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  Capitale
  
  In economia, il termine ha
    più significati: il valore in denaro di beni; i beni
    stessi in cui il denaro è investito o, più
    comunemente, l’insieme dei beni destinati a impieghi produttivi
    per ottenere nuova produzione. L’espressione beni c. (in
    contrapposto a beni di consumo) indica i beni impiegati in atti
    di produzione, da cui si attende la reintegrazione del valore
    investito con un profitto. Il c. è detto morto, quando
    l’investimento non dà frutto. In ragioneria, c. indica un
    fondo astratto di valori e anche il valore capitalizzato di
    redditi futuri. 
  1. Il concetto di capitale
  Il concetto di c. è uno dei
    più controversi e difficili della teoria economica. Gli
    economisti della scuola classica, da A.
      Smith a J.S.
        
        Mill, considerano c. ogni bene prodotto che invece di
    essere consumato è impiegato per ulteriori processi
    produttivi. Per gli autori classici, il saggio di profitto su
    tutti gli investimenti di c. tende all’uguaglianza, scontati i
    fattori specifici che rendono più o meno rischioso ogni
    diverso investimento. 
  Nella teoria di Marx,
    fondata sull’identità di valore e lavoro contenuto,
    è fondamentale la distinzione tra c. costante e variabile.
    Il c. costante è quello investito in impianti, macchine,
    materie prime, elementi che non possono aggiungere al prodotto
    più valore di quanto ne incorporano. Il compra la
    forza-lavoro che, oltre a riprodurre il proprio valore, crea il
    plusvalore, fonte del profitto. 
  C.
    Menger definì il c. come il potere di acquisto
    disponibile per investimenti produttivi, concezione poi sviluppata
    da J.A.
      
      Schumpeter. M.-E.-L.
        
        Walras distinse i c., beni scarsi che offrono servizi in
    più atti d’uso, dai redditi, beni scarsi che scompaiono in
    un solo uso. Tra i c. Walras incluse le risorse naturali (c.
    fondiari), le capacità dei lavoratori, frutto di
    qualità personali e d’addestramento (c. personali) e i c.
    propriamente detti, beni durevoli prodotti (con destinazione
    produttiva o di consumo), che danno luogo alla vendita di servizi
    dal loro uso. 
  Nella funzione aggregata di produzione sviluppata da autori
    marginalisti (➔ marginalismo),
    
    poi nella teoria della crescita (➔ crescita
      
      economica) come negli studi di economia applicata, il c.
    è trattato come un fattore omogeneo, applicabile in dosi
    successive con produttività positiva, ma decrescente (a
    parità degli altri fattori), secondo il principio dei
    rendimenti decrescenti. Questa visione del c. è stata
    criticata, per le difficoltà logiche che s’incontrano nel
    ricondurre un insieme eterogeneo di beni c. a grandezza unica, con
    significato quantitativamente coerente. La teoria della
    distribuzione marginalista è basata sulla corresponsione ai
    vari fattori produttivi di compensi corrispondenti alla rispettiva
    produttività marginale, tra cui va inclusa la
    produttività marginale dei singoli beni c. ovvero del c.
    come fattore omogeneo. Secondo E.
      
      von Böhm-Bawerk, il c. va concepito come l’investimento
    indiretto di risorse originarie nei vari stadi necessari per
    arrivare al prodotto finale destinato al consumo;
    l’intensità di c. va misurata con il periodo medio di produzione (la durata in media
    dell’immobilizzo di lavoro nel processo produttivo. 
  I c. (o, in altra dizione, i c. mobiliari) si distinguono in c.
    fissi , se si logorano gradualmente e possono fornire prestazioni
    utili in più cicli di produzione, e c. circolanti , se si
    consumano interamente in un solo atto di produzione (come le
    materie prime) o servono ad anticipare i salari. I primi vanno
    reintegrati parzialmente a ogni ciclo produttivo, i secondi
    integralmente. Il c. circolante è talvolta distinto in c.
    di anticipazione, c. di esercizio, c. liquido e fondo monetario.
    Per il reintegro del c. fisso, al logorio tecnico va aggiunto
    quello economico, a seguito delle innovazioni tecnologiche, che
    rendono superati strumenti e macchine ancora efficienti. La durata
    del c. può considerarsi indefinita, se si provvede
    costantemente a fronteggiare il logorio tecnico ed economico con
    restauri e ammortamenti, coprendo con l’assicurazione la
    distruzione totale o parziale per caso fortuito. La ripartizione
    del c. totale in fisso e circolante dipende, caso per caso, dal
    tipo e dal sistema di produzione. Si distingue ancora tra e c.
    salari , il primo impiegato in strumenti, edifici, materie prime e
    sussidiarie, il secondo destinato alla retribuzione dei
    lavoratori. 
  2. Il c. nell’economia nazionale
  Nell’economia di un singolo agente
    la nozione di c. è legata a quella di reddito monetario,
    perché coincide con la ricchezza capace di fornire un
    reddito, effettivo o presunto; dal punto di vista individuale
    è c. anche la ricchezza in moneta, mentre la sua
    inclusione tra i c. dal punto di vista generale è
    controversa. In riferimento all’economia nazionale, s’includono
    nel c. tutti i beni destinati alla produzione del reddito reale
    nazionale, siano essi risorse naturali, come la terra, o
    prodotti (come le macchine, gli edifici ecc.) e anche la
    popolazione produttiva, che con i beni concorre alla produzione.
  Il c. umano è l’insieme delle capacità acquisite
    con l’educazione e la formazione; va considerato come il risultato
    di scelte d’investimento nel corso del tempo, perché
    produce rendimenti futuri grazie al maggior valore dei redditi
    percepiti da chi ha investito risorse nella sua accumulazione. Il
    concetto di c. umano, in questa accezione, è stato
    approfondito in particolare da G.S.
      
      Becker con un’ampia gamma di applicazioni. 
  Il c. deve la sua origine all’ampiezza del prodotto interno lordo
    e all’entità dell’accumulazione: in sintesi, alla quota del
    prodotto lordo destinata in ogni periodo a nuovi investimenti che
    permettono l’impiego degli altri fattori della produzione e
    determinano la possibilità di maggior prodotto e maggior
    risparmio nel futuro. L’ampliamento del c. esistente in un dato
    periodo è consentito dal flusso di risparmio, che va a
    finanziare gli investimenti netti. Secondo le teorie keynesiane,
    nel caso di risorse disoccupate, può essere l’investimento
    stesso, dal lato della domanda, anche se finanziato con mezzi
    aggiuntivi di pagamento, a costituire il presupposto per l’aumento
    del reddito e quindi del risparmio. Nella teoria degli
    investimenti, l’efficienza marginale del c. misura il
    saggio di profitto atteso (detto saggio di rendimento interno) per
    un investimento iniziale che dà redditi nel corso di
    più periodi futuri. L’efficienza marginale del c. deve
    superare il tasso dell’interesse di mercato, perché
    l’investimento sia conveniente. A livello aggregato, s’ipotizza
    che l’efficienza marginale del c. diminuisca con il crescere del
    volume degli investimenti e questo sia, quindi, funzione diretta
    dell’efficienza marginale del c. e inversa del saggio
    dell’interesse. 
  Il principio dell’ spiega le decisioni d’investimento con una
    funzione, derivata dalla modifica del principio d’accelerazione,
    nell’ipotesi che in ciascun periodo le imprese realizzano solo una
    quota degli investimenti desiderati per adeguare la capacità produttiva all’andamento del reddito. In generale, il principio
    dell’adeguamento dello stock di c., suppone che le imprese
    esprimano in ogni periodo un livello del c. desiderato, sulla base
    della domanda attesa, del livello di produzione, del saggio
    dell’interesse, e decidano investimenti netti (la variazione dello
    stock di c.) per adeguare il c. già istallato al livello
    desiderato. Il coefficiente di adeguamento è supposto
    positivo, ma inferiore all’unità: in ciascun periodo si
    realizza un adeguamento parziale, che dà luogo a un
    processo dinamico nel tempo dello stock di c., con ritardi e
    flessibilità nell’aggiustamento all’andamento del
    reddito. 
  Nella teoria dello sviluppo, l’espressione c. fisso sociale
    è stata usata per indicare infrastrutture e beni c. di uso
    collettivo (ferrovie, acquedotti, impianti elettrici ecc.),
    esterni alla dotazione delle singole imprese, nonché le
    spese per l’istruzione e la ricerca scientifica. Questo insieme di
    risorse influisce sulla redditività del c. impiegato nelle
    singole imprese, perché genera economie esterne. È
    detto fisso, perché nessun investimento può
    svolgersi con buone prospettive di profitto se il c. sociale non
    raggiunge almeno un minimo. Secondo P.N.
      
      Rosenstein-Rodan, la carenza di c. fisso sociale
    contribuisce all’arretratezza di certe regioni e costituisce serio
    ostacolo all’avvio del processo di sviluppo. In altra accezione,
    sviluppata soprattutto da R.D. Putnam, c. sociale indica l’insieme
    delle istituzioni, delle norme e relazioni di reciprocità e
    fiducia in una comunità, che favoriscono l’azione
    collettiva e facilitano, quindi, l’attività economica. Il
    c. sociale è ritenuto un importante fattore nei processi di
    sviluppo economico. 
  3. Trasferimenti internazionali di
    capitale
  I trasferimenti (o movimenti)
    internazionali di c. consistono nel trasferimento da un paese
    all’altro di flussi finanziari, che non sono la contropartita di
    vendite o acquisti, già avvenuti o da avvenire, di merci
    o servizi oggetto di commercio internazionale, né il
    pagamento di prestazioni economiche internazionali con natura di
    reddito. Includono gli Investimenti Diretti Esteri (IDE) e gli
    investimenti di portafoglio per acquisto di attività
    finanziarie, ovvero anche prestiti accordati da Stati o da
    organismi governativi e da organizzazioni internazionali.
    Possono essere a lungo o breve termine e sono contabilizzati
    nella bilancia dei pagamenti, con metodi contabili che sono
    variati nei diversi periodi storici. 
  I movimenti internazionali di c. sono determinati in primo luogo
    da variabili economiche. Sui movimenti di c. privati a breve
    termine influisce soprattutto la differenza tra i tassi
    d’interesse nei paesi tra i quali avvengono; giocano un ruolo
    importante le aspettative di svalutazione o rivalutazione delle
    valute, soprattutto nei regimi di cambi fissi. Possono determinare
    repentini movimenti di c. timori di crisi bancarie o voci di
    sospensione del debito estero, l’inasprimento della pressione
    fiscale all’interno di un paese, o preoccupazioni per
    l’instabilità politica in paesi dai quali si preferiscono
    ritirare i fondi investiti. Movimenti internazionali di c.
    avvengono per interventi di politica economica, soprattutto
    nell’ambito della cooperazione allo sviluppo, o per circostanze
    eccezionali, quali riparazioni di guerra, prestiti bellici e
    postbellici e loro rimborso. Dopo la Prima
      
      guerra mondiale si ebbe un’accentuata tendenza a improvvisi
    e ingenti spostamenti da un paese all’altro di oro e capitali a
    vista o a breve termine. Per neutralizzarne gli effetti, furono
    istituiti Fondi di stabilizzazione dei cambi. Rilevanti movimenti
    di c. si sono verificati, dopo il ripristino (1958) della
    convertibilità esterna, nell’ambito del sistema di cambi
    fissi stabilito a Bretton
      
      Woods, che aveva al centro il Fondo monetario
    internazionale. Movimenti di c. sono stati provocati dai
    cambiamenti politici avvenuti nell’ex URSS e nei paesi dell’Europa
    dell’Est. 
  I movimenti di c. possono essere regolamentati, più o meno
    rigidamente, dai singoli Stati o anche da organismi
    internazionali. La dottrina si è divisa
    sull’opportunità del loro stretto controllo. Prevale oggi
    la liberalizzazione dei trasferimenti internazionali di c., che si
    è imposta sulla scena internazionale per i vantaggi della
    mobilità, nonostante i rischi d’instabilità
    finanziaria con ricadute a catena in caso di crisi finanziarie
    internazionali, come avvenuto nel corso degli anni 1990. La
    crescente mobilità internazionale dei c. è un
    aspetto importante della globalizzazione, ma si discute
    sull’opportunità di ripristinare o adottare forme di
    controllo sui movimenti finanziari a breve, che hanno carattere
    spiccatamente speculativo.
  
   
  
    
      
      
      Enciclopedia delle Scienze Sociali (1991) 
      
     
   
  di Giorgio Lunghini
  Capitale 
  
  sommario: 1. Introduzione.  2. L'epoca
    classica e la critica marxiana. a) Il capitale come
      anticipazioni: François Quesnay. b) Adam Smith: il
      lavoro diviso. c) David Ricardo: saggio dei profitti,
      macchine e accumulazione. d) John Stuart Mill: il capitale
      come fattore della produzione. e) Karl Marx: la critica
      della formula trinitaria. f) Marx: lavoro salariato e
      capitale. g) Marx: il processo di produzione-riproduzione. h) Marx: plusvalore e profitto.  3. L'epoca
    neoclassica. a) L'equilibrio economico come ordine naturale e
      necessario. b) Il capitale nell'equilibrio economico
      generale. c) La teoria 'austriaca': capitale e tempo. d) Irving Fisher: impazienza e volontà. e) Domanda
      di capitale e produttività marginale. f) Knut
      Wicksell: una curiosa divergenza.  4. Capitale e moneta.
    a) Joseph A. Schumpeter: il capitale monetario nel processo
      capitalistico. b) John M. Keynes: capitale, investimenti e
      animal spirits. c) Keynes e il saggio di interesse: il
      distacco dalla tradizione. d) Keynes: capitale e
      (dis)occupazione.  5. Controversie recenti sulla misura
    del capitale. a) Il capitale nella funzione di produzione. b) Le 'parabole' neoclassiche. c) La critica sraffiana:
      l'armonia neoclassica come caso particolarmente astratto. d) Capitale
      e società: la scomparsa della categoria. □
    Bibliografia. 
    
    1. Introduzione
    
'Capitale' è un termine tratto dal linguaggio comune, con cui
    si indica normalmente qualsiasi forma di ricchezza accumulata e
    accantonata, che consenta di ottenere dal lavoro proprio o altrui,
    passato o futuro, un 'sovrappiù', o comunque prometta un
    godimento ovvero un 'profitto'. In questo senso sarebbe capitale
    qualsiasi mezzo di produzione prodotto, il quale aiuti a produrre di
    più e meglio (dall'amigdala al robot), o qualsiasi somma di
    denaro che frutti o possa fruttare un guadagno netto (dai ducati
    prestati da Shylock ad Antonio, ai dollari investiti da Henry Ford
    nella produzione della Ford T). Non avrebbe dunque importanza chi
    possieda il capitale, a quale scopo e con quali tecniche lo
    impieghi, e come tutto ciò condizioni le modalità di
    produzione-riproduzione del sistema esistente. La definizione
    è evidentemente troppo ampia.
Come tutte le categorie dell'economia politica, anche quella di
    'capitale' richiede una determinazione storica. Anche il 'lavoro' ha
    forme diverse nelle diverse epoche, tuttavia di esso si può
    parlare in generale. Il lavoro è semplicemente la principale
    attività materiale con la quale l'uomo si pone in rapporto
    con la natura, al fine di trarne valori d'uso. Esso è
    certamente più produttivo quando è svolto con
    l'ausilio di strumenti appropriati, che nulla impedisce di chiamare
    'beni capitali': sarebbe però eccessivo ridurre la nozione di
    capitale a quella di un insieme di beni capitali, poiché in
    tal caso ci si limiterebbe a constatare che la produzione con
    capitale dà luogo a un sovrappiù maggiore di quello
    ottenibile senza un tale ausilio, e si rinuncerebbe a spiegare
    perché mai questo modo di produzione conferisca al
    sovrappiù la forma del profitto. Proprio dal concetto di
    sovrappiù converrà partire per intendere come nel modo
    capitalistico di produzione il capitale non sia soltanto un insieme
    di cose o una somma di denaro, ma un rapporto sociale.
Il sovrappiù può essere definito come quel che resta
    del prodotto sociale (tutto ciò che in un'economia viene
    prodotto in un dato periodo di tempo), una volta reintegrati i beni
    di consumo necessari per la sussistenza e la riproduzione dei
    lavoratori (produttivi) nonché i beni capitali che si sono
    consumati o logorati nel corso della produzione. Il sovrappiù
    sarà nullo, per definizione, in un'economia di mera
    sussistenza, ma normalmente sarà positivo, e può
    essere positivo in qualsiasi modo di produzione. Diversi, tuttavia,
    sono i modi in cui il sovrappiù viene prodotto, le persone o
    classi che se ne appropriano, l'uso che se ne fa e il ruolo che in
    tutto ciò hanno l'istituto della proprietà, il mercato
    e la moneta.
In un'astratta società precapitalistica - diciamo 'feudale' -
    il sovrappiù viene prodotto mediante il comando diretto del
    lavoro dei servi (la corvée, per esempio). Del
    sovrappiù, in natura o in denaro, il signore si appropria in
    virtù di un rapporto di potere strettamente politico e non di
    scambio economico, e lo impiega non per l'allargamento del processo
    produttivo, ma per quello che si può chiamare 'consumo
    signorile'. Al mercato si ricorre essenzialmente per gli scambi
    intercomunitari; la moneta ha come funzione pressoché
    esclusiva quella di facilitare gli scambi.
Con l'avvento del capitalismo, quali che ne siano state le cause
    ('accumulazione originaria' o 'grande trasformazione'), si assiste a
    una polarizzazione della società. Se si trascurano i residui
    feudali - la classe dei rentiers e gli artigiani - sul mercato si
    fronteggiano due classi: i capitalisti, proprietari dei mezzi di
    produzione, e i lavoratori salariati, liberi ma proprietari di
    un'unica merce: la propria forza lavoro. Il sovrappiù (se
    realizzato) prende la forma di profitto, e questo - il profitto e
    non più l'uso - diventa lo scopo della produzione. Del
    sovrappiù il capitalista si appropria in quanto possiede o
    controlla i mezzi di produzione e dopo aver pagato al suo prezzo la
    forza lavoro. La destinazione del sovrappiù, d'altra parte,
    non è più il consumo, bensì l'allargamento
    della produzione. La moneta diventa essenziale al processo di
    produzione-riproduzione, poiché la produzione capitalistica
    non è produzione di merci a mezzo di merci, ma produzione di
    denaro a mezzo di denaro. E il mercato, infine, pervade tutta la
    società: tutti i rapporti fra gli uomini passano per il
    mercato.
Il processo economico acquista ora una sua autonomia: da finalizzato
    ad altro, diventa fine a se stesso, circolare. E soltanto ora
    l'economia politica si può costituire in disciplina autonoma
    e sistematica: in scienza del capitalismo. Alla nozione di capitale
    come categoria eterna (il capitale come mezzi di produzione
    prodotti) viene a contrapporsi quella di capitale come categoria
    propria e fondante di un dato modo di produzione: il modo di
    produzione capitalistico. Soltanto nel modo capitalistico di
    produzione la ricchezza prende la forma di capitale, in quanto
    rapporto che si instaura fra queste due classi: capitalisti e
    lavoratori salariati. Può allora dirsi 'capitale' qualsiasi
    proprietà (di denaro, macchine o altre forme di potere)
    mediante la quale sia possibile comandare lavoro salariato in vista
    di un profitto realizzabile vendendone il prodotto.
All'interno di queste due grandi categorie (il capitale come insieme
    di mezzi di produzione prodotti, oppure come nesso sociale) ci sono
    numerosissime definizioni di 'capitale'. Qui se ne
    ripercorrerà la storia per grandi epoche: l'epoca classica
    (che ai fini di questo articolo si farà cominciare con
    François Quesnay e finire con David Ricardo); Marx; l'epoca
    neoclassica (che dura fino a oggi ma ha radici anche nella
    dissoluzione della scuola ricardiana e dunque contemporanee alla
    critica marxiana); Schumpeter e Keynes; infine i moderni accademici.
    A questa successione temporale non corrisponde un'evoluzione
    coerente e progressiva del concetto, il cui significato oscilla
    periodicamente fra due grandi campi definitori. Nella vasta galleria
    di personaggi eminenti è infatti possibile tracciare una
    distinzione: da un lato vi sono coloro che, come gli economisti
    classici, Marx, e gli eretici contemporanei quali Schumpeter e
    Keynes, avevano in mente una società divisa in classi;
    dall'altro coloro che, come Senior, Say, i marginalisti, i
    neoclassici moderni, hanno in mente una società integrata.
    Per i primi il capitale è un aspetto del potere che la classe
    proprietaria esercita sul lavoro: potere di decisione sull'uso del
    lavoro, sfruttamento, utilizzazione del sovrappiù. Per i
    secondi il capitale è un aspetto di decisioni riguardanti
    cose: quindi le categorie sono quelle dell'astinenza, del risparmio,
    della produzione di beni strumentali. Le due linee di pensiero,
    sempre compresenti nella storia delle dottrine economiche, danno
    necessariamente luogo a definizioni diverse di ogni categoria
    economica, e quindi anche del termine capitale (da rapporto sociale
    a beni prodotti e destinati a ulteriore produzione).
Poiché la storia del concetto di capitale rispecchia quella
    del capitalismo, sarà utile averne in mente una sinossi (come
    quella tracciata da Eric J. Hobsbawm) e ricordare le date
    fondamentali nella storia del concetto di capitale: il Tableau
    économique di François Quesnay è del 1758; la
    Ricchezza delle nazioni di Adam Smith è del 1776; il Saggio e
    i Principî di David Ricardo, qui rilevanti, sono del 1815 e
    del 1817-1821; i Principî di John Stuart Mill sono del 1848;
    gli scritti di Karl Marx sul capitale vanno dal 1835 al 1883; gli
    Elementi di economia politica pura di Léon Walras sono del
    1874; la Teoria positiva del capitale di Eugen von Böhm-Bawerk
    è del 1884; la Teoria dello sviluppo economico di Joseph A.
    Schumpeter è del 1911; il Trattato della moneta di John M.
    Keynes è del 1930, la Teoria generale del 1936; la Produzione
    di merci a mezzo di merci di Piero Sraffa è del 1960. 
    
    2. L'epoca classica e la critica marxiana
    
Nella Francia della metà del Settecento l'industria, nel
    senso moderno del termine, è praticamente assente; le
    attività manifatturiere e commerciali hanno forma
    artigianale; l'economia è fondamentalmente un'economia
    agricola, retta da rapporti di proprietà di tipo feudale
    (alla corvée si rinuncia nel 1776). Nelle campagne francesi
    del settentrione il processo lavorativo comincia però a
    prendere forma capitalistica sia per l'uso che vi si fa dei mezzi di
    produzione, sia - e soprattutto - perché il lavoro è
    diventato lavoro salariato.
La rivoluzione del 1789 e la rivoluzione industriale sono ancora
    lontane; tuttavia i fisiocratici, per dirla con Marx, riescono a
    scoprire l'essenza borghese nascosta in un involucro feudale. Nel
    sistema fisiocratico "il feudalesimo viene riprodotto e spiegato sub
    specie della produzione borghese e l'agricoltura come il settore
    produttivo in cui si manifesta esclusivamente la produzione
    capitalistica, cioè la produzione del plusvalore.
    Così, mentre il feudalesimo si imborghesisce, la
    società borghese assume un aspetto feudale" (v. Marx,
    1867-1894). 
    
a) Il capitale come anticipazioni: François Quesnay
François Quesnay è il massimo esponente della scuola
    fisiocratica, e per quanto riguarda la teoria del capitale gli si
    devono intuizioni e analisi ancora oggi insuperate: la visione del
    processo produttivo come processo circolare, come processo di
    produzione-riproduzione (il Tableau économique);
    l'essenzialità, ai fini dell'analisi di questo processo, del
    concetto di classi sociali (sia pure nella loro forma
    precapitalistica: la classe produttiva, o degli agricoltori, la
    classe dei proprietari fondiari, la classe sterile o dei
    manifatturieri); infine il concetto di capitale non solo come
    insieme di beni capitali, ma come anticipazioni.
Per Quesnay le anticipazioni sono essenziali ai fini della
    produzione di un sovrappiù. Soltanto il capitale investito
    (in agricoltura) fa sì che il processo produttivo dia luogo a
    un produit net, e l'origine di questo va ricercata non nella sfera
    della circolazione, che pure è essenziale alla riproduzione
    del sistema, ma nella sfera della produzione. La produzione non
    può essere ridotta a un rapporto immediato fra uomo e natura;
    il processo di produzione di merci non può essere descritto
    semplicemente in termini di una combinazione di lavoro e terra,
    poiché per produrre merci occorre impiegare come mezzi di
    produzione anche quantità appropriate di queste stesse merci:
    l'ammontare del sovrappiù dipende in modo cruciale
    dall'entità e dalla composizione delle anticipazioni.
Quesnay distingue tre tipi di anticipazioni (fondando così la
    moderna distinzione fra capitale fisso e capitale circolante):
    primitive, fondiarie e annuali. Sono anticipazioni primitive il
    bestiame, gli edifici, gli attrezzi; anticipazioni fondiarie le
    opere idrauliche e di recinzione e in generale le opere di
    miglioramento permanente dei fondi; anticipazioni annuali i salari
    dei lavoratori, le sementi e tutte le altre spese annuali
    ricorrenti.
Anticipazioni primitive e anticipazioni fondiarie hanno la natura
    del capitale fisso e partecipano alla produzione del prodotto netto
    cedendo il loro valore nel corso di più periodi di produzione
    (e richiedendo quindi adeguati reintegri per ciascun periodo di
    produzione). Le anticipazioni annuali dei ricchi fittavoli hanno
    invece la natura di capitale circolante, in quanto trasferiscono il
    loro valore nei beni prodotti nel corso di un solo periodo di
    produzione. Tutte e tre queste forme di anticipazioni, nella loro
    composizione e nel loro ammontare, sono essenziali nella
    determinazione dell'ammontare e della composizione del
    sovrappiù, che si forma bensì soltanto
    nell'agricoltura ma che - una volta distribuito e speso - sostiene
    tutti i ceti e tutte le professioni. Così il prodotto netto,
    reso possibile da un dato ammontare di anticipazioni annuali,
    dipende non soltanto da questo, ma anche dall'ammontare delle
    anticipazioni primitive e fondiarie. L'accumulazione di capitale in
    agricoltura è essenziale affinché crescano il prodotto
    lordo e la parte di questo costituita dal prodotto netto; in
    particolare occorre che le anticipazioni siano di natura e ammontare
    tali da consentire la 'grande coltura', poiché soltanto
    così sarà possibile l'introduzione di metodi sempre
    più produttivi (di sovrappiù). Una somma di denaro
    diventa capitale soltanto se si trasforma in capitale produttivo, e
    quindi procura un prodotto netto per l'intera società. 
    
b) Adam Smith: il lavoro diviso
Nell'Inghilterra di Adam Smith il capitale ha ormai pervaso
    tutta l'attività produttiva. Ciò consente a Smith di
    fare un importante passo avanti rispetto ai fisiocratici e di
    riconoscere che in tutte le attività è possibile
    produrre sovrappiù, e che il sovrappiù prende non solo
    e non tanto la forma di rendita (per i fisiocratici il produit net
    prende per l'appunto la forma di rendita pagata dalla classe
    produttiva alla classe dei proprietari), ma anche e soprattutto
    quella di profitto. D'altra parte, come noterà Marx, Smith
    compie un passo indietro trascurando, nella determinazione
    quantitativa del sovrappiù, la quota del prodotto sociale
    necessaria al reintegro dei mezzi di produzione consumati nel
    processo produttivo: sarebbe capitale soltanto quello speso in
    salari e sarebbe vero il 'dogma veramente fantastico' per il quale
    il prezzo delle merci è composto di salario, profitto
    (interesse) e rendita fondiaria, quindi soltanto di salario e
    sovrappiù. Errore analogo compirà David Ricardo, e
    questo - come si vedrà a proposito di Marx - ha conseguenze
    importanti sulla definizione e l'analisi del saggio dei profitti.
In Smith la nozione di capitale è strettamente intrecciata
    con le sue distinzioni fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo.
    Per Smith è volta a volta lavoro produttivo quello che si
    fissa in una merce vendibile, quello che crea valore e quello che
    produce un sovrappiù. La nozione qui rilevante è la
    terza, quella per la quale è lavoro produttivo (di
    sovrappiù) il lavoro che si scambia contro capitale, mentre
    è lavoro improduttivo quello pagato dal reddito dei
    capitalisti e dei rentiers. Simmetricamente si potrà dire che
    è capitale quella parte del fondo posseduto da un individuo
    che viene impiegata per mettere in attività il lavoro
    produttivo, e che quindi non solo consentirà di reintegrare
    le spese inizialmente sostenute, ma darà altresì luogo
    a un reddito. L'altra parte del fondo, in quanto destinata al
    consumo immediato, non darà invece alcun reddito. Soltanto
    con l'impiego di lavoro produttivo sarà possibile un processo
    di accumulazione di capitale.
Il capitale, d'altra parte, può prendere la forma di capitale
    fisso e di capitale circolante. Come quasi tutte le distinzioni
    smithiane (quella fra lavoro produttivo e lavoro improduttivo, ma
    soprattutto quelle interne alla teoria smithiana del valore), anche
    questa è confusa, in quanto gli elementi del capitale
    produttivo vengono distinti a seconda del modo in cui compaiono
    nella sfera della circolazione, anziché in quella della
    produzione. La distinzione fra capitale fisso e capitale circolante
    in Smith si regge letteralmente sul fatto che il capitale circoli
    oppure no, che generi un profitto restando presso il capitalista,
    dentro al processo produttivo, oppure distaccandosene, circolando
    con le merci prodotte. Per Smith, ad esempio, sono capitale fisso i
    fondi impiegati nel miglioramento delle terre coltivate, le
    costruzioni destinate alla locazione, gli strumenti di produzione di
    qualsiasi genere, il bestiame da lavoro e le stesse "abilità
    acquisite e utili" dei lavoratori; mentre sono capitale circolante
    la moneta, le merci prodotte per la vendita, le materie prime
    impiegate in un processo produttivo o nel mantenimento del bestiame
    da lavoro e i salari dei lavoratori. (Contare come capitale fisso le
    abilità acquisite e utili dei lavoratori e come capitale
    circolante i loro salari evoca la difficile questione delle
    relazioni fra forze produttive e rapporti di produzione, difficile
    soprattutto per chi ha una concezione strettamente materiale del
    capitale produttivo. È difficile far coesistere l'idea che
    nel capitale vadano contate quelle che vengono chiamate
    utilità 'immateriali' e l'idea secondo la quale tutto il
    capitale è un prodotto del lavoro, e dunque se ne debbano
    escludere dal computo le forze e i doni della natura: è molto
    difficile distinguere e contabilizzare quali siano i doni della
    natura e quali i risultati del lavoro).
Per quanto riguarda l'origine del sovrappiù e in particolare
    del profitto, Smith la individua nella produttività del
    lavoro in generale. A sua volta, la produttività del lavoro
    dipende dalla divisione del lavoro, e questa dalla tendenza propria
    della natura umana al baratto e allo scambio: "E poiché
    è in questo modo, col baratto e con lo scambio, che noi
    otteniamo la maggior parte di quei reciproci buoni uffici di cui
    abbiamo bisogno, così è questa stessa tendenza a
    trafficare che in origine dà occasione al sorgere di quella
    divisione del lavoro sulla quale si fonda tutto il benessere delle
    società evolute" (v. Smith, 1776). Nella produzione
    capitalistica, in particolare, il capitale, riunendo insieme un gran
    numero di lavoratori e anticipando loro le sussistenze di cui essi
    non dispongono, può attuare la migliore divisione e
    distribuzione degli impieghi e può fornire agli operai le
    migliori macchine: la forma capitalistica di produzione è
    destinata a diventare la forma dominante e definitiva dell'economia
    e della società. La storia sarebbe dunque finita.
La società borghese, secondo Smith, si regge sulla classe dei
    lavoratori produttivi; questi - producendo prodotto netto -
    sostengono se stessi e tutte le altre classi; i padroni, che avendo
    anticipato le sussistenze si appropriano del prodotto netto, ne
    trattengono per sé una parte come profitto, destinandola
    elettivamente all'accumulazione del capitale, e ne redistribuiscono
    l'altra parte ai proprietari fondiari e ai lavoratori improduttivi.
    Si manifesta così la duplicità del rapporto fra
    capitale e lavoro salariato: in quanto lavoro produttivo di
    sovrappiù, il lavoro produce il capitale, ma in quanto lavoro
    salariato viene comandato dal capitale. Come Smith scrive
    nell'Abbozzo della Ricchezza delle nazioni, "In un paese civile i
    poveri provvedono a se stessi e all'enorme lusso dei loro signori
    [...]. Tra i selvaggi, invece, ognuno gode dell'intero prodotto
    della propria attività" (v. Smith, 1763).
Occorre ricordare qui un problema che Smith, a differenza dei
    fisiocratici, si trova a dover affrontare: il problema di che cosa
    determini il valore delle merci. Poiché per i fisiocratici il
    prodotto netto si dava soltanto in agricoltura, di esso si poteva
    dare una determinazione quantitativa in termini fisici, come
    semplice differenza fra le quantità di beni prodotte e le
    quantità di beni impiegate come mezzi di produzione e mezzi
    di sussistenza; ma quando può darsi sovrappiù in tutte
    le attività produttive, come è per Smith, l'unica
    determinazione quantitativa logicamente possibile diventa quella in
    valore. Nasce di qui la centralità della teoria del valore
    nell'analisi dell'economia capitalistica. 
    
c) David Ricardo: saggio dei profitti, macchine e accumulazione
Anche David Ricardo, come Smith, concepisce il capitale nella sua
    materialità, piuttosto che come rapporto sociale, e come
    Smith lo riduce alle anticipazioni salariali. Per Ricardo il
    problema principale dell'economia politica non è però
    l'indagine sulle cause della ricchezza delle nazioni, bensì
    la determinazione delle leggi che regolano la distribuzione del
    prodotto sociale, al netto della rendita, fra capitalisti e
    lavoratori. Vi è dunque almeno l'intuizione di un rapporto
    fondamentale fra capitale e lavoro salariato.
Nell'ipotesi che il capitale consista soltanto nelle anticipazioni
    salariali, il saggio dei profitti (che per definizione è
    uguale al rapporto fra l'ammontare dei profitti e il valore del
    capitale) risulta pari al rapporto fra profitti e salari, ed
    è dunque la misura ricercata della distribuzione del prodotto
    sociale netto di rendita fra capitalisti e lavoratori. Si
    tratterà perciò di individuare le determinanti del
    saggio dei profitti, il modo in cui il saggio dei profitti si muove
    con il procedere dell'accumulazione del capitale, e se e come
    l'introduzione delle macchine nel processo produttivo abbia
    influenza sugli interessi delle diverse classi della società
    ("argomento questo di grande importanza che sembra non sia stato mai
    esaminato in modo da condurre a risultati certi e soddisfacenti").
Ricardo non dà una spiegazione dell'origine del profitto,
    poiché lo concepisce come un residuo: come quel che resta
    nelle mani dei capitalisti, una volta pagati rendita e salari;
    tuttavia la sua teoria del saggio dei profitti mostra che il
    rapporto fra capitalisti e lavoratori salariati è un rapporto
    conflittuale: è questa un'importante implicazione politica
    dell'analisi ricardiana delle relazioni fra capitale sociale e
    processo lavorativo sociale, quali si danno nel modo di produzione
    capitalistico.
Il saggio dei profitti, secondo Ricardo, dipende da due ordini di
    circostanze: dalle condizioni tecniche della produzione e dal saggio
    di salario. Date le condizioni tecniche della produzione (e in ogni
    dato momento esse sono date), saggio dei profitti e saggio di
    salario stanno fra di loro in una relazione inversa: a un alto
    saggio di salario corrisponde un basso saggio dei profitti e
    viceversa. Inoltre, e a differenza di quanto sosterrà la
    teoria neoclassica nella sua versione egemone, non è vero che
    a una data configurazione delle tecniche di produzione corrisponda
    una e una sola configurazione distributiva di equilibrio: in
    astratto è compatibile con una configurazione data delle
    tecniche di produzione qualsiasi configurazione distributiva
    compresa fra i due estremi in cui tutto il prodotto netto (di
    rendita) va ai salari, o in cui tutto il prodotto netto va ai
    profitti (è importante sottolineare che ciò è
    vero in astratto: nella realtà non è vero che non
    esista un vincolo distributivo alla determinazione del livello di
    attività o al processo di accumulazione del capitale, come
    mostrerà Marx e come è stato dimostrato dagli esiti
    politici delle tesi neoricardiane, fatte proprie da una parte del
    sindacato italiano negli anni settanta, circa il salario come
    'variabile indipendente').
Il prodotto sociale che si spartiscono capitalisti e lavoratori
    è il prodotto sociale al netto della rendita. Sul livello del
    saggio dei profitti, e sulla sua dinamica nel corso del processo di
    accumulazione, hanno dunque influenza le determinanti della rendita
    stessa. Questa, secondo Ricardo (che ne mutua la spiegazione da
    Malthus), dipende dal fatto che il processo produttivo è
    caratterizzato da rendimenti decrescenti; se si suppone, come
    Ricardo fa nella versione più semplice della sua teoria, che
    l'unica attività produttiva sia quella agricola e che le
    diverse terre abbiano diversa fertilità, allora la
    concorrenza fra capitalisti da un lato e fra proprietari terrieri
    dall'altro farà sì che la rendita risulti pari alla
    differenza fra il prodotto effettivamente ottenuto e quello che si
    sarebbe ottenuto se tutte le terre fossero state di fertilità
    pari a quella della terra meno fertile fra quelle messe a coltura.
    Su quest'ultima la rendita è nulla, e il suo prodotto (il
    prodotto marginale) basterà appena a pagare i salari e i
    profitti, a un saggio (dei profitti) che per effetto della
    concorrenza dovrà essere uniforme su tutte le terre. Il
    saggio di salario, d'altra parte, dovrà anch'esso essere
    uniforme su tutte le terre, e sarà mantenuto al livello di
    sussistenza dall'operare di un meccanismo demografico di tipo
    malthusiano.
Per Ricardo (che almeno in questo senso aderisce alla legge di Say,
    secondo la quale tutti i redditi sono integralmente spesi) se vi
    sono profitti positivi, questi saranno investiti dai capitalisti
    nella coltivazione di nuove terre, che avranno una
    produttività via via decrescente. I profitti saranno
    schiacciati fra rendita e salari (vi è dunque conflitto non
    soltanto fra capitalisti e lavoratori salariati, ma anche fra queste
    due classi e quella dei rentiers); il saggio dei profitti
    diminuirà, e il sistema - prima o poi - raggiungerà lo
    stato stazionario.
Il rapporto (distributivo) fra capitale e lavoro salariato non
    è però istituito, per Ricardo, soltanto dalle leggi
    'naturali' che governano la relazione inversa fra saggio di salario
    e saggio dei profitti e la caduta di questo nel corso del processo
    di accumulazione (non tendenziale, ma necessaria), bensì
    anche dall'eventuale introduzione di macchine nel processo
    produttivo: che non è un fatto di natura, ma è il
    risultato di decisioni dei capitalisti.
Per Ricardo, e contro l'opinione allora e oggi dominante,
    l'introduzione di macchine nel processo produttivo riesce spesso
    dannosa agli interessi della classe dei lavoratori. L'occupazione
    aumenta sicuramente soltanto quando aumentano le anticipazioni
    salariali e il salario è al suo livello 'naturale', di
    sussistenza; mentre l'introduzione delle macchine può far
    sì che aumenti il reddito netto della società (rendite
    e profitti) e contemporaneamente diminuisca il reddito lordo (e
    dunque l'ammontare dei salari). A ciò consegue, secondo
    Ricardo, che la stessa causa che può aumentare il reddito
    netto del paese può nello stesso tempo rendere esuberante la
    popolazione e peggiorare le condizioni dei lavoratori. 
    
d) John Stuart Mill: il capitale come fattore della produzione
Il tentativo di John Stuart Mill di emendare, completare e
    sistemare le teorie ricardiane prelude in realtà allo
    stravolgimento che del pensiero classico compirà la scuola
    neoclassica. Ricardo non dà una spiegazione dell'origine del
    profitto, che concepisce come grandezza residuale; egli nega, in
    altre parole, che il capitale materiale abbia in sé un
    proprio potere produttivo. Mill si pone invece il problema di
    spiegare - ma principalmente di giustificare - i redditi da profitto
    come generati da un siffatto potere produttivo, anticipando
    così una concezione del capitale come di un elemento
    materiale che si combina con lavoro e terra nella produzione di
    ricchezza: una concezione del capitale, dunque, come 'fattore' della
    produzione. Su ciò si tornerà più avanti, ma
    vanno indicati almeno alcuni aspetti della concezione milliana del
    capitale perché rappresentativi di indirizzi di pensiero
    presenti anche in altri autori dell'epoca (J.B. Say, J. M.
    Lauderdale, J. R. McCulloch).
La teoria milliana del capitale - definito come "un fondo accumulato
    dei prodotti del lavoro precedente" - è riassunta dallo
    stesso Mill in quattro "proposizioni fondamentali": 
1) l'industria è limitata dal capitale (l'occupazione
    può essere aumentata soltanto mediante l'accumulazione di
    capitale, cioè sarebbero impossibili problemi malthusiani di
    insufficienza della domanda); 
2) il capitale è il risultato del risparmio; 
3) il capitale, sebbene sia il risultato del risparmio, è
    tuttavia consumato (vi è dunque corrispondenza, come vuole la
    legge di Say, fra risparmio e spese); 
4) la domanda di merci non è domanda di lavoro. (Quest'ultima
    e discussa proposizione probabilmente significa che la domanda di
    merci non è necessariamente domanda di lavoro, poiché
    la decisione di ricostituire il fondo salari mediante il ricavato
    dalla vendita delle merci prodotte spetta al capitalista. A questa
    proposizione si lega il quesito milliano, se la distinzione fra
    ciò che è capitale e ciò che non lo è
    non dipenda dalle intenzioni del capitalista, ovvero del
    proprietario del capitale potenziale).
Mill non afferma esplicitamente il potere produttivo del capitale, e
    anzi scrive che "il capitale, rigorosamente parlando, non ha alcun
    potere produttivo: l'unico potere produttivo è quello del
    lavoro"; ma aggiunge subito "assistito indubbiamente da utensili e
    operante sulle materie prime. Si può forse dire, senza grande
    improprietà, che la parte di capitale che consiste di
    utensili e di materie prime possiede un potere produttivo,
    poiché essi contribuiscono, insieme col lavoro,
    all'espletamento della produzione. [...] Il concetto appropriato di
    capitale è che tutto quanto una persona possiede costituisce
    il suo capitale, purché questa persona possa e voglia
    impiegarlo non nel consumo a scopo di soddisfazione, ma per
    procurarsi i mezzi di produzione con l'intenzione di impiegarli
    produttivamente. Ora i mezzi di produzione sono lavoro, strumenti e
    materie prime. L'unico potere produttivo che esiste è il
    potere produttivo del lavoro, degli strumenti e delle materie prime"
    (v. Mill, 1844). 
    
e) Karl Marx: la critica della formula trinitaria
Karl Marx intitola proprio alla "formula trinitaria" il primo
    capitolo dell'ultima sezione del terzo volume del Capitale (dedicata
    a I redditi e loro fonti; l'ultimo capitolo, là dove il
    manoscritto si interrompe, ha per titolo Le classi).
Scrive Marx: "Questa formula trinitaria si riduce più
    precisamente alla seguente: capitale-interesse, terra-rendita
    fondiaria, lavoro-salario, nella quale il profitto, la forma del
    plusvalore che caratterizza specificamente il modo di produzione
    capitalistico, è felicemente eliminato. Le pretese fonti
    della ricchezza annualmente disponibile appartengono a sfere
    completamente diverse e non vi è fra di esse la più
    piccola analogia, come non vi è analogia fra gli onorari di
    un notaio, le carote rosse, la musica. Capitale, terra, lavoro! Ma
    il capitale non è una cosa, bensì un determinato
    rapporto di produzione sociale, appartenente a una determinata
    formazione storica della società. Il capitale è
    costituito dai mezzi di produzione monopolizzati da una parte
    determinata della società, dai prodotti e dalle condizioni di
    attività della forza-lavoro, resi autonomi nei confronti
    della forza-lavoro vivente, che vengono mediante questa
    contrapposizione personificati nel capitale. [...] Viene poi la
    terra, la natura inorganica come tale, rudis indigestaque moles in
    tutta la sua selvaggia primitività. [...] E infine, come
    terzo in questa alleanza, un semplice fantasma, 'il' lavoro, che non
    è altro che un'astrazione, l'attività produttiva
    dell'uomo in generale, per mezzo della quale egli rende possibile il
    ricambio organico con la natura. [...] L'economia volgare non fa
    altro, in realtà, che interpretare, sistemare e difendere le
    idee di coloro che, impigliati nei rapporti di produzione borghesi,
    sono gli agenti di questa produzione. Non ci dobbiamo quindi
    meravigliare che l'economia volgare si senta particolarmente a suo
    agio proprio in questa forma fenomenica estraniata dai rapporti
    economici, in cui questi prima facie sono assurdi e del tutto
    contraddittori - e ogni scienza sarebbe superflua, se l'essenza
    delle cose e la loro forma fenomenica direttamente coincidessero - e
    che questi rapporti le appaiano tanto più evidenti di per
    sé quanto più le rimane nascosto il loro nesso
    interno". 
    
f) Marx: lavoro salariato e capitale
Per Marx il processo di produzione capitalistico è una forma
    storicamente determinata del processo di produzione sociale in
    generale. Quest'ultimo è al tempo stesso il processo di
    produzione delle condizioni materiali della vita umana e un processo
    che si sviluppa entro specifici rapporti di produzione
    storico-economici, producendo e riproducendo questi rapporti stessi
    di produzione e dunque i rappresentanti di questo processo, le loro
    condizioni materiali di esistenza e i loro rapporti reciproci, ossia
    la loro determinata forma economica e sociale. Il complesso di
    questi rapporti, in cui i rappresentanti di questa produzione stanno
    con la natura e fra di loro, costituisce precisamente la
    società, considerata nella sua struttura economica.
La caratteristica principale del modo di produzione capitalistico,
    se lo si guarda dal punto di vista della circolazione, è che
    il processo è del tipo Denaro-Merce-Denaro, e non
    Merce-Denaro-Merce. Ciò vuol dire che mentre nel ciclo M-D-M
    lo scopo dello scambio è quello di ottenere una merce finale
    atta a soddisfare bisogni diversi da quelli che possono essere
    soddisfatti con la merce posseduta e ceduta inizialmente (scopo
    dello scambio è il valore d'uso e la moneta serve soltanto
    all'intermediazione nello scambio delle merci), nel ciclo D-M-D si
    cede denaro per ottenere altro denaro; questo denaro, d'altra parte,
    non viene mai speso definitivamente, ma rifluisce sempre al punto di
    partenza. Scopo di questo processo non è ottenere valori
    d'uso, bensì un plusvalore; la somma ottenuta, perché
    l'operazione abbia un senso, dovrà essere maggiore di quella
    ceduta inizialmente: la forma effettiva del ciclo dovrà
    dunque essere D-M-D´, dove D´ sarà maggiore di D
    e la differenza rispetto al valore originario sarà costituita
    dal plusvalore. Nella circolazione, dice Marx, il valore anticipato
    originariamente si valorizza, e questo movimento lo trasforma in
    capitale.
Si tratta ora di spiegare come mai D´ possa (e debba) essere
    maggiore di D. La spiegazione marxiana è la seguente. Come si
    è visto, il processo si apre con uno scambio di potere
    d'acquisto contro una merce: il potere d'acquisto originario si
    trasforma in capitale proprio in quanto assume la forma intermedia
    di merce. Tuttavia non esiste nessuna risorsa o merce (salvo una,
    come si vedrà) che allo stesso tempo abbia valore d'uso e sia
    fonte di valore, così come occorre affinché D´
    sia maggiore di D. Diventa dunque necessario indagare come nel modo
    di produzione capitalistico si svolga il processo di produzione (e
    riproduzione). L'idea marxiana è che l'unica merce che
    insieme abbia valore d'uso e funzioni come fonte di valore sia la
    forza lavoro. Di tale merce, che costituisce l'unica
    proprietà del lavoratore, il lavoratore stesso non può
    fare uso, poiché non possiede i mezzi di produzione;
    può soltanto venderla a chi - il capitalista - possiede
    potere d'acquisto da trasformare in capitale, la immette e utilizza
    nel processo produttivo e ne trae il plusvalore che si
    realizzerà (se si realizzerà) nella forma di profitto
    con l'ulteriore trasformazione della merce prodotta in denaro.
Se le cose stanno così, non è più possibile
    pensare il capitale soltanto come entità materiale e come
    categoria distinta dal lavoro, come semplice insieme di mezzi di
    produzione che vengono combinati con il lavoro per produrre valori
    d'uso. Nel modo di produzione capitalistico il lavoratore è
    lavoratore salariato, e il rapporto materiale fra strumenti di
    lavoro e capacità lavorativa, quale si dà nel processo
    lavorativo, sottende un nesso sociale fra capitalista e lavoratore
    che condiziona tutto il processo di valorizzazione e di
    riproduzione.
Scrive Marx (in Lavoro salariato e capitale): "Anche il capitale
    è un rapporto sociale di produzione. Esso è un
    rapporto borghese di produzione. Il capitale non è dunque
    soltanto una somma di prodotti materiali; esso è una somma di
    merci, di valori di scambio, di grandezze sociali [...]. Come dunque
    una somma di merci, di valori di scambio, diventa capitale? Per il
    fatto che essa, come forza sociale indipendente, cioè come
    forza di una parte della società, si conserva e si accresce
    attraverso lo scambio con il lavoro vivente, immediato. L'esistenza
    di una classe che non possiede null'altro che la capacità di
    lavorare è una premessa necessaria del capitale" (v. Marx,
    1849). 
    
g) Marx: il processo di produzione-riproduzione
Che cosa avviene nello scambio fra capitale e lavoro salariato?
    Per Marx il valore di una merce si scinde in tre parti: capitale
    costante, capitale variabile, plusvalore. Il processo produttivo si
    apre con la spesa da parte del capitalista del suo capitale
    monetario nell'acquisto dei mezzi di produzione e della forza lavoro
    (la quale costituisce il capitale produttivo). La forza lavoro, come
    qualsiasi altra merce, viene pagata secondo il suo valore, che
    è pari al tempo di lavoro necessario per riprodurla
    (cioè per produrre i mezzi di sussistenza del lavoratore).
Al termine del processo di produzione il capitale produttivo
    è trasformato in capitale merce, in merci che hanno un valore
    superiore a quello del capitale produttivo iniziale. La parte di
    capitale monetario spesa nei mezzi di produzione (capitale costante)
    non cambia la sua grandezza di valore, mentre la parte spesa in
    forza lavoro (capitale variabile) ha aumentato il suo valore,
    producendo il plusvalore che viene trattenuto dal capitalista e che,
    una volta realizzato, può essere trasformato in nuovo
    capitale produttivo. Il lavoratore salariato si troverà
    così di fronte il valore che egli stesso ha prodotto; egli
    vende la propria forza lavoro per produrre ciò che gli si
    contrapporrà come proprietà del capitalista. Da un
    lato la forza lavoro, in quanto produce plusvalore, è
    all'origine del profitto; dall'altro il lavoro, in quanto lavoro
    salariato, è incluso nel capitale.
Ciascun singolo capitale, tuttavia, può riprodursi soltanto
    se la merce prodotta viene venduta e il ricavato viene riconvertito
    in nuovo capitale produttivo. La realizzazione della merce
    può però essere ostacolata da tre ordini di
    circostanze: il bisogno che la collettività ha della merce
    stessa; la quantità di moneta esistente; l'effettiva
    trasformazione in denaro dell'intera quantità prodotta. Gli
    schemi di riproduzione di Marx, che riprendono l'idea del Tableau
    économique di Quesnay, hanno lo scopo di individuare le
    condizioni necessarie affinché il processo di produzione
    possa ripetersi, riprodursi, ed è proprio nel processo di
    riproduzione che può manifestarsi l'equilibrio - oppure la
    crisi - del capitale.
Se si suddivide il sistema economico nei due settori fondamentali
    (quello che produce mezzi di produzione e quello che produce merci
    salario), allora dalla condizione di uguaglianza fra domanda e
    offerta che è necessaria per ciascun settore risulterà
    che la domanda di mezzi di produzione da parte del settore che
    produce merci salario deve essere uguale alla domanda di merci
    salario da parte del settore che produce mezzi di produzione. In
    assenza di un piano, è chiaro non soltanto che il verificarsi
    spontaneo di questa condizione è improbabile, ma anche che,
    se quella uguaglianza per caso si verifica, nulla assicura che essa
    comporti il massimo livello di attività e di occupazione del
    sistema; sono cruciali, comunque, nella determinazione del livello,
    delle proporzioni e della regolarità e stabilità delle
    modalità di riproduzione del sistema, le decisioni dei
    capitalisti circa l'impiego dei profitti realizzati.
Da questo punto di vista, cioè dal punto di vista della
    riproduzione e della circolazione del capitale complessivo, Marx
    dimostra che l'equilibrio reale, nello scambio delle diverse parti
    del prodotto annuo, non necessariamente esiste, né è
    necessariamente unico, stabile e ottimo per tutti, come invece
    vogliono gli economisti ortodossi. In particolare, la funzione del
    denaro quale capitale monetario produce determinate condizioni dello
    svolgimento normale della riproduzione (sia su scala semplice sia su
    scala allargata), che si trasformano in altrettante condizioni di
    svolgimento anormale della produzione, in possibilità di
    crisi: "poiché l'equilibrio stesso - dato il carattere
    primitivo di questa produzione - è un caso". 
    
h) Marx: plusvalore e profitto
Per Marx la soluzione del problema lasciato irrisolto da Ricardo -
    quale sia l'origine del profitto - è dunque questa:
    all'origine del profitto sta il plusvalore, e all'origine di questo
    sta il pluslavoro prestato nella fabbrica dal lavoratore, dopo che
    questi aveva venduto sul mercato, e al suo prezzo, la propria forza
    lavoro. Lo scambio che ha per oggetto la merce forza lavoro è
    uno scambio fra equivalenti nella sfera della circolazione, mentre
    è uno scambio fra non equivalenti se si considera il processo
    capitalistico complessivo, che è allo stesso tempo processo
    di circolazione, produzione e riproduzione.
La giornata lavorativa si divide in due parti: una prima parte serve
    a ricostituire i beni di consumo necessari alla riproduzione della
    forza lavoro (lavoro necessario), la seconda (pluslavoro)
    costituisce il plusvalore, quella parte del valore del prodotto che
    non ritorna al lavoratore salariato e che anzi gli si
    contrapporrà come nuovo capitale. Conviene aggiungere che un
    rapporto di sfruttamento non si dà soltanto nel modo di
    produzione capitalistico, ma soltanto in questo esso è
    mediato, e celato, dallo scambio. Il profitto è il risultato
    della forma capitalistica del rapporto di sfruttamento. 
Poiché il valore di ogni merce prodotta capitalisticamente si
    scinde per Marx in capitale costante (c), capitale variabile (v) e
    plusvalore (s), la grandezza alla quale vanno commisurati i profitti
    ai fini della determinazione del saggio del profitto sarà il
    valore dell'intero capitale speso negli elementi della produzione;
    cioè la somma del capitale costante e del capitale variabile,
    e non soltanto l'ammontare dei salari anticipati, come si ha in
    Ricardo. Se il plusvalore si trasforma in profitto (se cioè
    la merce prodotta viene realizzata), il saggio del profitto
    sarà dato da s/(c + v), ovvero, se si dividono numeratore e
    denominatore per v, dal rapporto fra s/v (che si può definire
    saggio del plusvalore o di sfruttamento) e (c/v + 1) (dove il
    rapporto c/v può essere definito 'composizione organica del
    capitale').
Mentre il saggio del plusvalore rende manifesta l'origine del
    plusvalore stesso, che è il capitale variabile, nel saggio
    del profitto tale origine viene occultata poiché, perdendosi
    la distinzione fra capitale costante e capitale variabile, il
    profitto apparirà come generato da 'qualità segrete'
    del capitale nel suo complesso (e non soltanto da quella sua parte
    che per Marx ha capacità di valorizzazione). Il capitalista
    anticipa il capitale complessivo senza riguardo alle diverse
    funzioni assolte nella produzione del plusvalore dalle singole parti
    costitutive del capitale, e dunque ai suoi occhi il profitto
    è originato dal capitale in sé, mentre in
    realtà esso non è altro che una forma mistificata del
    plusvalore, "la forma fenomenica del plusvalore". (Si pone qui il
    cosiddetto 'problema della trasformazione', che ci limitiamo a
    menzionare. Mentre in Ricardo valore e prezzo coincidono
    immediatamente, per Marx valore e prezzo sono due categorie
    distinte: i valori si 'trasformano' in prezzi di produzione per
    effetto della concorrenza, in maniera tale da assicurare ai vari
    capitali l'eguaglianza dei saggi di profitto. I prezzi di produzione
    dovrebbero dunque essere determinati a partire dai valori. Sulla
    trasformazione in prezzi dei valori misurati in termini di lavoro
    incorporato è bene avvertire che l'analisi elaborata da Piero
    Sraffa (v., 1960) in Produzione di merci a mezzo di merci, ha messo
    in evidenza che, nel procedere alla trasformazione, si incontrano
    difficoltà gravi, secondo alcuni economisti insuperabili,
    secondo altri non decisive).
Un cenno, infine, agli effetti dell'accumulazione del capitale sul
    saggio del profitto. Si è visto come per Ricardo il saggio
    del profitto dipenda dalle condizioni tecniche della produzione e
    dal saggio di salario, e che la messa a coltura di terre via via
    meno fertili, dato il saggio di salario, comporta necessariamente e
    naturalmente una caduta del saggio dei profitti. Nella definizione
    marxiana (e nella contabilità capitalistica) del saggio del
    profitto, questo dipende invece dal rapporto fra il saggio del
    plusvalore e la composizione organica del capitale; cioè
    dalla divisione della giornata lavorativa (che è una misura
    della distribuzione del prodotto fra capitalisti e lavoratori) e
    dalle condizioni tecniche della produzione (descritte in termini di
    composizione organica del capitale). Ciò significa che, a
    parità del saggio di plusvalore (ovvero di sfruttamento),
    l'andamento del saggio del profitto dipenderà da quello della
    composizione organica del capitale. Questa, a sua volta, dipende
    dalle decisioni dei capitalisti circa le tecniche di produzione e
    circa il rapporto fra capitale costante e capitale variabile, che in
    generale tenderà ad aumentare, non tanto in dipendenza di un
    'progresso tecnico' ineluttabile, il quale deterministicamente
    conduca a sostituire macchine a lavoro vivo, ma in quanto in tal
    modo - generando disoccupazione (esercito industriale di riserva) -
    si manterrà il salario al suo livello di sussistenza. Il
    saggio dei profitti, dunque, tenderà a diminuire, a causa
    delle decisioni stesse dei capitalisti; anche se alla legge della
    caduta tendenziale del saggio del profitto potranno opporsi, quali
    contraddizioni intrinseche della legge, delle cause antagonistiche.
    
    3. L'epoca neoclassica
    
Nel suo splendido libro su Gli anni dell'alta teoria. Invenzione e
    tradizione nel pensiero economico, 1926-1939, George L. S. Shackle
    narra che nei quarant'anni seguenti il 1870 fu fondata una "grande
    teoria" o "grande sistema della scienza economica", il cui unico
    scopo era di dimostrare quali fossero le implicazioni logiche di
    gusti o bisogni dati, combinati con "conoscenza perfetta" e messi a
    confronto con "scarsità e versatilità di risorse".
    Scarsità e versatilità di risorse, unite alla perfetta
    e generale conoscenza delle soddisfazioni che si possono trarre da
    ciascun uso di tali risorse attraverso l'intera gamma di
    possibilità rivelate da un determinato stadio della
    tecnologia, assicuravano che queste risorse sarebbero state sempre
    pienamente impiegate. La conoscenza perfetta implicava anche la
    perfezione dei mercati, così che ogni bene veniva prodotto da
    un gran numero di imprese di pari dimensioni fra le quali i
    compratori si muovevano in completa indifferenza. Inoltre la
    conoscenza perfetta aboliva del tutto la necessità di un
    qualche mezzo di conservazione del potere generale d'acquisto
    (distinto dalla ricchezza incorporata in forme concrete capaci di
    fornire direttamente la soddisfazione del consumo o di intervenire
    fisicamente nella produzione) e quindi non c'era moneta reale (la
    cui funzione come riserva di valore è di rendere possibile la
    posposizione di una decisione circostanziata a chi possiede una
    conoscenza imperfetta). La teoria evitava di prendere in
    considerazione lo sviluppo in qualsiasi sua forma: "La Grande Teoria
    era quindi la teoria dell'equilibrio generale stazionario (o,
    meglio, atemporale), perfettamente concorrenziale e di piena
    occupazione" (v. Shackle, 1967). 
    
a) L'equilibrio economico come ordine naturale e necessario
Con l'avvento della scuola neoclassica l'economia politica si
    trasforma in una disciplina che di 'politico', esplicitamente, ha
    ben poco; la 'scienza' economica, secondo la definizione che ne
    darà Lionel Robbins tra il 1932 e il 1935, si riduce
    all''economica': "scienza che studia la condotta umana come una
    relazione tra scopi e mezzi scarsi, applicabili a usi alternativi".
    Questa riduzione (o generalizzazione, a seconda dei punti di vista)
    nell'ambito della teoria del capitale conduce a concepire il
    capitale stesso esclusivamente nella sua connotazione materiale:
    come un insieme di mezzi di produzione prodotti e dotati di
    produttività.
Già nell'epoca classica erano presenti teorie che concepivano
    il capitale come 'fattore produttivo'. Nassau Senior, in
    particolare, riconduce la produttività del capitale alla
    categoria dell''astinenza', cioè al "comportamento di un
    soggetto che o si astiene dall'uso improduttivo di ciò di cui
    dispone o deliberatamente preferisce il conseguimento di risultati
    remoti anziché quello di risultati immediati". All'origine
    del profitto starebbe l'astinenza, e nella definizione e
    nell'analisi del capitale diventa centrale la dimensione temporale
    del processo produttivo.
Un'impostazione siffatta ha una conseguenza di grande portata sulla
    visione del processo economico. La conseguenza è che se il
    lavoro non è l'unica fonte del valore, ma esistono anche
    altri 'fattori' della produzione, allora viene meno la categoria del
    sovrappiù, che per l'appunto presuppone che sia il lavoro
    produttivo (la forza lavoro, per Marx) a produrre di più di
    quanto occorra alla sua riproduzione, e si afferma la concezione del
    problema distributivo come retto dall'armonia anziché dal
    conflitto fra classi antagonistiche. Se si pensa ciascuna quota
    distributiva come il risultato di un contributo produttivo specifico
    di ciascun fattore, la distribuzione del prodotto sociale non
    è più determinata anche da un conflitto di classe, ma
    soltanto dalle condizioni tecniche della produzione, che sono
    assunte come date. Il mondo è retto da un'unica, determinata
    legge economica ed esiste un'unica configurazione di equilibrio, che
    in assenza di attriti si afferma e si mantiene naturalmente e con il
    massimo vantaggio per tutti. Il reddito percepito da ciascun
    soggetto non è altro che il prezzo per i servizi produttivi
    dei fattori della produzione di cui ciascun soggetto è
    proprietario. 
    
b) Il capitale nell'equilibrio economico generale
Del capitale la teoria di Léon Walras vuole e può dire
    soltanto ciò che se ne può dire nel linguaggio
    matematico. Ciò rende particolarmente difficile esporla
    mediante il linguaggio comune, ma soprattutto le impedisce di
    indagare il ruolo che il capitale ha nelle diverse fasi del processo
    capitalistico di produzione-riproduzione, riducendo la questione al
    modo in cui il capitale entra (come dato) in un problema di
    massimizzazione sotto vincoli. Questo, nella visione di Walras,
    è un problema generale e universale, che va studiato con
    riferimento a un sistema il cui funzionamento non è
    condizionato da alcuna determinazione storica o istituzionale.
Il problema che Walras affronta con la sua teoria dell'equilibrio
    economico generale è il seguente: quali siano le
    quantità di beni prodotti e scambiati, e i prezzi ai quali
    avvengono tali scambi, in quella configurazione che vede realizzate
    simultaneamente le posizioni di equilibrio cui tendono i soggetti
    economici. I dati del problema, d'altra parte, sono le
    quantità iniziali di risorse produttive, la tecnica di
    produzione, il sistema di preferenze dei soggetti. Si suppone,
    inoltre, che il mercato sia concorrenziale e che i soggetti siano
    razionali nel senso che tendono a massimizzare la propria
    soddisfazione.
Lo schema analitico complessivo comprende quattro stadi: una teoria
    dello scambio, sotto il vincolo dell'eguaglianza fra domanda e
    offerta dei beni di consumo; una teoria della produzione, sotto il
    vincolo dell'eguaglianza fra prezzo di vendita dei prodotti e costi
    dei servizi produttivi che vi sono entrati; una teoria della
    capitalizzazione, circa le quantità prodotte dei capitali
    propriamente detti, sotto il vincolo dell'uniformità del
    saggio di rendimento dei beni capitali e dell'eguaglianza fra
    reddito risparmiato e valore dei nuovi beni capitali prodotti;
    infine una teoria della circolazione che tenga conto della
    necessità (strumentale) della moneta come capitale
    circolante.
Per Walras il capitale in generale è costituito da "tutte le
    forme di ricchezza sociale che non sono consumate affatto o che
    vengono esaurite soltanto dopo un certo periodo di tempo". Sono
    invece redditi "tutti i beni non durevoli, tutte le forme di
    ricchezza sociale che vengono consumate immediatamente". Per
    intendere il modo in cui il capitale entra nella determinazione
    dell'equilibrio economico walrasiano, occorre dunque partire dalla
    nozione walrasiana di ricchezza sociale, che è "l'insieme
    delle cose materiali o immateriali che sono scarse, cioè che
    da una parte ci sono utili e dall'altra non sono disponibili che in
    quantità limitata". Gli elementi della ricchezza sociale sono
    di due tipi: i capitali, beni che servono più di una volta, e
    i redditi, beni che servono una sola volta. I capitali, a loro
    volta, sono di tre tipi: i capitali, o risorse, naturali, i
    capitali, o capacità, personali, e i capitali propriamente
    detti, quei beni capitali che non sono né terra né
    facoltà personali. Quanto ai redditi, essi comprendono i beni
    per uso di consumo (beni di consumo e servizi consumabili delle tre
    specie di capitali) e i beni per usi di produzione (beni intermedi e
    servizi produttivi delle tre specie di capitali).
La principale preoccupazione analitica di Walras riguarda la
    trasformazione dei servizi produttivi in prodotti. Nel processo
    economico vi sarebbe dunque un punto di partenza (le dotazioni
    iniziali di capitali) e un fine: il consumo, da parte dei soggetti,
    dei beni di consumo, e l'acquisto - in quanto risparmiatori - di
    nuovi capitali. La successione lineare che conduce dal punto di
    partenza al traguardo è la seguente: i soggetti proprietari
    dei capitali (in quantità date) ne vendono i servizi agli
    imprenditori; questi, comprati tali servizi, si scambiano (nel senso
    del baratto) i servizi intermedi fra di loro; ora dispongono dei
    fattori della produzione e li immettono in un processo produttivo,
    la cui tecnologia è data; l'esito del processo è la
    vendita dei prodotti, dagli imprenditori ai proprietari dei servizi
    produttivi, che i primi avevano acquistato dai secondi e che ora i
    secondi sono in grado di acquistare dai primi.
Per esprimersi in termini moderni, si può dire che nella
    teoria walrasiana della produzione le merci non sono prodotte (come
    è invece per gli economisti classici) mediante altre merci
    prodotte, bensì grazie ai servizi produttivi di beni capitali
    assunti come dati nello schema. La funzione dell'imprenditore si
    riduce a quella di comprare servizi produttivi e vendere beni di
    consumo, senza alcuna iniziativa o reddito suoi propri; come
    noterà Schumpeter, "è chiaro che nel pensiero di
    Walras le famiglie sono realmente gli agenti che, sia come
    compratori che come venditori di servizi, determinano il processo
    economico " (v. Schumpeter, 1954).
Per quanto riguarda il valore dei beni capitali occorre distinguere
    due casi: un'economia in stato stazionario e un'economia in
    sviluppo. Nella prima non vi sarà un mercato sul quale si
    determinano tali valori, poiché in uno stato stazionario non
    vi sarà produzione di nuovi beni capitali, ma soltanto
    ammortamenti e rinnovi. In un'economia in sviluppo vi sarà
    invece domanda di nuovi beni capitali e offerta di risparmio. Gli
    imprenditori domanderanno nuovi beni capitali fino a quando non
    saranno uguali il rendimento di questi e il prezzo di offerta del
    risparmio, sotto la condizione che in equilibrio i prezzi dei beni
    capitali siano proporzionali ai loro rendimenti netti. L'offerta di
    risparmio, da parte delle famiglie, è spiegata da Walras in
    termini di utilità. A questo fine - per stabilire una
    relazione fra beni capitali e utilità - Walras immagina un
    bene ideale, il "ricavo netto perpetuo", per il quale ciascuna
    famiglia ha una funzione di domanda (basata sull'utilità
    marginale che attribuisce al bene stesso). I prezzi dei beni
    capitali possono ora essere espressi in termini del prezzo di
    un'unità di ricavo netto perpetuo per unità di tempo,
    che è il reciproco del saggio di interesse. In equilibrio la
    domanda complessiva di nuovi beni capitali (che deve essere uguale
    al risparmio) dovrà ripartirsi fra le industrie che producono
    questi nuovi beni capitali secondo la condizione di
    proporzionalità ricordata sopra (in modo che il rendimento
    netto dei beni capitali sia proporzionale ai loro prezzi). Il
    fattore di proporzionalità comune ai prezzi di tutti i beni
    capitali sarà dato dal reciproco del prezzo di
    un'unità di ricavo netto perpetuo e dunque - in assenza di
    moneta - coinciderà con il saggio di interesse.
L'edificio walrasiano è senza dubbio molto bello, come scrive
    Schumpeter (che ne è affascinato e però - tentato da
    Marx - vuol prenderne le distanze): "Il piano terreno di questa
    costruzione è la teoria del 'mercato' dei beni di consumo. Al
    primo piano troviamo la teoria della produzione e il 'mercato' dei
    servizi produttivi, non separato dal primo mercato ma con esso
    integrato. Al secondo piano abbiamo il 'mercato' dei beni capitali,
    analogamente integrato con gli altri due" (ibid.). (E al terzo piano
    c'è un altro mercato, integrato con gli altri tre, quello del
    'capitale circolante' e della moneta).
Sebbene la teoria walrasiana sia spesso invocata come fondamentale,
    in quanto schema di riferimento indispensabile per una fondazione
    microeconomica delle proposizioni relative al funzionamento del
    sistema economico nel complesso (fondazione che molti presumono
    necessaria, sebbene con ragioni dubbie), quella stessa teoria sembra
    a sua volta avere fondamenta discutibili. Infatti la teoria
    dell'equilibrio economico generale ha dato luogo a una vastissima
    letteratura, in accordo o critica, sulla sua coerenza formale e il
    suo realismo; qui ci si limita a riprendere una considerazione di
    Claudio Napoleoni, per il quale al fondo delle difficoltà
    analitiche della teoria walrasiana c'è un modo
    sostanzialmente contraddittorio di concepire il capitale: "Il
    capitale è una realtà essenzialmente unitaria proprio
    perché costituisce, nel suo insieme e indipendentemente dai
    singoli beni che lo costituiscono, il termine di riferimento
    rispetto al quale si determina il saggio dell'interesse. La
    contraddizione in cui cade Walras sta allora in ciò, che, da
    un lato, il capitale è frantumato nelle sue singole
    componenti (i tanti 'beni capitali') e, dall'altro lato, è
    riaffermato come unitario nel momento in cui ciò è
    inevitabile, ossia nel momento in cui si introduce il saggio
    dell'interesse (comune valore dei saggi di rendimento)" (v.
    Napoleoni, 1976). 
    
c) La teoria 'austriaca': capitale e tempo
Al centro della teoria austriaca del capitale (il cui campione
    è Eugen von Böhm-Bawerk, ma in cui confluiscono da varie
    parti culturali e in tempi diversi i contributi di William S. Jevons
    - "Il capitale è un fatto di tempo" -, Carl Menger, Knut
    Wicksell e altri) sta l'idea che il capitale, in quanto fattore
    della produzione, possa essere misurato in termini di 'periodo di
    produzione'. Il capitale, per Böhm-Bawerk - "il Marx borghese",
    secondo Schumpeter -, non è un fattore produttivo originario,
    quali sono il lavoro e la terra, ma è esso stesso prodotto. I
    beni di consumo possono essere prodotti anche direttamente, mediante
    l'impiego dei soli fattori originari; normalmente, tuttavia, essi
    sono prodotti con metodi indiretti, che comportano l'impiego di beni
    intermedi, di beni capitali: tali metodi indiretti sono più
    produttivi, e diventano tanto più produttivi (sia pure con
    incrementi decrescenti) quanto più lungo è il periodo
    di produzione. Il problema diventa allora quello di determinare una
    misura dell'intensità capitalistica delle tecniche di
    produzione, che a sua volta consenta di determinare il saggio di
    interesse associato a ciascuna tecnica, nonché le relazioni
    intercorrenti fra intensità capitalistica delle tecniche e
    distribuzione del reddito, nell'ipotesi che i soggetti adottino un
    comportamento massimizzante.
In quanto il capitale non è un fattore produttivo originario,
    deve esserne possibile, per Böhm-Bawerk, la riduzione ai
    fattori originari; in particolare, se per semplicità si
    trascura la terra, il capitale deve poter essere ridotto al lavoro
    che nelle epoche precedenti al periodo considerato è stato
    investito nella produzione dei mezzi di produzione.
    L'intensità capitalistica delle tecniche di produzione
    può allora essere misurata in termini di periodo medio di
    produzione: se si considerano i periodi che intercorrono tra l'epoca
    in cui è stata prestata ciascuna quantità di lavoro e
    il momento in cui si rende disponibile il prodotto, il periodo medio
    di produzione sarà dato dalla media aritmetica dei singoli
    periodi, ponderati con le rispettive quantità di lavoro.
    Ciascuna tecnica di produzione ha dunque un suo periodo medio di
    produzione, che cresce quanto più indiretta, o
    'capitalistica', è la tecnica stessa.
Si pone ora il problema dell'interesse. Posto che il capitale non
    è altro che il lavoro investito nelle epoche precedenti,
    perché mai il valore del prodotto è maggiore della
    somma dei valori di tutte le quantità di lavoro direttamente
    e indirettamente impiegate nella produzione del prodotto stesso, e
    comprende anche un interesse?
Per Böhm-Bawerk l'esistenza e l'ammontare dell'interesse sono
    spiegati da tre fattori fondamentali, i drei Gründe: le
    "diverse circostanze di bisogno e di approvvigionamento" nel
    presente e nel futuro, la "sottovalutazione del futuro" e la
    "superiorità tecnica dei beni presenti su quelli futuri" (i
    beni presenti possono essere investiti oggi e reinvestiti domani, al
    momento in cui si rendono disponibili; mentre i beni disponibili
    domani possono essere investiti soltanto domani). I primi due
    fattori (o 'regole fattuali', ma in realtà convenzioni)
    presiedono alle decisioni di consumo: la natura umana è tale
    che i soggetti preferiscono i beni presenti a beni futuri,
    così che i beni presenti possiedono un'utilità e
    perciò un valore superiore rispetto a quelli futuri. La
    speranza induce a sopravvalutare le risorse future, la mancanza di
    immaginazione e la debolezza della volontà determinano una
    sottovalutazione dei bisogni futuri: presi insieme, questi due
    fattori rendono l'utilità marginale dei beni presenti
    maggiore di quella dei beni futuri. Per provocare un'offerta di beni
    presenti in cambio di beni futuri occorre pagare un aggio, un
    interesse. L'altro fattore, il terzo, spiega l'esistenza di un
    prezzo di domanda dei beni presenti in termini di beni futuri,
    spiega cioè come mai l'utilizzatore di capitale possa pagare
    quell'interesse. Questo fattore è di carattere tecnico e
    consisterebbe nella maggior produttività dei metodi di
    produzione indiretti: il procedere della civiltà, nel campo
    tecnico, consiste precisamente nell'adozione di metodi di produzione
    più 'indiretti', nell''allungamento' dei processi produttivi.
    Tutto viene così ricondotto alla 'natura', anziché
    alla struttura storicamente determinata della società:
    è la natura dell'uomo, e della società, che spiega
    come l'interesse debba e possa essere pagato. Esso deve essere
    pagato perché corrisponde a una rinuncia alla
    disponibilità di ricchezze presenti in vista di una
    disponibilità futura, e può essere pagato grazie alla
    maggiore 'produttività' dei metodi 'indiretti',
    'capitalistici', di produzione.
Molte obiezioni possono essere e saranno mosse alla costruzione di
    Böhm-Bawerk (curiosamente analoghe, sul piano logico, a quelle
    con le quali egli pretese di liquidare il sistema marxiano), ma
    nella vulgata dei manuali essa continua a imperare. 
    
d) Irving Fisher: impazienza e volontà
Al di fuori delle ipotesi ad hoc sulle quali si regge, la teoria
    austriaca del capitale (nella formulazione di Böhm-Bawerk)
    presenta difficoltà insormontabili per quanto riguarda la
    misurazione del capitale stesso e dunque la determinazione del
    saggio di interesse in termini di periodo medio di produzione.
    Irving Fisher tenta di aggirare queste difficoltà
    abbandonando quest'ultimo concetto, e muovendo dall'idea che
    "l'interesse è un indice della preferenza espressa dalla
    comunità per un dollaro presente rispetto a un dollaro
    futuro" (v. Fisher, 1930).
Per trattare correttamente del ruolo del tempo nella determinazione
    del saggio di interesse occorre distinguere, secondo Fisher, il
    concetto di fondo da quello di flusso. In particolare, "un fondo di
    ricchezza esistente in un dato istante di tempo è detto
    capitale; un flusso di servizi durante un periodo di tempo è
    detto reddito". Il capitale è allora qualsiasi forma di
    ricchezza capace di produrre un flusso di reddito. I percettori di
    reddito, d'altra parte, cercano di modificare le quantità di
    reddito disponibili per il consumo nelle diverse epoche future
    ricorrendo al risparmio e ai prestiti: il saggio di interesse
    è il prezzo che viene pagato per ottenere reddito presente in
    luogo di reddito futuro.
La determinazione di tale saggio dipende dall'interazione fra forze
    soggettive e forze oggettive. Le forze soggettive sono costituite
    dal "principio dell'impazienza" (o "della volontà"), che
    presiede alla redistribuzione dei consumi nel tempo da parte dei
    soggetti. Le forze oggettive, d'altra parte, consistono nel
    "principio delle occasioni di investimento", il quale consente di
    valutare i diversi progetti di investimento in termini del loro
    "saggio di rendimento sul costo". È questa una nozione
    importante, poiché strettamente connessa a quella keynesiana
    (anche se con essa non si identifica) di "efficienza marginale del
    capitale". Il saggio di rendimento sul costo è quel saggio di
    sconto in base al quale due o più progetti di investimento
    hanno lo stesso valore attuale netto. Le decisioni di investimento
    dipenderanno da un confronto fra tale saggio e il saggio di
    interesse (o, se questo è diverso, il costo del capitale). Il
    saggio di interesse, a sua volta, non è determinato
    dall'ammontare di capitale (anche se Fisher non ne nega la
    produttività), bensì dall'interazione fra le
    preferenze temporali dei percettori di reddito e le
    opportunità di investimento. Nell'ipotesi di un comportamento
    massimizzante dei soggetti e di mercati concorrenziali, i saggi di
    preferenza temporale individuali e i saggi di rendimento sul costo
    dei diversi progetti di investimento convergeranno in un punto di
    equilibrio, il quale costituisce il saggio di interesse del sistema.
Il saggio di interesse non dipende dunque dall'ammontare di capitale
    (semmai è vero il contrario, che il valore del capitale
    dipende dal saggio di interesse), bensì dalla preferenza
    temporale dei soggetti. La prospettiva tradizionale viene rovesciata
    e il processo produttivo praticamente scompare dall'analisi:
    all'analisi retrospettiva della struttura del capitale viene
    sostituita l'analisi prospettica delle opportunità di
    investimento. Per Fisher (ibid.) il principio fondamentale è
    che il valore del capitale in un dato momento deriva dal valore del
    reddito futuro che è atteso da quel capitale: "Il principio
    del valore presente è di fondamentale importanza nella teoria
    del valore e dei prezzi. Esso significa che il valore di qualsiasi
    articolo di ricchezza o di proprietà dipende soltanto dal
    futuro, non dal passato". 
    
e) Domanda di capitale e produttività marginale
L'idea che il capitale, al pari degli altri fattori, sia
    produttivo, ha ovvie e importanti conseguenze sul piano della teoria
    della distribuzione del reddito. Per Smith il profitto era
    determinato dal saggio naturale del profitto, per Ricardo era un
    residuo, per Marx il risultato di un rapporto di sfruttamento. Per
    la teoria neoclassica della produttività marginale (Philip H.
    Wicksteed, Knut Wicksell, John B. Clark e altri) il profitto (qui,
    l'interesse), come qualsiasi altra quota distributiva, era
    univocamente determinato - date le condizioni tecniche della
    produzione - dalla produttività marginale del capitale. Il
    principio della marginalità era già presente in
    Ricardo, che su di esso basava la determinazione della rendita (e
    solo di questa). Gli economisti marginalisti generalizzano questo
    principio: tutti i fattori (variabili) della produzione devono
    essere remunerati, in equilibrio, secondo la loro
    produttività marginale, che è misurata dalla
    variazione del prodotto totale provocata dall'aggiunta o dalla
    sottrazione di un'unità del fattore considerato, quando sia
    mantenuta costante la quantità degli altri fattori.
Tale tesi ha due importanti implicazioni, una logica, l'altra
    normativa, riconducibili a questa domanda: una volta che tutti i
    fattori della produzione siano stati remunerati secondo la loro
    produttività marginale, secondo il loro 'contributo' alla
    produzione stessa, si sarà esaurito il prodotto totale? Se
    così non fosse - se il prodotto totale non bastasse per una
    siffatta distribuzione, oppure se restasse un residuo - si
    tratterebbe di una teoria logicamente insoddisfacente. In effetti
    non tutte le funzioni di produzione godono di questa
    proprietà, anzi una soltanto: perché il prodotto
    risulti esaurito, occorre che la funzione di produzione sia di un
    tipo speciale, omogenea lineare (cioè con rendimenti di scala
    costanti). Ma ovviamente non c'è nessuna ragione per
    sostenere che le funzioni di produzione, nella realtà, siano
    necessariamente di questo tipo, quasi che si trattasse di "una sorta
    di misteriosa legge naturale" (Joan Robinson). Conviene osservare,
    inoltre, che una teoria della distribuzione basata sul principio
    della produttività marginale presuppone che per ciascun
    fattore questa possa essere calcolata indipendentemente dalla
    distribuzione del prodotto; occorre, in altri termini, che il valore
    del capitale non vari al variare della distribuzione, e questo -
    come oggi sappiamo, e come si vedrà più avanti - in
    generale non è vero.
L'implicazione normativa di questa teoria della distribuzione,
    d'altra parte, è che essa - quando sia soddisfatto il
    requisito di cui si è detto - sembra fornire un principio di
    giustizia distributiva: ciascun fattore della produzione deve essere
    remunerato secondo il suo contributo alla produzione, ed esiste
    un'unica configurazione distributiva di equilibrio, che è
    imposta dalle condizioni tecniche della produzione e non può
    né deve essere modificata dall'azione umana. Il profitto
    (l'interesse), in particolare, trova così una piena e doppia
    legittimazione, analitica ed 'etica'. 
    
f) Knut Wicksell: una curiosa divergenza
Knut Wicksell condivide l'idea della scuola austriaca, secondo la
    quale il capitale è un insieme di mezzi di produzione
    prodotti, "una massa unitaria e omogenea di lavoro e terra
    risparmiati, accumulati negli anni" (v. Wicksell, 1901-1906). Il
    valore del capitale può dunque essere calcolato come somma
    delle remunerazioni (salari e rendite) ai servizi produttivi dei
    fattori originari (lavoro e terra) investiti nella produzione di
    beni capitali, capitalizzati in base al saggio di interesse corrente
    per il periodo di tempo durante il quale sono stati investiti.
    L'interesse (la remunerazione del capitale) è perciò
    la differenza fra la produttività marginale del lavoro e
    della terra risparmiati e la produttività marginale del
    lavoro e della terra correnti.
Wicksell si accorge però di una "curiosa divergenza": mentre
    per il lavoro e per la terra la nozione di produttività
    marginale è inequivoca, tale non è per il capitale nel
    suo complesso; dunque non si può affermare che vi sia una
    relazione univoca fra variazioni del capitale totale, variazioni del
    prodotto sociale e saggio di interesse. La spiegazione di questa
    curiosa divergenza (dopo Wicksell) è molto semplice: mentre
    il lavoro e la terra sono misurati ciascuno in termini della propria
    unità tecnica (ad esempio giornate o mesi lavorativi, ettari
    per anno), il capitale non può essere misurato in termini
    fisici, ma soltanto calcolato come una somma di valori di scambio,
    poiché ciascun singolo bene capitale è misurato in
    termini di un'unità estranea ad esso.
In quanto è un valore, il capitale non è una variabile
    indipendente (quali sono il lavoro e la terra), bensì dipende
    dai saggi di remunerazione. È dunque impossibile determinare
    il valore del capitale prima che sia stato raggiunto l'equilibrio
    fra produzione e consumo, per il semplice fatto che il capitale, a
    differenza dei fattori originari, non può esistere prima e
    indipendentemente dalla produzione. Se cambia il saggio di
    interesse, cambia il valore del capitale, e dunque voler spiegare
    l'interesse a partire dal valore del capitale significa ragionare in
    circolo. 
    
    4. Capitale e moneta
    
Con l'importante eccezione di Karl Marx e di altri eretici minori,
    incapaci di influenzare il corso del pensiero e dell'analisi
    economica, tutta l'economia ortodossa concepisce il capitale
    essenzialmente come capitale produttivo: come insieme di mezzi di
    produzione prodotti e non anche come capitale monetario. Questa
    distinzione è invece al centro delle opere, peraltro ben
    distinte quanto a metodi e risultati, di Joseph A. Schumpeter e di
    John M. Keynes. Sia pure brevemente, si deve però ricordare
    che spunti importanti, circa la distinzione fra capitale produttivo
    e capitale monetario, si trovano (oltre che in Alfred Marshall)
    soprattutto in Carl Menger, con la sua nozione di "capitale a
    disposizione".
Nell'ambito delle teorie classiche e neoclassiche egemoni la nozione
    di capitale monetario quale potere d'acquisto capace di comandare
    mezzi materiali di produzione sfugge inevitabilmente, in quanto tali
    teorie vedono nella moneta soltanto un mezzo per agevolare le
    transazioni. Menger rileva invece che la moneta ha anche altre
    funzioni: essa può funzionare come mezzo di tesoreggiamento e
    di trasferimento patrimoniale nello spazio e nel tempo. In questa
    prospettiva diventa possibile, e necessario, distinguere le funzioni
    di chi possiede potere d'acquisto e di chi investe in mezzi di
    produzione, e l'interesse può essere spiegato semplicemente
    come il prezzo che si forma nello scambio di un bene contro moneta,
    dove il bene consiste nel potere di comandare i mezzi di produzione:
    per Menger il capitale è "proprietà produttiva
    [considerata] come una somma di denaro impiegata produttivamente"
    (v. Menger, 1871). 
    
a) Joseph A. Schumpeter: il capitale monetario nel processo
      capitalistico
Nella sua Teoria dello sviluppo economico Schumpeter definisce
    così il capitale: "Il capitale non è altro che la leva
    che consente all'imprenditore di sottomettere al proprio dominio i
    beni concreti di cui ha bisogno, nient'altro che un mezzo per
    disporre di certi beni per nuovi scopi o un mezzo per dettare alla
    produzione una nuova direzione" (v. Schumpeter, 1911). Ma
    cos'è questa "leva", questo mezzo di dominio?
Per l'imprenditore schumpeteriano tutti i beni di cui ha bisogno al
    fine di introdurre nuove combinazioni nel processo produttivo si
    trovano sullo stesso piano, siano essi appezzamenti di terra,
    prestazioni di lavoro, macchine o materie prime, o anche beni di
    consumo. Il modo di comportarsi dell'imprenditore nei confronti di
    qualsiasi bene di cui ha bisogno è sempre lo stesso: li
    acquista tutti in cambio di moneta, per la quale calcola (quando la
    possegga di già) o paga (quando la debba prendere a prestito)
    un interesse.
Il capitale non è l'aggregato di tutti i beni che servono
    agli scopi dell'imprenditore: il capitale sta di fronte al mondo dei
    beni, e la sua funzione consiste nel procurare all'imprenditore quei
    beni che devono essere impiegati produttivamente; sta dunque tra
    l'imprenditore e il mondo dei beni come un 'terzo agente' necessario
    alla produzione nell'economia di scambio. Esso costituisce il ponte
    fra le due cose, non prende direttamente parte alla produzione,
    né viene esso stesso 'trasformato': piuttosto esegue un
    compito che deve essere assolto prima che possa iniziare la
    produzione tecnica. C'è infatti un momento in cui
    l'imprenditore ha già il capitale necessario, ma non ancora i
    beni produttivi: in questo momento si può vedere con
    chiarezza come il capitale non si identifichi affatto con beni
    concreti e sia invece un 'agente autonomo'. Schumpeter cita qui,
    significativamente, Quesnay: "Parcourez les fermes et les ateliers,
    et [...] vous trouverez des bâtiments, des bestiaux, des
    matières premières, des meubles et des instruments de
    toute espèce". Una volta acquistato tutto ciò, il
    capitale ha adempiuto la sua funzione; l'imprenditore non ha
    più il capitale che gli era stato messo a disposizione, l'ha
    ceduto in cambio dei mezzi di produzione, nel cui insieme
    consisterebbe - secondo "la concezione scientifica dominante" - il
    capitale stesso. In questo modo, secondo Schumpeter, si ignora
    però completamente la funzione del capitale di procurare
    beni, e si sostituisce alla visione complessiva (e 'circolare') del
    processo economico la supposizione "estranea alla realtà" che
    all'imprenditore vengano direttamente prestati quei beni di cui ha
    bisogno.
Il capitale è per Schumpeter un fondo di potere d'acquisto.
    Si tratta ora di capire in che cosa consista questo fondo di potere
    d'acquisto. Se ci si limitasse a dire che esso consiste in una somma
    di denaro, si tornerebbe alla nozione di Menger (e per un verso a
    quella di Fisher); ma soprattutto non è vero che per entrare
    nel novero degli imprenditori occorra il possesso di una siffatta
    somma, poiché non soltanto la moneta, bensì qualsiasi
    mezzo di circolazione che adempia a tale funzione è capitale.
    D'altra parte, se un mezzo di pagamento non serve a procurare a un
    imprenditore beni produttivi e a sottrarli per questo scopo a quello
    che era finora il loro impiego, esso non è capitale.
    Ciò significa che in un'economia senza sviluppo non esiste
    'capitale', nel senso che il capitale non adempie alla sua funzione
    caratteristica di agente autonomo. Il concetto di capitale "incarna
    un aspetto dei processi economici che ci è suggerito soltanto
    dai fenomeni dello sviluppo"; si potrà dunque ridefinire il
    capitale come "quella somma di moneta e di altri mezzi di pagamento
    che è in ogni momento disponibile per essere ceduta a
    imprenditori".
Lla nozione secondo la quale lo sviluppo economico è
    sostanzialmente un diverso impiego dei servizi del lavoro e della
    terra già esistenti conduce Schumpeter a due 'eresie' (che lo
    accomunano a Marx e a Keynes); la prima è che nel processo
    capitalistico ha una funzione essenziale la moneta, l'altra che tale
    funzione spetta anche agli altri mezzi di pagamento. "I processi che
    avvengono nel campo dei mezzi di pagamento non sono meri riflessi
    dei processi che avvengono nel mondo dei beni". Di qui il ruolo
    centrale, nel processo capitalistico, della moneta e del credito,
    dunque del banchiere. L'imprenditore ha bisogno del credito nel
    senso di una cessione temporanea di potere d'acquisto, e ciò
    proprio per poter produrre, per poter introdurre le sue nuove
    combinazioni, per diventare un imprenditore. Questo potere
    d'acquisto, se non lo possiede per altra via - ma in questo caso
    ciò sarebbe soltanto la conseguenza di uno sviluppo
    precedente - se lo deve far prestare: egli può diventare
    imprenditore solo diventando prima debitore. Se il capitale non
    è altro che la leva che consente all'imprenditore di
    sottomettere al proprio dominio i beni concreti di cui ha bisogno,
    il credito è a sua volta la leva di questa sottrazione di
    beni.
Il credito, per Schumpeter, può essere definito come la
    "creazione di potere d'acquisto al fine di cederlo
    all'imprenditore", e non semplicemente come il trasferimento di
    potere d'acquisto esistente. Attraverso il credito si apre agli
    imprenditori l'accesso al flusso di beni della società; in
    un'economia caratterizzata dalla proprietà privata e dalla
    divisione del lavoro, la concessione del credito agisce come
    un'ingiunzione al sistema economico di subordinarsi agli scopi
    dell'imprenditore, come un ordine ai beni di cui egli ha bisogno,
    "come un affidamento a lui di forze produttive". Il profitto
    imprenditoriale, in questo quadro, assume il significato di un
    fenomeno autonomo (anziché conseguente al rapporto fra
    capitale e lavoro salariato), essenzialmente legato alla funzione
    dell'imprenditore in quanto leader dell'economia: "È
    l'espressione del valore del contributo dell'imprenditore alla
    produzione, esattamente nello stesso senso [anche se non nel senso
    della teoria della produttività marginale] in cui il salario
    è l'espressione di valore di ciò che 'produce'
    l'operaio". Il profitto imprenditoriale non è una rendita,
    non è un semplice residuo, non è il risultato di un
    rapporto di sfruttamento, e non è neppure un utile del
    capitale, poiché non coincide con l'interesse: l'interesse
    è una porzione del profitto, della quale si appropria chi
    fornisce all'imprenditore la liquidità che gli occorre, e ha
    la natura di un premio del potere d'acquisto presente su quello
    futuro, che si forma sul mercato della moneta e non su quello dei
    beni. 
b) John M. Keynes: capitale, investimenti e animal spirits
Il concetto centrale, nella teoria del capitale di John M.
    Keynes, è quello di "efficienza marginale del capitale",
    cioè "quel saggio di sconto al quale il valore presente della
    serie di annualità, rappresentate dai ricavi attesi dal
    capitale durante la sua vita, eguaglia esattamente il prezzo di
    offerta del capitale medesimo" (v. Keynes, 1936). Questa nozione
    può sembrare - anche a causa di talune concessioni retoriche
    dello stesso Keynes - simile o addirittura identica a quella
    fisheriana di "saggio di rendimento sul costo", il quale, come si
    è già visto, è quel saggio ipotetico di
    interesse che, se impiegato per calcolare il valore presente di due
    opzioni messe a confronto, le renderebbe uguali. Di qui conviene
    cominciare, per mostrare come Keynes non sia affatto un epigono
    degli economisti neoclassici e la Teoria generale vada invece letta
    come critica della tradizione neoclassica (così come Il
    capitale di Marx va letto come critica della tradizione classica).
Al di là delle analogie formali, e a parte alcune differenze
    tecniche (peraltro importanti), la differenza fondamentale sta in
    questo: che mentre in Fisher, e in generale nella visione
    neoclassica, il saggio di rendimento dipende dalla
    produttività fisica del capitale, per Keynes l'efficienza
    marginale del capitale dipende dalla scarsità del capitale
    stesso; scarsità che almeno per il sistema economico nel
    complesso è artificiale, poiché ancora oggi si
    è ben lontani da una situazione di saturazione dei capitali:
    il rendimento del capitale è una sorta di rendita
    improduttiva ed eliminabile. D'altra parte, mentre la teoria
    neoclassica determina il valore dello stock di capitale sulla base
    del tasso d'interesse che risulta dal confronto fra domanda e
    offerta dei servizi dei beni capitali, per Keynes l'efficienza
    marginale del capitale è il tasso di profitto atteso,
    ciò che l'imprenditore -mosso dai suoi animal spirits -
    si aspetta di ottenere, e non ciò che egli otterrà
    davvero; l'efficienza marginale del capitale va definita in termini
    dell'aspettativa di reddito e del prezzo corrente di offerta del
    capitale: "essa dipende dal saggio atteso di rendimento in termini
    di moneta, se questa venisse investita in un dato capitale di nuova
    produzione, non dal risultato storico di ciò che un
    investimento ha reso rispetto al suo costo originario se si guarda
    indietro a ciò che ha fruttato quando la sua vita è
    giunta al termine".
L'ammontare effettivo dell'investimento corrente dipenderà da
    un confronto fra l'efficienza marginale del capitale e il saggio di
    interesse corrente, poiché si realizzeranno soltanto quei
    progetti di investimento la cui efficienza marginale è
    maggiore, o almeno uguale, al saggio di interesse corrente.
    L'incentivo a investire dipende quindi in parte dall'efficienza
    marginale del capitale (dalle aspettative degli imprenditori) e in
    parte dal saggio di interesse; quest'ultimo tuttavia, e dunque il
    valore attuale di quel capitale, non può essere determinato
    sulla sola base della conoscenza del reddito prospettivo di un
    capitale o della sua efficienza marginale. Occorre dunque una teoria
    indipendente del saggio di interesse, che consenta poi di calcolare
    il valore attuale del capitale 'capitalizzando' il suo reddito
    prospettivo. 
Per Keynes il rendimento del capitale dipende dal fatto che esso
    è (artificialmente) scarso. Ciò è sufficiente
    per consigliare di non dire che il capitale è produttivo:
    è assai meglio dire che esso fornisce, nel corso della sua
    vita, un reddito maggiore del suo costo originario. L'unica ragione
    per la quale un bene capitale offre la prospettiva di rendere,
    durante la sua vita, servizi aventi un valore complessivo superiore
    al suo prezzo di offerta iniziale è perché esso
    è scarso; e viene mantenuto scarso a causa della concorrenza
    del saggio di interesse: se il capitale diviene meno scarso, il suo
    rendimento rispetto al costo diminuirà, senza che diminuisca
    la sua produttività fisica. Per questa ragione Keynes si
    dichiara vicino alla dottrina classica: "ogni cosa è prodotta
    dal lavoro, coadiuvato da ciò che allora usava chiamarsi arte
    e che ora si chiama tecnica, dalle risorse naturali e dai risultati
    del lavoro passato incorporati in attività capitali".
    È insomma preferibile considerare il lavoro (compresi i
    servizi personali dell'imprenditore e dei suoi collaboratori) come
    l'unico fattore di produzione, operante in un dato ambiente di
    tecnica, di risorse naturali, di beni capitali e di domanda
    effettiva.
Il problema diventa allora quello di determinare che cosa solleciti
    gli imprenditori a fare quel che fanno, posto che la Teoria generale
    si può ridurre a questa proposizione: l'occupazione è
    quella che i capitalisti decidono di dare, secondo le loro
    aspettative. Secondo lo stesso Keynes, "la teoria si può
    riassumere dicendo che, data la psicologia della gente, il livello
    della produzione e dell'occupazione complessive dipende
    dall'ammontare dell'investimento" (v. Keynes, 1937). 
    
c) Keynes e il saggio di interesse: il distacco dalla tradizione
Keynes, come egli stesso scrive nel fondamentale articolo del 1937,
    si distacca dalla teoria tradizionale in almeno due punti.
1. La teoria ortodossa assume che noi si disponga di un tipo di
    conoscenza del futuro completamente diverso da quello che abbiamo in
    realtà. L'ipotesi di un futuro prevedibile mediante un
    calcolo benthamiano conduce a un'interpretazione erronea dei
    principî di comportamento che la necessità di agire ci
    costringe ad adottare, e a una sottovalutazione dei fattori nascosti
    di dubbio, di precarietà, di speranza, di timore. Il
    risultato è stato un'errata teoria del tasso di interesse:
    "È vero che la necessità di uguagliare i vantaggi
    della scelta tra il possesso di titoli o di beni capitali rende
    necessario che il tasso di interesse sia uguale all'efficienza
    marginale del capitale. Ma questo non ci dice a che livello questa
    uguaglianza si realizzi. La teoria ortodossa ritiene che sia
    l'efficienza marginale del capitale a stabilirlo. Ma l'efficienza
    marginale del capitale dipende dal prezzo dei beni capitali, e
    poiché questo prezzo determina il tasso del nuovo
    investimento, esso è compatibile in equilibrio con un solo
    dato livello del reddito monetario. Perciò l'efficienza
    marginale del capitale non è determinata, se non è
    dato il livello del reddito monetario. In un sistema nel quale il
    livello del reddito è soggetto a fluttuazioni, la teoria
    ortodossa ha un'equazione di meno di quanto serve per ottenere una
    soluzione. Indubbiamente la ragione per cui il sistema ortodosso non
    è riuscito a scoprire la lacuna sta nel fatto che esso ha
    sempre tacitamente assunto che il reddito sia dato, e precisamente
    al livello corrispondente al pieno impiego di tutte le risorse
    disponibili. Così, invece di essere l'efficienza marginale a
    determinare il tasso di interesse, è corretto affermare che
    è il tasso di interesse che determina l'efficienza marginale
    del capitale".
2. La teoria ortodossa avrebbe scoperto il difetto di cui sopra, se
    non avesse ignorato la necessità di una teoria della domanda
    e dell'offerta del prodotto complessivo: "Non è stato
    osservato che la quantità dei beni di consumo che conviene
    produrre agli imprenditori è funzione della quantità
    dei beni di investimento che conviene loro produrre".
Secondo Keynes la tradizione (neo)classica del pensiero economico
    considera il saggio di interesse come il fattore che porta
    all'equilibrio la domanda di investimento con la disposizione a
    risparmiare. L'investimento rappresenta la domanda di risorse
    investibili e il risparmio rappresenta l'offerta, mentre il saggio
    di interesse è il 'prezzo' delle risorse investibili al quale
    domanda e offerta si equilibrano. Allo stesso modo in cui il prezzo
    di una merce si stabilisce necessariamente al punto nel quale la
    domanda è uguale all'offerta, così il saggio di
    interesse si stabilisce necessariamente, sotto il gioco delle forze
    del mercato, al punto nel quale l'ammontare dell'investimento a quel
    saggio di interesse è uguale all'ammontare di risparmio a
    quello stesso saggio. Keynes è disposto ad ammettere che il
    saggio di interesse possa forse esercitare un influsso
    sull'ammontare risparmiato da un reddito dato; ma il punto è
    proprio questo, che il reddito non è dato e che il caso
    veramente generale è quello in cui il livello del reddito e
    dell'occupazione è soggetto a fluttuazioni: "In verità
    la teoria classica non ha afferrato l'importanza delle variazioni
    del livello del reddito o della possibilità che il livello
    del reddito divenga effettivamente una funzione dell'ammontare di
    investimento per unità di tempo". L'analisi tradizionale
    è dunque difettosa perché non è riuscita a
    isolare correttamente le variabili indipendenti del sistema.
Così come l'efficienza marginale del capitale, anche il
    saggio di interesse per Keynes dipende in maniera decisiva dalle
    aspettative degli agenti economici. Ciascun individuo, una volta
    deciso quanta parte del suo reddito consumerà e quanta invece
    accantonerà in qualche forma disponibile per il consumo
    futuro, dovrà decidere in quale forma - liquida oppure no -
    conserverà le disponibilità che ha accantonato. Il
    saggio di interesse, in questo contesto, non può essere una
    ricompensa per il risparmio o l'astinenza come tali; infatti, se un
    uomo tesaurizza i suoi risparmi in denaro, non percepisce alcun
    interesse benché risparmi esattamente tanto quanto prima: il
    saggio di interesse è invece la ricompensa all'abbandono
    della liquidità per un periodo determinato. Esso misura la
    riluttanza di coloro che possiedono la moneta ad abbandonare il loro
    controllo liquido su di essa; esso non è il 'prezzo' che
    porta all'equilibrio la domanda di mezzi da investire con la
    disposizione ad astenersi dal consumo presente: è il prezzo
    che equilibra il desiderio di tenere la ricchezza in forma di denaro
    con la quantità di denaro disponibile. 
Questa preferenza per la liquidità richiede però una
    spiegazione. "Perché mai vi dovrebbe essere qualcuno, al di
    fuori delle mura di un manicomio, che desideri usare la moneta come
    riserva di ricchezza?". La spiegazione keynesiana è che, per
    motivi in parte ragionevoli, in parte istintivi, il nostro desiderio
    di tenere moneta come riserva di ricchezza è un barometro del
    nostro grado di sfiducia nelle nostre capacità di calcolo e
    nelle nostre convenzioni sul futuro. Sebbene questo atteggiamento
    verso la moneta sia esso stesso convenzionale o istintivo, esso
    opera, per così dire, a un livello più profondo delle
    nostre motivazioni. Esso subentra nei momenti in cui le più
    superficiali, più instabili convenzioni si sono indebolite:
    "Il possesso della moneta culla la nostra inquietudine, e il premio
    che noi pretendiamo per dividerci da essa è la misura della
    nostra inquietudine". 
    
d) Keynes: capitale e (dis)occupazione
La teoria keynesiana, come si è accennato, si può
    riassumere così: "Data la psicologia della gente, il livello
    della produzione e dell'occupazione complessive dipende
    dall'ammontare dell'investimento". Più esaurientemente, la
    produzione totale dipende dalla propensione al tesoreggiamento, da
    come la politica monetaria influenza la quantità di moneta,
    dallo stato della fiducia relativamente al rendimento futuro dei
    beni capitali, dalla propensione alla spesa, dai fattori sociali che
    influenzano il livello del salario monetario. Di questi diversi
    fattori, però, quelli dei quali ci si può fidare di
    meno sono quelli che determinano il tasso dell'investimento,
    perché sono influenzati dalle nostre previsioni sul futuro,
    del quale sappiamo così poco.
In condizioni di laissez faire, d'altra parte, il livello
    dell'investimento normalmente non assicurerà la piena
    occupazione. Il nostro mondo economico oscilla, evitando i
    più gravi estremi delle fluttuazioni dell'occupazione e dei
    prezzi in ambo i sensi, intorno a una posizione intermedia
    sensibilmente al di sopra di quel livello minimo dell'occupazione al
    di sotto del quale si metterebbe in pericolo l'esistenza, ma
    sensibilmente al di sotto dell'occupazione piena: "La nostra sorte
    normale è una situazione intermedia, né disperata
    né soddisfacente" (v. Keynes, 1936). Di qui l'auspicio di
    Keynes - il quale vede nella disoccupazione il difetto principale
    della società capitalistica (oltre alla distribuzione
    arbitraria e iniqua delle ricchezze e dei redditi) - di una
    socializzazione "di una certa ampiezza" dell'investimento e
    soprattutto dell'eutanasia del redditiero.
La ragione di una proposta politica così radicale è la
    radicalità dell'analisi keynesiana. La teoria keynesiana del
    saggio di interesse e delle decisioni di investimento, infatti,
    rovescia la tesi tradizionale secondo la quale un saggio di
    interesse moderatamente alto è giustificato dalla
    necessità di offrire un incentivo sufficiente al risparmio.
    L'ampiezza del risparmio effettivo è invece determinata dalla
    scala dell'investimento, e questa è favorita da un saggio di
    interesse basso (purché non si cerchi di stimolare in tal
    modo l'investimento al di là del punto corrispondente alla
    piena occupazione). L'eutanasia del redditiero (e dunque
    "l'eutanasia del potere oppressivo e cumulativo del capitalista di
    sfruttare il valore di scarsità del capitale") sarebbe
    pertanto vantaggiosa per la società, e allo stesso tempo
    ragionevole ed equa. L'interesse non rappresenta il compenso di
    alcun sacrificio genuino, come non lo rappresenta la rendita della
    terra. Il possessore del capitale può ottenere l'interesse
    perché il capitale è scarso, proprio come il
    possessore della terra può ottenere la rendita perché
    la terra è scarsa. Ma mentre vi può essere una ragione
    intrinseca della scarsità della terra, non vi sono ragioni
    intrinseche della scarsità del capitale.
Circa questo punto - nell'ultimo capitolo: Note conclusive sulla
    filosofia sociale verso la quale la 'Teoria generale' potrebbe
    condurre - Keynes argomenta e predica così: "A lungo andare
    non esisterebbe una ragione intrinseca di questa scarsità,
    ossia non esisterebbe un sacrificio genuino, ottenibile soltanto con
    l'offerta del compenso dell'interesse; salvo che la propensione
    individuale al consumo si dimostrasse di carattere tale che il
    risparmio netto in condizioni di occupazione piena venisse a finire
    prima che il capitale fosse divenuto sufficientemente abbondante. Ma
    anche in tal caso, sarà ancora possibile che il risparmio
    collettivo per il tramite dello Stato sia mantenuto a un livello che
    permetta l'aumento del capitale fino al punto al quale questo non
    sia più scarso. Considero perciò l'aspetto del
    capitalismo caratterizzato dall'esistenza del redditiero come una
    fase di transizione, destinata a scomparire quando esso avrà
    compiuto la sua opera. E con la scomparsa del redditiero, molte
    altre cose del capitalismo subiranno un mutamento radicale. [...]
    Potremmo dunque mirare in pratica (poiché non vi è
    nulla di tutto questo che sia irraggiungibile) a un aumento del
    volume di capitale finché questo non sia più scarso,
    cosicché l'investitore senza funzioni non riceva più
    un premio gratuito; e a un sistema di imposizione diretta tale da
    permettere che l'intelligenza e la determinatezza e la
    capacità del finanziere, dell'imprenditore et hoc genus omne
    (i quali certamente amano tanto il loro mestiere che il loro lavoro
    potrebbe ottenersi a molto minor prezzo che attualmente) siano
    imbrigliate al servizio della collettività, con un compenso a
    condizioni ragionevoli". 
    
    5. Controversie recenti sulla misura del capitale
    
Wicksell e Keynes avevano colto un problema importante, quello delle
    difficoltà di una misura inequivoca del capitale (e
    perciò della produttività marginale del capitale
    stesso): il capitale, a differenza degli altri fattori della
    produzione, non può essere misurato in termini di una sua
    propria unità di misura; essendo - nella sua determinazione
    materiale - una collezione di beni capitali eterogenei, di esso non
    si può dare una 'misura' aggregata altro che in termini di
    valore.
Della "curiosa divergenza" notata da Wicksell si è già
    detto. Quanto a Keynes, egli rileva - nel capitolo della sua Teoria
    generale sulla scelta delle unità di misura - che le
    unità sulla base delle quali gli economisti misurano il
    reddito nazionale, il livello generale dei prezzi e per l'appunto lo
    stock di capitale reale sono insoddisfacenti. In generale "la
    produzione di merci e servizi della collettività è un
    complesso non omogeneo, il quale a rigore non può venire
    misurato se non in certi casi particolari, come ad esempio quando
    tutti gli elementi di una certa produzione siano compresi in egual
    proporzione in un'altra produzione". E la difficoltà è
    anche maggiore quando si cerca di misurare l'incremento netto del
    capitale, poiché allora si deve trovare una base per un
    confronto quantitativo fra i nuovi beni capitali prodotti nel
    periodo e i vecchi beni capitali che sono stati consumati. È
    per questa ragione che Keynes usa, come unità di misura,
    unicamente moneta e lavoro e considera come unico fattore della
    produzione il lavoro stesso. 
    
a) Il capitale nella funzione di produzione
Le teorie del capitale egemoni nell'accademia e
    nell'insegnamento (e dunque ispiratrici delle idées
    reçues), almeno fino ai contributi critici di Joan Robinson,
    di Piero Sraffa, di Pierangelo Garegnani e di Luigi Pasinetti,
    ignorano o aggirano il problema ricordato sopra. Il problema
    consiste nella possibilità di determinare una misura teorica
    univoca e rigorosa del capitale aggregato, la quale sia indipendente
    dalle variabili che sulla base di questo si vogliono determinare:
    saggio di salario, saggio di interesse, prezzi relativi delle merci.
    Il contesto è quello della teoria marginalistica della
    distribuzione (v. § 3e).
In un articolo del 1953-1954 la questione viene sollevata da Joan
    Robinson: "Il predominio, nell'insegnamento economico di tipo
    neoclassico, del concetto di una funzione della produzione per mezzo
    della quale si dimostra che i prezzi relativi dei fattori sono
    funzione del rapporto in cui questi vengono impiegati, a un dato
    stato della conoscenza tecnica, ha avuto un effetto negativo sullo
    sviluppo di questi argomenti; e infatti, prendendo in esame
    principalmente i problemi relativi alle proporzioni tra fattori
    produttivi, esso ha distolto l'attenzione dai problemi, più
    difficili ma più interessanti, relativi alle forze che
    regolano le offerte dei fattori e alle cause e conseguenze dei
    mutamenti delle conoscenze tecniche. Per di più, la funzione
    della produzione è stata un potente strumento diseducativo.
    Allo studente di teoria economica si insegna a scrivere Q = f(L, K),
    dove L è una quantità di lavoro, K una quantità
    di capitale e Q la quantità prodotta di certe merci. Gli
    viene poi detto di supporre che tutti i lavoratori siano uguali e di
    misurare L in ore-uomo di lavoro, gli viene detto qualcosa sul
    problema dei numeri indice, a proposito della scelta di una
    unità di misura per il prodotto, e poi lo si fa passare
    frettolosamente al problema che segue, nella speranza che egli si
    dimentichi di chiedere in quali unità viene misurato K. Prima
    di avere il tempo di porsi tale domanda egli è già
    diventato professore; e così abiti mentali frusti sono
    tramandati da una generazione all'altra".
Il problema, come ha scritto Geoffrey C. Harcourt, "è quello
    di trovare un'unità con cui il capitale sociale, o capitale
    aggregato in valore che dir si voglia, possa essere misurato come un
    numero; cioè un'unità che sia indipendente dai prezzi
    relativi e dalla distribuzione e possa quindi essere inserita in una
    funzione della produzione dove, insieme al lavoro, misurato
    anch'esso in modo opportuno, possa spiegare il livello della
    produzione aggregata. Inoltre, in un'economia perfettamente
    concorrenziale in cui le previsioni sono perfette [...], questa
    unità dev'essere tale da uguagliare la derivata parziale del
    prodotto rispetto al 'capitale' alla remunerazione del 'capitale' e
    la corrispondente derivata rispetto al lavoro al salario reale (in
    termini di prodotto). Questa unità fornirebbe dunque anche
    gli elementi per una teoria della distribuzione basata sulla
    produttività marginale. Se è possibile trovare una
    tale unità di misura, si possono prendere due piccioni con
    una fava; poiché in tal caso possiamo da un lato analizzare
    un sistema produttivo in cui i beni capitali - mezzi di produzione
    prodotti - fungono da ausiliari del lavoro (caratteristica, questa,
    comune a ogni società industrialmente avanzata) e, dall'altro
    lato, possiamo studiare la distribuzione del reddito in un sistema
    capitalistico (cioè in un sistema in cui la proprietà
    di un capitale in valore permette ai suoi possessori di partecipare
    alla distribuzione del reddito nazionale sotto forma di profitti sul
    capitale investito, dove sia l'ammontare di tali profitti che lo
    stesso saggio del profitto sono in relazione alle caratteristiche
    tecniche del sistema produttivo)" (v. Harcourt, 1972).
Trovare quell'unità di misura, e quindi poter trattare il
    capitale come 'fattore' della produzione in un mondo caratterizzato
    dalla scarsità delle risorse e dalla razionalità
    massimizzante dei soggetti economici, vorrebbe inoltre dire che non
    ci sarebbe alcun bisogno di specificare il contesto politico e
    istituzionale del processo di produzione-riproduzione, e che
    diventerebbe superfluo o addirittura improprio il rinvio ai rapporti
    di forza fra le diverse classi come variabile essenziale nella
    determinazione della configurazione distributiva. E verrebbe meno il
    problema di analizzare le diverse forme che il capitale assume nelle
    diverse fasi del processo capitalistico, problema che Joan Robinson
    evoca così: "Siamo abituati a parlare del saggio del profitto
    realizzato da una impresa come se i profitti e il capitale fossero
    entrambi delle somme di denaro. Il capitale, quando consiste in
    attività finanziarie non ancora investite, è in
    effetti una somma di denaro, e così pure i ricavi netti di
    un'impresa sono somme di denaro. Ma le due cose non coesistono mai
    allo stesso tempo. Quando il capitale si presenta come una somma di
    moneta, i profitti non sono stati ancora realizzati. Quando i
    profitti (quasi-rendite) vengono realizzati, il capitale ha cessato
    di essere moneta ed è diventato un impianto. Ma possono
    succedere molte cose che fanno sì che si crei una divergenza
    tra il valore dell'impianto e il suo costo originario. [...] Come
    dobbiamo valutare il capitale rappresentato dall'impianto?" (v.
    Robinson, 1953-1954).
Il fatto è che in generale è impossibile concepire un
    valore del 'capitale in generale', che sia indipendente dalla
    distribuzione: saggio di salario e saggio dei profitti non sono
    'prezzi' come gli altri. 
    
b) Le 'parabole' neoclassiche
Gli "abiti mentali frusti" di cui parla Joan Robinson hanno
    preso la forma, come ha scritto lo stesso Harcourt, di 'parabole'
    sulle forze che determinano la distribuzione del reddito fra
    capitalisti e lavoratori salariati, sulle modalità
    dell'accumulazione del capitale e sulle scelte (da parte dei
    capitalisti) delle tecniche di produzione.
Queste parabole sono: a) a saggi dei profitti più bassi
    corrispondono valori del capitale pro capite più elevati; b)
    a saggi dei profitti più bassi corrispondono rapporti
    capitale-prodotto più elevati; c) a saggi dei profitti
    più bassi corrispondono (tramite investimenti in metodi
    produttivi più 'meccanizzati') livelli di consumo pro capite
    più elevati (in 'stato uniforme'); e soprattutto d) in
    condizioni concorrenziali la distribuzione del reddito fra
    capitalisti e lavoratori salariati può essere spiegata sulla
    sola base della conoscenza delle produttività marginali e
    delle offerte dei fattori, in sostanza della sola conoscenza delle
    condizioni 'tecniche' della produzione (risorse, tecnologia e gusti
    dei consumatori). 
    
c) La critica sraffiana: l'armonia neoclassica come caso
      particolarmente astratto
Queste quattro proposizioni non sono tutte condivise da tutti
    gli economisti neoclassici; esse corrispondono però alla
    visione ancora corrente del capitale come un 'fattore' della
    produzione al quale, come a tutti gli altri, spetta una
    remunerazione commisurata al suo 'contributo' alla produzione (alla
    sua 'produttività marginale'). Esse si reggono, d'altra
    parte, sulla possibilità di dare del capitale una misura in
    valore che sia indipendente dal saggio del profitto: in caso
    contrario il ragionamento sarebbe circolare. Una critica definitiva
    a una concezione siffatta del capitale è stata possibile
    grazie al contributo di Piero Sraffa (del quale ci si
    occuperà qui soltanto in questa prospettiva, e non anche in
    quella delle possibili riletture di Marx 'dopo Sraffa').
Una funzione della produzione descrive le varie combinazioni dei
    fattori fra le quali l'imprenditore potrà scegliere:
    nell'ipotesi che le condizioni tecniche della produzione siano date,
    che vi sia sostituibilità fra i fattori della produzione, che
    vi sia concorrenza perfetta e che l'imprenditore persegua la
    massimizzazione del profitto. Ciascun livello della produzione
    richiederà un'adeguata combinazione di fattori (un dato
    metodo di produzione) e la combinazione più vantaggiosa
    sarà quella per la quale il saggio di sostituzione dei
    fattori è uguale al reciproco del rapporto fra i prezzi dei
    fattori stessi; se i prezzi relativi dei fattori mutano, dovranno
    mutare anche le proporzioni in cui sono combinati i fattori. Ad
    esempio: se i salari aumentano e i profitti diminuiscono, in una
    funzione di produzione regolare ci si sposterà verso una
    combinazione di fattori che impieghi meno lavoro e più
    capitale.
Questa proposizione, tuttavia, ha un senso soltanto se vi è
    davvero un solo bene capitale, così che non si pone il
    problema di misurarlo in valore. Se invece si producono più
    merci - nell'ambito di un processo circolare di produzione di merci
    a mezzo di merci, esse stesse prodotte - quella proposizione,
    apparentemente sensata, diventa dubbia: vera soltanto entro ipotesi
    estremamente precise e restrittive. Se si potesse mostrare che in
    generale non è vero che vi sia una relazione inversa fra
    saggio dei profitti e 'intensità di capitale', allora la
    nozione di capitale implicita in quella di funzione della
    produzione, e la conseguente teoria della distribuzione,
    perderebbero qualsiasi significato analitico e politico: e in
    effetti così è.
Si può dimostrare infatti, grazie ai lavori di Sraffa,
    Pasinetti, Garegnani e altri, che non vi è una relazione
    univoca e inversa fra saggio dei profitti e intensità di
    capitale, e che invece è possibile che le tecniche di
    produzione 'ritornino' (non nel senso storico del termine, ma in
    quello logico, che qui è dirimente). È cioè
    possibile che a seguito di un cambiamento nella distribuzione del
    prodotto netto fra salari e profitti, ad esempio a favore dei
    salari, una data tecnica di produzione, che comporta una data
    intensità di lavoro, sia sostituita con un'altra tecnica a
    più alta intensità di capitale; e che però, a
    un livello dei salari ancora più alto, la prima tecnica torni
    a essere conveniente e quindi venga a sua volta sostituita a quella
    che l'aveva soppiantata. Questo risultato non è un curiosum:
    esso mette definitivamente in crisi l'idea che le grandezze
    distributive siano prezzi come tutti gli altri, poiché
    così si dimostra che i prezzi stessi variano al variare della
    distribuzione del reddito, e dunque varia il valore del capitale che
    mediante quei prezzi deve essere calcolato.
È invece davvero curioso quanto segue, se si ricorda che la
    vulgata neoclassica pretende che in equilibrio il saggio dei
    profitti sia uguale alla produttività marginale del capitale,
    e che il calcolo di questa, se non si vuole ragionare in circolo,
    presuppone la possibilità di misurare il capitale
    indipendentemente dalla distribuzione. La curiosità sta in
    questo: il valore del 'capitale' non varia al variare del saggio dei
    profitti (che si vorrebbe determinare e giustificare a partire da
    quel valore) soltanto ed esattamente nelle stesse ipotesi in cui
    Böhm-Bawerk confina la validità della versione semplice
    della teoria marxiana del valore-lavoro, e cioè quando la
    composizione organica del capitale sia uniforme nelle diverse
    industrie; che è come dire che dal punto di vista
    dell'analisi economica si produce una sola merce. Sembrerebbe una
    vendetta della storia; ma mentre la riduzione di Marx a caso
    particolare è diventata dogma, dell'astrattezza neoclassica,
    almeno nei manuali, non si fa cenno.
In generale non esiste una misura della quantità di capitale
    che possa essere usata, senza ragionare in circolo, per la
    determinazione dei prezzi e della distribuzione del reddito. Le
    conseguenze di ciò sono gravi per la teoria accettata del
    capitale e della distribuzione: come scrive Garegnani, "dall'aumento
    della proporzione tra capitale e lavoro nell'economia, quando
    l'interesse diminuisce, sono state infatti dedotte 'funzioni di
    domanda' del 'capitale' (cioè, in ultima analisi, del
    'risparmio') e del lavoro e, con esse, l'idea che la distribuzione
    del prodotto sociale fosse determinata dall'equilibrio fra la
    domanda e l'offerta di tali 'fattori di produzione'. Di qui, in
    particolare, la spiegazione dell'interesse (profitti) in termini di
    scarsità del 'capitale', e di ricompensa per l''attesa'.
    È difficile vedere come questa complessa struttura teorica
    possa essere preservata, quando la base su cui essa è eretta
    si rivela erronea". 
    
d) Capitale e società: la scomparsa della categoria
Dimostrare non basta però a convincere. Neoclassici
    autorevoli ammettono che la teoria neoclassica aggregata è
    logicamente debole. Alcuni ritengono che ci si debba comunque
    attenere a essa, e continuare a insegnarla, per ragioni di fede, in
    attesa di improbabili soluzioni econometriche della questione. Altri
    negano che vi siano neoclassici seri che credono nelle parabole,
    poiché la vera teoria neoclassica sarebbe quella delle
    versioni moderne della teoria dell'equilibrio economico generale,
    che continuamente promettono, senza mai mantenere, di tener conto di
    tutte le forme e metamorfosi del capitale in una società
    capitalistica: all'interno però di un modello nel quale il
    capitale è ridotto a misteriose e naturali 'dotazioni
    iniziali'. 
Nell'analisi economica contemporanea il 'capitale' scompare. Nessuno
    crede più che abbia senso parlare di 'leggi di movimento'
    della società capitalistica. Così come le 'classi' si
    sarebbero fatte da sanguigne realtà pallide astrazioni
    (secondo Schumpeter), il capitale sembra essere diventato un
    indistinto insieme di beni capitali eterogenei. Tutto è
    spostato altrove, e non ci sono più eretici influenti.