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Capitalismo

Nell’accezione comune, sistema economico in cui il capitale è di proprietà privata (sinonimo di ‘economia d’iniziativa privata’ o ‘economia di libero mercato’). Nell’accezione originaria, formulata con intento fortemente critico da pensatori socialisti e poi sviluppata nelle teorie marxiste, sistema economico caratterizzato dall’ampia accumulazione di capitale e dalla scissione di proprietà privata e mezzi di produzione dal lavoro, che è ridotto a lavoro salariato, sfruttato per ricavarne profitto. 

Il termine c. iniziò a circolare negli ambienti del socialismo utopistico intorno alla metà del 19° sec., per indicare e stigmatizzare il sistema economico nel quale i lavoratori sono esclusi dalla proprietà del capitale. Per indicare il sistema di relazioni sociali e l’organizzazione del processo produttivo che si basano sullo sfruttamento della forza-lavoro salariata K. Marx usò invece l’espressione ‘modo di produzione capitalistico’. Questo modo di produzione avrebbe compiuto l’enorme sviluppo delle forze produttive, alimentando però per la sua dinamica interna (impoverimento dei salariati, accumulazione di capitale senza crescita corrispondente di consumi e quindi crisi di sovrapproduzione, caduta tendenziale del saggio di profitto) il crescente conflitto di classe tra capitalisti e salariati. Nell’evoluzione storica, il c. segue ai modi di produzione schiavistico e feudale ed è, secondo la diagnosi di Marx, destinato a dissolversi per lasciare spazio, a lungo termine, al comunismo. Agli inizi del Novecento, il termine capitalismo fu adottato anche da autori non marxisti, in particolare da M. Weber che ha indicato la peculiarità del c. nel calcolo razionale del profitto e ne ha legato la genesi e l’affermazione al diffondersi di una nuova etica nata da correnti religiose protestanti (L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1904-05). J.A. Schumpeter ha distinto il c. concorrenziale della prima fase dell’economia borghese, dominato dall’emergere d’imprenditori capitalisti che dirigono imprese a proprietà familiare, dal c. trustificato, caratterizzato dalla trasformazione delle imprese in società per azioni e dalla loro fusione in trust, gruppi che dominano la scena economica e preludono, secondo Schumpeter, all’evoluzione verso un’economia di comando e pianificazione centralizzata (Capitalismo, socialismo, democrazia, 1942). Il termine c. è stato poi ampiamente accolto nella storiografia economica; è adottato, invece, limitatamente e solo da alcune correnti di pensiero negli studi d’economia. 

In un uso diffuso, l’espressione allude, con intenti critici, a una nuova fisionomia che il c. avrebbe assunto nel 20° sec., variamente delineata ponendo l’accento su progresso tecnologico e automazione, sul prevalere dell’oligopolio, sulla separazione della proprietà dalla gestione o sull’affermarsi delle imprese multinazionali. Con l’espressione c. di Stato è stato talvolta designato, in modo improprio, il sistema economico più correttamente detto socialismo di Stato , che poggia sull’intervento pubblico e può arrivare a concentrare nello Stato la proprietà dei mezzi di produzione, la direzione della produzione stessa e la distribuzione del prodotto tra i membri della collettività. 

Di regola si collocano le origini del c. tra il Basso Medioevo, all’epoca della rinascita delle città, e il 15° e 16° sec., quando iniziò a decollare, grazie anche alle scoperte geografiche, la stagione del grande commercio mondiale. Accanto al ruolo attivo di nuovi ceti imprenditoriali borghesi, furono decisivi i processi di formazione dello Stato moderno, che presero avvio nel 16° secolo. Fondamentali furono, in particolare, le politiche mercantilistiche dei grandi Stati, che presero a finanziare industrie e compagnie commerciali, fecero ricorso al protezionismo e avviarono programmi di conquista coloniale. Tra Sette e Ottocento la storia del c. entrò in una fase di grande accelerazione con la Rivoluzione industriale che, a partire dalla Gran Bretagna, investì l’Europa occidentale e gli Stati Uniti. Secondo molti autori è in questa fase che nacque propriamente il c. moderno il quale, soprattutto in Gran Bretagna, rivendicò una completa libertà dai controlli dello Stato e il libero scambio. Nell’ultimo trentennio dell’Ottocento la grande depressione portò a una profonda ristrutturazione del c., che si fece sentire soprattutto in paesi come la Germania, dove si affermarono grandi concentrazioni industriali e nuove forme di intervento dello Stato nei processi economici, e dove crebbe il ruolo del capitale finanziario. Intanto si scatenavano gli imperialismi, frutto di una ricerca di nuovi mercati tale da non arretrare nemmeno dinanzi alla prospettiva della violenza, che infatti esplose con la Prima guerra mondiale. La crisi del 1929 segnò una gravissima battuta d’arresto nella storia del capitalismo ma fece maturare strategie di intervento statale e politiche di welfare che configuravano una coerente alternativa alle politiche liberiste e neoliberiste. Negli ultimi decenni la globalizzazione ha rappresentato il trionfo di un c. di scala planetaria, ormai svincolato da qualsiasi vincolo politico-statuale. Questa nuova fase evolutiva ha per molti aspetti approfondito il tradizionale divario tra paesi sviluppati e quelli arretrati o in via di sviluppo, nel quadro però di una crescente interdipendenza generatrice di nuove e gravissime tensioni sociali e politiche.

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Enciclopedia delle Scienze Sociali (1991)

Capitalismo

di Sergio Ricossa e Alessandro Cavalli


Capitalismo
di Sergio Ricossa

sommario: 1. Le origini del capitalismo. 2. Un'economia fondata sul capitale. 3. Un'economia basata sull'innovazione. 4. Il capitalismo e il profitto. 5. La crescita del mercato capitalistico. 6. Le trasformazioni del capitalismo. 7. Conclusioni. □ Bibliografia.

1. Le origini del capitalismo

Non conviene intendere il capitalismo come un preciso sistema economico, con caratteri fissi e ben definibili una volta per tutte. Esso è piuttosto un'evoluzione storica dell'economia, che comincia verso l'anno Mille, o poco dopo, nell'Occidente europeo, e che è tuttora in corso. Durante questo percorso quasi millenario, il capitalismo ha mutato di frequente volto e veste, ma non tanto da impedirci di riconoscergli una qualche continuità 'esistenziale'. E a proposito di continuità, va detto subito che la nascita del sistema nuovo non venne dal nulla, e che quindi il vecchio sistema precapitalistico conteneva in sé i germi e le avvisaglie della trasformazione, la quale in principio fu lenta, quasi impercettibile.
Oggi, col senno di poi, guardando retrospettivamente i fatti accumulatisi nei secoli, parliamo di trasformazione rivoluzionaria; ma fu pure una trasformazione inintenzionale, nel senso che nessuno dei suoi innumerevoli artefici ne ebbe un progetto d'insieme, né poteva averlo. Il capitalismo moderno non era soltanto non progettabile: era inimmaginabile. Ancora oggi non sa dove andrà, perché inventa la sua strada ogni giorno. È un sistema aperto, così aperto che c'è chi dubita che sia un sistema, un ordine, un organismo sociale, e non invece un caotico insieme di iniziative umane indipendenti e contraddittorie.
Le contraddizioni del capitalismo o, se si vuole, dell'economia borghese, come Marx preferiva dire: nell'additarle e condannarle egli tuttavia non esitava a concedere che provenissero dalla "più complessa e sviluppata organizzazione storica della produzione" (v. Marx, 1859, Introduzione).
Il socialismo stesso era per lui inconcepibile senza il passaggio attraverso la fase capitalistica, e bisognava che tale passaggio fosse completo, che profittasse fino in fondo di ognuno dei molti, eccellenti contributi del capitalismo al progresso economico. Per questo l'economia borghese avrebbe dovuto essere l'ultimo passo della storia progressiva prima del socialismo. Ma perché chiamarla economia borghese? Perché renderla sinonimo di capitalismo?
Poco dopo l'anno Mille fu un nuovo ceto emergente, la borghesia, a introdurre sulla scena i cambiamenti che si chiamarono in seguito capitalismo. Furono i borghesi (in particolare i mercanti delle città medievali, le quali aspiravano a diventare comuni liberi dai vincoli feudali) ad avviare quella che possiamo pure denominare, con Carlo M. Cipolla, la rivoluzione comunal-cittadina, primo atto della rappresentazione capitalistica nei secoli XI-XIII: "Il grande mercante, che fu di solito anche imprenditore manifatturiero e se del caso anche banchiere, riuscì a installarsi ai più elevati gradini della scala sociale, e il 'popolo grasso' nelle città italiane e il 'patriziato' nelle città fiamminghe e tedesche assunsero il controllo della comunità identificando gli interessi dello Stato con quelli del proprio ceto. Nel quadro della storia dell'umanità il fenomeno aveva tutti i caratteri dell'eccezionalità, perché dai tempi del Neolitico, salvo poche eccezioni, nella stragrande maggioranza le società umane erano state (e fuori d'Europa tutt'ora erano) dominate dal ceto dei grossi proprietari fondiari" (v. Cipolla, 1988, pp. 465-466).
Dunque: diffusione geografica a chiazze in espansione, cominciando principalmente dai comuni dell'Italia centrosettentrionale, dalle città delle Fiandre e della Germania renana e anseatica, per poi coprire le provincie olandesi e l'Inghilterra, e poi ancora quasi tutta l'Europa occidentale e centrale, prima di emigrare nell'America settentrionale e, nel nostro secolo, in Giappone. Ma che differenza tra la fase per così dire pionieristica - in cui il capitalismo è, sì, mercantile, industriale e finanziario nel medesimo tempo, ma l'aspetto industriale è secondario e si confonde con l'aspetto artigianale - e la fase evoluta: questa comincia in Inghilterra nel XVIII secolo col factory system che spiazza a poco a poco l'artigianato e pone l'industria al primo posto nella graduatoria dei settori produttivi, come fonte primaria del progresso tecnologico e merceologico, e come sede di imprese e di stabilimenti di dimensioni via via maggiori. E che differenza tra il capitalismo avanzato, dominante, originale, spontaneo e quello imitativo, artificioso e tardivo, in cui gli elementi della nuova economia, appena embrionali, sono mescolati e oppressi dai tenaci residui della vecchia economia, che né l'iniziativa privata né, talvolta, l'iniziativa pubblica riescono a demolire.
Dunque anche: rivoluzione politica, oltre che economica, cui seguiranno nel Seicento la rivoluzione scientifica e nel tardo Settecento la rivoluzione industriale, secondo e terzo atto della grande rappresentazione capitalistica. Ma è sul primo atto che dobbiamo insistere, per ora, al fine di capirne la novità, capire perché risultasse tanto importante che qua e là, al vertice della gerarchia sociale, fossero saliti dei mercanti, anziché dei proprietari terrieri. Da sempre la storia registrava lotte per la conquista del potere, e da sempre le élites 'circolavano', uscivano dalle quinte, giungevano alla ribalta, recitavano la loro parte, se ne andavano spinte con buone o cattive maniere da altri attori protagonisti. La differenza stava negli argomenti dei nuovi attori: se forti soltanto di prepotenza o se forieri di qualche forma di progresso, comunque questo venga definito.
Marx credeva nel progressismo borghese e non v'è dubbio che la prepotenza del ceto mercantile infine emergente non era tutto quanto esso aveva da offrire. Di prepotenza ne mostrò parecchia, anche perché aveva molti nemici vogliosi di soffocarlo e respingerlo in basso; ma inoltre mostrò inusitate qualità mentali costruttive, non meramente distruttive, uno spirito innovatore e vivificante, non effimero, che nel giro di qualche secolo avrebbe innalzato l'Europa occidentale al primato del mondo, da una posizione iniziale di grave inferiorità. Non dimentichiamo che l'Europa occidentale dell'anno Mille era una zona sottosviluppata, rispetto a quelle bizantine, islamiche e cinesi. Visti dall'esterno, gli europei erano popoli insignificanti, se non barbari, e quando la loro immagine cambiò, molto tardi, fu una sorpresa per gli increduli, cioè per tutti.
Lo sviluppo europeo, come quasi sempre accade, ebbe nemici interni assai più che nemici esterni. Erano i nostri conservatori antiborghesi a osteggiare l'incipiente capitalismo di casa e insieme la forza propulsiva da cui dipendeva (oggi lo sappiamo) il nostro futuro. Era la nostra nobiltà feudale, laica ed ecclesiastica, a rintuzzare l'insolenza dei ceti borghesi, che pretendevano opporsi ai privilegi della nascita e del sangue, sostituire il valore economico a quello militare e religioso, riformare il diritto, cambiare il costume, liberare i servi della gleba e liberarsi dalle servitù, comprese quelle fiscali, verso i signori della terra. Gli interessi delle campagne non coincidevano con gli interessi delle città: c'era chi voleva vendere caro il proprio grano e chi voleva acquistare a buon mercato il proprio pane. C'era soprattutto un contrasto di mentalità: da un lato, l'antica e prestigiosa cultura signorile, che coincideva con la cultura classica, considerava ignobile e vile l'intera attività economica; dall'altro lato, la cultura o controcultura borghese contava invece proprio sull'attività economica per mettere il mondo sossopra. "L'Italia fu il paese del compromesso storico: buona parte della nobiltà feudale fiutò dove il mondo sarebbe andato a parare e mise piede nelle città" (ibid., p. 463). Anche qui, però, il capitalismo ebbe le sue traversie, tant'è vero che l'Italia centrosettentrionale, economicamente in testa alle nazioni europee nel Duecento, nel Seicento si era lasciata sorpassare e distaccare senza rimedio dall'Olanda e dall'Inghilterra. Ovunque, e fino ai nostri giorni, lo spirito capitalistico, perseguitato, non muore ma emigra dove, di volta in volta, incontra minori difficoltà ambientali e culturali a legittimarsi.
Ovunque, tuttavia, le difficoltà ci sono, appunto perché il capitalismo, già nel nome, si annuncia come una 'scandalosa' pretesa di organizzare la società secondo criteri meramente economici. Pur vittorioso sul feudalesimo, il capitalismo non si è mai definitivamente imposto sul piano etico e politico, né in Occidente né tanto meno altrove, e continua a sollevare obiezioni e reazioni perfino dove pare essere dominante. Gli accaniti attacchi ideologici che ha subito a opera dei movimenti marxistici non sono stati né i primi né gli ultimi. Occorre però tornare alle origini, alla rivoluzione comunal-cittadina, per percepire nell'intera sua estensione la rilevanza del precetto capitalistico di anteporre, in un certo senso, l'economia a tutto il resto. Il punto da chiarire è che il precetto mutava il contenuto dell'economia mentre ne cambiava la collocazione negli ordinamenti sociali. L'economia, che avanzava di rango, non era più la vecchia economia: era un'economia capace di cose nuove perché era l'economia del capitale, anziché l'economia della terra.

2. Un'economia fondata sul capitale

La ricchezza antica era costituita tipicamente da beni naturali, come la terra e l'oro. La ricchezza borghese puntò invece su beni artificiali, come il capitale. Intendiamoci: il capitale, quale strumento produttivo costruito dall'uomo, era sempre esistito e tale si poteva già considerare, per esempio, la selce scheggiata dall'uomo del Paleolitico per farne un utensile o un'arma. Ma fin tanto che la terra e l'oro restavano le basi dell'accumulazione della ricchezza, il capitale non acquistava importanza perché esso non è in grado di produrre direttamente né terra né oro. Essendo questi beni un dono della natura, la nostra volontà non può riprodurli in alcun modo: può bonificare un terreno, ma il terreno deve esserci già; può scavare un filone aurifero, ma il minerale deve esserci già.
Nel sentire antico la disponibilità globale di ricchezza era fissata dalla natura. Chi ambiva a disporre per sé di più terra o di più oro doveva pensare a sottrarre ad altri quei beni, con mezzi pacifici o violenti, a parte i casi sempre meno numerosi di fondi vergini e di nessuno. Non c'era, nitido, il concetto di prodotto netto, di ricchezza creata dall'uomo, e creata per così dire dal nulla; o meglio, il prodotto netto si riduceva alla fertilità della natura che ogni anno fornisce un raccolto, il quale comunque, in epoche di scarso o nullo progresso tecnologico, dipendeva rigidamente dall'estensione dei campi. Ecco come l'accumulazione della ricchezza, nei millenni preborghesi, rispondeva a una mentalità predatoria assai più che a una mentalità produttivistica, a una mentalità militare assai più che a una mentalità economica.
Se non che era proprio l'economia, allora, a rendersi facilmente illecita, per un paradosso che è tale soltanto per i borghesi. La cultura signorile antieconomica non era affatto ostile all'accumulazione della ricchezza, purché ciò servisse un fine pubblico, e non era affatto ostile all'impiego, d'altronde reputato inevitabile, della forza come mezzo, purché ciò corrispondesse a uno scontro col nemico 'ufficiale' (il barbaro, l'infedele, o semplicemente lo straniero, chi era fuori del sacro suolo patrio e mancava di diritti). L'iniziativa economica privata, in cerca del profitto egoistico, esercitava lo stesso un'azione predatoria, in assenza di contributi produttivi, che non si scorgevano, ma la esercitava senza rispettare le regole del bene pubblico e dell'onore militare. Di qui la sua fondamentale immoralità, non appena andava oltre lo stretto necessario.
Il cristianesimo aveva modificato poco questa tradizione psicologica: la definizione di nemico forse si restrinse, ma perdurò l'incapacità di percepire la ricchezza come prodotto netto e quindi come sostanza aumentabile senza trasferimento. Si predicarono il dono, la carità, talvolta l'eguaglianza, più che atti produttivi, e lo stesso lavoro, sebbene nobilitato, sebbene strappato all'infamia classica, lo fu essenzialmente quale forma di preghiera e di espiazione, non tanto ai fini dell'economia. Come avrebbe potuto essere altrimenti, se il cristiano collegava la nascita dell'economia alla caduta dell'umanità nel peccato originale e alla conseguente punizione divina?
Perfino la borghesia, che era anch'essa cristiana, non aveva idee chiare su quello che faceva. Di certo rivendicava il diritto di arricchirsi e divenire potente senza ricorrere in via preventiva alla conquista militare, senza seguire le orme della nobiltà feudale: col 'nemico', anziché combattere, si potevano realizzare buoni affari, e addirittura, pareva, con beneficio reciproco. Inoltre, la borghesia andava scoprendo che, mentre la terra non produce terra, il capitale produce capitale, anche se non è evidente il perché, e dunque permette un genere di arricchimento rapido e illimitato. La scoperta rimase equivoca a lungo, il capitale non venne capito subito nella sua intima potenza creativa, troppo spesso venne degradato a mero capitale finanziario, ovvero nuovamente a moneta d'oro improduttiva (la moneta non partorisce moneta). Ci si impegolò nelle dispute sull'interesse e sull'usura, ma intanto la società cambiava a dispetto dei conservatori e dei moralisti, cambiava in attesa di giustificarsi, di giustificare quanto avveniva quasi da sé, per prorompente vitalità, incontrollatamente.
Il capitale produce capitale: ecco l'importante. "Il capitale è la potenza economica della società borghese che domina tutto; esso deve costituire il punto di partenza così come il punto d'arrivo, e deve essere trattato prima della proprietà fondiaria": Marx, nell'introduzione a Per la critica dell'economia politica, affermava l'evidente, dopo alcuni secoli di capitalismo, ma lo affermava dubitando che l'economia politica avesse già spiegato bene come il capitale si autogenerasse. E invero né la scolastica, né il mercantilismo, né la fisiocrazia, né la scuola classica fondata da Adam Smith avevano fugato ogni ombra. Giacevano in fondo alla mente di ognuno gli antichi preconcetti: che il guadagno di una parte doveva essere per forza la perdita in pari quantità di un'altra parte, e che al massimo era la natura a possedere una virtus generativa e a regalarci qualcosa.
Lo stesso Marx non sfuggì alla tentazione di scorgere, dietro il capitale che cresce a dismisura, un colossale processo di sfruttamento: non sfruttamento della natura a opera dell'uomo, ma sfruttamento dell'uomo a opera dell'uomo, del proletario a opera del capitalista. L'uomo marxiano era, sì, capace di creare, lavorando, un prodotto netto, un di più rispetto al naturale, un surplus, un plusvalore, ma, come le api, lo creava per farselo predare dal proprietario del capitale. Pertanto, il capitale era il mezzo per estorcere plusvalore al lavoratore e quel plusvalore era anche pluslavoro, poiché tutto il valore economico veniva dal lavoro. Qui stava, secondo Marx, l'efficacia della terribile formula capitalistica, che sconfiggeva la "sconcia neghittosità" feudale obbligando il lavoratore a cadere nell'eccesso opposto di un massacrante pluslavoro prima inimmaginabile.
Nell'epoca di Marx i turni di lavoro nelle fabbriche superavano spesso le dodici ore giornaliere, ed era sotto gli occhi di tutti che prolungando l'orario, facendo girare le macchine più a lungo, si aumentava la produzione industriale. In agricoltura non era così: non si otteneva un raccolto doppio, lavorando il doppio sul medesimo campo. Ecco un'altra differenza tra il capitale e la terra, a vantaggio del capitalista che teneva per sé tutto quanto l'operaio produceva in più rispetto al minimo di sussistenza. In una giornata lavorativa di dodici ore, se per esempio ne bastavano sette all'operaio per produrre il necessario a mantenersi in vita e a riprodursi, le cinque rimanenti fornivano beni che il capitalista trasformava in profitto per sé e in fonte di nuovo capitale. E poiché il capitalista era insaziabile nella voglia di accumulare capitale, il capitalismo portava a un grado di sfruttamento dell'operaio superiore a quello del contadino, del servo della gleba, dello schiavo nei sistemi precapitalistici, nei quali vi erano dei limiti dettati da leggi di natura riguardanti la terra.
Così "nel suo dominio appena secolare di classe", la borghesia aveva creato forze di produzione "più gigantesche e imponenti" di quelle di tutte le generazioni passate messe insieme (Manifesto del partito comunista). Era la via obbligata verso il regno dell'abbondanza, ma una via spinosa, che il proletariato sanguinante percorreva prestando un immane pluslavoro sotto la sferza del capitale. Lì stava "il grande ruolo storico del capitale", la sua "funzione civilizzatrice". "Uno degli aspetti in cui si manifesta la funzione civilizzatrice del capitale è quello di estorcere pluslavoro in un modo e sotto condizioni che sono più favorevoli allo sviluppo delle forze produttive, dei rapporti sociali, e alla creazione degli elementi per una nuova e più elevata formazione [di capitale], di quanto non avvenga nelle forme precedenti della schiavitù, della servitù della gleba, ecc." (v. Marx, 1867-1894; tr. it., vol. III, pp. 932-933).
L'avidità del capitalista serviva uno scopo sociale. E non sorprende che, decenni dopo, Keynes mantenesse una visione sostanzialmente eguale del capitalismo: "L'immensa accumulazione di capitale fisso, che con gran vantaggio dell'umanità venne condotta durante il cinquantennio che precedette la guerra [la prima guerra mondiale], non si sarebbe potuta formare in una società dove la ricchezza fosse egualmente divisa [...]. Negli inconsci recessi del suo essere, la società sapeva quello che si faceva. La torta era realmente piccola in proporzione agli appetiti di consumo, e se essa fosse stata ripartita in giro fra tutti, ben poco ognuno ne avrebbe potuto godere. La società lavorava non per i piccoli piaceri dell'oggi, ma per la certezza del futuro e per il miglioramento della specie; in sostanza per il 'progresso"' (v. Keynes, 1919; tr. it., pp. 15 e 19).
Tanto Marx quanto Keynes sostenevano, ovviamente, che il capitalismo sarebbe finito, di morte violenta o di dolce eutanasia, terminata la sua "funzione civilizzatrice", per lasciar posto a un sistema più equo, nel quale l'ottenuta abbondanza diventasse finalmente accessibile al benessere di tutti. Per intanto, il capitalismo era quello che la storia aveva imposto con certe caratteristiche tipiche e fors'anche fatali, che è il momento di riassumere: un apprezzamento degli atti economici e in particolare degli atti produttivi, che l'antichità aveva trascurato e perfino vilipeso; uno spostamento di attenzione dalla terra al capitale, dal naturale all'artificiale, dall'agricoltura all'industria; uno sfruttamento delle nuove occasioni di ottenere pluslavoro e quindi plusvalore, che era stato risparmiato e investito, non consumato se non in minima parte, ai fini della massima accumulazione di capitale.
Ciò aveva richiesto, fra l'altro, dei profondi mutamenti giuridici. Il concetto di proprietà, che il feudalesimo applicava alla terra, non poteva certo valere per il capitale della borghesia. La terra feudale era una specie di bene in comune su cui molti vantavano diversi diritti parziali. Il capitale borghese doveva invece essere rigorosamente privato, per essere gestito liberamente dal proprietario capitalista e a suo esclusivo profitto. Affermatosi il concetto borghese di proprietà, esso si era poi esteso anche al settore agricolo (agricoltura capitalistica), per esempio col fenomeno delle enclosures, della recinzione dei campi una volta aperti alla collettività locale. La terra, che era stata a lungo praticamente fuori commercio, col diffondersi del capitalismo subiva la stessa sorte del capitale, cioè si vendeva, si comperava e si affittava con grande facilità, in modo che la gestione finisse col toccare ai più efficienti.Il diritto del lavoro non era mutato meno. Quando la borghesia aveva dato il colpo di grazia alla servitù feudale, la figura del salariato, di infima importanza nell'antichità, si era gradatamente moltiplicata fino a costituirsi come figura normale. Pagato a tempo, il salariato conveniva a un sistema basato sull'indurre l'operaio al pluslavoro e che desiderava assumere e licenziare secondo criteri puramente produttivistici. La mobilità del salariato non era d'altronde che un aspetto della più generale mobilità della gente dalla campagna alla città, da una città all'altra, da un mestiere all'altro, da un mercato all'altro, in una economia non più stazionaria e non più autarchica.
Se ci fermassimo qui, disporremmo di un vasto quadro di cambiamenti sociali, senza però esaurire affatto il complesso delle innovazioni intervenute con l'irrompere del capitalismo. E anzi lasceremmo fuori quello che forse è il cambiamento psicologico più radicale e che in modo ellittico possiamo chiamare il cambiamento per il cambiamento. L'analisi del capitalismo fin qui condotta palesemente non soddisfa, se non altro perché non risponde a fondo nemmeno agli interrogativi posti da essa stessa. Non sfugge la rozzezza di una spiegazione che faccia dipendere il plusvalore soltanto dal pluslavoro e da nient'altro, come se non esistessero un progresso organizzativo, un progresso tecnologico, un progresso merceologico e via dicendo. È indispensabile proseguire l'analisi legando ciò che aggiungeremo a ciò che precede, cercando cause comuni e fattori omogenei.
Ora, è proprio la passione del cambiamento per il cambiamento ciò che più distinse e distingue il capitalismo, nei suoi momenti più dinamici, dai sistemi stazionari e semistazionari che lo precedettero; ed è pure ciò che lo rese e lo rende accanito nella ricerca del progresso di ogni genere, vale a dire nel tentativo di aumentare i 'gradi di libertà' concessi all'uomo. Fare cose che prima non si sapevano fare, accrescere le possibilità o le scelte a noi concesse, giungere dove nessuno era mai giunto, sperimentare nuovi modi di vita, in una incessante "creazione distruttrice" (per usare le note parole di Schumpeter): in questo consistette e consiste lo spirito capitalistico allo stato puro, nonché il carattere saliente dell'uomo occidentale, che ha finito spesso con l'assumere i tratti del borghese trionfante al culmine della sua parabola. Così il quadro si completa, fors'anche si dilata eccessivamente, ma la timidezza non paga nell'esplorare un sistema tanto esteso e tanto complesso quanto il capitalismo.

3. Un'economia basata sull'innovazione

"Il dinamismo sociale, che chiamasi pure progresso sociale, incute alle masse un vero terrore, in ragione del suo costo, che, se non è per ora misurato e misurabile, è tuttavia vagamente sentito. È questo il fondamento delle opposizioni che incontra. La grandissima maggioranza è in favore di condizioni statiche. Una piccola parte dell'umanità funziona da lievito. Nelle nostre società questa parte della popolazione è più numerosa e incontra minori resistenze che in altre. Eppure, anche nelle nostre società sono manifeste molte correnti che tendono a limitare la variabilità dei gusti, le invenzioni tecniche o sociali, e la concorrenza [...]. Una gran parte del favore che il socialismo trova è dovuta alla speranza che riesca a creare condizioni più stabili, a burocratizzare la vita, ad assicurare pensioni, a eliminare la rivoluzione perpetua che la concorrenza produce in ogni situazione" (v. Pantaleoni, 1925, vol. I, pp. 220-222).
Questa, di Maffeo Pantaleoni, è la costatazione di un fatto razionalmente spiegabile: il costo del progresso non è immaginario, esso consiste nella pena reale associata alla rottura di comode abitudini, nell'offesa che subiscono gli interessi precostituiti in seguito all'irrompere del nuovo, e nei rischi connessi al sovvertimento dell'equilibrio sociale. Il progresso è una serie di salti nel buio: ci pone di fronte a situazioni impreviste e non fornisce garanzie che sapremo scegliere bene quando avremo allargato il ventaglio delle scelte. Oltre all'istintiva diffidenza delle masse per il cambiamento, esiste una concezione colta della vita per cui non dobbiamo cambiare per cambiare, bensì aderire il più possibile a modelli fissi di perfezione, che preesistono e per loro natura non diventano mai obsoleti. La ripetizione, non il cambiamento, è allora il processo sociale ideale: processo collettivo, poiché i modelli sono unici, validi per tutti e non concedono varietà soggettive.
Meno convincente è però Pantaleoni quando, per esemplificare casi di dinamismo ridotto al minimo, citava "la storia secolare della Cina e quella dell'India, e il nostro Medioevo". Al contrario, proprio nel nostro Medioevo il cambiamento per il cambiamento si impose per la prima volta, pur fra numerosi ostacoli: proprio allora si prese gusto a una via moderna contrapposta alla via antiqua e cominciò, in nome della ragione, l'attacco frontale agli usi, alle consuetudini, alle tradizioni, alle credenze, agli assoluti (fino a mettere in dubbio la ragione stessa). Il fenomeno non fu affatto limitato al campo dell'economia ed ebbe cause recondite su cui si discute senza fine; ma nel campo dell'economia fu prorompente, avendo trovato nel mercato di concorrenza l'istituzione adatta a dispiegarne gli effetti.Appunto perché l'innovazione economica offende gli interessi precostituiti, essa è l'arma adatta per attaccare e vincere nel mercato di concorrenza. Nel medesimo tempo il mercato di concorrenza è l'istituzione opportuna per fomentare l'innovazione economica, che in esso diventa una necessità vitale: o innovare o perire. Il capitalista accumula capitale, è vero; se non che ci sbagliamo di grosso se pensiamo in termini puramente quantitativi, come se il capitale accumulato fosse sempre della stessa qualità (come accadeva grosso modo con la terra). 'Capitale' è parola generica, che nel capitalismo designa beni non soltanto diversi fra loro nello spazio, ma diversi nel tempo, beni nuovi che sostituiscono incessantemente beni vecchi.
L'accumulazione capitalistica non consiste principalmente nell'aggiungere nuovi 'strati' di capitale a quelli già creati, bensì nel rimpiazzare quelli già creati con nuovi strati di maggior valore. L'obsolescenza e l'ammortamento del capitale sono quindi tanto importanti quanto l'investimento. Il capitalismo non costruisce più per l'eternità: il suo capitale è precario, così come sono precari i suoi posti di lavoro. Per accumulare bisogna prima innovare, altrimenti, come vedremo, la crescita si inceppa, si arresta e perfino regredisce, come spiegherà Keynes. Ma neanche Keynes, al pari di tanti altri economisti, riuscirà a svincolarsi del tutto dal pregiudizio quantitativo, e pertanto ci fornirà del capitalismo (di cui era nemico) un'immagine monca.
Contrariamente a quanto molti credevano in passato, il Medioevo fu capitalistico anche perché fu un periodo di sostanziale progresso tecnologico. "Lo sviluppo iniziatosi con la rivoluzione comunal-cittadina ebbe un alto contenuto tecnologico. Mulini e velieri in primo piano. L'applicazione su larga scala dell'energia idraulica ed eolica mediante l'uso di mulini ai processi di fabbricazione dei tessili, del ferro, della carta e della birra, quindi in altre parole la meccanizzazione mediante uso di energia inanimata nei processi suaccennati, l'adozione dell'arcolaio, i miglioramenti tecnici nell'attività mineraria, i progressi nelle tecniche di navigazione e delle costruzioni navali, l'invenzione degli occhiali, l'invenzione e il progressivo perfezionamento dell'orologio meccanico, l'invenzione della stampa a caratteri mobili, i perfezionamenti nella produzione e nell'uso dell'artiglieria non furono che i punti salienti di un processo cumulativo di sviluppo tecnologico che investì ogni settore della produzione economica e ogni paese d'Europa" (v. Cipolla, 1988, p. 466).
La ruota idraulica e la vela perfezionate, il mulino a vento, l'arcolaio, la bussola, l'orologio, ecc., erano nuove forme di capitale create dall'ingegnosità medievale. Distinguiamo però da questo progresso tecnologico un altro tipo di progresso, che nei secoli successivi si sarebbe dimostrato ancor più necessario al capitalismo: il progresso merceologico, che consiste nell'invenzione di nuovi beni di consumo, nuovi come qualità, non importa se fabbricati con tecniche nuove o vecchie. Mentre in pratica il progresso mercantile e quello tecnologico vengono solitamente confusi, l'analisi teorica deve separarli perché (lo vedremo) essi recitano due parti differenti nel sistema di mercato. Gli occhiali sono un esempio di nuovo bene di consumo a disposizione degli europei dal XIII secolo, ma la rivoluzione dei consumi, che sfocerà nel consumismo capitalistico, si realizzerà in massa assai più tardi, dopo la rivoluzione industriale del XVIII e XIX secolo.
Il progresso merceologico fu all'inizio soprattutto un progresso mercantile, consistente nell'importare da terre lontane prodotti esotici, rari o affatto sconosciuti. La vigorosa ripresa del commercio facente capo all'Europa, dopo l'anno Mille, non fu soltanto una manifestazione dell'avidità di profitto: fu anche un modo di esprimere, da parte degli europei, la loro sete di novità, di cambiamento, di avventura, di esplorazione, di sperimentazione, come testimonia il Milione del mercante Marco Polo e come perfino le Crociate in un certo senso confermavano. L'Oriente favoloso stimolava la nostra curiosità, e la curiosità diveniva un ingrediente dello spirito capitalistico e dello spirito scientifico, una nostra caratteristica distintiva, che difettava agli orientali. Ficcare il naso in casa d'altri e nei segreti della natura, nella fisica, nella geografia, e farlo con intenti utilitari, fu senza dubbio uno scopo diffuso in Occidente già nel Medioevo e poi destinato a trionfare oltre ogni attesa, fino ai nostri giorni.
Per organizzare la nuova rete intercontinentale di traffici venne richiesto un progresso finanziario, oltre che dei trasporti: il capitalismo, in altre parole, si costruì un suo sistema monetario e creditizio per effettuare i pagamenti. Si costruì pure un suo sistema contabile, per il calcolo del profitto, e in entrambi gli esercizi l'Italia fu all'avanguardia. Nella contabilità capitalistica il rischio del cambiamento appare nella specie di un costo anticipato rispetto a un ricavo futuro e incerto. L'attività capitalistica si traduce dunque in una serie di cambiamenti o trasformazioni di costi in ricavi, cui corrispondono sempre delle anticipazioni di valori. Chi produce anticipa il costo del lavoro, delle materie prime, dei macchinari, ecc.; chi commercia anticipa il costo delle merci, che spera di rivendere; chi presta anticipa una somma a favore di un debitore, che ha l'obbligo di rimborsarlo alla scadenza.
Il capitalista indossa così i panni di colui che si assume il rischio del cambiamento e dell'anticipazione dei valori, nonché il profitto o la perdita conseguente. Del pari, è capitale qualunque valore anticipato, se consideriamo l'accezione più estesa del concetto, comprensiva dell'idea di capitale quale strumento prodotto in via anticipata per ottenere altri prodotti. Un forno da pane va costruito prima di ottenerne il pane, perciò è capitale e capitalista è il fornaio proprietario. Il quale fornaio mira a ricavare dal pane più di quanto a lui siano costati il forno e quant'altro occorre per la panificazione. Ma mentre qui è facile prevedere con pochi errori il ricavo del pane che il forno consentirà di produrre, il rischio dell'anticipazione aumenta se il capitalista tenta vie nuove, inusitate, senza precedenti, o più lunghe, più perigliose, meno controllabili.
La nave che partiva per l'Oriente non avrebbe fatto ritorno prima di mesi e mesi, sempre che le tempeste e i pirati non lo avessero impedito, e il suo carico si sarebbe acquistato e venduto a prezzi largamente imprevedibili. Analogamente, introdurre una costosa novità tecnica, diciamo un nuovo tipo di nave non provato in precedenza, poteva costituire un grosso vantaggio, se l'esperimento riusciva, o un grosso svantaggio, se non riusciva. Sicché la frenesia capitalistica del cambiamento per il cambiamento corrispondeva a effettuare anticipazioni più costose e più rischiose, e in campo economico, non militare. I rischi erano 'calcolati', s'intende, ma calcolarli non significava evitarli. Le famiglie borghesi, che sovente non avevano un passato illustre, non avevano nemmeno un avvenire assicurato: la loro caduta poteva essere tanto repentina quanto la loro ascesa. Il fallimento e la bancarotta assunsero un ruolo sociale mai prima osservato, e la circolazione delle élites accelerò per cause economiche. Mentre a Firenze i Peruzzi e i Bardi si rovinavano, 'uomini nuovi' salivano alla ribalta in un continuo avvicendamento, che la borghesia realizzava ben più della nobiltà.
Va da sé che la borghesia arrivata tendeva a stabilizzare la sua posizione ricorrendo, se opportuno, a mezzi corporativi, o a mezzi politici, come fu per i Medici a Firenze, o imitando la nobiltà proprietaria terriera e ritirandosi dai traffici. Non di meno la stessa borghesia aveva irrimediabilmente offeso proprio quella mentalità e quelle istituzioni che avrebbero potuto meglio proteggerla, ed era in qualche misura vittima di se stessa. I borghesi italiani furono pertanto danneggiati da quelli fiamminghi, che lo furono da quelli olandesi, che lo furono da quelli inglesi, che lo furono da quelli americani. La concorrenza, soffocata in un luogo, scoppiava in un altro e ormai tutti i mercati erano poco o molto collegati: si era formato ciò che Immanuel Wallerstein chiama "l'economia-mondo".
Peggio ancora, la borghesia, responsabile di quanto accadeva, stentava a farsi riconoscere una funzione positiva fin nei casi in cui aveva innovato con successo e realizzato un indubbio progresso generale. Le sue perdite non intenerivano nessuno e i suoi profitti erano messi in questione da tutti. È altamente significativo che la scienza economica, già nata tardi, dovesse giungere addirittura alla fine del XIX secolo per cominciare a fornire un'adeguata teoria del profitto, la quale, del resto, è tuttora discussa. Ovviamente, senza una tale teoria, non è dato di comprendere il capitalismo, né è dato di confrontarlo col socialismo o con altri sistemi alternativi.
Con questo non sosteniamo che il profitto sia una categoria valida soltanto nel capitalismo, o presente soltanto in esso: anzi, vi sono buone ragioni per riconoscerlo come una categoria universale. Il fatto è che chiarire la natura del profitto è un prerequisito di qualunque indagine comparativa sui sistemi economici, appunto per evitare l'errore di pensare che alcuni lo usino e altri no. È piuttosto come lo usano ciò che separa i sistemi e li classifica, qualunque sia il vocabolario usato (il quale può ricorrere ad altri termini equivalenti, se la parola 'profitto' urta per le sue risonanze capitalistiche). E, come diremo a momenti, il discorso sul profitto si estende subito all'interesse, la cui natura è simile.

4. Il capitalismo e il profitto

La teoria del profitto è strettamente connessa alla teoria del prodotto netto o del plusvalore, cioè al problema della creazione di un valore non preesistente, non semplicemente trasferito o trasformato. Nel mondo agrario veniva spontaneo pensare che il prodotto netto fosse in qualche modo connesso alla potenza generatrice della natura, soluzione cui si attennero i fisiocrati. Nel mondo industriale, invece, l'intuizione portava in primo luogo a scorgere nel lavoro umano la forza che, aggiungendo qualcosa alla ricchezza preesistente, suscitava nuovo valore economico. Se, insieme a Marx, sosteniamo che il lavoro sia l'unica "sostanza valorificante" e che quindi soltanto il lavoro, anzi soltanto il pluslavoro crei plusvalore, allora il profitto non è un'aggiunta di valore alla produzione, ma una sottrazione di valore al salario.
Con questo Marx non negava che il capitale sia produttivo, però ne riduceva la produttività a quella del lavoro, che aveva costruito il capitale stesso, lo strumento, la macchina, la fabbrica. Si viene a dire che il capitale è nient'altro che "lavoro cristallizzato", e che la contabilità in termini di lavoro è tutto quanto serve in economia. Contro questa interpretazione semplificatrice della realtà produttiva si possono tuttavia avanzare dubbi, alcuni dei quali assillarono Marx medesimo. Era evidente che gli incrementi di produzione realizzati dal capitalismo dipendevano solo in parte dalla sua capacità di estorcere pluslavoro mediante il prolungamento della giornata lavorativa, tanto più che si incontrano assai presto dei limiti naturali a percorrere tale strada, essendo in ogni caso impossibile un'attività superiore alle ventiquattr'ore giornaliere.
Del pari evidente era che il progresso tecnologico recita una parte importante nello sviluppare la produzione. Esso era interpretabile come un progresso della conoscenza rivolto a scoprire quale lavoro fosse inutile e quindi sopprimibile. Marx ammetteva che non qualunque lavoro, ma soltanto il lavoro utile creasse valore economico: se non che un lavoro apparentemente utile decadeva a lavoro inutile non appena si introduceva una nuova tecnica tale da renderlo obsoleto. La nuova tecnica si attuava mediante una nuova forma di capitale, il quale, dunque, era sì 'lavoro cristallizzato', ma pure 'conoscenza cristallizzata'. Anche se accompagnata dal rischio di una disoccupazione tecnologica, ogni avanzata della conoscenza offriva la possibilità di un'avanzata della produzione, grazie alla scoperta di nuovi e migliori tipi di lavoro utile in sostituzione di vecchi tipi di lavoro divenuto inutile, e a prescindere dal prolungamento degli orari lavorativi, ai quali anzi era consentito di diminuire senza ledere la formazione del plusvalore.
Certo, era sostenibile che il tecnico inventore fosse anch'egli un lavoratore al pari di tutti gli altri. Non di meno il suo lavoro manifestava una produttività in larga misura sganciata dal tempo di impegno, nel senso che non bastava pensare durante un tempo doppio per farsi venire il doppio di idee. L'invenzione o la scoperta in campo tecnico rappresentavano poi appena l'inizio di complicati processi innovativi, che occorreva portare a termine per rendere le idee operative, per dimostrarne la bontà pratica, per trasformarle in realtà produttiva, più produttiva di prima. E l'esperienza europea insegnava che, accanto all'inventore, doveva solitamente collocarsi a tal fine la figura dell'imprenditore, una figura spesso coincidente col capitalista e dotata di qualità diverse da quelle del tecnico e dei lavoratori in generale. L'inventore James Watt, per esempio, si era alleato con l'imprenditore-capitalista Matthew Boulton, e le doti d'ingegno del secondo avevano contribuito non meno di quelle del primo al successo economico della macchina a vapore nel corso della rivoluzione industriale.
Inoltre, osservando più da vicino l'attività tipica dell'imprenditore-capitalista, che l'economia borghese spingeva alla ribalta, si notavano via via elementi che avevano sempre meno attinenza col lavoro vero e proprio e sempre più attinenza con la mera assunzione di rischi. Il punto da chiarire era se e come l'incertezza, inevitabile nella produzione, avesse rapporti col plusvalore: una questione intricata, che il capitalismo esasperava in un modo senza precedenti, benché essa fosse presente in qualunque sistema economico, compreso il socialismo. In tutti i sistemi economici, infatti, la produzione non è immediata, i costi precedono solitamente i ricavi, e qualcuno deve assumersi i rischi di sopportare dei costi in vista di ricavi futuri e incerti (salvo che l'avvenire sia perfettamente prevedibile).
Non si poteva negare che la questione riguardasse anche la natura del profitto, il quale per definizione è null'altro che la differenza tra i ricavi e i costi; differenza accertabile soltanto a posteriori, dopo che i ricavi si siano realizzati, e differenza talvolta negativa, non positiva, nel qual caso si parla di perdita. Il capitalista percepisce il profitto o si accolla la perdita appunto perché anticipa i costi, fornisce un capitale, che è sempre un'anticipazione di valore. La natura dell'interesse è analoga, come spiega l'etimologia: 'interesse', essere tra due valori, uno anticipato, l'altro posticipato. I rischi possono essere maggiori o minori, ma nascono sempre dallo sfasamento temporale, dalla mancanza di sincronia tra quanto si sborsa ora e quanto si incasserà in futuro, se si incasserà.
Non che il passaggio del tempo sia condizione sufficiente del plusvalore. Il tempo in sé è una scatola vuota: conta quanto si fa dentro il tempo, e quanto si fa è un'attività lavorativa, produttiva, creativa, spesso innovativa, sempre poco o tanto rischiosa. Ma il passaggio del tempo, trasformando il futuro in presente, toglie incertezza e, se realizza quanto è in potenza nelle risorse iniziali, se mantiene le promesse, costituisce per così dire una forma di produzione, suscita plusvalore, in concorso col lavoro. Infatti, una promessa realizzata è sicura, una promessa solamente annunciata non lo è. La ricchezza fattasi immediatamente godibile vale più della stessa ricchezza soltanto probabile perché differita. Il lavoro del seminatore non garantisce il raccolto, né tanto meno lo garantisce in una misura predeterminata: lo annuncia appena, e in quantità variabile, in attesa che lo scorrere dei mesi faccia la sua parte nel valorizzare il grano. Il carico di spezie a Venezia acquista valore per i veneziani non solo perché si carica delle spese di trasporto dall'India, ma pure perché la sua disponibilità è meno aleatoria di quando era in India.Il fatto che il passaggio del tempo possa creare un valore dal nulla, riducendo l'incertezza, è un fatto universale, da cui discende che, in qualunque sistema economico, il lavoro, in qualsiasi forma si presenti, non è l'unica 'sostanza valorificante': lo è pure la buona sorte e quanto la favorisce, qualora l'uomo non abbia un completo dominio degli eventi economici. Nel socialismo, non meno che nel capitalismo, la collettività sta meglio nel complesso quando il suo lavoro, oltre che essere stato prestato con fatica, mostra infine frutti pari all'attesa, o superiori, grazie all'esito positivo della produzione. Ma se al contrario l'esito fosse negativo, diremmo che la produzione è avvenuta in perdita, anziché con profitto, e che la collettività tutta intera manca di un plusvalore la cui natura è aleatoria.
Ciò che veramente distingue il capitalismo dal socialismo non è la presenza o l'assenza del profitto e della perdita: è chi si assume i rischi relativi, se qualche volontario, animato dalla speranza che gli tocchi più spesso un profitto che una perdita, o la collettività senza esclusioni. Nel primo caso, cioè nel caso del capitalismo, il volontario, che è il capitalista, deve essere in grado di effettuare le anticipazioni opportune, che a lui appaiono come costi da sopportare per ottenere il lavoro, il capitale e quant'altro serve alla produzione. In un'economia di mercato egli contratta detti costi coi lavoratori e i rimanenti fornitori di fattori produttivi, ai quali i costi medesimi si presentano al contrario in veste di redditi guadagnati per la partecipazione al processo economico. Al capitalista toccheranno poi i ricavi futuri e incerti, e questo diritto ai ricavi, indeterminati, è la contropartita per il servizio di anticipazione da lui prestato.
Nel caso del socialismo, invece, anticipare i costi è un compito collettivo, col che cade la distinzione tra lavoratori puri e capitalisti puri, tutti i lavoratori divenendo anche in qualche misura capitalisti. I redditi spettanti ai lavoratori-capitalisti, nel socialismo, sono teoricamente separabili in una quota di salario e in una quota di profitto (o di perdita). In pratica la distinzione non si fa, perché, se si ragiona a livello collettivo, è indifferente che i redditi abbiano questa o quella origine e, se si ragiona a livello individuale, il calcolo non è fattibile, mancando l'indicazione di quanto ogni lavoratore anticipa. Tutto quello che si può dire è che la collettività non sfugge alle alee della produzione, ma ciascuno le sopporta in modo imprecisato, a causa della confusione tra salario e profitto (o perdita): ciascuno bada solo al proprio reddito complessivo che di solito è stabilito politicamente. Collettivizzare le anticipazioni di capitale suscita problemi politici che il capitalismo non conosce. La collettività (a maggioranza?) o qualche suo rappresentante deve decidere dove e quanto anticipare e come retribuire ciascuno. (È ovvio che la retribuzione non è definitiva se non a posteriori, ossia quando i ricavi sono divenuti certi e si sa se la buona sorte ha operato o no). Anche il più democratico dei socialismi deve contenere elementi di coercizione, che si presentano quanto meno come ordini della maggioranza alla minoranza: se ogni individuo fosse lasciato libero di partecipare o no alle anticipazioni, e di parteciparvi molto o poco, si formerebbe presto un mercato del capitale che trasformerebbe quel socialismo volontario in capitalismo.
È lecito inoltre sospettare che, se fosse lasciata alla maggioranza della popolazione la decisione sull'entità e la qualità degli investimenti di capitale, prevarrebbe quel sentimento avverso al rischio di cui parlava Pantaleoni attribuendolo alle masse. Il cambiamento e l'innovazione sarebbero forse ridotti al minimo, e lo stesso progresso tecnologico avrebbe le ali tarpate. A questo proposito va ricordato che gran parte del progresso tecnologico, compreso quello più semplice, esalta le anticipazioni: fabbricare dei pezzi metallici a mano, uno per uno, richiede scarse anticipazioni; ne richiede di più cominciare col fabbricare uno stampo, che ci servirà in seguito per rendere più celere la produzione dei pezzi. Oltre che essere un costo anticipato, lo stampo è un costo fisso: lo sopportiamo nella stessa misura sia che venga usato per produrre un pezzo, sia che venga usato per produrne cento o mille, sicché torniamo a incappare nel rischio dell'anticipazione, se non sappiamo con certezza quanti pezzi saranno richiesti o venderemo.
La convenienza di ricorrere allo stampo dipende dunque da previsioni incerte: ben difficilmente si può dimostrare a priori che una qualsiasi innovazione, per quanto elementare essa sia, giovi a tutti, subito e con sicurezza. L'umanità è trascinata sulla strada del progresso tecnologico da minoranze attive, che però operano in condizioni radicalmente diverse nel capitalismo e nel socialismo. Nel capitalismo è il capitalista volontario a imporre l'uso dello stampo, se lo ritiene opportuno, addossandosi tuttavia la perdita in caso di insuccesso: ciò non libererà i lavoratori da tutti i rischi economici, ma almeno da alcuni. Nel socialismo, mentre non è facile che sia l'intera collettività a scegliere lo stampo, è più facile che sia l'intera collettività a correre tutti i rischi connessi al suo uso.
Nel capitalismo di concorrenza chiunque è libero di innovare se può anticiparne i costi ed è pronto a subirne le conseguenze dirette, che sono appunto in primo luogo la perdita dei costi anticipati (le conseguenze indirette si diffondono spesso incontrollatamente nella popolazione). Nel socialismo collettivistico non tutti hanno quella libertà, ma chiunque è esposto alle conseguenze dirette e indirette, positive e negative, delle scelte fatte da chi ne ha il potere. E ancora: nel capitalismo di concorrenza è frequente che libere e diverse scelte produttive, effettuate da individui diversi, coesistano per qualche tempo, finché l'esperienza non dimostri quale fra esse sia la migliore; nel socialismo collettivistico si giunge più rapidamente a una scelta uniforme, a causa della minore libertà di decidere e della maggiore capacità di imporre ovunque la stessa decisione.
Il procedimento socialistico offrirebbe forti vantaggi se fosse dato di predeterminare con una certa accuratezza, a opera di esperti, gli effetti delle innovazioni proposte e da mettere a confronto; ma questi esperti, pur nel caso di loro massima competenza, è presumibile sappiano molto sul passato e sul presente, ma poco sul futuro. Più l'innovazione è radicale e meno c'è ripetizione, meno esistono i precedenti sui quali fondarsi per arguire quanto succederà anche nel nostro caso. All'inizio del Novecento, tre quarti delle automobili costruite negli Stati Uniti erano o a vapore o a elettricità, ed esse sarebbero state considerate uno spreco se fosse stato noto che la soluzione vincente era costituita dal motore a benzina, sul quale tuttavia gli esperti non puntavano. Nessuna gara meriterebbe di essere disputata se il suo esito si potesse calcolare a tavolino e il vincitore risultasse identificabile in partenza. La concorrenza di mercato presuppone che i concorrenti debbano gareggiare per mostrare virtù e difetti che soltanto la gara stessa mette in luce.
Il capitalismo europeo, adottando la concorrenza come sistema ideale (in pratica, s'intende, più o meno corrotto), si era ispirato alle filosofie individualistiche e liberali, insieme alle quali crescerà a partire dalla rivoluzione borghese. Ma aveva pure contribuito all'adozione la singolare storia politica del continente, un continente frammentato in numerosi popoli indipendenti e diversamente creativi, ciascuno col suo genio particolare e le sue particolari esperienze. Un'innovazione di successo in una nazione europea aveva molte probabilità di essere imitata dalle nazioni vicine, mentre i fallimenti in un luogo insegnavano a evitarli nel resto del continente.
Questo trionfo della varietà, collegato con la mania del cambiamento, contrastava con gli impulsi verso l'uniformità e la stabilità più tipici degli imperi centralizzati. Nell'Europa occidentale vi erano di continuo nazioni con un'economia caratterizzata da uno sviluppo originale e altre nazioni con un'economia caratterizzata da uno sviluppo imitativo, ma l'imitazione era per lo più considerata una fase transitoria in vista del superamento delle rivali. Il capitalismo, presentandosi come una serie di scommesse sul futuro, premiava la mentalità disposta ad affrontare le alee economiche e anzi a suscitarle, e ciò faceva fino a farsi paragonare a un onnipresente gioco d'azzardo, che trasformava la società in una bisca. Ovviamente ne derivavano e ne derivano anche critiche anticapitalistiche, perché non tutti, nemmeno in Occidente, gradivano e gradiscono quei lati della vita in cui il caso o la fortuna sembrano prevalere sul merito.
Tali critiche (noi oggi lo sappiamo dopo tanto discutere) non colpiscono sempre il bersaglio. I razionalisti sono propensi ad attribuire al caso o alla fortuna qualunque successo che essi siano stati incapaci di prevedere. Ora, nel capitalismo di concorrenza gli alti profitti sono spesso dovuti a scelte produttive nuove, non conformistiche, che urtano la 'saggezza convenzionale' e che gli esperti non scorgevano o rifiutavano. Deve essere così: per guadagnare molto serve un fattore di sorpresa, non la routine alla portata di chiunque. Cessata la sorpresa, gli alti profitti di chi ha anticipato i costi vengono 'assaliti' dagli imitatori e da coloro ai quali i costi sono pagati (fra cui i lavoratori, che reclameranno salari maggiori), secondo processi cui Schumpeter dedicò molta attenzione.
Resta comunque vero che nel mercato capitalistico la gara concorrenziale non dà la vittoria al 'migliore', secondo criteri razionali (e tanto meno secondo criteri etici o estetici), bensì al produttore il quale, magari per mero accidente, abbia col suo prodotto incontrato la domanda dei consumatori, chiunque essi siano. Non vi è alcun presupposto per cui il gusto dei consumatori debba essere educato o adeguato a canoni convenuti di rispettabilità e la produzione debba mirare all'eccellenza qualitativa, come negli intendimenti corporativi avversi alla concorrenza. Il mercato capitalistico è neutrale, colloca fuori di sé, nella coscienza dei consumatori stessi, ogni responsabilità etica ed estetica, e pur quando cerca di influire sui loro gusti, con la pubblicità commerciale o in altro modo, lo fa esclusivamente per vendere di più.
Perciò il mercato capitalistico è disposto a vendere anche libri scritti contro il mercato capitalistico, purché vi scorga una possibilità di guadagno monetario. Le famiglie, le scuole, le chiese, i governi, e altre istituzioni di tal genere mantengono importanti funzioni di indirizzo nelle società capitalistiche, però separatamente dal mercato, almeno in teoria, e nonostante certe inevitabili interferenze reciproche che si osservano nella realtà. Nessun sistema sociale funziona allo stato puro, non di meno le realizzazioni storiche del capitalismo concorrenziale sono ampiamente differenziate da quelle del socialismo collettivistico, appunto perché più si rinuncia al mercato e più si rinuncia alla sua neutralità. Nel socialismo, collettivizzare le anticipazioni o gli investimenti di capitale conduce per forza a collettivizzare i consumi, e quindi ad accrescere gli elementi politici non neutrali che governano i modi di vita.In tutte le società, comprese quelle capitalistiche, vi sono dei consumi proibiti per legge e dei consumi obbligatori, ma nel socialismo la sfera dei consumi lasciati alla discrezionalità individuale è facilmente più ridotta. Lo è per ragioni 'tecniche', connesse a come si formano le scelte collettive, e lo è per ragioni ideologiche, quelle medesime che hanno indotto a collettivizzare. Non si può credere che capitalismo e socialismo si distinguano soltanto nei mezzi usati e non anche nei fini, e che tutto si riduca a stabilire quale sistema sia più efficiente. Il discorso, in termini di efficienza, si ferma quasi immediatamente, non appena cioè cominciamo a scorgere che capitalismo e socialismo hanno talvolta scopi perfino opposti, per cui quanto qui è efficienza, là è inefficienza, e viceversa. Vi sono buoni motivi per presumere che il capitalismo sia il sistema più efficiente per raggiungere i suoi propri obiettivi e il socialismo il più efficiente per i suoi diversi obiettivi.

5. La crescita del mercato capitalistico

La neutralità del mercato capitalistico si riferisce alla domanda dei consumatori, i quali possono acquistare ciò che vogliono, purché acquistino, in modo che i capitalisti abbiano una prospettiva di profitto. Non è sconosciuto il caso di capitalisti animati da uno scopo morale, che li porta a condannare certi consumi e a proporne altri in sostituzione: per esempio, capitalisti puritani puntarono sull'industria delle bevande gassate per combattere l'alcolismo; ma il successo che il mercato decretò loro prescindeva dalla loro finalità extraeconomica. La funzione del mercato è semplicemente quella di captare, dove esiste, una domanda potenziale insoddisfatta e di trasformarla in domanda effettiva per soddisfarla con profitto.Il mercato non è passivo, non si limita a registrare le domande, bensì le suscita, e questo ruolo attivo è tanto più rilevante quanto più lo sviluppo economico è avanzato e il livello medio dei consumi è alto. I bisogni di prima necessità sono dettati dalla natura in una dimensione quasi fissa e sono all'incirca i medesimi per tutti; i bisogni artificiali e i semplici desideri possono essere invece assai differenti da individuo a individuo, perché dipendono soltanto da noi e sono suscettibili di crescere illimitatamente. Il mercato capitalistico, mediante il progresso merceologico, inventa e propone sempre nuovi beni di consumo, che saranno generalmente beni voluttuari ('superflui' a tutto, tranne che alla ricerca del piacere), per stimolare i bisogni artificiali, i semplici desideri e le domande relative.
Mentre perfino Marx lodava il capitalismo per l'enorme capacità di produrre e aumentare l'offerta di merci, si è dato meno peso alla sua ancor più straordinaria capacità di espandere la domanda di merci. E mentre tutti insistono sul progresso tecnologico, può sfuggire che al capitalismo è ancor più indispensabile il progresso merceologico, senza il quale ogni domanda verrebbe presto soddisfatta, e la sazietà dei consumatori e la saturazione del mercato fermerebbero lo sviluppo economico. Il progresso tecnologico è un portato della concorrenza, nel capitalismo, ma può risolversi in definitiva in un aumento del tempo libero dal lavoro, ciò che non interessa al mercato se non in quanto il tempo libero sia esso stesso fomentatore di speciali domande di consumo. Il progresso merceologico, al contrario, tende a frenare l'aumento del tempo libero, inducendo a lavorare per produrre i nuovi beni di consumo, e stuzzica direttamente le domande.
Inoltre il progresso merceologico è connesso ai processi concorrenziali di mercato anche più del progresso tecnologico. I capitalisti non gareggiano tanto per soddisfare meglio, a più basso costo, vecchie domande, quanto per accaparrarsi nuove domande, che essi stessi cercano di creare dal nulla. Detto in altro modo: è spesso più facile entrare in un mercato nuovo che allargare la propria quota in un mercato vecchio. Ma in realtà tutti i capitalisti, in qualunque settore operino, si contendono alla fin fine un unico e complessivo potere d'acquisto dei consumatori. Chi vende televisori non è in concorrenza soltanto con gli altri venditori di televisori: lo è pure con i venditori di automobili, di frigoriferi, di qualunque cosa pretenda per sé una fetta del reddito delle famiglie acquirenti.
Di qui il relativamente scarso impatto del monopolio nel capitalismo di mercato. È vero che la concorrenza stessa, premiando i vincitori della gara, può renderli temporaneamente dei monopolisti o quanto meno degli oligopolisti, ma (se non intervengono fattori, di solito politici, che impediscano ovunque alla gara di continuare) è raro che si possa dormire a lungo sugli allori. Un ipotetico monopolista nel settore teatrale sarebbe stato minacciato egualmente dal cinematografo muto e poi da quello sonoro, così come un altro ipotetico monopolista in quest'ultimo settore non sarebbe sfuggito all'attacco della televisione in bianco e nero e a colori. Nessun capitalista è mai stato abbastanza potente da controllare tutti i settori e da impedire sempre che ne nascano di nuovi, salvo che la legge gli attribuisca una posizione monopolistica assoluta e universale.
Il progresso merceologico, che tanto giova alla concorrenza, è ovviamente rischioso per i produttori che lo praticano e per quelli che lo subiscono. I produttori che lo praticano vedono fra l'altro che esso obbliga di frequente ad allungare i tempi delle anticipazioni di capitale, oltre la durata richiesta dal progresso tecnologico, col quale in pratica è mescolato. Il progresso tecnologico richiede di costruire una nuova macchina, un nuovo impianto o una nuova fabbrica prima di avviare la produzione; il progresso merceologico aggiunge a ciò l'attesa che si formi a poco a poco la domanda in grado di assorbire una nuova produzione. Col progresso merceologico non solo i costi precedono i ricavi, ma l'offerta precede la domanda, che deve 'imparare' i nuovi consumi.
"Se l'industria cotoniera del 1760 fosse dipesa interamente dalla domanda effettiva del momento, le ferrovie dalla domanda effettiva del 1830, l'industria automobilistica da quella del 1900, nessuna di queste industrie avrebbe iniziato [...]. La produzione capitalistica dovette trovare il modo di crearsi i suoi propri mercati in espansione" (v. Hobsbawm, 1965). Si comprende quindi perché il progresso merceologico rende più acuto il problema dei costi fissi e spinge le imprese a sostenere anche ingenti costi di propaganda, di pubblicità, di promozione delle vendite. Sono manifestazioni del cosiddetto consumismo, fenomeno la cui importanza è andata crescendo senza tregua con l'evoluzione capitalistica.
Il moderno capitalismo consumistico o opulento sembra totalmente opposto al capitalismo pauperistico, del quale ragionava Marx, e al capitalismo austero o 'weberiano'. A questo riguardo va ricordato che Max Weber non era affatto cieco di fronte alla 'democratizzazione del lusso', in corso all'epoca in cui scriveva, e si limitava a osservare che, in certe fasi del capitalismo primitivo, la condotta dei capitalisti respingeva lo sperpero, così come l'avarizia, circa i propri guadagni, i quali andavano risparmiati e reinvestiti con oculatezza per continuare ad accumulare capitale. È indubbio che per certi versi il calvinismo ha contribuito a tale spirito capitalistico di sobrietà operosa, ma senza mai proporsi l'esaltazione dell'economia di mercato. D'altronde, assai prima di Calvino la rivoluzione comunal-cittadina era già avvenuta anche con il proposito di sostituire la parsimonia borghese alle 'mani bucate' del cavaliere feudale, per il quale il disinteresse, la prodigalità, la munificenza, la magnificenza erano titoli d'onore.
Si aggiunga che il calvinismo dei capitalisti olandesi all'apogeo della loro potenza era quello 'dolce' di derivazione arminiana, tollerante e per nulla nemico dell'agiatezza. Del pari, l'Inghilterra della rivoluzione industriale richiamava sì, con Adam Smith, i rimbrotti contro gli sprechi e le vanità della nobiltà terriera, ma non predicava l'ascetismo e anzi si avviava, con l'utilitarismo di Bentham, a concepire la vita come un ininterrotto 'calcolo felicifico'. Lo stesso Weber ammetteva che la primitiva austerità del capitalista non era un tratto permanente della psicologia propria del sistema di mercato; e oggi a noi è dato di sostenere molto tranquillamente che l'austerità è caso mai peculiare del socialismo, non del capitalismo.
Comunque, merita occuparsi soprattutto del tenore di vita dei lavoratori, che costituiscono la gran massa della popolazione, non di quello dei capitalisti, per quanto non sia irrilevante che costoro talvolta si avvicinino al tipo austero weberiano, talaltra appartengano piuttosto alla leisure class di cui parlava Thornstein Veblen. La tipologia di Veblen distingue pure tra capitalisti industriosi e capitalisti assenteisti, tra capitalisti tecnici e capitalisti finanziari. Esiste sicuramente una grande varietà di personaggi; dubbio è che essi recitino secondo un copione intessuto di leggi sociologiche note.
Dunque, a proposito dei lavoratori, il punto saliente è che sino alla fine del Settecento, cioè fino agli albori della rivoluzione industriale, il salario reale non aveva ancora mostrato alcuna tendenza generale a un duraturo aumento. Il miglioramento più vistoso era avvenuto nella seconda metà del Trecento, ma il capitalismo non c'entrava: il merito, se così si può dire, andava alla peste, che aveva ridotto la popolazione e concesso ai pochi sopravvissuti di nutrirsi più facilmente limitandosi a coltivare le terre più fertili. Ricresciuta la popolazione, il potere d'acquisto del salario era disceso verso il consueto minimo di sussistenza.
All'inizio dell'Ottocento celebri economisti come Malthus e Ricardo potevano continuare a temere che i fattori demografici avrebbero perennemente ancorato il salario al minimo di sussistenza, e alla metà dell'Ottocento Marx, pur sostituendo ai fattori demografici altre cause, insisteva nel dire che il capitalismo non era in grado di fare meglio. Questa pessimistica 'legge ferrea o bronzea' del salario persisterà a lungo nelle credenze collettive (anche dopo Marx, anche presso i non marxisti), solo un poco moderata dal riconoscimento che il minimo di sussistenza non era fisso, ma legato al grado di incivilimento della società. Se poi qualche ottimista ipotizzava un improbabile progresso materiale della classe lavoratrice, c'era subito chi gli opponeva il pericolo che essa allora cadesse in preda all'ozio, non appena la fame cessasse di costringerla ad andare in fabbrica o nei campi.
Col senno di poi ci è concesso oggi di correggere notevolmente il quadro. Il capitalismo, nei luoghi dove la sua fioritura fu più copiosa, contribuì assai presto alla formazione di un suo caratteristico ceto medio che, sebbene non formato da salariati comuni, era abbastanza numeroso. Tale ceto medio fu il primo a godere di quella lenta 'democratizzazione del lusso' che rientra nella logica del capitalismo industriale e di cui il consumismo attuale è una conseguenza che in Occidente si estende fino al ceto operaio. La logica a cui pensiamo punta sullo sviluppo economico illimitato, il quale non è sostenibile con una domanda che derivi esclusivamente dalla sempre piccola frazione della collettività costituita dai più ricchi. Non importa che questa frazione minima costituisca una leisure class dedita a 'consumi vistosi' o un gruppo di capitalisti austeri, che vendono a se stessi beni di investimento: in ogni caso, il mercato ristretto dimostra la sua fragilità ai fini dello sviluppo, e presto o tardi vien fatto esplodere dalla concorrenza e dal progresso merceologico, pena, altrimenti, l'arresto dello sviluppo.
L'esperienza storica rivela diversi artifici usati per alimentare la domanda esulando dal mercato, artifici che richiedono un intervento politico (guerre, lavori pubblici, ecc.); ma un conto è rimediare con essi a una breve crisi congiunturale, un altro conto è provvedere a uno sviluppo illimitato e non temporaneo. Se inoltre la spesa pubblica si finanzia con imposte e tasse, essa minaccia di nuocere alla domanda privata e non dà un rilevante e sicuro giovamento alla domanda complessiva, se non in momenti eccezionali. Così pure, l'imperialismo economico e il colonialismo non permettono di ingrossare sistematicamente la domanda, se le popolazioni dominate sono e rimangono povere. Si esporta di preferenza nei paesi con più reddito, non nei paesi con meno reddito di quello del venditore.
Ciò che l'esperienza storica ha di veramente fondamentale da insegnarci è che uno sviluppo incentrato su pochi beni di gran lusso, destinati a una piccola minoranza, non può essere rapido né sostenuto. Lo sperimentò anche l'Italia quando, in epoca rinascimentale o poco dopo, sconfitta la sua industria laniera dalla concorrenza dei paesi europei nordoccidentali, dovette ripiegare sull'industria della seta, ossia su produzioni di più alta qualità: fu un espediente che servì a frenare la decadenza, non a capovolgerla. A differenza dei prodotti artigianali, i prodotti industriali sono forniti dalle macchine in massa e per le masse: più si allarga il loro volume e meno incidono i costi fissi, finché i costi unitari sono così bassi da consentire l'acquisto a gran parte della popolazione.
Reciprocamente l'aumento del salario reale, purché contenuto entro certi limiti non punitivi del profitto, incita ad adottare macchinari che sostituiscono il lavoro e ne accrescono la produttività. Si possono così formare 'circoli virtuosi', che il capitalismo ha sfruttato varie volte. Si discute se, nei paesi industrializzati e nell'ultimo secolo, il continuo aumento del salario reale, di pari passo con l'aumento della produttività media del lavoro, sia stato strappato dai sindacati dei lavoratori ai capitalisti o concesso dai capitalisti per loro convenienza, per trasformare i lavoratori in buoni clienti. La questione è in parte irrilevante, perché in ogni caso sono state le forze del mercato di concorrenza a operare, non essendo altro il sindacalismo, come si è affermato in Occidente, che un'evoluzione della libertà contrattuale tipica del sistema capitalistico.
È a questo punto che gli avversari del capitalismo hanno cominciato a lanciare i loro strali contro la sua forma consumistica, non più contro la forma pauperistica. Dopo la grave crisi mondiale di deflazione del 1929-1934, l'economista britannico John M. Keynes e il suo seguace americano Alvin H. Hansen avevano ipotizzato che il capitalismo maturo e opulento fosse molto vulnerabile e socialmente pericoloso, perché proprio l'alto tenore di vita della popolazione rendeva probabile che i risparmi eccedessero gli investimenti. La moneta così 'tesoreggiata' ristagnava oziosa, non portava ad alcuna domanda di merci, e l'offerta invenduta provocava fallimenti, disoccupazione, cadute del reddito nazionale e un ritorno alla miseria. Senza una socializzazione più o meno ampia degli investimenti il capitalismo consumistico era velleitario, non riusciva ad andare stabilmente oltre una data soglia di benessere, perché l'offerta pletorica stentava sempre più a trovare sbocchi adeguati e remunerativi.
La socializzazione degli investimenti si proponeva di rimediare istituendo il Welfare State, la fornitura massiccia di servizi pubblici di sicurezza sociale in sostituzione dell'iniziativa privata; ma, sebbene spesso non lo si dicesse apertamente, ciò avrebbe significato, più che un rimedio, l'eutanasia del capitalismo consumistico, se non di qualunque capitalismo. Nella concezione di Marx il capitalismo pauperistico doveva perire di morte violenta, per ribellione dei proletari; nella concezione di Keynes il capitalismo consumistico sarebbe trapassato senza una rivoluzione sanguinosa e forse addirittura col consenso dei capitalisti, che speravano di salvare il salvabile cedendo ai governi i loro magazzini ridondanti.I keynesiani e i fautori del Welfare State sottostimavano di grosso le capacità di recupero del capitalismo consumistico e gli effetti tonici sulla domanda dell'ulteriore progresso merceologico (si pensi, per esempio, alla valanga di nuovi beni di consumo forniti dalle recenti applicazioni dell'elettronica e avidamente assorbiti dal mercato). Non si fa però giustizia al pensiero keynesiano e anzi, per questo, al pensiero socialistico in generale, se non si aggiunge e non si sottolinea che l'illimitato progresso merceologico non era giudicato soltanto difficile, ma altresì indesiderabile. Tale progresso merceologico veniva posto al passivo, non all'attivo, nel fare il bilancio del capitalismo contemporaneo; ossia i suoi aspetti più consumistici erano e sono deprecati, indipendentemente dall'instabilità economica che possono provocare e dalla volgarità del costume in cui talvolta degenerano. Si temeva e si teme, non senza giustificazione, che l'eccessivo produrre beni 'futili' renda più scarsi, per esempio, i servizi sanitari pubblici per i redditieri delle fasce basse, sottraendo risorse alla sicurezza sociale.
Il pensiero socialisteggiante, nel quale rientra in parte, per certi aspetti, quello keynesiano, giunse a riscoprire e a rivalutare, da una particolare angolatura, un genere di virtù simili all'austerità, alla morigeratezza spartana; un genere che ora si opponeva allo sviluppo economico illimitato, come il capitalismo moderno prospettava con le sue seduzioni commerciali. Naturalmente Marx si era già espresso con abilità sulla questione, facendo in modo che il socialismo e più ancora il comunismo non apparissero sistemi rinunciatari o mortificanti, bensì sistemi in cui la creatività umana fosse piena, benché emancipata progressivamente dall'economia. Egli condannava che nel mercato "ogni uomo spera di creare all'altro un nuovo bisogno, per costringerlo a un nuovo sacrificio, per ridurlo in una nuova dipendenza e indurlo a un nuovo modo di godimento e però di rovina economica". Denunciava che l'espansione dei prodotti e dei bisogni diventasse "schiava ingegnosa e sempre calcolatrice di appetiti disumani, raffinati, innaturali e immaginari" (v. Marx, 1932; tr. it., pp. 236 e 241).
Al di fuori del marxismo sentimenti analoghi erano stati espressi da John Stuart Mill nei Principî di economia politica: "Confesso che non mi piace l'ideale di vita sostenuto da coloro che pensano che lo stato normale degli uomini sia quello di una lotta per procedere oltre; che l'urtarsi e lo spingersi gli uni con gli altri, che forma il tipo esistente della vita sociale, sia la sorte meglio desiderabile per il genere umano, e non uno dei più tristi sintomi di una fase del progresso produttivo [...]. La condizione migliore per la natura umana è quella in cui, mentre nessuno è povero, nessuno desidera di divenire più ricco, né deve temere di essere respinto indietro dagli sforzi degli altri per avanzare" (v. Mill, 1848; tr. it., pp. 708 e 713).
La conclusione di Mill era che si dovesse puntare, se non sulla fine integrale dell'economia, sulla sua riduzione a uno stato stazionario, che è l'antitesi dello sviluppo capitalistico indefinito. Egli dichiarava che soltanto nei paesi arretrati una maggior produzione restava uno scopo importante, lasciando intendere che l'evoluta Gran Bretagna del suo tempo fosse ormai prossima al punto ottimale e quindi all'arresto della crescita. Morto nel 1873, Mill non aveva previsto tutta la serie di nuovi prodotti legati all'elettricità, che avrebbero impresso all'economia mondiale, e non solo a quella britannica, uno slancio impressionante, né la miriade di altre innovazioni interamente incompatibili con qualsiasi stato stazionario. Chi sosterrebbe che fossero sempre innovazioni da respingere, se non da proibire?
Nel secolo successivo Keynes, più prudente, parlava di alcune generazioni destinate ancora a continuare gli sforzi produttivi, prima di poter tirare i remi in barca e contentarsi dell'abbondanza conquistata. Ma Marx, Mill e Keynes erano coscienti di una complicazione, alla quale sapevano di non poter sfuggire se non dando una spropositata dimensione universale ai loro disegni. La loro esortazione a sopprimere gli appetiti 'immaginari' e a terminare la gara concorrenziale implica, oltre alla rinuncia a quanto non è stato nemmeno immaginato, anche la compressione dei desideri di superiorità. Tali desideri, siano essi pure immaginari o appartengano alla realtà della natura umana, sono in ogni caso in contrasto con i disegni di rallentare la corsa, ridurne l'agonismo, darle un traguardo ultimo e definitivo, che livelli in seguito la sorte di vinti e vincitori.
Non è sufficiente eliminare la concorrenza all'interno di una singola società se permane la concorrenza fra società diverse, per cui la stasi di una comporta il sorpasso a opera di altre che l'ambizione mantiene in condizioni di sviluppo economico capitalistico. Sono troppo stretti i nessi tra potenza economica e potenza militare perché la rinuncia unilaterale al progresso merceologico illimitato, che in qualche misura frenerebbe anche il progresso tecnologico, non susciti ansia nella società rinunciataria. La rinuncia o è universale o è pericolosa per chi la pratica, e questo falsa la scelta tra capitalismo e socialismo.
Se è improbabile che tutti gli individui della medesima società optino volontariamente per il socialismo, ancor meno probabile è che lo facciano spontaneamente tutte le società del mondo. Ma la pacifica coesistenza di nazioni capitalistiche e di nazioni socialistiche sembra obbligare principalmente queste ultime a non essere completamente ciò che vorrebbero (e ciò che potrebbero se fossero sole). C'è per esse il problema di schermare i propri consumatori dalle tentazioni opulentistiche provenienti dai paesi del capitalismo di mercato; e c'è, più serio, il problema di come liberarsi gradualmente dalle catene dell'economia, se lo sviluppo economico illimitato è richiesto quanto meno dalle esigenze militari.
Fin quando ci si illuse che, affrontando un identico o simile piano di produzione, il socialismo sarebbe stato molto più efficiente del capitalismo nel realizzarlo, le difficoltà di cui sopra parvero temporanee. Ma ora si comincia a dubitarne, perché si dubita che il socialismo, trascinato a misurarsi col capitalismo usando i criteri del capitalismo, possa reggere il confronto. E ancora: perde di attrattiva per i suoi seguaci un socialismo ideologicamente monco, in cui taluni obiettivi essenziali non siano perseguibili fino in fondo; tanto più che, se si scende a compromessi, anche il capitalismo consente di realizzarne, e per esempio non nega una certa dose di Welfare State, di sicurezza sociale, di stabilizzazione dell'economia, di redistribuzione in senso egualitario dei redditi, di austerità nel costume individuale di vita.
Non che nel capitalismo obiettivi come il pieno impiego e l'eguaglianza siano perseguibili a oltranza con la stessa efficacia che nel socialismo. Non lo sono ogni volta che essi entrano troppo in conflitto con la libertà economica, cui gli imprenditori capitalisti non vogliono rinunciare oltre un certo grado. Ma l'economia borghese ha capito che sarebbe vittima di una insopportabile ostilità sociale qualora non ammettesse qualche intervento privato, e soprattutto pubblico, per temperare i mali della disoccupazione e della diseguaglianza che essa suscita purtroppo largamente.

6. Le trasformazioni del capitalismo

Non v'è dubbio che il capitalismo odierno, per certi versi tanto più potente del capitalismo primitivo, sia per altri versi più condizionato da forze contrapposte, che ne riducono i gradi di libertà. Le corporazioni di un tempo proteggevano i padroni assai più degli operai, ma il sindacalismo moderno è eminentemente un fenomeno che accresce il peso dei lavoratori o dei loro rappresentanti nel momento in cui essi contrattano con i datori di lavoro. Poco efficace quando i lavoratori sono dispersi nei campi o in una miriade di botteghe artigiane, l'organizzazione sindacale si rafforza proprio grazie alle grandi fabbriche cittadine, che concentrano i lavoratori e ne facilitano la manovra di massa. E se in origine i sindacati interessavano soprattutto una élite di lavoratori qualificati (i primi ad assumere una 'coscienza sindacale'), poi si è passati all'inquadramento della folla sterminata dei lavoratori comuni, costituiti per lo più da ex contadini inurbati. Il sindacalismo, dunque, ha sfruttato una conseguenza dello sviluppo del capitalismo: la trasformazione delle società di contadini in società di operai. E non è l'unica conseguenza di cui il sindacalismo si sia servito, perché esso ha tratto dalla libertà contrattuale cara al mercato la giustificazione per negoziare con pieno diritto i contratti collettivi di lavoro. I quali d'altronde avrebbero avuto ben poco da ripartire senza la consistente capacità del capitalismo di produrre sempre nuova ricchezza. Ma vi è ancora un presupposto capitalistico alla base dell'ascesa sindacale, un presupposto da ricercare nei nessi tra libertà economica e libertà politica, per cui in Occidente il progresso della democrazia si è associato spesso e volentieri al progresso del sistema borghese di produzione.
Le leggi antimonopolistiche, nate per ostacolare i sindacati, si sono risolte infine in seri tentativi politici di impedire la formazione di trusts e cartelli industriali e commerciali. Il che rende semplicistica la tesi che il potere economico, inteso come potere padronale, conquisti regolarmente il potere politico: le cose sono oggi più complesse e certo i sindacati occidentali hanno, col passare degli anni, trovato appoggi in forti partiti politici riformisti, se non rivoluzionari. Il potere capitalistico, il potere sindacale e il potere politico giocano una complicata partita a tre, con schieramenti mutevoli ed esiti diversi. Vi sono momenti in cui prevale la violenza dei contrasti (tutti contro tutti) e altri in cui si forma una specie di consenso generale, per esempio su misure di protezione doganale (ma in merito i consumatori potrebbero parlare di un loro danno causato dalla collusione o connivenza fra i tre poteri).
L'abbondante ricchezza capitalistica fa comunque gola al potere politico, che attraverso il fisco vi attinge abbondantemente. Quando circa la metà dei redditi, dei profitti in specie, viene oggi prelevata dalle imposte e dalle tasse, contro appena un decimo o un quinto di non molti decenni fa, è lecito concludere che il fisco recita ormai una parte leonina. Se le proteste di quei contribuenti che non possono o non vogliono evadere sono moderate, è appunto perché la ricchezza nel capitalismo sviluppato è abbondante, e anche perché i governanti usano la spesa pubblica per 'comperare' consensi. Il Welfare State ha raggiunto sovente questo scopo, nonostante i vasti sprechi commessi in suo nome, e lo ha raggiunto cercando di dare un po' di sicurezza ai ceti più deboli di fronte alle vicissitudini congiunturali del mercato. Ma altri tipi di spesa pubblica hanno favorito i capitalisti, anziché danneggiarli, e c'è del vero nella tesi secondo la quale le politiche keynesiane, volendo o non volendo, hanno rafforzato il capitalismo, che richiedeva una qualche regolamentazione pubblica della domanda aggregata. Si pensi poi ai molti servizi pubblici ausiliari alla produzione privata: per esempio, il finanziamento statale della ricerca scientifica e tecnologica, di cui profittano i produttori che ne applicano le scoperte, il credito agevolato agli investitori, ecc.
A rendere il quadro ancora più complesso contribuisce la presenza di elementi di discordia all'interno dello stesso fronte capitalistico, che non è affatto omogeneo. La concorrenza è di per sé un motivo di attrito fra capitalisti: in particolare, gli innovatori urtano gli interessi preesistenti, che vorrebbero mantenere lo status quo. Oltre a questo, il capitalismo moderno ha visto talvolta inasprirsi il dissidio tra i proprietari del capitale, da un lato, e i tecnici e i managers, dall'altro. La cosiddetta rivoluzione manageriale dell'ultimo secolo o mezzo secolo corrisponde alla crescita della dimensione delle imprese, che le porta facilmente fuori dell'ambito familiare e impone di assumere dei professionisti specializzati per la loro direzione. La grande impresa societaria può avere il suo capitale frazionato fra milioni di azionisti, fino a divenire una corporation 'pubblica', in cui i proprietari stentano a formare stabili maggioranze di controllo. Si assiste così alle 'scalate' di gruppi, che cercano di ottenere il controllo della società per azioni sottraendolo a maggioranze precedenti. Tuttavia accade talvolta che il vero controllo sia e resti nelle mani di managers, pur quando essi non posseggano alcuna quota del capitale.
La crescita della dimensione delle imprese è un fatto peraltro fino a un certo punto inevitabile. L'evoluzione tipica è quella avvenuta, per esempio, nell'industria automobilistica, che all'inizio del nostro secolo, quando il settore era giovane, contava migliaia di piccole imprese, il cui numero si è quindi ridotto man mano che il settore maturava, fino all'attuale oligopolio di pochi grossi produttori: i superstiti vincitori, i selezionati dalla concorrenza. Questo non significa però la scomparsa di tutte le piccole imprese: molte sussistono come fornitrici delle grandi e molte nascono di continuo nei settori giovani, in cui il mercato è ancora embrionale. Le innovazioni importanti non sono necessariamente opera di grosse imprese, che anzi possono rivelarsi conservatrici proprio perché già paghe o appesantite dalla burocrazia interna.
Senza sottovalutare la rilevanza delle economie di scala, non va dimenticato che conta anche l'agilità di comportamento, la quale oltre certe dimensioni aziendali si riduce. In anni recenti, proprio mentre molti credevano che il futuro della siderurgia fosse delle grandi acciaierie a ciclo integrale, i minimills rivelarono in America e altrove i vantaggi di accrescere la produzione in piccole unità facilmente convertibili e subito sfruttate al cento per cento, anziché in grosse unità rigide e poco utilizzate per anni e anni. Inoltre le stesse dimensioni assumono significati diversi secondo le epoche: è ovvio che il progresso delle telecomunicazioni, dei trasporti e dell'informatica restringe il tempo e lo spazio, e permette di costruire senza problemi reti organizzative una volta impensabili.
Le imprese multinazionali o transnazionali, frequenti nel capitalismo moderno (sebbene non sconosciute, a parte il neologismo, nei secoli scorsi), testimoniano che funzionano con efficienza organizzazioni produttive private a scala mondiale. Esse hanno capisaldi in diversi paesi sia per avvicinare la produzione alle aree di consumo, sia per sfruttare risorse naturali e forze lavorative locali. A questo proposito va notato che nei paesi di vecchia industrializzazione, anche per il calo del tasso di natalità, si sono esauriti i serbatoi di manodopera, dopo che nelle campagne gli addetti all'agricoltura sono scesi enormemente. Di qui la duplice nuova politica dell'industria capitalistica: trasferire le fabbriche nei paesi ancora sottosviluppati, con manodopera abbondante e a basso costo, o automatizzare la produzione il più possibile.
Pertanto, nei paesi di vecchia industrializzazione la percentuale delle forze di lavoro occupate nell'industria è ormai stazionaria o in calo. È il settore terziario o dei servizi che invece si espande proporzionalmente, in media potendo automatizzare meno (a parte l'effetto dell'aumento del reddito pro capite, che favorisce appunto la domanda di molti servizi). Come in precedenza si era passati da società di contadini a società di operai, ora si sta passando da società di 'colletti blu' a società di 'colletti bianchi', con profonde ripercussioni culturali, oltre che economiche.
La produttività del lavoro, che non migliora in tutti i settori al medesimo ritmo, influisce sui salari e sui prezzi. I salari tendono ad adeguarsi ovunque alla crescita massima della produttività, che si verifica nell'industria automatizzata: questo significa il rincaro dei costi e dei prezzi nei settori, come il terziario, dove la produttività cresce meno delle punte massime o non cresce affatto. Ne risulta una continua pressione inflazionistica, giacché i prezzi assoluti non calano dove il progresso della produttività è maggiore e salgono dove tale progresso è minore. Se mantenuta entro confini prossimi, tale pressione inflazionistica è accettata o tollerata ampiamente, nonostante i suoi inconvenienti. I venditori sarebbero in ogni caso restii a concedere vistosi ribassi di prezzo, che essi associano a difficoltà di mercato o a crisi congiunturali deflazionistiche. Tutti sono poi contrari alle disordinate oscillazioni dei prezzi, che si verificano per ragioni tecniche in alcuni mercati come quelli agricoli di concorrenza atomistica, e preferiscono le prevedibili regolarità dei prezzi di concorrenza oligopolistica, ancorché siano regolarità in cui l'inflazione è una presenza costante.
In termini di ore di lavoro necessarie per l'acquisto, i beni fatti a macchina diventano sempre più accessibili ai consumatori. Non così per i beni la cui produzione non si presta a essere automatizzata. I servizi personali, per esempio, sono oggi più di ieri difficili da acquisire, anche a causa della minore diseguaglianza nella distribuzione dei redditi, che distingue le società capitalistiche avanzate da quelle preindustriali. Al limite, la perfetta eguaglianza impedirebbe di avere un collaboratore domestico a tempo pieno: bisognerebbe pagarlo dandogli l'intero reddito del padrone. Per quanto cresca di continuo il reddito medio pro capite, alcune forme di vita agiata, che erano godute dai ricchi del passato, non si potranno ripetere e non si diffonderanno nell'intera popolazione. La ricchezza 'democratica' è essenzialmente diversa dalla ricchezza 'aristocratica', per cui l'arricchimento generale non sempre riesce a trasformare la domanda virtuale di beni in domanda effettiva. I beni per loro natura irrimediabilmente scarsi, come le dimensioni limitate di un piccolo luogo di grande bellezza turistica, suscitano problemi irrisolvibili circa la crescita del benessere e del numero di coloro che li appetiscono.
Il capitalismo sopporta l'incessante aumento dei salari reali grazie all'incessante aumento della produttività del lavoro, che di norma si ottiene dotando ogni lavoratore di più capitale. Ma ciò non sarebbe sufficiente a conservare un buon tasso di profitto, se il maggior capitale per lavoratore si traducesse anche in maggior capitale per unità di prodotto. In quest'ultimo deprecabile caso il capitale crescerebbe nel tempo più rapidamente della produzione che esso fornisce, per cui sarebbe sempre più arduo remunerarlo adeguatamente, dal punto di vista dei capitalisti privati. Marx (e non soltanto lui) prevedeva nell'Ottocento che la meccanizzazione e l'automazione avrebbero effettivamente sortito tale risultato, mettendo in crisi il capitalismo. Oggi sappiamo invece che, nelle medie nazionali di lungo periodo, il rapporto tra il valore del capitale investito e il valore della produzione che ne deriva non ha mostrato alcuna stabile tendenza a salire.In definitiva, il più importante compromesso del capitalismo è stato quello di riuscire a migliorare i salari reali senza danneggiare il tasso di profitto. Un tasso di profitto costante, applicato a un capitale che si accumula, aumenta via via la massa dei guadagni dei capitalisti nel loro complesso. Quanto ai guadagni medi del singolo capitalista, essi dipendono anche dall'andamento del numero complessivo di capitalisti, sul quale i dati sono carenti. Si sa che il numero dei lavoratori occupati aumenta, durante lo sviluppo capitalistico moderno, meno velocemente del prodotto nazionale e dello stock di capitale, il che appunto determina l'aumento della produttività del lavoro e dei salari reali. Non si sa se il numero dei capitalisti aumenti di più, di meno o nella medesima misura del numero dei lavoratori, ma è certo che nel capitalismo contemporaneo è più frequente la figura del lavoratore-capitalista, ovvero di colui che non è più lavoratore puro, in quanto ha potuto risparmiare e investire una parte dei suoi salari.
È pure certo che, nonostante gravi fasi critiche, come negli anni trenta del nostro secolo, il capitalismo si è rivelato notevolmente solido, non così esposto alle sue 'contraddizioni interne' come speravano o temevano taluni suoi studiosi o osservatori. Gli è stata utile la grande capacità di adattamento alle varie circostanze storiche, sociali e politiche, per cui oggi non si discute più tanto sulla fine del capitalismo: si discute piuttosto sulle diverse forme che può assumere, quelle maggiormente accettabili e quelle decisamente da avversare. Intanto, sebbene si sappia poco sulla condizione e sulla psicologia dei capitalisti, si sa però che finora essi si sono mostrati disposti a continuare l'accumulazione di capitale in vari luoghi e circostanze, e a mantenere in corsa un sistema in fondo poco 'sistematico', la cui razionalità globale lascia sovente perplessi.
Le nazioni del Terzo Mondo, che oggi tentano di realizzare uno sviluppo economico imitando le nazioni più industrializzate, hanno scelto a volte il modello capitalistico, a volte quello socialistico, senza escludere le innumerevoli forme miste. Sulla scelta ha influito in non pochi casi la rivalità politica tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, con gli aiuti che le due grandi potenze erano disposte a concedere ai loro satelliti. Col passar del tempo, però, ha perso credito la tesi che una rivoluzione politica, come appunto quella sovietica del 1917, sia indispensabile al Terzo Mondo per sfuggire rapidamente all'arretratezza e questo ha accresciuto le chances del capitalismo. Non si deve credere tuttavia che il capitalismo nel Terzo Mondo sia da includere fin da ora nella stessa classe del capitalismo avanzato."In molti paesi del Terzo Mondo il capitalismo che si conosce non è quello industriale, bensì quello mercantile (il capitalismo dei compradores)" (v. Sylos Labini, 1983, p. 184). E l'evoluzione verso tipi più complessi, organizzativamente e tecnologicamente, avverrà - se avverrà - non in condizioni di laissez faire, ma con l'ausilio di interventi pubblici nel campo educativo e nel campo produttivo, a cominciare dall'agricoltura. Ciò presuppone una riforma della pubblica amministrazione nei paesi del Terzo Mondo e l'adozione di sistemi fiscali adeguati agli obiettivi di ammodernamento, e quindi con un minimo di durezze sociali.

7. Conclusioni

Il socialismo, paragonato al capitalismo, si presenta come un sistema economico più razionale, specialmente nella forma tipica della pianificazione centrale affidata a un'autorità dotata di una visione d'insieme. La società capitalistica ammette invece l'assenza di un progetto unitario, di un disegno unificante (a parte alcune 'regole del gioco' eguali per tutti), e favorisce una libertà di iniziativa personale e una pluralità di scopi, di cui diffida il socialismo collettivistico.
Anzi, questo socialismo dubita che una collettività senza un progetto unitario riesca a marciare ordinatamente e non si perda nel caos. Il mercato capitalistico ha ricevuto ripetute critiche, che gli negano la capacità di portare l'economia a un armonico equilibrio e soprattutto a un equilibrio di piena occupazione (il che è verissimo, nonostante le pretese di alcuni economisti che scambiano per realtà i loro astrusi modelli matematici). In effetti, la funzione del mercato di concorrenza non è, in prima istanza, di equilibrare l'economia, bensì di squilibrarla con continue innovazioni, con un continuo progresso tecnologico e merceologico, promosso dalla ricerca del tornaconto privato. E l'esperienza storica prova che quel progresso si è bene o male compiuto, pur se pagato coi costi inevitabili dell'instabilità sociale; e si è compiuto in forme ordinariamente non caotiche e di beneficio pubblico, nonostante le motivazioni squisitamente private che ne stanno alla base.
Il progresso, lo sappiamo, non può favorire tutti e subito: ha le sue vittime, che soffrono per la distruzione del vecchio provocata dal nuovo. Ma è innegabile che il capitalismo, per la prima volta nella storia dell'umanità, ha sconfitto la miseria di massa e migliorato come non mai il salario reale annuo, pur quando gli orari di lavoro sono diminuiti e l'offerta di lavoro è stata in rapida ascesa. Ecco risultati che possono sorprendere, se si postula che il capitalismo sia un sistema dove l'egoismo individuale è la regola: risultati forse non intenzionali per tale sistema, eppure inoppugnabili. Perciò la teoria del capitalismo deve principalmente dar ragione di come, nel linguaggio arcaico di Bernard de Mandeville, il vizio privato, quale appunto è in un certo senso l'egoismo, sia talvolta propizio alla virtù pubblica.
Mandeville argomentava che la fratellanza, la solidarietà, l'altruismo sono qualità su cui si può contare in organismi sociali piccoli, chiusi, omogenei e con scopi unitari preminenti, assai più che nei vasti agglomerati aperti e pluralistici di individui liberi ed eterogenei, come l'Olanda e l'Inghilterra tra il Seicento e il Settecento. Né, secondo lui, questi vasti agglomerati rispondevano bene agli ordini di un potere centrale, che si arrogasse la supervisione di tutta la vita nazionale, come la Francia di Luigi XIV e di Colbert tentava di fare. Occorreva piuttosto trovare il mezzo per porre l'iniziativa privata e la ricerca particolare del proprio profitto al servizio del bene comune, ciò che istituzioni come il mercato di concorrenza parevano in grado di promuovere.
La scuola filosofica scozzese di Adam Ferguson, David Hume e Adam Smith perfezionerà gli argomenti di Mandeville, e più ancora vi provvederà la scuola economica austriaca di Carl Menger, Eugen Böhm-Bawerk, Ludwig von Mises e Friedrich A. von Hayek, col recente contributo dell'epistemologo Karl Popper. L'attenzione di tutti questi pensatori, quando si occupano di scienze sociali, si concentra sugli effetti macroeconomici non intenzionali provocati da scelte individuali, microeconomiche, autonome e indipendenti, di solito prive di una visione d'insieme. Gli errori fanno parte del quadro, ma ne fanno parte pure conseguenze positive inimmaginate e inimmaginabili, talvolta addirittura superiori a quelle ottenute con un disegno esclusivamente razionale e cosciente. Lo sviluppo capitalistico è un esempio di un grandioso effetto non intenzionale, non progettato da alcuno, non guidato da alcuno, non teleologico, perché privo di una meta finale prestabilita e quindi illimitato o indefinito per sua natura.
Alcune citazioni di Hayek esemplificano le idee cui egli affida la spiegazione dell'eventuale bontà degli effetti inintenzionali: "Divenne parte dell'ethos della società aperta il fatto che fosse meglio investire il proprio patrimonio in strumenti che rendessero possibile produrre di più a costi inferiori piuttosto che distribuirlo fra i poveri, o prendersi cura dei bisogni di migliaia di persone sconosciute piuttosto che provvedere ai bisogni di pochi vicini conosciuti. Ovviamente queste idee non si svilupparono perché coloro che le seguirono per primi capivano che in tal modo conferivano maggiori benefici ai loro simili, ma perché i gruppi e le società che così agivano prosperavano più degli altri [...]. Tale ethos nella sua forma più pura considera come dovere primario perseguire nel modo più efficace possibile il proprio fine scelto liberamente, senza preoccuparsi del suo ruolo nella complessa rete dell'attività umana [...]. Forse la maggiore scoperta mai fatta dal genere umano fu la possibilità che gli uomini vivessero insieme, in pace e con vantaggio reciproco, senza dover concordare su scopi comuni e concreti, ma vincolandosi soltanto con regole di comportamento astratte" (v. Hayek, 1982; tr. it., pp. 346 e 356).
Nessuno osa sostenere che la teoria del capitalismo, nel punto in cui è lasciata da Hayek, sia completa e definitiva, o chiarisca senza ombre se e come nel mercato di concorrenza gli effetti inintenzionali positivi scaccino sempre quelli negativi con un costo sociale accettabile. È forse utopico pensare che una simile dimostrazione possa mai venire, e comunque essa lascerebbe insoluta la questione se il costo sociale del capitalismo sia maggiore o minore di quello di sistemi alternativi, ammesso che si possa scoprire il metro per misurare anche i ricavi. Tutto quel che si può dire è che oggi il ragionamento e la lezione della storia hanno sfrondato il giudizio sul capitalismo da equivoci e incomprensioni di lunga durata. Il capitalismo resta anche troppo criticabile, ma con argomenti che spesso dovranno essere diversi da quelli del passato.
[...]

Il dibattito sulle origini del capitalismo
di Alessandro Cavalli

sommario: 1. Cenni storici sulle origini del concetto di capitalismo. 2. Le origini del capitalismo nel pensiero di Marx. 3. Le origini dello spirito del capitalismo: Weber e Sombart. 4. La questione del capitalismo medievale. 5. La nascita dell'economia-mondo capitalistica. 6. Conclusioni. □ Bibliografia.

1. Cenni storici sulle origini del concetto di capitalismo

Il dibattito sulle origini del capitalismo si sviluppa lungo tutto l'arco della storia delle scienze sociali e della storiografia dagli ultimi decenni dell'Ottocento fino all'epoca attuale. La storia della "questione delle origini" è vecchia di più di un secolo. L'interrogativo sulle origini si intreccia con l'interrogativo sulla natura del capitalismo: chiedersi come e quando il capitalismo sia nato vuol dire chiedersi che cosa sia.La stessa storia del termine 'capitalismo' fornisce una traccia per indagare la storia di questa controversia. Di capitalismo si incomincia a parlare verso la metà del XIX secolo nelle opere di coloro che verranno poi chiamati i socialisti "utopisti". Sembra che il termine compaia per la prima volta negli scritti di Louis Blanc, mentre Marx lo usa solo come aggettivo per denotare uno specifico modo di organizzare l'attività economica, vale a dire il "modo di produzione capitalistico".
Il termine nasce quindi molto dopo il fenomeno che con esso si intende indicare. Gli studiosi e i pensatori del XVIII secolo e della prima metà del XIX avevano certo rilevato e descritto con grande acutezza le imponenti trasformazioni che erano avvenute o che stavano avvenendo sotto i loro occhi nella sfera economica e sociale, l'enorme accelerazione che la storia stava subendo nelle aree cruciali dell'Europa. Come riflesso e conseguenza di tali trasformazioni era addirittura nata una nuova scienza, l'economia politica, che si era assunta il compito di elaborare strumenti teorici per analizzare le leggi del divenire economico. Lo stesso Adam Smith, che pure offre ne La ricchezza delle nazioni del 1776 un'analisi illuminante e precorritrice della transizione dal feudalesimo, non aveva avvertito il bisogno di coniare un termine specifico col quale designare sinteticamente e globalmente il sistema economico e sociale che era emerso da tali trasformazioni.
L'esigenza di disporre di un concetto di tale natura si presenta quando la realtà che esso pretende di interpretare ha già da lungo tempo fatto la sua comparsa. Le ragioni di questo divario temporale tra concetto e realtà sono da rintracciare nel fatto che i pensatori che 'scoprono' l'esistenza del capitalismo come oggetto di studio e di riflessione sono gli stessi che ne prevedono e annunciano la prossima fine. Agli occhi di costoro l'ordine economico e sociale esistente appare minato da crisi profonde che risultano dal conflitto delle forze che esso stesso ha generato. Tale ordine appare nella sua storicità come qualcosa che è inevitabilmente destinato a finire. Coloro, invece, che ritenevano l'ordine economico e sociale nato dal tramonto del feudalesimo come fondamentalmente stabile, oppure come passibile di ulteriori sviluppi all'infinito, non sentivano l'esigenza di un concetto di capitalismo inteso come configurazione dotata di una specifica individualità storica. La nozione di capitalismo fa la sua comparsa nella storia del pensiero sociale quando ci si interroga sul suo destino, quando ci si chiede che cosa succederà a esso. Se il capitalismo è destinato a finire vuol dire che si tratta di un fenomeno storico e che di esso si può scrivere la storia lungo un percorso che ha un inizio e avrà una fine. La questione delle origini si presenta quindi nell'orizzonte culturale del pensiero socialista, di coloro cioè che parlano di crisi, di declino, oppure addirittura di crollo del capitalismo.Il concetto viene dapprima accolto con sospetto; la matrice ideologica dalla quale è nato sembra impedirne un utilizzo in sede di discorso scientifico. Tuttavia il concetto ha fortuna e viene fatto proprio in un secondo tempo anche da coloro che, lungi dal prevedere la fine del capitalismo, ne celebrano i continui successi, per diventare quindi uno strumento concettuale della ricerca storica, economica e sociologica quando si avverte l'esigenza di un termine che esprima sinteticamente i tratti comuni di un insieme assai disparato di fenomeni, tipici dello sviluppo economico e sociale dell'Occidente.
Del dibattito sulle origini del capitalismo analizzeremo alcuni momenti salienti: partiremo da Karl Marx, da Max Weber e da Werner Sombart, affronteremo quindi la questione se sia esistito un capitalismo medievale sulla scorta dei lavori degli storici economici nei primi decenni del secolo, considereremo poi la ripresa del dibattito sulle origini nel marxismo occidentale del secondo dopoguerra, per accennare infine agli sviluppi più recenti.

2. Le origini del capitalismo nel pensiero di Marx

Marx, come si è detto, usa il termine 'capitalismo' solo come aggettivo per indicare uno specifico "modo di produzione". La storia per Marx vede una successione di modi di produzione, ognuno dei quali è determinato da un particolare assetto, da un lato delle forze produttive (nelle quali si esprime lo stadio di sviluppo delle tecnologie e delle capacità umane a esse associate) e dall'altro dei rapporti sociali di produzione (cioè dei rapporti giuridico-politici che definiscono le forme della proprietà dei mezzi e delle condizioni della produzione). Per interi periodi storici forze produttive e rapporti sociali di produzione si integrano in modo coerente e si rafforzano reciprocamente. Sono i periodi in cui un modo di produzione è stabile. In altri periodi, invece, lo sviluppo delle forze produttive viene frenato dai rapporti di produzione esistenti e gli elementi costitutivi del modo di produzione entrano in contraddizione. In questi periodi si genera un conflitto insanabile di interessi tra le classi che difendono i vecchi rapporti di produzione e le classi che esprimono le istanze di sviluppo delle forze produttive. Sono i periodi di transizione tra un modo di produzione e il successivo. Come è noto, questa concezione "dialettica" serviva a Marx per spiegare come si sarebbe passati dalle contraddizioni interne del capitalismo all'avvento del socialismo. Il problema dell'analisi della transizione dal capitalismo al socialismo evoca però immediatamente un altro problema, quello della transizione dal feudalesimo al capitalismo, vale a dire il problema delle origini del capitalismo. Mentre però Marx per spiegare la prima transizione parte dall'analisi delle contraddizioni interne del capitalismo (cioè dal termine a quo), per spiegare la seconda parte da un'analisi dei presupposti del capitalismo (cioè dal termine ad quem). Tali presupposti sono da un lato la presenza di una massa di lavoratori 'liberi' provenienti dalle campagne, privi di terra, di mezzi di lavoro e di sussistenza, dall'altro una massa di capitale pronto ad acquistare forza-lavoro e metterla al suo servizio.
Marx non formula una teoria della crisi del modo di produzione feudale dalla quale si sarebbero liberati i presupposti del capitalismo. Per spiegare la loro genesi egli deve ricorrere all' "arcano della cosiddetta accumulazione originaria", che condurrebbe all'espropriazione dei contadini e degli artigiani, all'espulsione violenta dei contadini dalla terra (ad esempio mediante le enclosures), in breve alla separazione dei lavoratori dalla proprietà delle condizioni di lavoro, da un lato, e dall'altro all'accumulazione di ingenti somme di danaro mediante il commercio coloniale di rapina, il debito pubblico e la pressione fiscale. L'attore che mette in moto i processi di accumulazione originaria è lo Stato ("violenza concentrata e organizzata della società - come si legge nel XXIV capitolo del I Libro del Capitale - per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi").
L'azione dello Stato, tuttavia, uno Stato che non è più uno Stato feudale ma non è ancora uno Stato borghese, ha esclusivamente la funzione di accelerare processi che dovevano già essere in atto: da un lato la formazione di una classe di piccoli produttori indipendenti, sia contadini sia artigiani, che gradualmente si liberano dai vincoli feudali nelle campagne e dai vincoli delle corporazioni nelle città e si trasformano quindi in piccoli capitalisti; dall'altro lato la formazione di una classe di ricchi mercanti che operano sul mercato che si è aperto su scala mondiale alla fine del XV secolo.Il primo processo opera nella sfera della produzione, il secondo nella sfera della circolazione. I due processi devono però agire congiuntamente per consentire il pieno sviluppo del modo di produzione capitalistico. Se si fosse dovuta aspettare la crescita graduale dei piccoli produttori, che a poco a poco allargavano le dimensioni delle proprie attività produttive, il processo sarebbe progredito - come scrive Marx - "al passo di lumaca", la transizione si sarebbe protratta per un tempo infinito. E d'altronde lo sviluppo indipendente e isolato del capitale commerciale (così come era avvenuto nell'antichità rispetto all'economia schiavistica) avrebbe piuttosto consolidato invece che disgregato il vecchio modo di produzione feudale (com'era in parte avvenuto nelle città italiane del Medioevo e più tardi nelle regioni dell'Europa orientale). È stata quindi la combinazione dei due processi, accelerata dal ruolo dello Stato nell'accumulazione originaria, a scatenare secondo Marx la dinamica del nuovo modo di produzione.
Entrambi i processi sono indispensabili e interdipendenti, tuttavia a seconda che nella combinazione prevalga il primo oppure il secondo gli esiti saranno diversi. Marx parla, infatti, in un passo che è stato frequentemente ripreso nelle discussioni successive (Il capitale, Libro III, cap. XX), dell'esistenza di due vie: "Il passaggio dal modo di produzione feudale si compie in due maniere. Il produttore diventa commerciante e capitalista, si oppone all'economia agricola naturale e al lavoro manuale stretto in corporazioni dell'industria medievale urbana. Questo è il cammino effettivamente rivoluzionario. Oppure il commercio si impadronisce direttamente della produzione. Quest'ultimo procedimento, pur rappresentando storicamente una fase di transizione [...] non porta in sé e per sé alla rivoluzione dell'antico modo di produzione". Questo passo è, come vedremo, molto importante perché indica come in Marx non vi sia una spiegazione unica della genesi del capitalismo. Egli postula l'esistenza di almeno due vie e apre quindi il campo a una spiegazione più articolata che suggerisce l'esigenza di un'analisi comparativa.

3. Le origini dello spirito del capitalismo: Weber e Sombart

Per Weber il problema delle origini del capitalismo non si risolve spiegando come si siano formati da un lato il capitale e dall'altro il lavoro salariato. Già l'antichità e il Medioevo avevano conosciuto, in forme diverse, sia l'uno che l'altro; il fenomeno da spiegare è piuttosto come mai solo in Occidente, nei secoli XVI e XVII, coloro che disponevano di capitali accumulati in forma monetaria furono indotti a impiegarli in modi qualitativamente diversi e rivoluzionari rispetto al passato. L'elemento nuovo da spiegare è quindi l'emergere di una condotta orientata al guadagno, che sfrutta le opportunità di mercato mediante l'organizzazione razionale dell'impresa. Non possiamo parlare di capitalismo, per Weber, se non quando compare e si afferma l'impresa capitalistica, vale a dire l'organizzazione razionale del lavoro libero dalle obbligazioni di carattere servile.L'impulso acquisitivo non ha nulla di specificamente capitalistico. Esso è diffuso in tutte le società, in tutte le epoche e in tutti i ceti sociali. Il capitalismo, scrive Weber nelle pagine iniziali del famoso saggio sull'Etica protestante e lo spirito del capitalismo, "può addirittura essere identico con la coercizione o almeno con il temperamento razionale di questo impulso irrazionale". Lo stesso grande commercio medievale, dal quale pure sono nate le forme giuridiche che in seguito ha assunto l'impresa capitalistica, era orientato prevalentemente a lucrare sulle differenze di prezzo esistenti tra un luogo e l'altro, era quindi eminentemente speculativo e irrazionale, reso possibile dall'assenza di un vero e proprio mercato internazionale.
L'istituzione distintiva del capitalismo è quindi l'impresa razionale che produce merci per il mercato in vista di un profitto da reinvestire nell'impresa stessa. Il terreno di sviluppo dell'impresa è la produzione industriale ed è solo da quando il nuovo spirito si impadronisce della produzione industriale che possiamo datare la nascita del capitalismo: "I portatori - scrive Weber - di quel nuovo modo di sentire che abbiamo definito 'spirito del capitalismo' non furono affatto esclusivamente o prevalentemente gli imprenditori capitalistici del patriziato commerciale, ma piuttosto gli strati in ascesa del ceto medio industriale". Si tratta di uomini nuovi, di parvenus, che assumono un orientamento radicalmente innovativo, improntato a sobrietà e razionalità, verso l'attività economica.
Una componente essenziale della spiegazione della genesi del capitalismo deve pertanto dar conto di come questo nuovo spirito sia nato: è a questo punto che Weber avanza l'ipotesi suggestiva che questo nuovo spirito si sia formato nel clima culturale delle sette protestanti di matrice calvinista, che predicavano una condotta di vita fondata sul controllo degli impulsi irrazionali e volta al perseguimento del successo mondano come segno della grazia divina. Tradotto in termini di etica economica, tale orientamento risultò inintenzionalmente del tutto congeniale al perseguimento del fine astratto della massimizzazione del profitto di lungo periodo dell'impresa capitalistica.
Quest'ipotesi di Weber è stata da molti, ed erroneamente, interpretata come il tentativo di contrapporre a una spiegazione materialistica e strutturalistica della genesi del capitalismo una spiegazione spiritualistica e culturalistica. Egli vuol soltanto dimostrare l'esistenza di una singolare "affinità elettiva" tra l'etica delle sette calviniste (che ricostruisce minuziosamente sulla base dei testi dei predicatori, più vicini al modo di sentire comune, piuttosto che sui testi teologici dei fondatori) e lo spirito del capitalismo. Una volta che l'impresa si è affermata come modello generalizzato di organizzazione dell'attività economica, essa non richiede più la presenza di un sostegno soggettivo di origine religiosa. Tutti coloro che operano sul mercato finiscono inevitabilmente, anche contro la loro volontà, per essere condizionati da questo 'spirito': è l'impresa stessa, come formazione oggettiva, a riprodurre continuamente i motivi soggettivi che ne garantiscono l'esistenza.
La spiegazione delle origini del capitalismo non si esaurisce tuttavia nella spiegazione della genesi dello spirito del capitalismo. È soltanto in un ciclo di lezioni tenute poco prima della morte, e pubblicate postume col titolo di Wirtschaftsgeschichte, che Weber ci offre un modello esplicativo articolato e complesso delle origini del capitalismo. In quest'opera l'etica protestante rimane come elemento decisivo per la spiegazione di uno soltanto dei fattori la cui compresenza è necessaria perché si possa parlare di capitalismo. Il concetto stesso di capitalismo deve venir allargato per comprendervi una pluralità di componenti: la proprietà privata dei mezzi di produzione; una classe di lavoratori senza proprietà, liberi di vendere la propria forza-lavoro e costretti a farlo "sotto la frusta della fame"; la libera circolazione di beni e fattori di produzione, senza restrizioni irrazionali di ordine politico o monopolistico; un ordinamento giuridico e amministrativo razionale che garantisca la prevedibilità e l'efficacia delle regole del mercato; l'uso di tecnologie razionali, sia nella produzione sia nelle procedure amministrative e contabili, tali da assicurare una gestione fondata sul calcolo del reddito e del capitale. Per spiegare la genesi di un sistema così articolato bisogna far ricorso sia a fattori di ordine culturale che influenzano gli orientamenti, gli atteggiamenti e le motivazioni dell'agire economico, sia a fattori di ordine istituzionale. Tra questi ultimi risulta di decisiva importanza la formazione dello Stato burocratico moderno, fondato su un ordinamento legale-razionale, sul concetto di cittadinanza, sul monopolio della violenza, sul monopolio monetario e fiscale, sulla presenza di un corpo di funzionari stipendiati.
La nascita del capitalismo non è imputabile a un unico fattore, ma a una costellazione di fattori, anzi a una singolare combinazione di fattori che si è realizzata soltanto nelle regioni nordoccidentali dell'Europa tra i secoli XVI e XVII. Altrove, in altri paesi e in altre epoche, ad esempio nell'Italia medievale e rinascimentale, molti di questi fattori erano presenti e sviluppati, ciò che mancava era la loro combinazione. L'ultimo Weber non ridimensiona quindi l'ipotesi dell'etica protestante, la inserisce piuttosto in un modello esplicativo plurifattoriale, sulla base del quale egli imposta una serie di ricerche comparative volte a spiegare come mai il capitalismo, nella sua configurazione di capitalismo moderno, sia nato soltanto in Europa e non altrove, come in Cina, dove pure erano presenti molti prerequisiti per il suo sviluppo.Le tesi weberiane hanno avuto grande risonanza e suscitato un nutrito dibattito: K. Kautsky, R. Tawney, C. Hill, K. Samuelsson, H. R. Trevor-Roper e, in Italia, A. Fanfani e L. Pellicani, tra gli altri, hanno posto in discussione questo o quel punto dell'argomentazione di Weber, sia sul piano teorico, sia sul piano storiografico. In particolare, le discussioni hanno riguardato se, e in che misura, le tesi weberiane possano essere interpretate come una confutazione dell'impostazione marxiana. Non è possibile in questa sede entrare nel dettaglio di questo dibattito. Sembra tuttavia possibile concludere che sia Marx che Weber pongono l'accento sul fatto che non si può parlare di capitalismo fino a quando non incominciano a trasformarsi in modo radicale le strutture produttive. Entrambi avanzano seri dubbi sul fatto che i grandi commerci a lunga distanza, che hanno condotto all'accumulazione di ingenti somme di capitale mercantile almeno dal XIII secolo in poi, possano di per sé essere considerati forme capitalistiche. Il capitalismo moderno si differenzia dalle forme precedenti di capitalismo proprio per il fatto che il suo dominio si estende alla sfera della produzione di merci e non rimane circoscritto alla sfera della circolazione. Non si può parlare di capitalismo, quindi, prima del XVI secolo.
Negli stessi anni in cui Weber lavora sulle origini dello spirito del capitalismo nell'etica protestante esce il primo volume della monumentale opera di Werner Sombart, Der moderne Kapitalismus (1902). Quest'opera è assai importante perché con essa il termine capitalismo entra definitivamente a far parte del bagaglio della ricerca storiografica e sociologica. Per Sombart, come per Weber, si tratta di spiegare la nascita dello spirito del capitalismo, nel quale egli sottolinea la presenza di una duplice componente: l'orientamento acquisitivo, che indirizza l'attività economica verso l'accumulazione di ricchezza e non più soltanto verso il soddisfacimento dei bisogni, e la razionalità nella condotta degli affari, che infrange i condizionamenti della tradizione. La nascita di questo spirito corrisponde alla formazione di un nuovo gruppo sociale costituito dagli imprenditori capitalistici. L'origine sociale di questo gruppo non è omogenea; essi possono essere reclutati da tutti i ceti sociali (nobili, mercanti, artigiani, contadini), ma soprattutto da gruppi sociali marginali come gli Ebrei, gli eretici e gli stranieri, poiché le condizioni di marginalità sociale favoriscono la rottura della tradizione e aprono la strada all'innovazione. Il mercante medievale non è ancora un imprenditore capitalistico. Anche se i suoi traffici si svolgono su lunghe distanze e se ha creato forme associative che precorrono le moderne società di capitali, l'orizzonte delle sue mete resta vincolato alla tradizione e le sue pratiche non escono dai rigidi confini tracciati dalle norme delle gilde mercantili volte essenzialmente a impedire la concorrenza tra gli associati. Bisognerà aspettare il Rinascimento, quando il ceto dei mercanti si intreccia con il patriziato urbano e il capitale mercantile con la rendita fondiaria urbana, per veder affiorare i tratti del nascente spirito borghese. Per Sombart è Leon Battista Alberti il vero precursore del moderno imprenditore capitalistico, ma si tratta, appunto, soltanto di un precursore che testimonia del fatto che il capitalismo non è ancora nato.
La tematica sombartiana della formazione dell'imprenditorialità fu ripresa in seguito da quegli storici, economisti e sociologi per i quali la nascita del capitalismo corrisponde all'irrompere dell'innovazione nei suoi aspetti tecnologici, organizzativi e culturali. Basta ricordare, tra tutti, J. A. Schumpeter, per il quale l'origine e il destino del capitalismo sono indissolubilmente legati all'emergere e al declino della funzione innovativa dell'imprenditore.

4. La questione del capitalismo medievale

Le tesi di Sombart si opponevano agli assunti di certa storiografia romantica, soprattutto tedesca, per la quale le origini del mondo moderno, e quindi anche del capitalismo, non erano da rintracciare nell'epoca recente delle rivoluzioni borghesi, ma ben più indietro nei secoli; essa tesseva l'apologia del mercante medievale come precursore del moderno capitano d'industria.Tra coloro che reagirono vivacemente alle tesi di Sombart si possono ricordare Brentano e Dopsch. Per Lujo Brentano (v., 1916) già le spedizioni dei Crociati erano organizzate su base capitalistica ed è allora che nasce il moderno spirito mercantile. Per Dopsch (v., 1930) già il periodo carolingio appartiene all'era capitalistica, poiché in esso riprende con slancio la tendenza all'accumulazione illimitata della ricchezza, sia in forma reale (soprattutto la terra) sia in forma monetaria. Appare chiaro che l'oggetto di cui questi autori vogliono ricercare le origini non è sempre lo stesso: per Brentano la nascita del capitalismo coincide con l'avvento e lo sviluppo dell'economia monetaria a scapito dell'economia naturale, per Dopsch risulta capitalistica ogni forma di accumulazione della ricchezza. Quanto più remote le origini, tanto più generico il concetto di capitalismo utilizzato; il concetto stesso perde la capacità di individuare fenomeni storicamente specifici e le origini del capitalismo si perdono quindi nella notte dei tempi.
Nel dibattito sul capitalismo medievale la posizione forse più interessante fu assunta da H. Pirenne, se non altro per il fatto che è stata ripresa molte volte in seguito, anche nelle discussioni più recenti. Contrariamente a Marx e a Weber, per Pirenne le origini del capitalismo sono strettamente legate alla ripresa degli scambi mercantili nel tardo Medioevo. Il capitalismo nasce quando il commercio cessa di essere un'attività occasionale (come lo era nelle corti feudali), oppure un'attività di rapina (come lo era quello dei Crociati), e diventa un'attività professionale e continuativa di un nuovo ceto mercantile che contribuisce in modo decisivo al rifiorire della vita delle città, praticamente estinta nei lunghi secoli dell'alto Medioevo, e che lotta contro l'ordine feudale per affermare la propria autonomia. Non bisogna confondere, avverte Pirenne, Medioevo e feudalesimo: vi è un primo Medioevo in cui la ricchezza, nelle mani dell'aristocrazia feudale, non circola e non si trasforma in capitale, e vi è un tardo Medioevo in cui l'asse si sposta verso le città dove si intrecciano le correnti dei traffici mercantili. Le città tardo-medievali, prima in Italia e poi nei paesi dell'Europa settentrionale, sono per Pirenne il luogo di nascita del capitalismo.
Le tesi di Pirenne furono riprese nel secondo dopoguerra dall'economista marxista americano Paul Sweezy in un saggio ormai famoso, pubblicato nel 1950 sulla rivista "Science and society": in esso Sweezy polemizza con i risultati delle ricerche di Maurice Dobb, uno storico marxista inglese, pubblicati qualche anno prima in un libro altrettanto famoso, Studies in the development of capitalism (1946). Dobb aveva sostenuto che i grandi mercanti e banchieri dal XIII al XV secolo non potevano essere considerati esponenti di una nascente borghesia capitalistica; essi commerciavano in denaro, in beni di lusso e in armi per soddisfare i bisogni di un'aristocrazia feudale le cui rendite erano sempre più insufficienti per coprire le spese delle corti signorili. Il loro contributo alla nascita del capitalismo fu decisivo solo nel senso che, come classe parassitaria, favorirono l'indebolimento economico della nobiltà fondiaria feudale. Il capitalismo non sarebbe nato senza la formazione autonoma di una classe di piccoli e medi produttori di merci, reclutati tra le fila dei contadini benestanti (gli yeomen) e della piccola nobiltà (la gentry), che diedero vita alle prime manifatture, fondate sul lavoro salariato e svincolate dalle restrizioni imposte dagli ordinamenti delle corporazioni. Fu questa classe a esercitare un ruolo economicamente e politicamente rivoluzionario, capace di spezzare la logica di funzionamento dell'economia feudale e del lavoro servile. Sweezy, invece, richiamandosi esplicitamente a Pirenne, parte da una concezione del feudalesimo come sistema di produzione statico, volto esclusivamente alla copertura dei bisogni dettati dal costume e dalla tradizione, incapace di innovazione nelle tecniche e nei metodi di produzione e quindi ostile a ogni tendenza all'accumulazione. Tale sistema risulta incompatibile con l'economia di scambio e quindi la causa primaria del suo declino deve essere ricercata nello sviluppo dell'economia urbana che cresce nel suo seno come una specie di corpo esterno. Un sistema statico è un sistema privo di contraddizioni interne e può essere messo in crisi soltanto quando al suo esterno si sviluppa un sistema più efficiente e razionale che trova il suo fulcro nelle città.
Ciò non vuol dire, però, che i secoli che vedono uno sviluppo prorompente dei commerci e la fioritura delle città (grosso modo dal XIII al XVI secolo) siano già secoli capitalistici. Sweezy propone di chiamare il sistema economico di questo periodo intermedio di transizione, non più feudale ma non ancora capitalistico, "sistema mercantile precapitalistico". Non è possibile in questa sede richiamare nel dettaglio i vari interventi che si sono succeduti nel dibattito seguito alla contrapposizione tra Dobb e Sweezy. Al centro di questo dibattito si collocano comunque due interrogativi fondamentali: 1) se e come il capitale mercantile abbia o meno esercitato una funzione di disgregazione dell'ordinamento economico e politico feudale; 2) se e come il capitale mercantile abbia costituito una premessa indispensabile per lo sviluppo del capitalismo industriale.È probabilmente impossibile dare a questi interrogativi una risposta univoca e trovare una soluzione che si applichi a situazioni storicamente diverse: dall'Italia del tardo Medioevo ai Paesi Bassi e alle Fiandre, dall'Inghilterra dei secoli XVI e XVII all'Europa orientale e al Giappone. Un modello adeguato di spiegazione delle origini del capitalismo deve essere in grado di dar conto del fatto che i punti di partenza e i punti di arrivo del processo sono diversi in paesi e in epoche diverse. Tale modello può risultare pertanto solo da un'analisi storico-comparativa che tenga conto sia delle specifiche condizioni storiche in cui il capitalismo è comparso - oppure non è comparso - nei vari paesi, sia dei rapporti di interdipendenza generati dallo sviluppo capitalistico su scala mondiale.Già H. K. Takahashi, uno storico giapponese di tendenza marxista, aveva sottolineato come in Giappone la formazione del capitalismo avvenne seguendo un percorso opposto a quello dell'Europa occidentale, cioè essenzialmente attraverso la trasformazione del capitale commerciale e monopolistico in capitale industriale, sotto il controllo dello Stato feudale, senza che venisse intaccata la struttura della proprietà feudale e si desse la formazione di un ceto borghese libero e indipendente. E, analizzando le differenze dello sviluppo industriale della Russia e dell'Europa occidentale, A. Gerschenkron aveva avvertito come bisognasse accuratamente tenere distinti i casi dei paesi first comers (dove cioè il capitalismo era nato per primo) da quelli dei paesi late comers (dove cioè la nascita del capitalismo non solo era stata ritardata, ma era avvenuta in un contesto economico mondiale trainato dai primi).

5. La nascita dell'economia-mondo capitalistica

Il dibattito sul capitalismo medievale aveva messo in luce i limiti di una visione troppo eurocentrica del problema delle origini del capitalismo: non solo bisognava trovare una spiegazione al fatto che all'interno dell'Europa lo sviluppo era stato molto diseguale nei diversi paesi, ma bisognava pure spiegare come e perché il capitalismo si fosse sviluppato altrove tardivamente e seguendo percorsi diversi.
Un contributo importante alla risposta a questi interrogativi è venuto dalla monumentale opera di Fernand Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme (1979), e dal lavoro di Immanuel Wallerstein The modern world-system. Anche Braudel si riallaccia alle tesi di Pirenne sulle origini mercantili del capitalismo moderno; i primi capitalisti si curavano assai poco del sistema con cui venivano prodotte le merci che vendevano e comperavano e la produzione artigianale accompagna il capitalismo per un lungo tratto della sua esistenza. Rispetto a Pirenne egli richiama però la necessità di operare una distinzione più netta tra commercio locale (esercitato da una miriade di piccoli negozianti) e commercio a lunga distanza, esercitato da un gruppo ristretto di mercanti ricchi e politicamente influenti. Solo in questi ultimi si possono riconoscere i tratti del capitalismo, in quanto essi tengono le fila di un sistema di scambi che va oltre i confini di ogni singolo Stato. Il capitalismo è infatti, fin dalle origini, un'economia-mondo. Un'economia-mondo è caratterizzata da tre elementi: a) occupa uno spazio geografico che abbraccia una pluralità di Stati territoriali; b) è governata da un polo centrale che storicamente si sposta nello spazio (da Venezia e Genova nel XIV e XV secolo, verso Amsterdam nel XVI e XVII, Londra nel XIX e New York nel XX); c) si articola in zone successive che vanno dal centro (il cuore) alle aree intermedie (la semiperiferia) e alla periferia. Lo spostamento del centro (décentrage, récentrage) dal Mediterraneo al Mare del Nord e infine all'Oceano Atlantico segna i momenti di crisi e nello stesso tempo le tappe fondamentali dello sviluppo dell'economia-mondo capitalistica: il capitalismo non ha un solo luogo e una sola data di nascita, poiché ogni volta che il suo centro si sposta è come se rinascesse in una forma nuova. Wallerstein mutua direttamente da Braudel il concetto di economia-mondo capitalistica, intesa come un sistema che si estende oltre i confini di ogni Stato, fino a comprendere l'area coperta dalla rete degli scambi internazionali. All'interno dell'economia-mondo si sviluppa - a partire grosso modo dal 1450 - un sistema di divisione del lavoro tra aree centrali, semiperiferiche e periferiche, in base al quale non tutti i beni che entrano in circolazione sono prodotti da imprese che adottano rapporti capitalistici di produzione. I rapporti di produzione di tipo feudale o schiavistico che sopravvivono all'interno dell'economia-mondo capitalistica non sono pure sopravvivenze di modi di produzione precedenti, destinati a estinguersi nel processo di sviluppo del capitalismo. La ripresa del lavoro servile nell'Europa orientale, conseguente all'apertura del mercato mondiale alla produzione cerealicola di quelle aree, oppure lo sviluppo della schiavitù nelle piantagioni di cotone, zucchero e caffè del continente americano, non costituiscono residui di un passato remoto, ma sono il prodotto della divisione del lavoro nell'economia-mondo capitalistica. Il capitalismo quindi produrrà effetti diversi a seconda che una regione si collochi al centro oppure alla periferia del sistema.A questo punto anche Wallerstein si pone l'interrogativo: come mai l'economia-mondo si è affermata in Europa e non, ad esempio, in Cina? La risposta è che mentre l'Europa tra il XV e il XVI secolo era una nascente economia-mondo composta di piccoli imperi, di Stati nazionali e di città-Stato, la Cina era invece un grande Impero continentale e, mentre in Europa il sistema feudale aveva comportato lo smantellamento della struttura imperiale, in Cina il sistema delle prebende aveva contribuito a mantenerla e a rafforzarla. La pluralità degli Stati gioca in Europa come un potente fattore di sviluppo economico e tecnologico, la solidità dell'Impero ostacola invece in Cina la formazione di una rete estesa di commercio internazionale e l'accumulazione di capitale.
Non esiste quindi un unico processo di transizione al capitalismo, ma una pluralità di processi, ognuno dotato di una propria specificità spazio-temporale a seconda della collocazione, centrale, periferica o esterna all'economia-mondo capitalistica; i diversi processi avvengono nel quadro di una rete di interdipendenze costituita dalla presenza di un sistema mondiale gerarchizzato al suo interno. La pluralità delle vie della transizione non rispecchia dunque soltanto la specificità delle condizioni storiche locali, il retaggio di passati diversi, ma anche la specificità della collocazione dei singoli paesi in un sistema mondiale che condiziona modalità e tempi dello sviluppo.
Di recente, anche uno studioso italiano, L. Pellicani (v., 1988), ha cercato di spiegare come mai il capitalismo sia nato in Europa e non in Oriente. Per Pellicani fu l'intrinseca debolezza dello Stato feudale a preservare l'Europa dall'esperienza degli imperi totalitari di stampo orientale, che con la libertà politica avevano soffocato anche i commerci e la vita delle città. Il feudalesimo non riuscì invece a impedire che in Europa (e prima di tutto in Italia) si sviluppasse l'esperienza del tutto originale delle città-Stato, che quindi sono da considerare come la vera culla del capitalismo.

6. Conclusioni

La data di nascita del capitalismo oscilla dunque a seconda delle varie tesi lungo l'arco di tempo che va dal X al XVII secolo. Il problema appare ben lungi dall'essere risolto. Il dibattito dura ormai da più di un secolo e tutto lascia prevedere che continuerà anche in futuro. Ogni generazione di studiosi pone in modo nuovo vecchi interrogativi e ne formula di nuovi. In questo, come in altri campi, la ricerca è senza fine, nonostante il processo graduale e continuo di accumulazione del sapere. Ciò è dovuto al fatto che la domanda sulle origini del capitalismo corrisponde in gran parte alla domanda sulle origini del mondo attuale, e quindi le risposte che a essa vengono date risultano inevitabilmente connesse all'orientamento che ogni studioso adotta nei confronti del tempo presente.

Enciclopedia del Novecento II Supplemento (1998)

di Sergio Ricossa

Capitalismo

sommario: 1. Privato e pubblico nel capitalismo. 2. Profitti e capitalisti. 3. L'organizzazione capitalistica. 4. Il capitalismo finanziario. 5. Conclusioni. □ Bibliografia.


1. Privato e pubblico nel capitalismo

Non a torto Walt W. Rostow (v. capitalismo, 1975) considerava ‛fuorviante' legare il concetto di capitalismo alla prevalenza, in un sistema produttivo, della proprietà privata del capitale e del libero mercato; fuorviante perché così si viene a contrapporre una economia basata sull'iniziativa individuale a una economia pubblica o collettiva. La contrapposizione non c'è sempre stata, e forse c'è sempre meno. È vero che, come da storico osservava Fernand Braudel, i politici non hanno costruito il capitalismo, ma lo hanno ereditato; tuttavia, i periodi e i luoghi del trionfo capitalistico corrispondono di regola a casi in cui il potere economico e il potere politico hanno coinciso o almeno si sono integrati armoniosamente.
La prima grande fase del capitalismo europeo si manifesta a partire dal XIII secolo nelle città-Stato italiane, a Venezia, Genova, Firenze, dove ‟è l'élite del denaro che tiene il potere". Più tardi, ‟nell'Olanda del XVII secolo, l'aristocrazia dei reggenti governa secondo gli interessi e persino secondo le direttive degli uomini d'affari, mercanti o finanzieri. In Inghilterra, la Glorious revolution del 1688 segna, a un tempo, l'avvento di un nuovo corso politico e l'affermazione di un nuovo modo di condurre gli affari, simile a quello adottato dagli Olandesi" (v. Braudel, 1977; tr. it., pp. 76-77). Più tardi ancora, e in un altro continente, la definizione di paese plutocrate affibbiata agli Stati Uniti non è soltanto una esagerazione polemica, ma approssima la realtà locale in alcune sue modalità, così come l'approssima nel Giappone d'oggi.
Ben inteso, lo Stato moderno può favorire il capitalismo o al contrario esserne il parassita, ostacolarlo e addirittura asservirlo. Quando Rostow afferma che le nazioni capitalistiche arrivano a versare nelle casse dell'erario pubblico fino al 35% del prodotto nazionale lordo, egli si rifà a dati del periodo 1955-1957. Da allora, la pressione fiscale è rapidamente salita ovunque, portandosi nell'Europa occidentale vicina al 50%, a un livello più alto che negli Stati Uniti e in Giappone. Se metà del prodotto nazionale lordo passa nelle mani dei politici, e se costoro giustificano l'entità del prelievo con l'intento di costruire uno ‛Stato sociale' (Welfare State), che fra l'altro dovrebbe trasferire risorse dai ricchi ai poveri, è difficile mantenere cordiali i rapporti tra lo Stato e i capitalisti.
L'alta pressione fiscale inevitabilmente grava anche sui profitti. Inoltre lo Stato sociale, insaziabile, esige sovente un'accumulazione del debito pubblico tanto massiccia da rendere necessario innalzare i tassi di interesse, a danno degli imprenditori privati bisognosi di credito. Le esigenze del tesoro dello Stato entrano in conflitto con quelle delle imprese economiche, le quali tentano di difendersi minacciando di licenziare le maestranze in soprannumero per colpa dell'‛avidità pubblica' nell'appropriarsi dei mezzi finanziari. Ma la disoccupazione, è ovvio, in quanto grave male sociale, obbliga a ulteriori interventi pubblici di sollievo, a ulteriori spese assistenziali, a ulteriori rischi di inflazione.
A questo punto, la strada del capitalismo attuale si biforca. Da un lato ci si dirige verso soluzioni di compromesso tra esigenze private ed esigenze pubbliche: i capitalisti chiedono - e in qualche misura ottengono - sovvenzioni, crediti agevolati, protezioni dalla concorrenza estera, e così via; e nel medesimo tempo si sforzano, ove possibile, di ridurre i costi col ricorso intenso al progresso tecnologico. Dall'altro lato i politici sacrificano il mercato, che produce e vende merci per il consumo a scelta delle famiglie, e avvantaggiano il cosiddetto consumo pubblico per soddisfare bisogni collettivi, cui il mercato non bada, mentre vi bada lo Stato sociale con la sua attività senza fini di lucro.
La seconda strada comporta, da parte dei politici (e degli intellettuali loro alleati), la lotta al ‛consumismo' e la predicazione dell'‛austerità', cioè la proposta di una società sobria nella quale un voluto ‛contenimento della dinamica salariale', oltre che la tassazione dei profitti, precluda la marcia delle famiglie nella direzione di compere giudicate dai moralisti sempre più frivole, inappaganti, meri effetti perniciosi della pubblicità commerciale. Al contrario, il moderno capitalismo consumistico, ‛fordista', conta sulla pubblicità commerciale, sulla continua innovazione merceologica e sugli alti (relativamente) salari per trasformare i lavoratori in ottimi clienti, che assorbano la produzione di massa consentita dalle macchine di ogni tipo, comprese le macchine per le telecomunicazioni (per esempio la televisione).
Qui vi è un paradosso. Lo Stato sociale - nato per difendere la parte ‛debole' (i lavoratori) dalla parte ‛forte' (i datori di lavoro) - d'accordo coi sindacati chiede talvolta ai lavoratori dei sacrifici in nome di una ‛austerità', che questi faticano a comprendere, forse perché non sufficientemente preparati a immedesimarsi col modello dell'uomo socialista. Al contempo, però, lo Stato - che, come legislatore e giudice, prende le parti del ‛debole' - mina alcuni fondamenti del capitalismo privato. Come ha osservato il giurista Salvatore Satta, gli effetti si vedono ‟nella disgregazione della teoria dei contratti, con la restrizione della libertà contrattuale e il declino della forza obbligatoria del contratto; nella evoluzione del fondamento della responsabilità; ma soprattutto nello svuotamento del diritto di proprietà" (v. Satta, 1994, pp. 118-119).
Perfino la questione del tempo libero dal lavoro appare ben diversa, a seconda che seguiamo una prospettiva o l'altra. Nella prospettiva consumistica, la riduzione degli orari, verificatasi diffusamente da un secolo a questa parte, serve principalmente a esaltare i consumi privati per il divertimento, lo sport, i viaggi, la cultura, et similia; nella prospettiva austera, invece, è un valore in sé, è liberazione dalla pena del lavoro costrittivo, è la premessa per il ‛volontariato sociale', ossia il passaggio dallo scambio commerciale al dono disinteressato. La polemica tra i fautori dell'una e dell'altra tesi ha notevolmente mutato, in questo scorcio del XX secolo, le armi ideologiche con cui si combatteva pro o contro il capitalismo nel XIX secolo.
Marx e i suoi discepoli o imitatori non riuscirono a concepire altro che un capitalismo pauperistico, ossia l'antitesi del capitalismo consumistico di oggi. Il salario reale, nelle loro profezie, non si sarebbe alzato durevolmente oltre il minimo di sussistenza, un minimo che avrebbe potuto un po' migliorare con l'‟incivilimento", ma che avrebbe allargato, e non ridotto, il dislivello tra poveri sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi. Gli anticapitalisti non immaginarono che i lavoratori si sarebbero trasformati, sebbene lentamente, in risparmiatori, in investitori, in (piccoli) capitalisti essi medesimi. Non furono, cioè, considerate due esperienze storiche, che si erano svolte in senso contrario all'opinione marxisteggiante.
La prima esperienza era che la diseguaglianza sociale tendeva a ridursi là dove l'economia evolveva dal feudalesimo al capitalismo: eppure Marx aveva lodato la possente produttività del nuovo sistema ‟borghese" rispetto al vecchio sistema. La seconda esperienza era che il capitalismo vincente si dedicava di preferenza a produrre merci popolari, non di lusso. Il declino del capitalismo italiano, che inizia nel tardo Medioevo, doveva essere imputato, fra l'altro, al suo rifugiarsi nella nicchia sicura ma angusta dell'industria della seta, dopo aver perso la gara della concorrenza internazionale sui mercati ben più ampi dei panni di lana a basso prezzo.
Similmente la Francia, fedele all'artigianato di alta qualità, era perciò rimasta indietro nei confronti della Gran Bretagna, le cui fabbriche più meccanizzate si orientavano a vendere all'ingrosso merci andanti di lana, cotone, metallo, e così via. E pertanto la rivoluzione industriale del tardo Settecento iniziò in un paese, la Gran Bretagna appunto, che mediamente pagava il lavoro meglio di quanto avveniva sul Continente. Pagare meglio il lavoro significava ampliare gli sbocchi sul mercato interno e al contempo creare incentivi affinché il fatto a macchina sostituisse il fatto a mano: questa era la via giusta, la via del futuro.
Si aggiunga che, in quelle condizioni di sviluppo, le macchine non causarono, come si temeva, una disoccupazione tecnologica insanabile; anzi, le città più industriali attrassero manodopera da tutto il resto del paese. Nel 1831 Manchester era sei volte più popolosa di sessant'anni prima, e le pubbliche autorità non posero freni alle migrazioni interne (né tentarono di lenirne le asprezze). ‟Gli storici sono stati impressionati dalla spontaneità della rivoluzione industriale, da quanto poco dovette a una cosciente pianificazione, e da quanta poca assistenza ricevette dai governi. Questa [in Gran Bretagna], si potrebbe ridurre all'aiuto involontario dato nel XVIII secolo con i bassi tassi di interesse [...] e anche alla protezione concessa alle nuove industrie dai relitti del sistema protezionistico-mercantilistico [del secolo precedente]" (v. Thomis, 1976, pp. 30-32).
Diversa è l'esperienza di altri popoli europei, come quella dei Tedeschi nell'Ottocento, che tentarono di annullare il ritardo verso i Britannici in fatto di industrializzazione sollecitando l'appoggio pubblico; così come, d'altronde, oltre Atlantico fecero gli Americani. Si ricordi che una industria arretrata, secondo i modelli più moderni, costituiva un handicap militare, oltre che economico. Ma bisogna distinguere tra paesi che si limitarono a circondare il mercato nazionale, lasciato relativamente libero, con barriere protettive, e paesi in cui l'intervento pubblico, più ambizioso, volle immischiarsi anche degli affari capitalistici interni, sempre allo scopo di guidarli verso un rapido sviluppo, anche se non sempre senza errori politici.
Storicamente parlando, si osserva una ambivalenza del moderno potere politico nei confronti dello sviluppo capitalistico privato, quasi unanimemente chiesto quando manca, ma giudicato assai più criticamente quando raggiunge un certo grado di intensità. Sta bene a tutti allevare l'oca dalle uova d'oro; il contrasto arriva quando la produzione è assicurata, ed esso riguarda la destinazione delle uova. Perfino Marx era convinto dell'opportunità dell'allevamento dell'oca capitalistica, purché poi le uova andassero non al godimento dei ‛borghesi', bensì a nutrire il socialismo subentrante, cioè l'erede proletario. Quando Lenin decise di ‛saltare' la fase capitalistica e di passare subito al socialismo e poi al comunismo, egli non ubbidì ai precetti marxiani.
Bismarck fu forse il primo politico che invece ascoltò Marx e si servì delle uova d'oro del capitalismo per costruire uno Stato sociale in anticipo sul socialismo, disinnescando in tal modo una rivoluzione ‟proletaria" incontrollabile. Le frammentarie leggi sociali della Gran Bretagna nella prima metà dell'Ottocento non ebbero che in parte questo scopo: anche i politici britannici temevano i movimenti rivoluzionari di sinistra: non di meno, in quanto rappresentanti degli interessi più dell'aristocrazia terriera che della nuova borghesia industriale, quei politici usarono le leggi sociali per regolare il lavoro nelle fabbriche e moderare ciò che appariva loro come la prepotenza dei ‛padroni del vapore'.
Il caso britannico ci ricorda ancora una volta che è una semplificazione pericolosa opporre il privato al pubblico e gli interessi economici agli interessi politici. Tali interessi, se non costituiscono di necessità due sfere distinte e in contrasto, tanto meno sono da considerarsi sfere aventi ciascuna una propria omogeneità e unitarietà. Il contrasto esiste spesso, anche tra una parte e l'altra della medesima sfera. Il fatto è che la Gran Bretagna del XVIII secolo, rimasta in parte feudale, vide la ripetizione tarda di un conflitto sociale nato fin dal Medioevo tra l'aristocrazia terriera, che cercava di elevare le sue rendite per mezzo dell'alto prezzo dei cereali, e una nascente borghesia cittadina, che voleva invece il pane a buon mercato per gli operai delle manifatture.
In Gran Bretagna, le Corn laws a protezione del grano provocarono mezzo secolo di opposizione borghese, prima che fossero abrogate nel 1846 (quando la loro importanza si era fatta minima). Tuttavia, è sempre possibile che i proprietari terrieri abbandonino posizioni superate, non ostante lo spirito tradizionale, e si trasformino in finanzieri, commercianti e industriali come i borghesi imprenditori, e in realtà non mancarono casi del genere nella Gran Bretagna del Settecento e più ancora dell'Ottocento. Braudel (v., 1977; tr. it., pp. 79-80) indica un precedente: ‟A Firenze, alla fine del XV secolo, l'antica nobiltà feudale e la nuova alta borghesia mercantile formano un solo corpo all'interno della élite del denaro, che tende a divenire logicamente anche élite del potere politico. In altri contesti sociali, invece, una gerarchia politica può soffocare le altre. È il caso della [...] Francia durante l'ancien régime, che riduce i mercanti, anche quelli più ricchi, a recitare una parte di secondo piano, fuori della sfera del prestigio esercitato, in prima linea, dalla gerarchia dominante della nobiltà".
Sempre in Francia vediamo talvolta i borghesi e la monarchia alleati contro la nobiltà e i suoi privilegi fiscali, prima che la Rivoluzione francese schieri almeno una parte della borghesia sia contro la nobiltà sia contro la corona borbonica. Proprio a Firenze le vicende della famiglia de' Medici dimostrano come la borghesia, anziché distruggere l'aristocrazia terriera, entri a farne parte, conquisti il potere politico e infine diventi insensibile agli ideali e agli interessi borghesi. Un po' ovunque, la borghesia ‛arrivata' sente il fascino dell'antica cultura nobiliare, così come lo sente una certa borghesia intellettuale che teme il confondersi dell'affarismo con il materialismo (poi ‛consumismo') e l'avvento di forme di vita degradate sul piano spirituale.
Ben inteso, la borghesia italiana, dopo la fase trionfale nel Medioevo dei Comuni che assurgono a Signorie, cadde in un lungo sonno dal quale si scosse soltanto al giungere del Risorgimento, quando divenne di moda il modello economico e politico britannico. Il conte di Cavour, anglofilo, fu il più tipico rappresentante di un gruppo di personaggi capaci di fondere le virtù nobiliari e quelle borghesi per tentare un'opera di ammodernamento dell'economia. Nell'Ottocento fu abbastanza frequente, nell'Italia del nord e del centro, il passaggio dalla proprietà terriera alle industrie vicine all'agricoltura (per esempio, l'industria della seta), di qui alla banca e al finanziamento di industrie meno tradizionali, fino all'industria metalmeccanica.
Dal modello britannico ci si scostò tuttavia perché le nostre industrie nascenti presero le distanze dal liberismo cavouriano, per ottenere la protezione pubblica nella fase (interminabile) della loro gracilità rispetto alle industrie straniere ormai adulte. Ma lo stesso modello britannico stava cambiando, nel senso che a Londra, a Oxford, a Cambridge, nella Regione dei laghi, un po' ovunque nell'isola, si faceva strada un sentimento anticapitalistico condiviso da una borghesia ‛arrivata', matura, i cui rampolli forse avvertivano un senso di colpa per le imprese spregiudicate dei padri e dei nonni, o comunque non intendevano proseguirle.
Nella Gran Bretagna della rivoluzione industriale, William Cobbett (1762-1835) fu forse il primo scrittore ad andare oltre la semplice denuncia degli aspetti negativi del capitalismo delle fabbriche, e a proporre un vero e proprio ritorno al passato nell'opera Cottage economy. Il tema ‛reazionario' appassionerà poi Ruskin, Morris e altri letterati ed esteti, fautori di una Old England, che conservasse taluni (molti) valori del feudalesimo, del lavoro rurale e artigianale, della country life (invero una country life alquanto mitizzata; v. Wiener, 1981). Questa reazione anticapitalistica, così diversa da quella di Marx, contribuì, insieme a mille altre cause, a frenare lo spirito industriale della Gran Bretagna meno di un secolo dopo i primi entusiasmi suscitati dalla macchina a vapore di James Watt, e in ultima analisi spostò il baricentro economico del mondo oltre la Manica e oltre l'Atlantico, verso la Germania e poi verso gli Stati Uniti.
È bene ripeterlo: quando una nazione raggiunge un certo livello di benessere materiale è facile che dal suo interno si levino voci di ‛sazietà', le quali, nell'esempio britannico, provennero anche da illustri e influenti economisti, da J. S. Mill a J. M. Keynes, i precursori dell'attuale anticonsumismo. Mill invocò una economia stazionaria, che si occupasse non più di aumentare la produzione, bensì di distribuirla in modo più giusto, nel senso di più equalitario. Analogamente Keynes, un secolo dopo, ritenne prossima e auspicabile una società senza preoccupazioni economiche, senza l'avidità del guadagno, senza lo stress della concorrenza di mercato.
Nelle isole britanniche, dunque, la storia registra sia il sorgere del capitalismo della moderna rivoluzione industriale, sia il sorgere di una collegata controrivoluzione culturale, non vincente, ma frenante. Altre culture, più efficacemente conservatrici, hanno a lungo ritardato, se non addirittura impedito, almeno finora, l'avvento di forme capitalistiche avanzate che si sarebbero potute copiare dalla Gran Bretagna o dall'Occidente in generale. Tali culture hanno spesso rinforzato il loro anticapitalismo con elementi religiosi.
Al riguardo, non sembra molto significativo riferirsi alle note e discutibili tesi di derivazione weberiana, secondo le quali il cattolicesimo, diversamente dal cristianesimo riformato, avrebbe offeso lo spirito capitalistico appunto nell'Europa (e nell'America Latina) prevalentemente papista. Conviene rispondere al quesito se e quanto la religione pesò sull'economia esaminando altre circostanze più radicalmente caratterizzate. Serve allo scopo la guerra civile in Iran, che nel 1979 portò alla fine della monarchia dei Pahlavī e diede il potere al leader degli sciiti, l'ayatollah Khumainī. Si tratta, in questo caso, della rivolta di un ramo dell'islamismo contro tutte le istituzioni occidentali, compreso quel capitalismo industriale che Riẓa Pahlavī provò a imitare per interesse suo e di una scarsa borghesia locale in cerca di modernità. Il fallimento dei modernisti non è isolato nel quadro di un islamismo nelle cui schiere operano rigidi fondamentalisti e tradizionalisti che dell'Occidente sembrano apprezzare solamente la tecnologia bellica, non certo un consumismo giudicato pericoloso per la morale e il vecchio costume.
Più a est dell'Islam, l'immensa Cina sovrappopolata, non cristiana e non islamica, fu per secoli, e anche dopo la rivoluzione industriale britannica, chiusa in se stessa dall'orgoglio e dal timore di contaminazioni, avversa a ogni rinnovamento economico, almeno fino al rovesciamento nel 1911 dell'ultima dinastia imperiale (Manciù) e all'inizio della repubblica. La paura dell'occidentalizzazione, e quindi del capitalismo, si accompagnò spesso alla paura di perdere la propria indipendenza politica e la propria identità storica (culturale e finanche religiosa) per colpa di ‛barbari' prepotenti e invadenti.
Il Giappone, in Oriente, fu il primo a comprendere il paradosso che la miglior difesa dall'Occidente può essere combatterlo con le sue armi, ossia occidentalizzarsi, sia pure con prudenza nazionalistica: questa fu la soluzione Meiji (‟Governo illuminato") del 1868. I frutti, raccolti dapprima in campo militare, furono quasi immediati: il Sol Levante vinse la guerra contro la Cina nel 1895 e quella contro la Russia zarista nel 1905. Dopo di che anche la Cina si avviò, metaforicamente, sia pure con lentezza e riluttanza, verso l'Occidente.
Intanto, proprio in Europa, dopo la prima guerra mondiale si erano formati regimi nuovi, che offrivano varianti del modello occidentale particolarmente appetibili al resto del mondo, perché del capitalismo anglosassone, il più temuto, rifiutavano alcune implicazioni sociali e politiche. Oltre all'Unione Sovietica - la cui economia antiborghese, sottoposta per intero a piani statali di industrializzazione forzata, è dubbio meriti di mantenere il nome di capitalismo - si ebbero l'esperimento fascista nell'Italia di Mussolini e quello nazionalsocialista nella Germania di Hitler. L'uno e l'altro si proposero come terza via tra il capitalismo anglosassone e il comunismo sovietico, una terza via che manteneva una certa dose di proprietà privata del capitale e, pur se in forma ridotta, il mercato di concorrenza. Alla lotta di classe e perfino ai contrasti della libera contrattazione dei salari si sostituiva una pace sociale al servizio dei superiori interessi nazionali. La libertà economica e la libertà politica si restrinsero di pari passo, proprio mentre il capitalismo di stampo anglosassone incappava impreparato nella grande depressione iniziata nel 1929.
Il Giappone (e una parte del mondo islamico) si orientò verso alleanze coi paesi del fascismo e del nazismo; la Cina, tentennando, verso alleanze coi paesi del comunismo, il che tuttavia non la salvò da una invasione militare giapponese nel 1937, che nel 1940 proseguì in Indocina e in altre parti dell'Asia. Nel 1939 la Germania invase la Polonia; nel 1940 invase la Francia e altre parti dell'Europa occidentale, con l'appoggio italiano (in vista di una resa della Gran Bretagna); nel 1941 invase la Russia, non ostante il patto di non aggressione nazi-sovietico, firmato nel 1939. A questo punto la storia del capitalismo si fonde in pieno con la storia della seconda guerra mondiale, della quale tutti conosciamo gli esiti.
I veri vincitori, lo sappiamo, furono gli Stati Uniti, che dal 1944 propiziarono l'adozione del loro modello di capitalismo in Europa e in Asia, ottenendo pieno successo in Germania, in Italia, in Giappone (i paesi vinti), ma non ovviamente in Unione Sovietica e nei paesi da essa controllati in Europa orientale, né in Cina, zone sempre legate al comunismo. Per non ripetere gli errori compiuti dopo la prima guerra mondiale, gli Stati Uniti non chiesero ai vinti onerose riparazioni di guerra, bensì ne aiutarono la ricostruzione economica, pensando giustamente che fosse loro interesse dimostrare a tutti i popoli del pianeta la superiorità, nel procurare benessere, del capitalismo ‛all'americana' (consumistico, liberaldemocratico), non solo rispetto al nazismo e al fascismo, ma anche rispetto al comunismo. La dimostrazione fu in Giappone tanto efficace da rendere tale paese un forte concorrente degli Stati Uniti nel commercio internazionale.
Resero ancor più convincente la dimostrazione le serie difficoltà politico-economiche in cui caddero verso la fine degli anni ottanta la Russia e i suoi satelliti; difficoltà che portarono al rapido dissolvimento dell'Unione Sovietica e alla sua sostituzione con una Comunità di Stati Indipendenti. Finiva nel caos, dopo un percorso fatto di enormi speranze, crudeli sacrifici e devastanti disillusioni, il maggior esperimento ‛scientifico' compiuto dall'umanità per realizzare, in opposizione al capitalismo di mercato, una sorta di ritorno al paradiso terrestre: una società senza sfruttamento dell'uomo sull'uomo, una società unitaria e liberata progressivamente da tutti i mali dell'economia, compresi il bisogno e il lavoro costrittivo.
L'esperimento sovietico terminò (senza che si possa escludere una sua ripresa in forme variate) all'inizio degli anni novanta con una parziale privatizzazione del capitale produttivo, ottenuta distribuendo gratis ai lavoratori buoni negoziabili e rappresentativi del patrimonio delle aziende. Anche la Cina popolare sembra adottare oggi, cautamente, alcune istituzioni del capitalismo di mercato, ma dando la precedenza alla stabilità politica, in modo da evitare gli inconvenienti in cui è caduta l'ex Unione Sovietica a seguito di mutamenti forse troppo precipitosi. È importante osservare che i paesi capitalistici occidentali non hanno, di regola, usato la violenza, nemmeno nei cosiddetti periodi di guerra fredda, per ottenere la caduta del comunismo all'Est, al quale invece sono stati talvolta forniti aiuti economici nel quadro di misure umanitarie o puramente commerciali.
Rimangono due Europe: quella dell'Est, non più compatta come prima, quando esisteva la ‛cortina di ferro' (l'ex Germania Orientale con capitale a Berlino si è addirittura riunita alla Germania Occidentale con capitale a Bonn); e quella dell'Ovest, quasi per intero tenuta insieme dalla Comunità Economica Europea o Unione Europea che dir si voglia. Nei dieci anni fino al 1994, durante i quali l'unificazione economica dell'Europa occidentale è stata guidata dal francese Jacques Delors, un ex sindacalista socialista, essa ha colorato il capitalismo di varie tinte. A una maggiore libertà di mercato in alcuni settori produttivi, sottoposti a controlli antitrust, si affianca una pletora di regole dirigistiche (le cosiddette direttive) in altri settori, per esempio l'agricoltura.
A parte la tradizionale simpatia francese per il dirigismo alla Colbert, l'azione politica di Delors si direbbe ispirata a due finalità: proteggere l'Europa dall'aggressività commerciale dei capitalismi americano e giapponese; evitare che, all'interno dell'Europa, la robustezza del capitalismo tedesco degeneri in egemonia. Dunque, non ostante l'avvento di grosse imprese multinazionali o transnazionali, il cui raggio d'azione è mondiale, il nazionalismo continua a recitare una parte nel commercio internazionale. La completa libertà di concorrenza, senza interferenze pubbliche di tipo protezionistico, non esiste all'interno di alcuna singola nazione o comunità di nazioni; e tanto meno in ambiti più vasti ed eterogenei.
La fine della guerra fredda tra Ovest ed Est e la fine del colonialismo classico non hanno cancellato le frizioni internazionali. Il problema del Terzo Mondo ha sostituito quello coloniale; un Terzo Mondo talvolta povero fino alla fame, sovrappopolato e indignato contro la ricchezza e il potere dei paesi industrializzati e ricchi. Ma la situazione non è statica, e specialmente nell'area asiatica del Pacifico un buon numero di economie sta trovando la strada per uscire dal sottosviluppo, e in questo caso seguono per lo più l'esempio del Giappone: una occidentalizzazione basata sul capitalismo e rivolta principalmente a esportare nei paesi ricchi merci lavorate (e non solo materie prime) a basso costo, contando sull'ancor misero livello dei salari.
I Giapponesi hanno già superato da tempo la fase dei bassi salari, dopo la quale la concorrenza si vince esclusivamente in virtù di un primato tecnologico e merceologico che permetta di produrre e vendere sui mercati mondiali merci nuove e complesse non subito imitabili dai concorrenti. Stati Uniti, Giappone e Unione Europea devono, in questa prospettiva, puntare più che mai su un capitalismo con un ritmo di innovazione tecnologica e merceologica di massima intensità. La divisione internazionale del lavoro lascerà allora ai paesi in via di sviluppo la possibilità di specializzarsi in merci ad alto contenuto di lavoro.
Complicazioni sorgono dal fatto che gli elevati costi di produzione nei paesi ricchi rischiano di non essere mai compensati dalla maggiore produttività del lavoro, se derivano anche dagli oneri imposti dallo Stato sociale in senso ampio (inclusivi delle spese per l'ambiente). E già oggi si profilano forme inedite di protezionismo dei paesi ricchi, che rifiutano prodotti dei paesi in via di sviluppo accusando questi ultimi di non rispettare norme umanitarie, ecologiche, ecc. Ulteriori complicazioni riguardano le migrazioni, legali o clandestine, di uomini e donne in cerca di lavoro dai paesi poveri, ad alto tasso di natalità, verso i paesi ricchi, a basso tasso di natalità.
Dette migrazioni sconfessano le ipotesi malthusiane per cui il tasso di natalità avrebbe dovuto crescere, non diminuire, col miglioramento delle condizioni di vita. Invece, nei paesi a sviluppo avanzato, Italia compresa, la popolazione al netto degli immigrati tende a farsi stazionaria, con una preponderanza dei vecchi sui giovani, degli improduttivi sui produttivi. Di qui, nuove sfide al capitalismo, che nell'Ottocento si giovò di condizioni demografiche affatto diverse dalle attuali. Lo stesso Stato sociale entra in crisi se deve fornire pensioni e cure sanitarie a una popolazione che mediamente invecchia sempre di più.

2. Profitti e capitalisti

Il profitto costituisce un altro motivo di equivoco sulla natura del capitalismo. Dalla proposizione (esatta, entro certi limiti) che i capitalisti nel mercato cercano il profitto si è tratta la deduzione (errata) che soltanto il sistema capitalistico conosca il profitto in vasta misura. In realtà, qualunque sistema economico, compreso quello comunista, ha inevitabilmente esperienza del profitto, e affermare il contrario è contentarsi di restare alla superficie delle cose. Caduta irrimediabilmente la teoria del valore-lavoro di Marx, e caduta da ultimo anche a opera di economisti di sinistra come Piero Sraffa (1898-1983); avendo rinunciato a identificare nel lavoro l'unica ‟sostanza valorificante", il profitto non può più essere ridotto a inevitabile furto perpetrato dai capitalisti sfruttatori a danno dei lavoratori dipendenti. Se così fosse (ma non è), avrebbero ragione coloro i quali vedono nel profitto un reddito destinato a scomparire là dove, per ipotesi, scompaia lo ‟sfruttamento", cioè appunto nel comunismo.
Così non è, perché invece il profitto esiste sempre, positivo, nullo o negativo, ogni volta che la produzione esige che qualcuno anticipi dei costi in attesa di ricavi futuri e incerti. E questo è un requisito tecnico universale, la produzione non essendo mai istantanea: per esempio, il forno da pane deve precedere, come fattore produttivo disponibile, il momento della cottura. Ebbene, il profitto, calcolabile soltanto ex post, a consuntivo, è semplicemente la differenza tra i ricavi effettivi e i costi, i quali ricavi effettivi, è ovvio, possono essere diversissimi da quelli sperati nel momento dell'anticipazione dei costi. Il grano che si semina è un costo anticipato, con la speranza che, mesi dopo, si ricavi un raccolto di grano molto superiore al seme; e l'uso del raccolto presuppone che già esistano il mulino e il forno. Però la quantità del ricavo sperato è talvolta ridotta da accidenti o vere e proprie catastrofi, contro le quali non è possibile assicurarsi.
Insomma, chi anticipa, chiunque egli sia, corre rischi che è difficile o impossibile scansare e che sono fastidiosi. Nel capitalismo, chi anticipa è di solito un individuo volontario, un capitalista che anticipa per sé o a favore di altri. Anticipa per sé, ad esempio, un coltivatore diretto che risparmi una parte del suo grano, ossia non lo consumi subito per la sua alimentazione, ma lo conservi per seminarlo con le sue mani. Anticipa per gli altri, sempre ad esempio, l'agricoltore che compra il seme e paga il salario del seminatore. Chi anticipa per gli altri rende un favore agli altri: il venditore del seme ne riceve il valore immediatamente, senza attendere il prossimo raccolto; il seminatore riceve immediatamente il salario col quale si procura il pane, senza attendere che maturi quanto egli ha seminato. In cambio, il capitalista farà suoi il ricavo lordo e il profitto del raccolto a venire, se esso verrà e nella misura in cui verrà.
Una economia collettivistica ha tale nome perché è la collettività intera a effettuare, volente o nolente, le anticipazioni e, secondo un piano politico, a sopportarne i costi e goderne i ricavi, compreso il profitto (che però non è necessariamente positivo). Il piano è più o meno democratico quanto maggiore o minore è la partecipazione della collettività a prepararlo e realizzarlo. Ma l'esperienza dell'Unione Sovietica insegna che specialmente un piano centralizzato ha complessità tecniche che restringono fin quasi ad abolirla la partecipazione diretta del popolo, cioè degli anticipatori. I quali di solito ignorano perfino con quale quota individuale contribuiscono agli anticipi (all'accumulazione del capitale, con sacrificio dei propri consumi immediati: l'accumulazione è decisa dallo Stato, ma il sacrificio dei consumi è di persone in carne e ossa) e con quale profitto sono compensati, se lo sono. Se si ama la bizzarria, si può dire che l'Unione Sovietica aveva relativamente più capitalisti degli Stati Uniti, ma capitalisti senza poteri, finché la Russia non ha cominciato le privatizzazioni e la consegna ai lavoratori di buoni (di ‛azioni') gratuiti e negoziabili.
Marx andò molto vicino a comprendere la vera natura del profitto, o forse la comprese in pieno senza però trarne le conseguenze che avrebbero distrutto la sua teoria del valore-lavoro. In Lavoro salariato e capitale si legge (v. Marx 1849; tr. it., pp. 31 e 38): ‟Il tessitore ha ricevuto il suo salario molto tempo prima che la tela sia venduta, forse molto tempo prima che essa sia tessuta. Il capitalista, dunque, paga questo salario non con il denaro che egli deriverà dalla tela, ma con denaro di anticipo [...]. È possibile che il capitalista non trovi nessun compratore per la sua tela. È possibile che dalla vendita di essa egli non ricavi neppure il salario. È possibile che egli la venda in modo molto vantaggioso in confronto col salario del tessitore. Tutto ciò non è affare del tessitore".
Pertanto, il tessitore riceve un servizio dal capitalista, proprio come lo riceve chi incassi immediatamente il valore di una cambiale con scadenza futura e firma di un debitore non si sa quanto solvibile. Una banca può anticipare la somma, ma nessuna banca anticiperà l'intera somma; ogni banca tratterrà per sé uno sconto, con la speranza di coprire il suo rischio e guadagnare per il servizio reso al creditore impaziente di incassare. Analogamente, l'industriale di Marx, che rende il servizio di anticipazione all'operaio tessitore, in cambio si aspetta un profitto, ma è il mercato a decidere, con tutti gli accidenti che possono registrarsi. In un mercato ‛ideale' (un mercato reale tutt'al più lo approssima), il profitto dovrebbe essere il voto, che gli utilizzatori della produzione, cioè infine le famiglie consumatrici, danno ai singoli produttori in concorrenza: alto gradimento, alto voto, alto profitto; o al contrario, basso gradimento, basso voto, profitto basso, nullo o negativo (perdita). Questo va detto, ben inteso, lasciando un posto alla fortuna.
In tal senso ha ragione Giovanni Sartori quando scrive che ‟il mercato è una entità crudele" e che ‟la sua legge è quella del successo del più capace [o del più fortunato]"; ma ‟la crudeltà del mercato è una crudeltà sociale", poiché ‟il mercato è cieco di fronte agli individui". Esso ‟è invece una spietata macchina al servizio della società" (v. Sartori, 19932, pp. 225-226). Elimina, o dovrebbe eliminare, i produttori peggiori, e anche semplicemente gli sfortunati, nell'interesse dei consumatori. Se non che la concorrenza libera e leale dei produttori è in pratica una rarità: il liberista deve contentarsi di gare imperfette per quanto concerne sia il numero dei partecipanti ammessi, sia i criteri per distinguere tra vincitori e vinti.
Contro la sportività della competizione nelle economie di mercato si coalizzano e intervengono spesso capitalisti, politici e sindacalisti, giustificandosi con l'opportunità di difendere l'occupazione delle maestranze innocenti presso i produttori in pericolo, o con altri argomenti. Il concetto di ‛diritto al lavoro' ha fatto strada nel capitalismo moderno, a danno del dovere di lavorare nel migliore dei modi per produrre cose utili agli altri (i lavoratori pagati a lungo per produrre cose inutili finiscono col diventare, anche se innocenti, parassiti sociali). I capitalisti ‛in attacco' hanno però atteggiamenti ben diversi da quelli ‛in difesa': i primi auspicano la libertà di gareggiare tanto quanto i secondi la aborrono. E quando l'attacco agli avversari e rivali è portato con l'arma di potenti innovazioni tecnologiche e merceologiche, le probabilità di successo degli attaccanti sono elevate nel lungo periodo, benché la dimensione iniziale degli attaccanti possa essere piccola rispetto a quella degli attaccati.
È la lotta del nuovo contro il vecchio. Schumpeter ha insegnato quanto Marx aveva già intravisto, ossia che il capitalismo di mercato ha una missione di distruzione creatrice, distruzione del vecchio e creazione del nuovo in nome del progresso. Ma la distruzione del vecchio non è mai indolore e senza resistenze conservatrici. Per contro, la creazione del nuovo è spinta non soltanto dalla ricerca del profitto, bensì pure, talvolta, dalla frenesia umana (borghese) del nuovo per il nuovo; frenesia più vibrante in certi popoli e in certe epoche, meno vibrante, se non assente, in civiltà e periodi statici. Le economie non di mercato tendono a essere meno progressive, perché il profitto, sebbene presente, è calcolato e distribuito in modo politico, con prezzi politici, e cioè non automaticamente a favore degli innovatori di successo, i quali magari mancano addirittura della libertà di mettere alla prova le loro idee; e perché la stabilità dell'occupazione fa premio sulla ricerca dell'alta produttività del lavoro e degli alti salari.
Pareto amava illustrare questo punto citando il caso di Henry Bessemer (1813-1898), inventore inglese di un nuovo processo siderurgico che gli esperti bocciarono ripetutamente. Per sua fortuna, la Gran Bretagna, in quanto economia libera, concesse a Bessemer di costituire una propria acciaieria e così dimostrare che, se gli esperti gli davano torto, il mercato gli dava ragione. Casi del genere sono frequenti nella storia economica. All'inizio del nostro secolo, l'automobile a benzina era in competizione con l'auto elettrica e l'auto a vapore, con non pochi esperti a favore di quest'ultima (forse perché il vapore dominava nel settore ferroviario). Tali esperti si sbagliavano, come oggi tutti sappiamo ma come allora non si sapeva. L'americano Lee De Forest, che contribuì a realizzare la televisione, venne condannato dagli esperti e dai tribunali quale truffatore: prometteva l'‛impossibile', la visione a distanza.
Una economia pianificata da esperti risponde a una concezione della vita opposta a quella della teoria del capitalismo di mercato, pur quando si ammettesse la partecipazione al profitto degli esperti. Affidare l'economia nazionale al ‛miglior' progetto dei ‛migliori' esperti implica credere che il futuro sia costruibile, in modo razionale, e dominabile dalla nostra volontà. La filosofia del libero mercato è affatto diversa, e Hayek è stato chiaro in proposito: ‟Se potessimo sapere non solo tutto quanto tocca la soddisfazione dei nostri desideri di adesso, ma pure i bisogni e le aspirazioni future, resterebbe poco da dire in favore della libertà [...]. Ma siccome ogni individuo sa poco e, in particolare, raramente sa chi di noi sa fare meglio, ci affidiamo agli sforzi indipendenti e concorrenti dei molti, per propiziare la nascita di quel che desidereremo quando lo vedremo" (v. Hayek, 1960; tr. it., p. 48).
Ciò non assicura alcuna marcia verso un ‛ottimo': ‟In quanto scoperta di cose ancora ignote, il progresso ha conseguenze necessariamente imprevedibili [...]. La mente umana non può prevedere né deliberatamente forgiare il proprio futuro. Le sue conquiste consistono nello scoprire dove ha sbagliato" (ibid., pp. 60-61). Non assicura nemmeno il profitto al tecnico che abbia fornito una innovazione utile, perché dell'utilità bisogna convincere il mercato, solitamente con l'ausilio di un abile imprenditore capitalista. Il tecnico James Watt si alleò con l'imprenditore Matthew Boulton per il lancio della macchina a vapore. Rari sono gli inventori alla Edison, che sono inventori-imprenditori. A volte il profitto non arriva perché l'innovazione è utile ma eccessivamente precoce: Charles Goodyear scoprì (casualmente) i vantaggi della vulcanizzazione della gomma nel 1839, ma finì i suoi giorni in miseria; egli avrebbe dovuto attendere la fine del secolo e l'avvento del pneumatico per automobili per poter sfruttare convenientemente la sua scoperta. (Per i rapporti tra tecnici, managers, imprenditori e politici, v. anche Salsano, 1987).
I diritti d'autore hanno in genere la qualità del profitto e insegnano, fra l'altro, che un libro o una musica lodata dalla critica può rendere molto meno di un'opera ‛volgare'. Ciò che piace al volgo, alla folla, alla moltitudine ha successo nel capitalismo consumistico, il quale, dunque, ha un lato ‛democratico' irritante per i dotati di gusti elitari. Tuttavia, il mercato è pronto a soddisfare anche i desideri dei raffinati, purché costoro siano disposti a pagare il costo o meglio il valore di mercato di quanto domandano, salvo che non lo paghi per essi un mecenate pubblico o privato. Il mercato vende addirittura libri di propaganda contro il mercato, l'attrazione dei capitalisti verso il profitto superando spesso la loro eventuale fedeltà al sistema economico in cui operano.
Questo non autorizza però a concludere che il movente dei capitalisti (categoria d'altronde assai eterogenea) sia il lucro monetario e nient'altro. Il profitto è indispensabile per finanziare nel modo più comodo lo sviluppo delle imprese di successo, ma il fine dello sviluppo è anche extra-economico, se si bada al potere per il potere, alla notorietà, alla soddisfazione delle proprie ambizioni e dell'amor proprio, al piacere di realizzare un'opera prestigiosa. C'è chi innova per il piacere di innovare e gareggia per il piacere di gareggiare. Al limite, è concepibile un capitalismo di mercato che continui a funzionare sebbene la media generale del profitto sia negativa (la perdita sia cioè più probabile del guadagno): basta che un certo numero di capitalisti mantenga la speranza di fare meglio della media. Non diverso è il perdurare dei concorsi sportivi, come in Italia il totocalcio, in cui notoriamente chi li organizza ha la certezza di guadagnare alle spalle degli scommettitori che seguitano a scommettere in quanto speranzosi, non ingenui.
La legge marxista della caduta del tasso di profitto fu giustamente definita dal suo stesso autore legge ‟tendenziale", quindi di scarso interesse scientifico, suscettibile di essere smentita da forze specifiche in contrasto con la tendenza generale. Difettano le statistiche storiche sul tasso di profitto nei maggiori paesi capitalistici: è una grandezza difficile da misurare ed estremamente oscillante nel tempo e nello spazio, per cause congiunturali o d'altro tipo. Non pare tuttavia che il profitto sia venuto a mancare con modalità tali da compromettere la sopravvivenza del capitalismo, là dove esso è ben impiantato: non ci sono sintomi evidenti di una sua prossima morte naturale (la soppressione violenta, è ovvio, non si può mai escludere).
La grande crisi economica del 1929-1936 indusse alcuni a identificarla quale fase finale del capitalismo di tipo anglosassone. Crisi del genere (deflazionistiche) sempre più gravi e frequenti avrebbero dovuto caratterizzare il capitalismo maturo e portarlo a uno stadio terminale, in cui la domanda effettiva di prodotti sul mercato sarebbe stata cronicamente inferiore alla capacità produttiva dei capitalisti privati. Keynes delineò i tratti di uno pseudocapitalismo futuro regolato da interventi pubblici sia sulla domanda sia sull'offerta, così che il rischio imprenditoriale si riducesse al minimo e il profitto fosse sostituito da una mera retribuzione del lavoro dirigenziale e organizzativo in una economia prevalentemente stazionaria.
Altri uomini di cultura, fra i quali di recente il filosofo Emanuele Severino, rivisitano i ricorrenti timori malthusiani per concludere che il capitalismo è una forma di produzione ‟in procinto di avviare un processo irreversibile di distruzione della Terra e di se stessa" (v. Severino, 1993, p. 78). E ancora: ‟Il capitalismo sta distruggendo se stesso. Sta riuscendo a fare quello che il comunismo, la democrazia, il cristianesimo non sono riusciti e non riescono a compiere [...]. Il capitalismo è costretto ad assumere come scopo primario non più il profitto, ma la continua innovazione tecnologica che ha il compito di garantirlo. Insensibilmente si sta andando verso un'epoca in cui il capitalismo, non avendo più come scopo primario il profitto, è capitalismo solo in apparenza, mentre in realtà è tecnocrazia" (ibid., pp. 65-67).
In effetti, per ora, non vi sono prove storiche irrefutabili che il capitalismo, maturando, si impaludi vieppiù in crisi deflazionistiche o di ristagno della domanda; al contrario, l'inflazione è il suo stato normale. Può darsi che proprio l'aumento della spesa pubblica propiziato da Keynes abbia salvato il capitalismo, come qualche economista sostiene; ma è certo che Keynes sottovalutò (magari volutamente) la capacità dell'innovazione, nel campo dei beni di consumo, di creare, con l'appoggio della pubblicità commerciale, nuova domanda effettiva. Quanto a Severino, gli è stato ribattuto che l'innovazione trasforma la Terra, non la finisce. Insieme ai beni di consumo prima inesistenti, si inventano le risorse naturali per produrli, risorse prima sconosciute o inservibili. Nella prospettiva capitalistica le risorse naturali non termineranno mai, se non terminerà l'attitudine della nostra intelligenza a render utile quanto non lo era.
Nessuno nega, s'intende, l'esistenza di problemi ecologici e la necessità urgente di una tecnologia che ne tenga conto e contribuisca a risolverli. Se in tal modo avremo una tecnocrazia, anziché un capitalismo, è questione solo definitoria; ma il capitalismo che conosciamo è sempre andato, fin dalle origini, sottobraccio a forme tecnocratiche. Le quali, se fossero tanto contrastanti col capitalismo quanto presume Severino, ora non porterebbero al declino di tale sistema economico, giacché non gli avrebbero nemmeno consentito di nascere.

3. L'organizzazione capitalistica

Il capitalismo ha affrontato e per lo più risolto formidabili problemi organizzativi, i quali si manifestarono già nelle fasi iniziali dell'evoluzione del sistema e crebbero di numero e di importanza col passar del tempo. Adam Smith li teorizzò all'alba della rivoluzione industriale distinguendo tra aumento delle dimensioni del mercato e aumento delle dimensioni di impresa. Egli vedeva con favore l'aumento delle dimensioni del mercato, premessa per migliorare la divisione del lavoro e raccogliere i frutti della specializzazione. L'economista scozzese era invece sospettoso verso l'ampliamento delle dimensioni d'impresa, per timore che si formassero monopoli, concentrazioni eccessive di potere e organismi inefficienti, in quanto burocratizzati.
Quest'ultima preoccupazione fu pure, successivamente, di Schumpeter, che giunse tanto in là da prevedere un tramonto del capitalismo imputabile al moltiplicarsi di imprese-dinosauro, troppo pesanti e lente nei riflessi nervosi, troppo vaste perché ‟l'occhio del padrone" potesse controllarle. Schumpeter vide inevitabile un inasprimento dei conflitti di interesse tra proprietà e direzione, tra azionisti e managers; ed egli non fu il solo a trattare il tema, che anzi ebbe un lungo periodo di moda durante il quale fu voltato e rivoltato (basti pensare a The managerial revolution di James Burnham - v., 1941 - ristampato varie volte).
L'aumento delle dimensioni d'impresa è effettivamente avvenuto con lo sviluppo capitalistico e non solo per la ragione già osservata da Marx ed esposta con la pittoresca espressione: ‟Espropriazione del capitalista da parte del capitalista". Egli riteneva che i capitali più grossi avrebbero sconfitto quelli minori, nella gara concorrenziale: la maggiore scala della produzione avrebbe ridotto i costi unitari rendendo più a buon mercato le merci. Questo è vero, ma è altrettanto vero che i vantaggi di scala hanno un limite, variabile da caso a caso, oltre il quale possono trasformarsi in svantaggi. Quanto alla gara concorrenziale, accade talvolta (per esempio nel mercato dell'automobile) che essa inizi con una moltitudine di produttori, i quali sono selezionati nel giro di anni o di decenni finché poche grosse imprese sopravvivono sul mercato (oligopolio), o, raramente, una sola (monopolio). Se non che la gara non termina mai, e agli oligopolisti e al monopolista difficilmente è consentito dormire sugli allori.
La presenza di numerose piccole imprese in un settore produttivo indica di solito l'esistenza di un mercato ‛giovane', fondato su novità tecnologiche e merceologiche recenti o ancora sperimentali. L'oligopolio o il monopolio (temporaneo) è invece tipico di un mercato ‛maturo'. Si badi che, in assenza di protezioni legali, il monopolio è quasi sempre temporaneo e mai assoluto, nel senso che se esiste in un settore non esiste in altri settori vicini e affini. Per spiegarci meglio: un ipotetico monopolio del teatro sarebbe stato infranto dall'avvento della cinematografia, e un ipotetico monopolio cinematografico avrebbe subito la stessa fine con l'avvento della televisione. Un monopolio non dura, salvo che esso rinunci a sfruttare la sua posizione. Il cartello mondiale della dinamite, fondato da Alfred Nobel, durò fin dopo la prima guerra mondiale (quando ormai i brevetti erano decaduti da un pezzo), perché aveva come regola di ridurre il prezzo di vendita a ogni sostanziale incremento della domanda. Du Pont, che era membro del cartello, applicò lo stesso criterio per altri suoi prodotti brevettati. Nel 1920 l'Allied Chemical sembrava invincibile negli Stati Uniti, invece la Du Pont la sorpassò.
Non è comunque sempre vero che nel mercato i pesci grossi mangiano i pesci piccoli. Gli esempi storici del contrario sono innumerevoli e testimoniati da una estesa letteratura (v., ad es., Drucker, 1985). Non solo molte grandi imprese si servono di numerosi piccoli e medi fornitori indipendenti (il cosiddetto ‛indotto'), ma accade che piccole e medie imprese, più agili, battano le grandi rivali; abbastanza di recente, quando era diffusa l'opinione che il futuro fosse delle grandi acciaierie a ciclo integrale, i cosiddetti micro-mills hanno dimostrato il contrario: le piccole imprese riescono infatti ad accrescere la produzione grazie al vantaggio di poter essere immediatamente sfruttate al cento per cento, contrariamente alle nuove grosse unità poco utilizzate per anni e anni.
Nel settore modernissimo dell'elettronica, alcune grosse società elettriche dal 1949 al 1955 cercarono di produrre computers in vari paesi sviluppati: nel 1970, tuttavia, erano quasi tutte fuori dal mercato, a vantaggio di produttori diversi che nel 1949 non esistevano o erano di dimensioni relativamente ridotte. Nel 1949 nessuno avrebbe previsto che l'IBM si sarebbe imposta su concorrenti che, all'epoca, avevano dimensioni colossali al suo confronto. Né era prevedibile che il personal computer della Apple avrebbe avuto origine in un garage per iniziativa di due tecnici. Né ancora che un giovane americano di nome Bill Gates, nato nel 1956, a sedici anni avrebbe fondato a Seattle una azienda destinata a diventare la Microsoft, la quale, grazie alle invenzioni elettroniche del fondatore, occupava, nel 1994, circa 52.000 dipendenti distribuiti in 52 paesi.
D'altronde, le dimensioni d'impresa vanno giudicate non in assoluto, bensì in rapporto al progresso dei metodi e dei mezzi organizzativi, nonché in rapporto alle dimensioni del mercato globale. Proprio l'elettronica consente oggi di gestire con semplicità complessi sistemi di telecomunicazione e di elaborazione dei dati, che aumentano il potere degli organizzatori. ‛Miracolosa' può essere detta l'organizzazione dell'Impero romano, se si bada ai mezzi disponibili allora; adesso, senza ‛miracoli', si può fare molto di più con meno fatica. Un esempio: la Swissair ha trasferito a Nuova Delhi, in India, gran parte dell'amministrazione, per risparmiare sui costi; l'elettronica pone l'India a portata di mano (anche se ciò non assicura che sia sempre evitabile la formazione di una burocrazia elettronica tanto ingombrante quanto quella delle mezze maniche di una volta).
Maggiori dimensioni d'impresa sono poi suggerite dalla opportunità di mantenere quanto meno costante la quota di mercato di ogni singolo produttore che si trovi di fronte a un mercato in espansione. La rapidità di questa espansione può consigliare che le dimensioni d'impresa crescano mediante concentrazioni e fusioni di diverse aziende. Va ricordato che l'ampliamento di un settore di mercato non è, di solito, un mero fenomeno quantitativo: avvengono simultaneamente cambiamenti nella composizione qualitativa del settore, o si ha la nascita di nuovi settori, perché migliora la divisione del lavoro e si propizia la nascita di nuove specializzazioni. Quindi si fa più comune l'impresa che opera in più settori, anche non strettamente affini, con diverse quote di mercato in ognuno di essi. In alcuni settori di alta specializzazione la quota di mercato (mercato parziale), può salire verso il 100% senza che questo costituisca un fatto abnorme. (Non ci occupiamo della questione statistica di come misurare le dimensioni d'impresa: numero di occupati, fatturato, valore aggiunto, ecc.).
Si è molto discusso se il progresso tecnologico e merceologico sia favorito o no dalle grandi dimensioni d'impresa. In parte abbiamo già preso posizione in materia: non vi sono regole sicure. Certo, le grandi dimensioni d'impresa consentono l'esistenza di grandi laboratori di ricerca; tuttavia, l'invenzione o la scoperta nasce pur sempre nel cervello di un singolo individuo, e non è detto che costui tragga vantaggio dall'operare in squadra. Peraltro, raramente il merito di una scoperta o invenzione è attribuibile per intero a un unico individuo: ogni studioso si avvale del lavoro di innumerevoli predecessori; ma è possibile e non raro che il ‛di più', il breve o lungo passo avanti, sia opera individuale di un ricercatore.
Va da sé che il ricercatore talvolta agisce come privato, talaltra agisce in collegamento con strutture pubbliche. La ricerca cosiddetta di base, particolarmente costosa e non prossima alle applicazioni redditizie, viene compiuta, anche nei paesi capitalistici, con fondi sovente pubblici. Per contro, invenzioni o scoperte private divengono presto di dominio pubblico, ossia la collettività ne usufruisce a un prezzo modico o nullo. I brevetti costituiscono di regola un ostacolo minimo e di breve periodo alla diffusione del progresso, anche in assenza di illegalità come quelle connesse allo spionaggio industriale e scientifico.
La Gran Bretagna della prima rivoluzione industriale cercò di proibire l'esportazione delle nuove macchine o dei loro disegni tecnici, ma il divieto ebbe scarsa efficacia. Furono gli stessi industriali britannici a infrangere la proibizione legale, trovando conveniente la vendita della loro tecnologia agli stranieri. Lo riconobbe ben presto lo stesso Friedrich Engels (cit. in Landes, 1993, p. 9): ‟L'Inghilterra ha inventato la macchina a vapore, l'Inghilterra ha costruito le ferrovie, due cose che, crediamo, valgono un bel po' di idee. Ebbene, l'Inghilterra ha fatto queste invenzioni per se stessa o per il mondo? [...] Chi ha diffuso la civiltà in America, in Asia, in Africa e in Australia, se non l'Inghilterra?".
I capitalisti inglesi finanziarono la diffusione planetaria delle loro novità, e così avvenne dopo per altre novità a opera dei capitalisti tedeschi, americani e via dicendo. Perfino l'industrializzazione dell'Unione Sovietica si servì ampiamente dell'apporto finanziario e tecnico del capitalismo occidentale. Se in alcune parti della terra il seme della rivoluzione industriale non attecchì, fu per anomalie locali da analizzare a una a una. La vocazione planetaria del capitalismo precede addirittura la rivoluzione industriale, ed è già manifesta all'epoca delle scoperte geografiche, che non furono ispirate esclusivamente da un amore della conoscenza e dell'avventura del tutto privo di componenti economiche.
Gli storici (ad es., Fernand Braudel e Immanuel Wallerstein) parlano comunemente della formazione, a partire almeno dal XVI secolo, di una economia-mondo capitalistica; che per Lewis Mumford diventa una megamacchina tanto possente da stritolare ovunque uomini e culture. Questo non va inteso nel senso, ovviamente errato, che i caratteri dell'economia siano ormai uniformi in tutto il mondo, ma piuttosto nel senso che esiste un centro economico (mobile), una semiperiferia e una periferia estesa spesso all'intero pianeta. Al concetto di economia-mondo, Wallerstein avvicina quello di impero-mondo, che ne sarebbe l'equivalente politico: ‟La dinamica della concentrazione del potere militare ha portato a ricorrenti tentativi di trasformare il sistema interstatale in un impero-mondo. Se questi tentativi non hanno mai avuto successo nel capitalismo storico, ciò è avvenuto perché la base strutturale del sistema economico e gli interessi dichiarati dei maggiori accumulatori di capitale si sono opposti con grande energia a una simile trasformazione dell'economia-mondo in un impero-mondo" (v. Wallerstein, 1983; tr. it., p. 43). Gli esperimenti della Società delle Nazioni e delle Nazioni Unite presentano luci e ombre, ma forse un bilancio realistico, se si riuscisse a tracciarlo, non entusiasmerebbe nessuno.
Più largamente accettato è il giudizio positivo su organizzazioni economiche internazionali, come la Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, il Fondo Monetario Internazionale, l'Organizzazione Internazionale del Lavoro, la FAO (Food and Agriculture Organization), ecc., in parte dipendenti dalle Nazioni Unite, ma con forte influsso americano. Abbiamo poi un insieme di organizzazioni non mondiali, bensì di tipo continentale o subcontinentale. Vengono subito in mente la Comunità Economica Europea (poi Unione Europea), nonché l'Organizzazione degli Stati Americani, il NAFTA (North American Free Trade Agreement), il Patto Andino, l'APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation), il Patto di Varsavia (più politico che economico), e così via.
Il fallimento del tentativo di costituire presso le Nazioni Unite un ente preposto al commercio mondiale (se si esclude la recentissima nascita della WTO, World Trade Organization) indusse un gruppo di 23 paesi a firmare nel 1947 il GATT (General Agreement on Tariffs and Trade). Esso opera mediante periodiche conferenze fra i paesi aderenti, l'ultima delle quali - il cosiddetto Uruguay Round - si è protratta dal 1986 al 1994: la lunga durata è un indice dei contrasti esistenti in fatto di libertà del commercio internazionale. L'Uruguay Round avrebbe dovuto concludersi nel 1990: i tre o quattro anni di ritardo nella firma degli accordi sono in parte imputabili alla resistenza della Comunità Economica Europea verso certe posizioni liberoscambiste americane.
L'ostilità al libero scambio internazionale è massima nel settore agricolo, che tuttavia nei paesi industrializzati pare essere ormai un settore di minima importanza: il paradosso merita una riflessione. L'agricoltura precapitalistica, molto poco produttiva, occupava il 60 o 70% delle forze di lavoro esistenti nell'economia. La scarsissima produttività agricola dipendeva dal dominio di un fattore naturale, la terra, su cui era scarso l'investimento di capitale. Con il passaggio, lento ma inesorabile, dall'economia della terra all'economia del capitale, la produttività agricola è salita tanto che, per esempio negli Stati Uniti, la percentuale delle forze di lavoro occupate in agricoltura è scesa verso il livello del 3%. Ciò significa, nel caso specifico, che una agricoltura capitalistica è capace di nutrire l'intera popolazione di un paese (e inoltre di esportare all'estero grandi quantitativi di cibo e di altri prodotti agricoli) occupando nel settore appena il 3% delle forze di lavoro.
Vi è stato ovunque, ma specialmente negli Stati Uniti, un imponente deflusso di lavoratori dall'agricoltura verso l'industria e il settore terziario dei servizi. Non di meno, l'attività dell'agricoltura capitalistica è di regola minacciata dalla sovrapproduzione, non dalla scarsezza, anche perché se il progresso tecnologico in questo settore è rapido, il progresso merceologico lo è molto meno. La scarsezza di cibo nel mondo si è ridotta, non ostante l'aumento della popolazione terrestre, a poche zone in cui l'agricoltura capitalistica non esiste, nelle quali la distribuzione degli alimenti, che si possono importare dai paesi in cui l'agricoltura capitalistica esiste, incontra vari ostacoli.
La regola, dunque, è la sovrapproduzione, che minaccia di far crollare i prezzi agricoli e di danneggiare gli agricoltori superstiti. In particolare, gli agricoltori europei, se non fossero protetti dai loro governi, non sarebbero in grado di resistere alla concorrenza di molti prodotti dell'America settentrionale e meridionale, che traverserebbero l'Atlantico a basso costo grazie anche al progresso dei trasporti. Ma la protezione è concessa - e anzi per i paesi aderenti alla Comunità Economica Europea (UE) essa è organizzata in base a fini politici e sociali, con una razionalità a dir poco dubbia - a livello comunitario.
Nella Comunità si è giunti a sovvenzionare con denaro pubblico la distruzione dei raccolti per mantenere alti i prezzi di ricavo degli agricoltori, con inevitabile danno per i consumatori che si trovano costretti a sopportare un costo della vita più pesante. Ma nessun paese sembra disposto a rinunciare del tutto alla propria agricoltura, ancorché essa sia antieconomica; mentre questo settore, sebbene inserito in un sistema capitalistico, conserva proprietà intrinseche di debolezza rispetto all'industria e problemi organizzativi suoi propri. Così, tanto nelle terre migliori come in quelle meno produttive, i redditi netti dell'agricoltura risultano ben più oscillanti, irregolari e rischiosi di quelli industriali, almeno in assenza di interventi pubblici stabilizzatori.
Infatti, l'agricoltura incontra grosse difficoltà ad adeguare l'offerta alla domanda. Non solo l'offerta di prodotti agricoli tende a scavalcare una domanda pigra e riluttante; essa è inoltre una offerta perturbata da fattori incontrollabili, che vanno dalle bizzarrie del tempo atmosferico alle imprevedibili epidemie delle piante e degli animali. L'industria è meno esposta a simili disturbi aleatori, ed è meglio capace di prestabilire la misura dell'offerta, variandola a piacere. Seminato il grano, l'agricoltore non può più, per mesi e mesi, cambiare il programma di produzione; piantato il frutteto, l'agricoltore non può più cambiare quel programma per anni e anni. L'industriale, invece, può sovente cambiarlo ogni giorno, può per esempio aumentare subito la produzione allungando la giornata lavorativa, chiedendo lavoro straordinario ai suoi operai.
E - fatto ancor più grave - un aratro rimane ozioso per gran parte del tempo, un altoforno siderurgico funziona in continuazione; il capitale cambia radicalmente il suo grado di sfruttabilità. Aggiungiamo che un bracciante agricolo si ferma quando piove, un operaio in fabbrica no. Ma è inutile continuare l'elenco di ciò che è sotto gli occhi di tutti: conviene piuttosto indagare il motivo o i motivi per cui l'agricoltura non scarica (senza il soccorso pubblico) sui consumatori dei suoi prodotti i costi degli inconvenienti che le sono specifici. Perché li soffre e non li trasferisce? Non ci vuole molto a intuire (v. Ricossa, 1984-1985) che non li trasferisce perché di regola i mercati agrari sono ‛mercati del compratore', non ‛mercati del venditore', almeno negli anni normali e appunto in assenza di interventi pubblici a protezione del venditore.
I mercati agrari rientrano tipicamente nella categoria della ‛concorrenza atomistica'; i mercati industriali rientrano per lo più in quella della ‛concorrenza oligopolistica'. Si tratta di due regimi affatto diversi. L'offerta di automobili segue da vicino gli alti e bassi congiunturali della domanda di automobili; alti e bassi che non sono così marcati nel caso della domanda di pane e di grano. Tuttavia, i prezzi delle automobili sono assai più stabili del prezzo del grano, mentre il prezzo del pane, prodotto per metà agrario e per metà industriale, sarebbe una via di mezzo se non fosse talvolta amministrato dalle pubbliche autorità. Il fatto è che i singoli produttori di automobili, essendo oligopolisti, stabiliscono ciascuno il prezzo della propria marca, e non lo cambiano se non ne vedono la convenienza. Non basta uno squilibrio tra domanda e offerta per modificare il prezzo delle automobili: quello squilibrio si può fronteggiare in altri e più facili modi, per esempio correggendo subito la produzione, o stimolando la domanda con la pubblicità commerciale, o ritoccando la qualità del prodotto. Nessuna di queste opportunità è aperta ai produttori di grano, che non possono correggere subito la produzione né in quantità né in qualità, e che sanno quanto inutile sia reclamizzare il loro prodotto.
Gli agricoltori che offrono prodotti non di marca sono in concorrenza atomistica perché ciascuno di essi è troppo piccolo per controllare i prezzi di merci indifferenziate, fatte più come vuole la natura che come vogliono gli uomini. Dunque ogni squilibrio, anche minimo, tra la domanda complessiva e l'offerta complessiva si ripercuote immediatamente e inevitabilmente sui prezzi, alterandoli ogni giorno, talvolta ogni ora. E l'alterazione deve essere molto ampia, per cercare di riportare in equilibrio il mercato, giacché la domanda di prodotti agricoli è quasi sempre rigida: bassa è la sua elasticità rispetto al reddito, e bassa è anche rispetto ai prezzi. Non ci mettiamo a mangiare molto più pane semplicemente perché il suo prezzo, un giorno, ribassa; o perché diventiamo più ricchi.
Nemmeno in America l'aumento del capitale per addetto ha fatto il miracolo di cambiare l'intima e gracile costituzione dell'agricoltura. Sebbene il progresso merceologico nell'industria alimentare abbia trovato nuovi modi di presentare al consumatore vecchie materie prime (si pensi per esempio ai corn flakes), il mercato non registra uno sviluppo soddisfacente per i produttori. Rimane la scomoda necessità di aumentare di continuo le esportazioni, se si vuole espandere la produzione agraria, sperando che altri paesi siano incapaci di raggiungere l'autosufficienza per i cereali, o altri prodotti, o non si pongano tale obiettivo. Rimane la tendenza al rallentamento della crescita demografica, fenomeno che comincia a manifestarsi fin nel Terzo Mondo. Rimane lo svantaggio di operare in concorrenza atomistica benché si moltiplichino gli sforzi per creare prodotti agrari di marca (per esempio, prodotti ‛doc'), o per costituire cooperative e associazioni di agricoltori.
Le strutturali debolezze organizzative dell'agricoltura si ripetono quasi identiche in altri settori che forniscono materie prime naturali: fibre tessili, gomma, metalli, e così via. Anzi, qui si aggiungono almeno altre due complicazioni che dipendono dal progresso tecnologico, il quale ‛alleggerisce' i prodotti finiti, e sostituisce alle risorse naturali risorse artificiali e sintetiche. Alleggerire i prodotti industriali significa ridurre il costo delle materie prime in proporzione al costo complessivo. Un'automobile del nostro tempo è più leggera, in tutti i sensi, di un'automobile all'inizio del secolo: pesa meno e il suo valore è costituito da una minore percentuale del costo delle materie prime.
Una materia prima naturale fa eccezione alla regola, ma si tratta dell'intelligenza umana, cioè di qualcosa di inconfondibile col resto, una categoria decisamente a parte. In quasi tutti i prodotti cresce la proporzione del valore originato dalla ricerca scientifica, tecnica e organizzativa. Si tratta di spese che si sostengono, in definitiva, per sopprimere altre spese e averne un vantaggio netto. Tale ricerca non porta soltanto ad alleggerire i prodotti e a sostituire la natura con la chimica: essa permette di avanzare lungo mille strade diverse.
Per esempio, si alleggerisce e si miniaturizza: furono parecchio ridotte le dimensioni dei prodotti elettronici aumentandone al contempo la velocità di funzionamento, col passaggio dalle valvole ai transistor. Si alleggerisce e si semplifica: è il caso del passaggio dall'orologio meccanico all'orologio al quarzo, che è anche più preciso. E poi, qualunque cosa si faccia, si cerca di farla col minimo dispendio, con la massima razionalità, col massimo risparmio di lavoro umano nella sua forma più materiale (non intellettuale). Il capitalismo del nostro secolo ha accettato in pieno la finalità di Frederick W. Taylor: ‟Portare il lavoro umano a un più alto livello di efficienza e di capacità produttiva attraverso le scienze organizzative" (v. Taylor, 1911; tr. it., pp. 5-6).
Il taylorismo non gode di buona fama, e il suo autore fu sottoposto all'inchiesta di una commissione della Camera dei deputati degli Stati Uniti nel 1911 e 1912. La sentenza gli fu però favorevole, e infatti Taylor nella sua attività pratica in officina non pretese mai nulla senza il consenso degli operai e il loro tornaconto salariale. Non tutti i suoi seguaci lo imitarono anche in questo, ma comunque la questione è radicalmente mutata con l'avvento degli impianti automatizzati (ancora una volta più nel settore industriale che in quello agricolo, dove d'altronde il taylorismo recitò una parte minima, se non nulla).
Per ordinare le idee, si può dire che l'economia capitalistica del XX secolo è andata avanti sia nel campo della micro-organizzazione sia in quello della macro-organizzazione. La micro-organizzazione si è giovata soprattutto delle scienze organizzative alle quali contribuirono studiosi come Taylor. Nella macro-organizzazione è stato invece decisivo l'apporto del progresso dei trasporti e delle comunicazioni, che ha idealmente ridotto le dimensioni del pianeta Terra, quasi annullando le distanze. Con tutto ciò, i compiti organizzativi del capitalismo rimangono formidabili, e non si realizzano i sogni dei seguaci di Marx, che speravano di ereditare dal capitalismo più evoluto anche pratiche amministrative alla portata di chiunque e quindi pure del proletariato.

4. Il capitalismo finanziario

La storia del capitalismo s'intreccia con quella della moneta. La superiorità di un capitalismo sugli altri porta al dominio della sua moneta sulle valute straniere. Nel XIII secolo, il fiorino di Firenze e il ducato di Venezia, entrambi di coniazione aurea, furono i grandi mezzi di pagamento internazionali e recitarono la parte che più tardi, durante e dopo la rivoluzione industriale, sarà della sterlina e poi del dollaro. Ma come nella storia dell'economia produttiva la rivoluzione industriale rappresentò una frattura vistosa, così nella storia monetaria una analoga frattura si ebbe con l'abbandono definitivo della convertibilità dei biglietti in oro o argento.
La tradizione imponeva che la moneta importante avesse un suo valore intrinseco, corrispondente al valore del metallo prezioso di cui era fatta. Il gold standard, o tallone aureo, fissava il cambio tra due monete in proporzione al loro contenuto in peso di oro fino: le monete si pesavano (il nome ‛lira' viene da ‛libbra', unità di peso). Se non che l'oro è prezioso proprio perché è scarso in natura e non producibile a nostra volontà, a dispetto del sogno degli alchimisti. Ne consegue che le epoche di gold standard, per esempio il XIX secolo, furono epoche con una quantità di moneta circolante che stentava ad adeguarsi alle necessità dello sviluppo economico: è la principale ragione per cui il secolo scorso fu in Occidente caratterizzato da una tendenza alla diminuzione dei prezzi, salvo quando venivano scoperti nuovi giacimenti auriferi.
Alla fame d'oro si ovviò, in parte, col gold exchange standard, ossia con l'emissione di biglietti di carta convertibili in oro a un prezzo ufficiale prestabilito dai governi. Crebbe la quantità di moneta circolante, però entro i limiti stabiliti dalla necessità delle banche centrali di far fronte alle eventuali richieste di conversione in oro dei biglietti in mano alla gente. La convertibilità veniva di tanto in tanto sospesa, in casi di emergenza come sono i periodi di guerra. Ovviamente era sempre facoltà dei governi ridurre il contenuto aureo delle loro monete, mantenendone il vecchio nome, sebbene tale pratica andasse contro le regole della buona amministrazione pubblica e provocasse le immaginabili conseguenze inflazionistiche.
Il XX secolo, con le due guerre mondiali, ha visto la crisi sia del gold standard sia del gold exchange standard. Dopo la prima guerra mondiale vi furono tentativi di ritorno all'oro, ma senza durevoli successi se non negli Stati Uniti. Dopo la seconda guerra mondiale entrarono in vigore gli accordi internazionali firmati a Bretton Woods (Stati Uniti) nel 1944, coi quali si stabilivano regole di conversione delle monete in dollari, e del dollaro in oro. La sterlina perdeva la sua funzione di moneta di riferimento, e al suo posto, con funzione di moneta di riserva, subentrava il dollaro in quanto unica moneta rimasta convertibile in oro. Dagli accordi di Bretton Woods nacque il Fondo Monetario Internazionale il cui scopo era di mantenere i cambi stabili il più possibile.
Il potere del capitalismo americano, che aveva toccato il vertice durante e nei primi decenni dopo la guerra, andò tuttavia attenuandosi successivamente, e in parallelo si attenuò il potere del dollaro. Nel 1971 il presidente Nixon, imbarazzato dal crescente deficit della bilancia dei pagamenti internazionali del suo paese (imputabile all'offensiva commerciale del Giappone e ad altre cause), sospese la convertibilità del dollaro in oro, mettendo di fatto fine al sistema di Bretton Woods. Il regime prevalente divenne quello dei cambi fluttuanti o flessibili, pur mantenendosi l'intenzione di contenere la fluttuazione o la flessibilità entro prefissati limiti, superiore e inferiore. Questa intenzione, nel nostro continente, diede luogo nel 1978 alla nascita del Sistema Monetario Europeo.
L'esperienza successiva ha mostrato che, senza l'ancoraggio all'oro, la stabilità dei cambi è impossibile e che è del pari irrealizzabile perfino il durevole mantenimento delle oscillazioni entro una banda prefissata. Le banche centrali riescono, con più o meno grave dispendio delle loro riserve valutarie e auree, a difendere per qualche tempo le proprie monete durante le fasi di indebolimento e di tendenza a fuoriuscire dalla banda; ma alla lunga il tentativo fallisce, se non migliora radicalmente la forza economica dei paesi in questione. Dunque, ci è rimasta la scelta tra cambi completamente liberi di oscillare e cambi artificiosamente mantenuti stabili per qualche tempo e in qualche misura, ma suscettibili di scattare in alto o in basso non appena le autorità monetarie ne perdano il controllo. L'Unione Europea, con l'accordo di Maastricht, ha imboccato una terza strada, che conduce verso una moneta unica per i paesi membri, i quali quindi non avrebbero più problemi di cambio fra le loro (abolite) monete nazionali.
Il disancoraggio totale dall'oro ha reso molte economie iperliquide (sovrabbondanza di moneta), inflazionistiche e atte alle speculazioni sui cambi. Ingenti capitali, non in forma fisica, ma in forma monetaria, si spostano nel mondo a scopo speculativo: essi si muovono non per finanziare investimenti reali, commerci e produzioni, bensì per lucrare sulle differenze internazionali nei tassi di inflazione, di interesse e di cambio. Poiché queste differenze variano di continuo, la speculazione sposta i capitali da una valuta all'altra secondo la convenienza del momento. Una valuta forte, cioè poco minacciata dall'inflazione e dalla svalutazione, attirerà capitali anche se frutta tassi di interesse relativamente bassi. Al contrario, una moneta debole diventa interessante solamente se promette tassi di interesse elevati.
Questa ricerca speculativa della moneta di volta in volta più conveniente per collocarvi i capitali vaganti nel mondo ha dato luogo a un capitalismo finanziario non sconosciuto in passato, ma ingigantito oggi oltre ogni esempio precedente. Basti dire che, secondo stime attendibili, all'Interbank Market di Londra passa ogni giorno più moneta di quanta sarebbe sufficiente a finanziare per un anno intero le ordinarie operazioni del commercio internazionale. Sotto l'aspetto quantitativo, si tratta di cifre che nemmeno le più dotate banche centrali sono ormai in grado di contrastare quando occorresse, ad esempio per motivi di stabilità dei cambi.
Il capitalismo finanziario, se così vogliamo chiamare questo fenomeno, presenta sempre più spesso aspetti decisamente patologici. Esso è alimentato, tuttavia, non solo da speculatori veri e propri, come è il caso di grossi finanzieri, ma altresì da gestori per conto altrui (per conto di numerosi piccoli e medi clienti) di fondi di investimento, fondi di pensione, et similia. La ricchezza mobiliare agisce essa pure su scala planetaria, alla ricerca del profitto, e con più facilità della ricchezza immobiliare, perché si trasporta più facilmente, o meglio si trasportano più facilmente i titoli che la rappresentano.
Con la cosiddetta moneta elettronica, gli spostamenti di questa avvengono alla medesima velocità degli spostamenti di informazioni, cioè con velocità prossima a quella della luce. Anzi, gli spostamenti finanziari sono null'altro che una parte dell'immenso spostamento di informazioni da un capo all'altro del mondo; e gli spostamenti di informazioni rappresentano a loro volta un flusso internazionale in crescita così rapida da battere ogni altro flusso in ogni altra epoca storica. Pertanto c'è chi sostiene che il capitalismo finanziario stia diventando, in certi suoi aspetti, non solo internazionale, non solo trans-nazionale, ma addirittura non-nazionale. Infine, la moneta è senza patria.

5. Conclusioni

In questo scorcio del secolo XX i più vistosi problemi posti dal capitalismo sembrano essere i seguenti, elencati in (opinabile) ordine crescente di gravità: a) l'erompere del capitalismo finanziario, di cui abbiamo appena detto e sul quale non torneremo; b) la conciliazione del potere economico e del potere politico in regimi più democratici che in passato e con una più spiccata sensibilità per le istanze egualitarie (eredità del socialismo); c) il ritorno a un capitalismo di pieno impiego, dopo il fallimento storico dei rimedi di tipo keynesiano; d) l'inserimento del mercato capitalistico in un contesto planetario dove il futuro sembra richiedere una pianificazione ‛ecologica' in senso lato.
Il punto b) pone l'interrogativo: come impedire che il cittadino e il consumatore restino schiacciati tra un potere politico e un potere economico che ora si combattono, ora si alleano, in una confusione che contamina le regole della democrazia? L'Europa (Italia compresa) non pare in possesso di soluzioni magiche, che non esistono, ma nemmeno di soluzioni empiriche nuove e promettenti. L'Unione Europea dà l'impressione di affidarsi, in ritardo, a regole anti-trust contro l'abuso del potere economico in singoli casi di posizione dominante sul mercato. Gli Stati Uniti hanno almeno un secolo di esperienza in materia, e tale esperienza è deludente.
Economisti americani certamente non filocapitalisti si sono espressi più volte dubitando dell'efficacia della legislazione anti-trust. Per esempio, John Kenneth Galbraith considera tale legislazione ‟una spada di carta", ‟il trionfo della speranza sull'esperienza", qualcosa che in America non ha annullato lo slancio verso concentrazioni sempre maggiori di potere economico: ‟Queste concentrazioni e il potere sul mercato che esse comportano non sono stati percettibilmente inferiori negli Stati Uniti rispetto agli altri paesi industrializzati che non godono di simili leggi anti-trust o non hanno fatto alcun tentativo in quel senso".
Vi sono anche, spesso, crescenti concentrazioni del potere politico, che possono disporre di mezzi che sono aumentati ancor più velocemente dello sviluppo economico. L'ottimismo di pensare che il colosso economico sia tenuto a bada dal colosso politico è smentito dai casi di connivenza tra i due poteri, o anche dal costo oggettivo di conflitti male disciplinati dalle costituzioni democratiche. Il caso italiano, nell'ultimo mezzo secolo, illustra con abbondanza le traversie di un paese che non ha ancora trovato la governabilità democratica senza corruzioni e concussioni al di là del tollerabile.
E veniamo al punto c). Gli economisti che più si abbandonano al pessimismo ritengono che l'alta percentuale di popolazione involontariamente senza lavoro non sia un fenomeno contingente, degli ultimi decenni, ma almeno in Europa (Italia compresa), una caratteristica indelebile dell'ultimo capitalismo. È un ritorno alla teoria della stagnazione del capitalismo maturo, con l'aggravante che la causa non sarebbe di tipo keynesiano (mancanza di domanda effettiva, in particolare mancanza di consumi), bensì di tipo tecnologico. Il capitalismo maturo e la sua tecnologia perpetuamente rivolta a risparmiare lavoro permetterebbero di soddisfare la domanda crescente del mercato senza accrescere l'occupazione.
A parte la riduzione graduale degli orari di lavoro, occorrerebbe spostare la domanda dai prodotti che non aiutano l'occupazione ai prodotti che invece l'aiutano: i primi sarebbero i prodotti di consumo privato offerti dal capitalismo; i secondi sarebbero i beni pubblici, merci e soprattutto servizi, offerti da enti senza fini di lucro. A questo punto si torna alla lotta al consumismo, da condurre mediante una forte fiscalità sui profitti e, occorrendo, con un rallentato miglioramento dei salari e degli stipendi, che diverrebbero inutili perché non più spendibili sul mercato, e pericolosi come fonte di inflazione.
Quanto questa analisi sia realistica dipende, fra l'altro, dalla misura in cui i consumatori accetterebbero di sostituire per il loro benessere le scelte private con le scelte pubbliche (politiche), e dal grado di inefficienza degli enti produttori totalmente esentati dalla concorrenza di mercato e dalla ricerca del profitto positivo. Ma prima ancora va indagata la premessa: è davvero il progresso tecnologico capitalistico a innalzare durevolmente il tasso di disoccupazione? Non vi sono forse diverse cause sociali, come l'accresciuta offerta di lavoro femminile, l'esistenza di una occupazione sommersa che sfugge alle statistiche, e il maggior reddito familiare, che permette ai giovani di non lavorare senza spingere alla fame se stessi e i genitori?
Il punto d) è talmente vasto da non consentire che un cenno pro memoria. Esso riporta l'attenzione sul tema dell'egualitarismo, che si estende dall'ambito ristretto degli individui in una stessa nazione all'ambito allargato di tutti i popoli viventi sul pianeta, e all'ambito ancor più allargato delle generazioni future, in aggiunta a quelle già presenti. Ci si chiede, per esempio: il mercato capitalistico non favorisce le generazioni presenti a danno di quelle future, in fatto di risorse naturali non riproducibili? L'egualitarismo, in ogni caso, è tutt'al più un effetto non intenzionale del mercato capitalistico. Se si vuole andare oltre, sulla sua strada, sembra inevitabile che egualitarismo e capitalismo entrino in conflitto. Sembra inevitabile che subentri una pianificazione espressamente egualitaria nelle intenzioni.
Ma la storia non finisce qui: sembra inevitabile che, al di là di un punto critico, l'egualitarismo entri in conflitto con la libertà economica e non economica, con la libertà tout court. La coercizione pare diventi inevitabile non soltanto per realizzare un alto grado di eguaglianza, ma anche per mantenerlo, contro le forze spontanee che tendono a ricostituire la diseguaglianza.