un capitale che si accumula,
    aumenta via via la massa dei guadagni dei capitalisti nel loro
    complesso. Quanto ai guadagni medi del singolo capitalista, essi
    dipendono anche dall'andamento del numero complessivo di
    capitalisti, sul quale i dati sono carenti. Si sa che il numero dei
    lavoratori occupati aumenta, durante lo sviluppo capitalistico
    moderno, meno velocemente del prodotto nazionale e dello stock di
    capitale, il che appunto determina l'aumento della
    produttività del lavoro e dei salari reali. Non si sa se il
    numero dei capitalisti aumenti di più, di meno o nella
    medesima misura del numero dei lavoratori, ma è certo che nel
    capitalismo contemporaneo è più frequente la figura
    del lavoratore-capitalista, ovvero di colui che non è
    più lavoratore puro, in quanto ha potuto risparmiare e
    investire una parte dei suoi salari.
È pure certo che, nonostante gravi fasi critiche, come negli
    anni trenta del nostro secolo, il capitalismo si è rivelato
    notevolmente solido, non così esposto alle sue
    'contraddizioni interne' come speravano o temevano taluni suoi
    studiosi o osservatori. Gli è stata utile la grande
    capacità di adattamento alle varie circostanze storiche,
    sociali e politiche, per cui oggi non si discute più tanto
    sulla fine del capitalismo: si discute piuttosto sulle diverse forme
    che può assumere, quelle maggiormente accettabili e quelle
    decisamente da avversare. Intanto, sebbene si sappia poco sulla
    condizione e sulla psicologia dei capitalisti, si sa però che
    finora essi si sono mostrati disposti a continuare l'accumulazione
    di capitale in vari luoghi e circostanze, e a mantenere in corsa un
    sistema in fondo poco 'sistematico', la cui razionalità
    globale lascia sovente perplessi.
Le nazioni del Terzo Mondo, che oggi tentano di realizzare uno
    sviluppo economico imitando le nazioni più industrializzate,
    hanno scelto a volte il modello capitalistico, a volte quello
    socialistico, senza escludere le innumerevoli forme miste. Sulla
    scelta ha influito in non pochi casi la rivalità politica tra
    gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, con gli aiuti che le due
    grandi potenze erano disposte a concedere ai loro satelliti. Col
    passar del tempo, però, ha perso credito la tesi che una
    rivoluzione politica, come appunto quella sovietica del 1917, sia
    indispensabile al Terzo Mondo per sfuggire rapidamente
    all'arretratezza e questo ha accresciuto le chances del capitalismo.
    Non si deve credere tuttavia che il capitalismo nel Terzo Mondo sia
    da includere fin da ora nella stessa classe del capitalismo
    avanzato."In molti paesi del Terzo Mondo il capitalismo che si
    conosce non è quello industriale, bensì quello
    mercantile (il capitalismo dei compradores)" (v. Sylos Labini, 1983,
    p. 184). E l'evoluzione verso tipi più complessi,
    organizzativamente e tecnologicamente, avverrà - se
    avverrà - non in condizioni di laissez faire, ma con
    l'ausilio di interventi pubblici nel campo educativo e nel campo
    produttivo, a cominciare dall'agricoltura. Ciò presuppone una
    riforma della pubblica amministrazione nei paesi del Terzo Mondo e
    l'adozione di sistemi fiscali adeguati agli obiettivi di
    ammodernamento, e quindi con un minimo di durezze sociali. 
    
7. Conclusioni
Il socialismo, paragonato al capitalismo, si presenta come un
    sistema economico più razionale, specialmente nella forma
    tipica della pianificazione centrale affidata a un'autorità
    dotata di una visione d'insieme. La società capitalistica
    ammette invece l'assenza di un progetto unitario, di un disegno
    unificante (a parte alcune 'regole del gioco' eguali per tutti), e
    favorisce una libertà di iniziativa personale e una
    pluralità di scopi, di cui diffida il socialismo
    collettivistico.
Anzi, questo socialismo dubita che una collettività senza un
    progetto unitario riesca a marciare ordinatamente e non si perda nel
    caos. Il mercato capitalistico ha ricevuto ripetute critiche, che
    gli negano la capacità di portare l'economia a un armonico
    equilibrio e soprattutto a un equilibrio di piena occupazione (il
    che è verissimo, nonostante le pretese di alcuni economisti
    che scambiano per realtà i loro astrusi modelli matematici).
    In effetti, la funzione del mercato di concorrenza non è, in
    prima istanza, di equilibrare l'economia, bensì di
    squilibrarla con continue innovazioni, con un continuo progresso
    tecnologico e merceologico, promosso dalla ricerca del tornaconto
    privato. E l'esperienza storica prova che quel progresso si è
    bene o male compiuto, pur se pagato coi costi inevitabili
    dell'instabilità sociale; e si è compiuto in forme
    ordinariamente non caotiche e di beneficio pubblico, nonostante le
    motivazioni squisitamente private che ne stanno alla base.
Il progresso, lo sappiamo, non può favorire tutti e subito:
    ha le sue vittime, che soffrono per la distruzione del vecchio
    provocata dal nuovo. Ma è innegabile che il capitalismo, per
    la prima volta nella storia dell'umanità, ha sconfitto la
    miseria di massa e migliorato come non mai il salario reale annuo,
    pur quando gli orari di lavoro sono diminuiti e l'offerta di lavoro
    è stata in rapida ascesa. Ecco risultati che possono
    sorprendere, se si postula che il capitalismo sia un sistema dove
    l'egoismo individuale è la regola: risultati forse non
    intenzionali per tale sistema, eppure inoppugnabili. Perciò
    la teoria del capitalismo deve principalmente dar ragione di come,
    nel linguaggio arcaico di Bernard de Mandeville, il vizio privato,
    quale appunto è in un certo senso l'egoismo, sia talvolta
    propizio alla virtù pubblica.
Mandeville argomentava che la fratellanza, la solidarietà,
    l'altruismo sono qualità su cui si può contare in
    organismi sociali piccoli, chiusi, omogenei e con scopi unitari
    preminenti, assai più che nei vasti agglomerati aperti e
    pluralistici di individui liberi ed eterogenei, come l'Olanda e
    l'Inghilterra tra il Seicento e il Settecento. Né, secondo
    lui, questi vasti agglomerati rispondevano bene agli ordini di un
    potere centrale, che si arrogasse la supervisione di tutta la vita
    nazionale, come la Francia di Luigi XIV e di Colbert tentava di
    fare. Occorreva piuttosto trovare il mezzo per porre l'iniziativa
    privata e la ricerca particolare del proprio profitto al servizio
    del bene comune, ciò che istituzioni come il mercato di
    concorrenza parevano in grado di promuovere.
La scuola filosofica scozzese di Adam Ferguson, David Hume e Adam
    Smith perfezionerà gli argomenti di Mandeville, e più
    ancora vi provvederà la scuola economica austriaca di Carl
    Menger, Eugen Böhm-Bawerk, Ludwig von Mises e Friedrich A. von
    Hayek, col recente contributo dell'epistemologo Karl Popper.
    L'attenzione di tutti questi pensatori, quando si occupano di
    scienze sociali, si concentra sugli effetti macroeconomici non
    intenzionali provocati da scelte individuali, microeconomiche,
    autonome e indipendenti, di solito prive di una visione d'insieme.
    Gli errori fanno parte del quadro, ma ne fanno parte pure
    conseguenze positive inimmaginate e inimmaginabili, talvolta
    addirittura superiori a quelle ottenute con un disegno
    esclusivamente razionale e cosciente. Lo sviluppo capitalistico
    è un esempio di un grandioso effetto non intenzionale, non
    progettato da alcuno, non guidato da alcuno, non teleologico,
    perché privo di una meta finale prestabilita e quindi
    illimitato o indefinito per sua natura.
Alcune citazioni di Hayek esemplificano le idee cui egli affida la
    spiegazione dell'eventuale bontà degli effetti
    inintenzionali: "Divenne parte dell'ethos della società
    aperta il fatto che fosse meglio investire il proprio patrimonio in
    strumenti che rendessero possibile produrre di più a costi
    inferiori piuttosto che distribuirlo fra i poveri, o prendersi cura
    dei bisogni di migliaia di persone sconosciute piuttosto che
    provvedere ai bisogni di pochi vicini conosciuti. Ovviamente queste
    idee non si svilupparono perché coloro che le seguirono per
    primi capivano che in tal modo conferivano maggiori benefici ai loro
    simili, ma perché i gruppi e le società che
    così agivano prosperavano più degli altri [...]. Tale
    ethos nella sua forma più pura considera come dovere primario
    perseguire nel modo più efficace possibile il proprio fine
    scelto liberamente, senza preoccuparsi del suo ruolo nella complessa
    rete dell'attività umana [...]. Forse la maggiore scoperta
    mai fatta dal genere umano fu la possibilità che gli uomini
    vivessero insieme, in pace e con vantaggio reciproco, senza dover
    concordare su scopi comuni e concreti, ma vincolandosi soltanto con
    regole di comportamento astratte" (v. Hayek, 1982; tr. it., pp. 346
    e 356).
Nessuno osa sostenere che la teoria del capitalismo, nel punto in
    cui è lasciata da Hayek, sia completa e definitiva, o
    chiarisca senza ombre se e come nel mercato di concorrenza gli
    effetti inintenzionali positivi scaccino sempre quelli negativi con
    un costo sociale accettabile. È forse utopico pensare che una
    simile dimostrazione possa mai venire, e comunque essa lascerebbe
    insoluta la questione se il costo sociale del capitalismo sia
    maggiore o minore di quello di sistemi alternativi, ammesso che si
    possa scoprire il metro per misurare anche i ricavi. Tutto quel che
    si può dire è che oggi il ragionamento e la lezione
    della storia hanno sfrondato il giudizio sul capitalismo da equivoci
    e incomprensioni di lunga durata. Il capitalismo resta anche troppo
    criticabile, ma con argomenti che spesso dovranno essere diversi da
    quelli del passato.
[...]
Il dibattito sulle origini del capitalismo 
di Alessandro Cavalli
sommario: 1. Cenni storici sulle origini del
    concetto di capitalismo. 2. Le origini del capitalismo nel pensiero
    di Marx. 3. Le origini dello spirito del capitalismo: Weber e
    Sombart. 4. La questione del capitalismo medievale. 5. La nascita
    dell'economia-mondo capitalistica. 6. Conclusioni. □
    Bibliografia. 
    
1. Cenni storici sulle origini del concetto di
      capitalismo
      
Il dibattito sulle origini del capitalismo si sviluppa lungo tutto
    l'arco della storia delle scienze sociali e della storiografia dagli
    ultimi decenni dell'Ottocento fino all'epoca attuale. La storia
    della "questione delle origini" è vecchia di più di un
    secolo. L'interrogativo sulle origini si intreccia con
    l'interrogativo sulla natura del capitalismo: chiedersi come e
    quando il capitalismo sia nato vuol dire chiedersi che cosa sia.La
    stessa storia del termine 'capitalismo' fornisce una traccia per
    indagare la storia di questa controversia. Di capitalismo si
    incomincia a parlare verso la metà del XIX secolo nelle opere
    di coloro che verranno poi chiamati i socialisti "utopisti". Sembra
    che il termine compaia per la prima volta negli scritti di Louis
    Blanc, mentre Marx lo usa solo come aggettivo per denotare uno
    specifico modo di organizzare l'attività economica, vale a
    dire il "modo di produzione capitalistico".
Il termine nasce quindi molto dopo il fenomeno che con esso si
    intende indicare. Gli studiosi e i pensatori del XVIII secolo e
    della prima metà del XIX avevano certo rilevato e descritto
    con grande acutezza le imponenti trasformazioni che erano avvenute o
    che stavano avvenendo sotto i loro occhi nella sfera economica e
    sociale, l'enorme accelerazione che la storia stava subendo nelle
    aree cruciali dell'Europa. Come riflesso e conseguenza di tali
    trasformazioni era addirittura nata una nuova scienza, l'economia
    politica, che si era assunta il compito di elaborare strumenti
    teorici per analizzare le leggi del divenire economico. Lo stesso
    Adam Smith, che pure offre ne La ricchezza delle nazioni del 1776
    un'analisi illuminante e precorritrice della transizione dal
    feudalesimo, non aveva avvertito il bisogno di coniare un termine
    specifico col quale designare sinteticamente e globalmente il
    sistema economico e sociale che era emerso da tali trasformazioni.
L'esigenza di disporre di un concetto di tale natura si presenta
    quando la realtà che esso pretende di interpretare ha
    già da lungo tempo fatto la sua comparsa. Le ragioni di
    questo divario temporale tra concetto e realtà sono da
    rintracciare nel fatto che i pensatori che 'scoprono' l'esistenza
    del capitalismo come oggetto di studio e di riflessione sono gli
    stessi che ne prevedono e annunciano la prossima fine. Agli occhi di
    costoro l'ordine economico e sociale esistente appare minato da
    crisi profonde che risultano dal conflitto delle forze che esso
    stesso ha generato. Tale ordine appare nella sua storicità
    come qualcosa che è inevitabilmente destinato a finire.
    Coloro, invece, che ritenevano l'ordine economico e sociale nato dal
    tramonto del feudalesimo come fondamentalmente stabile, oppure come
    passibile di ulteriori sviluppi all'infinito, non sentivano
    l'esigenza di un concetto di capitalismo inteso come configurazione
    dotata di una specifica individualità storica. La nozione di
    capitalismo fa la sua comparsa nella storia del pensiero sociale
    quando ci si interroga sul suo destino, quando ci si chiede che cosa
    succederà a esso. Se il capitalismo è destinato a
    finire vuol dire che si tratta di un fenomeno storico e che di esso
    si può scrivere la storia lungo un percorso che ha un inizio
    e avrà una fine. La questione delle origini si presenta
    quindi nell'orizzonte culturale del pensiero socialista, di coloro
    cioè che parlano di crisi, di declino, oppure addirittura di
    crollo del capitalismo.Il concetto viene dapprima accolto con
    sospetto; la matrice ideologica dalla quale è nato sembra
    impedirne un utilizzo in sede di discorso scientifico. Tuttavia il
    concetto ha fortuna e viene fatto proprio in un secondo tempo anche
    da coloro che, lungi dal prevedere la fine del capitalismo, ne
    celebrano i continui successi, per diventare quindi uno strumento
    concettuale della ricerca storica, economica e sociologica quando si
    avverte l'esigenza di un termine che esprima sinteticamente i tratti
    comuni di un insieme assai disparato di fenomeni, tipici dello
    sviluppo economico e sociale dell'Occidente.
Del dibattito sulle origini del capitalismo analizzeremo alcuni
    momenti salienti: partiremo da Karl Marx, da Max Weber e da Werner
    Sombart, affronteremo quindi la questione se sia esistito un
    capitalismo medievale sulla scorta dei lavori degli storici
    economici nei primi decenni del secolo, considereremo poi la ripresa
    del dibattito sulle origini nel marxismo occidentale del secondo
    dopoguerra, per accennare infine agli sviluppi più recenti. 
    
2. Le origini del capitalismo nel pensiero di Marx
Marx, come si è detto, usa il termine 'capitalismo' solo come
    aggettivo per indicare uno specifico "modo di produzione". La storia
    per Marx vede una successione di modi di produzione, ognuno dei
    quali è determinato da un particolare assetto, da un lato
    delle forze produttive (nelle quali si esprime lo stadio di sviluppo
    delle tecnologie e delle capacità umane a esse associate) e
    dall'altro dei rapporti sociali di produzione (cioè dei
    rapporti giuridico-politici che definiscono le forme della
    proprietà dei mezzi e delle condizioni della produzione). Per
    interi periodi storici forze produttive e rapporti sociali di
    produzione si integrano in modo coerente e si rafforzano
    reciprocamente. Sono i periodi in cui un modo di produzione è
    stabile. In altri periodi, invece, lo sviluppo delle forze
    produttive viene frenato dai rapporti di produzione esistenti e gli
    elementi costitutivi del modo di produzione entrano in
    contraddizione. In questi periodi si genera un conflitto insanabile
    di interessi tra le classi che difendono i vecchi rapporti di
    produzione e le classi che esprimono le istanze di sviluppo delle
    forze produttive. Sono i periodi di transizione tra un modo di
    produzione e il successivo. Come è noto, questa concezione
    "dialettica" serviva a Marx per spiegare come si sarebbe passati
    dalle contraddizioni interne del capitalismo all'avvento del
    socialismo. Il problema dell'analisi della transizione dal
    capitalismo al socialismo evoca però immediatamente un altro
    problema, quello della transizione dal feudalesimo al capitalismo,
    vale a dire il problema delle origini del capitalismo. Mentre
    però Marx per spiegare la prima transizione parte
    dall'analisi delle contraddizioni interne del capitalismo
    (cioè dal termine a quo), per spiegare la seconda parte da
    un'analisi dei presupposti del capitalismo (cioè dal termine
    ad quem). Tali presupposti sono da un lato la presenza di una massa
    di lavoratori 'liberi' provenienti dalle campagne, privi di terra,
    di mezzi di lavoro e di sussistenza, dall'altro una massa di
    capitale pronto ad acquistare forza-lavoro e metterla al suo
    servizio.
Marx non formula una teoria della crisi del modo di produzione
    feudale dalla quale si sarebbero liberati i presupposti del
    capitalismo. Per spiegare la loro genesi egli deve ricorrere all'
    "arcano della cosiddetta accumulazione originaria", che condurrebbe
    all'espropriazione dei contadini e degli artigiani, all'espulsione
    violenta dei contadini dalla terra (ad esempio mediante le
    enclosures), in breve alla separazione dei lavoratori dalla
    proprietà delle condizioni di lavoro, da un lato, e
    dall'altro all'accumulazione di ingenti somme di danaro mediante il
    commercio coloniale di rapina, il debito pubblico e la pressione
    fiscale. L'attore che mette in moto i processi di accumulazione
    originaria è lo Stato ("violenza concentrata e organizzata
    della società - come si legge nel XXIV capitolo del I Libro
    del Capitale - per fomentare artificialmente il processo di
    trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione
    capitalistico e per accorciare i passaggi").
L'azione dello Stato, tuttavia, uno Stato che non è
    più uno Stato feudale ma non è ancora uno Stato
    borghese, ha esclusivamente la funzione di accelerare processi che
    dovevano già essere in atto: da un lato la formazione di una
    classe di piccoli produttori indipendenti, sia contadini sia
    artigiani, che gradualmente si liberano dai vincoli feudali nelle
    campagne e dai vincoli delle corporazioni nelle città e si
    trasformano quindi in piccoli capitalisti; dall'altro lato la
    formazione di una classe di ricchi mercanti che operano sul mercato
    che si è aperto su scala mondiale alla fine del XV secolo.Il
    primo processo opera nella sfera della produzione, il secondo nella
    sfera della circolazione. I due processi devono però agire
    congiuntamente per consentire il pieno sviluppo del modo di
    produzione capitalistico. Se si fosse dovuta aspettare la crescita
    graduale dei piccoli produttori, che a poco a poco allargavano le
    dimensioni delle proprie attività produttive, il processo
    sarebbe progredito - come scrive Marx - "al passo di lumaca", la
    transizione si sarebbe protratta per un tempo infinito. E d'altronde
    lo sviluppo indipendente e isolato del capitale commerciale
    (così come era avvenuto nell'antichità rispetto
    all'economia schiavistica) avrebbe piuttosto consolidato invece che
    disgregato il vecchio modo di produzione feudale (com'era in parte
    avvenuto nelle città italiane del Medioevo e più tardi
    nelle regioni dell'Europa orientale). È stata quindi la
    combinazione dei due processi, accelerata dal ruolo dello Stato
    nell'accumulazione originaria, a scatenare secondo Marx la dinamica
    del nuovo modo di produzione.
Entrambi i processi sono indispensabili e interdipendenti, tuttavia
    a seconda che nella combinazione prevalga il primo oppure il secondo
    gli esiti saranno diversi. Marx parla, infatti, in un passo che
    è stato frequentemente ripreso nelle discussioni successive
    (Il capitale, Libro III, cap. XX), dell'esistenza di due vie: "Il
    passaggio dal modo di produzione feudale si compie in due maniere.
    Il produttore diventa commerciante e capitalista, si oppone
    all'economia agricola naturale e al lavoro manuale stretto in
    corporazioni dell'industria medievale urbana. Questo è il
    cammino effettivamente rivoluzionario. Oppure il commercio si
    impadronisce direttamente della produzione. Quest'ultimo
    procedimento, pur rappresentando storicamente una fase di
    transizione [...] non porta in sé e per sé alla
    rivoluzione dell'antico modo di produzione". Questo passo è,
    come vedremo, molto importante perché indica come in Marx non
    vi sia una spiegazione unica della genesi del capitalismo. Egli
    postula l'esistenza di almeno due vie e apre quindi il campo a una
    spiegazione più articolata che suggerisce l'esigenza di
    un'analisi comparativa. 
    
3. Le origini dello spirito del capitalismo: Weber
      e Sombart
      
Per Weber il problema delle origini del capitalismo non si risolve
    spiegando come si siano formati da un lato il capitale e dall'altro
    il lavoro salariato. Già l'antichità e il Medioevo
    avevano conosciuto, in forme diverse, sia l'uno che l'altro; il
    fenomeno da spiegare è piuttosto come mai solo in Occidente,
    nei secoli XVI e XVII, coloro che disponevano di capitali accumulati
    in forma monetaria furono indotti a impiegarli in modi
    qualitativamente diversi e rivoluzionari rispetto al passato.
    L'elemento nuovo da spiegare è quindi l'emergere di una
    condotta orientata al guadagno, che sfrutta le opportunità di
    mercato mediante l'organizzazione razionale dell'impresa. Non
    possiamo parlare di capitalismo, per Weber, se non quando compare e
    si afferma l'impresa capitalistica, vale a dire l'organizzazione
    razionale del lavoro libero dalle obbligazioni di carattere
    servile.L'impulso acquisitivo non ha nulla di specificamente
    capitalistico. Esso è diffuso in tutte le società, in
    tutte le epoche e in tutti i ceti sociali. Il capitalismo, scrive
    Weber nelle pagine iniziali del famoso saggio sull'Etica protestante
    e lo spirito del capitalismo, "può addirittura essere
    identico con la coercizione o almeno con il temperamento razionale
    di questo impulso irrazionale". Lo stesso grande commercio
    medievale, dal quale pure sono nate le forme giuridiche che in
    seguito ha assunto l'impresa capitalistica, era orientato
    prevalentemente a lucrare sulle differenze di prezzo esistenti tra
    un luogo e l'altro, era quindi eminentemente speculativo e
    irrazionale, reso possibile dall'assenza di un vero e proprio
    mercato internazionale.
L'istituzione distintiva del capitalismo è quindi l'impresa
    razionale che produce merci per il mercato in vista di un profitto
    da reinvestire nell'impresa stessa. Il terreno di sviluppo
    dell'impresa è la produzione industriale ed è solo da
    quando il nuovo spirito si impadronisce della produzione industriale
    che possiamo datare la nascita del capitalismo: "I portatori -
    scrive Weber - di quel nuovo modo di sentire che abbiamo definito
    'spirito del capitalismo' non furono affatto esclusivamente o
    prevalentemente gli imprenditori capitalistici del patriziato
    commerciale, ma piuttosto gli strati in ascesa del ceto medio
    industriale". Si tratta di uomini nuovi, di parvenus, che assumono
    un orientamento radicalmente innovativo, improntato a
    sobrietà e razionalità, verso l'attività
    economica.
Una componente essenziale della spiegazione della genesi del
    capitalismo deve pertanto dar conto di come questo nuovo spirito sia
    nato: è a questo punto che Weber avanza l'ipotesi suggestiva
    che questo nuovo spirito si sia formato nel clima culturale delle
    sette protestanti di matrice calvinista, che predicavano una
    condotta di vita fondata sul controllo degli impulsi irrazionali e
    volta al perseguimento del successo mondano come segno della grazia
    divina. Tradotto in termini di etica economica, tale orientamento
    risultò inintenzionalmente del tutto congeniale al
    perseguimento del fine astratto della massimizzazione del profitto
    di lungo periodo dell'impresa capitalistica.
Quest'ipotesi di Weber è stata da molti, ed erroneamente,
    interpretata come il tentativo di contrapporre a una spiegazione
    materialistica e strutturalistica della genesi del capitalismo una
    spiegazione spiritualistica e culturalistica. Egli vuol soltanto
    dimostrare l'esistenza di una singolare "affinità elettiva"
    tra l'etica delle sette calviniste (che ricostruisce minuziosamente
    sulla base dei testi dei predicatori, più vicini al modo di
    sentire comune, piuttosto che sui testi teologici dei fondatori) e
    lo spirito del capitalismo. Una volta che l'impresa si è
    affermata come modello generalizzato di organizzazione
    dell'attività economica, essa non richiede più la
    presenza di un sostegno soggettivo di origine religiosa. Tutti
    coloro che operano sul mercato finiscono inevitabilmente, anche
    contro la loro volontà, per essere condizionati da questo
    'spirito': è l'impresa stessa, come formazione oggettiva, a
    riprodurre continuamente i motivi soggettivi che ne garantiscono
    l'esistenza.
La spiegazione delle origini del capitalismo non si esaurisce
    tuttavia nella spiegazione della genesi dello spirito del
    capitalismo. È soltanto in un ciclo di lezioni tenute poco
    prima della morte, e pubblicate postume col titolo di
    Wirtschaftsgeschichte, che Weber ci offre un modello esplicativo
    articolato e complesso delle origini del capitalismo. In quest'opera
    l'etica protestante rimane come elemento decisivo per la spiegazione
    di uno soltanto dei fattori la cui compresenza è necessaria
    perché si possa parlare di capitalismo. Il concetto stesso di
    capitalismo deve venir allargato per comprendervi una
    pluralità di componenti: la proprietà privata dei
    mezzi di produzione; una classe di lavoratori senza
    proprietà, liberi di vendere la propria forza-lavoro e
    costretti a farlo "sotto la frusta della fame"; la libera
    circolazione di beni e fattori di produzione, senza restrizioni
    irrazionali di ordine politico o monopolistico; un ordinamento
    giuridico e amministrativo razionale che garantisca la
    prevedibilità e l'efficacia delle regole del mercato; l'uso
    di tecnologie razionali, sia nella produzione sia nelle procedure
    amministrative e contabili, tali da assicurare una gestione fondata
    sul calcolo del reddito e del capitale. Per spiegare la genesi di un
    sistema così articolato bisogna far ricorso sia a fattori di
    ordine culturale che influenzano gli orientamenti, gli atteggiamenti
    e le motivazioni dell'agire economico, sia a fattori di ordine
    istituzionale. Tra questi ultimi risulta di decisiva importanza la
    formazione dello Stato burocratico moderno, fondato su un
    ordinamento legale-razionale, sul concetto di cittadinanza, sul
    monopolio della violenza, sul monopolio monetario e fiscale, sulla
    presenza di un corpo di funzionari stipendiati.
La nascita del capitalismo non è imputabile a un unico
    fattore, ma a una costellazione di fattori, anzi a una singolare
    combinazione di fattori che si è realizzata soltanto nelle
    regioni nordoccidentali dell'Europa tra i secoli XVI e XVII.
    Altrove, in altri paesi e in altre epoche, ad esempio nell'Italia
    medievale e rinascimentale, molti di questi fattori erano presenti e
    sviluppati, ciò che mancava era la loro combinazione.
    L'ultimo Weber non ridimensiona quindi l'ipotesi dell'etica
    protestante, la inserisce piuttosto in un modello esplicativo
    plurifattoriale, sulla base del quale egli imposta una serie di
    ricerche comparative volte a spiegare come mai il capitalismo, nella
    sua configurazione di capitalismo moderno, sia nato soltanto in
    Europa e non altrove, come in Cina, dove pure erano presenti molti
    prerequisiti per il suo sviluppo.Le tesi weberiane hanno avuto
    grande risonanza e suscitato un nutrito dibattito: K. Kautsky, R.
    Tawney, C. Hill, K. Samuelsson, H. R. Trevor-Roper e, in Italia, A.
    Fanfani e L. Pellicani, tra gli altri, hanno posto in discussione
    questo o quel punto dell'argomentazione di Weber, sia sul piano
    teorico, sia sul piano storiografico. In particolare, le discussioni
    hanno riguardato se, e in che misura, le tesi weberiane possano
    essere interpretate come una confutazione dell'impostazione
    marxiana. Non è possibile in questa sede entrare nel
    dettaglio di questo dibattito. Sembra tuttavia possibile concludere
    che sia Marx che Weber pongono l'accento sul fatto che non si
    può parlare di capitalismo fino a quando non incominciano a
    trasformarsi in modo radicale le strutture produttive. Entrambi
    avanzano seri dubbi sul fatto che i grandi commerci a lunga
    distanza, che hanno condotto all'accumulazione di ingenti somme di
    capitale mercantile almeno dal XIII secolo in poi, possano di per
    sé essere considerati forme capitalistiche. Il capitalismo
    moderno si differenzia dalle forme precedenti di capitalismo proprio
    per il fatto che il suo dominio si estende alla sfera della
    produzione di merci e non rimane circoscritto alla sfera della
    circolazione. Non si può parlare di capitalismo, quindi,
    prima del XVI secolo.
Negli stessi anni in cui Weber lavora sulle origini dello spirito
    del capitalismo nell'etica protestante esce il primo volume della
    monumentale opera di Werner Sombart, Der moderne Kapitalismus
    (1902). Quest'opera è assai importante perché con essa
    il termine capitalismo entra definitivamente a far parte del
    bagaglio della ricerca storiografica e sociologica. Per Sombart,
    come per Weber, si tratta di spiegare la nascita dello spirito del
    capitalismo, nel quale egli sottolinea la presenza di una duplice
    componente: l'orientamento acquisitivo, che indirizza
    l'attività economica verso l'accumulazione di ricchezza e non
    più soltanto verso il soddisfacimento dei bisogni, e la
    razionalità nella condotta degli affari, che infrange i
    condizionamenti della tradizione. La nascita di questo spirito
    corrisponde alla formazione di un nuovo gruppo sociale costituito
    dagli imprenditori capitalistici. L'origine sociale di questo gruppo
    non è omogenea; essi possono essere reclutati da tutti i ceti
    sociali (nobili, mercanti, artigiani, contadini), ma soprattutto da
    gruppi sociali marginali come gli Ebrei, gli eretici e gli
    stranieri, poiché le condizioni di marginalità sociale
    favoriscono la rottura della tradizione e aprono la strada
    all'innovazione. Il mercante medievale non è ancora un
    imprenditore capitalistico. Anche se i suoi traffici si svolgono su
    lunghe distanze e se ha creato forme associative che precorrono le
    moderne società di capitali, l'orizzonte delle sue mete resta
    vincolato alla tradizione e le sue pratiche non escono dai rigidi
    confini tracciati dalle norme delle gilde mercantili volte
    essenzialmente a impedire la concorrenza tra gli associati.
    Bisognerà aspettare il Rinascimento, quando il ceto dei
    mercanti si intreccia con il patriziato urbano e il capitale
    mercantile con la rendita fondiaria urbana, per veder affiorare i
    tratti del nascente spirito borghese. Per Sombart è Leon
    Battista Alberti il vero precursore del moderno imprenditore
    capitalistico, ma si tratta, appunto, soltanto di un precursore che
    testimonia del fatto che il capitalismo non è ancora nato.
La tematica sombartiana della formazione
    dell'imprenditorialità fu ripresa in seguito da quegli
    storici, economisti e sociologi per i quali la nascita del
    capitalismo corrisponde all'irrompere dell'innovazione nei suoi
    aspetti tecnologici, organizzativi e culturali. Basta ricordare, tra
    tutti, J. A. Schumpeter, per il quale l'origine e il destino del
    capitalismo sono indissolubilmente legati all'emergere e al declino
    della funzione innovativa dell'imprenditore. 
    
4. La questione del capitalismo medievale
Le tesi di Sombart si opponevano agli assunti di certa storiografia
    romantica, soprattutto tedesca, per la quale le origini del mondo
    moderno, e quindi anche del capitalismo, non erano da rintracciare
    nell'epoca recente delle rivoluzioni borghesi, ma ben più
    indietro nei secoli; essa tesseva l'apologia del mercante medievale
    come precursore del moderno capitano d'industria.Tra coloro che
    reagirono vivacemente alle tesi di Sombart si possono ricordare
    Brentano e Dopsch. Per Lujo Brentano (v., 1916) già le
    spedizioni dei Crociati erano organizzate su base capitalistica ed
    è allora che nasce il moderno spirito mercantile. Per Dopsch
    (v., 1930) già il periodo carolingio appartiene all'era
    capitalistica, poiché in esso riprende con slancio la
    tendenza all'accumulazione illimitata della ricchezza, sia in forma
    reale (soprattutto la terra) sia in forma monetaria. Appare chiaro
    che l'oggetto di cui questi autori vogliono ricercare le origini non
    è sempre lo stesso: per Brentano la nascita del capitalismo
    coincide con l'avvento e lo sviluppo dell'economia monetaria a
    scapito dell'economia naturale, per Dopsch risulta capitalistica
    ogni forma di accumulazione della ricchezza. Quanto più
    remote le origini, tanto più generico il concetto di
    capitalismo utilizzato; il concetto stesso perde la capacità
    di individuare fenomeni storicamente specifici e le origini del
    capitalismo si perdono quindi nella notte dei tempi.
Nel dibattito sul capitalismo medievale la posizione forse
    più interessante fu assunta da H. Pirenne, se non altro per
    il fatto che è stata ripresa molte volte in seguito, anche
    nelle discussioni più recenti. Contrariamente a Marx e a
    Weber, per Pirenne le origini del capitalismo sono strettamente
    legate alla ripresa degli scambi mercantili nel tardo Medioevo. Il
    capitalismo nasce quando il commercio cessa di essere
    un'attività occasionale (come lo era nelle corti feudali),
    oppure un'attività di rapina (come lo era quello dei
    Crociati), e diventa un'attività professionale e continuativa
    di un nuovo ceto mercantile che contribuisce in modo decisivo al
    rifiorire della vita delle città, praticamente estinta nei
    lunghi secoli dell'alto Medioevo, e che lotta contro l'ordine
    feudale per affermare la propria autonomia. Non bisogna confondere,
    avverte Pirenne, Medioevo e feudalesimo: vi è un primo
    Medioevo in cui la ricchezza, nelle mani dell'aristocrazia feudale,
    non circola e non si trasforma in capitale, e vi è un tardo
    Medioevo in cui l'asse si sposta verso le città dove si
    intrecciano le correnti dei traffici mercantili. Le città
    tardo-medievali, prima in Italia e poi nei paesi dell'Europa
    settentrionale, sono per Pirenne il luogo di nascita del
    capitalismo.
Le tesi di Pirenne furono riprese nel secondo dopoguerra
    dall'economista marxista americano Paul Sweezy in un saggio ormai
    famoso, pubblicato nel 1950 sulla rivista "Science and society": in
    esso Sweezy polemizza con i risultati delle ricerche di Maurice
    Dobb, uno storico marxista inglese, pubblicati qualche anno prima in
    un libro altrettanto famoso, Studies in the development of
    capitalism (1946). Dobb aveva sostenuto che i grandi mercanti e
    banchieri dal XIII al XV secolo non potevano essere considerati
    esponenti di una nascente borghesia capitalistica; essi
    commerciavano in denaro, in beni di lusso e in armi per soddisfare i
    bisogni di un'aristocrazia feudale le cui rendite erano sempre
    più insufficienti per coprire le spese delle corti signorili.
    Il loro contributo alla nascita del capitalismo fu decisivo solo nel
    senso che, come classe parassitaria, favorirono l'indebolimento
    economico della nobiltà fondiaria feudale. Il capitalismo non
    sarebbe nato senza la formazione autonoma di una classe di piccoli e
    medi produttori di merci, reclutati tra le fila dei contadini
    benestanti (gli yeomen) e della piccola nobiltà (la gentry),
    che diedero vita alle prime manifatture, fondate sul lavoro
    salariato e svincolate dalle restrizioni imposte dagli ordinamenti
    delle corporazioni. Fu questa classe a esercitare un ruolo
    economicamente e politicamente rivoluzionario, capace di spezzare la
    logica di funzionamento dell'economia feudale e del lavoro servile.
    Sweezy, invece, richiamandosi esplicitamente a Pirenne, parte da una
    concezione del feudalesimo come sistema di produzione statico, volto
    esclusivamente alla copertura dei bisogni dettati dal costume e
    dalla tradizione, incapace di innovazione nelle tecniche e nei
    metodi di produzione e quindi ostile a ogni tendenza
    all'accumulazione. Tale sistema risulta incompatibile con l'economia
    di scambio e quindi la causa primaria del suo declino deve essere
    ricercata nello sviluppo dell'economia urbana che cresce nel suo
    seno come una specie di corpo esterno. Un sistema statico è
    un sistema privo di contraddizioni interne e può essere messo
    in crisi soltanto quando al suo esterno si sviluppa un sistema
    più efficiente e razionale che trova il suo fulcro nelle
    città.
Ciò non vuol dire, però, che i secoli che vedono uno
    sviluppo prorompente dei commerci e la fioritura delle città
    (grosso modo dal XIII al XVI secolo) siano già secoli
    capitalistici. Sweezy propone di chiamare il sistema economico di
    questo periodo intermedio di transizione, non più feudale ma
    non ancora capitalistico, "sistema mercantile precapitalistico". Non
    è possibile in questa sede richiamare nel dettaglio i vari
    interventi che si sono succeduti nel dibattito seguito alla
    contrapposizione tra Dobb e Sweezy. Al centro di questo dibattito si
    collocano comunque due interrogativi fondamentali: 1) se e come il
    capitale mercantile abbia o meno esercitato una funzione di
    disgregazione dell'ordinamento economico e politico feudale; 2) se e
    come il capitale mercantile abbia costituito una premessa
    indispensabile per lo sviluppo del capitalismo industriale.È
    probabilmente impossibile dare a questi interrogativi una risposta
    univoca e trovare una soluzione che si applichi a situazioni
    storicamente diverse: dall'Italia del tardo Medioevo ai Paesi Bassi
    e alle Fiandre, dall'Inghilterra dei secoli XVI e XVII all'Europa
    orientale e al Giappone. Un modello adeguato di spiegazione delle
    origini del capitalismo deve essere in grado di dar conto del fatto
    che i punti di partenza e i punti di arrivo del processo sono
    diversi in paesi e in epoche diverse. Tale modello può
    risultare pertanto solo da un'analisi storico-comparativa che tenga
    conto sia delle specifiche condizioni storiche in cui il capitalismo
    è comparso - oppure non è comparso - nei vari paesi,
    sia dei rapporti di interdipendenza generati dallo sviluppo
    capitalistico su scala mondiale.Già H. K. Takahashi, uno
    storico giapponese di tendenza marxista, aveva sottolineato come in
    Giappone la formazione del capitalismo avvenne seguendo un percorso
    opposto a quello dell'Europa occidentale, cioè essenzialmente
    attraverso la trasformazione del capitale commerciale e
    monopolistico in capitale industriale, sotto il controllo dello
    Stato feudale, senza che venisse intaccata la struttura della
    proprietà feudale e si desse la formazione di un ceto
    borghese libero e indipendente. E, analizzando le differenze dello
    sviluppo industriale della Russia e dell'Europa occidentale, A.
    Gerschenkron aveva avvertito come bisognasse accuratamente tenere
    distinti i casi dei paesi first comers (dove cioè il
    capitalismo era nato per primo) da quelli dei paesi late comers
    (dove cioè la nascita del capitalismo non solo era stata
    ritardata, ma era avvenuta in un contesto economico mondiale
    trainato dai primi). 
    
5. La nascita dell'economia-mondo capitalistica
Il dibattito sul capitalismo medievale aveva messo in luce i limiti
    di una visione troppo eurocentrica del problema delle origini del
    capitalismo: non solo bisognava trovare una spiegazione al fatto che
    all'interno dell'Europa lo sviluppo era stato molto diseguale nei
    diversi paesi, ma bisognava pure spiegare come e perché il
    capitalismo si fosse sviluppato altrove tardivamente e seguendo
    percorsi diversi.
Un contributo importante alla risposta a questi interrogativi
    è venuto dalla monumentale opera di Fernand Braudel,
    Civilisation matérielle, économie et capitalisme
    (1979), e dal lavoro di Immanuel Wallerstein The modern
    world-system. Anche Braudel si riallaccia alle tesi di Pirenne sulle
    origini mercantili del capitalismo moderno; i primi capitalisti si
    curavano assai poco del sistema con cui venivano prodotte le merci
    che vendevano e comperavano e la produzione artigianale accompagna
    il capitalismo per un lungo tratto della sua esistenza. Rispetto a
    Pirenne egli richiama però la necessità di operare una
    distinzione più netta tra commercio locale (esercitato da una
    miriade di piccoli negozianti) e commercio a lunga distanza,
    esercitato da un gruppo ristretto di mercanti ricchi e politicamente
    influenti. Solo in questi ultimi si possono riconoscere i tratti del
    capitalismo, in quanto essi tengono le fila di un sistema di scambi
    che va oltre i confini di ogni singolo Stato. Il capitalismo
    è infatti, fin dalle origini, un'economia-mondo.
    Un'economia-mondo è caratterizzata da tre elementi: a) occupa
    uno spazio geografico che abbraccia una pluralità di Stati
    territoriali; b) è governata da un polo centrale che
    storicamente si sposta nello spazio (da Venezia e Genova nel XIV e
    XV secolo, verso Amsterdam nel XVI e XVII, Londra nel XIX e New York
    nel XX); c) si articola in zone successive che vanno dal centro (il
    cuore) alle aree intermedie (la semiperiferia) e alla periferia. Lo
    spostamento del centro (décentrage, récentrage) dal
    Mediterraneo al Mare del Nord e infine all'Oceano Atlantico segna i
    momenti di crisi e nello stesso tempo le tappe fondamentali dello
    sviluppo dell'economia-mondo capitalistica: il capitalismo non ha un
    solo luogo e una sola data di nascita, poiché ogni volta che
    il suo centro si sposta è come se rinascesse in una forma
    nuova. Wallerstein mutua direttamente da Braudel il concetto di
    economia-mondo capitalistica, intesa come un sistema che si estende
    oltre i confini di ogni Stato, fino a comprendere l'area coperta
    dalla rete degli scambi internazionali. All'interno
    dell'economia-mondo si sviluppa - a partire grosso modo dal 1450 -
    un sistema di divisione del lavoro tra aree centrali,
    semiperiferiche e periferiche, in base al quale non tutti i beni che
    entrano in circolazione sono prodotti da imprese che adottano
    rapporti capitalistici di produzione. I rapporti di produzione di
    tipo feudale o schiavistico che sopravvivono all'interno
    dell'economia-mondo capitalistica non sono pure sopravvivenze di
    modi di produzione precedenti, destinati a estinguersi nel processo
    di sviluppo del capitalismo. La ripresa del lavoro servile
    nell'Europa orientale, conseguente all'apertura del mercato mondiale
    alla produzione cerealicola di quelle aree, oppure lo sviluppo della
    schiavitù nelle piantagioni di cotone, zucchero e
    caffè del continente americano, non costituiscono residui di
    un passato remoto, ma sono il prodotto della divisione del lavoro
    nell'economia-mondo capitalistica. Il capitalismo quindi
    produrrà effetti diversi a seconda che una regione si
    collochi al centro oppure alla periferia del sistema.A questo punto
    anche Wallerstein si pone l'interrogativo: come mai l'economia-mondo
    si è affermata in Europa e non, ad esempio, in Cina? La
    risposta è che mentre l'Europa tra il XV e il XVI secolo era
    una nascente economia-mondo composta di piccoli imperi, di Stati
    nazionali e di città-Stato, la Cina era invece un grande
    Impero continentale e, mentre in Europa il sistema feudale aveva
    comportato lo smantellamento della struttura imperiale, in Cina il
    sistema delle prebende aveva contribuito a mantenerla e a
    rafforzarla. La pluralità degli Stati gioca in Europa come un
    potente fattore di sviluppo economico e tecnologico, la
    solidità dell'Impero ostacola invece in Cina la formazione di
    una rete estesa di commercio internazionale e l'accumulazione di
    capitale.
Non esiste quindi un unico processo di transizione al capitalismo,
    ma una pluralità di processi, ognuno dotato di una propria
    specificità spazio-temporale a seconda della collocazione,
    centrale, periferica o esterna all'economia-mondo capitalistica; i
    diversi processi avvengono nel quadro di una rete di interdipendenze
    costituita dalla presenza di un sistema mondiale gerarchizzato al
    suo interno. La pluralità delle vie della transizione non
    rispecchia dunque soltanto la specificità delle condizioni
    storiche locali, il retaggio di passati diversi, ma anche la
    specificità della collocazione dei singoli paesi in un
    sistema mondiale che condiziona modalità e tempi dello
    sviluppo.
Di recente, anche uno studioso italiano, L. Pellicani (v., 1988), ha
    cercato di spiegare come mai il capitalismo sia nato in Europa e non
    in Oriente. Per Pellicani fu l'intrinseca debolezza dello Stato
    feudale a preservare l'Europa dall'esperienza degli imperi
    totalitari di stampo orientale, che con la libertà politica
    avevano soffocato anche i commerci e la vita delle città. Il
    feudalesimo non riuscì invece a impedire che in Europa (e
    prima di tutto in Italia) si sviluppasse l'esperienza del tutto
    originale delle città-Stato, che quindi sono da considerare
    come la vera culla del capitalismo. 
    
6. Conclusioni
La data di nascita del capitalismo oscilla dunque a seconda delle
    varie tesi lungo l'arco di tempo che va dal X al XVII secolo. Il
    problema appare ben lungi dall'essere risolto. Il dibattito dura
    ormai da più di un secolo e tutto lascia prevedere che
    continuerà anche in futuro. Ogni generazione di studiosi pone
    in modo nuovo vecchi interrogativi e ne formula di nuovi. In questo,
    come in altri campi, la ricerca è senza fine, nonostante il
    processo graduale e continuo di accumulazione del sapere. Ciò
    è dovuto al fatto che la domanda sulle origini del
    capitalismo corrisponde in gran parte alla domanda sulle origini del
    mondo attuale, e quindi le risposte che a essa vengono date
    risultano inevitabilmente connesse all'orientamento che ogni
    studioso adotta nei confronti del tempo presente.
    
Enciclopedia del Novecento II Supplemento (1998)
di Sergio Ricossa
Capitalismo
sommario: 1. Privato e pubblico nel
    capitalismo. 2. Profitti e capitalisti. 3. L'organizzazione
    capitalistica. 4. Il capitalismo finanziario. 5. Conclusioni. □
    Bibliografia.
    
    
1. Privato e pubblico nel capitalismo
Non a torto Walt W. Rostow (v. capitalismo,
    1975) considerava ‛fuorviante' legare il concetto di capitalismo
    alla prevalenza, in un sistema produttivo, della proprietà
    privata del capitale e del libero mercato; fuorviante perché
    così si viene a contrapporre una economia basata
    sull'iniziativa individuale a una economia pubblica o collettiva. La
    contrapposizione non c'è sempre stata, e forse c'è
    sempre meno. È vero che, come da storico osservava Fernand
    Braudel, i politici non hanno costruito il capitalismo, ma lo hanno
    ereditato; tuttavia, i periodi e i luoghi del trionfo capitalistico
    corrispondono di regola a casi in cui il potere economico e il
    potere politico hanno coinciso o almeno si sono integrati
    armoniosamente.
La prima grande fase del capitalismo europeo si manifesta a partire
    dal XIII secolo nelle città-Stato italiane, a Venezia,
    Genova, Firenze, dove ‟è l'élite del denaro
    che tiene il potere". Più tardi, ‟nell'Olanda del XVII
    secolo, l'aristocrazia dei reggenti governa secondo gli interessi e
    persino secondo le direttive degli uomini d'affari, mercanti o
    finanzieri. In Inghilterra, la Glorious revolution del
    1688 segna, a un tempo, l'avvento di un nuovo corso politico e
    l'affermazione di un nuovo modo di condurre gli affari, simile a
    quello adottato dagli Olandesi" (v. Braudel, 1977; tr. it., pp.
    76-77). Più tardi ancora, e in un altro continente, la
    definizione di paese plutocrate affibbiata agli Stati Uniti non
    è soltanto una esagerazione polemica, ma approssima la
    realtà locale in alcune sue modalità, così come
    l'approssima nel Giappone d'oggi.
Ben inteso, lo Stato moderno può favorire il capitalismo o al
    contrario esserne il parassita, ostacolarlo e addirittura
    asservirlo. Quando Rostow afferma che le nazioni capitalistiche
    arrivano a versare nelle casse dell'erario pubblico fino al 35% del
    prodotto nazionale lordo, egli si rifà a dati del periodo
    1955-1957. Da allora, la pressione fiscale è rapidamente
    salita ovunque, portandosi nell'Europa occidentale vicina al 50%, a
    un livello più alto che negli Stati Uniti e in Giappone. Se
    metà del prodotto nazionale lordo passa nelle mani dei
    politici, e se costoro giustificano l'entità del prelievo con
    l'intento di costruire uno ‛Stato sociale' (Welfare State),
    che fra l'altro dovrebbe trasferire risorse dai ricchi ai poveri,
    è difficile mantenere cordiali i rapporti tra lo Stato e i
    capitalisti.
L'alta pressione fiscale inevitabilmente grava anche sui profitti.
    Inoltre lo Stato sociale, insaziabile, esige sovente
    un'accumulazione del debito pubblico tanto massiccia da rendere
    necessario innalzare i tassi di interesse, a danno degli
    imprenditori privati bisognosi di credito. Le esigenze del tesoro
    dello Stato entrano in conflitto con quelle delle imprese
    economiche, le quali tentano di difendersi minacciando di licenziare
    le maestranze in soprannumero per colpa dell'‛avidità
    pubblica' nell'appropriarsi dei mezzi finanziari. Ma la
    disoccupazione, è ovvio, in quanto grave male sociale,
    obbliga a ulteriori interventi pubblici di sollievo, a ulteriori
    spese assistenziali, a ulteriori rischi di inflazione.
A questo punto, la strada del capitalismo attuale si biforca. Da un
    lato ci si dirige verso soluzioni di compromesso tra esigenze
    private ed esigenze pubbliche: i capitalisti chiedono - e in qualche
    misura ottengono - sovvenzioni, crediti agevolati, protezioni dalla
    concorrenza estera, e così via; e nel medesimo tempo si
    sforzano, ove possibile, di ridurre i costi col ricorso intenso al
    progresso tecnologico. Dall'altro lato i politici sacrificano il
    mercato, che produce e vende merci per il consumo a scelta delle
    famiglie, e avvantaggiano il cosiddetto consumo pubblico per
    soddisfare bisogni collettivi, cui il mercato non bada, mentre vi
    bada lo Stato sociale con la sua attività senza fini di
    lucro.
La seconda strada comporta, da parte dei politici (e degli
    intellettuali loro alleati), la lotta al ‛consumismo' e la
    predicazione dell'‛austerità', cioè la proposta di una
    società sobria nella quale un voluto ‛contenimento della
    dinamica salariale', oltre che la tassazione dei profitti, precluda
    la marcia delle famiglie nella direzione di compere giudicate dai
    moralisti sempre più frivole, inappaganti, meri effetti
    perniciosi della pubblicità commerciale. Al contrario, il
    moderno capitalismo consumistico, ‛fordista', conta sulla
    pubblicità commerciale, sulla continua innovazione
    merceologica e sugli alti (relativamente) salari per trasformare i
    lavoratori in ottimi clienti, che assorbano la produzione di massa
    consentita dalle macchine di ogni tipo, comprese le macchine per le
    telecomunicazioni (per esempio la televisione).
Qui vi è un paradosso. Lo Stato sociale - nato per difendere
    la parte ‛debole' (i lavoratori) dalla parte ‛forte' (i datori di
    lavoro) - d'accordo coi sindacati chiede talvolta ai lavoratori dei
    sacrifici in nome di una ‛austerità', che questi faticano a
    comprendere, forse perché non sufficientemente preparati a
    immedesimarsi col modello dell'uomo socialista. Al contempo,
    però, lo Stato - che, come legislatore e giudice, prende le
    parti del ‛debole' - mina alcuni fondamenti del capitalismo privato.
    Come ha osservato il giurista Salvatore Satta, gli effetti si vedono
    ‟nella disgregazione della teoria dei contratti, con la restrizione
    della libertà contrattuale e il declino della forza
    obbligatoria del contratto; nella evoluzione del fondamento della
    responsabilità; ma soprattutto nello svuotamento del diritto
    di proprietà" (v. Satta, 1994, pp. 118-119).
Perfino la questione del tempo libero dal lavoro appare ben diversa,
    a seconda che seguiamo una prospettiva o l'altra. Nella prospettiva
    consumistica, la riduzione degli orari, verificatasi diffusamente da
    un secolo a questa parte, serve principalmente a esaltare i consumi
    privati per il divertimento, lo sport, i viaggi, la cultura, et
      similia; nella prospettiva austera, invece, è un
    valore in sé, è liberazione dalla pena del lavoro
    costrittivo, è la premessa per il ‛volontariato sociale',
    ossia il passaggio dallo scambio commerciale al dono disinteressato.
    La polemica tra i fautori dell'una e dell'altra tesi ha notevolmente
    mutato, in questo scorcio del XX secolo, le armi ideologiche con cui
    si combatteva pro o contro il capitalismo nel XIX secolo.
Marx e i suoi discepoli o imitatori non riuscirono a concepire altro
    che un capitalismo pauperistico, ossia l'antitesi del capitalismo
    consumistico di oggi. Il salario reale, nelle loro profezie, non si
    sarebbe alzato durevolmente oltre il minimo di sussistenza, un
    minimo che avrebbe potuto un po' migliorare con l'‟incivilimento",
    ma che avrebbe allargato, e non ridotto, il dislivello tra poveri
    sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi. Gli
    anticapitalisti non immaginarono che i lavoratori si sarebbero
    trasformati, sebbene lentamente, in risparmiatori, in investitori,
    in (piccoli) capitalisti essi medesimi. Non furono, cioè,
    considerate due esperienze storiche, che si erano svolte in senso
    contrario all'opinione marxisteggiante.
La prima esperienza era che la diseguaglianza sociale tendeva a
    ridursi là dove l'economia evolveva dal feudalesimo al
    capitalismo: eppure Marx aveva lodato la possente
    produttività del nuovo sistema ‟borghese" rispetto al vecchio
    sistema. La seconda esperienza era che il capitalismo vincente si
    dedicava di preferenza a produrre merci popolari, non di lusso. Il
    declino del capitalismo italiano, che inizia nel tardo Medioevo,
    doveva essere imputato, fra l'altro, al suo rifugiarsi nella nicchia
    sicura ma angusta dell'industria della seta, dopo aver perso la gara
    della concorrenza internazionale sui mercati ben più ampi dei
    panni di lana a basso prezzo.
Similmente la Francia, fedele all'artigianato di alta
    qualità, era perciò rimasta indietro nei confronti
    della Gran Bretagna, le cui fabbriche più meccanizzate si
    orientavano a vendere all'ingrosso merci andanti di lana, cotone,
    metallo, e così via. E pertanto la rivoluzione industriale
    del tardo Settecento iniziò in un paese, la Gran Bretagna
    appunto, che mediamente pagava il lavoro meglio di quanto avveniva
    sul Continente. Pagare meglio il lavoro significava ampliare gli
    sbocchi sul mercato interno e al contempo creare incentivi
    affinché il fatto a macchina sostituisse il fatto a mano:
    questa era la via giusta, la via del futuro.
Si aggiunga che, in quelle condizioni di sviluppo, le macchine non
    causarono, come si temeva, una disoccupazione tecnologica
    insanabile; anzi, le città più industriali attrassero
    manodopera da tutto il resto del paese. Nel 1831 Manchester era sei
    volte più popolosa di sessant'anni prima, e le pubbliche
    autorità non posero freni alle migrazioni interne (né
    tentarono di lenirne le asprezze). ‟Gli storici sono stati
    impressionati dalla spontaneità della rivoluzione
    industriale, da quanto poco dovette a una cosciente pianificazione,
    e da quanta poca assistenza ricevette dai governi. Questa [in Gran
    Bretagna], si potrebbe ridurre all'aiuto involontario dato nel XVIII
    secolo con i bassi tassi di interesse [...] e anche alla protezione
    concessa alle nuove industrie dai relitti del sistema
    protezionistico-mercantilistico [del secolo precedente]" (v. Thomis,
    1976, pp. 30-32).
Diversa è l'esperienza di altri popoli europei, come quella
    dei Tedeschi nell'Ottocento, che tentarono di annullare il ritardo
    verso i Britannici in fatto di industrializzazione sollecitando
    l'appoggio pubblico; così come, d'altronde, oltre Atlantico
    fecero gli Americani. Si ricordi che una industria arretrata,
    secondo i modelli più moderni, costituiva un handicap militare, oltre che economico. Ma bisogna distinguere tra paesi che
    si limitarono a circondare il mercato nazionale, lasciato
    relativamente libero, con barriere protettive, e paesi in cui
    l'intervento pubblico, più ambizioso, volle immischiarsi
    anche degli affari capitalistici interni, sempre allo scopo di
    guidarli verso un rapido sviluppo, anche se non sempre senza errori
    politici.
Storicamente parlando, si osserva una ambivalenza del moderno potere
    politico nei confronti dello sviluppo capitalistico privato, quasi
    unanimemente chiesto quando manca, ma giudicato assai più
    criticamente quando raggiunge un certo grado di intensità.
    Sta bene a tutti allevare l'oca dalle uova d'oro; il contrasto
    arriva quando la produzione è assicurata, ed esso riguarda la
    destinazione delle uova. Perfino Marx era convinto
    dell'opportunità dell'allevamento dell'oca capitalistica,
    purché poi le uova andassero non al godimento dei ‛borghesi',
    bensì a nutrire il socialismo subentrante, cioè
    l'erede proletario. Quando Lenin decise di ‛saltare' la fase
    capitalistica e di passare subito al socialismo e poi al comunismo,
    egli non ubbidì ai precetti marxiani.
Bismarck fu forse il primo politico che invece ascoltò Marx e
    si servì delle uova d'oro del capitalismo per costruire uno
    Stato sociale in anticipo sul socialismo, disinnescando in tal modo
    una rivoluzione ‟proletaria" incontrollabile. Le frammentarie leggi
    sociali della Gran Bretagna nella prima metà dell'Ottocento
    non ebbero che in parte questo scopo: anche i politici britannici
    temevano i movimenti rivoluzionari di sinistra: non di meno, in
    quanto rappresentanti degli interessi più dell'aristocrazia
    terriera che della nuova borghesia industriale, quei politici
    usarono le leggi sociali per regolare il lavoro nelle fabbriche e
    moderare ciò che appariva loro come la prepotenza dei
    ‛padroni del vapore'.
Il caso britannico ci ricorda ancora una volta che è una
    semplificazione pericolosa opporre il privato al pubblico e gli
    interessi economici agli interessi politici. Tali interessi, se non
    costituiscono di necessità due sfere distinte e in contrasto,
    tanto meno sono da considerarsi sfere aventi ciascuna una propria
    omogeneità e unitarietà. Il contrasto esiste spesso,
    anche tra una parte e l'altra della medesima sfera. Il fatto
    è che la Gran Bretagna del XVIII secolo, rimasta in parte
    feudale, vide la ripetizione tarda di un conflitto sociale nato fin
    dal Medioevo tra l'aristocrazia terriera, che cercava di elevare le
    sue rendite per mezzo dell'alto prezzo dei cereali, e una nascente
    borghesia cittadina, che voleva invece il pane a buon mercato per
    gli operai delle manifatture.
In Gran Bretagna, le Corn laws a protezione del grano
    provocarono mezzo secolo di opposizione borghese, prima che fossero
    abrogate nel 1846 (quando la loro importanza si era fatta minima).
    Tuttavia, è sempre possibile che i proprietari terrieri
    abbandonino posizioni superate, non ostante lo spirito tradizionale,
    e si trasformino in finanzieri, commercianti e industriali come i
    borghesi imprenditori, e in realtà non mancarono casi del
    genere nella Gran Bretagna del Settecento e più ancora
    dell'Ottocento. Braudel (v., 1977; tr. it., pp. 79-80) indica un
    precedente: ‟A Firenze, alla fine del XV secolo, l'antica
    nobiltà feudale e la nuova alta borghesia mercantile formano
    un solo corpo all'interno della élite del denaro,
    che tende a divenire logicamente anche élite del
    potere politico. In altri contesti sociali, invece, una gerarchia
    politica può soffocare le altre. È il caso della [...]
    Francia durante l'ancien régime, che riduce i
    mercanti, anche quelli più ricchi, a recitare una parte di
    secondo piano, fuori della sfera del prestigio esercitato, in prima
    linea, dalla gerarchia dominante della nobiltà".
Sempre in Francia vediamo talvolta i borghesi e la monarchia alleati
    contro la nobiltà e i suoi privilegi fiscali, prima che la
    Rivoluzione francese schieri almeno una parte della borghesia sia
    contro la nobiltà sia contro la corona borbonica. Proprio a
    Firenze le vicende della famiglia de' Medici dimostrano come la
    borghesia, anziché distruggere l'aristocrazia terriera, entri
    a farne parte, conquisti il potere politico e infine diventi
    insensibile agli ideali e agli interessi borghesi. Un po' ovunque,
    la borghesia ‛arrivata' sente il fascino dell'antica cultura
    nobiliare, così come lo sente una certa borghesia
    intellettuale che teme il confondersi dell'affarismo con il
    materialismo (poi ‛consumismo') e l'avvento di forme di vita
    degradate sul piano spirituale.
Ben inteso, la borghesia italiana, dopo la fase trionfale nel
    Medioevo dei Comuni che assurgono a Signorie, cadde in un lungo
    sonno dal quale si scosse soltanto al giungere del Risorgimento,
    quando divenne di moda il modello economico e politico britannico.
    Il conte di Cavour, anglofilo, fu il più tipico
    rappresentante di un gruppo di personaggi capaci di fondere le
    virtù nobiliari e quelle borghesi per tentare un'opera di
    ammodernamento dell'economia. Nell'Ottocento fu abbastanza
    frequente, nell'Italia del nord e del centro, il passaggio dalla
    proprietà terriera alle industrie vicine all'agricoltura (per
    esempio, l'industria della seta), di qui alla banca e al
    finanziamento di industrie meno tradizionali, fino all'industria
    metalmeccanica.
Dal modello britannico ci si scostò tuttavia perché le
    nostre industrie nascenti presero le distanze dal liberismo
    cavouriano, per ottenere la protezione pubblica nella fase
    (interminabile) della loro gracilità rispetto alle industrie
    straniere ormai adulte. Ma lo stesso modello britannico stava
    cambiando, nel senso che a Londra, a Oxford, a Cambridge, nella
    Regione dei laghi, un po' ovunque nell'isola, si faceva strada un
    sentimento anticapitalistico condiviso da una borghesia ‛arrivata',
    matura, i cui rampolli forse avvertivano un senso di colpa per le
    imprese spregiudicate dei padri e dei nonni, o comunque non
    intendevano proseguirle.
Nella Gran Bretagna della rivoluzione industriale, William Cobbett
    (1762-1835) fu forse il primo scrittore ad andare oltre la semplice
    denuncia degli aspetti negativi del capitalismo delle fabbriche, e a
    proporre un vero e proprio ritorno al passato nell'opera Cottage
      economy. Il tema ‛reazionario' appassionerà poi
    Ruskin, Morris e altri letterati ed esteti, fautori di una Old
    England, che conservasse taluni (molti) valori del feudalesimo, del
    lavoro rurale e artigianale, della country life (invero
    una country life alquanto mitizzata; v. Wiener, 1981).
    Questa reazione anticapitalistica, così diversa da quella di
    Marx, contribuì, insieme a mille altre cause, a frenare lo
    spirito industriale della Gran Bretagna meno di un secolo dopo i
    primi entusiasmi suscitati dalla macchina a vapore di James Watt, e
    in ultima analisi spostò il baricentro economico del mondo
    oltre la Manica e oltre l'Atlantico, verso la Germania e poi verso
    gli Stati Uniti.
È bene ripeterlo: quando una nazione raggiunge un certo
    livello di benessere materiale è facile che dal suo interno
    si levino voci di ‛sazietà', le quali, nell'esempio
    britannico, provennero anche da illustri e influenti economisti, da
    J. S. Mill a J. M. Keynes, i precursori dell'attuale anticonsumismo.
    Mill invocò una economia stazionaria, che si occupasse non
    più di aumentare la produzione, bensì di distribuirla
    in modo più giusto, nel senso di più equalitario.
    Analogamente Keynes, un secolo dopo, ritenne prossima e auspicabile
    una società senza preoccupazioni economiche, senza
    l'avidità del guadagno, senza lo stress della
    concorrenza di mercato.
Nelle isole britanniche, dunque, la storia registra sia il sorgere
    del capitalismo della moderna rivoluzione industriale, sia il
    sorgere di una collegata controrivoluzione culturale, non vincente,
    ma frenante. Altre culture, più efficacemente conservatrici,
    hanno a lungo ritardato, se non addirittura impedito, almeno finora,
    l'avvento di forme capitalistiche avanzate che si sarebbero potute
    copiare dalla Gran Bretagna o dall'Occidente in generale. Tali
    culture hanno spesso rinforzato il loro anticapitalismo con elementi
    religiosi.
Al riguardo, non sembra molto significativo riferirsi alle note e
    discutibili tesi di derivazione weberiana, secondo le quali il
    cattolicesimo, diversamente dal cristianesimo riformato, avrebbe
    offeso lo spirito capitalistico appunto nell'Europa (e nell'America
    Latina) prevalentemente papista. Conviene rispondere al quesito se e
    quanto la religione pesò sull'economia esaminando altre
    circostanze più radicalmente caratterizzate. Serve allo scopo
    la guerra civile in Iran, che nel 1979 portò alla fine della
    monarchia dei Pahlavī e diede il potere al leader degli
    sciiti, l'ayatollah Khumainī. Si tratta, in questo caso, della
    rivolta di un ramo dell'islamismo contro tutte le istituzioni
    occidentali, compreso quel capitalismo industriale che Riẓa Pahlavī
    provò a imitare per interesse suo e di una scarsa borghesia
    locale in cerca di modernità. Il fallimento dei modernisti
    non è isolato nel quadro di un islamismo nelle cui schiere
    operano rigidi fondamentalisti e tradizionalisti che dell'Occidente
    sembrano apprezzare solamente la tecnologia bellica, non certo un
    consumismo giudicato pericoloso per la morale e il vecchio costume.
Più a est dell'Islam, l'immensa Cina sovrappopolata, non
    cristiana e non islamica, fu per secoli, e anche dopo la rivoluzione
    industriale britannica, chiusa in se stessa dall'orgoglio e dal
    timore di contaminazioni, avversa a ogni rinnovamento economico,
    almeno fino al rovesciamento nel 1911 dell'ultima dinastia imperiale
    (Manciù) e all'inizio della repubblica. La paura
    dell'occidentalizzazione, e quindi del capitalismo, si
    accompagnò spesso alla paura di perdere la propria
    indipendenza politica e la propria identità storica
    (culturale e finanche religiosa) per colpa di ‛barbari' prepotenti e
    invadenti.
Il Giappone, in Oriente, fu il primo a comprendere il paradosso che
    la miglior difesa dall'Occidente può essere combatterlo con
    le sue armi, ossia occidentalizzarsi, sia pure con prudenza
    nazionalistica: questa fu la soluzione Meiji (‟Governo illuminato")
    del 1868. I frutti, raccolti dapprima in campo militare, furono
    quasi immediati: il Sol Levante vinse la guerra contro la Cina nel
    1895 e quella contro la Russia zarista nel 1905. Dopo di che anche
    la Cina si avviò, metaforicamente, sia pure con lentezza e
    riluttanza, verso l'Occidente.
Intanto, proprio in Europa, dopo la prima guerra mondiale si erano
    formati regimi nuovi, che offrivano varianti del modello occidentale
    particolarmente appetibili al resto del mondo, perché del
    capitalismo anglosassone, il più temuto, rifiutavano alcune
    implicazioni sociali e politiche. Oltre all'Unione Sovietica - la
    cui economia antiborghese, sottoposta per intero a piani statali di
    industrializzazione forzata, è dubbio meriti di mantenere il
    nome di capitalismo - si ebbero l'esperimento fascista nell'Italia
    di Mussolini e quello nazionalsocialista nella Germania di Hitler.
    L'uno e l'altro si proposero come terza via tra il capitalismo
    anglosassone e il comunismo sovietico, una terza via che manteneva
    una certa dose di proprietà privata del capitale e, pur se in
    forma ridotta, il mercato di concorrenza. Alla lotta di classe e
    perfino ai contrasti della libera contrattazione dei salari si
    sostituiva una pace sociale al servizio dei superiori interessi
    nazionali. La libertà economica e la libertà politica
    si restrinsero di pari passo, proprio mentre il capitalismo di
    stampo anglosassone incappava impreparato nella grande depressione
    iniziata nel 1929.
Il Giappone (e una parte del mondo islamico) si orientò verso
    alleanze coi paesi del fascismo e del nazismo; la Cina, tentennando,
    verso alleanze coi paesi del comunismo, il che tuttavia non la
    salvò da una invasione militare giapponese nel 1937, che nel
    1940 proseguì in Indocina e in altre parti dell'Asia. Nel
    1939 la Germania invase la Polonia; nel 1940 invase la Francia e
    altre parti dell'Europa occidentale, con l'appoggio italiano (in
    vista di una resa della Gran Bretagna); nel 1941 invase la Russia,
    non ostante il patto di non aggressione nazi-sovietico, firmato nel
    1939. A questo punto la storia del capitalismo si fonde in pieno con
    la storia della seconda guerra mondiale, della quale tutti
    conosciamo gli esiti.
I veri vincitori, lo sappiamo, furono gli Stati Uniti, che dal 1944
    propiziarono l'adozione del loro modello di capitalismo in Europa e
    in Asia, ottenendo pieno successo in Germania, in Italia, in
    Giappone (i paesi vinti), ma non ovviamente in Unione Sovietica e
    nei paesi da essa controllati in Europa orientale, né in
    Cina, zone sempre legate al comunismo. Per non ripetere gli errori
    compiuti dopo la prima guerra mondiale, gli Stati Uniti non chiesero
    ai vinti onerose riparazioni di guerra, bensì ne aiutarono la
    ricostruzione economica, pensando giustamente che fosse loro
    interesse dimostrare a tutti i popoli del pianeta la
    superiorità, nel procurare benessere, del capitalismo
    ‛all'americana' (consumistico, liberaldemocratico), non solo
    rispetto al nazismo e al fascismo, ma anche rispetto al comunismo.
    La dimostrazione fu in Giappone tanto efficace da rendere tale paese
    un forte concorrente degli Stati Uniti nel commercio internazionale.
Resero ancor più convincente la dimostrazione le serie
    difficoltà politico-economiche in cui caddero verso la fine
    degli anni ottanta la Russia e i suoi satelliti; difficoltà
    che portarono al rapido dissolvimento dell'Unione Sovietica e alla
    sua sostituzione con una Comunità di Stati Indipendenti.
    Finiva nel caos, dopo un percorso fatto di enormi speranze, crudeli
    sacrifici e devastanti disillusioni, il maggior esperimento
    ‛scientifico' compiuto dall'umanità per realizzare, in
    opposizione al capitalismo di mercato, una sorta di ritorno al
    paradiso terrestre: una società senza sfruttamento dell'uomo
    sull'uomo, una società unitaria e liberata progressivamente
    da tutti i mali dell'economia, compresi il bisogno e il lavoro
    costrittivo.
L'esperimento sovietico terminò (senza che si possa escludere
    una sua ripresa in forme variate) all'inizio degli anni novanta con
    una parziale privatizzazione del capitale produttivo, ottenuta
    distribuendo gratis ai lavoratori buoni negoziabili e
    rappresentativi del patrimonio delle aziende. Anche la Cina popolare
    sembra adottare oggi, cautamente, alcune istituzioni del capitalismo
    di mercato, ma dando la precedenza alla stabilità politica,
    in modo da evitare gli inconvenienti in cui è caduta l'ex
    Unione Sovietica a seguito di mutamenti forse troppo precipitosi.
    È importante osservare che i paesi capitalistici occidentali
    non hanno, di regola, usato la violenza, nemmeno nei cosiddetti
    periodi di guerra fredda, per ottenere la caduta del comunismo
    all'Est, al quale invece sono stati talvolta forniti aiuti economici
    nel quadro di misure umanitarie o puramente commerciali.
Rimangono due Europe: quella dell'Est, non più compatta come
    prima, quando esisteva la ‛cortina di ferro' (l'ex Germania
    Orientale con capitale a Berlino si è addirittura riunita
    alla Germania Occidentale con capitale a Bonn); e quella dell'Ovest,
    quasi per intero tenuta insieme dalla Comunità Economica
    Europea o Unione Europea che dir si voglia. Nei dieci anni fino al
    1994, durante i quali l'unificazione economica dell'Europa
    occidentale è stata guidata dal francese Jacques Delors, un
    ex sindacalista socialista, essa ha colorato il capitalismo di varie
    tinte. A una maggiore libertà di mercato in alcuni settori
    produttivi, sottoposti a controlli antitrust, si affianca una
    pletora di regole dirigistiche (le cosiddette direttive) in altri
    settori, per esempio l'agricoltura.
A parte la tradizionale simpatia francese per il dirigismo alla
    Colbert, l'azione politica di Delors si direbbe ispirata a due
    finalità: proteggere l'Europa dall'aggressività
    commerciale dei capitalismi americano e giapponese; evitare che,
    all'interno dell'Europa, la robustezza del capitalismo tedesco
    degeneri in egemonia. Dunque, non ostante l'avvento di grosse
    imprese multinazionali o transnazionali, il cui raggio d'azione
    è mondiale, il nazionalismo continua a recitare una parte nel
    commercio internazionale. La completa libertà di concorrenza,
    senza interferenze pubbliche di tipo protezionistico, non esiste
    all'interno di alcuna singola nazione o comunità di nazioni;
    e tanto meno in ambiti più vasti ed eterogenei.
La fine della guerra fredda tra Ovest ed Est e la fine del
    colonialismo classico non hanno cancellato le frizioni
    internazionali. Il problema del Terzo Mondo ha sostituito quello
    coloniale; un Terzo Mondo talvolta povero fino alla fame,
    sovrappopolato e indignato contro la ricchezza e il potere dei paesi
    industrializzati e ricchi. Ma la situazione non è statica, e
    specialmente nell'area asiatica del Pacifico un buon numero di
    economie sta trovando la strada per uscire dal sottosviluppo, e in
    questo caso seguono per lo più l'esempio del Giappone: una
    occidentalizzazione basata sul capitalismo e rivolta principalmente
    a esportare nei paesi ricchi merci lavorate (e non solo materie
    prime) a basso costo, contando sull'ancor misero livello dei salari.
I Giapponesi hanno già superato da tempo la fase dei bassi
    salari, dopo la quale la concorrenza si vince esclusivamente in
    virtù di un primato tecnologico e merceologico che permetta
    di produrre e vendere sui mercati mondiali merci nuove e complesse
    non subito imitabili dai concorrenti. Stati Uniti, Giappone e Unione
    Europea devono, in questa prospettiva, puntare più che mai su
    un capitalismo con un ritmo di innovazione tecnologica e
    merceologica di massima intensità. La divisione
    internazionale del lavoro lascerà allora ai paesi in via di
    sviluppo la possibilità di specializzarsi in merci ad alto
    contenuto di lavoro.
Complicazioni sorgono dal fatto che gli elevati costi di produzione
    nei paesi ricchi rischiano di non essere mai compensati dalla
    maggiore produttività del lavoro, se derivano anche dagli
    oneri imposti dallo Stato sociale in senso ampio (inclusivi delle
    spese per l'ambiente). E già oggi si profilano forme inedite
    di protezionismo dei paesi ricchi, che rifiutano prodotti dei paesi
    in via di sviluppo accusando questi ultimi di non rispettare norme
    umanitarie, ecologiche, ecc. Ulteriori complicazioni riguardano le
    migrazioni, legali o clandestine, di uomini e donne in cerca di
    lavoro dai paesi poveri, ad alto tasso di natalità, verso i
    paesi ricchi, a basso tasso di natalità.
Dette migrazioni sconfessano le ipotesi malthusiane per cui il tasso
    di natalità avrebbe dovuto crescere, non diminuire, col
    miglioramento delle condizioni di vita. Invece, nei paesi a sviluppo
    avanzato, Italia compresa, la popolazione al netto degli immigrati
    tende a farsi stazionaria, con una preponderanza dei vecchi sui
    giovani, degli improduttivi sui produttivi. Di qui, nuove sfide al
    capitalismo, che nell'Ottocento si giovò di condizioni
    demografiche affatto diverse dalle attuali. Lo stesso Stato sociale
    entra in crisi se deve fornire pensioni e cure sanitarie a una
    popolazione che mediamente invecchia sempre di più.
    
2. Profitti e capitalisti
Il profitto costituisce un altro motivo di equivoco sulla natura del
    capitalismo. Dalla proposizione (esatta, entro certi limiti) che i
    capitalisti nel mercato cercano il profitto si è tratta la
    deduzione (errata) che soltanto il sistema capitalistico conosca il
    profitto in vasta misura. In realtà, qualunque sistema
    economico, compreso quello comunista, ha inevitabilmente esperienza
    del profitto, e affermare il contrario è contentarsi di
    restare alla superficie delle cose. Caduta irrimediabilmente la
    teoria del valore-lavoro di Marx, e caduta da ultimo anche a opera
    di economisti di sinistra come Piero Sraffa (1898-1983); avendo
    rinunciato a identificare nel lavoro l'unica ‟sostanza
    valorificante", il profitto non può più essere ridotto
    a inevitabile furto perpetrato dai capitalisti sfruttatori a danno
    dei lavoratori dipendenti. Se così fosse (ma non è),
    avrebbero ragione coloro i quali vedono nel profitto un reddito
    destinato a scomparire là dove, per ipotesi, scompaia lo
    ‟sfruttamento", cioè appunto nel comunismo.
Così non è, perché invece il profitto esiste
    sempre, positivo, nullo o negativo, ogni volta che la produzione
    esige che qualcuno anticipi dei costi in attesa di ricavi futuri e
    incerti. E questo è un requisito tecnico universale, la
    produzione non essendo mai istantanea: per esempio, il forno da pane
    deve precedere, come fattore produttivo disponibile, il momento
    della cottura. Ebbene, il profitto, calcolabile soltanto ex
      post, a consuntivo, è semplicemente la differenza tra
    i ricavi effettivi e i costi, i quali ricavi effettivi, è
    ovvio, possono essere diversissimi da quelli sperati nel momento
    dell'anticipazione dei costi. Il grano che si semina è un
    costo anticipato, con la speranza che, mesi dopo, si ricavi un
    raccolto di grano molto superiore al seme; e l'uso del raccolto
    presuppone che già esistano il mulino e il forno. Però
    la quantità del ricavo sperato è talvolta ridotta da
    accidenti o vere e proprie catastrofi, contro le quali non è
    possibile assicurarsi.
Insomma, chi anticipa, chiunque egli sia, corre rischi che è
    difficile o impossibile scansare e che sono fastidiosi. Nel
    capitalismo, chi anticipa è di solito un individuo
    volontario, un capitalista che anticipa per sé o a favore di
    altri. Anticipa per sé, ad esempio, un coltivatore diretto
    che risparmi una parte del suo grano, ossia non lo consumi subito
    per la sua alimentazione, ma lo conservi per seminarlo con le sue
    mani. Anticipa per gli altri, sempre ad esempio, l'agricoltore che
    compra il seme e paga il salario del seminatore. Chi anticipa per
    gli altri rende un favore agli altri: il venditore del seme ne
    riceve il valore immediatamente, senza attendere il prossimo
    raccolto; il seminatore riceve immediatamente il salario col quale
    si procura il pane, senza attendere che maturi quanto egli ha
    seminato. In cambio, il capitalista farà suoi il ricavo lordo
    e il profitto del raccolto a venire, se esso verrà e nella
    misura in cui verrà.
Una economia collettivistica ha tale nome perché è la
    collettività intera a effettuare, volente o nolente, le
    anticipazioni e, secondo un piano politico, a sopportarne i costi e
    goderne i ricavi, compreso il profitto (che però non è
    necessariamente positivo). Il piano è più o meno
    democratico quanto maggiore o minore è la partecipazione
    della collettività a prepararlo e realizzarlo. Ma
    l'esperienza dell'Unione Sovietica insegna che specialmente un piano
    centralizzato ha complessità tecniche che restringono fin
    quasi ad abolirla la partecipazione diretta del popolo, cioè
    degli anticipatori. I quali di solito ignorano perfino con quale
    quota individuale contribuiscono agli anticipi (all'accumulazione
    del capitale, con sacrificio dei propri consumi immediati:
    l'accumulazione è decisa dallo Stato, ma il sacrificio dei
    consumi è di persone in carne e ossa) e con quale profitto
    sono compensati, se lo sono. Se si ama la bizzarria, si può
    dire che l'Unione Sovietica aveva relativamente più
    capitalisti degli Stati Uniti, ma capitalisti senza poteri,
    finché la Russia non ha cominciato le privatizzazioni e la
    consegna ai lavoratori di buoni (di ‛azioni') gratuiti e
    negoziabili.
Marx andò molto vicino a comprendere la vera natura del
    profitto, o forse la comprese in pieno senza però trarne le
    conseguenze che avrebbero distrutto la sua teoria del valore-lavoro.
    In Lavoro salariato e capitale si legge (v. Marx 1849; tr.
    it., pp. 31 e 38): ‟Il tessitore ha ricevuto il suo salario molto
    tempo prima che la tela sia venduta, forse molto tempo prima che
    essa sia tessuta. Il capitalista, dunque, paga questo salario non
    con il denaro che egli deriverà dalla tela, ma con denaro di
    anticipo [...]. È possibile che il capitalista non trovi
    nessun compratore per la sua tela. È possibile che dalla
    vendita di essa egli non ricavi neppure il salario. È
    possibile che egli la venda in modo molto vantaggioso in confronto
    col salario del tessitore. Tutto ciò non è affare del
    tessitore".
Pertanto, il tessitore riceve un servizio dal capitalista, proprio
    come lo riceve chi incassi immediatamente il valore di una cambiale
    con scadenza futura e firma di un debitore non si sa quanto
    solvibile. Una banca può anticipare la somma, ma nessuna
    banca anticiperà l'intera somma; ogni banca tratterrà
    per sé uno sconto, con la speranza di coprire il suo rischio
    e guadagnare per il servizio reso al creditore impaziente di
    incassare. Analogamente, l'industriale di Marx, che rende il
    servizio di anticipazione all'operaio tessitore, in cambio si
    aspetta un profitto, ma è il mercato a decidere, con tutti
    gli accidenti che possono registrarsi. In un mercato ‛ideale' (un
    mercato reale tutt'al più lo approssima), il profitto
    dovrebbe essere il voto, che gli utilizzatori della produzione,
    cioè infine le famiglie consumatrici, danno ai singoli
    produttori in concorrenza: alto gradimento, alto voto, alto
    profitto; o al contrario, basso gradimento, basso voto, profitto
    basso, nullo o negativo (perdita). Questo va detto, ben inteso,
    lasciando un posto alla fortuna.
In tal senso ha ragione Giovanni Sartori quando scrive che ‟il
    mercato è una entità crudele" e che ‟la sua legge
    è quella del successo del più capace [o del più
    fortunato]"; ma ‟la crudeltà del mercato è una
    crudeltà sociale", poiché ‟il mercato è cieco
    di fronte agli individui". Esso ‟è invece una spietata
    macchina al servizio della società" (v. Sartori, 19932,
    pp. 225-226). Elimina, o dovrebbe eliminare, i produttori peggiori,
    e anche semplicemente gli sfortunati, nell'interesse dei
    consumatori. Se non che la concorrenza libera e leale dei produttori
    è in pratica una rarità: il liberista deve contentarsi
    di gare imperfette per quanto concerne sia il numero dei
    partecipanti ammessi, sia i criteri per distinguere tra vincitori e
    vinti.
Contro la sportività della competizione nelle economie di
    mercato si coalizzano e intervengono spesso capitalisti, politici e
    sindacalisti, giustificandosi con l'opportunità di difendere
    l'occupazione delle maestranze innocenti presso i produttori in
    pericolo, o con altri argomenti. Il concetto di ‛diritto al lavoro'
    ha fatto strada nel capitalismo moderno, a danno del dovere di
    lavorare nel migliore dei modi per produrre cose utili agli altri (i
    lavoratori pagati a lungo per produrre cose inutili finiscono col
    diventare, anche se innocenti, parassiti sociali). I capitalisti ‛in
    attacco' hanno però atteggiamenti ben diversi da quelli ‛in
    difesa': i primi auspicano la libertà di gareggiare tanto
    quanto i secondi la aborrono. E quando l'attacco agli avversari e
    rivali è portato con l'arma di potenti innovazioni
    tecnologiche e merceologiche, le probabilità di successo
    degli attaccanti sono elevate nel lungo periodo, benché la
    dimensione iniziale degli attaccanti possa essere piccola rispetto a
    quella degli attaccati.
È la lotta del nuovo contro il vecchio. Schumpeter ha
    insegnato quanto Marx aveva già intravisto, ossia che il
    capitalismo di mercato ha una missione di distruzione creatrice,
    distruzione del vecchio e creazione del nuovo in nome del progresso.
    Ma la distruzione del vecchio non è mai indolore e senza
    resistenze conservatrici. Per contro, la creazione del nuovo
    è spinta non soltanto dalla ricerca del profitto,
    bensì pure, talvolta, dalla frenesia umana (borghese) del
    nuovo per il nuovo; frenesia più vibrante in certi popoli e
    in certe epoche, meno vibrante, se non assente, in civiltà e
    periodi statici. Le economie non di mercato tendono a essere meno
    progressive, perché il profitto, sebbene presente, è
    calcolato e distribuito in modo politico, con prezzi politici, e
    cioè non automaticamente a favore degli innovatori di
    successo, i quali magari mancano addirittura della libertà di
    mettere alla prova le loro idee; e perché la stabilità
    dell'occupazione fa premio sulla ricerca dell'alta
    produttività del lavoro e degli alti salari.
Pareto amava illustrare questo punto citando il caso di Henry
    Bessemer (1813-1898), inventore inglese di un nuovo processo
    siderurgico che gli esperti bocciarono ripetutamente. Per sua
    fortuna, la Gran Bretagna, in quanto economia libera, concesse a
    Bessemer di costituire una propria acciaieria e così
    dimostrare che, se gli esperti gli davano torto, il mercato gli dava
    ragione. Casi del genere sono frequenti nella storia economica.
    All'inizio del nostro secolo, l'automobile a benzina era in
    competizione con l'auto elettrica e l'auto a vapore, con non pochi
    esperti a favore di quest'ultima (forse perché il vapore
    dominava nel settore ferroviario). Tali esperti si sbagliavano, come
    oggi tutti sappiamo ma come allora non si sapeva. L'americano Lee De
    Forest, che contribuì a realizzare la televisione, venne
    condannato dagli esperti e dai tribunali quale truffatore:
    prometteva l'‛impossibile', la visione a distanza.
Una economia pianificata da esperti risponde a una concezione della
    vita opposta a quella della teoria del capitalismo di mercato, pur
    quando si ammettesse la partecipazione al profitto degli esperti.
    Affidare l'economia nazionale al ‛miglior' progetto dei ‛migliori'
    esperti implica credere che il futuro sia costruibile, in modo
    razionale, e dominabile dalla nostra volontà. La filosofia
    del libero mercato è affatto diversa, e Hayek è stato
    chiaro in proposito: ‟Se potessimo sapere non solo tutto quanto
    tocca la soddisfazione dei nostri desideri di adesso, ma pure i
    bisogni e le aspirazioni future, resterebbe poco da dire in favore
    della libertà [...]. Ma siccome ogni individuo sa poco e, in
    particolare, raramente sa chi di noi sa fare meglio, ci affidiamo
    agli sforzi indipendenti e concorrenti dei molti, per propiziare la
    nascita di quel che desidereremo quando lo vedremo" (v. Hayek, 1960;
    tr. it., p. 48).
Ciò non assicura alcuna marcia verso un ‛ottimo': ‟In quanto
    scoperta di cose ancora ignote, il progresso ha conseguenze
    necessariamente imprevedibili [...]. La mente umana non può
    prevedere né deliberatamente forgiare il proprio futuro. Le
    sue conquiste consistono nello scoprire dove ha sbagliato" (ibid.,
    pp. 60-61). Non assicura nemmeno il profitto al tecnico che abbia
    fornito una innovazione utile, perché dell'utilità
    bisogna convincere il mercato, solitamente con l'ausilio di un abile
    imprenditore capitalista. Il tecnico James Watt si alleò con
    l'imprenditore Matthew Boulton per il lancio della macchina a
    vapore. Rari sono gli inventori alla Edison, che sono
    inventori-imprenditori. A volte il profitto non arriva perché
    l'innovazione è utile ma eccessivamente precoce: Charles
    Goodyear scoprì (casualmente) i vantaggi della
    vulcanizzazione della gomma nel 1839, ma finì i suoi giorni
    in miseria; egli avrebbe dovuto attendere la fine del secolo e
    l'avvento del pneumatico per automobili per poter sfruttare
    convenientemente la sua scoperta. (Per i rapporti tra tecnici, managers,
    imprenditori e politici, v. anche Salsano, 1987).
I diritti d'autore hanno in genere la qualità del profitto e
    insegnano, fra l'altro, che un libro o una musica lodata dalla
    critica può rendere molto meno di un'opera ‛volgare'.
    Ciò che piace al volgo, alla folla, alla moltitudine ha
    successo nel capitalismo consumistico, il quale, dunque, ha un lato
    ‛democratico' irritante per i dotati di gusti elitari. Tuttavia, il
    mercato è pronto a soddisfare anche i desideri dei raffinati,
    purché costoro siano disposti a pagare il costo o meglio il
    valore di mercato di quanto domandano, salvo che non lo paghi per
    essi un mecenate pubblico o privato. Il mercato vende addirittura
    libri di propaganda contro il mercato, l'attrazione dei capitalisti
    verso il profitto superando spesso la loro eventuale fedeltà
    al sistema economico in cui operano.
Questo non autorizza però a concludere che il movente dei
    capitalisti (categoria d'altronde assai eterogenea) sia il lucro
    monetario e nient'altro. Il profitto è indispensabile per
    finanziare nel modo più comodo lo sviluppo delle imprese di
    successo, ma il fine dello sviluppo è anche extra-economico,
    se si bada al potere per il potere, alla notorietà, alla
    soddisfazione delle proprie ambizioni e dell'amor proprio, al
    piacere di realizzare un'opera prestigiosa. C'è chi innova
    per il piacere di innovare e gareggia per il piacere di gareggiare.
    Al limite, è concepibile un capitalismo di mercato che
    continui a funzionare sebbene la media generale del profitto sia
    negativa (la perdita sia cioè più probabile del
    guadagno): basta che un certo numero di capitalisti mantenga la
    speranza di fare meglio della media. Non diverso è il
    perdurare dei concorsi sportivi, come in Italia il totocalcio, in
    cui notoriamente chi li organizza ha la certezza di guadagnare alle
    spalle degli scommettitori che seguitano a scommettere in quanto
    speranzosi, non ingenui.
La legge marxista della caduta del tasso di profitto fu giustamente
    definita dal suo stesso autore legge ‟tendenziale", quindi di scarso
    interesse scientifico, suscettibile di essere smentita da forze
    specifiche in contrasto con la tendenza generale. Difettano le
    statistiche storiche sul tasso di profitto nei maggiori paesi
    capitalistici: è una grandezza difficile da misurare ed
    estremamente oscillante nel tempo e nello spazio, per cause
    congiunturali o d'altro tipo. Non pare tuttavia che il profitto sia
    venuto a mancare con modalità tali da compromettere la
    sopravvivenza del capitalismo, là dove esso è ben
    impiantato: non ci sono sintomi evidenti di una sua prossima morte
    naturale (la soppressione violenta, è ovvio, non si
    può mai escludere).
La grande crisi economica del 1929-1936 indusse alcuni a
    identificarla quale fase finale del capitalismo di tipo
    anglosassone. Crisi del genere (deflazionistiche) sempre più
    gravi e frequenti avrebbero dovuto caratterizzare il capitalismo
    maturo e portarlo a uno stadio terminale, in cui la domanda
    effettiva di prodotti sul mercato sarebbe stata cronicamente
    inferiore alla capacità produttiva dei capitalisti privati.
    Keynes delineò i tratti di uno pseudocapitalismo futuro
    regolato da interventi pubblici sia sulla domanda sia sull'offerta,
    così che il rischio imprenditoriale si riducesse al minimo e
    il profitto fosse sostituito da una mera retribuzione del lavoro
    dirigenziale e organizzativo in una economia prevalentemente
    stazionaria.
Altri uomini di cultura, fra i quali di recente il filosofo Emanuele
    Severino, rivisitano i ricorrenti timori malthusiani per concludere
    che il capitalismo è una forma di produzione ‟in procinto di
    avviare un processo irreversibile di distruzione della Terra e di se
    stessa" (v. Severino, 1993, p. 78). E ancora: ‟Il capitalismo sta
    distruggendo se stesso. Sta riuscendo a fare quello che il
    comunismo, la democrazia, il cristianesimo non sono riusciti e non
    riescono a compiere [...]. Il capitalismo è costretto ad
    assumere come scopo primario non più il profitto, ma la
    continua innovazione tecnologica che ha il compito di garantirlo.
    Insensibilmente si sta andando verso un'epoca in cui il capitalismo,
    non avendo più come scopo primario il profitto, è
    capitalismo solo in apparenza, mentre in realtà è
    tecnocrazia" (ibid., pp. 65-67).
In effetti, per ora, non vi sono prove storiche irrefutabili che il
    capitalismo, maturando, si impaludi vieppiù in crisi
    deflazionistiche o di ristagno della domanda; al contrario,
    l'inflazione è il suo stato normale. Può darsi che
    proprio l'aumento della spesa pubblica propiziato da Keynes abbia
    salvato il capitalismo, come qualche economista sostiene; ma
    è certo che Keynes sottovalutò (magari volutamente) la
    capacità dell'innovazione, nel campo dei beni di consumo, di
    creare, con l'appoggio della pubblicità commerciale, nuova
    domanda effettiva. Quanto a Severino, gli è stato ribattuto
    che l'innovazione trasforma la Terra, non la finisce. Insieme ai
    beni di consumo prima inesistenti, si inventano le risorse naturali
    per produrli, risorse prima sconosciute o inservibili. Nella
    prospettiva capitalistica le risorse naturali non termineranno mai,
    se non terminerà l'attitudine della nostra intelligenza a
    render utile quanto non lo era.
Nessuno nega, s'intende, l'esistenza di problemi ecologici e la
    necessità urgente di una tecnologia che ne tenga conto e
    contribuisca a risolverli. Se in tal modo avremo una tecnocrazia,
    anziché un capitalismo, è questione solo definitoria;
    ma il capitalismo che conosciamo è sempre andato, fin dalle
    origini, sottobraccio a forme tecnocratiche. Le quali, se fossero
    tanto contrastanti col capitalismo quanto presume Severino, ora non
    porterebbero al declino di tale sistema economico, giacché
    non gli avrebbero nemmeno consentito di nascere.
    
3. L'organizzazione capitalistica
Il capitalismo ha affrontato e per lo più risolto formidabili
    problemi organizzativi, i quali si manifestarono già nelle
    fasi iniziali dell'evoluzione del sistema e crebbero di numero e di
    importanza col passar del tempo. Adam Smith li teorizzò
    all'alba della rivoluzione industriale distinguendo tra aumento
    delle dimensioni del mercato e aumento delle dimensioni di impresa.
    Egli vedeva con favore l'aumento delle dimensioni del mercato,
    premessa per migliorare la divisione del lavoro e raccogliere i
    frutti della specializzazione. L'economista scozzese era invece
    sospettoso verso l'ampliamento delle dimensioni d'impresa, per
    timore che si formassero monopoli, concentrazioni eccessive di
    potere e organismi inefficienti, in quanto burocratizzati.
Quest'ultima preoccupazione fu pure, successivamente, di Schumpeter,
    che giunse tanto in là da prevedere un tramonto del
    capitalismo imputabile al moltiplicarsi di imprese-dinosauro, troppo
    pesanti e lente nei riflessi nervosi, troppo vaste perché
    ‟l'occhio del padrone" potesse controllarle. Schumpeter vide
    inevitabile un inasprimento dei conflitti di interesse tra
    proprietà e direzione, tra azionisti e managers; ed
    egli non fu il solo a trattare il tema, che anzi ebbe un lungo
    periodo di moda durante il quale fu voltato e rivoltato (basti
    pensare a The managerial revolution di James Burnham - v.,
    1941 - ristampato varie volte).
L'aumento delle dimensioni d'impresa è effettivamente
    avvenuto con lo sviluppo capitalistico e non solo per la ragione
    già osservata da Marx ed esposta con la pittoresca
    espressione: ‟Espropriazione del capitalista da parte del
    capitalista". Egli riteneva che i capitali più grossi
    avrebbero sconfitto quelli minori, nella gara concorrenziale: la
    maggiore scala della produzione avrebbe ridotto i costi unitari
    rendendo più a buon mercato le merci. Questo è vero,
    ma è altrettanto vero che i vantaggi di scala hanno un
    limite, variabile da caso a caso, oltre il quale possono
    trasformarsi in svantaggi. Quanto alla gara concorrenziale, accade
    talvolta (per esempio nel mercato dell'automobile) che essa inizi
    con una moltitudine di produttori, i quali sono selezionati nel giro
    di anni o di decenni finché poche grosse imprese sopravvivono
    sul mercato (oligopolio), o, raramente, una sola (monopolio). Se non
    che la gara non termina mai, e agli oligopolisti e al monopolista
    difficilmente è consentito dormire sugli allori.
La presenza di numerose piccole imprese in un settore produttivo
    indica di solito l'esistenza di un mercato ‛giovane', fondato su
    novità tecnologiche e merceologiche recenti o ancora
    sperimentali. L'oligopolio o il monopolio (temporaneo) è
    invece tipico di un mercato ‛maturo'. Si badi che, in assenza di
    protezioni legali, il monopolio è quasi sempre temporaneo e
    mai assoluto, nel senso che se esiste in un settore non esiste in
    altri settori vicini e affini. Per spiegarci meglio: un ipotetico
    monopolio del teatro sarebbe stato infranto dall'avvento della
    cinematografia, e un ipotetico monopolio cinematografico avrebbe
    subito la stessa fine con l'avvento della televisione. Un monopolio
    non dura, salvo che esso rinunci a sfruttare la sua posizione. Il
    cartello mondiale della dinamite, fondato da Alfred Nobel,
    durò fin dopo la prima guerra mondiale (quando ormai i
    brevetti erano decaduti da un pezzo), perché aveva come
    regola di ridurre il prezzo di vendita a ogni sostanziale incremento
    della domanda. Du Pont, che era membro del cartello, applicò
    lo stesso criterio per altri suoi prodotti brevettati. Nel 1920
    l'Allied Chemical sembrava invincibile negli Stati Uniti, invece la
    Du Pont la sorpassò.
Non è comunque sempre vero che nel mercato i pesci grossi
    mangiano i pesci piccoli. Gli esempi storici del contrario sono
    innumerevoli e testimoniati da una estesa letteratura (v., ad es.,
    Drucker, 1985). Non solo molte grandi imprese si servono di numerosi
    piccoli e medi fornitori indipendenti (il cosiddetto ‛indotto'), ma
    accade che piccole e medie imprese, più agili, battano le
    grandi rivali; abbastanza di recente, quando era diffusa l'opinione
    che il futuro fosse delle grandi acciaierie a ciclo integrale, i
    cosiddetti micro-mills hanno dimostrato il contrario: le
    piccole imprese riescono infatti ad accrescere la produzione grazie
    al vantaggio di poter essere immediatamente sfruttate al cento per
    cento, contrariamente alle nuove grosse unità poco utilizzate
    per anni e anni.
Nel settore modernissimo dell'elettronica, alcune grosse
    società elettriche dal 1949 al 1955 cercarono di produrre computers in vari paesi sviluppati: nel 1970, tuttavia, erano quasi tutte
    fuori dal mercato, a vantaggio di produttori diversi che nel 1949
    non esistevano o erano di dimensioni relativamente ridotte. Nel 1949
    nessuno avrebbe previsto che l'IBM si sarebbe imposta su concorrenti
    che, all'epoca, avevano dimensioni colossali al suo confronto.
    Né era prevedibile che il personal computer della
    Apple avrebbe avuto origine in un garage per iniziativa di due
    tecnici. Né ancora che un giovane americano di nome Bill
    Gates, nato nel 1956, a sedici anni avrebbe fondato a Seattle una
    azienda destinata a diventare la Microsoft, la quale, grazie alle
    invenzioni elettroniche del fondatore, occupava, nel 1994, circa
    52.000 dipendenti distribuiti in 52 paesi.
D'altronde, le dimensioni d'impresa vanno giudicate non in assoluto,
    bensì in rapporto al progresso dei metodi e dei mezzi
    organizzativi, nonché in rapporto alle dimensioni del mercato
    globale. Proprio l'elettronica consente oggi di gestire con
    semplicità complessi sistemi di telecomunicazione e di
    elaborazione dei dati, che aumentano il potere degli organizzatori.
    ‛Miracolosa' può essere detta l'organizzazione dell'Impero
    romano, se si bada ai mezzi disponibili allora; adesso, senza
    ‛miracoli', si può fare molto di più con meno fatica.
    Un esempio: la Swissair ha trasferito a Nuova Delhi, in India, gran
    parte dell'amministrazione, per risparmiare sui costi; l'elettronica
    pone l'India a portata di mano (anche se ciò non assicura che
    sia sempre evitabile la formazione di una burocrazia elettronica
    tanto ingombrante quanto quella delle mezze maniche di una volta).
Maggiori dimensioni d'impresa sono poi suggerite dalla
    opportunità di mantenere quanto meno costante la quota di
    mercato di ogni singolo produttore che si trovi di fronte a un
    mercato in espansione. La rapidità di questa espansione
    può consigliare che le dimensioni d'impresa crescano mediante
    concentrazioni e fusioni di diverse aziende. Va ricordato che
    l'ampliamento di un settore di mercato non è, di solito, un
    mero fenomeno quantitativo: avvengono simultaneamente cambiamenti
    nella composizione qualitativa del settore, o si ha la nascita di
    nuovi settori, perché migliora la divisione del lavoro e si
    propizia la nascita di nuove specializzazioni. Quindi si fa
    più comune l'impresa che opera in più settori, anche
    non strettamente affini, con diverse quote di mercato in ognuno di
    essi. In alcuni settori di alta specializzazione la quota di mercato
    (mercato parziale), può salire verso il 100% senza che questo
    costituisca un fatto abnorme. (Non ci occupiamo della questione
    statistica di come misurare le dimensioni d'impresa: numero di
    occupati, fatturato, valore aggiunto, ecc.).
Si è molto discusso se il progresso tecnologico e
    merceologico sia favorito o no dalle grandi dimensioni d'impresa. In
    parte abbiamo già preso posizione in materia: non vi sono
    regole sicure. Certo, le grandi dimensioni d'impresa consentono
    l'esistenza di grandi laboratori di ricerca; tuttavia, l'invenzione
    o la scoperta nasce pur sempre nel cervello di un singolo individuo,
    e non è detto che costui tragga vantaggio dall'operare in
    squadra. Peraltro, raramente il merito di una scoperta o invenzione
    è attribuibile per intero a un unico individuo: ogni studioso
    si avvale del lavoro di innumerevoli predecessori; ma è
    possibile e non raro che il ‛di più', il breve o lungo passo
    avanti, sia opera individuale di un ricercatore.
Va da sé che il ricercatore talvolta agisce come privato,
    talaltra agisce in collegamento con strutture pubbliche. La ricerca
    cosiddetta di base, particolarmente costosa e non prossima alle
    applicazioni redditizie, viene compiuta, anche nei paesi
    capitalistici, con fondi sovente pubblici. Per contro, invenzioni o
    scoperte private divengono presto di dominio pubblico, ossia la
    collettività ne usufruisce a un prezzo modico o nullo. I
    brevetti costituiscono di regola un ostacolo minimo e di breve
    periodo alla diffusione del progresso, anche in assenza di
    illegalità come quelle connesse allo spionaggio industriale e
    scientifico.
La Gran Bretagna della prima rivoluzione industriale cercò di
    proibire l'esportazione delle nuove macchine o dei loro disegni
    tecnici, ma il divieto ebbe scarsa efficacia. Furono gli stessi
    industriali britannici a infrangere la proibizione legale, trovando
    conveniente la vendita della loro tecnologia agli stranieri. Lo
    riconobbe ben presto lo stesso Friedrich Engels (cit. in Landes,
    1993, p. 9): ‟L'Inghilterra ha inventato la macchina a vapore,
    l'Inghilterra ha costruito le ferrovie, due cose che, crediamo,
    valgono un bel po' di idee. Ebbene, l'Inghilterra ha fatto queste
    invenzioni per se stessa o per il mondo? [...] Chi ha diffuso la
    civiltà in America, in Asia, in Africa e in Australia, se non
    l'Inghilterra?".
I capitalisti inglesi finanziarono la diffusione planetaria delle
    loro novità, e così avvenne dopo per altre
    novità a opera dei capitalisti tedeschi, americani e via
    dicendo. Perfino l'industrializzazione dell'Unione Sovietica si
    servì ampiamente dell'apporto finanziario e tecnico del
    capitalismo occidentale. Se in alcune parti della terra il seme
    della rivoluzione industriale non attecchì, fu per anomalie
    locali da analizzare a una a una. La vocazione planetaria del
    capitalismo precede addirittura la rivoluzione industriale, ed
    è già manifesta all'epoca delle scoperte geografiche,
    che non furono ispirate esclusivamente da un amore della conoscenza
    e dell'avventura del tutto privo di componenti economiche.
Gli storici (ad es., Fernand Braudel e Immanuel Wallerstein) parlano
    comunemente della formazione, a partire almeno dal XVI secolo, di
    una economia-mondo capitalistica; che per Lewis Mumford diventa una
    megamacchina tanto possente da stritolare ovunque uomini e culture.
    Questo non va inteso nel senso, ovviamente errato, che i caratteri
    dell'economia siano ormai uniformi in tutto il mondo, ma piuttosto
    nel senso che esiste un centro economico (mobile), una semiperiferia
    e una periferia estesa spesso all'intero pianeta. Al concetto di
    economia-mondo, Wallerstein avvicina quello di impero-mondo, che ne
    sarebbe l'equivalente politico: ‟La dinamica della concentrazione
    del potere militare ha portato a ricorrenti tentativi di trasformare
    il sistema interstatale in un impero-mondo. Se questi tentativi non
    hanno mai avuto successo nel capitalismo storico, ciò
    è avvenuto perché la base strutturale del sistema
    economico e gli interessi dichiarati dei maggiori accumulatori di
    capitale si sono opposti con grande energia a una simile
    trasformazione dell'economia-mondo in un impero-mondo" (v.
    Wallerstein, 1983; tr. it., p. 43). Gli esperimenti della
    Società delle Nazioni e delle Nazioni Unite presentano luci e
    ombre, ma forse un bilancio realistico, se si riuscisse a
    tracciarlo, non entusiasmerebbe nessuno.
Più largamente accettato è il giudizio positivo su
    organizzazioni economiche internazionali, come la Banca
    Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, il Fondo
    Monetario Internazionale, l'Organizzazione Internazionale del
    Lavoro, la FAO (Food and Agriculture Organization), ecc., in parte
    dipendenti dalle Nazioni Unite, ma con forte influsso americano.
    Abbiamo poi un insieme di organizzazioni non mondiali, bensì
    di tipo continentale o subcontinentale. Vengono subito in mente la
    Comunità Economica Europea (poi Unione Europea),
    nonché l'Organizzazione degli Stati Americani, il NAFTA
    (North American Free Trade Agreement), il Patto Andino, l'APEC
    (Asia-Pacific Economic Cooperation), il Patto di Varsavia
    (più politico che economico), e così via.
Il fallimento del tentativo di costituire presso le Nazioni Unite un
    ente preposto al commercio mondiale (se si esclude la recentissima
    nascita della WTO, World Trade Organization) indusse un gruppo di 23
    paesi a firmare nel 1947 il GATT (General Agreement on Tariffs and
    Trade). Esso opera mediante periodiche conferenze fra i paesi
    aderenti, l'ultima delle quali - il cosiddetto Uruguay Round - si
    è protratta dal 1986 al 1994: la lunga durata è un
    indice dei contrasti esistenti in fatto di libertà del
    commercio internazionale. L'Uruguay Round avrebbe dovuto concludersi
    nel 1990: i tre o quattro anni di ritardo nella firma degli accordi
    sono in parte imputabili alla resistenza della Comunità
    Economica Europea verso certe posizioni liberoscambiste americane.
L'ostilità al libero scambio internazionale è massima
    nel settore agricolo, che tuttavia nei paesi industrializzati pare
    essere ormai un settore di minima importanza: il paradosso merita
    una riflessione. L'agricoltura precapitalistica, molto poco
    produttiva, occupava il 60 o 70% delle forze di lavoro esistenti
    nell'economia. La scarsissima produttività agricola dipendeva
    dal dominio di un fattore naturale, la terra, su cui era scarso
    l'investimento di capitale. Con il passaggio, lento ma inesorabile,
    dall'economia della terra all'economia del capitale, la
    produttività agricola è salita tanto che, per esempio
    negli Stati Uniti, la percentuale delle forze di lavoro occupate in
    agricoltura è scesa verso il livello del 3%. Ciò
    significa, nel caso specifico, che una agricoltura capitalistica
    è capace di nutrire l'intera popolazione di un paese (e
    inoltre di esportare all'estero grandi quantitativi di cibo e di
    altri prodotti agricoli) occupando nel settore appena il 3% delle
    forze di lavoro.
Vi è stato ovunque, ma specialmente negli Stati Uniti, un
    imponente deflusso di lavoratori dall'agricoltura verso l'industria
    e il settore terziario dei servizi. Non di meno, l'attività
    dell'agricoltura capitalistica è di regola minacciata dalla
    sovrapproduzione, non dalla scarsezza, anche perché se il
    progresso tecnologico in questo settore è rapido, il
    progresso merceologico lo è molto meno. La scarsezza di cibo
    nel mondo si è ridotta, non ostante l'aumento della
    popolazione terrestre, a poche zone in cui l'agricoltura
    capitalistica non esiste, nelle quali la distribuzione degli
    alimenti, che si possono importare dai paesi in cui l'agricoltura
    capitalistica esiste, incontra vari ostacoli.
La regola, dunque, è la sovrapproduzione, che minaccia di far
    crollare i prezzi agricoli e di danneggiare gli agricoltori
    superstiti. In particolare, gli agricoltori europei, se non fossero
    protetti dai loro governi, non sarebbero in grado di resistere alla
    concorrenza di molti prodotti dell'America settentrionale e
    meridionale, che traverserebbero l'Atlantico a basso costo grazie
    anche al progresso dei trasporti. Ma la protezione è concessa
    - e anzi per i paesi aderenti alla Comunità Economica Europea
    (UE) essa è organizzata in base a fini politici e sociali,
    con una razionalità a dir poco dubbia - a livello
    comunitario.
Nella Comunità si è giunti a sovvenzionare con denaro
    pubblico la distruzione dei raccolti per mantenere alti i prezzi di
    ricavo degli agricoltori, con inevitabile danno per i consumatori
    che si trovano costretti a sopportare un costo della vita più
    pesante. Ma nessun paese sembra disposto a rinunciare del tutto alla
    propria agricoltura, ancorché essa sia antieconomica; mentre
    questo settore, sebbene inserito in un sistema capitalistico,
    conserva proprietà intrinseche di debolezza rispetto
    all'industria e problemi organizzativi suoi propri. Così,
    tanto nelle terre migliori come in quelle meno produttive, i redditi
    netti dell'agricoltura risultano ben più oscillanti,
    irregolari e rischiosi di quelli industriali, almeno in assenza di
    interventi pubblici stabilizzatori.
Infatti, l'agricoltura incontra grosse difficoltà ad adeguare
    l'offerta alla domanda. Non solo l'offerta di prodotti agricoli
    tende a scavalcare una domanda pigra e riluttante; essa è
    inoltre una offerta perturbata da fattori incontrollabili, che vanno
    dalle bizzarrie del tempo atmosferico alle imprevedibili epidemie
    delle piante e degli animali. L'industria è meno esposta a
    simili disturbi aleatori, ed è meglio capace di prestabilire
    la misura dell'offerta, variandola a piacere. Seminato il grano,
    l'agricoltore non può più, per mesi e mesi, cambiare
    il programma di produzione; piantato il frutteto, l'agricoltore non
    può più cambiare quel programma per anni e anni.
    L'industriale, invece, può sovente cambiarlo ogni giorno,
    può per esempio aumentare subito la produzione allungando la
    giornata lavorativa, chiedendo lavoro straordinario ai suoi operai.
E - fatto ancor più grave - un aratro rimane ozioso per gran
    parte del tempo, un altoforno siderurgico funziona in continuazione;
    il capitale cambia radicalmente il suo grado di
    sfruttabilità. Aggiungiamo che un bracciante agricolo si
    ferma quando piove, un operaio in fabbrica no. Ma è inutile
    continuare l'elenco di ciò che è sotto gli occhi di
    tutti: conviene piuttosto indagare il motivo o i motivi per cui
    l'agricoltura non scarica (senza il soccorso pubblico) sui
    consumatori dei suoi prodotti i costi degli inconvenienti che le
    sono specifici. Perché li soffre e non li trasferisce? Non ci
    vuole molto a intuire (v. Ricossa, 1984-1985) che non li trasferisce
    perché di regola i mercati agrari sono ‛mercati del
    compratore', non ‛mercati del venditore', almeno negli anni normali
    e appunto in assenza di interventi pubblici a protezione del
    venditore.
I mercati agrari rientrano tipicamente nella categoria della
    ‛concorrenza atomistica'; i mercati industriali rientrano per lo
    più in quella della ‛concorrenza oligopolistica'. Si tratta
    di due regimi affatto diversi. L'offerta di automobili segue da
    vicino gli alti e bassi congiunturali della domanda di automobili;
    alti e bassi che non sono così marcati nel caso della domanda
    di pane e di grano. Tuttavia, i prezzi delle automobili sono assai
    più stabili del prezzo del grano, mentre il prezzo del pane,
    prodotto per metà agrario e per metà industriale,
    sarebbe una via di mezzo se non fosse talvolta amministrato dalle
    pubbliche autorità. Il fatto è che i singoli
    produttori di automobili, essendo oligopolisti, stabiliscono
    ciascuno il prezzo della propria marca, e non lo cambiano se non ne
    vedono la convenienza. Non basta uno squilibrio tra domanda e
    offerta per modificare il prezzo delle automobili: quello squilibrio
    si può fronteggiare in altri e più facili modi, per
    esempio correggendo subito la produzione, o stimolando la domanda
    con la pubblicità commerciale, o ritoccando la qualità
    del prodotto. Nessuna di queste opportunità è aperta
    ai produttori di grano, che non possono correggere subito la
    produzione né in quantità né in qualità,
    e che sanno quanto inutile sia reclamizzare il loro prodotto.
Gli agricoltori che offrono prodotti non di marca sono in
    concorrenza atomistica perché ciascuno di essi è
    troppo piccolo per controllare i prezzi di merci indifferenziate,
    fatte più come vuole la natura che come vogliono gli uomini.
    Dunque ogni squilibrio, anche minimo, tra la domanda complessiva e
    l'offerta complessiva si ripercuote immediatamente e inevitabilmente
    sui prezzi, alterandoli ogni giorno, talvolta ogni ora. E
    l'alterazione deve essere molto ampia, per cercare di riportare in
    equilibrio il mercato, giacché la domanda di prodotti
    agricoli è quasi sempre rigida: bassa è la sua
    elasticità rispetto al reddito, e bassa è anche
    rispetto ai prezzi. Non ci mettiamo a mangiare molto più pane
    semplicemente perché il suo prezzo, un giorno, ribassa; o
    perché diventiamo più ricchi.
Nemmeno in America l'aumento del capitale per addetto ha fatto il
    miracolo di cambiare l'intima e gracile costituzione
    dell'agricoltura. Sebbene il progresso merceologico nell'industria
    alimentare abbia trovato nuovi modi di presentare al consumatore
    vecchie materie prime (si pensi per esempio ai corn flakes),
    il mercato non registra uno sviluppo soddisfacente per i produttori.
    Rimane la scomoda necessità di aumentare di continuo le
    esportazioni, se si vuole espandere la produzione agraria, sperando
    che altri paesi siano incapaci di raggiungere l'autosufficienza per
    i cereali, o altri prodotti, o non si pongano tale obiettivo. Rimane
    la tendenza al rallentamento della crescita demografica, fenomeno
    che comincia a manifestarsi fin nel Terzo Mondo. Rimane lo
    svantaggio di operare in concorrenza atomistica benché si
    moltiplichino gli sforzi per creare prodotti agrari di marca (per
    esempio, prodotti ‛doc'), o per costituire cooperative e
    associazioni di agricoltori.
Le strutturali debolezze organizzative dell'agricoltura si ripetono
    quasi identiche in altri settori che forniscono materie prime
    naturali: fibre tessili, gomma, metalli, e così via. Anzi,
    qui si aggiungono almeno altre due complicazioni che dipendono dal
    progresso tecnologico, il quale ‛alleggerisce' i prodotti finiti, e
    sostituisce alle risorse naturali risorse artificiali e sintetiche.
    Alleggerire i prodotti industriali significa ridurre il costo delle
    materie prime in proporzione al costo complessivo. Un'automobile del
    nostro tempo è più leggera, in tutti i sensi, di
    un'automobile all'inizio del secolo: pesa meno e il suo valore
    è costituito da una minore percentuale del costo delle
    materie prime.
Una materia prima naturale fa eccezione alla regola, ma si tratta
    dell'intelligenza umana, cioè di qualcosa di inconfondibile
    col resto, una categoria decisamente a parte. In quasi tutti i
    prodotti cresce la proporzione del valore originato dalla ricerca
    scientifica, tecnica e organizzativa. Si tratta di spese che si
    sostengono, in definitiva, per sopprimere altre spese e averne un
    vantaggio netto. Tale ricerca non porta soltanto ad alleggerire i
    prodotti e a sostituire la natura con la chimica: essa permette di
    avanzare lungo mille strade diverse.
Per esempio, si alleggerisce e si miniaturizza: furono parecchio
    ridotte le dimensioni dei prodotti elettronici aumentandone al
    contempo la velocità di funzionamento, col passaggio dalle
    valvole ai transistor. Si alleggerisce e si semplifica: è il
    caso del passaggio dall'orologio meccanico all'orologio al quarzo,
    che è anche più preciso. E poi, qualunque cosa si
    faccia, si cerca di farla col minimo dispendio, con la massima
    razionalità, col massimo risparmio di lavoro umano nella sua
    forma più materiale (non intellettuale). Il capitalismo del
    nostro secolo ha accettato in pieno la finalità di Frederick
    W. Taylor: ‟Portare il lavoro umano a un più alto livello di
    efficienza e di capacità produttiva attraverso le scienze
    organizzative" (v. Taylor, 1911; tr. it., pp. 5-6).
Il taylorismo non gode di buona fama, e il suo autore fu sottoposto
    all'inchiesta di una commissione della Camera dei deputati degli
    Stati Uniti nel 1911 e 1912. La sentenza gli fu però
    favorevole, e infatti Taylor nella sua attività pratica in
    officina non pretese mai nulla senza il consenso degli operai e il
    loro tornaconto salariale. Non tutti i suoi seguaci lo imitarono
    anche in questo, ma comunque la questione è radicalmente
    mutata con l'avvento degli impianti automatizzati (ancora una volta
    più nel settore industriale che in quello agricolo, dove
    d'altronde il taylorismo recitò una parte minima, se non
    nulla).
Per ordinare le idee, si può dire che l'economia
    capitalistica del XX secolo è andata avanti sia nel campo
    della micro-organizzazione sia in quello della macro-organizzazione.
    La micro-organizzazione si è giovata soprattutto delle
    scienze organizzative alle quali contribuirono studiosi come Taylor.
    Nella macro-organizzazione è stato invece decisivo l'apporto
    del progresso dei trasporti e delle comunicazioni, che ha idealmente
    ridotto le dimensioni del pianeta Terra, quasi annullando le
    distanze. Con tutto ciò, i compiti organizzativi del
    capitalismo rimangono formidabili, e non si realizzano i sogni dei
    seguaci di Marx, che speravano di ereditare dal capitalismo
    più evoluto anche pratiche amministrative alla portata di
    chiunque e quindi pure del proletariato.
    
4. Il capitalismo finanziario
La storia del capitalismo s'intreccia con quella della moneta. La
    superiorità di un capitalismo sugli altri porta al dominio
    della sua moneta sulle valute straniere. Nel XIII secolo, il fiorino
    di Firenze e il ducato di Venezia, entrambi di coniazione aurea,
    furono i grandi mezzi di pagamento internazionali e recitarono la
    parte che più tardi, durante e dopo la rivoluzione
    industriale, sarà della sterlina e poi del dollaro. Ma come
    nella storia dell'economia produttiva la rivoluzione industriale
    rappresentò una frattura vistosa, così nella storia
    monetaria una analoga frattura si ebbe con l'abbandono definitivo
    della convertibilità dei biglietti in oro o argento.
La tradizione imponeva che la moneta importante avesse un suo valore
    intrinseco, corrispondente al valore del metallo prezioso di cui era
    fatta. Il gold standard, o tallone aureo, fissava il
    cambio tra due monete in proporzione al loro contenuto in peso di
    oro fino: le monete si pesavano (il nome ‛lira' viene da ‛libbra',
    unità di peso). Se non che l'oro è prezioso proprio
    perché è scarso in natura e non producibile a nostra
    volontà, a dispetto del sogno degli alchimisti. Ne consegue
    che le epoche di gold standard, per esempio il XIX secolo,
    furono epoche con una quantità di moneta circolante che
    stentava ad adeguarsi alle necessità dello sviluppo
    economico: è la principale ragione per cui il secolo scorso
    fu in Occidente caratterizzato da una tendenza alla diminuzione dei
    prezzi, salvo quando venivano scoperti nuovi giacimenti auriferi.
Alla fame d'oro si ovviò, in parte, col gold exchange
      standard, ossia con l'emissione di biglietti di carta
    convertibili in oro a un prezzo ufficiale prestabilito dai governi.
    Crebbe la quantità di moneta circolante, però entro i
    limiti stabiliti dalla necessità delle banche centrali di far
    fronte alle eventuali richieste di conversione in oro dei biglietti
    in mano alla gente. La convertibilità veniva di tanto in
    tanto sospesa, in casi di emergenza come sono i periodi di guerra.
    Ovviamente era sempre facoltà dei governi ridurre il
    contenuto aureo delle loro monete, mantenendone il vecchio nome,
    sebbene tale pratica andasse contro le regole della buona
    amministrazione pubblica e provocasse le immaginabili conseguenze
    inflazionistiche.
Il XX secolo, con le due guerre mondiali, ha visto la crisi sia del gold standard sia del gold exchange standard.
    Dopo la prima guerra mondiale vi furono tentativi di ritorno
    all'oro, ma senza durevoli successi se non negli Stati Uniti. Dopo
    la seconda guerra mondiale entrarono in vigore gli accordi
    internazionali firmati a Bretton Woods (Stati Uniti) nel 1944, coi
    quali si stabilivano regole di conversione delle monete in dollari,
    e del dollaro in oro. La sterlina perdeva la sua funzione di moneta
    di riferimento, e al suo posto, con funzione di moneta di riserva,
    subentrava il dollaro in quanto unica moneta rimasta convertibile in
    oro. Dagli accordi di Bretton Woods nacque il Fondo Monetario
    Internazionale il cui scopo era di mantenere i cambi stabili il
    più possibile.
Il potere del capitalismo americano, che aveva toccato il vertice
    durante e nei primi decenni dopo la guerra, andò tuttavia
    attenuandosi successivamente, e in parallelo si attenuò il
    potere del dollaro. Nel 1971 il presidente Nixon, imbarazzato dal
    crescente deficit della bilancia dei pagamenti
    internazionali del suo paese (imputabile all'offensiva commerciale
    del Giappone e ad altre cause), sospese la convertibilità del
    dollaro in oro, mettendo di fatto fine al sistema di Bretton Woods.
    Il regime prevalente divenne quello dei cambi fluttuanti o
    flessibili, pur mantenendosi l'intenzione di contenere la
    fluttuazione o la flessibilità entro prefissati limiti,
    superiore e inferiore. Questa intenzione, nel nostro continente,
    diede luogo nel 1978 alla nascita del Sistema Monetario Europeo.
L'esperienza successiva ha mostrato che, senza l'ancoraggio all'oro,
    la stabilità dei cambi è impossibile e che è
    del pari irrealizzabile perfino il durevole mantenimento delle
    oscillazioni entro una banda prefissata. Le banche centrali
    riescono, con più o meno grave dispendio delle loro riserve
    valutarie e auree, a difendere per qualche tempo le proprie monete
    durante le fasi di indebolimento e di tendenza a fuoriuscire dalla
    banda; ma alla lunga il tentativo fallisce, se non migliora
    radicalmente la forza economica dei paesi in questione. Dunque, ci
    è rimasta la scelta tra cambi completamente liberi di
    oscillare e cambi artificiosamente mantenuti stabili per qualche
    tempo e in qualche misura, ma suscettibili di scattare in alto o in
    basso non appena le autorità monetarie ne perdano il
    controllo. L'Unione Europea, con l'accordo di Maastricht, ha
    imboccato una terza strada, che conduce verso una moneta unica per i
    paesi membri, i quali quindi non avrebbero più problemi di
    cambio fra le loro (abolite) monete nazionali.
Il disancoraggio totale dall'oro ha reso molte economie iperliquide
    (sovrabbondanza di moneta), inflazionistiche e atte alle
    speculazioni sui cambi. Ingenti capitali, non in forma fisica, ma in
    forma monetaria, si spostano nel mondo a scopo speculativo: essi si
    muovono non per finanziare investimenti reali, commerci e
    produzioni, bensì per lucrare sulle differenze internazionali
    nei tassi di inflazione, di interesse e di cambio. Poiché
    queste differenze variano di continuo, la speculazione sposta i
    capitali da una valuta all'altra secondo la convenienza del momento.
    Una valuta forte, cioè poco minacciata dall'inflazione e
    dalla svalutazione, attirerà capitali anche se frutta tassi
    di interesse relativamente bassi. Al contrario, una moneta debole
    diventa interessante solamente se promette tassi di interesse
    elevati.
Questa ricerca speculativa della moneta di volta in volta più
    conveniente per collocarvi i capitali vaganti nel mondo ha dato
    luogo a un capitalismo finanziario non sconosciuto in passato, ma
    ingigantito oggi oltre ogni esempio precedente. Basti dire che,
    secondo stime attendibili, all'Interbank Market di Londra passa ogni
    giorno più moneta di quanta sarebbe sufficiente a finanziare
    per un anno intero le ordinarie operazioni del commercio
    internazionale. Sotto l'aspetto quantitativo, si tratta di cifre che
    nemmeno le più dotate banche centrali sono ormai in grado di
    contrastare quando occorresse, ad esempio per motivi di
    stabilità dei cambi.
Il capitalismo finanziario, se così vogliamo chiamare questo
    fenomeno, presenta sempre più spesso aspetti decisamente
    patologici. Esso è alimentato, tuttavia, non solo da
    speculatori veri e propri, come è il caso di grossi
    finanzieri, ma altresì da gestori per conto altrui (per conto
    di numerosi piccoli e medi clienti) di fondi di investimento, fondi
    di pensione, et similia. La ricchezza mobiliare agisce
    essa pure su scala planetaria, alla ricerca del profitto, e con
    più facilità della ricchezza immobiliare,
    perché si trasporta più facilmente, o meglio si
    trasportano più facilmente i titoli che la rappresentano.
Con la cosiddetta moneta elettronica, gli spostamenti di questa
    avvengono alla medesima velocità degli spostamenti di
    informazioni, cioè con velocità prossima a quella
    della luce. Anzi, gli spostamenti finanziari sono null'altro che una
    parte dell'immenso spostamento di informazioni da un capo all'altro
    del mondo; e gli spostamenti di informazioni rappresentano a loro
    volta un flusso internazionale in crescita così rapida da
    battere ogni altro flusso in ogni altra epoca storica. Pertanto
    c'è chi sostiene che il capitalismo finanziario stia
    diventando, in certi suoi aspetti, non solo internazionale, non solo
    trans-nazionale, ma addirittura non-nazionale. Infine, la moneta
    è senza patria.
    
5. Conclusioni
In questo scorcio del secolo XX i più vistosi problemi posti
    dal capitalismo sembrano essere i seguenti, elencati in (opinabile)
    ordine crescente di gravità: a) l'erompere del capitalismo
    finanziario, di cui abbiamo appena detto e sul quale non torneremo;
    b) la conciliazione del potere economico e del potere politico in
    regimi più democratici che in passato e con una più
    spiccata sensibilità per le istanze egualitarie
    (eredità del socialismo); c) il ritorno a un capitalismo di
    pieno impiego, dopo il fallimento storico dei rimedi di tipo
    keynesiano; d) l'inserimento del mercato capitalistico in un
    contesto planetario dove il futuro sembra richiedere una
    pianificazione ‛ecologica' in senso lato.
Il punto b) pone l'interrogativo: come impedire che il cittadino e
    il consumatore restino schiacciati tra un potere politico e un
    potere economico che ora si combattono, ora si alleano, in una
    confusione che contamina le regole della democrazia? L'Europa
    (Italia compresa) non pare in possesso di soluzioni magiche, che non
    esistono, ma nemmeno di soluzioni empiriche nuove e promettenti.
    L'Unione Europea dà l'impressione di affidarsi, in ritardo, a
    regole anti-trust contro l'abuso del potere economico in
    singoli casi di posizione dominante sul mercato. Gli Stati Uniti
    hanno almeno un secolo di esperienza in materia, e tale esperienza
    è deludente.
Economisti americani certamente non filocapitalisti si sono espressi
    più volte dubitando dell'efficacia della legislazione anti-trust.
    Per esempio, John Kenneth Galbraith considera tale legislazione ‟una
    spada di carta", ‟il trionfo della speranza sull'esperienza",
    qualcosa che in America non ha annullato lo slancio verso
    concentrazioni sempre maggiori di potere economico: ‟Queste
    concentrazioni e il potere sul mercato che esse comportano non sono
    stati percettibilmente inferiori negli Stati Uniti rispetto agli
    altri paesi industrializzati che non godono di simili leggi anti-trust o non hanno fatto alcun tentativo in quel senso".
Vi sono anche, spesso, crescenti concentrazioni del potere politico,
    che possono disporre di mezzi che sono aumentati ancor più
    velocemente dello sviluppo economico. L'ottimismo di pensare che il
    colosso economico sia tenuto a bada dal colosso politico è
    smentito dai casi di connivenza tra i due poteri, o anche dal costo
    oggettivo di conflitti male disciplinati dalle costituzioni
    democratiche. Il caso italiano, nell'ultimo mezzo secolo, illustra
    con abbondanza le traversie di un paese che non ha ancora trovato la
    governabilità democratica senza corruzioni e concussioni al
    di là del tollerabile.
E veniamo al punto c). Gli economisti che più si abbandonano
    al pessimismo ritengono che l'alta percentuale di popolazione
    involontariamente senza lavoro non sia un fenomeno contingente,
    degli ultimi decenni, ma almeno in Europa (Italia compresa), una
    caratteristica indelebile dell'ultimo capitalismo. È un
    ritorno alla teoria della stagnazione del capitalismo maturo, con
    l'aggravante che la causa non sarebbe di tipo keynesiano (mancanza
    di domanda effettiva, in particolare mancanza di consumi),
    bensì di tipo tecnologico. Il capitalismo maturo e la sua
    tecnologia perpetuamente rivolta a risparmiare lavoro
    permetterebbero di soddisfare la domanda crescente del mercato senza
    accrescere l'occupazione.
A parte la riduzione graduale degli orari di lavoro, occorrerebbe
    spostare la domanda dai prodotti che non aiutano l'occupazione ai
    prodotti che invece l'aiutano: i primi sarebbero i prodotti di
    consumo privato offerti dal capitalismo; i secondi sarebbero i beni
    pubblici, merci e soprattutto servizi, offerti da enti senza fini di
    lucro. A questo punto si torna alla lotta al consumismo, da condurre
    mediante una forte fiscalità sui profitti e, occorrendo, con
    un rallentato miglioramento dei salari e degli stipendi, che
    diverrebbero inutili perché non più spendibili sul
    mercato, e pericolosi come fonte di inflazione.
Quanto questa analisi sia realistica dipende, fra l'altro, dalla
    misura in cui i consumatori accetterebbero di sostituire per il loro
    benessere le scelte private con le scelte pubbliche (politiche), e
    dal grado di inefficienza degli enti produttori totalmente esentati
    dalla concorrenza di mercato e dalla ricerca del profitto positivo.
    Ma prima ancora va indagata la premessa: è davvero il
    progresso tecnologico capitalistico a innalzare durevolmente il
    tasso di disoccupazione? Non vi sono forse diverse cause sociali,
    come l'accresciuta offerta di lavoro femminile, l'esistenza di una
    occupazione sommersa che sfugge alle statistiche, e il maggior
    reddito familiare, che permette ai giovani di non lavorare senza
    spingere alla fame se stessi e i genitori?
Il punto d) è talmente vasto da non consentire che un cenno pro
      memoria. Esso riporta l'attenzione sul tema
    dell'egualitarismo, che si estende dall'ambito ristretto degli
    individui in una stessa nazione all'ambito allargato di tutti i
    popoli viventi sul pianeta, e all'ambito ancor più allargato
    delle generazioni future, in aggiunta a quelle già presenti.
    Ci si chiede, per esempio: il mercato capitalistico non favorisce le
    generazioni presenti a danno di quelle future, in fatto di risorse
    naturali non riproducibili? L'egualitarismo, in ogni caso, è
    tutt'al più un effetto non intenzionale del mercato
    capitalistico. Se si vuole andare oltre, sulla sua strada, sembra
    inevitabile che egualitarismo e capitalismo entrino in conflitto.
    Sembra inevitabile che subentri una pianificazione espressamente
    egualitaria nelle intenzioni.
Ma la storia non finisce qui: sembra inevitabile che, al di
    là di un punto critico, l'egualitarismo entri in conflitto
    con la libertà economica e non economica, con la
    libertà tout court. La coercizione pare diventi
    inevitabile non soltanto per realizzare un alto grado di
    eguaglianza, ma anche per mantenerlo, contro le forze spontanee che
    tendono a ricostituire la diseguaglianza.