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Capitalismo
Nell’accezione comune, sistema economico in cui il capitale è
di proprietà privata (sinonimo di ‘economia d’iniziativa
privata’ o ‘economia di libero mercato’). Nell’accezione originaria,
formulata con intento fortemente critico da pensatori socialisti e
poi sviluppata nelle teorie marxiste, sistema economico
caratterizzato dall’ampia accumulazione di capitale e dalla
scissione di proprietà privata e mezzi di produzione dal
lavoro, che è ridotto a lavoro salariato, sfruttato per
ricavarne profitto.
Il termine c. iniziò a circolare negli ambienti del
socialismo utopistico intorno alla metà del 19° sec.,
per indicare e stigmatizzare il sistema economico nel quale i
lavoratori sono esclusi dalla proprietà del capitale. Per
indicare il sistema di relazioni sociali e l’organizzazione del
processo produttivo che si basano sullo sfruttamento della
forza-lavoro salariata K. Marx usò invece l’espressione
‘modo di produzione capitalistico’. Questo modo di produzione
avrebbe compiuto l’enorme sviluppo delle forze produttive,
alimentando però per la sua dinamica interna (impoverimento
dei salariati, accumulazione di capitale senza crescita
corrispondente di consumi e quindi crisi di sovrapproduzione,
caduta tendenziale del saggio di profitto) il crescente conflitto
di classe tra capitalisti e salariati. Nell’evoluzione storica, il
c. segue ai modi di produzione schiavistico e feudale ed è,
secondo la diagnosi di Marx, destinato a dissolversi per lasciare
spazio, a lungo termine, al comunismo.
Agli inizi del Novecento, il termine capitalismo fu adottato anche
da autori non marxisti, in particolare da M. Weber che ha indicato la peculiarità del c. nel calcolo razionale
del profitto e ne ha legato la genesi e l’affermazione al
diffondersi di una nuova etica nata da correnti religiose
protestanti (L’etica protestante e
lo spirito del capitalismo, 1904-05). J.A.
Schumpeter ha distinto il c. concorrenziale della prima fase
dell’economia borghese, dominato dall’emergere d’imprenditori
capitalisti che dirigono imprese a proprietà familiare, dal
c. trustificato, caratterizzato dalla trasformazione delle imprese
in società per azioni e dalla loro fusione in trust, gruppi che dominano
la scena economica e preludono, secondo Schumpeter, all’evoluzione
verso un’economia di comando e pianificazione centralizzata (Capitalismo, socialismo, democrazia, 1942). Il termine c. è stato poi ampiamente accolto nella
storiografia economica; è adottato, invece, limitatamente e
solo da alcune correnti di pensiero negli studi d’economia.
In un uso diffuso, l’espressione allude, con intenti critici, a
una nuova fisionomia che il c. avrebbe assunto nel 20° sec.,
variamente delineata ponendo l’accento su progresso tecnologico e
automazione, sul prevalere dell’oligopolio, sulla separazione
della proprietà dalla gestione o sull’affermarsi delle
imprese multinazionali. Con l’espressione c. di Stato è
stato talvolta designato, in modo improprio, il sistema economico
più correttamente detto socialismo di Stato , che poggia
sull’intervento pubblico e può arrivare a concentrare nello
Stato la proprietà dei mezzi di produzione, la direzione
della produzione stessa e la distribuzione del prodotto tra i
membri della collettività.
Di regola si collocano le origini del c. tra il Basso Medioevo,
all’epoca della rinascita delle città, e il 15° e
16° sec., quando iniziò a decollare, grazie anche alle
scoperte geografiche, la stagione del grande commercio mondiale.
Accanto al ruolo attivo di nuovi ceti imprenditoriali borghesi,
furono decisivi i processi di formazione dello Stato moderno, che
presero avvio nel 16° secolo. Fondamentali furono, in
particolare, le politiche mercantilistiche dei grandi Stati, che
presero a finanziare industrie e compagnie commerciali, fecero
ricorso al protezionismo e avviarono programmi di conquista
coloniale. Tra Sette e Ottocento la storia del c. entrò in
una fase di grande accelerazione con la Rivoluzione industriale
che, a partire dalla Gran Bretagna, investì l’Europa
occidentale e gli Stati Uniti. Secondo molti autori è in
questa fase che nacque propriamente il c. moderno il quale,
soprattutto in Gran Bretagna, rivendicò una completa
libertà dai controlli dello Stato e il libero scambio.
Nell’ultimo trentennio dell’Ottocento la grande depressione
portò a una profonda ristrutturazione del c., che si fece
sentire soprattutto in paesi come la Germania,
dove si affermarono grandi concentrazioni industriali e nuove
forme di intervento dello Stato nei processi economici, e dove
crebbe il ruolo del capitale finanziario. Intanto si scatenavano
gli imperialismi, frutto di una ricerca di nuovi mercati tale da
non arretrare nemmeno dinanzi alla prospettiva della violenza, che
infatti esplose con la Prima
guerra mondiale. La crisi del 1929 segnò una
gravissima battuta d’arresto nella storia del capitalismo ma fece
maturare strategie di intervento statale e politiche di welfare che configuravano
una coerente alternativa alle politiche liberiste e neoliberiste.
Negli ultimi decenni la globalizzazione ha rappresentato il
trionfo di un c. di scala planetaria, ormai svincolato da
qualsiasi vincolo politico-statuale. Questa nuova fase evolutiva
ha per molti aspetti approfondito il tradizionale divario tra
paesi sviluppati e quelli arretrati o in via di sviluppo, nel
quadro però di una crescente interdipendenza generatrice di
nuove e gravissime tensioni sociali e politiche.
*
Enciclopedia delle Scienze Sociali (1991)
Capitalismo
di Sergio Ricossa e Alessandro Cavalli
Capitalismo
di Sergio Ricossa
sommario: 1. Le origini del capitalismo. 2.
Un'economia fondata sul capitale. 3. Un'economia basata
sull'innovazione. 4. Il capitalismo e il profitto. 5. La crescita
del mercato capitalistico. 6. Le trasformazioni del capitalismo. 7.
Conclusioni. □ Bibliografia.
1. Le origini del capitalismo
Non conviene intendere il capitalismo come un preciso sistema
economico, con caratteri fissi e ben definibili una volta per tutte.
Esso è piuttosto un'evoluzione storica dell'economia, che
comincia verso l'anno Mille, o poco dopo, nell'Occidente europeo, e
che è tuttora in corso. Durante questo percorso quasi
millenario, il capitalismo ha mutato di frequente volto e veste, ma
non tanto da impedirci di riconoscergli una qualche
continuità 'esistenziale'. E a proposito di
continuità, va detto subito che la nascita del sistema nuovo
non venne dal nulla, e che quindi il vecchio sistema
precapitalistico conteneva in sé i germi e le avvisaglie
della trasformazione, la quale in principio fu lenta, quasi
impercettibile.
Oggi, col senno di poi, guardando retrospettivamente i fatti
accumulatisi nei secoli, parliamo di trasformazione rivoluzionaria;
ma fu pure una trasformazione inintenzionale, nel senso che nessuno
dei suoi innumerevoli artefici ne ebbe un progetto d'insieme,
né poteva averlo. Il capitalismo moderno non era soltanto non
progettabile: era inimmaginabile. Ancora oggi non sa dove
andrà, perché inventa la sua strada ogni giorno.
È un sistema aperto, così aperto che c'è chi
dubita che sia un sistema, un ordine, un organismo sociale, e non
invece un caotico insieme di iniziative umane indipendenti e
contraddittorie.
Le contraddizioni del capitalismo o, se si vuole, dell'economia
borghese, come Marx preferiva dire: nell'additarle e condannarle
egli tuttavia non esitava a concedere che provenissero dalla
"più complessa e sviluppata organizzazione storica della
produzione" (v. Marx, 1859, Introduzione).
Il socialismo stesso era per lui inconcepibile senza il passaggio
attraverso la fase capitalistica, e bisognava che tale passaggio
fosse completo, che profittasse fino in fondo di ognuno dei molti,
eccellenti contributi del capitalismo al progresso economico. Per
questo l'economia borghese avrebbe dovuto essere l'ultimo passo
della storia progressiva prima del socialismo. Ma perché
chiamarla economia borghese? Perché renderla sinonimo di
capitalismo?
Poco dopo l'anno Mille fu un nuovo ceto emergente, la borghesia, a
introdurre sulla scena i cambiamenti che si chiamarono in seguito
capitalismo. Furono i borghesi (in particolare i mercanti delle
città medievali, le quali aspiravano a diventare comuni
liberi dai vincoli feudali) ad avviare quella che possiamo pure
denominare, con Carlo M. Cipolla, la rivoluzione comunal-cittadina,
primo atto della rappresentazione capitalistica nei secoli XI-XIII:
"Il grande mercante, che fu di solito anche imprenditore
manifatturiero e se del caso anche banchiere, riuscì a
installarsi ai più elevati gradini della scala sociale, e il
'popolo grasso' nelle città italiane e il 'patriziato' nelle
città fiamminghe e tedesche assunsero il controllo della
comunità identificando gli interessi dello Stato con quelli
del proprio ceto. Nel quadro della storia dell'umanità il
fenomeno aveva tutti i caratteri dell'eccezionalità,
perché dai tempi del Neolitico, salvo poche eccezioni, nella
stragrande maggioranza le società umane erano state (e fuori
d'Europa tutt'ora erano) dominate dal ceto dei grossi proprietari
fondiari" (v. Cipolla, 1988, pp. 465-466).
Dunque: diffusione geografica a chiazze in espansione, cominciando
principalmente dai comuni dell'Italia centrosettentrionale, dalle
città delle Fiandre e della Germania renana e anseatica, per
poi coprire le provincie olandesi e l'Inghilterra, e poi ancora
quasi tutta l'Europa occidentale e centrale, prima di emigrare
nell'America settentrionale e, nel nostro secolo, in Giappone. Ma
che differenza tra la fase per così dire pionieristica - in
cui il capitalismo è, sì, mercantile, industriale e
finanziario nel medesimo tempo, ma l'aspetto industriale è
secondario e si confonde con l'aspetto artigianale - e la fase
evoluta: questa comincia in Inghilterra nel XVIII secolo col factory
system che spiazza a poco a poco l'artigianato e pone l'industria al
primo posto nella graduatoria dei settori produttivi, come fonte
primaria del progresso tecnologico e merceologico, e come sede di
imprese e di stabilimenti di dimensioni via via maggiori. E che
differenza tra il capitalismo avanzato, dominante, originale,
spontaneo e quello imitativo, artificioso e tardivo, in cui gli
elementi della nuova economia, appena embrionali, sono mescolati e
oppressi dai tenaci residui della vecchia economia, che né
l'iniziativa privata né, talvolta, l'iniziativa pubblica
riescono a demolire.
Dunque anche: rivoluzione politica, oltre che economica, cui
seguiranno nel Seicento la rivoluzione scientifica e nel tardo
Settecento la rivoluzione industriale, secondo e terzo atto della
grande rappresentazione capitalistica. Ma è sul primo atto
che dobbiamo insistere, per ora, al fine di capirne la
novità, capire perché risultasse tanto importante che
qua e là, al vertice della gerarchia sociale, fossero saliti
dei mercanti, anziché dei proprietari terrieri. Da sempre la
storia registrava lotte per la conquista del potere, e da sempre le
élites 'circolavano', uscivano dalle quinte, giungevano alla
ribalta, recitavano la loro parte, se ne andavano spinte con buone o
cattive maniere da altri attori protagonisti. La differenza stava
negli argomenti dei nuovi attori: se forti soltanto di prepotenza o
se forieri di qualche forma di progresso, comunque questo venga
definito.
Marx credeva nel progressismo borghese e non v'è dubbio che
la prepotenza del ceto mercantile infine emergente non era tutto
quanto esso aveva da offrire. Di prepotenza ne mostrò
parecchia, anche perché aveva molti nemici vogliosi di
soffocarlo e respingerlo in basso; ma inoltre mostrò
inusitate qualità mentali costruttive, non meramente
distruttive, uno spirito innovatore e vivificante, non effimero, che
nel giro di qualche secolo avrebbe innalzato l'Europa occidentale al
primato del mondo, da una posizione iniziale di grave
inferiorità. Non dimentichiamo che l'Europa occidentale
dell'anno Mille era una zona sottosviluppata, rispetto a quelle
bizantine, islamiche e cinesi. Visti dall'esterno, gli europei erano
popoli insignificanti, se non barbari, e quando la loro immagine
cambiò, molto tardi, fu una sorpresa per gli increduli,
cioè per tutti.
Lo sviluppo europeo, come quasi sempre accade, ebbe nemici interni
assai più che nemici esterni. Erano i nostri conservatori
antiborghesi a osteggiare l'incipiente capitalismo di casa e insieme
la forza propulsiva da cui dipendeva (oggi lo sappiamo) il nostro
futuro. Era la nostra nobiltà feudale, laica ed
ecclesiastica, a rintuzzare l'insolenza dei ceti borghesi, che
pretendevano opporsi ai privilegi della nascita e del sangue,
sostituire il valore economico a quello militare e religioso,
riformare il diritto, cambiare il costume, liberare i servi della
gleba e liberarsi dalle servitù, comprese quelle fiscali,
verso i signori della terra. Gli interessi delle campagne non
coincidevano con gli interessi delle città: c'era chi voleva
vendere caro il proprio grano e chi voleva acquistare a buon mercato
il proprio pane. C'era soprattutto un contrasto di mentalità:
da un lato, l'antica e prestigiosa cultura signorile, che coincideva
con la cultura classica, considerava ignobile e vile l'intera
attività economica; dall'altro lato, la cultura o
controcultura borghese contava invece proprio sull'attività
economica per mettere il mondo sossopra. "L'Italia fu il paese del
compromesso storico: buona parte della nobiltà feudale
fiutò dove il mondo sarebbe andato a parare e mise piede
nelle città" (ibid., p. 463). Anche qui, però, il
capitalismo ebbe le sue traversie, tant'è vero che l'Italia
centrosettentrionale, economicamente in testa alle nazioni europee
nel Duecento, nel Seicento si era lasciata sorpassare e distaccare
senza rimedio dall'Olanda e dall'Inghilterra. Ovunque, e fino ai
nostri giorni, lo spirito capitalistico, perseguitato, non muore ma
emigra dove, di volta in volta, incontra minori difficoltà
ambientali e culturali a legittimarsi.
Ovunque, tuttavia, le difficoltà ci sono, appunto
perché il capitalismo, già nel nome, si annuncia come
una 'scandalosa' pretesa di organizzare la società secondo
criteri meramente economici. Pur vittorioso sul feudalesimo, il
capitalismo non si è mai definitivamente imposto sul piano
etico e politico, né in Occidente né tanto meno
altrove, e continua a sollevare obiezioni e reazioni perfino dove
pare essere dominante. Gli accaniti attacchi ideologici che ha
subito a opera dei movimenti marxistici non sono stati né i
primi né gli ultimi. Occorre però tornare alle
origini, alla rivoluzione comunal-cittadina, per percepire
nell'intera sua estensione la rilevanza del precetto capitalistico
di anteporre, in un certo senso, l'economia a tutto il resto. Il
punto da chiarire è che il precetto mutava il contenuto
dell'economia mentre ne cambiava la collocazione negli ordinamenti
sociali. L'economia, che avanzava di rango, non era più la
vecchia economia: era un'economia capace di cose nuove perché
era l'economia del capitale, anziché l'economia della terra.
2. Un'economia fondata sul capitale
La ricchezza antica era costituita tipicamente da beni naturali,
come la terra e l'oro. La ricchezza borghese puntò invece su
beni artificiali, come il capitale. Intendiamoci: il capitale, quale
strumento produttivo costruito dall'uomo, era sempre esistito e tale
si poteva già considerare, per esempio, la selce scheggiata
dall'uomo del Paleolitico per farne un utensile o un'arma. Ma fin
tanto che la terra e l'oro restavano le basi dell'accumulazione
della ricchezza, il capitale non acquistava importanza perché
esso non è in grado di produrre direttamente né terra
né oro. Essendo questi beni un dono della natura, la nostra
volontà non può riprodurli in alcun modo: può
bonificare un terreno, ma il terreno deve esserci già;
può scavare un filone aurifero, ma il minerale deve esserci
già.
Nel sentire antico la disponibilità globale di ricchezza era
fissata dalla natura. Chi ambiva a disporre per sé di
più terra o di più oro doveva pensare a sottrarre ad
altri quei beni, con mezzi pacifici o violenti, a parte i casi
sempre meno numerosi di fondi vergini e di nessuno. Non c'era,
nitido, il concetto di prodotto netto, di ricchezza creata
dall'uomo, e creata per così dire dal nulla; o meglio, il
prodotto netto si riduceva alla fertilità della natura che
ogni anno fornisce un raccolto, il quale comunque, in epoche di
scarso o nullo progresso tecnologico, dipendeva rigidamente
dall'estensione dei campi. Ecco come l'accumulazione della
ricchezza, nei millenni preborghesi, rispondeva a una
mentalità predatoria assai più che a una
mentalità produttivistica, a una mentalità militare
assai più che a una mentalità economica.
Se non che era proprio l'economia, allora, a rendersi facilmente
illecita, per un paradosso che è tale soltanto per i
borghesi. La cultura signorile antieconomica non era affatto ostile
all'accumulazione della ricchezza, purché ciò servisse
un fine pubblico, e non era affatto ostile all'impiego, d'altronde
reputato inevitabile, della forza come mezzo, purché
ciò corrispondesse a uno scontro col nemico 'ufficiale' (il
barbaro, l'infedele, o semplicemente lo straniero, chi era fuori del
sacro suolo patrio e mancava di diritti). L'iniziativa economica
privata, in cerca del profitto egoistico, esercitava lo stesso
un'azione predatoria, in assenza di contributi produttivi, che non
si scorgevano, ma la esercitava senza rispettare le regole del bene
pubblico e dell'onore militare. Di qui la sua fondamentale
immoralità, non appena andava oltre lo stretto necessario.
Il cristianesimo aveva modificato poco questa tradizione
psicologica: la definizione di nemico forse si restrinse, ma
perdurò l'incapacità di percepire la ricchezza come
prodotto netto e quindi come sostanza aumentabile senza
trasferimento. Si predicarono il dono, la carità, talvolta
l'eguaglianza, più che atti produttivi, e lo stesso lavoro,
sebbene nobilitato, sebbene strappato all'infamia classica, lo fu
essenzialmente quale forma di preghiera e di espiazione, non tanto
ai fini dell'economia. Come avrebbe potuto essere altrimenti, se il
cristiano collegava la nascita dell'economia alla caduta
dell'umanità nel peccato originale e alla conseguente
punizione divina?
Perfino la borghesia, che era anch'essa cristiana, non aveva idee
chiare su quello che faceva. Di certo rivendicava il diritto di
arricchirsi e divenire potente senza ricorrere in via preventiva
alla conquista militare, senza seguire le orme della nobiltà
feudale: col 'nemico', anziché combattere, si potevano
realizzare buoni affari, e addirittura, pareva, con beneficio
reciproco. Inoltre, la borghesia andava scoprendo che, mentre la
terra non produce terra, il capitale produce capitale, anche se non
è evidente il perché, e dunque permette un genere di
arricchimento rapido e illimitato. La scoperta rimase equivoca a
lungo, il capitale non venne capito subito nella sua intima potenza
creativa, troppo spesso venne degradato a mero capitale finanziario,
ovvero nuovamente a moneta d'oro improduttiva (la moneta non
partorisce moneta). Ci si impegolò nelle dispute
sull'interesse e sull'usura, ma intanto la società cambiava a
dispetto dei conservatori e dei moralisti, cambiava in attesa di
giustificarsi, di giustificare quanto avveniva quasi da sé,
per prorompente vitalità, incontrollatamente.
Il capitale produce capitale: ecco l'importante. "Il capitale
è la potenza economica della società borghese che
domina tutto; esso deve costituire il punto di partenza così
come il punto d'arrivo, e deve essere trattato prima della
proprietà fondiaria": Marx, nell'introduzione a Per la
critica dell'economia politica, affermava l'evidente, dopo alcuni
secoli di capitalismo, ma lo affermava dubitando che l'economia
politica avesse già spiegato bene come il capitale si
autogenerasse. E invero né la scolastica, né il
mercantilismo, né la fisiocrazia, né la scuola
classica fondata da Adam Smith avevano fugato ogni ombra. Giacevano
in fondo alla mente di ognuno gli antichi preconcetti: che il
guadagno di una parte doveva essere per forza la perdita in pari
quantità di un'altra parte, e che al massimo era la natura a
possedere una virtus generativa e a regalarci qualcosa.
Lo stesso Marx non sfuggì alla tentazione di scorgere, dietro
il capitale che cresce a dismisura, un colossale processo di
sfruttamento: non sfruttamento della natura a opera dell'uomo, ma
sfruttamento dell'uomo a opera dell'uomo, del proletario a opera del
capitalista. L'uomo marxiano era, sì, capace di creare,
lavorando, un prodotto netto, un di più rispetto al naturale,
un surplus, un plusvalore, ma, come le api, lo creava per farselo
predare dal proprietario del capitale. Pertanto, il capitale era il
mezzo per estorcere plusvalore al lavoratore e quel plusvalore era
anche pluslavoro, poiché tutto il valore economico veniva dal
lavoro. Qui stava, secondo Marx, l'efficacia della terribile formula
capitalistica, che sconfiggeva la "sconcia neghittosità"
feudale obbligando il lavoratore a cadere nell'eccesso opposto di un
massacrante pluslavoro prima inimmaginabile.
Nell'epoca di Marx i turni di lavoro nelle fabbriche superavano
spesso le dodici ore giornaliere, ed era sotto gli occhi di tutti
che prolungando l'orario, facendo girare le macchine più a
lungo, si aumentava la produzione industriale. In agricoltura non
era così: non si otteneva un raccolto doppio, lavorando il
doppio sul medesimo campo. Ecco un'altra differenza tra il capitale
e la terra, a vantaggio del capitalista che teneva per sé
tutto quanto l'operaio produceva in più rispetto al minimo di
sussistenza. In una giornata lavorativa di dodici ore, se per
esempio ne bastavano sette all'operaio per produrre il necessario a
mantenersi in vita e a riprodursi, le cinque rimanenti fornivano
beni che il capitalista trasformava in profitto per sé e in
fonte di nuovo capitale. E poiché il capitalista era
insaziabile nella voglia di accumulare capitale, il capitalismo
portava a un grado di sfruttamento dell'operaio superiore a quello
del contadino, del servo della gleba, dello schiavo nei sistemi
precapitalistici, nei quali vi erano dei limiti dettati da leggi di
natura riguardanti la terra.
Così "nel suo dominio appena secolare di classe", la
borghesia aveva creato forze di produzione "più gigantesche e
imponenti" di quelle di tutte le generazioni passate messe insieme
(Manifesto del partito comunista). Era la via obbligata verso il
regno dell'abbondanza, ma una via spinosa, che il proletariato
sanguinante percorreva prestando un immane pluslavoro sotto la
sferza del capitale. Lì stava "il grande ruolo storico del
capitale", la sua "funzione civilizzatrice". "Uno degli aspetti in
cui si manifesta la funzione civilizzatrice del capitale è
quello di estorcere pluslavoro in un modo e sotto condizioni che
sono più favorevoli allo sviluppo delle forze produttive, dei
rapporti sociali, e alla creazione degli elementi per una nuova e
più elevata formazione [di capitale], di quanto non avvenga
nelle forme precedenti della schiavitù, della servitù
della gleba, ecc." (v. Marx, 1867-1894; tr. it., vol. III, pp.
932-933).
L'avidità del capitalista serviva uno scopo sociale. E non
sorprende che, decenni dopo, Keynes mantenesse una visione
sostanzialmente eguale del capitalismo: "L'immensa accumulazione di
capitale fisso, che con gran vantaggio dell'umanità venne
condotta durante il cinquantennio che precedette la guerra [la prima
guerra mondiale], non si sarebbe potuta formare in una
società dove la ricchezza fosse egualmente divisa [...].
Negli inconsci recessi del suo essere, la società sapeva
quello che si faceva. La torta era realmente piccola in proporzione
agli appetiti di consumo, e se essa fosse stata ripartita in giro
fra tutti, ben poco ognuno ne avrebbe potuto godere. La
società lavorava non per i piccoli piaceri dell'oggi, ma per
la certezza del futuro e per il miglioramento della specie; in
sostanza per il 'progresso"' (v. Keynes, 1919; tr. it., pp. 15 e
19).
Tanto Marx quanto Keynes sostenevano, ovviamente, che il capitalismo
sarebbe finito, di morte violenta o di dolce eutanasia, terminata la
sua "funzione civilizzatrice", per lasciar posto a un sistema
più equo, nel quale l'ottenuta abbondanza diventasse
finalmente accessibile al benessere di tutti. Per intanto, il
capitalismo era quello che la storia aveva imposto con certe
caratteristiche tipiche e fors'anche fatali, che è il momento
di riassumere: un apprezzamento degli atti economici e in
particolare degli atti produttivi, che l'antichità aveva
trascurato e perfino vilipeso; uno spostamento di attenzione dalla
terra al capitale, dal naturale all'artificiale, dall'agricoltura
all'industria; uno sfruttamento delle nuove occasioni di ottenere
pluslavoro e quindi plusvalore, che era stato risparmiato e
investito, non consumato se non in minima parte, ai fini della
massima accumulazione di capitale.
Ciò aveva richiesto, fra l'altro, dei profondi mutamenti
giuridici. Il concetto di proprietà, che il feudalesimo
applicava alla terra, non poteva certo valere per il capitale della
borghesia. La terra feudale era una specie di bene in comune su cui
molti vantavano diversi diritti parziali. Il capitale borghese
doveva invece essere rigorosamente privato, per essere gestito
liberamente dal proprietario capitalista e a suo esclusivo profitto.
Affermatosi il concetto borghese di proprietà, esso si era
poi esteso anche al settore agricolo (agricoltura capitalistica),
per esempio col fenomeno delle enclosures, della recinzione dei
campi una volta aperti alla collettività locale. La terra,
che era stata a lungo praticamente fuori commercio, col diffondersi
del capitalismo subiva la stessa sorte del capitale, cioè si
vendeva, si comperava e si affittava con grande facilità, in
modo che la gestione finisse col toccare ai più efficienti.Il
diritto del lavoro non era mutato meno. Quando la borghesia aveva
dato il colpo di grazia alla servitù feudale, la figura del
salariato, di infima importanza nell'antichità, si era
gradatamente moltiplicata fino a costituirsi come figura normale.
Pagato a tempo, il salariato conveniva a un sistema basato
sull'indurre l'operaio al pluslavoro e che desiderava assumere e
licenziare secondo criteri puramente produttivistici. La
mobilità del salariato non era d'altronde che un aspetto
della più generale mobilità della gente dalla campagna
alla città, da una città all'altra, da un mestiere
all'altro, da un mercato all'altro, in una economia non più
stazionaria e non più autarchica.
Se ci fermassimo qui, disporremmo di un vasto quadro di cambiamenti
sociali, senza però esaurire affatto il complesso delle
innovazioni intervenute con l'irrompere del capitalismo. E anzi
lasceremmo fuori quello che forse è il cambiamento
psicologico più radicale e che in modo ellittico possiamo
chiamare il cambiamento per il cambiamento. L'analisi del
capitalismo fin qui condotta palesemente non soddisfa, se non altro
perché non risponde a fondo nemmeno agli interrogativi posti
da essa stessa. Non sfugge la rozzezza di una spiegazione che faccia
dipendere il plusvalore soltanto dal pluslavoro e da nient'altro,
come se non esistessero un progresso organizzativo, un progresso
tecnologico, un progresso merceologico e via dicendo. È
indispensabile proseguire l'analisi legando ciò che
aggiungeremo a ciò che precede, cercando cause comuni e
fattori omogenei.
Ora, è proprio la passione del cambiamento per il cambiamento
ciò che più distinse e distingue il capitalismo, nei
suoi momenti più dinamici, dai sistemi stazionari e
semistazionari che lo precedettero; ed è pure ciò che
lo rese e lo rende accanito nella ricerca del progresso di ogni
genere, vale a dire nel tentativo di aumentare i 'gradi di
libertà' concessi all'uomo. Fare cose che prima non si
sapevano fare, accrescere le possibilità o le scelte a noi
concesse, giungere dove nessuno era mai giunto, sperimentare nuovi
modi di vita, in una incessante "creazione distruttrice" (per usare
le note parole di Schumpeter): in questo consistette e consiste lo
spirito capitalistico allo stato puro, nonché il carattere
saliente dell'uomo occidentale, che ha finito spesso con l'assumere
i tratti del borghese trionfante al culmine della sua parabola.
Così il quadro si completa, fors'anche si dilata
eccessivamente, ma la timidezza non paga nell'esplorare un sistema
tanto esteso e tanto complesso quanto il capitalismo.
3. Un'economia basata sull'innovazione
"Il dinamismo sociale, che chiamasi pure progresso sociale, incute
alle masse un vero terrore, in ragione del suo costo, che, se non
è per ora misurato e misurabile, è tuttavia vagamente
sentito. È questo il fondamento delle opposizioni che
incontra. La grandissima maggioranza è in favore di
condizioni statiche. Una piccola parte dell'umanità funziona
da lievito. Nelle nostre società questa parte della
popolazione è più numerosa e incontra minori
resistenze che in altre. Eppure, anche nelle nostre società
sono manifeste molte correnti che tendono a limitare la
variabilità dei gusti, le invenzioni tecniche o sociali, e la
concorrenza [...]. Una gran parte del favore che il socialismo trova
è dovuta alla speranza che riesca a creare condizioni
più stabili, a burocratizzare la vita, ad assicurare
pensioni, a eliminare la rivoluzione perpetua che la concorrenza
produce in ogni situazione" (v. Pantaleoni, 1925, vol. I, pp.
220-222).
Questa, di Maffeo Pantaleoni, è la costatazione di un fatto
razionalmente spiegabile: il costo del progresso non è
immaginario, esso consiste nella pena reale associata alla rottura
di comode abitudini, nell'offesa che subiscono gli interessi
precostituiti in seguito all'irrompere del nuovo, e nei rischi
connessi al sovvertimento dell'equilibrio sociale. Il progresso
è una serie di salti nel buio: ci pone di fronte a situazioni
impreviste e non fornisce garanzie che sapremo scegliere bene quando
avremo allargato il ventaglio delle scelte. Oltre all'istintiva
diffidenza delle masse per il cambiamento, esiste una concezione
colta della vita per cui non dobbiamo cambiare per cambiare,
bensì aderire il più possibile a modelli fissi di
perfezione, che preesistono e per loro natura non diventano mai
obsoleti. La ripetizione, non il cambiamento, è allora il
processo sociale ideale: processo collettivo, poiché i
modelli sono unici, validi per tutti e non concedono varietà
soggettive.
Meno convincente è però Pantaleoni quando, per
esemplificare casi di dinamismo ridotto al minimo, citava "la storia
secolare della Cina e quella dell'India, e il nostro Medioevo". Al
contrario, proprio nel nostro Medioevo il cambiamento per il
cambiamento si impose per la prima volta, pur fra numerosi ostacoli:
proprio allora si prese gusto a una via moderna contrapposta alla
via antiqua e cominciò, in nome della ragione, l'attacco
frontale agli usi, alle consuetudini, alle tradizioni, alle
credenze, agli assoluti (fino a mettere in dubbio la ragione
stessa). Il fenomeno non fu affatto limitato al campo dell'economia
ed ebbe cause recondite su cui si discute senza fine; ma nel campo
dell'economia fu prorompente, avendo trovato nel mercato di
concorrenza l'istituzione adatta a dispiegarne gli effetti.Appunto
perché l'innovazione economica offende gli interessi
precostituiti, essa è l'arma adatta per attaccare e vincere
nel mercato di concorrenza. Nel medesimo tempo il mercato di
concorrenza è l'istituzione opportuna per fomentare
l'innovazione economica, che in esso diventa una necessità
vitale: o innovare o perire. Il capitalista accumula capitale,
è vero; se non che ci sbagliamo di grosso se pensiamo in
termini puramente quantitativi, come se il capitale accumulato fosse
sempre della stessa qualità (come accadeva grosso modo con la
terra). 'Capitale' è parola generica, che nel capitalismo
designa beni non soltanto diversi fra loro nello spazio, ma diversi
nel tempo, beni nuovi che sostituiscono incessantemente beni vecchi.
L'accumulazione capitalistica non consiste principalmente
nell'aggiungere nuovi 'strati' di capitale a quelli già
creati, bensì nel rimpiazzare quelli già creati con
nuovi strati di maggior valore. L'obsolescenza e l'ammortamento del
capitale sono quindi tanto importanti quanto l'investimento. Il
capitalismo non costruisce più per l'eternità: il suo
capitale è precario, così come sono precari i suoi
posti di lavoro. Per accumulare bisogna prima innovare, altrimenti,
come vedremo, la crescita si inceppa, si arresta e perfino
regredisce, come spiegherà Keynes. Ma neanche Keynes, al pari
di tanti altri economisti, riuscirà a svincolarsi del tutto
dal pregiudizio quantitativo, e pertanto ci fornirà del
capitalismo (di cui era nemico) un'immagine monca.
Contrariamente a quanto molti credevano in passato, il Medioevo fu
capitalistico anche perché fu un periodo di sostanziale
progresso tecnologico. "Lo sviluppo iniziatosi con la rivoluzione
comunal-cittadina ebbe un alto contenuto tecnologico. Mulini e
velieri in primo piano. L'applicazione su larga scala dell'energia
idraulica ed eolica mediante l'uso di mulini ai processi di
fabbricazione dei tessili, del ferro, della carta e della birra,
quindi in altre parole la meccanizzazione mediante uso di energia
inanimata nei processi suaccennati, l'adozione dell'arcolaio, i
miglioramenti tecnici nell'attività mineraria, i progressi
nelle tecniche di navigazione e delle costruzioni navali,
l'invenzione degli occhiali, l'invenzione e il progressivo
perfezionamento dell'orologio meccanico, l'invenzione della stampa a
caratteri mobili, i perfezionamenti nella produzione e nell'uso
dell'artiglieria non furono che i punti salienti di un processo
cumulativo di sviluppo tecnologico che investì ogni settore
della produzione economica e ogni paese d'Europa" (v. Cipolla, 1988,
p. 466).
La ruota idraulica e la vela perfezionate, il mulino a vento,
l'arcolaio, la bussola, l'orologio, ecc., erano nuove forme di
capitale create dall'ingegnosità medievale. Distinguiamo
però da questo progresso tecnologico un altro tipo di
progresso, che nei secoli successivi si sarebbe dimostrato ancor
più necessario al capitalismo: il progresso merceologico, che
consiste nell'invenzione di nuovi beni di consumo, nuovi come
qualità, non importa se fabbricati con tecniche nuove o
vecchie. Mentre in pratica il progresso mercantile e quello
tecnologico vengono solitamente confusi, l'analisi teorica deve
separarli perché (lo vedremo) essi recitano due parti
differenti nel sistema di mercato. Gli occhiali sono un esempio di
nuovo bene di consumo a disposizione degli europei dal XIII secolo,
ma la rivoluzione dei consumi, che sfocerà nel consumismo
capitalistico, si realizzerà in massa assai più tardi,
dopo la rivoluzione industriale del XVIII e XIX secolo.
Il progresso merceologico fu all'inizio soprattutto un progresso
mercantile, consistente nell'importare da terre lontane prodotti
esotici, rari o affatto sconosciuti. La vigorosa ripresa del
commercio facente capo all'Europa, dopo l'anno Mille, non fu
soltanto una manifestazione dell'avidità di profitto: fu
anche un modo di esprimere, da parte degli europei, la loro sete di
novità, di cambiamento, di avventura, di esplorazione, di
sperimentazione, come testimonia il Milione del mercante Marco Polo
e come perfino le Crociate in un certo senso confermavano. L'Oriente
favoloso stimolava la nostra curiosità, e la curiosità
diveniva un ingrediente dello spirito capitalistico e dello spirito
scientifico, una nostra caratteristica distintiva, che difettava
agli orientali. Ficcare il naso in casa d'altri e nei segreti della
natura, nella fisica, nella geografia, e farlo con intenti
utilitari, fu senza dubbio uno scopo diffuso in Occidente già
nel Medioevo e poi destinato a trionfare oltre ogni attesa, fino ai
nostri giorni.
Per organizzare la nuova rete intercontinentale di traffici venne
richiesto un progresso finanziario, oltre che dei trasporti: il
capitalismo, in altre parole, si costruì un suo sistema
monetario e creditizio per effettuare i pagamenti. Si costruì
pure un suo sistema contabile, per il calcolo del profitto, e in
entrambi gli esercizi l'Italia fu all'avanguardia. Nella
contabilità capitalistica il rischio del cambiamento appare
nella specie di un costo anticipato rispetto a un ricavo futuro e
incerto. L'attività capitalistica si traduce dunque in una
serie di cambiamenti o trasformazioni di costi in ricavi, cui
corrispondono sempre delle anticipazioni di valori. Chi produce
anticipa il costo del lavoro, delle materie prime, dei macchinari,
ecc.; chi commercia anticipa il costo delle merci, che spera di
rivendere; chi presta anticipa una somma a favore di un debitore,
che ha l'obbligo di rimborsarlo alla scadenza.
Il capitalista indossa così i panni di colui che si assume il
rischio del cambiamento e dell'anticipazione dei valori,
nonché il profitto o la perdita conseguente. Del pari,
è capitale qualunque valore anticipato, se consideriamo
l'accezione più estesa del concetto, comprensiva dell'idea di
capitale quale strumento prodotto in via anticipata per ottenere
altri prodotti. Un forno da pane va costruito prima di ottenerne il
pane, perciò è capitale e capitalista è il
fornaio proprietario. Il quale fornaio mira a ricavare dal pane
più di quanto a lui siano costati il forno e quant'altro
occorre per la panificazione. Ma mentre qui è facile
prevedere con pochi errori il ricavo del pane che il forno
consentirà di produrre, il rischio dell'anticipazione aumenta
se il capitalista tenta vie nuove, inusitate, senza precedenti, o
più lunghe, più perigliose, meno controllabili.
La nave che partiva per l'Oriente non avrebbe fatto ritorno prima di
mesi e mesi, sempre che le tempeste e i pirati non lo avessero
impedito, e il suo carico si sarebbe acquistato e venduto a prezzi
largamente imprevedibili. Analogamente, introdurre una costosa
novità tecnica, diciamo un nuovo tipo di nave non provato in
precedenza, poteva costituire un grosso vantaggio, se l'esperimento
riusciva, o un grosso svantaggio, se non riusciva. Sicché la
frenesia capitalistica del cambiamento per il cambiamento
corrispondeva a effettuare anticipazioni più costose e
più rischiose, e in campo economico, non militare. I rischi
erano 'calcolati', s'intende, ma calcolarli non significava
evitarli. Le famiglie borghesi, che sovente non avevano un passato
illustre, non avevano nemmeno un avvenire assicurato: la loro caduta
poteva essere tanto repentina quanto la loro ascesa. Il fallimento e
la bancarotta assunsero un ruolo sociale mai prima osservato, e la
circolazione delle élites accelerò per cause
economiche. Mentre a Firenze i Peruzzi e i Bardi si rovinavano,
'uomini nuovi' salivano alla ribalta in un continuo avvicendamento,
che la borghesia realizzava ben più della nobiltà.
Va da sé che la borghesia arrivata tendeva a stabilizzare la
sua posizione ricorrendo, se opportuno, a mezzi corporativi, o a
mezzi politici, come fu per i Medici a Firenze, o imitando la
nobiltà proprietaria terriera e ritirandosi dai traffici. Non
di meno la stessa borghesia aveva irrimediabilmente offeso proprio
quella mentalità e quelle istituzioni che avrebbero potuto
meglio proteggerla, ed era in qualche misura vittima di se stessa. I
borghesi italiani furono pertanto danneggiati da quelli fiamminghi,
che lo furono da quelli olandesi, che lo furono da quelli inglesi,
che lo furono da quelli americani. La concorrenza, soffocata in un
luogo, scoppiava in un altro e ormai tutti i mercati erano poco o
molto collegati: si era formato ciò che Immanuel Wallerstein
chiama "l'economia-mondo".
Peggio ancora, la borghesia, responsabile di quanto accadeva,
stentava a farsi riconoscere una funzione positiva fin nei casi in
cui aveva innovato con successo e realizzato un indubbio progresso
generale. Le sue perdite non intenerivano nessuno e i suoi profitti
erano messi in questione da tutti. È altamente significativo
che la scienza economica, già nata tardi, dovesse giungere
addirittura alla fine del XIX secolo per cominciare a fornire
un'adeguata teoria del profitto, la quale, del resto, è
tuttora discussa. Ovviamente, senza una tale teoria, non è
dato di comprendere il capitalismo, né è dato di
confrontarlo col socialismo o con altri sistemi alternativi.
Con questo non sosteniamo che il profitto sia una categoria valida
soltanto nel capitalismo, o presente soltanto in esso: anzi, vi sono
buone ragioni per riconoscerlo come una categoria universale. Il
fatto è che chiarire la natura del profitto è un
prerequisito di qualunque indagine comparativa sui sistemi
economici, appunto per evitare l'errore di pensare che alcuni lo
usino e altri no. È piuttosto come lo usano ciò che
separa i sistemi e li classifica, qualunque sia il vocabolario usato
(il quale può ricorrere ad altri termini equivalenti, se la
parola 'profitto' urta per le sue risonanze capitalistiche). E, come
diremo a momenti, il discorso sul profitto si estende subito
all'interesse, la cui natura è simile.
4. Il capitalismo e il profitto
La teoria del profitto è strettamente connessa alla teoria
del prodotto netto o del plusvalore, cioè al problema della
creazione di un valore non preesistente, non semplicemente
trasferito o trasformato. Nel mondo agrario veniva spontaneo pensare
che il prodotto netto fosse in qualche modo connesso alla potenza
generatrice della natura, soluzione cui si attennero i fisiocrati.
Nel mondo industriale, invece, l'intuizione portava in primo luogo a
scorgere nel lavoro umano la forza che, aggiungendo qualcosa alla
ricchezza preesistente, suscitava nuovo valore economico. Se,
insieme a Marx, sosteniamo che il lavoro sia l'unica "sostanza
valorificante" e che quindi soltanto il lavoro, anzi soltanto il
pluslavoro crei plusvalore, allora il profitto non è
un'aggiunta di valore alla produzione, ma una sottrazione di valore
al salario.
Con questo Marx non negava che il capitale sia produttivo,
però ne riduceva la produttività a quella del lavoro,
che aveva costruito il capitale stesso, lo strumento, la macchina,
la fabbrica. Si viene a dire che il capitale è nient'altro
che "lavoro cristallizzato", e che la contabilità in termini
di lavoro è tutto quanto serve in economia. Contro questa
interpretazione semplificatrice della realtà produttiva si
possono tuttavia avanzare dubbi, alcuni dei quali assillarono Marx
medesimo. Era evidente che gli incrementi di produzione realizzati
dal capitalismo dipendevano solo in parte dalla sua capacità
di estorcere pluslavoro mediante il prolungamento della giornata
lavorativa, tanto più che si incontrano assai presto dei
limiti naturali a percorrere tale strada, essendo in ogni caso
impossibile un'attività superiore alle ventiquattr'ore
giornaliere.
Del pari evidente era che il progresso tecnologico recita una parte
importante nello sviluppare la produzione. Esso era interpretabile
come un progresso della conoscenza rivolto a scoprire quale lavoro
fosse inutile e quindi sopprimibile. Marx ammetteva che non
qualunque lavoro, ma soltanto il lavoro utile creasse valore
economico: se non che un lavoro apparentemente utile decadeva a
lavoro inutile non appena si introduceva una nuova tecnica tale da
renderlo obsoleto. La nuova tecnica si attuava mediante una nuova
forma di capitale, il quale, dunque, era sì 'lavoro
cristallizzato', ma pure 'conoscenza cristallizzata'. Anche se
accompagnata dal rischio di una disoccupazione tecnologica, ogni
avanzata della conoscenza offriva la possibilità di
un'avanzata della produzione, grazie alla scoperta di nuovi e
migliori tipi di lavoro utile in sostituzione di vecchi tipi di
lavoro divenuto inutile, e a prescindere dal prolungamento degli
orari lavorativi, ai quali anzi era consentito di diminuire senza
ledere la formazione del plusvalore.
Certo, era sostenibile che il tecnico inventore fosse anch'egli un
lavoratore al pari di tutti gli altri. Non di meno il suo lavoro
manifestava una produttività in larga misura sganciata dal
tempo di impegno, nel senso che non bastava pensare durante un tempo
doppio per farsi venire il doppio di idee. L'invenzione o la
scoperta in campo tecnico rappresentavano poi appena l'inizio di
complicati processi innovativi, che occorreva portare a termine per
rendere le idee operative, per dimostrarne la bontà pratica,
per trasformarle in realtà produttiva, più produttiva
di prima. E l'esperienza europea insegnava che, accanto
all'inventore, doveva solitamente collocarsi a tal fine la figura
dell'imprenditore, una figura spesso coincidente col capitalista e
dotata di qualità diverse da quelle del tecnico e dei
lavoratori in generale. L'inventore James Watt, per esempio, si era
alleato con l'imprenditore-capitalista Matthew Boulton, e le doti
d'ingegno del secondo avevano contribuito non meno di quelle del
primo al successo economico della macchina a vapore nel corso della
rivoluzione industriale.
Inoltre, osservando più da vicino l'attività tipica
dell'imprenditore-capitalista, che l'economia borghese spingeva alla
ribalta, si notavano via via elementi che avevano sempre meno
attinenza col lavoro vero e proprio e sempre più attinenza
con la mera assunzione di rischi. Il punto da chiarire era se e come
l'incertezza, inevitabile nella produzione, avesse rapporti col
plusvalore: una questione intricata, che il capitalismo esasperava
in un modo senza precedenti, benché essa fosse presente in
qualunque sistema economico, compreso il socialismo. In tutti i
sistemi economici, infatti, la produzione non è immediata, i
costi precedono solitamente i ricavi, e qualcuno deve assumersi i
rischi di sopportare dei costi in vista di ricavi futuri e incerti
(salvo che l'avvenire sia perfettamente prevedibile).
Non si poteva negare che la questione riguardasse anche la natura
del profitto, il quale per definizione è null'altro che la
differenza tra i ricavi e i costi; differenza accertabile soltanto a
posteriori, dopo che i ricavi si siano realizzati, e differenza
talvolta negativa, non positiva, nel qual caso si parla di perdita.
Il capitalista percepisce il profitto o si accolla la perdita
appunto perché anticipa i costi, fornisce un capitale, che
è sempre un'anticipazione di valore. La natura dell'interesse
è analoga, come spiega l'etimologia: 'interesse', essere tra
due valori, uno anticipato, l'altro posticipato. I rischi possono
essere maggiori o minori, ma nascono sempre dallo sfasamento
temporale, dalla mancanza di sincronia tra quanto si sborsa ora e
quanto si incasserà in futuro, se si incasserà.
Non che il passaggio del tempo sia condizione sufficiente del
plusvalore. Il tempo in sé è una scatola vuota: conta
quanto si fa dentro il tempo, e quanto si fa è
un'attività lavorativa, produttiva, creativa, spesso
innovativa, sempre poco o tanto rischiosa. Ma il passaggio del
tempo, trasformando il futuro in presente, toglie incertezza e, se
realizza quanto è in potenza nelle risorse iniziali, se
mantiene le promesse, costituisce per così dire una forma di
produzione, suscita plusvalore, in concorso col lavoro. Infatti, una
promessa realizzata è sicura, una promessa solamente
annunciata non lo è. La ricchezza fattasi immediatamente
godibile vale più della stessa ricchezza soltanto probabile
perché differita. Il lavoro del seminatore non garantisce il
raccolto, né tanto meno lo garantisce in una misura
predeterminata: lo annuncia appena, e in quantità variabile,
in attesa che lo scorrere dei mesi faccia la sua parte nel
valorizzare il grano. Il carico di spezie a Venezia acquista valore
per i veneziani non solo perché si carica delle spese di
trasporto dall'India, ma pure perché la sua
disponibilità è meno aleatoria di quando era in
India.Il fatto che il passaggio del tempo possa creare un valore dal
nulla, riducendo l'incertezza, è un fatto universale, da cui
discende che, in qualunque sistema economico, il lavoro, in
qualsiasi forma si presenti, non è l'unica 'sostanza
valorificante': lo è pure la buona sorte e quanto la
favorisce, qualora l'uomo non abbia un completo dominio degli eventi
economici. Nel socialismo, non meno che nel capitalismo, la
collettività sta meglio nel complesso quando il suo lavoro,
oltre che essere stato prestato con fatica, mostra infine frutti
pari all'attesa, o superiori, grazie all'esito positivo della
produzione. Ma se al contrario l'esito fosse negativo, diremmo che
la produzione è avvenuta in perdita, anziché con
profitto, e che la collettività tutta intera manca di un
plusvalore la cui natura è aleatoria.
Ciò che veramente distingue il capitalismo dal socialismo non
è la presenza o l'assenza del profitto e della perdita:
è chi si assume i rischi relativi, se qualche volontario,
animato dalla speranza che gli tocchi più spesso un profitto
che una perdita, o la collettività senza esclusioni. Nel
primo caso, cioè nel caso del capitalismo, il volontario, che
è il capitalista, deve essere in grado di effettuare le
anticipazioni opportune, che a lui appaiono come costi da sopportare
per ottenere il lavoro, il capitale e quant'altro serve alla
produzione. In un'economia di mercato egli contratta detti costi coi
lavoratori e i rimanenti fornitori di fattori produttivi, ai quali i
costi medesimi si presentano al contrario in veste di redditi
guadagnati per la partecipazione al processo economico. Al
capitalista toccheranno poi i ricavi futuri e incerti, e questo
diritto ai ricavi, indeterminati, è la contropartita per il
servizio di anticipazione da lui prestato.
Nel caso del socialismo, invece, anticipare i costi è un
compito collettivo, col che cade la distinzione tra lavoratori puri
e capitalisti puri, tutti i lavoratori divenendo anche in qualche
misura capitalisti. I redditi spettanti ai lavoratori-capitalisti,
nel socialismo, sono teoricamente separabili in una quota di salario
e in una quota di profitto (o di perdita). In pratica la distinzione
non si fa, perché, se si ragiona a livello collettivo,
è indifferente che i redditi abbiano questa o quella origine
e, se si ragiona a livello individuale, il calcolo non è
fattibile, mancando l'indicazione di quanto ogni lavoratore
anticipa. Tutto quello che si può dire è che la
collettività non sfugge alle alee della produzione, ma
ciascuno le sopporta in modo imprecisato, a causa della confusione
tra salario e profitto (o perdita): ciascuno bada solo al proprio
reddito complessivo che di solito è stabilito politicamente.
Collettivizzare le anticipazioni di capitale suscita problemi
politici che il capitalismo non conosce. La collettività (a
maggioranza?) o qualche suo rappresentante deve decidere dove e
quanto anticipare e come retribuire ciascuno. (È ovvio che la
retribuzione non è definitiva se non a posteriori, ossia
quando i ricavi sono divenuti certi e si sa se la buona sorte ha
operato o no). Anche il più democratico dei socialismi deve
contenere elementi di coercizione, che si presentano quanto meno
come ordini della maggioranza alla minoranza: se ogni individuo
fosse lasciato libero di partecipare o no alle anticipazioni, e di
parteciparvi molto o poco, si formerebbe presto un mercato del
capitale che trasformerebbe quel socialismo volontario in
capitalismo.
È lecito inoltre sospettare che, se fosse lasciata alla
maggioranza della popolazione la decisione sull'entità e la
qualità degli investimenti di capitale, prevarrebbe quel
sentimento avverso al rischio di cui parlava Pantaleoni
attribuendolo alle masse. Il cambiamento e l'innovazione sarebbero
forse ridotti al minimo, e lo stesso progresso tecnologico avrebbe
le ali tarpate. A questo proposito va ricordato che gran parte del
progresso tecnologico, compreso quello più semplice, esalta
le anticipazioni: fabbricare dei pezzi metallici a mano, uno per
uno, richiede scarse anticipazioni; ne richiede di più
cominciare col fabbricare uno stampo, che ci servirà in
seguito per rendere più celere la produzione dei pezzi. Oltre
che essere un costo anticipato, lo stampo è un costo fisso:
lo sopportiamo nella stessa misura sia che venga usato per produrre
un pezzo, sia che venga usato per produrne cento o mille,
sicché torniamo a incappare nel rischio dell'anticipazione,
se non sappiamo con certezza quanti pezzi saranno richiesti o
venderemo.
La convenienza di ricorrere allo stampo dipende dunque da previsioni
incerte: ben difficilmente si può dimostrare a priori che una
qualsiasi innovazione, per quanto elementare essa sia, giovi a
tutti, subito e con sicurezza. L'umanità è trascinata
sulla strada del progresso tecnologico da minoranze attive, che
però operano in condizioni radicalmente diverse nel
capitalismo e nel socialismo. Nel capitalismo è il
capitalista volontario a imporre l'uso dello stampo, se lo ritiene
opportuno, addossandosi tuttavia la perdita in caso di insuccesso:
ciò non libererà i lavoratori da tutti i rischi
economici, ma almeno da alcuni. Nel socialismo, mentre non è
facile che sia l'intera collettività a scegliere lo stampo,
è più facile che sia l'intera collettività a
correre tutti i rischi connessi al suo uso.
Nel capitalismo di concorrenza chiunque è libero di innovare
se può anticiparne i costi ed è pronto a subirne le
conseguenze dirette, che sono appunto in primo luogo la perdita dei
costi anticipati (le conseguenze indirette si diffondono spesso
incontrollatamente nella popolazione). Nel socialismo
collettivistico non tutti hanno quella libertà, ma chiunque
è esposto alle conseguenze dirette e indirette, positive e
negative, delle scelte fatte da chi ne ha il potere. E ancora: nel
capitalismo di concorrenza è frequente che libere e diverse
scelte produttive, effettuate da individui diversi, coesistano per
qualche tempo, finché l'esperienza non dimostri quale fra
esse sia la migliore; nel socialismo collettivistico si giunge
più rapidamente a una scelta uniforme, a causa della minore
libertà di decidere e della maggiore capacità di
imporre ovunque la stessa decisione.
Il procedimento socialistico offrirebbe forti vantaggi se fosse dato
di predeterminare con una certa accuratezza, a opera di esperti, gli
effetti delle innovazioni proposte e da mettere a confronto; ma
questi esperti, pur nel caso di loro massima competenza, è
presumibile sappiano molto sul passato e sul presente, ma poco sul
futuro. Più l'innovazione è radicale e meno c'è
ripetizione, meno esistono i precedenti sui quali fondarsi per
arguire quanto succederà anche nel nostro caso. All'inizio
del Novecento, tre quarti delle automobili costruite negli Stati
Uniti erano o a vapore o a elettricità, ed esse sarebbero
state considerate uno spreco se fosse stato noto che la soluzione
vincente era costituita dal motore a benzina, sul quale tuttavia gli
esperti non puntavano. Nessuna gara meriterebbe di essere disputata
se il suo esito si potesse calcolare a tavolino e il vincitore
risultasse identificabile in partenza. La concorrenza di mercato
presuppone che i concorrenti debbano gareggiare per mostrare
virtù e difetti che soltanto la gara stessa mette in luce.
Il capitalismo europeo, adottando la concorrenza come sistema ideale
(in pratica, s'intende, più o meno corrotto), si era ispirato
alle filosofie individualistiche e liberali, insieme alle quali
crescerà a partire dalla rivoluzione borghese. Ma aveva pure
contribuito all'adozione la singolare storia politica del
continente, un continente frammentato in numerosi popoli
indipendenti e diversamente creativi, ciascuno col suo genio
particolare e le sue particolari esperienze. Un'innovazione di
successo in una nazione europea aveva molte probabilità di
essere imitata dalle nazioni vicine, mentre i fallimenti in un luogo
insegnavano a evitarli nel resto del continente.
Questo trionfo della varietà, collegato con la mania del
cambiamento, contrastava con gli impulsi verso l'uniformità e
la stabilità più tipici degli imperi centralizzati.
Nell'Europa occidentale vi erano di continuo nazioni con un'economia
caratterizzata da uno sviluppo originale e altre nazioni con
un'economia caratterizzata da uno sviluppo imitativo, ma
l'imitazione era per lo più considerata una fase transitoria
in vista del superamento delle rivali. Il capitalismo, presentandosi
come una serie di scommesse sul futuro, premiava la mentalità
disposta ad affrontare le alee economiche e anzi a suscitarle, e
ciò faceva fino a farsi paragonare a un onnipresente gioco
d'azzardo, che trasformava la società in una bisca.
Ovviamente ne derivavano e ne derivano anche critiche
anticapitalistiche, perché non tutti, nemmeno in Occidente,
gradivano e gradiscono quei lati della vita in cui il caso o la
fortuna sembrano prevalere sul merito.
Tali critiche (noi oggi lo sappiamo dopo tanto discutere) non
colpiscono sempre il bersaglio. I razionalisti sono propensi ad
attribuire al caso o alla fortuna qualunque successo che essi siano
stati incapaci di prevedere. Ora, nel capitalismo di concorrenza gli
alti profitti sono spesso dovuti a scelte produttive nuove, non
conformistiche, che urtano la 'saggezza convenzionale' e che gli
esperti non scorgevano o rifiutavano. Deve essere così: per
guadagnare molto serve un fattore di sorpresa, non la routine alla
portata di chiunque. Cessata la sorpresa, gli alti profitti di chi
ha anticipato i costi vengono 'assaliti' dagli imitatori e da coloro
ai quali i costi sono pagati (fra cui i lavoratori, che reclameranno
salari maggiori), secondo processi cui Schumpeter dedicò
molta attenzione.
Resta comunque vero che nel mercato capitalistico la gara
concorrenziale non dà la vittoria al 'migliore', secondo
criteri razionali (e tanto meno secondo criteri etici o estetici),
bensì al produttore il quale, magari per mero accidente,
abbia col suo prodotto incontrato la domanda dei consumatori,
chiunque essi siano. Non vi è alcun presupposto per cui il
gusto dei consumatori debba essere educato o adeguato a canoni
convenuti di rispettabilità e la produzione debba mirare
all'eccellenza qualitativa, come negli intendimenti corporativi
avversi alla concorrenza. Il mercato capitalistico è
neutrale, colloca fuori di sé, nella coscienza dei
consumatori stessi, ogni responsabilità etica ed estetica, e
pur quando cerca di influire sui loro gusti, con la
pubblicità commerciale o in altro modo, lo fa esclusivamente
per vendere di più.
Perciò il mercato capitalistico è disposto a vendere
anche libri scritti contro il mercato capitalistico, purché
vi scorga una possibilità di guadagno monetario. Le famiglie,
le scuole, le chiese, i governi, e altre istituzioni di tal genere
mantengono importanti funzioni di indirizzo nelle società
capitalistiche, però separatamente dal mercato, almeno in
teoria, e nonostante certe inevitabili interferenze reciproche che
si osservano nella realtà. Nessun sistema sociale funziona
allo stato puro, non di meno le realizzazioni storiche del
capitalismo concorrenziale sono ampiamente differenziate da quelle
del socialismo collettivistico, appunto perché più si
rinuncia al mercato e più si rinuncia alla sua
neutralità. Nel socialismo, collettivizzare le anticipazioni
o gli investimenti di capitale conduce per forza a collettivizzare i
consumi, e quindi ad accrescere gli elementi politici non neutrali
che governano i modi di vita.In tutte le società, comprese
quelle capitalistiche, vi sono dei consumi proibiti per legge e dei
consumi obbligatori, ma nel socialismo la sfera dei consumi lasciati
alla discrezionalità individuale è facilmente
più ridotta. Lo è per ragioni 'tecniche', connesse a
come si formano le scelte collettive, e lo è per ragioni
ideologiche, quelle medesime che hanno indotto a collettivizzare.
Non si può credere che capitalismo e socialismo si
distinguano soltanto nei mezzi usati e non anche nei fini, e che
tutto si riduca a stabilire quale sistema sia più efficiente.
Il discorso, in termini di efficienza, si ferma quasi
immediatamente, non appena cioè cominciamo a scorgere che
capitalismo e socialismo hanno talvolta scopi perfino opposti, per
cui quanto qui è efficienza, là è inefficienza,
e viceversa. Vi sono buoni motivi per presumere che il capitalismo
sia il sistema più efficiente per raggiungere i suoi propri
obiettivi e il socialismo il più efficiente per i suoi
diversi obiettivi.
5. La crescita del mercato capitalistico
La neutralità del mercato capitalistico si riferisce alla
domanda dei consumatori, i quali possono acquistare ciò che
vogliono, purché acquistino, in modo che i capitalisti
abbiano una prospettiva di profitto. Non è sconosciuto il
caso di capitalisti animati da uno scopo morale, che li porta a
condannare certi consumi e a proporne altri in sostituzione: per
esempio, capitalisti puritani puntarono sull'industria delle bevande
gassate per combattere l'alcolismo; ma il successo che il mercato
decretò loro prescindeva dalla loro finalità
extraeconomica. La funzione del mercato è semplicemente
quella di captare, dove esiste, una domanda potenziale insoddisfatta
e di trasformarla in domanda effettiva per soddisfarla con
profitto.Il mercato non è passivo, non si limita a registrare
le domande, bensì le suscita, e questo ruolo attivo è
tanto più rilevante quanto più lo sviluppo economico
è avanzato e il livello medio dei consumi è alto. I
bisogni di prima necessità sono dettati dalla natura in una
dimensione quasi fissa e sono all'incirca i medesimi per tutti; i
bisogni artificiali e i semplici desideri possono essere invece
assai differenti da individuo a individuo, perché dipendono
soltanto da noi e sono suscettibili di crescere illimitatamente. Il
mercato capitalistico, mediante il progresso merceologico, inventa e
propone sempre nuovi beni di consumo, che saranno generalmente beni
voluttuari ('superflui' a tutto, tranne che alla ricerca del
piacere), per stimolare i bisogni artificiali, i semplici desideri e
le domande relative.
Mentre perfino Marx lodava il capitalismo per l'enorme
capacità di produrre e aumentare l'offerta di merci, si
è dato meno peso alla sua ancor più straordinaria
capacità di espandere la domanda di merci. E mentre tutti
insistono sul progresso tecnologico, può sfuggire che al
capitalismo è ancor più indispensabile il progresso
merceologico, senza il quale ogni domanda verrebbe presto
soddisfatta, e la sazietà dei consumatori e la saturazione
del mercato fermerebbero lo sviluppo economico. Il progresso
tecnologico è un portato della concorrenza, nel capitalismo,
ma può risolversi in definitiva in un aumento del tempo
libero dal lavoro, ciò che non interessa al mercato se non in
quanto il tempo libero sia esso stesso fomentatore di speciali
domande di consumo. Il progresso merceologico, al contrario, tende a
frenare l'aumento del tempo libero, inducendo a lavorare per
produrre i nuovi beni di consumo, e stuzzica direttamente le
domande.
Inoltre il progresso merceologico è connesso ai processi
concorrenziali di mercato anche più del progresso
tecnologico. I capitalisti non gareggiano tanto per soddisfare
meglio, a più basso costo, vecchie domande, quanto per
accaparrarsi nuove domande, che essi stessi cercano di creare dal
nulla. Detto in altro modo: è spesso più facile
entrare in un mercato nuovo che allargare la propria quota in un
mercato vecchio. Ma in realtà tutti i capitalisti, in
qualunque settore operino, si contendono alla fin fine un unico e
complessivo potere d'acquisto dei consumatori. Chi vende televisori
non è in concorrenza soltanto con gli altri venditori di
televisori: lo è pure con i venditori di automobili, di
frigoriferi, di qualunque cosa pretenda per sé una fetta del
reddito delle famiglie acquirenti.
Di qui il relativamente scarso impatto del monopolio nel capitalismo
di mercato. È vero che la concorrenza stessa, premiando i
vincitori della gara, può renderli temporaneamente dei
monopolisti o quanto meno degli oligopolisti, ma (se non
intervengono fattori, di solito politici, che impediscano ovunque
alla gara di continuare) è raro che si possa dormire a lungo
sugli allori. Un ipotetico monopolista nel settore teatrale sarebbe
stato minacciato egualmente dal cinematografo muto e poi da quello
sonoro, così come un altro ipotetico monopolista in
quest'ultimo settore non sarebbe sfuggito all'attacco della
televisione in bianco e nero e a colori. Nessun capitalista è
mai stato abbastanza potente da controllare tutti i settori e da
impedire sempre che ne nascano di nuovi, salvo che la legge gli
attribuisca una posizione monopolistica assoluta e universale.
Il progresso merceologico, che tanto giova alla concorrenza,
è ovviamente rischioso per i produttori che lo praticano e
per quelli che lo subiscono. I produttori che lo praticano vedono
fra l'altro che esso obbliga di frequente ad allungare i tempi delle
anticipazioni di capitale, oltre la durata richiesta dal progresso
tecnologico, col quale in pratica è mescolato. Il progresso
tecnologico richiede di costruire una nuova macchina, un nuovo
impianto o una nuova fabbrica prima di avviare la produzione; il
progresso merceologico aggiunge a ciò l'attesa che si formi a
poco a poco la domanda in grado di assorbire una nuova produzione.
Col progresso merceologico non solo i costi precedono i ricavi, ma
l'offerta precede la domanda, che deve 'imparare' i nuovi consumi.
"Se l'industria cotoniera del 1760 fosse dipesa interamente dalla
domanda effettiva del momento, le ferrovie dalla domanda effettiva
del 1830, l'industria automobilistica da quella del 1900, nessuna di
queste industrie avrebbe iniziato [...]. La produzione capitalistica
dovette trovare il modo di crearsi i suoi propri mercati in
espansione" (v. Hobsbawm, 1965). Si comprende quindi perché
il progresso merceologico rende più acuto il problema dei
costi fissi e spinge le imprese a sostenere anche ingenti costi di
propaganda, di pubblicità, di promozione delle vendite. Sono
manifestazioni del cosiddetto consumismo, fenomeno la cui importanza
è andata crescendo senza tregua con l'evoluzione
capitalistica.
Il moderno capitalismo consumistico o opulento sembra totalmente
opposto al capitalismo pauperistico, del quale ragionava Marx, e al
capitalismo austero o 'weberiano'. A questo riguardo va ricordato
che Max Weber non era affatto cieco di fronte alla
'democratizzazione del lusso', in corso all'epoca in cui scriveva, e
si limitava a osservare che, in certe fasi del capitalismo
primitivo, la condotta dei capitalisti respingeva lo sperpero,
così come l'avarizia, circa i propri guadagni, i quali
andavano risparmiati e reinvestiti con oculatezza per continuare ad
accumulare capitale. È indubbio che per certi versi il
calvinismo ha contribuito a tale spirito capitalistico di
sobrietà operosa, ma senza mai proporsi l'esaltazione
dell'economia di mercato. D'altronde, assai prima di Calvino la
rivoluzione comunal-cittadina era già avvenuta anche con il
proposito di sostituire la parsimonia borghese alle 'mani bucate'
del cavaliere feudale, per il quale il disinteresse, la
prodigalità, la munificenza, la magnificenza erano titoli
d'onore.
Si aggiunga che il calvinismo dei capitalisti olandesi all'apogeo
della loro potenza era quello 'dolce' di derivazione arminiana,
tollerante e per nulla nemico dell'agiatezza. Del pari,
l'Inghilterra della rivoluzione industriale richiamava sì,
con Adam Smith, i rimbrotti contro gli sprechi e le vanità
della nobiltà terriera, ma non predicava l'ascetismo e anzi
si avviava, con l'utilitarismo di Bentham, a concepire la vita come
un ininterrotto 'calcolo felicifico'. Lo stesso Weber ammetteva che
la primitiva austerità del capitalista non era un tratto
permanente della psicologia propria del sistema di mercato; e oggi a
noi è dato di sostenere molto tranquillamente che
l'austerità è caso mai peculiare del socialismo, non
del capitalismo.
Comunque, merita occuparsi soprattutto del tenore di vita dei
lavoratori, che costituiscono la gran massa della popolazione, non
di quello dei capitalisti, per quanto non sia irrilevante che
costoro talvolta si avvicinino al tipo austero weberiano, talaltra
appartengano piuttosto alla leisure class di cui parlava Thornstein
Veblen. La tipologia di Veblen distingue pure tra capitalisti
industriosi e capitalisti assenteisti, tra capitalisti tecnici e
capitalisti finanziari. Esiste sicuramente una grande varietà
di personaggi; dubbio è che essi recitino secondo un copione
intessuto di leggi sociologiche note.
Dunque, a proposito dei lavoratori, il punto saliente è che
sino alla fine del Settecento, cioè fino agli albori della
rivoluzione industriale, il salario reale non aveva ancora mostrato
alcuna tendenza generale a un duraturo aumento. Il miglioramento
più vistoso era avvenuto nella seconda metà del
Trecento, ma il capitalismo non c'entrava: il merito, se così
si può dire, andava alla peste, che aveva ridotto la
popolazione e concesso ai pochi sopravvissuti di nutrirsi più
facilmente limitandosi a coltivare le terre più fertili.
Ricresciuta la popolazione, il potere d'acquisto del salario era
disceso verso il consueto minimo di sussistenza.
All'inizio dell'Ottocento celebri economisti come Malthus e Ricardo
potevano continuare a temere che i fattori demografici avrebbero
perennemente ancorato il salario al minimo di sussistenza, e alla
metà dell'Ottocento Marx, pur sostituendo ai fattori
demografici altre cause, insisteva nel dire che il capitalismo non
era in grado di fare meglio. Questa pessimistica 'legge ferrea o
bronzea' del salario persisterà a lungo nelle credenze
collettive (anche dopo Marx, anche presso i non marxisti), solo un
poco moderata dal riconoscimento che il minimo di sussistenza non
era fisso, ma legato al grado di incivilimento della società.
Se poi qualche ottimista ipotizzava un improbabile progresso
materiale della classe lavoratrice, c'era subito chi gli opponeva il
pericolo che essa allora cadesse in preda all'ozio, non appena la
fame cessasse di costringerla ad andare in fabbrica o nei campi.
Col senno di poi ci è concesso oggi di correggere
notevolmente il quadro. Il capitalismo, nei luoghi dove la sua
fioritura fu più copiosa, contribuì assai presto alla
formazione di un suo caratteristico ceto medio che, sebbene non
formato da salariati comuni, era abbastanza numeroso. Tale ceto
medio fu il primo a godere di quella lenta 'democratizzazione del
lusso' che rientra nella logica del capitalismo industriale e di cui
il consumismo attuale è una conseguenza che in Occidente si
estende fino al ceto operaio. La logica a cui pensiamo punta sullo
sviluppo economico illimitato, il quale non è sostenibile con
una domanda che derivi esclusivamente dalla sempre piccola frazione
della collettività costituita dai più ricchi. Non
importa che questa frazione minima costituisca una leisure class
dedita a 'consumi vistosi' o un gruppo di capitalisti austeri, che
vendono a se stessi beni di investimento: in ogni caso, il mercato
ristretto dimostra la sua fragilità ai fini dello sviluppo, e
presto o tardi vien fatto esplodere dalla concorrenza e dal
progresso merceologico, pena, altrimenti, l'arresto dello sviluppo.
L'esperienza storica rivela diversi artifici usati per alimentare la
domanda esulando dal mercato, artifici che richiedono un intervento
politico (guerre, lavori pubblici, ecc.); ma un conto è
rimediare con essi a una breve crisi congiunturale, un altro conto
è provvedere a uno sviluppo illimitato e non temporaneo. Se
inoltre la spesa pubblica si finanzia con imposte e tasse, essa
minaccia di nuocere alla domanda privata e non dà un
rilevante e sicuro giovamento alla domanda complessiva, se non in
momenti eccezionali. Così pure, l'imperialismo economico e il
colonialismo non permettono di ingrossare sistematicamente la
domanda, se le popolazioni dominate sono e rimangono povere. Si
esporta di preferenza nei paesi con più reddito, non nei
paesi con meno reddito di quello del venditore.
Ciò che l'esperienza storica ha di veramente fondamentale da
insegnarci è che uno sviluppo incentrato su pochi beni di
gran lusso, destinati a una piccola minoranza, non può essere
rapido né sostenuto. Lo sperimentò anche l'Italia
quando, in epoca rinascimentale o poco dopo, sconfitta la sua
industria laniera dalla concorrenza dei paesi europei
nordoccidentali, dovette ripiegare sull'industria della seta, ossia
su produzioni di più alta qualità: fu un espediente
che servì a frenare la decadenza, non a capovolgerla. A
differenza dei prodotti artigianali, i prodotti industriali sono
forniti dalle macchine in massa e per le masse: più si
allarga il loro volume e meno incidono i costi fissi, finché
i costi unitari sono così bassi da consentire l'acquisto a
gran parte della popolazione.
Reciprocamente l'aumento del salario reale, purché contenuto
entro certi limiti non punitivi del profitto, incita ad adottare
macchinari che sostituiscono il lavoro e ne accrescono la
produttività. Si possono così formare 'circoli
virtuosi', che il capitalismo ha sfruttato varie volte. Si discute
se, nei paesi industrializzati e nell'ultimo secolo, il continuo
aumento del salario reale, di pari passo con l'aumento della
produttività media del lavoro, sia stato strappato dai
sindacati dei lavoratori ai capitalisti o concesso dai capitalisti
per loro convenienza, per trasformare i lavoratori in buoni clienti.
La questione è in parte irrilevante, perché in ogni
caso sono state le forze del mercato di concorrenza a operare, non
essendo altro il sindacalismo, come si è affermato in
Occidente, che un'evoluzione della libertà contrattuale
tipica del sistema capitalistico.
È a questo punto che gli avversari del capitalismo hanno
cominciato a lanciare i loro strali contro la sua forma
consumistica, non più contro la forma pauperistica. Dopo la
grave crisi mondiale di deflazione del 1929-1934, l'economista
britannico John M. Keynes e il suo seguace americano Alvin H. Hansen
avevano ipotizzato che il capitalismo maturo e opulento fosse molto
vulnerabile e socialmente pericoloso, perché proprio l'alto
tenore di vita della popolazione rendeva probabile che i risparmi
eccedessero gli investimenti. La moneta così 'tesoreggiata'
ristagnava oziosa, non portava ad alcuna domanda di merci, e
l'offerta invenduta provocava fallimenti, disoccupazione, cadute del
reddito nazionale e un ritorno alla miseria. Senza una
socializzazione più o meno ampia degli investimenti il
capitalismo consumistico era velleitario, non riusciva ad andare
stabilmente oltre una data soglia di benessere, perché
l'offerta pletorica stentava sempre più a trovare sbocchi
adeguati e remunerativi.
La socializzazione degli investimenti si proponeva di rimediare
istituendo il Welfare State, la fornitura massiccia di servizi
pubblici di sicurezza sociale in sostituzione dell'iniziativa
privata; ma, sebbene spesso non lo si dicesse apertamente,
ciò avrebbe significato, più che un rimedio,
l'eutanasia del capitalismo consumistico, se non di qualunque
capitalismo. Nella concezione di Marx il capitalismo pauperistico
doveva perire di morte violenta, per ribellione dei proletari; nella
concezione di Keynes il capitalismo consumistico sarebbe trapassato
senza una rivoluzione sanguinosa e forse addirittura col consenso
dei capitalisti, che speravano di salvare il salvabile cedendo ai
governi i loro magazzini ridondanti.I keynesiani e i fautori del
Welfare State sottostimavano di grosso le capacità di
recupero del capitalismo consumistico e gli effetti tonici sulla
domanda dell'ulteriore progresso merceologico (si pensi, per
esempio, alla valanga di nuovi beni di consumo forniti dalle recenti
applicazioni dell'elettronica e avidamente assorbiti dal mercato).
Non si fa però giustizia al pensiero keynesiano e anzi, per
questo, al pensiero socialistico in generale, se non si aggiunge e
non si sottolinea che l'illimitato progresso merceologico non era
giudicato soltanto difficile, ma altresì indesiderabile. Tale
progresso merceologico veniva posto al passivo, non all'attivo, nel
fare il bilancio del capitalismo contemporaneo; ossia i suoi aspetti
più consumistici erano e sono deprecati, indipendentemente
dall'instabilità economica che possono provocare e dalla
volgarità del costume in cui talvolta degenerano. Si temeva e
si teme, non senza giustificazione, che l'eccessivo produrre beni
'futili' renda più scarsi, per esempio, i servizi sanitari
pubblici per i redditieri delle fasce basse, sottraendo risorse alla
sicurezza sociale.
Il pensiero socialisteggiante, nel quale rientra in parte, per certi
aspetti, quello keynesiano, giunse a riscoprire e a rivalutare, da
una particolare angolatura, un genere di virtù simili
all'austerità, alla morigeratezza spartana; un genere che ora
si opponeva allo sviluppo economico illimitato, come il capitalismo
moderno prospettava con le sue seduzioni commerciali. Naturalmente
Marx si era già espresso con abilità sulla questione,
facendo in modo che il socialismo e più ancora il comunismo
non apparissero sistemi rinunciatari o mortificanti, bensì
sistemi in cui la creatività umana fosse piena, benché
emancipata progressivamente dall'economia. Egli condannava che nel
mercato "ogni uomo spera di creare all'altro un nuovo bisogno, per
costringerlo a un nuovo sacrificio, per ridurlo in una nuova
dipendenza e indurlo a un nuovo modo di godimento e però di
rovina economica". Denunciava che l'espansione dei prodotti e dei
bisogni diventasse "schiava ingegnosa e sempre calcolatrice di
appetiti disumani, raffinati, innaturali e immaginari" (v. Marx,
1932; tr. it., pp. 236 e 241).
Al di fuori del marxismo sentimenti analoghi erano stati espressi da
John Stuart Mill nei Principî di economia politica: "Confesso
che non mi piace l'ideale di vita sostenuto da coloro che pensano
che lo stato normale degli uomini sia quello di una lotta per
procedere oltre; che l'urtarsi e lo spingersi gli uni con gli altri,
che forma il tipo esistente della vita sociale, sia la sorte meglio
desiderabile per il genere umano, e non uno dei più tristi
sintomi di una fase del progresso produttivo [...]. La condizione
migliore per la natura umana è quella in cui, mentre nessuno
è povero, nessuno desidera di divenire più ricco,
né deve temere di essere respinto indietro dagli sforzi degli
altri per avanzare" (v. Mill, 1848; tr. it., pp. 708 e 713).
La conclusione di Mill era che si dovesse puntare, se non sulla fine
integrale dell'economia, sulla sua riduzione a uno stato
stazionario, che è l'antitesi dello sviluppo capitalistico
indefinito. Egli dichiarava che soltanto nei paesi arretrati una
maggior produzione restava uno scopo importante, lasciando intendere
che l'evoluta Gran Bretagna del suo tempo fosse ormai prossima al
punto ottimale e quindi all'arresto della crescita. Morto nel 1873,
Mill non aveva previsto tutta la serie di nuovi prodotti legati
all'elettricità, che avrebbero impresso all'economia
mondiale, e non solo a quella britannica, uno slancio
impressionante, né la miriade di altre innovazioni
interamente incompatibili con qualsiasi stato stazionario. Chi
sosterrebbe che fossero sempre innovazioni da respingere, se non da
proibire?
Nel secolo successivo Keynes, più prudente, parlava di alcune
generazioni destinate ancora a continuare gli sforzi produttivi,
prima di poter tirare i remi in barca e contentarsi dell'abbondanza
conquistata. Ma Marx, Mill e Keynes erano coscienti di una
complicazione, alla quale sapevano di non poter sfuggire se non
dando una spropositata dimensione universale ai loro disegni. La
loro esortazione a sopprimere gli appetiti 'immaginari' e a
terminare la gara concorrenziale implica, oltre alla rinuncia a
quanto non è stato nemmeno immaginato, anche la compressione
dei desideri di superiorità. Tali desideri, siano essi pure
immaginari o appartengano alla realtà della natura umana,
sono in ogni caso in contrasto con i disegni di rallentare la corsa,
ridurne l'agonismo, darle un traguardo ultimo e definitivo, che
livelli in seguito la sorte di vinti e vincitori.
Non è sufficiente eliminare la concorrenza all'interno di una
singola società se permane la concorrenza fra società
diverse, per cui la stasi di una comporta il sorpasso a opera di
altre che l'ambizione mantiene in condizioni di sviluppo economico
capitalistico. Sono troppo stretti i nessi tra potenza economica e
potenza militare perché la rinuncia unilaterale al progresso
merceologico illimitato, che in qualche misura frenerebbe anche il
progresso tecnologico, non susciti ansia nella società
rinunciataria. La rinuncia o è universale o è
pericolosa per chi la pratica, e questo falsa la scelta tra
capitalismo e socialismo.
Se è improbabile che tutti gli individui della medesima
società optino volontariamente per il socialismo, ancor meno
probabile è che lo facciano spontaneamente tutte le
società del mondo. Ma la pacifica coesistenza di nazioni
capitalistiche e di nazioni socialistiche sembra obbligare
principalmente queste ultime a non essere completamente ciò
che vorrebbero (e ciò che potrebbero se fossero sole).
C'è per esse il problema di schermare i propri consumatori
dalle tentazioni opulentistiche provenienti dai paesi del
capitalismo di mercato; e c'è, più serio, il problema
di come liberarsi gradualmente dalle catene dell'economia, se lo
sviluppo economico illimitato è richiesto quanto meno dalle
esigenze militari.
Fin quando ci si illuse che, affrontando un identico o simile piano
di produzione, il socialismo sarebbe stato molto più
efficiente del capitalismo nel realizzarlo, le difficoltà di
cui sopra parvero temporanee. Ma ora si comincia a dubitarne,
perché si dubita che il socialismo, trascinato a misurarsi
col capitalismo usando i criteri del capitalismo, possa reggere il
confronto. E ancora: perde di attrattiva per i suoi seguaci un
socialismo ideologicamente monco, in cui taluni obiettivi essenziali
non siano perseguibili fino in fondo; tanto più che, se si
scende a compromessi, anche il capitalismo consente di realizzarne,
e per esempio non nega una certa dose di Welfare State, di sicurezza
sociale, di stabilizzazione dell'economia, di redistribuzione in
senso egualitario dei redditi, di austerità nel costume
individuale di vita.
Non che nel capitalismo obiettivi come il pieno impiego e
l'eguaglianza siano perseguibili a oltranza con la stessa efficacia
che nel socialismo. Non lo sono ogni volta che essi entrano troppo
in conflitto con la libertà economica, cui gli imprenditori
capitalisti non vogliono rinunciare oltre un certo grado. Ma
l'economia borghese ha capito che sarebbe vittima di una
insopportabile ostilità sociale qualora non ammettesse
qualche intervento privato, e soprattutto pubblico, per temperare i
mali della disoccupazione e della diseguaglianza che essa suscita
purtroppo largamente.
6. Le trasformazioni del capitalismo
Non v'è dubbio che il capitalismo odierno, per certi versi
tanto più potente del capitalismo primitivo, sia per altri
versi più condizionato da forze contrapposte, che ne riducono
i gradi di libertà. Le corporazioni di un tempo proteggevano
i padroni assai più degli operai, ma il sindacalismo moderno
è eminentemente un fenomeno che accresce il peso dei
lavoratori o dei loro rappresentanti nel momento in cui essi
contrattano con i datori di lavoro. Poco efficace quando i
lavoratori sono dispersi nei campi o in una miriade di botteghe
artigiane, l'organizzazione sindacale si rafforza proprio grazie
alle grandi fabbriche cittadine, che concentrano i lavoratori e ne
facilitano la manovra di massa. E se in origine i sindacati
interessavano soprattutto una élite di lavoratori qualificati
(i primi ad assumere una 'coscienza sindacale'), poi si è
passati all'inquadramento della folla sterminata dei lavoratori
comuni, costituiti per lo più da ex contadini inurbati. Il
sindacalismo, dunque, ha sfruttato una conseguenza dello sviluppo
del capitalismo: la trasformazione delle società di contadini
in società di operai. E non è l'unica conseguenza di
cui il sindacalismo si sia servito, perché esso ha tratto
dalla libertà contrattuale cara al mercato la giustificazione
per negoziare con pieno diritto i contratti collettivi di lavoro. I
quali d'altronde avrebbero avuto ben poco da ripartire senza la
consistente capacità del capitalismo di produrre sempre nuova
ricchezza. Ma vi è ancora un presupposto capitalistico alla
base dell'ascesa sindacale, un presupposto da ricercare nei nessi
tra libertà economica e libertà politica, per cui in
Occidente il progresso della democrazia si è associato spesso
e volentieri al progresso del sistema borghese di produzione.
Le leggi antimonopolistiche, nate per ostacolare i sindacati, si
sono risolte infine in seri tentativi politici di impedire la
formazione di trusts e cartelli industriali e commerciali. Il che
rende semplicistica la tesi che il potere economico, inteso come
potere padronale, conquisti regolarmente il potere politico: le cose
sono oggi più complesse e certo i sindacati occidentali
hanno, col passare degli anni, trovato appoggi in forti partiti
politici riformisti, se non rivoluzionari. Il potere capitalistico,
il potere sindacale e il potere politico giocano una complicata
partita a tre, con schieramenti mutevoli ed esiti diversi. Vi sono
momenti in cui prevale la violenza dei contrasti (tutti contro
tutti) e altri in cui si forma una specie di consenso generale, per
esempio su misure di protezione doganale (ma in merito i consumatori
potrebbero parlare di un loro danno causato dalla collusione o
connivenza fra i tre poteri).
L'abbondante ricchezza capitalistica fa comunque gola al potere
politico, che attraverso il fisco vi attinge abbondantemente. Quando
circa la metà dei redditi, dei profitti in specie, viene oggi
prelevata dalle imposte e dalle tasse, contro appena un decimo o un
quinto di non molti decenni fa, è lecito concludere che il
fisco recita ormai una parte leonina. Se le proteste di quei
contribuenti che non possono o non vogliono evadere sono moderate,
è appunto perché la ricchezza nel capitalismo
sviluppato è abbondante, e anche perché i governanti
usano la spesa pubblica per 'comperare' consensi. Il Welfare State
ha raggiunto sovente questo scopo, nonostante i vasti sprechi
commessi in suo nome, e lo ha raggiunto cercando di dare un po' di
sicurezza ai ceti più deboli di fronte alle vicissitudini
congiunturali del mercato. Ma altri tipi di spesa pubblica hanno
favorito i capitalisti, anziché danneggiarli, e c'è
del vero nella tesi secondo la quale le politiche keynesiane,
volendo o non volendo, hanno rafforzato il capitalismo, che
richiedeva una qualche regolamentazione pubblica della domanda
aggregata. Si pensi poi ai molti servizi pubblici ausiliari alla
produzione privata: per esempio, il finanziamento statale della
ricerca scientifica e tecnologica, di cui profittano i produttori
che ne applicano le scoperte, il credito agevolato agli investitori,
ecc.
A rendere il quadro ancora più complesso contribuisce la
presenza di elementi di discordia all'interno dello stesso fronte
capitalistico, che non è affatto omogeneo. La concorrenza
è di per sé un motivo di attrito fra capitalisti: in
particolare, gli innovatori urtano gli interessi preesistenti, che
vorrebbero mantenere lo status quo. Oltre a questo, il capitalismo
moderno ha visto talvolta inasprirsi il dissidio tra i proprietari
del capitale, da un lato, e i tecnici e i managers, dall'altro. La
cosiddetta rivoluzione manageriale dell'ultimo secolo o mezzo secolo
corrisponde alla crescita della dimensione delle imprese, che le
porta facilmente fuori dell'ambito familiare e impone di assumere
dei professionisti specializzati per la loro direzione. La grande
impresa societaria può avere il suo capitale frazionato fra
milioni di azionisti, fino a divenire una corporation 'pubblica', in
cui i proprietari stentano a formare stabili maggioranze di
controllo. Si assiste così alle 'scalate' di gruppi, che
cercano di ottenere il controllo della società per azioni
sottraendolo a maggioranze precedenti. Tuttavia accade talvolta che
il vero controllo sia e resti nelle mani di managers, pur quando
essi non posseggano alcuna quota del capitale.
La crescita della dimensione delle imprese è un fatto
peraltro fino a un certo punto inevitabile. L'evoluzione tipica
è quella avvenuta, per esempio, nell'industria
automobilistica, che all'inizio del nostro secolo, quando il settore
era giovane, contava migliaia di piccole imprese, il cui numero si
è quindi ridotto man mano che il settore maturava, fino
all'attuale oligopolio di pochi grossi produttori: i superstiti
vincitori, i selezionati dalla concorrenza. Questo non significa
però la scomparsa di tutte le piccole imprese: molte
sussistono come fornitrici delle grandi e molte nascono di continuo
nei settori giovani, in cui il mercato è ancora embrionale.
Le innovazioni importanti non sono necessariamente opera di grosse
imprese, che anzi possono rivelarsi conservatrici proprio
perché già paghe o appesantite dalla burocrazia
interna.
Senza sottovalutare la rilevanza delle economie di scala, non va
dimenticato che conta anche l'agilità di comportamento, la
quale oltre certe dimensioni aziendali si riduce. In anni recenti,
proprio mentre molti credevano che il futuro della siderurgia fosse
delle grandi acciaierie a ciclo integrale, i minimills rivelarono in
America e altrove i vantaggi di accrescere la produzione in piccole
unità facilmente convertibili e subito sfruttate al cento per
cento, anziché in grosse unità rigide e poco
utilizzate per anni e anni. Inoltre le stesse dimensioni assumono
significati diversi secondo le epoche: è ovvio che il
progresso delle telecomunicazioni, dei trasporti e dell'informatica
restringe il tempo e lo spazio, e permette di costruire senza
problemi reti organizzative una volta impensabili.
Le imprese multinazionali o transnazionali, frequenti nel
capitalismo moderno (sebbene non sconosciute, a parte il neologismo,
nei secoli scorsi), testimoniano che funzionano con efficienza
organizzazioni produttive private a scala mondiale. Esse hanno
capisaldi in diversi paesi sia per avvicinare la produzione alle
aree di consumo, sia per sfruttare risorse naturali e forze
lavorative locali. A questo proposito va notato che nei paesi di
vecchia industrializzazione, anche per il calo del tasso di
natalità, si sono esauriti i serbatoi di manodopera, dopo che
nelle campagne gli addetti all'agricoltura sono scesi enormemente.
Di qui la duplice nuova politica dell'industria capitalistica:
trasferire le fabbriche nei paesi ancora sottosviluppati, con
manodopera abbondante e a basso costo, o automatizzare la produzione
il più possibile.
Pertanto, nei paesi di vecchia industrializzazione la percentuale
delle forze di lavoro occupate nell'industria è ormai
stazionaria o in calo. È il settore terziario o dei servizi
che invece si espande proporzionalmente, in media potendo
automatizzare meno (a parte l'effetto dell'aumento del reddito pro
capite, che favorisce appunto la domanda di molti servizi). Come in
precedenza si era passati da società di contadini a
società di operai, ora si sta passando da società di
'colletti blu' a società di 'colletti bianchi', con profonde
ripercussioni culturali, oltre che economiche.
La produttività del lavoro, che non migliora in tutti i
settori al medesimo ritmo, influisce sui salari e sui prezzi. I
salari tendono ad adeguarsi ovunque alla crescita massima della
produttività, che si verifica nell'industria automatizzata:
questo significa il rincaro dei costi e dei prezzi nei settori, come
il terziario, dove la produttività cresce meno delle punte
massime o non cresce affatto. Ne risulta una continua pressione
inflazionistica, giacché i prezzi assoluti non calano dove il
progresso della produttività è maggiore e salgono dove
tale progresso è minore. Se mantenuta entro confini prossimi,
tale pressione inflazionistica è accettata o tollerata
ampiamente, nonostante i suoi inconvenienti. I venditori sarebbero
in ogni caso restii a concedere vistosi ribassi di prezzo, che essi
associano a difficoltà di mercato o a crisi congiunturali
deflazionistiche. Tutti sono poi contrari alle disordinate
oscillazioni dei prezzi, che si verificano per ragioni tecniche in
alcuni mercati come quelli agricoli di concorrenza atomistica, e
preferiscono le prevedibili regolarità dei prezzi di
concorrenza oligopolistica, ancorché siano regolarità
in cui l'inflazione è una presenza costante.
In termini di ore di lavoro necessarie per l'acquisto, i beni fatti
a macchina diventano sempre più accessibili ai consumatori.
Non così per i beni la cui produzione non si presta a essere
automatizzata. I servizi personali, per esempio, sono oggi
più di ieri difficili da acquisire, anche a causa della
minore diseguaglianza nella distribuzione dei redditi, che distingue
le società capitalistiche avanzate da quelle preindustriali.
Al limite, la perfetta eguaglianza impedirebbe di avere un
collaboratore domestico a tempo pieno: bisognerebbe pagarlo dandogli
l'intero reddito del padrone. Per quanto cresca di continuo il
reddito medio pro capite, alcune forme di vita agiata, che erano
godute dai ricchi del passato, non si potranno ripetere e non si
diffonderanno nell'intera popolazione. La ricchezza 'democratica'
è essenzialmente diversa dalla ricchezza 'aristocratica', per
cui l'arricchimento generale non sempre riesce a trasformare la
domanda virtuale di beni in domanda effettiva. I beni per loro
natura irrimediabilmente scarsi, come le dimensioni limitate di un
piccolo luogo di grande bellezza turistica, suscitano problemi
irrisolvibili circa la crescita del benessere e del numero di coloro
che li appetiscono.
Il capitalismo sopporta l'incessante aumento dei salari reali grazie
all'incessante aumento della produttività del lavoro, che di
norma si ottiene dotando ogni lavoratore di più capitale. Ma
ciò non sarebbe sufficiente a conservare un buon tasso di
profitto, se il maggior capitale per lavoratore si traducesse anche
in maggior capitale per unità di prodotto. In quest'ultimo
deprecabile caso il capitale crescerebbe nel tempo più
rapidamente della produzione che esso fornisce, per cui sarebbe
sempre più arduo remunerarlo adeguatamente, dal punto di
vista dei capitalisti privati. Marx (e non soltanto lui) prevedeva
nell'Ottocento che la meccanizzazione e l'automazione avrebbero
effettivamente sortito tale risultato, mettendo in crisi il
capitalismo. Oggi sappiamo invece che, nelle medie nazionali di
lungo periodo, il rapporto tra il valore del capitale investito e il
valore della produzione che ne deriva non ha mostrato alcuna stabile
tendenza a salire.In definitiva, il più importante
compromesso del capitalismo è stato quello di riuscire a
migliorare i salari reali senza danneggiare il tasso di profitto. Un
tasso di profitto costante, applicato a un capitale che si accumula,
aumenta via via la massa dei guadagni dei capitalisti nel loro
complesso. Quanto ai guadagni medi del singolo capitalista, essi
dipendono anche dall'andamento del numero complessivo di
capitalisti, sul quale i dati sono carenti. Si sa che il numero dei
lavoratori occupati aumenta, durante lo sviluppo capitalistico
moderno, meno velocemente del prodotto nazionale e dello stock di
capitale, il che appunto determina l'aumento della
produttività del lavoro e dei salari reali. Non si sa se il
numero dei capitalisti aumenti di più, di meno o nella
medesima misura del numero dei lavoratori, ma è certo che nel
capitalismo contemporaneo è più frequente la figura
del lavoratore-capitalista, ovvero di colui che non è
più lavoratore puro, in quanto ha potuto risparmiare e
investire una parte dei suoi salari.
È pure certo che, nonostante gravi fasi critiche, come negli
anni trenta del nostro secolo, il capitalismo si è rivelato
notevolmente solido, non così esposto alle sue
'contraddizioni interne' come speravano o temevano taluni suoi
studiosi o osservatori. Gli è stata utile la grande
capacità di adattamento alle varie circostanze storiche,
sociali e politiche, per cui oggi non si discute più tanto
sulla fine del capitalismo: si discute piuttosto sulle diverse forme
che può assumere, quelle maggiormente accettabili e quelle
decisamente da avversare. Intanto, sebbene si sappia poco sulla
condizione e sulla psicologia dei capitalisti, si sa però che
finora essi si sono mostrati disposti a continuare l'accumulazione
di capitale in vari luoghi e circostanze, e a mantenere in corsa un
sistema in fondo poco 'sistematico', la cui razionalità
globale lascia sovente perplessi.
Le nazioni del Terzo Mondo, che oggi tentano di realizzare uno
sviluppo economico imitando le nazioni più industrializzate,
hanno scelto a volte il modello capitalistico, a volte quello
socialistico, senza escludere le innumerevoli forme miste. Sulla
scelta ha influito in non pochi casi la rivalità politica tra
gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, con gli aiuti che le due
grandi potenze erano disposte a concedere ai loro satelliti. Col
passar del tempo, però, ha perso credito la tesi che una
rivoluzione politica, come appunto quella sovietica del 1917, sia
indispensabile al Terzo Mondo per sfuggire rapidamente
all'arretratezza e questo ha accresciuto le chances del capitalismo.
Non si deve credere tuttavia che il capitalismo nel Terzo Mondo sia
da includere fin da ora nella stessa classe del capitalismo
avanzato."In molti paesi del Terzo Mondo il capitalismo che si
conosce non è quello industriale, bensì quello
mercantile (il capitalismo dei compradores)" (v. Sylos Labini, 1983,
p. 184). E l'evoluzione verso tipi più complessi,
organizzativamente e tecnologicamente, avverrà - se
avverrà - non in condizioni di laissez faire, ma con
l'ausilio di interventi pubblici nel campo educativo e nel campo
produttivo, a cominciare dall'agricoltura. Ciò presuppone una
riforma della pubblica amministrazione nei paesi del Terzo Mondo e
l'adozione di sistemi fiscali adeguati agli obiettivi di
ammodernamento, e quindi con un minimo di durezze sociali.
7. Conclusioni
Il socialismo, paragonato al capitalismo, si presenta come un
sistema economico più razionale, specialmente nella forma
tipica della pianificazione centrale affidata a un'autorità
dotata di una visione d'insieme. La società capitalistica
ammette invece l'assenza di un progetto unitario, di un disegno
unificante (a parte alcune 'regole del gioco' eguali per tutti), e
favorisce una libertà di iniziativa personale e una
pluralità di scopi, di cui diffida il socialismo
collettivistico.
Anzi, questo socialismo dubita che una collettività senza un
progetto unitario riesca a marciare ordinatamente e non si perda nel
caos. Il mercato capitalistico ha ricevuto ripetute critiche, che
gli negano la capacità di portare l'economia a un armonico
equilibrio e soprattutto a un equilibrio di piena occupazione (il
che è verissimo, nonostante le pretese di alcuni economisti
che scambiano per realtà i loro astrusi modelli matematici).
In effetti, la funzione del mercato di concorrenza non è, in
prima istanza, di equilibrare l'economia, bensì di
squilibrarla con continue innovazioni, con un continuo progresso
tecnologico e merceologico, promosso dalla ricerca del tornaconto
privato. E l'esperienza storica prova che quel progresso si è
bene o male compiuto, pur se pagato coi costi inevitabili
dell'instabilità sociale; e si è compiuto in forme
ordinariamente non caotiche e di beneficio pubblico, nonostante le
motivazioni squisitamente private che ne stanno alla base.
Il progresso, lo sappiamo, non può favorire tutti e subito:
ha le sue vittime, che soffrono per la distruzione del vecchio
provocata dal nuovo. Ma è innegabile che il capitalismo, per
la prima volta nella storia dell'umanità, ha sconfitto la
miseria di massa e migliorato come non mai il salario reale annuo,
pur quando gli orari di lavoro sono diminuiti e l'offerta di lavoro
è stata in rapida ascesa. Ecco risultati che possono
sorprendere, se si postula che il capitalismo sia un sistema dove
l'egoismo individuale è la regola: risultati forse non
intenzionali per tale sistema, eppure inoppugnabili. Perciò
la teoria del capitalismo deve principalmente dar ragione di come,
nel linguaggio arcaico di Bernard de Mandeville, il vizio privato,
quale appunto è in un certo senso l'egoismo, sia talvolta
propizio alla virtù pubblica.
Mandeville argomentava che la fratellanza, la solidarietà,
l'altruismo sono qualità su cui si può contare in
organismi sociali piccoli, chiusi, omogenei e con scopi unitari
preminenti, assai più che nei vasti agglomerati aperti e
pluralistici di individui liberi ed eterogenei, come l'Olanda e
l'Inghilterra tra il Seicento e il Settecento. Né, secondo
lui, questi vasti agglomerati rispondevano bene agli ordini di un
potere centrale, che si arrogasse la supervisione di tutta la vita
nazionale, come la Francia di Luigi XIV e di Colbert tentava di
fare. Occorreva piuttosto trovare il mezzo per porre l'iniziativa
privata e la ricerca particolare del proprio profitto al servizio
del bene comune, ciò che istituzioni come il mercato di
concorrenza parevano in grado di promuovere.
La scuola filosofica scozzese di Adam Ferguson, David Hume e Adam
Smith perfezionerà gli argomenti di Mandeville, e più
ancora vi provvederà la scuola economica austriaca di Carl
Menger, Eugen Böhm-Bawerk, Ludwig von Mises e Friedrich A. von
Hayek, col recente contributo dell'epistemologo Karl Popper.
L'attenzione di tutti questi pensatori, quando si occupano di
scienze sociali, si concentra sugli effetti macroeconomici non
intenzionali provocati da scelte individuali, microeconomiche,
autonome e indipendenti, di solito prive di una visione d'insieme.
Gli errori fanno parte del quadro, ma ne fanno parte pure
conseguenze positive inimmaginate e inimmaginabili, talvolta
addirittura superiori a quelle ottenute con un disegno
esclusivamente razionale e cosciente. Lo sviluppo capitalistico
è un esempio di un grandioso effetto non intenzionale, non
progettato da alcuno, non guidato da alcuno, non teleologico,
perché privo di una meta finale prestabilita e quindi
illimitato o indefinito per sua natura.
Alcune citazioni di Hayek esemplificano le idee cui egli affida la
spiegazione dell'eventuale bontà degli effetti
inintenzionali: "Divenne parte dell'ethos della società
aperta il fatto che fosse meglio investire il proprio patrimonio in
strumenti che rendessero possibile produrre di più a costi
inferiori piuttosto che distribuirlo fra i poveri, o prendersi cura
dei bisogni di migliaia di persone sconosciute piuttosto che
provvedere ai bisogni di pochi vicini conosciuti. Ovviamente queste
idee non si svilupparono perché coloro che le seguirono per
primi capivano che in tal modo conferivano maggiori benefici ai loro
simili, ma perché i gruppi e le società che
così agivano prosperavano più degli altri [...]. Tale
ethos nella sua forma più pura considera come dovere primario
perseguire nel modo più efficace possibile il proprio fine
scelto liberamente, senza preoccuparsi del suo ruolo nella complessa
rete dell'attività umana [...]. Forse la maggiore scoperta
mai fatta dal genere umano fu la possibilità che gli uomini
vivessero insieme, in pace e con vantaggio reciproco, senza dover
concordare su scopi comuni e concreti, ma vincolandosi soltanto con
regole di comportamento astratte" (v. Hayek, 1982; tr. it., pp. 346
e 356).
Nessuno osa sostenere che la teoria del capitalismo, nel punto in
cui è lasciata da Hayek, sia completa e definitiva, o
chiarisca senza ombre se e come nel mercato di concorrenza gli
effetti inintenzionali positivi scaccino sempre quelli negativi con
un costo sociale accettabile. È forse utopico pensare che una
simile dimostrazione possa mai venire, e comunque essa lascerebbe
insoluta la questione se il costo sociale del capitalismo sia
maggiore o minore di quello di sistemi alternativi, ammesso che si
possa scoprire il metro per misurare anche i ricavi. Tutto quel che
si può dire è che oggi il ragionamento e la lezione
della storia hanno sfrondato il giudizio sul capitalismo da equivoci
e incomprensioni di lunga durata. Il capitalismo resta anche troppo
criticabile, ma con argomenti che spesso dovranno essere diversi da
quelli del passato.
[...]
Il dibattito sulle origini del capitalismo
di Alessandro Cavalli
sommario: 1. Cenni storici sulle origini del
concetto di capitalismo. 2. Le origini del capitalismo nel pensiero
di Marx. 3. Le origini dello spirito del capitalismo: Weber e
Sombart. 4. La questione del capitalismo medievale. 5. La nascita
dell'economia-mondo capitalistica. 6. Conclusioni. □
Bibliografia.
1. Cenni storici sulle origini del concetto di
capitalismo
Il dibattito sulle origini del capitalismo si sviluppa lungo tutto
l'arco della storia delle scienze sociali e della storiografia dagli
ultimi decenni dell'Ottocento fino all'epoca attuale. La storia
della "questione delle origini" è vecchia di più di un
secolo. L'interrogativo sulle origini si intreccia con
l'interrogativo sulla natura del capitalismo: chiedersi come e
quando il capitalismo sia nato vuol dire chiedersi che cosa sia.La
stessa storia del termine 'capitalismo' fornisce una traccia per
indagare la storia di questa controversia. Di capitalismo si
incomincia a parlare verso la metà del XIX secolo nelle opere
di coloro che verranno poi chiamati i socialisti "utopisti". Sembra
che il termine compaia per la prima volta negli scritti di Louis
Blanc, mentre Marx lo usa solo come aggettivo per denotare uno
specifico modo di organizzare l'attività economica, vale a
dire il "modo di produzione capitalistico".
Il termine nasce quindi molto dopo il fenomeno che con esso si
intende indicare. Gli studiosi e i pensatori del XVIII secolo e
della prima metà del XIX avevano certo rilevato e descritto
con grande acutezza le imponenti trasformazioni che erano avvenute o
che stavano avvenendo sotto i loro occhi nella sfera economica e
sociale, l'enorme accelerazione che la storia stava subendo nelle
aree cruciali dell'Europa. Come riflesso e conseguenza di tali
trasformazioni era addirittura nata una nuova scienza, l'economia
politica, che si era assunta il compito di elaborare strumenti
teorici per analizzare le leggi del divenire economico. Lo stesso
Adam Smith, che pure offre ne La ricchezza delle nazioni del 1776
un'analisi illuminante e precorritrice della transizione dal
feudalesimo, non aveva avvertito il bisogno di coniare un termine
specifico col quale designare sinteticamente e globalmente il
sistema economico e sociale che era emerso da tali trasformazioni.
L'esigenza di disporre di un concetto di tale natura si presenta
quando la realtà che esso pretende di interpretare ha
già da lungo tempo fatto la sua comparsa. Le ragioni di
questo divario temporale tra concetto e realtà sono da
rintracciare nel fatto che i pensatori che 'scoprono' l'esistenza
del capitalismo come oggetto di studio e di riflessione sono gli
stessi che ne prevedono e annunciano la prossima fine. Agli occhi di
costoro l'ordine economico e sociale esistente appare minato da
crisi profonde che risultano dal conflitto delle forze che esso
stesso ha generato. Tale ordine appare nella sua storicità
come qualcosa che è inevitabilmente destinato a finire.
Coloro, invece, che ritenevano l'ordine economico e sociale nato dal
tramonto del feudalesimo come fondamentalmente stabile, oppure come
passibile di ulteriori sviluppi all'infinito, non sentivano
l'esigenza di un concetto di capitalismo inteso come configurazione
dotata di una specifica individualità storica. La nozione di
capitalismo fa la sua comparsa nella storia del pensiero sociale
quando ci si interroga sul suo destino, quando ci si chiede che cosa
succederà a esso. Se il capitalismo è destinato a
finire vuol dire che si tratta di un fenomeno storico e che di esso
si può scrivere la storia lungo un percorso che ha un inizio
e avrà una fine. La questione delle origini si presenta
quindi nell'orizzonte culturale del pensiero socialista, di coloro
cioè che parlano di crisi, di declino, oppure addirittura di
crollo del capitalismo.Il concetto viene dapprima accolto con
sospetto; la matrice ideologica dalla quale è nato sembra
impedirne un utilizzo in sede di discorso scientifico. Tuttavia il
concetto ha fortuna e viene fatto proprio in un secondo tempo anche
da coloro che, lungi dal prevedere la fine del capitalismo, ne
celebrano i continui successi, per diventare quindi uno strumento
concettuale della ricerca storica, economica e sociologica quando si
avverte l'esigenza di un termine che esprima sinteticamente i tratti
comuni di un insieme assai disparato di fenomeni, tipici dello
sviluppo economico e sociale dell'Occidente.
Del dibattito sulle origini del capitalismo analizzeremo alcuni
momenti salienti: partiremo da Karl Marx, da Max Weber e da Werner
Sombart, affronteremo quindi la questione se sia esistito un
capitalismo medievale sulla scorta dei lavori degli storici
economici nei primi decenni del secolo, considereremo poi la ripresa
del dibattito sulle origini nel marxismo occidentale del secondo
dopoguerra, per accennare infine agli sviluppi più recenti.
2. Le origini del capitalismo nel pensiero di Marx
Marx, come si è detto, usa il termine 'capitalismo' solo come
aggettivo per indicare uno specifico "modo di produzione". La storia
per Marx vede una successione di modi di produzione, ognuno dei
quali è determinato da un particolare assetto, da un lato
delle forze produttive (nelle quali si esprime lo stadio di sviluppo
delle tecnologie e delle capacità umane a esse associate) e
dall'altro dei rapporti sociali di produzione (cioè dei
rapporti giuridico-politici che definiscono le forme della
proprietà dei mezzi e delle condizioni della produzione). Per
interi periodi storici forze produttive e rapporti sociali di
produzione si integrano in modo coerente e si rafforzano
reciprocamente. Sono i periodi in cui un modo di produzione è
stabile. In altri periodi, invece, lo sviluppo delle forze
produttive viene frenato dai rapporti di produzione esistenti e gli
elementi costitutivi del modo di produzione entrano in
contraddizione. In questi periodi si genera un conflitto insanabile
di interessi tra le classi che difendono i vecchi rapporti di
produzione e le classi che esprimono le istanze di sviluppo delle
forze produttive. Sono i periodi di transizione tra un modo di
produzione e il successivo. Come è noto, questa concezione
"dialettica" serviva a Marx per spiegare come si sarebbe passati
dalle contraddizioni interne del capitalismo all'avvento del
socialismo. Il problema dell'analisi della transizione dal
capitalismo al socialismo evoca però immediatamente un altro
problema, quello della transizione dal feudalesimo al capitalismo,
vale a dire il problema delle origini del capitalismo. Mentre
però Marx per spiegare la prima transizione parte
dall'analisi delle contraddizioni interne del capitalismo
(cioè dal termine a quo), per spiegare la seconda parte da
un'analisi dei presupposti del capitalismo (cioè dal termine
ad quem). Tali presupposti sono da un lato la presenza di una massa
di lavoratori 'liberi' provenienti dalle campagne, privi di terra,
di mezzi di lavoro e di sussistenza, dall'altro una massa di
capitale pronto ad acquistare forza-lavoro e metterla al suo
servizio.
Marx non formula una teoria della crisi del modo di produzione
feudale dalla quale si sarebbero liberati i presupposti del
capitalismo. Per spiegare la loro genesi egli deve ricorrere all'
"arcano della cosiddetta accumulazione originaria", che condurrebbe
all'espropriazione dei contadini e degli artigiani, all'espulsione
violenta dei contadini dalla terra (ad esempio mediante le
enclosures), in breve alla separazione dei lavoratori dalla
proprietà delle condizioni di lavoro, da un lato, e
dall'altro all'accumulazione di ingenti somme di danaro mediante il
commercio coloniale di rapina, il debito pubblico e la pressione
fiscale. L'attore che mette in moto i processi di accumulazione
originaria è lo Stato ("violenza concentrata e organizzata
della società - come si legge nel XXIV capitolo del I Libro
del Capitale - per fomentare artificialmente il processo di
trasformazione del modo di produzione feudale in modo di produzione
capitalistico e per accorciare i passaggi").
L'azione dello Stato, tuttavia, uno Stato che non è
più uno Stato feudale ma non è ancora uno Stato
borghese, ha esclusivamente la funzione di accelerare processi che
dovevano già essere in atto: da un lato la formazione di una
classe di piccoli produttori indipendenti, sia contadini sia
artigiani, che gradualmente si liberano dai vincoli feudali nelle
campagne e dai vincoli delle corporazioni nelle città e si
trasformano quindi in piccoli capitalisti; dall'altro lato la
formazione di una classe di ricchi mercanti che operano sul mercato
che si è aperto su scala mondiale alla fine del XV secolo.Il
primo processo opera nella sfera della produzione, il secondo nella
sfera della circolazione. I due processi devono però agire
congiuntamente per consentire il pieno sviluppo del modo di
produzione capitalistico. Se si fosse dovuta aspettare la crescita
graduale dei piccoli produttori, che a poco a poco allargavano le
dimensioni delle proprie attività produttive, il processo
sarebbe progredito - come scrive Marx - "al passo di lumaca", la
transizione si sarebbe protratta per un tempo infinito. E d'altronde
lo sviluppo indipendente e isolato del capitale commerciale
(così come era avvenuto nell'antichità rispetto
all'economia schiavistica) avrebbe piuttosto consolidato invece che
disgregato il vecchio modo di produzione feudale (com'era in parte
avvenuto nelle città italiane del Medioevo e più tardi
nelle regioni dell'Europa orientale). È stata quindi la
combinazione dei due processi, accelerata dal ruolo dello Stato
nell'accumulazione originaria, a scatenare secondo Marx la dinamica
del nuovo modo di produzione.
Entrambi i processi sono indispensabili e interdipendenti, tuttavia
a seconda che nella combinazione prevalga il primo oppure il secondo
gli esiti saranno diversi. Marx parla, infatti, in un passo che
è stato frequentemente ripreso nelle discussioni successive
(Il capitale, Libro III, cap. XX), dell'esistenza di due vie: "Il
passaggio dal modo di produzione feudale si compie in due maniere.
Il produttore diventa commerciante e capitalista, si oppone
all'economia agricola naturale e al lavoro manuale stretto in
corporazioni dell'industria medievale urbana. Questo è il
cammino effettivamente rivoluzionario. Oppure il commercio si
impadronisce direttamente della produzione. Quest'ultimo
procedimento, pur rappresentando storicamente una fase di
transizione [...] non porta in sé e per sé alla
rivoluzione dell'antico modo di produzione". Questo passo è,
come vedremo, molto importante perché indica come in Marx non
vi sia una spiegazione unica della genesi del capitalismo. Egli
postula l'esistenza di almeno due vie e apre quindi il campo a una
spiegazione più articolata che suggerisce l'esigenza di
un'analisi comparativa.
3. Le origini dello spirito del capitalismo: Weber
e Sombart
Per Weber il problema delle origini del capitalismo non si risolve
spiegando come si siano formati da un lato il capitale e dall'altro
il lavoro salariato. Già l'antichità e il Medioevo
avevano conosciuto, in forme diverse, sia l'uno che l'altro; il
fenomeno da spiegare è piuttosto come mai solo in Occidente,
nei secoli XVI e XVII, coloro che disponevano di capitali accumulati
in forma monetaria furono indotti a impiegarli in modi
qualitativamente diversi e rivoluzionari rispetto al passato.
L'elemento nuovo da spiegare è quindi l'emergere di una
condotta orientata al guadagno, che sfrutta le opportunità di
mercato mediante l'organizzazione razionale dell'impresa. Non
possiamo parlare di capitalismo, per Weber, se non quando compare e
si afferma l'impresa capitalistica, vale a dire l'organizzazione
razionale del lavoro libero dalle obbligazioni di carattere
servile.L'impulso acquisitivo non ha nulla di specificamente
capitalistico. Esso è diffuso in tutte le società, in
tutte le epoche e in tutti i ceti sociali. Il capitalismo, scrive
Weber nelle pagine iniziali del famoso saggio sull'Etica protestante
e lo spirito del capitalismo, "può addirittura essere
identico con la coercizione o almeno con il temperamento razionale
di questo impulso irrazionale". Lo stesso grande commercio
medievale, dal quale pure sono nate le forme giuridiche che in
seguito ha assunto l'impresa capitalistica, era orientato
prevalentemente a lucrare sulle differenze di prezzo esistenti tra
un luogo e l'altro, era quindi eminentemente speculativo e
irrazionale, reso possibile dall'assenza di un vero e proprio
mercato internazionale.
L'istituzione distintiva del capitalismo è quindi l'impresa
razionale che produce merci per il mercato in vista di un profitto
da reinvestire nell'impresa stessa. Il terreno di sviluppo
dell'impresa è la produzione industriale ed è solo da
quando il nuovo spirito si impadronisce della produzione industriale
che possiamo datare la nascita del capitalismo: "I portatori -
scrive Weber - di quel nuovo modo di sentire che abbiamo definito
'spirito del capitalismo' non furono affatto esclusivamente o
prevalentemente gli imprenditori capitalistici del patriziato
commerciale, ma piuttosto gli strati in ascesa del ceto medio
industriale". Si tratta di uomini nuovi, di parvenus, che assumono
un orientamento radicalmente innovativo, improntato a
sobrietà e razionalità, verso l'attività
economica.
Una componente essenziale della spiegazione della genesi del
capitalismo deve pertanto dar conto di come questo nuovo spirito sia
nato: è a questo punto che Weber avanza l'ipotesi suggestiva
che questo nuovo spirito si sia formato nel clima culturale delle
sette protestanti di matrice calvinista, che predicavano una
condotta di vita fondata sul controllo degli impulsi irrazionali e
volta al perseguimento del successo mondano come segno della grazia
divina. Tradotto in termini di etica economica, tale orientamento
risultò inintenzionalmente del tutto congeniale al
perseguimento del fine astratto della massimizzazione del profitto
di lungo periodo dell'impresa capitalistica.
Quest'ipotesi di Weber è stata da molti, ed erroneamente,
interpretata come il tentativo di contrapporre a una spiegazione
materialistica e strutturalistica della genesi del capitalismo una
spiegazione spiritualistica e culturalistica. Egli vuol soltanto
dimostrare l'esistenza di una singolare "affinità elettiva"
tra l'etica delle sette calviniste (che ricostruisce minuziosamente
sulla base dei testi dei predicatori, più vicini al modo di
sentire comune, piuttosto che sui testi teologici dei fondatori) e
lo spirito del capitalismo. Una volta che l'impresa si è
affermata come modello generalizzato di organizzazione
dell'attività economica, essa non richiede più la
presenza di un sostegno soggettivo di origine religiosa. Tutti
coloro che operano sul mercato finiscono inevitabilmente, anche
contro la loro volontà, per essere condizionati da questo
'spirito': è l'impresa stessa, come formazione oggettiva, a
riprodurre continuamente i motivi soggettivi che ne garantiscono
l'esistenza.
La spiegazione delle origini del capitalismo non si esaurisce
tuttavia nella spiegazione della genesi dello spirito del
capitalismo. È soltanto in un ciclo di lezioni tenute poco
prima della morte, e pubblicate postume col titolo di
Wirtschaftsgeschichte, che Weber ci offre un modello esplicativo
articolato e complesso delle origini del capitalismo. In quest'opera
l'etica protestante rimane come elemento decisivo per la spiegazione
di uno soltanto dei fattori la cui compresenza è necessaria
perché si possa parlare di capitalismo. Il concetto stesso di
capitalismo deve venir allargato per comprendervi una
pluralità di componenti: la proprietà privata dei
mezzi di produzione; una classe di lavoratori senza
proprietà, liberi di vendere la propria forza-lavoro e
costretti a farlo "sotto la frusta della fame"; la libera
circolazione di beni e fattori di produzione, senza restrizioni
irrazionali di ordine politico o monopolistico; un ordinamento
giuridico e amministrativo razionale che garantisca la
prevedibilità e l'efficacia delle regole del mercato; l'uso
di tecnologie razionali, sia nella produzione sia nelle procedure
amministrative e contabili, tali da assicurare una gestione fondata
sul calcolo del reddito e del capitale. Per spiegare la genesi di un
sistema così articolato bisogna far ricorso sia a fattori di
ordine culturale che influenzano gli orientamenti, gli atteggiamenti
e le motivazioni dell'agire economico, sia a fattori di ordine
istituzionale. Tra questi ultimi risulta di decisiva importanza la
formazione dello Stato burocratico moderno, fondato su un
ordinamento legale-razionale, sul concetto di cittadinanza, sul
monopolio della violenza, sul monopolio monetario e fiscale, sulla
presenza di un corpo di funzionari stipendiati.
La nascita del capitalismo non è imputabile a un unico
fattore, ma a una costellazione di fattori, anzi a una singolare
combinazione di fattori che si è realizzata soltanto nelle
regioni nordoccidentali dell'Europa tra i secoli XVI e XVII.
Altrove, in altri paesi e in altre epoche, ad esempio nell'Italia
medievale e rinascimentale, molti di questi fattori erano presenti e
sviluppati, ciò che mancava era la loro combinazione.
L'ultimo Weber non ridimensiona quindi l'ipotesi dell'etica
protestante, la inserisce piuttosto in un modello esplicativo
plurifattoriale, sulla base del quale egli imposta una serie di
ricerche comparative volte a spiegare come mai il capitalismo, nella
sua configurazione di capitalismo moderno, sia nato soltanto in
Europa e non altrove, come in Cina, dove pure erano presenti molti
prerequisiti per il suo sviluppo.Le tesi weberiane hanno avuto
grande risonanza e suscitato un nutrito dibattito: K. Kautsky, R.
Tawney, C. Hill, K. Samuelsson, H. R. Trevor-Roper e, in Italia, A.
Fanfani e L. Pellicani, tra gli altri, hanno posto in discussione
questo o quel punto dell'argomentazione di Weber, sia sul piano
teorico, sia sul piano storiografico. In particolare, le discussioni
hanno riguardato se, e in che misura, le tesi weberiane possano
essere interpretate come una confutazione dell'impostazione
marxiana. Non è possibile in questa sede entrare nel
dettaglio di questo dibattito. Sembra tuttavia possibile concludere
che sia Marx che Weber pongono l'accento sul fatto che non si
può parlare di capitalismo fino a quando non incominciano a
trasformarsi in modo radicale le strutture produttive. Entrambi
avanzano seri dubbi sul fatto che i grandi commerci a lunga
distanza, che hanno condotto all'accumulazione di ingenti somme di
capitale mercantile almeno dal XIII secolo in poi, possano di per
sé essere considerati forme capitalistiche. Il capitalismo
moderno si differenzia dalle forme precedenti di capitalismo proprio
per il fatto che il suo dominio si estende alla sfera della
produzione di merci e non rimane circoscritto alla sfera della
circolazione. Non si può parlare di capitalismo, quindi,
prima del XVI secolo.
Negli stessi anni in cui Weber lavora sulle origini dello spirito
del capitalismo nell'etica protestante esce il primo volume della
monumentale opera di Werner Sombart, Der moderne Kapitalismus
(1902). Quest'opera è assai importante perché con essa
il termine capitalismo entra definitivamente a far parte del
bagaglio della ricerca storiografica e sociologica. Per Sombart,
come per Weber, si tratta di spiegare la nascita dello spirito del
capitalismo, nel quale egli sottolinea la presenza di una duplice
componente: l'orientamento acquisitivo, che indirizza
l'attività economica verso l'accumulazione di ricchezza e non
più soltanto verso il soddisfacimento dei bisogni, e la
razionalità nella condotta degli affari, che infrange i
condizionamenti della tradizione. La nascita di questo spirito
corrisponde alla formazione di un nuovo gruppo sociale costituito
dagli imprenditori capitalistici. L'origine sociale di questo gruppo
non è omogenea; essi possono essere reclutati da tutti i ceti
sociali (nobili, mercanti, artigiani, contadini), ma soprattutto da
gruppi sociali marginali come gli Ebrei, gli eretici e gli
stranieri, poiché le condizioni di marginalità sociale
favoriscono la rottura della tradizione e aprono la strada
all'innovazione. Il mercante medievale non è ancora un
imprenditore capitalistico. Anche se i suoi traffici si svolgono su
lunghe distanze e se ha creato forme associative che precorrono le
moderne società di capitali, l'orizzonte delle sue mete resta
vincolato alla tradizione e le sue pratiche non escono dai rigidi
confini tracciati dalle norme delle gilde mercantili volte
essenzialmente a impedire la concorrenza tra gli associati.
Bisognerà aspettare il Rinascimento, quando il ceto dei
mercanti si intreccia con il patriziato urbano e il capitale
mercantile con la rendita fondiaria urbana, per veder affiorare i
tratti del nascente spirito borghese. Per Sombart è Leon
Battista Alberti il vero precursore del moderno imprenditore
capitalistico, ma si tratta, appunto, soltanto di un precursore che
testimonia del fatto che il capitalismo non è ancora nato.
La tematica sombartiana della formazione
dell'imprenditorialità fu ripresa in seguito da quegli
storici, economisti e sociologi per i quali la nascita del
capitalismo corrisponde all'irrompere dell'innovazione nei suoi
aspetti tecnologici, organizzativi e culturali. Basta ricordare, tra
tutti, J. A. Schumpeter, per il quale l'origine e il destino del
capitalismo sono indissolubilmente legati all'emergere e al declino
della funzione innovativa dell'imprenditore.
4. La questione del capitalismo medievale
Le tesi di Sombart si opponevano agli assunti di certa storiografia
romantica, soprattutto tedesca, per la quale le origini del mondo
moderno, e quindi anche del capitalismo, non erano da rintracciare
nell'epoca recente delle rivoluzioni borghesi, ma ben più
indietro nei secoli; essa tesseva l'apologia del mercante medievale
come precursore del moderno capitano d'industria.Tra coloro che
reagirono vivacemente alle tesi di Sombart si possono ricordare
Brentano e Dopsch. Per Lujo Brentano (v., 1916) già le
spedizioni dei Crociati erano organizzate su base capitalistica ed
è allora che nasce il moderno spirito mercantile. Per Dopsch
(v., 1930) già il periodo carolingio appartiene all'era
capitalistica, poiché in esso riprende con slancio la
tendenza all'accumulazione illimitata della ricchezza, sia in forma
reale (soprattutto la terra) sia in forma monetaria. Appare chiaro
che l'oggetto di cui questi autori vogliono ricercare le origini non
è sempre lo stesso: per Brentano la nascita del capitalismo
coincide con l'avvento e lo sviluppo dell'economia monetaria a
scapito dell'economia naturale, per Dopsch risulta capitalistica
ogni forma di accumulazione della ricchezza. Quanto più
remote le origini, tanto più generico il concetto di
capitalismo utilizzato; il concetto stesso perde la capacità
di individuare fenomeni storicamente specifici e le origini del
capitalismo si perdono quindi nella notte dei tempi.
Nel dibattito sul capitalismo medievale la posizione forse
più interessante fu assunta da H. Pirenne, se non altro per
il fatto che è stata ripresa molte volte in seguito, anche
nelle discussioni più recenti. Contrariamente a Marx e a
Weber, per Pirenne le origini del capitalismo sono strettamente
legate alla ripresa degli scambi mercantili nel tardo Medioevo. Il
capitalismo nasce quando il commercio cessa di essere
un'attività occasionale (come lo era nelle corti feudali),
oppure un'attività di rapina (come lo era quello dei
Crociati), e diventa un'attività professionale e continuativa
di un nuovo ceto mercantile che contribuisce in modo decisivo al
rifiorire della vita delle città, praticamente estinta nei
lunghi secoli dell'alto Medioevo, e che lotta contro l'ordine
feudale per affermare la propria autonomia. Non bisogna confondere,
avverte Pirenne, Medioevo e feudalesimo: vi è un primo
Medioevo in cui la ricchezza, nelle mani dell'aristocrazia feudale,
non circola e non si trasforma in capitale, e vi è un tardo
Medioevo in cui l'asse si sposta verso le città dove si
intrecciano le correnti dei traffici mercantili. Le città
tardo-medievali, prima in Italia e poi nei paesi dell'Europa
settentrionale, sono per Pirenne il luogo di nascita del
capitalismo.
Le tesi di Pirenne furono riprese nel secondo dopoguerra
dall'economista marxista americano Paul Sweezy in un saggio ormai
famoso, pubblicato nel 1950 sulla rivista "Science and society": in
esso Sweezy polemizza con i risultati delle ricerche di Maurice
Dobb, uno storico marxista inglese, pubblicati qualche anno prima in
un libro altrettanto famoso, Studies in the development of
capitalism (1946). Dobb aveva sostenuto che i grandi mercanti e
banchieri dal XIII al XV secolo non potevano essere considerati
esponenti di una nascente borghesia capitalistica; essi
commerciavano in denaro, in beni di lusso e in armi per soddisfare i
bisogni di un'aristocrazia feudale le cui rendite erano sempre
più insufficienti per coprire le spese delle corti signorili.
Il loro contributo alla nascita del capitalismo fu decisivo solo nel
senso che, come classe parassitaria, favorirono l'indebolimento
economico della nobiltà fondiaria feudale. Il capitalismo non
sarebbe nato senza la formazione autonoma di una classe di piccoli e
medi produttori di merci, reclutati tra le fila dei contadini
benestanti (gli yeomen) e della piccola nobiltà (la gentry),
che diedero vita alle prime manifatture, fondate sul lavoro
salariato e svincolate dalle restrizioni imposte dagli ordinamenti
delle corporazioni. Fu questa classe a esercitare un ruolo
economicamente e politicamente rivoluzionario, capace di spezzare la
logica di funzionamento dell'economia feudale e del lavoro servile.
Sweezy, invece, richiamandosi esplicitamente a Pirenne, parte da una
concezione del feudalesimo come sistema di produzione statico, volto
esclusivamente alla copertura dei bisogni dettati dal costume e
dalla tradizione, incapace di innovazione nelle tecniche e nei
metodi di produzione e quindi ostile a ogni tendenza
all'accumulazione. Tale sistema risulta incompatibile con l'economia
di scambio e quindi la causa primaria del suo declino deve essere
ricercata nello sviluppo dell'economia urbana che cresce nel suo
seno come una specie di corpo esterno. Un sistema statico è
un sistema privo di contraddizioni interne e può essere messo
in crisi soltanto quando al suo esterno si sviluppa un sistema
più efficiente e razionale che trova il suo fulcro nelle
città.
Ciò non vuol dire, però, che i secoli che vedono uno
sviluppo prorompente dei commerci e la fioritura delle città
(grosso modo dal XIII al XVI secolo) siano già secoli
capitalistici. Sweezy propone di chiamare il sistema economico di
questo periodo intermedio di transizione, non più feudale ma
non ancora capitalistico, "sistema mercantile precapitalistico". Non
è possibile in questa sede richiamare nel dettaglio i vari
interventi che si sono succeduti nel dibattito seguito alla
contrapposizione tra Dobb e Sweezy. Al centro di questo dibattito si
collocano comunque due interrogativi fondamentali: 1) se e come il
capitale mercantile abbia o meno esercitato una funzione di
disgregazione dell'ordinamento economico e politico feudale; 2) se e
come il capitale mercantile abbia costituito una premessa
indispensabile per lo sviluppo del capitalismo industriale.È
probabilmente impossibile dare a questi interrogativi una risposta
univoca e trovare una soluzione che si applichi a situazioni
storicamente diverse: dall'Italia del tardo Medioevo ai Paesi Bassi
e alle Fiandre, dall'Inghilterra dei secoli XVI e XVII all'Europa
orientale e al Giappone. Un modello adeguato di spiegazione delle
origini del capitalismo deve essere in grado di dar conto del fatto
che i punti di partenza e i punti di arrivo del processo sono
diversi in paesi e in epoche diverse. Tale modello può
risultare pertanto solo da un'analisi storico-comparativa che tenga
conto sia delle specifiche condizioni storiche in cui il capitalismo
è comparso - oppure non è comparso - nei vari paesi,
sia dei rapporti di interdipendenza generati dallo sviluppo
capitalistico su scala mondiale.Già H. K. Takahashi, uno
storico giapponese di tendenza marxista, aveva sottolineato come in
Giappone la formazione del capitalismo avvenne seguendo un percorso
opposto a quello dell'Europa occidentale, cioè essenzialmente
attraverso la trasformazione del capitale commerciale e
monopolistico in capitale industriale, sotto il controllo dello
Stato feudale, senza che venisse intaccata la struttura della
proprietà feudale e si desse la formazione di un ceto
borghese libero e indipendente. E, analizzando le differenze dello
sviluppo industriale della Russia e dell'Europa occidentale, A.
Gerschenkron aveva avvertito come bisognasse accuratamente tenere
distinti i casi dei paesi first comers (dove cioè il
capitalismo era nato per primo) da quelli dei paesi late comers
(dove cioè la nascita del capitalismo non solo era stata
ritardata, ma era avvenuta in un contesto economico mondiale
trainato dai primi).
5. La nascita dell'economia-mondo capitalistica
Il dibattito sul capitalismo medievale aveva messo in luce i limiti
di una visione troppo eurocentrica del problema delle origini del
capitalismo: non solo bisognava trovare una spiegazione al fatto che
all'interno dell'Europa lo sviluppo era stato molto diseguale nei
diversi paesi, ma bisognava pure spiegare come e perché il
capitalismo si fosse sviluppato altrove tardivamente e seguendo
percorsi diversi.
Un contributo importante alla risposta a questi interrogativi
è venuto dalla monumentale opera di Fernand Braudel,
Civilisation matérielle, économie et capitalisme
(1979), e dal lavoro di Immanuel Wallerstein The modern
world-system. Anche Braudel si riallaccia alle tesi di Pirenne sulle
origini mercantili del capitalismo moderno; i primi capitalisti si
curavano assai poco del sistema con cui venivano prodotte le merci
che vendevano e comperavano e la produzione artigianale accompagna
il capitalismo per un lungo tratto della sua esistenza. Rispetto a
Pirenne egli richiama però la necessità di operare una
distinzione più netta tra commercio locale (esercitato da una
miriade di piccoli negozianti) e commercio a lunga distanza,
esercitato da un gruppo ristretto di mercanti ricchi e politicamente
influenti. Solo in questi ultimi si possono riconoscere i tratti del
capitalismo, in quanto essi tengono le fila di un sistema di scambi
che va oltre i confini di ogni singolo Stato. Il capitalismo
è infatti, fin dalle origini, un'economia-mondo.
Un'economia-mondo è caratterizzata da tre elementi: a) occupa
uno spazio geografico che abbraccia una pluralità di Stati
territoriali; b) è governata da un polo centrale che
storicamente si sposta nello spazio (da Venezia e Genova nel XIV e
XV secolo, verso Amsterdam nel XVI e XVII, Londra nel XIX e New York
nel XX); c) si articola in zone successive che vanno dal centro (il
cuore) alle aree intermedie (la semiperiferia) e alla periferia. Lo
spostamento del centro (décentrage, récentrage) dal
Mediterraneo al Mare del Nord e infine all'Oceano Atlantico segna i
momenti di crisi e nello stesso tempo le tappe fondamentali dello
sviluppo dell'economia-mondo capitalistica: il capitalismo non ha un
solo luogo e una sola data di nascita, poiché ogni volta che
il suo centro si sposta è come se rinascesse in una forma
nuova. Wallerstein mutua direttamente da Braudel il concetto di
economia-mondo capitalistica, intesa come un sistema che si estende
oltre i confini di ogni Stato, fino a comprendere l'area coperta
dalla rete degli scambi internazionali. All'interno
dell'economia-mondo si sviluppa - a partire grosso modo dal 1450 -
un sistema di divisione del lavoro tra aree centrali,
semiperiferiche e periferiche, in base al quale non tutti i beni che
entrano in circolazione sono prodotti da imprese che adottano
rapporti capitalistici di produzione. I rapporti di produzione di
tipo feudale o schiavistico che sopravvivono all'interno
dell'economia-mondo capitalistica non sono pure sopravvivenze di
modi di produzione precedenti, destinati a estinguersi nel processo
di sviluppo del capitalismo. La ripresa del lavoro servile
nell'Europa orientale, conseguente all'apertura del mercato mondiale
alla produzione cerealicola di quelle aree, oppure lo sviluppo della
schiavitù nelle piantagioni di cotone, zucchero e
caffè del continente americano, non costituiscono residui di
un passato remoto, ma sono il prodotto della divisione del lavoro
nell'economia-mondo capitalistica. Il capitalismo quindi
produrrà effetti diversi a seconda che una regione si
collochi al centro oppure alla periferia del sistema.A questo punto
anche Wallerstein si pone l'interrogativo: come mai l'economia-mondo
si è affermata in Europa e non, ad esempio, in Cina? La
risposta è che mentre l'Europa tra il XV e il XVI secolo era
una nascente economia-mondo composta di piccoli imperi, di Stati
nazionali e di città-Stato, la Cina era invece un grande
Impero continentale e, mentre in Europa il sistema feudale aveva
comportato lo smantellamento della struttura imperiale, in Cina il
sistema delle prebende aveva contribuito a mantenerla e a
rafforzarla. La pluralità degli Stati gioca in Europa come un
potente fattore di sviluppo economico e tecnologico, la
solidità dell'Impero ostacola invece in Cina la formazione di
una rete estesa di commercio internazionale e l'accumulazione di
capitale.
Non esiste quindi un unico processo di transizione al capitalismo,
ma una pluralità di processi, ognuno dotato di una propria
specificità spazio-temporale a seconda della collocazione,
centrale, periferica o esterna all'economia-mondo capitalistica; i
diversi processi avvengono nel quadro di una rete di interdipendenze
costituita dalla presenza di un sistema mondiale gerarchizzato al
suo interno. La pluralità delle vie della transizione non
rispecchia dunque soltanto la specificità delle condizioni
storiche locali, il retaggio di passati diversi, ma anche la
specificità della collocazione dei singoli paesi in un
sistema mondiale che condiziona modalità e tempi dello
sviluppo.
Di recente, anche uno studioso italiano, L. Pellicani (v., 1988), ha
cercato di spiegare come mai il capitalismo sia nato in Europa e non
in Oriente. Per Pellicani fu l'intrinseca debolezza dello Stato
feudale a preservare l'Europa dall'esperienza degli imperi
totalitari di stampo orientale, che con la libertà politica
avevano soffocato anche i commerci e la vita delle città. Il
feudalesimo non riuscì invece a impedire che in Europa (e
prima di tutto in Italia) si sviluppasse l'esperienza del tutto
originale delle città-Stato, che quindi sono da considerare
come la vera culla del capitalismo.
6. Conclusioni
La data di nascita del capitalismo oscilla dunque a seconda delle
varie tesi lungo l'arco di tempo che va dal X al XVII secolo. Il
problema appare ben lungi dall'essere risolto. Il dibattito dura
ormai da più di un secolo e tutto lascia prevedere che
continuerà anche in futuro. Ogni generazione di studiosi pone
in modo nuovo vecchi interrogativi e ne formula di nuovi. In questo,
come in altri campi, la ricerca è senza fine, nonostante il
processo graduale e continuo di accumulazione del sapere. Ciò
è dovuto al fatto che la domanda sulle origini del
capitalismo corrisponde in gran parte alla domanda sulle origini del
mondo attuale, e quindi le risposte che a essa vengono date
risultano inevitabilmente connesse all'orientamento che ogni
studioso adotta nei confronti del tempo presente.
Enciclopedia del Novecento II Supplemento (1998)
di Sergio Ricossa
Capitalismo
sommario: 1. Privato e pubblico nel
capitalismo. 2. Profitti e capitalisti. 3. L'organizzazione
capitalistica. 4. Il capitalismo finanziario. 5. Conclusioni. □
Bibliografia.
1. Privato e pubblico nel capitalismo
Non a torto Walt W. Rostow (v. capitalismo,
1975) considerava ‛fuorviante' legare il concetto di capitalismo
alla prevalenza, in un sistema produttivo, della proprietà
privata del capitale e del libero mercato; fuorviante perché
così si viene a contrapporre una economia basata
sull'iniziativa individuale a una economia pubblica o collettiva. La
contrapposizione non c'è sempre stata, e forse c'è
sempre meno. È vero che, come da storico osservava Fernand
Braudel, i politici non hanno costruito il capitalismo, ma lo hanno
ereditato; tuttavia, i periodi e i luoghi del trionfo capitalistico
corrispondono di regola a casi in cui il potere economico e il
potere politico hanno coinciso o almeno si sono integrati
armoniosamente.
La prima grande fase del capitalismo europeo si manifesta a partire
dal XIII secolo nelle città-Stato italiane, a Venezia,
Genova, Firenze, dove ‟è l'élite del denaro
che tiene il potere". Più tardi, ‟nell'Olanda del XVII
secolo, l'aristocrazia dei reggenti governa secondo gli interessi e
persino secondo le direttive degli uomini d'affari, mercanti o
finanzieri. In Inghilterra, la Glorious revolution del
1688 segna, a un tempo, l'avvento di un nuovo corso politico e
l'affermazione di un nuovo modo di condurre gli affari, simile a
quello adottato dagli Olandesi" (v. Braudel, 1977; tr. it., pp.
76-77). Più tardi ancora, e in un altro continente, la
definizione di paese plutocrate affibbiata agli Stati Uniti non
è soltanto una esagerazione polemica, ma approssima la
realtà locale in alcune sue modalità, così come
l'approssima nel Giappone d'oggi.
Ben inteso, lo Stato moderno può favorire il capitalismo o al
contrario esserne il parassita, ostacolarlo e addirittura
asservirlo. Quando Rostow afferma che le nazioni capitalistiche
arrivano a versare nelle casse dell'erario pubblico fino al 35% del
prodotto nazionale lordo, egli si rifà a dati del periodo
1955-1957. Da allora, la pressione fiscale è rapidamente
salita ovunque, portandosi nell'Europa occidentale vicina al 50%, a
un livello più alto che negli Stati Uniti e in Giappone. Se
metà del prodotto nazionale lordo passa nelle mani dei
politici, e se costoro giustificano l'entità del prelievo con
l'intento di costruire uno ‛Stato sociale' (Welfare State),
che fra l'altro dovrebbe trasferire risorse dai ricchi ai poveri,
è difficile mantenere cordiali i rapporti tra lo Stato e i
capitalisti.
L'alta pressione fiscale inevitabilmente grava anche sui profitti.
Inoltre lo Stato sociale, insaziabile, esige sovente
un'accumulazione del debito pubblico tanto massiccia da rendere
necessario innalzare i tassi di interesse, a danno degli
imprenditori privati bisognosi di credito. Le esigenze del tesoro
dello Stato entrano in conflitto con quelle delle imprese
economiche, le quali tentano di difendersi minacciando di licenziare
le maestranze in soprannumero per colpa dell'‛avidità
pubblica' nell'appropriarsi dei mezzi finanziari. Ma la
disoccupazione, è ovvio, in quanto grave male sociale,
obbliga a ulteriori interventi pubblici di sollievo, a ulteriori
spese assistenziali, a ulteriori rischi di inflazione.
A questo punto, la strada del capitalismo attuale si biforca. Da un
lato ci si dirige verso soluzioni di compromesso tra esigenze
private ed esigenze pubbliche: i capitalisti chiedono - e in qualche
misura ottengono - sovvenzioni, crediti agevolati, protezioni dalla
concorrenza estera, e così via; e nel medesimo tempo si
sforzano, ove possibile, di ridurre i costi col ricorso intenso al
progresso tecnologico. Dall'altro lato i politici sacrificano il
mercato, che produce e vende merci per il consumo a scelta delle
famiglie, e avvantaggiano il cosiddetto consumo pubblico per
soddisfare bisogni collettivi, cui il mercato non bada, mentre vi
bada lo Stato sociale con la sua attività senza fini di
lucro.
La seconda strada comporta, da parte dei politici (e degli
intellettuali loro alleati), la lotta al ‛consumismo' e la
predicazione dell'‛austerità', cioè la proposta di una
società sobria nella quale un voluto ‛contenimento della
dinamica salariale', oltre che la tassazione dei profitti, precluda
la marcia delle famiglie nella direzione di compere giudicate dai
moralisti sempre più frivole, inappaganti, meri effetti
perniciosi della pubblicità commerciale. Al contrario, il
moderno capitalismo consumistico, ‛fordista', conta sulla
pubblicità commerciale, sulla continua innovazione
merceologica e sugli alti (relativamente) salari per trasformare i
lavoratori in ottimi clienti, che assorbano la produzione di massa
consentita dalle macchine di ogni tipo, comprese le macchine per le
telecomunicazioni (per esempio la televisione).
Qui vi è un paradosso. Lo Stato sociale - nato per difendere
la parte ‛debole' (i lavoratori) dalla parte ‛forte' (i datori di
lavoro) - d'accordo coi sindacati chiede talvolta ai lavoratori dei
sacrifici in nome di una ‛austerità', che questi faticano a
comprendere, forse perché non sufficientemente preparati a
immedesimarsi col modello dell'uomo socialista. Al contempo,
però, lo Stato - che, come legislatore e giudice, prende le
parti del ‛debole' - mina alcuni fondamenti del capitalismo privato.
Come ha osservato il giurista Salvatore Satta, gli effetti si vedono
‟nella disgregazione della teoria dei contratti, con la restrizione
della libertà contrattuale e il declino della forza
obbligatoria del contratto; nella evoluzione del fondamento della
responsabilità; ma soprattutto nello svuotamento del diritto
di proprietà" (v. Satta, 1994, pp. 118-119).
Perfino la questione del tempo libero dal lavoro appare ben diversa,
a seconda che seguiamo una prospettiva o l'altra. Nella prospettiva
consumistica, la riduzione degli orari, verificatasi diffusamente da
un secolo a questa parte, serve principalmente a esaltare i consumi
privati per il divertimento, lo sport, i viaggi, la cultura, et
similia; nella prospettiva austera, invece, è un
valore in sé, è liberazione dalla pena del lavoro
costrittivo, è la premessa per il ‛volontariato sociale',
ossia il passaggio dallo scambio commerciale al dono disinteressato.
La polemica tra i fautori dell'una e dell'altra tesi ha notevolmente
mutato, in questo scorcio del XX secolo, le armi ideologiche con cui
si combatteva pro o contro il capitalismo nel XIX secolo.
Marx e i suoi discepoli o imitatori non riuscirono a concepire altro
che un capitalismo pauperistico, ossia l'antitesi del capitalismo
consumistico di oggi. Il salario reale, nelle loro profezie, non si
sarebbe alzato durevolmente oltre il minimo di sussistenza, un
minimo che avrebbe potuto un po' migliorare con l'‟incivilimento",
ma che avrebbe allargato, e non ridotto, il dislivello tra poveri
sempre più poveri e ricchi sempre più ricchi. Gli
anticapitalisti non immaginarono che i lavoratori si sarebbero
trasformati, sebbene lentamente, in risparmiatori, in investitori,
in (piccoli) capitalisti essi medesimi. Non furono, cioè,
considerate due esperienze storiche, che si erano svolte in senso
contrario all'opinione marxisteggiante.
La prima esperienza era che la diseguaglianza sociale tendeva a
ridursi là dove l'economia evolveva dal feudalesimo al
capitalismo: eppure Marx aveva lodato la possente
produttività del nuovo sistema ‟borghese" rispetto al vecchio
sistema. La seconda esperienza era che il capitalismo vincente si
dedicava di preferenza a produrre merci popolari, non di lusso. Il
declino del capitalismo italiano, che inizia nel tardo Medioevo,
doveva essere imputato, fra l'altro, al suo rifugiarsi nella nicchia
sicura ma angusta dell'industria della seta, dopo aver perso la gara
della concorrenza internazionale sui mercati ben più ampi dei
panni di lana a basso prezzo.
Similmente la Francia, fedele all'artigianato di alta
qualità, era perciò rimasta indietro nei confronti
della Gran Bretagna, le cui fabbriche più meccanizzate si
orientavano a vendere all'ingrosso merci andanti di lana, cotone,
metallo, e così via. E pertanto la rivoluzione industriale
del tardo Settecento iniziò in un paese, la Gran Bretagna
appunto, che mediamente pagava il lavoro meglio di quanto avveniva
sul Continente. Pagare meglio il lavoro significava ampliare gli
sbocchi sul mercato interno e al contempo creare incentivi
affinché il fatto a macchina sostituisse il fatto a mano:
questa era la via giusta, la via del futuro.
Si aggiunga che, in quelle condizioni di sviluppo, le macchine non
causarono, come si temeva, una disoccupazione tecnologica
insanabile; anzi, le città più industriali attrassero
manodopera da tutto il resto del paese. Nel 1831 Manchester era sei
volte più popolosa di sessant'anni prima, e le pubbliche
autorità non posero freni alle migrazioni interne (né
tentarono di lenirne le asprezze). ‟Gli storici sono stati
impressionati dalla spontaneità della rivoluzione
industriale, da quanto poco dovette a una cosciente pianificazione,
e da quanta poca assistenza ricevette dai governi. Questa [in Gran
Bretagna], si potrebbe ridurre all'aiuto involontario dato nel XVIII
secolo con i bassi tassi di interesse [...] e anche alla protezione
concessa alle nuove industrie dai relitti del sistema
protezionistico-mercantilistico [del secolo precedente]" (v. Thomis,
1976, pp. 30-32).
Diversa è l'esperienza di altri popoli europei, come quella
dei Tedeschi nell'Ottocento, che tentarono di annullare il ritardo
verso i Britannici in fatto di industrializzazione sollecitando
l'appoggio pubblico; così come, d'altronde, oltre Atlantico
fecero gli Americani. Si ricordi che una industria arretrata,
secondo i modelli più moderni, costituiva un handicap militare, oltre che economico. Ma bisogna distinguere tra paesi che
si limitarono a circondare il mercato nazionale, lasciato
relativamente libero, con barriere protettive, e paesi in cui
l'intervento pubblico, più ambizioso, volle immischiarsi
anche degli affari capitalistici interni, sempre allo scopo di
guidarli verso un rapido sviluppo, anche se non sempre senza errori
politici.
Storicamente parlando, si osserva una ambivalenza del moderno potere
politico nei confronti dello sviluppo capitalistico privato, quasi
unanimemente chiesto quando manca, ma giudicato assai più
criticamente quando raggiunge un certo grado di intensità.
Sta bene a tutti allevare l'oca dalle uova d'oro; il contrasto
arriva quando la produzione è assicurata, ed esso riguarda la
destinazione delle uova. Perfino Marx era convinto
dell'opportunità dell'allevamento dell'oca capitalistica,
purché poi le uova andassero non al godimento dei ‛borghesi',
bensì a nutrire il socialismo subentrante, cioè
l'erede proletario. Quando Lenin decise di ‛saltare' la fase
capitalistica e di passare subito al socialismo e poi al comunismo,
egli non ubbidì ai precetti marxiani.
Bismarck fu forse il primo politico che invece ascoltò Marx e
si servì delle uova d'oro del capitalismo per costruire uno
Stato sociale in anticipo sul socialismo, disinnescando in tal modo
una rivoluzione ‟proletaria" incontrollabile. Le frammentarie leggi
sociali della Gran Bretagna nella prima metà dell'Ottocento
non ebbero che in parte questo scopo: anche i politici britannici
temevano i movimenti rivoluzionari di sinistra: non di meno, in
quanto rappresentanti degli interessi più dell'aristocrazia
terriera che della nuova borghesia industriale, quei politici
usarono le leggi sociali per regolare il lavoro nelle fabbriche e
moderare ciò che appariva loro come la prepotenza dei
‛padroni del vapore'.
Il caso britannico ci ricorda ancora una volta che è una
semplificazione pericolosa opporre il privato al pubblico e gli
interessi economici agli interessi politici. Tali interessi, se non
costituiscono di necessità due sfere distinte e in contrasto,
tanto meno sono da considerarsi sfere aventi ciascuna una propria
omogeneità e unitarietà. Il contrasto esiste spesso,
anche tra una parte e l'altra della medesima sfera. Il fatto
è che la Gran Bretagna del XVIII secolo, rimasta in parte
feudale, vide la ripetizione tarda di un conflitto sociale nato fin
dal Medioevo tra l'aristocrazia terriera, che cercava di elevare le
sue rendite per mezzo dell'alto prezzo dei cereali, e una nascente
borghesia cittadina, che voleva invece il pane a buon mercato per
gli operai delle manifatture.
In Gran Bretagna, le Corn laws a protezione del grano
provocarono mezzo secolo di opposizione borghese, prima che fossero
abrogate nel 1846 (quando la loro importanza si era fatta minima).
Tuttavia, è sempre possibile che i proprietari terrieri
abbandonino posizioni superate, non ostante lo spirito tradizionale,
e si trasformino in finanzieri, commercianti e industriali come i
borghesi imprenditori, e in realtà non mancarono casi del
genere nella Gran Bretagna del Settecento e più ancora
dell'Ottocento. Braudel (v., 1977; tr. it., pp. 79-80) indica un
precedente: ‟A Firenze, alla fine del XV secolo, l'antica
nobiltà feudale e la nuova alta borghesia mercantile formano
un solo corpo all'interno della élite del denaro,
che tende a divenire logicamente anche élite del
potere politico. In altri contesti sociali, invece, una gerarchia
politica può soffocare le altre. È il caso della [...]
Francia durante l'ancien régime, che riduce i
mercanti, anche quelli più ricchi, a recitare una parte di
secondo piano, fuori della sfera del prestigio esercitato, in prima
linea, dalla gerarchia dominante della nobiltà".
Sempre in Francia vediamo talvolta i borghesi e la monarchia alleati
contro la nobiltà e i suoi privilegi fiscali, prima che la
Rivoluzione francese schieri almeno una parte della borghesia sia
contro la nobiltà sia contro la corona borbonica. Proprio a
Firenze le vicende della famiglia de' Medici dimostrano come la
borghesia, anziché distruggere l'aristocrazia terriera, entri
a farne parte, conquisti il potere politico e infine diventi
insensibile agli ideali e agli interessi borghesi. Un po' ovunque,
la borghesia ‛arrivata' sente il fascino dell'antica cultura
nobiliare, così come lo sente una certa borghesia
intellettuale che teme il confondersi dell'affarismo con il
materialismo (poi ‛consumismo') e l'avvento di forme di vita
degradate sul piano spirituale.
Ben inteso, la borghesia italiana, dopo la fase trionfale nel
Medioevo dei Comuni che assurgono a Signorie, cadde in un lungo
sonno dal quale si scosse soltanto al giungere del Risorgimento,
quando divenne di moda il modello economico e politico britannico.
Il conte di Cavour, anglofilo, fu il più tipico
rappresentante di un gruppo di personaggi capaci di fondere le
virtù nobiliari e quelle borghesi per tentare un'opera di
ammodernamento dell'economia. Nell'Ottocento fu abbastanza
frequente, nell'Italia del nord e del centro, il passaggio dalla
proprietà terriera alle industrie vicine all'agricoltura (per
esempio, l'industria della seta), di qui alla banca e al
finanziamento di industrie meno tradizionali, fino all'industria
metalmeccanica.
Dal modello britannico ci si scostò tuttavia perché le
nostre industrie nascenti presero le distanze dal liberismo
cavouriano, per ottenere la protezione pubblica nella fase
(interminabile) della loro gracilità rispetto alle industrie
straniere ormai adulte. Ma lo stesso modello britannico stava
cambiando, nel senso che a Londra, a Oxford, a Cambridge, nella
Regione dei laghi, un po' ovunque nell'isola, si faceva strada un
sentimento anticapitalistico condiviso da una borghesia ‛arrivata',
matura, i cui rampolli forse avvertivano un senso di colpa per le
imprese spregiudicate dei padri e dei nonni, o comunque non
intendevano proseguirle.
Nella Gran Bretagna della rivoluzione industriale, William Cobbett
(1762-1835) fu forse il primo scrittore ad andare oltre la semplice
denuncia degli aspetti negativi del capitalismo delle fabbriche, e a
proporre un vero e proprio ritorno al passato nell'opera Cottage
economy. Il tema ‛reazionario' appassionerà poi
Ruskin, Morris e altri letterati ed esteti, fautori di una Old
England, che conservasse taluni (molti) valori del feudalesimo, del
lavoro rurale e artigianale, della country life (invero
una country life alquanto mitizzata; v. Wiener, 1981).
Questa reazione anticapitalistica, così diversa da quella di
Marx, contribuì, insieme a mille altre cause, a frenare lo
spirito industriale della Gran Bretagna meno di un secolo dopo i
primi entusiasmi suscitati dalla macchina a vapore di James Watt, e
in ultima analisi spostò il baricentro economico del mondo
oltre la Manica e oltre l'Atlantico, verso la Germania e poi verso
gli Stati Uniti.
È bene ripeterlo: quando una nazione raggiunge un certo
livello di benessere materiale è facile che dal suo interno
si levino voci di ‛sazietà', le quali, nell'esempio
britannico, provennero anche da illustri e influenti economisti, da
J. S. Mill a J. M. Keynes, i precursori dell'attuale anticonsumismo.
Mill invocò una economia stazionaria, che si occupasse non
più di aumentare la produzione, bensì di distribuirla
in modo più giusto, nel senso di più equalitario.
Analogamente Keynes, un secolo dopo, ritenne prossima e auspicabile
una società senza preoccupazioni economiche, senza
l'avidità del guadagno, senza lo stress della
concorrenza di mercato.
Nelle isole britanniche, dunque, la storia registra sia il sorgere
del capitalismo della moderna rivoluzione industriale, sia il
sorgere di una collegata controrivoluzione culturale, non vincente,
ma frenante. Altre culture, più efficacemente conservatrici,
hanno a lungo ritardato, se non addirittura impedito, almeno finora,
l'avvento di forme capitalistiche avanzate che si sarebbero potute
copiare dalla Gran Bretagna o dall'Occidente in generale. Tali
culture hanno spesso rinforzato il loro anticapitalismo con elementi
religiosi.
Al riguardo, non sembra molto significativo riferirsi alle note e
discutibili tesi di derivazione weberiana, secondo le quali il
cattolicesimo, diversamente dal cristianesimo riformato, avrebbe
offeso lo spirito capitalistico appunto nell'Europa (e nell'America
Latina) prevalentemente papista. Conviene rispondere al quesito se e
quanto la religione pesò sull'economia esaminando altre
circostanze più radicalmente caratterizzate. Serve allo scopo
la guerra civile in Iran, che nel 1979 portò alla fine della
monarchia dei Pahlavī e diede il potere al leader degli
sciiti, l'ayatollah Khumainī. Si tratta, in questo caso, della
rivolta di un ramo dell'islamismo contro tutte le istituzioni
occidentali, compreso quel capitalismo industriale che Riẓa Pahlavī
provò a imitare per interesse suo e di una scarsa borghesia
locale in cerca di modernità. Il fallimento dei modernisti
non è isolato nel quadro di un islamismo nelle cui schiere
operano rigidi fondamentalisti e tradizionalisti che dell'Occidente
sembrano apprezzare solamente la tecnologia bellica, non certo un
consumismo giudicato pericoloso per la morale e il vecchio costume.
Più a est dell'Islam, l'immensa Cina sovrappopolata, non
cristiana e non islamica, fu per secoli, e anche dopo la rivoluzione
industriale britannica, chiusa in se stessa dall'orgoglio e dal
timore di contaminazioni, avversa a ogni rinnovamento economico,
almeno fino al rovesciamento nel 1911 dell'ultima dinastia imperiale
(Manciù) e all'inizio della repubblica. La paura
dell'occidentalizzazione, e quindi del capitalismo, si
accompagnò spesso alla paura di perdere la propria
indipendenza politica e la propria identità storica
(culturale e finanche religiosa) per colpa di ‛barbari' prepotenti e
invadenti.
Il Giappone, in Oriente, fu il primo a comprendere il paradosso che
la miglior difesa dall'Occidente può essere combatterlo con
le sue armi, ossia occidentalizzarsi, sia pure con prudenza
nazionalistica: questa fu la soluzione Meiji (‟Governo illuminato")
del 1868. I frutti, raccolti dapprima in campo militare, furono
quasi immediati: il Sol Levante vinse la guerra contro la Cina nel
1895 e quella contro la Russia zarista nel 1905. Dopo di che anche
la Cina si avviò, metaforicamente, sia pure con lentezza e
riluttanza, verso l'Occidente.
Intanto, proprio in Europa, dopo la prima guerra mondiale si erano
formati regimi nuovi, che offrivano varianti del modello occidentale
particolarmente appetibili al resto del mondo, perché del
capitalismo anglosassone, il più temuto, rifiutavano alcune
implicazioni sociali e politiche. Oltre all'Unione Sovietica - la
cui economia antiborghese, sottoposta per intero a piani statali di
industrializzazione forzata, è dubbio meriti di mantenere il
nome di capitalismo - si ebbero l'esperimento fascista nell'Italia
di Mussolini e quello nazionalsocialista nella Germania di Hitler.
L'uno e l'altro si proposero come terza via tra il capitalismo
anglosassone e il comunismo sovietico, una terza via che manteneva
una certa dose di proprietà privata del capitale e, pur se in
forma ridotta, il mercato di concorrenza. Alla lotta di classe e
perfino ai contrasti della libera contrattazione dei salari si
sostituiva una pace sociale al servizio dei superiori interessi
nazionali. La libertà economica e la libertà politica
si restrinsero di pari passo, proprio mentre il capitalismo di
stampo anglosassone incappava impreparato nella grande depressione
iniziata nel 1929.
Il Giappone (e una parte del mondo islamico) si orientò verso
alleanze coi paesi del fascismo e del nazismo; la Cina, tentennando,
verso alleanze coi paesi del comunismo, il che tuttavia non la
salvò da una invasione militare giapponese nel 1937, che nel
1940 proseguì in Indocina e in altre parti dell'Asia. Nel
1939 la Germania invase la Polonia; nel 1940 invase la Francia e
altre parti dell'Europa occidentale, con l'appoggio italiano (in
vista di una resa della Gran Bretagna); nel 1941 invase la Russia,
non ostante il patto di non aggressione nazi-sovietico, firmato nel
1939. A questo punto la storia del capitalismo si fonde in pieno con
la storia della seconda guerra mondiale, della quale tutti
conosciamo gli esiti.
I veri vincitori, lo sappiamo, furono gli Stati Uniti, che dal 1944
propiziarono l'adozione del loro modello di capitalismo in Europa e
in Asia, ottenendo pieno successo in Germania, in Italia, in
Giappone (i paesi vinti), ma non ovviamente in Unione Sovietica e
nei paesi da essa controllati in Europa orientale, né in
Cina, zone sempre legate al comunismo. Per non ripetere gli errori
compiuti dopo la prima guerra mondiale, gli Stati Uniti non chiesero
ai vinti onerose riparazioni di guerra, bensì ne aiutarono la
ricostruzione economica, pensando giustamente che fosse loro
interesse dimostrare a tutti i popoli del pianeta la
superiorità, nel procurare benessere, del capitalismo
‛all'americana' (consumistico, liberaldemocratico), non solo
rispetto al nazismo e al fascismo, ma anche rispetto al comunismo.
La dimostrazione fu in Giappone tanto efficace da rendere tale paese
un forte concorrente degli Stati Uniti nel commercio internazionale.
Resero ancor più convincente la dimostrazione le serie
difficoltà politico-economiche in cui caddero verso la fine
degli anni ottanta la Russia e i suoi satelliti; difficoltà
che portarono al rapido dissolvimento dell'Unione Sovietica e alla
sua sostituzione con una Comunità di Stati Indipendenti.
Finiva nel caos, dopo un percorso fatto di enormi speranze, crudeli
sacrifici e devastanti disillusioni, il maggior esperimento
‛scientifico' compiuto dall'umanità per realizzare, in
opposizione al capitalismo di mercato, una sorta di ritorno al
paradiso terrestre: una società senza sfruttamento dell'uomo
sull'uomo, una società unitaria e liberata progressivamente
da tutti i mali dell'economia, compresi il bisogno e il lavoro
costrittivo.
L'esperimento sovietico terminò (senza che si possa escludere
una sua ripresa in forme variate) all'inizio degli anni novanta con
una parziale privatizzazione del capitale produttivo, ottenuta
distribuendo gratis ai lavoratori buoni negoziabili e
rappresentativi del patrimonio delle aziende. Anche la Cina popolare
sembra adottare oggi, cautamente, alcune istituzioni del capitalismo
di mercato, ma dando la precedenza alla stabilità politica,
in modo da evitare gli inconvenienti in cui è caduta l'ex
Unione Sovietica a seguito di mutamenti forse troppo precipitosi.
È importante osservare che i paesi capitalistici occidentali
non hanno, di regola, usato la violenza, nemmeno nei cosiddetti
periodi di guerra fredda, per ottenere la caduta del comunismo
all'Est, al quale invece sono stati talvolta forniti aiuti economici
nel quadro di misure umanitarie o puramente commerciali.
Rimangono due Europe: quella dell'Est, non più compatta come
prima, quando esisteva la ‛cortina di ferro' (l'ex Germania
Orientale con capitale a Berlino si è addirittura riunita
alla Germania Occidentale con capitale a Bonn); e quella dell'Ovest,
quasi per intero tenuta insieme dalla Comunità Economica
Europea o Unione Europea che dir si voglia. Nei dieci anni fino al
1994, durante i quali l'unificazione economica dell'Europa
occidentale è stata guidata dal francese Jacques Delors, un
ex sindacalista socialista, essa ha colorato il capitalismo di varie
tinte. A una maggiore libertà di mercato in alcuni settori
produttivi, sottoposti a controlli antitrust, si affianca una
pletora di regole dirigistiche (le cosiddette direttive) in altri
settori, per esempio l'agricoltura.
A parte la tradizionale simpatia francese per il dirigismo alla
Colbert, l'azione politica di Delors si direbbe ispirata a due
finalità: proteggere l'Europa dall'aggressività
commerciale dei capitalismi americano e giapponese; evitare che,
all'interno dell'Europa, la robustezza del capitalismo tedesco
degeneri in egemonia. Dunque, non ostante l'avvento di grosse
imprese multinazionali o transnazionali, il cui raggio d'azione
è mondiale, il nazionalismo continua a recitare una parte nel
commercio internazionale. La completa libertà di concorrenza,
senza interferenze pubbliche di tipo protezionistico, non esiste
all'interno di alcuna singola nazione o comunità di nazioni;
e tanto meno in ambiti più vasti ed eterogenei.
La fine della guerra fredda tra Ovest ed Est e la fine del
colonialismo classico non hanno cancellato le frizioni
internazionali. Il problema del Terzo Mondo ha sostituito quello
coloniale; un Terzo Mondo talvolta povero fino alla fame,
sovrappopolato e indignato contro la ricchezza e il potere dei paesi
industrializzati e ricchi. Ma la situazione non è statica, e
specialmente nell'area asiatica del Pacifico un buon numero di
economie sta trovando la strada per uscire dal sottosviluppo, e in
questo caso seguono per lo più l'esempio del Giappone: una
occidentalizzazione basata sul capitalismo e rivolta principalmente
a esportare nei paesi ricchi merci lavorate (e non solo materie
prime) a basso costo, contando sull'ancor misero livello dei salari.
I Giapponesi hanno già superato da tempo la fase dei bassi
salari, dopo la quale la concorrenza si vince esclusivamente in
virtù di un primato tecnologico e merceologico che permetta
di produrre e vendere sui mercati mondiali merci nuove e complesse
non subito imitabili dai concorrenti. Stati Uniti, Giappone e Unione
Europea devono, in questa prospettiva, puntare più che mai su
un capitalismo con un ritmo di innovazione tecnologica e
merceologica di massima intensità. La divisione
internazionale del lavoro lascerà allora ai paesi in via di
sviluppo la possibilità di specializzarsi in merci ad alto
contenuto di lavoro.
Complicazioni sorgono dal fatto che gli elevati costi di produzione
nei paesi ricchi rischiano di non essere mai compensati dalla
maggiore produttività del lavoro, se derivano anche dagli
oneri imposti dallo Stato sociale in senso ampio (inclusivi delle
spese per l'ambiente). E già oggi si profilano forme inedite
di protezionismo dei paesi ricchi, che rifiutano prodotti dei paesi
in via di sviluppo accusando questi ultimi di non rispettare norme
umanitarie, ecologiche, ecc. Ulteriori complicazioni riguardano le
migrazioni, legali o clandestine, di uomini e donne in cerca di
lavoro dai paesi poveri, ad alto tasso di natalità, verso i
paesi ricchi, a basso tasso di natalità.
Dette migrazioni sconfessano le ipotesi malthusiane per cui il tasso
di natalità avrebbe dovuto crescere, non diminuire, col
miglioramento delle condizioni di vita. Invece, nei paesi a sviluppo
avanzato, Italia compresa, la popolazione al netto degli immigrati
tende a farsi stazionaria, con una preponderanza dei vecchi sui
giovani, degli improduttivi sui produttivi. Di qui, nuove sfide al
capitalismo, che nell'Ottocento si giovò di condizioni
demografiche affatto diverse dalle attuali. Lo stesso Stato sociale
entra in crisi se deve fornire pensioni e cure sanitarie a una
popolazione che mediamente invecchia sempre di più.
2. Profitti e capitalisti
Il profitto costituisce un altro motivo di equivoco sulla natura del
capitalismo. Dalla proposizione (esatta, entro certi limiti) che i
capitalisti nel mercato cercano il profitto si è tratta la
deduzione (errata) che soltanto il sistema capitalistico conosca il
profitto in vasta misura. In realtà, qualunque sistema
economico, compreso quello comunista, ha inevitabilmente esperienza
del profitto, e affermare il contrario è contentarsi di
restare alla superficie delle cose. Caduta irrimediabilmente la
teoria del valore-lavoro di Marx, e caduta da ultimo anche a opera
di economisti di sinistra come Piero Sraffa (1898-1983); avendo
rinunciato a identificare nel lavoro l'unica ‟sostanza
valorificante", il profitto non può più essere ridotto
a inevitabile furto perpetrato dai capitalisti sfruttatori a danno
dei lavoratori dipendenti. Se così fosse (ma non è),
avrebbero ragione coloro i quali vedono nel profitto un reddito
destinato a scomparire là dove, per ipotesi, scompaia lo
‟sfruttamento", cioè appunto nel comunismo.
Così non è, perché invece il profitto esiste
sempre, positivo, nullo o negativo, ogni volta che la produzione
esige che qualcuno anticipi dei costi in attesa di ricavi futuri e
incerti. E questo è un requisito tecnico universale, la
produzione non essendo mai istantanea: per esempio, il forno da pane
deve precedere, come fattore produttivo disponibile, il momento
della cottura. Ebbene, il profitto, calcolabile soltanto ex
post, a consuntivo, è semplicemente la differenza tra
i ricavi effettivi e i costi, i quali ricavi effettivi, è
ovvio, possono essere diversissimi da quelli sperati nel momento
dell'anticipazione dei costi. Il grano che si semina è un
costo anticipato, con la speranza che, mesi dopo, si ricavi un
raccolto di grano molto superiore al seme; e l'uso del raccolto
presuppone che già esistano il mulino e il forno. Però
la quantità del ricavo sperato è talvolta ridotta da
accidenti o vere e proprie catastrofi, contro le quali non è
possibile assicurarsi.
Insomma, chi anticipa, chiunque egli sia, corre rischi che è
difficile o impossibile scansare e che sono fastidiosi. Nel
capitalismo, chi anticipa è di solito un individuo
volontario, un capitalista che anticipa per sé o a favore di
altri. Anticipa per sé, ad esempio, un coltivatore diretto
che risparmi una parte del suo grano, ossia non lo consumi subito
per la sua alimentazione, ma lo conservi per seminarlo con le sue
mani. Anticipa per gli altri, sempre ad esempio, l'agricoltore che
compra il seme e paga il salario del seminatore. Chi anticipa per
gli altri rende un favore agli altri: il venditore del seme ne
riceve il valore immediatamente, senza attendere il prossimo
raccolto; il seminatore riceve immediatamente il salario col quale
si procura il pane, senza attendere che maturi quanto egli ha
seminato. In cambio, il capitalista farà suoi il ricavo lordo
e il profitto del raccolto a venire, se esso verrà e nella
misura in cui verrà.
Una economia collettivistica ha tale nome perché è la
collettività intera a effettuare, volente o nolente, le
anticipazioni e, secondo un piano politico, a sopportarne i costi e
goderne i ricavi, compreso il profitto (che però non è
necessariamente positivo). Il piano è più o meno
democratico quanto maggiore o minore è la partecipazione
della collettività a prepararlo e realizzarlo. Ma
l'esperienza dell'Unione Sovietica insegna che specialmente un piano
centralizzato ha complessità tecniche che restringono fin
quasi ad abolirla la partecipazione diretta del popolo, cioè
degli anticipatori. I quali di solito ignorano perfino con quale
quota individuale contribuiscono agli anticipi (all'accumulazione
del capitale, con sacrificio dei propri consumi immediati:
l'accumulazione è decisa dallo Stato, ma il sacrificio dei
consumi è di persone in carne e ossa) e con quale profitto
sono compensati, se lo sono. Se si ama la bizzarria, si può
dire che l'Unione Sovietica aveva relativamente più
capitalisti degli Stati Uniti, ma capitalisti senza poteri,
finché la Russia non ha cominciato le privatizzazioni e la
consegna ai lavoratori di buoni (di ‛azioni') gratuiti e
negoziabili.
Marx andò molto vicino a comprendere la vera natura del
profitto, o forse la comprese in pieno senza però trarne le
conseguenze che avrebbero distrutto la sua teoria del valore-lavoro.
In Lavoro salariato e capitale si legge (v. Marx 1849; tr.
it., pp. 31 e 38): ‟Il tessitore ha ricevuto il suo salario molto
tempo prima che la tela sia venduta, forse molto tempo prima che
essa sia tessuta. Il capitalista, dunque, paga questo salario non
con il denaro che egli deriverà dalla tela, ma con denaro di
anticipo [...]. È possibile che il capitalista non trovi
nessun compratore per la sua tela. È possibile che dalla
vendita di essa egli non ricavi neppure il salario. È
possibile che egli la venda in modo molto vantaggioso in confronto
col salario del tessitore. Tutto ciò non è affare del
tessitore".
Pertanto, il tessitore riceve un servizio dal capitalista, proprio
come lo riceve chi incassi immediatamente il valore di una cambiale
con scadenza futura e firma di un debitore non si sa quanto
solvibile. Una banca può anticipare la somma, ma nessuna
banca anticiperà l'intera somma; ogni banca tratterrà
per sé uno sconto, con la speranza di coprire il suo rischio
e guadagnare per il servizio reso al creditore impaziente di
incassare. Analogamente, l'industriale di Marx, che rende il
servizio di anticipazione all'operaio tessitore, in cambio si
aspetta un profitto, ma è il mercato a decidere, con tutti
gli accidenti che possono registrarsi. In un mercato ‛ideale' (un
mercato reale tutt'al più lo approssima), il profitto
dovrebbe essere il voto, che gli utilizzatori della produzione,
cioè infine le famiglie consumatrici, danno ai singoli
produttori in concorrenza: alto gradimento, alto voto, alto
profitto; o al contrario, basso gradimento, basso voto, profitto
basso, nullo o negativo (perdita). Questo va detto, ben inteso,
lasciando un posto alla fortuna.
In tal senso ha ragione Giovanni Sartori quando scrive che ‟il
mercato è una entità crudele" e che ‟la sua legge
è quella del successo del più capace [o del più
fortunato]"; ma ‟la crudeltà del mercato è una
crudeltà sociale", poiché ‟il mercato è cieco
di fronte agli individui". Esso ‟è invece una spietata
macchina al servizio della società" (v. Sartori, 19932,
pp. 225-226). Elimina, o dovrebbe eliminare, i produttori peggiori,
e anche semplicemente gli sfortunati, nell'interesse dei
consumatori. Se non che la concorrenza libera e leale dei produttori
è in pratica una rarità: il liberista deve contentarsi
di gare imperfette per quanto concerne sia il numero dei
partecipanti ammessi, sia i criteri per distinguere tra vincitori e
vinti.
Contro la sportività della competizione nelle economie di
mercato si coalizzano e intervengono spesso capitalisti, politici e
sindacalisti, giustificandosi con l'opportunità di difendere
l'occupazione delle maestranze innocenti presso i produttori in
pericolo, o con altri argomenti. Il concetto di ‛diritto al lavoro'
ha fatto strada nel capitalismo moderno, a danno del dovere di
lavorare nel migliore dei modi per produrre cose utili agli altri (i
lavoratori pagati a lungo per produrre cose inutili finiscono col
diventare, anche se innocenti, parassiti sociali). I capitalisti ‛in
attacco' hanno però atteggiamenti ben diversi da quelli ‛in
difesa': i primi auspicano la libertà di gareggiare tanto
quanto i secondi la aborrono. E quando l'attacco agli avversari e
rivali è portato con l'arma di potenti innovazioni
tecnologiche e merceologiche, le probabilità di successo
degli attaccanti sono elevate nel lungo periodo, benché la
dimensione iniziale degli attaccanti possa essere piccola rispetto a
quella degli attaccati.
È la lotta del nuovo contro il vecchio. Schumpeter ha
insegnato quanto Marx aveva già intravisto, ossia che il
capitalismo di mercato ha una missione di distruzione creatrice,
distruzione del vecchio e creazione del nuovo in nome del progresso.
Ma la distruzione del vecchio non è mai indolore e senza
resistenze conservatrici. Per contro, la creazione del nuovo
è spinta non soltanto dalla ricerca del profitto,
bensì pure, talvolta, dalla frenesia umana (borghese) del
nuovo per il nuovo; frenesia più vibrante in certi popoli e
in certe epoche, meno vibrante, se non assente, in civiltà e
periodi statici. Le economie non di mercato tendono a essere meno
progressive, perché il profitto, sebbene presente, è
calcolato e distribuito in modo politico, con prezzi politici, e
cioè non automaticamente a favore degli innovatori di
successo, i quali magari mancano addirittura della libertà di
mettere alla prova le loro idee; e perché la stabilità
dell'occupazione fa premio sulla ricerca dell'alta
produttività del lavoro e degli alti salari.
Pareto amava illustrare questo punto citando il caso di Henry
Bessemer (1813-1898), inventore inglese di un nuovo processo
siderurgico che gli esperti bocciarono ripetutamente. Per sua
fortuna, la Gran Bretagna, in quanto economia libera, concesse a
Bessemer di costituire una propria acciaieria e così
dimostrare che, se gli esperti gli davano torto, il mercato gli dava
ragione. Casi del genere sono frequenti nella storia economica.
All'inizio del nostro secolo, l'automobile a benzina era in
competizione con l'auto elettrica e l'auto a vapore, con non pochi
esperti a favore di quest'ultima (forse perché il vapore
dominava nel settore ferroviario). Tali esperti si sbagliavano, come
oggi tutti sappiamo ma come allora non si sapeva. L'americano Lee De
Forest, che contribuì a realizzare la televisione, venne
condannato dagli esperti e dai tribunali quale truffatore:
prometteva l'‛impossibile', la visione a distanza.
Una economia pianificata da esperti risponde a una concezione della
vita opposta a quella della teoria del capitalismo di mercato, pur
quando si ammettesse la partecipazione al profitto degli esperti.
Affidare l'economia nazionale al ‛miglior' progetto dei ‛migliori'
esperti implica credere che il futuro sia costruibile, in modo
razionale, e dominabile dalla nostra volontà. La filosofia
del libero mercato è affatto diversa, e Hayek è stato
chiaro in proposito: ‟Se potessimo sapere non solo tutto quanto
tocca la soddisfazione dei nostri desideri di adesso, ma pure i
bisogni e le aspirazioni future, resterebbe poco da dire in favore
della libertà [...]. Ma siccome ogni individuo sa poco e, in
particolare, raramente sa chi di noi sa fare meglio, ci affidiamo
agli sforzi indipendenti e concorrenti dei molti, per propiziare la
nascita di quel che desidereremo quando lo vedremo" (v. Hayek, 1960;
tr. it., p. 48).
Ciò non assicura alcuna marcia verso un ‛ottimo': ‟In quanto
scoperta di cose ancora ignote, il progresso ha conseguenze
necessariamente imprevedibili [...]. La mente umana non può
prevedere né deliberatamente forgiare il proprio futuro. Le
sue conquiste consistono nello scoprire dove ha sbagliato" (ibid.,
pp. 60-61). Non assicura nemmeno il profitto al tecnico che abbia
fornito una innovazione utile, perché dell'utilità
bisogna convincere il mercato, solitamente con l'ausilio di un abile
imprenditore capitalista. Il tecnico James Watt si alleò con
l'imprenditore Matthew Boulton per il lancio della macchina a
vapore. Rari sono gli inventori alla Edison, che sono
inventori-imprenditori. A volte il profitto non arriva perché
l'innovazione è utile ma eccessivamente precoce: Charles
Goodyear scoprì (casualmente) i vantaggi della
vulcanizzazione della gomma nel 1839, ma finì i suoi giorni
in miseria; egli avrebbe dovuto attendere la fine del secolo e
l'avvento del pneumatico per automobili per poter sfruttare
convenientemente la sua scoperta. (Per i rapporti tra tecnici, managers,
imprenditori e politici, v. anche Salsano, 1987).
I diritti d'autore hanno in genere la qualità del profitto e
insegnano, fra l'altro, che un libro o una musica lodata dalla
critica può rendere molto meno di un'opera ‛volgare'.
Ciò che piace al volgo, alla folla, alla moltitudine ha
successo nel capitalismo consumistico, il quale, dunque, ha un lato
‛democratico' irritante per i dotati di gusti elitari. Tuttavia, il
mercato è pronto a soddisfare anche i desideri dei raffinati,
purché costoro siano disposti a pagare il costo o meglio il
valore di mercato di quanto domandano, salvo che non lo paghi per
essi un mecenate pubblico o privato. Il mercato vende addirittura
libri di propaganda contro il mercato, l'attrazione dei capitalisti
verso il profitto superando spesso la loro eventuale fedeltà
al sistema economico in cui operano.
Questo non autorizza però a concludere che il movente dei
capitalisti (categoria d'altronde assai eterogenea) sia il lucro
monetario e nient'altro. Il profitto è indispensabile per
finanziare nel modo più comodo lo sviluppo delle imprese di
successo, ma il fine dello sviluppo è anche extra-economico,
se si bada al potere per il potere, alla notorietà, alla
soddisfazione delle proprie ambizioni e dell'amor proprio, al
piacere di realizzare un'opera prestigiosa. C'è chi innova
per il piacere di innovare e gareggia per il piacere di gareggiare.
Al limite, è concepibile un capitalismo di mercato che
continui a funzionare sebbene la media generale del profitto sia
negativa (la perdita sia cioè più probabile del
guadagno): basta che un certo numero di capitalisti mantenga la
speranza di fare meglio della media. Non diverso è il
perdurare dei concorsi sportivi, come in Italia il totocalcio, in
cui notoriamente chi li organizza ha la certezza di guadagnare alle
spalle degli scommettitori che seguitano a scommettere in quanto
speranzosi, non ingenui.
La legge marxista della caduta del tasso di profitto fu giustamente
definita dal suo stesso autore legge ‟tendenziale", quindi di scarso
interesse scientifico, suscettibile di essere smentita da forze
specifiche in contrasto con la tendenza generale. Difettano le
statistiche storiche sul tasso di profitto nei maggiori paesi
capitalistici: è una grandezza difficile da misurare ed
estremamente oscillante nel tempo e nello spazio, per cause
congiunturali o d'altro tipo. Non pare tuttavia che il profitto sia
venuto a mancare con modalità tali da compromettere la
sopravvivenza del capitalismo, là dove esso è ben
impiantato: non ci sono sintomi evidenti di una sua prossima morte
naturale (la soppressione violenta, è ovvio, non si
può mai escludere).
La grande crisi economica del 1929-1936 indusse alcuni a
identificarla quale fase finale del capitalismo di tipo
anglosassone. Crisi del genere (deflazionistiche) sempre più
gravi e frequenti avrebbero dovuto caratterizzare il capitalismo
maturo e portarlo a uno stadio terminale, in cui la domanda
effettiva di prodotti sul mercato sarebbe stata cronicamente
inferiore alla capacità produttiva dei capitalisti privati.
Keynes delineò i tratti di uno pseudocapitalismo futuro
regolato da interventi pubblici sia sulla domanda sia sull'offerta,
così che il rischio imprenditoriale si riducesse al minimo e
il profitto fosse sostituito da una mera retribuzione del lavoro
dirigenziale e organizzativo in una economia prevalentemente
stazionaria.
Altri uomini di cultura, fra i quali di recente il filosofo Emanuele
Severino, rivisitano i ricorrenti timori malthusiani per concludere
che il capitalismo è una forma di produzione ‟in procinto di
avviare un processo irreversibile di distruzione della Terra e di se
stessa" (v. Severino, 1993, p. 78). E ancora: ‟Il capitalismo sta
distruggendo se stesso. Sta riuscendo a fare quello che il
comunismo, la democrazia, il cristianesimo non sono riusciti e non
riescono a compiere [...]. Il capitalismo è costretto ad
assumere come scopo primario non più il profitto, ma la
continua innovazione tecnologica che ha il compito di garantirlo.
Insensibilmente si sta andando verso un'epoca in cui il capitalismo,
non avendo più come scopo primario il profitto, è
capitalismo solo in apparenza, mentre in realtà è
tecnocrazia" (ibid., pp. 65-67).
In effetti, per ora, non vi sono prove storiche irrefutabili che il
capitalismo, maturando, si impaludi vieppiù in crisi
deflazionistiche o di ristagno della domanda; al contrario,
l'inflazione è il suo stato normale. Può darsi che
proprio l'aumento della spesa pubblica propiziato da Keynes abbia
salvato il capitalismo, come qualche economista sostiene; ma
è certo che Keynes sottovalutò (magari volutamente) la
capacità dell'innovazione, nel campo dei beni di consumo, di
creare, con l'appoggio della pubblicità commerciale, nuova
domanda effettiva. Quanto a Severino, gli è stato ribattuto
che l'innovazione trasforma la Terra, non la finisce. Insieme ai
beni di consumo prima inesistenti, si inventano le risorse naturali
per produrli, risorse prima sconosciute o inservibili. Nella
prospettiva capitalistica le risorse naturali non termineranno mai,
se non terminerà l'attitudine della nostra intelligenza a
render utile quanto non lo era.
Nessuno nega, s'intende, l'esistenza di problemi ecologici e la
necessità urgente di una tecnologia che ne tenga conto e
contribuisca a risolverli. Se in tal modo avremo una tecnocrazia,
anziché un capitalismo, è questione solo definitoria;
ma il capitalismo che conosciamo è sempre andato, fin dalle
origini, sottobraccio a forme tecnocratiche. Le quali, se fossero
tanto contrastanti col capitalismo quanto presume Severino, ora non
porterebbero al declino di tale sistema economico, giacché
non gli avrebbero nemmeno consentito di nascere.
3. L'organizzazione capitalistica
Il capitalismo ha affrontato e per lo più risolto formidabili
problemi organizzativi, i quali si manifestarono già nelle
fasi iniziali dell'evoluzione del sistema e crebbero di numero e di
importanza col passar del tempo. Adam Smith li teorizzò
all'alba della rivoluzione industriale distinguendo tra aumento
delle dimensioni del mercato e aumento delle dimensioni di impresa.
Egli vedeva con favore l'aumento delle dimensioni del mercato,
premessa per migliorare la divisione del lavoro e raccogliere i
frutti della specializzazione. L'economista scozzese era invece
sospettoso verso l'ampliamento delle dimensioni d'impresa, per
timore che si formassero monopoli, concentrazioni eccessive di
potere e organismi inefficienti, in quanto burocratizzati.
Quest'ultima preoccupazione fu pure, successivamente, di Schumpeter,
che giunse tanto in là da prevedere un tramonto del
capitalismo imputabile al moltiplicarsi di imprese-dinosauro, troppo
pesanti e lente nei riflessi nervosi, troppo vaste perché
‟l'occhio del padrone" potesse controllarle. Schumpeter vide
inevitabile un inasprimento dei conflitti di interesse tra
proprietà e direzione, tra azionisti e managers; ed
egli non fu il solo a trattare il tema, che anzi ebbe un lungo
periodo di moda durante il quale fu voltato e rivoltato (basti
pensare a The managerial revolution di James Burnham - v.,
1941 - ristampato varie volte).
L'aumento delle dimensioni d'impresa è effettivamente
avvenuto con lo sviluppo capitalistico e non solo per la ragione
già osservata da Marx ed esposta con la pittoresca
espressione: ‟Espropriazione del capitalista da parte del
capitalista". Egli riteneva che i capitali più grossi
avrebbero sconfitto quelli minori, nella gara concorrenziale: la
maggiore scala della produzione avrebbe ridotto i costi unitari
rendendo più a buon mercato le merci. Questo è vero,
ma è altrettanto vero che i vantaggi di scala hanno un
limite, variabile da caso a caso, oltre il quale possono
trasformarsi in svantaggi. Quanto alla gara concorrenziale, accade
talvolta (per esempio nel mercato dell'automobile) che essa inizi
con una moltitudine di produttori, i quali sono selezionati nel giro
di anni o di decenni finché poche grosse imprese sopravvivono
sul mercato (oligopolio), o, raramente, una sola (monopolio). Se non
che la gara non termina mai, e agli oligopolisti e al monopolista
difficilmente è consentito dormire sugli allori.
La presenza di numerose piccole imprese in un settore produttivo
indica di solito l'esistenza di un mercato ‛giovane', fondato su
novità tecnologiche e merceologiche recenti o ancora
sperimentali. L'oligopolio o il monopolio (temporaneo) è
invece tipico di un mercato ‛maturo'. Si badi che, in assenza di
protezioni legali, il monopolio è quasi sempre temporaneo e
mai assoluto, nel senso che se esiste in un settore non esiste in
altri settori vicini e affini. Per spiegarci meglio: un ipotetico
monopolio del teatro sarebbe stato infranto dall'avvento della
cinematografia, e un ipotetico monopolio cinematografico avrebbe
subito la stessa fine con l'avvento della televisione. Un monopolio
non dura, salvo che esso rinunci a sfruttare la sua posizione. Il
cartello mondiale della dinamite, fondato da Alfred Nobel,
durò fin dopo la prima guerra mondiale (quando ormai i
brevetti erano decaduti da un pezzo), perché aveva come
regola di ridurre il prezzo di vendita a ogni sostanziale incremento
della domanda. Du Pont, che era membro del cartello, applicò
lo stesso criterio per altri suoi prodotti brevettati. Nel 1920
l'Allied Chemical sembrava invincibile negli Stati Uniti, invece la
Du Pont la sorpassò.
Non è comunque sempre vero che nel mercato i pesci grossi
mangiano i pesci piccoli. Gli esempi storici del contrario sono
innumerevoli e testimoniati da una estesa letteratura (v., ad es.,
Drucker, 1985). Non solo molte grandi imprese si servono di numerosi
piccoli e medi fornitori indipendenti (il cosiddetto ‛indotto'), ma
accade che piccole e medie imprese, più agili, battano le
grandi rivali; abbastanza di recente, quando era diffusa l'opinione
che il futuro fosse delle grandi acciaierie a ciclo integrale, i
cosiddetti micro-mills hanno dimostrato il contrario: le
piccole imprese riescono infatti ad accrescere la produzione grazie
al vantaggio di poter essere immediatamente sfruttate al cento per
cento, contrariamente alle nuove grosse unità poco utilizzate
per anni e anni.
Nel settore modernissimo dell'elettronica, alcune grosse
società elettriche dal 1949 al 1955 cercarono di produrre computers in vari paesi sviluppati: nel 1970, tuttavia, erano quasi tutte
fuori dal mercato, a vantaggio di produttori diversi che nel 1949
non esistevano o erano di dimensioni relativamente ridotte. Nel 1949
nessuno avrebbe previsto che l'IBM si sarebbe imposta su concorrenti
che, all'epoca, avevano dimensioni colossali al suo confronto.
Né era prevedibile che il personal computer della
Apple avrebbe avuto origine in un garage per iniziativa di due
tecnici. Né ancora che un giovane americano di nome Bill
Gates, nato nel 1956, a sedici anni avrebbe fondato a Seattle una
azienda destinata a diventare la Microsoft, la quale, grazie alle
invenzioni elettroniche del fondatore, occupava, nel 1994, circa
52.000 dipendenti distribuiti in 52 paesi.
D'altronde, le dimensioni d'impresa vanno giudicate non in assoluto,
bensì in rapporto al progresso dei metodi e dei mezzi
organizzativi, nonché in rapporto alle dimensioni del mercato
globale. Proprio l'elettronica consente oggi di gestire con
semplicità complessi sistemi di telecomunicazione e di
elaborazione dei dati, che aumentano il potere degli organizzatori.
‛Miracolosa' può essere detta l'organizzazione dell'Impero
romano, se si bada ai mezzi disponibili allora; adesso, senza
‛miracoli', si può fare molto di più con meno fatica.
Un esempio: la Swissair ha trasferito a Nuova Delhi, in India, gran
parte dell'amministrazione, per risparmiare sui costi; l'elettronica
pone l'India a portata di mano (anche se ciò non assicura che
sia sempre evitabile la formazione di una burocrazia elettronica
tanto ingombrante quanto quella delle mezze maniche di una volta).
Maggiori dimensioni d'impresa sono poi suggerite dalla
opportunità di mantenere quanto meno costante la quota di
mercato di ogni singolo produttore che si trovi di fronte a un
mercato in espansione. La rapidità di questa espansione
può consigliare che le dimensioni d'impresa crescano mediante
concentrazioni e fusioni di diverse aziende. Va ricordato che
l'ampliamento di un settore di mercato non è, di solito, un
mero fenomeno quantitativo: avvengono simultaneamente cambiamenti
nella composizione qualitativa del settore, o si ha la nascita di
nuovi settori, perché migliora la divisione del lavoro e si
propizia la nascita di nuove specializzazioni. Quindi si fa
più comune l'impresa che opera in più settori, anche
non strettamente affini, con diverse quote di mercato in ognuno di
essi. In alcuni settori di alta specializzazione la quota di mercato
(mercato parziale), può salire verso il 100% senza che questo
costituisca un fatto abnorme. (Non ci occupiamo della questione
statistica di come misurare le dimensioni d'impresa: numero di
occupati, fatturato, valore aggiunto, ecc.).
Si è molto discusso se il progresso tecnologico e
merceologico sia favorito o no dalle grandi dimensioni d'impresa. In
parte abbiamo già preso posizione in materia: non vi sono
regole sicure. Certo, le grandi dimensioni d'impresa consentono
l'esistenza di grandi laboratori di ricerca; tuttavia, l'invenzione
o la scoperta nasce pur sempre nel cervello di un singolo individuo,
e non è detto che costui tragga vantaggio dall'operare in
squadra. Peraltro, raramente il merito di una scoperta o invenzione
è attribuibile per intero a un unico individuo: ogni studioso
si avvale del lavoro di innumerevoli predecessori; ma è
possibile e non raro che il ‛di più', il breve o lungo passo
avanti, sia opera individuale di un ricercatore.
Va da sé che il ricercatore talvolta agisce come privato,
talaltra agisce in collegamento con strutture pubbliche. La ricerca
cosiddetta di base, particolarmente costosa e non prossima alle
applicazioni redditizie, viene compiuta, anche nei paesi
capitalistici, con fondi sovente pubblici. Per contro, invenzioni o
scoperte private divengono presto di dominio pubblico, ossia la
collettività ne usufruisce a un prezzo modico o nullo. I
brevetti costituiscono di regola un ostacolo minimo e di breve
periodo alla diffusione del progresso, anche in assenza di
illegalità come quelle connesse allo spionaggio industriale e
scientifico.
La Gran Bretagna della prima rivoluzione industriale cercò di
proibire l'esportazione delle nuove macchine o dei loro disegni
tecnici, ma il divieto ebbe scarsa efficacia. Furono gli stessi
industriali britannici a infrangere la proibizione legale, trovando
conveniente la vendita della loro tecnologia agli stranieri. Lo
riconobbe ben presto lo stesso Friedrich Engels (cit. in Landes,
1993, p. 9): ‟L'Inghilterra ha inventato la macchina a vapore,
l'Inghilterra ha costruito le ferrovie, due cose che, crediamo,
valgono un bel po' di idee. Ebbene, l'Inghilterra ha fatto queste
invenzioni per se stessa o per il mondo? [...] Chi ha diffuso la
civiltà in America, in Asia, in Africa e in Australia, se non
l'Inghilterra?".
I capitalisti inglesi finanziarono la diffusione planetaria delle
loro novità, e così avvenne dopo per altre
novità a opera dei capitalisti tedeschi, americani e via
dicendo. Perfino l'industrializzazione dell'Unione Sovietica si
servì ampiamente dell'apporto finanziario e tecnico del
capitalismo occidentale. Se in alcune parti della terra il seme
della rivoluzione industriale non attecchì, fu per anomalie
locali da analizzare a una a una. La vocazione planetaria del
capitalismo precede addirittura la rivoluzione industriale, ed
è già manifesta all'epoca delle scoperte geografiche,
che non furono ispirate esclusivamente da un amore della conoscenza
e dell'avventura del tutto privo di componenti economiche.
Gli storici (ad es., Fernand Braudel e Immanuel Wallerstein) parlano
comunemente della formazione, a partire almeno dal XVI secolo, di
una economia-mondo capitalistica; che per Lewis Mumford diventa una
megamacchina tanto possente da stritolare ovunque uomini e culture.
Questo non va inteso nel senso, ovviamente errato, che i caratteri
dell'economia siano ormai uniformi in tutto il mondo, ma piuttosto
nel senso che esiste un centro economico (mobile), una semiperiferia
e una periferia estesa spesso all'intero pianeta. Al concetto di
economia-mondo, Wallerstein avvicina quello di impero-mondo, che ne
sarebbe l'equivalente politico: ‟La dinamica della concentrazione
del potere militare ha portato a ricorrenti tentativi di trasformare
il sistema interstatale in un impero-mondo. Se questi tentativi non
hanno mai avuto successo nel capitalismo storico, ciò
è avvenuto perché la base strutturale del sistema
economico e gli interessi dichiarati dei maggiori accumulatori di
capitale si sono opposti con grande energia a una simile
trasformazione dell'economia-mondo in un impero-mondo" (v.
Wallerstein, 1983; tr. it., p. 43). Gli esperimenti della
Società delle Nazioni e delle Nazioni Unite presentano luci e
ombre, ma forse un bilancio realistico, se si riuscisse a
tracciarlo, non entusiasmerebbe nessuno.
Più largamente accettato è il giudizio positivo su
organizzazioni economiche internazionali, come la Banca
Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, il Fondo
Monetario Internazionale, l'Organizzazione Internazionale del
Lavoro, la FAO (Food and Agriculture Organization), ecc., in parte
dipendenti dalle Nazioni Unite, ma con forte influsso americano.
Abbiamo poi un insieme di organizzazioni non mondiali, bensì
di tipo continentale o subcontinentale. Vengono subito in mente la
Comunità Economica Europea (poi Unione Europea),
nonché l'Organizzazione degli Stati Americani, il NAFTA
(North American Free Trade Agreement), il Patto Andino, l'APEC
(Asia-Pacific Economic Cooperation), il Patto di Varsavia
(più politico che economico), e così via.
Il fallimento del tentativo di costituire presso le Nazioni Unite un
ente preposto al commercio mondiale (se si esclude la recentissima
nascita della WTO, World Trade Organization) indusse un gruppo di 23
paesi a firmare nel 1947 il GATT (General Agreement on Tariffs and
Trade). Esso opera mediante periodiche conferenze fra i paesi
aderenti, l'ultima delle quali - il cosiddetto Uruguay Round - si
è protratta dal 1986 al 1994: la lunga durata è un
indice dei contrasti esistenti in fatto di libertà del
commercio internazionale. L'Uruguay Round avrebbe dovuto concludersi
nel 1990: i tre o quattro anni di ritardo nella firma degli accordi
sono in parte imputabili alla resistenza della Comunità
Economica Europea verso certe posizioni liberoscambiste americane.
L'ostilità al libero scambio internazionale è massima
nel settore agricolo, che tuttavia nei paesi industrializzati pare
essere ormai un settore di minima importanza: il paradosso merita
una riflessione. L'agricoltura precapitalistica, molto poco
produttiva, occupava il 60 o 70% delle forze di lavoro esistenti
nell'economia. La scarsissima produttività agricola dipendeva
dal dominio di un fattore naturale, la terra, su cui era scarso
l'investimento di capitale. Con il passaggio, lento ma inesorabile,
dall'economia della terra all'economia del capitale, la
produttività agricola è salita tanto che, per esempio
negli Stati Uniti, la percentuale delle forze di lavoro occupate in
agricoltura è scesa verso il livello del 3%. Ciò
significa, nel caso specifico, che una agricoltura capitalistica
è capace di nutrire l'intera popolazione di un paese (e
inoltre di esportare all'estero grandi quantitativi di cibo e di
altri prodotti agricoli) occupando nel settore appena il 3% delle
forze di lavoro.
Vi è stato ovunque, ma specialmente negli Stati Uniti, un
imponente deflusso di lavoratori dall'agricoltura verso l'industria
e il settore terziario dei servizi. Non di meno, l'attività
dell'agricoltura capitalistica è di regola minacciata dalla
sovrapproduzione, non dalla scarsezza, anche perché se il
progresso tecnologico in questo settore è rapido, il
progresso merceologico lo è molto meno. La scarsezza di cibo
nel mondo si è ridotta, non ostante l'aumento della
popolazione terrestre, a poche zone in cui l'agricoltura
capitalistica non esiste, nelle quali la distribuzione degli
alimenti, che si possono importare dai paesi in cui l'agricoltura
capitalistica esiste, incontra vari ostacoli.
La regola, dunque, è la sovrapproduzione, che minaccia di far
crollare i prezzi agricoli e di danneggiare gli agricoltori
superstiti. In particolare, gli agricoltori europei, se non fossero
protetti dai loro governi, non sarebbero in grado di resistere alla
concorrenza di molti prodotti dell'America settentrionale e
meridionale, che traverserebbero l'Atlantico a basso costo grazie
anche al progresso dei trasporti. Ma la protezione è concessa
- e anzi per i paesi aderenti alla Comunità Economica Europea
(UE) essa è organizzata in base a fini politici e sociali,
con una razionalità a dir poco dubbia - a livello
comunitario.
Nella Comunità si è giunti a sovvenzionare con denaro
pubblico la distruzione dei raccolti per mantenere alti i prezzi di
ricavo degli agricoltori, con inevitabile danno per i consumatori
che si trovano costretti a sopportare un costo della vita più
pesante. Ma nessun paese sembra disposto a rinunciare del tutto alla
propria agricoltura, ancorché essa sia antieconomica; mentre
questo settore, sebbene inserito in un sistema capitalistico,
conserva proprietà intrinseche di debolezza rispetto
all'industria e problemi organizzativi suoi propri. Così,
tanto nelle terre migliori come in quelle meno produttive, i redditi
netti dell'agricoltura risultano ben più oscillanti,
irregolari e rischiosi di quelli industriali, almeno in assenza di
interventi pubblici stabilizzatori.
Infatti, l'agricoltura incontra grosse difficoltà ad adeguare
l'offerta alla domanda. Non solo l'offerta di prodotti agricoli
tende a scavalcare una domanda pigra e riluttante; essa è
inoltre una offerta perturbata da fattori incontrollabili, che vanno
dalle bizzarrie del tempo atmosferico alle imprevedibili epidemie
delle piante e degli animali. L'industria è meno esposta a
simili disturbi aleatori, ed è meglio capace di prestabilire
la misura dell'offerta, variandola a piacere. Seminato il grano,
l'agricoltore non può più, per mesi e mesi, cambiare
il programma di produzione; piantato il frutteto, l'agricoltore non
può più cambiare quel programma per anni e anni.
L'industriale, invece, può sovente cambiarlo ogni giorno,
può per esempio aumentare subito la produzione allungando la
giornata lavorativa, chiedendo lavoro straordinario ai suoi operai.
E - fatto ancor più grave - un aratro rimane ozioso per gran
parte del tempo, un altoforno siderurgico funziona in continuazione;
il capitale cambia radicalmente il suo grado di
sfruttabilità. Aggiungiamo che un bracciante agricolo si
ferma quando piove, un operaio in fabbrica no. Ma è inutile
continuare l'elenco di ciò che è sotto gli occhi di
tutti: conviene piuttosto indagare il motivo o i motivi per cui
l'agricoltura non scarica (senza il soccorso pubblico) sui
consumatori dei suoi prodotti i costi degli inconvenienti che le
sono specifici. Perché li soffre e non li trasferisce? Non ci
vuole molto a intuire (v. Ricossa, 1984-1985) che non li trasferisce
perché di regola i mercati agrari sono ‛mercati del
compratore', non ‛mercati del venditore', almeno negli anni normali
e appunto in assenza di interventi pubblici a protezione del
venditore.
I mercati agrari rientrano tipicamente nella categoria della
‛concorrenza atomistica'; i mercati industriali rientrano per lo
più in quella della ‛concorrenza oligopolistica'. Si tratta
di due regimi affatto diversi. L'offerta di automobili segue da
vicino gli alti e bassi congiunturali della domanda di automobili;
alti e bassi che non sono così marcati nel caso della domanda
di pane e di grano. Tuttavia, i prezzi delle automobili sono assai
più stabili del prezzo del grano, mentre il prezzo del pane,
prodotto per metà agrario e per metà industriale,
sarebbe una via di mezzo se non fosse talvolta amministrato dalle
pubbliche autorità. Il fatto è che i singoli
produttori di automobili, essendo oligopolisti, stabiliscono
ciascuno il prezzo della propria marca, e non lo cambiano se non ne
vedono la convenienza. Non basta uno squilibrio tra domanda e
offerta per modificare il prezzo delle automobili: quello squilibrio
si può fronteggiare in altri e più facili modi, per
esempio correggendo subito la produzione, o stimolando la domanda
con la pubblicità commerciale, o ritoccando la qualità
del prodotto. Nessuna di queste opportunità è aperta
ai produttori di grano, che non possono correggere subito la
produzione né in quantità né in qualità,
e che sanno quanto inutile sia reclamizzare il loro prodotto.
Gli agricoltori che offrono prodotti non di marca sono in
concorrenza atomistica perché ciascuno di essi è
troppo piccolo per controllare i prezzi di merci indifferenziate,
fatte più come vuole la natura che come vogliono gli uomini.
Dunque ogni squilibrio, anche minimo, tra la domanda complessiva e
l'offerta complessiva si ripercuote immediatamente e inevitabilmente
sui prezzi, alterandoli ogni giorno, talvolta ogni ora. E
l'alterazione deve essere molto ampia, per cercare di riportare in
equilibrio il mercato, giacché la domanda di prodotti
agricoli è quasi sempre rigida: bassa è la sua
elasticità rispetto al reddito, e bassa è anche
rispetto ai prezzi. Non ci mettiamo a mangiare molto più pane
semplicemente perché il suo prezzo, un giorno, ribassa; o
perché diventiamo più ricchi.
Nemmeno in America l'aumento del capitale per addetto ha fatto il
miracolo di cambiare l'intima e gracile costituzione
dell'agricoltura. Sebbene il progresso merceologico nell'industria
alimentare abbia trovato nuovi modi di presentare al consumatore
vecchie materie prime (si pensi per esempio ai corn flakes),
il mercato non registra uno sviluppo soddisfacente per i produttori.
Rimane la scomoda necessità di aumentare di continuo le
esportazioni, se si vuole espandere la produzione agraria, sperando
che altri paesi siano incapaci di raggiungere l'autosufficienza per
i cereali, o altri prodotti, o non si pongano tale obiettivo. Rimane
la tendenza al rallentamento della crescita demografica, fenomeno
che comincia a manifestarsi fin nel Terzo Mondo. Rimane lo
svantaggio di operare in concorrenza atomistica benché si
moltiplichino gli sforzi per creare prodotti agrari di marca (per
esempio, prodotti ‛doc'), o per costituire cooperative e
associazioni di agricoltori.
Le strutturali debolezze organizzative dell'agricoltura si ripetono
quasi identiche in altri settori che forniscono materie prime
naturali: fibre tessili, gomma, metalli, e così via. Anzi,
qui si aggiungono almeno altre due complicazioni che dipendono dal
progresso tecnologico, il quale ‛alleggerisce' i prodotti finiti, e
sostituisce alle risorse naturali risorse artificiali e sintetiche.
Alleggerire i prodotti industriali significa ridurre il costo delle
materie prime in proporzione al costo complessivo. Un'automobile del
nostro tempo è più leggera, in tutti i sensi, di
un'automobile all'inizio del secolo: pesa meno e il suo valore
è costituito da una minore percentuale del costo delle
materie prime.
Una materia prima naturale fa eccezione alla regola, ma si tratta
dell'intelligenza umana, cioè di qualcosa di inconfondibile
col resto, una categoria decisamente a parte. In quasi tutti i
prodotti cresce la proporzione del valore originato dalla ricerca
scientifica, tecnica e organizzativa. Si tratta di spese che si
sostengono, in definitiva, per sopprimere altre spese e averne un
vantaggio netto. Tale ricerca non porta soltanto ad alleggerire i
prodotti e a sostituire la natura con la chimica: essa permette di
avanzare lungo mille strade diverse.
Per esempio, si alleggerisce e si miniaturizza: furono parecchio
ridotte le dimensioni dei prodotti elettronici aumentandone al
contempo la velocità di funzionamento, col passaggio dalle
valvole ai transistor. Si alleggerisce e si semplifica: è il
caso del passaggio dall'orologio meccanico all'orologio al quarzo,
che è anche più preciso. E poi, qualunque cosa si
faccia, si cerca di farla col minimo dispendio, con la massima
razionalità, col massimo risparmio di lavoro umano nella sua
forma più materiale (non intellettuale). Il capitalismo del
nostro secolo ha accettato in pieno la finalità di Frederick
W. Taylor: ‟Portare il lavoro umano a un più alto livello di
efficienza e di capacità produttiva attraverso le scienze
organizzative" (v. Taylor, 1911; tr. it., pp. 5-6).
Il taylorismo non gode di buona fama, e il suo autore fu sottoposto
all'inchiesta di una commissione della Camera dei deputati degli
Stati Uniti nel 1911 e 1912. La sentenza gli fu però
favorevole, e infatti Taylor nella sua attività pratica in
officina non pretese mai nulla senza il consenso degli operai e il
loro tornaconto salariale. Non tutti i suoi seguaci lo imitarono
anche in questo, ma comunque la questione è radicalmente
mutata con l'avvento degli impianti automatizzati (ancora una volta
più nel settore industriale che in quello agricolo, dove
d'altronde il taylorismo recitò una parte minima, se non
nulla).
Per ordinare le idee, si può dire che l'economia
capitalistica del XX secolo è andata avanti sia nel campo
della micro-organizzazione sia in quello della macro-organizzazione.
La micro-organizzazione si è giovata soprattutto delle
scienze organizzative alle quali contribuirono studiosi come Taylor.
Nella macro-organizzazione è stato invece decisivo l'apporto
del progresso dei trasporti e delle comunicazioni, che ha idealmente
ridotto le dimensioni del pianeta Terra, quasi annullando le
distanze. Con tutto ciò, i compiti organizzativi del
capitalismo rimangono formidabili, e non si realizzano i sogni dei
seguaci di Marx, che speravano di ereditare dal capitalismo
più evoluto anche pratiche amministrative alla portata di
chiunque e quindi pure del proletariato.
4. Il capitalismo finanziario
La storia del capitalismo s'intreccia con quella della moneta. La
superiorità di un capitalismo sugli altri porta al dominio
della sua moneta sulle valute straniere. Nel XIII secolo, il fiorino
di Firenze e il ducato di Venezia, entrambi di coniazione aurea,
furono i grandi mezzi di pagamento internazionali e recitarono la
parte che più tardi, durante e dopo la rivoluzione
industriale, sarà della sterlina e poi del dollaro. Ma come
nella storia dell'economia produttiva la rivoluzione industriale
rappresentò una frattura vistosa, così nella storia
monetaria una analoga frattura si ebbe con l'abbandono definitivo
della convertibilità dei biglietti in oro o argento.
La tradizione imponeva che la moneta importante avesse un suo valore
intrinseco, corrispondente al valore del metallo prezioso di cui era
fatta. Il gold standard, o tallone aureo, fissava il
cambio tra due monete in proporzione al loro contenuto in peso di
oro fino: le monete si pesavano (il nome ‛lira' viene da ‛libbra',
unità di peso). Se non che l'oro è prezioso proprio
perché è scarso in natura e non producibile a nostra
volontà, a dispetto del sogno degli alchimisti. Ne consegue
che le epoche di gold standard, per esempio il XIX secolo,
furono epoche con una quantità di moneta circolante che
stentava ad adeguarsi alle necessità dello sviluppo
economico: è la principale ragione per cui il secolo scorso
fu in Occidente caratterizzato da una tendenza alla diminuzione dei
prezzi, salvo quando venivano scoperti nuovi giacimenti auriferi.
Alla fame d'oro si ovviò, in parte, col gold exchange
standard, ossia con l'emissione di biglietti di carta
convertibili in oro a un prezzo ufficiale prestabilito dai governi.
Crebbe la quantità di moneta circolante, però entro i
limiti stabiliti dalla necessità delle banche centrali di far
fronte alle eventuali richieste di conversione in oro dei biglietti
in mano alla gente. La convertibilità veniva di tanto in
tanto sospesa, in casi di emergenza come sono i periodi di guerra.
Ovviamente era sempre facoltà dei governi ridurre il
contenuto aureo delle loro monete, mantenendone il vecchio nome,
sebbene tale pratica andasse contro le regole della buona
amministrazione pubblica e provocasse le immaginabili conseguenze
inflazionistiche.
Il XX secolo, con le due guerre mondiali, ha visto la crisi sia del gold standard sia del gold exchange standard.
Dopo la prima guerra mondiale vi furono tentativi di ritorno
all'oro, ma senza durevoli successi se non negli Stati Uniti. Dopo
la seconda guerra mondiale entrarono in vigore gli accordi
internazionali firmati a Bretton Woods (Stati Uniti) nel 1944, coi
quali si stabilivano regole di conversione delle monete in dollari,
e del dollaro in oro. La sterlina perdeva la sua funzione di moneta
di riferimento, e al suo posto, con funzione di moneta di riserva,
subentrava il dollaro in quanto unica moneta rimasta convertibile in
oro. Dagli accordi di Bretton Woods nacque il Fondo Monetario
Internazionale il cui scopo era di mantenere i cambi stabili il
più possibile.
Il potere del capitalismo americano, che aveva toccato il vertice
durante e nei primi decenni dopo la guerra, andò tuttavia
attenuandosi successivamente, e in parallelo si attenuò il
potere del dollaro. Nel 1971 il presidente Nixon, imbarazzato dal
crescente deficit della bilancia dei pagamenti
internazionali del suo paese (imputabile all'offensiva commerciale
del Giappone e ad altre cause), sospese la convertibilità del
dollaro in oro, mettendo di fatto fine al sistema di Bretton Woods.
Il regime prevalente divenne quello dei cambi fluttuanti o
flessibili, pur mantenendosi l'intenzione di contenere la
fluttuazione o la flessibilità entro prefissati limiti,
superiore e inferiore. Questa intenzione, nel nostro continente,
diede luogo nel 1978 alla nascita del Sistema Monetario Europeo.
L'esperienza successiva ha mostrato che, senza l'ancoraggio all'oro,
la stabilità dei cambi è impossibile e che è
del pari irrealizzabile perfino il durevole mantenimento delle
oscillazioni entro una banda prefissata. Le banche centrali
riescono, con più o meno grave dispendio delle loro riserve
valutarie e auree, a difendere per qualche tempo le proprie monete
durante le fasi di indebolimento e di tendenza a fuoriuscire dalla
banda; ma alla lunga il tentativo fallisce, se non migliora
radicalmente la forza economica dei paesi in questione. Dunque, ci
è rimasta la scelta tra cambi completamente liberi di
oscillare e cambi artificiosamente mantenuti stabili per qualche
tempo e in qualche misura, ma suscettibili di scattare in alto o in
basso non appena le autorità monetarie ne perdano il
controllo. L'Unione Europea, con l'accordo di Maastricht, ha
imboccato una terza strada, che conduce verso una moneta unica per i
paesi membri, i quali quindi non avrebbero più problemi di
cambio fra le loro (abolite) monete nazionali.
Il disancoraggio totale dall'oro ha reso molte economie iperliquide
(sovrabbondanza di moneta), inflazionistiche e atte alle
speculazioni sui cambi. Ingenti capitali, non in forma fisica, ma in
forma monetaria, si spostano nel mondo a scopo speculativo: essi si
muovono non per finanziare investimenti reali, commerci e
produzioni, bensì per lucrare sulle differenze internazionali
nei tassi di inflazione, di interesse e di cambio. Poiché
queste differenze variano di continuo, la speculazione sposta i
capitali da una valuta all'altra secondo la convenienza del momento.
Una valuta forte, cioè poco minacciata dall'inflazione e
dalla svalutazione, attirerà capitali anche se frutta tassi
di interesse relativamente bassi. Al contrario, una moneta debole
diventa interessante solamente se promette tassi di interesse
elevati.
Questa ricerca speculativa della moneta di volta in volta più
conveniente per collocarvi i capitali vaganti nel mondo ha dato
luogo a un capitalismo finanziario non sconosciuto in passato, ma
ingigantito oggi oltre ogni esempio precedente. Basti dire che,
secondo stime attendibili, all'Interbank Market di Londra passa ogni
giorno più moneta di quanta sarebbe sufficiente a finanziare
per un anno intero le ordinarie operazioni del commercio
internazionale. Sotto l'aspetto quantitativo, si tratta di cifre che
nemmeno le più dotate banche centrali sono ormai in grado di
contrastare quando occorresse, ad esempio per motivi di
stabilità dei cambi.
Il capitalismo finanziario, se così vogliamo chiamare questo
fenomeno, presenta sempre più spesso aspetti decisamente
patologici. Esso è alimentato, tuttavia, non solo da
speculatori veri e propri, come è il caso di grossi
finanzieri, ma altresì da gestori per conto altrui (per conto
di numerosi piccoli e medi clienti) di fondi di investimento, fondi
di pensione, et similia. La ricchezza mobiliare agisce
essa pure su scala planetaria, alla ricerca del profitto, e con
più facilità della ricchezza immobiliare,
perché si trasporta più facilmente, o meglio si
trasportano più facilmente i titoli che la rappresentano.
Con la cosiddetta moneta elettronica, gli spostamenti di questa
avvengono alla medesima velocità degli spostamenti di
informazioni, cioè con velocità prossima a quella
della luce. Anzi, gli spostamenti finanziari sono null'altro che una
parte dell'immenso spostamento di informazioni da un capo all'altro
del mondo; e gli spostamenti di informazioni rappresentano a loro
volta un flusso internazionale in crescita così rapida da
battere ogni altro flusso in ogni altra epoca storica. Pertanto
c'è chi sostiene che il capitalismo finanziario stia
diventando, in certi suoi aspetti, non solo internazionale, non solo
trans-nazionale, ma addirittura non-nazionale. Infine, la moneta
è senza patria.
5. Conclusioni
In questo scorcio del secolo XX i più vistosi problemi posti
dal capitalismo sembrano essere i seguenti, elencati in (opinabile)
ordine crescente di gravità: a) l'erompere del capitalismo
finanziario, di cui abbiamo appena detto e sul quale non torneremo;
b) la conciliazione del potere economico e del potere politico in
regimi più democratici che in passato e con una più
spiccata sensibilità per le istanze egualitarie
(eredità del socialismo); c) il ritorno a un capitalismo di
pieno impiego, dopo il fallimento storico dei rimedi di tipo
keynesiano; d) l'inserimento del mercato capitalistico in un
contesto planetario dove il futuro sembra richiedere una
pianificazione ‛ecologica' in senso lato.
Il punto b) pone l'interrogativo: come impedire che il cittadino e
il consumatore restino schiacciati tra un potere politico e un
potere economico che ora si combattono, ora si alleano, in una
confusione che contamina le regole della democrazia? L'Europa
(Italia compresa) non pare in possesso di soluzioni magiche, che non
esistono, ma nemmeno di soluzioni empiriche nuove e promettenti.
L'Unione Europea dà l'impressione di affidarsi, in ritardo, a
regole anti-trust contro l'abuso del potere economico in
singoli casi di posizione dominante sul mercato. Gli Stati Uniti
hanno almeno un secolo di esperienza in materia, e tale esperienza
è deludente.
Economisti americani certamente non filocapitalisti si sono espressi
più volte dubitando dell'efficacia della legislazione anti-trust.
Per esempio, John Kenneth Galbraith considera tale legislazione ‟una
spada di carta", ‟il trionfo della speranza sull'esperienza",
qualcosa che in America non ha annullato lo slancio verso
concentrazioni sempre maggiori di potere economico: ‟Queste
concentrazioni e il potere sul mercato che esse comportano non sono
stati percettibilmente inferiori negli Stati Uniti rispetto agli
altri paesi industrializzati che non godono di simili leggi anti-trust o non hanno fatto alcun tentativo in quel senso".
Vi sono anche, spesso, crescenti concentrazioni del potere politico,
che possono disporre di mezzi che sono aumentati ancor più
velocemente dello sviluppo economico. L'ottimismo di pensare che il
colosso economico sia tenuto a bada dal colosso politico è
smentito dai casi di connivenza tra i due poteri, o anche dal costo
oggettivo di conflitti male disciplinati dalle costituzioni
democratiche. Il caso italiano, nell'ultimo mezzo secolo, illustra
con abbondanza le traversie di un paese che non ha ancora trovato la
governabilità democratica senza corruzioni e concussioni al
di là del tollerabile.
E veniamo al punto c). Gli economisti che più si abbandonano
al pessimismo ritengono che l'alta percentuale di popolazione
involontariamente senza lavoro non sia un fenomeno contingente,
degli ultimi decenni, ma almeno in Europa (Italia compresa), una
caratteristica indelebile dell'ultimo capitalismo. È un
ritorno alla teoria della stagnazione del capitalismo maturo, con
l'aggravante che la causa non sarebbe di tipo keynesiano (mancanza
di domanda effettiva, in particolare mancanza di consumi),
bensì di tipo tecnologico. Il capitalismo maturo e la sua
tecnologia perpetuamente rivolta a risparmiare lavoro
permetterebbero di soddisfare la domanda crescente del mercato senza
accrescere l'occupazione.
A parte la riduzione graduale degli orari di lavoro, occorrerebbe
spostare la domanda dai prodotti che non aiutano l'occupazione ai
prodotti che invece l'aiutano: i primi sarebbero i prodotti di
consumo privato offerti dal capitalismo; i secondi sarebbero i beni
pubblici, merci e soprattutto servizi, offerti da enti senza fini di
lucro. A questo punto si torna alla lotta al consumismo, da condurre
mediante una forte fiscalità sui profitti e, occorrendo, con
un rallentato miglioramento dei salari e degli stipendi, che
diverrebbero inutili perché non più spendibili sul
mercato, e pericolosi come fonte di inflazione.
Quanto questa analisi sia realistica dipende, fra l'altro, dalla
misura in cui i consumatori accetterebbero di sostituire per il loro
benessere le scelte private con le scelte pubbliche (politiche), e
dal grado di inefficienza degli enti produttori totalmente esentati
dalla concorrenza di mercato e dalla ricerca del profitto positivo.
Ma prima ancora va indagata la premessa: è davvero il
progresso tecnologico capitalistico a innalzare durevolmente il
tasso di disoccupazione? Non vi sono forse diverse cause sociali,
come l'accresciuta offerta di lavoro femminile, l'esistenza di una
occupazione sommersa che sfugge alle statistiche, e il maggior
reddito familiare, che permette ai giovani di non lavorare senza
spingere alla fame se stessi e i genitori?
Il punto d) è talmente vasto da non consentire che un cenno pro
memoria. Esso riporta l'attenzione sul tema
dell'egualitarismo, che si estende dall'ambito ristretto degli
individui in una stessa nazione all'ambito allargato di tutti i
popoli viventi sul pianeta, e all'ambito ancor più allargato
delle generazioni future, in aggiunta a quelle già presenti.
Ci si chiede, per esempio: il mercato capitalistico non favorisce le
generazioni presenti a danno di quelle future, in fatto di risorse
naturali non riproducibili? L'egualitarismo, in ogni caso, è
tutt'al più un effetto non intenzionale del mercato
capitalistico. Se si vuole andare oltre, sulla sua strada, sembra
inevitabile che egualitarismo e capitalismo entrino in conflitto.
Sembra inevitabile che subentri una pianificazione espressamente
egualitaria nelle intenzioni.
Ma la storia non finisce qui: sembra inevitabile che, al di
là di un punto critico, l'egualitarismo entri in conflitto
con la libertà economica e non economica, con la
libertà tout court. La coercizione pare diventi
inevitabile non soltanto per realizzare un alto grado di
eguaglianza, ma anche per mantenerlo, contro le forze spontanee che
tendono a ricostituire la diseguaglianza.