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Capitale

In economia, il termine ha più significati: il valore in denaro di beni; i beni stessi in cui il denaro è investito o, più comunemente, l’insieme dei beni destinati a impieghi produttivi per ottenere nuova produzione. L’espressione beni c. (in contrapposto a beni di consumo) indica i beni impiegati in atti di produzione, da cui si attende la reintegrazione del valore investito con un profitto. Il c. è detto morto, quando l’investimento non dà frutto. In ragioneria, c. indica un fondo astratto di valori e anche il valore capitalizzato di redditi futuri.

1. Il concetto di capitale

Il concetto di c. è uno dei più controversi e difficili della teoria economica. Gli economisti della scuola classica, da A. Smith a J.S. Mill, considerano c. ogni bene prodotto che invece di essere consumato è impiegato per ulteriori processi produttivi. Per gli autori classici, il saggio di profitto su tutti gli investimenti di c. tende all’uguaglianza, scontati i fattori specifici che rendono più o meno rischioso ogni diverso investimento. 

Nella teoria di Marx, fondata sull’identità di valore e lavoro contenuto, è fondamentale la distinzione tra c. costante e variabile. Il c. costante è quello investito in impianti, macchine, materie prime, elementi che non possono aggiungere al prodotto più valore di quanto ne incorporano. Il compra la forza-lavoro che, oltre a riprodurre il proprio valore, crea il plusvalore, fonte del profitto. 

C. Menger definì il c. come il potere di acquisto disponibile per investimenti produttivi, concezione poi sviluppata da J.A. Schumpeter. M.-E.-L. Walras distinse i c., beni scarsi che offrono servizi in più atti d’uso, dai redditi, beni scarsi che scompaiono in un solo uso. Tra i c. Walras incluse le risorse naturali (c. fondiari), le capacità dei lavoratori, frutto di qualità personali e d’addestramento (c. personali) e i c. propriamente detti, beni durevoli prodotti (con destinazione produttiva o di consumo), che danno luogo alla vendita di servizi dal loro uso. 

Nella funzione aggregata di produzione sviluppata da autori marginalisti (➔ marginalismo), poi nella teoria della crescita (➔ crescita economica) come negli studi di economia applicata, il c. è trattato come un fattore omogeneo, applicabile in dosi successive con produttività positiva, ma decrescente (a parità degli altri fattori), secondo il principio dei rendimenti decrescenti. Questa visione del c. è stata criticata, per le difficoltà logiche che s’incontrano nel ricondurre un insieme eterogeneo di beni c. a grandezza unica, con significato quantitativamente coerente. La teoria della distribuzione marginalista è basata sulla corresponsione ai vari fattori produttivi di compensi corrispondenti alla rispettiva produttività marginale, tra cui va inclusa la produttività marginale dei singoli beni c. ovvero del c. come fattore omogeneo. Secondo E. von Böhm-Bawerk, il c. va concepito come l’investimento indiretto di risorse originarie nei vari stadi necessari per arrivare al prodotto finale destinato al consumo; l’intensità di c. va misurata con il periodo medio di produzione (la durata in media dell’immobilizzo di lavoro nel processo produttivo. 

I c. (o, in altra dizione, i c. mobiliari) si distinguono in c. fissi , se si logorano gradualmente e possono fornire prestazioni utili in più cicli di produzione, e c. circolanti , se si consumano interamente in un solo atto di produzione (come le materie prime) o servono ad anticipare i salari. I primi vanno reintegrati parzialmente a ogni ciclo produttivo, i secondi integralmente. Il c. circolante è talvolta distinto in c. di anticipazione, c. di esercizio, c. liquido e fondo monetario. Per il reintegro del c. fisso, al logorio tecnico va aggiunto quello economico, a seguito delle innovazioni tecnologiche, che rendono superati strumenti e macchine ancora efficienti. La durata del c. può considerarsi indefinita, se si provvede costantemente a fronteggiare il logorio tecnico ed economico con restauri e ammortamenti, coprendo con l’assicurazione la distruzione totale o parziale per caso fortuito. La ripartizione del c. totale in fisso e circolante dipende, caso per caso, dal tipo e dal sistema di produzione. Si distingue ancora tra e c. salari , il primo impiegato in strumenti, edifici, materie prime e sussidiarie, il secondo destinato alla retribuzione dei lavoratori.

2. Il c. nell’economia nazionale

Nell’economia di un singolo agente la nozione di c. è legata a quella di reddito monetario, perché coincide con la ricchezza capace di fornire un reddito, effettivo o presunto; dal punto di vista individuale è c. anche la ricchezza in moneta, mentre la sua inclusione tra i c. dal punto di vista generale è controversa. In riferimento all’economia nazionale, s’includono nel c. tutti i beni destinati alla produzione del reddito reale nazionale, siano essi risorse naturali, come la terra, o prodotti (come le macchine, gli edifici ecc.) e anche la popolazione produttiva, che con i beni concorre alla produzione.

Il c. umano è l’insieme delle capacità acquisite con l’educazione e la formazione; va considerato come il risultato di scelte d’investimento nel corso del tempo, perché produce rendimenti futuri grazie al maggior valore dei redditi percepiti da chi ha investito risorse nella sua accumulazione. Il concetto di c. umano, in questa accezione, è stato approfondito in particolare da G.S. Becker con un’ampia gamma di applicazioni. 

Il c. deve la sua origine all’ampiezza del prodotto interno lordo e all’entità dell’accumulazione: in sintesi, alla quota del prodotto lordo destinata in ogni periodo a nuovi investimenti che permettono l’impiego degli altri fattori della produzione e determinano la possibilità di maggior prodotto e maggior risparmio nel futuro. L’ampliamento del c. esistente in un dato periodo è consentito dal flusso di risparmio, che va a finanziare gli investimenti netti. Secondo le teorie keynesiane, nel caso di risorse disoccupate, può essere l’investimento stesso, dal lato della domanda, anche se finanziato con mezzi aggiuntivi di pagamento, a costituire il presupposto per l’aumento del reddito e quindi del risparmio. Nella teoria degli investimenti, l’efficienza marginale del c. misura il saggio di profitto atteso (detto saggio di rendimento interno) per un investimento iniziale che dà redditi nel corso di più periodi futuri. L’efficienza marginale del c. deve superare il tasso dell’interesse di mercato, perché l’investimento sia conveniente. A livello aggregato, s’ipotizza che l’efficienza marginale del c. diminuisca con il crescere del volume degli investimenti e questo sia, quindi, funzione diretta dell’efficienza marginale del c. e inversa del saggio dell’interesse. 

Il principio dell’ spiega le decisioni d’investimento con una funzione, derivata dalla modifica del principio d’accelerazione, nell’ipotesi che in ciascun periodo le imprese realizzano solo una quota degli investimenti desiderati per adeguare la capacità produttiva all’andamento del reddito. In generale, il principio dell’adeguamento dello stock di c., suppone che le imprese esprimano in ogni periodo un livello del c. desiderato, sulla base della domanda attesa, del livello di produzione, del saggio dell’interesse, e decidano investimenti netti (la variazione dello stock di c.) per adeguare il c. già istallato al livello desiderato. Il coefficiente di adeguamento è supposto positivo, ma inferiore all’unità: in ciascun periodo si realizza un adeguamento parziale, che dà luogo a un processo dinamico nel tempo dello stock di c., con ritardi e flessibilità nell’aggiustamento all’andamento del reddito. 

Nella teoria dello sviluppo, l’espressione c. fisso sociale è stata usata per indicare infrastrutture e beni c. di uso collettivo (ferrovie, acquedotti, impianti elettrici ecc.), esterni alla dotazione delle singole imprese, nonché le spese per l’istruzione e la ricerca scientifica. Questo insieme di risorse influisce sulla redditività del c. impiegato nelle singole imprese, perché genera economie esterne. È detto fisso, perché nessun investimento può svolgersi con buone prospettive di profitto se il c. sociale non raggiunge almeno un minimo. Secondo P.N. Rosenstein-Rodan, la carenza di c. fisso sociale contribuisce all’arretratezza di certe regioni e costituisce serio ostacolo all’avvio del processo di sviluppo. In altra accezione, sviluppata soprattutto da R.D. Putnam, c. sociale indica l’insieme delle istituzioni, delle norme e relazioni di reciprocità e fiducia in una comunità, che favoriscono l’azione collettiva e facilitano, quindi, l’attività economica. Il c. sociale è ritenuto un importante fattore nei processi di sviluppo economico.

3. Trasferimenti internazionali di capitale

I trasferimenti (o movimenti) internazionali di c. consistono nel trasferimento da un paese all’altro di flussi finanziari, che non sono la contropartita di vendite o acquisti, già avvenuti o da avvenire, di merci o servizi oggetto di commercio internazionale, né il pagamento di prestazioni economiche internazionali con natura di reddito. Includono gli Investimenti Diretti Esteri (IDE) e gli investimenti di portafoglio per acquisto di attività finanziarie, ovvero anche prestiti accordati da Stati o da organismi governativi e da organizzazioni internazionali. Possono essere a lungo o breve termine e sono contabilizzati nella bilancia dei pagamenti, con metodi contabili che sono variati nei diversi periodi storici. 

I movimenti internazionali di c. sono determinati in primo luogo da variabili economiche. Sui movimenti di c. privati a breve termine influisce soprattutto la differenza tra i tassi d’interesse nei paesi tra i quali avvengono; giocano un ruolo importante le aspettative di svalutazione o rivalutazione delle valute, soprattutto nei regimi di cambi fissi. Possono determinare repentini movimenti di c. timori di crisi bancarie o voci di sospensione del debito estero, l’inasprimento della pressione fiscale all’interno di un paese, o preoccupazioni per l’instabilità politica in paesi dai quali si preferiscono ritirare i fondi investiti. Movimenti internazionali di c. avvengono per interventi di politica economica, soprattutto nell’ambito della cooperazione allo sviluppo, o per circostanze eccezionali, quali riparazioni di guerra, prestiti bellici e postbellici e loro rimborso. Dopo la Prima guerra mondiale si ebbe un’accentuata tendenza a improvvisi e ingenti spostamenti da un paese all’altro di oro e capitali a vista o a breve termine. Per neutralizzarne gli effetti, furono istituiti Fondi di stabilizzazione dei cambi. Rilevanti movimenti di c. si sono verificati, dopo il ripristino (1958) della convertibilità esterna, nell’ambito del sistema di cambi fissi stabilito a Bretton Woods, che aveva al centro il Fondo monetario internazionale. Movimenti di c. sono stati provocati dai cambiamenti politici avvenuti nell’ex URSS e nei paesi dell’Europa dell’Est. 

I movimenti di c. possono essere regolamentati, più o meno rigidamente, dai singoli Stati o anche da organismi internazionali. La dottrina si è divisa sull’opportunità del loro stretto controllo. Prevale oggi la liberalizzazione dei trasferimenti internazionali di c., che si è imposta sulla scena internazionale per i vantaggi della mobilità, nonostante i rischi d’instabilità finanziaria con ricadute a catena in caso di crisi finanziarie internazionali, come avvenuto nel corso degli anni 1990. La crescente mobilità internazionale dei c. è un aspetto importante della globalizzazione, ma si discute sull’opportunità di ripristinare o adottare forme di controllo sui movimenti finanziari a breve, che hanno carattere spiccatamente speculativo.


Enciclopedia delle Scienze Sociali (1991)

di Giorgio Lunghini

Capitale

sommario: 1. Introduzione.  2. L'epoca classica e la critica marxiana. a) Il capitale come anticipazioni: François Quesnay. b) Adam Smith: il lavoro diviso. c) David Ricardo: saggio dei profitti, macchine e accumulazione. d) John Stuart Mill: il capitale come fattore della produzione. e) Karl Marx: la critica della formula trinitaria. f) Marx: lavoro salariato e capitale. g) Marx: il processo di produzione-riproduzione. h) Marx: plusvalore e profitto.  3. L'epoca neoclassica. a) L'equilibrio economico come ordine naturale e necessario. b) Il capitale nell'equilibrio economico generale. c) La teoria 'austriaca': capitale e tempo. d) Irving Fisher: impazienza e volontà. e) Domanda di capitale e produttività marginale. f) Knut Wicksell: una curiosa divergenza.  4. Capitale e moneta. a) Joseph A. Schumpeter: il capitale monetario nel processo capitalistico. b) John M. Keynes: capitale, investimenti e animal spirits. c) Keynes e il saggio di interesse: il distacco dalla tradizione. d) Keynes: capitale e (dis)occupazione.  5. Controversie recenti sulla misura del capitale. a) Il capitale nella funzione di produzione. b) Le 'parabole' neoclassiche. c) La critica sraffiana: l'armonia neoclassica come caso particolarmente astratto. d) Capitale e società: la scomparsa della categoria. □ Bibliografia.

1. Introduzione

'Capitale' è un termine tratto dal linguaggio comune, con cui si indica normalmente qualsiasi forma di ricchezza accumulata e accantonata, che consenta di ottenere dal lavoro proprio o altrui, passato o futuro, un 'sovrappiù', o comunque prometta un godimento ovvero un 'profitto'. In questo senso sarebbe capitale qualsiasi mezzo di produzione prodotto, il quale aiuti a produrre di più e meglio (dall'amigdala al robot), o qualsiasi somma di denaro che frutti o possa fruttare un guadagno netto (dai ducati prestati da Shylock ad Antonio, ai dollari investiti da Henry Ford nella produzione della Ford T). Non avrebbe dunque importanza chi possieda il capitale, a quale scopo e con quali tecniche lo impieghi, e come tutto ciò condizioni le modalità di produzione-riproduzione del sistema esistente. La definizione è evidentemente troppo ampia.
Come tutte le categorie dell'economia politica, anche quella di 'capitale' richiede una determinazione storica. Anche il 'lavoro' ha forme diverse nelle diverse epoche, tuttavia di esso si può parlare in generale. Il lavoro è semplicemente la principale attività materiale con la quale l'uomo si pone in rapporto con la natura, al fine di trarne valori d'uso. Esso è certamente più produttivo quando è svolto con l'ausilio di strumenti appropriati, che nulla impedisce di chiamare 'beni capitali': sarebbe però eccessivo ridurre la nozione di capitale a quella di un insieme di beni capitali, poiché in tal caso ci si limiterebbe a constatare che la produzione con capitale dà luogo a un sovrappiù maggiore di quello ottenibile senza un tale ausilio, e si rinuncerebbe a spiegare perché mai questo modo di produzione conferisca al sovrappiù la forma del profitto. Proprio dal concetto di sovrappiù converrà partire per intendere come nel modo capitalistico di produzione il capitale non sia soltanto un insieme di cose o una somma di denaro, ma un rapporto sociale.
Il sovrappiù può essere definito come quel che resta del prodotto sociale (tutto ciò che in un'economia viene prodotto in un dato periodo di tempo), una volta reintegrati i beni di consumo necessari per la sussistenza e la riproduzione dei lavoratori (produttivi) nonché i beni capitali che si sono consumati o logorati nel corso della produzione. Il sovrappiù sarà nullo, per definizione, in un'economia di mera sussistenza, ma normalmente sarà positivo, e può essere positivo in qualsiasi modo di produzione. Diversi, tuttavia, sono i modi in cui il sovrappiù viene prodotto, le persone o classi che se ne appropriano, l'uso che se ne fa e il ruolo che in tutto ciò hanno l'istituto della proprietà, il mercato e la moneta.
In un'astratta società precapitalistica - diciamo 'feudale' - il sovrappiù viene prodotto mediante il comando diretto del lavoro dei servi (la corvée, per esempio). Del sovrappiù, in natura o in denaro, il signore si appropria in virtù di un rapporto di potere strettamente politico e non di scambio economico, e lo impiega non per l'allargamento del processo produttivo, ma per quello che si può chiamare 'consumo signorile'. Al mercato si ricorre essenzialmente per gli scambi intercomunitari; la moneta ha come funzione pressoché esclusiva quella di facilitare gli scambi.
Con l'avvento del capitalismo, quali che ne siano state le cause ('accumulazione originaria' o 'grande trasformazione'), si assiste a una polarizzazione della società. Se si trascurano i residui feudali - la classe dei rentiers e gli artigiani - sul mercato si fronteggiano due classi: i capitalisti, proprietari dei mezzi di produzione, e i lavoratori salariati, liberi ma proprietari di un'unica merce: la propria forza lavoro. Il sovrappiù (se realizzato) prende la forma di profitto, e questo - il profitto e non più l'uso - diventa lo scopo della produzione. Del sovrappiù il capitalista si appropria in quanto possiede o controlla i mezzi di produzione e dopo aver pagato al suo prezzo la forza lavoro. La destinazione del sovrappiù, d'altra parte, non è più il consumo, bensì l'allargamento della produzione. La moneta diventa essenziale al processo di produzione-riproduzione, poiché la produzione capitalistica non è produzione di merci a mezzo di merci, ma produzione di denaro a mezzo di denaro. E il mercato, infine, pervade tutta la società: tutti i rapporti fra gli uomini passano per il mercato.
Il processo economico acquista ora una sua autonomia: da finalizzato ad altro, diventa fine a se stesso, circolare. E soltanto ora l'economia politica si può costituire in disciplina autonoma e sistematica: in scienza del capitalismo. Alla nozione di capitale come categoria eterna (il capitale come mezzi di produzione prodotti) viene a contrapporsi quella di capitale come categoria propria e fondante di un dato modo di produzione: il modo di produzione capitalistico. Soltanto nel modo capitalistico di produzione la ricchezza prende la forma di capitale, in quanto rapporto che si instaura fra queste due classi: capitalisti e lavoratori salariati. Può allora dirsi 'capitale' qualsiasi proprietà (di denaro, macchine o altre forme di potere) mediante la quale sia possibile comandare lavoro salariato in vista di un profitto realizzabile vendendone il prodotto.
All'interno di queste due grandi categorie (il capitale come insieme di mezzi di produzione prodotti, oppure come nesso sociale) ci sono numerosissime definizioni di 'capitale'. Qui se ne ripercorrerà la storia per grandi epoche: l'epoca classica (che ai fini di questo articolo si farà cominciare con François Quesnay e finire con David Ricardo); Marx; l'epoca neoclassica (che dura fino a oggi ma ha radici anche nella dissoluzione della scuola ricardiana e dunque contemporanee alla critica marxiana); Schumpeter e Keynes; infine i moderni accademici. A questa successione temporale non corrisponde un'evoluzione coerente e progressiva del concetto, il cui significato oscilla periodicamente fra due grandi campi definitori. Nella vasta galleria di personaggi eminenti è infatti possibile tracciare una distinzione: da un lato vi sono coloro che, come gli economisti classici, Marx, e gli eretici contemporanei quali Schumpeter e Keynes, avevano in mente una società divisa in classi; dall'altro coloro che, come Senior, Say, i marginalisti, i neoclassici moderni, hanno in mente una società integrata. Per i primi il capitale è un aspetto del potere che la classe proprietaria esercita sul lavoro: potere di decisione sull'uso del lavoro, sfruttamento, utilizzazione del sovrappiù. Per i secondi il capitale è un aspetto di decisioni riguardanti cose: quindi le categorie sono quelle dell'astinenza, del risparmio, della produzione di beni strumentali. Le due linee di pensiero, sempre compresenti nella storia delle dottrine economiche, danno necessariamente luogo a definizioni diverse di ogni categoria economica, e quindi anche del termine capitale (da rapporto sociale a beni prodotti e destinati a ulteriore produzione).
Poiché la storia del concetto di capitale rispecchia quella del capitalismo, sarà utile averne in mente una sinossi (come quella tracciata da Eric J. Hobsbawm) e ricordare le date fondamentali nella storia del concetto di capitale: il Tableau économique di François Quesnay è del 1758; la Ricchezza delle nazioni di Adam Smith è del 1776; il Saggio e i Principî di David Ricardo, qui rilevanti, sono del 1815 e del 1817-1821; i Principî di John Stuart Mill sono del 1848; gli scritti di Karl Marx sul capitale vanno dal 1835 al 1883; gli Elementi di economia politica pura di Léon Walras sono del 1874; la Teoria positiva del capitale di Eugen von Böhm-Bawerk è del 1884; la Teoria dello sviluppo economico di Joseph A. Schumpeter è del 1911; il Trattato della moneta di John M. Keynes è del 1930, la Teoria generale del 1936; la Produzione di merci a mezzo di merci di Piero Sraffa è del 1960.

2. L'epoca classica e la critica marxiana

Nella Francia della metà del Settecento l'industria, nel senso moderno del termine, è praticamente assente; le attività manifatturiere e commerciali hanno forma artigianale; l'economia è fondamentalmente un'economia agricola, retta da rapporti di proprietà di tipo feudale (alla corvée si rinuncia nel 1776). Nelle campagne francesi del settentrione il processo lavorativo comincia però a prendere forma capitalistica sia per l'uso che vi si fa dei mezzi di produzione, sia - e soprattutto - perché il lavoro è diventato lavoro salariato.
La rivoluzione del 1789 e la rivoluzione industriale sono ancora lontane; tuttavia i fisiocratici, per dirla con Marx, riescono a scoprire l'essenza borghese nascosta in un involucro feudale. Nel sistema fisiocratico "il feudalesimo viene riprodotto e spiegato sub specie della produzione borghese e l'agricoltura come il settore produttivo in cui si manifesta esclusivamente la produzione capitalistica, cioè la produzione del plusvalore. Così, mentre il feudalesimo si imborghesisce, la società borghese assume un aspetto feudale" (v. Marx, 1867-1894).

a) Il capitale come anticipazioni: François Quesnay
François Quesnay è il massimo esponente della scuola fisiocratica, e per quanto riguarda la teoria del capitale gli si devono intuizioni e analisi ancora oggi insuperate: la visione del processo produttivo come processo circolare, come processo di produzione-riproduzione (il Tableau économique); l'essenzialità, ai fini dell'analisi di questo processo, del concetto di classi sociali (sia pure nella loro forma precapitalistica: la classe produttiva, o degli agricoltori, la classe dei proprietari fondiari, la classe sterile o dei manifatturieri); infine il concetto di capitale non solo come insieme di beni capitali, ma come anticipazioni.
Per Quesnay le anticipazioni sono essenziali ai fini della produzione di un sovrappiù. Soltanto il capitale investito (in agricoltura) fa sì che il processo produttivo dia luogo a un produit net, e l'origine di questo va ricercata non nella sfera della circolazione, che pure è essenziale alla riproduzione del sistema, ma nella sfera della produzione. La produzione non può essere ridotta a un rapporto immediato fra uomo e natura; il processo di produzione di merci non può essere descritto semplicemente in termini di una combinazione di lavoro e terra, poiché per produrre merci occorre impiegare come mezzi di produzione anche quantità appropriate di queste stesse merci: l'ammontare del sovrappiù dipende in modo cruciale dall'entità e dalla composizione delle anticipazioni.
Quesnay distingue tre tipi di anticipazioni (fondando così la moderna distinzione fra capitale fisso e capitale circolante): primitive, fondiarie e annuali. Sono anticipazioni primitive il bestiame, gli edifici, gli attrezzi; anticipazioni fondiarie le opere idrauliche e di recinzione e in generale le opere di miglioramento permanente dei fondi; anticipazioni annuali i salari dei lavoratori, le sementi e tutte le altre spese annuali ricorrenti.
Anticipazioni primitive e anticipazioni fondiarie hanno la natura del capitale fisso e partecipano alla produzione del prodotto netto cedendo il loro valore nel corso di più periodi di produzione (e richiedendo quindi adeguati reintegri per ciascun periodo di produzione). Le anticipazioni annuali dei ricchi fittavoli hanno invece la natura di capitale circolante, in quanto trasferiscono il loro valore nei beni prodotti nel corso di un solo periodo di produzione. Tutte e tre queste forme di anticipazioni, nella loro composizione e nel loro ammontare, sono essenziali nella determinazione dell'ammontare e della composizione del sovrappiù, che si forma bensì soltanto nell'agricoltura ma che - una volta distribuito e speso - sostiene tutti i ceti e tutte le professioni. Così il prodotto netto, reso possibile da un dato ammontare di anticipazioni annuali, dipende non soltanto da questo, ma anche dall'ammontare delle anticipazioni primitive e fondiarie. L'accumulazione di capitale in agricoltura è essenziale affinché crescano il prodotto lordo e la parte di questo costituita dal prodotto netto; in particolare occorre che le anticipazioni siano di natura e ammontare tali da consentire la 'grande coltura', poiché soltanto così sarà possibile l'introduzione di metodi sempre più produttivi (di sovrappiù). Una somma di denaro diventa capitale soltanto se si trasforma in capitale produttivo, e quindi procura un prodotto netto per l'intera società.

b) Adam Smith: il lavoro diviso
Nell'Inghilterra di Adam Smith il capitale ha ormai pervaso tutta l'attività produttiva. Ciò consente a Smith di fare un importante passo avanti rispetto ai fisiocratici e di riconoscere che in tutte le attività è possibile produrre sovrappiù, e che il sovrappiù prende non solo e non tanto la forma di rendita (per i fisiocratici il produit net prende per l'appunto la forma di rendita pagata dalla classe produttiva alla classe dei proprietari), ma anche e soprattutto quella di profitto. D'altra parte, come noterà Marx, Smith compie un passo indietro trascurando, nella determinazione quantitativa del sovrappiù, la quota del prodotto sociale necessaria al reintegro dei mezzi di produzione consumati nel processo produttivo: sarebbe capitale soltanto quello speso in salari e sarebbe vero il 'dogma veramente fantastico' per il quale il prezzo delle merci è composto di salario, profitto (interesse) e rendita fondiaria, quindi soltanto di salario e sovrappiù. Errore analogo compirà David Ricardo, e questo - come si vedrà a proposito di Marx - ha conseguenze importanti sulla definizione e l'analisi del saggio dei profitti.
In Smith la nozione di capitale è strettamente intrecciata con le sue distinzioni fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Per Smith è volta a volta lavoro produttivo quello che si fissa in una merce vendibile, quello che crea valore e quello che produce un sovrappiù. La nozione qui rilevante è la terza, quella per la quale è lavoro produttivo (di sovrappiù) il lavoro che si scambia contro capitale, mentre è lavoro improduttivo quello pagato dal reddito dei capitalisti e dei rentiers. Simmetricamente si potrà dire che è capitale quella parte del fondo posseduto da un individuo che viene impiegata per mettere in attività il lavoro produttivo, e che quindi non solo consentirà di reintegrare le spese inizialmente sostenute, ma darà altresì luogo a un reddito. L'altra parte del fondo, in quanto destinata al consumo immediato, non darà invece alcun reddito. Soltanto con l'impiego di lavoro produttivo sarà possibile un processo di accumulazione di capitale.
Il capitale, d'altra parte, può prendere la forma di capitale fisso e di capitale circolante. Come quasi tutte le distinzioni smithiane (quella fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, ma soprattutto quelle interne alla teoria smithiana del valore), anche questa è confusa, in quanto gli elementi del capitale produttivo vengono distinti a seconda del modo in cui compaiono nella sfera della circolazione, anziché in quella della produzione. La distinzione fra capitale fisso e capitale circolante in Smith si regge letteralmente sul fatto che il capitale circoli oppure no, che generi un profitto restando presso il capitalista, dentro al processo produttivo, oppure distaccandosene, circolando con le merci prodotte. Per Smith, ad esempio, sono capitale fisso i fondi impiegati nel miglioramento delle terre coltivate, le costruzioni destinate alla locazione, gli strumenti di produzione di qualsiasi genere, il bestiame da lavoro e le stesse "abilità acquisite e utili" dei lavoratori; mentre sono capitale circolante la moneta, le merci prodotte per la vendita, le materie prime impiegate in un processo produttivo o nel mantenimento del bestiame da lavoro e i salari dei lavoratori. (Contare come capitale fisso le abilità acquisite e utili dei lavoratori e come capitale circolante i loro salari evoca la difficile questione delle relazioni fra forze produttive e rapporti di produzione, difficile soprattutto per chi ha una concezione strettamente materiale del capitale produttivo. È difficile far coesistere l'idea che nel capitale vadano contate quelle che vengono chiamate utilità 'immateriali' e l'idea secondo la quale tutto il capitale è un prodotto del lavoro, e dunque se ne debbano escludere dal computo le forze e i doni della natura: è molto difficile distinguere e contabilizzare quali siano i doni della natura e quali i risultati del lavoro).
Per quanto riguarda l'origine del sovrappiù e in particolare del profitto, Smith la individua nella produttività del lavoro in generale. A sua volta, la produttività del lavoro dipende dalla divisione del lavoro, e questa dalla tendenza propria della natura umana al baratto e allo scambio: "E poiché è in questo modo, col baratto e con lo scambio, che noi otteniamo la maggior parte di quei reciproci buoni uffici di cui abbiamo bisogno, così è questa stessa tendenza a trafficare che in origine dà occasione al sorgere di quella divisione del lavoro sulla quale si fonda tutto il benessere delle società evolute" (v. Smith, 1776). Nella produzione capitalistica, in particolare, il capitale, riunendo insieme un gran numero di lavoratori e anticipando loro le sussistenze di cui essi non dispongono, può attuare la migliore divisione e distribuzione degli impieghi e può fornire agli operai le migliori macchine: la forma capitalistica di produzione è destinata a diventare la forma dominante e definitiva dell'economia e della società. La storia sarebbe dunque finita.
La società borghese, secondo Smith, si regge sulla classe dei lavoratori produttivi; questi - producendo prodotto netto - sostengono se stessi e tutte le altre classi; i padroni, che avendo anticipato le sussistenze si appropriano del prodotto netto, ne trattengono per sé una parte come profitto, destinandola elettivamente all'accumulazione del capitale, e ne redistribuiscono l'altra parte ai proprietari fondiari e ai lavoratori improduttivi. Si manifesta così la duplicità del rapporto fra capitale e lavoro salariato: in quanto lavoro produttivo di sovrappiù, il lavoro produce il capitale, ma in quanto lavoro salariato viene comandato dal capitale. Come Smith scrive nell'Abbozzo della Ricchezza delle nazioni, "In un paese civile i poveri provvedono a se stessi e all'enorme lusso dei loro signori [...]. Tra i selvaggi, invece, ognuno gode dell'intero prodotto della propria attività" (v. Smith, 1763).
Occorre ricordare qui un problema che Smith, a differenza dei fisiocratici, si trova a dover affrontare: il problema di che cosa determini il valore delle merci. Poiché per i fisiocratici il prodotto netto si dava soltanto in agricoltura, di esso si poteva dare una determinazione quantitativa in termini fisici, come semplice differenza fra le quantità di beni prodotte e le quantità di beni impiegate come mezzi di produzione e mezzi di sussistenza; ma quando può darsi sovrappiù in tutte le attività produttive, come è per Smith, l'unica determinazione quantitativa logicamente possibile diventa quella in valore. Nasce di qui la centralità della teoria del valore nell'analisi dell'economia capitalistica.

c) David Ricardo: saggio dei profitti, macchine e accumulazione
Anche David Ricardo, come Smith, concepisce il capitale nella sua materialità, piuttosto che come rapporto sociale, e come Smith lo riduce alle anticipazioni salariali. Per Ricardo il problema principale dell'economia politica non è però l'indagine sulle cause della ricchezza delle nazioni, bensì la determinazione delle leggi che regolano la distribuzione del prodotto sociale, al netto della rendita, fra capitalisti e lavoratori. Vi è dunque almeno l'intuizione di un rapporto fondamentale fra capitale e lavoro salariato.
Nell'ipotesi che il capitale consista soltanto nelle anticipazioni salariali, il saggio dei profitti (che per definizione è uguale al rapporto fra l'ammontare dei profitti e il valore del capitale) risulta pari al rapporto fra profitti e salari, ed è dunque la misura ricercata della distribuzione del prodotto sociale netto di rendita fra capitalisti e lavoratori. Si tratterà perciò di individuare le determinanti del saggio dei profitti, il modo in cui il saggio dei profitti si muove con il procedere dell'accumulazione del capitale, e se e come l'introduzione delle macchine nel processo produttivo abbia influenza sugli interessi delle diverse classi della società ("argomento questo di grande importanza che sembra non sia stato mai esaminato in modo da condurre a risultati certi e soddisfacenti").
Ricardo non dà una spiegazione dell'origine del profitto, poiché lo concepisce come un residuo: come quel che resta nelle mani dei capitalisti, una volta pagati rendita e salari; tuttavia la sua teoria del saggio dei profitti mostra che il rapporto fra capitalisti e lavoratori salariati è un rapporto conflittuale: è questa un'importante implicazione politica dell'analisi ricardiana delle relazioni fra capitale sociale e processo lavorativo sociale, quali si danno nel modo di produzione capitalistico.
Il saggio dei profitti, secondo Ricardo, dipende da due ordini di circostanze: dalle condizioni tecniche della produzione e dal saggio di salario. Date le condizioni tecniche della produzione (e in ogni dato momento esse sono date), saggio dei profitti e saggio di salario stanno fra di loro in una relazione inversa: a un alto saggio di salario corrisponde un basso saggio dei profitti e viceversa. Inoltre, e a differenza di quanto sosterrà la teoria neoclassica nella sua versione egemone, non è vero che a una data configurazione delle tecniche di produzione corrisponda una e una sola configurazione distributiva di equilibrio: in astratto è compatibile con una configurazione data delle tecniche di produzione qualsiasi configurazione distributiva compresa fra i due estremi in cui tutto il prodotto netto (di rendita) va ai salari, o in cui tutto il prodotto netto va ai profitti (è importante sottolineare che ciò è vero in astratto: nella realtà non è vero che non esista un vincolo distributivo alla determinazione del livello di attività o al processo di accumulazione del capitale, come mostrerà Marx e come è stato dimostrato dagli esiti politici delle tesi neoricardiane, fatte proprie da una parte del sindacato italiano negli anni settanta, circa il salario come 'variabile indipendente').
Il prodotto sociale che si spartiscono capitalisti e lavoratori è il prodotto sociale al netto della rendita. Sul livello del saggio dei profitti, e sulla sua dinamica nel corso del processo di accumulazione, hanno dunque influenza le determinanti della rendita stessa. Questa, secondo Ricardo (che ne mutua la spiegazione da Malthus), dipende dal fatto che il processo produttivo è caratterizzato da rendimenti decrescenti; se si suppone, come Ricardo fa nella versione più semplice della sua teoria, che l'unica attività produttiva sia quella agricola e che le diverse terre abbiano diversa fertilità, allora la concorrenza fra capitalisti da un lato e fra proprietari terrieri dall'altro farà sì che la rendita risulti pari alla differenza fra il prodotto effettivamente ottenuto e quello che si sarebbe ottenuto se tutte le terre fossero state di fertilità pari a quella della terra meno fertile fra quelle messe a coltura. Su quest'ultima la rendita è nulla, e il suo prodotto (il prodotto marginale) basterà appena a pagare i salari e i profitti, a un saggio (dei profitti) che per effetto della concorrenza dovrà essere uniforme su tutte le terre. Il saggio di salario, d'altra parte, dovrà anch'esso essere uniforme su tutte le terre, e sarà mantenuto al livello di sussistenza dall'operare di un meccanismo demografico di tipo malthusiano.
Per Ricardo (che almeno in questo senso aderisce alla legge di Say, secondo la quale tutti i redditi sono integralmente spesi) se vi sono profitti positivi, questi saranno investiti dai capitalisti nella coltivazione di nuove terre, che avranno una produttività via via decrescente. I profitti saranno schiacciati fra rendita e salari (vi è dunque conflitto non soltanto fra capitalisti e lavoratori salariati, ma anche fra queste due classi e quella dei rentiers); il saggio dei profitti diminuirà, e il sistema - prima o poi - raggiungerà lo stato stazionario.
Il rapporto (distributivo) fra capitale e lavoro salariato non è però istituito, per Ricardo, soltanto dalle leggi 'naturali' che governano la relazione inversa fra saggio di salario e saggio dei profitti e la caduta di questo nel corso del processo di accumulazione (non tendenziale, ma necessaria), bensì anche dall'eventuale introduzione di macchine nel processo produttivo: che non è un fatto di natura, ma è il risultato di decisioni dei capitalisti.
Per Ricardo, e contro l'opinione allora e oggi dominante, l'introduzione di macchine nel processo produttivo riesce spesso dannosa agli interessi della classe dei lavoratori. L'occupazione aumenta sicuramente soltanto quando aumentano le anticipazioni salariali e il salario è al suo livello 'naturale', di sussistenza; mentre l'introduzione delle macchine può far sì che aumenti il reddito netto della società (rendite e profitti) e contemporaneamente diminuisca il reddito lordo (e dunque l'ammontare dei salari). A ciò consegue, secondo Ricardo, che la stessa causa che può aumentare il reddito netto del paese può nello stesso tempo rendere esuberante la popolazione e peggiorare le condizioni dei lavoratori.

d) John Stuart Mill: il capitale come fattore della produzione
Il tentativo di John Stuart Mill di emendare, completare e sistemare le teorie ricardiane prelude in realtà allo stravolgimento che del pensiero classico compirà la scuola neoclassica. Ricardo non dà una spiegazione dell'origine del profitto, che concepisce come grandezza residuale; egli nega, in altre parole, che il capitale materiale abbia in sé un proprio potere produttivo. Mill si pone invece il problema di spiegare - ma principalmente di giustificare - i redditi da profitto come generati da un siffatto potere produttivo, anticipando così una concezione del capitale come di un elemento materiale che si combina con lavoro e terra nella produzione di ricchezza: una concezione del capitale, dunque, come 'fattore' della produzione. Su ciò si tornerà più avanti, ma vanno indicati almeno alcuni aspetti della concezione milliana del capitale perché rappresentativi di indirizzi di pensiero presenti anche in altri autori dell'epoca (J.B. Say, J. M. Lauderdale, J. R. McCulloch).
La teoria milliana del capitale - definito come "un fondo accumulato dei prodotti del lavoro precedente" - è riassunta dallo stesso Mill in quattro "proposizioni fondamentali":
1) l'industria è limitata dal capitale (l'occupazione può essere aumentata soltanto mediante l'accumulazione di capitale, cioè sarebbero impossibili problemi malthusiani di insufficienza della domanda);
2) il capitale è il risultato del risparmio;
3) il capitale, sebbene sia il risultato del risparmio, è tuttavia consumato (vi è dunque corrispondenza, come vuole la legge di Say, fra risparmio e spese);
4) la domanda di merci non è domanda di lavoro. (Quest'ultima e discussa proposizione probabilmente significa che la domanda di merci non è necessariamente domanda di lavoro, poiché la decisione di ricostituire il fondo salari mediante il ricavato dalla vendita delle merci prodotte spetta al capitalista. A questa proposizione si lega il quesito milliano, se la distinzione fra ciò che è capitale e ciò che non lo è non dipenda dalle intenzioni del capitalista, ovvero del proprietario del capitale potenziale).
Mill non afferma esplicitamente il potere produttivo del capitale, e anzi scrive che "il capitale, rigorosamente parlando, non ha alcun potere produttivo: l'unico potere produttivo è quello del lavoro"; ma aggiunge subito "assistito indubbiamente da utensili e operante sulle materie prime. Si può forse dire, senza grande improprietà, che la parte di capitale che consiste di utensili e di materie prime possiede un potere produttivo, poiché essi contribuiscono, insieme col lavoro, all'espletamento della produzione. [...] Il concetto appropriato di capitale è che tutto quanto una persona possiede costituisce il suo capitale, purché questa persona possa e voglia impiegarlo non nel consumo a scopo di soddisfazione, ma per procurarsi i mezzi di produzione con l'intenzione di impiegarli produttivamente. Ora i mezzi di produzione sono lavoro, strumenti e materie prime. L'unico potere produttivo che esiste è il potere produttivo del lavoro, degli strumenti e delle materie prime" (v. Mill, 1844).

e) Karl Marx: la critica della formula trinitaria
Karl Marx intitola proprio alla "formula trinitaria" il primo capitolo dell'ultima sezione del terzo volume del Capitale (dedicata a I redditi e loro fonti; l'ultimo capitolo, là dove il manoscritto si interrompe, ha per titolo Le classi).
Scrive Marx: "Questa formula trinitaria si riduce più precisamente alla seguente: capitale-interesse, terra-rendita fondiaria, lavoro-salario, nella quale il profitto, la forma del plusvalore che caratterizza specificamente il modo di produzione capitalistico, è felicemente eliminato. Le pretese fonti della ricchezza annualmente disponibile appartengono a sfere completamente diverse e non vi è fra di esse la più piccola analogia, come non vi è analogia fra gli onorari di un notaio, le carote rosse, la musica. Capitale, terra, lavoro! Ma il capitale non è una cosa, bensì un determinato rapporto di produzione sociale, appartenente a una determinata formazione storica della società. Il capitale è costituito dai mezzi di produzione monopolizzati da una parte determinata della società, dai prodotti e dalle condizioni di attività della forza-lavoro, resi autonomi nei confronti della forza-lavoro vivente, che vengono mediante questa contrapposizione personificati nel capitale. [...] Viene poi la terra, la natura inorganica come tale, rudis indigestaque moles in tutta la sua selvaggia primitività. [...] E infine, come terzo in questa alleanza, un semplice fantasma, 'il' lavoro, che non è altro che un'astrazione, l'attività produttiva dell'uomo in generale, per mezzo della quale egli rende possibile il ricambio organico con la natura. [...] L'economia volgare non fa altro, in realtà, che interpretare, sistemare e difendere le idee di coloro che, impigliati nei rapporti di produzione borghesi, sono gli agenti di questa produzione. Non ci dobbiamo quindi meravigliare che l'economia volgare si senta particolarmente a suo agio proprio in questa forma fenomenica estraniata dai rapporti economici, in cui questi prima facie sono assurdi e del tutto contraddittori - e ogni scienza sarebbe superflua, se l'essenza delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero - e che questi rapporti le appaiano tanto più evidenti di per sé quanto più le rimane nascosto il loro nesso interno".

f) Marx: lavoro salariato e capitale
Per Marx il processo di produzione capitalistico è una forma storicamente determinata del processo di produzione sociale in generale. Quest'ultimo è al tempo stesso il processo di produzione delle condizioni materiali della vita umana e un processo che si sviluppa entro specifici rapporti di produzione storico-economici, producendo e riproducendo questi rapporti stessi di produzione e dunque i rappresentanti di questo processo, le loro condizioni materiali di esistenza e i loro rapporti reciproci, ossia la loro determinata forma economica e sociale. Il complesso di questi rapporti, in cui i rappresentanti di questa produzione stanno con la natura e fra di loro, costituisce precisamente la società, considerata nella sua struttura economica.
La caratteristica principale del modo di produzione capitalistico, se lo si guarda dal punto di vista della circolazione, è che il processo è del tipo Denaro-Merce-Denaro, e non Merce-Denaro-Merce. Ciò vuol dire che mentre nel ciclo M-D-M lo scopo dello scambio è quello di ottenere una merce finale atta a soddisfare bisogni diversi da quelli che possono essere soddisfatti con la merce posseduta e ceduta inizialmente (scopo dello scambio è il valore d'uso e la moneta serve soltanto all'intermediazione nello scambio delle merci), nel ciclo D-M-D si cede denaro per ottenere altro denaro; questo denaro, d'altra parte, non viene mai speso definitivamente, ma rifluisce sempre al punto di partenza. Scopo di questo processo non è ottenere valori d'uso, bensì un plusvalore; la somma ottenuta, perché l'operazione abbia un senso, dovrà essere maggiore di quella ceduta inizialmente: la forma effettiva del ciclo dovrà dunque essere D-M-D´, dove D´ sarà maggiore di D e la differenza rispetto al valore originario sarà costituita dal plusvalore. Nella circolazione, dice Marx, il valore anticipato originariamente si valorizza, e questo movimento lo trasforma in capitale.
Si tratta ora di spiegare come mai D´ possa (e debba) essere maggiore di D. La spiegazione marxiana è la seguente. Come si è visto, il processo si apre con uno scambio di potere d'acquisto contro una merce: il potere d'acquisto originario si trasforma in capitale proprio in quanto assume la forma intermedia di merce. Tuttavia non esiste nessuna risorsa o merce (salvo una, come si vedrà) che allo stesso tempo abbia valore d'uso e sia fonte di valore, così come occorre affinché D´ sia maggiore di D. Diventa dunque necessario indagare come nel modo di produzione capitalistico si svolga il processo di produzione (e riproduzione). L'idea marxiana è che l'unica merce che insieme abbia valore d'uso e funzioni come fonte di valore sia la forza lavoro. Di tale merce, che costituisce l'unica proprietà del lavoratore, il lavoratore stesso non può fare uso, poiché non possiede i mezzi di produzione; può soltanto venderla a chi - il capitalista - possiede potere d'acquisto da trasformare in capitale, la immette e utilizza nel processo produttivo e ne trae il plusvalore che si realizzerà (se si realizzerà) nella forma di profitto con l'ulteriore trasformazione della merce prodotta in denaro.
Se le cose stanno così, non è più possibile pensare il capitale soltanto come entità materiale e come categoria distinta dal lavoro, come semplice insieme di mezzi di produzione che vengono combinati con il lavoro per produrre valori d'uso. Nel modo di produzione capitalistico il lavoratore è lavoratore salariato, e il rapporto materiale fra strumenti di lavoro e capacità lavorativa, quale si dà nel processo lavorativo, sottende un nesso sociale fra capitalista e lavoratore che condiziona tutto il processo di valorizzazione e di riproduzione.
Scrive Marx (in Lavoro salariato e capitale): "Anche il capitale è un rapporto sociale di produzione. Esso è un rapporto borghese di produzione. Il capitale non è dunque soltanto una somma di prodotti materiali; esso è una somma di merci, di valori di scambio, di grandezze sociali [...]. Come dunque una somma di merci, di valori di scambio, diventa capitale? Per il fatto che essa, come forza sociale indipendente, cioè come forza di una parte della società, si conserva e si accresce attraverso lo scambio con il lavoro vivente, immediato. L'esistenza di una classe che non possiede null'altro che la capacità di lavorare è una premessa necessaria del capitale" (v. Marx, 1849).

g) Marx: il processo di produzione-riproduzione
Che cosa avviene nello scambio fra capitale e lavoro salariato? Per Marx il valore di una merce si scinde in tre parti: capitale costante, capitale variabile, plusvalore. Il processo produttivo si apre con la spesa da parte del capitalista del suo capitale monetario nell'acquisto dei mezzi di produzione e della forza lavoro (la quale costituisce il capitale produttivo). La forza lavoro, come qualsiasi altra merce, viene pagata secondo il suo valore, che è pari al tempo di lavoro necessario per riprodurla (cioè per produrre i mezzi di sussistenza del lavoratore).
Al termine del processo di produzione il capitale produttivo è trasformato in capitale merce, in merci che hanno un valore superiore a quello del capitale produttivo iniziale. La parte di capitale monetario spesa nei mezzi di produzione (capitale costante) non cambia la sua grandezza di valore, mentre la parte spesa in forza lavoro (capitale variabile) ha aumentato il suo valore, producendo il plusvalore che viene trattenuto dal capitalista e che, una volta realizzato, può essere trasformato in nuovo capitale produttivo. Il lavoratore salariato si troverà così di fronte il valore che egli stesso ha prodotto; egli vende la propria forza lavoro per produrre ciò che gli si contrapporrà come proprietà del capitalista. Da un lato la forza lavoro, in quanto produce plusvalore, è all'origine del profitto; dall'altro il lavoro, in quanto lavoro salariato, è incluso nel capitale.
Ciascun singolo capitale, tuttavia, può riprodursi soltanto se la merce prodotta viene venduta e il ricavato viene riconvertito in nuovo capitale produttivo. La realizzazione della merce può però essere ostacolata da tre ordini di circostanze: il bisogno che la collettività ha della merce stessa; la quantità di moneta esistente; l'effettiva trasformazione in denaro dell'intera quantità prodotta. Gli schemi di riproduzione di Marx, che riprendono l'idea del Tableau économique di Quesnay, hanno lo scopo di individuare le condizioni necessarie affinché il processo di produzione possa ripetersi, riprodursi, ed è proprio nel processo di riproduzione che può manifestarsi l'equilibrio - oppure la crisi - del capitale.
Se si suddivide il sistema economico nei due settori fondamentali (quello che produce mezzi di produzione e quello che produce merci salario), allora dalla condizione di uguaglianza fra domanda e offerta che è necessaria per ciascun settore risulterà che la domanda di mezzi di produzione da parte del settore che produce merci salario deve essere uguale alla domanda di merci salario da parte del settore che produce mezzi di produzione. In assenza di un piano, è chiaro non soltanto che il verificarsi spontaneo di questa condizione è improbabile, ma anche che, se quella uguaglianza per caso si verifica, nulla assicura che essa comporti il massimo livello di attività e di occupazione del sistema; sono cruciali, comunque, nella determinazione del livello, delle proporzioni e della regolarità e stabilità delle modalità di riproduzione del sistema, le decisioni dei capitalisti circa l'impiego dei profitti realizzati.
Da questo punto di vista, cioè dal punto di vista della riproduzione e della circolazione del capitale complessivo, Marx dimostra che l'equilibrio reale, nello scambio delle diverse parti del prodotto annuo, non necessariamente esiste, né è necessariamente unico, stabile e ottimo per tutti, come invece vogliono gli economisti ortodossi. In particolare, la funzione del denaro quale capitale monetario produce determinate condizioni dello svolgimento normale della riproduzione (sia su scala semplice sia su scala allargata), che si trasformano in altrettante condizioni di svolgimento anormale della produzione, in possibilità di crisi: "poiché l'equilibrio stesso - dato il carattere primitivo di questa produzione - è un caso".

h) Marx: plusvalore e profitto
Per Marx la soluzione del problema lasciato irrisolto da Ricardo - quale sia l'origine del profitto - è dunque questa: all'origine del profitto sta il plusvalore, e all'origine di questo sta il pluslavoro prestato nella fabbrica dal lavoratore, dopo che questi aveva venduto sul mercato, e al suo prezzo, la propria forza lavoro. Lo scambio che ha per oggetto la merce forza lavoro è uno scambio fra equivalenti nella sfera della circolazione, mentre è uno scambio fra non equivalenti se si considera il processo capitalistico complessivo, che è allo stesso tempo processo di circolazione, produzione e riproduzione.
La giornata lavorativa si divide in due parti: una prima parte serve a ricostituire i beni di consumo necessari alla riproduzione della forza lavoro (lavoro necessario), la seconda (pluslavoro) costituisce il plusvalore, quella parte del valore del prodotto che non ritorna al lavoratore salariato e che anzi gli si contrapporrà come nuovo capitale. Conviene aggiungere che un rapporto di sfruttamento non si dà soltanto nel modo di produzione capitalistico, ma soltanto in questo esso è mediato, e celato, dallo scambio. Il profitto è il risultato della forma capitalistica del rapporto di sfruttamento.
Poiché il valore di ogni merce prodotta capitalisticamente si scinde per Marx in capitale costante (c), capitale variabile (v) e plusvalore (s), la grandezza alla quale vanno commisurati i profitti ai fini della determinazione del saggio del profitto sarà il valore dell'intero capitale speso negli elementi della produzione; cioè la somma del capitale costante e del capitale variabile, e non soltanto l'ammontare dei salari anticipati, come si ha in Ricardo. Se il plusvalore si trasforma in profitto (se cioè la merce prodotta viene realizzata), il saggio del profitto sarà dato da s/(c + v), ovvero, se si dividono numeratore e denominatore per v, dal rapporto fra s/v (che si può definire saggio del plusvalore o di sfruttamento) e (c/v + 1) (dove il rapporto c/v può essere definito 'composizione organica del capitale').
Mentre il saggio del plusvalore rende manifesta l'origine del plusvalore stesso, che è il capitale variabile, nel saggio del profitto tale origine viene occultata poiché, perdendosi la distinzione fra capitale costante e capitale variabile, il profitto apparirà come generato da 'qualità segrete' del capitale nel suo complesso (e non soltanto da quella sua parte che per Marx ha capacità di valorizzazione). Il capitalista anticipa il capitale complessivo senza riguardo alle diverse funzioni assolte nella produzione del plusvalore dalle singole parti costitutive del capitale, e dunque ai suoi occhi il profitto è originato dal capitale in sé, mentre in realtà esso non è altro che una forma mistificata del plusvalore, "la forma fenomenica del plusvalore". (Si pone qui il cosiddetto 'problema della trasformazione', che ci limitiamo a menzionare. Mentre in Ricardo valore e prezzo coincidono immediatamente, per Marx valore e prezzo sono due categorie distinte: i valori si 'trasformano' in prezzi di produzione per effetto della concorrenza, in maniera tale da assicurare ai vari capitali l'eguaglianza dei saggi di profitto. I prezzi di produzione dovrebbero dunque essere determinati a partire dai valori. Sulla trasformazione in prezzi dei valori misurati in termini di lavoro incorporato è bene avvertire che l'analisi elaborata da Piero Sraffa (v., 1960) in Produzione di merci a mezzo di merci, ha messo in evidenza che, nel procedere alla trasformazione, si incontrano difficoltà gravi, secondo alcuni economisti insuperabili, secondo altri non decisive).
Un cenno, infine, agli effetti dell'accumulazione del capitale sul saggio del profitto. Si è visto come per Ricardo il saggio del profitto dipenda dalle condizioni tecniche della produzione e dal saggio di salario, e che la messa a coltura di terre via via meno fertili, dato il saggio di salario, comporta necessariamente e naturalmente una caduta del saggio dei profitti. Nella definizione marxiana (e nella contabilità capitalistica) del saggio del profitto, questo dipende invece dal rapporto fra il saggio del plusvalore e la composizione organica del capitale; cioè dalla divisione della giornata lavorativa (che è una misura della distribuzione del prodotto fra capitalisti e lavoratori) e dalle condizioni tecniche della produzione (descritte in termini di composizione organica del capitale). Ciò significa che, a parità del saggio di plusvalore (ovvero di sfruttamento), l'andamento del saggio del profitto dipenderà da quello della composizione organica del capitale. Questa, a sua volta, dipende dalle decisioni dei capitalisti circa le tecniche di produzione e circa il rapporto fra capitale costante e capitale variabile, che in generale tenderà ad aumentare, non tanto in dipendenza di un 'progresso tecnico' ineluttabile, il quale deterministicamente conduca a sostituire macchine a lavoro vivo, ma in quanto in tal modo - generando disoccupazione (esercito industriale di riserva) - si manterrà il salario al suo livello di sussistenza. Il saggio dei profitti, dunque, tenderà a diminuire, a causa delle decisioni stesse dei capitalisti; anche se alla legge della caduta tendenziale del saggio del profitto potranno opporsi, quali contraddizioni intrinseche della legge, delle cause antagonistiche.

3. L'epoca neoclassica

Nel suo splendido libro su Gli anni dell'alta teoria. Invenzione e tradizione nel pensiero economico, 1926-1939, George L. S. Shackle narra che nei quarant'anni seguenti il 1870 fu fondata una "grande teoria" o "grande sistema della scienza economica", il cui unico scopo era di dimostrare quali fossero le implicazioni logiche di gusti o bisogni dati, combinati con "conoscenza perfetta" e messi a confronto con "scarsità e versatilità di risorse". Scarsità e versatilità di risorse, unite alla perfetta e generale conoscenza delle soddisfazioni che si possono trarre da ciascun uso di tali risorse attraverso l'intera gamma di possibilità rivelate da un determinato stadio della tecnologia, assicuravano che queste risorse sarebbero state sempre pienamente impiegate. La conoscenza perfetta implicava anche la perfezione dei mercati, così che ogni bene veniva prodotto da un gran numero di imprese di pari dimensioni fra le quali i compratori si muovevano in completa indifferenza. Inoltre la conoscenza perfetta aboliva del tutto la necessità di un qualche mezzo di conservazione del potere generale d'acquisto (distinto dalla ricchezza incorporata in forme concrete capaci di fornire direttamente la soddisfazione del consumo o di intervenire fisicamente nella produzione) e quindi non c'era moneta reale (la cui funzione come riserva di valore è di rendere possibile la posposizione di una decisione circostanziata a chi possiede una conoscenza imperfetta). La teoria evitava di prendere in considerazione lo sviluppo in qualsiasi sua forma: "La Grande Teoria era quindi la teoria dell'equilibrio generale stazionario (o, meglio, atemporale), perfettamente concorrenziale e di piena occupazione" (v. Shackle, 1967).

a) L'equilibrio economico come ordine naturale e necessario
Con l'avvento della scuola neoclassica l'economia politica si trasforma in una disciplina che di 'politico', esplicitamente, ha ben poco; la 'scienza' economica, secondo la definizione che ne darà Lionel Robbins tra il 1932 e il 1935, si riduce all''economica': "scienza che studia la condotta umana come una relazione tra scopi e mezzi scarsi, applicabili a usi alternativi". Questa riduzione (o generalizzazione, a seconda dei punti di vista) nell'ambito della teoria del capitale conduce a concepire il capitale stesso esclusivamente nella sua connotazione materiale: come un insieme di mezzi di produzione prodotti e dotati di produttività.
Già nell'epoca classica erano presenti teorie che concepivano il capitale come 'fattore produttivo'. Nassau Senior, in particolare, riconduce la produttività del capitale alla categoria dell''astinenza', cioè al "comportamento di un soggetto che o si astiene dall'uso improduttivo di ciò di cui dispone o deliberatamente preferisce il conseguimento di risultati remoti anziché quello di risultati immediati". All'origine del profitto starebbe l'astinenza, e nella definizione e nell'analisi del capitale diventa centrale la dimensione temporale del processo produttivo.
Un'impostazione siffatta ha una conseguenza di grande portata sulla visione del processo economico. La conseguenza è che se il lavoro non è l'unica fonte del valore, ma esistono anche altri 'fattori' della produzione, allora viene meno la categoria del sovrappiù, che per l'appunto presuppone che sia il lavoro produttivo (la forza lavoro, per Marx) a produrre di più di quanto occorra alla sua riproduzione, e si afferma la concezione del problema distributivo come retto dall'armonia anziché dal conflitto fra classi antagonistiche. Se si pensa ciascuna quota distributiva come il risultato di un contributo produttivo specifico di ciascun fattore, la distribuzione del prodotto sociale non è più determinata anche da un conflitto di classe, ma soltanto dalle condizioni tecniche della produzione, che sono assunte come date. Il mondo è retto da un'unica, determinata legge economica ed esiste un'unica configurazione di equilibrio, che in assenza di attriti si afferma e si mantiene naturalmente e con il massimo vantaggio per tutti. Il reddito percepito da ciascun soggetto non è altro che il prezzo per i servizi produttivi dei fattori della produzione di cui ciascun soggetto è proprietario.

b) Il capitale nell'equilibrio economico generale
Del capitale la teoria di Léon Walras vuole e può dire soltanto ciò che se ne può dire nel linguaggio matematico. Ciò rende particolarmente difficile esporla mediante il linguaggio comune, ma soprattutto le impedisce di indagare il ruolo che il capitale ha nelle diverse fasi del processo capitalistico di produzione-riproduzione, riducendo la questione al modo in cui il capitale entra (come dato) in un problema di massimizzazione sotto vincoli. Questo, nella visione di Walras, è un problema generale e universale, che va studiato con riferimento a un sistema il cui funzionamento non è condizionato da alcuna determinazione storica o istituzionale.
Il problema che Walras affronta con la sua teoria dell'equilibrio economico generale è il seguente: quali siano le quantità di beni prodotti e scambiati, e i prezzi ai quali avvengono tali scambi, in quella configurazione che vede realizzate simultaneamente le posizioni di equilibrio cui tendono i soggetti economici. I dati del problema, d'altra parte, sono le quantità iniziali di risorse produttive, la tecnica di produzione, il sistema di preferenze dei soggetti. Si suppone, inoltre, che il mercato sia concorrenziale e che i soggetti siano razionali nel senso che tendono a massimizzare la propria soddisfazione.
Lo schema analitico complessivo comprende quattro stadi: una teoria dello scambio, sotto il vincolo dell'eguaglianza fra domanda e offerta dei beni di consumo; una teoria della produzione, sotto il vincolo dell'eguaglianza fra prezzo di vendita dei prodotti e costi dei servizi produttivi che vi sono entrati; una teoria della capitalizzazione, circa le quantità prodotte dei capitali propriamente detti, sotto il vincolo dell'uniformità del saggio di rendimento dei beni capitali e dell'eguaglianza fra reddito risparmiato e valore dei nuovi beni capitali prodotti; infine una teoria della circolazione che tenga conto della necessità (strumentale) della moneta come capitale circolante.
Per Walras il capitale in generale è costituito da "tutte le forme di ricchezza sociale che non sono consumate affatto o che vengono esaurite soltanto dopo un certo periodo di tempo". Sono invece redditi "tutti i beni non durevoli, tutte le forme di ricchezza sociale che vengono consumate immediatamente". Per intendere il modo in cui il capitale entra nella determinazione dell'equilibrio economico walrasiano, occorre dunque partire dalla nozione walrasiana di ricchezza sociale, che è "l'insieme delle cose materiali o immateriali che sono scarse, cioè che da una parte ci sono utili e dall'altra non sono disponibili che in quantità limitata". Gli elementi della ricchezza sociale sono di due tipi: i capitali, beni che servono più di una volta, e i redditi, beni che servono una sola volta. I capitali, a loro volta, sono di tre tipi: i capitali, o risorse, naturali, i capitali, o capacità, personali, e i capitali propriamente detti, quei beni capitali che non sono né terra né facoltà personali. Quanto ai redditi, essi comprendono i beni per uso di consumo (beni di consumo e servizi consumabili delle tre specie di capitali) e i beni per usi di produzione (beni intermedi e servizi produttivi delle tre specie di capitali).
La principale preoccupazione analitica di Walras riguarda la trasformazione dei servizi produttivi in prodotti. Nel processo economico vi sarebbe dunque un punto di partenza (le dotazioni iniziali di capitali) e un fine: il consumo, da parte dei soggetti, dei beni di consumo, e l'acquisto - in quanto risparmiatori - di nuovi capitali. La successione lineare che conduce dal punto di partenza al traguardo è la seguente: i soggetti proprietari dei capitali (in quantità date) ne vendono i servizi agli imprenditori; questi, comprati tali servizi, si scambiano (nel senso del baratto) i servizi intermedi fra di loro; ora dispongono dei fattori della produzione e li immettono in un processo produttivo, la cui tecnologia è data; l'esito del processo è la vendita dei prodotti, dagli imprenditori ai proprietari dei servizi produttivi, che i primi avevano acquistato dai secondi e che ora i secondi sono in grado di acquistare dai primi.
Per esprimersi in termini moderni, si può dire che nella teoria walrasiana della produzione le merci non sono prodotte (come è invece per gli economisti classici) mediante altre merci prodotte, bensì grazie ai servizi produttivi di beni capitali assunti come dati nello schema. La funzione dell'imprenditore si riduce a quella di comprare servizi produttivi e vendere beni di consumo, senza alcuna iniziativa o reddito suoi propri; come noterà Schumpeter, "è chiaro che nel pensiero di Walras le famiglie sono realmente gli agenti che, sia come compratori che come venditori di servizi, determinano il processo economico " (v. Schumpeter, 1954).
Per quanto riguarda il valore dei beni capitali occorre distinguere due casi: un'economia in stato stazionario e un'economia in sviluppo. Nella prima non vi sarà un mercato sul quale si determinano tali valori, poiché in uno stato stazionario non vi sarà produzione di nuovi beni capitali, ma soltanto ammortamenti e rinnovi. In un'economia in sviluppo vi sarà invece domanda di nuovi beni capitali e offerta di risparmio. Gli imprenditori domanderanno nuovi beni capitali fino a quando non saranno uguali il rendimento di questi e il prezzo di offerta del risparmio, sotto la condizione che in equilibrio i prezzi dei beni capitali siano proporzionali ai loro rendimenti netti. L'offerta di risparmio, da parte delle famiglie, è spiegata da Walras in termini di utilità. A questo fine - per stabilire una relazione fra beni capitali e utilità - Walras immagina un bene ideale, il "ricavo netto perpetuo", per il quale ciascuna famiglia ha una funzione di domanda (basata sull'utilità marginale che attribuisce al bene stesso). I prezzi dei beni capitali possono ora essere espressi in termini del prezzo di un'unità di ricavo netto perpetuo per unità di tempo, che è il reciproco del saggio di interesse. In equilibrio la domanda complessiva di nuovi beni capitali (che deve essere uguale al risparmio) dovrà ripartirsi fra le industrie che producono questi nuovi beni capitali secondo la condizione di proporzionalità ricordata sopra (in modo che il rendimento netto dei beni capitali sia proporzionale ai loro prezzi). Il fattore di proporzionalità comune ai prezzi di tutti i beni capitali sarà dato dal reciproco del prezzo di un'unità di ricavo netto perpetuo e dunque - in assenza di moneta - coinciderà con il saggio di interesse.
L'edificio walrasiano è senza dubbio molto bello, come scrive Schumpeter (che ne è affascinato e però - tentato da Marx - vuol prenderne le distanze): "Il piano terreno di questa costruzione è la teoria del 'mercato' dei beni di consumo. Al primo piano troviamo la teoria della produzione e il 'mercato' dei servizi produttivi, non separato dal primo mercato ma con esso integrato. Al secondo piano abbiamo il 'mercato' dei beni capitali, analogamente integrato con gli altri due" (ibid.). (E al terzo piano c'è un altro mercato, integrato con gli altri tre, quello del 'capitale circolante' e della moneta).
Sebbene la teoria walrasiana sia spesso invocata come fondamentale, in quanto schema di riferimento indispensabile per una fondazione microeconomica delle proposizioni relative al funzionamento del sistema economico nel complesso (fondazione che molti presumono necessaria, sebbene con ragioni dubbie), quella stessa teoria sembra a sua volta avere fondamenta discutibili. Infatti la teoria dell'equilibrio economico generale ha dato luogo a una vastissima letteratura, in accordo o critica, sulla sua coerenza formale e il suo realismo; qui ci si limita a riprendere una considerazione di Claudio Napoleoni, per il quale al fondo delle difficoltà analitiche della teoria walrasiana c'è un modo sostanzialmente contraddittorio di concepire il capitale: "Il capitale è una realtà essenzialmente unitaria proprio perché costituisce, nel suo insieme e indipendentemente dai singoli beni che lo costituiscono, il termine di riferimento rispetto al quale si determina il saggio dell'interesse. La contraddizione in cui cade Walras sta allora in ciò, che, da un lato, il capitale è frantumato nelle sue singole componenti (i tanti 'beni capitali') e, dall'altro lato, è riaffermato come unitario nel momento in cui ciò è inevitabile, ossia nel momento in cui si introduce il saggio dell'interesse (comune valore dei saggi di rendimento)" (v. Napoleoni, 1976).

c) La teoria 'austriaca': capitale e tempo
Al centro della teoria austriaca del capitale (il cui campione è Eugen von Böhm-Bawerk, ma in cui confluiscono da varie parti culturali e in tempi diversi i contributi di William S. Jevons - "Il capitale è un fatto di tempo" -, Carl Menger, Knut Wicksell e altri) sta l'idea che il capitale, in quanto fattore della produzione, possa essere misurato in termini di 'periodo di produzione'. Il capitale, per Böhm-Bawerk - "il Marx borghese", secondo Schumpeter -, non è un fattore produttivo originario, quali sono il lavoro e la terra, ma è esso stesso prodotto. I beni di consumo possono essere prodotti anche direttamente, mediante l'impiego dei soli fattori originari; normalmente, tuttavia, essi sono prodotti con metodi indiretti, che comportano l'impiego di beni intermedi, di beni capitali: tali metodi indiretti sono più produttivi, e diventano tanto più produttivi (sia pure con incrementi decrescenti) quanto più lungo è il periodo di produzione. Il problema diventa allora quello di determinare una misura dell'intensità capitalistica delle tecniche di produzione, che a sua volta consenta di determinare il saggio di interesse associato a ciascuna tecnica, nonché le relazioni intercorrenti fra intensità capitalistica delle tecniche e distribuzione del reddito, nell'ipotesi che i soggetti adottino un comportamento massimizzante.
In quanto il capitale non è un fattore produttivo originario, deve esserne possibile, per Böhm-Bawerk, la riduzione ai fattori originari; in particolare, se per semplicità si trascura la terra, il capitale deve poter essere ridotto al lavoro che nelle epoche precedenti al periodo considerato è stato investito nella produzione dei mezzi di produzione. L'intensità capitalistica delle tecniche di produzione può allora essere misurata in termini di periodo medio di produzione: se si considerano i periodi che intercorrono tra l'epoca in cui è stata prestata ciascuna quantità di lavoro e il momento in cui si rende disponibile il prodotto, il periodo medio di produzione sarà dato dalla media aritmetica dei singoli periodi, ponderati con le rispettive quantità di lavoro. Ciascuna tecnica di produzione ha dunque un suo periodo medio di produzione, che cresce quanto più indiretta, o 'capitalistica', è la tecnica stessa.
Si pone ora il problema dell'interesse. Posto che il capitale non è altro che il lavoro investito nelle epoche precedenti, perché mai il valore del prodotto è maggiore della somma dei valori di tutte le quantità di lavoro direttamente e indirettamente impiegate nella produzione del prodotto stesso, e comprende anche un interesse?
Per Böhm-Bawerk l'esistenza e l'ammontare dell'interesse sono spiegati da tre fattori fondamentali, i drei Gründe: le "diverse circostanze di bisogno e di approvvigionamento" nel presente e nel futuro, la "sottovalutazione del futuro" e la "superiorità tecnica dei beni presenti su quelli futuri" (i beni presenti possono essere investiti oggi e reinvestiti domani, al momento in cui si rendono disponibili; mentre i beni disponibili domani possono essere investiti soltanto domani). I primi due fattori (o 'regole fattuali', ma in realtà convenzioni) presiedono alle decisioni di consumo: la natura umana è tale che i soggetti preferiscono i beni presenti a beni futuri, così che i beni presenti possiedono un'utilità e perciò un valore superiore rispetto a quelli futuri. La speranza induce a sopravvalutare le risorse future, la mancanza di immaginazione e la debolezza della volontà determinano una sottovalutazione dei bisogni futuri: presi insieme, questi due fattori rendono l'utilità marginale dei beni presenti maggiore di quella dei beni futuri. Per provocare un'offerta di beni presenti in cambio di beni futuri occorre pagare un aggio, un interesse. L'altro fattore, il terzo, spiega l'esistenza di un prezzo di domanda dei beni presenti in termini di beni futuri, spiega cioè come mai l'utilizzatore di capitale possa pagare quell'interesse. Questo fattore è di carattere tecnico e consisterebbe nella maggior produttività dei metodi di produzione indiretti: il procedere della civiltà, nel campo tecnico, consiste precisamente nell'adozione di metodi di produzione più 'indiretti', nell''allungamento' dei processi produttivi. Tutto viene così ricondotto alla 'natura', anziché alla struttura storicamente determinata della società: è la natura dell'uomo, e della società, che spiega come l'interesse debba e possa essere pagato. Esso deve essere pagato perché corrisponde a una rinuncia alla disponibilità di ricchezze presenti in vista di una disponibilità futura, e può essere pagato grazie alla maggiore 'produttività' dei metodi 'indiretti', 'capitalistici', di produzione.
Molte obiezioni possono essere e saranno mosse alla costruzione di Böhm-Bawerk (curiosamente analoghe, sul piano logico, a quelle con le quali egli pretese di liquidare il sistema marxiano), ma nella vulgata dei manuali essa continua a imperare.

d) Irving Fisher: impazienza e volontà
Al di fuori delle ipotesi ad hoc sulle quali si regge, la teoria austriaca del capitale (nella formulazione di Böhm-Bawerk) presenta difficoltà insormontabili per quanto riguarda la misurazione del capitale stesso e dunque la determinazione del saggio di interesse in termini di periodo medio di produzione. Irving Fisher tenta di aggirare queste difficoltà abbandonando quest'ultimo concetto, e muovendo dall'idea che "l'interesse è un indice della preferenza espressa dalla comunità per un dollaro presente rispetto a un dollaro futuro" (v. Fisher, 1930).
Per trattare correttamente del ruolo del tempo nella determinazione del saggio di interesse occorre distinguere, secondo Fisher, il concetto di fondo da quello di flusso. In particolare, "un fondo di ricchezza esistente in un dato istante di tempo è detto capitale; un flusso di servizi durante un periodo di tempo è detto reddito". Il capitale è allora qualsiasi forma di ricchezza capace di produrre un flusso di reddito. I percettori di reddito, d'altra parte, cercano di modificare le quantità di reddito disponibili per il consumo nelle diverse epoche future ricorrendo al risparmio e ai prestiti: il saggio di interesse è il prezzo che viene pagato per ottenere reddito presente in luogo di reddito futuro.
La determinazione di tale saggio dipende dall'interazione fra forze soggettive e forze oggettive. Le forze soggettive sono costituite dal "principio dell'impazienza" (o "della volontà"), che presiede alla redistribuzione dei consumi nel tempo da parte dei soggetti. Le forze oggettive, d'altra parte, consistono nel "principio delle occasioni di investimento", il quale consente di valutare i diversi progetti di investimento in termini del loro "saggio di rendimento sul costo". È questa una nozione importante, poiché strettamente connessa a quella keynesiana (anche se con essa non si identifica) di "efficienza marginale del capitale". Il saggio di rendimento sul costo è quel saggio di sconto in base al quale due o più progetti di investimento hanno lo stesso valore attuale netto. Le decisioni di investimento dipenderanno da un confronto fra tale saggio e il saggio di interesse (o, se questo è diverso, il costo del capitale). Il saggio di interesse, a sua volta, non è determinato dall'ammontare di capitale (anche se Fisher non ne nega la produttività), bensì dall'interazione fra le preferenze temporali dei percettori di reddito e le opportunità di investimento. Nell'ipotesi di un comportamento massimizzante dei soggetti e di mercati concorrenziali, i saggi di preferenza temporale individuali e i saggi di rendimento sul costo dei diversi progetti di investimento convergeranno in un punto di equilibrio, il quale costituisce il saggio di interesse del sistema.
Il saggio di interesse non dipende dunque dall'ammontare di capitale (semmai è vero il contrario, che il valore del capitale dipende dal saggio di interesse), bensì dalla preferenza temporale dei soggetti. La prospettiva tradizionale viene rovesciata e il processo produttivo praticamente scompare dall'analisi: all'analisi retrospettiva della struttura del capitale viene sostituita l'analisi prospettica delle opportunità di investimento. Per Fisher (ibid.) il principio fondamentale è che il valore del capitale in un dato momento deriva dal valore del reddito futuro che è atteso da quel capitale: "Il principio del valore presente è di fondamentale importanza nella teoria del valore e dei prezzi. Esso significa che il valore di qualsiasi articolo di ricchezza o di proprietà dipende soltanto dal futuro, non dal passato".

e) Domanda di capitale e produttività marginale
L'idea che il capitale, al pari degli altri fattori, sia produttivo, ha ovvie e importanti conseguenze sul piano della teoria della distribuzione del reddito. Per Smith il profitto era determinato dal saggio naturale del profitto, per Ricardo era un residuo, per Marx il risultato di un rapporto di sfruttamento. Per la teoria neoclassica della produttività marginale (Philip H. Wicksteed, Knut Wicksell, John B. Clark e altri) il profitto (qui, l'interesse), come qualsiasi altra quota distributiva, era univocamente determinato - date le condizioni tecniche della produzione - dalla produttività marginale del capitale. Il principio della marginalità era già presente in Ricardo, che su di esso basava la determinazione della rendita (e solo di questa). Gli economisti marginalisti generalizzano questo principio: tutti i fattori (variabili) della produzione devono essere remunerati, in equilibrio, secondo la loro produttività marginale, che è misurata dalla variazione del prodotto totale provocata dall'aggiunta o dalla sottrazione di un'unità del fattore considerato, quando sia mantenuta costante la quantità degli altri fattori.
Tale tesi ha due importanti implicazioni, una logica, l'altra normativa, riconducibili a questa domanda: una volta che tutti i fattori della produzione siano stati remunerati secondo la loro produttività marginale, secondo il loro 'contributo' alla produzione stessa, si sarà esaurito il prodotto totale? Se così non fosse - se il prodotto totale non bastasse per una siffatta distribuzione, oppure se restasse un residuo - si tratterebbe di una teoria logicamente insoddisfacente. In effetti non tutte le funzioni di produzione godono di questa proprietà, anzi una soltanto: perché il prodotto risulti esaurito, occorre che la funzione di produzione sia di un tipo speciale, omogenea lineare (cioè con rendimenti di scala costanti). Ma ovviamente non c'è nessuna ragione per sostenere che le funzioni di produzione, nella realtà, siano necessariamente di questo tipo, quasi che si trattasse di "una sorta di misteriosa legge naturale" (Joan Robinson). Conviene osservare, inoltre, che una teoria della distribuzione basata sul principio della produttività marginale presuppone che per ciascun fattore questa possa essere calcolata indipendentemente dalla distribuzione del prodotto; occorre, in altri termini, che il valore del capitale non vari al variare della distribuzione, e questo - come oggi sappiamo, e come si vedrà più avanti - in generale non è vero.
L'implicazione normativa di questa teoria della distribuzione, d'altra parte, è che essa - quando sia soddisfatto il requisito di cui si è detto - sembra fornire un principio di giustizia distributiva: ciascun fattore della produzione deve essere remunerato secondo il suo contributo alla produzione, ed esiste un'unica configurazione distributiva di equilibrio, che è imposta dalle condizioni tecniche della produzione e non può né deve essere modificata dall'azione umana. Il profitto (l'interesse), in particolare, trova così una piena e doppia legittimazione, analitica ed 'etica'.

f) Knut Wicksell: una curiosa divergenza
Knut Wicksell condivide l'idea della scuola austriaca, secondo la quale il capitale è un insieme di mezzi di produzione prodotti, "una massa unitaria e omogenea di lavoro e terra risparmiati, accumulati negli anni" (v. Wicksell, 1901-1906). Il valore del capitale può dunque essere calcolato come somma delle remunerazioni (salari e rendite) ai servizi produttivi dei fattori originari (lavoro e terra) investiti nella produzione di beni capitali, capitalizzati in base al saggio di interesse corrente per il periodo di tempo durante il quale sono stati investiti. L'interesse (la remunerazione del capitale) è perciò la differenza fra la produttività marginale del lavoro e della terra risparmiati e la produttività marginale del lavoro e della terra correnti.
Wicksell si accorge però di una "curiosa divergenza": mentre per il lavoro e per la terra la nozione di produttività marginale è inequivoca, tale non è per il capitale nel suo complesso; dunque non si può affermare che vi sia una relazione univoca fra variazioni del capitale totale, variazioni del prodotto sociale e saggio di interesse. La spiegazione di questa curiosa divergenza (dopo Wicksell) è molto semplice: mentre il lavoro e la terra sono misurati ciascuno in termini della propria unità tecnica (ad esempio giornate o mesi lavorativi, ettari per anno), il capitale non può essere misurato in termini fisici, ma soltanto calcolato come una somma di valori di scambio, poiché ciascun singolo bene capitale è misurato in termini di un'unità estranea ad esso.
In quanto è un valore, il capitale non è una variabile indipendente (quali sono il lavoro e la terra), bensì dipende dai saggi di remunerazione. È dunque impossibile determinare il valore del capitale prima che sia stato raggiunto l'equilibrio fra produzione e consumo, per il semplice fatto che il capitale, a differenza dei fattori originari, non può esistere prima e indipendentemente dalla produzione. Se cambia il saggio di interesse, cambia il valore del capitale, e dunque voler spiegare l'interesse a partire dal valore del capitale significa ragionare in circolo.

4. Capitale e moneta

Con l'importante eccezione di Karl Marx e di altri eretici minori, incapaci di influenzare il corso del pensiero e dell'analisi economica, tutta l'economia ortodossa concepisce il capitale essenzialmente come capitale produttivo: come insieme di mezzi di produzione prodotti e non anche come capitale monetario. Questa distinzione è invece al centro delle opere, peraltro ben distinte quanto a metodi e risultati, di Joseph A. Schumpeter e di John M. Keynes. Sia pure brevemente, si deve però ricordare che spunti importanti, circa la distinzione fra capitale produttivo e capitale monetario, si trovano (oltre che in Alfred Marshall) soprattutto in Carl Menger, con la sua nozione di "capitale a disposizione".
Nell'ambito delle teorie classiche e neoclassiche egemoni la nozione di capitale monetario quale potere d'acquisto capace di comandare mezzi materiali di produzione sfugge inevitabilmente, in quanto tali teorie vedono nella moneta soltanto un mezzo per agevolare le transazioni. Menger rileva invece che la moneta ha anche altre funzioni: essa può funzionare come mezzo di tesoreggiamento e di trasferimento patrimoniale nello spazio e nel tempo. In questa prospettiva diventa possibile, e necessario, distinguere le funzioni di chi possiede potere d'acquisto e di chi investe in mezzi di produzione, e l'interesse può essere spiegato semplicemente come il prezzo che si forma nello scambio di un bene contro moneta, dove il bene consiste nel potere di comandare i mezzi di produzione: per Menger il capitale è "proprietà produttiva [considerata] come una somma di denaro impiegata produttivamente" (v. Menger, 1871).

a) Joseph A. Schumpeter: il capitale monetario nel processo capitalistico
Nella sua Teoria dello sviluppo economico Schumpeter definisce così il capitale: "Il capitale non è altro che la leva che consente all'imprenditore di sottomettere al proprio dominio i beni concreti di cui ha bisogno, nient'altro che un mezzo per disporre di certi beni per nuovi scopi o un mezzo per dettare alla produzione una nuova direzione" (v. Schumpeter, 1911). Ma cos'è questa "leva", questo mezzo di dominio?
Per l'imprenditore schumpeteriano tutti i beni di cui ha bisogno al fine di introdurre nuove combinazioni nel processo produttivo si trovano sullo stesso piano, siano essi appezzamenti di terra, prestazioni di lavoro, macchine o materie prime, o anche beni di consumo. Il modo di comportarsi dell'imprenditore nei confronti di qualsiasi bene di cui ha bisogno è sempre lo stesso: li acquista tutti in cambio di moneta, per la quale calcola (quando la possegga di già) o paga (quando la debba prendere a prestito) un interesse.
Il capitale non è l'aggregato di tutti i beni che servono agli scopi dell'imprenditore: il capitale sta di fronte al mondo dei beni, e la sua funzione consiste nel procurare all'imprenditore quei beni che devono essere impiegati produttivamente; sta dunque tra l'imprenditore e il mondo dei beni come un 'terzo agente' necessario alla produzione nell'economia di scambio. Esso costituisce il ponte fra le due cose, non prende direttamente parte alla produzione, né viene esso stesso 'trasformato': piuttosto esegue un compito che deve essere assolto prima che possa iniziare la produzione tecnica. C'è infatti un momento in cui l'imprenditore ha già il capitale necessario, ma non ancora i beni produttivi: in questo momento si può vedere con chiarezza come il capitale non si identifichi affatto con beni concreti e sia invece un 'agente autonomo'. Schumpeter cita qui, significativamente, Quesnay: "Parcourez les fermes et les ateliers, et [...] vous trouverez des bâtiments, des bestiaux, des matières premières, des meubles et des instruments de toute espèce". Una volta acquistato tutto ciò, il capitale ha adempiuto la sua funzione; l'imprenditore non ha più il capitale che gli era stato messo a disposizione, l'ha ceduto in cambio dei mezzi di produzione, nel cui insieme consisterebbe - secondo "la concezione scientifica dominante" - il capitale stesso. In questo modo, secondo Schumpeter, si ignora però completamente la funzione del capitale di procurare beni, e si sostituisce alla visione complessiva (e 'circolare') del processo economico la supposizione "estranea alla realtà" che all'imprenditore vengano direttamente prestati quei beni di cui ha bisogno.
Il capitale è per Schumpeter un fondo di potere d'acquisto. Si tratta ora di capire in che cosa consista questo fondo di potere d'acquisto. Se ci si limitasse a dire che esso consiste in una somma di denaro, si tornerebbe alla nozione di Menger (e per un verso a quella di Fisher); ma soprattutto non è vero che per entrare nel novero degli imprenditori occorra il possesso di una siffatta somma, poiché non soltanto la moneta, bensì qualsiasi mezzo di circolazione che adempia a tale funzione è capitale. D'altra parte, se un mezzo di pagamento non serve a procurare a un imprenditore beni produttivi e a sottrarli per questo scopo a quello che era finora il loro impiego, esso non è capitale. Ciò significa che in un'economia senza sviluppo non esiste 'capitale', nel senso che il capitale non adempie alla sua funzione caratteristica di agente autonomo. Il concetto di capitale "incarna un aspetto dei processi economici che ci è suggerito soltanto dai fenomeni dello sviluppo"; si potrà dunque ridefinire il capitale come "quella somma di moneta e di altri mezzi di pagamento che è in ogni momento disponibile per essere ceduta a imprenditori".
Lla nozione secondo la quale lo sviluppo economico è sostanzialmente un diverso impiego dei servizi del lavoro e della terra già esistenti conduce Schumpeter a due 'eresie' (che lo accomunano a Marx e a Keynes); la prima è che nel processo capitalistico ha una funzione essenziale la moneta, l'altra che tale funzione spetta anche agli altri mezzi di pagamento. "I processi che avvengono nel campo dei mezzi di pagamento non sono meri riflessi dei processi che avvengono nel mondo dei beni". Di qui il ruolo centrale, nel processo capitalistico, della moneta e del credito, dunque del banchiere. L'imprenditore ha bisogno del credito nel senso di una cessione temporanea di potere d'acquisto, e ciò proprio per poter produrre, per poter introdurre le sue nuove combinazioni, per diventare un imprenditore. Questo potere d'acquisto, se non lo possiede per altra via - ma in questo caso ciò sarebbe soltanto la conseguenza di uno sviluppo precedente - se lo deve far prestare: egli può diventare imprenditore solo diventando prima debitore. Se il capitale non è altro che la leva che consente all'imprenditore di sottomettere al proprio dominio i beni concreti di cui ha bisogno, il credito è a sua volta la leva di questa sottrazione di beni.
Il credito, per Schumpeter, può essere definito come la "creazione di potere d'acquisto al fine di cederlo all'imprenditore", e non semplicemente come il trasferimento di potere d'acquisto esistente. Attraverso il credito si apre agli imprenditori l'accesso al flusso di beni della società; in un'economia caratterizzata dalla proprietà privata e dalla divisione del lavoro, la concessione del credito agisce come un'ingiunzione al sistema economico di subordinarsi agli scopi dell'imprenditore, come un ordine ai beni di cui egli ha bisogno, "come un affidamento a lui di forze produttive". Il profitto imprenditoriale, in questo quadro, assume il significato di un fenomeno autonomo (anziché conseguente al rapporto fra capitale e lavoro salariato), essenzialmente legato alla funzione dell'imprenditore in quanto leader dell'economia: "È l'espressione del valore del contributo dell'imprenditore alla produzione, esattamente nello stesso senso [anche se non nel senso della teoria della produttività marginale] in cui il salario è l'espressione di valore di ciò che 'produce' l'operaio". Il profitto imprenditoriale non è una rendita, non è un semplice residuo, non è il risultato di un rapporto di sfruttamento, e non è neppure un utile del capitale, poiché non coincide con l'interesse: l'interesse è una porzione del profitto, della quale si appropria chi fornisce all'imprenditore la liquidità che gli occorre, e ha la natura di un premio del potere d'acquisto presente su quello futuro, che si forma sul mercato della moneta e non su quello dei beni.
b) John M. Keynes: capitale, investimenti e animal spirits
Il concetto centrale, nella teoria del capitale di John M. Keynes, è quello di "efficienza marginale del capitale", cioè "quel saggio di sconto al quale il valore presente della serie di annualità, rappresentate dai ricavi attesi dal capitale durante la sua vita, eguaglia esattamente il prezzo di offerta del capitale medesimo" (v. Keynes, 1936). Questa nozione può sembrare - anche a causa di talune concessioni retoriche dello stesso Keynes - simile o addirittura identica a quella fisheriana di "saggio di rendimento sul costo", il quale, come si è già visto, è quel saggio ipotetico di interesse che, se impiegato per calcolare il valore presente di due opzioni messe a confronto, le renderebbe uguali. Di qui conviene cominciare, per mostrare come Keynes non sia affatto un epigono degli economisti neoclassici e la Teoria generale vada invece letta come critica della tradizione neoclassica (così come Il capitale di Marx va letto come critica della tradizione classica).
Al di là delle analogie formali, e a parte alcune differenze tecniche (peraltro importanti), la differenza fondamentale sta in questo: che mentre in Fisher, e in generale nella visione neoclassica, il saggio di rendimento dipende dalla produttività fisica del capitale, per Keynes l'efficienza marginale del capitale dipende dalla scarsità del capitale stesso; scarsità che almeno per il sistema economico nel complesso è artificiale, poiché ancora oggi si è ben lontani da una situazione di saturazione dei capitali: il rendimento del capitale è una sorta di rendita improduttiva ed eliminabile. D'altra parte, mentre la teoria neoclassica determina il valore dello stock di capitale sulla base del tasso d'interesse che risulta dal confronto fra domanda e offerta dei servizi dei beni capitali, per Keynes l'efficienza marginale del capitale è il tasso di profitto atteso, ciò che l'imprenditore -mosso dai suoi animal spirits - si aspetta di ottenere, e non ciò che egli otterrà davvero; l'efficienza marginale del capitale va definita in termini dell'aspettativa di reddito e del prezzo corrente di offerta del capitale: "essa dipende dal saggio atteso di rendimento in termini di moneta, se questa venisse investita in un dato capitale di nuova produzione, non dal risultato storico di ciò che un investimento ha reso rispetto al suo costo originario se si guarda indietro a ciò che ha fruttato quando la sua vita è giunta al termine".
L'ammontare effettivo dell'investimento corrente dipenderà da un confronto fra l'efficienza marginale del capitale e il saggio di interesse corrente, poiché si realizzeranno soltanto quei progetti di investimento la cui efficienza marginale è maggiore, o almeno uguale, al saggio di interesse corrente. L'incentivo a investire dipende quindi in parte dall'efficienza marginale del capitale (dalle aspettative degli imprenditori) e in parte dal saggio di interesse; quest'ultimo tuttavia, e dunque il valore attuale di quel capitale, non può essere determinato sulla sola base della conoscenza del reddito prospettivo di un capitale o della sua efficienza marginale. Occorre dunque una teoria indipendente del saggio di interesse, che consenta poi di calcolare il valore attuale del capitale 'capitalizzando' il suo reddito prospettivo.
Per Keynes il rendimento del capitale dipende dal fatto che esso è (artificialmente) scarso. Ciò è sufficiente per consigliare di non dire che il capitale è produttivo: è assai meglio dire che esso fornisce, nel corso della sua vita, un reddito maggiore del suo costo originario. L'unica ragione per la quale un bene capitale offre la prospettiva di rendere, durante la sua vita, servizi aventi un valore complessivo superiore al suo prezzo di offerta iniziale è perché esso è scarso; e viene mantenuto scarso a causa della concorrenza del saggio di interesse: se il capitale diviene meno scarso, il suo rendimento rispetto al costo diminuirà, senza che diminuisca la sua produttività fisica. Per questa ragione Keynes si dichiara vicino alla dottrina classica: "ogni cosa è prodotta dal lavoro, coadiuvato da ciò che allora usava chiamarsi arte e che ora si chiama tecnica, dalle risorse naturali e dai risultati del lavoro passato incorporati in attività capitali". È insomma preferibile considerare il lavoro (compresi i servizi personali dell'imprenditore e dei suoi collaboratori) come l'unico fattore di produzione, operante in un dato ambiente di tecnica, di risorse naturali, di beni capitali e di domanda effettiva.
Il problema diventa allora quello di determinare che cosa solleciti gli imprenditori a fare quel che fanno, posto che la Teoria generale si può ridurre a questa proposizione: l'occupazione è quella che i capitalisti decidono di dare, secondo le loro aspettative. Secondo lo stesso Keynes, "la teoria si può riassumere dicendo che, data la psicologia della gente, il livello della produzione e dell'occupazione complessive dipende dall'ammontare dell'investimento" (v. Keynes, 1937).

c) Keynes e il saggio di interesse: il distacco dalla tradizione
Keynes, come egli stesso scrive nel fondamentale articolo del 1937, si distacca dalla teoria tradizionale in almeno due punti.
1. La teoria ortodossa assume che noi si disponga di un tipo di conoscenza del futuro completamente diverso da quello che abbiamo in realtà. L'ipotesi di un futuro prevedibile mediante un calcolo benthamiano conduce a un'interpretazione erronea dei principî di comportamento che la necessità di agire ci costringe ad adottare, e a una sottovalutazione dei fattori nascosti di dubbio, di precarietà, di speranza, di timore. Il risultato è stato un'errata teoria del tasso di interesse: "È vero che la necessità di uguagliare i vantaggi della scelta tra il possesso di titoli o di beni capitali rende necessario che il tasso di interesse sia uguale all'efficienza marginale del capitale. Ma questo non ci dice a che livello questa uguaglianza si realizzi. La teoria ortodossa ritiene che sia l'efficienza marginale del capitale a stabilirlo. Ma l'efficienza marginale del capitale dipende dal prezzo dei beni capitali, e poiché questo prezzo determina il tasso del nuovo investimento, esso è compatibile in equilibrio con un solo dato livello del reddito monetario. Perciò l'efficienza marginale del capitale non è determinata, se non è dato il livello del reddito monetario. In un sistema nel quale il livello del reddito è soggetto a fluttuazioni, la teoria ortodossa ha un'equazione di meno di quanto serve per ottenere una soluzione. Indubbiamente la ragione per cui il sistema ortodosso non è riuscito a scoprire la lacuna sta nel fatto che esso ha sempre tacitamente assunto che il reddito sia dato, e precisamente al livello corrispondente al pieno impiego di tutte le risorse disponibili. Così, invece di essere l'efficienza marginale a determinare il tasso di interesse, è corretto affermare che è il tasso di interesse che determina l'efficienza marginale del capitale".
2. La teoria ortodossa avrebbe scoperto il difetto di cui sopra, se non avesse ignorato la necessità di una teoria della domanda e dell'offerta del prodotto complessivo: "Non è stato osservato che la quantità dei beni di consumo che conviene produrre agli imprenditori è funzione della quantità dei beni di investimento che conviene loro produrre".
Secondo Keynes la tradizione (neo)classica del pensiero economico considera il saggio di interesse come il fattore che porta all'equilibrio la domanda di investimento con la disposizione a risparmiare. L'investimento rappresenta la domanda di risorse investibili e il risparmio rappresenta l'offerta, mentre il saggio di interesse è il 'prezzo' delle risorse investibili al quale domanda e offerta si equilibrano. Allo stesso modo in cui il prezzo di una merce si stabilisce necessariamente al punto nel quale la domanda è uguale all'offerta, così il saggio di interesse si stabilisce necessariamente, sotto il gioco delle forze del mercato, al punto nel quale l'ammontare dell'investimento a quel saggio di interesse è uguale all'ammontare di risparmio a quello stesso saggio. Keynes è disposto ad ammettere che il saggio di interesse possa forse esercitare un influsso sull'ammontare risparmiato da un reddito dato; ma il punto è proprio questo, che il reddito non è dato e che il caso veramente generale è quello in cui il livello del reddito e dell'occupazione è soggetto a fluttuazioni: "In verità la teoria classica non ha afferrato l'importanza delle variazioni del livello del reddito o della possibilità che il livello del reddito divenga effettivamente una funzione dell'ammontare di investimento per unità di tempo". L'analisi tradizionale è dunque difettosa perché non è riuscita a isolare correttamente le variabili indipendenti del sistema.
Così come l'efficienza marginale del capitale, anche il saggio di interesse per Keynes dipende in maniera decisiva dalle aspettative degli agenti economici. Ciascun individuo, una volta deciso quanta parte del suo reddito consumerà e quanta invece accantonerà in qualche forma disponibile per il consumo futuro, dovrà decidere in quale forma - liquida oppure no - conserverà le disponibilità che ha accantonato. Il saggio di interesse, in questo contesto, non può essere una ricompensa per il risparmio o l'astinenza come tali; infatti, se un uomo tesaurizza i suoi risparmi in denaro, non percepisce alcun interesse benché risparmi esattamente tanto quanto prima: il saggio di interesse è invece la ricompensa all'abbandono della liquidità per un periodo determinato. Esso misura la riluttanza di coloro che possiedono la moneta ad abbandonare il loro controllo liquido su di essa; esso non è il 'prezzo' che porta all'equilibrio la domanda di mezzi da investire con la disposizione ad astenersi dal consumo presente: è il prezzo che equilibra il desiderio di tenere la ricchezza in forma di denaro con la quantità di denaro disponibile.
Questa preferenza per la liquidità richiede però una spiegazione. "Perché mai vi dovrebbe essere qualcuno, al di fuori delle mura di un manicomio, che desideri usare la moneta come riserva di ricchezza?". La spiegazione keynesiana è che, per motivi in parte ragionevoli, in parte istintivi, il nostro desiderio di tenere moneta come riserva di ricchezza è un barometro del nostro grado di sfiducia nelle nostre capacità di calcolo e nelle nostre convenzioni sul futuro. Sebbene questo atteggiamento verso la moneta sia esso stesso convenzionale o istintivo, esso opera, per così dire, a un livello più profondo delle nostre motivazioni. Esso subentra nei momenti in cui le più superficiali, più instabili convenzioni si sono indebolite: "Il possesso della moneta culla la nostra inquietudine, e il premio che noi pretendiamo per dividerci da essa è la misura della nostra inquietudine".

d) Keynes: capitale e (dis)occupazione
La teoria keynesiana, come si è accennato, si può riassumere così: "Data la psicologia della gente, il livello della produzione e dell'occupazione complessive dipende dall'ammontare dell'investimento". Più esaurientemente, la produzione totale dipende dalla propensione al tesoreggiamento, da come la politica monetaria influenza la quantità di moneta, dallo stato della fiducia relativamente al rendimento futuro dei beni capitali, dalla propensione alla spesa, dai fattori sociali che influenzano il livello del salario monetario. Di questi diversi fattori, però, quelli dei quali ci si può fidare di meno sono quelli che determinano il tasso dell'investimento, perché sono influenzati dalle nostre previsioni sul futuro, del quale sappiamo così poco.
In condizioni di laissez faire, d'altra parte, il livello dell'investimento normalmente non assicurerà la piena occupazione. Il nostro mondo economico oscilla, evitando i più gravi estremi delle fluttuazioni dell'occupazione e dei prezzi in ambo i sensi, intorno a una posizione intermedia sensibilmente al di sopra di quel livello minimo dell'occupazione al di sotto del quale si metterebbe in pericolo l'esistenza, ma sensibilmente al di sotto dell'occupazione piena: "La nostra sorte normale è una situazione intermedia, né disperata né soddisfacente" (v. Keynes, 1936). Di qui l'auspicio di Keynes - il quale vede nella disoccupazione il difetto principale della società capitalistica (oltre alla distribuzione arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi) - di una socializzazione "di una certa ampiezza" dell'investimento e soprattutto dell'eutanasia del redditiero.
La ragione di una proposta politica così radicale è la radicalità dell'analisi keynesiana. La teoria keynesiana del saggio di interesse e delle decisioni di investimento, infatti, rovescia la tesi tradizionale secondo la quale un saggio di interesse moderatamente alto è giustificato dalla necessità di offrire un incentivo sufficiente al risparmio. L'ampiezza del risparmio effettivo è invece determinata dalla scala dell'investimento, e questa è favorita da un saggio di interesse basso (purché non si cerchi di stimolare in tal modo l'investimento al di là del punto corrispondente alla piena occupazione). L'eutanasia del redditiero (e dunque "l'eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale") sarebbe pertanto vantaggiosa per la società, e allo stesso tempo ragionevole ed equa. L'interesse non rappresenta il compenso di alcun sacrificio genuino, come non lo rappresenta la rendita della terra. Il possessore del capitale può ottenere l'interesse perché il capitale è scarso, proprio come il possessore della terra può ottenere la rendita perché la terra è scarsa. Ma mentre vi può essere una ragione intrinseca della scarsità della terra, non vi sono ragioni intrinseche della scarsità del capitale.
Circa questo punto - nell'ultimo capitolo: Note conclusive sulla filosofia sociale verso la quale la 'Teoria generale' potrebbe condurre - Keynes argomenta e predica così: "A lungo andare non esisterebbe una ragione intrinseca di questa scarsità, ossia non esisterebbe un sacrificio genuino, ottenibile soltanto con l'offerta del compenso dell'interesse; salvo che la propensione individuale al consumo si dimostrasse di carattere tale che il risparmio netto in condizioni di occupazione piena venisse a finire prima che il capitale fosse divenuto sufficientemente abbondante. Ma anche in tal caso, sarà ancora possibile che il risparmio collettivo per il tramite dello Stato sia mantenuto a un livello che permetta l'aumento del capitale fino al punto al quale questo non sia più scarso. Considero perciò l'aspetto del capitalismo caratterizzato dall'esistenza del redditiero come una fase di transizione, destinata a scomparire quando esso avrà compiuto la sua opera. E con la scomparsa del redditiero, molte altre cose del capitalismo subiranno un mutamento radicale. [...] Potremmo dunque mirare in pratica (poiché non vi è nulla di tutto questo che sia irraggiungibile) a un aumento del volume di capitale finché questo non sia più scarso, cosicché l'investitore senza funzioni non riceva più un premio gratuito; e a un sistema di imposizione diretta tale da permettere che l'intelligenza e la determinatezza e la capacità del finanziere, dell'imprenditore et hoc genus omne (i quali certamente amano tanto il loro mestiere che il loro lavoro potrebbe ottenersi a molto minor prezzo che attualmente) siano imbrigliate al servizio della collettività, con un compenso a condizioni ragionevoli".

5. Controversie recenti sulla misura del capitale

Wicksell e Keynes avevano colto un problema importante, quello delle difficoltà di una misura inequivoca del capitale (e perciò della produttività marginale del capitale stesso): il capitale, a differenza degli altri fattori della produzione, non può essere misurato in termini di una sua propria unità di misura; essendo - nella sua determinazione materiale - una collezione di beni capitali eterogenei, di esso non si può dare una 'misura' aggregata altro che in termini di valore.
Della "curiosa divergenza" notata da Wicksell si è già detto. Quanto a Keynes, egli rileva - nel capitolo della sua Teoria generale sulla scelta delle unità di misura - che le unità sulla base delle quali gli economisti misurano il reddito nazionale, il livello generale dei prezzi e per l'appunto lo stock di capitale reale sono insoddisfacenti. In generale "la produzione di merci e servizi della collettività è un complesso non omogeneo, il quale a rigore non può venire misurato se non in certi casi particolari, come ad esempio quando tutti gli elementi di una certa produzione siano compresi in egual proporzione in un'altra produzione". E la difficoltà è anche maggiore quando si cerca di misurare l'incremento netto del capitale, poiché allora si deve trovare una base per un confronto quantitativo fra i nuovi beni capitali prodotti nel periodo e i vecchi beni capitali che sono stati consumati. È per questa ragione che Keynes usa, come unità di misura, unicamente moneta e lavoro e considera come unico fattore della produzione il lavoro stesso.

a) Il capitale nella funzione di produzione
Le teorie del capitale egemoni nell'accademia e nell'insegnamento (e dunque ispiratrici delle idées reçues), almeno fino ai contributi critici di Joan Robinson, di Piero Sraffa, di Pierangelo Garegnani e di Luigi Pasinetti, ignorano o aggirano il problema ricordato sopra. Il problema consiste nella possibilità di determinare una misura teorica univoca e rigorosa del capitale aggregato, la quale sia indipendente dalle variabili che sulla base di questo si vogliono determinare: saggio di salario, saggio di interesse, prezzi relativi delle merci. Il contesto è quello della teoria marginalistica della distribuzione (v. § 3e).
In un articolo del 1953-1954 la questione viene sollevata da Joan Robinson: "Il predominio, nell'insegnamento economico di tipo neoclassico, del concetto di una funzione della produzione per mezzo della quale si dimostra che i prezzi relativi dei fattori sono funzione del rapporto in cui questi vengono impiegati, a un dato stato della conoscenza tecnica, ha avuto un effetto negativo sullo sviluppo di questi argomenti; e infatti, prendendo in esame principalmente i problemi relativi alle proporzioni tra fattori produttivi, esso ha distolto l'attenzione dai problemi, più difficili ma più interessanti, relativi alle forze che regolano le offerte dei fattori e alle cause e conseguenze dei mutamenti delle conoscenze tecniche. Per di più, la funzione della produzione è stata un potente strumento diseducativo. Allo studente di teoria economica si insegna a scrivere Q = f(L, K), dove L è una quantità di lavoro, K una quantità di capitale e Q la quantità prodotta di certe merci. Gli viene poi detto di supporre che tutti i lavoratori siano uguali e di misurare L in ore-uomo di lavoro, gli viene detto qualcosa sul problema dei numeri indice, a proposito della scelta di una unità di misura per il prodotto, e poi lo si fa passare frettolosamente al problema che segue, nella speranza che egli si dimentichi di chiedere in quali unità viene misurato K. Prima di avere il tempo di porsi tale domanda egli è già diventato professore; e così abiti mentali frusti sono tramandati da una generazione all'altra".
Il problema, come ha scritto Geoffrey C. Harcourt, "è quello di trovare un'unità con cui il capitale sociale, o capitale aggregato in valore che dir si voglia, possa essere misurato come un numero; cioè un'unità che sia indipendente dai prezzi relativi e dalla distribuzione e possa quindi essere inserita in una funzione della produzione dove, insieme al lavoro, misurato anch'esso in modo opportuno, possa spiegare il livello della produzione aggregata. Inoltre, in un'economia perfettamente concorrenziale in cui le previsioni sono perfette [...], questa unità dev'essere tale da uguagliare la derivata parziale del prodotto rispetto al 'capitale' alla remunerazione del 'capitale' e la corrispondente derivata rispetto al lavoro al salario reale (in termini di prodotto). Questa unità fornirebbe dunque anche gli elementi per una teoria della distribuzione basata sulla produttività marginale. Se è possibile trovare una tale unità di misura, si possono prendere due piccioni con una fava; poiché in tal caso possiamo da un lato analizzare un sistema produttivo in cui i beni capitali - mezzi di produzione prodotti - fungono da ausiliari del lavoro (caratteristica, questa, comune a ogni società industrialmente avanzata) e, dall'altro lato, possiamo studiare la distribuzione del reddito in un sistema capitalistico (cioè in un sistema in cui la proprietà di un capitale in valore permette ai suoi possessori di partecipare alla distribuzione del reddito nazionale sotto forma di profitti sul capitale investito, dove sia l'ammontare di tali profitti che lo stesso saggio del profitto sono in relazione alle caratteristiche tecniche del sistema produttivo)" (v. Harcourt, 1972).
Trovare quell'unità di misura, e quindi poter trattare il capitale come 'fattore' della produzione in un mondo caratterizzato dalla scarsità delle risorse e dalla razionalità massimizzante dei soggetti economici, vorrebbe inoltre dire che non ci sarebbe alcun bisogno di specificare il contesto politico e istituzionale del processo di produzione-riproduzione, e che diventerebbe superfluo o addirittura improprio il rinvio ai rapporti di forza fra le diverse classi come variabile essenziale nella determinazione della configurazione distributiva. E verrebbe meno il problema di analizzare le diverse forme che il capitale assume nelle diverse fasi del processo capitalistico, problema che Joan Robinson evoca così: "Siamo abituati a parlare del saggio del profitto realizzato da una impresa come se i profitti e il capitale fossero entrambi delle somme di denaro. Il capitale, quando consiste in attività finanziarie non ancora investite, è in effetti una somma di denaro, e così pure i ricavi netti di un'impresa sono somme di denaro. Ma le due cose non coesistono mai allo stesso tempo. Quando il capitale si presenta come una somma di moneta, i profitti non sono stati ancora realizzati. Quando i profitti (quasi-rendite) vengono realizzati, il capitale ha cessato di essere moneta ed è diventato un impianto. Ma possono succedere molte cose che fanno sì che si crei una divergenza tra il valore dell'impianto e il suo costo originario. [...] Come dobbiamo valutare il capitale rappresentato dall'impianto?" (v. Robinson, 1953-1954).
Il fatto è che in generale è impossibile concepire un valore del 'capitale in generale', che sia indipendente dalla distribuzione: saggio di salario e saggio dei profitti non sono 'prezzi' come gli altri.

b) Le 'parabole' neoclassiche
Gli "abiti mentali frusti" di cui parla Joan Robinson hanno preso la forma, come ha scritto lo stesso Harcourt, di 'parabole' sulle forze che determinano la distribuzione del reddito fra capitalisti e lavoratori salariati, sulle modalità dell'accumulazione del capitale e sulle scelte (da parte dei capitalisti) delle tecniche di produzione.
Queste parabole sono: a) a saggi dei profitti più bassi corrispondono valori del capitale pro capite più elevati; b) a saggi dei profitti più bassi corrispondono rapporti capitale-prodotto più elevati; c) a saggi dei profitti più bassi corrispondono (tramite investimenti in metodi produttivi più 'meccanizzati') livelli di consumo pro capite più elevati (in 'stato uniforme'); e soprattutto d) in condizioni concorrenziali la distribuzione del reddito fra capitalisti e lavoratori salariati può essere spiegata sulla sola base della conoscenza delle produttività marginali e delle offerte dei fattori, in sostanza della sola conoscenza delle condizioni 'tecniche' della produzione (risorse, tecnologia e gusti dei consumatori).

c) La critica sraffiana: l'armonia neoclassica come caso particolarmente astratto
Queste quattro proposizioni non sono tutte condivise da tutti gli economisti neoclassici; esse corrispondono però alla visione ancora corrente del capitale come un 'fattore' della produzione al quale, come a tutti gli altri, spetta una remunerazione commisurata al suo 'contributo' alla produzione (alla sua 'produttività marginale'). Esse si reggono, d'altra parte, sulla possibilità di dare del capitale una misura in valore che sia indipendente dal saggio del profitto: in caso contrario il ragionamento sarebbe circolare. Una critica definitiva a una concezione siffatta del capitale è stata possibile grazie al contributo di Piero Sraffa (del quale ci si occuperà qui soltanto in questa prospettiva, e non anche in quella delle possibili riletture di Marx 'dopo Sraffa').
Una funzione della produzione descrive le varie combinazioni dei fattori fra le quali l'imprenditore potrà scegliere: nell'ipotesi che le condizioni tecniche della produzione siano date, che vi sia sostituibilità fra i fattori della produzione, che vi sia concorrenza perfetta e che l'imprenditore persegua la massimizzazione del profitto. Ciascun livello della produzione richiederà un'adeguata combinazione di fattori (un dato metodo di produzione) e la combinazione più vantaggiosa sarà quella per la quale il saggio di sostituzione dei fattori è uguale al reciproco del rapporto fra i prezzi dei fattori stessi; se i prezzi relativi dei fattori mutano, dovranno mutare anche le proporzioni in cui sono combinati i fattori. Ad esempio: se i salari aumentano e i profitti diminuiscono, in una funzione di produzione regolare ci si sposterà verso una combinazione di fattori che impieghi meno lavoro e più capitale.
Questa proposizione, tuttavia, ha un senso soltanto se vi è davvero un solo bene capitale, così che non si pone il problema di misurarlo in valore. Se invece si producono più merci - nell'ambito di un processo circolare di produzione di merci a mezzo di merci, esse stesse prodotte - quella proposizione, apparentemente sensata, diventa dubbia: vera soltanto entro ipotesi estremamente precise e restrittive. Se si potesse mostrare che in generale non è vero che vi sia una relazione inversa fra saggio dei profitti e 'intensità di capitale', allora la nozione di capitale implicita in quella di funzione della produzione, e la conseguente teoria della distribuzione, perderebbero qualsiasi significato analitico e politico: e in effetti così è.
Si può dimostrare infatti, grazie ai lavori di Sraffa, Pasinetti, Garegnani e altri, che non vi è una relazione univoca e inversa fra saggio dei profitti e intensità di capitale, e che invece è possibile che le tecniche di produzione 'ritornino' (non nel senso storico del termine, ma in quello logico, che qui è dirimente). È cioè possibile che a seguito di un cambiamento nella distribuzione del prodotto netto fra salari e profitti, ad esempio a favore dei salari, una data tecnica di produzione, che comporta una data intensità di lavoro, sia sostituita con un'altra tecnica a più alta intensità di capitale; e che però, a un livello dei salari ancora più alto, la prima tecnica torni a essere conveniente e quindi venga a sua volta sostituita a quella che l'aveva soppiantata. Questo risultato non è un curiosum: esso mette definitivamente in crisi l'idea che le grandezze distributive siano prezzi come tutti gli altri, poiché così si dimostra che i prezzi stessi variano al variare della distribuzione del reddito, e dunque varia il valore del capitale che mediante quei prezzi deve essere calcolato.
È invece davvero curioso quanto segue, se si ricorda che la vulgata neoclassica pretende che in equilibrio il saggio dei profitti sia uguale alla produttività marginale del capitale, e che il calcolo di questa, se non si vuole ragionare in circolo, presuppone la possibilità di misurare il capitale indipendentemente dalla distribuzione. La curiosità sta in questo: il valore del 'capitale' non varia al variare del saggio dei profitti (che si vorrebbe determinare e giustificare a partire da quel valore) soltanto ed esattamente nelle stesse ipotesi in cui Böhm-Bawerk confina la validità della versione semplice della teoria marxiana del valore-lavoro, e cioè quando la composizione organica del capitale sia uniforme nelle diverse industrie; che è come dire che dal punto di vista dell'analisi economica si produce una sola merce. Sembrerebbe una vendetta della storia; ma mentre la riduzione di Marx a caso particolare è diventata dogma, dell'astrattezza neoclassica, almeno nei manuali, non si fa cenno.
In generale non esiste una misura della quantità di capitale che possa essere usata, senza ragionare in circolo, per la determinazione dei prezzi e della distribuzione del reddito. Le conseguenze di ciò sono gravi per la teoria accettata del capitale e della distribuzione: come scrive Garegnani, "dall'aumento della proporzione tra capitale e lavoro nell'economia, quando l'interesse diminuisce, sono state infatti dedotte 'funzioni di domanda' del 'capitale' (cioè, in ultima analisi, del 'risparmio') e del lavoro e, con esse, l'idea che la distribuzione del prodotto sociale fosse determinata dall'equilibrio fra la domanda e l'offerta di tali 'fattori di produzione'. Di qui, in particolare, la spiegazione dell'interesse (profitti) in termini di scarsità del 'capitale', e di ricompensa per l''attesa'. È difficile vedere come questa complessa struttura teorica possa essere preservata, quando la base su cui essa è eretta si rivela erronea".

d) Capitale e società: la scomparsa della categoria
Dimostrare non basta però a convincere. Neoclassici autorevoli ammettono che la teoria neoclassica aggregata è logicamente debole. Alcuni ritengono che ci si debba comunque attenere a essa, e continuare a insegnarla, per ragioni di fede, in attesa di improbabili soluzioni econometriche della questione. Altri negano che vi siano neoclassici seri che credono nelle parabole, poiché la vera teoria neoclassica sarebbe quella delle versioni moderne della teoria dell'equilibrio economico generale, che continuamente promettono, senza mai mantenere, di tener conto di tutte le forme e metamorfosi del capitale in una società capitalistica: all'interno però di un modello nel quale il capitale è ridotto a misteriose e naturali 'dotazioni iniziali'.
Nell'analisi economica contemporanea il 'capitale' scompare. Nessuno crede più che abbia senso parlare di 'leggi di movimento' della società capitalistica. Così come le 'classi' si sarebbero fatte da sanguigne realtà pallide astrazioni (secondo Schumpeter), il capitale sembra essere diventato un indistinto insieme di beni capitali eterogenei. Tutto è spostato altrove, e non ci sono più eretici influenti.