Economia


Inquadramento generale


Economia

Per economia - dal greco οἴκος (oikos), "casa" inteso anche come "beni di famiglia", e νόμος (nomos), "norma" o "legge" - si intende sia l'utilizzo di risorse scarse (limitate o finite) per soddisfare al meglio bisogni individuali e collettivi organizzando la spesa, sia un sistema di organizzazione delle attività di tale natura poste in essere a tal fine da un insieme di persone, organizzazioni e istituzioni (sistema economico).

Normalmente si considerano i soggetti (detti anche "agenti" o "attori" o "operatori" economici) attivi nell'ambito di un dato territorio. Si tiene conto, peraltro, anche delle interazioni con altri soggetti attivi fuori del territorio, ovvero con il "resto del mondo".


Sistema economico

Il sistema economico, secondo la visione dell'economia di mercato nella moderna società occidentale, è la rete di interdipendenze ed interconnessioni tra operatori o soggetti economici che svolgono le attività di produzione, consumo, scambio, lavoro, risparmio e investimento per soddisfare i bisogni individuali e realizzare il benessere materiale o sviluppo economico o crescita del PIL o aumento della ricchezza sociale, massimizzando i guadagni, ottimizzando l'uso delle risorse, evitando sprechi e migliorando la qualità delle condizioni di vita medie della popolazione in termini di progresso sociale, scientifico e tecnologico.

Componenti o sottosistemi

I componenti o sottosistemi del sistema economico sono:

Sistema di produzione, promuove e determina attraverso la produzione l'offerta di beni e servizi sotto continua spinta all'investimento per produrre innovazione (aziende e imprese).

Sistema dei consumatori, promuove e determina attraverso il consumo la domanda di beni e servizi (es. famiglie e in parte anche imprese).

Sistema creditizio-finanziario: da esso i precedenti sottosistemi afferiscono fondi di liquidità (capitali) e strumenti finanziari per promuovere e raggiungere i loro obiettivi (produzione e/o consumo) (banche e istituti di intermediazione finanziaria).

Mercato: è l'ambiente di interazione dei precedenti sottosistemi dove avviene lo scambio di beni, servizi e denaro tipicamente regolati dalla legge della domanda e dell'offerta.

Stato: alimenta il sistema economico attraverso la spesa pubblica (offerta di servizi pubblici a fronte di prelievo fiscale) regolandolo anche attraverso interventi mirati di politica economica (politica di bilancio e politica monetaria).

Il livello di sviluppo ed efficienza di tali sottosistemi e del relativo sistema economico riflette il livello di sviluppo della società stessa e varia in funzione delle epoche storiche o della parte del mondo o Stato considerato passando storicamente da economie prettamente agricole ad economie agricole-industriali fino ad economie agricole-industriali-terziarie oppure classificandosi attualmente e geograficamente in economie occidentali del primo mondo, economie del secondo mondo, del terzo mondo e del quarto mondo. Tuttavia il processo di globalizzazione sta gradualmente portando ad una progressiva omogeneizzazione dei vari sistemi economici mondiali grazie all'interdipendenza a livello internazionale dei vari mercati nazionali (internazionalizzazione).

Operatori economici e loro funzioni

Altresì il sistema economico si può definire come l'ambiente o l'insieme delle attività promosse dagli operatori economici per le suddette finalità. Gli operatori economici svolgono una o più delle seguenti funzioni:

produzione di beni e servizi;

consumo di beni e servizi;

intermediazione finanziaria;

accumulazione di ricchezza;

redistribuzione del reddito e della ricchezza;

assicurazione.

Classificazione operatori

Gli operatori economici vengono classificati secondo le funzioni svolte. Si hanno:

le famiglie, che consumano beni e servizi prodotti (prodotti nel territorio considerato, o importati, a cura di altri operatori, dal "resto del mondo"), ma possono anche produrre e accumulare (imprese individuali, aziende familiari);

le società che svolgono attività finalizzate al conseguimento di utili ed all'accumulazione:

le società di intermediazione finanziaria (in primo luogo le banche; in Italia vi sono poi le SIM, le SGR, le SICAV ecc.);

le società di assicurazione;

le società (dalle grandi società per azioni alle piccole società di persone) che producono altri beni e servizi;

la pubblica amministrazione, in tutte le sue articolazioni, che contribuisce al consumo (cosiddetti consumi collettivi), produce prevalentemente servizi non destinati alla vendita (istruzione, ordine pubblico, difesa ecc.) e redistribuisce il reddito e la ricchezza tra gli operatori del sistema;

altre organizzazioni senza finalità di lucro, che erogano servizi a beneficio delle famiglie (partiti, sindacati dei lavoratori, organizzazioni religiose, associazioni culturali ricreative e sportive, enti di beneficenza ed assistenza).

Professionisti (avvocati, commercialisti, farmacisti...) che offrono servizi regolati da ordini professionali

Le operazioni economiche

Gli operatori interagiscono ponendo in essere operazioni economiche che possono essere:

operazioni su beni e servizi: sono sia quelle che danno origine a beni e servizi mediante la produzione o l'importazione, sia quelle che ad essi danno destinazione (consumi intermedi o finali, investimenti, esportazioni);

operazioni finanziarie: consistono nell'acquisizione o cessione di attività finanziarie (acquisto di azioni o altri titoli, apertura di depositi, erogazione di prestiti ecc.);

operazioni di distribuzione e redistribuzione del reddito e della ricchezza: fanno sì che il valore aggiunto generato dall'attività produttiva venga distribuito fra i fattori della produzione (percezione del profitto e del reddito da lavoro autonomo, distribuzione di redditi da capitale da parte delle società, pagamento di redditi da lavoro dipendente), sia redistribuito tra gli operatori (riscossione di imposte e tasse, erogazione di contributi).

Vi sono poi altre operazioni quali gli ammortamenti o lo scambio di attività non finanziarie non prodotte (terreni, brevetti, licenze).

Tutte le operazioni indicate costituiscono flussi; vengono pertanto misurate tenendo conto delle variazioni (creazione, trasformazione, scambio, trasferimento di valore) che intervengono in un dato periodo di tempo. Ad esempio, si misurano l'insieme delle vendite effettuate da una società, oppure l'insieme delle imposte percepite dalla pubblica amministrazione, nel corso di un anno.

Le operazioni possono avere o non avere una contropartita. Nel primo caso (ad esempio, la vendita di un bene), ad un flusso di denaro o in natura corrisponde un flusso di beni o servizi di pari valore; nel secondo caso (ad esempio, l'erogazione delle pensioni) non vi è una diretta contropartita e si parla di operazioni unilaterali o trasferimenti.

I settori economici

Le diverse attività di produzione di beni e servizi vengono classificate in settori economici.

Al livello più generale si usa la tradizionale distinzione tra:

settore primario, che comprende l'agricoltura, la selvicoltura, la pesca, lo sfruttamento delle cave e delle miniere;

settore secondario, che comprende l'industria in senso stretto, l'edilizia e l'artigianato;

settore terziario, che produce e fornisce servizi.

Vengono attualmente utilizzate, tuttavia, classificazioni più articolate:

l'ESCAP delle Nazioni Unite propone una classificazione che individua 20 settori economici;

la Divisione Statistica delle Nazioni Unite usa l'ISIC (International Standard Industrial Classification of All Economic Activities), che individua 21 settori (detti "sezioni");

l'Eurostat, organo statistico della Commissione Europea, usa la classificazione NACE, derivata dall'ISIC;

in Italia, l'ISTAT adotta la classificazione ATECO, traduzione italiana del NACE.

La ricchezza di un sistema economico

Gli operatori che svolgono la funzione di accumulazione danno luogo a variazioni delle attività del sistema. Altre variazioni possono manifestarsi indipendentemente dalla loro volontà (incendi, catastrofi naturali, ecc.).

Le attività si dividono in non finanziarie e finanziarie. Tra le prime rientrano:

attività fisse materiali: terreni, abitazioni, macchine e impianti, mezzi di trasporto, giacimenti minerari ecc.;

attività fisse immateriali: opere artistiche, software, brevetti ecc.;

scorte di materie prime, prodotti in corso di lavorazione, prodotti finiti;

oggetti di valore: pietre e metalli preziosi, oggetti di antiquariato ecc.

Tra le attività finanziarie vi sono monete, depositi, azioni ed altri titoli ecc.

La misurazione delle attività ad una certa data consente di determinare la ricchezza, a quella data, di un sistema economico (si tratta di uno stock, non di un flusso).

Tipi di sistemi economici

Si possono individuare diversi tipi di sistemi economici, sulla base della presenza di tutti, o solo di alcuni, degli operatori sopra indicati, della maggiore importanza di alcuni rispetto ad altri, di diverse modalità di esplicazione delle loro funzioni, di diverse regole per l'esecuzione delle operazioni. Su tali aspetti influiscono le istituzioni politiche e sociali, le tecnologie disponibili, aspetti culturali e ideologici.

Nel corso della storia si sono susseguiti diversi sistemi economici, mentre altri sono stati solo ideati e mai realizzati.

Sistemi economici nella storia

Antichità

Vi è stata una grande varietà di sistemi economici nell'antichità. In generale si può dire che, per millenni, hanno dominato l'agricoltura, finalizzata prevalentemente all'autoconsumo, ed il commercio lungo vie d'acqua anche con terre lontane. Si faceva inoltre ampio ricorso alla schiavitù.

I Sumeri erano divisi in varie città-stato indipendenti, spesso in conflitto tra loro per il controllo di canali che delimitavano i territori e consentivano di irrigare i terreni drenando le acque in eccesso e trasportandole alle zone più lontane. Nelle città avevano grande importanza i templi, sia come luoghi di culto che come sedi di raccolta e di redistribuzione delle eccedenze agricole.

Presso i Babilonesi il re era anche il maggiore proprietario terriero e le sue terre erano coltivate dagli schiavi. Il codice di Hammurabi ci rivela che vi erano tre classi sociali: uomini liberi, che potevano essere proprietari terrieri ma anche medici, commercianti o artigiani; uomini semiliberi, senza possedimenti, e schiavi. Erano anche stati definiti contratti per molte operazioni economiche: baratto, compravendita, prestito, donazione, deposito, pegno, assunzione di lavoratori al momento del raccolto.

In Grecia coesistevano diversi sistemi economici. A Sparta la popolazione era divisa in tre gruppi: gli spartiati erano i soli cittadini a pieno titolo ed erano tenuti a curare l'addestramento militare ed a dotarsi di armi pesanti; i perieci erano liberi, curavano il commercio e l'artigianato, ma erano obbligati a pagare tributi senza godere di alcun diritto politico; gli iloti erano schiavi di proprietà dello Stato, come la terra. Lo Stato affidava agli spartiati sia appezzamenti di terra, sia iloti per lavorarla. L'economia spartana aveva quindi come fulcro la coltivazione di terre conquistate grazie alla guerra. Atene, invece, cercò la propria espansione economica nel commercio marittimo, soprattutto con Pisistrato, che favorì la crescita di una classe di commercianti, e con Pericle, che usò i tributi per collegare la città al porto del Pireo e per incrementare la flotta mercantile.

Roma privilegiò l'espansione territoriale, quindi l'agricoltura, fin dall'origine. Si possono distinguere due fasi: all'inizio prevalevano i piccoli e medi proprietari terrieri, che costituivano anche il nerbo dell'esercito; successivamente prevalse il latifondo e si dovette creare un esercito di mercenari. Il cambiamento fu indotto dalla crisi economica successiva alla seconda guerra punica, che rovinò molti proprietari terrieri; ne seguirono anche la crisi della repubblica e, dopo lotte interne durate due secoli, la nascita dell'impero. Il latifondo dette gradualmente vita all'"economia delle ville romane", centri di produzione agricola sempre più ampi e sontuosi.

Sia ad Atene che a Roma venne dato grande impulso alle opere pubbliche.

Medioevo

Si distinguono due fasi principali: Alto e Basso Medioevo.

Nell'Alto Medioevo si diffuse in un primo tempo l'economia curtense. Derivate dalle ville romane, le corti costituivano unità produttive autosufficienti, in cui il commercio aveva un ruolo limitato e gli scambi avvenivano spesso in natura. Si distinguevano in esse una pars dominica, gestita direttamente dal "signore", ed una pars massaricia, gestita da contadini, liberi o asserviti, che avevano comunque l'obbligo di versare al signore un terzo del prodotto ed a svolgere alcune giornate lavorative gratuite sulla pars dominica (corvée).

Con l'affermazione dell'Impero Carolingio, l'economia curtense si trasformò in economia feudale. In un primo tempo le terre appartenevano all'imperatore, che ne assegnava in comodato parti, dette feudi, a persone di sua fiducia dette vassalli. Questi ne curavano l'amministrazione e potevano a loro volta assegnarne parti ai valvassori; i vassalli riuscirono presto ad ottenere anche il diritto di trasmettere il feudo ai loro eredi.

Vi erano poi i servi della gleba, che erano obbligati a coltivare le terre padronali, dalle quali non potevano allontanarsi per trasferirsi altrove; potevano coltivare nel tempo libero le terre dette "servili", riconoscendo peraltro un'imposta detta decima al clero.

Nel Basso Medioevo si ebbero graduali ma significativi progressi sia nell'agricoltura che nei commerci. Nell'Europa settentrionale iniziarono a diffondersi la rotazione triennale e l'uso dell'aratro pesante, che consentirono aumenti delle rese agricole e, con ciò, la disponibilità di maggiori eccedenze da dedicare al commercio. Lo sviluppo del commercio favorì, a sua volta, la nascita e la crescente importanza delle città.

In Italia le città acquisirono importanza tale da costituirsi in comuni (trasformatisi poi in signorie) e, in qualche caso, in repubbliche marinare. Tra le città italiane più importanti si possono ricordare:

Venezia, che aveva acquistato, con la diplomazia e con la guerra, il dominio di quei pochi territori dell’entroterra necessari ai traffici e utili per l’incremento delle entrate governative, ma curava soprattutto l'espansione commerciale via mare;

Milano, che curava soprattutto l'agricoltura e l'allevamento del bestiame, le lavorazioni artigianali dei metalli e dei tessuti (sotto gli Sforza si svilupparono la coltivazione del gelso e la lavorazione della seta) ed il commercio interno, grazie anche ad una rete di canali che penetravano dentro la città; perseguì quindi l'espansione territoriale, ottenendo sotto i Visconti il controllo di buona parte dell'Italia centrosettentrionale;

Firenze, che sviluppò notevolmente, fin dal XII secolo, sia l'artigianato che il commercio internazionale, tanto da essere definita la Wall street del medioevo. I traffici internazionali si giovavano della valle dell'Arno e della Via Francigena che, collegando Roma e Canterbury, costituiva una delle più importanti vie di comunicazione europee in epoca medioevale. I mercanti fiorentini si inserirono presto nel circuito degli scambi europei: importavano l'allume dal Levante e panni semilavorati dalle Fiandre e dalla Francia; raffinavano quindi i tessuti ottenendone preziose stoffe che esportavano con notevoli guadagni. L'esigenza di mezzi di pagamento idonei al commercio internazionale favorì, a sua volta, una forte crescita del sistema bancario (i Medici erano banchieri). Nel corso del XV secolo Firenze da sola aveva un reddito superiore a quello dell'intera Inghilterra, grazie alle industrie e alle grandi banche fiorentine, circa ottanta tra sedi e filiali, queste ultime sparse in buona parte d'Europa.

Nel resto d'Europa si formarono invece fin dal XIII secolo i primi Stati nazionali, che furono poi i protagonisti dell'età moderna.

Età moderna

L'età moderna è caratterizzata, in estrema sintesi, dall'espansione territoriale nelle regioni rese accessibili dalle scoperte geografiche, dallo sviluppo del commercio marittimo internazionale, dalla progressiva affermazione degli Stati nazionali come Stati assoluti, dall'affermazione di una aristocrazia fondiaria e di un ceto borghese dedito al commercio ed alla finanza.

L'Impero portoghese privilegiò la ricerca di rotte per raggiungere l'India, da cui provenivano le spezie importate in Europa, con l'obiettivo commerciale di scavalcare l'intermediazione araba ed il monopolio commerciale di Venezia. L'Impero spagnolo preferì invece la conquista territoriale e lo sfruttamento agricolo e minerario dell'America meridionale.

L'Inghilterra e l'Olanda riuscirono poi a conquistare gradualmente le basi portoghesi dal Capo di Buona Speranza all'Oceano pacifico, affermandosi a loro volta come potenze commerciali. Nel XVII secolo, Amsterdam divenne il porto più importante del mondo e un centro di finanza internazionale. Successivamente, le guerre contro l'Inghilterra e la Francia indebolirono l'Olanda a favore dell'Inghilterra. Qui la Gloriosa rivoluzione portò ad una forma di monarchia costituzionale basata sull'equilibrio tra il sovrano, i proprietari terrieri e la borghesia, nella quale venivano disciplinati i modi di finanziamento dello Stato sia attraverso i tributi (che dovevano essere approvati dal Parlamento), sia attraverso il debito pubblico (la Banca d'Inghilterra, una delle prime banche centrali, venne fondata nel 1694).

L'Olanda, poi imitata dall'Inghilterra, fu anche la culla della prima rivoluzione agricola. In Olanda l'agricoltura veniva finalizzata prevalentemente alle esigenze del commercio (lino per le tele, coloranti per il panno, ecc.), mentre l'Inghilterra dette grande impulso alla coltivazione dei cereali, all'allevamento del bestiame ed alla produzione della lana e della seta.

Età contemporanea

L'età contemporanea inizia, da un punto di vista economico, con la rivoluzione industriale: un processo di evoluzione che da un'economia agricola-artigianale-commerciale portò ad un'economia industriale moderna, caratterizzata dall'uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica e dall'utilizzo di nuove fonti energetiche inanimate (in primo luogo i combustibili fossili).

Ne sono seguiti il progressivo declino dell'agricoltura (il numero degli occupati nel settore agricolo iniziò a diminuire costantemente dopo la Grande depressione del 1873-1895, detta Long Depression) e, con esso, quello dell'aristocrazia, la crescente importanza della borghesia produttiva, lo sviluppo sostenuto delle città, l'estensione della produzione per il mercato e la tendenziale scomparsa di quella per l'autoconsumo, la nascita di un mercato del lavoro.

Attraverso grandi momenti di crisi economica (la Long Depression e il crollo di Wall Street del 1929) e politica (la Prima guerra mondiale, la Rivoluzione russa, la Repubblica di Weimar), si sono affermati nel XX secolo tre diversi sistemi economici:

l'economia di mercato: è basata sull'interazione degli operatori economici privati, con un ruolo limitato dello Stato (ordine pubblico, difesa, giustizia, istruzione, costruzione di infrastrutture);

l'economia pianificata: in essa la gestione delle dinamiche del sistema economico compete allo Stato, che elabora piani di breve-media durata che stabiliscono gli obiettivi e regolano conseguentemente l'impiego delle risorse;

l'economia mista: accanto all'interazione degli operatori privati, lo Stato interviene direttamente nel funzionamento del sistema economico, a sostegno della produzione e dell'occupazione, utilizzando la spesa pubblica ed avvalendosi di politiche fiscali e monetarie.

Nelle economie moderne il motore della crescita economica spesso è stato rappresentato dall’innovazione tecnologica: questa componente è stata infatti in grado di generare un effetto a catena/valanga sulle altre variabili macroeconomiche con conseguente aumento dei consumi, della produttività (PIL) e dell'occupazione. Fondamentale per la creazione di innovazione sotto forma di ricerca e sviluppo è ed è stato anche l’accesso al credito degli istituti di credito da parte delle imprese per la promozione dei loro investimenti cioè dunque l’interazione forte tra i sottosistemi di produzione e consumo col sistema creditizio-finanziario all’interno del sistema economico stesso.

Sistemi economici ideati e mai realizzati

Aspetti economici possono ravvisarsi in molte utopie. Nel XX secolo vi sono stati, peraltro, sistemi economici "ideali" che sono stati assunti come obiettivo da partiti politici:

il comunismo, caratterizzato dall'abolizione della proprietà privata, dalla proprietà collettiva dei mezzi di produzione ed ispirato al motto "da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo le sue necessità";

la socializzazione proposta dal fascismo, basata anch'essa sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione, ma nell'ambito dello Stato corporativo.

Oltre questi sistemi economici ne esiste un altro, diverso da essi perché apolitico: esso è il Venus Project, ideato da Jacque Fresco, basato sull'abbondanza delle risorse attraverso l'utilizzo della tecnologia odierna.

Un altro sistema economico apolitico è quello fondato sul modello di Ayres-Warr da cui derivano le cosiddette economie verdi. Simile alla teoria "dell'astronave" ove la terra è considerata un sistema chiuso, come una grande nave, la cui somma delle risorse non è infinita ma facendo quindi attenzione; al rapporto tra lo sfruttamento delle risorse del territorio e le esigenze dell'umanità escludendo il saldo entropico dalle convenzionali esternalità negative.

Studio dei sistemi economici

L'Economia politica studia i sistemi economici per individuarne le leggi di funzionamento. L'economia politica in senso moderno nasce quando si afferma la separazione tra etica e politica e ci si pone espressamente il problema della potenza economica degli Stati. Per lungo tempo tale disciplina si è occupata prevalentemente di sistemi economici nazionali; i suoi concetti e metodi si sono tuttavia progressivamente estesi allo studio sia di sistemi sociali di ogni genere (economia aziendale), sia di singoli settori economici (economia agraria, economia industriale ecc.).

La Statistica economica ha invece come obiettivo la misurazione degli aspetti quantitativi di un'economia, dalla misura di grandezze semplici e di loro aggregati, all’analisi della dinamica e alle previsioni economiche, alla stima e alla verifica di modelli di comportamenti economici. Ad esempio, lo stato di un'economia nazionale viene rilevato mediante la contabilità economica nazionale (in Europa si usa il sistema di conti detto Sec95).

La Storia economica tenta di ricostruire il funzionamento di sistemi economici del passato, avvalendosi sia dei concetti dell'economia politica che dei metodi della statistica economica.

A partire dalla conoscenza o analisi del sistema economico è possibile agire sul sistema economico stesso con misure o interventi di politica economica mirati a stimolarne la stabilità o la crescita economica.

La Filosofia dell'economia come branca della filosofia che studia le questioni relative all'economia o, in alternativa, il settore dell'economia che si occupa delle proprie fondamenta e del proprio status di scienza umana.

Bibliografia

Pierluigi Ciocca, Il tempo dell'economia. Strutture, fatti, interpreti del Novecento, Bollati Boringhieri, 2004, ISBN 978-88-33-91559-3.

Sidney Pollard, L'economia internazionale dal 1945 ad oggi, Editori Laterza, 1999.

Storia economica

La storia economica studia e analizza i cambiamenti economici, sociali e politici che stravolsero in tutti i campi l'antico assetto mondiale trasformandolo in quello moderno attuale, e i mercati che hanno contribuito al decollo economico.

Descrizione

La situazione economica odierna è frutto di due fasi distinte: quella dell'espansione e quella dello sviluppo. Bisogna analizzare le cause che portarono all'espansione e i processi che imposero le condizioni necessarie per lo sviluppo. Definiamo anzitutto questi concetti: si parla di espansione quando si è in presenza di un aumento di produzione senza aumento di produttività. Lo sviluppo riguarda invece l'aumento di produzione con l'aumento di produttività.

La produzione è l'effettivo prodotto realizzato. La produttività riguarda invece la quantità massima di prodotto ottenibile con i mezzi a disposizione. Un'azienda che spinge la propria produzione ai massimi livelli utilizzando le risorse già esistenti in azienda, non fa altro che aumentare la produzione e quindi il numero dei prodotti. Per superare questo limite deve necessariamente aumentare la propria capacità produttiva e quindi la propria produttività. Per fare ciò ci sono diverse strade da poter seguire. Oggi i metodi di management e corporate governance per l'aumento della produttività di una azienda sono standardizzati o comunque in continuità col sistema aziendale attuale.

Nei tempi passati ci fu uno stravolgimento totale della struttura produttiva e dell'intero sistema economico a livello mondiale. Il cambiamento totale delle metodologie operanti nei vecchi e nuovi settori nascenti in quel periodo, fu alla base di quella che è conosciuta come rivoluzione industriale.

Fu la rivoluzione industriale a segnare il momento di rottura col passato, ciò che alcuni chiamano take off ovvero il "decollo economico" ossia il passaggio dall'espansione economica allo sviluppo. L'aumento della produttività si ebbe con il cambiamento dei mezzi di produzione adottati nella produzione stessa, cioè le macchine, e con un cambiamento dell'organizzazione del lavoro, passando dal lavoro a domicilio retribuito a cottimo al lavoro salariato in fabbrica. Non tutti però accettarono questa teoria: Carlo Poni scrisse ad esempio che "a grandi decolli possono seguire catastrofici atterraggi".

Bibliografia

Valerio Castronovo (curatore), Storia della economia mondiale, Il Sole 24 Ore, Milano, 2009, 12 volumi.

Pierluigi Ciocca, Ricchi per sempre? Una storia economica d’Italia (1796-2005), Bollati Boringhieri, Torino, 2007, ISBN 978-88-33-91812-9.

Pierluigi Ciocca, Le vie della storia nell'economia, il Mulino, Bologna, 2002, ISBN 978-88-15-09039-3.

Sidney Pollard, L'economia internazionale dal 1945 ad oggi, Editori Laterza, 1999. pp. 165, cap. 8.

Storia del pensiero economico

La storia del pensiero economico si occupa dello sviluppo dell'economia politica dalle origini ai giorni nostri. In prima approssimazione, si possono individuare le seguenti fasi:

antichità classica (soprattutto nella Grecia antica) e Medioevo;

la formazione degli stati nazionali e la nascita dell'economia politica in senso moderno;

la rivoluzione industriale e l'economia classica;

l'affermazione dell'economia di mercato e l'economia neoclassica;

la Grande depressione del 1929 e l'economia keynesiana; approfondimenti e nuove proposte;

la stagflazione e il monetarismo;

sviluppi recenti.

Gli storici del pensiero economico valutano in modi diversi sia le singole scuole, sia il loro succedersi. Vi è un punto di vista "cumulativo", secondo il quale si è avuto e continua un progressivo avvicinamento alla verità e, pertanto, la storia del pensiero economico deve essere «storia delle verità economiche». Vi è anche un punto di vista "competitivo", secondo il quale l'esistenza di diverse scuole mostra che sono possibili approcci diversi allo studio dei fenomeni economici, nessuno dei quali nettamente preferibile agli altri. Qualsiasi teoria economica, quindi, può essere criticata o perché migliorata da altre successive, o perché basata su un approccio non condiviso da altre. La sintetica esposizione che segue è ricca di riferimenti ad altre voci, alle quali si rinvia per approfondimenti e valutazioni critiche.

Antichità e Medioevo

Il termine economia deriva dal greco οἴκος - oikos - ("casa", inteso anche come "beni di famiglia") e νόμος - nomos - (norma, legge) e denotava, in origine, le regole per la buona amministrazione della casa. Diversi autori dell'antichità trattarono comunque argomenti inerenti all'economia in senso più ampio.

Concetti di economia sono ravvisabili, ad esempio, nelle opere di Esiodo (VIII secolo a.C. – VII secolo a.C.), Teogonia e Le opere e i giorni. In Teogonia, nel racconto del Mito di Pandora, tra i mali che vengono liberati dal vaso di Pandora vi è anche la scarsità. Senza la scarsità non vi sarebbero neppure lo scambio e i prezzi. In Le opere e i giorni, con riferimento alla gestione di un'impresa agricola, compare il concetto di efficienza.

Senofonte (430 a.C. circa – 355 a.C. circa), in contrasto con Platone (427 a.C. – 347 a.C.), nella sua opera Economico sottolinea l'importanza dell'aspetto economico, non solo con riferimento alla gestione familiare, ma estendendo tale concetto ad entità collettive quali l'esercito e lo stato. Egli aveva inoltre capito che la suddivisione del lavoro nei campi portava ad un incremento della produttività dei terreni.

Aristotele (384 a.C. - 322 a.C.), si occupò dello scambio suddividendolo in "naturale" e "non naturale", dove il primo riguardava la soddisfazione dei bisogni umani primari, e quindi fisicamente limitati, mentre il secondo aveva una funzione finanziaria e quindi carattere potenzialmente illimitato. Aristotele esprimeva un giudizio etico, considerando giusto il commercio e l'uso della moneta solo se riferiti all'ambito "naturale" della soddisfazione dei bisogni primari.

Le riflessioni di Aristotele vennero riprese dalla Scolastica, in particolar modo con Tommaso d'Aquino (1225-1274). Nel medio evo prevalse quindi il dibattito teologico su argomenti quali l'usura (i prestiti ad interesse) e la giusta ricompensa del venditore. Più tardi (XVI secolo) gli insegnamenti di Tommaso d'Aquino vennero ripresi e sviluppati dalla scuola di Salamanca.

Il protestantesimo, per parte sua, contribuì con una prima formulazione del libero scambio, più tardi compiutamente formulato in termini normativi da Hugo de Groot o Ugo Grozio (1583-1645).

Nel Medioevo anche gli arabi si occuparono di economia. In particolare, Ibn Khaldun di Tunisi (1332-1406) scrisse di teoria politica ed economica nei suoi Prolegomena, mostrando, ad esempio, come la densità della popolazione fosse collegata alla divisione del lavoro, che produceva crescita economica, causa a sua volta dell'aumento della popolazione e cioè della creazione di un circolo virtuoso. Khaldun introdusse anche il concetto oggi noto come curva di Laffer-Khaldun (ossia della funzione a forma di u rovesciata che pone in relazione il gettito fiscale con le aliquote).

Gli albori del Pensiero economico moderno

Non è possibile indicare con esattezza quando, o ad opera di chi, nacque l'economia politica in senso moderno.

Con la formazione degli Stati nazionali si ebbe infatti un graduale affrancamento della politica dall'etica, ben espresso da Niccolò Machiavelli (1469-1527) nella sua Opera Il Principe: non ci si chiedeva più se l'agire politico fosse "giusto", ma solo se fosse idoneo al conseguimento dell'unico fine politico, il mantenimento dello Stato. Fu questo il contesto in cui presero forma le prime riflessioni economiche in senso moderno, caratterizzate dalla ricerca della via migliore per assicurare la floridezza degli Stati.

I mercantilisti (XVI-XVIII secolo), ad esempio, sostennero che, per conseguire potere economico e politico, lo Stato doveva agire in modo da assicurarsi un saldo positivo della bilancia commerciale, incentivando le esportazioni e limitando le importazioni, in quanto ciò avrebbe provocato un aumento della disponibilità dei metalli preziosi usati nei pagamenti internazionali. Tale impostazione presupponeva una concezione della ricchezza come stock, come un "fondo" dato e immutabile (incarnato dai metalli preziosi), e che quindi la ricchezza di un Paese non potesse aumentare se non a scapito di un altro.

Contestualmente, William Petty (1623-1687) contrapponeva al metodo logico-deduttivo della Scolastica una «aritmetica politica» basata sulla misurazione quantitativa dei fenomeni rilevanti ai fini della potenza dell'Inghilterra (popolazione, produzione, prelievo fiscale, spesa pubblica).

Le politiche mercantiliste vennero adottate in Francia da Jean-Baptiste Colbert (1619-1683), con scarso successo. 

François Quesnay(1694-1774), anticipato per molti aspetti da Richard Cantillon (1680-1734), si contrappose espressamente a Colbert e richiamò l'attenzione sui rapporti tra città e campagna, tra commercio ed agricoltura; insieme ai suoi seguaci, i fisiocratici, propose che la Francia privilegiasse l'agricoltura rispetto al commercio internazionale. Ciò comportava anche l'abolizione delle pratiche protezionistiche tipiche del mercantilismo; i fisiocratici furono i primi a designare con l'espressione laissez-faire il principio cardine del liberismo.

Soprattutto, Quesnay pose al centro della riflessione economica non più una ricchezza (stock) data e immutabile, ma un reddito (flusso) in grado di aumentare la ricchezza; sosteneva, inoltre, che solo l'agricoltura (più in generale il settore primario) può dare vita ad un surplus (l'eccedenza del raccolto sulle sementi, i minerali estratti dalle miniere ecc.), mentre artigianato e commercio possono solo trasformare e trasportare alimenti, materie prime e prodotti finiti. Per illustrare le sue tesi, Quesnay costruì un Tableau économique in cui esaminava la circolazione del surplus (detto «prodotto netto») fra tre classi sociali (la classe dei proprietari terrieri, la classe degli addetti al settore primario, detta «produttiva», la classe di artigiani, commercianti e altri prestatori di servizi, detta «sterile») che costituì il primo modello di sistema economico ed ha poi ispirato gli schemi di riproduzione di Karl Marx e le tavole input-output di Wassily Leontief.

L'economia politica classica

Con Adam Smith iniziò l'economia classica. In Smith, come poi in Ricardo, rimaneva dominante il tema della prosperità dello Stato, con particolare attenzione alla politica fiscale: il libro V della Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni di Smith è dedicato al «reddito del sovrano o della repubblica» e si articola in tre capitoli sulle spese, le loro fonti (imposte e tasse) e i debiti pubblici; l'opera principale di Ricardo si intitola Principi dell'economia politica e della tassazione. L'analisi economica, inoltre, si basava sull'esame degli interessi e del comportamento di tre classi sociali: i proprietari terrieri, i capitalisti (o imprenditori) ed i lavoratori.

Adam Smith

Adam Smith (1723-1790) completò la svolta inaugurata da Quesnay (dalla ricchezza al reddito di una nazione) ponendo fin dall'inizio al centro dell'attenzione il reddito procapite, che faceva dipendere sia dalla produttività del lavoro, sia dalla quota dei lavoratori produttivi sul totale della popolazione. Per Smith era produttivo il lavoro che produce beni, non erano produttivi il commercio e gli altri servizi. Differenziandosi da Quesnay, affermò che anche la trasformazione di materie prime produce un surplus, in quanto crea «valori d'uso» prima inesistenti. Cercò inoltre di determinare il «valore di scambio» (il prezzo) di un bene sulla base del tempo di lavoro necessario a produrlo; ciò sia nel senso più immediato («lavoro contenuto»), sia in un senso meno diretto (il valore di un bene pari al «lavoro comandato», cioè al tempo di lavoro richiesto per produrre altri beni con cui esso può essere scambiato).

Smith, inoltre, seguì e sviluppò le tesi di Quesnay in materia di libero commercio; non solo criticò, come lui, le posizioni mercantiliste, ma sostenne che il singolo, perseguendo liberamente il proprio personale interesse, opera in modo utile all'intera società come se fosse indotto a ciò da una «mano invisibile». Pur affermando la necessità di un intervento dello Stato in alcuni settori, quali l'istruzione primaria, sostenne che, in generale, è preferibile la ricerca privata dell'interesse personale a regolamentazioni quali premi alle esportazioni o restrizioni alle importazioni.

Ricardo, Malthus e Say

David Ricardo (1772-1823) proseguì la ricerca di Smith in un'epoca caratterizzata sia dal pieno affermarsi della rivoluzione industriale, sia dalla scarsità e dal conseguente alto prezzo del grano indotti dalle guerre napoleoniche. Ricardo sosteneva che la necessità di produrre grano utilizzando terre via via meno fertili ne avrebbe aumentato il prezzo e, con ciò, i salari a detrimento dei profitti. All'epoca, infatti, i salari assicuravano solo la semplice sussistenza dei lavoratori e non potevano quindi scendere sotto un livello minimo, determinato in buona parte (circa metà, secondo i calcoli di Ricardo) dal prezzo del grano.

Quando Ricardo scriveva, vigevano leggi che impedivano la libera importazione di grano e ne tenevano alto il prezzo; emanate in tempo di guerra, rimasero poi in vigore su pressione dei proprietari terrieri. Ricardo sosteneva che l'abolizione di tali leggi (abrogate poi nel 1846) avrebbe consentito di contenere la quota dei salari sul surplus a vantaggio dei profitti e, quindi, dello sviluppo economico. Per sostenere la necessità del provvedimento, sottolineò che l'ammontare dei profitti può aumentare solo se diminuiscono il prezzo del grano e, con esso, i salari, non in altro modo, in particolare non grazie al commercio internazionale; sviluppò a tale riguardo la teoria dei vantaggi comparati, che trova ancora oggi posto nei manuali di economia internazionale.

Thomas Robert Malthus (1766-1834), contemporaneo di Ricardo, contribuì per aspetti importanti allo sviluppo del suo pensiero (teoria della rendita differenziale, teoria del valore-lavoro). Malthus è comunque ricordato soprattutto per la sua teoria secondo la quale l'aumento della popolazione avrebbe vanificato qualsiasi tentativo di aumentare il reddito procapite.

Nello stesso periodo, Jean-Baptiste Say (1767-1832) formulò la legge che reca il suo nome, detta anche legge degli sbocchi, e che venne ampiamente discussa da economisti successivi, secondo la quale l'offerta crea sempre la propria domanda e, pertanto, non sono possibili crisi di sovrapproduzione.

Karl Marx

Karl Marx (1818-1883) rielaborò le tesi di Smith e di Ricardo, sostenendo che il valore di scambio delle merci dipende dal tempo di lavoro necessario alla loro produzione e che è merce anche la «forza lavoro», remunerata col salario. Il capitalista, secondo Marx, impiega «capitale costante» e «capitale variabile». Il primo è costituito dai mezzi di produzione (impianti, macchinari, materie prime ecc.) e si limita a trasferire il proprio valore nel prodotto finito; il secondo è costituito dal lavoro umano, che genera valore. Ma il lavoratore, secondo Marx, è occupato per un tempo di lavoro superiore a quello necessario per riprodurre il valore dei beni necessari alla sua sussistenza; il capitalista si appropria del tempo di lavoro eccedente, del «pluslavoro», da cui ricava un plusvalore che è all'origine del profitto. In ciò, secondo Marx, consiste lo sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti.

Al tempo stesso, Marx sosteneva che i continui investimenti in capitale costante (impianti e macchinari), diminuendo la quota del lavoro sul capitale complessivamente impiegato, avrebbero determinato sia una sempre maggiore concentrazione industriale, sia una riduzione del capitale variabile, quindi della base stessa dei profitti. Da ciò dedusse una legge della «caduta tendenziale del saggio di profitto». La concentrazione industriale, inoltre, avrebbe favorito l'organizzazione dei lavoratori come classe, al punto da consentire loro di appropriarsi dei mezzi di produzione e di dar vita ad un nuovo sistema economico, il comunismo.

La rivoluzione marginalista

Negli anni 1871-1874 vennero pubblicate le opere di tre economisti (Carl Menger, William Stanley Jevons e Léon Walras) che cambiarono radicalmente il corso della teoria economica.

L'attenzione si spostò dalle classi sociali al singolo individuo (cosiddetto «individualismo metodologico»), alla soddisfazione dei suoi bisogni procurata da beni che posseggono un valore in quanto sia utili che scarsi. Concetto cardine della nuova impostazione, detta marginalismo, è l'andamento decrescente di tale soddisfazione all'aumentare della quantità consumata. Il prezzo di un bene non viene più ricondotto al suo costo di produzione, ma alla disponibilità dei singoli a pagare per ottenerlo, una disponibilità che diminuisce all'aumentare del consumo.

Walras e Pareto

Léon Walras (1834-1910) si propose di descrivere il meccanismo di formazione dei prezzi mediante un sistema di equazioni che esprimessero l'incontro di domanda e offerta in un sistema economico nel suo complesso. Individuò a tale scopo:

n equazioni di offerta complessiva di «servizi produttivi» (terra, lavoro, capitale), ognuna dipendente dai prezzi sia dei servizi produttivi che dei beni di consumo;

m equazioni di domanda complessiva per i beni finiti, anch'esse dipendenti dai prezzi dei servizi produttivi e dei beni finali;

n equazioni in cui la quantità di ciascun servizio produttivo utilizzato nella produzione dei diversi beni viene posta uguale all'offerta totale di quel servizio;

m equazioni in cui il prezzo di ciascun bene viene posto uguale alla somma dei costi dei servizi produttivi impiegati.

In totale, 2m+2n equazioni, che si riducono tuttavia a 2m+2n-1 equazioni indipendenti, in quanto la legge di Walras consente di esprimere i prezzi in termini del prezzo di un unico bene, posto pari a 1 (i prezzi, cioè, sono prezzi relativi), quindi di eliminare una delle equazioni.

Le incognite sono anch'esse 2m+2n-1: m quantità di servizi produttivi offerti, n quantità di beni finali domandati, n prezzi dei servizi produttivi, m-1 prezzi dei beni finali. Sulla base di tale uguaglianza, Walras sostenne che il suo sistema di equazioni è compatibile e determinato, ovvero che è possibile una situazione di equilibrio espressa da prezzi determinati dall'uguaglianza tra domanda e offerta dei beni e dei servizi produttivi.

Vilfredo Pareto (1848-1923) proseguì l'opera di Walras, aggiungendovi una nuova definizione di benessere. Prima di lui prevaleva la definizione di Jeremy Bentham, che si basava sulla somma dei benesseri individuali, ben difficilmente misurabili. Pareto definì invece «ottima», quindi desiderabile, la situazione in cui è impossibile che un individuo stia meglio senza che un altro stia peggio, dimostrando che essa è conseguibile solo in regime di libera concorrenza.

Marshall e Pigou

Il lavoro di Walras e di Pareto non ricevette, inizialmente, grande attenzione. Tra la fine del XIX secolo e i primi decenni del XX secolo risultò invece dominante l'insegnamento di Alfred Marshall (1842-1924), che applicò sistematicamente i principi del marginalismo sia alla teoria del consumatore, sia a quella dell'impresa, preferendo la statica comparata (confronto tra diverse situazioni di equilibrio) e l'analisi degli equilibri parziali (domanda e offerta di un singolo bene) alla teoria dell'equilibrio economico generale.

Definì i surplus del consumatore e del produttore; dette inizio ad uno studio dell'equilibrio dell'impresa che, attraverso suoi seguaci quali Arthur Cecil Pigou (1877-1959) e Jacob Viner (1892-1970), assunse a fondamento l'ipotesi delle curve a U dei costi medio e marginale; sottolineò l'importanza delle esternalità. Pigou, inoltre, riformulò l'economia del benessere nei termini del surplus del consumatore, mostrando che esso è massimo in concorrenza perfetta; previde peraltro apposite imposte (dette pigouviane) per correggere le esternalità negative.

Per il primo terzo del XX secolo furono Marshall e Pigou, più che Walras e Pareto, gli autori di riferimento di una scuola di pensiero che, per distinguerla dall'economia classica, venne definita neoclassica.

Va ricordata, per quanto seguì, la teoria di Pigou sulla disoccupazione: egli sosteneva che in presenza di disoccupazione e di un basso livello di prezzi e salari, si sarebbe avuto un aumento del valore delle scorte monetarie (grazie al minor prezzo dei beni), quindi un aumento della ricchezza ed una ripresa dei consumi, fino a riassorbire la disoccupazione (cosiddetto "effetto Pigou", o "effetto ricchezza reale").

La scuola austriaca

Carl Menger (1840-1921), per quanto iniziatore del marginalismo, privilegiò l'aspetto soggettivo (secondo cui il valore di un bene dipende dalla sua capacità di soddisfare un bisogno) al punto da rifiutare l'approccio matematico di Walras e di Marshall; secondo Menger l'approccio matematico era errato in quanto "I dati che gli economisti studiano - gli esseri umani - hanno scopi individuali e quindi renderanno la realtà complessa e non precisa. Tutte le scienze hanno gradi di precisione". L'approccio matematico, adatto a descrivere fenomeni fisici e chimici, ipotizza agenti economici che seguano regole fisse invece di perseguire scopi individuali. Questo approccio non permette di distinguere tra causa ed effetto (le equazioni sono atemporali) e nega la componente temporale dell'azione umana/economica e quindi l'importanza dell'incertezza e della conoscenza nell'azione economica. Fra i suoi collaboratori e seguaci vanno ricordati Friedrich von Wieser (1851-1926, il primo ad utilizzare l'espressione «utilità marginale») e Eugen von Böhm-Bawerk (1851-1914; a lui si deve, tra l'altro, un'originale teoria dell'interesse). Con essi nacque la cosiddetta scuola austriaca, di cui furono poi esponenti anche Ludwig von Mises (1881-1973) e Friedrich von Hayek (1899-1992).

Tra gli allievi di Böhm-Bawerk va ricordato Joseph Schumpeter (1883-1950), a sua volta maestro di Paul Samuelson ( 1915-2009), Paul Sweezy (1910-2004), Paolo Sylos Labini (1920-2005). Schumpeter ha proposto una teoria dello sviluppo economico basata sulle innovazioni introdotte dagli imprenditori ed ha scritto una fondamentale Storia dell'analisi economica.

La rivoluzione keynesiana

La Grande depressione del 1929 pose a dura prova la teoria economica neoclassica, in quanto il suo perdurare sembrava smentire la capacità di un'economia di mercato di ritrovare un equilibrio di piena occupazione delle risorse e di benessere.

John Maynard Keynes (1883-1946), che ha dominato il pensiero economico dagli anni '30 agli anni '60 del XX secolo, propose una sostanziale deviazione dalla scuola neoclassica.

In una prima fase (fino alla crisi del 1929), affrontò il problema dell'incertezza, distinguendo tra eventi per i quali è possibile esprimere un giudizio probabilistico («probabilità conosciuta») e eventi per i quali ciò non è possibile («probabilità sconosciuta»);; considerò il rischio insito nell'attività imprenditoriale come elemento essenziale dell'instabilità monetaria e rifiutò la prospettiva di equilibrio automatico, nel lungo periodo, della teoria neoclassica, obiettando che «nel lungo periodo siamo tutti morti»; criticò il socialismo, ma considerò il liberismo una risposta insufficiente.

In una seconda fase (fino alla seconda guerra mondiale), argomentò che la crisi del 1929 era dovuta al fatto che la domanda aggregata risente di vari fattori tra i quali non esiste un meccanismo di equilibrio automatico: la propensione marginale al consumo, dipendente dal livello del reddito, gli investimenti, dipendenti sia dal tasso di interesse che dalle aspettative degli imprenditori, il livello del tasso di interesse, fortemente influenzato dalla preferenza per la liquidità. Sostenne quindi che, in un'economia funestata da una debole domanda aggregata, il settore pubblico ha la possibilità di incrementare la domanda aggregata tramite la spesa pubblica per l'acquisto di beni e servizi, rendendo così possibile un aumento dell'occupazione. La sua opera principale, la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta (1936), pose i grandi aggregati economici (consumo, risparmio, investimenti ecc.) al centro dell'analisi economica, dando vita ad una disciplina detta "macroeconomia" per distinguerla dall'approccio individualista dell'economia neoclassica ("microeconomia").

Dopo la seconda guerra mondiale, infine, partecipò attivamente alla definizione di un nuovo assetto economico internazionale, anche guidando la delegazione inglese nella conferenza di Bretton Woods.

Gli anni dell'alta teoria

Nei decenni centrali del XX secolo si ebbero anche sia approfondimenti notevoli dell'economia neoclassica, sia la proposta di approcci alternativi che andavano oltre le critiche di Keynes.

La teoria dell'equilibrio economico generale

La teoria di Walras sull'equilibrio economico generale venne ripresa negli anni '30 dal Mathematisches Kolloquium, un seminario periodico organizzato dal matematico Karl Menger (figlio di Carl). Si considerò che l'uguaglianza tra numero delle equazioni e numero delle incognite non è sufficiente, come invece riteneva Walras, a garantire l'esistenza di soluzioni economicamente significative, in quanto potrebbero risultare quantità o prezzi nulli o negativi. Si avviò quindi un intenso lavoro di ricerca finalizzato a dimostrare in primo luogo l'esistenza di soluzioni. Ai lavori iniziali di Abraham Wald (1902-1950), John von Neumann (1903-1957) e Oskar Morgenstern (1902-1977), seguirono poi i contributi di altri, soprattutto John Hicks (1904-1989), Kenneth Arrow (n. 1921) e Gérard Debreu (1921-2004).

Una volta dimostrata l'esistenza, sotto alcune condizioni, si trattò di dimostrare anche l'unicità e la stabilità della soluzione, essenziali per le analisi di statica comparata. Il compito si è rivelato più arduo, al punto che alcuni ritengono che si sia dimostrato piuttosto che l'equilibrio è instabile e che vi sono molteplici equilibri. Si tratta di un argomento ancora dibattuto.

La teoria delle forme di mercato

Nel 1933 Joan Robinson (1903-1983), sviluppando alcune considerazioni contenute in un articolo di Piero Sraffa (1898-1983) del 1926, enunciò una teoria della «concorrenza imperfetta»; nello stesso anno, Edward Chamberlin (1899-1967) propose una teoria della «concorrenza monopolistica». Entrambi gli autori, pur se in modo diverso, considerarono il caso di imprese che si confrontino ognuna con curve di domanda decrescenti, come avviene nel monopolio. In particolare, Chamberlin sosteneva che le imprese non operano, in realtà, in un mercato perfettamente concorrenziale, ma, come se fossero "piccoli monopoli", possono imporre il prezzo ciascuna in un proprio mercato, grazie alla differenziazione di prodotto ed alla pubblicità. Nasceva così una teoria dei mercati che non sono né di concorrenza perfetta né di monopolio.

Pochi anni dopo, nel 1939, venne pubblicata una ricerca condotta dal gruppo di economisti di Oxford sul comportamento delle imprese. Da essa risultava che le imprese non cercano di massimizzare i profitti come supposto dalla teoria marginalista, tenendo conto di un prezzo dato e del costo marginale, ma usano fissare il prezzo aggiungendo al costo variabile una percentuale tale da coprire il costo fisso e da garantire un profitto (cosiddetto principio del costo pieno). Successivamente sono state formulate diverse teorie che tenessero conto di tali risultati; da un lato una teoria dell'oligopolio (Joe Bain, Paolo Sylos Labini), dall'altro teorie manageriali e comportamentistiche dell'impresa (William Baumol, Robin Marris, Herbert Simon).

La controversia sul capitale

Secondo la teoria neoclassica, i fattori produttivi (lavoro e capitale) vengono remunerati secondo la loro produttività marginale: il salario è posto uguale alla produttività marginale del lavoro, il saggio del profitto uguale a quella del capitale. Inoltre, se aumenta il costo di un fattore, gli viene preferito l'altro; quindi, se aumentano i salari si ha meno impiego del fattore lavoro (meno occupazione) e maggior impiego di capitale.

Joan Robinson e Piero Sraffa osservarono che risulta arduo misurare il capitale come base di calcolo per il saggio del profitto e che esso, in quanto aggregato di merci eterogenee, può essere misurato solo nel suo valore monetario, ma ciò richiede che sia noto il saggio del profitto. Nel suo Produzione di merci a mezzo di merci, inoltre, Sraffa aveva mostrato che sono possibili situazioni in cui l'aumento del salario comporta maggiore impiego di lavoro invece che di capitale (cosiddetto "ritorno delle tecniche").

Ne nacque una vivace controversia tra le due Cambridge, ovvero tra la Cambridge inglese (Robinson e Sraffa, poi Pierangelo Garegnani e Luigi Pasinetti) e la Cambridge americana (Paul Samuelson e Robert Solow). Vi fu una sorta di "vittoria anglo-italiana" sul piano teorico, a cui i neoclassici reagirono sia costruendo modelli in cui il capitale è un unico bene omogeneo (Samuelson), sia proponendo modelli di equilibrio in cui compare espressamente la moneta (Frank Hahn).

La controrivoluzione monetarista

In passato i periodi di stagnazione o di recessione erano accompagnati da riduzioni del livello generale dei prezzi. A partire dalla fine degli anni '60, tuttavia, inflazione e stagnazione iniziarono a presentarsi congiuntamente, una novità tale che per essa fu coniato il termine stagflazione. Il nuovo scenario si concretizzò mentre si stavano consolidando alcuni risultati della teoria economica precedente, anche keynesiana, ma dette vita a proposte di diverso segno.

La sintesi neoclassica

Fin dagli anni '30 si era cercato di reinterpretare la teoria keynesiana nei termini della teoria neoclassica. Già nel 1937, John Hicks aveva proposto un modello, divenuto poi noto come modello IS-LM, in cui individuava un meccanismo di equilibrio simultaneo dei mercati dei beni e della moneta. Si astraeva dalle aspettative degli imprenditori (gli investimenti venivano visti come funzione solo del tasso d'interesse) e la teoria keynesiana diveniva solo un'eccezione, riservata al caso di "trappola della liquidità" (tasso d'interesse così basso che nessuno presta denaro).

Successivamente Franco Modigliani (1918-2003) estese il modello aggiungendovi il mercato del lavoro. Nel suo modello l'equilibrio macroeconomico può essere raggiunto con qualsiasi livello dell'occupazione e, come nella tradizione neoclassica, esiste un livello dell'occupazione per ogni livello del salario. Ne seguiva che l'intervento pubblico in economia si giustifica solo per smorzare oscillazioni di breve periodo.

In tal modo si riconduceva Keynes nell'alveo neoclassico, secondo un approccio denominato "sintesi neoclassica".

Milton Friedman

Milton Friedman (1912-2006) fu più radicale. Secondo la teoria neoclassica i prezzi sono solo prezzi relativi, mentre il livello generale dei prezzi dipende dalla quantità di moneta (teoria quantitativa della moneta). Friedman ha sviluppato tale tesi, sostenendo che un aumento dell'offerta di moneta può influire sul reddito e sull'occupazione solo nel breve periodo, mentre nel lungo il livello di equilibrio del reddito dipende da fattori reali (risorse disponibili, tecnologia, preferenze ecc.) e un aumento della quantità di moneta può produrre solo inflazione.

Ha poi aggiunto che, in ogni caso, gli interventi di politica monetaria e fiscale volti a sostenere la domanda aggregata sono inefficaci, e rischiano di rivelarsi controproducenti, in quanto soggetti nella pratica a ritardi e incertezze nella valutazione della situazione, nel passaggio da tale valutazione alla scelta degli interventi, nell'attuazione degli interventi e nel dispiegarsi dei loro effetti. Da tutto ciò seguiva che le autorità dovrebbero solo far crescere l'offerta di moneta al ritmo richiesto dalla crescita economica reale, lasciando al mercato gli aggiustamenti di breve periodo.

L'insegnamento di Friedman ha dato vita ad una vera e propria scuola, detta scuola di Chicago, che ha esercitato notevole influenza a partire dagli anni '70.

La nuova macroeconomia classica

Robert Lucas (n. 1937), prima studente poi docente a Chicago, è andato ancora oltre, affermando che i soggetti economici sono guidati da aspettative sostanzialmente uguali alle previsioni ricavabili dalla teoria economica. Da ciò segue che le misure di politica economica sono inefficaci, in quanto i singoli ne scontano in anticipo gli effetti; ad esempio, una spesa pubblica in disavanzo (non finanziata mediante un aumento delle imposte) viene vanificata da una riduzione dei consumi, attuata per accantonare i risparmi necessari a pagare le imposte che prima o poi verranno richieste. Lucas, Prescott (n. 1940) ed altri hanno dato vita ad una scuola detta nuova macroeconomia classica.

Da tale impostazione Arthur Laffer (n. 1940) ha dedotto che sono ammissibili solo politiche dell'offerta (supply-side economics), tese a ridurre gli ostacoli al libero funzionamento del mercato.

Il presente

La teoria neoclassica recava in sé una teoria del benessere che, a partire dal 1951, è stata sottoposta ad una profonda revisione. La diffusione delle teorie keynesiane e l'aumento del ruolo dello Stato in economia portavano con sé il problema della scelta, da parte dell'intera collettività, tra diverse alternative di impiego delle risorse. In quell'anno Kenneth Arrow pubblicò il libro Social Choice and Individual Values, in cui dimostrava che non esiste alcuna funzione di scelta sociale in grado di soddisfare un insieme di criteri di coerenza e moralità (Teorema dell'impossibilità di Arrow). Amartya Sen (n. 1933), prendendo spunto da tali conclusioni, ha dimostrato l'impossibilità del liberismo paretiano.

Dalla sintesi neoclassica è invece scaturita una "nuova economia keynesiana", che cerca di individuare le cause microeconomiche delle rigidità che, a livello macro, determinano i cosiddetti fallimenti del mercato, disoccupazione compresa. Principale esponente è Joseph Stiglitz (n. 1943), cui si deve la teoria delle asimmetrie informative.

Sono forse questi gli aspetti più interessanti, o almeno più noti, degli sviluppi recenti della teoria economica. Accanto ad essi potrebbero esserne ricordati altri (neoistituzionalismo, scuola neo-austriaca, teorie del disequilibrio ecc.) che, tuttavia, appartengono più allo studio dell'economia nel suo stato attuale che a quello del suo passato.

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Economia politica

L'economia politica, nell'ambito delle scienze sociali, è «la scienza che studia il comportamento umano come relazione tra fini e mezzi scarsi suscettibili di usi alternativi»; è quindi la disciplina che studia il funzionamento dei sistemi economici.

Origini e cenni storici

Anche se riflessioni "economiche" in senso lato possono rinvenirsi già nell'antichità e nel Medioevo, l'economia politica in senso moderno iniziò a prendere forma nel periodo di progressiva separazione della politica dall'etica (l'epoca di Machiavelli), ponendosi inizialmente l'obiettivo di aumentare il potere economico del Principe, poi degli Stati nazionali, come condizione necessaria del potere politico e militare.

I mercantilisti consideravano fondamentale, a tale scopo, un saldo positivo della bilancia commerciale. In Francia, dopo il fallimento delle politiche mercantiliste di Colbert, François Quesnay si fece sostenitore della priorità dell'agricoltura, costruendo per primo un vero e proprio modello del funzionamento di un sistema economico.

Si affermò poi per circa un secolo la cosiddetta economia politica classica (principali esponenti: Adam Smith, David Ricardo e Karl Marx), che prestava attenzione alla crescente produttività dell'industria, individuava nel tempo di lavoro necessario alla produzione di un bene il suo valore e considerava i rapporti tra le classi sociali (proprietari terrieri, capitalisti e lavoratori) fondamentali per lo studio del funzionamento del sistema economico.

A partire dall'ultimo quarto del XIX secolo si sviluppò e diffuse sempre più l'economia neoclassica, caratterizzata dal ricorso all'utilitarismo e al cosiddetto individualismo metodologico: il valore di un bene venne ricondotto all'utilità che scaturisce dal suo consumo, mentre la massimizzazione di questa utilità venne considerata il principio guida del comportamento individuale. La focalizzazione sul singolo non impedì che si prestasse attenzione al benessere dell'intera comunità, per il quale si riteneva necessario il libero agire dei privati riducendo al minimo il ruolo dello Stato. L'approccio neoclassico rimane oggi tipico della microeconomia, che studia appunto il comportamento dei singoli agenti economici.

Nei decenni centrali del XX secolo, dopo la Grande depressione del 1929, John Maynard Keynes ha sostenuto la necessità dell'intervento pubblico nell'economia, soprattutto al fine di garantire la piena occupazione. Ne è seguita un'attenzione ai grandi aggregati economici (il prodotto nazionale, l'ammontare complessivo dei consumi e degli investimenti ecc.), che costituiscono oggi l'oggetto di studio della macroeconomia, così detta per distinguere tale approccio da quello neoclassico.

Alcuni economisti hanno proposto di unificare i due approcci, dando vita alla cosiddetta sintesi neoclassica. Successivamente, Milton Friedman ed altri hanno riformulato in modo innovativo alcuni principi della scuola neoclassica, riproponendo il rifiuto dell'intervento dello Stato in economia. Si è quindi avviato un processo di formazione di diverse scuole di pensiero, al quale hanno contribuito sia lo sviluppo di nuovi strumenti analitici, sia l'esigenza di affrontare - anche in un'ottica interdisciplinare - problemi quali l'inquinamento, il possibile esaurirsi delle risorse naturali e la globalizzazione.

L'economia politica come scienza sociale

Sia i mercantilisti che François Quesnay si proponevano di indirizzare la politica, e in parte vi riuscirono. Tra i classici, Smith e Ricardo, dopo aver esaminato i processi di produzione e di distribuzione del reddito, discussero ampiamente della politica fiscale più adatta a favorire lo sviluppo economico; Marx trasse dalla sua analisi il programma politico del primo partito comunista.

A partire dalla fine del XIX secolo si tentò invece di pervenire ad una separazione tra economia e politica. Léon Walras propose una distinzione tra: economia politica pura (determinazione dei prezzi), economia politica sociale (distribuzione della ricchezza) ed economia politica applicata (teoria della produzione agricola, industriale e commerciale) e cercò di dare alla prima lo stesso impianto oggettivo e rigoroso della fisica. Nel 1890 John Neville Keynes (padre di Maynard) propose la distinzione tra economia positiva (la descrizione del funzionamento di un sistema economico come è), economia normativa (la valutazione di ciò che è desiderabile, dei suoi costi e benefici) e arte economica (l'individuazione di azioni atte ad ottenere ciò che appare desiderabile). Negli stessi anni, Alfred Marshall iniziò ad usare il termine economics insieme e in alternativa a political economy.

Nel XX secolo il notevole sviluppo della matematica e della fisica e, in particolare, la loro assiomatizzazione sempre più estesa, suggerirono l'adozione di un approccio assiomatico anche per l'economia, nel tentativo di dare ad essa pieno status di "scienza".

Nel 1932 Lionel Robbins propose la definizione di economia già citata e, al tempo stesso, affermò che l'economia può essere scienza se le sue proposizioni sono dedotte da un insieme di postulati tratti da fatti incontestabili basati sull'esperienza.

Lo sviluppo della modellistica matematica ha conferito gradualmente maggiore importanza alla capacità predittiva di una teoria piuttosto che al realismo delle ipotesi iniziali. Coerentemente, Milton Friedman ha affermato che nessuna evidenza empirica può fornire la prova della validità di un'ipotesi, ma l'insieme degli assunti iniziali dell'economica positiva, in sé arbitrario, può essere giudicato valido solo se consente di dedurne previsioni confermate dall'esperienza. Non importa, ad esempio, che gli assunti della concorrenza perfetta o del monopolio puro appaiano irrealistici, o che gli uomini d'affari non usino, in realtà, prendere le loro decisioni sulla base delle curve del costo o del ricavo marginali; quello che conta è che da assunti anche apparentemente irrealistici si possano dedurre previsioni corrette.

Secondo Herbert Simon, peraltro, Friedman ha solo tentato di «trasformare in virtù» la mancanza di fondamenti empirici della teoria economica neoclassica, mentre l'irrealismo delle ipotesi comporta che le ricerche empiriche smentiscano spesso la teoria. In particolare, secondo Simon, la teoria neoclassica si discosta da altre scienze sociali meglio fondate per tre aspetti sostanziali: passa sotto silenzio il contenuto degli obiettivi e dei valori, postula la coerenza globale dei comportamenti, sostiene che i comportamenti siano oggettivamente razionali in rapporto ad un ambiente circostante che si suppone interamente noto sia nel presente che nel suo futuro.

Il dibattito è aperto.

I rami principali dell'economia politica

L'economia politica ha iniziato ad essere distinta da altre scienze sociali molto gradualmente. Solo verso la metà del XIX secolo si sono avute le prime cattedre di economia politica (la prima è stata fondata nel 1754 a Napoli, allora capitale del Regno delle Due Sicilie, da Antonio Genovesi); ma si è ormai consolidato un corso di studi che prevede, di massima, le seguenti principali articolazioni.

Microeconomia


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Curve di costo di un'impresa in concorrenza perfetta

La microeconomia si propone di studiare il comportamento dei singoli soggetti economici (consumatori e imprese) e di dedurre da esso una teoria della formazione degli aggregati economici (in particolare domanda e offerta aggregate) e dei prezzi dei beni.

Esamina in primo luogo il processo attraverso il quale consumatori e produttori compiono le loro scelte; alla trattazione tradizionale, elaborata dall'economia neoclassica, si aggiungono ormai da tempo la teoria delle decisioni in condizioni di incertezza e la teoria dei giochi.

Studia quindi le condizioni sotto le quali l'interazione tra singoli soggetti economici può avvenire in modo efficiente prima in singoli mercati, poi nell'intero sistema economico (teoria dell'equilibrio economico generale). Si considerano, a tal fine, sia le diverse forme di mercato (concorrenza perfetta, oligopolio, monopolio, concorrenza monopolistica o imperfetta, monopsonio e monopolio bilaterale), sia i cosiddetti fallimenti del mercato.

Estende, infine, tali considerazioni fino a formulare la cosiddetta economia del benessere, che mira a definire una situazione di ottimo sociale ed a studiarne requisiti e caratteristiche.

Macroeconomia

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Relazioni macroeconomiche

La macroeconomia prende le mosse direttamente dai principali aggregati economici, per studiare le loro interdipendenze.

Considera le condizioni di equilibrio dapprima del mercato dei beni (domanda di beni per il consumo, relazione tra risparmio e investimenti), poi del mercato monetario (domanda e offerta di moneta, determinazione del tasso d'interesse), quindi del mercato del lavoro (salari e occupazione), assumendo inizialmente un'economia chiusa, ovvero senza scambi con l'estero, in un'ottica di breve periodo.

Esamina quindi il funzionamento del sistema economico nel suo complesso, analizzando gli effetti della politica di bilancio e della politica monetaria sull'offerta e sulla domanda aggregate.

L'analisi viene poi estesa per considerare sia gli scambi con l'estero (economia internazionale), sia lo sviluppo economico di lungo periodo (economia dello sviluppo). Tali argomenti tuttavia, vengono approfonditi da discipline che hanno acquisito una loro autonomia.

Economia internazionale

L'economia internazionale studia i rapporti economici tra paesi diversi, nonché i modelli analitici che permettono di interpretarli. Prende le mosse da alcuni risultati dell'economia politica classica (la teoria dei vantaggi comparati di David Ricardo) e li generalizza secondo le linee dell'economia neoclassica, al fine di delineare una teoria del commercio internazionale. Considera poi, avvalendosi anche di concetti tratti dalla macroeconomia, gli aspetti monetari, l'andamento dei tassi di cambio e gli strumenti per intervenire su possibili squilibri nella bilancia commerciale e nella bilancia dei pagamenti.

Economia monetaria

L'economia monetaria studia le determinanti della domanda e dell'offerta di moneta e le loro conseguenze sull'economia reale, tenendo conto sia dell'approccio microeconomico che di quello macroeconomico.

Vengono analizzate le diverse funzioni della moneta, le sue diverse definizioni, il ruolo delle Banche centrali, gli strumenti da esse adottati per attuare una politica monetaria.

Economia dello sviluppo

L'economia dello sviluppo si occupa dell'andamento di un sistema economico nel lungo periodo.

Tratta della definizione e misurazione dello sviluppo economico, delle principali teorie dello sviluppo (dai classici a Schumpeter, alla teoria keynesiana e oltre), dei temi e problemi relativi al sottosviluppo (aiuti internazionali, aspetti demografici, indebitamento dei Paesi in via di sviluppo ecc.), dell'impatto dello sviluppo sull'ambiente.

Politica economica

Le discipline economiche fin qui menzionate si occupano sia delle leggi dell'economia "come è" (l'approccio definito «positivo» da Keynes), sia dell'economia come "dovrebbe essere" (ciò che appare desiderabile, l'approccio «normativo»). Ad esempio, la microeconomia si occupa sia del meccanismo di formazione dei prezzi, sia della definizione e delle condizioni del benessere; la macroeconomia studia il funzionamento di diversi mercati (beni, moneta, lavoro) ed analizza le condizioni affinché si possa ridurre la disoccupazione.

La politica economica costituisce un esempio di economia applicata (l'«arte economica» di Keynes), in quanto si occupa della individuazione di scelte che un governo possa concretamente adottare per realizzare un obiettivo ritenuto socialmente desiderabile (aumento del reddito e dell'occupazione, contenimento dell'inflazione ecc.).

A tale scopo si avvale spesso dell'econometria, che consente sia di sottoporre a verifica empirica alcune ipotesi teoriche, sia di stimare gli effetti di diverse scelte di politica economica. Col tempo l'econometria ha assunto completa autonomia intellettuale e di ricerca al punto che da metodo sperimentale, è divenuta disciplina a sé stante e le sue applicazioni dal ristretto ambito della politica economica, si sono estese all'analisi dei mercati finanziari, valutari, nonché al comportamento dei diversi soggetti nei mercati di conccorenza imperfetta, sino alle più moderne analisi sull'economia della cultura e dei reati di natura economica.

Economia aziendale

L'economia aziendale, anch'essa una forma di economia applicata, studia il governo economico delle aziende nel senso più generale, dalle imprese di produzione alle organizzazioni senza fini di lucro, alle articolazioni della pubblica amministrazione.

Alcuni tipi di aziende ricevono attenzione particolare; vi sono quindi, ad esempio, un'economia bancaria ed un'economia dei media.

Altre discipline

Molti aspetti dell'economia politica, sia teorica che applicata, vengono sempre più trattati da discipline che acquisiscono una loro autonomia, almeno nel senso che sono oggetto di specifici corsi di insegnamento, convegni, pubblicazioni ecc.

Vi sono quindi lo studio del funzionamento di singoli settori economici, quali l'economia agraria o l'economia industriale, o di singoli mercati, quali l'economia finanziaria o l'economia del lavoro. Si possono anche ricordare l'economia dei beni culturali, l'economia dell'informazione, l'economia della scienza.

Bibliografia

Si rimanda alle voci apposite per le diverse articolazioni dell'economia politica. Possono essere utili come introduzioni generali:

R.G. Lipsey e K.A. Chrystal, Principi di economia, Bologna, Zanichelli, 2001.

A. Roncaglia, Lineamenti di economia politica, Roma-Bari, Laterza, 2005.

Gustave Bessière, L'ARITHMETIQUE à l'usage des hommes d'Etat en cinq leçon Dunod PARIS 1935


Politica economica

In economia la politica economica è la disciplina che studia gli effetti dell'intervento dei poteri pubblici (Stato, Banca centrale, ed altre autorità) e dei soggetti privati (imprese, famiglie,...) sull'economia allo scopo di elaborare interventi destinati a modificare l'andamento del sistema economico a livello macroeconomico per raggiungere obiettivi economici prefissati. Di essa fanno parte la politica di bilancio e la politica monetaria.

Descrizione

Nell'ambito della scienza economica si suole distinguere tra l'economia politica che studia o analizza la situazione economica esistente cioè ciò che è, e politica economica che invece studia ciò che deve o ciò che si desidererebbe che fosse. Pertanto lo studio della politica economica presuppone, anche didatticamente, l'analisi dell'esistente, vale a dire lo studio dell'economia politica.

Poiché l'economia risulta in continuo mutamento sotto la spinta di interessi economici e pulsioni umane, lo scopo della politica economica è di modificare l'andamento spontaneo dell'economia dopo averlo opportunamente studiato ovvero analizzato.

A seconda di una maggiore o minore influenza dello Stato sul sistema economico tramite politiche economiche si parla di:

economia di mercato;

economia pianificata;

economia mista.

Interventi a breve e lungo termine

Nell'ambito della politica economica si studiano gli interventi con un orizzonte temporale a breve termine e a lungo termine. Le due tipologie di interventi si differenziano, oltre che per il fatto di attendere risultati nei termini previsti, anche per il contesto: negli interventi a breve si suppone un'economia nazionale statica, che quindi non viene modificata strutturalmente dagli interventi. Gli interventi a lungo termine assumono invece un contesto dinamico, in cui gli effetti strutturali degli interventi alterano l'economia futura e vanno tenuti presenti per valutare gli effetti negli anni successivi.

Teoria macroeconomica della politica economica

Oggetto di particolare studio teorico, nell'ambito della Macroeconomia, sono due tipi di politica economica: la politica di bilancio e la politica monetaria.

La politica di bilancio consiste nella decisione dell'ammontare delle tasse e della spesa pubblica, e la sua determinazione spetta al governo.

Si ha una politica di bilancio espansiva se si aumenta la spesa pubblica e/o si diminuiscono le imposte: secondo le teorie keynesiane, opposte a quelle degli economisti neoclassici dell'epoca (che si opponevano all'intervento dello Stato in economia), tale politica dovrebbe far aumentare la domanda aggregata, favorire un'espansione dell'economia, un aumento del reddito nazionale, degli stipendi e dell'occupazione (crescita economica); gli effetti positivi di un aumento della spesa pubblica possono essere incrementati dal cosiddetto moltiplicatore keynesiano, al punto che anche un aumento della spesa pubblica accompagnato da un pari aumento delle tasse (pareggio di bilancio) potrebbe far espandere l'economia.

Se invece la spesa pubblica aumenta mentre le entrate (tasse) restano ferme o diminuiscono, il deficit pubblico aumenta, con conseguenze negative sul debito pubblico. Inoltre, se si accetta la relazione inversa tra disoccupazione e inflazione (vedi curva di Phillips), una politica espansiva dovrebbe provocare un aumento dell'inflazione. Per ridurre un deficit pubblico eccessivo, si possono adottare politiche di bilancio restrittive: aumento di tasse e diminuzione della spesa pubblica. A livello di crescita economica tali politiche avrebbero effetti opposti a quelle espansive, ma destinate a far fronte a problemi di finanza pubblica.

Per contrastare il ciclo economico, che presenta periodicamente tassi di disoccupazione o di inflazione superiori a quelli fisiologici, si possono adottare politiche di fine tuning: la politica economica dovrebbe essere espansiva quando si è in recessione e restrittiva quando invece un'eccessiva espansione provoca troppa inflazione.

La politica monetaria è di responsabilità invece della Banca centrale, e consiste principalmente nel controllo dell'offerta di moneta, nel controllo dei tassi di interesse e nel razionamento del credito. Nell'approccio liberista la politica monetaria ha lo scopo principale di controllare l'inflazione; la sua effettiva efficacia dipende da vari fattori.

Quanto agli effetti della politica monetaria sulla domanda aggregata (e quindi sul PIL), si va dalla posizione dei monetaristi secondo cui un aumento dell'offerta di moneta (politica monetaria espansiva) può far crescere l'economia nel breve termine, ma i suoi effetti si annullano nel lungo termine; a quella dei keynesiani secondo cui tale politica può, in particolari condizioni, far crescere l'economia aumentando l'offerta di moneta, ma in altri casi tale effetto può essere annullato da un fenomeno detto trappola della liquidità.

Vanno citati anche i policy mix, in cui governo e banca centrale coordinano la politica di bilancio e monetaria in una strategia unica.

Gli effetti teorici delle politiche di bilancio e monetarie sono rappresentabili nel modello IS-LM: per esempio si vede come gli effetti delle politiche di bilancio sono compensati (e in certi casi addirittura annullati) da un fenomeno detto spiazzamento degli investimenti, che provoca un aumento dei tassi di interesse invece di un aumento della domanda.

Statica comparata del Modello Classico

È possibile valutare quali sono le conseguenze su PIL, occupazione, livello dei prezzi e tasso di interesse di una variazione della spesa pubblica e dell'offerta di moneta da parte della Banca centrale, mettendo assieme il Modello IS-LM keynesiano e il modello Modello AD-AS.

Secondo l'ipotesi keynesiana l'investimento in titoli delle famiglie (risparmio S) non dipende solo dal tasso di interesse, ma anche dal livello del reddito (PIL) pertanto S = sY dove s è la propensione marginale al risparmio con 0<s<1. I titoli delle famiglie possono finanziare o l'investimento delle aziende I(r) con r tasso di interesse oppure la spesa pubblica dello Stato G pertanto:

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La funzione I è decrescente in r infatti minore è il tasso di interesse più le imprese saranno propense a investire perché otterranno prestiti nel mercato dei capitali ad un tasso più basso. Pertanto:

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Andamento decrescente della curva degli investimenti I in funzione del tasso di interesse

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Nel nostro sistema economico tutte le attività si suddividano in 2 categorie: quelle che maturano interessi dette "titoli" e quelle che non fruttano alcun interesse dette "moneta". La domanda di moneta è la quantità di moneta di cui hanno bisogno le famiglie per provvedere agli acquisti. Essa cresce con l'aumentare del PIL infatti se il PIL cresce aumenta la necessità di moneta da parte delle famiglie per effettuare le proprie transazioni, mentre decresce con l'aumentare del tasso di interesse dei titoli perché le famiglie riterranno più conveniente investire in titoli piuttosto che possedere moneta. La domanda di moneta quindi è una funzione differenziabile nelle 2 variabili Y ed r essendo r il tasso di interesse. Essendo L(Y,r) crescente in Y e decrescente in r risulta:

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e

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La domanda di moneta cresce in maniera proporzionale al livello dei prezzi infatti ad esempio quando i prezzi raddoppiano occorre una quantità doppia di moneta pertanto:

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Inoltre poiché gli agenti economici possono detenere esattamente la quantità di moneta offerta dalla Banca centrale allora l'offerta di moneta deve eguagliare la domanda di moneta pertanto:

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Ipotizzando che tutto il commercio si basi sullo scambio di beni e lavoro, la quantità di beni che un'azienda deve cedere in cambio di un'ora di lavoro si dice salario reale. Ma poiché il lavoro viene venduto in cambio di denaro e non di beni il salario reale è dato dal rapporto tra il salario nominale W e il prezzo P dei beni. Considerato che il profitto di tutte le imprese facenti parte dell'economia è dato dalla differenza tra il PIL e il costo del lavoro impiegato:

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dove f(N) è il PIL che cresce con l'aumentare del numero di occupati N e supponendo inoltre che la funzione f(N) sia concava e cioè che cresca in misura sempre minore al crescere di N perché il lavoro è impiegato con una quantità fissa di capitale, pertanto risulta:

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Andamento crescente e concavo della funzione di produzione Y=f(N)

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e

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Dove per il PIL risulta l'equivalenza:

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Poiché le imprese tendono a massimizzare il profitto, calcolando la derivata del profitto e ponendola uguale a 0 si ha che la domanda di lavoro da parte delle imprese è:

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I lavoratori decidono la quantità di lavoro da offrire in base al salario reale uguale al rapporto tra il salario nominale e il livello dei prezzi percepito.

Chiaramente l'offerta di lavoro S aumenta con l'aumentare del salario reale perché potendo guadagnare di più le persone sono più propense a lavorare ad24adbffb56871e01ce101fbaebae7a.png , inoltre al crescere del tasso di interesse il salario reale deve aumentare per convincere le persone a lavorare piuttosto che a investire in titoli 0b8cc2a3b51077e7d46ba038e0e9629b.png quindi per la funzione offerta di lavoro S si ha:

02d3b41425a83a26a9b2ea1f0dcaed1b.png con le derivate parziali entrambe positive: ebdc38ce4984590909c7e94add2d0c75.png

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Andamento crescente della curva di offerta di lavoro in funzione del tasso di interesse

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Andamento crescente della curva di offerta di lavoro in funzione del numero di occupati



Ricavando W/P dalla precedente relazione e sostituendola nell'altra si ottiene:

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Ora considerato il sistema dato dalle 4 funzioni implicite sopra indicate dove P, r, Y, N si considerano variabili endogene ed M, G esogene:

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poiché le 4 funzioni T, L, Y, S sono differenziabili e il determinante:

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si può applicare il teorema di invertibilità locale delle funzioni allora esistono 6 valori:

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tali che:

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Calcolando la matrice inversa di J e risolvendo il sistema si ottiene:

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La prima cosa che si nota è che la politica monetaria, cioè la variazione dell'offerta di moneta da parte della Banca centrale dM, ha effetti solo sull'inflazione p e non sul tasso di interesse r, sul PIL Y e sul numero di occupati N per cui se aumenta l'offerta di moneta cresce l'inflazione, se diminuisce l'offerta di moneta diminuisce anche l'inflazione, mentre non è possibile valutare l'effetto dell'incremento o del decremento della spesa pubblica sull'inflazione in quanto nella (5) il termine dG viene moltiplicato per una quantità il cui segno non può essere valutato.

Mettendo assieme la (7) e la (8) si ottiene:

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e siccome il termine ce10f1709f0c5fd3d744df6edf5fa052.png allora se il PIL aumenta cresce anche il numero di occupati, se il PIL diminuisce, diminuisce anche il numero di occupati.

Quindi volendo studiare la (6), la (7) e la (8) l'unico problema che sorge è quello di valutare il segno della disequazione nel punto di equilibrio:

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che risulta uguale a:

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Si nota che ambo i membri della disequazione sono positivi per cui affinché la disequazione sia soddisfatta occorre che il primo membro della disequazione sia una quantità positiva minore del secondo membro. Affinché il primo membro della disequazione sia più piccolo del secondo membro, essendo la funzione I decrescente in r, se la funzione I è convessa per cui d8233614a06d23edf7fc7bde418a73a9.png allora occorre che r sia sufficientemente piccolo affinché aeb27a0e16d74f71d15d28c53643c55c.png sia il più piccolo possibile il che comporta molti investimenti da parte delle imprese, viceversa se la funzione I è concava per cui a2ffc769aa77a61d05fe13c4bfe65257.png allora occorre che r sia sia sufficientemente grande affinché aeb27a0e16d74f71d15d28c53643c55c.png sia il più piccolo possibile il che comporta pochi investimenti da parte delle imprese. Essendo inoltre la funzione f(N) crescente e concava allora d8481e088ad9ba0c845920cb762b4d28.png assume un valore molto alto quando gli investimenti sono bassi e il tasso di interesse è alto. Occorre poi che la propensione marginale al risparmio sia sufficientemente grande. Sotto tali ipotesi la disequazione (9) risulta soddisfatta ed occorre un aumento della spesa pubblica .

Casi corretti di politica di bilancio

1. Se la disequazione (9) è soddisfatta un aumento della spesa pubblica fa aumentare il PIL e il numero di occupati mentre fa crescere il tasso di interesse.

2. Se la disequazione (9) non è soddisfatta una diminuzione della spesa pubblica fa crescere il PIL e il numero di occupati mentre fa decrescere il tasso di interesse.

Casi errati di politica di bilancio

1. Se la disequazione (9) è soddisfatta una diminuzione della spesa pubblica fa decrescere il PIL e il numero di occupati mentre fa crescere il tasso di interesse.

2. Se la disequazione (9) non è soddisfatta un aumento della spesa pubblica fa decrescere il PIL e il numero di occupati mentre fa crescere il tasso di interesse e l'inflazione.

Cenni storici

Storicamente l'esigenza di una politica economica si manifesta allorché appare chiaro che l'economia lasciata in mano agli interessi egoistici dei singoli operatori non è in grado di evitare squilibri e diseguaglianze economiche capaci di rendere instabili l'economia stessa, oltre che il tessuto sociale di un paese e i rapporti tra nazioni.

Adam Smith riteneva che nel mercato operasse una mano invisibile, in virtù della quale l'interesse privato si trasformava in interesse collettivo. Nessuno avrebbe potuto fare meglio di quanto faceva per conto suo il mercato, capace di stabilire in modo continuo equilibri tra le forze in gioco. L'interazione della domanda e dell'offerta genererebbe di continuo prezzi di equilibrio capaci di soddisfare entrambe le parti, garantendo ad esempio condizioni di pieno impiego.

Le politiche economiche liberiste, che al pensiero economico di Smith si ispirano, tendono quindi a promuovere la rimozione di ogni vincolo al libero dispiegarsi delle forze di mercato e a tracciare un ruolo il più possibile ridotto per lo Stato, il cui compito dev'essere quello di non intervenire o di intervenire il meno possibile nell'economia, dove devono prevalere gli "spiriti animali". Le posizioni liberiste di Smith sono state successivamente da molti criticate, man mano che si prende coscienza che esse richiedono condizioni di mercato che difficilmente si trovano nella realtà (concorrenza perfetta).

Karl Marx immagina un sistema economico in cui il progressivo sfruttamento dei lavoratori avrebbe condotto al collasso del sistema economico attraverso l'impoverimento crescente della classe operaia, e alla necessità di una svolta politica di stampo rivoluzionario, per poi ricostruire un sistema economico di stampo egualitario.

Secondo John Maynard Keynes, i sistemi economici non sono sempre in grado di raggiungere l'equilibrio di pieno impiego in modo automatico, cioè senza interventi statali. Al contrario, è possibile che essi si attestino su posizioni di equilibrio di sottooccupazione, determinate da carenze nella domanda aggregata. In questa concezione, la politica economica ha il ruolo di stimolare la domanda e permettere di raggiungere il pieno impiego delle risorse. In Italia, uno dei maggiori interpreti del pensiero keynesiano è stato Federico Caffè.

Lo stato attuale

Mentre nella prima metà del XX secolo erano prevalse politiche economiche tese a governare l'economia tramite l'intervento pubblico (sia in termini normativi che di spesa pubblica) (economia pianificata), nella seconda metà del secolo si sono gradatamente imposte tendenze liberiste, tendenti al "lasciar fare" del mercato (economia di mercato). Tali teorie di tipo microeconomico sono state solitamente unite ad impostazioni monetariste per l'aspetto più strettamente macroeconomico.

Il risultato delle politiche liberiste appare di gran lunga inferiore alle aspettative all'inizio del terzo millennio, per cui si ricomincia a considerare attentamente politiche di tipo Keynesiano ovvero un'attestazione del sistema economico basato su un modello di economia mista.

Interventi indiretti nell'economia

Norberto Bobbio parla di "fuga nel diritto privato" per indicare la contrazione dell'area del diritto pubblico dell'economia in favore del diritto privato dell'economia, la cui caratteristica principale è la presenza, nel settore dei compiti tradizionalmente pubblici, di operatori privati (tra cui il genus controverso degli organismi di diritto pubblico) e l'utilizzo di modelli contrattuali (nati nella pratica commerciale), ma soprattutto la presenza di strutture nuove preordinate alla tutela degli interessi emergenti: le cosiddette Autorità amministrative indipendenti.

Via via che si riduce il fenomeno dell'intervento diretto nell'economia, in favore di un intervento indiretto, assume una portata sempre più pregnante l'art. 41 della Costituzione, che riserva alla legge la predisposizione di programmi e controlli sulle attività economiche a fini sociali.

I programmi e i controlli devono essere opportuni, nel senso che non devono ostacolare la realizzazione del principio di uguaglianza sotteso all'art. 3 della Costituzione.

In breve, tra i "programmi" rientrano gli atti di pianificazione, le leggi finanziarie e relativi "collegati", il D.P.E.F. (Documento di programmazione economica e fnanziaria) ed altri interventi settoriali quali il Piano di edilizia residenziale di cui alla legge n. 179 del 1992, il piano per l'energia di cui alla delibera del Consiglio dei ministri del 9 gennaio 1991, il Piano di tutela ambientale di cui alla lege n. 305 del 1989, ed altri.

Fra i "controlli" rientrano misure eterogenee, dalle concessioni alle autorizzazioni, all'imposizione di prezzi amministrati, agli accertamenti sulla qualità di determinate merci, ecc.

La Costituzione non prevede un terzo tipo di intervento indiretto, oltre ai programmi ed ai controlli: tuttavia, la "regolazione" è un fenomeno di vasta diffusione ed in via di costante espansione. Le Autorità amministrative indipendenti svolgono un'azione di regolazione e vigilanza, imponendosi come soggetti equidistanti rispetto agli operatori economici che agiscono nei vari settori "vigilati".

Bibliografia

Nicola Acocella, cura della 5ª ed. del testo: F. Caffé, Lezioni di politica economica, Bollati Boringhieri, Torino, 1990, ISBN 978-88-33-95457-9.

Nicola Acocella, Fondamenti di politica economica: valori e tecniche, Nuova Italia Scientifica, Roma, 1a ed, 1994, ISBN 978-88-43-06324-6.

Nicola Acocella, Politica economica e strategie aziendali, Carocci, Roma, 1999, ISBN 978-88-43-05690-3.

Alessandro Vaglio - Matematica per economisti - Apogeo


Teorie, dottrine e autori


Mercantilismo

Il Mercantilismo fu una politica economica che prevalse in Europa dal XVI al XVIII secolo, basata sul concetto che la potenza di una nazione sia accresciuta dalla prevalenza delle esportazioni sulle importazioni. Nelle società europee di quei secoli, dietro gli aspetti di uniformità del mercantilismo, furono attuate differenti politiche a seconda della specializzazione economica naturale (agricola, manifatturiera, commerciale) e all'idea di ricchezza (oro, popolazione, bilancia commerciale).

Descrizione

Benché la battaglia intellettuale sia stata vinta dal liberismo già nella prima metà del XIX secolo, il mercantilismo si è dimostrato una forza persistente nel campo della politica economica, anche sotto il nome di protezionismo. Infatti, nonostante una retorica di facciata liberista, tuttora i comportamenti concreti dei paesi economicamente più sviluppati sono decisamente mercantilisti. Più precisamente, la conformazione attuale del capitalismo si avvicina nella pratica molto di più al mercantilismo corporativistico che al liberalismo economico classico. Ciò è vero in particolar modo per la politica ufficiale statunitense. Specularmente, alcune critiche no-global (o più precisamente new-global) sono di fatto più anti-mercantiliste che anti-liberiste.

La riflessione economica dei mercantilisti

Il mercante, svincolata la propria condotta dalla morale comune, opera nel mondo secondo criteri razionali e consapevoli, dimostrando le proprie funzioni di commerciante, imprenditore, banchiere. L'attività del mercante si esplica in società fondate economicamente sul sistema agricolo ma in cui c'è una stretta connessione tra attività economica e Stato; i mercanti operano accrescendo la ricchezza e il prestigio propri e dello Stato, mentre quest'ultimo garantisce la stabilità, l'ordine pubblico, l'allargamento del mercato attraverso la politica di conquiste coloniali. L'economia è dunque finalizzata all'interesse dello Stato, il quale a sua volta rappresenta un mezzo a disposizione dell'economia mercantile, grazie alle politiche di crescita economica e di espansione promosse ed alla capacità del mercante di inserirsi in questo contesto..

Mercantilisti

Gli economisti mercantilisti furono pensatori non sistematici, ragione non ultima della vittoria intellettuale dei successivi economisti liberisti, che attribuirono loro questo nome. Fra i principali pensatori del mercantilismo, diffuso in tutta Europa, si ricordano:

gli italiani Giovanni Botero, Bernardo Davanzati e Antonio Serra; nel XVIII secolo Ferdinando Galiani;

i francesi Jean Bodin, Antoine de Montchrétien e Jean-Baptiste Colbert;

l'anglo-francese John Law;

i britannici Josiah Child, Charles Davenant, Gerard de Malynes, Edward Misselden, Thomas Mun, William Petty; nel XVIII secolo James Steuart;

l'anglo-olandese Bernard de Mandeville, autore de La favola delle api;

lo statunitense Alexander Hamilton (nel XVIII secolo).

Il mercantilismo tedesco trattò soprattutto problemi fiscali e amministrativi ed è noto anche sotto il nome di cameralismo.


Jean Bodin

Jean Bodin (Angers, 1529 – Laon, 1596) è stato un filosofo e giurista francese. Con maggior proprietà può dirsi che il Bodin si dedicò alla filosofia politica toccando tuttavia anche temi giuridici. E, proprio nell'opera giuridica, Bodin fu seguace dell'umanesimo giuridico (rifacendosi alla teoria di François Connan), impegnandosi a razionalizzare il diritto romano in modo che apparisse come un diritto universale positivamente attuato.

Biografia

Avvocato del parlamento parigino, e consigliere alla corte di re Enrico III, visse nella travagliata epoca della riforma protestante e delle successive guerre di religione.

Fu tra i massimi teorici e sostenitori dell'Assolutismo monarchico ed è ritenuto il teorico del concetto moderno di «sovranità».

Opera

Methodus ad facilem historiarum cognitionem

In quest'opera Bodin si rivela un precursore di Montesquieu su un tema come la ricerca nella storia dello spirito delle leggi e compone un abbozzo di quella teoria dei climi che sarà ripresa poi dal suo connazionale. Bodin richiede dagli storici del diritto una buona formazione storica e giudica la storia stessa come la migliore preparazione alla politica.

Résponse à M. de Malestroit

Bodin esamina il fenomeno inflazionistico che turbava il commercio di quei tempi, ne indica l'origine nella "abbondanza d'oro e d'argento" in circolazione (miniere di Potosì in America) e si dichiara a favore della libertà di commercio.

Les Six Livres de la République

Il 1576 è un anno estremamente fecondo per il giurista francese, sia sul piano pratico, con l'elezione a deputato del terzo stato di Vermandois agli Stati Generali di Blois, dove prende posizione per la riconciliazione e per la pace religiosa, che su quello teorico: pubblica infatti un'opera di teoria politica di straordinario valore: Les six livres de la République (I sei libri dello Stato). Quest'opera viene scritta in volgare francese, e non in latino, di modo che possa essere letta da un maggior numero di persone. A tal proposito, Bodin si esprime così: «Ho intrapreso questo mio discorso sullo Stato (...) in lingua volgare, sia perché la sorgente della lingua latina è ormai esaurita (...) sia per essere compreso meglio da quelli che sono veri Francesi». È un'opera che ricerca un consenso ampio e ha carattere d'urgenza: scrive infatti Bodin, usando l'antica similitudine tra lo Stato e l'imbarcazione, che «ora che la tempesta si è messa a tormentare il vascello del nostro Stato con tale violenza che i capitani e i piloti sono tutti ugualmente stanchi e sfiniti dalla diuturna fatica, è necessario che i passeggeri stessi intervengano a prestare soccorso. Per "salvare la barca" dello stato, non basta un discorso oratorio, semplicemente brillante, "poiché né le malattie degli uomini né quelle degli Stati si curano con lo splendore delle parole».

Occorre invece approfondire la questione generale del potere: a chi deve appartenere il massimo potere in una situazione in cui gli interessi privati e di fazione rischiano di travolgere tutto? Per rispondere a tale domanda, occorre un'opera di teoria politica. Questo intendono essere I sei libri dello Stato. Il trattato di Bodin affronta un concetto determinante, che fonda la gestione unificata del potere da parte dello Stato, in una società che si vuole coesa e ordinata: la sovranità. «Per sovranità - scrive Bodin - si intende quel potere assoluto e perpetuo ch'è proprio dello Stato».

Bodin in questo modo stabilisce il fondamento giuridico che garantisce la totale autonomia della dimensione pubblica rispetto a quella privata, giustifica perciò la necessità di una suprema autorità che si ponga al di sopra dei sudditi.

Per Bodin «la monarchia pura assoluta è lo stato più sicuro e, senza confronto, il migliore di tutti». La democrazia invece oltre a disperdere il potere è anche rischiosa per via del progetto egualitario che l'accompagna («non c'è odio più grande né vi sono inimicizie più radicali di quelle che si creano tra gli uguali»). «Lo Stato è il governo giusto di più famiglie e di ciò che è loro comune, con potere sovrano». La comunità politica è quindi un governo giusto, cioè ordinato, conforme a certi valori morali di ragione, giustizia; lo Stato si identifica nel governo, il governo giusto è quello che soddisfa il bene dei cittadini e contemporaneamente anche il bene dello Stato, bene comune e individuale convergono; la famiglia è il punto di partenza, la cellula madre e il modello della comunità politica ben ordinata, è una componente naturalistica, la prima istituzione. La sovranità è la forza coesiva, unificatrice della comunità politica, lo Stato non esiste se non c’è un potere sovrano la sovranità. Il potere sovrano è perpetuo, la sovranità cioè ha una durata ininterrotta e non limitata. Bodin, contrario a qualunque tipo di governo misto, distingue i vari tipi di governo ed esclude categoricamente la possibilità di dividere le prerogative della sovranità per costituire uno Stato aristocratico o popolare, le prerogative della sovranità sono indivisibili. La monarchia è il governo naturale, la forma di Stato in cui la sovranità assoluta risiede in un solo principe, è solo nella monarchia che la sovranità assoluta con le sue prerogative indivisibili trova una garanzia di durata e un appoggio vigoroso. Solo la monarchia infine assicura maggiori garanzie alla scelta delle competenze. La monarchia di Bodin non è però un sistema tirannico, al di sopra delle leggi del sovrano si trovano infatti le leggi di natura, riflesso della ragione divina. Il sovrano deve rispettare quindi la libertà naturale dei sudditi e la loro proprietà. Bodin si difende dall'accusa di assolutismo nella dedica dell'edizione latina della Rèpublique, ricordando di avere chiaramente evidenziato i Limiti del potere sovrano: Il diritto divino e naturale, le leggi fondamentali del regno concernenti la trasmissione del potere sovrano, il diritto di proprietà dei capi famiglia, le stesse leggi del sovrano laddove richiamino norme appartenenti ai due diritti superiori, le obbligazioni assunte con patti e giuramenti anche nei confronti dei propri sudditi e degli stranieri e il dovere di impartire giustizia guardando al modello supremo rappresentato dal governo divino del mondo. Non si tratta di una sovranità illimitata, senza leggi morali, è una monarchia assoluta ma non arbitraria, che permette anche un consiglio permanente, gli Stati generali e provinciali come organi di consultazione, ma anche corporazioni, comunità, forme di associazione intermedia tra lo Stato e i sudditi, che non devono sconfinare nella sfera dell’autorità del sovrano.


Thomas Mun

Thomas Mun (Londra, 1571 – Londra, 1641) è stato un economista e commerciante inglese, autore di scritti economici e Capo della Compagnia Inglese delle Indie Orientali. È considerato "l'ultimo dei primi mercantilisti".

Mun inizia la sua carriera commerciando nel Mar Mediterraneo. Successivamente si stabilisce a Londra, accumulando un larga fortuna. Nel 1622, diventa membro della Commissione Permanente sul Commercio e del Comitato della Compagnia Inglese delle Indie Orientali, di cui diventerà anche Capo. La sua direzione della Compagnia coincide con un periodo di forte scarsità di argento in Inghilterra. Paradossalmente, Mun si troverà a difendere fra forti polemiche proprio la pratica della Compagnia di esportare ampie quantità di argento.

Nel 1621 pubblica A Discourse of Trade from England unto the East Indies, un lavoro che in larga parte è una difesa delle consuetudini della Compagnia. Mun è però ricordato soprattutto per il suo England's Treasure by Foreign Trade: probabilmente scritto intorno al 1630, viene dato alle stampe solo nel 1664, "pubblicato per il bene comune da suo figlio John" (come recita l'intestazione) e dedicato al Conte Thomas di Southampton, l'allora Tesoriere del Re.

Nonostante Mun sia spesso comparato al mercantilista Josiah Child, England's Treasure è considerato un ripudio delle idee di Gerard de Malynes. Mun considera il commercio come l'unico modo utile per l'Inghilterra per incrementare la propria ricchezza e suggerisce alcune politiche per raggiungere l'obbiettivo, come:

consumare beni in maniera parsimoniosa, in modo da aumentare l'ammontare di beni disponibili per l'esportazione;

aumentare lo sfruttamento delle risorse naturali domestiche, in maniera tale da diminuire le importazioni;

abbassare i dazi sulle esportazioni di prodotti domestici, ma prodotti con materiale importato;

difendere le proprie esportazioni con una domanda inelastica, affinché potessero crescere i prezzi e potesse essere prodotta più moneta.

England's Treasure by Foreign Trade è inoltre il primo testo in cui viene enunciata la teoria del pareggio nel commercio internazionale e in cui viene riconosciuta l'esportazione di servizi (o "beni invisibili") come voce importante del commercio.


Jean-Baptiste Colbert

Jean-Baptiste Colbert (Reims, 29 agosto 1619 – Parigi, 6 settembre 1683) è stato un politico ed economista francese.

La sua opera fu diretta principalmente ad accrescere la ricchezza del Paese, incoraggiandone lo sviluppo industriale e coloniale. Modernizzò le finanze pubbliche francesi, salvandole dalla bancarotta e facendo raggiungere il pareggio al Bilancio dello Stato, ma la sua opera risanatrice fu gravemente ostacolata dalle enormi spese belliche di Luigi XIV. Nel 1669 ottenne dal re la creazione del Ministero della Marina, carica di cui fu il primo titolare e che fece di lui il padre della moderna marina francese. La politica di Colbert è considerata una delle più genuine interpretazioni del mercantilismo.

I primi anni

Nato da una ricca famiglia di Reims che esercitava la mercatura dei panni, Colbert entrò nel servizio di Stato nel 1643, alle dipendenze del Louvois, influente ministro della guerra. La nomina pare fosse stata favorita dal fatto che uno zio era cognato del ministro. Dopo un periodo trascorso come ispettore divenne, nel 1645, segretario personale del ministro. Nel 1648 sposò la ricca ereditiera Marie Charron e, l'anno successivo, ottenne la nomina a consigliere di stato grazie al cardinale Mazzarino che prima di morire lo raccomandó al re Luigi XIV.

Mazzarino e la rapida ascesa

L'importanza dei suoi incarichi e la competenza a svolgerli, conquistarono a Colbert la fiducia del cardinale Giulio Mazzarino, primo ministro per conto della reggente Anna d'Austria e del piccolo Luigi XIV. Quando, a causa della Fronda dei principi, il cardinale italiano venne costretto a prendere la via dell'esilio (1651), nominò Colbert amministratore dei beni lasciati in Francia. Con il ritorno in trionfo del cardinale a Parigi (1653), la sua scalata verso i più ambiziosi traguardi ebbe un'ulteriore accelerazione: Mazzarino lo nominò, con il titolo di intendente, amministratore ufficiale del suo immenso patrimonio, uno dei più grandi dell'epoca (alla sua morte, nel 1661, ammonterà a quasi quaranta milioni di livre tornesi. Per stabilire un ordine di grandezza, il patrimonio del ricchissimo Colbert venne stimato attorno ai cinque milioni di lire, quello di Nicolas Fouquet ai quattro). Come è facile immaginare, la carica permise a Colbert di introdursi nei riservati meandri della finanza e dell'amministrazione statale. Nel 1659 contribuì alla repressione di rivolte in Normandia, Angiò e Poitou.

Morte di Mazzarino, presa di potere di Luigi XIV, vittoria su Fouquet

Giulio Mazzarino morì il 9 marzo 1661. A seguito di ciò, Luigi XIV prese ad esercitare direttamente le funzioni regie. Aveva, però, bisogno di validi aiutanti. Nel suo testamento, il cardinale gli raccomandava Colbert. Mazzarino aveva pure nominato il sovrano suo erede universale, a parte una forte dote lasciata alle nipoti e ad altri legati minori, anche a favore di Colbert, che si vide assegnare la casa in cui abitava. Quest'ultimo, forte della carica di amministratore dei beni del defunto, aiutò Luigi XIV a recuperarne una buona parte e ciò fece aumentare di parecchio la considerazione del futuro Re Sole nei suoi confronti.

Nei mesi successivi si aggravò lo scontro tra Colbert ed il sovrintendente alle finanze Nicolas Fouquet. Colbert ne aveva già denunciato la gestione - caotica e non priva d'ombre - delle finanze pubbliche francesi. Ora ne ottenne la disgrazia. Il re fece arrestare lo sfortunato sovrintendente a Nantes, il 15 settembre 1661. Si è spesso sostenuto che in ciò abbiano avuto un ruolo non lieve l'invidia e la gelosia di Luigi XIV verso Fouquet che - pare - avrebbe addirittura tentato d'insidiargli l'amante.

La politica di Colbert

Un uomo, tante cariche

Battuto ed incarcerato Fouquet, i progetti di Colbert e la sua politica riformatrice non ebbero più ostacoli. Nello stesso 1661 che aveva visto la caduta del sovrintendente, entrò a far parte del neo istituito consiglio delle finanze. Nel 1665 diventò controllore generale delle finanze (la carica di sovrintendente, come si vede, era stata soppressa), nel febbraio del 1669 eccolo ministro della real casa e, un mese dopo, come già accennato, alla guida del nuovo ministero della marina. Un poco alla volta, accumulò nelle sue mani quasi tutte le cariche di governo, a parte gli esteri e la guerra.

Riforme amministrative e finanziarie

Colbert creò un nuovo tipo di stato, governato dal centro, in cui gli aristocratici vennero estromessi dal governo delle province a favore degli intendenti, nuove figure di funzionari borghesi, nominati in base a criteri meritocratici e che dovevano al re la loro carriera. Venne modernizzata l'amministrazione finanziaria e ridotto il costo enorme connesso all'esazione dei tributi. Con modalità sbrigative vennero cancellati - o fortemente ridotti - i debiti dello stato privi di sufficiente giustificazione. Si cominciò a redigere un bilancio preventivo.

Colbert fallì nel proposito di rendere più equo il sistema fiscale, in parte per le forti resistenze che incontrava un simile proposito, in parte perché le continue guerre, in cui il Re Sole prese ad impegnarsi, mandarono nuovamente a picco i conti pubblici, tarpando le ali a riforme ambiziose. Riuscì però a ridurre la concessione di esenzioni ingiustificate e ad abrogarne un buon numero. Inoltre aumentò il peso della tassazione indiretta, a cui i privilegiati non potevano sottrarsi.

Il Colbertismo

Il mercantilismo è definito, in Francia, Colbertismo, in onore all'uomo che ne fu il maggior ispiratore. Alla base di questo particolare sistema di governare l'economia sta una considerazione molto semplice. Essendo la ricchezza di uno stato basata sulla quantità di moneta, è necessario, per arricchire il paese ed aumentarne la potenza, incrementare le esportazioni (apportatrici di nuova moneta) e diminuire le importazioni (che fanno perdere moneta a vantaggio dei concorrenti). Si tratta di un modo di pensare oggi ampiamente superato, anche se non del tutto. Per favorire le esportazioni, la produzione nazionale deve abbracciare il più alto numero possibile di settori merceologici e raggiungere in essi standard qualitativi così elevati da sbaragliare la concorrenza. Nel tentativo di raggiungere questi obiettivi, Colbert divenne il vero padre dell'industria francese del lusso. Un esempio di questo atteggiamento fu la creazione, nel 1665, della stazione di monta equina di Tarbes allo scopo di diminuire l'importazione di cavalli dall'estero.

Le Manifatture Reali

Le corporazioni frapponevano molti ostacoli all'apertura di nuove iniziative economiche. Colbert li aggirò creando le manifatture reali. Erano queste degli stabilimenti - a volte di proprietà della corona, più frequentemente di privati - a cui venivano concessi vari aiuti da parte dello stato che potevano variare dai semplici sgravi fiscali, alle sovvenzioni pubbliche, finanche alla concessione del monopolio in determinati settori.

Sorsero così le famose manifatture di Gobelins (arazzi) e Beauvais (tappezzerie), venne favorita l'industria della seta di Lione, si tutelarono gli inventori, si proibì l'emigrazione degli artigiani esperti, assumendone nel contempo dall'estero, come nel caso dei maestri veneziani esperti nella fabbricazione degli specchi e del vetro (causando veri incidenti diplomatici con la Serenissima Repubblica di San Marco che, "colbertista" già da secoli, non vedeva di buon occhio simili pratiche concorrenziali, facendo assassinare da sicari i maestri vetrai espatriati in Francia). Tutte queste industrie del lusso servivano, naturalmente, anche ai consumi della corte ed all'arredamento dei palazzi reali.

Lo stato intervenne pesantemente anche fuori dal settore del lusso, cercando di strappare ad inglesi, olandesi e fiamminghi il monopolio della produzione dei panni ed incoraggiando, per chiari motivi, l'industria metallurgica e delle armi (in quel periodo sorse la famosa fabbrica di Saint-Étienne).

A tutto questo si aggiunse l'imposizione di tariffe doganali tese a sfavorire le importazioni ed a favorire le esportazioni.

I controlli

Per garantire i già menzionati standard di qualità, che dovevano caratterizzare il prodotto francese e farlo preferire a quello dei concorrenti, le autorità stabilirono un complesso sistema di minuziosi regolamenti, che disciplinavano le varie tecniche di produzione. Far rispettare detti regolamenti, come informare il governo di progressi e necessità delle manifatture, era compito di un corpo di ispettori appositamente creato da Colbert. In caso d'infrazione, venivano previste varie pene, compresa la berlina. Vennero create in tutta la Francia commissioni per controllare la qualità della produzione delle fabbriche. I prodotti mal riusciti venivano esposti in pubblico con un cartellino che indicava il nome del responsabile. Dopo due errori i colpevoli venivano legati ed esposti al pubblico, e i funzionari invitavano la folla a insultarli. La pigrizia, la negligenza o la insubordinazione sul lavoro venivano punite con severità militare, anche con la fustigazione.

Le Ordonnances

Colbert esercitò anche una consistente attività legislativa. Tra le iniziative di maggior rilievo, vanno ricordate le quattro Ordinanze che, emanate tra il 1667 ed il 1681, estenderanno la loro influenza sul diritto francese fino alla rivoluzione ed oltre. In ordine cronologico, esse furono:

Ordonnance civile pour la réformation de la justice (1667), sulla riforma della giustizia civile, a cui si sarebbe ampiamente ispirato il Codice di procedura napoleonico;

Ordonnance criminelle (1670), sulla procedura penale, che stabiliva un sistema decisamente intimidatorio (ad esempio, regolava in maniera minuziosa l'uso della tortura);

Ordonnance du commerce (1673), il primo "codice di commercio" dell'era moderna. Stabiliva un regolamento generale del commercio di terra e venne redatta, sentito il parere delle varie corporazioni e delle giurisdizioni mercantili, con il determinante apporto personale del mercante parigino Jacques Savary, grande esperto di giurisprudenza commerciale. In suo onore è anche indicata come Code Savary;

Ordonnance de la marine (1681). Avente ad oggetto il commercio sui mari, era una rielaborazione delle consuetudini marittime, talmente perfezionata che non solo ispirò i legislatori napoleonici, ma pure i successivi codici della navigazione.

Marina e colonie

L'Ordinanza del 1681 è l'occasione per passare ad un altro aspetto di primaria importanza nella politica di Colbert, quello concernente la marina e le colonie. Colbert era intenzionato a ridurre gli esborsi che la Francia era costretta ad affrontare, poiché buona parte del suo commercio marittimo si svolgeva tramite navi straniere, soprattutto olandesi. Inoltre, per consentire al paese l'approvvigionamento a basso costo di materie prime e dotarlo di sbocchi commerciali protetti dalla concorrenza, sviluppò l'espansione coloniale francese e la marina da guerra. L'accento posto sull'espansione marittima intercontinentale era proprio di Colbert, poiché il Re Sole pensava praticamente solo a quella terrestre, in Europa.

La Marina militare e gli arsenali

In campo militare, si rammodernò l'arsenale di Tolone, se ne impiantò un altro a Rochefort, si crearono scuole navali a Rochefort, Dieppe, Saint-Malo. Con l'apporto di Vauban, vennero fortificati, tra gli altri, i porti di Brest, Calais, Dunkerque, Le Havre. Come si era fatto in altri settori, anche in quello delle costruzioni navali si fece ricorso all'ingaggio di esperti lavoratori stranieri, soprattutto tedeschi originari delle città facenti parte la Lega Anseatica.

Per garantire personale alla flotta, Colbert introdusse un sistema di leva. Ogni marinaio doveva svolgere sei mesi di servizio ogni tre, quattro o cinque anni, a seconda della classe cui era assegnato. Nei tre mesi seguenti la fine di ogni periodo d'imbarco, il marinaio avrebbe continuato a ricevere metà della paga. Il governo, inoltre, promise pensioni al personale di bordo. In breve, Colbert prese tutte le iniziative per rendere popolare la marina.

Per riempire i banchi di rematori, si ricorse alla costrizione. Esistono lettere di Colbert a giudici, per incoraggiarli a condannare alla galea il numero più alto possibile di criminali, compresi coloro per cui era prevista la pena di morte e raramente, alla fine della pena, il condannato al remo era liberato. Lo stesso destino incontravano mendicanti, contrabbandieri, coloro che avevano partecipato ad una rivolta, nonché schiavi africani, russi, turchi ed irochesi. Bisogna comunque notare che, all'epoca, praticamente tutte le marine praticavano simili politiche d'arruolamento per i rematori.

La Marina Francese ha pagato parte del suo debito alla memoria di Colbert dedicandogli, nel tempo, sei navi: una corvetta a vapore (1848), una nave da battaglia (1875), un cargo (1914), un dundee (1916), un incrociatore (1928), un incrociatore lanciamissili (1959).

La Marina mercantile e le Compagnie

Colbert incoraggiò pure la marina mercantile, imponendo tributi supplementari alle navi costruite all'estero e sgravi fiscali a quelle costruite in Francia. Analogamente alle leggi che proibivano l'emigrazione di lavoratori esperti, poi, si stabilì la condanna a morte per il marinaio francese che avesse servito su navi straniere.

Per sviluppare il commercio marittimo, si crearono porti franchi a Dunkerque, Marsiglia, Bayonne e, perché detto commercio si svolgesse in condizioni di relativa sicurezza, si combatté con decisione la pirateria.

Un ulteriore impulso al commercio su lungo raggio venne dalle compagnie privilegiate. Queste erano una creazione tipica dell'Età moderna, che ebbero nel Seicento il loro secolo d'oro. Venivano promosse dagli stati, per attrarre capitali privati a supporto di iniziative commerciali e coloniali. Ad esse lo stato concedeva potestà pubbliche (quale il governo dei territori da sviluppare) ed altri privilegi (da cui il nome), come l'esenzione dalle imposte, il monopolio del commercio nazionale diretto verso determinate aree, la responsabilità limitata per i soci.

In Francia, durante gli anni di Colbert, furono fondate o rilanciate la Compagnia delle Indie Orientali, per i traffici con l'Oceano Indiano), la Compagnia delle Indie Occidentali, per quelli con le Americhe, la Compagnia del Levante (Mar Mediterraneo orientale ed Impero Ottomano), la Compagnia del Senegal (coste dell'Africa), la Compagnia del Nord (mari boreali, fino ad allora monopolio degli olandesi). Queste compagnie non raggiunsero i risultati sperati, anche a causa delle guerre, ma contribuirono al consolidamento dell'espansione coloniale francese, soprattutto nelle Antille e in Canada.

In generale, se la Francia fallì nel proposito di soppiantare i concorrenti olandesi ed inglesi nei commerci oceanici, comunque l'età di Colbert vide enormi sviluppi anche nella marina mercantile, che raddoppiò il suo tonnellaggio complessivo.

Il sostegno al commercio interno

Colbert cercò pure di sviluppare il commercio all'interno della Francia. Fece costruire strade e canali, tra cui il Canal du midi (tra il 1666 ed il 1681), potenziando, nel contempo, i servizi postali. Lottò anche contro i dazi e le dogane interne, ma qui la sua azione fu gravemente ostacolata dai particolarismi e così, alla fine del suo periodo di governo, il paese non costituiva ancora un unico spazio doganale.

Alleggerì la Taille sull'agricoltura, ma mantenne intatto il sistema di dazi interni sui cereali, impedendone oltretutto l'esportazione, tranne che negli anni d’abbondanza. Tarpò così le ali allo sviluppo agricolo, spaventato, forse in maniera eccessiva, da cosa sarebbe successo in caso di carestia.

La religione

La politica religiosa di Colbert non fu particolarmente degna di nota ed il suo ruolo nelle varie contese tra il re ed il papa fu sempre modesto.

In compenso, simpatizzava con chi proponeva una qualche riduzione della ricchezza del clero, da effettuarsi mediante massicce confische (il progetto, come noto, sarà attuato dai governi rivoluzionari alla fine del secolo successivo). Per aumentare la produttività, ridusse il numero delle feste religiose e, sempre per l'identico motivo, progettò di ridurre il numero di persone che si dedicavano alla vita consacrata, innalzando l'età minima per entrare in convento.

La cultura

Colbert contribuì pure al rafforzamento d’importanti istituzioni culturali. Membro dal 1667 dell'Accademia di Francia, creò l'Accademia delle Scienze (1666), nonché quelle d’Architettura (1671) e Musica, riorganizzò l'Accademia di pittura e scultura già creata da Mazarino. In Italia, fondò l'Accademia di Francia a Roma. Chiamò a Parigi Giovanni Domenico Cassini, per dirigere il neonato osservatorio astronomico.

Arricchì il Louvre di opere d’arte, elargì pensioni ad uomini di lettere di grande spicco come Molière, Jean Racine e Pierre Corneille, aiutò scienziati come Christiaan Huygens ed il geografo Vossius, contribuendo così a creare l'immagine aurea della Francia all'epoca del Re Sole.

Morte

Verso la fine della sua esistenza soffrì di dolori di stomaco, che lo costrinsero a pasti a base di pane e brodo, e lo condussero alla morte poco dopo aver compiuto 64 anni. I medici che ne esaminarono il corpo trovarono che soffriva di calcoli renali: ne venne trovato uno piuttosto grosso nelle vie urinarie, tale da giustificare la sua penosa agonia.

Lascito di Colbert

Molte delle sue iniziative, senza dubbio, fallirono: l'eccessiva regolamentazione delle industrie ostacolò l'iniziativa imprenditoriale, le Compagnie commerciali ebbero più periodi bui che di luce, sugli oceani la marina francese non soppiantò quelle concorrenti, l'agricoltura (da cui la grande maggioranza dei francesi traeva il suo sostentamento) fu penalizzata dalle politiche commerciali e dalla distribuzione dei capitali a vantaggio di industria e marina, i dazi provocarono ritorsioni contro il commercio francese, il pareggio di bilancio si rivelò effimero a causa delle spese belliche, eccetera.

Nondimeno, Colbert contribuì in maniera decisiva alla nascita di un nuovo tipo di amministrazione pubblica, basata su un corpo di funzionari selezionato ed in contatto con il potere centrale. Si tratta di un modello che, nelle sue molteplici forme e con i suoi pregi e difetti, ha influenzato profondamente la storia della Francia e quella dei paesi che ricalcarono la sua organizzazione amministrativa.

Le industrie del lusso create in quegli anni sono le progenitrici di quell'industria della moda in cui la Francia ha avuto per lungo tempo una preminenza quasi assoluta ed in cui è, tuttora, una delle principali giocatrici a livello mondiale. L'importanza che venne attribuita alla creatività di artigiani ed inventori è l'antesignana degli odierni diritti di privativa, attraverso cui lo stato tutela le invenzioni ed il design industriale.

Soprattutto, Colbert è un uomo del suo tempo. La principale differenza tra la sua personalità e quella del sovrintendente Fouquet è, forse, proprio questa: il sovrintendente viveva ancora nel Cinquecento, aspirava ad essere un principe rinascimentale, con il suo splendido castello e la sua corte di intellettuali ed artisti. Ma, nella Francia di Luigi XIV, non c’era più posto per signori rinascimentali che facessero ombra al Re Sole. Colbert, uomo d'apparato, ligio al dovere, dimesso, al lavoro dalle cinque di mattina, incarnava, invece, il borghese di cui il re aveva bisogno per costruire il nuovo stato che aveva in mente. Un tipo umano, quello di Colbert, che nei tempi seguenti avrebbe incontrato sempre maggiori fortune.


William Petty

William Petty (Romsey, 27 maggio 1623 – Londra, 16 dicembre 1687) è stato un filosofo, medico ed economista inglese.

È noto soprattutto per essere stato il fondatore dell'aritmetica politica, disciplina che pone le basi dell'economia politica e della demografia, proponendo l'uso della statistica in materia di gestione pubblica. Glii si attribuisce anche l'enunciazione della teoria del laissez-faire in materia di politica economica. Al di là delle competenze settoriali, Petty può essere considerato un uomo universale nel senso rinascimentale del

Nato in una famiglia di commercianti di stoffe, il giovane William Petty viene descritto come precoce e intelligente. Si imbarcò nel 1637 come mozzo di marina, ma fu presto sbarcato in Normandia. Così a 14 anni fu accolto al Collège du Mont di Caen, importante scuola tenuta dai Gesuiti, dove studiò per un anno[1], mantenendosi con l'insegnamento dell'inglese. Tornò poi in Inghilterra con una sufficiente conoscenza di latino, greco, francese, e anche di matematica e astronomia, e si impiegò in Marina.

A vent'anni, nel 1643, lasciò la marina per andare a studiare in Olanda, dove sviluppò un forte interesse per l'anatomia. Grazie ad un professore inglese che insegnava ad Amsterdam, divenne il segretario personale di Hobbes, il che gli consentì di entrare in contatto con Descartes, Gassendi e Mersenne. Tornò in Inghilterra nel 1646 per andare a studiare medicina aOxford. Lì divenne amico di Hartlib e di Boyle, e membro dell'Oxford Philosophical Club.

Nel 1651 fu assistente di anatomia al Brasenose College di Oxford, e anche professore di musica al Gresham College di Londra. Nel 1652 seguì l'esercito di Oliver Cromwell come medico generale in Irlanda. La sua opposizione all'insegnamento tradizionale, e forse anche la sua adesione al nuovo metodo scientifico di Francis Bacon lo allontanarono da Oxford.

Nel 1654 fu incaricato di creare il catasto dell'Irlanda. Questo enorme lavoro fu completato in due anni, nel 1656, e divenne noto com Down Survey. Fu poi pubblicato quasi trent'anni dopo, nel 1685, con il titolo Hiberniae Delineatio. L'importanza dell'incarico consisteva nel fatto che Cromwell remunerava i suoi finanziatori in terreni, e anche William Petty fu pagato in terreni, ricevendo 30.000 acri (pari a circa 12.000 ettari) di terreni nel sud ovest dell'Irlanda, nonché 9.000 sterline. La dimensione del compenso suscitò sospetti di corruzione e di frode, che accompagnarono Petty fino alla sua morte, senza che però fossero mai prodotte prove concrete.

Tornato in Inghilterra, fu eletto al Parlamento nel 1659. Nonostante le sue posizioni politiche filocromwelliane, la restaurazione di Carlo II lo trattò con riguardo, pur privandolo di una parte delle sue proprietà.

Nel 1662 Petty contribuì alla fondazione della Royal Society scrivendo la sua prima opera di economia, il Trattato sulla fiscalità[2]. Applicò il suo interesse scientifico anche ad esperimenti di architettura navale, ma senza grande successo. Fatto cavaliere da Carlo II, nel 1666 tornò in Irlanda, dove passò gran parte dei vent'anni successivi.

Gli avvenimenti che lo condussero da Oxford all'Irlanda segnarono la sua evoluzione dalla medicina e dalle scienze fisiche verso le scienze sociali, alle quali da allora consacrò la propria vita. La prosperità dell'Irlanda divenne il suo maggior interesse, ed egli propose molti modi per tirar fuori il paese dalla sua arretratezza. Tornato a Londra nel 1685, vi morì nel1687, a 64 anni.

La sua celebrità è affidata ai suoi scritti di storia economica e di statistica. I suoi lavori di aritmetica, insieme con quelli di John Graunt, fondarono le moderne tecniche di calcolo demografico, e approfonditi da altri studiosi come Josiah Child furono alla base del moderno sistema assicurativo. Schumpeter, nella sua Storia dell'analisi economica, le descrive come "uno di quegli individui pieni di vitalità che trasformano in successo quasi tutto ciò che toccano, anche le sconfitte" e in effetti, benché abbia pagato il prezzo della molteplicità e dispersività dei propri interessi, William Petty resta una delle grandi figure del pensiero economico precedente ad Adam Smith.

Le influenze filosofiche

Nel contesto della filosofia ottimista del XVIII secolo, segnata dal nuovo spirito che poteva condurre Montesquieu a definire le leggi scientifiche come l'espressione "dei rapporti che derivano dalla natura delle cose", l'opera di Petty fu segnata da due notevoli influenze. Anzitutto quella di Thomas Hobbes, per il quale la teoria dovrebbe stabilire le condizioni necessarie "alla pace civile e all'abbondanza materiale". Hobbes si era consacrato alla pace, Petty scelse di dare priorità alla prosperità.

Per un altro verso fu profonda l'influenza su Petty di Francis Bacon. Non diversamente da Hobbes, questi era convinto che la matematica e le scienze fisiche dovessero essere alla base di tutte le scienze razionali. Questa passione per l'esattezza condusse Petty a decidere che la sua pratica scientifica si sarebbe esercitata soltanto su fenomeni misurabili e avrebbe mirato alla precisione quantitativa, definendo così un nuovo terreno scientifico che egli chiamò aritmetica politica.

Le teorie economiche

Petty produsse tre opere economiche principali: Treatise of Taxes and Contributions (1662), Verbum Sapienti (1665) e Quantulumcunque concerning money (1682). Questi lavori, che attirarono l'attenzione durante gli anni 1690, contengono le innovazioni da lui apportate in numerosi campi.

La contabilità nazionale

Nel fare i suoi calcoli Petty introduce, nel Verbum Sapienti, le prime analisi rigorose del prodotto nazionale lordo e della ricchezza, che va ben oltre l'oro e l'argento. Egli stabilisce una stima del reddito personale medio che doveva raggiungere un valore di 6 sterline 13 scellini e 4 pence l'anno, il che per una popolazione di 6 milioni di abitanti dava luogo ad un PNL di circa 40 milioni di sterline. Petty produsse delle stime, di varia affidabilità, delle diverse componenti del reddito nazionale, comprendendovi la terra, la flotta, le proprietà personali e gli alloggi, e distinguendo tra valori di stock (stimati in 250 milioni di £) e flussi generati da questi ultimi (stimati in 15 milioni). La differenza tra questi flussi e la sua stima del reddito nazionale indicata sopra (40 milioni di £), condussero Petty a postulare che gli altri 25 milioni provenissero dai 417 milioni dello stock di lavoro, fossero cioè il valore della forza lavoro.

Questo calcolo produceva una stima della ricchezza totale dell'Inghilterra negli anni 1660, come ammontante a 667 milioni di sterline.

In questo senso si può affermare che l'analisi moderna del reddito abbia avuto inizio con Petty e Quesnay.

La fiscalità

All'epoca di Petty, l'Inghilterra era impegnata nelle Guerre anglo-olandesi, e nei primi tre capitoli del Treatise of Taxes and Contributions Petty cercò di stabilire dei princìpi ditassazione e spesa pubblica a cui dovesse adeguarsi anche il monarca, quando decideva di procurarsi fondi per la guerra. Petty elenca sei tipi di spesa pubblica (difesa, governo, cura delle anime, educazione, mantenimento degli invalidi di ogni tipo e infrastrutture) come "beni universali" (things of universal good), discutendo cause generali e particolari di modifica di questi oneri. Egli ritiene che sia un obiettivo importante la riduzione dei primi quattro tipi di spesa pubblica - e raccomanda invece di aumentare le spese destinate all'assistenza (agli anziani, ai malati, agli orfani ecc.), come quelle destinate a creare impiego pubblico.

Quanto all'aumentare le imposte Petty si mostra un ardente difensore della tassazione sui consumi. Raccomanda che la tassazione generale sia appena sufficiente a coprire la spesa pubblica come egli stesso l'ha definita, e che le tasse siano eque, regolari e proporzionali al reddito. Condanna l'imposte capitaria [3] come sommamente iniqua, e il dazio sulla birra un'imposta che pesa eccessivamente sui poveri. Raccomanda di organizzare informazioni statistiche di qualità molto superiore a quelle correnti, sulle quali impostare una tassazione più equa. Le importazioni dovrebbero essere tassate, ma non più di quanto serva per mantenere sul mercato i prodotti locali.

Un aspetto rilevante dell'economia di questo periodo è che si sta trasformando da sistema basato sul baratto a sistema basato sulla moneta. In quest'ottica, e consapevole della scarsità di moneta circolante, Petty raccomanda che le tasse siano pagabili anche con mezzi diversi dalla moneta in oro o argento, che egli stima non superi l'1% della ricchezza nazionale e alla quale, secondo lui, viene data troppa importanza.

L'offerta di moneta e la sua velocità di circolazione

L'ammontare dello stock di ricchezza mal si conciliava con l'offerta di moneta in oro e in argento, che raggiungeva soltanto i 6 milioni di sterline. Petty credeva che ogni nazione dovesse disporre di un ammontare monetario minimo, a fini di scambio commerciale. Così poteva capitare che si verificasse una scarsità di moneta circolante nell'economia, il che costringeva le persone a limitarsi al baratto. Poteva però anche capitare che vi fosse in circolazione troppa moneta. Ma la questione fondamentale che il filosofo si poneva era: i 6 milioni di circolante sono sufficienti a finanziare il commercio, specialmente se il re volesse disporre di altri fondi per finanziarie la guerra con l'Olanda?

Petty risolse la questione utilizzando la velocità di circolazione della moneta. Anticipando la teoria quantitativa della moneta (di cui spesso si è detto che sia stata iniziata da Jean Bodin), dove 

, dove Y è la produzione di ricchezza totale e MS è l'offerta di moneta, Petty stabilì che se la produzione di ricchezza Y cresce, mentre l'offerta di moneta MS è determinata e costante, allora è necessario che aumenti la velocità di circolazione v. Questo fenomeno potrebbe essere consentito dall'attività bancaria. Petty dichiarò esplicitamente che né la crescita della massa monetaria, né la sua diminuzione, intervenuta negli anni precedenti, sono la risposta universale a tutte le finalità di uno Stato ben ordinato, ma che questa risposta era appunto da ricercare nella maggiore velocità di circolazione, evidenziando così che la moneta è un mezzo, e non un fine. Ciò che colpisce in quest'analisi è il rigore intellettuale, che pone Petty molto più avanti degli scrittori mercantilisti. Il suo metodo dimostrativo si serve di riferimenti biologici - analogie che saranno utilizzate anche daifisiocratici francesi del Settecento.


Bernard de Mandeville

Bernard de Mandeville (Rotterdam, 15 novembre 1670 – Londra, Hackney, 21 gennaio 1733) è stato un medico e filosofo olandese.

D'origine olandese ma vissuto ininterrottamente dal 1693 in Inghilterra, ebbe fama ai suoi tempi come poeta satirico per il suo poemetto scritto nel 1705 in inglese con il titolo The Grumbling Hive, or Knaves Turn'd Honest (L'alveare scontento, ovvero i furfanti divenuti onesti) e ripubblicato nel 1714 con il titolo Fable of the Bees: or, Private Vices, Publick Benefits (La favola delle api: ovvero vizi privati, pubbliche virtù). Espressione quest'ultima, della seconda parte del titolo, divenuta d'uso comune per indicare un comportamento ipocritamente onesto agli occhi del pubblico che ne nasconde uno vizioso in privato. Il modo di dire era di uso corrente all'epoca della proiezione del film Vizi privati, pubbliche virtù (1976) per la regia di Miklós Jancsó. Il volume è stato poi ripubblicato, in un'edizione ampliata nel 1723 e nella versione definitiva, con ulteriori aggiunte, nel 1724.

Biografia

Bernard Mandeville o de Mandeville appartenne a una ricca famiglia di politici e medici olandesi. Le notizie sulla sua vita sono frammentarie.

Si sa che frequentò fino all'ottobre del 1685 a Rotterdam la "Scuola Erasmiana di Grammatica" dove si tenevano corsi per la composizione oratoria. L'orazione composta da Mandeville al termine del corso intitolata De medicina oratio scholastica (Discorso scolastico sulla medicina) è rivelatrice del suo iniziale interesse per la medicina.

Il 17 settembre 1686 si iscrisse alla facoltà di filosofia dell'Università di Leida dove, sotto la guida di Burcherus de Volder, pronunciò una dissertazione filosofica dal titolo Disputatio philosophica de brutorum operationibus (Discussione filososica su i comportamenti degli stupidi) dove sostiene la completa mancanza di un'attività intellettuale negli animali, esseri sciocchi.

Il 17 settembre e il 5 ottobre 1690 scoppiarono a Rotterdam dei tumulti a seguito della esecuzione capitale di Cornelius Costerman reo dell'uccisione di un esattore delle tasse. Il giovane Mandeville venne coinvolto insieme al padre in questi avvenimenti per aver composto e affisso pubblicamente una poesia satirica contro il borgomastro della città che aveva condannato a morte il Costerman. Nella breve satira intitolata Sanctimonious Atheist Bernard presentava il borgomastro come un ateo che ipocritamente si atteggiava a moralista.

A seguito di questi avvenimenti tutta la famiglia Mandeville fu espulsa da Rotterdam nel 1692 e si trasferì ad Amsterdam dove dieci anni più tardi morì il padre, Michel. Nel frattempo, il 30 marzo 1691 Bernard si era laureato in medicina sotto la guida e l'insegnamento di Wolferd Senguerd con una tesi dal titolo Disputatio medica inauguralis de chylosi vitiata, in cui analizzava il processo della digestione e evidenziava le principali cause dell'indigestione.

Dopo la morte del padre, Bernard decise di trasferirsi in Inghilterra dove assieme all'attività letteraria, prima come traduttore poi come polemista satirico, esercitò la medicina nel settore delle malattie nervose avendo elaborato una terapia fondata sulla parola (Treatise of the Hypochondriack and Hysterick Diseases, 1730). Per la sua attività di medico subì un'accusa e un successivo processo nel 1693 a Londra per averla praticata senza il regolare permesso.

Le fonti riferiscono che il 17 settembre del 1694 gli venne a Whitehall concesso il passaporto e che il 1º febbraio del 1699 sposò a St. Giles-in-the-Fields, Ruth Elisabeth Laurence, dalla quale ebbe, appena dopo un mese dal matrimonio, un figlio, Michael e, più tardi, una figlia, Penelope.

Ulteriore traccia della sua vita è la partecipazione come interprete al processo di divorzio del duca di Norfolk.

Sappiamo infine che nel luglio del 1723 il Grand Jury del Middlesex pronunciò una denuncia, che non ebbe seguito, di opera socialmente dannosa nei confronti del libro a cui è legata la fama di Mandeville: La favola delle api (The Fable of the Bees).

Bernard morì la domenica mattina del 21 gennaio 1733 ad Hackney. La notizia della morte è registrata nella parrocchia di St. Stephen, in Coleman Street a Londra.

Il pensiero

Nell'esercizio della sua professione Mandeville era stato assertore del metodo empiristico così com'era stato teorizzato da Francesco Bacone. Nelle polemiche che all'epoca agitavano gli studiosi dell'università di Leyden divisi tra aristotelici e cartesiani, Bernard si era schierato con quest'ultimi.

Successivamente, attratto dalla filosofia di Pierre Gassendi, noto esponente del libertinismo filosofico "erudito", il suo pensiero assunse sempre più un'impronta materialista.

Il pensiero di Mandeville si può desumere dal suo poemetto La favola delle api, all'inizio, nell'edizione del 1705, di soli 433 versi e successivamente ampliato nel 1714, nel 1723, nel 1724 e nel 1728 fino a divenire un'opera in due tomi.

Mandeville vuole fare luce «sull'anatomia della parte invisibile dell'uomo» per evidenziarne, quasi in senso medico, la struttura dei comportamenti economici, morali, religiosi e politici.

Le passioni nella vita dell'uomo

La vita dell'uomo risponde a «un composto di diverse passioni ciascuna delle quali, se viene eccitata e diventa dominante, di volta in volta lo governa, lo voglia egli o meno». Le passioni predominanti sono l'amor di sé (self-love) e l'amor proprio (self-liking): il primo coincide con l'istinto di autoconservazione di cui aveva scritto Hobbes, mentre l'amor proprio si rifà alla concezione dell' amour-propre éclairé (amor proprio illuminato) di Pierre Nicole, ossia a quel desiderio innato che ha l'uomo di essere apprezzato e lodato per le sue azioni.

L'origine della società

È l'amor proprio che spinge gli uomini ad associarsi sin dall'originario stato di natura e non l'istinto sociale aristotelico e neppure il potere assoluto del Leviatano di Hobbes.

Nell'opera Ricerca sull'origine della virtù morale del 1714 Mandeville riprende la teoria libertina dell'impostura politica delle religioni sull'origine della società secondo la quale tutte le manifestazioni storiche della divinità sono il risultato di volontà umane tese al controllo politico della società tramite il radicamento superstizioso nell'animo umano dei principi di obbedienza alle leggi, del rispetto dell'autorità, del controllo sociale dei comportamenti privati.

Dal 1728 il suo pensiero sociale muta avanzando un'originale teoria evoluzionista della società. Partendo dall'originario nucleo della famiglia e dagli elementi costitutivi di essa, Mandeville ipotizza tre momenti fondamentali dell'evoluzione della società: all'inizio gli uomini collaborano tra loro per la paura e per organizzare una difesa dalle bestie feroci, quando poi il pericolo è rappresentato da altri uomini, gli stessi per difendersi si uniscono in gruppi di famiglie, in clan ed infine, terzo decisivo momento dello sviluppo sociale è l'invenzione della scrittura.

La morale

Per quanto riguarda la morale secondo Mandeville la virtù è «ogni atto con cui l'uomo, andando contro l'impulso della natura, ricerca il vantaggio degli altri, o la vittoria sulle sue passioni, per un'ambizione razionale di essere buono». L'uomo cerca di comportarsi moralmente, forzando la sua natura, per mostrarsi buono: è l'amor proprio che lo spinge a tentare di agire per favorire il prossimo ma inutilmente poiché egli non può, preda com'è delle passioni, seguire i dettati della ragione e agire virtuosamente.

L'economia

Sul piano economico sostiene l'autonomia dell'economia dalla morale e da posizioni inizialmente mercantiliste nel corso degli anni si sposta verso concezioni via via sempre più liberiste arrivando a sostenere l'utilità del lusso.

« Frode lusso e orgoglio devono vivere,

finché ne riceviamo i benefici:

la fame è una piaga spaventosa, senza dubbio,
ma chi digerisce e prospera senza di essa? »

(B.de Mandeville, La favola delle api)

Certo un libertino agirà per soddisfare i suoi vizi ma «la sua prodigalità darà lavoro ai sarti, ai servitori, ai profumieri, ai cuochi e alle donne di vita: tutti questi a loro volta si serviranno dei fornai, dei falegnami ecc.» Dunque della rapacità e violenza del libertino se ne avvantaggerà tutta la società nel suo insieme. La sua teoria che i comportamenti viziosi generano la prosperità collettiva, ispirò numerosi autori d'economia come Adam Smith o Ayn Rand autrice dell'opera dal significativo titolo La virtù dell'egoismo.

In modo più estremo Mandeville arriva a sostenere la necessità del vizio poiché la ricerca della soddisfazione egoistica del proprio interesse è la condizione prima della prosperità.

Coloro che invece impostano la loro esistenza secondo il virtuoso principio di accontentarsi della propria condizione, questi in effetti conducono la loro vita nella rassegnazione e nella pigrizia danneggiando la produzione industriale, causando la povertà della nazione ed ostacolando il prodigioso sviluppo che sta portando l'Inghilterra alla Rivoluzione industriale.

Anche le calamità concorrono al benessere generale: il rovinoso incendio di un quartiere londinese ha provocato lutti e rovine, ma ora quelle costruzioni ridotte a macerie risorgerano più belle di prima grazie al lavoro di schiere di carpentieri, manovali ecc. che godranno per il nuovo lavoro di una vita più confortevole. Ecco un esempio che dimostra come la somma dei benefici causati da quell'evento disastroso abbia superato la somma dei lutti. Questo vale anche per le guerre dove ad ogni distruzione segue una grande rinascita.

La religione

Anche per la religione Mandeville segue le teorie libertine sostenendo l'origine psicologica degli atteggiamenti religiosi che originano essenzialmente dalle passioni umane, in primis dalla paura della morte.

La politica

Sul piano politico critica sia il contrattualismo, la teoria politica che concepisce lo stato come originato da un contratto sociale tra i cittadini e il potere, sia la teoria contrapposta dell'umanesimo civico (Machiavelli, Guicciardini) concezione che ha sempre creduto che tutto ciò che danneggia l'ordinata vita sociale, sia che venga dall'esterno o che abbia messo radici all'interno dello stato, siano gli stessi cittadini a doverlo combattere in ogni modo per estirparlo. Mandeville preferisce schierarsi in favore della tradizione che si richiamava all'Ancient Constitution, a quella Costituzione non scritta che regolava la vita politica inglese. Nel dibattito politico del suo tempo fu un sostenitore del partito whig e soprattutto della politica di Robert Walpole.

La critica del suo pensiero

Si è detto come Mandeville imposti il suo pensiero rifacendosi al materialismo di Hobbes e alle spregiudicate teorie politiche di Machiavelli. In realtà traspare da tutta la sua dottrina una complessiva visione teologica secondo la quale il piacere, ossia tutto quello che supera anche di poco i limiti della soddisfazione dei bisogni essenziali, debba considerarsi moralmente riprovevole e quindi vizioso. Se da una parte quindi sembra sostenere i vantaggi del vizio, condannando ogni morale ascetica e rinunciataria, d'altra parte condanna come peccaminoso tutto ciò che lo sviluppo economico industriale e culturale dell'Inghilterra del '700 offriva all'uomo per condurre una vita meno sottoposta ai disagi e alle fatiche.

Mandeville si dimostrò incapace di cogliere i primi segni di una morale umanistica e laica capace di apprezzare quanto di buono vi era nello sviluppo tecnico e culturale della prima rivoluzione industriale separandolo dagli aspetti deteriori di asservimento e sfruttamento dell'uomo.

Anche quando esalta il lusso seguendo pedissequamente le teorie liberiste, Mandeville dimostra di essere ancora sulla linea del capitalismo commerciale, secondo il quale la ricchezza consisteva soprattutto nella circolazione delle merci; egli non ha colto la novità del capitalismo industriale per il quale la condizione essenziale dello sviluppo e della ricchezza è rappresentato dall'accumulazione del capitale, cioè da quel risparmio, tipico dei severi ascetici puritani, che accumulando denaro, piuttosto che bruciarlo nel lusso, lo investivano generando produzione e ricchezza.(cfr. Ludovico Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, vol. III, Garzanti, Milano, 1971, pagg. 65-66)

Queste considerazioni critiche dello storico della filosofia Ludovico Geymonat sono state a loro volta accusate di essere anacronistiche poiché pretendono di giudicare una dottrina in base a proprie convinzioni ideologiche ancora storicamente inesistenti al tempo in cui quel pensiero si era sviluppato. Non si può cioè criticare il pensiero economico di Mandeville in nome di una concezione economica marxista che si svilupperà un secolo dopo.

Altri interpreti del pensiero di Mandeville vi hanno visto piuttosto una sorta di richiamo delle concezioni vichiane dell'eterogenesi dei fini secondo la quale i comportamenti particolari degli individui ispirati alla ricerca individuale del piacere e quindi al vizio raggiungano poi fini del tutto diversi nel conseguimento del benessere collettivo.

La favola delle api

La favola delle api è un poemetto satirico composto nel 1705 da Bernard de Mandeville di circa 433 versi e successivamente ampliato nel 1714, nel 1723, nel 1724 e nel 1728 fino a divenire un'opera in due tomi.

Pubblicata anonima nel 1705 con il titolo The Grumbling Hive, or Knaves Turn'd Honest (L'alveare scontento, ovvero i Furfanti resi onesti), nel 1714 l'operetta fu ristampata, con l'aggiunta del sottotitolo Vizi privati e pubbliche virtù e infine nel 1723 con il titolo Fable of the Bees: or, Private Vices, Publick Benefits (La favola delle api: ovvero vizi privati, pubbliche virtù)

Il pensiero dell'autore

L'opera, che risente delle idee libertine che si stavano sviluppando in Europa, vuol essere la critica di una ipocrita società, avviata allo sviluppo industriale, che vuol presentarsi come virtuosa nascondendo i suoi vizi, che paradossalmente, sostiene Mandeville, sono necessari per il benessere collettivo della società.

Furono proprio questi aforismi paradossali che stimolavano la fantasia collettiva a dare celebrità all'opera di Mandeville che arrivava a sostenere che è la ricerca della soddisfazione dei propri vizi (come il lusso, lo sperpero, l'invidia, la lussuria, ecc.) che fanno sviluppare e prosperare la società poiché essi mettono in moto l'aumento dei consumi dei più ricchi e quindi a fare circolare il denaro e ad aumentare il lavoro per le classi più povere.

Coloro che invece impostano la loro esistenza secondo il virtuoso principio di accontentarsi della propria condizione, questi in effetti conducono la loro vita nella rassegnazione e nella pigrizia danneggiando la produzione industriale, causando la povertà della nazione ed ostacolando il prodigioso sviluppo che sta portando l'Inghilterra alla Rivoluzione industriale.

La trama

L'alveare felice

In un apparentemente felice alveare viveva uno sciame di api in una società ben ordinata e regolata dalle leggi. Da loro non vi era tirannia né la democrazia che genera disordini. La loro vita era molto simile a quella degli uomini. Milioni di api lavoravano a produrre tutto ciò che serviva alla prosperità di cui godeva però a malapena la metà dell'alveare dove comparivano disparità sociali tra chi possedendo capitali faceva grandi profitti e coloro che si guadagnavano il pane con i mestieri più faticosi.

Altri infine senza ricchezze da investire, senza arte né parte, vivevano nel lusso sfruttando gli ingenui lavoratori: «Tali erano i cavalieri d'industria, i parassiti, i mezzani, i giocatori, i ladri, i falsari, i maghi, i preti.»

Quelle api che poi avessero voluto difendersi da quei malfattori cadevano nelle mani di altri furfanti come gli avvocati che mirando solo al loro onorario facevano in modo che le liti non si esaurissero mai, suscitando continui cavilli, usando le leggi per mandare in rovina chi si era rivolto a loro per aiuto e desiderio di giustizia.

Nella stessa categoria dei furfanti vanno inseriti i medici la cui competenza scientifica non va al di là di una qualche pratica acquisita superficialmente. Anch'essi non mirano che alle loro parcelle e a essere riveriti da quelli con cui agiscono in combutta arricchendosi con le nascite e i funerali: i farmacisti e i preti. Quest'ultimi individui ignoranti e pigri, pagati per attirare la benedizione di Giove sull'alveare, in realtà badano solo a soddisfare nel lusso i loro vizi mentre coloro che veramente conducono una vita di rinunce e preghiere muoiono di fame.

Allo stesso modo proprio i soldati che vilmente fuggono di fronte al nemico, alla fine vengono trattati meglio di coloro che si sacrificano al punto che, per aver subito numerose mutilazioni combattendo coraggiosamente, vengono messi da parte come inabili. Così dei ministri del re solo pochi fanno l'interesse del sovrano mentre molti fanno i loro comodi chiamando giusti emolumenti quelli che sono vere e proprie malversazioni che essi camuffano e nascondono agli occhi delle api approfittando delle loro prerogative.

Nell'alveare la spada della giustizia, che dovrebbe essere cieca, mentre vede bene l'oro che la corrompe, colpisce solo le api più povere e indifese che per necessità hanno commesso crimini e la sua bilancia pende sempre dalla parte dei più forti e ricchi

« Essendo così ogni ceto pieno di vizi, tuttavia la nazione di per sé godeva di una felice prosperità. era adulata in pace, temuta in guerra. Stimata presso gli stranieri, essa aveva in mano l'equilibrio di tutti gli altri alveari. Tutti i suoi membri a gara prodigavano le loro vite e i loro beni per la sua conservazione. Tale era lo stato fiorente di questo popolo. I vizi dei privati contribuivano alla felicità pubblica... Le furberie dello stato conservavano la totalità, per quanto ogni cittadino se ne lamentasse. L'armonia in un concerto risulta da una combinazione di suoni che sono direttamente opposti. Così i membri di quella società, seguendo delle strade assolutamente contrarie, si aiutavano quasi loro malgrado. »

La rivoluzione dei probi

Il popolo incostante delle api però non si rendeva conto di vivere nel migliore dei modi possibili e cominciò a lagnarsi delle ingiustizie e proprio colui che più si era arricchito a spese del re e dei poveri invocava la fine delle malversazioni. Costui era un guantaio che vendeva pelli d'agnello per pelli di capretto ma il popolo lo seguiva invocando la probità. Mercurio, il dio dei ladroni rideva della loro ingenuità, mentre Giove, adirato decise di soddisfare le api diffondendo per tutto l'alveare l'onestà e la giustizia. Venne così la rivoluzione.

« Ma, per Dio, quale costernazione! quale improvviso cambiamento! In meno di un'ora il prezzo delle derrate diminuí ovunque... Da questo momento il tribunale fu spopolato. I debitori saldavano di propria iniziativa i loro debiti... Nessuno poteva più accumulare ricchezze. La virtù e l'onestà regnavano nell'alveare. »

Gli avvocati si ritirarono dalla professione, i carcerieri e i fabbri, addetti alle catene e alle serrature, rimasero senza lavoro. La dea giustizia sostituì alla bilancia e alla spada l'ascia e la corda: divenuta rigida e inflessibile, allontanandosi dalle miserie umane se ne andò a dimorare sulle nuvole.

Nell'alveare rimasero solo i medici veramente abili nella loro professione che sentivano come loro dovere curare i malati servendosi solo delle medicine che la bontà degli dei dà agli uomini attraverso la natura. Dei preti rimasero solo coloro che credevano nella loro missione. Alla religione ora bastava la cura del pontefice che badava solo agli affari dell'anima lasciando allo stato le questioni politiche.

I ministri diminuirono di numero poiché una sola persona poteva compiere le funzioni che prima per molti erano solo occasioni di malversazioni. Niente più eserciti per incutere rispetto agli stati stranieri: si sarebbe combattuto solo per difendersi.

« Gettate ora lo sguardo sul glorioso alveare. Contemplate l'accordo mirabile che regna tra il commercio e la buona fede. Le oscurità che offuscavano questo spettacolo sono scomparse: tutto si vede allo scoperto. Quanto le cose hanno mutato il loro volto! »

Ogni cosa che andasse al di là della semplice sopravvivenza venne abbandonata. Ogni tipo di arte decadde. I libertini non scialacquarono più il loro denaro per mantenere le loro amanti nel lusso. Ogni spesa superflua venne abbandonata. Non vi fu più necessità di seguire la moda nell'abbigliamento e si usò la stessa veste per tutto l'anno.

La fine dell'alveare

« Una pace profonda domina in questo regno; e ha come sua conseguenza l'abbondanza. Tutte le fabbriche che restano producono soltanto le stoffe più semplici; tuttavia esse sono tutte molto care. La natura prodiga, non essendo più costretta dall'infaticabile giardiniere, produce bensì i suoi frutti nelle sue stagioni; però non produce più né rarità, né frutti precoci. A misura che diminuivano la vanità e il lusso, si videro gli antichi abitanti abbandonare la loro dimora. Non erano più né i mercanti né le compagnie che facevano decadere le manifatture, erano la semplicità e la moderazione di tutte le api. Tutti i mestieri e tutte le arti erano abbandonati. La facile contentatura, questa peste dell'industria, fa loro ammirare la loro grossolana abbondanza. »

Le api senza lavoro cominciarono ad abbandonare l'alveare che fu attaccato dai nemici. Le api combatterono valorosamente e vinsero, ma a caro prezzo, con la morte di parecchie migliaia di loro. Quelle rimaste, sfiancate dal duro ma onesto lavoro e dalla guerra non volendo più vivere in un alveare dove rinascesse il lusso e l'ingiustizia se ne andarono ad abitare nel cavo di un albero «dove a loro non resta altro, della loro antica felicità, che la contentatura dell'onestà.»

La triste sorte dell'alveare dunque insegna una volta per tutte che:

« Il vizio è tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame è necessaria per obbligarci a mangiare. È impossibile che la virtù da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa. »


Fisiocrazia

La fisiocrazia è una dottrina economica che si affermò in Francia verso la metà del XVIII secolo, principalmente nel triennio 1756 - 1758, in chiara opposizione al mercantilismo e con lo scopo di risollevare le sorti delle scarse finanze francesi.

Descrizione

La dottrina fisiocratica si basava sulle opere del medico ed economista François Quesnay, che scrisse nell'Encyclopédie le due voci "Fittavolo" e "Grani"; il suo Tableau économique (1758) costituì la base della dottrina.

Secondo il pensiero di Quesnay l'agricoltura è la vera base di ogni altra attività economica: solo l'agricoltura è infatti in grado di produrre beni, mentre l'industria si limita a trasformare e il commercio a distribuire. La fisiocrazia assume quindi il momento della produzione dei beni e non il momento dello scambio come situazione in cui viene creata ricchezza. Tutto il ciclo economico della fisiocrazia ha come fine ultimo quello di creare un surplus (o prodotto netto), che poi verrà investito nuovamente nell'agricoltura (per aumentare la produttività di un terreno, avere a disposizione più manodopera, compiere ricerche nel campo delle macchine agricole), attraverso una condizione di libero mercato.

Le classi sociali vanno anch'esse viste in rapporto alla funzione che svolgono all'interno del ciclo produttivo: chi investe il capitale iniziale e vive del prodotto netto fa parte della classe proprietaria o oziosa; i contadini, la classe che coltiva la terra e crea attivamente ricchezza, costituiscono la classe produttiva; chi trasforma i beni in prodotti finiti o si limita a consumarli fa parte infine della classe sterile.

La fisiocrazia ebbe una notevole influenza durante gli anni settanta del Settecento e quest'idea di libero mercato ispirò Adam Smith. Tuttavia, la visione fisiocratica dell'agricoltura venne rifiutata proprio da Smith e da David Ricardo: la teoria del valore basato sul lavoro, contrapposta a quella fisiocratica, ha appunto origine dalle opere di questi due economisti.

I fisiocratici furono i primi a teorizzare la nascita di un buon governo basato sul dispotismo. I pensatori classici che si erano susseguiti fino ad allora avevano sempre inserito, nella classificazione delle forme di governo, il dispotismo tra quelle corrotte. I seguaci di Quesnay, invece, ritennero che la migliore tipologia di governo fosse quella basata sull'essenza naturale dell'uomo: un unico individuo, illuminato, che avrebbe guidato i suoi sudditi verso il bene. Il dispotismo diventa in questo caso un "dispotismo illuminato"


François Quesnay

François Quesnay  (Méré, 4 giugno 1694 – Versailles, 16 dicembre 1774) è stato un economista, medico e naturalista francese. Fu il maggior rappresentante della fisiocrazia, la dottrina secondo la quale l'agricoltura è il solo settore che consente un aumento reale della ricchezza e quindi la Francia, grazie all'ampia disponibilità di terreni coltivabili, avrebbe dovuto privilegiare l'agricoltura piuttosto che le attività manifatturiere.

La vita

Gli anni della formazione

Quesnay nacque da una famiglia di contadini e commercianti. Il padre Nicolas ebbe per qualche anno (1689-1695) l'incarico di riscuotere i tributi per conto di un'abbazia e questo gli consentì di assicurare alla famiglia un discreto tenore di vita.

Sembra che uno dei primi maestri di Quesnay sia stato un giardiniere del padre, che gli fece leggere il libro L’Agriculture et Maison Rustique dei medici Charles Estienne e Jean Liébaut, una celebre enciclopedia della vita di campagna pubblicata nel XVI secolo e ristampata più volte fino agli inizi del XVIII. Ciò contribuì all'interesse di Quesnay per l'agricoltura e la medicina.

Non è noto come Quesnay abbia seguito gli studi. Si sa che nel 1711, pochi anni dopo la morte del padre (1707), decise di dedicarsi alla chirurgia seguendo prima gli insegnamenti di un chirurgo che esercitava nel vicino comune di Ecquevilly, poi recandosi a Parigi, dove sposò Jeanne-Caterine Dauphin nel 1717 e si laureò nel 1718.

Quesnay cominciò ad esercitare a Mantes-la-Jolie, dove si conquistò un'ottima reputazione, e ricevette nel 1723 il titolo di chirurgo reale (una sorta di medico legale).

Chirurgo di successo e polemista

Nel 1727 era apparsa un'opera sui salassi di un medico molto noto, Jean-Baptiste Silva. Quesnay ne mise a punto una critica basata sulle leggi dell'idrostatica, Observations sur les effects de la saignée, che venne pubblicata nel 1730, nonostante l'opposizone di Silva e dei suoi sostenitori, ed ebbe grande risonanza.

Nel 1734 Quesnay accettò l'invito del duca di Retz, futuro duca di Villeroy e capitano della seconda compagnia delle guardie del re, di recarsi a Parigi al suo personale servizio. Qui ottenne la protezione del primo chirurgo del re, La Peyronie, grazie al quale Quesnay divenne nel 1736 chirurgo reale, nel 1737 membro del Collegio di Chirurgia e professore reale di chirurgia, nel 1739 segretario dell'Accademia di Chirurgia.

Alcune sue opere del 1736, l'Essai physique sur l'économie animale e L'art de guérir par la saignée, vennero criticate ed anche accusate di plagio, soprattutto per la vivace opposizione dei medici, che consideravano i chirurghi alla stregua dei barbieri (un editto del 1656 assimilava le due attività).

Quesnay intervenne attivamente nella polemica, scrivendo la Refutation de la thèse de M. Maloet, Docteur en médicine, par un chirurgien (1736), la Résponse d'un chirurgien à la Lettre insérée dans la Mercure de France (1736), la Second mémoire pour les chirurgiens où l'on résoud le problème proposé par la Faculté de Médicine (1737; qui Quesnay sostiene che solo i chirurghi possono trattare le malattie veneree), la Résponse d'un chirurgien de S. Cosme à la première lettre de M. Astruc (1737), le Lettres sur le disputes qui se sont élevées entre les médicines et les chirurgiens (1738).

Placatasi momentaneamente la polemica, Quesnay curò il primo volume delle Mémoires de l'Académie de chirurgie (1743), per il quale scrisse una prefazione, che suscitò ampi consensi, e cinque memorie. Nello stesso anno, il re emise una dichiarazione che distingueva nettamente barbieri e chirurghi ed autorizzava questi ultimi a studiare il latino e la filosofia ed a fregiarsi del titolo di maître-ès-arts (dottore). Ne seguì uno strascico polemico, alimentato dal medico Procope, ma soprattutto l'ordine del re di precisare l'ambito della chirurgia. Ne risultò l'opera Recherches critiques et historiques sur l'origine, et les divers états et sur les progrés de la chirurgie en France (1744), di cui Quesnay fu uno dei quattro autori.

Medico della Pompadour

Nel 1744 Quesnay accompagnò il duca di Villeroy nella campagna delle Fiandre. Il re, Luigi XV, arrivò a Metz nel mese di agosto, ma si ammalò seriamente e venne salvato in extremis da Quesnay, che ne ricavò l'attribuzione del titolo di dottore in medicina (la gotta, che lo aveva colpito all'età di vent'anni, gli impediva ormai di operare come chirurgo). Nonostante la comprensibile opposizione degli ambienti medici, il nuovo titolo gli venne conferito dalla facoltà di Pont-à-Mousson dopo la discussione di una tesi De affectibus sopororis in genere (1744).

Nel 1745 Quesnay assistette la contessa di Estrades, amica della Pompadour, che si era recata in visita presso il duca di Villeroy ed aveva subito un attacco di epilessia. Fu in seguito a questo episodio che Quesnay si trasferì nel 1749 a Versailles su richiesta della marchesa di Pompadour, che lo volle come medico personale. Grazie a tale incarico curò anche Luigi XV, che lo chiamava il suo pensatore, e i membri della famiglia reale. In riconoscimento dell'efficacia della sua opera, il re lo nominò scudiero nel 1752. Nello stesso anno Quesnay divenne membro dell'Académie des sciences, l'anno dopo della Royal Society.

Può essere interessante ricordare che Quesnay rifiutò un incarico di fermiér général (riscossore di imposte), non volendo contribuire ad un prelievo fiscale che considerava dannoso per l'agricoltura e per il commercio, e che preferì acquistare una tenuta agricola nel Nivernese, in modo che i suoi figli potessero giovarsene in un modo utile alla patria.

La collaborazione con l'Encyclopédie

La vita di corte consentì a Quesnay di frequentare d'Alembert, Diderot, Buffon, Condillac e altri prestigiosi intellettuali del suo tempo. D'Alembert e Diderot gli chiesero di collaborare all'Encyclopédie e nel 1756 uscirono i suoi primi articoli, Évidence e Fermiers. L'anno successivo seguì l'articolo Grains, nel quale comparivano per la prima volta le «massime del governo economico», poi riprese più volte in scritti successivi.

La collaborazione si interruppe dopo l'attentato al re di Robert François Damiens e la successiva revoca, nel 1759, dei permessi di stampa accordati all'Encyclopédie nel 1746. La pubblicazione continuò clandestinamente, ma Quesnay preferì pubblicare altrove l'articolo Intérêt de l'argent e altri articoli cui aveva lavorato, Hommes e Impôts, vennero ritrovati e pubblicati solo molto tempo dopo (rispettivamente, nel 1899 e nel 1908).

La scuola fisiocratica

Nel 1757 Quesnay lesse L'Ami des hommes ou Traité sur la population del marchese di Mirabeau e chiese un incontro all'autore. Si ebbero poi altri incontri, ai quali parteciparono anche Turgot e Pierre-Paul Lemercier de La Rivière.

Per alcuni anni (fino al 1763), il nucleo della nascente scuola fisiocratica rimase costituito da Quesnay e da Mirabeau. In quel periodo Quesnay preparò più versioni del suo Tableau économique per discuterne con l'amico, il quale lo illustrò nella sesta parte del suo Ami des Hommes (1760). I due pubblicarono poi nel 1763 la Philosophie rurale ou économie générale et politique de l´agriculture, réduite à l´ordre immuable des lois physiques et morales qui assurent la prospérité des empires, di cui Quesnay scrisse il 7º capitolo e che costituì la prima esposizione organica delle idee e delle proposte dei fisiocratici. Nello stesso anno venne liberalizzato il commercio interno dei cereali ed autorizzata la loro esportazione, come se tali proposte avessero trovato ascolto, ed altri si aggiunsero alla nascente scuola, tra cui il giovane Pierre Samuel du Pont de Nemours; questi scrisse un Traité sur l'exportation et l'importation des grains (1764), che ebbe buona risonanza e gli valse l'amicizia di Anne Robert Jacques Turgot.

Nel luglio del 1765 Mirabeau acquistò il Journal de l'agricolture, du commerce et des finances, che divenne per qualche mese, fino a novembre, la rivista della scuola. Si aggiunse poi al gruppo Nicolas Baudeau, che aveva fondato nello stesso anno la rivista Éphémérides du citoyen; questa divenne la nuova tribuna dei fisiocratici dal gennaio del 1767. Tra gli articoli più significativi, il Despotisme de la Chine di Quesnay e l'Ordre natural et essentiel des sociétés politiques di Lemercier. Intanto du Pont pubblicava col titolo Physiocratie una raccolta di scritti di Quesnay.

Nel febbraio del 1768 Quesnay scrisse per la rivista le Lettres d'un fermier et d'un propriétaire, l'ultima sua opera di argomento economico. Diventavano intanto sempre più insistenti le critiche alla sua scuola (tra gli oppositori anche Voltaire) e nel 1772 la rivista ricevette l'ordine di cessare le pubblicazioni.

Gli ultimi anni

Negli ultimi anni di vita Quesnay si occupò prevalentemente di matematica, soprattutto di geometria. Poté assistere, nel 1774, alla nomina di Turgot a controllore generale delle finanze, al suo decreto che ristabiliva la libera circolazione dei cereali, al tentativo di Baudeau di ridare vita alle Éphémérides ed anche alla costruzione del nuovo Collegio di Chirurgia (ora Facoltà di Medicina). Si spense il 16 dicembre; due anni dopo, le dimissioni di Turgot (1776) segnarono la fine dell'influenza delle sue idee sulla politica economica francese.

La situazione della Francia ed i modelli inglese e olandese

La Francia dell'epoca di Quesnay non era più la florida potenza di Luigi XIV e di Mazzarino. La guerra dei nove anni (1689-1697) e la guerra di successione spagnola (1701-1713) avevano esaurito le forze francesi, lasciando il governo profondamente indebitato. A ciò si aggiungeva un'agricoltura che, escluse le regioni più settentrionali, era caratterizzata da una grande frammentazione della proprietà della terra ed usava ancora tecniche di coltivazione medievali. Vi erano spesso cattivi raccolti; negli anni 1740-1743 vi fu una seria crisi alimentare che provocò la morte di tre milioni di persone.

Restava ancora in auge la politica economica mercantilista di Colbert, basata sullo sviluppo della manifattura e del commercio, soprattutto marittimo, mentre l'agricoltura era gravata da dazi interni e da divieti all'esportazione (che causavano la riduzione dei prezzi negli anni di buon raccolto).

Nonostante gli sforzi di Colbert, tuttavia, l'Olanda riuscì ad assicurarsi il controllo del commercio col Baltico e con l'Oriente, mentre l'Inghilterra conquistava quote sempre maggiori del traffico atlantico. Tali due paesi, quindi, costituivano entrambi modelli vincenti per una Francia in crisi. Vi era tra loro una differenza: l'Olanda, poco estesa, privilegiava il commercio in tutte le sue forme ed anche l'agricoltura era in buona parte orientata ad esso, curando in particolare la produzione di lino per le tele, di coloranti per il panno, di orzo e luppolo per la birra, di canapa per le funi ecc.; l'Inghilterra, invece, dette grande impulso alla coltivazione dei cereali ed all'allevamento del bestiame, adottò tecniche agricole moderne basate sulla rotazione delle colture e, grazie anche ad altre innovazioni (recinzioni, grandi aziende, lunghe affittanze, aratro in metallo tirato da cavalli), nel periodo 1700-1770 fu uno dei principali esportatori di grano.

Quesnay si propose di convincere la Francia che tenere in vita il colbertismo equivaleva a seguire l'esempio dell'Olanda (un "piccolo stato marittimo") e che sarebbe stato invece opportuno adottare il modello inglese: modernizzazione dell'agricoltura, liberalizzazione dell'esportazione delle eccedenze agricole, importazione di manufatti.

Tableau économique

Nel suo Tableau économique descrisse il meccanismo economico come una struttura dinamica di tipo circolare il cui motore principale è rappresentato dall'attività agricola; è l'agricoltura, infatti, che produce quel surplus di ricchezza basilare per l'allargamento del sistema. Gli addetti all'agricoltura sono considerati da Quesnay gli unici lavoratori produttivi, mentre i mercanti e gli artigiani sono ritenuti una classe sterile, non di produttori, ma soltanto di distributori e trasformatori di ricchezza.

Il Tableau économique è un modello fisiocratico dove la società è divisa in tre classi:

1. Proprietari terrieri (aristocrazia)

2. Lavoratori sterili (artigiani, mercanti)

3. Lavoratori produttivi (contadini)

Il modello prevede un flusso di merci che viene prodotto e distribuito secondo uno schema basato sull'analogia con la circolazione sanguigna. Si tratta di un equilibrio economico stazionario, chiuso, in cui non c'è la distinzione tra fattori produttivi e beni prodotti.

Le Tableau économique si propone di mostrare come il prodotto sociale annuo circoli tra le classi che compongono la collettività, in modo tale da permettere la sua riproduzione nell’anno successivo. La società considerata da Quesnay riflette da vicino la società francese nel periodo precedente la rivoluzione.

La classe “produttiva” costituita dagli agricoltori;

La classe “sterile” costituita dagli artigiani, dai commercianti, dai domestici e da coloro che esercitano le professioni liberali (medici, avvocati, insegnanti ecc.);

La classe dei proprietari fondiari, che vivono delle rendite pagate loro dalla classe “produttiva”. La classe dei proprietari comprende nel suo ambito lo Stato e la Chiesa.

Consideriamo ora un momento successivo al raccolto e vediamo quali scambi dovranno avere luogo all’interno della collettività. Quesnay suppone che il prodotto agricolo abbia un valore di 5 miliardi di franchi e quello della classe sterile un valore di 2 miliardi di franchi. Egli suppone inoltre, per ragioni puramente espositive, che il denaro esistente ammonti a 2 miliardi di franchi e si trovi, inizialmente, tutto in possesso della classe produttiva. Tutti gli atti di circolazione di denaro e prodotti possono essere allora raggruppati nei sei seguenti:

1. Gli agricoltori (A) pagano ai proprietari (P) la rendita annua che ammonta a 2 miliardi;

2. I P usano un miliardo per acquistare dagli A i loro alimenti per l’anno successivo;

3. I P usano il miliardo di denaro loro rimasto per acquistare dalla classe sterile (S) i manufatti e i servizi di cui si serviranno l’anno successivo;

4. Gli S acquistano dagli A un miliardo di alimenti per la loro sussistenza;

5. Gli A acquistano dagli S un miliardo di manufatti e servizi per il loro uso nell’anno successivo;

6. Infine gli S acquistano dagli A un miliardo di materie prime da impiegare per la loro produzione dell’anno seguente.

Vediamo la situazione al termine degli scambi. È chiaro che alla fine del processo di circolazione i due miliardi di denaro sono tornati agli A (uno per la via A – P – A, l’altro per la via A – P – S – A – S – A). Dei 5 miliardi di prodotti agricoli 2 sono rimasti agli agricoltori: essi rappresentano la reintegrazione delle “anticipazioni annuali” (avances annuelles), ossia di quella parte di capitale (anticipato dalla classe produttrice) che consiste degli alimenti degli A per l’anno, nonché di semi, concimi, ecc., beni che dovevano esistere all’inizio dell’anno affinché la produzione degli A avvenisse.

Con questi 2 miliardi di prodotti loro rimasti gli A saranno in grado di riprodurre 5 miliardi l’anno dopo. Gli A si trovano inoltre in possesso, dopo gli scambi, di un miliardo di prodotti di S.

La classe sterile, d’altro lato, è in possesso di 2 miliardi di prodotti agricoli (alimenti e materie prime) che essa, nell’anno successivo, potrà trasformare in 2 miliardi di manufatti così come aveva fatto l’anno precedente. I P infine sono in possesso di alimenti per un miliardo e di manufatti per un miliardo. Sono quindi soddisfatte le condizioni perché l’anno successivo la riproduzione avvenga su scala immutata e la società possa continuare immutata la sua vita.

Possiamo ora capire perché Quesnay chiami “produttiva” la classe degli agricoltori e “sterile” quella degli artigiani, domestici, ecc. La prima, con “anticipazioni annuali” di due miliardi in prodotti agricoli è in grado di riprodurre 5 miliardi di quei prodotti: di riprodurre cioè le sue “anticipazioni” con un sovrappiù, o “prodotto netto” (produit net), di tre miliardi (Quesnay sembra non considerare il miliardo di manufatti in mano degli A come essenziali alla riproduzione agricola). Gli artigiani, invece non riproducono che le loro “anticipazioni” di 2 miliardi o, come Quesnay preferisce descrivere la cosa, essi non fanno altro che “trasformare” in manufatti equivalenti, 2 miliardi di prodotti agricoli. Così, secondo Quesnay, il prodotto sociale consiste solo dei 5 miliardi di prodotto agricolo. Di questi 5 miliardi, 2 – il loro ammontare determinato dalle sussistenze degli A (il “consumo necessario” di cui si è detto nell’introduzione), oltre che della quantità di semi etc. occorrenti per il nuovo ciclo produttivo – devono essere reimpiegati nella produzione: in caso diverso la classe degli A si ridurrà di numero e l’intero prodotto sociale si ridurrà in proporzione. Il rimanente, o sovrappiù, servirà, per un miliardo, al mantenimento di proprietari, Stato, Chiesa e, per i residui 2 miliardi, sarà trasformato dalla classe sterile (mantenendo nel processo anche questa classe) per tornare per il miliardo rimasto ai P.

Schema dell’analisi di Quesnay

I fisiocratici ritenevano che lo Stato dovesse astenersi il più possibile dall’intervenire nell’economia e lasciare che essa fosse regolata dalle “leggi di natura” (di qui il nome di Fisiocrazia, poi attribuito alla scuola). Le politiche seguite allora dallo Stato, e in particolare le imposte gravanti sugli A, portavano, a loro avviso, a una diminuzione delle anticipazioni annuali degli A e impoverivano quindi, per la conseguente diminuzione del sovrappiù, tutte le classi sociali. Circa i contributi di Quesnay a tutto il pensiero economico posteriore è importante ricordare:

la nozione di prodotto nazionale che appare qui per la prima volta in forma limpida;

l’analisi del capitale nelle sue forme di sussistenza dei lavoratori e prodotti da impiegare direttamente nella produzione;

distinzione tra capitale circolante (prodotti utilizzabili in un solo ciclo produttivo) e capitale fisso (prodotti utilizzabili in più cicli produttivi).

La teoria opera su quattro quantità che esprimono l’entità di altrettanti aggregati di prodotti. Le prime tre sono:

1. Il prodotto sociale annuo P;

2. Il consumo necessario N;

3. Quanto necessario per reintegrare i mezzi di produzione consumati nel corso della produzione dell’anno. Chiameremo C l’entità di quest’ultimo aggregato di prodotto.

Per Quesnay costituiscono dei dati:

1. Le condizioni tecniche della produzione agricola, nonché la composizione per merci del prodotto agricolo;

2. Quale parte del prodotto viene attribuito ad ogni lavoratore produttivo: parte determinata da quanto è necessario affinché egli possa vivere e riprodursi;

3. Il numero dei lavoratori produttivi.

Note le circostanze (1), (2), (3) sono note anche la quantità P, che dipende da (1) e (3); la quantità N, che dipende da (2) e (3); la quantità C che dipende da (1) e (3). La quantità C + N, che esprime la parte del prodotto sociale che deve essere reimpiegata nel processo produttivo affinché, l’anno successivo, esso possa ripetersi su scala immutata, è perciò nota. È inoltre possibile determinare per differenza

P – (N + C)

la quarta quantità: il sovrappiù S.

L’innovazione di Quesnay risiede nel fatto che nella sua formulazione di un modello matematico, seppur semplice ed incompleto, ci sono le premesse per il concetto macroeconomico dell'equilibrio economico generale e per il modello input-output di Leontief. Molti ritengono che il fondatore dell'economia politica sia stato Smith (1776) mentre Marx dirà che il vero fondatore è Quesnay per aver introdotto il concetto di un processo economico circolare seppure stazionario e chiuso, per non aver fatto distinzione tra fattori e mezzi produttivi, tra fattori produttivi (input) e beni prodotti (output) (è il concetto base della "Produzione di merce a mezzo di merce") e soprattutto per aver classificato e distinto le classi sociali, facendole coincidere con le classi economiche.

Economisti classici

Gli economisti classici sono cronologicamente la terza scuola di pensiero economico, dopo il mercantilismo (e il cameralismo) e i fisiocratici, e sono considerati la prima scuola moderna, che fonda la scienza economica come la conosciamo oggi.

Descrizione

L'interesse principale degli economisti classici è spiegare il processo di sviluppo economico, della società o della nazione e non più del sovrano o dello Stato, in un contesto storico materiale di rivoluzione industriale e di affermazione del capitalismo. L'interrogativo centrale è come la società possa progredire quando ogni individuo, sia pure appartenente ad una classe sociale, è libero di farsi guidare dal proprio interesse individuale. Come tale, la scuola degli economisti classici fa parte del pensiero dell'Illuminismo.

In sintesi, i principali temi trattati dal pensiero classico riguardano:

Il valore di scambio fra le merci (che rimanda alla teoria del valore-lavoro, cioè alla quantità di lavoro necessaria per produrle)

La distinzione fra prezzo di mercato e prezzo naturale (ed interesse per quest'ultimo)

L'idea che la curva di offerta delle merci sia orizzontale (a parte qualche eccezione come ad esempio i beni agricoli in David Ricardo) e che quindi sia l'offerta a determinare il prezzo naturale di esse, mentre la domanda ne determina solo la quantità

L'analisi economica in termini di capitale, terra e lavoro / profitto, rendita e salari

La teoria malthusiana della popolazione per spiegare il livello dei salari.

Il 1776, anno di pubblicazione de La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, è convenzionalmente considerato l'inizio della scuola classica, che offrirà contributi fino alla seconda metà del XIX secolo. Sempre convenzionalmente, la successiva scuola dell'economia neoclassica (o marginalismo) si data dal 1871-1874, anni di pubblicazione delle prime opere sistematiche di William Stanley Jevons, Carl Menger e Léon Walras. Ostile, e contemporanea, ad entrambe fu la scuola storica tedesca dell'economia.

Principali economisti classici

I principali economisti classici sono:

Adam Smith

Thomas Robert Malthus

Jean-Baptiste Say

David Ricardo

Frédéric Bastiat

Antoine Augustin Cournot

  John Stuart Mill

  Karl Marx

Adam Smith

Adam Smith italianizzato in Adamo Smith (Kirkcaldy, 5 giugno 1723 – Edimburgo, 17 luglio 1790) è stato un filosofo ed economista scozzese, che, a seguito degli studi intrapresi nell'ambito della filosofia morale, gettò le basi dell'economia politica classica.

Adam Smith viene considerato unanimemente il primo degli economisti classici, sebbene non sia facile individuare con precisione la fine del mercantilismo e l'inizio dell'età classica, poiché per un certo periodo ci fu una sovrapposizione tra le due correnti di pensiero.

Spesso Smith è stato definito il padre della scienza economica. In effetti, nonostante molti precursori dell'economia classica avessero prodotto singole tessere o parti dell'intero mosaico, nessuno di essi fu in grado di fornire in un'unica opera il quadro generale delle forze che determinassero la ricchezza delle nazioni, delle politiche economiche più appropriate per promuovere la crescita e lo sviluppo e del modo in cui milioni di decisioni economiche prese autonomamente vengano effettivamente coordinate tramite il mercato.

L'opera più importante di Smith è intitolata Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776). L'opera di Adam Smith chiude il periodo dei mercantilisti, da lui così definiti e criticati, dando avvio alla serie di economisti classici superando i concetti definiti dai fisiocratici. La ricchezza delle nazioni diventa il testo di riferimento per tutti gli economisti classici del XVIII e XIX secolo, come David Ricardo, Thomas Robert Malthus, Jean-Baptiste Say, John Stuart Mill. Questi o ne ripresero il contenuto per elaborare le proprie posizioni, anche divergenti fra di loro, oppure la criticarono alla ricerca di nuove vie. La ricchezza delle nazioni è però anche un importante libro di storia economica in quanto vengono descritte le trasformazioni dell'economia inglese del tempo.

La concezione di Smith a proposito dello scopo della scienza economica segue quella dei mercantilisti, tendente alla spiegazione della natura e delle cause della ricchezza delle nazioni. In termini moderni si direbbe che Smith fu un teorico della macroeconomia interessato alle forze che determinano la crescita economica, anche se le forze di cui parlava erano ben più ampie rispetto alle zone oggi analizzate dalla moderna economia, infatti il suo modello economico è ricco di considerazioni di tipo politico, sociologico e storico.

Cronologia

1723 – Nasce a Kirkcaldy, piccolo porto scozzese sul golfo della Firth of Forth dirimpetto a Edimburgo. La data di nascita è incerta; si sa che fu battezzato il 5 giugno. Suo padre, di nome Adam come il figlio, era controllore delle dogane (più precisamente esattore del dazio, incarnazione quindi di quella politica protezionistica e mercantilistica fortemente criticata dal figlio Adam jr.), morì nel gennaio del 1723; la madre, Margaret Douglas, proveniva da una ricca famiglia scozzese. Figlio unico e orfano di padre, Adam Smith jr. rimase molto legato alla madre da profondi sentimenti affettivi.

1737 – Dopo gli anni scolastici a Kirkcaldy, si iscrive all'Università di Glasgow dove viene influenzato dai corsi di Francis Hutcheson (1694-1746), professore di filosofia morale secondo il quale l'essere umano è guidato da due tipi di forze naturali: gli istinti egoistici (che incitano all'appagamento individuale) e gli istinti altruisti (che definiscono la propria coscienza morale).

1740 – Studia al College Balliol di Oxford, dall'atmosfera giacobita e anti-scozzese e del quale manterrà un cattivo ricordo.

1746 – Lascia Oxford e rientra a Kirkcaldy, senza progetti particolari.

1748 – Grazie all'appoggio di Henry Home (Lord Kames) e di Sir Oswald de Dunniker, viene invitato a sostenere lezioni pubbliche ad Edimburgo di retorica e letteratura.

1750 – Incontra David Hume, con il quale rimarrà sempre in contatto.

1751 – Sempre grazie a Lord Kames, ottiene la nomina alla cattedra di logica all'Università di Glasgow dove insegna logica e, successivamente, filosofia morale.

1752 – Succede a Francis Hutcheson alla cattedra di filosofia morale. Il contenuto dei corsi è stato a lungo conosciuto solo grazie ai ricordi lasciati da John Millar, suo brillante allievo. Solo nel 1896 Edwin Cannan ritrova e pubblica con il titolo Lectures of Jurisprudence le note dei corsi dell'anno 1763/1764. Nel 1958, vengono ritrovate e pubblicate da J. M. Lothian le note dei corsi di retorica e di lettere dell'anno 1762/1763. Questi documenti testimoniano dello stretto rapporto fra etica ed economia nel pensiero di Adam Smith.

1759 – Pubblica La teoria dei sentimenti morali che approfondisce il suo corso di etica insegnato a Glasgow ed introduce il principio di simpatia. La pubblicazione di questo libro, gli procurò una certa notorietà.

1761 – Pubblica Considerations Concerning the First Formation of Language in Philological Miscellany.

1764 – Lascia l'incarico all'Università di Glasgow per diventare precettore del giovane Duca di Buccleuch ottenendo una pensione di 300 lire sterline all'anno che conserverà per tutta la sua vita. Accompagna così il giovane nel suo tour della durata di quasi due anni, prevalentemente in Francia, inizialmente a Tolosa e poi a Parigi.

1765 – Incontra Voltaire a Ginevra.

1766 – Nel mese di febbraio giunge a Parigi dove entra nei grandi salotti parigini grazie alla sua reputazione e all'aiuto di David Hume. Qui frequenta D'Alembert, d'Holbach, Helvetius e, soprattutto, François Quesnay (fondatore della scuola dei fisiocratici) e Turgot. Nel novembre torna, sempre accompagnato dal Duca di Bucchleuch, a Londra.

1767 – Ritorna a Kirkcaldy, presso la madre, ed inizia la redazione de La ricchezza delle nazioni.

1776 – Il 9 marzo, nove anni dopo l'inizio della stesura, pubblica presso Strahan e Cadell l'Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni testo più noto come La ricchezza delle nazioni. Seguiranno varie riedizioni del testo che ottenne già all'epoca un'importante risonanza.

1778 – Viene nominato commissario delle dogane e si installa a Edimburgo. Malgrado l'attività lavorativa, si dedica alla riedizione della Ricchezza delle nazioni ed alla revisione, assai rimaneggiata, della Teoria dei sentimenti morali.

1790 – Muore il 17 luglio, lasciando istruzioni ad amici di bruciare gran parte dei suoi scritti. E così avvenne.

Opere

1759 – Teoria dei sentimenti morali (The Theory of Moral Sentiments), riedizioni nel 1761, 1767, 1774, 1781 e 1790.

1776 – La ricchezza delle nazioni (An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations), riedizioni nel 1778, 1784, 1786 e 1789.

1795 – Essays on Philosophical Subjects, testo redatto durante il periodo di Glasgow e pubblicato postumo.

Pensiero filosofico ed economico

Il pensiero di Smith trae origini da differenti fonti mediate dall'insegnamento di Francis Hutcheson il quale già cercò di sintetizzare la legge e il diritto naturale di Ugo Grozio, l'empirismo di John Locke e l'idea tipica dei filosofi scozzesi secondo la quale l'uomo è mosso dalle passioni più che dalla ragione. Adam Smith realizza una sintesi personale di queste influenze, alle quali si aggiungono gli influssi di David Hume – che Smith conobbe personalmente e con il quale intrattenne lunghi contatti –, dei filosofi francesi del XVIII secolo come Jean-Jacques Rousseau e Montesquieu, dei fisiocratici e di Turgot, conosciuti durante il suo viaggio in Francia.
Il pensiero di Adam Smith non si limita però ad una sintesi delle differenti correnti di pensiero esistenti: il suo merito è di avere apportato argomenti e tesi nuove, differenziandosi dagli insegnamenti di Francis Hutcheson anche per aspetti fondamentali.

Dell'opera di Adam Smith è stata fornita un'interpretazione basata sulla netta separazione fra la Teoria dei sentimenti morali e La ricchezza delle nazioni. Hanno seguito questa via autori tedeschi, che parlano di "Das Adam Smith Problem", come Bruno Hildebrand e Knies, ma anche Buckle, Jakob Viner e Louis Dumont secondo i quali nel primo libro l'analisi porterebbe sui sentimenti altruisti mentre nel secondo si tratterebbe di comportamenti egoisti. Più recentemente grazie ad una rivalutazione della Teoria dei sentimenti morali e del principio di simpatia ivi incluso da parte di autori come A. L. Macfie, Andrew Skinner e Donald Winch, si sostiene l'unità di pensiero di Adam Smith che, occorre ricordarlo, alla fine della sua vita riprese in mano la Teoria dei sentimenti morali per un'ulteriore revisione. Il principio di simpatia è quindi un elemento basilare anche della mano invisibile.
La "metodologia" smithiana è essenzialmente fondata sulla diffidenza verso l'idea di rigide leggi naturali da svelare (contrapponendo l'idea di sistemi filosofici come invenzioni dell'immaginazione) e sulla complessità delle motivazioni all'origine dei comportamenti umani, entrambi aspetti caratteristici dell'illuminismo scozzese che l'ha formato.

Principio di simpatia

La formazione del giudizio morale è oggetto di discussione della filosofia morale, tema con il quale anche i filosofi del XVIII secolo si sono confrontati. In modo assai generico, si identificano due correnti: una prima che fonda il giudizio morale sulla ragione e una seconda che ne ricerca le origini nelle passioni e nei sentimenti umani. Il dibattito verte anche sulla presenza innata del senso morale o la sua assimilazione dopo la nascita quale elemento culturale.

Seguendo l'approccio basato sui sentimenti, Adam Smith descrive nella Teoria dei sentimenti morali appunto, un sistema morale fondato sul principio di simpatia che comporta l'immedesimazione nelle passioni e nei sentimenti altrui e che differisce dalla benevolenza e dall'altruismo pur non sostituendosi all'egoismo. Per simpatia, sentimento innato nell'uomo, va intesa la capacità di identificarsi nell'altro, la capacità di mettersi al posto dell'altro e di comprenderne i sentimenti in modo da poterne ottenere l'apprezzamento e l'approvazione. E le norme sociali non possono che spingere verso modelli di solidarietà e integrazione sociale. Da questo sentimento gli individui deducono regole morali di comportamento. La coscienza morale non è allora un principio razionale interiore, ma, scaturendo dal rapporto simpatetico che l'uomo ha con gli altri uomini, presenta un carattere prevalentemente sociale e intersoggettivo.

In quest'ottica, ad esempio, il diritto di proprietà non è un diritto naturale come l'intendeva John Locke (anteriore ad ogni convenzione sociale) né un artificio storico come sostenuto da Hume, ma il risultato di un processo speculare di simpatia e socializzante che giustifica la proprietà in quanto possesso di un oggetto frutto di un lavoro personale e il cui furto implicherebbe un giudizio negativo dell'altro su sé stessi.

Il principio di simpatia non viene abbandonato da Adam Smith nella redazione de La ricchezza delle nazioni, al contrario questo soggiace allo scambio e al mercato: il panettiere produce pane non per farne dono (benevolenza), ma per venderlo (perseguimento del proprio interesse). Tuttavia, il panettiere – pur mosso dal proprio interesse di vendere il prodotto del suo lavoro per ottenere altri beni o lavoro altrui – produce quel pane che anticipa essere desiderato, apprezzato, dal cliente. In altri termini, il panettiere cerca l'apprezzamento del suo cliente, senza il quale egli non potrà vendere il proprio pane non soddisfacendo così i propri interessi.

Gli individui, mossi dal principio di simpatia vanno alla ricerca dell'apprezzamento degli altri, ed iniziano a lavorare, a costruire e ad accumulare, favorendo di conseguenza la produzione economica.

Divisione del lavoro

Nel libro primo de La ricchezza delle nazioni Adam Smith analizza le cause che migliorano il "potere produttivo del lavoro" e il modo con il quale la ricchezza prodotta si distribuisce naturalmente fra le classi sociali. La ricchezza di una nazione viene identificata all'insieme dei beni prodotti suddivisi per l'intera popolazione, si può quindi parlare di reddito pro-capite. La ricchezza viene prodotta attraverso il lavoro e può essere incrementata aumentando la produttività del lavoro o il numero di lavoratori. Il lavoro permette inoltre di determinare il valore di scambio di un bene: Adam Smith sviluppa così una teoria del valore-lavoro, in contrapposizione all'idea di una ricchezza proveniente dalla natura sostenuta dai fisiocratici.

La divisione del lavoro permette l'incremento della produttività del lavoro, come illustrato dal celebre esempio della "manifattura di spilli": se un individuo deve, da solo, fabbricare spilli partendo dall'estrazione dal suolo della materia prima fino alla realizzazione di ogni singola fase artigianale, riuscirà difficilmente a produrre quantità elevate di spilli in poco tempo; se a questo stesso individuo viene fornito il filo metallico già pronto riuscirà ad aumentare la sua produzione; con la suddivisione delle varie fasi artigianali e l'assunzione di queste da parte di più artigiani specializzati in una singola fase, allora la produzione di spilli sarà nettamente superiore alla somma degli spilli che verrebbero prodotti, dallo stesso numero di individui, nelle modalità produttive precedenti. Le ragioni dell'incremento produttivo indotto dalla divisione del lavoro sono tre: (a) aumento dell'abilità manuale di ogni lavoratore (specializzazione), (b) riduzione tempo perso per passare da un'azione o da un'attività all'altra, (c) diffusione, per il desiderio di ognuno di ridurre la propria pena lavorativa, ma anche per l'emergere di un'industria di costruttori di macchinari, dell'invenzione e dell'applicazione di macchine che facilitano e riducono il lavoro permettendo ad un solo lavoratore di realizzare l'attività di più persone. Questi vantaggi appaiono più facilmente nell'industria che nell'agricoltura e si applicano sia all'interno di un'attività (divisione tecnica) sia fra settori (divisione sociale).

La divisione del lavoro porta i suoi benefici in termini produttivi anche quando induce la differenziazione fra mestieri e professioni. Questo genera un'"interdipendenza sociale" e presuppone lo "scambio" e il "mercato", attraverso il quale un individuo cede beni da lui prodotti in sovrappiù rispetto ai propri bisogni per acquisire prodotti realizzati da altri e necessari per soddisfare gli altri bisogni.

Alla base della divisione del lavoro non vi è un atto razionale, ma una passione: la tendenza naturale a "trafficare".

La divisione del lavoro comporta però anche "conseguenze negative": la specializzazione verso un'unica attività e la realizzazione di operazioni semplici, ripetitive e meccaniche, non sviluppa l'immaginazione e riduce le capacità intellettuali dell'individuo. Per compensare questo effetto, Adam Smith sostiene lo sviluppo dell'istruzione finanziata dallo Stato.

La divisione del lavoro è incrementata e 'trainata' verso gradi applicativi via via più complessi, dall'evolvere della tecnica industriale che accompagna in relazione binaria e dipendente l'estensione del mercato, che può – non sempre – essere esteso attraverso sia lo sviluppo di mezzi e di infrastrutture di trasporto sia l'estensione del commercio estero. Ampliando il mercato, l'incremento della produzione che risulta da una maggiore divisione del lavoro può così trovare sbocchi commerciali.

Infine, la divisione del lavoro dipende dal "livello di risparmio": per incrementare la divisione del lavoro è necessario disporre di maggiore capitale fisso e circolante, entrambi finanziati con il risparmio realizzato nel periodo precedente. Il risparmio, essendo una condizione per la divisione del lavoro, è dunque un elemento determinante per lo sviluppo economico.

Senofonte e Diodoro Siculo come pure William Petty e Francis Hutcheson, suo maestro, hanno affrontato la divisione del lavoro prima di Adam Smith, il quale ne fa però un elemento centrale per comprendere le ragioni della ricchezza e del benessere di una nazione.

Valore di scambio e ripartizione dei redditi

Con il celebre esempio dell'acqua e del diamante, Adam Smith introduce la distinzione fra "valore d'uso" (utilità) e "valore di scambio" (facoltà che il possesso di un oggetto conferisce nell'acquisire altri beni). L'acqua, bene quanto mai necessario, ha un prezzo inferiore al diamante, il più superfluo fra tutti gli oggetti superflui. L'acqua ha un elevato valore d'uso, ma un basso valore di scambio mentre il diamante possiede uno scarso valore d'uso ma ha un elevato valore di scambio. Il valore d'uso, attualmente considerato soggettivo, era considerato oggettivo da Adam Smith così come il valore di scambio lo è essendo quest'ultimo misurabile e risultante dallo scambio.

Il valore di scambio dipende dal "lavoro comandato", vale a dire quel lavoro che l'oggetto offerto nello scambio permette di acquisire e corrispondente al lavoro risparmiato necessario per produrre l'acquisto. Più elevato è il lavoro comandato di un oggetto, più elevato sarà il suo valore di scambio. Il valore di scambio non è basato né sul tempo del lavoro né sul lavoro incorporato come presso altri autori (ad esempio David Ricardo) ma risulta dallo scambio stesso: il valore viene determinato in una relazione, non è preesistente allo scambio. Il valore di scambio è un potere d'acquisto, non inteso come accumulazione di beni o in rapporto alla moneta, ma potere di un oggetto nell'acquisire un altro oggetto.

Ponendo lo scambio fra due beni X e Y, il cui costo di produzione in termini di lavoro è rispettivamente Lx e Ly, e ammettendo il loro valore di scambio Vx e Vy, si giunge all'equivalenza seguente: Vx = lavoro risparmiato al possessore di X = lavoro necessario alla produzione di Y = Ly. Analogamente, Vy = lavoro risparmiato al possessore di Y = lavoro necessario alla produzione di X = Lx. Ne risulta che Vx=Vy e Lx=Ly: l'"uguaglianza nello scambio" implica l'"uguaglianza del costo del lavoro" fra i due beni.

In una "società antica", precedente all'accumulazione del capitale e all'appropriazione della terra, il "prezzo reale (o prezzo naturale)" è composto e determinato dalla quantità necessaria di lavoro per acquisire il prodotto (ciò significa che l'intero prodotto appartiene al lavoratore); mentre in una "società avanzata", suddivisa fra lavoratori, imprenditori capitalisti e proprietari terrieri (suddivisione corrispondente alla nascente società capitalistica in sostituzione alla società feudale basata sulla triade nobiltà-clero-terzo stato), il prezzo reale si compone di salari, profitto e rendita fondiaria. Il prezzo reale è quindi determinato dal costo dei mezzi di produzione necessari a realizzare il prodotto.

Il "prezzo di mercato" di un prodotto dipende dal confronto fra la domanda e l'offerta dello stesso e tende a convergere verso il prezzo reale ("teoria della gravitazione o dell'oscillazione dei prezzi"). Di fatto, il prezzo di mercato gravita attorno al prezzo reale a seguito delle fluttuazioni della domanda e dell'offerta: il prezzo di mercato sarà superiore al prezzo reale se la domanda supera l'offerta, mentre sarà inferiore se l'offerta supera la domanda. Il prezzo di mercato non può distanziarsi durevolmente dal prezzo reale in quanto gli agenti, accorgendosi, aggiustano l'offerta allineandola alla domanda (meccanismo d'aggiustamento). Solo l'assenza di informazioni, l'esistenza di risorse rare e la presenza di monopoli legali permettono al prezzo di mercato di distanziarsi costantemente dal prezzo reale.

Le tre componenti del prezzo reale si determinano in modo distinto secondo un rispettivo saggio naturale, questo non implica però una teoria dell'addizione dei differenti componenti.

"Determinazione del salario" – Il tasso di salario dipende dal confronto fra l'offerta e la domanda di lavoro (dove gli imprenditori hanno però un'influenza maggiore rispetto ai lavoratori), ma anche da altri fattori come la piacevolezza o meno del tipo di lavoro, il costo della formazione associato al tipo d'impiego, la continuità nel tempo dell'occupazione (attività stagionale o annuale) e la fiducia o meno che una professione richiede. Il tasso di salario non può però essere costantemente inferiore al minimo di sussistenza, corrispondente al livello che permette di soddisfare i bisogni vitali del lavoratore e della sua famiglia. Adam Smith non condivide l'idea pessimista della "legge bronzea (o ferrea) dei salari" secondo la quale gli stipendi si mantengono costantemente al livello del minimo vitale.

"Teoria del profitto" – Per il finanziamento del profitto, Smith ha esitato fra due differenti idee: (a) il profitto si aggiunge ai salari per la determinazione del valore di scambio, (b) il profitto è complementare al salario all'interno di un valore di scambio dato. Secondo la teoria lavoro comandato, i lavoratori ricevono, nel salario, l'intero prodotto del loro lavoro. Di conseguenza, il profitto deve aggiungersi al salario nella determinazione del valore. Tuttavia, Smith sostiene che il profitto non è una remunerazione di un lavoro, per cui non può aggiungere altro valore ciò che porta all'idea di una complementarità con il salario all'interno di un valore dato, mettendo però in dubbio la teoria del lavoro comandato. Adam Smith cade in un dilemma senza soluzione. Per quanto riguarda il montante del profitto è chiaro che questo dipende dal valore del capitale impiegato ed è più o meno elevato in proporzione al volume del capitale. Il tasso medio di profitto, tasso unico per l'intero sistema economico, può inoltre essere stimato con il tasso d'interesse medio sulla moneta, mettendo così in relazione il capitale finanziario (il risparmio) e il capitale reale (i beni corrispondenti al risparmio).

"Teoria della rendita" – La rendita è un prezzo di monopolio grazie al quale i proprietari terrieri approfittano di una situazione nella quale l'offerta di terreni è limitata e costantemente inferiore alla domanda di terreni. La rendita è quindi prelevata sui profitti dell'agricoltore, lasciando a questo quel tanto sufficiente per pagare i salari e ammortizzare i capitali secondo i rispettivi tassi normali.

A complemento della ripartizione del reddito, occorre citare la distinzione di Adam Smith fra "lavoro produttivo" (fabbricazione di oggetti materiali che si possono vendere sui mercato o che dà origine ad un sovrappiù) e "lavoro non produttivo" (attività immateriali come i servizi). Fra i lavoratori non produttivi Adam Smith inserisce i domestici, i funzionari, le professioni liberali e gli artisti, in quanto vivono con il reddito altrui. Adam Smith, ingannandosi sulla non produttività di questi settori, elimina giustamente l'errore dei fisiocratici della sterilità dell'industria ed evidenzia la distinzione fra "reddito primario" e "reddito di trasferimento".

Mano invisibile

La teoria di una regolazione spontanea dello scambio e delle attività produttive di Adam Smith è incentrata sulla nozione di mano invisibile secondo la quale il sistema economico non richiede interventi esterni per regolarsi, in particolare non necessita l'intervento di una volontà collettiva razionale. Il ruolo della mano invisibile è triplice.

"Processo con il quale si crea un ordine sociale" – Dati l'uguaglianza di fronte al diritto, il non intervento dello Stato e il principio di simpatia, la mano invisibile assicura il realizzarsi di un ordine sociale che soddisfa l'interesse generale (convergenza spontanea degli interessi personali verso l'interesse collettivo).

"Meccanismo che permette l'equilibrio dei mercati" – Domanda e offerta su differenti mercati tendono ad uguagliarsi: il libero funzionamento di un mercato concorrenziale, oltre a far convergere il prezzo di mercato al prezzo reale, tende a fare scomparire qualsiasi domanda o offerta eccedentaria.

"Fattore che favorisce la crescita e lo sviluppo economico" – La regolazione si applica alla popolazione attraverso il mercato del lavoro (in caso di popolazione eccessiva, il salario scende al di sotto del minimo di sussistenza conducendo ad una riduzione della popolazione e viceversa in caso di popolazione deficitaria); la regolazione si applica pure al risparmio, condizione necessaria per l'accumulazione del capitale e quindi della crescita economica attraverso una maggiore divisione del lavoro (gli individui tendono spontaneamente a risparmiare in quanto desiderosi di migliorare la propria condizione); infine la regolazione si applica anche alla locazione dei capitali (investimenti indirizzati spontaneamente verso le attività più redditizie).

La teoria della mano invisibile è il concetto a noi più noto di Adam Smith e, pure, quello più abusato. La mano invisibile è valida, come descritto sopra, date certe condizioni. Tuttavia, questa teoria non permette di spiegare il fenomeno della disoccupazione e di trattare adeguatamente le produzioni non-mercantili come pure ambiti particolari dove bisogni fondamentali devono essere soddisfatti (educazione obbligatoria, salute di base). Contestabile anche il ruolo nell'allocazione dei capitali, basti pensare ai molti esempi di risparmio privato gettato al vento. Infine, Adam Smith assimila -discutibilmente- l'ordine economico all'ordine morale, definendo la mano invisibile come conforme alla giustizia.

La metafora della mano invisibile, cardine della dottrina liberale del laissez faire, compare nel secondo capitolo (Delle restrizioni all'importazione dai paesi stranieri di quelle merci che possono essere prodotte nel paese) del Libro quarto (Dei sistemi di economia politica) della Ricchezza delle nazioni.

Merita di essere segnalata l'interpretazione del concetto di mano invisibile data dal noto giurista italiano Guido Rossi (da un'intervista del 6 giugno 2008 a la Repubblica): "Uno dei suoi concetti più equivocati è quello della mano invisibile. Nella vulgata si è imposta l'idea che Adam Smith con la mano invisibile abbia inteso dire che il mercato deve essere lasciato a se stesso perché raggiunge automaticamente un equilibrio virtuoso. La mano invisibile è diventato l'argomento principe in favore di politiche di laissez-faire, fino ai neoliberisti. In realtà Adam Smith prende a prestito l'immagine della mano invisibile, con molta ironia, dal terzo atto del Macbeth di Shakespeare. Macbeth parla della notte e della sua mano sanguinolenta e invisibile che gli deve togliere il pallore del rimorso prima dell'assassinio. Smith ha preso in giro ferocemente quei capitalisti che credevano di avere il potere di governare i mercati. Tra l'altro Adam Smith capì allora che la Cina sarebbe tornata ad essere una grande potenza dell'economia mondiale, e auspicò una sorta di Commonwealth universale per governare il nuovo ordine internazionale".

Con l'opera di John Maynard Keynes, in particolare con la nozione di disoccupazione involontaria, si comprese la necessità di un intervento pubblico nel sistema economico a garanzia di un giusto equilibrio.

Moneta

La moneta, così come viene presentata nel Capitolo IV del Libro Primo della Ricchezza delle nazioni, è essenzialmente un mezzo di scambio che facilita la convergenza degli interessi nello scambio di beni contro beni. La moneta s'inserisce, in modo temporaneo, nello scambio attraverso due operazioni distinte: bene contro moneta e moneta contro bene. La moneta sorge quindi dalle necessità dello scambio commerciale di prodotti preesistenti, non è quindi intrinseca al processo produttivo e alla remunerazione della produzione.

Fino alla metà degli anni settanta del XX secolo, l'apporto di Adam Smith alla teoria della moneta è stato considerato marginale, in quanto simile a suoi predecessori. Recenti letture della sua opera portano ad una certa rivalutazione facendone uno dei primi sostenitori del Free Banking e di argomenti che saranno ripresi dalla Banking School, in contrapposizione quindi alla Currency School avviata da David Hume e rilanciata da David Ricardo.

Libero-scambio e ruolo dello Stato

Adam Smith critica e si distanzia dai mercantilisti e dalla loro politica sostanzialmente protezionista, contrapponendo la difesa del libero scambio.

Una prima giustificazione al libero scambio si deduce dall'effetto sulla produttività del lavoro di una maggiore estensione del mercato: la soppressione di freni al commercio interno ed esterno, come pure l'accesso a nuovi mercati attraverso lo sviluppo o il miglioramento della rete di trasporti, favorisce la divisione del lavoro aumentando di conseguenza la produzione economica e il benessere collettivo.
Una seconda giustificazione deriva dal ruolo equilibratore fra domanda e offerta esercitato dalla mano invisibile: nessun intervento esterno al mercato è necessario per raggiungere lo stato di equilibrio. Il mercato possiede forze di auto-regolazione.

Tuttavia, il libero scambio e il funzionamento dell'economia di mercato descritto da Adam Smith suppongono il principio di simpatia: ogni individuo conosce sì come nessun altro i propri interessi ma in questi interessi vi è il desiderio di essere apprezzato dagli altri, ciò che rende il mercato non un campo di combattimento, ma un luogo di convergenza di differenti interessi personali.

« Nella corsa alla ricchezza, agli onori e all'ascesa sociale, ognuno può correre con tutte le proprie forze, […] per superare tutti gli altri concorrenti. Ma se si facesse strada a gomitate o spingesse per terra uno dei suoi avversari, l'indulgenza degli spettatori avrebbe termine del tutto. […] la società non può sussistere tra coloro che sono sempre pronti a danneggiarsi e a farsi torto l'un l'altro. »

(Adam Smith, Teoria dei sentimenti morali, 1759)

Infine, il libero-scambio non implica l'assenza assoluta dello Stato, piuttosto ne limita l'influenza. In un certo senso l'idea che ha Smith sull'influenza dello Stato è simile a quella moderna, riducendo l'intervento statale alla tutela della nazione (difesa), all'amministrazione della Giustizia affinché nessun individuo potesse lenire gli interessi di un altro individuo della nazione stessa ed infine l'intervento per le opere pubbliche e le istituzioni pubbliche: le prime in modo da migliorare le condizioni per commercio (strade, ponti, canali ecc. ecc.) il secondo con particolare riferimento all'Istruzione.

Hanno scritto di lui

« Ma, se non vide, o se non previde completamente la Rivoluzione industriale nella sua piena manifestazione capitalistica, Smith osservò con grande chiarezza le contraddizioni, l'obsolescenza e, soprattutto, l'angusto egoismo sociale del vecchio ordine. Se egli era un profeta del nuovo, ancor di più era un nemico del vecchio. »

(John Kenneth Galbraith, Storia dell'economia, 1987)

« [...] egli lasciò cadere o rese sterili molti fra i più promettenti suggerimenti contenuti nelle opere di suoi immediati precursori. [...] In fondo, risale a Smith la responsabilità di parecchi tratti insoddisfacenti della teoria economica nei successivi cento anni e di molte controversie, che sarebbero state superflue se egli avesse compendiato in modo diverso il pensiero dei predecessori »

(Joseph A. Schumpeter, Storia dell'analisi economica, 1959)

« Forse, rispetto agli autori precedenti, la principale caratteristica distintiva di Smith è di essere un 'accademico': cioè di affrontare il suo oggetto d'analisi mosso sì da passioni politiche ma sufficientemente distaccato dai problemi e dagli interessi immediati e, soprattutto, di dedicare grande cura e un'enorme quantità di tempo all'esatta definizione e all'accurata presentazione delle sue idee, con una grande capacità di mediare tra posizioni e tesi diverse e di cogliere gli elementi positivi di ciascuna di esse. Questa 'sottigliezza' smithiana, il rifiuto di tesi nette e prive di qualificazioni e sfumature, rende allo stesso tempo difficile e interessante il lavoro d'interpretazione delle sue opere. »

(Alessandro Roncaglia, La ricchezza delle idee, 2001)

« […] il merito di Smith consiste nella sua abilità nel presentare argomenti che si sono rivelati essenziali nell'interpretazione dello stadio commerciale e industriale della storia, e nella profonda influenza che egli esercitò sugli economisti successivi in Inghilterra, in Francia, e in realtà dovunque si sia scritto di economia. »

(Peter D. Groenewegen e Gianni Vaggi, Il pensiero economico, 2002)

()

« Never so finely analytical as David Ricardo, nor so stern and profound as Karl Marx, Smith is the very epitome of the Enlightenment: hopeful but realistic, speculative but practical, always respectful of the classical past but ultimately dedicated to the great discovery of his age-progress. »

()

« Non così finemente analitico quanto David Ricardo, non così rigoroso e profondo quanto Karl Marx, Smith è la vera personificazione dell'Illuminismo: pieno di speranza ma realista, speculativo ma pratico, sempre rispettoso del passato classico ma dedicato in definitiva alla grande scoperta della sua era, il progresso »

(Encyclopedia Britannica, 1975)


La ricchezza delle nazioni

La ricchezza delle nazioni o Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations), pubblicata il 9 marzo 1776, è la principale opera di Adam Smith, ritenuto il fondatore dell'economia politica liberale.

Venne scritta tra il 1767 e il 1773 a Kirkcaldy, dopo un viaggio in Europa come precettore di un giovane aristocratico, durante il quale Smith ebbe occasione di conoscere gli intellettuali del tempo (Voltaire, D'Alembert, François Quesnay, e altri). Smith completò l'opera a Londra, dove fu pubblicata.

L'opera è contestualizzata storicamente nel periodo che precede la Guerra d'indipendenza americana (1779). Venne pubblicata nel 1776, l'anno della Dichiarazione d'indipendenza.

Il monopolio dell'industria manifatturiera (inglese) fu una delle cause scatenanti il conflitto con l'Inghilterra che non voleva la nascita di un'industria sul suolo americano. Smith assume una posizione contraria l'intervento statale; l'affermazione del laissez faire nel caso americano avrebbe significato il mantenimento delle importazioni dalla madrepatria inglese. A tale politica economica la teoria smithiana forniva un fondamento teorico.

In quest'opera comparve la metafora della mano invisibile, tanto cara agli ideologi del liberismo economico.

La Ricchezza delle nazioni consta di cinque Libri:

1. nel Libro Primo (Delle cause del progresso nelle capacità produttive del lavoro, e dell'ordine secondo cui il prodotto viene naturalmente a distribuirsi tra i diversi ceti della popolazione) vengono trattati gli effetti della divisione del lavoro ed è esposta in dettaglio la teoria smithiana del valore e della distribuzione del reddito;

2. nel Libro Secondo (Della natura, dell'accumulazione e dell'impiego dei fondi) viene affrontato il ruolo svolto dalla moneta e la teoria dell'accumulazione del capitale;

3. il Libro Terzo (Del diverso progresso della prosperità nelle diverse nazioni) contiene un'esposizione critica della storia economica dalla caduta dell'impero romano;

4. il Libro Quarto (Dei sistemi di economia politica) è un piccolo trattato di storia del pensiero economico e contiene la critica radicale della dottrina mercantilista e fisiocratica;

5. il Libro Quinto (Del reddito del sovrano e della repubblica) analizza il ruolo dello Stato e delle finanze statali nello sviluppo economico.

Il lavoro come fonte della ricchezza delle nazioni

Smith individua nel lavoro svolto "il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita". Tali beni sono o il prodotto immediato di tale lavoro, oppure il risultato di uno scambio di questi ultimi con quelli cercati.

Tuttavia, nota Smith, la quantità della produzione sarà il risultato di due cause distinte:

"l'arte, la destrezza e l'intelligenza con cui vi si esercita il lavoro", che sono le determinanti della capacità produttiva dello stesso;

il rapporto tra coloro che sono impiegati in lavori produttivi e coloro che non lo sono, quelli che Smith chiama lavoratori improduttivi.

In Smith la ricchezza di una nazione non deriva quindi dalla quantità di risorse naturali o metalli preziosi di cui essa può disporre, come ritenevano i mercantilisti, né è generata solo dalla terra, l'unica risorsa capace di produrre un sovrappiù per i fisiocratici, ma dal lavoro produttivo in essa svolto, e dalla capacità produttiva di tale lavoro.

La divisione del lavoro

Nel Capitolo I Smith passa all'individuazione dei fattori che influiscono su tale produttività. A tale proposito afferma:

« La causa del progresso nelle capacità produttive del lavoro, nonché della maggior parte dell'arte, destrezza e intelligenza con cui il lavoro viene svolto e diretto, sembra sia stata la divisione del lavoro »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 66)

A tale affermazione segue la celebre descrizione dei vantaggi della divisione del lavoro nella manifattura degli spilli:

« Io ho visto una piccola manifattura...dove erano impiegati soltanto dieci uomini e dove alcuni di loro, di conseguenza, compivano due o tre operazioni distinte. Ma, sebbene fossero molto poveri e perciò solo mediocremente dotati dei macchinari necessari, erano in grado, quando ci si mettevano, di fabbricare, fra tutti,...più di quarantottomila spilli al giorno. Si può dunque considerare che ogni persona, facendo la decima parte di quarantottomila, fabbricasse quattromilaottocento spilli al giorno. Se invece avessero lavorato tutti in modo separato e indipendente e senza che alcuno di loro fosse stato previamente addestrato a questo compito particolare, non avrebbero certamente potuto fabbricare neanche venti spilli per ciascuno »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 67)

Smith osserva poi che i vantaggi della divisione del lavoro sono massimi nella manifattura, mentre nelle attività agricole, dato il carattere di tali attività, sebbene vantaggi possano essere ottenuti, questi saranno necessariamente limitati.

L'accentuato incremento della produttività collegato alla divisione del lavoro è per Smith il risultato di tre cause distinte:

la maggior destrezza (dexterity) dell'operaio nello svolgere le attività che gli sono affidate, dovuta alla semplificazione delle stesse;

il risparmio di tempo che si perde di solito nel passare da un tipo di lavoro ad un altro;

la possibilità di meccanizzazione del processo, reso più semplice dalla suddivisione del processo in attività elementari.

Riguardo all'ultimo fattore Smith rileva che la divisione del lavoro, non solo migliora l'applicabilità al processo di macchine già esistenti, ma agevola l'invenzione di nuove macchine.

La divisione del lavoro opera sia all'interno della singola manifattura, sia a livello più generale come divisione sociale del lavoro:

« Con il progredire della società, la filosofia o speculazione, diviene, come ogni altra occupazione, l'unica o la principale attività professionale di una particolare categoria di cittadini e, come ogni altra occupazione, anch'essa si suddivide in un gran numero di rami diversi, ciascuno dei quali occupa una particolare categoria o un particolare gruppo di filosofi. E questa suddivisione delle occupazioni...accresce la perizia e fa risparmiare tempo. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 70)

Per Smith la divisione del lavoro non è tuttavia il risultato di una "consapevole intenzione degli uomini", ma piuttosto la "conseguenza necessaria" dell'inclinazione naturale di questi al commercio.

Il baratto o lo scambio del prodotto del proprio lavoro con quello degli altri si realizza nel mercato.

Poiché dunque per Smith la possibilità di scambiare è il primum movens della divisione del lavoro, quest'ultima risulta "limitata dall'ampiezza del mercato".

Poiché la possibilità di servirsi di mercati internazionali è stata comunque sempre impedita dall'esistenza di barriere di natura sia legale che istituzionale, un posto di rilievo nello sviluppo delle nazioni hanno rivestito i mercati interni. Per Smith la prosperità degli antichi Egizi, come dei Cinesi, nonostante queste civiltà abbiano incoraggiato il commercio estero, è dovuta in larga parte all'ampiezza dei mercati interni.

Se da un lato l'ampiezza del mercato stimola la divisione del lavoro; dall'altro una crescente divisione del lavoro aumenta la dimensione dei mercati generando circoli virtuosi.

Valori e prezzi

Dopo una breve interessante analisi dell'origine e delle funzioni della moneta, Smith distingue le due accezioni con cui il termine valore può essere utilizzato in riferimento ad un bene:

valore d'uso, in relazione all'utilità del bene;

valore di scambio, in relazione al potere d'acquistare altre cose che il possesso di quel bene comporta.

A tale proposito egli osserva:

« Le cose che hanno il maggior valore d'uso hanno spesso poco o nessun valore di scambio; e, al contrario, quelle che hanno maggior valore di scambio hanno spesso poco o nessun valore d'uso. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 81-82)

A questa affermazione fa seguito il celebre esempio del paradosso dell'acqua e del diamante, che costituì anche il punto di partenza per lo sviluppo della teoria soggettiva del valore sviluppata dai marginalisti e centrata sul concetto dell'utilità marginale dei beni. Osserva Smith:

« Nulla è più utile dell'acqua, ma difficilmente con essa si comprerà qualcosa, difficilmente se ne può avere qualcosa in cambio. Un diamante, al contrario, ha difficilmente qualche valore d'uso, ma in cambio di esso si può ottenere una grandissima quantità di altri beni. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 82)

Il lavoro comandato come misura del valore "reale"

Nelle società moderne, in cui la divisione del lavoro si è pienamente affermata, la maggior parte delle cose di cui un uomo ha bisogno le trae dal lavoro di altri.

« [Un uomo] sarà ricco o povero secondo la quantità di lavoro che può comandare, ovvero che può permettersi di comprare. Il valore di una merce... è quindi uguale alla quantità di lavoro che essa...mette in grado di comandare. Il lavoro è dunque la misura reale del valore di scambio di tutte le merci. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 82)

La quantità di lavoro che la merce riesce a comprare, o comandare (il cosiddetto lavoro-comandato), è dunque per Smith la misura del valore della merce. Poiché il lavoro è l'origine della ricchezza delle nazioni, questo diventa anche la misura ultima del valore. Tuttavia, nota Smith, nonostante il lavoro sia la misura reale del valore di scambio delle merci, non è

« per suo mezzo che il loro valore viene di solito stimato...[poiché] accertare il rapporto tra due diverse quantità di lavoro è spesso difficile...Inoltre, ogni merce viene scambiata, e quindi paragonata, più spesso con altre merci che col lavoro. È quindi più naturale stimare il suo valore in base alla quantità di qualche altra merce, piuttosto che in base alla quantità di lavoro che essa può comprare. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 83)

Tra le merci, con la progressiva evoluzione dei commerci, alcune, come l'oro e l'argento, sono state scelte come mezzo di scambio privilegiato e sono diventate moneta. Ciononostante, anche l'oro e l'argento, come qualsiasi altra merce cambiano nello spazio e nel tempo il loro valore. Al contrario, per Smith, il valore del lavoro per il lavoratore è tendenzialmente lo stesso in ogni tempo e luogo, perché uguale valore per il lavoratore hanno i beni che egli deve sacrificare per compierlo:

« Nel suo stato ordinario di salute, di forza e d'animo, al livello ordinario della sua arte e della sua destrezza, egli deve sacrificare la stessa quota del suo riposo, della sua libertà e della sua felicità...Soltanto il lavoro dunque, non variando mai nel suo proprio valore, è l'ultima e reale misura con cui il valore di tutte le merci può essere stimato e paragonato in ogni tempo e luogo. È il loro prezzo reale; la moneta è solo il loro prezzo nominale»

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 84-85)

Subito dopo però Smith nota che, nonostante il valore del lavoro per colui che lo presta sia tendenzialmente sempre uguale, per colui che lo utilizza il suo valore può cambiare, ma ciò dipende dalla produttività media del lavoro stesso, che fa più o meno care le merci che esso produce. Così, il valore del lavoro, quando come numerario sono scelte le merci che esso produce, varia perché a variare è il valore del numerario prescelto. Questo è il motivo per cui il 'prezzo' del lavoro in oro o argento (il salario) cambia continuamente.

Inoltre, poiché la possibilità di disporre di lavoro è legata alla possibilità di garantire la sussistenza del lavoratore, quelle merci, come il grano, nell'acquisto delle quali i lavoratori spendono la maggior parte del loro reddito (le cosiddette merci-salario), tenderanno a mantenere relativamente costante nel tempo e nello spazio il loro valore reale, cioè la quantità di lavoro che riescono a comandare. Anche se, nota Smith subito dopo,

« la sussistenza del lavoratore, cioè il prezzo reale del lavoro, è assai diversa...in diverse occasioni: più liberale in una società che progredisce verso la prosperità che in una che è ancora stazionaria, e più in una stazionaria che in una che va indietro. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 86)

Tuttavia, la suddetta stabilità del valore reale del grano, se è vera per confronti molto lontani nel tempo ("da un secolo all'altro"), non risulta più vera nel breve periodo:

« Da un anno all'altro, al contrario, l'argento è una misura migliore del grano perché uguali quantità di argento si avvicineranno di più a comandare la stessa quantità di lavoro. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 87)

Questo accade perché l'esatta misura del valore di scambio nominale di tutte le merci è la moneta ed il prezzo reale e quello nominale di tutte le merci sono tra di loro, "nello stesso tempo e luogo", in un rapporto ben determinato.

Il Capitolo VI del Libro I: Delle parti componenti il prezzo delle merci

Il Capitolo VI del Libro I della Ricchezza delle Nazioni si apre con la celebre esposizione della teoria del lavoro-incorporato:

« In quello stadio primitivo e rozzo della società che precede l'accumulazione dei fondi e l'appropriazione della terra, il rapporto tra le quantità di lavoro necessarie a procurarsi diversi oggetti sembra sia la sola circostanza che possa offrire una qualche regola per scambiarli l'uno con l'altro. Se, ad esempio, in un popolo di cacciatori uccidere un castoro costa di solito un lavoro doppio rispetto a quello che occorre per uccidere un cervo, un castoro si scambierà naturalmente per due cervi, ovvero avrà il valore di due cervi. È naturale che ciò che è di solito il prodotto del lavoro di due giorni o di due ore abbia un valore doppio di ciò che è di solito il prodotto del lavoro di un giorno o di un'ora. »

« Se una specie di lavoro è più faticosa di un'altra, si darà un qualche riconoscimento alla maggiore durezza; e il prodotto del lavoro di un'ora della prima specie si scambierà spesso per il prodotto del lavoro di due ore della seconda. »

« Oppure, se una specie di lavoro richiede un grado non comune di destrezza e di ingegno, la stima che gli uomini hanno per questi talenti darà naturalmente al loro prodotto un valore superiore a quello che sarebbe dovuto al tempo di lavoro che vi si è impiegato... »

« In questa situazione l'intero prodotto del lavoro appartiene al lavoratore e la quantità di lavoro comunemente impiegata nel procurarsi o nel produrre una merce è l'unica circostanza che può regolare la quantità di lavoro che essa dovrebbe comunemente comprare o comandare o ricevere in cambio. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 95)

Tuttavia per Smith:

« Non appena i fondi si sono accumulati nelle mani di singole persone, alcune di loro li impiegheranno naturalmente nel mettere al lavoro gente operosa, a cui forniranno materiali e mezzi di sussistenza allo scopo di trarre profitto dalla vendita delle loro opere o da ciò che il loro lavoro aggiunge al valore dei materiali. Nello scambiare il manufatto finito con moneta, con lavoro o con altri beni, oltre a quanto basti a pagare il prezzo dei materiali e il salario degli operai, qualcosa deve'essere dato per i profitti dell'imprenditore dell'opera, il quale rischia i suoi fondi nell'impresa. Il valore che gli operai aggiungono ai materiali si divide dunque in questo caso in due parti, una delle quali paga il loro salario, mentre l'altra paga i profitti di chi li impiega sul complesso dei fondi che ha anticipato per i materiali e i salari. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 96)

Per Smith dunque il profitto, proporzionale al capitale anticipato per mezzi di produzione, materie prime e salari, in seguito all'accumulazione dei fondi entra necessariamente a far parte del prezzo delle merci. Egli osserva che questo è riconosciuto per il rischio sopportato da chi impiega i fondi, e non va confuso con il compenso spettante per il lavoro di direzione o ispezione, in quanto è dovuto anche se tale attività è di fatto affidata a terzi.

« Nel prezzo delle merci i profitti dei fondi costituiscono dunque una parte componente del tutto diversa dai salari del lavoro, e regolata da principi interamente diversi. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 96)

Dopo l'accumulazione dei fondi si crea così una scissione tra il lavoro contenuto ("la quantità di lavoro comunemente impiegata per procurarsi o produrre una merce") e il lavoro comandato ("la quantità di lavoro che essa può comunemente comprare, o comandare, o ricevere in cambio").

Inoltre, dopo che tutta la terra di un paese è stata appropriata ("non appena la terra di un paese diventa tutta proprietà privata"), per Smith nel prezzo della merce deve di necessità entrare anche un'altra componente che remuneri il proprietario della terra utilizzata nel processo produttivo: la rendita.

Dunque il prezzo di una merce (finale e intermedia) risulta dalla somma delle tre componenti di reddito: salari, profitti e rendite.

« In ogni società il prezzo di ogni merce si risolve, in definitiva, nell'una o nell'altra di queste parti, o in tutte e tre, mentre in ogni società progredita tutte e tre entrano, poco o tanto, come componenti del prezzo della maggior parte delle merci. »

Ciononostante il lavoro rimane la misura del valore reale di tutte e tre le componenti:

« ...il valore reale di tutte le diverse componenti del prezzo è misurato dalla quantità di lavoro che onguna di esse può comprare o comandare. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 97)

Smith giunge a questo attraverso una serie di passaggi logici, a volte soltanto impliciti. Da un lato quello con cui risolve il prezzo di ogni merce nella somma delle tre componenti di reddito e in un insieme di merci utilizzate nella sua produzione; queste ultime a loro volta ridotte nella somma di salari, profitti e rendite e in un insieme di quantità fisiche di mezzi di produzione. L'operazione è ripetuta diminuendo a ciascun passaggio il residuo di mezzi di produzione prodotti, fino a quando rimangono solo salari, profitti e rendite. Dall'altro quello in cui ogni merce prodotta è collegata alla quantità di lavoro direttamente necessaria a produrla e ad un insieme di mezzi di produzione; questi a loro volta ridotti a quantità di lavoro e ad altri mezzi di produzione. L'operazione è ripetuta arrivando a vedere il sistema economico come un insieme di settori che collegano i beni di consumo finali a quello che per Smith è l'unico fattore produttivo originario: il lavoro.

Smith nota infine:

« Se la società dovesse impiegare annualmente tutto il lavoro che può annualmente comprare, siccome la quantità di lavoro aumenterebbe molto ogni anno, il prodotto di ciascun anno avrebbe un valore assai maggiore di quello dell'anno precedente. Ma non c'è nessun paese in cui tutto il prodotto annuale sia impiegato nel mantenimento degli operosi. Gli oziosi ne consumano ovunque una grossa parte; e secondo i diversi rapporti in cui esso è annualmente diviso fra questi due diversi ordini, il suo valore ordinario o medio deve aumentare o diminuire o rimanere uguale da un anno all'altro. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 100)

Prezzo naturale e prezzo di mercato

Per Smith in ogni società o ambiente esistono saggi ordinari o naturali di salari, profitti e rendita. Tali saggi dipendono da:

le "condizioni generali della società, dalla sua ricchezza o povertà e dalla situazione di progresso, di stasi o di regresso";

la natura specifica dei diversi possibili impieghi per salari e profitti, e dalla fertilità della terra per la rendita.

« Quando il prezzo di una merce non è né più né meno di ciò che è sufficiente a pagare la rendita della terra, i salari del lavoro e i profitti dei fondi impiegati nel coltivare, preparare e portare al mercato la merce stessa, secondo i loro saggi naturali, quella merce verrà venduta per quello che si può chiamare il suo prezzo naturale»

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 100)

Il prezzo naturale può essere diverso dal prezzo effettivo di vendita della merce, cioè il prezzo di mercato. Quest'ultimo è regolato dal rapporto tra la quantità effettivamente offerta e la domanda di coloro che sono disposti ed in grado di pagare il prezzo naturale della domanda effettuale o domanda effettiva (effectual demand), diversa dalla domanda assoluta. Nota Smith:

« In un certo senso si potrebbe dire che un povero ha una domanda per un tiro a sei, possederlo potrebbe piacergli; ma la sua domanda non è una domanda effettuale, in quanto questa merce non può mai essere portata al mercato per soddisfarla. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 101)

Se la domanda effettuale eccede l'offerta contingente del bene il prezzo di mercato tenderà a superare quello naturale. Il contrario accadrà se è l'offerta ad eccedere la domanda effettuale. Maggiore è la deperibilità dei beni maggiori saranno le oscillazioni dei prezzi di mercato. Ciononostante il prezzo naturale tenderà a ristabilirsi nel lungo periodo se non esistono impedimenti (naturali o istituzionali) e non vi sono ulteriori "accidenti", questo perché:

« la quantità di merce portata al mercato si adegua naturalmente alla domanda effettuale... Il prezzo naturale è dunque in un certo senso il prezzo centrale, attorno al quale i prezzi di tutte le merci gravitano in continuazione. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 102)

Tra gli impedimenti naturali Smith considera l'assenza di terra o di risorse naturali con particolari caratteristiche richieste per la produzione di una data merce. Così, ad esempio, il saggio di rendita della terra messa a coltura per la produzione di vino in Francia può essere molto al di sopra del saggio naturale della rendita, questo perché, dopo che tutta la terra utilizzabile a tale scopo in Francia viene utilizzata nella produzione di vino, ancora residua una domanda insoddisfatta.

Tra gli impedimenti di natura lato sensu istituzionale, Smith considera l'esistenza di monopoli, derivanti sia da "segreti" circa i metodi di produzione sia da regolamenti e statuti governativi (statuti di apprendistato, corporazioni).

Smith passa poi ad analizzare le singole componenti del reddito e le condizioni che ne regolano i saggi naturali.

Il salario

« Il prodotto del lavoro costituisce la ricompensa naturale, o salario, del lavoro. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 107)

Sia il profitto che la rendita sono "deduzioni del prodotto del lavoro". In seguito all'accumulazione dei fondi e alla proprietà privata sulla terra, che sostituisce la "situazione originaria...in cui tutto il prodotto del lavoro appartiene al lavoratore",

« in tutte le arti e le manifatture la maggioranza degli operai ha bisogno di un padrone che anticipi i materiali del lavoro, i salari e il mantenimento finché il lavoro non sia portato a termine. Questi ha una quota sul prodotto del loro lavoro, ossia sul valore che il lavoro aggiunge ai materiali su cui si esercita; in questa quota consiste il suo profitto. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 108)


La ripartizione della quota spettante al lavoratore e di quella spettante al proprietario dei fondi è dunque tendenzialmente conflittuale. Entrambi tendono a coalizzarsi per aumentare la loro quota, ma Smith lucidamente a tale proposito osserva:

« Non è comunque difficile prevedere quale delle due parti in una situazione normale prevarrà nella contesa...I padroni, essendo in numero minore, possono coalizzarsi più facilmente; e la legge, del resto, autorizza o almeno non proibisce le loro coalizioni, mentre proibisce quelle degli operai...[Inoltre] in tutte queste contese i padroni possono resistere più a lungo...Nel lungo periodo l'operaio può essere tanto necessario al padrone quanto il padrone all'operaio, ma la necessità non è altrettanto immediata. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 109)

Il limite minimo del salario è determinato da quel livello strettamente necessario alla sussistenza del lavoratore e della sua famiglia.

Vi è poi l'affermazione di quella che costituirà la base della cosiddetta teoria del fondo-salari:

« La domanda di coloro che vivono di salario non può ovviamente aumentare se non in proporzione all'aumento dei fondi destinati al pagamento dei salari. Questi fondi sono di due specie: primo, il reddito che supera quanto è necessario per il mantenimento; secondo, i fondi che superano quanto è necessario per l'impiego dei loro padroni. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 110)

A proposito del saggio di variazione del salario Smith osserva:

« Non è la grandezza assoluta della ricchezza nazionale, ma il suo aumento continuo che dà luogo ad un aumento dei salari del lavoro. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 111)

Così, ad esempio, la Cina, che è stata a lungo uno dei paesi più ricchi del mondo, essendo rimasta stazionaria per tanto tempo, non mostrava all'epoca di Smith un salario reale medio elevato. Invece l'America, che al contrario era in forte espansione, mostrava incrementi salariali costanti, e tali da agevolare l'immigrazione di europei.

Questo accade perché un incremento della produzione aumenta quanto destinato al mantenimento dei lavoratori e quindi stimola la domanda di lavoro, generando tendenze all'aumento del salario. Tuttavia, l'aumentato salario, superando i livelli di stretta sussistenza, porterà ad un incremento della popolazione e quindi ad un aumento dell'offerta di lavoro. Se il tasso di crescita della produzione non è costante e tale da far aumentare ulteriormente la domanda di lavoro, l'aumentata offerta riporterà il salario ai livelli di sussistenza.

Questa sembra per molti versi l'anticipazione della cosiddetta legge bronzea dei salari, cardine della teoria distributiva degli economisti classici ed esposta in dettaglio da Thomas Robert Malthus nel Saggio sul principio della popolazione (1798). Tuttavia vi sono alcune significative differenze tra Malthus e Smith che meritano di essere sottolineate, perché mettono in risalto la profondità del pensiero di Smith:

Smith osserva che "la povertà, sebbene indubbiamente scoraggi il matrimonio, non sempre lo impedisce. Sembra persino che sia favorevole alla procreazione." Egli dunque rileva come un aumento della prosperità possa essere associato ad una diminuzione del tasso di natalità. Tuttavia, osserva poi, la diminuzione del tasso di mortalità, soprattutto infantile, che fa seguito ad un miglioramento delle condizioni di vita necessariamente porterà ad un aumento della popolazione;

Smith non assume, contrariamente a Malthus, che il tasso di crescita della popolazione sia sempre necessariamente superiore a quello dei mezzi di sussistenza, ma semplicemente che vi sia una sorta di adeguamento dell'offerta di lavoro alla domanda di lavoro che è tale da far discendere il salario se la domanda di lavoro non cresce costantemente;

infine Smith osserva che la "remunerazione liberale del lavoro, come incoraggia la moltiplicazione della gente comune, allo stesso modo ne aumenta l'operosità" (1995,p.119). Così, l'aumento della produttività del lavoro che fa seguito all'aumento della produzione agisce da ulteriore forza atta a controbilanciare le tendenze alla diminuzione del salario reale.

Smith nota che, supponendo costante l'offerta di lavoro, il livello dei salari monetari è correlato positivamente con:

la domanda di lavoro;

il prezzo dei beni salario, cioè di quei beni nell'acquisto dei quali il salario è speso.

Questi due fattori, controbilanciandosi, tendono a stabilizzare i salari monetari, che subiscono oscillazioni minori del prezzo dei viveri. Infatti, in periodi di abbondanza, mentre il prezzo dei viveri scende comportando pressioni al ribasso dei salari, l'accresciuta domanda di lavoro esercita pressioni al rialzo. Il contrario accade in tempi di carestia.

Smith osserva poi:

« L'aumento dei salari fa aumentare di necessità il prezzo di molte merci aumentandone la parte che si risolve in salari, e così tende a far diminuire il consumo di queste merci sia all'interno che all'esterno. »

(La Ricchezza delle Nazioni - Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 1995, pp. 123)


David Ricardo

David Ricardo (Londra, 19 aprile 1772 – Gatcombe Park, 11 settembre 1823) è stato un economista britannico, considerato uno dei massimi esponenti della scuola classica.

Quadro storico

Ricardo visse nel periodo delle guerre napoleoniche, che videro l’Inghilterra tenace avversaria della Francia, alla conclusione delle quali segue la fase della Restaurazione. È un'epoca di profondi cambiamenti economici e sociali, contraddistinta dalla rivoluzione industriale in Inghilterra e in generale dal processo di trasformazione delle economie europee in senso capitalistico. In questa fase storica viene quindi a prodursi un contrasto, con conseguenti conflitti sociali e politici, tra il ritorno all’assetto istituzionale e politico precedente alla Rivoluzione Francese, dominato dall’aristocrazia assolutista, e lo sviluppo di un sistema di produzione in cui il potere economico tende a concentrarsi nelle mani della borghesia, mentre una crescente massa di proletari offre manodopera a buon mercato funzionale alla trasformazione economica in atto.

Mentre la progressiva introduzione delle macchine nel processo produttivo causava la disoccupazione di una massa crescente di lavoratori, le Corn Laws imponevano l’applicazione di dazi sulle importazioni di cereali.

I prezzi interni di questi prodotti rimanevano quindi elevati come al tempo del blocco commerciale cui l’Inghilterra era stata sottoposta durante le guerre contro la Francia di Napoleone. L’alto prezzo del grano e degli altri cereali andava a vantaggio delle rendite dei proprietari terrieri e riduceva, invece, i profitti sul capitale: i salari reali, già molto bassi, non potevano diminuire ulteriormente e gli alti prezzi degli alimenti implicavano la necessità di pagare salari monetari adeguati a quei prezzi. La borghesia capitalista spingeva perciò, sul piano istituzionale, per una riforma elettorale che ridimensionasse la rappresentanza dei proprietari terrieri in Parlamento e, sul piano economico, per l’abolizione delle barriere protezionistiche. Risultati questi che saranno però ottenuti solo, rispettivamente, nel 1832 e nel 1846.

Comincia a manifestarsi in questo periodo anche il conflitto tra capitale e lavoro, alimentato dalla miseria delle condizioni di vita degli operai stretti tra la morsa dei bassi salari e della disoccupazione. In Inghilterra le lotte operaie presero inizialmente la forma del luddismo, il movimento, forte e ben organizzato, che vedeva l’impiego dei macchinari come causa della disoccupazione e ne osteggiava quindi l’introduzione nelle fabbriche. Proprio la forza del movimento determinò una repressione durissima e sanguinosa da parte del governo inglese.

La teoria della distribuzione e del valore (teoria dei vantaggi comparati)

Ricardo diede due versioni della teoria del saggio del profitto: la prima nel “Saggio sui profitti” del 1815 (il titolo originale completo è “Essay on the influence of a Low Price of Corn on the Profits of Stock”) e la seconda nei “Principi di Economia Politica” (uscita in tre successive edizioni: 1817-19-21).

Il Saggio sui profitti

In questa opera Ricardo afferma il principio che il saggio del profitto nell’intera economia è determinato dal saggio del profitto che si stabilisce in agricoltura. La giustificazione logica di questo principio sta in due ipotesi:

che il capitale, in accordo con quanto Smith aveva affermato, consista soltanto dei mezzi di sussistenza anticipati annualmente ai lavoratori come salario;

che quei mezzi di sussistenza consistano interamente di grano.

L’agricoltura allora si trova in una posizione del tutto particolare, in quanto si ha in essa omogeneità tra prodotto e capitale. Il saggio del profitto i vi può essere determinato come rapporto tra quantità fisiche: come rapporto cioè tra il sovrappiù P – N, ed il capitale N relativi alla produzione agricola, entrambi misurati in grano, ossia:

i = (Pa – Na) / Na

da cui, considerando il valore dei fattori in lavoro comandato L, avremo:


i = (Pa / Na) - 1
i = (La*ya / La*wa) - 1
i = (ya / wa) - 1

con ya = prodotto per lavoratore in agricoltura.

Perciò il saggio del profitto può cambiare solo se varia il saggio del salario o il prodotto per lavoratore in agricoltura. Ne segue che il saggio del profitto agricolo sarà del tutto indipendente dai valori di scambio. Inoltre, poiché la concorrenza tra capitalisti tenderà a realizzare un saggio uniforme di profitto in tutta l’economia, sarà il valore dei prodotti diversi dal grano a modificarsi relativamente al grano (che costituisce il capitale in tutti i rami produttivi) così da fornire per la loro produzione il saggio del profitto realizzatosi in agricoltura.

Esempio: si supponga che un operaio produca in un anno 100 m di tela; che il salario annuo anticipato all’inizio del ciclo produttivo sia 100 kg di grano; il saggio del profitto in agricoltura sia del 20 %: 1 m di tela si dovrà scambiare con 1.2 kg di grano. Se, infatti, il prezzo della tela fosse ad esempio 1.3 kg di grano, il saggio del profitto nel produrre la tela sarebbe del 30 % ed i capitali impiegati nel produrre grano verrebbero trasferiti alla produzione di tela, finché la concorrenza abbia riportato ridotto il valore della tela a 1.2 kg di grano e viceversa, nel caso in cui la tela fosse inizialmente inferiore a 1.2 kg di grano.

Rimane ora da vedere che cosa determini il saggio del profitto nell’agricoltura e quindi in tutta l’economia. Ricardo fu spinto a riflettere sul problema dei profitti dalla questione, allora dibattuta in Inghilterra, circa l’opportunità di stabilire dei dazi sulla importazione del grano, allo scopo di contrastare il ribasso dei prezzi del grano verificatosi al termine delle guerre napoleoniche. Sia Malthus che Ricardo ritenevano che i dazi sul grano sarebbero stati utili o dannosi secondo che ne fosse seguito un aumento o una diminuzione del saggio del profitto. Seguendo Smith essi consideravano i profitti come la fonte principale di accumulazione di capitale e quindi di ricchezza della nazione. Malthus riteneva che i dazi sul grano, aumentando le rendite fondiarie, avrebbero creato “un più ampio mercato” per i prodotti e favorito alti prezzi e alti profitti in tutti i rami produttivi. Ricardo riteneva, invece, che il saggio del profitto non potesse aumentare (diminuire) che per l’una o per l’altra di queste due circostanze:

la diminuzione (aumento) della quantità di beni data al lavoratore come salario (Ricardo riteneva che l’azione di questo fattore potesse essere soltanto temporanea poiché vi sarebbe stata una tendenza del saggio del salario a gravitare verso il livello abituale di sussistenza dei lavoratori);

la produttività del lavoro in agricoltura.

Ora l’imposizione di dazi sul grano, contraendo l’importazione e costringendo quindi a coltivare terre meno fertili, avrebbe ridotto la produttività del lavoro agricolo e quindi il saggio del profitto. Per dimostrare questa sua teoria dei profitti Ricardo si serve anche di una teoria della rendita della terra, che era stata formulata da Malthus: come vedremo la funzione di questa teoria di Ricardo è di permettergli di isolare la rendita così da poter concentrare l’attenzione sulla divisione del prodotto tra salari e profitti. Il ragionamento con cui Ricardo giunge alla sua teoria dei profitti può essere meglio seguito con un esempio ripreso, con alcune modifiche, dal “Saggio sui profitti”.

A, B,C = tipi di terra in ordine di fertilità decrescente;

L = numero lavoratori;

Capitale = salari anticipati;

300 q di grano = prodotto lordo che, per ipotesi, si vuole ottenere da ogni tipo di terra;

10 q di grano = salario annuale di un lavoratore.

In un primo tempo, per produrre grano, è sufficiente coltivare la terra più fertile, del tipo A, su cui per ottenere 300 quintali di grano si devono impiegare 20 lavoratori. Poniamo che il salario di un lavoratore sia 10 q; il capitale, anticipazione dei salari sarà quindi 200 q. Resta un prodotto netto, cioè un sovrappiù, di 100 q di grano. Non ci sono rendite poiché, essendovi sovrabbondanza di terre, la concorrenza tra proprietari fondiari impedisce che si formi una rendita. Tutto il sovrappiù costituisce perciò profitti ed il saggio del profitto sarà:

100 / 200 = 50%

Quando però le terre A non siano più sufficienti, diviene necessario estendere la coltivazione alle terre di tipo B, meno fertili, dove 21 lavoratori sono necessari per ottenere lo stesso prodotto di 300 q di grano. Il saggio del profitto delle terre B (che essendo sovrabbondanti non danno rendita) sarà inferiore:

90 / 210 = 43%

Poiché 210 è il capitale necessario per ottenere 300 q di grano. A quello stesso saggio del profitto si giungerà anche sulle terre A, dove la concorrenza indurrà i capitalisti ad offrire una rendita, che arriverà ad essere pari alla differenza tra il prodotto netto ed il profitto ottenibile, per quel capitale, sulle terre meno fertili. Quando, in un terzo tempo, anche le terre del tipo C entreranno nella coltivazione, il saggio del profitto diminuirà ancora:

80 / 220 = 36%

E per le stesse ragioni dette sopra, si avrà una rendita anche per le terre di tipo B mentre la rendita della terra A aumenterà. Quindi il saggio del profitto diminuisce (e le rendite fondiarie aumentano) quando, per l’aumento della popolazione o per l’imposizione di dazi sul grano, la produttività del lavoro agricolo diminuisca con l’estensione della coltivazione alle terre meno fertili. È evidente, d’altro lato, che il saggio del profitto, in ciascuna delle tre situazioni considerate, sarebbe stato inferiore se il saggio del salario fosse stato superiore e viceversa.

È chiaro come il ragionamento con cui Ricardo giunge a queste conclusioni poggi sull’ipotesi indicata all’inizio, che i salari consistano soltanto di grano. Se si ammette, infatti, che il saggio del salario comprenda altre merci oltre al grano, la linea di argomentazione seguita nel “saggio sui profitti” non permette più di affermare che il saggio del profitto diminuirà al diminuire della produttività del lavoro agricolo e all’aumentare di una o più tra le quantità di beni che costituiscono il salario: bisognerà allora tenere conto degli effetti che queste circostanze possono avere sui valori relativi delle merci; in altre parole viene meno, con l’omogeneità tra prodotto e capitale agricoli, la possibilità di individuare nell’agricoltura un settore dove il saggio del profitto è indipendente dai valori relativi delle merci.

Esempio: Supponiamo che il salario annuale di sussistenza sia 5 q di grano e 50 m di stoffa. Supponiamo inoltre che, quando soltanto la terre A sono coltivate 1 q di grano si scambi con 10 m di stoffa. Il saggio annuale di salario valutato in grano sarà allora 10 q e il saggio del profitto sarà il 50%. Supponiamo ancora che, in conseguenza dell’imposizione di dazi sul grano, vengano poste in coltivazione anche le terre di tipo B. Se, per effetto di ciò, il prezzo del grano in termini di stoffa aumentasse da 10 m a 12.5 m, il saggio annuale del salario valutato in grano diminuirebbe da 10 q a 9 q. Il capitale necessario per ottenere 300 q di grano sulle terre B (dove non si paga la rendita) avrebbe allora un valore di 21 x 9 = 189 q di grano; i profitti sarebbero allora di 111 q e il saggio del profitto sarebbe aumentato a:

111 / 189 = 58%

E non diminuito al 43%. Non sarà perciò possibile dire nulla circa gli effetti sul saggio del profitto della coltivazione delle terre B finché non si sia in grado di determinare gli effetti di quella circostanza sul rapporto di scambio tra grano e stoffa.

Non può perciò stupire che Ricardo nel preparare una nuova edizione del “Saggio sui profitti” si sia trovato ad affrontare il problema del valore e ne sia nato un libro del tutto diverso: i “Principi di Economia Politica”.

I Principi di Economia Politica

Ritroviamo nei “Principi” le stesse conclusioni del “Saggio” circa le due circostanze da cui dipende il saggio del profitto (le quantità di merci che costituiscono il saggio del salario; e la produttività del lavoro nella produzione delle merci-salario) ma l’argomentazione è mutata. Essa è ora fondata su una teoria generale del valore: la teoria secondo cui il rapporto in cui le merci si scambiano è determinato dalla quantità di lavoro occorso a produrle. Ricardo può evitare di supporre che i salari consistano soltanto di grano. Inizieremo l’esposizione con la teoria del valore e vedremo poi come essa sia posta a base della teoria della distribuzione.

Esempio: supponiamo che per ottenere alla fine di un ciclo produttivo annuale una misura di grano, ad esempio 100 q, occorrano 5 lavoratori e che, per ottenere invece una misura di tela, ad esempio 100 m, basti un lavoratore. Supponiamo inoltre che il salario annuo di un lavoratore sia 10 sterline, e che per la produzione, sia del grano sia della tela, il solo capitale impiegato sia quello necessario per pagare i salari all’inizio del ciclo produttivo. Se il saggio del profitto è del 50% il valore di una misura di grano sarà:

(10 x 5) (1 + 0.5) = 75 sterline

e quello di una misura di tela:

(10 x 1) (1 + 0.5) = 15 sterline

Per ottenere una misura di grano saranno perciò necessarie 5 misure di tela. Rapporto che è pari a quello tra le quantità di lavoro necessarie per produrre le due merci.

Essendo determinato dalle quantità di lavoro incorporate, il valore del grano relativamente alla tela dipende da circostanze tecniche e non può quindi mutare al mutare del saggio di salario e/o profitto. Se, infatti, il saggio del salario fosse di 12 sterline e quello del profitto del 25%, il valore di una misura di grano sarebbe:

(12 x 5) (1 + 0.25) = 75 sterline

e quello della misura di tela:

(12 x 1) (1 + 0.25) = 15 sterline

Una misura di grano si scambierebbe ancora con 5 misure di tela.

Nel ragionamento precedente abbiamo supposto che la durata del ciclo produttivo (e quindi il periodo di anticipazione dei salari) fosse la stessa sia per il grano sia per la tela. Abbiamo supposto inoltre che le produzioni di grano e di tela non richiedessero attrezzi o macchinari. Le conclusioni sarebbero state diverse se si fosse supposto che la durata del ciclo produttivo fosse diversa o che ogni lavoratore utilizzasse attrezzi di valore diverso nei due processi.

Esempio: Si supponga che il ciclo produttivo della tela sia di due anni, anziché di un anno come quello del grano. Il valore della tela sarà, quando il saggio del salario sia di 10 sterline e quello del profitto il 50%:

10(1 + 0.5) 2 = 22.5

Una misura di grano si scambierà perciò con:

75 / 22.5 = 3.3 misure di tela e non 5,

come richiesto dalla regola del lavoro incorporato. Come è facile verificare, inoltre, il valore del grano varierà al variare del saggio del profitto: aumenterà al diminuire di quest’ultimo. Ricardo ammise questa possibilità come “eccezione” e continuò a basare la sua teoria della distribuzione su questo principio.

Prima di procedere alla teoria del saggio di profitto occorre considerare la rendita della terra. Essa trova però facile collocazione nella teoria della distribuzione dei “Principi” quando si rifletta che il rapporto di scambio tra il grano e le altre merci dovrà essere regolato dalla quantità di lavoro occorso per produrlo sulle terre meno fertili in coltivazione; in caso diverso, chi impieghi il suo capitale sulle terre meno fertili non potrebbe ottenere il saggio di profitto ottenibile negli altri rami produttivi. D’altro lato, se il valore del grano è determinato dalla quantità di lavoro necessaria per produrlo sulle terre meno fertili, il valore del prodotto delle terre più fertili renderà più di quanto necessario per remunerare ai saggi vigenti il lavoro e il capitale ivi impiegato: la concorrenza tra capitalisti farà sì che questa eccedenza vada ai proprietari fondiari come rendita.

Esempio: Consideriamo il valore relativo della tela e del grano, entrambi prodotti con ciclo produttivo annuale, quando siano in coltivazione due tipi di terre: B dove una misura di grano richiede il lavoro di 5 uomini per un anno e A dove lo stesso prodotto richiede 4 uomini. Una misura di tela richiede, invece, il lavoro di un uomo. Posto pari a 10 sterline il saggio annuale di salario e al 50% il saggio di profitto, 1 misura di grano dovrà valere 75 sterline e una di tela 15 sterline. Se il grano dovesse valere solo 60 sterline, e scambiarsi quindi con la tela secondo la quantità di lavoro che occorre per produrlo sulle terre A, il capitale impiegato sulle terre B renderebbe il 20% e non il 50% e le terre verrebbero abbandonate. Poiché si è invece supposto che le terre B siano coltivate, il prezzo del grano deve essere 75 sterline. Sulle terre A saranno sufficienti 60 sterline a pagare i salari dei 4 lavoratori nonché il profitto del 50% sul capitale di 40 sterline: 15 sterline andranno perciò al proprietario come rendita.

Ora nei “Principi” ritroviamo la teoria dei profitti del “Saggio”. La differenza nell’argomentazione sta solo nel fatto che mentre nell’opera precedente il prodotto P e il “consumo necessario” N erano misurati in termini di grano, nei “Principi” quelle quantità sono misurate in termini di lavoro incorporato. Questa differenza è importante. Essa permette a Ricardo di considerare la determinazione del profitto nell’economia come un tutto risolvendo, nei limiti che vedremo, il problema del valore e di abbandonare l’ipotesi che i salari consistano interamente di grano. Ricardo, inoltre, offre una prima soluzione al problema, visto in Smith, che si pone quando la nozione di sovrappiù venga usata per l’analisi del processo produttivo sociale: come esprimere il valore di aggregati dati di merci in termini che non presuppongono la conoscenza di come il prodotto sociale sia diviso tra salari, profitti e rendite. La quantità di lavoro necessaria per produrre le merci soddisfa quel requisito, essa dipende soltanto dalle condizioni tecniche della produzione.

Rimangono ora da considerare le questioni che Ricardo lasciò insolute. Esse sono essenzialmente le due che già abbiamo avuto modo di rilevare. La prima, relativa alla teoria quale essa è enunciata nei “Principi”, sta nel fatto che le merci si scambiano secondo il lavoro incorporato soltanto nell’ipotesi di eguaglianza, in tutti i rami produttivi, del periodo di anticipazione dei salari e del valore dei mezzi di produzione impiegati da ogni lavoratore. Quando le merci non si scambiano secondo il lavoro incorporato non è più possibile affermare che il saggio del profitto sia dato dal rapporto tra il lavoro incorporato nel sovrappiù S = P – N e quello incorporato nel “consumo necessario” N. Ricardo si rende conto di questa deficienza della sua teoria e, come un manoscritto venuto recentemente alla luce mostra, ancora negli ultimi giorni della sua vita egli stava tentando di risolverla.

L’altra deficienza della teoria dei profitti di Ricardo è la riduzione del capitale ai salari annui. Su questo punto esistono in Ricardo numerose contraddizioni. Da un lato egli, soprattutto quando si riferisce ai singoli produttori, riconosce l’esistenza di un capitale costituito da mezzi di produzione, accanto a quello costituito dai mezzi di sussistenza anticipati ai lavoratori per la durata del ciclo produttivo annuo, e ne tiene conto nel calcolare il saggio del profitto. Dall’altro quando enuncia i fattori che determinano il saggio del profitto nell’intera economia, non sembra avvedersi che i mezzi di produzione impiegati costituiscano una circostanza che può influire sul saggio del profitto in modo del tutto indipendente dal rapporto S / N.

La teoria del salario

La teoria del salario di Ricardo è per certi aspetti simile a quella di Adam Smith e per altri, invece, se ne discosta. Essa può essere rappresentata con riferimento a quattro punti essenziali:

come in Smith, c’è in Ricardo l’idea di un saggio del salario minimo, che per Ricardo corrisponde a ciò che è necessario per la sussistenza del lavoratore e della sua famiglia;

come in Smith, se il saggio del salario si mantiene al suo livello minimo la popolazione lavoratrice tende a rimanere stazionaria, tende invece ad aumentare se il salario sale al di sopra della sussistenza;

diversamente da Smith, non c’è in Ricardo un esplicito riferimento alla forza contrattuale dei lavoratori rispetto ai datori di salario quale circostanza che influisce sul livello dei salari;

diversamente da Smith, il livello naturale del salario è identificato con la sussistenza.

La teoria di Ricardo appare dunque più “meccanica” di quella di Smith, per il quale il salario naturale dipendeva, in ogni fase storica, dalla forza contrattuale delle parti: i lavoratori da un lato e i “masters” dall’altro. Pur ritenendo che i lavoratori fossero più spesso in una posizione di debolezza rispetto ai datori di retribuzione, e quindi nell’incapacità di ottenere un salario superiore alla sussistenza, Smith ammetteva che le condizioni economico-sociali potessero modificarsi, in particolare per effetto dell’accumulazione del capitale, in modo da far permanere anche a lungo il salario naturale a livelli superiori al minimo. La visione di Ricardo è meno articolata e, anche per l’influenza che su questi temi era al tempo esercitata da Malthus, egli è portato a far coincidere il salario naturale con la mera sussistenza. In analogia con la tendenza del prezzo di mercato di una merce verso il prezzo naturale, Ricardo considera il saggio del salario superiore alla sussistenza come un livello di “mercato” del salario, perciò soltanto temporaneo, destinato a ritornare verso il valore naturale per effetto dell’aumento dell’“offerta” di lavoro relativamente alla “domanda”.

A questo riguardo è utile precisare che in Ricardo, come in Smith, la domanda di lavoro è intesa come il numero di lavoratori produttivi impiegati nell’economia, mentre l’offerta di lavoro rappresenta la popolazione in grado di lavorare: il rapporto tra domanda e offerta di lavoro esprime perciò la quota della popolazione lavoratrice impiegata nel processo produttivo. Ricardo ritiene che se il rapporto aumenta, fino al limite ad avvicinarsi all’unità, il salario di mercato potrà aumentare al di sopra del salario naturale ma l’aumento di popolazione, indotto da salari maggiori della sussistenza, tenderà a riportare il salario verso il suo livello naturale, corrispondente alla sussistenza.


Thomas Robert Malthus

Thomas Robert Malthus (Roocherry, 13 febbraio 1766 – Bath, 29 dicembre 1834) è stato un economista e demografo inglese.

Vita

Malthus nacque in una famiglia benestante. Suo padre Daniel era un amico personale del filosofo David Hume e aveva contatti con Jean-Jacques Rousseau.

Il giovane Malthus fu educato a casa fino alla sua ammissione al Jesus College (Cambridge) nel 1784. Lì studiò molte materie e vinse premi in declamazione inglese, latino e greco. La sua materia preferita era però la matematica. Si laureò nel 1791 e nel 1797 fu ordinato pastore anglicano.

Malthus si sposò nel 1804 ed ebbe dalla moglie 3 figli.

Fu seppellito nella abbazia di Bath in Inghilterra.

Opere

Nel 1798 pubblicò An essay of the principle of the population as it affects the future improvement of society (Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società), in cui sostenne che l'incremento demografico avrebbe spinto a coltivare terre sempre meno fertili con conseguente penuria di generi di sussistenza per giungere all'arresto dello sviluppo economico, poiché la popolazione tenderebbe a crescere in progressione geometrica, quindi più velocemente della disponibilità di alimenti, che crescono invece in progressione aritmetica (teoria questa che sarà poi ripresa da altri economisti per teorizzare l'esaurimento del carbone prima, e del petrolio dopo).

Le sue osservazioni partono dallo studio delle colonie inglesi del New England, dove la disponibilità "illimitata" di nuova terra fertile ha permesso uno sviluppo "naturale" della popolazione con una progressione quadratica mentre, dove ciò non è possibile, si verificano periodiche carestie con conseguenti epidemie.

Per Malthus c'è, naturale, questa forma di controllo successivo. Da rigido pastore protestante ipotizza anche un "controllo preventivo" da parte dell'uomo, ma basata solo sulla "castità".

La teoria demografica di Malthus ispirò la corrente del malthusianesimo che sostiene il ricorso al controllo delle nascite per impedire l'impoverimento dell'umanità. Malthus pubblicò inoltre Investigazione delle cause del presente alto prezzo delle derrate (1800) e Saggio sulla rendita (1815), in cui formulò la teoria della rendita differenziale.

Questa teoria demografica naturalmente è andata incontro a varie critiche, esemplificate da Ralph Waldo Emerson, quando disse: "Malthus, affermando che le bocche si moltiplicano geometricamente e il cibo solo aritmeticamente, dimenticò che la mente umana era anch'essa un fattore nell'economia politica, e che i crescenti bisogni della società sarebbero stati soddisfatti da un crescente potere di invenzione."

Malthus introduce il concetto di salario di sussistenza, cioè il livello medio del salario necessario per soddisfare le esigenze ritenute fondamentali. Secondo Malthus, fino al salario di sussistenza non ci si sposa, né si fanno figli.

Se esiste un sussidio, come quello derivante dalle Poor Laws, aumenta il reddito disponibile delle famiglie, oltre un livello di mera sussistenza. Di conseguenza i poveri tenderanno a procreare, facendo sì che aumenti la forza lavoro e quindi l'offerta di lavoro, portando quindi a una ulteriore diminuzione dei salari. Al contrario, quando il livello di vita scenderà sotto lo standard di vita ritenuto accettabile, i poveri smetteranno di fare figli e il salario tenderà a salire da solo. Questa teoria della sostanziale stabilità dei salari è accettata dai classici, che attribuiscono ciò a meccanismi di mercato. Lo stesso David Ricardo si rifà a tale teoria secondo cui i salari sono sostanzialmente stabili ad un livello storicamente dato, così come lo standard di vita medio.

Influenze

L'influenza della teoria di Malthus sulla popolazione fu molto alta, influenzò economisti come John Maynard Keynes o David Ricardo.

L'idea di Malthus della “Lotta per la sopravvivenza” dell'uomo ebbe una influenza decisiva sia su Charles Darwin che su Alfred Russel Wallace per la formulazione della loro teoria evoluzionista; teoria che venne ripresa ed estesa a vari contesti psicologici, sociali e morali da Herbert Spencer.

Un altro esempio famoso, tra i tanti possibili, è stato il libro del 1972 Rapporto sui limiti dello sviluppo del Club di Roma.


Jean-Baptiste Say

Jean-Baptiste Say (Lione, 5 gennaio 1767 – Parigi, 15 novembre 1832) è stato un economista francese.

Principale economista classico francese, era anche giornalista e imprenditore nel cotone. È famoso per aver elaborato la Legge di Say (o legge degli sbocchi) e, più globalmente, per le sue posizioni liberiste.

È uno dei fondatori della Grande école ESCP Europe.

Biografia

Proveniente dalla borghesia (il padre era un commerciante), iniziò giovanissimo a lavorare per poi dedicarsi agli studi economici. La sua prima opera venne sequestrata per via delle sue idee liberali.

Nel 1814 ebbe i suoi primi incarichi governativi e l'anno successivo, nel 1815, fu nominato professore all'università di Parigi. Fu per un breve periodo (1830 - 1831) membro del Consiglio Generale della Senna, lasciò poi ogni titolo per dedicarsi alla cattedra di Economia Politica da lui fondata presso il Collège de France.

Nel 1819, partecipò assieme a Vital Roux alla fondazione della prima business school del mondo dando vita all'École Spéciale de Commerce et d'Industrie. Oggigiorno, questa Grande école porta il nome di ESCP Europe.

Legge di Say

In economia la legge di Say, detta anche legge degli sbocchi, fu enunciata dall'economista francese Jean-Baptiste Say e riguarda il fenomeno delle crisi economiche.

Egli sosteneva in tale legge che in regime di libero scambio non sono possibili le crisi prolungate, poiché i prodotti si pagano con i prodotti e non con il denaro, che è solamente merce rappresentativa. L'offerta è sempre in grado di creare la propria domanda: ogni venditore è anche compratore. Il rimedio delle crisi non doveva perciò, secondo Say, ricercarsi tanto in misure restrittive dell'importazione, quanto nell'incremento di quelle produzioni che servissero all'esportazione.

In ogni caso, poi, il libero scambio fungerebbe di per sé da rimedio, portando di necessità alla formazione di un nuovo equilibrio economico. Questa legge è detta pure legge degli sbocchi, poiché ogni produzione troverebbe sempre un naturale sbocco sul mercato. Say quindi era convinto che il mercato lasciato a se stesso tende a raggiungere l'equilibrio di piena occupazione.

Ci sono due corollari della legge:

ogni produzione genera un reddito di importo equivalente;

tutto il reddito viene sempre interamente speso (direttamente o indirettamente).

La formulazione della legge da parte di Say

Nel Capitolo XV del Libro I del suo Traité d'économie politique (1803), Say scrive:

« Un prodotto terminato offre da quell'istante uno sbocco ad altri prodotti per tutta la somma del suo valore. Difatti, quando l'ultimo produttore ha terminato un prodotto, il suo desiderio più grande è quello di venderlo, perché il valore di quel prodotto non resti morto nelle sue mani. Ma non è meno sollecito di liberarsi del denaro che la sua vendita gli procura, perché nemmeno il denaro resti morto. Ora non ci si può liberare del proprio denaro se non cercando di comperare un prodotto qualunque. Si vede dunque che il fatto solo della formazione di un prodotto apre all'istante stesso uno sbocco ad altri prodotti. »

(Traité d'économie politique, Libro I, Cap. XV, pp. 141-142)

Come si vede, Say assume che il denaro ricavato dalla vendita sia destinato ad essere immediatamente speso; in questo senso il venditore è sempre anche un compratore e, con ciò, offre uno sbocco alle produzioni altrui. Questa conclusione è in effetti conforme alla regola della contabilità a partita doppia, la quale afferma che in ogni transazione un individuo è, contemporaneamente, sia addebitato sia accreditato.

La critica di Keynes

John Maynard Keynes, nella sua Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, ha criticato la legge sostenendo che il detentore di moneta può essere motivato a trattenerla invece che a spenderla; il venditore, quindi, può non risolversi in consumatore, causando una domanda aggregata insufficiente. Tale ipotesi si basa sul concetto di tesaurizzazione: la tesaurizzazione consiste nella fuoriuscita di parte del reddito ricevuto sotto forma di salari o profitto o interesse dal circuito economico definito dalla circolazione monetaria.

Bastiat


Rivoluzione industriale

La rivoluzione industriale è un processo di evoluzione economica che da un sistema agricolo-artigianale-commerciale porta ad un sistema industriale moderno caratterizzato dall'uso generalizzato di macchine azionate da energia meccanica e dall'utilizzo di nuove fonti energetiche inanimate (come ad esempio i combustibili fossili).

Spesso si distingue fra prima e seconda rivoluzione industriale. La prima riguarda prevalentemente il settore tessile-metallurgico e comporta l'introduzione della spoletta volante e della macchina a vapore; il suo arco cronologico è solitamente compreso tra il 1760-1780 e il 1830. La seconda rivoluzione industriale viene fatta convenzionalmente partire dal 1870-1880, con l'introduzione dell'elettricità, dei prodotti chimici e del petrolio. Talvolta ci si riferisce agli effetti dell'introduzione massiccia dell'elettronica e dell'informatica nell'industria come alla terza rivoluzione industriale, che viene fatta partire dal 1970.

La rivoluzione industriale comporta una profonda ed irreversibile trasformazione che parte dal sistema produttivo fino a coinvolgere il sistema economico nel suo insieme e l'intero sistema sociale. L'apparizione della fabbrica e della macchina modifica i rapporti fra gli attori produttivi. Nasce così la classe operaia che riceve, in cambio del proprio lavoro e del tempo messo a disposizione per il lavoro in fabbrica, un salario. Sorge anche il capitalista industriale, imprenditore proprietario della fabbrica e dei mezzi di produzione, che mira ad incrementare il profitto della propria attività.

Origine dell'espressione

La locuzione rivoluzione industriale, usata molto probabilmente per la prima volta già negli anni venti del XIX secolo, modellata in analogia con il termine Rivoluzione francese (tesi sostenuta da Raymond Williams), è stata sicuramente citata, secondo lo storico Fernand Braudel, nel 1837 dall'economista francese Adolphe Blanqui, fratello del celebre rivoluzionario Auguste Blanqui. Fu però definitivamente consacrata solo nel 1884 da Arnold Toynbee con la pubblicazione delle sue Conferenze sulla rivoluzione industriale in Inghilterra..

Fu tra l'altro utilizzata in precedenza da:

Karl Marx ne Il Capitale (1867);

John Stuart Mill nei suoi Principi (1848);

Friedrich Engels ne La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845).

Il termine rivoluzione sta a rappresentare un totale cambiamento nella società o in alcuni suoi aspetti, come ad esempio in rivoluzione scientifica.

Il termine industria è antichissimo ma è solo alla fine del Settecento che acquista l'accezione di "settore manifatturiero", sebbene già al 1713 si può far risalire l'inizio della decadenza della protoindustria quando John Lombe fondò uno stabilimento dotato di una macchina per lavorare la seta, impiegandovi ben 300 operai.

Delimitazione temporale e diffusione

Il termine rivoluzione, inizialmente indicante un moto circolare che torna su sé stesso, ha in seguito definito una rottura, un capovolgimento. Con il termine rivoluzione industriale si fa implicitamente riferimento a questo secondo senso. Il sistema produttivo che risulta dalla rivoluzione industriale è radicalmente differente rispetto al sistema precedente di tipo agricolo-manifatturiero.

Alcuni storici minimizzano l'importanza degli avvenimenti identificati alla rivoluzione industriale sostenendo che le trasformazioni strutturali delle economie europee ebbero inizio già nel secolo precedente. Più che di una rottura si tratterebbe solo, per questi autori, di un'accelerazione di un processo già in corso. In Inghilterra, primo paese nel quale si assiste alla rivoluzione industriale, questo processo ha avuto luogo nella sua prima fase e secondo la delimitazione di Thomas S. Ashton, fra il 1760 – anno d'inizio del regno di Giorgio III – e il 1830 – anno d'inizio del regno di Guglielmo IV. Questa prima rivoluzione industriale prende avvio nel settore tessile (cotone), metallurgico (ferro) ed estrattivo (carbon fossile). Il periodo vittoriano (1831-1901), nel quale avviene la seconda rivoluzione industriale (1850 circa), sarà per l'Inghilterra quello dello sviluppo e dell'apogeo della propria economia, archetipo del sistema capitalista-industrializzato.

La rivoluzione industriale si è poi estesa ad altri Stati, in particolare: Francia, Germania, Stati Uniti e Giappone fino a coinvolgere l'intero Occidente e, nel XX secolo, parte di altre regioni del mondo, prime fra tutte l'Asia. Ogni paese ha seguito un suo percorso verso la propria rivoluzione industriale e la stessa si è realizzata in modo differenziato. Così se in Inghilterra il processo prese avvio nel settore tessile, in altri paesi la rivoluzione industriale fu letteralmente trainata dall'introduzione della locomotiva (Thompson) a vapore. Anche il ruolo dello Stato varia da paese a paese: se in Inghilterra la rivoluzione industriale è sorta spontaneamente ed è stata alimentata dall'iniziativa (pur sostenuta e favorita da atti legislativi emanati dal Parlamento, come quelli relativi alle recinzioni e alle strade), in altri paesi lo Stato ha dato contributi maggiori e spesso determinanti.

Altri storici, come Jean Gimpel sostengono persino l'esistenza di rivoluzioni industriali precedenti a quella sorta in Inghilterra alla fine del XVIII secolo. Nell'epoca feudale si sarebbero così realizzate rivoluzioni sostanziali delle tecniche agricole e industriali, basti pensare al ruolo dei mulini. John Nef sostiene l'esistenza di una rivoluzione industriale in Inghilterra già a partire dalla fine del XVI secolo e l'inizio del XVII secolo. La rivoluzione industriale si pone così fra rottura e/o continuità.

I fattori che determinano uno stato industrializzato

Per dichiarare che un paese sta compiendo un processo di industrializzazione deve esserci una crescita del PIL più rapido dell’incremento demografico (deve essere positivo, ma non eccessivo). Nel caso inglese, la crescita del PIL va dal +2% al +4% all’anno, mentre l’aumento demografico annuale è del +1% circa. La crescita della popolazione industriale deve essere maggiore rispetto a quella degli altri settori (agricoltura e servizi). E il rapporto tra il numero di lavoratori e la quantità di prodotto deve essere in crescita (aumento della produttività). Per recuperare i fondi per l’apertura di nuove industrie è indispensabile lo sviluppo del commercio con lo scopo di accumulare capitali. Un altro fattore indispensabile è la Rivoluzione “Agricola”, ovvero la trasformazione della proprietà agraria consentendo l’espulsione della forza-lavoro dalla campagna con trasferimento in città (a lavorare nelle industrie). L’incremento demografico è un altro fattore utile per l’aumento della manodopera industriale (mantenuto sempre sotto la soglia del PIL). Questi ultimi due fattori, aumentando la forza-lavoro permettono un abbassamento dei prezzi, favorendo l'offerta.

I tre settori di Colin Clark

L'economista Colin Clark ha elaborato la legge dei tre settori (o di Colin Clark), che mette in relazione lo sviluppo di un'economia con la trasformazione della stessa: in un primo momento, corrispondente alla Rivoluzione industriale, si assiste alla diminuzione del peso nell'economia del settore agricolo e all'aumento del ruolo svolto dal settore industriale, che diventa il più importante per quota di prodotto e occupati; in una seconda fase si assiste al sorpasso del settore industriale da parte del terziario (detto così perché non rientra né nel primo settore, quello agricolo, né nel secondo, quello industriale). Il terziario è attualmente considerato il settore più importante dell'economia, e raggruppa nel suo insieme il commercio, il turismo, l'apparato amministrativo, le consulenze (in tutti i campi a partire da quello bancario, i mass-media...).

Origini

Come accade in molti processi storici, per la rivoluzione industriale non esiste una data di inizio certa, anche se l'invenzione cardine è quella del motore a vapore. Ogni mutamento profondo dell'economia è però influenzato dalle trasformazioni precedenti e così la Rivoluzione industriale viene considerata da alcuni studiosi come l'ultimo momento di una serie di cambiamenti che hanno trasformato l'Europa da terra povera, sottosviluppata e poco popolata all'inizio del Medioevo, nella zona più ricca e sviluppata del mondo nel corso dell'Ottocento. L'accumulo di capitale incamerato in seguito ai commerci e la disponibilità di ingenti quantità di acciaio e carbone nei paesi del Nord, facilmente trasportabili attraverso una fitta rete di canali navigabili, resero possibili gli investimenti necessari alla creazione delle prime fabbriche.

Da un punto di vista economico, l'elemento che caratterizza la Rivoluzione industriale è il salto di qualità nella capacità di produrre beni, cui si assiste in Gran Bretagna, a partire dalla seconda metà del Settecento. Più precisamente la crescita dell'economia inglese nel periodo 1760-1830 è la più alta registrata fino a quel momento. In altri paesi il processo di industrializzazione è analogamente origine, in epoche successive, di elevati tassi di crescita dell'economia.

Sostanzialmente, la Rivoluzione industriale ha costituito l'approdo a cui ha portato l'aumento di conoscenze scientifiche sul mondo naturale, e sulle sue caratteristiche, derivante dalla Rivoluzione scientifica. Fu infatti il nuovo Metodo scientifico iniziato dall'italiano Galileo Galilei a portare ad un sensibile (e senza precedenti) aumento delle conoscenze che gli Europei avevano sulla natura, ed in particolar modo sui materiali e le loro proprietà. Condizioni particolarmente favorevoli nell'Inghilterra dell'epoca consentirono poi a tali conoscenze scientifiche di tramutarsi in conoscenze tecniche e tecnologiche, finché esse cominciarono ad essere applicate nelle prime fabbriche tessili e nell'industria siderurgica per una produzione di ferro ed acciaio che non ebbe paragoni nella precedente storia dell'umanità.

Dal punto di vista tecnologico la Rivoluzione industriale si caratterizza, come già detto, per l'introduzione della macchina a vapore. Nella storia dell'umanità il maggior vincolo alla crescita della produzione di beni è infatti quello energetico. Per molti secoli l'umanità si trova a disporre soltanto dell'energia meccanica muscolare offerta dal lavoro di uomini e animali, e questo oltre a tutti i problemi che ne derivavano non dava la possibilità di incrementare la produzione essendo legati al lavoro manuale. La progressiva introduzione, a partire dal Medioevo, del mulino ad acqua e del mulino a vento rappresenta la prima innovazione di rilievo.

L'energia abbondantemente offerta dalla macchina a vapore viene applicata alle lavorazioni tessili, rendendo possibile una più efficiente organizzazione della produzione grazie alla divisione del lavoro e allo spostamento delle lavorazioni all'interno di fabbriche appositamente costruite, nonché alle estrazioni minerarie e ai trasporti. Le attività minerarie beneficiano della forza della macchina a vapore nella fase di estrazione dell'acqua dalle miniere, permettendo di scavare a maggiore profondità, come anche nel trasporto del minerale estratto. I primi vagoni su rotaia servono a portar fuori dalle miniere il minerale, poi a portarlo a destinazione. Solo in un secondo tempo il trasporto su rotaia si converte nel trasporto di passeggeri. La rivoluzione industriale ha prodotto effetti non solo in campo economico e tecnologico, ma anche un aumento dei consumi e della quota del reddito, dei rapporti di classe, della cultura, della politica, delle condizioni generali di vita, con effetti espansivi sul livello demografico.

Perché in Inghilterra

Importante per la Rivoluzione industriale in Inghilterra fu l'agricoltura; infatti l'Inghilterra fu la prima ad avere un'agricoltura di mercato (non per auto-consumo ma per profitto) che, unita all'innovazione tecnologica, eliminò molta manodopera dalle campagne, facendola rifluire verso la città, dove troverà occupazione nella nascente industria. Ma il fenomeno delle enclosures, per cui molta terra demaniale lasciata al libero pascolo venne privatizzata e recintata, privò i contadini più poveri del libero diritto di pastorizia e li spinse a trovare nuovo impiego nelle fabbriche. La disponibilità ingente di manodopera a basso costo, unita alla grande disponibilità di carbone per alimentare le macchine a vapore, contribuì in maniera fondamentale al decollo industriale del paese. Inoltre l'Inghilterra si trova in una posizione geografica favorevole ai commerci nell'Oceano Atlantico, mentre la sua insularità le consentì una facile difesa dei propri confini, evitandole le periodiche devastazioni che, al contrario, dovette subire il resto dell'Europa per le svariate guerre sette-ottocentesche. Altro importante fattore è la rivoluzione agricola sviluppatasi nel corso del Settecento, che con sistemi di avanguardia come la rotazione quadriennale programmata delle colture agevolò lo sviluppo industriale e demografico. L'Inghilterra era l'unico paese in cui poteva svolgersi e il perché risale all'epoca elisabettiana: avendo lei trasformato il paese da povero a padrone dei mari, gli aveva fornito il denaro necessario perché questo fenomeno avesse potuto avere luogo e così diventasse il paese più ricco d'Europa per un lungo periodo, superando anche la Francia che, nonostante le grandi potenzialità, in quel periodo soffriva socio-economicamente della politica assolutista.

Dinamica economica

Per spiegare come si sia passati da un sistema manifatturiero di tipo artigianale a uno di tipo industriale occorre considerare che la domanda di beni è aumentata in Inghilterra nel periodo che precede la rivoluzione industriale. Questo si deve sia alla crescita demografica sia al livello del reddito pro capite e dei salari, più elevato di molti paesi europei, sia alla domanda di beni inglesi proveniente dagli immensi territori coloniali: da cui proveniva, per esempio, il cotone grezzo della Virginia, che lavorato veniva rivenduto ovunque, compresi i territori coloniali. Il monopolio del commercio del tè consentì alla corona di incamerare cifre ragguardevoli. Si trattava, in pratica, di una domanda di beni di largo consumo, destinati a soddisfare bisogni elementari di crescenti masse di persone in patria e all'estero. La crescita della domanda favorì gli investimenti in impianti industriali e in macchinari, i quali, per essere convenienti, richiedono che la domanda di beni sia sostenuta. Tuttavia, in settori come il tessile il passaggio graduale delle lavorazioni, inizialmente di tipo artigianale, in un sistema di fabbrica ha permesso di compiere investimenti in maniera graduale, via via che erano accumulati i capitali necessari. È il caso dei canali navigabili e delle ferrovie, la cui costruzione si deve in buona parte all'iniziativa dei privati, indotti a investire in settori nuovi per soddisfare la domanda crescente dei corrispondenti servizi sociali.

Innovazioni tecnologiche

Le innovazioni tecniche coinvolsero le macchine utensili e le macchine motrici, le industrie tessili e l'industria pesante (metallurgica e meccanica). Quest'ultima divenne determinante nella metà del XIX secolo, in concomitanza con lo sviluppo delle ferrovie. La produzione domestica di tessuti era particolarmente lenta nella fase della filatura, poiché occorrevano cinque filatori per alimentare un solo telaio a mano. Lo squilibrio si accentuò intorno alla metà del XVIII secolo, quando i tempi della tessitura furono ulteriormente ridotti dalla diffusione della spoletta volante (brevettata nel 1733 da John Kay). Nella seconda metà del secolo, due importanti invenzioni modificarono ancor di più il panorama della tecnologia tessile: James Hargreaves inventò, nel 1765, la giannetta (o Spinning Jenny), mentre Richard Arkwright, nel 1767, il filatoio idraulico (o Water frame): la prima accelerava la filatura da 6 a 24 volte, il secondo addirittura di alcune centinaia di volte. Tutto ciò rese evidentemente obsoleti i telai a mano.

Nel 1787 Edmund Cartwright inventò il telaio meccanico, che fu perfezionato e adottato nei decenni successivi: intorno al 1825, un solo operaio, sorvegliando due telai meccanici, poteva sbrigare un lavoro che con i telai a mano avrebbe richiesto l'opera di una quindicina di persone. Mentre in India per tessere a mano 100 libbre di cotone occorrevano oltre 100.000 ore di lavoro, in Gran Bretagna con le nuove macchine erano sufficienti circa 135 ore, il che aumentava anche la competitività. L'aumento della produzione di tessuti stimolò lo sviluppo dell'industria chimica, per rendere competitive le fasi di candeggiatura, tintura e stampa. Ben presto l'industria chimica divenne fondamentale per tutti i rami della produzione, sia industriale, sia agricola.

Lo sviluppo industriale richiese quantità sempre maggiori di energia, ben superiori a quelle fornite dalla mano dell'uomo. La ricerca mirò quindi alla realizzazione di motori adeguati. James Watt (1736-1819) modificò la macchina a vapore, ottenendo un rendimento ben quattro volte superiore a quello delle precedenti vaporiere (1787). Nell'arco del XIX secolo, la macchina a vapore finì per affermarsi definitivamente anche in altri rami della filiera produttiva (ad esempio, nei trasporti terrestri e marittimi). Essa sostituì le tradizionali fonti di energia che presentavano il gravissimo inconveniente di non essere disponibili nelle quantità e nei tempi e luoghi richiesti (mulini ad acqua e a vento), o di non essere instancabili e adeguate alle nuove macchine utensili (energia muscolare dell'uomo e degli animali). Altro fattore decisivo fu l'abbondantissima ricchezza di giacimenti di carbone in Inghilterra: la macchina a vapore consentiva di produrre energia di una intensità e di una concentrazione senza precedenti. Con l'adozione del vapore la richiesta di ferro e di leghe adeguate subì un rapido incremento.

All'inizio del XVIII secolo, un progresso decisivo nel campo della siderurgia, ancora nella sua fase preindustriale, era stato conseguito da Abraham Darby, che per la lavorazione dei minerali ferrosi aveva iniziato ad usare, anziché il carbone di legna, il coke, ossia l'antracite distillata a secco per eliminarne le sostanze che avrebbero inquinato i processi di fusione. Senza tale innovazione, la siderurgia avrebbe presto incontrato «i limiti dello sviluppo», perché l'uso tradizionale del carbone di legna avrebbe in breve tempo comportato la distruzione delle foreste. Poiché la combustione del coke negli altiforni doveva essere ravvivata da correnti d'aria assai più intense di quelle ottenibili dai vecchi mantici azionati dai mulini, fu necessario utilizzare a questo scopo proprio la macchina a vapore, che quindi trovò la sua prima applicazione in una fonderia.

Tra il 1783 e il 1784 Henry Cort introdusse nella siderurgia la laminazione e il puddellaggio. Quest'ultimo consisteva nella purificazione dei minerali ferrosi mediante rimescolamento ad altissime temperature in presenza di sostanze ossidanti. La laminazione purificava ulteriormente il ferro e lo sagomava secondo le forme richieste, facendolo passare a forza attraverso i rulli di un laminatoio, che sostituiva il vecchio metodo di percussione sotto maglio e accorciava i tempi di ben quindici volte. Per ottenere barre, rotaie o travi bastava modificare la forma dei rulli.

Processi analoghi a quelli svoltisi in Inghilterra fra il XVIII e il XIX secolo si riprodussero in tutti i paesi nei quali la rivoluzione industriale si affermò. Però, mentre in Inghilterra la rivoluzione industriale era stata il risultato di iniziative private non inquadrate in alcun piano o programma, altrove l'intervento statale ebbe una parte più o meno grande.

Esplosione demografica

La rivoluzione industriale innescò diverse dinamiche socio-economiche che, combinatesi fra loro, provocarono nelle aree coinvolte un rapido e considerevole accrescimento della popolazione.

L'innalzamento delle rese agricole, che consentirono un notevole incremento nella disponibilità delle risorse, i progressi nel campo igienico e sanitario, che abbatterono i tassi di mortalità e innalzarono l'età media della popolazione, l'estinzione o comunque la riduzione delle ricorrenti calamità che da secoli colpivano le aree più popolate, come peste, colera, carestie di varia natura, sono tutti fattori che congiuntamente condussero nel giro di alcuni decenni ad un incremento esponenziale della popolazione.

Complessivamente, negli ultimi due secoli, a partire quindi dall'inizio della rivoluzione industriale, la popolazione europea è cresciuta di quasi quattro volte, la speranza di vita è passata da valori compresi tra i 25 e i 35 anni a valori che superano i 75 anni, il numero di figli per donna scesi da 5 a meno di 2 e natalità e mortalità scesi da valori compresi tra il 30 e il 40 per mille a valori prossimi al 10.

L'esplosione delle dinamiche demografiche a sua volta costituirà, specie nell'epoca della seconda rivoluzione industriale un fattore di sviluppo della economia, spingendo sempre più verso varie forme di consumismo, ma provocando anche nuovi problemi sociali e politici, legati all'inurbamento disordinato dei grandi centri, alla distribuzione delle risorse, ai fenomeni migratori.

Impatto sociale dell'industrializzazione

La rivoluzione industriale comportò un generale stravolgimento delle strutture sociali dell'epoca, attraverso una impressionante accelerazione di mutamenti che portò nel giro di pochi decenni alla trasformazione radicale delle abitudini di vita, dei rapporti fra le classi sociali, e anche dell'aspetto delle città, soprattutto le più grandi.

Fu infatti prevalentemente nei centri urbani, specie se industriali, che si avvertirono maggiormente i mutamenti sociali, con la repentina crescita di grandi sobborghi a ridosso delle città, nei quali si ammassava il sottoproletariato che dalle campagne cercava lavoro nelle fabbriche cittadine. Si trattava per lo più di quartieri malsani e malfamati, in cui le condizioni di vita per decenni rimasero spesso al limite della vivibilità.

In Inghilterra sorsero interi quartieri di "case popolari" o "slums" che ospitavano più di una famiglia in condizioni igienico-sanitarie generalmente pessime, basti pensare che una persona su due moriva per intossicazione da materiali di costruzione.

Una simile situazione, sia pure con diverse varianti e aspetti peculiari a seconda dell'epoca e dei Paesi industriali, si è protratta fino a tempi più recenti, e ha dato spunto per una vasta letteratura, politica, sociologica, ma anche narrativa. In Francia, ad esempio, fu Émile Zola a denunciare attraverso i suoi romanzi le miserevoli condizioni delle classi più umili nella Parigi dell'epoca, o ad esempio dei minatori, nel romanzo "Germinal". Prima ancora, in Gran Bretagna, Charles Dickens aveva più volte ritratto nei suoi romanzi una umanità disperata e incattivita dagli spietati meccanismi produttivi imposti dalla rivoluzione industriale.

Nel verismo italiano è assente la realtà industriale, in quanto il Meridione si poggiava essenzialmente su un sistema agricolo, sostituita dalla presenza di tanti personaggi di contadini oppressi e affamati dal monopolio della nobiltà rurale: Nedda, la ragazza protagonista della breve novella considerata uno dei massimi capolavori di Giovanni Verga, è un personaggio simbolo del disagio del Sud.

In campo politico-filosofico è indubbio che siano state le condizioni umane e sociali delle masse operaie dell'epoca ad aver stimolato le opere di Karl Marx e Friedrich Engels, che avranno nel secolo successivo una fondamentale importanza nel panorama politico mondiale.

Nonostante gli effetti spesso negativi sul proletariato urbano, dovuti alle iniziali condizioni di sfruttamento economico e di urbanizzazione incontrollata, la rivoluzione industriale a lungo andare ha permesso comunque di elevare le condizioni di benessere di una sempre più vasta percentuale della popolazione, conducendo già dalla fine del XIX secolo ad un generale miglioramento delle condizioni sanitarie (non è casuale che dalla rivoluzione industriale in poi l'Europa non abbia più conosciuto l'incubo della peste e delle carestie di tipo agricolo), un sensibile prolungamento della vita media degli individui, un estendersi della alfabetizzazione, la disponibilità per un maggior numero di persone di beni e servizi che in altre epoche erano totalmente preclusi alle classi più povere.

Le numerose e importantissime novità tecnologiche hanno avuto un ruolo decisivo in tal senso. L'avvento, concentrato in pochi decenni, di grandi scoperte in campo scientifico e medico, e di invenzioni come la macchina industriale a vapore, la ferrovia, l'energia elettrica, l'illuminazione a gas e quella elettrica, il telegrafo, la dinamite, e nella seconda fase della rivoluzione, il telefono e l'automobile, ha rapidamente trasformato la vita della popolazione e coinvolto l'intero quadro sociale dei paesi industrializzati, modificando alla radice secolari abitudini di vita e contribuendo ad un rapidissimo cambio di mentalità e di aspettative degli individui.

La rivoluzione industriale darà l'avvio anche a un lento processo di emancipazione femminile, generato in prima battuta dall'ingresso nel mondo del lavoro delle donne, che in gran numero cominciano ad essere impegnate inizialmente come operaie nelle fabbriche e, a partire dall'epoca della seconda rivoluzione industriale, anche in ruoli impiegatizi e di concetto.

Anche i rapporti fra le classi sociali furono profondamente modificati: l'aristocrazia, già messa in crisi dalla Rivoluzione francese, perse definitivamente, con la Rivoluzione industriale, il suo primato, a favore della borghesia produttiva. Parallelamente si formò per la prima volta una vasta classe, che sarà definita da Karl Marx "classe operaia" che solo a distanza di decenni, lentamente e faticosamente, riuscirà a conquistare un suo peso sociale e politico nella vita dei paesi industrializzati.

Da parte di alcune classi di lavoratori le innovazioni vennero viste come un concorrente alle loro specializzazioni, al quale si opposero con la nascita del luddismo verso il 1811, proponendosi di distruggere le macchine con la violenza.

Mutamento delle città

Nel 1815, nei primi anni della seconda rivoluzione industriale l’unica città con più di un milione di abitanti era Londra che aveva già vissuto la prima rivoluzione industriale; seguivano tre città con circa 500.000 abitanti: Parigi, Napoli e Istanbul. Con l’industrializzazione l’aspetto della città cambia notevolmente: vengono abbattute le mura per far spazio alla nuova borghesia industriale ma soprattutto alle fabbriche e a tutte quelle persone che si trasferiscono dalla campagna alla città come lavoratori nelle fabbriche; poi con l’invenzione della locomozione a vapore la ferrovia diventa un'infrastruttura fondamentale. Gli elementi che favorivano l’industrializzazione erano la presenza di rotte commerciali, di materie prime e di legislazioni favorevoli. Per questo motivo non erano sempre le grandi città di un tempo che poi si trasformavano in città industriali, ma a volte si valorizzavano dei paesi rurali che anche se non grandi favorivano lo sviluppo. In Inghilterra gli esempi sono Manchester, Birmingham e Leeds, che sono passati da piccole cittadine a grandi agglomerati urbani.

Struttura delle città industriali

La città industriale ha più o meno una struttura corrente formata da:

centro: composto da centro storico, la parte più antica della città e che un tempo stava dentro le mura ora demolite, e case borghesi, create con l’arrivo della borghesia capitalista, ovvero i quartieri residenziali, e uffici e negozi;

periferia, assai più ampia del centro, composta da fabbriche e case popolari, nei quartieri popolari;

C’erano molte differenze tra centro e periferia; se nei quartieri residenziali comincia a nascere un'architettura, l’urbanistica, che cerca di dare una pianta precisa alla città e un aspetto esteticamente bello, nella periferia le case sorgono tutte ammassate, di solito case a schiera, piccole e troppo vicino alle fabbriche: il principio di costruzione non era la funzionalità, ma piuttosto l’economia degli spazi e del denaro, e non ci si occupava di dare dei servizi obbligatori come le fognature e l'acqua corrente.

La nascita dell'Urbanistica

Con la nascita dell'Urbanistica, specie nel periodo della seconda rivoluzione industriale si iniziano anche delle operazioni di riammodernamento dei centri urbani. Negli ultimi decenni del XIX secolo le amministrazioni delle grandi città iniziarono infatti a pianificare interventi di ristrutturazione urbanistica su larga scala, come ad esempio la grande trasformazione operata a Parigi durante il Secondo Impero, che prevedevano talvolta anche l'abbattimento di interi quartieri fra i più vecchi e fatiscenti, per far posto a zone ricostruite secondo schemi urbanistici più razionali, rispondenti a canoni più moderni e funzionali. Fu proprio per la necessità di mettere ordine e poter controllare queste enormi caotiche aree urbane che si iniziò in tutti i paesi industrializzati ad introdurre sistematicamente i numeri civici nelle abitazioni e a regolamentare in modo più rigoroso lo sviluppo delle reti stradali, fognarie e dei servizi pubblici in generale.

La rivoluzione dei trasporti

George Stephenson, riuscì a costruire la locomotiva a vapore. Altro fattore scatenante della rivoluzione industriale fu quello della rivoluzione dei trasporti. Il sistema stradale in Francia fu ampliato a partire dal 1738 e nel 1780 contava già oltre 25.000 chilometri di strade costruite. Questo dimezzò i tempi di percorrenza, e facilitò quindi anche i trasporti, importanti per l'approvvigionamento dei minerali e del carbon-fossile.

Una soluzione analoga fu trovata anche per l'Inghilterra che però, al posto di costruire strade, costruì canali per la navigazione. Il primo canale inglese fu finito nel 1761 e, quarant'anni dopo, la rete dei canali era pari a 1000 chilometri.

Le strade delle città furono dotate di una fitta rete di binari percorsi da tram a cavalli.

Un'altra innovazione chiave fu la nascita della Ferrovia più quella della Macchina a Vapore già trattata in precedenza.


Capitalismo

Il termine capitalismo può riferirsi in genere a diverse accezioni quali:

Una combinazione di pratiche economiche, che venne istituzionalizzata in Europa, tra il XVII e il XIX secolo, che coinvolge in particolar modo il diritto da parte di individui e gruppi di individui che agiscono come "persone giuridiche" (o società) di comprare e vendere beni capitali (compresi la terra e il lavoro; vedi anche fattori della produzione) in un libero mercato (libero dal controllo statale).

Un insieme di teorie intese a giustificare la proprietà privata del capitale, a spiegare il funzionamento di tali mercati, e a dirigere l'applicazione o l'eliminazione della regolamentazione governativa di proprietà e mercati;

Il sistema economico, e per estensione l'intera società, il cui funzionamento si basa sulla possibilità di accumulare e concentrare ricchezza in una forma trasformabile (in denaro) e re-investibile, in modo che tale concentrazione sia sfruttata come mezzo produttivo;

Regime economico e di produzione che nelle società avanzate viene a svilupparsi in periodi di crescita, riconducibile a pratiche di monopolio, di speculazione e di potenza.

La parola "capitalismo" è usata con molti significati differenti, a seconda degli autori, dei periodi storici, e talvolta del giudizio di valore che l'autore porta sull'organizzazione sociale vigente. Volendo trovare un comune denominatore alle diverse visioni, si può forse affermare che per capitalismo si intenda, generalmente e genericamente, il "sistema economico in cui i beni capitali appartengono a privati individui".

Va anzitutto distinta la nozione di "capitalismo" come fenomeno (cioè, come sistema politico-economico e sociale) dalla nozione di "capitalismo" come ideologia (la posizione che difende la "naturalità" o la "superiorità" di tale sistema, basato sulle competizioni di detentori di capitali privati).

Essendo un termine carico di significati diversi, esso ha rappresentato spesso uno spartiacque politico che ha diviso le posizioni ideali in fautori, oppositori e critici del capitalismo.

Alle diverse definizioni di "capitalismo" come sistema economico-sociale fanno spesso riscontro diverse definizioni di cosa sia il "capitale". Molto raramente gli autori hanno definito in modo esplicito l'uno o l'altro dei termini, e pertanto tali definizioni spesso (anche se non sempre) devono essere ricavate attraverso un'analisi critica del complesso dei loro testi.

Capitalismo nella Storia

Il capitalismo è un fenomeno difficilmente inquadrabile storicamente, politicamente e socialmente a causa della mancanza di una definizione universalmente accettata e che non lasci spazio ad ambiguità interpretative. Alcuni studiosi ritengono pertanto corretto affermare che il capitalismo non rappresenti altro che il metodo più naturale di allocare le risorse disponibili all'interno di una comunità economica (per ragioni che saranno mostrate in seguito) e che quindi sia sempre esistito in varie forme, a partire dalle comunità preistoriche fino ai giorni nostri. Coloro che non concordano con questa ipotesi sostengono che il capitalismo non sia che il modo più comune possibile di distribuire le risorse, bensì sia solo un'opzione: il dibattito verte principalmente sull'esistenza o meno di altri metodi per la distribuzione delle risorse (quali il comunismo o il socialismo) e che questi siano applicabili nella realtà economica attuale o del passato.

I sostenitori della tesi del Capitalismo perenne affermano che il continuo tentativo di migliorare le proprie condizioni di vita (e quindi anche economiche) a discapito di altri soggetti o di altre comunità faccia parte del naturale comportamento dell'uomo e sono dunque convinti che il capitalismo - inteso come attitudine umana all'arricchimento personale o della propria comunità (generalizzando, il miglioramento delle proprie condizioni di vita) attraverso il concentramento di risorse universalmente limitate e quindi di valore - sia sempre esistito e continuerà a esistere, nonostante si sia manifestato sotto forme differenti nella storia. Naturalmente se il capitalismo fosse inteso solo come modello economico (limitato quindi agli aspetti meramente economici e non antropologici o sociali), questo non potrebbe avere le caratteristiche descritte sopra.

I detrattori di questa teoria (che intendono il capitalismo come un fenomeno di ampio respiro, non solo in ambito economico) sostengono che il capitalismo non sia sempre esistito (taluni ritengono sia nato con l'agricoltura, nella Mezzaluna fertile, altri nell'antichità classica con la schiavitù, altri ancora agli inizi della Prima Rivoluzione Industriale) e/o che non durerà per sempre. Il comunismo nelle sue forme sovietica o cubana o nordcoreana o cinese è un punto importante del dibattito; gli scarsi risultati ottenuti da tutte le tre economie non lasciano adito solo a domande circa l'efficacia del modello economico comunista, ma fanno anche dubitare riguardo alle reali differenze che esistono fra le varie interpretazioni di comunismo e il capitalismo occidentale (si pensi all'economia cinese, in rapida crescita grazie a un modello di sviluppo estremamente simile a quello degli Stati Uniti della Seconda Rivoluzione Industriale).

Capitalismo e globalizzazione

Il termine "capitalismo" si aggiorna e acquista nuovi significati in ogni epoca storica, che sia usato esplicitamente o implicitamente per indicare "lo stato di cose presente" (per parafrasare Karl Marx). In particolare, inteso come sistema economico-politico, esso acquista una nuova fisionomia con il processo di globalizzazione, altro termine per il quale esistono molte varianti e sfumature di significato, raramente esplicite. Il suo significato ed il suo senso si intreccia dunque oggi con quello di globalizzazione, e pensatori di riferimento - nel contesto di una visione del capitalismo come prodotto della storia - possono essere considerati Joseph Stiglitz, Giovanni Arrighi, l'economista indiano Prem Shankar Jha, i quali utilizzano tutti esplicitamente la parola "capitalismo", intesa in un senso molto prossimo a quello di K.Polanyi. Della globalizzazione si interessano specificamente anche Paul Krugman, l'economista francese Jean-Paul Fitoussi, assieme all'economista francese liberale Maurice Allais, il quale è, nonostante questo, un feroce oppositore del liberoscambismo (altro termine per "neoliberalismo" o, in Italia, Neoliberismo).

Capitalismo e ideologie politiche

Vi sono molte ideologie politiche ed economiche differenti, talvolta opposte, che valutano positivamente il capitalismo:

miniarchismo (o liberalismo classico): difende una forma "pura" di economia di mercato con interventi statali ridotti al minimo.

conservatorismo: le posizioni specifiche sono variabili a seconda dei diversi Paesi, ma nei Paesi occidentali, solitamente difende qualcosa di non dissimile dallo status quo delle pratiche capitaliste attuali (vedi: conservatorismo politico).

mercantilismo: difende l'intervento statale a protezione di industrie e commercio interno contro la concorrenza estera (vedi protezionismo).

liberismo: considerato da molti come l'applicazione in ambito economico delle idee liberali

neoliberismo: dottrina economica non ben definita che ha avuto grande impulso a partire dagli anni ottanta del secolo scorso

neoilluminismo: l'idea che al mondo non ci sia stato mai un vero Stato e che quindi tutte le teorie economiche siano falsate. Si propone il raggiungimento del "vero Stato", coll'instaurazione dell'eunomia.

distributismo: creato per applicare quei principi di dottrina economico-sociale della Chiesa cattolica affondanti le radici nel pauperismo medievale (ora et labora) ed espressi modernamente nella dottrina di Papa Leone XIII dell'enciclica Rerum novarum.

Molte ideologie differenti, spesso politicamente contrapposte, si oppongono al capitalismo in favore di diverse forme di economia pianificata (talora indicate come collettivismo), tra cui:

socialismo: in alcune delle sue espressioni, promuove un esteso controllo statale dell'economia, anche se con aree piccole e tollerate di capitalismo.

laburismo: forma di socialismo fondata sul lavoro e sull'anticapitalismo

liberal-laburismo: forma di socialismo libertario fondata sul lavoro e sulla meritocrazia.

socialismo libertario: sostiene il controllo collettivo dell'economia senza bisogno di uno Stato.

Altre ideologie politiche propongono forme diverse di economie capitalistiche controllate, unendo diversi aspetti del socialismo e delle teorie liberiste:

socialdemocrazia: promuove una estesa regolamentazione statale e un parziale intervento in un contesto capitalistico (vedi: stato sociale, liberalismo politico, liberaldemocrazia, nuovo liberalismo).

capitalismo naturale: sottolinea il ruolo dell'impresa privata nel promuovere l'efficienza energetica e di materiali, ed il ruolo del governo nel rendere difficile o costoso ridurre la biodiversità o inquinare i beni comuni.

economia sociale di mercato: propone un compromesso tra il libero mercato e la giustizia sociale, fornendo allo stato il suo unico ruolo interventista solo al fine di garantire l'egualitarismo e le pari opportunità economiche a tutti i cittadini.

Infine, il comunismo e l'anarchia sostengono la necessità del superamento della società capitalistica, per una società senza classi, con il controllo diretto dei mezzi di produzione da parte dei lavoratori.

Argomentazioni

Poiché esistono così tante ideologie divergenti che promuovono o si oppongono al capitalismo, sembra difficile accordarsi su una lista di argomentazioni pro o contro. Ciascuna delle ideologie sopra elencate fa affermazioni molto diverse sul capitalismo. Alcuni si rifiutano di utilizzare questo termine.

Tuttavia, sembra possibile individuare quattro questioni separate e distinte sul capitalismo che sono chiaramente sopravvissute al XX secolo e sono ancora oggi discusse. Alcuni analisti sostengono o hanno sostenuto di possedere risposte semplici a queste domande, ma le scienze politiche le vedono in generale come diverse sfumature di grigio:

Il capitalismo è morale? Incoraggia realmente tratti che troviamo utili o desiderabili negli esseri umani?

Sì: Ayn Rand, Robin Hanson

No: John McMurty, Karl Marx

Il capitalismo è etico? Le sue regole, contratti e sistemi di applicazione possono essere resi totalmente obiettivi di coloro che li amministrano, ad un livello superiore rispetto ad altri sistemi?

Sì: Buckminster Fuller, John McMurty, Friedrich Hayek

No: Karl Marx, Pëtr Kropotkin

Il capitalismo è efficiente? Dati gli scopi morali o gli standard etici che potrebbe servire, qualunque essi siano, si può dire che esso distribuisca l'energia, le risorse naturali, la creatività umana, meglio di qualsiasi alternativa?

Sì: Léon Walras, Paul Hawken, Joseph Schumpeter

No: Pëtr Kropotkin, Benjamin Tucker

Il capitalismo è sostenibile? Può persistere come mezzo di organizzazione degli affari umani, sotto qualunque insieme di riforme concepibile in base a quanto sopra?

Sì: Buckminster Fuller, Paul Hawken

No: Joseph Schumpeter, Karl Marx

Controversie

Perché nessuno concorda sul significato di capitalismo?

È difficile dare una risposta obiettiva. In apparenza, non c'è mai stato un accordo chiaro sulle implicazioni linguistiche, economiche, etiche e morali, cioè, sull'"economia politica" del capitalismo stesso.

Un po' come un partito politico che tutti cercano di controllare, a prescindere dall'ideologia, la definizione di "capitalismo" in un dato momento tende a riflettere i conflitti contemporanei tra gruppi di interesse.

Alcune combinazioni tutt'altro che ovvie dimostrano la complessità del dibattito. Ad esempio, Joseph Schumpeter sostenne nel 1942 che il capitalismo era più efficiente di qualsiasi alternativa, ma condannato dalla sua giustificazione complessa ed astratta che il comune cittadino alla fine non avrebbe difeso.

Inoltre, le varie asserzioni si sovrappongono parzialmente, confondendo la maggior parte dei partecipanti al dibattito. Ayn Rand fece una difesa originale del capitalismo come codice morale, ma le sue argomentazioni in merito all'efficienza non erano originali, ed erano scelte per sostenere le sue asserzioni in tema di morale. Karl Marx sosteneva che il capitalismo fosse efficiente, ma iniquo nell'amministrazione di uno scopo immorale, e pertanto in definitiva insostenibile. John McMurty, un commentatore corrente del movimento no-global, crede che sia divenuto sempre più equo nell'amministrazione di tale scopo immorale. Robin Hanson, un altro commentatore attuale, si chiede se l'adattezza e l'equità e la moralità possano essere realmente separate da mezzi che non siano politici/elettorali.

Il capitalismo funziona nell'interesse di chi?

Infine, le argomentazioni si appellano fortemente a gruppi di interesse diversi, sostenendo spesso le loro posizioni come "diritti".

I proprietari attualmente riconosciuti - soprattutto azionisti di società e detentori di atti di proprietà terriera o diritti di sfruttamento del capitale naturale, sono generalmente riconosciuti come sostenitori di diritti di proprietà estremamente forti.

In ogni caso, la definizione di "capitale" si è ampliata in tempi recenti per comprendere le motivazioni di altri gruppi di interesse importanti: artisti o altri creatori che si affidano alle leggi di "diritto d'autore"; detentori di marchi e brevetti che migliorano il cosiddetto "capitale intellettuale"; operai che esercitano per lo più il loro mestiere guidati da un corpus imitativo e condiviso di capitale istruttivo - i mestieri stessi - hanno tutti motivo di preferire lo status quo delle leggi di proprietà attuali rispetto a qualunque insieme di possibili riforme.

Persino giudici, mediatori o amministratori incaricati dell'esecuzione equa di qualche codice etico e del mantenimento di qualche relazione tra capitale umano e capitale finanziario all'interno di una democrazia rappresentativa capitalistica, tendono ad avere interesse personale a sostenere l'una o l'altra posizione - tipicamente, quella che assegna loro un ruolo significativo nell'economia capitalista.

Secondo Karl Marx, questo ruolo ha una reale influenza sulla loro cognizione, e li conduce inesorabilmente verso punti di vista inconciliabili, cioè, nessun accordo è possibile mediante la "collaborazione di classe" tra gruppi di interesse opposti, ed è piuttosto la "lotta di classe" a definire il capitalismo.

Oggi, anche quei partiti tradizionalmente contrari al capitalismo, p.es. il (discusso) Partito Comunista Cinese di Mao Zedong, ne vedono un ruolo nello sviluppo della loro società. Il dibattito è concentrato sui sistemi di incentivi, non sulla chiarezza etica o sulla struttura morale complessiva del "capitalismo".

Nel corso di un discorso tenuto in occasione del Forum Economico Mondiale a Davos, in Svizzera, in programma dal 23 al 27 gennaio 2008, Bill Gates, ritenuto il terzo uomo più ricco del mondo, ha illustrato il concetto di capitalismo creativo, attirando l'attenzione dell'opinione pubblica sui questo tema. Per capitalismo creativo si intende un sistema in cui i progressi tecnologici compiuti dalle aziende non sono sfruttati semplicemente per la logica del profitto, ma anche per portare sviluppo e benessere soprattutto là dove ce ne è più bisogno, ossia nelle aree più povere del mondo, sposando le esigenze di profitto con le cause umanitarie.

Critiche al capitalismo

Un'argomentazione moderna importante è che il capitalismo semplicemente non è un sistema, ma soltanto un insieme di domande, problematiche e asserzioni riguardanti il comportamento umano. Simile alla biologia o all'ecologia ed alla sua relazione al comportamento animale, complicato dal linguaggio dalla cultura e dalle idee umane. Jane Jacobs e George Lakoff hanno argomentato separatamente l'esistenza di un'etica del guardiano fondamentalmente legata alla cura ed alla protezione della vita, e di un'etica del commerciante più legata alla pratica, esclusiva fra i primati, del commercio. Jacobs pensava che le due fossero sempre state separate nella storia, e che qualsiasi collaborazione fra di esse fosse corruzione, cioè qualsiasi sistema unificante che pretendesse di fare asserzioni riguardanti entrambi, sarebbe semplicemente al servizio di sé stesso.

Per Benjamin Tucker il capitalismo è la negazione del libero mercato, perché il capitalismo è basato su privilegi statalisti.

Altre dottrine si concentrano sull'applicazione di mezzi capitalisti al capitale naturale (Paul Hawken) o al capitale individuale (Ayn Rand) - dando per scontata una struttura morale e legale più generale che scoraggi l'applicazione di questi stessi meccanismi ad esseri non viventi in modo coercitivo, p. es. la "contabilità creativa" che combina la creatività individuale con il complesso fondamento istruttivo della contabilità stessa.

A parte argomentazioni molto ristrette che avanzano meccanismi specifici, è alquanto difficile o privo di senso distinguere le critiche del capitalismo dalle critiche della civiltà europea occidentale, del colonialismo o dell'imperialismo. Queste argomentazioni spesso ricorrono intercambiabilmente nel contesto dell'estremamente complesso movimento no-global, che è spesso (ma non universalmente) descritto come "anti-capitalista".

Una critica legata al numero di vittime provocato dal capitalismo è trattata nel libro nero del capitalismo.

Capitalismo secondo diversi filosofi ed economisti

Karl Marx

Per il socialismo scientifico, del quale il principale pensatore deve essere considerato Karl Marx, la "società borghese" è quella organizzazione sociale divisa in classi che vede il predominio all'interno dell'organizzazione della società dedicata alla riproduzione della vita materiale (quella che qualcuno chiama "economia", altro termine fortemente ambiguo) del "modo di produzione capitalistico". Esso consiste nell'appropriazione da parte di una classe (la borghesia) del "plusvalore". Tale processo di appropriazione è chiamato "sfruttamento" della mano d'opera, impersonata nel "proletariato", quella classe che "non possiede altro che la propria prole" ovvero i senza-riserve. Per Marx un altro elemento distintivo della società borghese è la conversione di tutto in merce, dunque la creazione di un mercato non solo delle merci, ma anche del lavoro, e anche del danaro (capitale) stesso. La rivoluzione borghese distrugge l'ancien régime (la società feudale basata su una congerie di classi e ceti, fondata sulla proprietà della terra e delle persone - la servitù, la servitù della gleba - come fattori di produzione, e che quindi vedeva come classi dominanti l'aristocrazia e il clero). Libera i servi e li trasforma in proletari, che possono vendere l'unica cosa in loro possesso, la "forza-lavoro", sul mercato del lavoro. Inoltre essa realizza un cambiamento paradigmatico del significato del danaro, attraverso l'inversione del ciclo MDM (merce-denaro-merce) in DMD (denaro-merce-denaro). Il denaro assume così una duplice veste: da un lato è un mezzo di scambio (quale esso è sempre stato, anche nel ciclo MDM), ma dall'altro diviene merce esso stesso. Questo è appunto il profitto, che per Marx trae origine esclusivamente dal plusvalore. Dato che la produzione si basa sul "matrimonio" tra capitale e lavoro, il danaro (capitale) è dunque nella società borghese un "precursore" della merce stessa, deve ad essa preesistere. Inoltre, diviene lui lo scopo dello scambio, che è finalizzato alla riproduzione del capitale, e non la merce, finendo così (in campo speculativo finanziario) per ridurre la formula DMD ad una più diretta D-D', come riportato nel IV capitolo del primo libro de Il Capitale.

Se qui si parla di "società borghese" anziché di "capitalismo", è perché quest'ultimo termine per la verità non compare nell'opera di Marx. Vi compaiono il termine "società borghese" da un lato, e "capitale" dall'altro, ovvero "lavoro morto", accumulato, in grado di diventare un fattore di produzione solo se associato al "lavoro vivo", la forza-lavoro del proletariato. Si reinnesca così il processo di accumulazione del plusvalore e la riproduzione del capitale stesso. A questa modalità di funzionamento K.Marx si riferisce con il termine "modo di produzione capitalistico". Per la complessa visione politica della storia e della società di Karl Marx si rimanda alla voce specifica, e ai testi ivi citati.

Max Weber

Un punto di vista diverso, e per certi versi opposto, è quello di Max Weber, il quale in esplicita critica a Marx, conferisce al "capitalismo", o quanto meno alle condizioni del suo sviluppo, un carattere eminentemente culturale e sociale, legato al pensiero religioso protestante, per il quale è essenziale il risparmio e la rinuncia al consumo (attitudine indispensabile alla accumulazione). Successivamente il meccanismo capitalistico assicura la perpetuazione dei meccanismi di riproduzione indipendentemente dalle volontà dei singoli, imponendo una forma di "ascesi" attraverso la competizione, che la rende obbligatoria.

Karl Polanyi

Per altri pensatori, quali l'antropologo, sociologo ed economista Karl Polanyi, il capitalismo si identifica invece nella "Haute finance", attività legata ai flussi di denaro scambiati nel commercio a grande distanza, che richiede di necessità garanzie e mezzi di pagamento sicuri a distanza, e credito. Esso è dunque un sistema politico sociale che si aggrega attorno al capitale finanziario, che si costituisce in un'organizzazione sia politica sia economica, come insieme organico di istituzioni per la promozione (anche per mezzo di guerre), la protezione e la regolazione degli scambi internazionali (dove questo termine assume una portata ed un significato diverso a seconda dei periodi storici), e dunque del capitalismo stesso. Esso è dunque per Karl Polanyi un sinonimo di "società di mercato" (intesa nel senso sopra detto, come società in cui tutto, merci, danaro, servizi, credito, diventa oggetto di scambio), un prodotto della società umana, storicamente datato, e non, come nel pensiero liberale, nient'altro che un naturale prolungamento della naturale tendenza umana agli scambi. La considerevole attualità di questa visione del capitalismo è all'origine di un rinnovato interesse per il pensiero dell'ungherese. Visse una vita molto e forse anche troppo frenetica che lo portò al suicidio all'età di 78 anni.

John Rogers Commons

L'economista americano del New Deal, esponente della scuola "istituzionalista", ritiene il capitalismo una costruzione giuridico-economica: esso si basa su di "una diminuzione della libertà individuale, imposta da sanzioni governative, ma soprattutto da sanzioni economiche attraverso l'azione concertata - segretamente, semi-apertamente, apertamente o per arbitraggio - di associazioni, di corporazioni, di sindacati ed altre organizzazioni collettive di industriali, di commercianti, di lavoratori, di agricoltori e di banchieri".

John Maynard Keynes

Il problema di John Maynard Keynes è come impedire che il capitalismo si autodistrugga. Esso ha bisogno di una continua regolazione ("il mondo non è governato dall'alto in modo che l'interesse privato e l'interesse sociale coincidano sempre. Non è corretto dedurre dai principi dell'economia che l'interesse personale illuminato opera sempre nell'interesse pubblico"), e pertanto è un avversario del laissez-faire. Come ideologia, il capitalismo sarebbe per lui "... la stupefacente credenza secondo la quale i peggiori uomini farebbero le peggiori cose per il gran bene di tutti". Il suo pensiero è alla base della scuola della "economia della regolazione", prevalente in Francia, dei quali un noto esponente è Jean-Paul Fitoussi.

Thorstein Veblen

Un diverso punto di vista, o se si vuole una diversa definizione di capitalismo, la abbiamo in Thorstein Veblen, un economista statunitense del New Deal della scuola istituzionalista. Veblen è uno dei pochi che fornisce una definizione esplicita di "capitale", e dunque implicitamente di "capitalismo". Per Veblen il capitale non ha necessariamente una manifestazione monetaria: esso consiste nelle conoscenze, nei saperi, nelle tecniche, nei metodi di produzione, di una determinata società. In ogni società determinati gruppi sociali si appropriano di questo "capitale" sociale per il proprio tornaconto particolare (prestigio, potere, non necessariamente reddito o danaro) con i più svariati mezzi. Per Veblen, dunque, ogni società è in questo senso "capitalista". La sua definizione non coincide affatto con quella di Marx, e non lo si può dunque definire correttamente un "marxista" (come talvolta si è invece erroneamente fatto); semmai, la sua è una generalizzazione della nozione di Capitale in Marx, che ne sarebbe solo una specifica determinazione legata ad uno specifico momento storico.

Joseph Schumpeter

Per Joseph Schumpeter il capitalismo si basa su un processo di continuo rivolgimento basato sull'innovazione tecnologica, attraverso fasi in cui emergono strutture nuove e quelle obsolete vengono distrutte. "Questo processo di 'distruzione creatrice' costituisce il dato fondamentale del capitalismo: è in questo che consiste, in ultima analisi, il capitalismo, ed ogni impresa capitalista deve, volente o nolente, adattarvisi." La molla che spinge il fenomeno non è la concorrenza, ma la sete di guadagno degli imprenditori, i quali tentano continuamente di utilizzare l'innovazione allo scopo di ottenere una posizione monopolistica di fatto, sottraendosi alla concorrenza. Per Schumpeter, anche se è, e proprio in quanto è, un meccanismo puramente razionale, il capitalismo rappresenta però un'utopia perversa alla quale gli uomini non si adattano, ed è pertanto destinato ad essere soppresso.

Fernand Braudel

Fernand Braudel, storico, uno dei principali esponenti della Scuola delle Annales francese, nel suo "Civiltà materiale, economia e capitalismo", sostiene che le origini del capitalismo si situano negli scambi mercantili tra XV e XVIII secolo. Il "capitalismo" si riferirebbe più propriamente alla generalizzazione di tali scambi su scala mondiale, con la costituzione di centri di potere (Venezia, Genova, Amsterdam, Londra, ecc.) e alla diretta influenza di questa economia mondo sulla produzione stessa attraverso una simbiosi istituzionale. "Il capitalismo trionfa non appena si identifica con lo Stato, quando è lo Stato". "Il capitalismo del passato, a differenza di quello attuale, occupava solo una piccola piattaforma della vita economica. Se scelse determinate aree per risiedervi è perché queste erano le uniche che favorivano la riproduzione del capitale". Braudel utilizza dunque "capitalismo" non per designare un'ideologia, ma un sistema economico costruito progressivamente grazie ad un equilibrio di poteri. Una visione dunque non lontana, anche se ad essa non coincidente, da quella di Karl Polanyi.

Milton Friedman

Il premio Nobel per l'economia Milton Friedman, nel dopoguerra consigliere del candidato repubblicano alla presidenza USA Barry Goldwater, e poi del presidente Richard Nixon, è stato in gioventù un Keynesiano convinto, difensore della politica del New Deal, e attivo sostenitore della politica di bilancio di John Fitzgerald Kennedy. Si è successivamente spostato su posizioni del tutto opposte, critiche del New Deal, conservatrici-libertarie, a favore del laissez-faire e di una visione monetarista. È dunque diventato forse il principale difensore del capitalismo “puro”, inteso come sistema sociale dove nessun intervento pubblico deve interferire nella libera competizione dei soggetti economici. Per Friedman questo è visto, prima ancora che come strumento di sviluppo economico, come mezzo per la salvaguardia delle libertà individuali, che lui pone alla sommità della scala dei valori. La sua posizione può quindi essere annoverata all'interno di un liberalismo classico. Questo non significa però che per Friedman il capitalismo sia tale, tutt'altro, ma piuttosto che debba esserlo. La sua è dunque una posizione più prescrittiva che analitica. Le sue idee monetariste, che rigettano l'inflazione come inutile e pericolosa, sono alla base dell'ideologia della BCE (Banca centrale europea) e della FED (Banca Federale degli Stati Uniti, Federal Reserve), all'interno però quest'ultima di una visione meno rigida. Sono inoltre quelle che improntano la “Scuola economica di Chicago”, i cosiddetti “Chicago Boys”. Forte è l'influenza delle sue idee e della sua visione del capitalismo, della società e della politica in Ronald Reagan e in Margaret Tatcher. Essendo per lui le libertà economiche precursori di quelle politiche, Friedman ha sostenuto attivamente e concretamente – tra molte polemiche - l'introduzione di forti elementi di capitalismo nei regimi dittatoriali, in particolare nel Cile di Pinochet e nella Cina comunista, paesi dove si è recato proprio a questo scopo, nel convincimento che questo avrebbe di necessità indotto un'evoluzione liberale. La crisi di solvibilità del sistema bancario globale originata dalle eccessive cartolarizzazioni dei mutui sub-prime americani ha creato un'enorme falla nell'attuale modello di capitalismo, che riserva solo alla banca ed alle altre istituzioni finanziarie la funzione creditizia.


Karl Marx

« Egli unisce in sé lo spirito più mordace con la più profonda serietà filosofica: immaginati Rousseau, Voltaire, d'Holbach, Lessing, Heine e Hegel fusi in una sola persona … ecco il dottor Marx »

(Moses Hess a Berthold Auerbach, 1841)


Karl Heinrich Marx (Treviri, 5 maggio 1818 – Londra, 14 marzo 1883) è stato un filosofo, economista, storico, sociologo e giornalista tedesco. In italiano è a volte chiamato Carlo Marx, col prenome tradotto.


Il suo pensiero è incentrato, in chiave materialista, sulla critica dell'economia, della politica, della società e della cultura a lui contemporanea. Teorico del socialismo scientifico e della concezione materialistica della storia, è considerato tra i filosofi maggiormente influenti sul piano politico, filosofico ed economico nella storia del Novecento.

Biografia

Giovinezza

Karl Heinrich Marx viene alla luce in Prussia, a Treviri, (in tedesco, Trier), il 5 maggio 1818 da Henriette Pressburg (1788, 1863, zia degli industriali Anton e Gerard Philips, futuri fondatori della Philips) e Heinrich (Herschel) Marx (Herschel Marx Levi Mordechai 1782-1838) - figlio di Marx Levi, rabbino di Treviri - avvocato ebreo, descritto come uomo colto e fine, educato nel razionalismo illuminista, tanto da conoscere quasi a memoria molto di Voltaire e di Rousseau, il quale non si legò mai agli ambienti culturali ebraici tradizionali.

Il padre si fece battezzare nel 1817 entrando nella Chiesa luterana col nome di Heinrich; lo stesso fece ai figli nel 1824. La conversione fu probabilmente più una scelta di convenienza che di fede: i Marx evitavano così le discriminazioni alle quali erano soggetti gli ebrei sotto la Prussia di Federico Guglielmo III. Anche grazie alla conversione, obbligatoria dopo il Congresso di Vienna per poter esercitare liberamente l'avvocatura, riuscì a esercitare la professione ed essere membro nel 1831 del Justizrat, il consiglio giudiziario, che non procurava un titolo accademico ma era un incarico di alto prestigio.

Treviri, importante centro culturale della Renania-Palatinato, ma fin dalla Guerra dei Trent'anni contesa e ripetutamente occupata dalla Francia fino all'ultima occupazione del 1794, era stata legata da vincoli commerciali con le altre città francesi godendo di tutte le riforme di ordine sociale che gli esiti della Rivoluzione avevano introdotto in patria, poi governata da Napoleone I, con l'annessione alla Prussia nel 1815, la cui politica era fortemente conservatrice, perse i diritti costituzionali e i vantaggi economici che il precedente legame le aveva garantito.

Con il padre, che ebbe certamente un influsso considerevole sulla sua formazione intellettuale, Karl sarà sempre legato da vincoli di affetto e di stima; non così avvenne con la madre Henrietta, ritenuta da alcuni una donna intellettualmente arida - o forse soltanto una persona molto semplice - che gli rimprovererà sempre di non essersi fatto una posizione adeguata al suo rango sociale e alle sue capacità intellettuali, né con i suoi fratelli, Sophie (1817 - 1883), Hermann (1819 - 1842), Henriette (1820 - 1856), Louise (1821 - 1893), Caroline (1824 - 1847) ed Eduard (1834 - 1837).

Nel 1830 si iscrive al liceo di Treviri ottenendo la licenza il 17 agosto 1835. Ci sono pervenuti i temi di greco, latino, matematica, francese, religione e tedesco; ad esempio, in latino scrive una dissertazione sul principato di Augusto: An principatus Augusti merito inter feliciores reipublicae Romanae aetates numeretur? (Il principato d'Augusto si può giustamente annoverare tra i più felici periodi della repubblica romana?); in tedesco, Considerazione di un giovane sulla scelta del proprio avvenire, dove scrive tra l'altro: «la guida che ci deve soccorrere nella scelta d'una condizione è il bene dell'umanità, la nostra propria perfezione. Non si obietti che i due interessi potrebbero contrapporsi l'un l'altro [...] la natura dell'uomo è tale che egli può raggiungere la propria perfezione individuale solo agendo per il perfezionamento e il bene dell'umanità».

Nel 1835, su consiglio del padre, Karl si iscrive alla facoltà di giurisprudenza dell'Università di Bonn, ma antepone agli studi di diritto quelli filosofici e letterari nei corsi tenuti da Wilhelm August Schlegel. Partecipa alla vita goliardica e bohémienne, alla quale si mescolano anche forme di opposizione politica, e sostiene il duello di rito fra le matricole universitarie, trascorrendo anche un giorno in prigione per ebbrezza e schiamazzi notturni; si iscrive a un circolo di poeti e comincia a sentire il peso della sorveglianza poliziesca.

Nell'estate del 1836 conosce a Treviri e si fidanza segretamente con la bella Jenny von Westphalen (1814 - 1881), figlia del barone Ludwig von Westphalen, soprannominata «la principessa del sogno»; nell'autunno, su decisione della famiglia, Marx prosegue gli studi nell'Università di Berlino, dove fino a cinque anni prima aveva insegnato Hegel, con gli autorevoli giuristi Friedrich Carl von Savigny e Eduard Gans. Il primo, appartenente alla vecchia scuola storica, conservatore, considerava il diritto una creazione dello spirito popolare (Volksgeist); il secondo, hegeliano e liberale, concepiva il diritto come prodotto dello sviluppo dialettico dell'Idea e, studioso anche del Saint-Simon, era favorevole a riforme sociali che alleviassero le condizioni delle classi popolari.

Con una formazione culturale di impronta illuministica, Marx inizia a scrivere una Filosofia del diritto che tuttavia interrompe dopo un centinaio di pagine, convinto che senza un sistema filosofico non si può concludere nulla. Durante il decorso di una malattia legge tutte le opere di Hegel, ricevendone una forte impressione.

Giovane hegeliano

Alla fine di quell'anno Marx scrive e dedica tre quaderni di poesie alla fidanzata, il "Buch der Lieder" (Libro dei canti) e due "Bücher der Liebe" (Libri dell'amore) che non ci sono pervenuti; è invece pervenuto un quaderno di poesie dedicato il 10 novembre 1837 al padre in occasione del suo cinquantacinquesimo compleanno, comprendenti anche 4 epigrammi su Hegel; in uno è scritto:

« Kant e Fichte vagavano fra nuvole

lassù cercando un paese lontano.

Io cerco d'afferrare con destrezza

solo quanto ho trovato sulla strada »

In quell'occasione comunica al padre la decisione di abbandonare gli studi giuridici per dedicarsi a quelli filosofici. L'hegelismo era l'espressione culturale e filosofica allora dominante in Prussia: i sostenitori del potere assoluto ne davano un'interpretazione conservatrice ed erano per questo motivo appartenenti alla cosiddetta destra hegeliana, mentre i fautori di un rinnovamento politico e culturale in senso liberale e democratico, definiti giovani hegeliani o Sinistra hegeliana, esaltavano invece gli aspetti progressivi dell'hegelismo, in particolare della dialettica, per la quale tutta la realtà, anche sociale e politica, è un continuo divenire.

Non potendo attaccare l'assolutismo monarchico la critica dei giovani hegeliani era rivolta contro la religione ufficiale: nel 1835 David Friedrich Strauß aveva pubblicato una eterodossa Vita di Gesù interpretando i vangeli come un insieme di miti. Bruno Bauer, docente di teologia, confuta le sue tesi dalle colonne del "Periodico di teologia speculativa" cui prendono parte i maggiori esponenti della destra hegeliana.

Marx si trovò così a frequentare dal 1837, nel sobborgo di Stralau, il Doktorklub, un circolo berlinese di giovani hegeliani, che passò in breve da posizioni monarchiche liberali a posizioni giacobine, assumendo il nome de Gli amici del popolo.

Prepara, dalla fine del 1838 al 1840, una Storia della filosofia epicurea, stoica e scettica come tesi per la sua laurea ma, data la vastità dell'impegno, la interrompe: così si laurea in filosofia il 15 aprile 1841 nell'Università di Jena con una tesi sulla Differenza fra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro. Di essa vale la pena citare i passi finali della prefazione:

«La filosofia [...] griderà sempre agli avversari con Epicuro: empio non è colui che nega gli dèi del volgo, ma colui che attribuisce agli dèi i sentimenti del volgo. La filosofia non fa mistero di ciò. La confessione di Prometeo: francamente, io odio tutti gli dèi è la sua propria confessione, la sentenza sua propria contro tutte le divinità celesti e terrestri che non riconoscono come suprema divinità l'autocoscienza umana. Nessuno può starle a fianco. Alle tristi lepri marzoline, che gioiscono dell'apparentemente peggiorata condizione civile della filosofia, essa replica quanto Prometeo replica al servo degli dèi Ermes: io, t'assicuro, non cambierei la mia misera sorte con la tua servitù. Molto meglio lo star qui ligio a questa rupe io stimo, che fedel messaggero esser di Giove. Prometeo è il più grande santo e martire del calendario filosofico».

Impegno politico

La conclusione dei suoi studi universitari coincide con l'aggravarsi della repressione governativa sulla vita politica e culturale; a farne le spese, fra gli altri, è l'amico Bruno Bauer, cui è impedita l'attività accademica nell'Università di Jena. Lo stesso Marx, che pensava a una carriera universitaria, avverte l'urgenza di un diretto impegno politico. Esordisce con le Osservazioni sulle recenti istruzioni per la censura in Prussia, un articolo scritto tra il gennaio e il 10 febbraio 1842 per i "Deutsche Jahrbücher" (Annali tedeschi) di Arnold Ruge, il quale però, prudentemente, non lo pubblica: vedrà la luce soltanto il 13 febbraio 1843 negli "Anekdota zur neuesten deutschen Philosophie und Publizistik" (Aneddoti per la recente filosofia e pubblicistica tedesca).

Il debutto pubblico di Marx come giornalista avviene pertanto il 5 maggio 1842 con i Dibattiti sulla libertà di stampa e sulla pubblicazione dei dibattiti alla Dieta nella Rheinische Zeitung (Gazzetta renana), quotidiano di Colonia, finanziato dalla borghesia liberale renana, in cauta opposizione al regime prussiano e gestito dal circolo radicale capeggiato da Moses Hess, soprannominato il "rabbino rosso" per le origini ebraiche e perché sostenitore dell'integrazione ebraica nel movimento universalistico socialista. Divenuto amico e collaboratore di Karl Marx e Friedrich Engels convertì quest'ultimo al comunismo. «La prima libertà di stampa» - scrive -«consiste nel fatto che essa non è un'industria», mentre «la vera e propria cura radicale della censura sarebbe la sua abolizione».

Nel settembre 1842 si trasferisce da Bonn a Colonia per dedicarsi a tempo pieno all'attività pubblicistica: nell'ottobre è redattore capo del giornale che, affermatosi come il maggior organo di opposizione, riceve l'accusa di essere comunista dalla reazionaria Gazzetta generale di Augusta a seguito di articoli di Hess che esaltavano le teorie di Charles Fourier. Marx risponde il 16 ottobre che «la Rheinische Zeitung, che non può concedere alle idee comuniste, nella loro forma odierna, neppure attualità teoretica e quindi ancor meno desiderare o ritenere possibile la loro realizzazione pratica, sottoporrà queste idee a una critica approfondita. Ma se la Gazzetta d'Augusta pretendesse più che frasi brillanti, comprenderebbe che scritti come quelli di Leroux, Considerant e soprattutto la penetrante opera di Proudhon, non possono essere criticati con estemporanee trovate superficiali, ma solo dopo uno studio lungo, assiduo e molto approfondito».

Dal tono circospetto della risposta s'intuisce già un interesse di non poco momento da parte di Marx per tali idee. Marx lascia il 17 marzo 1843 la redazione del giornale, che viene soppresso dal governo il 21 marzo, «a causa della situazione in cui la censura pone il giornale»: scrive al Ruge «Ero stanco dell'ipocrisia, della brutalità poliziesca e anche del nostro servilismo. Il governo m'ha reso la mia libertà. In Germania non posso più intraprendere nulla: finirei col corrompermi».

Periodo parigino

Sposa Jenny von Westphalen il 19 giugno 1843 nella chiesa di San Paolo a Kreuznach, dove viveva la fidanzata, e partono insieme per Parigi, per pubblicare con Ruge la nuova rivista "Deutsch - franzősische Jahrbücher" (Annali franco - tedeschi) in collaborazione con Heinrich Heine, Moses Hess, Georg Herwegh e Friedrich Engels, ricco imprenditore tedesco che diviene da questo momento l'amico di tutta la sua vita e il suo principale finanziatore. che riconoscerà Frederick Demuth (1851-1929), un figlio naturale che Marx ebbe con la governante Helene Demuth

Una lettera inviata a Ruge nel settembre del 1843 chiarisce il senso della sua parziale presa di distanza dagli intellettuali della sinistra hegeliana:

« Come la religione è l'indice delle battaglie teoretiche degli uomini, lo stato politico lo è delle loro battaglie pratiche [...] il critico non solo può, ma deve interessarsi dei problemi politici [...] il nostro motto sarà: riforma della coscienza, non mediante dogmi, bensì mediante l'analisi della coscienza mistica oscura a sé stessa, sia che si presenti in modo religioso, sia in modo politico. Si vedrà allora come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa, di cui non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente. »

Degli Annali esce tuttavia solo un fascicolo doppio nel febbraio 1844; Marx vi pubblica La questione ebraica e l'Introduzione alla propria Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico - che tuttavia sarà pubblicata solo nel 1927 - in cui rileva come Hegel non subordini la realtà all'Idea ma, al contrario, conservi la presente realtà tedesca, fingendo di trascenderla, e spacci lo Stato prussiano come Idea di Stato. Una vera teoria della società è dunque possibile, secondo Marx, solo mettendo da parte ogni idea di società in generale, analizzando invece la società materialmente determinata. L'opera rappresenta il suo distacco dal pensiero hegeliano, del quale tuttavia non individua ancora il metodo di mistificazione della realtà.

Sulla questione ebraica

Nell'articolo comparso sugli Annali franco-tedeschi nel 1844 intitolato Sulla questione ebraica Karl Marx risponde alla teoria di Bruno Bauer che aveva giudicato possibile l'emancipazione degli ebrei in Prussia soltanto creando uno Stato laico, che quindi eliminata la religione avrebbe eliminato con essa le discriminazioni.

«La forma più rigida del contrasto tra l'ebreo e il cristiano è il contrasto religioso. Come si risolve un contrasto? Rendendolo impossibile. Come rendere impossibile un contrasto religioso? Eliminando la religione. Quando ebreo e cristiano riconosceranno che le reciproche religioni non sono altro che differenti stadi di sviluppo dello spirito umano, non sono altro che differenti pelli di serpente deposte dalla storia, e che l'uomo è il serpente che di esse si era rivestito, allora non si troveranno più in rapporto religioso, ma ormai soltanto in un rapporto critico, scientifico, umano».

Marx ritiene che la risposta di Bauer poggi su un equivoco. Bauer, infatti, pensa che l'emancipazione umana coincida con l'emancipazione politica: «noi rileviamo l'errore di Bauer nel fatto che egli sottopone a critica solo lo "Stato cristiano", non lo "Stato in sé", che non ricerca il rapporto tra l'emancipazione politica e l'emancipazione umana, e perciò pone condizioni che sono spiegabili soltanto con un'acritica confusione tra l'emancipazione politica e quella umana in generale».

Invece per Marx esistono tre possibili emancipazioni: religiosa, politica e umana. Bauer si è fermato alle prime due forme, Marx ritiene fondamentale giungere alla terza. L'emancipazione politica non è ancora quella umana, e a suffragio di questa tesi Marx porta l'esempio degli Stati Uniti in cui nonostante esista uno stato laico, nella vita reale esistono differenze colossali nei comportamenti a seconda che siano rivolti a un protestante o a un ateo.

Marx quindi ritiene che l'emancipazione politica non riguardi l'uomo reale, terreno, bensì un uomo astratto con pari diritti e dignità, celando invece le enormi sperequazioni esistenti realmente: «Il limite dell'emancipazione politica appare immediatamente nel fatto che lo Stato può liberarsi da un limite senza che l'uomo ne sia realmente libero, che lo Stato può essere un libero Stato senza che l'uomo sia un uomo libero [...] e la stragrande maggioranza non cessa di essere religiosa per il fatto di essere religiosa privatim [...] Ma il comportamento dello Stato verso la religione, e particolarmente dello Stato libero, non è tuttavia altro che il comportamento degli uomini che formano lo Stato, verso la religione. Ne consegue che l'uomo per mezzo dello Stato, politicamente, si libera di un limite, innalzandosi oltre tale limite, in contrasto con se stesso, in un modo astratto e limitato, in un modo parziale».

Lo Stato con le sue leggi riguardanti "l'uomo" (costruito sorvolando sugli elementi particolari per poter costruire un'universalità) scinde l'essere umano tra il cielo delle leggi, lo Stato politico e la terra, la realtà, la società civile. Sdoppia quindi la vita dell'uomo tra il citoyen, il cittadino soggetto politico con diritti e doveri, e il bourgeois, il borghese membro della società civile avente i propri interessi privati: «Il conflitto nel quale si trova l'uomo come seguace di una religione particolare, con se stesso in quanto cittadino, con gli altri uomini in quanto membri della comunità, si riduce alla scissione mondana tra lo Stato politico e la società civile. La contraddizione nella quale si trova l'uomo religioso con l'uomo politico, è la medesima contraddizione nella quale si trova il bourgeois con il citoyen, nella quale si trova il membro della società civile con il suo travestimento politico»

La critica di Marx si sposta così ai "diritti dell'uomo": essi sono il prodotto storico della Rivoluzione americana e di quella francese, in essi quindi si cela una mistificazione. L'uomo, soggetto di questi diritti, non è altro che l'individuo privato della società civile e perciò caratterizzato da interessi particolari, celati sotto una fasulla universalità: «Nessuno dei cosiddetti diritti dell'uomo oltrepassa dunque l'uomo egoistico, l'uomo in quanto è membro della società civile, cioè individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato e sul suo arbitrio privato, e isolato dalla comunità. Ben lungi dall'essere l'uomo inteso in essi come specie, la stessa vita della specie, la società, appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della loro indipendenza originaria».

Nella società borghese quindi sussistendo questa scissione tra pubblico e privato l'uomo è solo "sulla carta", astrattamente, membro dello Stato, in quanto solo nella sfera giuridica e politica ogni uomo è uguale agli altri, non già nell'ambito reale della vita economica e sociale, in cui tutti gli uomini sono diseguali. Quando l'uomo reale riassumerà in sé l'astratto citoyen nella sua vita empirica diventando membro della specie umana dove tutti gli uomini, in quanto tali, sono eguali, soltanto allora l'emancipazione umana sarà compiuta.

La società umana, non quale è ma quale dovrebbe essere, è perciò ipotizzata da Marx come razionale e unitaria, priva di conflitti, tanto che in essa non è necessaria l'esistenza di diritto e di politica, in quanto la libertà è in essa realizzata in una unità organica di tutti gli individui, è «unità di società e di individuo». L'egualitarismo e l'anti-liberalismo di Marx muovono dal presupposto di un «intransigente organicismo, che non lascia margini di autonomia all'individuo».

Nel "Vorwärts!" (Avanti!), giornale degli emigrati tedeschi a Parigi, Arnold Ruge pubblica Il re di Prussia e la riforma sociale, giudicando negativamente una sommossa di tessitori della Slesia nel giugno 1844, perché la considera senza prospettive politiche concrete. Marx risponde con l'articolo Osservazioni critiche a margine, considerando l'insurrezione del proletariato slesiano il segno che anche nell'arretrata Germania maturino condizioni rivoluzionarie, e rompe con Ruge, che accusa di intellettualismo estetizzante e di essere un rivoluzionario solo a parole.

Introduzione alla Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico

La religione e Feuerbach

« La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l'oppio dei popoli. »

(Karl Marx, dalla Critica della filosofìa hegeliana del diritto pubblico)

Anche questo articolo viene pubblicato sugli Annali franco-tedeschi durante il primo soggiorno parigino di Marx nel 1844. In contrasto con Ludwig Feuerbach che sosteneva che l'epoca in cui viveva segnava il tramonto della religione, Marx precisa come invece nella religione coabitino un'istanza critica oltreché quella illusoria.

Se per Feuerbach la religione è frutto della coscienza capovolta del mondo, per Marx ciò è dovuto al fatto che la società stessa sia un mondo capovolto. La religione è espressione, è critica della miseria reale in cui l'uomo si trova, con la sua stessa presenza denuncia l'insopportabilità del reale per l'uomo..

La religione è «il gemito della creatura oppressa, l'animo di un mondo senza cuore, così come è lo spirito d'una condizione di vita priva di spiritualità. Essa è l'oppio dei popoli», ottunde i sensi nel rapporto con la realtà, è un inganno che l'uomo perpetra a se stesso. Incapace di cogliere le motivazioni della propria condizione l'uomo la considera come dato di fatto (causa del peccato originale) cercando consolazione e giustificazione nei cieli religiosi. Una concreta liberazione dalla religione non si avrà, come per Bauer, eliminando la religione stessa bensì cambiando le condizioni e i rapporti in cui l'uomo si trova degradato e privato della sua propria essenza.

Il proletariato

All'emancipazione politica, portata avanti dalla borghesia liberale, deve seguire l'emancipazione umana; essa è raggiungibile attraverso una "classe universale" priva di interessi particolari, che avendo subíto non un torto particolare, ma l'ingiustizia totale, non rivendica un solo diritto particolare ma può emancipare se stessa e l'intera società.

Il soggetto dell'emancipazione umana sarà il proletariato, classe in cui l'essenza dell'uomo è andata completamente perduta e che per ciò stesso può riappropriarsene. Occorre rendere cosciente il proletariato di aver perso la sua essenza e quindi del suo scopo rivoluzionario. In questo modo la filosofia, la teoria diventano realizzabili praticamente e il proletariato diventa «il vero erede della filosofia classica tedesca»

Manoscritti economico-filosofici del 1844

Stimolato dalla lettura dell'Abbozzo di una critica dell'economia politica di Engels in cui si mostra come l'accumulazione capitalistica generi crisi economiche che acutizzano i conflitti sociali, Marx intraprende a Parigi lo studio degli economisti classici e dei loro critici (Proudhon, Sismondi). Frutto di questo intenso periodo di studio sono i Manoscritti economico-filosofici del 1844, editi solo nel 1932.

In una suggestiva analisi che unisce la concretezza dell'indagine economica, utilizzando lo strumento della dialettica, alla critica della falsificazione della stessa dialettica in chiave "spiritualistica" operata da Hegel e dai suoi seguaci, Marx dà la prima definizione teoretica del comunismo, come «la vera risoluzione dell'antagonismo fra esistenza ed essenza, tra oggettivazione e autoaffermazione, tra libertà e necessità, tra l'individuo e la specie». La società comunista è «l'unità essenziale [...] dell'uomo con la natura, la vera resurrezione della natura, il naturalismo compiuto dell'uomo e l'umanesimo compiuto della natura».

I Manoscritti sono costituiti da tre parti, in base ai temi:

La critica all'economia classica;

La descrizione del comunismo;

La critica della dialettica hegeliana.

La critica dell'economia classica e l'alienazione

Nella trattazione del primo tema indaga le leggi che regolano il mercato e l'industria, contrariamente a quanto sosteneva Adam Smith non vi era proprio nulla di armonico e naturale nei rapporti economici, bensì l'economia è terreno di conflitti da cui non si può astrarre (come fecero gli economisti classici considerandoli accidentali). Marx contesta agli economisti classici di aver occultato e mascherato un certo modo di produzione, quello capitalista, con leggi ritenute naturali e immutabili ritenendo un dato di fatto l'esistenza della proprietà privata. Alla domanda, nonché titolo dell'opera, "Che cos'è la proprietà privata?" Proudhon aveva risposto: un furto.

L'economia politica, per Marx, aveva trascurato il rapporto tra l'operaio, il suo lavoro e la produzione per celare l'alienazione, caratteristica del lavoro nella società industriale moderna. L'alienazione, termine che Marx recupera da Hegel, è il "diventare altro", il "cedere ad altri ciò che è proprio". Nella produzione capitalistica può assumere vari aspetti tra di essi legati: «l'operaio diviene tanto più povero quanto maggiore è la ricchezza che egli produce [...] diventa una merce tanto più vile quanto più grande la quantità di merce prodotta [...] l'operaio viene a trovarsi rispetto all'oggetto del suo lavoro come a un oggetto estraneo [...] l'alienazione dell'operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all'esterno, ma che esso esiste fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo, e diviene di fronte a lui una potenza per sé stante; significa che la vita che egli ha dato all'oggetto gli si contrappone ostile ed estranea».

L'alienazione riguarda l'operaio e il prodotto del suo lavoro. Tale prodotto del suo lavoro non gli appartiene ma appartiene al capitalista, gli è estraneo.

L'attività produttiva non è il soddisfacimento di un bisogno, ma un mezzo per soddisfare dei bisogni estranei al lavoro stesso; il lavoro non appartiene al lavoratore ma appartiene a un altro e dunque egli, lavorando, non appartiene a sé ma a un altro. L'operaio così si estrania da sé e non considera il lavoro come parte della sua vita reale (che si svolge fuori dalla fabbrica).

L'operaio perde la sua essenza generica, cioè ciò che contrassegna l'essenza dell'uomo. Per uomo, Marx, intende l'essere che si realizza storicamente nel genere di cui fa parte.

Caratteristica del genere umano è il lavoro, che lo differenzia dall'animale, e gli consente di istituire un rapporto con la natura attraverso cui si appropria della natura stessa.

Il lavoro in fabbrica viene ridotto a mera sopravvivenza individuale, non è quindi espressione positiva della natura umana. In fabbrica si perde la dimensione di comunità. Si parla così di alienazione della sua essenza sociale.

L'operaio così si sente un uomo soltanto nelle sue funzioni animali - mangiare, bere, procreare - mentre si sente un animale nel lavoro, cioè in quella che dovrebbe essere un'attività tipicamente umana.

L'unità organica dell'umanità, che si realizza nell'attività e nei rapporti sociali, è frantumata dalla proprietà privata, la quale separa, come visto, l'uomo dalle sue attività e dai prodotti di esse.

Tanto Hegel quanto gli economisti classici hanno visto il lavoro come elemento costitutivo dell'essenza umana. Gli economisti però videro nel lavoro il solo lato positivo, accettandolo come un qualcosa di naturale, esente da mutamenti storici.

Per Marx, Hegel, aveva colto il carattere storico del lavoro, lo spirito infatti è autoproduzione (tramite la perdita e la riappropriazione) di sé stesso così come l'uomo è frutto del proprio lavoro. L'unica pecca è stato limitare questo processo al pensiero, all'autocoscienza. L'alienazione od oggettivazione, anche se riconosciuti come sviluppo del soggetto, vengono ridotti ad un processo spirituale in cui il pensiero (il soggetto) di fronte ad un oggetto altro da sé si oggettiva, cioè si perde in esso, così che la disalienazione non è che un disoggettivarsi del soggetto dal mondo esterno per tornare in sé stesso (pensiero).

Marx recupera quindi, secondo l'insegnamento di Feuerbach, la corporeità e la sensibilità come aspetto essenziale, come elemento primo ineliminabile dell'uomo. L'uomo è un essere naturale, e non c'è negatività che vada superata nel suo oggettivarsi nella natura, ma è anche un essere storico in quanto capace di rimuovere l'alienazione (oggettivazione) recuperando la sua essenza generica che si basa sul rapporto con l'oggettività, cioè l'appropriazione della natura in collaborazione con gli altri uomini.

Il comunismo

Se la proprietà privata è quindi l'espressione della vita umana alienata, la soppressione di essa e dei rapporti sociali che la generano e la tutelano non è che la soppressione di qualsiasi alienazione. Il comunismo è l'eliminazione dell'alienazione, quindi della proprietà privata, operazione che coincide con il recupero di tutte le facoltà umane e la liberazione dell'essenza umana. Esso, a differenza delle forme che Marx definisce di comunismo rozzo o utopista, è l'esito verso cui procede lo sviluppo storico.

Nella società che ha a sua base la proprietà privata, «il denaro è il potere alienato dell'umanità. Quello che non posso come uomo e quindi quello che le mie forze individuali non possono, lo posso mediante il denaro. Dunque il denaro fa di ognuna di queste forze essenziali qualcosa che essa in sé non è, cioè ne fa il suo contrario».

Il denaro soddisfa i desideri e li traduce in realtà, traduce l'essere rappresentato in essere reale ma traduce anche, al contrario, la realtà a semplice rappresentazione: «Se ho vocazione allo studio, ma non ho denaro per realizzarla [...] non ho nessuna vocazione efficace, nessuna vocazione vera. Al contrario, se non ho realmente nessuna vocazione, ma ho volontà e denaro, ho una vocazione efficace [...] il denaro è dunque l'universale rovesciamento delle individualità che capovolge nel loro contrario [...] muta la fedeltà in infedeltà, l'amore in odio, l'odio in amore, la virtù in vizio, il vizio in virtù [...] è l'universale confusione e inversione di tutte le cose».

Senza la necessità sociale del denaro, cioè senza la proprietà privata,

« presupponendo l'uomo come uomo e il suo rapporto col mondo come un rapporto umano, potrai scambiare amore solo con amore, fiducia solo con fiducia. Se vuoi godere dell'arte, devi essere un uomo artisticamente educato; se vuoi esercitare qualche influsso sugli altri uomini, devi essere un uomo che agisce sugli altri uomini stimolandoli e sollecitandoli realmente. Ognuno dei tuoi rapporti con l'uomo e la natura dev'essere una manifestazione determinata e corrispondente all'oggetto della tua volontà, della tua vita individuale nella sua realtà. Se tu ami senza suscitare un'amorosa corrispondenza, se il tuo amore come amore non produce una corrispondenza d'amore, se nella tua manifestazione vitale di uomo amante non fai di te stesso un uomo amato, il tuo amore è impotente, è un'infelicità. »

L'alienazione religiosa

Marx riprende inoltre l'interpretazione di Feuerbach dell'alienazione religiosa che egli tuttavia estende all'ambito economico individuato come fondamento di tutte le alienazioni umane:

« L'estraneazione religiosa avviene solo nella sfera della coscienza, dell'interiorità umana; l'estraneazione economica è invece l'estraneazione della vita reale, per cui la sua soppressione abbraccia entrambi i lati. »

Ma è anche prossimo il distacco da Feuerbach e le fondazioni del materialismo storico - laddove scrive che «La religione, la famiglia, lo Stato, il diritto, la morale, l'arte non sono che modi particolari della produzione» - e della filosofia della prassi, scrivendo che «la soluzione delle opposizioni teoretiche [è] possibile solo in maniera pratica [...] non [è] solo un compito teoretico, ma un compito reale».

Grazie ai rapporti della polizia prussiana sappiamo come egli, nell'estate del 1844, frequentasse i circoli degli operai e degli artigiani parigini e i socialisti Pierre-Joseph Proudhon, Louis Blanc e l'anarchico russo Michail Bakunin. Il governo prussiano ne chiede l'espulsione dalla Francia e Marx, con la moglie e la piccola figlia Jenny, il 5 febbraio 1845 si stabilisce a Bruxelles, dove è accolto a condizione che non pubblichi alcuno scritto politico.

Manoscritti economico-filosofici del 1844: la natura

Una concezione della natura che esula dal panorama filosofico dell'800 è quella che Marx espone ne I manoscritti economico-filosofici del 1844. A seguito di quest'opera la tematica dell'alienazione viene intesa in un senso più profondo e non più semplicemente politico.

Marx stabilisce una connessione tra ciò che rappresenta l'essenza dell'uomo, l'attività dove l'uomo esprime tutto se stesso spirito e corpo: il lavoro che, al di fuori di ogni separazione tra teoria e prassi, si identifica con l'oggetto lavorato, il quale a sua volta non è altro che l'oggetto naturale che l'uomo appunto modifica. La natura stessa quindi è il risultato dell'attività umana.

Questa connessione tra uomo-lavoro-oggetto lavorato-natura viene fatta saltare dall'alienazione che espropria il lavoratore non solo del prodotto del lavoro ma anche dell'atto della produzione. Come effetto del lavoro alienato l'uomo restringe la propria umanità alla sfera dei bisogni bestiali, si trasforma in una merce e subisce le conseguenze dello sconvolgimento del rapporto uomo e natura.

L'uomo è infatti un ente che si pone consapevolmente in rapporto di continuità con la natura; egli vive della natura e nella sua attività produttiva la natura gli si manifesta come opera dell'uomo.

Quando gli viene sottratto con l'alienazione l'oggetto del lavoro anche la natura gli viene sottratta. La natura cioè da "corpo inorganico dell'uomo" amica benigna quando soddisfaceva i bisogni sociali dell'uomo, diviene mezzo di produzione subordinato al bisogno individuale. La vita umana che era inserita in una natura amica e non estranea (la "vita del genere") quando diventa un mezzo per il soddisfacimento di egoistici bisogni individuali si trasforma in una forza nemica, opposta ed estranea.

« [XXII]... L'alienazione dell'operaio nel suo prodotto significa non solo che il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all' esterno, ma che esso esiste fuori di lui, indipendente da lui, a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per se stante; significa che la vita che egli ha dato all'oggetto, gli si contrappone ostile ed estranea.

[XXIII] Ed ora consideriamo più da vicino l'oggettivazione, la produzione dell'operaio, e in essa l'estraniazione, la perdita dell'oggetto, del suo prodotto.

L'operaio non può produrre nulla senza la natura, senza il mondo esterno sensibile. Questa è la materia su cui si realizza il suo lavoro, su cui il suo lavoro agisce, dal quale e per mezzo del quale esso produce.

Ma come la natura fornisce al lavoro i mezzi di sussistenza, nel senso che il lavoro non può sussistere senza oggetti su cui applicarsi; cosi essa, d'altra parte, fornisce pure i mezzi di sussistenza in senso più stretto, cioè i mezzi per il sostentamento fisico dello stesso operaio. Quindi quanto più l'operaio si appropria col proprio lavoro del mondo esterno, della natura sensibile, tanto più egli si priva dei mezzi di sussistenza nella seguente duplice direzione: prima di tutto, per il fatto che il mondo esterno cessa sempre più di essere un oggetto appartenente al suo lavoro, un mezzo di sussistenza del suo lavoro, e poi per il fatto che lo stesso mondo esterno cessa sempre più di essere un mezzo di sussistenza nel senso immediato, cioè un mezzo per il suo sostentamento fisico. »

Il periodo di Bruxelles

Il rovesciamento della filosofia hegeliana e il materialismo storico

Il periodo di Bruxelles è fecondo di studi teorici: già nel settembre del 1844 aveva scritto insieme con Engels La sacra famiglia o Critica della critica critica, una satira di quegli hegeliani di sinistra che egli chiama "illuministi", come Bruno Bauer e altri, pubblicato nel 1845. Un attacco a tutti coloro che si illudevano di trasformare la società limitandosi alla critica.

In quest'opera Marx ed Engels fanno propria la concezione dell'umanesimo reale di Feuerbach, come confermerà lo stesso Marx, più di vent'anni dopo, scrivendo a Engels che quello scritto gli sembrava ancora buono, «quantunque il culto di Feuerbach faccia ora un'impressione molto umoristica».

In essa viene mostrata e messa in ridicolo la genesi dell'astrazione della realtà sensibile, la mistificazione della realtà prodotta dall'hegelismo.

« Se io, dalle mele, pere, fragole, mandorle - frutti reali - mi formo la rappresentazione generale frutto e immagino che il frutto - la mia rappresentazione astratta, ricavata dai frutti reali - sia un'essenza esistente fuori di me, sia anzi l'essenza vera della pera, della mela, ecc., io dichiaro - con espressione speculativa - che il frutto è la sostanza della pera, della mela, della mandorla ecc. Io dico allora che per la pera non è essenziale essere pera, che per la mela non è essenziale essere mela. L'essenziale, in queste cose, non sarebbe più la loro esistenza reale, sensibilmente intuibile, ma l'essenza che ho astratto da esse e ad esse ho attribuito, l'essenza della mia rappresentazione il frutto. Io dichiaro allora che mela, pera, mandorla ecc., sono semplici modi di esistenza, modi del frutto. Il mio intelletto finito, sorretto dai sensi, distingue certamente una mela da una pera e una pera da una mandorla, ma la mia ragione speculativa dichiara inessenziale e indifferente questa diversità sensibile. Essa vede nella mela la stessa cosa che nella pera, nella pera la stessa cosa che nella mandorla, cioè il frutto. I frutti particolari e reali non valgono più che come frutti apparenti, la cui vera essenza è la sostanza, il frutto [...] Il minerologo la cui scienza si limitasse a dire che tutti i minerali sono in realtà il minerale sarebbe un minerologo solo nella sua immaginazione »

Mentre l'uomo comune sa di non dire nulla di straordinario dicendo che ci sono mele e pere, «il filosofo [hegeliano, speculativo], quando esprime queste esistenze in modo speculativo, ha detto qualcosa di straordinario. Ha compiuto un miracolo, ha prodotto dall'essere intellettuale irreale il frutto gli esseri naturali reali, la mela, la pera ecc.; cioè dal suo proprio intelletto astratto, che egli si rappresenta come un soggetto assoluto esistente fuori di sé, che egli si rappresenta qui come il frutto, ha creato queste frutta e in ogni esistenza che esprime, egli compie un atto creativo [...] dichiara la sua propria attività, mediante la quale egli passa dalla rappresentazione mela alla rappresentazione pera, essere l'autoattività del soggetto assoluto, del frutto. Quest'operazione si chiama, con espressione speculativa: concepire la sostanza come soggetto, come processo interno, come persona assoluta, e questo concepire forma il carattere essenziale del metodo hegeliano».

Nei confronti dell'illuminismo e della rivoluzione borghese Marx ebbe sempre un atteggiamento molto severo e critico. Intrisi di sufficienza sono i suoi giudizi sui pensatori materialisti ed atei del XVIII secolo. Totalmente ignorato è Jean Meslier, colui che pone le basi del materialismo settecentesco e di un comunismo primitivo. I rivoluzionari francesi hanno istituito un nuovo tipo di schiavitù da parte della borghesia: «Robespierre, Saint Just e il loro partito sono caduti perché hanno scambiato la comunità antica, realisticamente democratica, che poggiava sulla base di una schiavitù reale, con lo stato moderno rappresentativo e spiritualmente democratico, che si basa sulla schiavitù "emancipata", sulla società civile. Quale colossale illusione vedersi costretti a sanzionare nei diritti dell'uomo la società civile moderna, quella dell'industria, della concorrenza generalizzata, dell'interesse privato che persegue tranquillamente i suoi obiettivi. E insieme l'anarchia, l'individualità naturale e spirituale alienata a sé stessa»

Le Tesi su Feuerbach

In effetti, se ancora nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Feuerbach era «il solo che sia in un rapporto serio e critico con la dialettica hegeliana, che abbia fatto vere scoperte in questo campo e che sia il vero vincitore della vecchia filosofia», già nella primavera del 1845 Marx aveva scritto poche righe su un quaderno ritrovato da Engels dopo la sua morte e pubblicato nel 1886 col titolo di 11 tesi su Feuerbach.

In esse Marx indica che se Feuerbach aveva smascherato il mondo rovesciato della religione ritrovando l'essenza alienata dell'uomo, egli non aveva colto il carattere storico dell'uomo stesso, né che la religione è frutto di condizioni storiche che la rendono possibile. Feuerbach concepisce l'uomo come ente dotato di sensibilità e corporeità, quindi segnato dalla passività, e inserito in un mondo già costituito, Marx alla passività oppone la prassi, cioè attività trasformatrice della natura, e il mondo diventa prodotto dell'attività umana, come già accennato nei Manoscritti economico-filosofici del 1844.

Nelle Tesi Marx espone l'idea dell'uomo come ente pratico: «nella prassi deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non realtà del pensiero - isolato dalla prassi - è una questione meramente scolastica»: è la risposta alla concezione di Feuerbach – e di ogni materialismo volgare – per il quale la realtà esterna è sempre e soltanto qualcosa che sta di fronte all'uomo, senza tener conto che essa è un prodotto dell'attività umana, perché questa, la prassi, è essenzialmente oggettiva, è volta all'esterno.

Feuerbach – come tutti i filosofi prima di lui – si era posto il problema della verità del pensiero: ma il pensiero non può verificare se stesso astrattamente, occorre che sia l'attività pratica, volta allo scopo, a verificare la verità delle idee. È questo il difetto di tutta la filosofia, non solo di Feuerbach: quello di essersi limitata a cercare di conoscere la realtà, a interpretare il mondo, «ma si tratta di trasformarlo».

L'ideologia tedesca

Marx ed Engels ne L'ideologia tedesca portano un attacco alla filosofia tedesca del tempo rappresentata da Ludwig Feuerbach, l'esponente più avanzato del panorama filosofico tedesco, da Bruno Bauer e Max Stirner.

Gran parte del libro è dedicata alla critica, volutamente sarcastica e sprezzante, dell'opera principale di Max Stirner "L'Unico e la sua proprietà", inizialmente salutata con un certo favore da Engels ma individuata come un pericolo da Marx. E del resto Stirner, deciso individualista ed "egoista", nonché ateo conseguente, non aveva risparmiato le critiche a quella "società degli straccioni" a cui avrebbe portato, secondo lui, la rivoluzione comunista.

L'opera fu pubblicata solo nel 1932 perché, dopo l'avvenuta impossibilità di pubblicazione, il manoscritto fu abbandonato «alla critica roditrice dei topi» dai due autori i quali, avendo chiarito a sé stessi i fondamenti teorici del nuovo materialismo, erano decisi ad affrontare i problemi, più urgenti e politicamente più rilevanti, della critica dell'economia e del diretto impegno nell'attività politica.

Il materialismo storico

Nell'opera è contenuta la prima formulazione organica della concezione materialistica della storia.

Marx ed Engels vi esprimono l'esigenza di un sapere che sia prodotto immediatamente dalla realtà concreta e positiva, empirica e verificabile, e che non discenda invece da un presupposto e idealistico «Spirito assoluto» che deduce speculativamente i vari aspetti della realtà secondo un non dimostrato e indimostrabile sviluppo di questo stesso presunto Spirito.

Marx ed Engels intendono muovere da «presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell'immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti, quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione. Questi presupposti sono dunque constatabili per via puramente empirica.».

I rapporti tra gli uomini e con la natura

Poiché gli esseri umani non vivono isolati in sopramondi ma in reali comunità e nell'immediato contatto con la natura, occorre analizzare tanto i rapporti che essi istituiscono fra di loro - la loro organizzazione sociale - quanto quelli istituiti con la natura, ossia il modo con il quale essi si appropriano e trasformano la natura.

Riguardo al primo punto occorre premettere che il termine comunità (Gemeinwesen) in Marx ha un significato più pregnante di quello riconducibile alla concezione borghese capitalistica della comunità nazionale e statale, la società (Gesellschaft) cioè dove l'esistenza del singolo è strettamente connessa a quella di tutti gli altri al punto che la vita del singolo «anche nelle sue manifestazioni più individuali è divenuta l’esistere stesso della comunità».

La vera comunità è invece quella fondata sulla comune essenza umana dove l'uomo è libero da vincoli e limitazioni. L'attuale società statalista invece ha causato la scissione tra l'uomo e il cittadino:

« Lo Stato politico compiuto è per sua essenza la vita di genere (Gattungslaben) dell’uomo, in opposizione alla sua vita materiale [...] Là dove lo Stato politico ha raggiunto il suo vero sviluppo, l’uomo conduce non soltanto nel pensiero e nella coscienza, bensì nella realtà, nella vita, una doppia vita, una celeste e una terrena: la vita nella comunità politica (politischen Gemeinwesen), nella quale si considera come collettivo (Gemeinwesen), e la vita nella società civile, nella quale agisce come uomo privato, che considera gli altri uomini come mezzi, degrada se stesso a mezzo e diviene trastullo di forze estranee. Lo Stato politico si rapporta alla società civile nel modo spiritualistico con cui il cielo si rapporta alla terra. »

Dall'alienazione dell'individuo rispetto alla sua comunità umana si originano i primi segni delle rivoluzioni:

« Ma non scoppiano forse tutte le rivolte, senza eccezione, nel disperato isolamento dell’uomo dalla comunità [Gemeinwesen]? Ogni rivolta non presuppone forse necessariamente questo isolamento? Avrebbe avuto luogo la rivoluzione del 1789 senza il disperato isolamento dei cittadini francesi dalla comunità? Essa era appunto destinata a sopprimere tale isolamento. »

Nella società capitalista che ha privatizzato il mondo l'individuo, ridotto a monade, deve recuperare sé stesso opponendosi alla comunità (Gesellschaft), fondata sul principio del capitale-mercato-moneta dove predomina l'egoismo e la lotta della concorrenza, per recuperare il senso di appartenenza alla comunità umana (Gemeinwesen).

I rapporti tra gli uomini e quelli con la natura non sono scindibili. Poiché gli uomini non sono nemmeno puro spirito, essi devono produrre i propri mezzi di sussistenza, con i quali «producono indirettamente la loro stessa vita materiale», e poiché i mezzi di sussistenza si producono sempre in un qualche modo determinato, quel modo di produrre è già «un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato [...] Come gli uomini esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide immediatamente con la loro produzione, tanto con ciò che producono, quanto col modo come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione».

La produzione base della storia umana

Il modo di produzione è storicamente determinato da un particolare sviluppo delle forze produttive, è il risultato di determinate conoscenze scientifiche e della tecnologia connessa, ma è anche il prodotto di relazioni che si sono storicamente determinate fra gli stessi uomini, è il risultato di una particolare organizzazione sociale ed insieme è un elemento che condiziona la forma e lo sviluppo di quelle relazioni sociali.

La produzione è la base reale della storia umana: «Finora tutta la concezione della storia ha puramente e semplicemente ignorato questa base reale della storia, oppure l'ha considerata come un semplice fatto marginale, privo di qualsiasi legame con il corso storico. Per questa ragione si è sempre costretti a scrivere la storia secondo un metro che ne sta al di fuori; la produzione reale della vita appare come qualcosa di preistorico, mentre ciò che è storico [...] appare come extra- e sovra-mondano. Il rapporto dell'uomo con la natura è quindi escluso dalla storia, e con ciò è creato l'antagonismo tra natura e storia».

Neanche il materialismo di Ludwig Feuerbach è in grado di cogliere i reali rapporti esistenti tra gli uomini poiché egli concepisce l'uomo come essere naturale ma non vede che il rapporto dell'uomo con la natura è anche un rapporto dell'uomo con gli altri uomini, è un rapporto sociale..

Le forme della proprietà nella storia

Ne L'ideologia tedesca è delineato un excursus storiografico che a grandi linee dà conto dello sviluppo delle forme sociali succedutesi nel corso della storia umana.

La crescita demografica e la soddisfazione dei bisogni primari genera nuovi bisogni i quali richiedono una maggior divisione del lavoro. La divisione del lavoro è un fenomeno storico, quindi dinamico, che ha assunto varie forme tra cui la divisione tra città (industria e commercio) e campagne (agricoltura). Con il mutare della divisione del lavoro sono mutate anche le forme della proprietà:

proprietà tribale, fondata sulla raccolta dei prodotti della terra, sulla caccia, la pesca, e più tardi sulla pastorizia e ancora in seguito sull'agricoltura; la divisione del lavoro è poco sviluppata e alla fine appare la schiavitù, prodotta dalle guerre con le altre tribù;

proprietà della comunità antica, in cui ormai si è formato lo Stato, la differenziazione del lavoro appare come antagonismo tra città e campagne, gli schiavi forniscono la forza produttiva di cui fanno uso i loro proprietari, si sviluppano le proprietà mobiliari, immobiliari e il commercio;

proprietà feudale, in cui domina l'agricoltura e la società è organizzata gerarchicamente per cui iniziano a formarsi le prime forme di capitale.

proprietà del modo di produzione capitalistico, in cui si sviluppa il capitale, il lavoro salariato, la proprietà mobiliare e immobiliare, l'industria, il commercio, la finanza. La «natura» acquista così dinamicità, essa è legata inscindibilmente con i processi dell'industria e i rapporti umani. La storia umana non è più la storia dell'essenza umana generale ma lo sviluppo delle forme di produzione e dell'organizzazione sociale.

Struttura e sovrastruttura

Certamente i modi di produzione non racchiudono l'intera vita sociale ma ne determinano le istituzioni e i rapporti sociali e politiche. La coscienza non determinerà più la realtà ma sarà la realtà a determinare la coscienza. Marx farà distinzione tra:

«struttura», i modi di produzione, l'organizzazione economica e sociale;

«sovrastruttura», la produzione delle idee e della cultura.

Quindi la realtà strutturale condiziona inevitabilmente la sovrastruttura: religione, filosofia, politica, diritto ecc. La divisione del lavoro tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, secondo Marx, ha senz'altro contribuito a sviluppare una fittizia autonomia della sovrastruttura, cioè l'ideologia.

Critica dell'ideologia

L'ideologia non indica più, come per Ideologi e Illuministi, lo studio delle sensazioni e l'origine delle idee, essa per Marx indica la funzione che religione, filosofia e produzioni culturali in genere possono avere nel giustificare la situazione esistente: «Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante [...] Le idee dominanti non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee». Per comprendere il processo storico, più che prestare attenzione alle idee e alla cultura, occorre indagare i modi in cui si produce la vita materiale. La concezione materialistica della storia pone, per Marx ed Engels, il socialismo su basi scientifiche poiché analizza il processo storico e le condizioni reali che gli apriranno la strada.

La fondazione della Lega dei Comunisti e il Manifesto

Nell'estate del 1845 Marx ed Engels entrano in rapporto a Londra con l'Associazione dei lavoratori tedeschi, emanazione legale inglese della clandestina Lega dei Giusti, società internazionale che raccoglieva adesioni soprattutto fra gli emigrati politici tedeschi. Teorico della Lega era allora Wilhelm Weitling, un sarto tedesco, autore nel 1842 delle Garanzie dell'armonia e della libertà, conosciute e apprezzate da Marx, non per il contenuto teorico, un misto di comunismo primitivo e di messianismo paleocristiano, quanto per la manifestata necessità di una organizzazione e di una conseguente azione rivoluzionaria. Per Weitling, il popolo era già pronto per una società comunista, a creare la quale bastava l'azione decisa di un pugno di rivoluzionari.

Nell'autunno del 1845, convinto della necessità di superare tanto le teorie utopistiche che i moti avventurosi, Marx propone la costituzione di "Comitati di corrispondenza" che mettano in contatto le diverse associazioni comuniste internazionali, in particolare tra Francia, Germania e Inghilterra, per definire teorie condivise e azioni rivoluzionarie comuni.

Il 30 marzo 1846, a Bruxelles si tiene una riunione alla quale sono presenti Marx, Engels, Weitling, il belga Philippe Gigot, i tedeschi Edgar von Westphalen, cognato di Marx, Joseph Weydemeyer, Sebastian Seiler e il russo Pavel Annenkov che scrive una relazione della seduta: «Weitling parlò per primo, ripetendo tutti i luoghi comuni della retorica liberale e avrebbe senza dubbio parlato più a lungo se Marx non l'avesse interrotto, la fronte aggrottata per la collera. Nella parte essenziale della sua risposta sarcastica, Marx dichiarò che sollevando il popolo senza fondarne in pari tempo l'attività su basi solide, lo si ingannava. Far nascere speranze fantastiche non portava alla salvezza ma piuttosto alla perdita di quelli che soffrivano; rivolgersi agli operai, e soprattutto agli operai tedeschi, senza avere idee strettamente scientifiche e una dottrina concreta, significava trasformare la propaganda in un gioco privo di senso, peggio, senza scrupoli. Weitling replicò che con la critica astratta non si sarebbe potuto ottenere nulla di buono e accusò Marx di non essere altro che un intellettuale borghese lontano dalle miserie del mondo. A queste ultime parole Marx, assolutamente furioso, diede un pugno sulla tavola così forte che il lume ne tremò, e, alzatosi di scatto, gridò: - Fino ad ora l'ignoranza non ha mai servito a nessuno! Seguendo il suo esempio ci alzammo anche noi. La conferenza era finita, e mentre Marx, eccitato da una collera insolita, andava su e giù per la stanza, io mi accomiatai da lui e dagli altri e ritornai a casa, molto stupito per ciò che avevo visto e udito».

Aderisce alla Associazione democratica di Bruxelles, divenendone vicepresidente; insieme con Engels fonda un Circolo di studi dei lavoratori tedeschi di Bruxelles tenendovi conferenze, poi raccolte nell'opera Lavoro salariato e capitale.

Nel novembre 1846 il comitato direttivo chiede a Marx e a Engels di aderire alla Lega, della quale entrano a far parte ufficialmente nel febbraio 1847. Il 1º giugno 1847, nel congresso londinese, la Lega dei Giusti assume il nome di Lega dei comunisti, mutando il motto Tutti gli uomini sono fratelli in quello di Proletari di tutto il mondo unitevi, proposto da Marx e divenendo di fatto il primo partito operaio moderno, il cui Statuto, al primo articolo, affermava che:

« Scopo della Lega è il rovesciamento della borghesia, il regno del proletariato, la soppressione dell'antica società borghese fondata sugli antagonismi di classe e l'instaurazione di una nuova società senza classi e senza proprietà privata. »

(Statuto della Lega dei comunisti, art. 1)

Nel secondo congresso di Londra nel novembre 1847 si decide di affidare a Marx e ad Engels la redazione del programma del partito che, col titolo di Manifesto del Partito Comunista, appare nel 1848, poco prima della rivoluzione parigina del 23 febbraio 1848, e viene successivamente tradotto in tutte le lingue europee.

La Miseria della filosofia

Aveva intanto pubblicato in francese, nel 1847, la Miseria della filosofia, una critica della Filosofia della miseria di Proudhon e, nel 1848, il Discorso sul libero scambio.

La Miseria della filosofia è una confutazione del pensiero economico di Proudhon, «socialista piccolo-borghese e utopista, che fu uno dei fondatori dell'anarchismo» e del metodo da lui utilizzato nella stesura di quella Filosofia della miseria nella quale aveva inteso prospettare una società che superasse l'attuale società capitalistica. Il metodo di Proudhon – sostiene Marx – è ricavato dalla Filosofia della storia di Hegel, è perciò una «anticaglia hegeliana, non è storia profana, la storia dell'uomo, ma storia sacra, la storia delle idee».

Proudhon non comprende la società reale in cui vive e non conosce il reale movimento della storia, perché è rimasto a una concezione idealistica: non ha compreso che «le categorie economiche sono soltanto le espressioni astratte» dei reali rapporti sociali esistenti tra gli uomini, che mutano al mutare dello sviluppo delle forze produttive. Rendendo astratte ed eterne le categorie economiche, come è costume facciano gli economisti borghesi, Proudhon interpreta i rapporti reali degli uomini come fossero una «materializzazione di questa astrazione»

Il Manifesto: l'ideologia come falsa coscienza e le idee dominanti

Nel Manifesto si analizza la forma sociale borghese come prodotto di un lungo processo storico.

« Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, insieme di associazioni armate ed autonome nel Comune, talvolta sotto la forma di repubblica municipale indipendente, talvolta di terzo stato tributario della monarchia, poi all'epoca dell'industria manifatturiera, nella monarchia controllata dagli stati come in quella assoluta, contrappeso alla nobiltà, e fondamento principale delle grandi monarchie in genere, la borghesia, infine, dopo la creazione della grande industria e del mercato mondiale, si è conquistata il dominio politico esclusivo dello Stato rappresentativo moderno. Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese. »

Con la trasformazione dei rapporti sociali e lo sviluppo delle forze produttive, «anche le idee, le opinioni e i concetti, insomma, anche la coscienza degli uomini, cambia col cambiare delle loro condizioni di vita, delle loro relazioni sociali, della loro esistenza sociale. Cos'altro dimostra la storia delle idee, se non che la produzione intellettuale si trasforma assieme a quella materiale? Le idee dominanti di un'epoca sono sempre state soltanto le idee della classe dominante. Si parla di idee che rivoluzionano un'intera società; con queste parole si esprime semplicemente il fatto che entro la vecchia società si sono formati gli elementi di una nuova, e che la dissoluzione delle vecchie idee procede di pari passo con la dissoluzione dei vecchi rapporti d'esistenza».

È la divisione del lavoro intellettuale e manuale che produce all'interno della stessa borghesia i suoi ideologi, gli intellettuali apologeti, in buona o cattiva fede, dei valori politici, economici, religiosi, morali, giuridici, elaborati in sistemi filosofici e sociologici, riportati ed esaltati nelle interpretazioni dei fatti storici, separando tali idee dominanti dai rapporti che caratterizzano il modo di produzione della società, credendo e propagandando la falsa teoria del dominio storico delle idee le quali si svilupperebbero attraverso un loro moto interno e indipendente. Tali ideologie, o false coscienze, non possono trasformare la struttura sociale ed economica, come alcuni ideologi, più o meno ingenuamente, possono ritenere, essendo esse stesse il prodotto delle relazioni umane materiali che giustificano spiritualmente i rapporti di produzione esistenti e diventano strumento di conservazione del dominio di classe, del potere politico. Non è la critica o il pensiero che riflette su sé stesso, ma è la rivoluzione la forza motrice della storia.

La funzione rivoluzionaria della borghesia

E infatti la borghesia è stata storicamente una forza rivoluzionaria; nella sua lotta contro l'organizzazione feudale della società, nella quale è sorta e si è sviluppata «la borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti».

Il sovvertimento dei rapporti di produzione e lo sviluppo delle forze di produzione da essa operato ha comportato un radicale mutamento delle sovrastrutture ideologiche che si accompagnavano ai rapporti di produzione feudali.

« Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l'uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo pagamento in contanti. Ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell'esaltazione devota, dell'entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli...ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d'illusioni religiose e politiche [...] ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l'uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi. »

Il suo carattere rivoluzionario ha permesso un'accelerazione di trasformazioni quali non si erano viste in migliaia d'anni. Ha sviluppato come non mai la scienza e la tecnica, ha assoggettato la campagna alla città, ha creato metropoli, ha costretto tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione capitalistico, pena la loro rovina: «In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza».

Ma lo sviluppo delle forze produttive diventa tale da non essere adeguato ai rapporti di produzione, questo genera la crisi e una transizione rivoluzionaria. Così com'è stato in Francia dove la borghesia è stata motore del cambiamento della società feudale, così accadrà nel sistema capitalistico prodotto da essa. Intensificando al massimo la produzione per l'ottenimento del massimo profitto, si favorisce una crisi di sovrapproduzione, si deve distruggere parte della produzione e delle forze produttive perché il capitale possa perpetuarsi; deve distruggere ricchezza e provocare miseria per produrre nuova ricchezza.

« La borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le porteranno la morte ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari »

Marx ed Engels affermano la continuità degli antagonismi di classe in tutte le società che si sono storicamente determinate di modo che il motore della storia è la lotta tra le classi, o conflitto di classe..

« La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta. Nelle epoche passate della storia troviamo quasi dappertutto una completa articolazione della società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali. In Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel Medioevo signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per di più, anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi [...] La società civile moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta. »

A Parigi e in Germania

Il 22 febbraio 1848 Parigi insorge: in due giorni Luigi Filippo di Francia è costretto a fuggire a Londra e viene proclamata la repubblica. La rivoluzione si estende in tutta l'Europa, cancellando l'assetto politico creato nel 1814 dal Congresso di Vienna.

La pubblicazione della "Gazzetta tedesca di Bruxelles", di cui Marx è collaboratore, induce il governo prussiano a richiedere l'espulsione di Marx, e quando scoppiano moti popolari anche a Bruxelles, il governo belga arresta Marx e lo espelle.

Con il mandato della Lega di costituire un comitato centrale del partito, emigra il 4 marzo a Parigi dove il governo provvisorio lo saluta: "La tirannia vi ha bandito, la libera Francia apre le sue porte a voi e a tutti quelli che lottano per la santa causa della fraternità dei popoli". In Francia già si era verificata la spaccatura fra forze liberali, che temevano l'estremismo proletario, e quelle socialiste; i blanquisti, rifacendosi alla Grande Rivoluzione, chiedevano la guerra rivoluzionaria contro le monarchie assolute.

Secondo Marx, essendo la borghesia incapace di condurre la rivoluzione persino nella prospettiva delle conquiste democratiche, il proletariato organizzato doveva mantenere la propria autonomia d'azione e prepararsi allo scontro decisivo per la rivoluzione sociale.

Alla fine di marzo la rivoluzione si allarga alla Germania dove tuttavia, rispetto alla Francia, le possibilità rivoluzionarie, per l'assenza di un proletariato numeroso, organizzato e conquistato alle idee socialiste, dovevano limitarsi a richiedere riforme democratiche. Per Marx occorre intanto favorire la comunione d'intenti fra proletariato e forze democratiche sperando in una favorevole evoluzione in Francia che traini la rivoluzione tedesca.

Nell'aprile del 1848 Marx, insieme con la famiglia ed Engels, va a Colonia dove il 13 aprile è tra i fondatori dell'Associazione Democratica. Ipoteca l'eredità paterna per raccogliere il denaro necessario a fondare, il 1º giugno 1848 la "Neue Rheinische Zeitung" (Nuova Gazzetta Renana) con Marx come direttore e una redazione composta da membri della Lega.

Nello stesso mese la repubblica francese, per mezzo dell'esercito comandato dal generale Cavaignac, stronca il movimento operaio parigino. Marx scrive che l'effimero trionfo della forza bruta ha dissipato tutte le illusioni della rivoluzione di febbraio, ha dimostrato la disgregazione di tutto il vecchio partito repubblicano e la divisione della nazione francese in due parti: quella dei proprietari e quella degli operai.

La sconfitta del movimento rivoluzionario ha ripercussioni in tutta l'Europa. I liberali, valutando che per loro è ben più grave il pericolo comunista, cercano un accordo con l'assolutismo semifeudale. Al colpo di Stato prussiano del novembre 1848, la Neue Rheinische Zeitung reagisce esortando a non pagare le tasse e a rispondere con la violenza alla violenza. Per questo, nella primavera del 1849 viene citato due volte in tribunale ma è assolto. Abbandonata dalle deboli forze democratiche, il quotidiano resta l'unica voce d'opposizione in Germania: nel 1849 convoca un congresso operaio tedesco a Lipsia ma nel mese di maggio l'esercito prussiano ristabilisce l'ordine.

La Nuova Gazzetta Renana venne soppressa il 19 maggio 1849. Aveva fatto a tempo a pubblicare a puntate dal 4 aprile 1849 il Lavoro salariato e capitale - introducendo la nozione di forza-lavoro, distinta da quella di lavoro, e mostrando l'origine del plusvalore - e un'analisi del momento rivoluzionario in atto, poi ripubblicata con aggiunte da Engels nel 1895 con il titolo Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850.

Con la soppressione del quotidiano, Marx ritorna a Parigi, ma dopo i moti popolari del 13 giugno 1849 il governo francese gli pone l'alternativa di lasciare la capitale e trasferirsi a Vannes, nel Morbihan, una regione paludosa, o di abbandonare la Francia. Sceglie di trasferirsi a Londra, dove vivrà fino alla morte.

Maturità

Studio dell'economia politica

A Londra, cerca di ricostituire i legami fra gli aderenti della Lega dispersi dopo le sconfitte delle rivoluzioni: nel settembre 1849 viene ricostituito il Comitato centrale della Lega dei Comunisti e nel marzo 1850 esce mensilmente ad Amburgo, sotto la direzione di Marx, la Nuova Gazzetta Renana. Nell'aprile, insieme con blanquisti e cartisti, si costituisce l'Associazione universale dei comunisti rivoluzionari per «il rovesciamento delle classi privilegiate e la loro sottomissione alla dittatura del proletariato, mantenendo la rivoluzione in permanenza fino alla realizzazione del comunismo, che deve essere l'ultima forma di organizzazione del genere umano».

Analizzando gli insegnamenti di quel periodo, Marx ed Engels sottolineano la necessità dell'organizzazione e delle alleanze sia con le forze democratiche, senza però dimenticare che queste vogliono conservare il «modo capitalistico di produzione»), che va invece abbattuto, sia con le masse contadine, alle quali occorre prospettare i vantaggi della confisca rivoluzionaria dei grandi latifondi da trasformare in aziende agricole statali.

Ma si manifestano contrasti all'interno della Lega; per Marx non ci sono prospettive rivoluzionarie immediate, mentre una parte guidata da August Willich e Karl Schapper propone un'immediata ripresa dell'attività rivoluzionaria: per Marx,

« al posto della considerazione critica, la minoranza ne mette una dogmatica, al posto di una materialistica, ne mette una idealistica. Per essa, invece delle condizioni effettive, diventa ruota motrice della rivoluzione la nuda volontà. Mentre noi diciamo agli operai: voi dovete attraversare 15, 20, 50 anni di guerre civili e di lotte popolari non soltanto per cambiare la situazione ma anche per cambiare voi stessi e per rendervi capaci del dominio politico, voi dite invece: noi dobbiamo giungere subito al potere, oppure possiamo andare a dormire! Mentre noi richiamiamo in particolare gli operai tedeschi sul fatto che il proletariato tedesco non è ancora sviluppato, voi adulate nel modo più goffo il sentimento nazionale e i pregiudizi di casta dell'artigiano tedesco, cosa che comunque dà più popolarità. »

Il 15 settembre 1850 avviene la scissione: gli aderenti alla frazione marxista, spostata a Colonia, vengono processati dalla magistratura prussiana e, nel novembre 1852, i suoi membri sono condannati ad alcuni anni di carcere. Il 17 novembre 1852, su proposta di Marx, la Lega dei Comunisti è sciolta. Ancora nel 1852 scrive Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte in cui analizza il colpo di stato bonapartista del 2 dicembre 1851.

A Londra Marx e la sua famiglia vivono dei magri proventi della sua attività di pubblicista. Riferisce nel 1853 un informatore della polizia prussiana al suo superiore:

« Marx vive in uno dei peggiori quartieri di Londra, e quindi uno dei più economici. Occupa due stanze...[un soggiorno e una camera da letto]. Non si vede in tutto l'ambiente un solo mobile pulito o in buono stato...nel centro del soggiorno c'è un grande tavolo di foggia antiquata, ricoperto da una incerata, su cui sono sparpagliati manoscritti, libri e giornali, assieme ai giocattoli dei bambini, oggetti da lavoro della moglie, tazze da tè sbocconcellate, cucchiai, forchette e coltelli sporchi...un calamaio...pipe di terracotta...cenere di tabacco [...] c'è una sedia con solo tre gambe, ce n'è un'altra che per caso è intatta sulla quale i bambini giocano a far da mangiare. Questa viene gentilmente offerta all'ospite ma i resti [del gioco] dei bambini non vengono tolti e ci si siede a rischio di sporcarsi i pantaloni. Ma nulla di tutto ciò causa il minimo imbarazzo a Marx o a sua moglie. Si è accolti nel modo più cordiale, vi si offre cortesemente la pipa, il tabacco e qualsiasi altra cosa disponibile. In ogni caso la conversazione intelligente e gradevole compensa in parte le deficienze della casa e rende sopportabile il disagio... »

In questa situazione la moglie che lo ama profondamente e crede nelle sue idee e nel suo progetto socio-politico, tiene un comportamento eroico, senza mai rimproveragli nulla ed anzi sostenendolo. Gli muoiono in un breve arco di tempo, per denutrizione, i figli Heinrich Guido (1849-1850) e Franziska (1851-1852) e, per tubercolosi, Edgar (1847-1855); in quest'occasione scrive a Engels: «La casa è del tutto desolata e vuota dopo la morte del caro bambino che ne era l'anima. Non si può dire come il bambino ci manchi a ogni istante [...] Mi sento spezzato [...] Tra tutte le pene terribili che ho passato in questi giorni, il pensiero di te e della tua amicizia, e la speranza che noi abbiamo ancora da fare insieme al mondo qualche cosa di intelligente, mi hanno tenuto su».

Dopo il fallimento dei moti rivoluzionari in Europa ritiene che terra della rivoluzione possa esser l'Inghilterra perché industrialmente più sviluppata. In quel periodo l'introduzione delle macchine a vapore nella produzione dà ulteriore slancio all'industria, aumentano i guadagni, l'orario lavorativo degli operai migliora leggermente così come i loro salari. In questa situazione Marx riprende lo studio dell'economia politica per definire un metodo corretto per l'analisi dell'economia. Frequenta quasi giornalmente la biblioteca del British Museum raccogliendo una grande quantità di dati.

Per la critica dell'economia politica

I risultati saranno degli appunti riuniti sotto il titolo Grundrisse e Per la critica dell'economia politica, pubblicata nel 1859, affrontando l'analisi della merce e del denaro in un'introduzione all'opera stessa teorizzando la creazione del valore di scambio della merce mediante la quantità di lavoro sociale immesso in essa. La prefazione a quest'opera è un compendio del materialismo storico:

« Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere ma è, al contrario, il loro essere sociale a determinare la loro coscienza [...].

A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (il che è l'equivalente giuridico di tale espressione) entro i quali queste forze fino ad allora si erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono nelle loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura. »

Marx richiama la necessità di distinguere tra lo sconvolgimento delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme ideologiche - giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche - attraverso le quali gli uomini prendono coscienza e combattono questi conflitti: «Come non si può giudicare un uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che ha di sé stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale, con il conflitto esistente tra le forze produttive della società e i rapporti di produzione».

« Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; i nuovi superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere, perché, a considerare le cose da vicino, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione [...].

A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese, possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di produzione borghesi sono l'ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude dunque la preistoria della società umana. »

A differenza degli economisti classici, Marx ritiene che l'oggetto dell'economia politica non siano gli individui che producono isolatamente bensì in società. L'indagine deve quindi partire dalla realtà, dal concreto. Esso, per quanto caotico, è il punto di partenza per poter fare delle astrazioni per poter creare le categorie dell'analisi economica (per es. lavoro astratto, strumento di produzione, soggetto del lavoro ecc.). Tali categorie, cioè concetti astratti, possono dar vita a legami che sono semplici leggi logiche generali, difficilmente, dato il carattere storico possono dar vita a leggi naturali che richiederebbero l'assolutizzazione ed eternizzazione di certi rapporti (nel caso specifico la società borghese).

Tramite quest'analisi Marx ci ricorda come persino l'astratto, come le categorie, ha radici nella realtà storica e con essa muta al cambiare delle condizioni. Il procedimento corretto nell'analisi dell'economia politica comporterà quindi la sostituzione, a queste categorie astratte, dei dati storici specifici di ogni società. Marx non si ferma alla semplice astrazione, così come gli economisti classici, ma riporta l'astratto al concreto concludendo la vera dialettica: concreto (caos) - astratto (categorie) - concreto (relazioni, ordine). Il concreto raggiunto non sarà più caotico come quello iniziale ma una totalità di relazioni correttamente individuate.

Marx riporta ancora una volta la dialettica hegeliana a poggiare sui piedi e non sulla testa: «il mio metodo dialettico non solo è diverso da quello hegeliano, ma ne sta all'opposto. Per Hegel, il processo del pensiero, che egli sotto il nome di Idea trasforma in soggetto indipendente, è il demiurgo della realtà, mentre la realtà è solo il suo fenomeno esteriore. Invece, per me il fattore ideale è solamente il fattore materiale trasferito e tradotto nella mente degli uomini [...] la mistificazione cui è soggetta la dialettica nelle mani di Hegel non impedisce che egli sia stato il primo ad averne esposto distesamente e consapevolmente le forme generali di movimento. In lui è piantata sulla testa. Occorre rovesciarla per trovare il nocciolo razionale dentro il rivestimento mistico»

La dialettica, concepita concretamente, rappresentando la nascita, lo sviluppo, la decadenza e la morte degli organismi sociali, «è scandalo e orrore per la borghesia e per i suoi portavoce dottrinari, perché nella componente positiva della realtà delle cose include nello stesso tempo anche la comprensione della negazione di essa e del suo inesorabile declino, perché considera ogni forma divenuta nel fluire del movimento, perciò anche dal suo lato transitorio, perché non si lascia impaurire da nulla ed è critica e rivoluzionaria nel suo intimo. Quello che più vivamente fa avvertire al pratico borghese il movimento contraddittorio della società capitalistica, sono le incerte vicende del ciclo periodico che ha percorso la moderna industria e il loro termine ultimo, la crisi generale».

La Prima Internazionale

La crisi economica che investe tutto il mondo nel 1857 segna una forte ascesa del movimento operaio che fece sentire anche la necessità di una unità politica internazionale. Il 22 luglio 1864 si svolge a Londra una grande manifestazione in solidarietà con la Polonia insorta contro la dominazione russa: i dirigenti operai inglesi e francesi si accordano per la costituzione di un'associazione. Il 28 settembre 1864 nella St. Martin's Hall di Londra si svolge la seduta inaugurale del congresso costitutivo dell'Associazione internazionale dei lavoratori con la partecipazione di rappresentanti inglesi, francesi, italiani, polacchi, irlandesi, svizzeri e tedeschi, tra i quali anche Marx. Viene stabilito che il congresso elegga annualmente il Consiglio generale, con sede a Londra, il quale a sua volta elegge i segretari delle sezioni nazionali.

Tra gli stessi fondatori dell'Associazione non vi era un pieno accordo di posizioni teoriche e politiche: vi erano confluiti comunisti, socialisti, socialisti utopisti, anarchici, repubblicani. Marx riuscì a presentare, il 1º novembre 1864, un Indirizzo inaugurale dello statuto dell'Associazione, in modo da raccogliere l'adesione di tutte le correnti e il documento fu approvato all'unanimità. Marx vi sottolinea l'esperienza positiva del movimento operaio, con la conquista della giornata lavorativa di 10 ore in Inghilterra, lo sviluppo del sindacalismo, e delle associazioni di produzione operaia ma anche la necessità della conquista del potere politico.

Il 26 giugno 1865 presenta al Consiglio generale il saggio Salario, prezzo e profitto in cui dimostra la falsità della tesi del rapporto tra aumenti salariali e inflazione.

Presto Marx, membro del Consiglio e segretario per la Germania, l'Olanda e più tardi anche per la Russia, deve lottare contro l'influsso dei mazziniani, degli oweniani e soprattutto dei proudhoniani, favorevoli alla cooperazione ma contrari alle lotte sindacali e politiche: nel I Congresso dell'Associazione, tenuto a Ginevra il 3 settembre 1866, vengono approvate le sue Istruzioni, nelle quali sostiene che il movimento cooperativo operaio non è in grado di mutare la situazione sociale del proletariato e condanna le tesi proudhoniane contrarie al lavoro e alla vita sociale delle donne.

Le polemiche tra la maggioranza dell'Associazione e i seguaci di Proudhon si prolungarono fino al Congresso di Bruxelles, tenuto dal 6 al 13 settembre 1868, al termine del quale l'ala destra dei prudhoniani, capeggiata da Henry Louis Tolain, preferì lasciare l'Associazione, mentre quella di sinistra di Eugène Varlin si avvicinò alle posizioni marxiste. In quel congresso fu altresì stabilito di consigliare a tutti gli associati la lettura e la diffusione de Il Capitale di Marx, il cui primo libro era stato pubblicato l'anno precedente.

Il Capitale

La necessità di analizzare il modo di produzione capitalistico in base alle categorie da lui individuate porterà Marx alla stesura nel 1867 de Il Capitale, pubblicato dall'editore Meissner di Amburgo. Prevede, e usciranno postumi a cura di Engels nel 1885, un secondo libro sul processo di circolazione del capitale, nel 1895 un terzo libro sulla formazione del processo complessivo e, dal 1905 al 1910, a cura di Karl Kautsky, dirigente e principale teorico del Partito Socialdemocratico Tedesco, un quarto libro sulla storia delle teorie economiche, intitolato anche Teorie sul plusvalore.

L'economista russo Ilarion Kaufman nel 1872 recensisce il I volume del Capitale descrivendone il metodo di analisi:

«Stando alla forma esteriore dell'esposizione, Marx appare come il più grande filosofo idealista [...] ma in effetti è infinitamente più realista di tutti i suoi predecessori nel campo della critica economica [...] per Marx, solo una cosa è importante: trovare la legge dei fenomeni che è volto a indagare. E per lui è importante non solo la legge che li governa [...] è importante soprattutto la legge del loro cambiamento, del loro svolgimento da una forma all'altra [...] appena scoperta questa legge, indaga nei dettagli le conseguenze con cui la legge si manifesta nella vita sociale [...].

In seguito a ciò, Marx si sforza solo a una cosa: di dimostrare [...] la necessità di determinati rapporti sociali e di constatare [...] i fatti che gli occorrono come punti di partenza o come punti di appoggio. A questo scopo è sufficiente provare sia la necessità dell'ordinamento attuale che la necessità di un diverso ordinamento in cui il primo deve trapassare, essendo indifferente che gli uomini ne siano o meno consapevoli. Marx considera il movimento della società come un processo di storia naturale governato da leggi che non dipendono soltanto dalla volontà, dalla coscienza e dall'intenzione degli uomini ma, al contrario, determinano la loro volontà, la loro coscienza e le loro intenzioni [...]

Se l'elemento cosciente ha nella storia della civiltà un posto così subordinato, è evidente che la critica della civiltà meno d'ogni altra cosa potrà prendere a fondamento una qualunque forma o risultato della coscienza [...] La critica si restringerà alla comparazione di un fatto non con l'idea, ma con un altro fatto. È importante che tutti e due i fatti [...] rappresentino veramente diversi momenti di sviluppo l'uno di fronte all'altro e soprattutto che sia indagata la serie degli ordinamenti, la successione e il legame in cui si manifestano i gradi di sviluppo. Si potrebbe obiettare che le leggi generali dell'economia siano uniche e medesime, sia che si riferiscano al presente che al passato. Marx nega proprio questo. Per lui queste leggi astratte non esistono [...] ogni periodo storico ha le sue proprie leggi [...] appena la vita economica [...] è passata da un determinato stadio di sviluppo a un altro, comincia a essere retta da leggi diverse [...] I rapporti e le leggi che regolano i gradi di sviluppo cambiano con la differenza di sviluppo delle forze produttive [...] Il valore scientifico di questa indagine sta nella spiegazione delle leggi specifiche che regolano nascita, esistenza, sviluppo, morte di un organismo sociale e la sua sostituzione con un altro, superiore».

Valore e plusvalore

La merce, forma elementare della ricchezza nella società capitalistica, ha innanzi tutto un valore d'uso, un valore intrinseco che consente di soddisfare un bisogno e che si realizza soltanto nel consumo di essa. Ma ogni merce è depositaria anche di un altro valore che permette il suo scambio con certe quantità di altre merci; il valore di scambio. Per esempio, si può scambiare mezza tonnellata di ferro con 13 chili di grano o, in generale, X quantità della merce A con Y quantità di merce B e Z di merce C ecc.

Dunque una determinata merce ha insieme un valore d'uso, in relazione alla sua qualità, e un valore di scambio, in relazione alla sua quantità; il primo valutato in funzione del consumo, il secondo in funzione dello scambio.

Ma perché X merce A è scambiabile con Y merce B ecc.? Devono avere in comune qualcosa, della stessa grandezza, che non sia né A né B né C, ecc. Per Marx, il fattore comune è la quantità di lavoro impiegato per produrle, lavoro inteso indipendentemente dalla sua qualità specifica - di sartoria, di meccanica, di edilizia ecc. - cioè lavoro come dispendio di energia, il lavoro astratto. Il valore di scambio di una merce è allora determinato dalla quantità di lavoro astratto racchiuso in essa e la quantità di lavoro è misurabile per durata temporale. Cioè il tempo di lavoro necessario in media, socialmente necessario, per produrre una certa merce. Un bene, una merce, ha tale valore perché in esso è oggettivato del lavoro umano.

Nel mercato gli scambi delle merci si rifanno ad una merce che funge da equivalente generale, questa merce è il denaro e può esser equivalente di ogni altra. Il denaro consente di stabilire, tramite la legge della domanda e dell'offerta, il prezzo di un bene sul mercato.

In una società mercantile la circolazione denaro-merci è M-D-M, vi è la vendita della merce dalla quale si ricava del denaro da reinvestire per l'acquisto di altra merce. Nella società capitalista la conversione di merce in denaro e di denaro in merce non è finalizzata al consumo della merce stessa, ma all'aumento di denaro, ossia al profitto o plusvalore. In questo modo si realizza il processo di scambio D - M - D', in cui D'>D. Si ha un incremento di denaro d = D'- D. La merce che consente di ottenere un profitto, cioè l'aumento di denaro, non è da ricercarsi nel circuito di circolazione ma in quello della produzione. Infatti nessuno acquisterebbe mai una merce il cui prezzo sia superiore al suo valore di scambio.

Per Marx la merce dotata della capacità produttiva e dalla quale possa estrarsi profitto, cioè un guadagno rispetto a quanto speso per acquistarlo, è la forza-lavoro. La forza-lavoro è venduta, per sopravvivere, dagli individui che non possiedono altro che loro stessi sul libero mercato, ed è acquistata dal capitalista, il quale detiene come sua proprietà i mezzi di produzione, corrispondendo un salario. Come fa il capitalista a ricavare un profitto?

Il capitalista acquista materie prime, macchinari, combustibile ecc., denaro investito nella forma di "capitale costante" ("C"), però acquista anche forza-lavoro, che è una merce, nella forma del salario. Come ogni altra merce, la forza-lavoro, ha un valore di scambio, quindi vale il tempo medio di lavoro necessario per produrla. Il valore della forza lavoro non è calcolato al suo rendimento ma è calcolato sul costo necessario perché possa riprodursi.

Il pluslavoro può generare profitto o plusvalore se il capitalista corrisponde un salario che equivale ad una sola parte del tempo impiegato dall'operaio in produzione, che quindi non equivale al suo rendimento effettivo. Il capitalista corrisponderà all'operaio solo quanto è necessario alla sua sopravvivenza (cioè alla riproduzione di forza-lavoro). Se la parte di lavoro necessaria all'operaio per la propria sopravvivenza sono 6 ore, le altre ore di lavoro di quella giornata non gli sono pagate, quindi sono pluslavoro (gratuito) che genera plusvalore o profitto di cui il capitalista si appropria "legittimamente", in quanto egli ha acquistato, con regolare contratto, la merce forza-lavoro per il suo valore di scambio. Ad es: il capitalista assume l'operaio per 10 ore ma a lui ne retribuisce solo 6, che è il costo che sostiene tramite il salario perché sopravviva.

E la merce prodotta dall'operaio contiene il valore della materia prima e il valore corrispondente all'usura dei mezzi di produzione, C, il valore del lavoro retribuito V e il plusvalore corrispondente a quattro ore non retribuite, PV. Se nella circolazione avverrà lo scambio delle merci prodotte in quel giorno con denaro, il capitalista avrà recuperato il capitale investito (C + V) e avrà realizzato il plusvalore PV.

La caduta tendenziale del saggio di profitto

Il capitalista può consumare il plusvalore nel reddito (riproduzione semplice) o reinvestirlo (riproduzione allargata) ad esempio nell'acquisto di macchine per incrementare la produttività. La concorrenza spinge il capitalista a investire nelle macchine, "capitale costante", e a ridurre i salari, cioè il "capitale variabile". L'introduzione delle macchine in sostituzione agli operai creano un immiserimento crescente tra gli operai ed una forte disoccupazione (che Marx definisce esercito industriale di riserva) e quindi un aumento di forza-lavoro sul mercato che abbassa ulteriormente i salari. Questa per Marx è la legge tendenziale di caduta del saggio di profitto che porterà una crisi. La società capitalista genera da sé la propria negazione.

È possibile produrre maggior quantità di plusvalore aumentando la giornata lavorativa e ottenendo così ulteriore pluslavoro quanto sono le ore lavorate in più. Ma tale aumento ha naturalmente un limite. Se non è possibile ricavare più plusvalore assoluto si può ottenere plusvalore relativo retribuendo il lavoro dell'operaio non per sei ore ma, per esempio, per cinque, non solo o non tanto con un brutale taglio del salario ma diminuendo il valore di scambio della forza-lavoro, cioè diminuendo i prezzi dei mezzi di sussistenza. La diminuzione del prezzo delle merci comporta la diminuzione del tempo necessario di lavoro perché la forza-lavoro si riproduca; e la riduzione di tale tempo necessario comporta la diminuzione del salario. Pertanto il valore dell'ora di lavoro non più necessaria all'operaio diventa un'ora in più di pluslavoro e perciò di plusvalore relativo.

Si può diminuire il prezzo delle merci aumentando la produttività tanto con una maggiore divisione del lavoro che permette agli operai lavorazioni più semplici e perciò più rapide tanto, contemporaneamente, utilizzando macchinari più sofisticati e perciò più efficaci che permettano al lavoratore di produrre nel medesimo tempo una maggiore quantità di merci. In ogni singola merce viene così incamerata una minore quantità tanto di "capitale costante" ("C") che di quello "variabile" ("V") e potrà andare sul mercato a un prezzo inferiore: il costo della vita dell'operaio diminuisce e diminuendo il salario aumenta il plusvalore relativo.

Ma la rivoluzione tecnologica comporta una perdita per il capitalista che sostituisce le vecchie macchine senza averle pienamente utilizzate, e diminuisce l'utilizzo della forza-lavoro, diminuendo il tasso di plusvalore PV / V e mutando la composizione del capitale investito; con l'aumento del "capitale costante" e la diminuzione di quello variabile, che produce plusvalore ("PV"), il saggio di profitto P = PV / (C + V) diminuisce.

Il problema dell'arte

Marx aveva preparato un'altra introduzione all'opera che soppresse e, lasciata frammentaria, fu pubblicata solo nel 1903. In essa affronta marginalmente, tra l'altro, anche il problema della produzione artistica come sovrastruttura che permane nella nostra coscienza anche dopo radicali trasformazioni della struttura economica e sociale.

«Per l'arte è noto che determinati suoi periodi di fioritura non stanno assolutamente in rapporto con lo sviluppo generale della società, né quindi con la base materiale, con l'ossatura, per così dire, della sua organizzazione [...].

Prendiamo, ad es., il rapporto dell'arte greca e poi di Shakespeare con l'età presente. È noto che la mitologia greca non fu solo l'arsenale ma anche il terreno nutritivo dell'arte greca. È possibile la concezione della natura e dei rapporti sociali che sta alla base della fantasia e dell'arte greca con le filatrici automatiche, le ferrovie, le locomotive e il telegrafo? Che ne è di Vulcano di fronte alle acciaierie Roberts and Co., di Giove di fronte al parafulmine, di Ermes di fronte al Crédit mobilier? Ogni mitologia vince, domina e plasma le forze della natura nell'immaginazione e mediante l'immaginazione ma svanisce quando si giunge al dominio effettivo su quelle forze [...] l'arte greca presuppone la mitologia greca, cioè la natura e le forze sociali stesse già elaborate dalla fantasia popolare in modo inconsapevolmente artistico [...] non una qualunque mitologia [...] ma una mitologia [...].

Ma la difficoltà non sta nell'intendere che l'arte e l'epos greco siano legati a certe forme dello sviluppo sociale. La difficoltà è rappresentata dal fatto che essi continuano a suscitare in noi un godimento estetico e costituiscono, sotto un certo aspetto, una norma e un modello inarrivabili [...]. Un uomo non può tornare fanciullo o altrimenti diviene puerile. Ma non si compiace forse dell'ingenuità del fanciullo e non deve egli stesso aspirare a riprodurne, a un livello più alto, le verità? Nella natura infantile, il carattere proprio di ogni epoca non rivive forse nella sua verità naturale? E perché mai la fanciullezza storica dell'umanità, nel momento più bello del suo sviluppo, non dovrebbe esercitare un fascino eterno come stadio che più non ritorna? Vi sono fanciulli rozzi e fanciulli saputi come vecchietti. Molti dei popoli antichi appartengono a questa categoria. I greci erano fanciulli normali. Il fascino che la loro arte esercita su di noi non è in contraddizione con lo stadio sociale poco o nulla evoluto in cui essa maturò. Ne è piuttosto il risultato, inscindibilmente connesso col fatto che le immature condizioni sociali in cui sorse e solo poteva sorgere, non potranno mai più ritornare».

Il riconosciuto sviluppo non parallelo di struttura e sovrastruttura è una prova che non vi è, fra di esse, una ferrea e immediata relazione deterministica. Engels ribadirà dopo la morte di Marx, a seguito di numerosi dibattiti nel movimento socialista, che «il fattore che in ultima istanza è determinante nella storia è la produzione e la riproduzione della vita reale. Se ora qualcuno travisa le cose, affermando che il fattore economico sarebbe l'unico fattore determinante, egli trasforma quella proposizione in una frase vuota, astratta, assurda».

Vecchiaia

All'inizio degli anni sessanta guadagna due sterline ad articolo collaborando con il quotidiano americano New York Tribune, del quale diverrà presto l'unico corrispondente dall'Europa, pubblicando anche articoli sulle vicende politiche italiane, e fa domanda di assunzione nelle ferrovie inglesi che non viene però accettata a causa o a pretesto della sua grafia poco leggibile. Giunge in soccorso della famiglia una piccola rendita lasciatagli dalla madre deceduta nel 1863, ma l'eredità della madre non basta per vivere, così l'amico Engels - che fu sempre economicamente generoso nei suoi confronti - vende la propria partecipazione in una fabbrica di Manchester e gli corrisponde una rendita in modo che la famiglia possa vivere in modo decoroso.

La Comune di Parigi

Nell'estate del 1870 scoppia la guerra tra Germania e Francia: il Consiglio Generale dell'Internazionale pubblica un manifesto, scritto da Marx, in cui si afferma che la Germania combatte una guerra difensiva e si lodano gli operai francesi per essersi dichiarati contro la guerra e contro Napoleone III. Dopo la vittoria lampo dell'esercito prussiano, e la proclamazione della Repubblica francese, il 9 settembre l'Internazionale pubblica un altro manifesto, ancora redatto da Marx, in cui si denunciano le mire espansionistiche di Bismarck. Marx scrive all'internazionalista Friedrich Adolph Sorge che

« quegli asini dei prussiani non si accorgono che l'attuale guerra conduce a una guerra tra la Germania e la Russia....questa seconda guerra sarà la levatrice dell'inevitabile rivoluzione sociale russa. »

Cerca di scoraggiare gli operai parigini da un'avventura rivoluzionaria prematura:

« Ogni tentativo di rovesciare il nuovo governo, nella crisi presente, mentre il nemico batte quasi alle porte di Parigi, sarebbe una disperata follia....Migliorino con calma e risolutamente tutte le possibilità offerte dalla libertà repubblicana, per lavorare alla loro organizzazione di classe...dalla loro forza e dalla loro saggezza dipendono le sorti della repubblica. »

Ma il proletariato parigino, diretto da esponenti radicali, blanquisti e anarchici, insorge proclamando il 18 marzo 1871 la Comune rivoluzionaria; Marx non crede nel suo successo ma si schiera al suo fianco. Nel maggio l'esercito francese, riorganizzato e armato dai tedeschi, soffoca l'insurrezione: quarantamila comunardi vengono massacrati o fucilati.

Ne La guerra civile in Francia Marx scrive che la Comune «è stata un governo della classe operaia, risultato della lotta delle classi produttrici contro le classi possidenti, la forma politica finalmente scoperta con la quale si sarebbe potuto lavorare all'emancipazione economica del lavoro [...] Parigi operaia, con la sua Comune, sarà celebrata in eterno, come l'araldo glorioso di una nuova società. I suoi martiri hanno per urna il grande cuore della classe operaia. I suoi sterminatori, la storia li ha già inchiodati a quella gogna eterna dalla quale non riusciranno a riscattarli tutte le preghiere dei loro preti».

Lo scioglimento della Prima Internazionale e la Critica del Programma di Gotha

Il 17 settembre 1871 si apre a Londra la Conferenza della Prima Internazionale nella quale Marx presenta una risoluzione in cui sostiene che il movimento economico della classe operaia deve essere strettamente legato all'attività politica.

Avversario dell'azione politica e sindacale, l'anarchico Bakunin punta invece sull'azione spontanea del sottoproletariato urbano e dei contadini poveri. Accusa il Consiglio Generale di autoritarismo, di aver attentato agli statuti generali dell'Associazione e di rendere l'Internazionale un'organizzazione gerarchica.

Marx, sempre attivo, lesse lo Stato e anarchia del suo rivale Bakunin, e vi scrisse dei commenti. Eccone uno stralcio:

Bakunin: «Il suffragio universale tramite il quale il popolo intero elegge i suoi rappresentanti e i governanti dello Stato - questa è l'ultima parola dei marxisti e della scuola democratica. Tutte queste sono menzogne che nascondono il dispotismo di una minoranza che detiene il governo, menzogne tanto più pericolose in quanto questa minoranza si presenta come espressione della cosiddetta volontà popolare»

Marx: «Con la collettivizzazione della proprietà, la cosiddetta volontà popolare scompare per lasciare spazio alla volontà reale dell'ente cooperativo»

Bakunin: «Risultato: il dominio esercitato sulla grande maggioranza del popolo da parte di una minoranza di privilegiati. Ma, dicono i marxisti, questa minoranza sarà costituita da lavoratori. Si, certo, ma da ex lavoratori che, una volta diventati rappresentanti o governanti del popolo, cessano di essere lavoratori»

Marx: «Non più di quanto un industriale oggi cessi di essere un capitalista quando diventa membro del consiglio comunale»

Bakunin: «E dall'alto dei vertici dello Stato cominciano a guardare con disprezzo il mondo comune dei lavoratori. Da quel punto in poi non rappresentano più il popolo, ma solo se stessi e le proprie pretese di governare il popolo. Chi mette in dubbio ciò dimostra di non conoscere per niente la natura umana»

Marx: «Se solo il signor Bakunin avesse la minima familiarità anche solo con la posizione di un dirigente di una cooperativa di lavoratori, butterebbe alle ortiche tutti i suoi incubi sull'autorità».

In un nuovo congresso tenuto il 2 settembre 1872 a L'Aia viene ribadita a maggioranza la risoluzione sull'azione politica approvata dal congresso di Londra e decisa l'espulsione della frazione anarchica. Il 15 luglio 1876 la conferenza di Filadelfia dichiarerà lo scioglimento della Prima Internazionale.

Nel 1875 scrive la Critica del Programma di Gotha ove emenda molte proposizioni del programma del Partito operaio (la SPD) tedesco redatte nella città di Gotha. Vi sono in essa alcuni passaggi che prospettano una futura società comunista:

«I vari Stati dei diversi paesi civili, malgrado le loro variopinte differenze di forma, hanno tutti in comune il fatto che stanno sul terreno della moderna società borghese, che è soltanto più o meno evoluta dal punto di vista capitalistico. Essi hanno perciò in comune anche alcuni caratteri essenziali».

Si domanda quindi: «quale trasformazione subirà lo Stato in una società comunista? In altri termini: quali funzioni sociali persisteranno ivi ancora, che siano analoghe alle odierne funzioni dello Stato? A questa questione si può rispondere solo scientificamente [...] ] Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell'una nell'altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico transitorio, il cui Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato [...].

In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e manuale; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo generale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze sociali scorrono in tutta la loro pienezza - solo allora l'angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni! [...]

Il modo di produzione capitalistico poggia sul fatto che le condizioni materiali della produzione sono a disposizione dei non operai sotto forma di proprietà del capitale e proprietà della terra, mentre la massa è soltanto proprietaria della condizione personale della produzione, della forza-lavoro. Essendo gli elementi della produzione così ripartiti, ne deriva da sé l'odierna ripartizione dei mezzi di consumo. Se i mezzi di produzione materiali sono proprietà collettiva degli operai, ne deriva ugualmente una ripartizione dei mezzi di consumo diversa dall'attuale. Il socialismo volgare ha preso dagli economisti borghesi (e a sua volta da lui una parte della democrazia), l'abitudine di considerare e trattare la distribuzione come indipendente dal modo di produzione, e perciò di rappresentare il socialismo come qualcosa che si aggiri principalmente attorno alla distribuzione».

La dittatura del proletariato

Prima della nascita della società comunista e la scomparsa della proprietà privata e quindi di tutte le classi nel nuovo stato uscito dalla rivoluzione proletaria permarrà la classe borghese sconfitta. Ad evitare ogni tentativo di una controrivoluzione borghese occorrerà passare ad una fase immediatamente postrivoluzionaria dove si instauri il potere dittatoriale del proletariato.

La dittatura del proletariato è una teoria concepita da Marx ed Engels per la prima volta nel 1852, nella lettera a Weydemeyer, e nel 1875, nella Critica del Programma di Gotha, per riferirsi alla situazione sociale e politica che si sarebbe instaurata immediatamente dopo la rivoluzione proletaria.

Il potere unico del proletariato rappresenta quindi una fase di transizione in cui il potere politico è detenuto dai lavoratori, rappresentati dall'unico partito comunista, che procederà alla definitiva abolizione della proprietà privata, per la costruzione finale di una società senza classi e senza Stato (comunismo).

Morte

Il 2 dicembre 1881 muore la moglie Jenny; così la ricorda il socialista tedesco Stephan Born nelle sue memorie: «Marx amava la moglie, ed ella condivideva il suo amore. Ho conosciuto raramente unioni altrettanto felici, in cui la gioia, la sofferenza (che non fu loro risparmiata) e il dolore fossero condivisi con una tale certezza di reciproco possesso. Ed ho raramente incontrato una donna che fosse più armoniosa della signora Marx sia nel fisico sia per le qualità della mente e del cuore, e che, sin da un primo incontro, facesse una così favorevole impressione. Era bionda; i suoi figli, allora ancora piccoli, avevano i capelli e gli occhi neri come il padre».

Marx non si riprenderà più da questa grave perdita; malato di bronchite cronica, a gennaio perde anche la sua primogenita Jenny (1844 - 1883); gli restano le figlie Laura (1845 - 1911), moglie del socialista francese Paul Lafargue, ed Eleanor (1855 - 1898), sposata con il socialista inglese Edward Aveling. Laura ed Eleanor moriranno entrambe suicide.

Alle già sue precarie condizioni di salute si aggiunge un'ulcera polmonare e il 14 marzo 1883 Marx muore. Viene sepolto tre giorni dopo nel cimitero londinese di Highgate, accanto alle spoglie della moglie; il suo amico Engels legge l'orazione funebre:

« Il 14 marzo, alle due e quarantacinque pomeridiane, ha cessato di pensare la più grande mente dell'epoca nostra [...] Così come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana [...] Ma non è tutto. Marx ha anche scoperto la legge peculiare dello sviluppo del moderno modo di produzione capitalistico e della società borghese da esso generata. La scoperta del plusvalore ha subitamente gettato un fascio di luce nell'oscurità in cui brancolavano prima, in tutte le loro ricerche, tanto gli economisti borghesi che i critici socialisti [...] Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria [...] Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario. »

« Marx era perciò l'uomo più odiato e calunniato del suo tempo. I governi, assoluti e repubblicani, lo espulsero; i borghesi, conservatori e democratici radicali, lo coprirono a gara di calunnie. Egli sdegnò tutte queste miserie, non prestò loro nessuna attenzione, e non rispose se non in caso di estrema necessità. È morto venerato, amato, rimpianto da milioni di compagni di lavoro rivoluzionari in Europa e in America, dalle miniere siberiane sino alla California. E posso aggiungere senza timore: poteva avere molti avversari, ma nessun nemico personale. Il suo nome vivrà nei secoli, e così la sua opera! »

Critiche al marxismo

Teoria soggettiva del valore di marginalisti e neoclassici

Poco dopo l'uscita del Libro I de Il Capitale, a partire dai contributi indipendenti di William Stanley Jevons, Carl Menger e Léon Walras, la teoria del valore-lavoro degli economisti classici, che aveva costituito la base della teoria economica di Marx, venne progressivamente sostituita dalla teoria soggettiva del valore, che riposa sul concetto di utilità marginale.

Secondo tale teoria, che è stato il perno del marginalismo e rimane, sebbene con alcuni aggiustamenti, il nucleo centrale dell'economia neoclassica a tutt'oggi dominante, il fondamento del valore non va ricercato nella quantità di lavoro socialmente necessario alla produzione dei beni, ma nell'incremento all'utilità individuale che l'incremento del consumo di questi può apportare al margine. Il prezzo dei beni deriva dalla valutazione soggettiva dei consumatori circa l'utilità relativa degli stessi rapportata alla loro scarsità relativa. Infatti, data la generale assunzione di utilità marginale decrescente, cioè di una diminuzione dell'incremento dell'utilità individuale generato da un incremento di un'unità nel consumo al crescere del livello assoluto di consumo, il valore dei beni viene determinato dal rapporto tra bisogni individuali e disponibilità complessive dei beni (e nella versione mengeriana - che apre la strada alla scuola austriaca dell'economia - il valore è ricondotto in particolare al puro giudizio soggettivo dei singoli, ben al di là di ogni pretesa di definire bisogni e disponibilità complessivi). Così, ad esempio, riprendendo il celebre paradosso dell'acqua e del diamante contenuto nella Ricchezza delle nazioni (1776) di Adam Smith, per i marginalisti il motivo per cui il valore dei diamanti è immensamente maggiore di quello dell'acqua è che, date le disponibilità relative di acqua e diamanti, l'utilità che apporterebbe un diamante in più sarebbe molto maggiore di quella di un bicchiere d'acqua in più. Se un uomo si trovasse in un deserto, per il primo bicchiere d'acqua sarebbe disposto a pagare sicuramente molto più che per un diamante, ma non è questa la situazione normale delle persone. I marginalisti dimostrano che in equilibrio i prezzi dei beni devono essere tali da garantire l'uguaglianza delle loro utilità marginali ponderate, cioè del rapporto tra utilità marginale e prezzo del bene.

Data anche l'alta formalizzazione matematica che permettevano, queste teorie divennero presto quelle dominanti, con esiti dirompenti per la teoria marxiana. Cade la teoria del plusvalore: non essendo più il lavoro considerato la fonte del valore, il profitto non può derivare dal plusvalore, per il semplice fatto che non esiste alcun plusvalore, cioè valore che il lavoro attribuisce alla merce, ma che il lavoratore non percepisce. Cade anche la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto: all'aumento della meccanizzazione, con relativo aumento del rapporto tra capitale costante e monte salari, non fa seguito alcuna diminuzione del profitto realizzabile, perché non è la quantità di "lavoro vivo" impiegata nel sistema a determinare il profitto realizzabile.

Idealismo di Gentile

Per l'idealista Giovanni Gentile, il marxismo è un'errata filosofia della storia derivata da Hegel, costruita sostituendo la Materia - la struttura economica - allo Spirito. Per Hegel lo Spirito è l'essenza di tutta la realtà che comprende la materia come momento del suo sviluppo. Avendo scambiato il relativo con l'assoluto, Marx finisce con l'attribuire a un mero momento la funzione dell'assoluto - che per Hegel si sviluppa dialetticamente ed è determinato a priori - rendendo così determinato a priori l'empirico, la struttura economica. Se poi Marx a ragione, nelle Tesi su Feuerbach, critica il materialismo volgare che concepisce metafisicamente l'oggetto come dato e il soggetto come ricettore dell'essenza oggetto, per Gentile Marx a torto considera il pensiero una forma derivata dell'attività sensitiva. Il filosofo siciliano, fondatore dell'attualismo, teorizza essere l'atto del pensiero a porre l'oggetto, e quindi a crearlo .

Contraddizione fra teoria "anarchica" e "socialista"

Il giurista austriaco Hans Kelsen ha ritenuto di rilevare una contraddizione presente all'interno del pensiero marxista: quest'ultimo infatti, essendo imperniato sull'antitesi tra libertà e Stato, da un lato presentava se stesso come una dottrina anarchica, capace di emancipare l'umanità da ogni genere di costrizione; dall'altro però esso aveva come obiettivo primario anche la socializzazione dei mezzi di produzione, al fine di arginare l'anarchia del liberismo capitalista, e ricorrendo pertanto ad un'organizzazione rigidamente pianificata, centralizzata, e "cosciente". Kelsen vede in questo punto decisivo una fatale confusione che intorbida il sistema marx-engeliano: si tratta della contraddizione tra la "teoria economica" e la "teoria politica", la quale rende comprensibile il fatto che «gli uni considerino il marxismo un socialismo di Stato, gli altri un anarchismo», e che «tutta la letteratura marxista, su questo problema decisivo, dimostri un'oscurità e un'ambiguità che colpiscono».

Secondo Kelsen, cioè, pianificazione dell'economia e soppressione dello Stato sono concetti antitetici. Ad esempio, sulla base di quanto emerge dal Manifesto, nell'ottica della rivoluzione comunista il proletariato adopererebbe il suo dominio politico per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato. Ma proprio nel momento in cui lo Stato, assumendo sotto il suo controllo tutta l'economia, estende all'infinito i suoi poteri, esso secondo Marx deve cessare d'esistere perché allora dello Stato non ci sarà più bisogno. Il conflitto tra la dimensione politica e quella economica per Kelsen non potrebbe essere più evidente; come anche il carattere di utopia e irrealizzabilità della teoria comunista, dovuto al fatto che Marx non abbia dato disposizioni su come la società comunista dovesse essere organizzata una volta portata a termine la rivoluzione, ritenendo egli che, cessando a quel punto la divisione in classi, sarebbe cessata anche ogni forma di conflitto tra la politica e l'economia, non essendoci più uno Stato che dovesse regolare la vita degli individui, pur vigendo al contempo un sistema di rigida pianificazione economica.

Fu per via di un tale paradosso, a cui Marx si illudeva di aver trovato risoluzione, che nel momento effettivo della rivoluzione bolscevica Lenin si vide costretto ad applicare la teoria marxiana nell'unico modo possibile, cioè ripristinando la supremazia della politica sull'economia, al fine di accentrare tutta la produzione in un unico potere, con la conseguenza di una totale distruzione delle libertà civili.

Riguardo poi la teoria politica marxiana della democrazia diretta esercitata da tutti i produttori, Kelsen – basandosi sull'esperienza della società sovietica – sostiene che la complessità delle funzioni e l'estensione dei compiti riservati a un'amministrazione pubblica rendono utopistico l'esercizio della democrazia diretta in una società moderna. Qualora poi essa fosse instaurata nei luoghi stessi della produzione, come avvenne nei primi anni della Rivoluzione russa con la creazione dei Soviet, essa porterebbe all'ipertrofia del parlamentarismo e a un grave intralcio della stessa attività produttiva, sino alla creazione di una estesa burocrazia che finirebbe per assumere per sé il potere politico, esercitandolo in modo autoritario.

Popper e la falsificabilità delle teorie scientifiche

Per l'epistemologo Karl Popper (1902 - 1994), autore nel 1934 della Logica della scoperta scientifica, le teorie scientifiche, che non siano riproducibili in laboratorio, devono contenere in sé la possibilità di renderle falsificabili: il criterio dello stato scientifico di una teoria è la sua falsificabilità, confutabilità o controllabilità. Così, la teoria della relatività di Albert Einstein - elaborata dal 1905 al 1915 - faceva predizioni che, se non confermate, avrebbero dimostrato l'erroneità della teoria; ma nell'eclisse avvenuta nel 1919 si poté misurare la curvatura della luce di una stella per effetto della gravitazione del Sole, curvatura prevista da Einstein; se l'osservazione avesse dato risultati diversi – o persino se una qualsiasi futura osservazione darà risultati diversi – la teoria di Einstein si sarebbe dimostrata falsa.

Nella sua Miseria dello storicismo, del 1944, Popper sostiene che il marxismo, non tanto quello di Marx, il cui pensiero era influenzato dalla dialettica hegeliana e dallo scientismo del positivismo imperante, quanto quello dei suoi epigoni, non abbia validità scientifica perché ipotizza, per induzione derivante dall'osservazione storica del tramonto delle società succedutesi nel tempo - le società tribali, schiavistiche e feudali - che anche il capitalismo subirà la stessa sorte ma la verifica di quest'accadimento, che viene rimandato a un tempo indefinito, non è verificabile e controllabile.

Senza trascurare che ogni teoria scientifica contiene anche elementi confutabili, in realtà Marx conduceva soprattutto un'analisi socio-politica del «modo capitalistico di produzione» dei suoi tempi che gli rivelava come quel sistema economico fosse destinato a tramontare.

Critiche della Chiesa cattolica

La Chiesa cattolica ha condannato le teorie socialiste – insieme con quelle liberali e illuministiche – con il Sillabo di papa Pio IX e con l'enciclica Rerum Novarum di papa Leone XIII che, pur accettando implicitamente alcuni tratti dell'analisi economica marxista quali l'attenzione alla questione operaia, ha elaborato una dottrina sociale in radicale contrapposizione col socialismo marxista. La dottrina marxista ha tuttavia influenzato alcuni settori del cattolicesimo sudamericano..

Nel XXI secolo papa Benedetto XVI, nell'enciclica Spe Salvi ha dichiarato: «Marx non ha solo mancato di ideare gli ordinamenti necessari per il nuovo mondo – di questi, infatti, non doveva più esserci bisogno. Che egli di ciò non dica nulla, è logica conseguenza della sua impostazione. Il suo errore sta più in profondità. Egli ha dimenticato che l'uomo rimane sempre uomo. Ha dimenticato l'uomo e ha dimenticato la sua libertà. Ha dimenticato che la libertà rimane sempre libertà, anche per il male. Credeva che, una volta messa a posto l'economia, tutto sarebbe stato a posto. Il suo vero errore è il materialismo: l'uomo, infatti, non è solo il prodotto di condizioni economiche e non è possibile risanarlo solamente dall'esterno creando condizioni economiche favorevoli», aggiungendo che «Marx ha indicato con esattezza come realizzare il rovesciamento. Ma non ci ha detto come le cose avrebbero dovuto procedere dopo».

Critiche di questa natura erano già state formulate al tempo della pubblicazione del Capitale: nella prefazione alla seconda edizione del saggio infatti, il 24 gennaio 1873, Marx citava ironicamente la Revue Positiviste di Parigi che lo rimproverava di «essermi limitato a una scomposizione puramente critica del dato, invece di prescrivere ricette (comtiane?) per la trattoria dell'avvenire».

Teoria marxiana del valore

Karl Marx eredita, rielaborandola, la teoria del valore dei classici, secondo cui la fonte ultima del valore è il lavoro, e nello stesso tempo opera una rottura nei loro confronti.

Quello che mutua è l’idea, già rintracciabile in Adam Smith e fatta propria da David Ricardo, che il lavoro sia la fonte della ricchezza e che il valore sia determinato dalla quantità di lavoro contenuto nelle merci (lavoro incorporato).

Marx tuttavia si distacca dai classici perché rifiuta una rappresentazione del modo di produzione capitalistico come qualcosa di a-storico, naturale ed eterno, sostenendo invece l'idea secondo cui la società capitalistica non è che una tappa dello sviluppo storico dell’umanità. Respinge inoltre la definizione del capitale come insieme dei mezzi di produzione, ma lo considera come un qualcosa di storicamente determinato, avente un carattere sociale specifico e non dato in natura una volta per tutte.

Il capitalismo è dunque per Marx un modo di produzione transitorio, caratterizzato dalla separazione dei mezzi di produzione dai lavoratori e dalla massima diffusione della produzione mercantile.

In tale ottica il valore non è più una proprietà "naturale", ma risulta connesso alle determinazioni specifiche, storiche di tale modo di produzione.

La merce

Nella sua opera matura, Il Capitale (1867), Marx inizia così la sua analisi:

"La ricchezza delle società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico, si presenta come una immane raccolta di merci e la singola merce si presenta come sua forma elementare."

La merce appare con una duplice caratteristica:

da un lato ha la proprietà di essere utile, di soddisfare bisogni umani, ed è quindi valore d’uso;

dall’altro è depositaria materiale di valore di scambio, ha cioè la proprietà di poter essere scambiata, in determinate proporzioni, con altre merci, ed in particolare con la merce considerata equivalente generale di tutti gli scambi e involucro del valore: il denaro.

Per Marx, l'analisi della merce come valore d’uso ne fa apprezzare quelle qualità che si realizzano nel consumo, le sue caratteristiche strutturali, estetiche, fisico-chimiche, la sua attitudine a soddisfare i bisogni umani prescindendo dal sacrificio necessario all’uomo per appropriarsene. Diversamente, l'analisi della merce come depositaria del valore di scambio porta a prescindere dalle suddette qualità, poiché ciò che interessa sono i rapporti quantitativi che si instaurano tra questa e le altre merci, e tra questa ed il denaro.

Una merce si può scambiare con tutte le altre, ed è equivalente a ciascuna di esse, purché prese in determinate quantità reciprocamente congrue. I rapporti di scambio della stessa merce con ciascuna delle altre ci suggeriscono che il valore di scambio è in generale il modo di espressione, la forma fenomenica, di un contenuto da esso distinguibile. Parliamo di valore di scambio quando mettiamo in relazione tra di loro più merci, mentre ogni merce possiede una caratteristica immanente che si manifesta esteriormente nel valore d'uso. La caratteristica, comune a tutte le merci, è quella di essere prodotto del lavoro.

Lavoro concreto e lavoro astratto

Secondo Marx anche il lavoro possiede il duplice carattere della merce. Può essere infatti visto come:

lavoro concreto, qualitativamente definito, volto a produrre questo o quel valore d’uso; oppure come

lavoro astratto, pura estrinsecazione di lavoro umano, che prescinde dagli aspetti qualitativi e dalle determinazioni specifiche riferite all’utilità dei singoli lavori e la cui quantità determina il valore creato.

Ma essendo il valore un rapporto sociale che si estrinseca nel mercato, ove tutti agiscono su un piano di parità, la quantità di lavoro astratto per produrre una merce è data dal tempo di lavoro socialmente necessario, secondo l’intensità e la produttività prevalente in quel ramo produttivo, per produrre le merci. Il mercato "valida" questa quantità, nel senso che, se un'impresa produce una merce impiegando più tempo di quello socialmente necessario, realizzerà sul mercato solo il valore corrispondente al tempo socialmente necessario, e non quello corrispondente al lavoro effettivamente prestato nelle condizioni di minore produttività. E viceversa nel caso di produttività individuale superiore a quella media.

La "misura immanente", interna, del valore è dunque quella che risulta dal tempo di lavoro socialmente necessario, cioè di lavoro che è necessario per produrre quella merce nelle condizioni tecniche storicamente prevalenti e col grado sociale medio di abilità e intensità. La "misura fenomenica", esterna, del valore è invece quella derivante dal denaro, quale rappresentante generale della ricchezza e del lavoro astratto.

Per Marx il valore non può che esprimersi in modo fenomenico, tramite i rapporti di scambio mercantili e tramite il denaro, e dunque il valore di scambio, manifestatosi all’inizio dell’analisi della merce, appare più chiaramente come forma fenomenica del valore.

Egli ritiene che l'astrazione del lavoro discenda da una caratteristica peculiare del modo di produzione capitalistico, quella per cui i soggetti non agiscono in base a piani e a obiettivi prestabiliti o a esigenze sociali immediate, ma come atomi separati ed indifferenti tra di loro, i cui prodotti raggiungono un riconoscimento sociale solo attraverso lo scambio, e solo nei limiti in cui sussistano le condizioni affinché tale scambio avvenga. La socialità del lavoro, che nel sistema capitalistico esiste nella produzione solo in forma latente, si manifesta nel mercato, luogo in cui le merci possono scambiarsi proprio in quanto oggettivazione di lavoro astratto. Quando il processo di produzione non è ancora terminato e il lavoro è in corso di erogazione, anche il valore è in corso di creazione, è valore "potenziale", come potenziale è la merce. Al termine del processo produttivo, il lavoro speso per la produzione della merce diventa il valore in essa contenuto, suo valore individuale e sociale in potenza. Solo con la vendita poi – quello che Marx definisce il vero e proprio "salto mortale della merce" - il lavoro contenuto diventa la sostanza del valore sociale realizzato e avviene la "validazione della socialità del lavoro".

Marx nota inoltre come il lavoro alienato dai lavoratori possa essere reso sociale solo annullandone le particolarità concrete ed utili e riducendolo a lavoro generico, qualitativamente identico, i cui prodotti sono proprio per questo equivalenti e quantitativamente comparabili. Nella società capitalista, in cui il dominio degli sfruttatori sugli sfruttati non avviene in virtù di arbitrio o prescrizioni legislative, morali o religiose, i rapporti sociali tra gli individui assumono così l’apparenza di rapporti tra cose poiché mediati dai rapporti di scambio, cioè da un meccanismo impersonale dominato dai prodotti del lavoro. Tali prodotti, vere e proprie "cristallizzazioni" di lavoro astratto, realizzano il proprio prezzo scambiandosi contro denaro.

Per Marx già dall’analisi della merce è possibile riscontrare alcune caratteristiche universali ed altre proprie del modo di produzione capitalistico. Così, è universale il valore d’uso dei beni, la loro caratteristica di essere utili; come pure è universale il fatto che il lavoro umano venga impiegato per produrre oggetti utili. Ad esempio anche nella comunità familiare o nell’antica comunità tribale i beni disponibili per il consumo assumono tale caratteristica. Al contrario, il lavoro diviene astratto solo con un tipo di produzione storicamente determinato, con la produzione di merci, e ancor di più con la produzione capitalistica sviluppata, che generalizza la forma di merce del prodotto.

Il feticismo della merce

Marx osserva che la legge del valore si dispiega nel modo di produzione capitalista, in cui il lavoro è lavoro "alienato".

Il salariato per sopravvivere aliena le sue prestazioni lavorative al capitalista, che ne dispone liberamente. Il capitalista dispone nella società di mercato del potere sociale di comandare la forza-lavoro, e con essa della possibilità di appropriarsi dei prodotti del lavoro.

Il denaro è per Marx la forma alienata e nel contempo appropriata del valore, lo rappresenta come "equivalente generale e astratto", contrapposto ai diversi valori d’uso. Denaro e capitale, in quanto espressione rispettivamente del valore astratto e dell’accumulazione di valore fine a sé stesso, sono "cristallizzazioni di lavoro sociale", "coagulo di potere sociale per alcuni e di perdita di sé per altri".

Marx nota come la produzione sviluppata di merci presenti anche un altro aspetto. Infatti, nel modo di produzione schiavistico o feudale i rapporti sociali che si instauravano tra i soggetti erano trasparenti e apparivano immediatamente come rapporti personali. Così, ad esempio, la corvée, al pari del lavoro salariato delle società capitalistiche, si misurava col tempo, ma ogni servo della gleba sapeva bene che egli alienava al servizio del suo padrone una quantità determinata del suo tempo di lavoro. Al contrario, nel modo di produzione capitalistico questi rapporti personali appaiono come travestiti in rapporti fra le cose, assumendo forme fenomeniche che celano sempre più le loro forme essenziali. Ciò in qualche modo nasconde l'intima essenza della relazione, e questo perché gli agenti sociali hanno conoscenza immediata solo delle apparenze (ad esempio il prezzo delle merci o il salario quale non meglio identificato equivalente delle prestazioni lavorative), e non riescono a percepire la realtà che si cela dietro le apparenze. Il prodotto della mano dell’uomo, la merce, assume in apparenza un’esistenza indipendente che cela i rapporti sociali esistenti tra gli uomini; si comporta cioè come i "feticci ideologici" cui si attribuisce una vita indipendente. Così, le merci, da pure e semplici cose, prodotto del lavoro umano, assurgono al ruolo di rapporto sociale, e, nello stesso modo, anche i rapporti sociali fra gli uomini assumono l’aspetto, nello scambio, di rapporti tra cose.

Dalla merce al denaro

Per Marx la "forma cellulare" della società contemporanea, la merce, contiene già in potenza alcune contraddizioni che si possono sviluppare e trasferire ad un livello più generale. Per il produttore o per chi la possiede temporaneamente per venderla essa non ha valore d’uso immediato, "altrimenti non la porterebbe al mercato", e la sua utilità consiste solo nell’essere mezzo di scambio, nel poter essere realizzata attraverso lo scambio con un equivalente. Tuttavia la merce, per potersi realizzare come valore, deve essere desiderata da altri, "dar prova di sé come valore d’uso"; e solo lo scambio può sancire l'esistenza di tale condizione. Questa opposizione latente all’interno della natura stessa della merce, tra valore d’uso e valore di scambio, si dispiega con l’estensione dello scambio e soprattutto con la produzione capitalistica, il cui fine ultimo non è il valore d’uso, ma l’appropriazione e l’accumulazione di ricchezza astratta in forma monetaria.

Il lavoro astratto deve così oggettivarsi in un altro "feticcio", in una merce indifferente alle proprietà naturali e avente la qualità sociale di essere scambiabile con qualsiasi altra, purché rappresenti il medesimo tempo di lavoro socialmente necessario. Le singole merci sono però immediatamente oggettivazione di lavoro individuale, determinato qualitativamente e concreto. La contraddizione tra lavoro astratto e lavoro concreto, la contraddizione tra il carattere generale della merce come valore e il suo carattere particolare come valore d’uso, si risolve dunque attraverso l’esistenza di una "incarnazione" del valore distinguibile dalla corporeità della merce, la quale, nello scambio, deve assumere "una forma di esistenza sociale in denaro, scissa dalla sua forma di esistenza naturale".

Nello scambio le merci sono socialmente commensurabili e si presentano come quantità diverse, desumibili dal loro prezzo, di una stessa merce speciale: il denaro. Quest’ultimo è la "forma fenomenica necessaria" della "misura immanente" del valore delle merci, del tempo di lavoro, e si contrappone alle altre merci, ai valori d’uso, come unica esistenza adeguata del valore di scambio. Lo sdoppiamento interno tra valore di scambio e valore d’uso di una merce si sviluppa quindi, per Marx, nello sdoppiamento esterno tra merce e denaro, in cui l’una conta sempre come valore d’uso, l’altro come valore di scambio.

La metamorfosi della merce

Marx osserva come la circolazione delle merci non sia altro che una infinita serie di cambiamenti di mano fra merce e denaro. Il potenziale venditore, per il quale la merce è immediatamente solo depositaria di valore, e non valore d’uso, la dovrà scambiare contro denaro, sola forma di equivalente socialmente valida. Dopo di che potrà appropriarsi di un’altra merce che sia finalmente per lui oggetto d’uso.

Il processo di scambio può essere quindi visto come composto di due mutamenti di forma:

1. la trasformazione della merce in denaro (Merce - Denaro o M - D),

2. la trasformazione del denaro in merce (Denaro - Merce o D - M).

Ognuno di questi due momenti vede al polo opposto un altro soggetto. La prima trasformazione (M - D), la vendita, quella che Marx chiama il "salto mortale della merce", può giungere a buon fine solo se il possessore della merce incontra un compratore interessato al suo valore d’uso, dunque solo se la merce è utile, se cioè il lavoro in essa speso si dimostra a posteriori speso in forma socialmente utile.

Marx osserva come all'M - D del possessore di merce debba corrispondere un D - M per l’acquirente che gli si contrappone. Allo stesso modo la conclusione della metamorfosi, il secondo momento dello scambio, l'acquisto (D - M), deve necessariamente coincidere con l’inizio di un altro scambio per un altro soggetto, cioè con la vendita.

Il processo di scambio nel suo insieme differisce dallo scambio immediato dei prodotti: il baratto. Nel ciclo M - D - M la mediazione del denaro spezza infatti i limiti dello scambio immediato: non è più necessario l’incontro di due soggetti tali che, reciprocamente e contemporaneamente, la merce dell’uno sia valore d’uso per l’altro. Però tale processo spezza anche l’unità del baratto: lo scambio viene spezzato in due momenti distinti (M - D e D - M) con conseguenze importanti. Infatti, le relazioni sociali che si instaurano tra gli individui divengono incontrollabili dagli stessi. L’inizio (M - D) è anche la fine (D - M) di un ciclo analogo che si contrappone al nostro. La conclusione (D - M) è anche l’inizio di un altro ciclo (M - D). Per chi ha compiuto l’intero ciclo (M - D - M) la cosa finisce qui, perché lo scopo della sua transizione, impossessarsi di un diverso valore d’uso, è raggiunto, ma, a partire dal suo secondo movimento (D - M), altri innescano un nuovo ciclo. La "metamorfosi" complessiva di una singola merce costituisce l’anello di una catena di metamorfosi, tutte in connessione tra di loro, al di fuori del controllo dei soggetti in relazione. Per Marx ciò diventa fondamentale perché, nella separazione del ciclo in due fasi, sta anche la possibilità della sua interruzione. Tale possibilità costituisce anche la possibilità dell'esistenza di quelle che egli chiama crisi di realizzo.

È da notare per inciso che Marx, partendo da questa forma astratta della metamorfosi della merce, formula una critica rigorosa alla legge degli sbocchi (o legge di Say), secondo la quale non può esserci crisi generalizzata di realizzo perché ognuno vende per acquistare, si procura cioè con la vendita il denaro che gli è utile per futuri acquisti, e quindi ogni offerta dà luogo ad una domanda di pari importo. Marx osserva invece che lo spezzarsi in due fasi della metamorfosi, il fatto che il venditore può differire il suo successivo acquisto, o tesaurizzare il denaro, determina la possibilità della crisi, in ciò anticipando un'importante intuizione di John Maynard Keynes.

La metamorfosi del capitale

Ma per Marx anche la "metamorfosi della merce" deve necessariamente svilupparsi in altro: nella "metamorfosi del capitale".

Il valore, rappresentato dal denaro, ha funzionato fin qui solo come medium di uno scambio tra valori d’uso, ma il valore autonomizzato nel denaro non può limitarsi a questo ruolo. La sua accumulazione è infatti per l'autore il fine ultimo del modo di produzione capitalista.

Il ciclo M - D - M non riesce a spiegare il fondamento di tutta una serie di fenomeni tipici di un modo di produzione che ha compiuto, attraverso il capitale, il balzo verso la generalizzazione della produzione di merci. Il primo e l’ultimo termine del ciclo sono due merci di valore equivalente; il movente dello scambio non può che essere l’appropriazione di un valore d’uso che renda possibile la soddisfazione di determinati bisogni attraverso l’alienazione di una merce che per noi non costituisce valore d’uso ma è solo depositaria di ricchezza astratta. Anche nella produzione capitalistica questo è un aspetto inevitabile del processo di scambio. Ad esempio ecco cosa si potrebbe affermare a proposito dello scambio tra capitale e forza-lavoro:

il capitalista cerca di realizzare, con la vendita, il valore dei suoi prodotti e trasformarli in denaro (M - D); attraverso il denaro può ora appropriarsi di merci aventi una forma materiale a lui utile al fine di iniziare un nuovo ciclo produttivo (forza-lavoro e mezzi di produzione);

il lavoratore trasforma ciò di cui dispone, la propria capacità lavorativa, in denaro (L - D) attraverso il quale può accedere ai mezzi di sussistenza (D - M).

Le cose si presentano realmente in questi termini, ma l’analisi dei fenomeni da questa angolatura non riesce a svelare i rapporti cruciali. Non ci spiega sufficientemente, per esempio, qual è il movente che induce a ripetere questo ciclo in forma capitalistica e su scala allargata.

Se modifichiamo invece il punto di partenza del processo di scambio, partendo dal denaro (D - M), le cose si chiariscono. Non si tratta di un puro espediente analitico: porre il denaro all’inizio e alla fine del processo quale forma generale della ricchezza, corrisponde alla percezione corretta della produzione capitalistica, la quale è produzione di ricchezza astratta fine a sé stessa. Così, per Marx, se facciamo astrazione dal contenuto materiale della circolazione delle merci, dallo scambio dei valori d’uso, e consideriamo soltanto le forme economiche generate da questo processo, troviamo che il suo ultimo prodotto è il denaro. Quest’ultimo prodotto della circolazione delle merci è la prima forma fenomenica del capitale. Se il ciclo diviene D - M - D (con il denaro, punto di partenza e di arrivo) il processo di scambio ha senso solo se l’ultimo termine è superiore quantitativamente al primo, in quanto qualitativamente si tratta della stessa merce. Il ciclo M - D - M si capovolge nel ciclo D - M - D’ (ove D’ è maggiore di D) e il denaro immesso nel ciclo diviene valore che si conserva e si accresce, diviene cioè capitale.

Tuttavia anche la quantità accresciuta di denaro che esce dal ciclo è limitata, come lo era quella anticipata. Se venisse spesa cesserebbe definitivamente di essere capitale; se venisse tesaurizzata non avrebbe la possibilità di accrescersi nuovamente. Essa deve essere messa di nuovo in circolazione. Il "capitale valorizzato", la fine di ogni ciclo, diviene così per Marx l’inizio di un nuovo ciclo. Ecco perché solo con la produzione capitalistica si generalizza la produzione e la circolazione delle merci.

Il possessore di denaro diventa capitalista, in quanto veicolo consapevole di tale movimento. La sua persona è il punto di partenza e di ritorno del denaro. Il contenuto oggettivo di quella circolazione – la valorizzazione del valore – è il suo fine soggettivo. Egli funziona come capitalista, ossia come capitale personificato, dotato di volontà e di consapevolezza, solamente in quanto l’unico motivo propulsore delle sue operazioni è una crescente appropriazione della ricchezza astratta. Quindi né il valore d’uso né il singolo guadagno vanno considerati il fine del capitalista. Suo fine è soltanto il "moto incessante del guadagnare".

La valorizzazione nell’ambito della circolazione attraverso lo scambio di equivalenti, come vuole la regola del mercato, sembra però impossibile: infatti il possessore di denaro deve comperare e vendere le merci al loro valore, eppure alla fine del processo trarne più valore di quanto ve ne abbia immesso. Secondo Marx il "miracolo" può verificarsi solo se il denaro viene scambiato con una merce, la forza-lavoro, il cui consumo come valore d’uso avviene in maniera produttiva, non rivolto al godimento immediato, ma alla conservazione e all’accrescimento del suo valore.

La circolazione semplice generalizzata è un presupposto del capitale, ma la caratteristica specifica della produzione capitalistica sta però nell’esistenza sul mercato di soggetti che, avendo perso ogni possibilità di comando sui mezzi di produzione e di sussistenza, sono costretti a "mettere in vendita, come merce, la loro stessa forza-lavoro", in quanto impossibilitati a vendere i prodotti autonomi del loro lavoro. Quindi il capitale deve scaturire dalla circolazione, dallo scambio con la forza lavoro, il cui risultato è la trasformazione del lavoro in capitale, in quanto dà al capitale il diritto di proprietà sul prodotto. Ma solo andando oltre l’esame di questa sfera della circolazione, dello scambio di valori equivalenti, si può comprendere, per Marx, la vera natura dello sfruttamento. Occorre esaminare l’uso della forza-lavoro, e non solo il suo scambio.

Il generalizzarsi dello scambio, attraverso l’introduzione del capitale, il farsi merce della forza-lavoro, lo scambio tra capitale e lavoro, determina il diritto dei capitalisti di appropriarsi del lavoro altrui, rovesciando il presupposto della circolazione semplice, in cui ognuno è proprietario del prodotto del proprio lavoro.

Processo lavorativo e processo di valorizzazione

Il capitalista consuma la forza lavoro acquistata secondo il suo valore d’uso, cioè facendola lavorare. Visto che il lavoro deve rappresentarsi in merci, questo deve essere speso in forma utile, per la produzione di valori d’uso. Infatti "nessuna cosa può essere valore senza essere oggetto d'uso. Se è inutile, anche il lavoro contenuto in essa è inutile, non conta come lavoro e non costituisce quindi valore" (Capitale I pag. 73).

Se consideriamo il processo lavorativo rivolto alla produzione di valori d’uso come un mezzo per regolare il ricambio organico dell’uomo con la natura, come un’attività di appropriazione ed utilizzazione delle forze della natura conforme ad uno scopo precedentemente programmato, ci poniamo per Marx dal punto di vista delle determinazioni naturali di tale processo, comuni nella forma a tutte le società. I valori d’uso prodotti possono essere destinati al consumo o impiegati come mezzi di produzione in nuovi processi lavorativi. In quest’ultimo caso diventano fattori oggettivi del "lavoro vivente", condizioni di esistenza del processo lavorativo. Contemporaneamente questo processo costituisce l’unico mezzo per conservare come valori d’uso questi prodotti del lavoro, che non avrebbero nessuna utilità al di fuori di esso.

Le determinazioni storiche, all’interno del modo di produzione capitalistico, di questo processo, visto come processo di consumo della forza lavoro da parte del capitale, sono invece che:

1. il lavoratore è sottoposto al controllo del capitalista;

2. il prodotto è di proprietà del capitalista;

3. non è il lavoratore che utilizza i fattori oggettivi della produzione, ma il lavoro morto, "cristallizzato" nel capitale, che utilizza e "succhia il lavoro vivo";

4. dal processo produttivo scaturisce un plusvalore.

Tale processo coincide col "processo di valorizzazione del capitale".

Il plusvalore

Quest’ultimo risultato è per Marx possibile perché il lavoro necessario alla reintegrazione del valore della forza-lavoro assorbe solo una frazione dell’intera giornata lavorativa. Così, ad esempio, mentre la giornata lavorativa è di otto ore, nell’equivalente pagato per l’uso giornaliero della forza lavoro, nel salario, sono oggettivate solo cinque ore. Il lavoro svolto nelle rimanenti tre ore (pluslavoro) determina il plusvalore di cui si appropria il capitale e rappresenta l’entità della sua valorizzazione.

In termini formali, se L è la quantità di lavoro impiegata per una determinata produzione e V il lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro, il plusvalore Pv sarà dato dalla differenza:

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Il plusvalore è per Marx l'unica fonte del profitto, la cui realizzazione ed accumulazione costituiscono il fine essenziale del capitale.

Pertanto ogni capitalista pratica metodi per accrescere il plusvalore. Tali metodi sono classificati da Marx nel modo seguente:

1. Plusvalore assoluto. Si tratta di tutti i metodi che cercano di espandere, a parità di altre condizioni, il lavoro assoggettato al capitale. Tra questi il più classico è il prolungamento della giornata lavorativa, che consente di ampliare le ore di pluslavoro quando siano date e costanti le ore di lavoro necessarie alla riproduzione della forza-lavoro (lavoro necessario). Anche l'estensione dei soggetti sottomessi allo sfruttamento (si pensi ad esempio al lavoro minorile) possono rientrare in questa classificazione.

2. Plusvalore relativo. Sono questi i metodi che consentono di ridurre le ore di lavoro necessario o, che è lo stesso, del capitale variabile. Infatti, ponendo costante la durata della giornata lavorativa, al diminuire delle ore di lavoro necessario il pluslavoro aumenta. Poiché il salario non può scendere al di sotto del livello di sussistenza, il modo tipico di ridurre il tempo di lavoro necessario è l'aumento della produttività del lavoro: se occorrono meno ore di lavoro per produrre i beni di consumo dei lavoratori, si riduce il lavoro necessario anche senza diminuire i consumi dei lavoratori, cioè i salari reali.

Capitale costante e capitale variabile

Per Marx l’altra condizione per la valorizzazione del capitale è che il valore dei mezzi di produzione si trasferisca completamente nel prodotto, che il lavoro speso nel processo abbia la duplice proprietà di creare nuovo valore e di trasferire nel valore del prodotto – parallelamente alla creazione di nuovo valore, senza nessun lavoro supplementare – il "lavoro morto" contenuto nei mezzi di produzione. Questo duplice effetto scaturisce dalla duplice proprietà del lavoro di essere lavoro astratto e lavoro utile.

I mezzi di produzione (materie prime, macchine, ecc.), attraverso il lavoro utile, via via che si consumano, si trasformano in un nuovo valore d’uso e trasferiscono il loro valore in quello del nuovo prodotto. Senza l’intervento del lavoro utile il filato ed il telaio non si trasformerebbero in tessuto e perderebbero il loro valore. Ma il valore esiste in un valore d’uso, in una cosa. Se si perde l’utilità di un oggetto si perde anche il suo valore. Tuttavia nel processo produttivo, mentre i mezzi di produzione vedono perso il loro valore d’uso, non viene parallelamente disperso il loro valore, che si trasferisce interamente nel prodotto. Tali mezzi perdono così solo la forma originaria del loro valore d’uso e raggiungono la forma di un altro valore d’uso, quella del prodotto. Per il capitale è del tutto indifferente in quale valore d’uso materializzarsi. In questo modo, grazie al carattere di utilità del lavoro, si verifica il trapasso di valore dal mezzo di produzione al prodotto. Il prodotto acquista cioè solo il valore perso dal mezzo di produzione e i mezzi di produzione cedono il loro valore al prodotto solo in quanto durante il processo lavorativo perdono valore nella forma dei loro vecchi valori d’uso.

Al contrario il lavoro, in quanto lavoro astratto sociale, aggiunge nuovo valore al prodotto. Esso aggiunge una determinata grandezza di valore, non in quanto dotato di un particolare contenuto utile, ma perché svolto in un tempo determinato, nella sua qualità astratta e generale, come dispendio di forza lavoro umana, la quale è fonte di nuovo valore in quanto la sua messa in movimento è oggettivazione di tempo di lavoro in un valore d’uso. La messa in atto della forza-lavoro per l’intera durata della giornata lavorativa consente quindi sia la riproduzione del suo valore, sia la creazione del plusvalore, il quale è l’unica fonte dell’eccedenza del capitale valorizzato su quello impiegato.

Per questi motivi Marx chiama queste due diverse forme di esistenza assunte dal capitale anticipato, una volta abbandonata la forma di denaro, cioè la forza lavoro e i mezzi di produzione, rispettivamente capitale variabile e capitale costante: l’una è creatrice di nuovo valore, mentre gli altri cedono al prodotto, senza alcun incremento, il proprio valore. Con questa formulazione egli respinge così le teorie che spiegano il profitto come remunerazione dei servizi produttivi del capitale.

Discostandosi dalle definizioni precedenti, Marx viene in questo modo a far coincidere il capitale variabile con il monte salari.

Si noti poi che tutto il capitale anticipato è dapprima in forma di denaro, e solo dopo l’acquisto dei mezzi di produzione e l’uso della forza-lavoro esso si materializza in altro. Il valore del capitale costante e del capitale variabile non può che essere quindi dato dal lavoro astratto rappresentato dal denaro che è stato speso per l’acquisizione di tali fattori, che poi è anche il lavoro speso e socialmente validato dal mercato per la produzione dei mezzi di produzione e per la riproduzione della forza lavoro.

Funzione della teoria del valore in Marx

La teoria del valore, nell'analisi di Marx, è pertanto uno strumento per indagare i rapporti sociali e le caratteristiche specifiche delle società contemporanee. Essa è inoltre uno strumento per indagarne le "leggi di movimento".

Caratteristica del modo di produzione capitalistico, in cui predomina l’accumulazione di valore astratto, è che il processo lavorativo con cui si producono oggetti utili, non è altro che il mezzo per tale accumulazione, il fine essendo il processo di valorizzazione del capitale. La produzione diviene così fine a sé stessa ed il lavoro interessa solo in quanto produttore di plusvalore, sorgente unica della valorizzazione del capitale, e non in quanto produttore di singoli beni utili, di valori d'uso. L'"autovalorizzazione" del capitale è possibile perché è caratteristica della forza-lavoro poter fornire un'eccedenza di lavoro rispetto a quello necessario per la riproduzione della classe lavoratrice. Questa eccedenza, definita in termini di lavoro astratto, è un elemento strategico, e ogni intoppo al processo di valorizzazione può costituire un elemento di crisi.

Marx individua così le possibili cause delle crisi capitalistiche:

le crisi di realizzo, e

la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto.

Da un lato le crisi di realizzo in cui:

1. la scissione tra il carattere sociale, utile, e quello astratto del lavoro;

2. il carattere anarchico, non governato da un piano, della produzione;

3. una distribuzione ineguale, che limita il mercato dei beni di consumo della classe lavoratrice,

determinano ricorrentemente la mancata conferma nel mercato della socialità del lavoro, e quindi la mancata realizzazione di tutto il valore oggettivato nella produzione cioè di tutta la ricchezza prodotta (altra anticipazione di Keynes).

Dall’altro lato, essendo il lavoro l’unica fonte del plusvalore, limitata dal numero di lavoratori impiegati e dalla durata della giornata lavorativa e contrapposta al valore incessantemente crescente già oggettivato nel capitale impiegato, viene a determinarsi un’altra causa di crisi nella tendenza alla diminuzione del saggio del profitto che è il rapporto tra queste due grandezze (il plusvalore e il valore del capitale impiegato). Questa seconda causa viene denominata legge della caduta tendenziale del saggio del profitto.

La determinazione del valore nel Libro I del Capitale

Nel Libro I de Il Capitale, l'unico giunto a pubblicazione vivo l'autore - in cui si tratta l'immediato processo di produzione e valorizzazione astraendo dalla mediazione operata dalla competizione tra capitali - Marx non prende in considerazione l'operare della tendenza all'uguaglianza del saggio di profitto nei diversi settori produttivi, risultato della concorrenza esterna dei capitali alla ricerca della migliore allocazione, e ipotizza di conseguenza che le merci si scambino in proporzione alla quantità di lavoro astratto sociale in esse contenuto, o meglio che i rapporti di scambio effettivi nel mercato oscillino attorno a questo "centro di gravità". Assume in pratica l'uguaglianza tra prezzi di produzione e valori di produzione.

Data la convinzione di Marx circa l'uguaglianza tra i profitti totali realizzati nell'economia e il plusvalore totale, il caso reale, quello in cui i valori di produzione differiscono normalmente dai prezzi di produzione, costituiva solo una complicazione analitica tale da non modificare la sostanza dei rapporti sottostanti, come verrà mostrato nel terzo libro.

Schematizzando dunque quanto fin qui accennato: il valore delle merci è dato dalla somma tra il valore del capitale costante (C), e il lavoro vivo messo in atto durante la produzione attuale (L), il quale si distingue a sua volta in valore del capitale variabile (V), cioè il valore dei salari corrisposti ai lavoratori, e il plusvalore (Pv), cioè la quantità di lavoro prestata dai lavoratori in eccedenza rispetto a quella contenuta nei salari.

In simboli, indicando con W il valore, abbiamo che:

278facdbe4329c1ec83fa5a84c79156a.png

e il valore del capitale anticipato, K, è dato da:

9aa737235ded1ca943a5e1180c7a280e.png

Il rapporto tra il valore del capitale costante e quello del capitale variabile, d90982e9b9a3344dadb6e6aa5911af24.png, è denominato composizione organica del capitale ed è in qualche modo connesso allo sviluppo delle forze produttive, in quanto indica che uno stesso numero di lavoratori mette in movimento un valore accresciuto di materie prime, macchinari, ecc.

Essendo il plusvalore l’unica fonte del profitto, e prescindendo da altri prelievi di plusvalore, quali rendite, tasse e oneri finanziari e della distribuzione, il saggio di profitto, r, è dato dal rapporto tra il plusvalore e il capitale complessivo impiegato, in simboli:

9a107fd91a2ad5a81d1ea6a0626e8d95.png (1)

o anche:

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Se dividiamo per V numeratore e denominatore del membro a destra dell'equazione (1) otteniamo

44514f678515f85524540216b591536a.png

Quest’ultima relazione ci dice che a parità di saggio di sfruttamento della forza lavoro (021e371e5edbbee04fd5cfefef67e741.png) il saggio del profitto è una funzione decrescente della composizione organica del capitale (d90982e9b9a3344dadb6e6aa5911af24.png). Infatti, quando aumenta questa seconda espressione, si accresce il denominatore dell'ultima equazione.

Il problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione

Nel Libro III del Capitale, pubblicato postumo da Friedrich Engels, Karl Marx, abbandonando il livello di astrazione del libro I, introduce i molteplici capitali, e i loro movimenti tra i settori, che determinano la tendenza alla formazione di un saggio medio del profitto. A questo nuovo livello assumono importanza le diverse composizioni settoriali del capitale, mentre i risultati del libro primo sarebbero riproducibili solo ipotizzando l'uniformità della composizione organica del capitale tra settori. Tale uniformità, infatti, è condizione sufficiente a garantire l'uguaglianza tra i valori, che risultano dalle quantità di lavoro incorporato, e i prezzi di produzione, cioè i prezzi di vendita delle merci così come sperimentati nelle economie capitalistiche, risultato della tendenza all'uniformità dei saggi di profitto settoriali.

Nonostante il venir meno nel caso più generale della coincidenza tra valori e prezzi, Marx ritiene che questa sia solo una complicazione analitica non tale da inficiare il nucleo fondamentale della sua teoria, rimanendo per lui vero che l'unica fonte del profitto dei capitalisti è il plusvalore: la competizione non può alterare la legge del valore nel suo complesso, perché è convinzione di Marx che il valore non può essere creato nell'ambito della circolazione e che la competizione non può alterare il complessivo valore creato nell'ambito della produzione, ma tutt'al più redistribuirlo.

Il problema diventa dunque solo quello di individuare le leggi di trasformazione che permettono di passare dai valori ai prezzi di produzione.

Tuttavia, il modo in cui Marx affronta e sembra risolvere il problema è tutt'altro che pacifico. Si discute ancor oggi sull'esattezza della convinzione di Marx circa l'invarianza della legge del valore nel caso generale, sulle contraddizioni del modo in cui Marx imposta il problema nel Libro III e, non ultimo, sull'eventuale discordanza tra il modo in cui Engels ricostruisce il pensiero dell'amico morto e le reali convinzioni di Marx sull'argomento.

Caduta tendenziale del saggio di profitto

La caduta tendenziale del saggio di profitto è una formula dell'analisi economica marxiana.
Con caduta tendenziale del saggio di profitto Karl Marx ne Il Capitale identificò quel fenomeno secondo cui l'aumento progressivo degli investimenti sui macchinari e sulle materie prime trattate [C] a scapito degli investimenti sui salari [V] avrebbe prodotto come risultato tendenziale del processo produttivo un saggio di profitto sempre minore. Il carattere di semplice tendenza viene attribuito alla legge, per via delle cause antagonistiche, che lo contrastano.

Marx giunse a questa conclusione sulla base della teoria del valore: essendo il capitale sotto forma di salari (capitale variabile) ad essere l'unica fonte di plusvalore, l’aumento della composizione organica del capitale riferita agli investimenti sulle macchine e sul continuo aggiornamento tecnologico (capitale costante) avrebbe dato come risultato del processo produttivo dei profitti progressivamente decrescenti in proporzione agli investimenti complessivi.

In particolare il saggio del plusvalore è nella teoria marxiana il rapporto tra plusvalore e capitale variabile, e il saggio di profitto è invece il rapporto tra il plusvalore e l’insieme del capitale investito, ovvero capitale variabile e costante (salari più macchinari, materie prime e ausiliarie). In formule:

Saggio del plusvalore: dbf3685441d356ebd3657e11b619eaaf.png

Saggio di profitto: f366b551d12bcdf282c947287dc72489.png

Dove 2b5d248aee5374fb87af34e02621ac36.png è il plusvalore, fb94060e554a63209887f6303a9254f7.png il capitale costante e e8b7ea8375ca2c4b61a210ebdf48e670.png il capitale variabile.

Secondo questa formulazione infatti nel calcolo del saggio di profitto, con e8b7ea8375ca2c4b61a210ebdf48e670.png e 2b5d248aee5374fb87af34e02621ac36.png costanti, all’aumentare di fb94060e554a63209887f6303a9254f7.png il saggio di profitto 625014f54f9eb4bd6323fe68fb3710dc.png diminuisce. La conclusione teorica suggerisce quindi che, all’aumentare degli investimenti complessivi sulla produzione, se aumenta la sproporzione tra capitale costante e capitale variabile in favore del primo il profitto diminuisce, e questa diminuzione è progressiva all’aumento della forbice tra i due tipi di investimenti.

Su questo principio Marx teorizza il concetto di un rendimento decrescente strutturale della crescita del capitalismo, individuando nella caduta tendenziale del saggio di profitto l’effetto tipico e ultimo del modo di produzione capitalistico. Questa analisi specifica risulta essere una delle posizioni teoriche di Marx più criticate nella storia del pensiero economico. Detrattori di questo concetto furono anche esponenti marxisti, come l’economista Paul Marlor Sweezy.


Economia neoclassica

In economia con la locuzione economia neoclassica ci si riferisce ad un approccio generale alla disciplina economica basato sulla determinazione di prezzi, produzione e reddito attraverso il modello di domanda e offerta.

Descrizione

Gli individui, in questo sistema, massimizzano una funzione di utilità vincolata dal reddito, e le imprese massimizzano i profitti essendo vincolate dalle informazioni e dai fattori della produzione. La teoria economica prevalente, almeno per quel che riguarda la microeconomia, si rifà alle ipotesi neoclassiche. La scuola neoclassica è spesso chiamata scuola marginalista.

Convenzionalmente, la scuola dell'economia neoclassica si data a partire dal 1871-1874, anni di pubblicazione delle prime opere sistematiche di William Stanley Jevons, Carl Menger e Léon Walras. Il marginalismo combatte sia lo sviluppo marxista del pensiero degli economisti classici sia la scuola storica tedesca dell'economia.

Principali economisti neoclassici

Alcuni fra i principali economisti neoclassici sono:

John Bates Clark

Antonio De Viti De Marco

Francis Ysidro Edgeworth

Irving Fisher

William Stanley Jevons, con "La teoria dell'economia politica"

Alfred Marshall

Carl Menger, con i "Principi di economia politica"

Maffeo Pantaleoni

Arthur Cecil Pigou

Vilfredo Pareto

Enrico Barone

Jacob Viner

Léon Walras, con gli "Elementi di economia politica pura"


Marginalismo

In economia il marginalismo è una corrente di pensiero economico sviluppatasi tra il 1870 e 1890. La metodologia marginalista è quella che ancora oggi dopo il Monetarismo esercita maggiore influenza rispetto a quella classica e marxista.

Descrizione

Con il marginalismo si assiste ad un'evoluzione fondamentale, in particolar modo nell'ambito della teoria del valore: in sostanza nell'impostazione classica e marxista, ad esempio, è la quantità di lavoro che definisce il valore di un prodotto; invece in base all'impostazione marginalista il valore del prodotto riflette il grado di soddisfazione soggettiva che i consumatori attribuiscono ai diversi prodotti. La soddisfazione, o "utilità", tenderà a diminuire con il consumo di ogni unità aggiuntiva dello stesso bene; Carl Menger in tale ambito introdurrà un principio di imputazione indiretto che rappresenta un primo passo per la teoria della remunerazione dei fattori produttivi in base alla loro produttività marginale.

La teoria del valore sostenuta dai marginalisti è fondata su fattori esclusivamente soggettivi, basati su calcoli di convenienza dei singoli individui: il valore di un prodotto è definito sulla base "dell'importanza che il consumatore attribuisce al prodotto stesso" e cioè, più il prodotto è desiderato, più è capace di soddisfare un bisogno e più vale.

La metodologia marginalista, a differenza di quella classica che ritiene fondamentale lo studio della crescita economica, incentra la sua analisi sull'equilibrio economico e sulla ricerca di metodologie di allocazione delle risorse in modo efficiente.

Grazie alla maggior professionalizzazione rappresentata dalla scuola marginalista, e grazie all'adozione di strumenti matematici come il calcolo infinitesimale, fu possibile definire in modo accurato e formale il concetto di utilità marginale, concetto cardine della teoria marginalista.

Il consumatore soddisfa i suoi bisogni in modo decrescente. I marginalisti propongono un esempio chiarificatore a questo proposito: per un assetato, il primo bicchiere d'acqua è molto desiderabile e quindi reca un beneficio elevato. Anche il secondo bicchiere recherà soddisfazione. Dal terzo bicchiere in poi, ogni dose successiva recherà sempre minor soddisfazione fino ad arrivare al punto di creare fastidio. Quindi le dosi (unità) di un determinato bene, soddisfano in modo decrescente il consumatore. Questa teoria fa riferimento al concetto di utilità marginale.

In relazione al concetto di utilità marginale bisogna sottolineare come i primi marginalisti interpretassero tale misura in termini cardinali; alla luce di questo, era possibile compiere confronti interpersonali; tuttavia, ben presto l'approccio cardinalista lasciò spazio a quello ordinalista, il passaggio alla seconda impostazione si deve in particolar modo a Vilfredo Pareto, ma già prima di Pareto alcuni economisti marginalisti compresero l'errore della considerazione dell'utilità marginale come misura cardinale, tra costoro Carl Menger, Léon Walras, Alfred Marshall.

La scuola marginalista, inizialmente, fu ostacolata: William Jevons dovette "fronteggiare" la scuola classica, mentre, ad esempio, Menger dovette "fare i conti" con l'impostazione della scuola storica tedesca, la quale criticava radicalmente l'approccio logico-deduttivo, proprio dei marginalisti.

Ben presto ci si rese conto che un approccio eccessivamente relativista non era idoneo a spiegare i fenomeni, basti pensare alla scuola storica tedesca, e il marginalismo fu accettato e si diffuse notevolmente, anche in quanto espressione della professionalizzazione della disciplina economica.

La scuola neoclassica o marginalista si concentra soprattutto nello studio dell'allocazione efficiente delle risorse all'interno di un mercato a concorrenza perfetta e cioè all'interno di un mercato in cui vi è un'ottima diffusione di informazioni (necessarie affinché gli operatori decidano in modo consapevole); i fattori produttivi hanno la caratteristica della mobilità, nel senso che possono essere facilmente spostati; il mercato è caratterizzato dalla presenza di un elevato numero sia di venditori che di compratori in modo tale da evitare situazioni di oligopolio e monopolio. Lo studio appunto, basato sull'adozione di leggi matematiche, si concentra sull'"efficienza", non considerando aspetti di tipo equitativo o etico. Per la scuola marginalista non è importante capire se si arriva ad un punto di equilibrio "equo", ma è importante capire come si arrivi ad un punto di equilibrio efficiente, in un punto dal quale non ci si può spostare per migliorare le proprie condizioni senza che si peggiorino quelle degli altri operatori del mercato.

Ciò che maggiormente caratterizza la scuola di pensiero marginalista è lo studio dell'economia attraverso un metodo di tipo deduttivo-normativo, attraverso un metodo che prescinde dal considerare aspetti di tipo istituzionale, ma esaminando solo il comportamento razionale del soggetto economico. I marginalisti cercano di capire e di dimostrare quanto il comportamento economico di un soggetto sia prevedibile e regolare date alcune condizioni. La validità delle teorie è legata alle condizioni, le quali essendo caratterizzate da una bassa probabilità di realizzazione concreta, rendono la teoria valida a livello astratto e quindi poco applicabile alla realtà. Infatti le teorie sono tanto più vicine alla realtà, cioè sono in grado di spiegare fenomeni concreti, tanto più le condizioni sono verificabili nel concreto.

Utilità marginale

L'utilità marginale di un bene è concetto cardine della teoria neoclassica del valore in economia ed è definibile come l'incremento del livello di utilità (5620a6fd78486680cb140eef5e1e6e2c.png), ovvero della soddisfazione che un individuo trae dal consumo di un bene, ricollegabile ad aumenti marginali nel consumo del bene (3dd377e149a3c3a50389f4a87586e829.png), dato e costante il consumo di tutti gli altri beni.

Definizione

In termini non formali, l'utilità marginale può definirsi come l'utilità apportata dall'ultima unità o dose consumata di un bene.

In modo più formale, data una funzione di utilità c0697f53e47dbd7a5e168d7e792c4315.png, una funzione cioè che lega il consumo di quantità date di beni e servizi al livello di utilità, l'utilità marginale del bene c5e471406baec8dc7fa9856dcd1c9308.png è data dalla derivata parziale della funzione rispetto ad c5e471406baec8dc7fa9856dcd1c9308.png; in simboli:

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La legge del utilità marginale decrescente afferma che all'aumentare del consumo di un bene, l'utilità marginale di quel bene diminuisce. La condizione di equilibrio afferma che ogni individuo effettua le proprie scelte di consumo in modo che ogni singolo bene fornisca le stesse utilità marginali per euro di spesa. Il principio di utilità marginali uguali per euro di spesa per ciascun bene afferma che la condizione essenziale per ottenere massimo soddisfacimento o utilità è la seguente: di fronte ai prezzi di mercato dei beni un consumatore con reddito dato ottiene il massimo soddisfacimento quando l'utilità marginale dell'ultimo euro speso per un bene è esattamente uguale all'utilità marginale dell' ultimo euro speso per qualsiasi altro bene.

L'ipotesi di utilità marginale decrescente

Al concetto di utilità marginale risulta strettamente collegato l'assunto di utilità marginale decrescente. In pratica si assume che l'utilità marginale di un bene diminuisca al crescere del livello assoluto di consumo del bene. Formalmente questo comporta assumere che:

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Figura 1:Funzione di utilità

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Queste due ipotesi implicano che la funzione di utilità sia monotona crescente e concava rispetto al consumo dei singoli beni.

Solitamente si assume anche che:

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Un esempio

Per comprendere meglio i concetti esposti può pensarsi all'atteggiamento che l'individuo medio potrebbe avere di fronte ad una crostata di fragole.

Il primo pezzo di torta sarebbe molto gradito, apportando un incremento ee9c84942184dac593b04cb0a5b8d9ee.png. L'incremento di utilità che genererebbe un secondo pezzo di crostata, sebbene consistente, sarebbe sicuramente minore del primo (5a51eade4ea0c0644d9f5348e7ca3b5a.png). L'incremento del terzo ancora minore e così via.

Nel caso della crostata di fragole è poi anche verosimile immaginare che vi sarà un punto in cui il nostro consumatore sarà "sazio".

Una volta raggiunto il punto di sazietà eventuali altri incrementi del consumo del bene (il mangiare altri pezzi di torta) probabilmente apporteranno una disutilità, diminuiranno cioè il livello di soddisfazione individuale.

In corrispondenza del punto di sazietà l'utilità marginale è nulla (il consumatore è indifferente se mangiare il pezzo di crostata oppure no) ed il suo livello di utilità è massimo.

Storia della nozione di utilità marginale in economia

La nozione di utilità marginale e l'ipotesi di utilità marginale decrescente erano già note nella prima metà del 1700. Daniel Bernoulli ad esempio le utilizzò nella risoluzione del famoso paradosso di San Pietroburgo.

Queste nozioni vennero anche utilizzate, sebbene in modo non formalizzato, tra gli altri, da Jeremy Bentham (1789-1802) e Nassau William Senior (1790-1864).

Fu tuttavia l'ingegnere francese Jules Dupuit (1804-1866) il primo a collegare in modo chiaro il concetto di utilità marginale e l'ipotesi di utilità marginale decrescente con l'inclinazione negativa della funzione di domanda.

L'impostazione di Dupuit venne poi ulteriormente chiarita e formalizzata da Hermann Heinrich Gossen (1854), che anticipò molta della rivoluzione marginalista, sebbene il suo lavoro sia stato del tutto trascurato all'epoca.

La teoria soggettiva del valore marginalista, centrata sul concetto di utilità marginale, si sviluppò quindi a partire dai contributi indipendenti di William Stanley Jevons, Carl Menger e Léon Walras.


Irving Fisher 

Irving Fisher (Saugerties, 27 febbraio 1867 – New York, 29 aprile 1947) è stato un economista e statistico statunitense.

Contribuì in modo determinante alla teoria dei Numeri indici analizzandone le proprietà teoriche e statistiche. Fu uno dei maggiori economisti monetaristi statunitensi dei primi delNovecento.

Dal 1923 al 1936 il suo Index Number Institute produsse e pubblicò indici dei prezzi di diversi panieri raccolti in tutto il mondo.

In campo finanziario a lui si deve la formalizzazione della equazione per stimare la relazione tra tassi di interesse nominali e reali. L'equazione è usata per calcolare lo "Yield to Maturity" ovvero il rendimento alla scadenza di un titolo, in presenza di inflazione. Tale equazione è conosciuta universalmente come Equazione di Fisher.

Fu inoltre presidente dell'American Economic Association nel 1918 e dell'American Statistical Association nel 1932 nonché fondatore nel 1930 della International Econometric Society. Morì nella città di New York nel 1947.


Equazione di Fisher


Indicando 9c78f015314b56bd15489e6636143395.png come il tasso d'interesse reale, 14e7dba886595d912071fd87ed9a2022.png come il tasso d'interesse nominale e e430ed877f10c39e1fec56a9b00d7f2e.png come il tasso di inflazione attesa, l'Equazione di Fisher risulta essere la seguente:

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Carl Menger

Carl Menger (Nowy Sącz, 28 febbraio 1840 – Vienna, 26 febbraio 1921) è stato un economista austriaco (essendo Nowy Sącz all'epoca facente parte dell'Austria, mentre oggi è in Polonia).

Fu il fondatore della scuola austriaca di economia, nota per aver contribuito allo sviluppo della teoria dell'utilità marginale che confutava la classica teoria del valore-lavoro sviluppata da Adam Smith e David Ricardo.

Biografia

Menger nacque il 28 febbraio 1840 a Nowy Sącz, cittadina della Polonia, al tempo facente parte della Galizia (Impero Austro-Ungarico). Nacque in una famiglia della piccola nobiltà: il padre, Anton era un avvocato, mentre la madre, Caroline, era figlia di una famiglia di mercanti boemi molto benestante. Aveva anche due fratelli, Anton e Max, entrambi diventati famosi avvocati.

Dopo aver frequentato il gymnasium studiò giurisprudenza all'Università di Praga e a quella di Vienna e successivamente ottenne il dottorato in legge all'Università Jagellonica di Cracovia. Negli anni '60 Menger, lasciata la scuola, svolse il lavoro di giornalista e di analista di mercato per il Lemberger Zeitung a Leopoli, Ucraina, e per il Wiener Zeitung di Vienna.

Fu proprio in questi anni che Menger focalizzò le sue attenzioni sulle discrepanze tra le teorie degli economisti classici sulla formazione del prezzo e il reale funzionamento del mercato. Nel 1867 iniziò un approfondito studio dell'economia politica, studio che culminò con la pubblicazione avvenuta nel 1871 de Principles of Economics, ovvero l'opera che ha gettato le basi della scuola austriaca. Fu proprio in questo lavoro che Menger confutò la teoria del valore-lavoro con il marginalismo, di cui egli fu uno dei padri.

Nel 1872 Menger venne assunto alla facoltà di giurisprudenza all'Università di Vienna e, contemporaneamente all'attività in facoltà, insegnò finanza ed economia attraverso un serie di seminari e scritti. Nel 1873 ricevette la cattedra di economia all'università, all'età molto giovane di 33 anni.

Nel 1876 Menger entrò sotto la tutela di Rudolf d'Asburgo, principe d'Austria e figlio di Francesco Giuseppe I d'Asburgo. Per due anni Menger accompagnò il principe in tutti i suoi viaggi, nell'Europa continentale prima e nell'arcipelago britannico poi. Svolse anche un ruolo importante nella stesura del pamphlet del principe, col quale si criticava duramente l'aristocrazia austriaca. La sua collaborazione con Rudolf d'Asburgo terminò nel 1889 con il suicidio di quest'ultimo (vedi Fatti di Mayerling).

Nel 1878 il padre di Rudolf, l'imperatore Francesco Giuseppe I d'Asburgo, nominò Menger segretario della politica economica a Vienna. Gli venne conferito il titolo di Hofrat e nel 1900 entrò nella Herrenhaus austriaca.

In una posizione sicura e di rilievo nel mondo accademico austriaco, Menger iniziò una difesa, nonché una rivalutazione, delle teorie e dei metodi esposti in Principles of Economics del 1871. Da questo lavoro nacque nel 1883 la pubblicazione intitolata Investigations into the Method of the Social Sciences with Special Reference to Economics (titolo originale Untersuchungen über die Methode der Socialwissenschaften und der politischen Oekonomie insbesondere). Questo libro causò un acceso dibattito, durante il quale la scuola storica tedesca cominciò a definire in modo irrisorio il pensiero di Menger e dei suoi studenti "scuola austriaca", enfatizzando il distaccamento definito degli "austriaci" dal pensiero economico tedesco di allora. Nel 1884 Menger rispose a queste critiche con il saggio intitolato The Errors of Historicism in German Economics, saggio che non fece altro che acutizzare i contrasti e i dibattiti tra le due differenti scuole di pensiero economico. In questo periodo Menger cominciò ad attrarre discepoli con idee analoghe, che sarebbero andati avanti ed avrebbero lasciato il segno nel campo economico, tra essi i più notevoli furono Eugen von Böhm-Bawerk e Friedrich von Wieser.

Verso la fine degli anni '80 Menger fu incaricato di guidare una commissione che elaborasse una riforma monetaria per l'impero. Fu proprio in questi anni che Menger elaborò la sua teoria economica, attraverso una serie di scritti e pubblicazioni, tra cui spiccano The Theory of Capital (1888) e On the Origins of Money (1892). Nel 1903, dato il suo pessimismo sull'andazzo della cultura accademica tedesca, decise di rinunciare ad ogni compito, compreso quello alla facoltà, per concentrarsi sui suoi studi.

Si spense il 26 febbraio 1921 all'età di 80 anni.

William Stanley Jevons

William Stanley Jevons (Liverpool, 1 settembre 1835 – Hastings, 13 agosto 1882) è stato un economista e logico britannico. È considerato uno dei fondatori della Economia neoclassica e della rivoluzione marginalista, insieme a Léon Walras e Carl Menger. Alla corrente marginalista appartenevano anche Vilfredo Pareto, Irving Fisher e Francis Ysidro Edgeworth.

Il pensiero

Nell'opera di Jevons si devono sottolineare due punti importanti.

Per Jevons è importante partire dai fatti. La sua reputazione di economista venne dal saggio The Coal Question (La questione del carbone) del 1865, basato su dati numerici. Questo metodo è spiegato nel treatise on Logic and Scientific Method (Trattato sul metodo logico e scientifico) e lo differenzia da Leon Walras che era più ipotetico- deduttivo.

Rispetto ai Classici, che adottavano un approccio sintetico, Jevons è favorevole ad una specializzazione degli economisti nei diversi campi di questa disciplina.


Léon Walras

Marie Esprit Léon Walras (Évreux, 16 dicembre 1834 – Clarens-Montreux, 5 gennaio 1910) è stato un economista francese. Considerato da Joseph Schumpeter come "il più grande di tutti gli economisti". Fu il "padre" della prima formulazione completa della teoria di equilibrio economico generale.

Biografia

Walras si iscrive alla École des mines, ma abbandona presto l'ingegneria per dedicarsi a letteratura e giornalismo. Collabora al "Journal des Économistes" e a "La Presse". Dopo vari tentativi ottiene la cattedra di Professore di Economia Politica all'università di Losanna, in Svizzera, e dovrà ritirarsi per concentrare gli sforzi nell'attività di ricerca. Suo successore nella cattedra di Economia Politica sarà il celebre economista italiano Vilfredo Pareto che darà fama alla "Scuola economica di Losanna" fondata dallo stesso Walras. Nelle sue pubblicazioni Walras distingue tre diversi oggetti di studio: le "leggi dello scambio" (oggetto dell'economia pura, e maggiormente legate alle scienze naturali), la produzione della ricchezza (oggetto dell'economia applicata) e i problemi della distribuzione, che coinvolgono anche aspetti etici (oggetto dell'economia sociale).

Walras è stato uno dei tre capostipiti del marginalismo, in contrapposizione alla scuola classica dei primi economisti, anche se il suo scritto più importante: Éléments d’économie politique pure, ou théorie de la richesse sociale, (1874), fu pubblicato tre anni dopo la dissertazione delle idee marginaliste di William Stanley Jevons e Carl Menger.

Pensiero

Walras edifica una teoria del valore secondo la quale il principio per la determinazione dei valori di scambio (prezzi) è fondato sul concetto di utilità marginale (“rareté”), che Walras esprime in termini di unità fisica di uno di essi (“numéraire”). Il modello viene arricchito recependo da Antoine Augustin Cournot il calcolo infinitesimale ed applicandolo all’economia pura. In tal modo Walras arrivò a dimostrare come, in condizioni di concorrenza perfetta, è possibile determinare un sistema di prezzi d’equilibrio che comporta l’eguaglianza tra domanda ed offerta in tutti i mercati, nonché l’eguaglianza tra costo di produzione e prezzo di vendita per ciascun bene e per ciascun imprenditore.

In tal modo, viene eliminato il mistero della "mano invisibile" in quanto non ce n'è più esigenza: mentre in Smith e nei classici, l’equilibrio era determinabile in due stadi - il primo era costituito dalla dimostrazione dell’esistenza logica dell’equilibrio, il secondo dalla dimostrazione del modo per arrivarvi - con Walras i due stadi sono diventati uno solo: dato che la dimostrazione dell’esistenza logica dell’equilibrio incorpora anche come arrivarvi, la “mano invisibile” non è più necessaria.

Vilfredo Pareto

Vilfredo Federico Damaso Pareto (Parigi, 15 luglio 1848 – Céligny, 19 agosto 1923) è stato un ingegnere, economista e sociologo italiano.

Biografia

Nacque a Parigi da padre italiano, Raffaele Pareto (1812-1882), un ingegnere esiliato per motivi politici appartenente a un'antica famiglia nobile genovese, e da madre francese, Marie Métenier (1813-1889). Nel 1863 la famiglia si trasferì a Torino. Qui Pareto frequentò il Regio Istituto Tecnico, approdando poi al biennio di Scienze Matematiche presso l'Università e laureandosi infine presso la Scuola di Applicazione per Ingegneri nel 1870, con una tesi sui "Principi fondamentali della teoria della elasticità dei corpi solidi e ricerche sulla integrazione delle equazioni differenziali che ne definiscono l'equilibrio".

Dopo un periodo trascorso come ingegnere straordinario, a Firenze, presso la Società anonima delle strade ferrate, nel 1880 divenne direttore generale della Società delle ferriere italiane, a San Giovanni Valdarno. In questo stesso periodo, frequentò i circoli culturali fiorentini e, con articoli su riviste italiane ed europee, partecipò intensamente al dibattito politico su posizioni liberiste e anti-protezionistiche.

Nel 1880 e nel 1882 presentò la propria candidatura come deputato, prima nel collegio di Montevarchi, poi nel collegio Pistoia-Prato-San Marcello, ma non fu eletto. Intanto, coltivò i suoi interessi culturali, approfondendo l'economia, la sociologia, gli studi letterari classici. Nel 1889 sposò la russa Alexandra Bakunin (non imparentata con l'anarchico rivoluzionario Michail Bakunin).

Nel 1890 conobbe il già insigne economista Maffeo Pantaleoni, cui restò legato da sincera amicizia per il resto della sua vita. Anche grazie a Pantaleoni, nel 1894 fu nominato professore ordinario di economia politica all'Università di Losanna, dove prima di lui aveva insegnato Léon Walras. Lavorò allo sviluppo e alla sistemazione della teoria dell'equilibrio economico tenendo, nel 1901, alcune conferenze a Parigi, invitato da Georges Sorel, con il quale fu in ottimi rapporti. In questo periodo fu abbandonato dalla moglie ed ereditò una grossa fortuna da uno zio. Si legò more uxorio con Jeanne Régis, una giovane parigina conosciuta tramite un'inserzione su un giornale. Intanto, diventava sempre più vivo l'interesse per la teoria sociologica. Abbandonò progressivamente l'insegnamento, anche per ragioni di salute, e si dedicò alla redazione del grande Trattato di sociologia generale. Nel 1910 Pareto pubblicò Il mito virtuista e la letteratura immorale, uno scritto mordace e satirico sul fenomeno Virtuista, nel quale l'autore demitizza in maniera irriverente tutte le razionalizzazioni degli uomini bigotti e ipocriti del suo tempo. Frattanto proseguì l'attività pubblicistica, che s'intensificò dopo la pubblicazione del Trattato, avvenuta nel 1916.

Fu in rapporti di amicizia con Benito Mussolini, che conobbe tra il 1902 e il 1904 quando l'agitatore socialista era rifugiato in Svizzera e frequentava le lezioni dell'economista. Mussolini fece suoi i principi della "filosofia della vita" di Pareto, che considererà Mussolini "un grande statista". Nell'ottobre 1922 Pareto dalla Svizzera, con un acceso telegramma in cui diceva "ora o mai più", inviò il proprio incoraggiamento a Benito Mussolini a dare il via alla Marcia su Roma e prendere il potere. Alla fine del 1922 accettò l'invito fattogli da Benito Mussolini, diventato capo del governo, a rappresentare l'Italia nella commissione per la riduzione degli armamenti presso la Società delle Nazioni. Il 1º marzo del 1923, su proposta del governo fascista, fu nominato Senatore del Regno. La nomina non poté essere portata a termine perché Pareto non consegnò alla presidenza del Senato i documenti richiestigli. Il 19 giugno dello stesso anno, ottenuto il divorzio da Alexandra Bakunin, sposò Jeanne Régis. Morì il 19 agosto successivo.

Nel corso della sua vita, oltre alle personalità già menzionate, intrattenne rapporti d'amicizia e di scambi culturali, spesso polemici, con Galileo Ferraris, Ubaldino ed Emilia Peruzzi, Ernest Naville, Yves Guyot, Gustave de Molinari, Antonio De Viti De Marco, Domenico Comparetti, Augusto Franchetti, Arturo Linaker, Ernesto Teodoro Moneta, William Ewart Gladstone, Filippo Turati, James Bryce, Alfred de Foville, Francis Ysidro Edgeworth, Adrien Naville, Ettore Ciccotti, Arturo Labriola, Benedetto Croce, Luigi Einaudi, Giovanni Papini, Giovanni Vailati, Tullio Martello, Luigi Amoroso, Joseph Schumpeter, L. V. Furlan, Napoleone Colajanni, Gaetano Salvemini, Vittore Pansini, Olinto Barsanti, Robert Michels, Corrado Gini, Dino Grandi e Carlo Placci.

Il resoconto giornalistico di una sua conferenza, tenuta nel giugno del 1891, e sciolta d'autorità per l'intervento della polizia, dice: «La scienza economica non considera la proprietà come un dogma, non ne nega i difetti, la riconosce variabile nel tempo e nello spazio; ma seguendo il metodo sperimentale crede che la sua disparizione farebbe oggi più danni che vantaggi».

Il pensiero economico e sociale

Il contributo al marginalismo

Riguardo al suo contributo alla teoria economica, egli, assieme a Johann Heinrich von Thünen, Hermann Heinrich Gossen, Carl Menger, William Jevons e il già nominato Léon Walras, è stato tra i maggiori rappresentanti dell'indirizzo marginalistico o neo-classico, in contrapposizione alla scuola classica dei primi economisti che ha in Adam Smith e in David Ricardo i suoi capostipiti. A questa impostazione, fondata sul tentativo di trasferire nella scienza economica il metodo sperimentale delle scienze fisiche, con il conseguente uso delle matematiche, e che poi ha dominato lungo tutto il Novecento, si possono ricondurre concetti tipicamente paretiani come la curva della distribuzione dei redditi, il concetto detto poi di ottimo paretiano, le curve di indifferenza, il concetto di distribuzione paretiana.

Restando al concetto della curva della distribuzione dei redditi, o legge di Pareto, essa è l'estrapolazione statistica operata da Pareto del fatto che, non solo il numero di percettori di reddito medio è più elevato del numero di coloro che percepiscono redditi molto sopra e molto sotto la media, ma anche del fatto che, man mano che si considerano livelli di reddito sempre più alti, il numero dei percettori diminuisce in un modo che è all'incirca uguale in tutti i paesi e in tutte le epoche. Tale legge è stata poi variamente affinata e modificata sia nella sua base empirica che nella formalizzazione matematica, ma è rimasto il problema di sapere se la distribuzione dei redditi è probabilistica, e dunque risultante dalle abilità naturali umane distribuite casualmente in una popolazione, oppure influenzata da fattori ambientali che quindi generano ingiustizie.

In definitiva, come si vede, dal marginalismo, e in particolare dagli sviluppi apportati da Pareto, viene fuori una metodologia utile, al di là dei regimi economici preferiti, ad affrontare problemi di remunerazione e di allocazione delle risorse. L'indice di Pareto è tuttora una misura delle ineguaglianze della distribuzione dei redditi. Tuttavia, negli ultimi decenni del XX secolo, l'impostazione marginalistica, e quindi anche quella di Pareto, è stata soggetta a critiche stringenti. Si è infatti obiettato che non sempre ciò che l'agente sceglie è ciò che egli preferisce, nel senso che l'agente economico non è quell'attore perfettamente razionale che l'approccio marginalista presuppone. I neoclassici rispondono che il loro modello non si applica ad ogni individuo ma solo al consumatore rappresentativo o medio. Per quanto concerne l'ottimo paretiano, una critica particolarmente incisiva è stata quella di Amartya Sen che, tra l'altro in un suo lavoro del 1970, argomenta, sulla scorta del Teorema di Arrow, l'impossibilità matematica del liberismo paretiano.

Dall'economia alla sociologia

Proprio sul terreno delle costanti della natura umana e della razionalità dell'agente avviene il passaggio di Pareto dall'economia alla sociologia. Lo studio statistico della distribuzione dei redditi gli aveva fornito una prima evidenza della stabilità della natura umana pur nel variare delle situazioni storico-geografiche. D'altra parte, l'osservazione del comportamento non solo economico, ma più generalmente sociale, lo portava a constatare come l'individuo sociale agisca solo raramente secondo una razionalità strumentale di mezzi adeguati al fine. A suo modo, Pareto anticipa la critica antimarginalista, ma invece di rispondervi restando nel recinto dell'analisi economica, passa a fondare quella che egli chiamava la «sociologia scientifica».

Il punto di partenza di questa nuova sociologia che, secondo Pareto, né Auguste Comte né Herbert Spencer erano stati in grado di concepire, è che nella maggior parte dei casi, l'individuo sociale si comporta in maniera non logica, ovvero senza uno scopo apparente e, comunque, senza una chiara coscienza dello scopo perseguito. Un marinaio dell'antica Grecia che, apprestandosi a navigare, sacrifica agli dei, compie un'azione in nulla adeguata, o utile, al suo scopo di navigare. E quando parliamo, non abbiamo nessuna coscienza esplicita delle competenze grammaticali che utilizziamo per raggiungere lo scopo di enunciare frasi ben formate. Il problema è però che l'individuo sociale, pur agendo in modo non logico, cosa che lo accomuna alle specie animali, rispetto a queste ultime presenta la caratteristica di accompagnare i propri comportamenti con delle formulazioni verbali, la cui funzione è quella di fornire un motivo del comportamento stesso. Si muore in combattimento per qualcosa che chiamiamo patria, e allo stesso tempo si sottoscrive al motto che vuole che sia dolce e meritevole di lode il morire per la patria. La sociologia scientifica dovrà allora spiegare quali sono le costanti del comportamento sociale non logico, e quali sono le caratteristiche e la funzione del discorso sociale.

Da questo nucleo di problemi nasce la sociologia di Pareto, costituita da quattro grandi contrafforti: la teoria dell'azione non logica, la teoria dei residui e delle derivazioni, la teoria delle élites, la teoria dell'equilibrio sociale.

Quanto alla teoria dell'azione non logica, oltre a ciò che si è già anticipato, si può aggiungere che essa costituisce una classificazione dei comportamenti sociali nei suoi aspetti percettivo-motori e linguistico-cognitivi. Un particolare interesse è rivolto verso i comportamenti linguistici. Per Pareto, il linguaggio in quanto competenza grammaticale è il tipo puro di azione non logica.

La teoria dei residui e delle derivazioni intende spiegare natura e funzionamento delle manifestazioni simboliche, o derivate, che accompagnano il comportamento sociale, e in particolare natura e funzionamento del discorso sociale. I motivi che l'individuo sociale adduce a giustificazione dei suoi comportamenti, sono, secondo Pareto, arbitrari rispetto alle effettive motivazioni dell'agire. Nonostante ciò, dalla grande varietà di essi, è possibile risalire alle costanti della natura umana - in termini più attuali, della mente sociale. Dai discorsi è possibile, dunque, risalire ai residui, o motivazioni costanti dell'agire, e alle tecniche verbali, o derivazioni, tramite le quali vengono prodotti i discorsi. In questo senso, la teoria dei residui e delle derivazioni è, al tempo stesso, una teoria della cognizione sociale e una teoria delle tecniche argomentative che l'individuo sociale adopera nella costruzione dei suoi discorsi.

Questo schema analitico non sempre è perseguito in maniera limpida. E ciò soprattutto per i residui. Tuttavia, ciò che emerge abbastanza chiaramente è che la cognizione sociale, nei suoi scambi con l'ambiente, incorpora una tendenza alle combinazioni e una tendenza agli aggregati. La prima genera le novità. La seconda assicura la stabilità. Questo livello psicologico è duplicato da un livello normativo che, a sua volta, presenta due tendenze, il mantenimento dell'ordine e la sua trasformazione sulla base di istanze di giustizia. In questo modo, il comportamento dell'individuo sociale, anche nei suoi aspetti più minuti e ripetitivi, appare sempre cognitivamente marcato e normativamente orientato. Uno dei difetti di questo sofisticato modello della cognizione sociale è, tuttavia, quello di operare con un concetto di norma assai ristretto, che nega l'incidenza pratica di ciò che Pareto chiama gli «equilibri ideali», ovvero ciò che un filosofo come Kant chiamerebbe gli ideali della ragione universale. L'agire dell'individuo sociale appare così rinchiuso entro un rapporto costrittivo di conformismo e di eterodirezione.

Venendo alla teoria delle élite, essa è un'ulteriore conseguenza dell'ipotesi di Pareto circa, non solo la costanza della natura umana, ma anche di una sua preminenza sui fattori ambientali. In ogni ramo dell'attività sociale, sostiene Pareto, vi sono individui che, sulla base di determinate abilità, eccellono. Pertanto, in forza di questo fatto, costoro entrano a far parte dell'élite corrispondente, pur in presenza di fattori distorsivi. L'attenzione di Pareto si appunta sull'élite politica, ma la sua teoria delle élite non è solo una teoria del rapporto tra governanti e governati, ma più generalmente una teoria della stratificazione sociale su base naturale. Questo è sicuramente ciò che la differenzia dalla coeva teoria della classe governante di Gaetano Mosca, fra i fondatori della moderna scienza politica, cui lo si associa ormai acriticamente, benché Pareto, a ragione, abbia sempre rivendicato l'autonomia della sua teorizzazione. Tuttavia, come affermato, vi è in Pareto una particolare attenzione per il rapporto tra l'élite di governo, cioè coloro che eccellono nell'arte del comando politico, e i governati. La storia, egli afferma, è un cimitero di élite, ovvero un susseguirsi di sempre nuovi ma, nella loro struttura, sempre immodificabili rapporti unilaterali di rispetto tra governanti e governati.

Infine, a coronamento di questo grandioso edificio, sta la teoria dell'equilibrio sociale. La quale, tuttavia, è la parte più debole di tutta la sua costruzione. Pareto è conscio dell'impossibilità di una formalizzazione matematica. Inoltre, la scelta di un concetto di equilibrio come equilibrio meccanico, rende questa parte della sua sociologia una faticosa argomentazione intorno ai vincoli sistemici dell'agire degli individui sociali. Di notevole vi è sicuramente il tentativo di Pareto di spiegare il divenire sociale senza rinunciare al presupposto della costanza della natura umana. Ne deriva un pessimismo "ondulatorio" che non riesce però a conciliare il susseguirsi dei cicli sociali con il fatto, pur riconosciuto, del progressivo stabilirsi della «ragione» nelle attività umane.

Pur con questo e altri limiti, che si sono venuti man mano segnalando, Pareto, nel suo tentativo di una «sociologia scientifica», desta ammirazione anzitutto per la creatività e la grandezza di vedute con cui ha saputo districarsi dalle difficoltà del paradigma economico marginalistico, alla cui piena ma problematica maturità aveva contribuito egli stesso; in secondo luogo, per averci assicurato una fra le più originali indagini intorno alla mente dell'individuo sociale, la cui portata è ancora in larga parte da valutare e sfruttare.

Il pensiero politico

Riguardo al suo pensiero politico, Pareto fu il primo a introdurre il concetto di élite, che trascende quello di classe politica e comprende l'analisi dei vari tipi di élite. È un liberista, insegna per un certo periodo economia politica all'università di Losanna.

La sua teoria delle élite trae origine da un'analisi dell'eterogeneità sociale e dalla constatazione delle disuguaglianze, in termini di ricchezza e di potere, presenti nella società. Pareto intende studiare scientificamente queste disuguaglianze, percepite da lui come naturali. Nel corso del suo sviluppo, ogni società ha dovuto di volta in volta misurarsi con il problema dello sfruttamento e delle distribuzione di risorse scarse. L'ottimizzazione di queste risorse è quella che viene assicurata, in ogni ramo di attività, dagli individui dotati di capacità superiori: l'élite. È interessato in particolar modo alla circolazione delle élite: "la storia è un cimitero di élite". A un certo punto l'élite non è più in grado di produrre elementi validi per la società e decade; nelle élite si verificano due tipi di movimenti: uno orizzontale (movimenti all'interno della stessa élite) e uno verticale (ascesa dal basso o declassamento dall'élite).

Altro punto cardine della teoria paretiana è che l'umanità agisce principalmente secondo azioni non logiche. Tali azioni non logiche (si badi, è una cosa diversa da illogiche) prendono il nome di residui: manifestazione di qualcosa di non razionale che condiziona la nostra vita. Fra le sei classi di residui individuate da Pareto due sono fondamentali: l'istinto delle combinazioni (propensione al cambiamento) e la persistenza degli aggregati (tendenza alla conservazione delle tradizioni). Se in un'élite prevale l'istinto delle combinazioni essa sarà aperta, propensa all'avvento di nuovi ingressi; se, viceversa, prevale la persistenza degli aggregati sarà chiusa, propensa a scarsa circolazione, ecc. Per giustificare a posteriori le proprie azioni e difendere i propri interessi si fa ricorso alle derivazioni: attribuiscono all'agire politico la connotazione di oggettiva necessità sociale (sono perciò, per sommi capi, assimilabili alla nozione di formula politica di Gaetano Mosca). Pareto si dichiara realista e seguace di Machiavelli, la sua è una descrizione della realtà con sfondi piuttosto pessimistici. È conservatore, teme il suffragio universale, in economia ha fiducia nel liberismo e nel libero mercato; è antisocialista, anche alla luce di quanto accade nella Russia della rivoluzione d'ottobre.

Analizzando alcuni brani tratti da "I sistemi socialisti" si possono trarre alcune considerazioni sull'impianto teorico di Pareto:

Chi è al potere è anche, necessariamente, il più ricco: chi sta in alto non gode solo di potere politico, ma di tutta una serie di privilegi,

L'élite svetta per le sue qualità, che possono essere sia buone che cattive,

Le élite sono tutte colpite da una decadenza piuttosto rapida,

Una élite che non si rigenera è destinata a perire brevemente (traspaiono, qui, retaggi tipici del darwinismo sociale),

Elementi di ricambio per le élite possono provenire dalle classi rurali, le quali subiscono una selezione più forte rispetto alle classi agiate; le classi agiate tendono a salvare tutti i loro figli, facendo sì che rimangano in vita anche elementi deboli e non adatti. Questo significa che l'élite al potere avrà in sé anche gli elementi peggiori e ciò la destina a peggiorare,

Ricorso alla metafora del fiore: l'élite è come un fiore, appassisce, ma se la pianta, cioè la società, è sana, essa farà subito nascere un altro fiore.

La filosofia della storia di Pareto si fonda sulla circolazione continua delle élite. Non esiste per Pareto un'idea trionfante in politica, vede la storia come un moto ondoso: l'idea che trionfa oggi domani decade, ma dopodomani potrà tornare in auge.

Analizzando alcuni brani tratti da "Trattato di sociologia generale" si possono trarre alcune considerazioni sul pensiero di Pareto:

Non c'è netta separazione tra azione logica e azione non logica: un'azione concreta presenta in misura differente tratti di entrambe le categorie,

I residui fanno sì che i comportamenti umani si differenzino e non vi siano piattezza e omologazione: permettono, quindi, la circolazione,

Chi studia l'eticità e la morale di un popolo lo fa sempre con interesse: egli dà una qualifica alla morale perché la vuole imporre.

In realtà la morale è qualcosa di molto difficile da qualificare e da imporre: la morale non è logica ma residuale (questo è certamente un discorso libertario). Chi governa non lo fa per il bene della collettività ma esclusivamente per il proprio interesse: la necessità di giustificarsi agli occhi dei governati lo fa ricorrere alle derivazioni. Le clientele in democrazia hanno un ruolo simile a quello dei vassalli nel feudalesimo. La democrazia così come la intendono i teorici (cioè come governo popolare) non è altro che un "pio desiderio". Clientelismo e consorterie non sono una degenerazione della democrazia: sono invece la realtà della democrazia: non è mai esistita una democrazia non interessata da questi fenomeni e la storia lo dimostra. Ci sarà sempre chi, stringendo un patto con le élite al potere, ne trae personale beneficio a scapito degli altri. "Il governare è l'arte di adoperare i sentimenti esistenti", questa frase dimostra il pragmatismo di Pareto.

Alfred Marshall

Alfred Marshall (Londra, 26 luglio 1842 – Cambridge, 13 luglio 1924) è stato un economista inglese, uno dei più influenti del suo tempo. Nel suo libro più famoso, Principi di economia (1890) - base dell'economia politica neoclassica a lungo rimasto in Inghilterra il testo di riferimento per l'economia - Marshall mette a sistema in maniera coerente i concetti di domanda e offerta, utilità marginale e costo della produzione.

Insegnò economia all'Università di Oxford e successivamente in quella di Cambridge.

Tra le sue opere più importanti anche il testo Industria e commercio (1919).

Biografia

Cresciuto nel sobborgo londinese di Clapham, Marshall si laureò in matematica all'Università di Cambridge. Quantunque il suo intento iniziale fosse quello di intraprendere la carriera ecclesiastica, come da espresso desiderio del padre, i successi conseguiti all'Università di Cambridge lo portarono a proseguire la carriera accademica divenendo nel 1868 professore di politica economica. Marshall desiderava migliorare le basi matematiche dell'economia rendendo la stessa una scienza rigorosa. Nel decennio del 1870 Marshall scrisse alcuni trattati sul commercio internazionale ed i problemi del protezionismo; nel 1879 buona parte di tali lavori fu assemblata in un unico testo intitolato Teoria pura del commercio estero: teoria pura del valore nazionale (The Pure Theory of Foreign Trade: The Pure Theory of Domestic Values) e, sempre nello stesso anno, Marshall pubblicò, insieme alla moglie Mary Paley Marshall, il testo Economia industriale (The Economics of Industry).

Sebbene Marshall volesse portare la scienza economica ad un più alto rigore matematico, non voleva però che la matematica eclissasse l'economia rendendola non fruibile per il profano: pertanto Marshall adattò il testo dei propri scritti in modo che potesse essere compreso anche dai profani e espose le notazioni matematiche delle proprie teorie nelle note e nelle appendici di tali scritti.

Marshall, che ne era stato professore di politica economica a Cambridge, sposò Mary Paley nel 1877. Tale fatto lo costrinse, in ossequio alle regole universitarie relative al celibato, a lasciare la propria posizione. Divenuto preside presso lo University College di Bristol continuò le lezioni e le conferenze di politica economica.

Avendo revisionato il proprio Economia industriale lo pubblicò in forma di vademecum economico: sebbene semplificato nella forma del testo lo stesso si basava su complesse basi teoriche. Marshall acquisì buona fama proprio grazie a tale testo e, a seguito della scomparsa di William Jevons nel 1881, divenne il più importante economista britannico del tempo della scuola scientifica.

Marshall tornò a Cambridge per assumere la cattedra di politica economica all'università di Cambridge nel 1884 a seguito della morte di Henry Fawcett. A Cambridge si impegnò per la creazione di un nuovo corso di laurea in scienze economiche, ma lo ottenne soltanto nel 1903. Sino ad allora l'economia era insegnata alla facoltà di storia e scienze morali che non riusciva a formare il tipo di studente energico e specializzato da lui desiderato.

Marshall iniziò la sua opera fondamentale, i "Principi di Economia", nel 1881 e spese la maggior parte del decennio successivo lavorando al trattato. Il suo progetto si estese gradualmente a una compilazione in due volumi dell'intero pensiero economico; il primo volume fu pubblicato nel 1890 e riscosse unanime plauso in tutto il mondo acclamandolo come uno dei più importanti economisti della sua epoca. Il secondo volume, al quale lavorò nei due decenni seguenti, trattava del commercio estero, della moneta, delle oscillazioni negli scambi commerciali, della tassazione e del collettivismo, ma non fu mai pubblicato: la sua inflessibile attenzione ai dettagli e l'ambizione di completezza gli impedirono di dominare la lunghezza dell'opera. Come questo anche molti altri scritti minori che aveva iniziato nel 1890 - per esempio un memorandum sulla politica del commercio per il cancelliere dello scacchiere - rimasero incompleti per le stesse ragioni.

I suoi problemi di salute erano gradualmente peggiorati dal 1880 e, nel 1908, lasciò l'università. Sperò di continuare il lavoro dei suoi "Principi" ma la sua salute continuò a deteriorarsi e il progetto continuò a crescere ad ogni ulteriore indagine. Lo scoppio della I Guerra Mondiale, nel 1914, lo incoraggiò a rivedere i suoi studi sull'economia internazionale e nel 1919, all'età di 77 anni, pubblicò "Industria e Commercio". Quest'opera era un trattato più empirico dei "Principi", in gran parte teorici e per questa ragione non ottenne l'unanime consenso degli economisti teorici. Nel 1923, pubblicò "Moneta, Credito e Commercio", un'ampia combinazione di precedenti idee economiche, pubblicate ed inedite.

Gli allievi di Marshall a Cambridge, tra i quali John Maynard Keynes e Arthur Cecil Pigou, divennero figure di spicco della scienza economica: il suo maggior contributo fu proprio quello di rendere quella dell'economista una professione rispettata, accademica e basata sul metodo scientifico.

Mashall morì nella propria casa, Balliol Croft, a Cambridge, il 13 luglio 1924 ad ottantun anni. Il corpo è tumulato nel cimitero Ascension Parish Burial Ground, sempre a Cambridge.

Contributi teorici

Marshall è considerato tra gli economisti più influenti della propria epoca e le sue idee hanno condizionato il pensiero economico prevalente per i successivi cinquant'anni. Sebbene il suo pensiero sia stato visto come un'estensione ed un raffinamento del lavoro di Adam Smith, Ricardo, Malthus e Stuart Mill, Marshall spostò l'oggetto degli studi economici dal focus classico sull'economia di mercato, rendendoli invece popolari come studi sul comportamento umano.

Marshall tese a minimizzare i contributi di altri economisti, come quelli di Léon Walras, Vilfredo Pareto e Jules Dupuit, relativi al suo lavoro e solo a malincuore riconobbe l'influenza di William Jevons stesso.

L'influenza di Marshall nella teorizzazione del pensiero economico è innegabile: rese popolare l'utilizzo delle funzioni di domanda e offerta come strumenti per la determinazione del prezzo, giocò un ruolo importante nella "rivoluzione marginalista"; un altro dei suoi contributi fu l'idea che i consumatori tendano a eguagliare i prezzi alla loro utilità marginale e la stessa nozione di elasticità della domanda rispetto al prezzo veniva presentata da Marshall come estensione di tali concetti. Ulteriore contributo di Marshall fu la suddivisione del benessere economico tra surplus del produttore e surplus del consumatore; egli usò poi l'idea di surplus per analizzare in maniera rigorosa gli effetti delle modifiche del livello dei prezzi e della pressione fiscale sul benessere del mercato.

Arthur Cecil Pigou

Arthur Cecil Pigou (18 novembre 1877 – 7 marzo 1959) è stato un economista inglese, conosciuto per il suo impegno nell'economia del benessere, di cui è considerato uno dei maggiori esponenti.

Biografia

Studente alla celebre Harrow School di Londra, si iscrisse successivamente al King's College di Cambridge, dove fu allievo di Alfred Marshall. Lo stesso Pigou, qualche tempo dopo, sostituì proprio Marshall alla cattedra di economia politica. Collaboratore economico del Regno Unito, fu uno dei primi sostenitori delle "income tax" (imposte sul reddito delle persone fisiche). Negli anni '20 contribuì a stimolare ed affrontare il perpetuo dibattito sulle opere pubbliche e sui programmi per lo sviluppo dei servizi sociali a vantaggio della piena occupazione.

Pigou fu pioniere dell'economia del benessere: le "imposte pigouviane" (dette anche pigoviane), tasse utilizzate per correggere le esternalità negative, furono denominate così in suo onore.

Fu professore di economia politica all'Università di Cambridge dal 1908 al 1943. Nel 1920 diede alla luce la sua opera più famosa ed influente: "The Economics of Welfare", ovvero l'economia del benessere.

Pigou fu un grande amico di John Maynard Keynes, che supportò finanziariamente quando quest'ultimo lavorava alla teoria della probabilità. Sebbene le loro idee in campo economico fossero differenti, la loro amicizia non fu mai messa in discussione, data la stima reciproca di cui godevano.

Amante della montagna e dell'alpinismo, lo introdusse a molti amici, tra cui Wilfrid Noyce, scrittore e scalatore che avrebbe fatto parte nel 1953 della celebre spedizione inglese che per prima giunse sulla vetta del Monte Everest (8.848 metri).

Scuola austriaca

La scuola austriaca, conosciuta anche come la scuola di Vienna o la scuola psicologica, è una scuola di pensiero economico eterodossa che proclama una stretta aderenza all'individualismo metodologico. A livello politico, ha originato e influenzato le teorie e i movimenti libertari e, in maniera minore, anche quelli liberisti. Il suo nome deriva dal fatto che molti dei suoi membri, come Friedrich von Hayek e Ludwig von Mises, fossero austriaci ed ex-studenti dell'Università di Vienna.

Introduzione

La scuola austriaca sostiene che l'unica teoria economica valida debba derivare logicamente dai principi basilari dell'azione umana. Oltre al suo approccio formale alla teoria, spesso chiamato prasseologia, la scuola ha sempre predicato un approccio interpretativo alla storia. Il metodo prasseologico permette di derivare le leggi dell'economia valide per ogni azione umana, mentre l'approccio interpretativo si occupa di singoli eventi storici.

L'approccio della scuola austriaca è razionalista (pur annoverando due anime, una kantiana e l'altra aristotelica) e si distingue sia dall'approccio platonico/positivista della moderna economia di scuola neoclassica ora dominante, sia dallo storicismo della scuola storica tedesca e degli istituzionalisti americani. Sebbene il metodo prasseologico sia assai diverso da quello attualmente usato dalla maggior parte degli economisti, esso è essenzialmente identico all'approccio tradizionalmente tenuto dagli economisti classici di scuola britannica, dai primi economisti continentali e dai tardo-scolastici. La metodologia austriaca è una netta contrapposizione alla scuola classica del pensiero economico, che si è sviluppata a partire dal XV secolo fino all'era moderna e che ha annoverato tra i propri sostenitori economisti del calibro di David Hume, Adam Smith, David Ricardo, Nassau Senior, John Elliott Cairnes; mentre raccoglie il lascito di grandi autori come, ad esempio, Richard Cantillon, Anne Robert Jacques Turgot, Jean-Baptiste Say e Frédéric Bastiat.

Il filone principale della scuola austriaca include Carl Menger, Eugen von Böhm-Bawerk, Ludwig von Mises, Friedrich Hayek, Murray N. Rothbard, Ludwig Lachmann, Israel Kirzner, e in misura periferica Benjamin Anderson, Friedrich von Wieser, Gottfried Haberler, Fritz Machlup. L'elite contemporanea degli austriaci include: Walter Block, Peter Boettke, Thomas DiLorenzo, Roger Garrison, Hans-Hermann Hoppe, Jesus Huerta de Soto, Jörg Guido Hülsmann, Don Lavoie, Ralph Raico, George Reisman, Joseph Salerno.

Sebbene le sue tesi siano controverse e si chiamino in qualche modo fuori dal filone principale della teoria neoclassica (così come sono opposte a molte delle idee di J.M. Keynes), la scuola austriaca ha avuto una certa influenza, a causa della sua enfasi sulla fase creativa (ossia l'elemento 'tempo') della produttività economica e del suo interrogarsi sulle basi della teoria del comportamento connessa con l'economia neoclassica.

I teorici della scuola austriaca raccomandavano piccoli governi, una forte protezione della proprietà privata e il supporto in generale dell'individualismo. Per questo motivo sono spesso citati a sostegno da gruppi liberisti "laissez-faire", "libertarian" e oggettivisti, sebbene economisti di scuola austriaca come Ludwig von Mises insistono sul fatto che la prasseologia deve prescindere dai valori: non rispondere cioè all'ipotetica domanda "è giusto adottare questa politica economica?", ma piuttosto alla domanda, a fondamento dell'eterogenesi dei fini, "se questa politica fosse realizzata, avrebbe gli effetti desiderati?"

Storia

Gli economisti classici misero a fuoco la teoria del valore. Nel XIX secolo l'attenzione si focalizzò sul concetto di valore e costo marginale. La Scuola austriaca fu una delle tre scuole di pensiero economico che furono la base della rivoluzione marginalista degli anni settanta di quel secolo, e diede il maggior contributo all'innovativo approccio soggettivista all'economia. Il libro del 1871 di Carl Menger, Principles of Economics, fu un catalizzatore per questa evoluzione; mentre il marginalismo divenne sempre più influente, incominciò a crearsi intorno a Menger una scuola di pensiero, chiamata Scuola psicologica, Scuola di Vienna, o, come è maggiormente consociuta, Scuola austriaca, scuola di pensiero che ebbe un ruolo importante nel successivo sviluppo delle teorie economiche.

La scuola nacque a Vienna, anche se c'è da sottolineare come gli ultimi aderenti, come Murray N. Rothbard, abbiano tratto molti spunti dalla Scuola di Salamanca del XV secolo, che aveva sede nell'Università di Salamanca, e dai fisiocrati francesi del XVIII secolo.

Gli economisti austriaci si distanziarono profondamente dagli economisti neoclassici per via del contrasto in merito al calcolo economico, contrasto nato per le posizione di importanti economisti austriaci, come Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek, i quali sostennero l'impossibilità di calcolo economico in mancanza di prezzo monetario e proprietà privata.

Gli economisti austriaci furono i primi a criticare apertamente e duramente le teorie marxiste e la dottrina hegeliana. Il primo libro fondamentale della Scuola austriaca, ovvero Principles of Economics di Carl Menger, venne scritto quattro anni dopo il primo libro del Capitale di Karl Marx, mentre il secondo e il terzo libro seguirono rispettivamente di quattordici e di ventitré anni l'opera di Menger. Lo stesso Böhm-Bawerk scrisse negli anni ottanta e novanta del XIX secolo diverse critiche molto approfondite nei confronti del marxismo.

Una svolta all'interno della Scuola austriaca avvenne dopo l'avvento al potere in Germania di Adolf Hitler. Data l'impossibilità di convivenza con il Terzo Reich, molti economisti austriaci scapparono dall'Austria, paese-fulcro di tutta la scuola. La maggior parte degli economisti, tra cui Ludwig von Mises, si stabilirono negli Stati Uniti.

Gli economisti austriaci si divisero in due trend: uno, rappresentato certamente da Friedrich von Hayek, univa la diffidenza nei confronti dei concetti neoclassici al largo utilizzo dei metodi della stessa scuola neoclassica; l'altro trend, rappresentato dal Ludwig von Mises Institute, ricercava un nuovo formalismo da applicare all'economia.

Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve per 18 anni, in merito alla Scuola austriaca nel 2000 disse:

« La Scuola austriaca grazie ai suoi economisti è arrivata molto lontana, e, a mio giudizio, ha cambiato irreversibilmente la visione dell'economia di molti economisti di questo paese. »

Contributi

I contributi maggiori della Scuola austriaca in economia sono:

La teoria della nascita e distribuzione dei prezzi.

L'enfasi sulla natura conveniente di ogni scelta.

Il rigetto dei fondamentali metodi matematici in economia. Questa teoria creò molto contrasto con i neoclassici.

La critica di Eugen von Böhm-Bawerk nei confronti della Teoria marxiana del valore.

La teoria del capitale di Eugen von Böhm-Bawerk, denominata anche Roundaboutness.

La dimostrazione di Eugen von Böhm-Bawerk della legge dell'utilità marginale.

L'enfasi sull'opportunity cost e la riconsiderazione dell'offerta come causa indipendente del valore.

La teoria elaborata da Hayek e von Mises sul ciclo economico, denominata anche ciclo economico austriaco, la quale mette in evidenza l'espansione del credito dovuta alla politica monetaria e il ribasso dei tassi di interesse.

Il concetto hayekiano di equilibrio intertemporale.

La visione di Hayek e von Mises del prezzo come indice di scarsità.

La teoria delle preferenze temporali.

Il dibattito nato intorno alla teoria austriaca dell'impossibilità di calcolo economico in regime di socialismo.

Anne Robert Jacques Turgot

Economisti legati alla Scuola Austriaca

Henry Hazlitt (introdusse la Scuola Austriaca negli USA)

Lionel Robbins

Wilhelm Röpke

Joseph Schumpeter

Knut Wicksell si dichiarò allievo di Eugen von Böhm-Bawerk

Friedrich von Wieser

Friedrich von Wieser (Vienna, 10 luglio 1851 – Salisburgo, 22 luglio 1926) è stato un economista e sociologo austriaco, fu insieme a Carl Menger e Eugen von Böhm-Bawerk uno dei fondatori della Scuola austriaca.

Biografia

Nato a Vienna il 10 luglio 1851, dimostrò il suo interesse per il diritto, per la storia, per la sociologia e per l'economia fin da giovane. Fu insieme a Carl Menger ed Eugen von Böhm-Bawerk uno dei fondatori della Scuola austriaca, ed aprì la strada alla generazione successiva di austriaci, tra i quali spiccano Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek e Joseph Schumpeter. Nel 1917 divenne ministro delle finanze austriaco.

Wieser è conosciuto soprattutto per due opere da lui pubblicate: Der natürliche Wert (Valore Naturale) del 1889, dove spiega dettagliatamente la dottrina del costo alternativo e la teoria dell'imputazione e Theorie der gesellschaftlichen Wirtschaft (Teorie dell'economia sociale) del 1914, dove cerca di applicare le sue teorie al mondo reale.

Il dibattito sul calcolo economico (la critica più importante mossa dagli austriaci al socialismo) partì proprio per la nozione di Wieser (poi ripresa e ampliata da Ludwig von Mises) che pone il prezzo come frutto delle leggi di mercato come base fondamentale per il calcolo economico. Ovviamente questa nozione poneva ogni regime socialista come fallimentare in partenza.

A differenza di molti economisti austriaci rigettò il classical liberalism, sostenendo che "la libertà è passata di moda a favore del sistema moderno".

Eugen von Böhm-Bawerk

Eugen Ritter von Böhm-Bawerk (Brno, 12 febbraio 1851 – Vienna, 27 agosto 1914) è stato un economista austriaco, esponente fondamentale della scuola austriaca, viene considerato con Carl Menger e Friedrich von Wieser uno dei padri della scuola.

Biografia

Formatosi all'Università di Vienna in giurisprudenza ebbe occasione di leggere Principles of Economics di Carl Menger. Sebbene non avesse mai studiato con Menger, aderì presto alle sue teorie. Joseph Schumpeter disse che Böhm-Bawerk "era un discepolo di Menger talmente entusiasta che era fortemente necessario per guardarsi attorno e cercare altri contributi".

In quel periodo all'Università di Vienna Böhm-Bawerk divenne molto amico di Friedrich von Wieser, il quale più tardi divenne suo cognato.

Dopo aver completato gli studi Bawerk entrò nel ministero delle finanze austriaco. Negli anni '80, precisamente tra il 1881 e il 1889, insegnò all'Università di Innsbruck. Durante questo periodo pubblicò i primi due dei tre volumi della sua opera maggiore, Capital and Interest.

Nel 1889 venne contattato da Vienna dal ministro delle finanze per formulare una riforma in merito alla tassazione. Il sistema fiscale austriaco del tempo era molto pesante, soprattutto durante le guerre, e ciò inevitabilmente disicentivava gli investimenti. La proposta di Bawerk fu un sistema di tassazione molto più leggero e molto più moderno, che venne approvato ed ebbe successo fin dai primi anni.

Nel 1895 Bawerk divenne ministro delle finanze dell'Impero austro-ungarico, ruolo ricoperto fino al 1904. Come ministro delle finanze ha cercato di mantenere il più stretto legame tra oro e scellino austriaco (vedi gold standard), e il pareggio di bilancio. Nel 1902 eliminò il "sussidio dello zucchero" , elemento che caratterizzava l'economia austriaca da oltre due secoli. Nel 1904 si dimise per via della richiesta di maggior spesa militare finanziata attraverso maggiore tassazione e deficit pubblico. Lo storico economico Alexander Gerschenkron (formatosi presso la scuola austriaca) criticò la politica Bawerkiana chiamata "penny pinching, 'not-one-heller-more-policies'", politica caratterizzata da scarsi investimenti in opere pubbliche. Joseph Schumpeter esaltò la politica economica tenuta da Bawerk, sostenendo che abbia dato "stabilità finanziaria al paese".

Nel 1904 tornò ad insegnare all'Università di Vienna. Tra i suoi studenti meritano certamente menzione Joseph Schumpeter e Ludwig von Mises. Si spense nel 1914 all'età di 63 anni.

Nonostante la sua teoria molto liberale in economia, non è assimilabile nel filone dei radicali libertari che tanto spazio hanno trovato all'interno della scuola austriaca (Murray N. Rothbard su tutti). Ha spesso scritto di temere una competizione totalmente sregolata, definita da lui "anarchismo di produzione e di consumo". Tra gli anni '80 e '90 scrisse anche diverse critiche al pensiero di Karl Marx, e, a sottolineare la sua importanza in ambiente accademico, nei suoi seminari parteciparono diversi marxisti.

Pubblicazioni

Il primo volume di Capital and Interest, definito da Ludwig von Mises "il più importante contributo alla moderna teoria economica", fu intitolato History and Critique of Interest Theories (1884) è un esaustivo studio di definizioni e trattazioni alternative dell'interesse: teorie dell'uso, teorie della produttività, teorie dell'assistenza, etc..

All'interno dello stesso volume è presente una critica alla teoria del plusvalore di Karl Marx. Bawerk sostiene che i capitalisti non sfruttano i loro dipendenti, ma anzi consentano loro di ottenere un guadagno dal fatturato dei prodotti creati.

In Karl Marx and the Close of His System (1896) Bawerk sottolinea la contraddizione, in merito alla teoria del valore espressa da Marx, tra il terzo libro del Capitale che tratta di profitto e formazione del prezzo, e il primo libro che tratta proprio della teoria del valore. Ha anche criticato Marx per la sottovalutazione del processo di domanda e offerta nella determinazione del prezzo.

Nella pubblicazione intitolata Positive Theory of Capital (1889), presentata come il secondo volume di Capital and Interest, spiega i processi delle preferenze economiche temporali che stanno alla base della formazione dell'interesse. Nella seconda parte di questo libro, intitolata Value and Price, Bawerk sviluppò il concetto mengeriano di utilità marginale, concetto solo abbozzatto in Principles of Economics (la più importante opera di Menger).

Further Essays on Capital and Interest (1921), ovvero il terzo ed ultimo volume di Capital and Interest, originariament nacque come appendice al secondo.

Molti dei lavori di Eugen von Böhm-Bawerk vennero diffusi negli Stati Uniti grazie a Frederick Nymeyer e al suo Libertarian Press.

Teoria del capitale

Secondo Bawerk, il capitale non è un fattore originario della produzione, come la terra e il lavoro, ma è ad essi riconducibile. Il suo valore, peraltro, non va misurato sulla base del lavoro e della terra impiegati in passato, ma piuttosto della capacità di produrre beni in futuro.

I beni capitali, secondo Bawerk, non sono altro che il risultato dell'impiego di lavoro e terra per la produzione di beni futuri invece che di beni presenti. Nel suo esempio dell'agricoltore che ha bisogno di acqua potabile, vi sono alternative via via più "indirette": bere dal palmo della mano (la soluzione più diretta), dedicare una giornata ad abbattere un albero e scavare un blocco di legno per ricavarne un secchio, dedicare più giornate ad abbattere più alberi da scavare in modo da realizzare una conduttura che gli porti l'acqua fino a casa.

I metodi indiretti consistono in un allungamento del processo produttivo, al punto che per Bawerk l'intesità di capitale va misurata in termini di periodo medio di produzione. Ad esempio, se un certo bene è il risultato di 100 giornate lavorative, di 20 spese 10 anni prima, altre 20 9 anni prima, 5 in ciascuno degli anni successivi e 20 nell'anno in cui il bene viene finito, il suo periodo medio di produzione è:

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Bawerk credette anche di poter stabilire una legge secondo la quale quanto più lungo è il periodo medio di produzione (quanto maggiore è l'intensità di capitale), tanto maggiore è il prodotto complessivo, come nell'esempio dell'agricoltore.

La teoria di Bawerk ebbe il duplice merito di sottolineare sia l'importanza del fattore tempo, sia l'opportunità di misurare il valore del capitale sulla base del suo prodotto piuttosto che del suo costo di produzione (tale punto verrà poi sviluppato da Irving Fisher, che distingue tra il capitale come stock ed il reddito come flusso, valutando il capitale sulla base dei flussi di reddito attesi scontati al tasso d'interesse di mercato).

Tuttavia, come notò presto Knut Wicksell, il periodo medio di produzione può essere accettato come misura corretta solo se si assumono un unico fattore di produzione (ma lo stesso Bawerk ne individua due) e l'inesistenza di preesistente capitale fisso, e se si usano tassi di interessi semplici (Wicksell e Fisher usano, più correttamente, tassi di interesse composti).

Inoltre, Bawerk ignora del tutto il progresso tecnico, grazie al quale la produttività del lavoro può aumentare senza che aumenti il rapporto capitale/prodotto.

Infine, gli sforzi iniziali di Friedrich von Hayek tesi a conciliare la teoria del capitale di Bawerk con la teoria dell'equilibrio economico generale hanno dato esiti dubbi e molto contestati, e lo stesso Hayek si vide costretto ad abbandonare poi il concetto di periodo medio di produzione nel suo The Pure Theory of Capital (1941).

Teoria dell'interesse

Un tasso d'interesse, nota Bawerk, esiste ed è maggiore di zero in quanto gli individui sono disposti a restituire in futuro una quantità di beni maggiore di quella ricevuta nel presente.

Ciò accade, secondo Bawerk, per tre motivi indipendenti:

«diverse circostanze di bisogno e di approvvigionamento», quali la necessità di soddisfare bisogni immediati a seguito di eventi sfavorevoli (malattia, incendio, cattivo raccolto) o la prospettiva di un futuro miglioramento delle condizioni di vita (come nel caso dei giovani che iniziano un'attività lavorativa);

«sottovalutazione del futuro», dovuta a mancanza di immaginazione, a limitata forza di volontà, alla brevità ed incertezza della vita, e presente soprattutto «nei bambini e nei selvaggi»;

«superiorità tecnica dei beni presenti», nel senso che, essendo secondo Bawerk i metodi di produzione che richiedono più tempo (nel senso del periodo medio di produzione) più produttivi, un bene presente impiegato oggi in un processo produttivo indiretto forniranno in futuro un prodotto maggiore di quello che si otterrebbe in futuro impiegando lo stesso bene in un processo diretto.

Quanto al primo motivo, Bawerk tiene conto della frequenza di casi in cui il reddito futuro è minore di quello presente; fa l'esempio di una persona prossima alla pensione, per la quale la pensione sarà certamente minore della remunerazione attuale. Tenta di risolvere il problema (considerato da alcuni tale da invalidare il ragionamento) supponendo che persone in quella condizione possono mettere da parte beni durevoli e non deperibili, tra i quali in particolare la moneta.

Il secondo motivo si presta ad un'ovvia obiezione, avanzata da Friedrich von Wieser in Der natürliche Werth: «È quindi lecito dire che è buona regola presso tutti i popoli normalmente sviluppati valutare il presente e il futuro nello stesso modo».

Il terzo motivo risente dei problemi relativi alla teoria del periodo medio di produzione. Inoltre, Irving Fisher dimostra che, anche volendolo ammettere, non è indipendente dagli altri due, ovvero non può da solo giustificare l'esistenza di un tasso d'interesse positivo.

Ciò nonostante, la teoria dell'interesse di Bawerk viene considerata da Fisher come «il naturale e corretto punto di partenza per una discussione razionale dell'argomento». Sbarazzatosi del terzo motivo, sostituisce i primi due con l'"impazienza" come aspetto psicologico o soggettivo, cui poi aggiunge l'opportunità di investimento come aspetto reale basato sulla produttività..

Ludwig von Mises

Ludwig von Mises (Lemberg, 29 settembre 1881 – New York, 10 ottobre 1973) è stato un economista austriaco naturalizzato statunitense, tra i più influenti della scuola austriaca, nonché uno dei padri spirituali del moderno libertarismo; definito l'incontrastato decano della scuola austriaca economica, in suo onore è nato il Ludwig von Mises Institute.

Biografia

Di origine ebraica, nacque da Arthur Edler von Mises, ingegnere edile, e Adele von Landau, nell'odierna Ucraina; crebbe a Vienna, iscrivendosi alla locale università e laureandosi in legge ed economia nel 1906. L'ambiente accademico viennese lo espose all'influenza dei maggiori economisti austriaci del tempo, soprattutto Carl Menger.

Vita professionale

Negli anni che vanno dal 1904 al 1914, Mises si concentrò sulle opere dei maggiori economisti austriaci, soprattutto Eugen von Boehm-Bawerk. Dal 1913 al 1934 insegnò all'Università di Vienna, anni nei quali ebbe anche rapporti con i governi, ovviamente in veste di consigliere.

Nel 1934, con l'avvento del nazismo, è costretto a scappare per via delle sue idee liberali e della sua origine ebraica; dopo essere stato per 6 anni a Ginevra, in Svizzera, dove svolse il ruolo di professore al Graduate Institute of International Studies, nel 1940 si trasferì a New York City, dove fece il professore universitario fino al 1969 senza ricevere stipendio. Riuscì a sopravvivere grazie ai finanziamenti del ricco uomo d'affari libertario Lawrence Fertig.

A dispetto della sua crescente fama rimase molto umile, e non disdegnava discussioni con nessuno, soprattutto con i suoi allievi.

Morì all'età di 92 anni al St Vincent's hospital di New York.

Contributi al mondo economico

La vasta bibliografia di Mises è interamente dedita alla difesa del classical liberalism che contraddistingueva la scuola austriaca e ai valori che portarono poi alla nascita del libertarismo, ovviamente ciò implica una dura avversione verso il socialismo che viene confutato con solide argomentazioni, mettendo in luce l'impossibilità del calcolo economico (sono i prezzi che guidano le scelte razionali degli individui) in una società socialista. Nel suo trattato economico, Human Action, considerato da molti un capolavoro, Mises introdusse il concetto di prasseologia, come concetto base delle azioni umane, rigettando concetti come positivismo e casualità.

Molti dei lavori misesiani si concentrano su due temi fondamentali:

1. teoria monetaria e inflazione;

2. superiorità del libero mercato rispetto alla pianificazione economica statale.

Sosteneva l'impossibilità in regime socialista di calcolare il complesso economico, teoria poi ripresa da un allievo di Mises, Friedrich von Hayek, il quale sosteneva, come già faceva a suo tempo Mises, l'inevitabile crollo dell'Unione Sovietica proprio per questo motivo.

Da allievo a maestro

Nelle opere di Mises si possono avvertire le molte fonti alla base del suo pensiero: dalle influenze puramente filosofiche di Aristotele ed Immanuel Kant, passando per i grandi liberali francesi del XVIII e XIX secolo, tra cui spiccano certamente Frédéric Bastiat, Gustave de Molinari, Anne Robert Jacques Turgot e Jean-Baptiste Say, fino ad arrivare a quelli che furono effettivamente i maestri di Mises, ovvero i capostipiti della scuola austriaca, quindi Carl Menger e Eugen von Böhm-Bawerk.

Considerato uno dei più grandi pensatori liberali della storia, ebbe influenza su diversi economisti, tra cui Murray N. Rothbard, Friedrich von Hayek, Milton Friedman, Hans-Hermann Hoppe.

Friedrich von Hayek

Friedrich August von Hayek (Vienna, 8 maggio 1899 – Friburgo, 23 marzo 1992) è stato un economista e filosofo austriaco, del XX secolo. Esponente storico del liberalismo, è stato un rappresentante della scuola austriaca e critico dell'economia pianificata e centralista. Nel 1974 è stato insignito, insieme a Gunnar Myrdal, del Premio Nobel per l'economia "per il lavoro pionieristico sulla teoria monetaria, sulle fluttuazioni economiche e per le fondamentali analisi sull'interdipendenza dei fenomeni economici, sociali e istituzionali". Nel 1991 ha anche ricevuto la Presidential Medal of Freedom.

È considerato uno dei maggiori avversari delle politiche interventiste classiche del pensiero di John Maynard Keynes, nonché uno dei più importanti difensori delle teorie liberali del XX secolo.

Biografia

Le origini

Von Hayek nacque a Vienna, in una famiglia aristocratica composta da importanti intellettuali. Suo nonno Gustav von Hayek fu un ornitologo e naturalista. Suo padre August von Hayek fu un importante botanico noto per gli studi di Fitogeografia corologica. La madre era cugina del famoso filosofo Ludwig Wittgenstein. Allo scoppio della Grande guerra, avvenuto nel 1914, von Hayek falsificò la propria età per entrare nell'esercito austro-ungarico. Sopravvisse alla guerra senza danni importanti e venne decorato per il suo coraggio. Dopo essersi congedato riprese gli studi, scegliendo l'economia. Nel 1921 e 1923 ottenne il dottorato rispettivamente in giurisprudenza e scienze politiche all'Università di Vienna e, contemporaneamente, studiò psicologia ed economia. Il pensiero economico hayekiano fu fortemente influenzato durante gli anni di studio, nei quali ebbe come maestri (non solo nell'ateneo) Ludwig von Mises e Friedrich von Wieser.

Dal 1923 al 1924 lavorò come assistente del professore Jeremiah Jenks alla New York University. Successivamente aiutò il governo austriaco a calcolare i dettagli economici e legali dei trattati internazionali che segnarono la fine della Prima guerra mondiale. Mises lo aiutò ad organizzare l'Istituto austriaco per lo studio del ciclo economico, che von Hayek diresse (con la collaborazione, dal 1927, di Oskar Morgenstern). Nel febbraio del 1931 Lionel Robbins lo invitò a tenere dei seminari alla London School of Economics and Political Science (da tali seminari venne tratta l'opera Prices and Production, 1931).

Il trasferimento in Inghilterra

I seminari vennero giudicati così positivamente che von Hayek venne invitato ad insegnare alla London School e si trasferì a Londra nel mese di ottobre. Nel 1938, non potendo rientrare nella natia Austria a causa dell'annessione della stessa al Terzo Reich, von Hayek divenne cittadino britannico, cittadinanza che manterrà per sempre.

Con lo scoppio della guerra, la London School si trasferì a Cambridge e von Hayek con essa. In questo periodo von Hayek cominciò a scrivere una delle sue opere più importanti, The Road to Serfdom. Quest'opera, che divenne famosa come secondo volume del trattato intitolato The Abuse and Decline of Reason, nasce dall'interesse di von Hayek per la visione inglese del nazionalsocialismo, che considera questo movimento come una reazione capitalista al socialismo. Hayek ne sostiene l'infondatezza, mostrando invece come il nazismo e il fascismo non siano altro che una forma evoluta di socialismo: una sorta di 'socialismo della classe media'. L'autore sottolinea anche, più in generale, l'incompatibilità fra la pianificazione centralizzata dell'economia, pur spinta dal desiderio di creare una società egualitaria, e la libertà individuale. Questo testo, pubblicato dalla casa editrice Routledge nel marzo 1944, venne scritto tra il 1940 e il 1943 e prese il suo nome dall'opera del pensatore liberale francese Alexis de Tocqueville, Road to servitude. Venne pubblicato negli Stati Uniti nel settembre dello stesso anno. Il famoso periodico statunitense Reader's Digest ne pubblicò una versione abbreviata nell'aprile 1945, che ebbe un'ampia diffusione e venne accolto con favore dall'opinione pubblica.

Gli anni in America

Nel 1950 l'Università di Chicago lo invitò a far parte del suo corpo docente, ma la Facoltà di Economia si oppose giudicando The Road to Serfdom un testo troppo popolare. Venne quindi invitato ad insegnare scienza morale e sociale nell'ambito del Committee on Social Thought e lasciò la London School of Economics and Political Science. Contemporaneamente il suo interesse si spostò dall'economia alla filosofia politica e alla psicologia, anche se continuò a scrivere saggi economici.

Dopo aver commentato nel 1955 diversi scritti di John Stuart Mill, von Hayek iniziò a scrivere un'altra sua opera fondamentale, The Constitution of Liberty. Lavorò su questa opera per quattro anni, fino al maggio 1959. Nel febbraio 1960 venne pubblicata. Von Hayek spedì una copia all'ex presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower e al vice in carica in quegli anni, Richard Nixon.

Il ritorno in Europa ed il Nobel

Dal 1962, fino al suo ritiro del 1968, fu docente all'Università di Friburgo. Fu in questo periodo che cominciò la stesura di Law, Legislation and Liberty, opera divisa in tre volumi, pubblicati nel 1973, 1976 e 1979.

Nel 1974, a seguito della vittoria del Premio Nobel per l'economia, aumentò l'interesse generale intorno alla scuola austriaca. Nel 1984 divenne membro dell'Order of the Companions of Honour (Ordine dei Compagni di Onore) di Elisabetta II del Regno Unito, su decisione dell'allora Primo Ministro britannico Margaret Thatcher per il suo "servizio agli studi economici". Successivamente divenne professore onorario dell'Università di Salisburgo. Nel 1991 ottenne dal presidente degli Stati Uniti George H. W. Bush la Presidential Medal of Freedom, ovvero una delle maggiori onorificenze civili degli Stati Uniti.

La morte

Morì il 23 marzo 1992 a Friburgo, in Germania.

Pensiero

Teoria del ciclo economico

Il ciclo economico e le sue cause ebbero un ruolo fondamentale nell'intera opera di von Hayek. Partendo dall'opera misesiana Theory of Money and Credit (1912), nella quale l'economista austriaco applicò il concetto di utilità marginale alla moneta, utilizzando anche le teorie della Currency School, di Carl Menger (principio di imputazione), di Eugen von Böhm-Bawerk (periodo medio di produzione), di Knut Wicksell (effetti del tasso d'interesse sui prezzi), di Tugan-Baranovsky e di Spiethoff (teoria della sproporzione), von Hayek teorizzò un'interpretazione del ciclo economico, interpretazione diventata famosa come teoria austriaca del ciclo economico. In Prices and Production (1931) e The Pure Theory of Capital (1941) von Hayek sostenne che i cicli economici sono il frutto dell'espansione del credito artificiosa, ossia non legata ad un effettivo aumento del risparmio, effettuata dalle Banche centrali che, a causa di tassi tenuti artificialmente bassi, causa il cosiddetto malinvestment, ossia una collocazione non ottimale degli investimenti.

Tale teoria fu molto criticata da diversi economisti, soprattutto neoclassici e keynesiani.

Il problema del calcolo economico

Von Hayek è stato uno dei maggiori avversari del collettivismo della storia del pensiero economico. Sosteneva che qualsiasi sistema basato su qualsiasi forma di collettivismo si sarebbe dovuto basare per sopravvivere su un'autorità centrale di qualunque tipo. In The Road to Serfdom, e nei suoi successivi lavori, von Hayek affermò che un sistema puramente socialista richiede un piano economico centrale e ciò, secondo von Hayek, porta inevitabilmente a forme di totalitarismi, perché avrà bisogno di sempre maggiore forza per controllare e dirigere la vita socio-economica di un paese, e perché tutte le informazioni relative ad un qualsiasi sistema sono necessariamente decentralizzate.

Von Hayek, come diversi economisti prima di lui, tra cui von Mises, sostiene inoltre che qualsiasi economia centralizzate e pianificata, ossia decisa a tavolino da un individuo o da un gruppo di individui, i quali decidono la distribuzione delle risorse, è perdente in partenza, in quanto un unico individuo o un gruppo di individui, dall'alto della loro posizione centrale e centralizzata, non hanno abbastanza informazioni per creare un'allocazione ottimale delle risorse. Secondo von Hayek, l'unico sistema in grado di dare un'allocazione ottimale alle risorse è il sistema di prezzi liberi tipico del libero mercato. In The Use of Knowledge in Society, von Hayek spiegò come il meccanismo di prezzi liberi consenta l'unione e la condivisione di conoscenze locali e personali, attraverso il principio di auto-organizzazione. Von Hayek ideò il termine catallaxy (catallassi) per descrivere un "sistema auto-organizzativo di cooperazione volontaria".

Nella visione di von Hayek, il ruolo destinato allo Stato è il mantenimento dello Stato di diritto, accompagnato da un interventismo il più limitato possibile.

Ordine spontaneo

Von Hayek, in merito al sistema dei prezzi liberi, sosteneva che tale sistema non sia il frutto di interventi umani volontari, bensì di azioni umane involontarie e spontanee. Sosteneva che "esso sia il risultato di azioni umane ma non di progetti umani". Von Hayek mette il meccanismo dei prezzi allo stesso livello, per esempio, a quello del linguaggio. Secondo von Hayek "il meraviglioso sistema dei prezzi è un meccanismo perfetto per comunicare informazioni con la velocità del vento anche nelle regioni più remote".

In The Fatal Conceit von Hayek attribuiva la civilizzazione all'espansione della proprietà privata.

La demarchia

Von Hayek contrappone gli odierni modelli di ordinamento democratico, che egli reputa oggetto di una degenerazione, ad un ipotetico modello demarchico da lui prefigurato, analizzando quella che secondo lui è una diversità di prospettiva di fondo nell'approccio alla politica sottesa nel significato etimologico dei due termini. La sua proposta, chiamata appunto demarchia, è di carattere minarchico (dal greco potere minimo) in cui il potere dello Stato è ridotto al minimo per evitare ingerenze lesive della libertà del cittadino e la costituzione di caste-gruppi oligarchici al potere. La proposta è descritta in opere quali Legge, legislazione e libertà e Libertà economica e governo rappresentativo.

Filosofia politica, sociale e della scienza

Nell'ultima parte della sua carriera von Hayek si concentrò su temi riguardanti la filosofia politica e sociale, temi che forniranno le basi per la sua visione in merito ai limiti delle conoscenze umane, e del cosiddetto ordine spontaneo. L'economista austriaco ha sempre sostenuto la bontà di una società basata su un ordine di mercato, nella quale lo Stato abbia soprattutto il compito di mantenere l'ordine legale necessario per permettere un mercato libero e pacifico tra individui. Queste idee derivarono dalla filosofia morale tratta dai contributi epistemologici riguardanti i limiti delle conoscenze umane.

Nella sua filosofia della scienza, non dissimile da quella dell'amico Karl Popper, von Hayek fu molto critico nei confronti dello scientismo: una falsa comprensione dei metodi della scienza che ha erroneamente forzato le scienze sociali, e che è in pratica l'esatto contrario della vera scienza. A tale teoria von Hayek contrappone una visione della scienza del tutto diversa, composta da un complesso di variabili imprevedibili e non di fenomeni lineari. In The Counter-Revolution of Science: Studies in the Abuse of Reason von Hayek espone pienamente questa teoria, definita in saggi successivi come "Degrees of Explanation" e "The Theory of Complex Phenomena".

Von Hayek e il conservatorismo

Von Hayek tornò alla ribalta tra gli anni ottanta e novanta del Novecento con l'ascesa al governo degli Stati Uniti e del Regno Unito di partiti di ispirazione conservatrice. Il Primo Ministro britannico in carica dal 1979 al 1990, Margaret Thatcher, dichiarò più volte di avere in von Hayek il suo punto di riferimento filosofico. La Thatcher, dopo aver vinto le elezioni del 1979, decise di nominare Segretario di Stato per l'industria Keith Joseph, ovvero il presidente dell'Hayekian Centre for Policy Studies. Lo stesso fece Ronald Reagan, il quale scelse diversi economisti hayekiani tra i suoi consiglieri economici.

Von Hayek, in appendice a The Constitution of Liberty, scrisse un saggio intitolato Why I Am Not a Conservative, nel quale screditò il conservatorismo per la sua inadeguatezza all'adattamento ai cambiamenti delle relazioni umane. La sua critica era diretta soprattutto a quello di stampo europeo, il quale spesso ritiene il libero mercato nemico della stabilità sociale e dei valori tradizionali. Von Hayek si identificava come classical liberal, ma, dato l'utilizzo ormai molto diffuso negli Stati Uniti della parola liberal, in riferimento anche a tendenze di sinistra, è spesso indicato come libertarian, anche se la sua definizione preferita è old whig, definizione presa in prestito da Edmund Burke. Nell'ultima parte della sua vita von Hayek diceva: "Sono diventato un whig burkeniano".

Influenze e riconoscimenti

Nel 1947 von Hayek fu il maggiore organizzatore della Mont Pelerin Society, uno dei maggiori gruppi al mondo di classical liberals. Ebbe un ruolo molto importante anche nella creazione dell'Institute of Economic Affairs, think tank di orientamento liberale ispirato al thatcherismo. Nel suo discorso alla cerimonia del Premio Nobel, vinto nel 1974, von Hayek, che enfatizzò nei suoi studi la fallibilità delle limitate conoscenze umane in temi sociali ed economici, espresse i suoi timori in merito alla graduale trasformazione dell'economia a semplice scienza, al pari della fisica, della chimica o della medicina.

Per von Hayek fu molto importante l'amicizia con il filosofo Karl Popper. Le due grandi menti si influenzarono a vicenda, e nel 1944 Popper, in una lettera diretta a von Hayek, scrisse: "Penso di aver appreso da te più di quanto qualsiasi altro pensatore mi abbia trasmesso, a parte Alfred Tarski". Popper dedicò a von Hayek la pubblicazione intitolata Conjectures and Refutations (1963); successivamente von Hayek ricambiò il favore dedicando a Popper Studies in Philosophy, Politics, and Economics, e scrivendo che "sin dalla pubblicazione del 1934 di Logik der Forschung aderì completamente alla teoria generale metodologica popperiana". Popper partecipò anche all'inaugurazione della Mont Pelerin Society.

Solo negli ultimi tempi il rapporto personale e intellettuale tra Hayek e Popper è stato oggetto di analisi critiche.. Il fatto che i due amici (come diventarono dopo la chiamata, grazie all'impegno di Hayek, di Popper alla London School of Economics), si criticassero raramente nelle loro pubblicazioni è sicuramente riconducibile a due fattori. Il primo è che avevano scoperto di condividere un approccio generale e critico nei confronti dei vari totalitarismi. Le loro critiche, pubblicate, tra l'altro, nel The Road to Serfdom di Hayek e nel The Poverty of Historicism e The Open Society and Its Enemies di Popper, condividono, per esempio, l'idea che le ideologie del nazismo e del socialismo si basano su una metodologia sbagliata. Hayek e Popper si sentirono uniti nella loro lotta al totalitarismo e devono aver giudicato che un approfondimento sulle pagine delle riviste scientifiche e filosofiche avrebbe indebolito questa loro causa comune. Il secondo fattore è che Popper era profondamente grato nei confronti di Hayek per avergli salvato la vita intellettuale, come scrive a più riprese nelle sue lettere ad Hayek; grazie ad Hayek The Open Society e The Poverty furono pubblicati (non senza fatica) e, grazie ad Hayek, Popper fu chiamato alla London School of Economic quando aveva già quasi abbandonato la speranza di lasciare la Nuova Zelanda, dove, prima della Seconda guerra mondiale, aveva trovato una cattedra che gli aveva consentito di emigrare dall'Austria, grazie allo stesso Hayek. Popper deve aver giudicato che una critica pubblica al pensiero di Hayek sarebbe stato interpretato come un atto di ingratitudine.

Dopo aver influenzato l'approccio all'economia di Margaret Thatcher e in parte di Ronald Reagan, von Hayek negli anni novanta divenne uno degli economisti più influenti e rispettati nell'Europa orientale.

L'influenza del pensiero hayekiano sulle teorie economiche e, soprattutto, sociali e filosofiche moderne è innegabile. Ad esempio, la pubblicazione del 1944 di The Road to Serfdom, influenzò molto oppositori del postmodernismo. Anche il matematico John Nash, Premio Nobel per l'economia nel 1994, ha dichiarato di essere stato influenzato dalle teorie economiche hayekiane.

Anche dopo la sua morte la "presenza" del suo pensiero, specialmente nelle università dove insegnò, è evidente. Alla London School of Economics and Political Science e alla Oxford University è stata creata in suo onore la Hayek Society. Il Cato Institute, think tank per il quale scrisse von Hayek, ha dedicato il suo auditorium all'economista austriaco. La stessa cosa è avvenuta alla Universidad Francisco Marroquín di Città del Guatemala.

Von Hayek è stato citato diverse volte nella recente serie andata in onda sulla BBC, The Trap.

Al di là dell'influenza sui pensatori citati, Hayek è stato fonte di ispirazione anche per professionisti in diversi campi. Per esempio, il suo pensiero ha avuto un'influenza diretta sulla nascita e lo sviluppo di Wikipedia. In un’intervista apparsa sulla rivista Reason, Jimmy Wales, il fondatore di Wikipedia, ha dichiarato di aver tratto l'idea di un'enciclopedia emergente "dal basso" dall'articolo del 1945 in cui Hayek enfatizzava il carattere disperso della conoscenza e, di conseguenza, l'impossibilità di organizzare in maniera centralizzata l’economia di un Paese. A questo proposito, Wales ha scritto che «il lavoro di Hayek sulla teoria dei prezzi è centrale alla mia riflessione su come gestire il progetto Wikipedia [...] Non si possono comprendere le mie idee in merito a Wikipedia se non si comprende Hayek».

Le critiche

Alcuni argomentano, nonostante abbia ricevuto il Nobel per l'Economia anziché per la Pace, che Hayek sia ricordato più per i contributi alla teoria politica che per quelli alla teoria economica. In una intervista ad Alan Elbestein, Milton Friedman, Premio Nobel per l'economia nel 1976, disse:

« Sono un fervente ammiratore di Hayek, ma non per la sua teoria economica. Credo che Prices and Production contenga molti errori. Credo che il suo libro sulla teoria del capitale sia illeggibile. D'altra parte, The Road to Serfdom è uno dei grandi libri del nostro tempo. »

(Citato da Roger Garrison, [1])

Sul piano politico, von Hayek è stato spesso messo sotto accusa tanto da autori liberali, quanto da autori di stampo marxista.

I socialisti l'hanno spesso accusato di avere una visione conservatrice dell'economia. A discapito delle sofisticate argomentazioni che usa per sostenere le sue posizioni, avrebbe considerato il "liberismo come un dogma" e si sarebbe fatto condizionare dalla sua stessa ideologia.

Eric Hobsbawm in merito a von Hayek scrisse:

« Uomini come Hayek non si erano mai mostrati pragmatici... In realtà personaggi come Hayek erano i fedeli di una religione economica. »

(Il secolo breve)

A sostegno di queste affermazioni i suoi critici osservano che nemmeno la crisi economica del 1929 incise sulla sua idea che lo Stato non dovesse intervenire nell'economia.

Per questi motivi von Hayek viene accusato spesso di essere il padre del cosiddetto "fondamentalismo di mercato". Margaret Thatcher, dichiarò che von Hayek era il suo punto di riferimento intellettuale.

Alcuni hanno tuttavia ritenuto che il neoliberismo fosse una perversione e una volgarizzazione delle idee di von Hayek piuttosto che la messa in pratica delle sue teorie economiche.

George Soros, un finanziere molto critico nei riguardi del libero mercato ma ammiratore di von Hayek, paragonandolo al filosofo liberale Karl Popper ha scritto:

« Friedrich von Hayek, le cui idee sono state volgarizzate dai fondamentalisti del mercato dell'ultimo minuto, era un deciso assertore della società aperta. Sia lui che Popper volevano proteggere la libertà dell'individuo dalle minacce che provenivano da dottrine collettivistiche quali il nazionalsocialismo e il comunismo; le loro opinioni divergevano solo su quali fossero i mezzi idonei... Von Hayek riponeva la sua fiducia nel meccanismo del mercato perché temeva le impreviste conseguenze negative dei controlli pubblici. La sua preoccupazione è stata spinta all'estremo da parte dei suoi seguaci della Scuola di Chicago. La ricerca dell'interesse egoistico è stata eretta a principio universale che permea di sé tutti gli aspetti dell'esistenza »

Anche Hobsbawm, pur attaccando von Hayek, non lo assimila a quelli che chiama "i volgari propagandisti occidentali del sistema capitalistico durante la guerra fredda".

Von Hayek scrisse comunque un saggio per distinguere nettamente la sua posizione da quella dei conservatori, intitolato appunto Perché non sono un conservatore (Why I Am Not a Conservative), incluso in appendice al suo libro The Constitution of Liberty.

Von Hayek è stato molto contestato anche da autori della destra radicale, che hanno visto in lui un difensore di quella modernità capitalista che mette in discussione le comunità tradizionali, le nazioni storiche, i legami di sangue ed etnia. Per Alain de Benoist (forse il massimo esponente della Nouvelle Droite francese), ad esempio, vi sarebbe in von Hayek una "tendenza darwinista assai contestabile".

Il pensiero hayekiano, infine, è stato aspramente contestato anche da autori di orientamento libertario (Hans-Hermann Hoppe, Walter Block, Enrico Colombatto, Anthony de Jasay, Murray N. Rothbard e altri), che hanno evidenziato le incertezze di un liberalismo non sempre disposto a denunciare l'illegittimità dello Stato e di ogni azione che aggredisca l'individuo e minacci l'autonomia del libero mercato e l'ordine giuridico basato sulla proprietà privata.

Joseph Schumpeter

Joseph Alois Schumpeter (Třešť, 8 febbraio 1883 – Taconic, 8 gennaio 1950) è stato un economista austriaco, tra i maggiori del XX secolo.

Teoria ed opere

Equilibrio e sviluppo

L'apporto più originale e caratterizzante dato da Schumpeter alla teoria economica è, probabilmente, costituito dalla sua concezione dello sviluppo. Opera che, nonostante la sua geniale originalità, non supera le difficoltà del paradigma neoclassico che lo stesso Schumpeter intendeva risolvere.

Nella sua opera prima, L'essenza e i contenuti fondamentali dell'economia teorica (1908), aveva sostenuto l'affinità dell'economia alle scienze naturali, sostenendo che il suo studio dovesse essere tenuto separato da quello delle scienze sociali. Seguiva così le concezioni di Léon Walras, l'economista da lui più stimato, padre della prima formulazione completa della teoria di equilibrio economico generale, secondo cui il sistema economico si adattava ai fattori esogeni (istituzioni, evoluzioni politiche, eventi storici, ecc.) ed endogeni (preferenze dei consumatori, sviluppo tecnico, ecc.), tendendo all'equilibrio. Ma Schumpeter andò oltre: con il basilare Teoria dello sviluppo economico (1912), l'economista austriaco aggiunse a questo approccio "statico", un approccio "dinamico", adatto a spiegare la realtà dello sviluppo. Ecco l'originale definizione di sviluppo data da Schumpeter: «Ogni produzione consiste nel combinare materiali e forze che si trovano alla nostra portata. Produrre altre cose o le stesse cose in maniera differente, significa combinare queste cose e queste forze in maniera diversa».
In un'ipotetica economia basata sul modello statico, i beni vengono prodotti e venduti secondo la mutevole domanda dei consumatori ed il ciclo economico assorbe le influenze della storia, ma i prodotti scambiati rimangono sempre gli stessi, le strutture economiche non mutano, eccetera. Schumpeter fa notare che questo modello di economia non corrisponde alla realtà e lo supera con il già menzionato approccio "dinamico", in cui un nuovo soggetto, l'imprenditore, introduce nuovi prodotti, sfrutta le innovazioni tecnologiche, apre nuovi mercati, cambia le modalità organizzative della produzione. L'imprenditore può fare questo in quanto dispone dei capitali messigli a disposizione dalle banche, che remunera con l'interesse, ossia una parte del profitto aggiuntivo realizzato grazie all'innovazione.

La teoria delle innovazioni consente a Schumpeter di spiegare l'alternarsi, nel ciclo economico, di fasi espansive e recessive. Le innovazioni, infatti, non vengono introdotte in misura costante, ma si concentrano in alcuni periodi di tempo - che, per questo, sono caratterizzati da una forte espansione - a cui seguono le recessioni, in cui l'economia rientra nell'equilibrio di flusso circolare. Un equilibrio però, non uguale a quello precedente, ma mutato dall'innovazione. Le fasi di trasformazione sotto la spinta di innovazioni maggiori vengono definite da Schumpeter di "distruzione creatrice", alludendo al drastico processo selettivo che le contraddistingue, nel quale molte aziende spariscono, altre ne nascono, e altre si rafforzano.

Le opere del periodo americano

Abbandonata nel 1932, anche se non per motivi eminentemente politici, una Germania che stava per cadere nel nazismo (il 30 gennaio 1933 Hitler diverrà cancelliere) a favore degli Stati Uniti e dell'Università Harvard, Schumpeter continuò ad affinare le sue teorie anche nella nuova sede americana.

Del 1939 è l'uscita di Cicli Economici, in cui rielabora e perfeziona i concetti già espressi nella Teoria dello sviluppo economico. Il ciclo economico si scompone così in diversi momenti (espansione, recessione, depressione, ripresa), che operano su diverse scale temporali, le cosiddette "onde", a seconda dell'importanza delle innovazioni introdotte. Così le innovazioni davvero epocali (macchina a vapore, petrolio, ecc.) si susseguono a cicli particolarmente lunghi, intorno ai cinquanta anni (cicli Kondratiev), quelle di valore intermedio esauriscono il ciclo in tempi minori (cicli Juglar) e così a discendere, fino a quelle di valore minimo (cicli Kitchin).

Il 1942 è l'anno di Capitalismo, socialismo, democrazia. Si tratta di un'opera in cui convivono diversi ambiti economici, politici e sociologici. Schumpeter la inizia ponendo i confini tra la sua teoria e quella marxiana. Per Marx, come per l'economista austriaco, il capitalismo si sviluppa in fasi cicliche per fattori interni (peraltro, diversi: il plusvalore per il primo, l'innovazione per il secondo) e, per entrambi, è destinato ad essere sostituito dal socialismo. Schumpeter rifiuta però la concezione di Marx delle istituzioni sociali come mere sovrastrutture dei rapporti di produzione e, soprattutto, non concorda con il filosofo di Treviri circa le cause per cui il capitalismo entrerà in crisi irreversibile. Per Schumpeter sarà, infatti, proprio il successo del capitalismo a renderne inevitabile il declino. Con il processo di distruzione creatrice che la caratterizza, l'economia borghese sostituisce i vecchi modi di produrre e pensare, promuovendo lo sviluppo, ma distrugge anche i valori tipici dell'ancien régime, importante supporto alla stabilità. Soprattutto - e qui si arriva alla geniale intuizione di Schumpeter - mentre nella grande impresa capitalistica il ruolo dell'imprenditore, creativo e diretto all'innovazione, verrà sempre più sostituito dalla mentalità burocratica e tendente all'immobilismo dei manager, nella società si affermeranno, ad opera degli intellettuali, valori contrari allo sviluppo capitalistico, facendo sì che i capitalisti stessi prima si vergognino del proprio ruolo ed, infine, rinuncino ad esso. A quel punto, una qualsiasi forma di socialismo sarà l'inevitabile esito del capitalismo monopolistico, o meglio, della eutanasia di quest'ultimo. Il passaggio al socialismo non avverrà, infatti, a mezzo di una rivoluzione violenta, come profetizzato dai marxisti e realizzato dai bolscevichi, ma con un processo graduale, per vie parlamentari - ogni accelerazione rivoluzionaria, come quella sovietica, avrebbe unicamente causato innumerevoli lutti - e darà vita ad un sistema socialista compatibile con la democrazia, in cui si vedrà la concorrenza di gruppi corporativi, non più regolata dal mercato, bensì dallo stato. A proposito di quest'opera, Schumpeter dichiarò non aver inteso scrivere un manifesto politico (era, del resto, un conservatore e non nutriva alcuna simpatia per il socialismo), ma semplicemente un'analisi sociale.

L'ultima opera importante, Storia dell'analisi economica, uscì postuma, nel 1954, curata dalla vedova Elizabeth Boody e dagli allievi Richard M. Goodwin e Paul Sweezy.

Paul Samuelson

Paul Anthony Samuelson (Gary, 15 maggio 1915 – Belmont, 13 dicembre 2009) è stato un economista statunitense, vincitore della John Bates Clark Medal nel 1947 e del premio Nobel per l'economia nel 1970, «per l'opera scientifica attraverso la quale ha sviluppato la teoria economica statica e dinamica, e contribuito attivamente ad aumentare il livello dell'analisi nella scienza economica».

Biografia

Samuelson conseguì il Bachelor's degree all'università di Chicago nel 1935, e il PhD alla Harvard University nel 1941. Fu, insieme a Paul Sweezy, uno dei migliori allievi di Joseph Schumpeter (tanto che questo era solito chiamare Sweezy "Sir Galaad" e Samuelson "Mago Merlino").

Rifiutato dalla facoltà di Economia di Harvard, sembra per le sue origini ebraiche, si trasferì al Massachusetts Institute of Technology, dove fondò la facoltà di economia, nella quale ha insegnato per anni.

Il 13 dicembre 2009 Paul Samuelson è morto all'età di 94 anni a Belmont, in Massachusetts.

Ambiti di lavoro

Ha lavorato in numerosi campi, tra i quali:

Economia del benessere, in cui rese popolari le condizioni di Lindahl-Bowen-Samuelson, un criterio per valutare se una data azione andrà a vantaggio del welfare;

Scienza delle finanze, in cui è particolarmente noto per il suo lavoro sull'allocazione ottima delle risorse in presenza di beni pubblici (Modello di Samuelson);

Economia internazionale, in cui ha influenzato lo sviluppo di due importanti modelli del commercio internazionale: l'effetto Balassa-Samuelson e il modello di Heckscher-Ohlin (tramite il teorema di Stolper-Samuelson).

È, inoltre, l'autore della Teoria della preferenza rivelata e di un influente manuale, Economics, pubblicato per la prima volta nel 1948, e regolarmente aggiornato per i successivi cinquanta anni.

A proposito del suo contributo alla scienza economica, nelle motivazioni per l'attribuzione a Samuelson del Premio Nobel per l'economia, si legge:

« In generale, il contributo di Samuelson è che, più di ogni altro economista contemporaneo, ha contribuito a innalzare il livello analitico e metodologico generale nella scienza economica. In effetti, ha semplicemente riscritto considerevoli parti della teoria economica. Ha inoltre dimostrato la fondamentale unione tra problemi e tecniche analitiche in economia, in parte tramite una sistematica applicazione dei metodi della massimizzazione a un ampio insieme di problemi. Ciò significa che i contributi di Samuelson si estendono a un gran numero di ambiti diversi. »

Termodinamica ed economia

Samuelson è stato il primo economista ad applicare i principi dell'equilibrio termodinamico all'economia. Samuelson ha studiato ad Harvard con Joseph Schumpeter, Wassily Leontief, Gottfried Haberler, e il "Keynes americano" Alvin Hansen. Inoltre, Samuelson era l'unico protegé di Edwin Bidwell Wilson, un matematico che, a sua volta, era stato l'unico protetto di Willard Gibbs, il fondatore della termodinamica chimica, che fu anche mentore dell'economista americano Irving Fisher: Gibbs ebbe una grande influenza nelle loro idee a proposito dell'equilbrio dei sistemi economici.

La monumentale opera di Samuelson del 1947, Foundations of Economic Analysis, tratta dalla sua dissertazione di dottorato, si basa sui metodi della termodinamica classica di Willard Gibbs, in particolare sul lavoro del 1874 di Gibbs Sull'equilibrio di sostanze eterogenee.

Nel 1947, basandosi sul principio termodinamico di Le Chatelier, che gli era stato illustrato da Wilson nel corso di un seminario, ha fondato il metodo della statica comparativa in economia. Il metodo spiega i cambiamenti delle soluzioni di equilibrio del problema di massimizzazione vincolato (in economia o termodinamica) quando uno dei vincoli è marginalmente irrigidito e rilassato. Il principio di Le Chatelier è stato stabilito dal chimico francese Henri Louis le Chatelier, che fu anche uno dei primi a tradurre in francese i lavori di Gibbs sull'equilibrio (1899). L'uso che fa Samuelson del principio di Le Chatelier si è dimostrato uno strumento potente ed è stata largamente utilizzato nelle teorie economiche moderne. I tentativi di stabilire analogie tra teoria economica neoclassica dell'equilibrio e la termodinamica risalgono a Guillaume e Samuelson.

Citazioni

« Gli economisti hanno correttamente previsto nove tra le ultime cinque recessioni. »

« Investire è un po' come aspettare che la vernice asciughi o l'erba cresca. Se volete delle emozioni, prendete 800$ e andate a Las Vegas. »

« La moneta, in quanto moneta e non in quanto merce, è voluta non per il suo valore intrinseco, ma per le cose che consente di acquistare. »

Paul Sweezy

Paul Marlor Sweezy (New York, 10 aprile 1910 – 27 febbraio 2004) è stato un marxista ed economista statunitense. Fu un autorevole economista marxista, noto in Italia soprattutto per il suo saggio Il capitale monopolistico, tradotto nel 1968.

Gli studi universitari

Sweezy studiò all'Università Harvard, dove si laureò nel 1931. Dopo la laurea frequentò per un anno la London School of Economics, dove venne avvicinato al marxismo dalle lezioni di Harold Laski, esponente di primo piano del Partito Laburista, e dalla lettura della Storia della rivoluzione russa di Lev Trockij. Tornato alla Harvard, tenne dei corsi sull'economia dei paesi socialisti e le teorie economiche socialiste (cristiane, fabiane e marxiste) e fu assistente di Joseph Schumpeter. Conseguì il dottorato nel 1937, discutendo la tesi Monopoly and Competition in the English Coal Trade, 1550-1850. Lasciò l'insegnamento nel 1942 per arruolarsi e lavorò fino al 1945 presso la divisione di ricerca e analisi dell'Office of Strategic Services (da cui poi deriverà la CIA).

Sono da ricordare, di questo periodo, i suoi studi sul monopolio e sull'oligopolio e il suo libro sulla teoria dello sviluppo capitalistico, nel quale affronta il problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione e le teorie marxiste delle crisi.

La fondazione della Monthly Review

Finita la guerra, la sua carriera universitaria risultò ostacolata dalle sue posizioni marxiste. Sweezy fondò quindi nel 1949, con Leo Huberman, la Monthly Review. An Independent Socialist Magazine, una rivista definita "indipendente" in quanto non legata ad alcun partito (allora i partiti comunisti erano "dipendenti" da Mosca), che esercitò notevole influenza sulla "Nuova Sinistra" americana ed inglese e sui movimenti "antimperialisti" di molti paesi. Il primo numero ospitava, tra gli altri, un articolo di Albert Einstein intitolato Perché il socialismo?.

Nel 1952, quando il giornalista I.F. Stone cercava invano un editore per pubblicare un libro che contestava la versione ufficiale circa la guerra di Corea, Sweezy e Leo Huberman fondarono la casa editrice Monthly Review Press, che ha poi pubblicato testi come Lavoro e capitale monopolistico di Harry Braverman, Capitalismo e sottosviluppo in America Latina di Andre Gunder Frank, Lo sviluppo ineguale di Samir Amin.

Nel 1954 il Procuratore Generale del New Hampshire citò Sweezy in giudizio in merito alle sue opinioni politiche e alle associazioni cui partecipava, chiedendogli di fare i nomi di altri associati, ma Sweezy rifiutò invocando la libertà di espressione tutelata dal Primo Emendamento. Fu condannato per oltraggio alla corte, ma presentò appello e la Corte Suprema lo prosciolse nel 1957.

Il capitale monopolistico

Nel 1966 Sweezy pubblicò con Paul A. Baran la sua opera più importante, Il capitale monopolistico, dedicata a Che Guevara. In quest'opera gli autori sostengono che l'economia delle grandi imprese non segue i principi della concorrenza perfetta. Le grandi imprese sono in grado di imporre il prezzo di vendita dei loro prodotti, anche perché evitano di farsi concorrenza sul terreno dei prezzi, e di assorbire eventuali aumenti salariali aumentando i prezzi. Ne segue la capacità di realizzare profitti sempre più cospicui, ma anche la difficoltà crescente di convertire tali profitti in investimenti e consumi, con il conseguente loro impiego in spese per la promozione delle vendite, nella spesa pubblica, nel militarismo e nell'imperialismo. Tuttavia,

« La fatale domanda "per che cosa spendere?", a cui il capitalismo monopolistico non può trovare risposta nel campo della spesa civile, è surrettiziamente penetrata nello stesso apparato militare. Ma da tutte le indicazioni disponibili risulta chiaro che neppure qui essa può trovare risposta »

Ne segue, secondo gli autori, una ineliminabile tendenza alla stagnazione.

Paolo Sylos Labini

Paolo Sylos Labini (Roma, 30 ottobre 1920 – Roma, 7 dicembre 2005) è stato un economista italiano.

Biografia

Di origini pugliesi (il padre era di Bitonto, in prov. di Bari, emigrato poi a Roma; suo nonno fu parlamentare, nativo sempre di Bitonto), laureatosi nel 1942, si specializzò nelle Università Harvard (Massachusetts), dove fu allievo di Joseph Schumpeter, e Cambridge (Regno Unito). Nella sua carriera universitaria è stato professore di Economia presso le università di Sassari, di Catania, di Bologna e della Calabria. Nel 1962 divenne titolare della cattedra di Economia Politica all'Università "La Sapienza" di Roma , nella facoltà di Scienze Statistiche, Demografiche ed Attuariali.

Sylos Labini è stato socio dell'Accademia Nazionale dei Lincei dal 1991 , dell'Accademia delle Scienze di Torino, dell'Academie Europeenne, dell'Accademia Europea di Londra, dell'Associazione Economica Americana, nonché dell'associazione di economisti italiani chiamata "Gruppo del Buongoverno". Nel 1984 ha vinto il Premio Saint Vincent per l'Economia, nel 1986 il premio A.P.E., nel 1988 il Premio speciale per la Cultura, nel 1990 il Premio Giangiacomo Feltrinelli per l'Economia e nel 1994 il Premio Invernizzi.

È stato membro del Consiglio di amministrazione dell'Associazione per lo Sviluppo dell'Industria nel Mezzogiorno (SVIMEZ). Oltre all'impegno universitario, è stato rilevante il suo impegno politico: influenzato profondamente da Gaetano Salvemini, può essere considerato un liberalsocialista. Negli ultimi anni di vita è stato uno dei principali esponenti del movimento dei girotondi. Nell'ambito dei festeggiamenti per i 450 anni dell'Università di Sassari, la sua immagine è stata apposta all'esterno del Dipartimento di Economia, Impresa e Regolamentazione (ex facoltà di Economia) dell'Ateneo.

L'economista

«Economists around the world, from Cambridge to Cambridge and Osaka to Omaha, admire you for a lifetime of Schumpeterian innovation, Keynesian brilliance, Ricardian rigor, and Smithian realism». Quando Paul Samuelson scrive questa frase, nel suo messaggio pubblicato in apertura della raccolta di saggi presentati a Paolo Sylos Labini il giorno del suo settantacinquesimo compleanno, intende sottolineare la stima di cui gode fuori del suo paese, tra i suoi colleghi accademici, l'economista italiano scomparso il 7 dicembre 2005. In Italia, Sylos Labini non è solo il maestro riconosciuto di successive generazioni di economisti; è anche una persona pubblica stimata per il rigore morale e la ben documentata concretezza dei suoi interventi nei dibattiti politici.

Lo scontro con Andreotti

Nel 1974 Paolo Sylos Labini si dimise dal comitato tecnico-scientifico del Ministero del Bilancio, di cui faceva parte da circa dieci anni, quando Giulio Andreotti, ministro in carica per quel dicastero, nominò come sottosegretario Salvo Lima, che già all'epoca era comparso varie volte nelle relazioni della Commissione parlamentare antimafia ed era stato oggetto di quattro richieste di autorizzazioni a procedere nei suoi confronti.

Prima delle dimissioni, Sylos Labini sollevò il problema con l'allora Presidente del Consiglio Aldo Moro, il quale affermò di non poter fare nulla in quanto "Lima è troppo forte e troppo pericoloso". Sylos Labini si rivolse allora direttamente ad Andreotti, affermando: "O lei revoca la nomina di Lima, che scredita l'immagine del ministero, o mi dimetto". Andreotti non lo lasciò nemmeno finire e lo liquidò rinviando il discorso.

Lo scontro con Mancini

Nonostante Sylos Labini fosse molto vicino al Partito socialista italiano e amico di politici quali Antonio Giolitti e Giorgio Ruffolo, entrò in forte tensione contro l'esponente socialista Giacomo Mancini, ex-segretario del Partito, a causa del suo coinvolgimento con varie tangenti ricevute quando era Ministro dei Lavori Pubblici. Successivamente, prese sempre di più le distanze dal Partito socialista quando Bettino Craxi sviluppò la logica tangentizia che doveva portare a tangentopoli.

Lo scontro con Berlusconi

La battaglia contro Berlusconi ed il suo governo è stata appassionatamente vissuta negli ultimi anni di vita. Un passo fondamentale è sicuramente rappresentato dal famoso Appello contro la Casa delle libertà firmato nel febbraio del 2001 insieme con Norberto Bobbio, Alessandro Galante Garrone, Alessandro Pizzorusso, che cominciava con queste parole:

« È necessario battere col voto la cosiddetta Casa delle libertà. Destra e sinistra non c’entrano: è in gioco la democrazia [...]. A coloro che delusi dal centrosinistra pensano di non andare a votare diciamo: chi si astiene vota Berlusconi. Una vittoria della Casa delle libertà minerebbe le basi stesse della democrazia. »

Con Elio Veltri, Giulietto Chiesa, Achille Occhetto, Antonello Falomi e Diego Novelli ha fondato il Cantiere per il bene comune.

Grande depressione

« Le banche avevano ritirato improvvisamente dal mercato diciottomila milioni di dollari, cancellando le aperture di credito e chiedendone la restituzione »

(Emile Moreau, Governatore della Banca di Francia, 8 febbraio del 1928)




La grande depressione, detta anche crisi del '29, grande crisi o crollo di Wall Street, fu una grave crisi economica e finanziaria che sconvolse l'economia mondiale alla fine degli anni venti, con forti ripercussioni durante i primi anni del decennio successivo. La depressione ebbe origine da contraddizioni simili a quelle che avevano portato alla crisi economica del 1873-1895, mentre l'inizio si ebbe negli Stati Uniti con la crisi del New York Stock Exchange (la borsa di Wall Street) avvenuta il 24 ottobre del 1929 (giovedì nero), cui fece seguito il definitivo crollo (crash) della borsa valori del 29 ottobre (martedì nero), dopo anni di boom azionario.

La depressione ebbe effetti recessivi devastanti sia nei paesi industrializzati, sia in quelli esportatori di materie prime con un calo generalizzato della domanda e della produzione. Il commercio internazionale diminuì considerevolmente e con esso i redditi dei lavoratori, il reddito fiscale, i prezzi e i profitti. Le maggiori città di tutto il mondo furono duramente colpite, in special modo quelle che basavano la loro economia sull'industria pesante. Il settore edilizio subì un brusco arresto in molti paesi. Le aree agricole e rurali soffrirono considerevolmente in conseguenza di un crollo dei prezzi fra il 40 e il 60%. Le zone minerarie e forestali furono tra le più colpite, a causa della forte diminuzione della domanda e delle ridotte alternative d'impiego occupazionale.

Descrizione

Il contesto e la crisi negli USA


Dopo la Grande Guerra gli Stati Uniti conobbero un periodo di prosperità e progresso socio-economico trainato soprattutto dal settore automobilistico, che a sua volta fece da volano alla crescita trascinando con sé altri settori connessi e non come l'industria metallurgica, della gomma, il settore petrolifero, dei trasporti ed edile. Sembrava quindi essersi innescato un circolo virtuoso: l'alta produttività permetteva di mantenere inalterati i salari e i prezzi dei prodotti sul mercato. Questo favoriva quindi gli investimenti che permettevano a loro volta di aumentare la produttività. Tuttavia agli investimenti e al continuo aumento della produttività, non corrispose una proporzionata crescita del potere d'acquisto. Nei primi anni dopo il primo conflitto mondiale, lo sviluppo era stato infatti sostenuto dai risparmi accumulati negli anni della guerra e dai bassi tassi d'interesse.

Una seconda contraddizione interna all'economia statunitense era rappresentata dal sistema finanziario. Non furono infatti posti limiti alle attività speculative delle banche e della borsa valori, dovute alla volontà da parte degli acquirenti di detenere titoli, non tanto per ottenere dividendi e dunque profitti, quanto solo per aumentare il proprio capitale. In sostanza dunque si comperava per rivendere, senza preoccuparsi della qualità dei titoli e all'aumento di domanda dei titoli si accompagnò direttamente quella delle quotazioni. A tutto questo va aggiunta la responsabilità dei rappresentanti delle holding che detenevano portafogli d'azioni e che avevano quindi interesse che i corsi dei titoli si alzassero e per spingere i risparmiatori all'acquisto dei titoli effettuavano dichiarazioni troppo ottimistiche. L'aumento del valore delle azioni industriali, però, non corrispose a un effettivo aumento della produzione e della vendita di beni tanto che, dopo essere cresciuto artificiosamente per via della speculazione economica diffusasi a tutti i livelli in quegli anni, questo scese rapidamente e costrinse i possessori a una massiccia vendita, che provocò il noto crollo della borsa.

La caduta della borsa colpì soprattutto quel ceto di media borghesia che nel corso degli anni venti, oltre ad aver investito i propri risparmi in borsa, aveva sostenuto la domanda di beni di consumo durevole. La loro uscita dal mercato indeboliva, quindi, proprio le industrie produttrici di beni di consumo durevole (come quello dell'auto). Queste industrie cessarono di commissionare materiali a quelle operanti negli stessi settori dell'indotto, le quali dovettero ridurre il personale e i salari, provocando una contrazione a valanga anche nei settori dei beni primari di consumo (come quello agricolo).

La situazione era poi aggravata dalla stretta interconnessione che legava il settore industriale a quello bancario. Infatti, nel momento in cui la borsa crollò, si diffuse un'ondata di panico devastante tra i piccoli risparmiatori i quali si precipitarono nelle banche nel tentativo di salvare il proprio denaro. Il ritiro del denaro dal mercato provocò quindi una crisi di liquidità di ampie dimensioni e il fallimento di molte banche che trascinarono nella crisi le industrie nelle quali avevano investito. Molte di queste furono costrette a chiudere i battenti o a ridimensionarsi e i licenziamenti, operati dalle aziende in crisi, portarono a una elevata diminuzione delle domande di lavoro, bloccando quasi completamente l'economia americana.

Una volta innescata la crisi, a causa dell'aumento della disoccupazione e del parallelo calo dei consumi, questa assunse dunque i connotati di una crisi di sovrapproduzione cioè eccesso di offerta rispetto alla domanda con conseguente parallelo calo/ridimensionamento della produzione, che di pari passo scese di quasi il 50% tra il 1929 e il 1932.

La crisi fuori dagli USA


La grande crisi si propagò rapidamente fuori dagli USA e i primi furono tutti quei paesi che avevano stretti rapporti finanziari con gli Stati Uniti, a partire da quelli europei che si erano affidati all'aiuto economico degli americani dopo la Prima guerra mondiale, ovvero Gran Bretagna, Austria e Germania, dove il ritiro dei prestiti americani fece saltare il complesso e delicato sistema delle riparazioni di guerra, trascinando nella crisi anche Francia e Italia.

In tutti questi paesi si assistette a un drastico calo della produzione seguito da diminuzione dei prezzi, crolli in borsa, fallimenti e chiusura di industrie e banche, aumento di disoccupati (12 milioni negli USA, 6 in Germania, 3 in Gran Bretagna), il tutto aggravato anche dall'introduzione di misure protezionistiche come freno al libero scambio nel sistema economico globale.

Va notato che la crisi non colpì l'economia dell'URSS, la quale in quegli anni aveva inaugurato il suo primo piano quinquennale con l'obiettivo di creare una base industriale moderna. Restarono inoltre immuni dalla crisi anche il Giappone - che affrontò la crisi (inclusa la guerra) con misure inflazionistiche - e i Paesi scandinavi che, in quanto esportatori di particolari materie prime, non risentirono della riduzione della domanda dei loro prodotti.

Nel 1931 la Gran Bretagna abbandonò il gold standard, imitata subito dai paesi scandinavi. Nel 1934 sterlina e dollaro vennero fortemente svalutati.





























































































Cause

L'economista John Kenneth Galbraith ha individuato almeno cinque fattori di debolezza nell'economia americana responsabili dell'inizio della crisi:

cattiva distribuzione del reddito;

cattiva struttura, o cattiva gestione delle aziende industriali e finanziarie;

cattiva struttura del sistema bancario;

eccesso di prestiti a carattere speculativo (Margin);

errata scienza economica (perseguimento ossessivo del pareggio di bilancio e quindi assenza di intervento statale considerato un fattore penalizzante per l'economia).

Le cause della recessione internazionale

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Grafico della crisi di Wall Street del 1929 sul Dow Jones Industrial Average

Sul fronte internazionale, una prima causa di fragilità del sistema economico internazionale è insita nell'eredità dei debiti di guerra. Alla fine del conflitto infatti Gran Bretagna, Francia e Italia si erano ritrovate debitrici con gli Stati Uniti per somme ingenti, che costringevano tutte e tre a una politica di esportazioni molto aggressiva per procurarsi la valuta necessaria a pagare i debiti. Si era quindi fatta strada l'idea di adottare lo stesso espediente dell'indomani della guerra franco-prussiana, quando le riparazioni di guerra imposte alla Francia avevano permesso non solo di coprire il costo della guerra ma anche di consentire la ripresa economica. Perciò fu deciso di addebitare i costi bellici alla Germania.

L'industria tedesca, pur avendo un grande potenziale, era uscita dalla guerra stremata. Da allora gli stessi paesi vincitori, soprattutto gli Stati Uniti, si erano resi conto della necessità di sostenere l'economia tedesca con ingenti finanziamenti. Questi finanziamenti avevano creato un curioso triangolo in cui la Germania usava gran parte di queste risorse per pagare i debiti a Gran Bretagna e Francia, e queste a loro volta usavano i capitali per pagare i propri debiti. Dunque questo sistema sarebbe sopravvissuto fin quando gli USA fossero stati in grado di esportare capitali in Germania.

Un secondo elemento di fragilità del sistema economico internazionale era costituito dall'assenza di un Paese guida credibile, con la volontà e un'influenza tale da correggere eventuali crisi economiche globali. Dopo la Grande guerra il primato sarebbe dovuto passare in mano agli Stati Uniti, i quali, pur avendo un apparato industriale di gran lunga superiore a quello degli altri paesi, tuttavia non si impadronirono dello status internazionale che gli sarebbe spettato a causa di una politica isolazionista (status che rimase in mano alla Gran Bretagna). L'assenza di un'appropriata guida economico-finanziaria si rifletteva in modo drammatico sul sistema internazionale: nella conferenza di Genova del 1922 venne definito un sistema misto, noto come gold exchange standard, che da una parte garantiva respiro all'economia britannica, dall'altro affidava alla sua finanza un ruolo di regolatore dell'economia internazionale che non era in grado di assumere.

Il sistema economico globale

Tuttavia la causa principale che portò il crollo finanziario a diventare una depressione economica di enormi dimensioni ovvero quasi globale fu la chiusura delle economie nazionali e coloniali tramite misure protezionistiche con forte freno al libero commercio. Così come nella Grande depressione del 1873-95, furono infatti i dazi doganali a deprimere l'economia: alcuni stati producevano beni in surplus che però altri stati non acquistavano, poiché venivano resi troppo costosi dai dazi all'importazione imposti per favorire i produttori interni. Di conseguenza quando in un paese produttore un dato bene raggiunge livelli di saturazione, il prezzo scende tanto che non è più conveniente produrre quel bene, a meno di trovare nuovi mercati che possano assorbire parte delle merci. In definitiva quindi in assenza di nuovi mercati la produzione, pur mantenendo un potenziale valore, si ferma.

Ad esempio nella crisi degli anni 1873-95 il grano era il bene ideale: negli Stati Uniti vi era una sovrapproduzione di grano dovuta all'ampiezza degli spazi coltivati estensivamente e alla bassa densità di popolazione. I progressi tecnologici consentivano di trasportare il grano su distanze sempre più lunghe, cosicché gli USA iniziarono a esportare grano in Europa, che lo acquistava a prezzo più basso rispetto a quello locale. Questo danneggiava i proprietari terrieri europei, i quali imposero ai governi i dazi per bloccare le importazioni dall'America. Ciò produsse le seguenti conseguenze:

carenza di grano in Europa e quindi prezzi più alti;

eccedenza di grano in USA con conseguente abbandono di terre coltivate e disoccupazione;

mancato afflusso di beni dall'Europa all'America (coi quali veniva pagato il grano); tali beni potevano essere prodotti industriali o minerari o beni di lusso.

In definitiva:

al popolo europeo veniva a mancare il nutrimento a basso prezzo;

ai grandi coltivatori americani venivano a mancare quei beni "superflui" ma che erano l'incentivo alla produttività agricola;

i coltivatori americani più piccoli e i dipendenti restarono senza lavoro;

i beni "superflui" che restavano in Europa andavano alle classi agiate (anche agricole) locali, che li potevano acquistare a prezzo più basso rispetto al prezzo che avrebbero pagato gli americani;

i produttori europei di questi beni superflui vedevano anch'essi ridotte le loro entrate, il che li portava in alcuni casi al fallimento o al licenziamento dei dipendenti.

Come si vede questo circolo vizioso nuoce a tutti fuorché a una ristretta minoranza, ma in una visione più ampia nuoce anche a essa nella crisi economica generale. Lo stesso circolo vizioso che causò la crisi del 1873-95 è la causa principale di quella del 1929, ma con modalità differenti.

La crisi del 1873-95 aveva trovato sbocco con il colonialismo, grazie al quale si erano aperti nuovi mercati nei quali si poteva dirigere il commercio, sebbene ogni colonia commerciasse quasi esclusivamente con la propria nazione, essendo preclusi gli altri commerci tramite dazi che creavano sistemi commerciali isolati gli uni con gli altri. Quella che fu la soluzione alla crisi del 1873-95 portò a quella del 1929, e questo perché a un certo punto anche i mercati coloniali arrivarono al punto di saturazione (e in questo contesto come mercati coloniali si riconosce come tale anche il Sudamerica nei confronti degli Stati Uniti) e l'isolamento dei sistemi commerciali, imposto dai dazi, rese impossibile la diversificazione delle produzioni.

Quindi a causa di questo blocco del commercio si ritornò alla situazione del 1873-95, nella quale le industrie non trovavano sbocchi commerciali per le proprie merci o i prezzi erano tanto bassi da dover abbandonare la produzione, e al contempo i prezzi delle merci da comprare diventavano troppo alti. Con il crescere delle tensioni economiche, i dazi doganali furono l'arma con cui fu combattuta una guerra commerciale tra nazioni, guerra che da commerciale era divenuta militare negli anni 1914-18 e il cui risultato aveva ridato "ossigeno" all'economia globale per qualche anno in più, fino al 1929 appunto. Senza la Prima guerra mondiale la crisi del 1929 sarebbe arrivata molto prima. Se qualche anno prima lo scoppio delle ostilità aveva scongiurato l'imminente crisi (che rappresenta un grosso stimolo all'economia per la massiccia mobilitazione di risorse da parte dei governi), nel 1929 le condizioni internazionali non erano tali da scatenare una guerra. Ma una volta iniziata la Grande depressione, la soluzione venne spasmodicamente ricercata, fino a raggiungerla, nella seconda guerra mondiale, che aprì i mercati coloniali a tutte le nazioni in vista della futura e auspicata indipendenza delle colonie.

Soluzioni intermedie furono adottate durante gli anni Trenta; gli USA diedero l'esempio concedendo l'indipendenza o l'autonomia alle loro colonie (vari staterelli centroamericani e caraibici) , l'Inghilterra fece lo stesso col Trattato di Westminster, ma furono tutte soluzioni effimere.

La tesi "austriaca"

La Scuola austriaca ha elaborato una teoria in merito alle cause della Grande Depressione che si discosta nettamente dalla visione comune, almeno per ciò che concorre alla crisi iniziale interna statunitense.

L'economista appartenente a tale scuola che più di tutti ha trattato questo argomento è stato lo statunitense Murray N. Rothbard, che, nella pubblicazione La Grande Depressione datata 1963, ha esposto la sua teoria per cui la crisi del '29 sarebbe stata causata non dall'eccessivo libero mercato, come sostenuto da molti, bensì al contrario dall'eccessivo interventismo statale nell'economia americana a partire dagli anni dieci con il presidente Woodrow Wilson.

La causa principale secondo Rothbard sarebbe stata la politica monetaria tenuta dalla Federal Reserve a partire dalla sua creazione, nel 1913 (sebbene la Federal Reserve sia, come molte altre banche centrali, un organismo indipendente dal governo). La continua espansione del credito ottenuta attraverso tassi tenuti artificialmente bassi e il successivo inevitabile rialzo dei tassi avrebbe causato una reazione a catena che ha portato poi al famoso giovedì nero.

In sintesi, secondo la Scuola austriaca le cause della crisi del '29 furono la politica inflazionistica (permessa anche dall'abbandono del sistema aureo classico) della Federal Reserve iniziata negli anni Dieci (ossia all'inizio della Prima guerra mondiale) combinata con un eccessivo peso dello Stato culminato poi nel New Deal roosveltiano, che secondo gli austriaci non fu altro che la continuazione dell'interventismo del suo predecessore, Herbert Hoover.

Conseguenze politiche ed economiche

Il fallimento dei tentativi iniziali di trovare soluzioni comuni sul piano internazionale alla crisi spinse da una parte tutti i paesi a introdurre misure protezionistiche e a creare "aree economiche chiuse" (maggiore esempio fu il sistema di "tariffe preferenziali" fra gli Stati del Commonwealth britannico deciso nel 1931); dall'altra i governi furono indotti a sperimentare su vastissima scala forme di partecipazione diretta dello Stato alla vita economica nazionale. Effetti della Grande depressione negli Usa e nel Mondo:

Fame diffusa, povertà e disoccupazione;

Crisi economica a livello mondiale;

Vittoria dei Democratici in 1932 elezioni negli Usa.

Gli Stati svolsero così funzioni imprenditoriali (ricorrendo alla spesa pubblica come elemento strutturale e centrale della dinamica economica nazionale) e previdenziali (con l'attivazione di misure legislative di sicurezza sociale). Questo tipo di interventi, ad esempio il New Deal in USA e la fondazione dell'IRI in Italia, furono sistemizzati e teorizzati successivamente da John Maynard Keynes, da cui la definizione politiche keynesiane .

In Germania, che subì in particolare il contraccolpo più violento, la crisi provocò milioni di disoccupati che andarono poi a formare la base di consenso che portò il Partito nazista al potere nel 1933. Nel complesso, nonostante un accenno di ripresa a partire dal 1933, la crisi non fu completamente superata fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale.

Il Giappone si riprese continuando la sua politica di espansione imperialista, occupando la Manciuria e instaurando lo stato fantoccio del Manciukuò nel 1931, per poi riprendere l'espansione in Cina occupando la città di Shanghai e altre province. Iniziò così la guerra sino-giapponese, che sarà uno dei fronti della seconda guerra mondiale.

John Maynard Keynes

John Maynard Keynes, primo Barone Keynes di Tilton (/ˈkeɪnz/; Cambridge, 5 giugno 1883 – Firle, 21 aprile 1946), è stato un economista britannico, padre della macroeconomia e considerato uno dei più grandi economisti del XX secolo.

I suoi contributi alla teoria economica hanno dato origine a quella che è stata definita "rivoluzione keynesiana". In contrasto con la teoria economica neoclassica, ha sostenuto la necessità dell'intervento pubblico statale nell'economia con misure di politica di bilancio e monetaria, qualora una insufficiente domanda aggregata non riesca a garantire la piena occupazione.

Le sue idee sono state sviluppate e formalizzate nel dopoguerra dagli economisti della scuola keynesiana. A quest'ultima viene spesso contrapposta la scuola monetarista, che si originò nel dopoguerra dalle teorie di Milton Friedman.

Carriera

Studi


Figlio dell'economista di Cambridge John Neville Keynes e della scrittrice attivista per i diritti civili Florence Ada Brown, John Maynard Keynes frequenta l'elitaria scuola di Eton, distinguendosi in ogni ambito dei suoi inusitatamente vasti interessi. Viene in seguito ammesso al King's College, presso l'Università di Cambridge, al corso di matematica; il suo interesse per la politica lo conduce però presto a passare al campo dell'economia che studia, sempre a Cambridge, sotto la guida di Alfred Marshall e Arthur Cecil Pigou.

Gli anni dall'università alla conferenza di pace di Versailles

In cerca di una fonte di reddito, Keynes pospone la scrittura della tesi a Cambridge e partecipa al concorso per l'ammissione al civil service, qualificandosi secondo. Paradossalmente, consegue la votazione peggiore nella sezione dell'esame dedicata all'economia; commenterà in seguito questo risultato affermando che "gli esaminatori presumibilmente ne sapevano meno di me". Keynes accetta dunque un posto presso l'India Office, i cui impegni sono di entità tanto modesta che – affermò più tardi – il suo tempo si divide tra la lettura dei giornali e la corrispondenza privata.

Nello stesso periodo lavora alla stesura della tesi per l'università. Questa non sarà accettata, con la conseguenza che la fellowship vitalizia per Cambridge che normalmente ne deriverebbe non gli è assicurata. Accetta comunque un posto di lettore, finanziato personalmente da Alfred Marshall; da tale posizione comincia a costruire la propria reputazione di economista.

Dal 1912 è direttore dell'Economic Journal, la principale rivista accademica economica dell'epoca. Secondo una serie di aneddoti riportati da Gans e Shepherd (1994), diversi economisti che avrebbero in seguito acquisito una considerevole fama si vedono rifiutare la pubblicazione, apparentemente a causa di una valutazione troppo frettolosa dei loro contributi da parte di Keynes.

È presto assegnato alla Royal Commission on Indian Currency and Finance, una posizione che gli consente di mostrare il suo considerevole talento nell'applicare la teoria economica a problemi di ordine pratico. La sua provata abilità in tal senso, con particolare riferimento alle questioni riguardanti le valute e il credito, gli consente di diventare, alla vigilia della Prima guerra mondiale, consigliere del Cancelliere dello Scacchiere e del Ministero del Tesoro per le questioni economiche e finanziarie. Tra le sue responsabilità rientra la definizione dei rapporti di credito tra la Gran Bretagna e i suoi alleati continentali durante la guerra, nonché l'acquisizione di valute rare. Il "polso e la maestria [di Keynes] divennero leggendari", nelle parole di Robert Lekachman; ad esempio in una circostanza Keynes riesce, con difficoltà, a mettere insieme un quantitativo di pesetas spagnole e a venderle tutte, con un effetto dirompente sul mercato: funziona, e le pesetas diventano meno scarse e costose. Questi successi gli fruttano un incarico che avrà un enorme impatto sullo sviluppo della sua vita e della sua carriera, quello di rappresentante economico del Tesoro alla Conferenza di pace di Versailles del 1919.

È in seguito a tale esperienza che pubblica Le conseguenze economiche della pace (The economic consequences of peace, 1919), nonché Per una revisione del Trattato (A revision of the Treaty, 1922), in cui sostiene che le pesanti riparazioni imposte alla Germania dai paesi vincitori avrebbero portato alla rovina l'economia tedesca a causa degli squilibri che le avrebbero apportato. Questa previsione viene confermata durante la repubblica di Weimar: solo una piccola parte delle riparazioni viene pagata ai vincitori. Nel tentativo di rispettare gli obblighi la Germania sviluppa una potenza industriale di tutto rispetto, destinata a contribuire al successivo riarmo. Inoltre l'iperinflazione del 1923 e la dilagante disoccupazione causano un forte scontento che prepara la strada all'avvento del nazismo.

Nel 1920 pubblica il Treatise on Probability (Trattato sulla probabilità), contributo di notevole spessore per il sostegno filosofico e matematico alla teoria della probabilità. Con il Trattato sulla riforma monetaria (A tract on monetary reform, 1923) attacca le politiche deflazioniste britanniche degli anni venti, sostenendo l'obiettivo della stabilità dei prezzi interni e proponendo tassi di cambio flessibili. Nel Trattato sulla moneta (Treatise on money, 1930), in 2 volumi, sviluppa ulteriormente la sua teoria del ciclo del credito di stampo wickselliano.

La Teoria generale

La sua opera principale è la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta (The general theory of employment, interest and money, 1936), un volume che ha un notevole impatto sulla scienza economica, e costituisce il primo nucleo della moderna macroeconomia.

In esso Keynes pone le basi per la teoria basata sul concetto di domanda aggregata, spiegando le variazioni del livello complessivo delle attività economiche così come osservate durante la Grande depressione. Il reddito nazionale sarebbe dato dalla somma di consumi e investimenti; in uno stato di sotto-occupazione e capacità produttiva inutilizzata, sarebbe dunque possibile incrementare l'occupazione e il reddito soltanto passando tramite un aumento della spesa per consumi o con investimenti. L'ammontare complessivo di risparmio sarebbe, inoltre, determinato dal reddito nazionale.

Nella Teoria generale, Keynes afferma che sono giustificabili le politiche destinate a stimolare la domanda in periodi di disoccupazione, ad esempio tramite un incremento della spesa pubblica. Poiché Keynes non ha piena fiducia nella capacità del mercato lasciato a se stesso di esprimere una domanda di piena occupazione, ritiene necessario che in talune circostanze sia lo Stato a stimolare la domanda. Queste argomentazioni trovano conferma nei risultati della politica del New Deal, varata negli stessi anni dal presidente Roosevelt negli Stati Uniti.
La teoria macroeconomica, con alcuni perfezionamenti negli anni successivi, giunge ad una serie di risultati di rilievo nelle politiche economiche attuali.

Gli anni quaranta e la Seconda guerra mondiale

Nel 1942 Keynes, ormai celebre, ottiene il titolo di baronetto, diventando il primo barone Keynes di Tilton.

Durante la Seconda guerra mondiale, Keynes sostiene con Come pagare per la guerra (How to pay for the war), che lo sforzo bellico dovrebbe essere finanziato con un maggiore livello di imposizione fiscale, piuttosto che con un bilancio negativo, per evitare spinte inflazioniste.

Con l'approssimarsi della vittoria alleata, Keynes è nel 1944 alla guida della delegazione inglese a Bretton Woods, negoziando l'accordo finanziario tra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, nonché a capo della commissione per l'istituzione della Banca Mondiale.

Non riesce tuttavia a raggiungere i suoi obiettivi. Keynes sa che il sistema di cambi fissi stabilito dagli accordi può essere mantenuto nel tempo, in presenza di economie molto diverse quanto a tassi di crescita, inflazione e saldi finanziari, solo a patto di costringere gli Stati Uniti, destinati ad avere una bilancia commerciale e finanziaria positiva, a finanziare i paesi con saldi finanziari negativi. Ma incontra l'opposizione statunitense verso la predisposizione di fondi, che Keynes avrebbe voluto essere assai ingenti, destinati a tale scopo.

I fondi vengono predisposti ma sono, per volere americano e grazie all'azione del negoziatore statunitense Harry Dexter White, di dimensioni contenute. Risulteranno insufficienti a finanziare i saldi finanziari negativi dei paesi più deboli e a fronteggiare la speculazione sui cambi, che nel corso del tempo, e in particolare dopo che la crisi petrolifera degli anni settanta avrà riempito di dollari le casse dei paesi produttori di petrolio, diventa sempre più aggressiva.

Il sistema di Bretton Woods resisterà fino alla prima metà degli anni settanta, quando le pressioni sulle diverse monete causeranno la fine dei cambi fissi ed il passaggio ad un regime di cambi flessibili, ad opera del presidente degli Stati Uniti d'America Richard Nixon.

Tra le altre opere di Keynes, meritano di essere ricordate le raccolte Essays in biography e Essays in persuasion; nella prima, Keynes presenta ritratti di economisti e notabili; la seconda raccoglie alcune delle argomentazioni di Keynes volte a influenzare l'establishment politico ed economico negli anni della Grande depressione.

Supporto all'eugenetica

Keynes fu un fervido sostenitore delle teorie eugenetiche; fu direttore della British Eugenics Society dal 1937 al 1944. Non più tardi del 1946, prima della sua morte, Keynes dichiarò che l'eugenetica sarebbe stata la "più importante, significativa e, vorrei aggiungere, originale branca della sociologia che esista".

Vita privata

Keynes era piuttosto alto, per gli standard dell'epoca. Nella prima metà della sua vita ha avuto diverse esperienze omosessuali: una delle prime fu con il "padre" della psicoanalisi britannica, John Strachey, traduttore di Sigmund Freud. Ebbe in seguito un'importante relazione con il pittore Duncan Grant del Bloomsbury group, di cui lo stesso Keynes era membro, tra il 1908 e il 1911; Keynes avrebbe continuato ad assistere finanziariamente Grant per il resto della sua vita.

Nel 1918, Keynes fa la conoscenza della nota ballerina russa Lydia Lopokova; a dispetto del passato omosessuale di lui, i due convoleranno a nozze; sarà, secondo i principali testimoni, un matrimonio felice.

Keynes fu inoltre un investitore di successo e riuscì a mettere insieme un ingente patrimonio, sebbene all'epoca del crollo di Wall Street fu quasi rovinato. Amava inoltre collezionare libri, e nel corso della sua vita collezionò e custodì numerosi lavori di Isaac Newton.

Fu grande amico di Arthur Pigou, noto economista dell'epoca e suo antagonista in campo economico. Sebbene i due avessero due visioni diverse, la loro amicizia non fu mai a rischio. Anzi, lo stesso Pigou finanziò Keynes durante la stesura della Teoria generale.

Morì di infarto all'età di 62 anni, probabilmente a causa delle tensioni accumulate lavorando nell'ambito delle istituzioni finanziarie internazionali nel secondo dopoguerra.

Suo fratello sir Geoffrey Keynes (1887-1982) fu un noto chirurgo, studioso e bibliofilo. I suoi nipoti furono Richard Keynes (1919), fisiologo, e Quentin Keynes (1921-2003), avventuriero e anch'egli bibliofilo.

Keynes investitore

I brillanti risultati di Keynes come investitore sono testimoniati dai dati, disponibili pubblicamente, su un fondo che amministrò personalmente per conto del King's College a Cambridge.

Tra il 1928 e il 1945, nonostante una caduta rovinosa durante la Crisi del 1929, il fondo amministrato da Keynes genera un rendimento medio del 13,2% annuo, contro il magro risultato del mercato britannico in generale, che negli stessi anni mostra un declino medio dello 0,5% annuo.

L'approccio generalmente adottato da Keynes nei suoi investimenti è stato riassunto brevemente come segue:

Selezione di un numero ridotto di investimenti, con attenzione alla loro economicità in relazione al valore intrinseco effettivo probabile e potenziale, per un periodo di anni in futuro, e in rapporto a possibili investimenti alternativi;

Mantenimento delle posizioni assunte nel tempo, anche per anni, finché esse non hanno mantenuto le loro promesse, o finché non è evidente che l'acquisto è stato un errore;

Una posizione di investimento bilanciata: assumere, ossia, una varietà di rischi, nonostante le singole posizioni possano anche essere rilevanti, e possibilmente rischi contrapposti (ad esempio, detenere una posizione nell'oro e nelle azioni, dal momento che i corsi delle due attività possono tendere a muoversi in direzioni opposte, compensandosi, in caso di fluttuazioni del mercato).

Keynes sostiene che "È un errore pensare di limitare il rischio spalmandolo su diverse attività, delle quali si conosce poco, e nelle quali non si ha motivo di riporre alcuna fiducia... La conoscenza e l'esperienza personali sono limitate, e raramente ci sono più di due o tre imprese, in ogni istante di tempo, cui darei piena fiducia".

Secondo alcuni, il parere di Keynes sulla speculazione sarebbe immorale:

()

« The game of professional investment is intolerably boring and over-exacting to anyone who is entirely exempt from the gambling instinct; whilst he who has it must pay to this propensity the appropriate toll. »

()

« Il gioco dell'investimento professionale è noioso e defatigante in modo intollerabile per chiunque sia del tutto immune dall'istinto del gioco d'azzardo; e chi lo possiede deve pagare il giusto scotto per questa sua tendenza. »

(John Maynard Keynes, Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta)

Rivedendo le bozze di un importante contributo sugli investimenti azionari, Keynes ebbe a commentare che "le compagnie industriali ben gestite, di regola, non distribuiscono per intero agli azionisti i propri profitti. Negli anni migliori, se non tutti gli anni, trattengono una parte di tali profitti e la reinvestono nella propria attività. C'è una sorta di interesse composto che opera a favore di un solido investimento industriale".

Autori che hanno influenzato il pensiero keynesiano

Dichiaratamente Keynes sviluppa il proprio lavoro sulla base, e come critica costruttiva, dell'opera degli economisti classici. Egli fu in particolare un grande estimatore del lavoro di Thomas Malthus, di cui contribuì a rivalutare l'opera e i contributi.

Gli economisti Alfred Marshall e Arthur Cecil Pigou, coi quali lavora a Cambridge, ebbero inoltre una rilevante influenza sullo sviluppo del suo pensiero, oltre a divenire l'oggetto di critiche molto severe nella sua opera maggiore, la Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta.

Keynes e Marx

Controverso e particolare è stato il rapporto tra Keynes e Marx. Keynes giudicò sempre Marx e la sua dottrina in modo molto critico. Ne La fine del laissez-faire (1926), nel criticare il liberismo economico, Keynes osserva incidentalmente:

« Ma i principi del laissez-faire hanno avuto altri alleati oltre i manuali di economia. Va riconosciuto che tali principi hanno potuto far breccia nelle menti dei filosofi e delle masse anche grazie alla qualità scadente delle correnti alternative – da un lato il protezionismo, dall'altro il socialismo di Marx. Queste dottrine risultano in fin dei conti caratterizzate, non solo e non tanto dal fatto di contraddire la presunzione generale in favore del laissez-faire, quanto dalla loro semplice debolezza logica. Sono entrambe esempio di un pensiero povero, e dell'incapacità di analizzare un processo portandolo alle sue logiche conseguenze.[...] Il socialismo marxista deve sempre rimanere un mistero per gli storici del pensiero; come una dottrina così illogica e vuota possa aver esercitato un'influenza così potente e durevole sulle menti degli uomini e, attraverso questi, sugli eventi della storia. »

(Keynes, 1926)

Del disprezzo nutrito da Keynes nei confronti della dottrina marxista vi è traccia anche nella sua corrispondenza. Così, come recentemente notato da Marcuzzo (2005), in una lettera inviata a Sraffa, che gli aveva consigliato la lettura del Capitale, Keynes scrive:

« Ho provato sinceramente a leggere i volumi di Marx, ma ti giuro che non sono proprio riuscito a capire cosa tu ci abbia trovato e cosa ti aspetti che ci trovi io! Non ho trovato neanche una sola frase che abbia un qualche interesse per un essere umano dotato di ragione. Per le prossime vacanze dovresti prestarmi una copia del libro sottolineata. »

(John Maynard Keynes a Piero Sraffa, 5 aprile 1932; SP : 03/11:65 53)

Nonostante il palese disprezzo di Keynes, molti autori rintracciano in Marx alcune anticipazioni del pensiero keynesiano. Così, ad esempio, la possibilità di crisi da sottoconsumo e la critica radicale della legge di Say.

Domanda aggregata

In macroeconomia la domanda aggregata rappresenta la domanda di beni e servizi formulata da un sistema economico nel suo complesso, in un certo periodo temporale; come tale essa rappresenta la potenzialità di sfruttamento della capacità produttiva globale di un certo sistema economico.

Essa è anche nota come domanda effettiva, ed è spesso designata con la sigla AD (acronimo dell'inglese aggregate demand).

Descrizione

Sebbene il concetto di domanda effettiva fosse parte dell'analisi di alcuni economisti precedenti, è con John Maynard Keynes che vengono chiaramente definite le componenti fondamentali della domanda aggregata (e le relazioni tra le componenti stesse); sviluppi successivi hanno poi contribuito a determinare in forma più analitica le componenti della domanda aggregata (ad esempio con l'inserimento delle aspettative degli operatori economici come variabili determinanti).

La domanda aggregata viene oggi rappresentata attraverso una funzione, che deriva dall'equilibrio congiunto tra il settore reale e il settore monetario (equilibrio IS-LM):

029f85759aafb523210f997d978a6d56.png

La domanda aggregata è funzione diretta dell'offerta reale di moneta ad4f49a6729ac0885beb92ac5ae30faa.png, funzione diretta della spesa pubblica 3354bf455a693aca9bba1447c7c9c23c.png, funzione inversa del livello di imposizione fiscale 797f13ddb9a755ff72b445c7d10dbcb0.png; andrebbero anche considerati altri fattori quali il consumo autonomo (indipendente dal reddito), la propensione marginale al consumo, la sensibilità dell'investimento rispetto alle variazioni del livello produttivo dell'economia (in tutti questi casi si ha un effetto diretto sulla domanda aggregata).

Graficamente la domanda aggregata è rappresentata in un sistema di assi cartesiani (dove sull'asse delle ascisse c'è il reddito o prodotto d0b2de72087a82eb8e2a16113dc385e6.png e sull'asse delle ordinate c'è il livello generale dei prezzi 6e6e638a0f1f0c638997b1bff3167ce4.png) attraverso una curva decrescente detta curva di Marshall (che evidenzia come, all'aumentare del livello dei prezzi, la domanda di beni e servizi si riduce).

La domanda aggregata e l'offerta aggregata del sistema economico determinano l'equilibrio economico del sistema stesso.

Propensione marginale al consumo

La propensione marginale al consumo è il rapporto tra l'incremento del consumo e l'incremento del reddito che ne è la causa. Misura, in altri termini, qual è l'incremento dei consumi per ogni 100 euro di incremento del reddito. Una propensione pari a 0,8 indica che un incremento di 100 euro del reddito produce un aumento dei consumi pari a 80 euro. Esso è parte, insieme al consumo indipendente dal reddito, della funzione dei consumi di un sistema macroeconomico, la quale a sua volta è una componente della spesa aggregata del sistema macroeconomico stesso.

La propensione marginale al consumo è utile nelle scelte di politica economica, ed è uno strumento per valutare le ricadute delle scelte operate.

La propensione media al consumo è invece il rapporto tra i consumi di un dato periodo e il reddito percepito nello stesso periodo.

Indica quanta parte del reddito è destinata al consumo e serve a calcolare, di conseguenza, quanto è destinato al risparmio (propensione marginale al risparmio).

Aspettative

Il termine aspettative in economia indica le attese dei soggetti economici a fronte di un evento o di un comportamento che può influire sulle loro decisioni.

La decisione di acquistare un titolo azionario, per esempio, dipende non solo dall'andamento passato del titolo (il valore è aumentato o diminuito) ma anche dalle attese (aspettative) circa un complesso insieme di variabili che possono influenzarne il corso. L'attesa di profitti più alti del passato o l'attesa di vendite generalizzate possono spingere gli operatori ad acquistare o vendere il titolo in questione, così come l'attesa che abbia luogo una certa scelta di politica economica può indurre gli operatori a fare scelte che altrimenti non avrebbero preso in considerazione.

Le aspettative possono essere di almeno tre tipi diversi.

Le aspettative razionali presuppongono che un operatore, disponendo di tutte le informazioni necessarie, preveda l'andamento di una determinata variabile e adatti il proprio comportamento di fatto annullandone l'effetto.

Le aspettative mediamente razionali suppongono invece che l'operatore medio sia razionale, non escludendo che alcuni non lo siano affatto e quindi che non siano in grado di elaborare correttamente le informazioni possedute.

Le aspettative adattive suppongono invece che gli operatori prevedano un futuro simile al recente passato.

Nella teoria economica si è impiegata l'ipotesi di aspettative razionali per sostenere l'inutilità di talune scelte di politica economica. Gli operatori modificherebbero il loro comportamento in base alle aspettative, rendendo inutili gli interventi di politica economica.

Contro questo filone di pensiero si sono schierati negli ultimi anni i teorici delle asimmetrie informative, a cominciare da Joseph Stiglitz, che hanno sottolineato come le aspettative razionali presuppongano ipotesi irrealistiche circa la disponibilità di informazioni e della capacità di elaborarle, mentre di solito soggetti diversi possiedono informazioni differenti e differenti capacità di elaborare le informazioni disponibili.

Tasso d'interesse

In economia, il tasso (o saggio) di interesse effettivo rappresenta la percentuale dell'interesse su un prestito e l'importo della remunerazione spettante al prestatore.

Viene espresso come una percentuale per un dato periodo di tempo e indica quanta parte della somma prestata debba essere corrisposta come interesse al termine del tempo considerato o, da un altro punto di vista, indica il costo del denaro. Il debitore, infatti, ricevendo una somma di denaro, si impegna a pagare una somma superiore a quella ricevuta. La differenza costituisce l'interesse, che viene solitamente calcolato in percentuale sulla somma prestata. Tale percentuale costituisce il tasso di interesse. Il tasso d'interesse è variabile anche in funzione della moneta di riferimento, del rischio connesso alla solvibilità del debitore e della lunghezza del periodo di riferimento.

Oltre che dalla percentuale, i tassi d'interesse sono caratterizzati dal cosiddetto regime di capitalizzazione degli interessi, che può essere semplice o composto. Se la durata del prestito è superiore al periodo di tempo per cui l'interesse viene conteggiato, si parla di tasso di interesse composto, perché vengono conteggiati nel calcolo dell'interesse finale anche gli interessi parziali già maturati per ogni periodo.

Interesse semplice

L'interesse viene detto semplice quando è proporzionale al capitale e al tempo. Ovvero gli interessi, maturati da un dato capitale nel periodo di tempo considerato, non vengono aggiunti al capitale che li ha prodotti (capitalizzazione) e, quindi, non maturano a loro volta interessi.

Indicando con:

C il capitale iniziale

i il tasso di interesse periodale (in genere tasso unitario annuo, ma può essere mensile, trimestrale...)

t durata temporale dell'operazione, espressa in numero di periodi (in genere anni)

M il capitale finale, detto anche montante, pari alla somma di capitale iniziale più gli interessi maturati

si avrà che il montante al tempo t sarà la soluzione della seguente equazione alle differenze con cd483b60b2333cee6ad8b80f6e0125db.png:

91bad45c02cb81a74747fa715a1530e7.png

Pertanto si ha:

ec23f01c32f6eb27039cec4a9d80bd45.png

c833a8e5b3239d64d9b1b41df610477b.png

f8a223ce1c4882e14fb00b9e623788cc.png

Interesse composto

L'interesse viene detto composto quando, invece di essere pagato o riscosso, è aggiunto al capitale iniziale che lo ha prodotto. Questo comporta che alla maturazione degli interessi il montante verrà riutilizzato come capitale iniziale per il periodo successivo, ovvero anche l'interesse produce interesse.

L'interesse composto si divide in:

discontinuo annuo;

discontinuo convertibile;

continuo o matematico.

Montante ad interesse composto discontinuo annuo

In questo caso gli interessi si sommano al capitale iniziale che li ha prodotti al termine di ogni anno.

Per determinare il montante di un capitale fb94060e554a63209887f6303a9254f7.png, dopo un numero 308a6177f629dba9fc1f1ffbd02ef5e6.png di anni e impiegato ad interesse composto (annuo) f51dbffeb7c87c8417c9bf972efd9c0c.png, si ha che il montante al tempo t sarà la soluzione della seguente equazione alle differenze con cd483b60b2333cee6ad8b80f6e0125db.png:

b440e054e32b4eaf69e18d9662bfc279.png

505419b61bff26f3b5e842fad1a826d0.png

5850261e96bfeb6372dcea0fc9c642c2.png

Montante ad interesse composto discontinuo convertibile

In questo caso gli interessi maturano 308a6177f629dba9fc1f1ffbd02ef5e6.png volte durante l'anno, ma sempre in periodi definiti. In genere viene definito un tasso annuo nominale f51dbffeb7c87c8417c9bf972efd9c0c.png al quale corrisponde un tasso convertibile 4d364661ddf649cdbedf9de8e0560cdc.png dato da:

05494245a0d8f914c3d7262f613ffccc.png.

Per il calcolo del montante si applica la stessa formula impiegata per l'interesse composto continuo annuo:

ed5ef6177d3771daa3b0be152a81d8c5.png.

dove 4d364661ddf649cdbedf9de8e0560cdc.png è l'interesse convertibile e ae6be24a641f56acb7cf4758cc2c9701.png indica il numero di volte in cui l'interesse convertibile matura nell'intero periodo.

Montante ad interesse composto continuo o matematico

In questo caso gli interessi si sommano al capitale che li ha prodotti ad ogni istante. Il tasso d'interesse composto a capitalizzazione continua ha applicazioni soprattutto teoriche, nella matematica finanziaria; sebbene sia rilevante nelle applicazioni relative alle più semplici operazioni finanziarie, è ad esempio ampiamente utilizzato nelle formule di valutazione di operazioni finanziarie complesse, come nella valutazione delle opzioni.

L'interesse in capitalizzazione continua può essere giustificato come segue. Si consideri un tasso annuale f51dbffeb7c87c8417c9bf972efd9c0c.png, e si supponga di suddividere l'anno in 308a6177f629dba9fc1f1ffbd02ef5e6.png periodi, al termine di ciascuno dei quali viene corrisposta una frazione dell'interesse relativo all'intero anno pari a 3757fb5904ecca5796b9b90f14305896.png, che viene immediatamente reinvestita. A partire da un capitale iniziale fb94060e554a63209887f6303a9254f7.png, il montante al termine di 5fb34f19bf777040cf032a88f1916955.png anni sarà allora:

45afaea25cdefa1058f929c31c1a52fe.png

Passando al limite per 308a6177f629dba9fc1f1ffbd02ef5e6.png che tende a infinito, si ha il caso in cui un flusso continuo di pagamenti viene reinvestito in maniera continua; il montante sarà dato da:

66c237376b7e1a2221664137f1469a85.png,

ricorrendo al limite notevole che definisce il numero di Nepero cb78038ca3022e2c2a1ea08137ab7209.png. Nel caso in cui il tasso f51dbffeb7c87c8417c9bf972efd9c0c.png è una funzione 287b56ea8815ff095d8a5446629c7d71.png il cui valore varia nel tempo, si generalizza l'espressione precedente come:

504789e4010933c0ba3b564120e4a123.png

Leggi di equivalenza finanziaria

Due tassi d'interesse, relativi a periodi diversi di capitalizzazione, si dicono equivalenti se, a parità di capitale iniziale e di periodo di applicazione, producono lo stesso montante, ovvero gli stessi interessi.

Relazione tra tassi equivalenti nel regime a interesse semplice

Per determinare la relazione tra due tassi unitari a interesse semplice 03e20956bbb45b7262547e7b98fa186b.png e b8d8fef2e2932d2920c3f1563e68d6f7.png è sufficiente uguagliare i montanti che sono prodotti da periodi di tempo d011f043adac9b2fb9d31d0da2edd514.png e e2536c91963d81e12fd39530a6aa3d54.png differenti:

b7a67f12c48ed880c56b9b50ff09ddd4.png.

Noto uno dei due tassi è possibile ottenere l'altro ad esso equivalente tramite le seguenti relazioni:

8f13f8c6aa74c82e8b5bf6163ba9be95.png

e

d84e71ae33521164af5f76b372d0969c.png.

Relazione tra tassi equivalenti nel regime ad interesse composto discontinuo

Per determinare la relazione tra due tassi unitari ad interesse composto ic1 e ic2 è sufficiente uguagliare i montanti che sono prodotti da periodi di tempo t1 e t2 differenti:

80cfd01f6fbb08d94318e1fcd31d74aa.png.

Da questa si ottengono relativamente le relazioni:

f8d970679279200cebbbc4cccd3bfbca.png

e

1c6151a8fd1a66ef0a6afc093e872f37.png.

Relazione tra tassi equivalenti in regimi differenti

Per determinare la relazione tra due tassi unitari is (regime a interesse semplice) e ic (regime a interesse composto) è sufficiente uguagliare i montanti che sono prodotti dallo stesso periodo di tempo t:

e624dff1f37cb1d49e3d701f66c4fb23.png.

Da questa si ottengono le relazioni:

b597711d99238f6c1c9ecd86abb81531.png

e

d9f79ee02e43881fcd58f3250f3a2dad.png.

Si può notare come l'equivalenza dipenda dalla durata della capitalizzazione.

Esempio pratico

Supponiamo che Tizio prenda oggi a prestito da una banca una somma (C) pari a 1.000 euro da restituire dopo un anno (t), aumentata degli interessi maturati nel corso di quell’anno (I) pari al 5%. Per motivi di semplicità supponiamo anche (e questa è una ipotesi lontana dalla realtà) che la banca erogante non chieda commissioni o spese per l'istruzione della pratica.

In regime di capitalizzazione semplice, gli interessi maturati dopo un anno sono pari a

I = 1.000 x 0,05 = 50

E quindi il montante da rimborsare dopo un anno è pari a

M = 1.000 + I = 1.050

Invece se il tasso del 5% applicato fosse in regime di capitalizzazione composta, cioè un tasso annuo nominale con capitalizzazione trimestrale degli interessi, la banca che ha prestato il capitale iniziale di 1.000 euro, dopo i primi 3 mesi dal giorno in cui ha erogato il prestito procederebbe a "liquidare gli interessi", cioè a calcolare gli interessi maturati fino a quel momento, e quindi li capitalizzerebbe, cioè aggiungerebbe quegli interessi alla somma inizialmente data in prestito.
Poiché il tasso stabilito è un tasso annuo, la banca, per calcolare gli interessi maturati in tre mesi, considererebbe solo l'equivalente frazione di tre dodicesimi (cioè un quarto) del tasso annuo stabilito.

I1 = 1.000 x (0,05 x (3/12)) = 12,5

Le cose inizierebbero ad essere diverse a partire dalla seconda capitalizzazione degli interessi. Infatti, allo scadere del secondo trimestre, la banca utilizzerebbe la stessa formula esposta sopra, ma questa volta la base sulla quale calcolerebbe gli interessi maturati non sarebbe più di 1.000 euro, ma di 1.012,5 euro:

I2 = 1.012,5 x (0,05 x (3/12)) = 12,66

Come si vede già l'importo di interessi maturati in questo regime non è più uguale agli interessi maturati nel regime precedente, ma è maggiore. L'aumento continua ricorsivamente nei trimestri successivi:

I3 = 1.025,156 x (0,05 x (3/12)) = 12,81

I4 = 1.037,97 x (0,05 x (3/12)) = 12,97

Il totale degli interessi maturati nel corso dell’anno con questo regime di capitalizzazione sarebbe pari a 12,5 + 12,66 + 12,81 + 12,97 = 50,94 euro. Di conseguenza il montante M ammonterebbe a 1.050,95 euro.

La tabella che segue riepiloga schematicamente quanto illustrato nell'esempio:

 

Regime di tasso annuo nominale

Regime di tasso annuo effettivo

Mesi trascorsi

Interessi passivi maturati nel periodo

Totale interessi passivi cumulati

Totale somma da rimborsare

Interessi passivi maturati nel periodo

Totale interessi passivi cumulati

Totale somma da rimborsare

3

12,500

12,500

1.012,500

12,500

12,500

1.012,500

6

12,500

25,000

1.025,000

12,656

25,156

1.025,156

9

12,500

37,500

1.037,500

12,814

37,971

1.037,971

12

12,500

50,000

1.050,000

12,975

50,945

1.050,945

Esistono dei prospetti chiamate tavole finanziarie che evidenziano a quale tasso annuo effettivo (quello del regime semplice) corrisponde un tasso annuo nominale con capitalizzazione periodale degli interessi (quello del regime composto). Nell'esempio esposto sopra si è evidenziato come il tasso annuo nominale del 5% con capitalizzazione trimestrale corrisponda al tasso annuo effettivo del 5,0945%. Se la capitalizzazione degli interessi fosse avvenuta più frequentemente di una volta ogni tre mesi (ad esempio, al termine di ogni settimana) allora la differenza fra i due regimi sarebbe stata ancora maggiore. Infatti a un tasso annuo nominale del 5% con capitalizzazione settimanale degli interessi corrisponde un tasso annuo effettivo del 5,1246%.

Composizioni di interessi relativi a periodi di tempo differenti

Indipendentemente dal regime di capitalizzazione adottato, un tasso d'interesse semplice o composto può essere riferito ad un orizzonte temporale diverso, mediante una formula di conversione.

Per calcolare l'interesse riferito ad un periodo di tempo più lungo d011f043adac9b2fb9d31d0da2edd514.png, contenuto 2cc2ffacf2cc90de890fda4533f604e2.png volte in 79d18a52b68a2f2b4c29d384ff51e71d.png, si può utilizzare la seguente formula, per e4afe6fb290e11695fa06ad674f31363.png:

ecba379f8abfa3cabb13cfea5b579db9.png

La formula è utilizzata, ad esempio, se si dispone di un dato su base mensile (3827f64a0ce9b6ebbff2c141d0e1941d.png con d011f043adac9b2fb9d31d0da2edd514.png di un anno), trimestrale (e8d29d78356f48104d1fd6cb07c848c9.png) o semestrale (4702e069b67cba5e285b258252290a64.png) e si desidera sapere il tasso di interesse annuale. La formula considera un regime di capitalizzazione composta, il reinvestimento degli interessi non appena sono stati corrisposti ad ogni scadenza. Tale formula può essere invertita, risolvendo rispetto a 79d18a52b68a2f2b4c29d384ff51e71d.png, per calcolare il tasso d'interesse rispetto ad un orizzonte temporale più breve, e ottenendo un polinomio di Ruffini con termine noto 3769e2fb0184e29b9fa13f742ad90bde.png, che però non è sempre risolvibile.

Se si desidera calcolare l'interesse su un orizzonte temporale più breve, ossia 69eed0dafc3fdf56f5fab162d379fb5c.png, si preferisce utilizzare tipicamente una proporzione, e un'ipotesi di linearità o capitalizzazione semplice, che non considera il reinvestimento degli interessi ad ogni scadenza (maggiore quindi quanto più è breve l'orizzonte di riferimento). Se si parte da un dato annuale, si calcolano i dodicesimi di anno, moltiplicando per 1, 2, 3, 4, 6 se si desidera rispettivamente un tasso mensile, semestrale, quadrimestrale, etc.

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Aspetti legislativi

Usura

La legge si occupa di tassi di interesse a diversi livelli, considerata la grave disparità di situazioni generalmente riguardanti prestatore e prestatario (colui che riceve il denaro in prestito); al fine di evitare che il prestatore possa sfruttare a fini di ingiusto profitto (usura) la condizione di necessità di chi richiede un prestito, i tassi di interesse non possono essere libero oggetto di contrattazioni, ma vanno ricondotti in una fascia empiricamente ricavata dall'osservazione trimestrale della media dei tassi applicati per la piazza di riferimento.

Interesse nel contratto di mutuo

Nei mutui, che rappresentano una forma tipica di prestito, i tassi possono essere anche variabili o misti: quando sono variabili, vengono ricalcolati ad ogni rata secondo una formula prestabilita in base a degli indicatori economici prefissati e, di conseguenza, vengono ricalcolati anche gli interessi e, quindi, l'ammontare della rata stessa. Il tasso misto è fisso per un certo intervallo di tempo e, poi, diventa variabile. La durata del tasso fisso e la formula di quello variabile sono, comunque, stabilite in anticipo, al momento della stipula del contratto. Va detto che esigenze di natura commerciale hanno moltiplicato le possibili forme di prestito e, conseguentemente, favorito la creazione di molti nuovi modi di composizione del tasso e delle altre modalità di prestito.

L'importo finale della somma da restituire in corrispondenza di un determinato tasso d'interesse ed a determinate scadenze (usualmente misurate in anni, ma vanno prendendo piede le misurazioni a semestri e - per alcuni tipi di prestito - anche minori), si definisce montante.

Normativa italiana

In Italia, un tasso superiore a quanto stabilito dalla Banca d'Italia costituisce tasso usurario. È importante notare quindi, come riportato nel sito della Banca d'Italia che definisce il tasso effettivo globale medio (TEGM), che ciò che viene comunemente chiamato tasso d'usura veniva aumentato della metà fino a giugno 2011, successivamente viene aumentato del 25% (con un massimo del 4%) + ulteriori 4 punti percentuali

Inoltre, la pratica di calcolare gli interessi sugli interessi (anatocismo) è sempre stata espressamente vietata dal Codice Civile (art. 1283); recenti sentenze giurisdizionali hanno imposto alle banche che lo avevano applicato la restituzione degli indebiti.

Preferenza per la liquidità

In macroeconomia, viene definita preferenza per la liquidità la teoria di John Maynard Keynes sulla moneta e sul tasso di interesse.

La teoria

Nella teoria neoclassica, il tasso di interesse rappresenta il "premio per il risparmio", e questa variabile non viene presa in considerazione nella sua teoria monetaria, riconducibile alla teoria quantitativa della moneta di Irving Fisher. Nella teoria quantitativa, infatti, la moneta è vista solo nella sua funzione di "intermediario degli scambi". Il tasso di interesse è determinato nel cosiddetto mercato delle merci, ove vengono scambiati risparmio e investimento. Nella cosiddetta versione di Cambridge della teoria quantitativa della moneta, viene introdotto il movente "precauzionale" che soggiace alla preferenza per la liquidità: gli individui desidereranno mantenere moneta in forma liquida in maniera proporzionale rispetto alla propria ricchezza, per poter far fronte ad acquisti futuri. Questa versione della teoria quantitativa è detta versione in termini "di stock" (non "di flussi", come è invece per la teoria fisheriana), in quanto si riferisce alla quantità di moneta che gli individui intendono possedere in forma liquida in un determinato momento. Entra in gioco, quindi, la funzione della moneta di "riserva di valore".

Secondo Keynes, che tratta approfonditamente questo argomento nel capitolo 15 della sua Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta, Gli incentivi psicologici e commerciali alla liquidità (ma lo introduce nel capitolo 13, La teoria generale del tasso di interesse), il tasso di interesse non è il "premio per il risparmio" o, in altri termini, "per l'astensione dal consumo abituale", ma, piuttosto, esso rappresenta il costo-opportunità di detenere la moneta in forma liquida (tesoreggiamento), piuttosto che utilizzarla per acquistare titoli, immobili o altre attività (finanziarie o reali) fruttifere. La scelta tra i due modi di conservare la ricchezza è, quindi, determinata dal livello del tasso di interesse. Alle motivazioni transattiva e precauzionale, Keynes aggiunge quella speculativa, volta a ottenere il massimo vantaggio dalla suddivisione della propria ricchezza tra liquidità e le varie attività finanziarie e reali disponibili sul mercato.

La preferenza per la liquidità aumenta al diminuire del tasso di interesse, secondo Keynes. Un abbassamento del tasso di interesse infatti, fa preferire la liquidità per due motivi: in primo luogo, si preferisce detenere moneta per approfittare di un possibile aumento del tasso in futuro; in secondo luogo, si preferisce detenere moneta per evitare le perdite patrimoniali derivanti dal fatto che quando il tasso di interesse aumenta, il valore dei titoli diminuisce. L'offerta di moneta è determinata endogeneamente: essa cioè non è determinata a discrezione del sistema bancario, ma si determina spontaneamente come risultato dell'equlibrio che si è creato nel mercato delle merci e in quelle del lavoro. Il tasso di interesse di equilibrio è quello che rende pari offerta e domanda di moneta.

L'inefficacia della politica monetaria e la "trappola della liquidità"

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La curva della preferenza per la liquidità. Quando il tasso di interesse diventa molto basso, scatta la "trappola della liquidità"

Per capire le conseguenze della teoria nella politica monetaria, bisogna analizzare un tratto peculiare della funzione della preferenza per la liquidità, ovvero il tratto in cui scatta la cosiddetta trappola della liquidità.

A un livello molto basso del tasso di interesse, infatti, scatterà un meccanismo psicologico in base al quale, pur aumentando le autorità monetarie l'offerta di moneta, il tasso di interesse non discenderà ulteriormente. Infatti, a questo livello critico, non vi saranno operatori che "crederanno" ad un ulteriore ribasso del tasso, e domanderanno tutta la moneta offerta senza opporre alcuna resistenza.

Inoltre, anche al di sopra del tasso critico, la politica monetaria non è molto efficace, perché nella teoria keynesiana titoli e moneta sono sostituti stretti, cosicché variazioni dell'offerta di moneta avranno comunque poca efficacia nell'influenzare il tasso di interesse.

Spesa pubblica

In economia con il termine spese pubbliche si indicano le somme di denaro che vengono spese dallo Stato in beni e servizi pubblici finalizzati al perseguimento di fini pubblici, indipendentemente dalla natura (pubblica o privata) dell'obbligazione che ne è titolo. Si tratta dunque delle uscite da parte dello Stato e dunque una voce di passività all'interno del bilancio dello Stato.

La copertura finanziaria di queste uscite avviene tramite l'emissione di moneta da parte di uno stato sovrano (Italia prima del 2002). Il ricorso alla imposizione fiscale sui contribuenti (gettito fiscale) secondo le modalità tipiche definite dalla politica fiscale attuata dal governo in materia di contabilità nazionale e specificate all'interno della legge di bilancio e della legge finanziaria, serve unicamente per imporre l'uso della moneta all'interno dello stato e a regolare la quantità di denaro emesso.

Oggi i 17 paesi europei che hanno perso la sovranità monetaria coprono le spese pubbliche prendendo a prestito la moneta dai mercati finanziari e rimborsano con gli interessi i mercati finanziari utilizzando il gettito fiscale e le politiche di pareggio di bilancio.

Classificazione delle spese pubbliche

Le spese possono variamente classificarsi in:

1. spese correnti (riferite al funzionamento dei pubblici servizi) e spese in conto capitale (riferite ad investimenti a fini produttivistici);

2. spese fisse [derivanti da leggi organiche o impegni permanenti] e spese variabili (senza fissa scadenza);

3. spese obbligatorie (indicate nell'elenco allegato allo stato di previsione del Ministero del Tesoro) in quanto semplicemente previste da norme positive, e perciò sottratte a qualsiasi potere discrezionale dell'Esecutivo;

4. spese d'ordine (relative all'accertamento e alla riscossione delle entrate, ad es. l'aggio esattoriale, la cui copertura è assicurata automaticamente in quanto si tratta di spese direttamente connesse all'andamento delle entrate);

5. spese ripartite (da eseguirsi frazionatamente in più esercizi successivi, e riferite ad opere la cui realizzazione è frazionata nel tempo);

6. spese a pagamento differito (limiti di impegno per l'edilizia economica e popolare, contributi per l'edilizia scolastica e per opere di competenza degli enti locali) e limiti d’impegno (oneri pluriennali statali per la realizzazione attuale di opere pubbliche o private);

7. spese impreviste (necessarie e imprevedibili, cui si provvede attraverso il prelievo da un fondo speciale, non essendo iscritte in bilancio proprio perché imprevedibili).

Tipologie di spese pubbliche

Tra le principali voci di bilancio di spesa pubblica si ritrovano:

spesa per servizi pubblici primari o essenziali quali infrastrutture pubbliche e trasporti;

spesa per i servizi pubblici offerti al cittadino dalla pubblica amministrazione (es. governo, parlamento, ministeri, tribunali, regioni, province, comuni, Aziende sanitarie, comunità montane);

spesa per pubblica istruzione, spesa assistenziale (sanità pubblica) e previdenziale (e relativi enti quali INAIL, INPS, INPDAP) (spesa sociale).

spesa per armamenti, difesa militare e pubblica sicurezza interna;

spesa per finanziamento di ricerca e sviluppo scientifico-tecnologico dei rispettivi enti pubblici di ricerca (Università, CNR, ENEA, INFN, INAF, INGV ecc.).

spesa per finanziamento, gestione e manutenzione di beni artistici e culturali, proprietà statali ecc.

spese per eventuali disastri, calamità naturali e ambientali.

spesa per copertura e interessi sul debito pubblico in scadenza;

spesa per servizio pubblico radiotelevisivo;

Molti altri tipi di servizi pubblici, quali ad esempio la fornitura di acqua, energia elettrica, gas, telefonia, smaltimento rifiuti, dall'iniziale controllo statale hanno subito nel tempo un progressivo processo di privatizzazione e successiva liberalizzazione.

Principi generali della spesa pubblica

Il principio giuridico delle spese si basa su alcuni principi fondamentali: necessità di una legge di autorizzazione, della iscrizione in bilancio, obbligatorietà della copertura (che garantisce la previa valutazione dell'impatto sulla finanza pubblica).

Altro principio fondamentale, desunto dall'art. 270 del regolamento di contabilità pubblica del r.d. n.827/1924 è quello per cui la spesa va erogata attraverso quattro fasi procedimentali, cioè l'impegno, la liquidazione, l'ordinazione, il pagamento.

Procedimento di erogazione

L'erogazione della spesa pubblica, in esecuzione del bilancio di previsione, si effettua solo attraverso un procedimento prefissato, che è condizione di legittimità del pagamento del debito pecuniario assunto dall'ente pubblico per il perseguimento dei propri fini istituzionali.

Le procedure di spesa e gli strumenti di pagamento sono stati oggetto di revisione ad opera del DPR n. 367 del 1994, emanato in attuazione della Legge n. 537 del 1993.

Da un lato viene reso effettivo l'esercizio di "autonomi poteri di spesa" in capo ai dirigenti (artt. 3-16-17 del decreto legislativo n. 29 del 1993), e dall'altro viene introdotto l'uso generalizzato di procedure informatiche per la formazione degli atti contabili e per l'esecuzione dei pagamenti.

La prima fase del procedimento: l'impegno di spesa

La normativa vigente non contiene una norma definitoria di "impegno". Nella pregressa disciplina del 1889 si affermava soltanto che l'impegno era un «dovere» giuridico cui corrispondeva il «diritto» di un terzo; tale dovere era tendenzialmente «risolubile» al pari delle concessioni e delle autorizzazioni. La riforma del 1923, in virtù della preminenza dell'aspetto formale del bilancio, rinforza i poteri della Ragioneria Generale e formula una serie di criteri-guida:

la registrazione dell'impegno di spesa;

l'assunzione dei cd. impegni provvisori;

l'apposizione del visto;

la responsabilità per omessa denuncia degli impegni alla Ragioneria.

Dell'impegno tuttora non esiste una definizione, per lo scarso interesse dal punto di vista giuridico; esso è infatti ritenuto un momento interno di scritturazione ragionieristica.
Tuttavia, esso può definirsi come «assunzione dell'obbligo di pagare», o meglio come accantonamento in bilancio delle somme occorrenti per determinate spese o determinati pagamenti; ciò comporta l'indisponibilità di tali somme per fini diversi da quelli prestabiliti, cioè l'effetto di imporre il vincolo di destinazione sulla somma.

Da qui deriva la convinzione dominante che l'impegno è solo una «clausola del provvedimento cui accede» (Giannini), sicché la sua rilevanza giuridica si riduce esclusivamente al suo effetto riguardo ai fondi stanziati in bilancio, nel senso che l'impegno non ha autonoma esistenza e vive in funzione del provvedimento o contratto cui accede.

Secondo altra parte della dottrina, invece, l'impegno ha rilevanza giuridica autonoma, in quanto l'efficacia del provvedimento di spesa è condizionato dalla regolarità dell'impegno: l'attività di soddisfazione dei fini della p.a. è in un certo senso vincolata dall'attività contabile.

Per la giurisprudenza contabile (cfr. Corte dei conti sez. Contr., sentenze nn. 534/73, 728/76, 757/77, 806/77, 1007/79, 1194/81, 1407/83, ecc.), l'atto di impegno serve a disporre l'imputazione della spesa al capitolo di bilancio ad hoc, ed ha l'effetto di costituire un vincolo concreto di destinazione della somma impegnata, la quale non potrà essere utilizzata per destinazioni diverse da quella prevista.

Il regime giuridico dell'impegno di spesa

Per esplicare il suo effetto di vincolo di destinazione della somma, l'impegno deve essere regolare e deve accedere ad un provvedimento legittimo, sicché la competente autorità possa esprimere un atto di indirizzo imprimendo specifica destinazione alla somma già stanziata.
Dopo la legge di contabilità del 1923, il regime dell'impegno è stato innovato dalla L. 468/1978 come integrata dalla L. 362/1988.
Nel vigore della attuale disciplina:

la p.a. può assumere impegni di spesa per opere la cui esecuzione si protragga per più esercizi. È stato infatti superato il divieto di assumere impegni indipendentemente dall'approvazione del bilancio sul quale detti oneri dovranno gravare (regola indispensabile per qualunque efficace disegno programmatorio). Ciò è confermato dalla Corte costituzionale per cui i principi della certezza e dell'annualità del bilancio degli enti pubblici non impediscono la ripartizione di una spesa in più esercizi secondo un criterio usuale per le spese continuative e pluriennali (sentenza Corte Cost. 21 luglio 1995, n. 347). La Corte dei conti (sez. contr. reg. Sicilia, 28 ottobre 1994, n. 29) ha affermato che, ai sensi dell'art. 11 l. reg. siciliana n. 47 del 1977, gli impegni della spesa assunti dagli organi amministrativi della Regione necessitano di tre requisiti per la loro legittima esistenza: 1) un titolo giuridico definitivo; 2) l'esatta individuazione del creditore; 3) la scadenza dell'obbligazione entro l'esercizio finanziario di riferimento. Non è, pertanto, ritenuta conforme a legge l'assunzione di un impegno di spesa in relazione ad un provvedimento con il quale un assessore regionale si limita a distribuire astrattamente una determinata somma tra le varie Province della Regione, in quanto atto che non produce ancora alcuna obbligazione per l'amministrazione regionale.

sono indisponibili le somme stanziate in bilancio per effettuare pagamenti per vincoli giuridici già sorti ma non perfezionati, sicché con l'impegno non "nasce" l'obbligo giuridico del pagamento, dovendosi attendere il perfezionamento del vincolo. Circa la nozione di perfezionamento, l'art. 20 della L. 468/1978 - che, per porsi come attuazione di principi costituzionali, deve esser definita legge rafforzata - ribadisce il principio per il quale, in tema di bilanci e contabilità dello Stato, a formare impegni debbono essere solamente le somme dovute dallo Stato stesso a seguito di obbligazioni giuridicamente perfezionate, e non anche le generiche previsioni di spesa [C.conti, sez. Contr., 22-10-1994, 115/1994]. Inoltre, la conservazione a residui delle disponibilità dei capitoli di spesa deve trovare sostegno in un preciso titolo giuridico, non potendosi ritenere valido un impegno, assunto in previsione di future esigenze [C.conti, sez. Contr., 04-07-1985, 1571/1985].

gli impegni assunti possono riferirsi solo all'esercizio in corso, ad eccezione delle spese in annualità e di quelle a pagamento differito.

L'assunzione di impegni di spesa in eccedenza alle previsioni di bilancio e l'imputazione a capitoli o rubriche non pertinenti si configurano come irregolarità non solo formalmente censurabili, ma come vere e proprie violazioni dei principi di trasparenza e veridicità del bilancio e della sua gestione [C.conti, sez.Contr.Enti 1988]. Inoltre, l'assunzione di impegni di spesa su capitoli sprovvisti di fondi realizza «disordine contabile e violazione delle norme e dei principi di buona amministrazione» [ C.conti, sez. Contr. Enti, 1987].

Le Ragionerie centrali e quelle periferiche memorizzano nel loro sistema elettronico informatico (e così controllano) gli impegni di spesa, registrandoli ove risultino:

conformi all'autorizzazione,

regolarmente documentati,

giustamente imputati sui capitoli di bilancio,

coperti da un fondo disponibile.

Il vincolo nascente dall'art. 81 della Costituzione, secondo cui ogni legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte, si connette alla nozione di legge di spesa, costituzionalizzando un criterio già rinvenibile nella normativa sulla contabilità generale dello Stato e cioè quello della cosiddetta copertura finanziaria, riguardante essenzialmente il conto di bilancio cui è imposto l'equilibrio, da conseguire tramite l'adeguamento dei mezzi finanziari rispetto a nuove o maggiori spese.

La registrazione viene rifiutata quando manchi alcuni dei requisiti di cui sopra: in tal caso, il capo della Ragioneria ne riferisce al Ministro, il quale non può dare ordine scritto di registrare l'impegno (come può invece accadere in altre ipotesi). I vari Ministeri devono anche comunicare alle rispettive Ragionerie i cd. impegni provvisori, quelli cioè in corso di formazione perché l'atto di assunzione dell'impegno non è ancora divenuto definitivo.

Per effetto della decretazione d’urgenza, di sentenze additive, di calamità naturali, dell'assunzione temporanea di personale non di ruolo, può verificarsi uno squilibrio nel bilancio già approvato: la copertura finanziaria di questi oneri aggiuntivi e quindi il ripristino dei limiti della spesa globale segue procedure differenziate. Ad es. per le sentenze additive che estendono benefici economici ad intere categorie, la Pubblica amministrazione deve darne immediata comunicazione alla Presidenza del Consiglio dei ministri, sicché il Ministero del Bilancio e quello del Tesoro possano relazionare al Parlamento (D.P.R. 29/1993).
Per i rinnovi contrattuali del pubblico impiego, l'originario stanziamento vale come copertura iniziale, salvi una esatta valutazione dei nuovi oneri a carico dei bilanci futuri.

Dopo la chiusura dell'esercizio finanziario, la differenza tra stanziamento e impegno va portata in economia.
Gli impegni assunti entro il 31 dicembre, per i quali non si è concluso il procedimento di spesa, diventano residui passivi.
Questi, unitamente ai residui di stanziamento (quelli per i quali non si è avuto neanche l'impegno) vengono inseriti in un Decreto Ministeriale del Ministero interessato da registrarsi presso la Corte dei conti.

Trascorsi tre anni, i residui sono soggetti a perenzione amministrativa, un istituto peculiare della contabilità pubblica. I residui perenti sono eliminati dalle scritture contabili, ma la perenzione non comporta la prescrizione del diritto credito, che resta quinquennale [cfr. Corte Cost. 50/81].

Se il creditore richiede il pagamento di un residuo perento, questo viene reiscritto nel capitolo di spesa di provenienza e viene coperto con somme stornate dal Fondo di riserva per le spese obbligatorie e d’ordine, se trattasi di spesa corrente, o dal Fondo speciale per la riassegnazione dei residui perenti, se trattasi di spesa in conto capitale.

È illegittimo il comportamento dell'Amministrazione che provvede a contabilizzare un avanzo di esercizio senza il previo riaccertamento dei residui attivi e passivi mediante l'applicazione degli istituti contabili dell'abbandono dei crediti e della perenzione amministrativa o prescrizione dei debiti [C.conti, sez. contr., 06-05-1993, 75/1993].

La seconda fase del procedimento: la liquidazione

La liquidazione è la determinazione dell'esatto ammontare della spesa o del debito con contestuale individuazione dell'esatto creditore.
La liquidazione va corredata dai documenti comprovanti il diritto di credito redatti nelle modalità stabilite dalla legge di contabilità generale.
In particolare, i conti dei fornitori (per provvista di beni mobili) devono essere documentati dagli scontrini di carico che attestano la ricezione del materiale e l'iscrizione nell'inventario da parte del consegnatario.

La terza fase del procedimento: l'ordinazione

L'ordinazione è l'emissione del titolo di spesa per il pagamento di una somma di denaro nei confronti dei creditori (cd. solutio).
L'obbligazione dello Stato avente ad oggetto una somma di denaro è sottratta alle norme di diritto comune sulle obbligazioni pecuniarie, e quindi:

il creditore non può invocare l'art. 1181 del Codice civile e non può quindi rifiutarsi di accettare un pagamento parziale, se la pubblica amministrazione non è in grado di erogare la spesa in unica soluzione;

l'obbligazione è sempre adempiuta nel domicilio dell'Amministrazione debitrice (Tesoreria), non applicandosi l'art. 1182 del Codice civile;

l'obbligazione si estingue con l'effettivo pagamento della somma e non con l'emissione del titolo di spesa, che ha invece la sola funzione di rendere il credito liquido ed esigibile secondo le norme della contabilità di Stato (non secondo il Codice civile), e di far decorrere da quel momento gli interessi corrispettivi in deroga all'art. 1282 Cassazione Sezioni Unite, sentenze n. 517/57, 1352/71, ecc.; Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 25/1968];

l'emissione del titolo di spesa rende inapplicabile l'art. 1206 c.c. poiché non occorre la procedura dell'offerta reale per evitare la mora debendi.

Il titolo di spesa può concretarsi in atti amministrativi quali: ordinativi o mandati diretti, assegni, ordini di accreditamento, ruoli di spesa fissa, forme speciali.
I titoli di spesa vengono preventivamente controllati [circa la causa legale della spesa, la regolare imputazione ai residui o alla competenza, ecc.] e vistati dalla Ragioneria Centrale, che altrimenti in caso di irregolarità può riferire in proposito al Ministro.
I titoli vanno poi vistati e registrati alla Corte dei conti [cd. visto per l'ammissione a pagamento], prima di essere inviati presso le sezioni di Tesoreria provinciali, ovvero prima che venga effettuata la cd. transazione sul sistema informatico integrato.

Il mandato diretto era la forma più diffusa prima di essere sostituita dagli ordini di accreditamento mediante funzionari delegati. Esso consisteva nell'ordine (amministrativo) dato dall'Amministrazione alla Tesoreria (agente pagatore, vincolato dall'atto di supremazia) di pagare la somma direttamente al creditore.
Il regolamento n.367/1994 ha sostituito il supporto cartaceo con il mandato informatico, e lo ha reso tendenzialmente contestuale all'ordinazione, prevedendo che gli atti di impegno devono contenere una "clausola di ordinazione della spesa" formata da tutti gli elementi necessari per provvedere al pagamento.

Gli ordini di accreditamento sono delle aperture di credito a favore di funzionari delegati per provvedere a determinate spese. Si pensi alle spese per attuazione di programmi, o per lo svolgimento di attività rientranti nelle competenze dei dirigenti deleganti.
Di tutti i pagamenti effettuati, il funzionario delegato deve rendere il conto amministrativo, ossia dei rendiconti periodici all'Amministrazione di appartenenza. Tali rendiconti sono rappresentativi di una gestione nel senso di insieme di atti gestori non legati da comune vincolo di finalizzazione: ciò pone la questione se egli sia soggetto al giudizio di conto, essendo esonerato dal rendere il conto giudiziale.
La giurisprudenza ritiene che, pur non avendo l'obbligo di rendere il conto giudiziale, il funzionario delegato è pur sempre responsabile degli ammanchi, e che la responsabilità contabile non è necessariamente subordinata alla presentazione del conto. Dunque, egli è soggetto passivo di un'obbligazione cd. di restituzione, quantificabile nella discordanza tra i valori ricevuti e quelli di cui dà conto.

Spesa pubblica, deficit e debito pubblico

Se la spesa pubblica non viene adeguatamente coperta dalle entrate dello Stato (es. tassazione), questi entra in una situazione finanziaria tipica di deficit pubblico ed è dunque in qualche modo costretto a sanare il disavanzo indebitandosi ovvero contraendo, con vari possibili soggetti economici, quello che si chiama un debito pubblico. In tal senso un ulteriore voce di costo della spesa pubblica è quella che comprende il pagamento degli interessi sul debito pubblico.

Spesa pubblica in Italia

(dati Istat in milioni di Euro)

voce

2001

2002

2003

2004

2005

2006

2007

2008

2009

2010

2011

2012

Uscite correnti al netto interessi




547.051

568.899

587.222

608.206



723,3



TOTALE USCITE COMPLESSIVE

600.464

614.984

648.696

667.539

691.976

729.474

753.425

774.412

797.479

793.513




Tasso di occupazione

Il tasso di occupazione è un indicatore statistico del mercato del lavoro che quantifica l'incidenza della popolazione che ha un'occupazione sul totale della popolazione e si calcola come rapporto percentuale tra il numero di persone occupate e la popolazione (attiva, totale, ecc).

Definizioni

In generale:

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A seconda degli obiettivi del ricercatore o semplicemente della disponibilità dei dati il numero degli occupati viene rapportato:

alla popolazione nel suo complesso

alla popolazione oltre una certa età (solitamente l'età minima legale per lavorare. In Italia 14 anni fino alla fine degli anni 1990 e 15 anni dagli anni 2000)

alla popolazione in età lavorativa intesa in senso convenzionale (solitamente tra l'eta minima: 15 anni e l'età per la pensione: 65 anni)

Quest'ultima definizione è quella che indica meglio delle altre in che misura si attinge al "serbatoio" di persone potenzialmente capaci di lavorare, in quanto esclude i troppo giovani e gli anziani e viene indicata come "tasso specifico di occupazione".


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In presenza di un bassissimo tasso di disoccupazione si può ricorrere pure al tasso di attività.

Il tasso specifico per età contempla sia per il numeratore che per il denominatore la stessa fascia di età.

Aspetto non secondario di tale indicatore è la definizione di occupato, che può variare a seconda delle esigenze del ricercatore o, più frequentemente, degli standard internazionali. In Italia viene pubblicato dall'ISTAT il tasso di occupazione calcolato sui dati e definizioni dell'Indagine campionaria delle forze di lavoro. Secondo gli attuali criteri utilizzati dall'ISTAT utilizzati nella Rilevazione Continua sulle Forze di Lavoro (RCFL), vengono conteggiati come occupate le persone con 15 anni e oltre che rientrano in una delle seguenti condizioni:

1. nella settimana di riferimento hanno svolto almeno un’ora di lavoro in una qualsiasi attività che prevede un corrispettivo monetario o in natura;

2. quelle che hanno svolto almeno un’ora di lavoro non retribuito nell’impresa di un familiare nella quale collaborano abitualmente;

3. le persone che per diversi motivi sono assenti dal lavoro (per esempio per ferie, per malattia) con alcune limitazioni:

1. nel caso dei lavoratori dipendenti l’assenza non deve superare i tre mesi e la retribuzione non deve essere sotto la soglia del 50%;

2. nel caso dei lavoratori indipendenti, sono considerati “occupati” quelli che durante il periodo d’assenza, mantengono l’attività;

3. nel caso, invece, dei coadiuvanti familiari, per essere considerati “occupati” l’assenza non deve superare i tre mesi.

Teorie sull'occupazione

In materia di occupazione ci sono due teorie: quella classica e quella keynesiana.

Teoria Classica

Secondo la teoria classica, di ispirazione liberista, il sistema economico si trovava normalmente in equilibrio e non esisteva la disoccupazione, se vi fossero stati problemi veniva risolto semplicemente attraverso la riduzione dei salari, gli imprenditori così avrebbero potuto avere più assunzioni. Per la teoria classica la disoccupazione era causata da un eccesso di salario.

Teoria Keynesiana

La crisi del 1929 smentì l'esistenza di un equilibrio economico naturale e favorì l'affermarsi della teoria di Keynes, che suggeriva, allo scopo di combattere la disoccupazione, una politica di interventi statali volti a sostenere la domanda globale. Keynes sostenne la rigidità verso il basso dei salari, cioè l'impossibilità di diminuirli, grazie all'azione di tutela dei sindacati.

Voci correlate

Tasso di attività

Tasso di disoccupazione

Legge di Okun

Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta

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« Worldly wisdom teaches that it is better for reputation to fail conventionally than to succeed unconventionally. »

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« La saggezza del mondo insegna che è cosa migliore per la reputazione fallire in modo convenzionale, anziché riuscire in modo anticonvenzionale. »


La Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta (in lingua inglese The General Theory of Employment, Interest and Money) è l'opera più importante dell'economista inglese John Maynard Keynes, che, con essa, ha gettato le fondamenta del moderno pensiero macroeconomico. L'opera fu pubblicata per la prima volta nel 1936, dando vita alla cosiddetta "rivoluzione keynesiana" nel modo in cui gli economisti e gli uomini di governo vedono l'economia della nazione, specialmente riguardo all'opportunità dell'intervento pubblico nell'economia, tramite l'azione sulla domanda aggregata. Ne scaturì una visione dell'economia politica e della politica economica che – sebbene integrata, in alcuni modelli, con alcune conclusioni dell'economia neoclassica – rimase pressoché egemone fino al fiorire, negli anni settanta, del monetarismo, che ebbe come capofila Milton Friedman.

Il contesto storico

« Ho intitolato questo libro Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, insistendo sull’aggettivo generale. Lo scopo di tale titolo è di contrapporre il carattere dei miei ragionamenti e delle mie conclusioni a quelli formulati nella stessa materia dalla teoria classica [...] Dimostrerò che i postulati della teoria classica si possono applicare soltanto ad un caso particolare e non a quello generale, poiché la situazione che essa presuppone è un caso limite delle posizioni di equilibrio possibili. Avviene inoltre che le caratteristiche del caso particolare presupposto dalla teoria classica non sono quelle della società economica nella quale realmente viviamo; cosicché i suoi insegnamenti sono ingannevoli e disastrosi se si cerca di applicarli ai fatti dell’esperienza. »

(J. M. Keynes, Teoria Generale dell’Occupazione, dell’interesse e della moneta, cap. 1)

La Teoria generale venne pubblicata nel 1936, quando ancora erano pienamente in atto le conseguenze del "Giovedì nero" e della Grande depressione. Il reddito nazionale degli Stati Uniti calò del 38 per cento tra il 1929 e il 1932, i prezzi si dimezzarono e la disoccupazione raggiunse livelli estremamente alti. Nel periodo tra il 1929 e il 1933, il tasso di disoccupazione passò dal 3 per cento al 25 per cento. In questa situazione la validità della legge di Say, in base alla quale è sempre verificata l'equivalenza tra produzione e domanda e, di conseguenza, è impossibile che il sistema economico funzioni al di sotto della piena occupazione, fu messa decisamente in dubbio. La crisi andava avanti da oltre sei anni e tra le ricette suggerite dall'ortodossia economica dell'epoca (quella che oggi viene definita economia neoclassica) non c'erano rimedi adatti alla gravità della situazione.

In questo contesto trovava terreno fertile l'opposizione alla teoria ortodossa. Come sostenuto, tra gli altri, dall'economista e storico del pensiero economico John Kenneth Galbraith, l'opera di Keynes, il quale imputò la crisi al livello estremamente basso degli investimenti, «dovette in gran parte la sua accettazione alla Grande depressione e all'incapacità degli economisti classici di affrontare con successo quell'evento intimamente sconvolgente».

Tema dell'opera

Nel suo libro Esortazioni e profezie, Keynes aveva lamentato i suoi frustranti tentativi di alterare l'opinione pubblica durante la Grande depressione dei primi anni trenta. La Teoria generale rappresentò il suo principale tentativo di cambiare il quadro analitico di riferimento per il pensiero macroeconomico.

In breve, la Teoria generale argomenta che il livello della domanda aggregata (in un sistema chiuso agli scambi con l'estero, la domanda aggregata è pari alla somma tra consumo e investimento, pubblico e privato) in un'economia moderna è determinato da una serie di fattori: la propensione marginale al consumo (la percentuale di un aumento di reddito che i cittadini scelgono di spendere per l'acquisto di beni e servizi) e l'investimento in beni capitali (a sua volta dipendente dal tasso di interesse, che ne influenza il costo, e dal tasso di rendimento atteso, attraverso il confronto con l'efficienza marginale del capitale). Il livello del tasso di interesse è, poi, fortemente influenzato dalla preferenza per la liquidità.

La principale argomentazione di Keynes è che in un'economia funestata da una debole domanda aggregata (come nel caso della Grande depressione), con una sentita difficoltà a procedere verso la crescita del reddito nazionale, il governo – o, più in generale, il settore pubblico – ha la possibilità di incrementare la domanda aggregata tramite la spesa pubblica per l'acquisto di beni e servizi, fattore esogeno e finalizzato all'aumento di occupazione. Ciò potrà essere finanziato anche tramite politiche di deficit di bilancio; l'indebitamento pubblico, sotto determinate ipotesi, non aumenterà il tasso di interesse al punto di scoraggiare l'investimento privato.

Piano dell'opera

L'opera è preceduta da quattro prefazioni: la prefazione generale e le prefazioni per le edizioni tedesca, giapponese e francese. Seguono sei libri:

Libro primo. Introduzione, capitoli I-III, nel quale si spiega il significato del titolo dell'opera, vengono richiamati i princìpi della teoria economica ortodossa dell'epoca (da Keynes denominata economia classica) e viene introdotto il principio della domanda effettiva.

Libro secondo. Definizioni e idee, capitoli IV-VII. Nel primo capitolo del libro Keynes si sofferma sulle unità di misura da adottare nell'analisi economica. Nel secondo descrive il modo attraverso il quale le aspettative influenzano la produzione e l'occupazione. Negli ultimi due capitoli del libro, infine, definisce reddito, risparmio e investimento.

Libro terzo. La propensione al consumo, capitoli VIII-X. Nei tre capitoli del libro si analizzano i fattori oggettivi e soggettivi che determinano la propensione al consumo degli operatori e l'influenza che la propensione marginale al consumo ha sul valore del moltiplicatore degli investimenti.

Libro quarto. L'incentivo ad investire, capitoli XI-XVIII. Gli otto capitoli che compongono il libro quarto descrivono le determinanti dell'investimento. In essi Keynes definisce l'efficienza marginale del capitale e il ruolo delle aspettative a lungo termine. Vengono poi confrontate le teorie del tasso di interesse: la teoria "generale" e quella "classica". Nel quinto capitolo del libro (capitolo XV) vengono spiegate le motivazioni psicologiche e commerciali che stanno dietro a quella che viene chiamata preferenza per la liquidità. I capitoli successivi sono dedicati alla natura del capitale, alle proprietà essenziali del tasso d'interesse e della moneta e ad una riesposizione della teoria "generale" dell'occupazione.

Libro quinto. Salari monetari e prezzi, capitoli XIX-XXI. Il libro quinto si occupa del mercato del lavoro (attraverso lo studio delle variazioni dei salari monetari e l'introduzione della funzione dell'occupazione) e della teoria dei prezzi.

Libro sesto. Brevi note suggerite dalla teoria generale, capitoli XXII-XXIV. Le "note" di Keynes alla sua Teoria generale riguardano il ciclo economico, il mercantilismo, le leggi sull'usura, la moneta stampigliata e le teorie del sottoconsumo. Infine, viene delineata una filosofia sociale che dovrebbe guidare le decisioni dei politici, derivante dalle conclusioni della Teoria generale.

Il titolo

Nel primo, breve capitolo della sua opera, Keynes spiega i motivi che lo hanno spinto a intitolarla Teoria generale. Ciò che, secondo l'economista di Cambridge, differenzia la sua analisi della macroeconomia da quella fino ad allora prevalente (che egli definisce economia classica, comprendendo in questa definizione le opere di Alfred Marshall, John Stuart Mill, Francis Ysidro Edgeworth e Arthur Cecil Pigou), sta nel considerare quanto sostenuto dai suoi predecessori come valido solo in un caso particolare, un equilibrio non sempre verificato nella realtà. La sua teoria, invece, è generale.

Temi ed idee

La discontinuità con la teoria preesistente: il mercato del lavoro

Nel secondo capitolo, che fa parte dell'introduzione dell'opera, Keynes individua gli assunti che ritiene fondamentali della teoria economica ortodossa dell'epoca e mette in luce i punti verso i quali è maggiormente critico. Keynes ritiene che, dal punto di vista della teoria dell'occupazione, la teoria classica si basi su due postulati fondamentali:

Il salario è uguale al prodotto marginale del lavoro.

L'utilità del salario, per un dato ammontare di lavoro occupato, è uguale alla disutilità marginale di quell'ammontare di occupazione.

Il primo postulato, che Keynes accetta, si basa sull'ipotesi che il salario di un lavoratore è uguale al prodotto in più che viene ottenuto tramite il lavoro dell'ultimo salariato impiegato, o, più precisamente, il valore del prodotto che andrebbe perduto rimuovendo un'unità di occupazione. Il secondo, sul quale l'economista di Cambridge basa la sua critica, significa che i lavoratori accettano un salario reale che, secondo loro, è sufficiente a mobilitare l'ammontare di occupazione offerto. Conseguenza di questi due postulati è che, secondo gli economisti classici (in senso keynesiano), non può esistere disoccupazione involontaria, ma solo frizionale e volontaria.

Il primo tipo di disoccupazione è, per così dire, fisiologico in una società dinamica: infatti riguarda tutti quei casi di lavoratori non impiegati temporaneamente perché si stanno spostando da un lavoro ad un altro, o si verifica a causa di errori di calcolo da parte delle imprese, o per altri motivi di tipo organizzativo. Il secondo tipo di disoccupazione è dovuto alla volontà, da parte dei lavoratori, di non accettare il salario che equivale al prodotto marginale che essi vanno ad aggiungere alla produzione. Secondo i neoclassici, le imprese spingono la produzione fino a quando la produttività marginale è uguale ai salari reali e, di conseguenza, l'unico limite all'occupazione è dato proprio dal livello dei salari reali, in quanto le imprese tendono a portare sempre più in alto il livello della produzione per ottenere maggiori ricavi.

Keynes muove due obiezioni a questo modo di pensare, partendo dall'ipotesi (che egli considera ampiamente verificabile nella realtà dei fatti) che vi sono lavoratori che sarebbero disposti ad accettare il salario corrente, ma restano comunque non occupati. In primo luogo, sostiene Keynes, «i lavoratori non guardano al salario reale (se non in casi eccezionali, come, ad esempio, di iperinflazione), ma a quello monetario». Essi non usciranno dal mercato del lavoro perché, ad esempio, i prezzi sono aumentati (e sono diminuiti, quindi, i salari reali). Al massimo, lo faranno quando diminuiscono i salari monetari. Inoltre, i lavoratori (o, meglio, le organizzazioni che firmano i contratti collettivi) non decidono in base ai salari reali, sui quali non possono influire, ma in base a quelli monetari. Di conseguenza, il salario reale non può essere considerato come uguale alla disutilità del lavoro, perché i lavoratori non possono far sì che i due valori coincidano.

Keynes non esclude, quindi, la possibilità che esista disoccupazione involontaria, che egli definisce in questi termini:

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« Men are involuntarily unemployed If, in the event of a small rise in the price of wage-goods relatively to the money-wage, both the aggregate supply of labour willing to work for the current money-wage and the aggregate demand for it at that wage would be greater than the existing volume of employment. »

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« Si ha disoccupazione involontaria quando, nel caso di un piccolo aumento del prezzo delle merci-salario rispetto al salario monetario, sia l'offerta complessiva di lavoro da parte di lavoratori disposti a lavorare al salario monetario corrente, sia la domanda complessiva di lavoro a quel salario, sarebbero maggiori del volume di occupazione esistente. »

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La curva della produttività marginale ha un andamento decrescente nella teoria neoclassica e in quella keynesiana. Keynes, però, a differenza dei suoi predecessori neoclassici, non la vede anche come curva della domanda di lavoro. Questa variabile è influenzata, nella sua visione, dal livello della domanda aggregata.

La causa della disoccupazione, di conseguenza, è da ricercare al di fuori del mercato del lavoro. Quest'ultimo, infatti, come è stato sottolineato, è un mercato il cui comportamento è passivo, nel senso che l'equilibrio nel mercato del lavoro deriva da forze esterne ad esso. Nell'opera viene ipotizzato che la causa della disoccupazione involontaria vada ricercata in uno scarso livello della domanda aggregata. Keynes, come è stato già detto, non rifiuta il primo postulato, ovvero la correlazione tra produttività marginale del lavoro e salari reali, ma inverte l'ordine causale fino ad allora prevalente. Non sono i salari reali a influenzare la produttività marginale del lavoro. Al contrario, data la curva di produttività marginale del lavoro, la domanda aggregata determina «il volume dell'occupazione, e questo volume dell'occupazione corrisponde univocamente ad un dato livello di salari reali; ma queste relazioni non sono reversibili». La curva della produttività marginale va vista come tale, non come una curva della domanda di forza lavoro da parte degli imprenditori in relazione ai salari. In base al livello dell'occupazione, viene stabilito il livello dei prezzi e quindi, dati i salari monetari (che vengono decisi tramite la contrattazione collettiva), dei salari reali. Dal punto di vista logico, il livello dell'occupazione viene prima di quello dei salari reali.

Qualora il livello della domanda e della produzione fosse basso, è vero che i salari reali aumenterebbero, ma i lavoratori non potrebbero decidere di abbassarsi il salario reale e provocare un aumento dell'occupazione. Sempre nelle parole di Keynes, «una discesa dell'occupazione, benché comporti necessariamente che i lavoratori ricevano un salario equivalente ad una maggiore quantità di merci-salario, non è dovuta necessariamente al fatto che i lavoratori domandino una maggior quantità di merci-salario».

La critica alla legge di Say

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Per approfondire, vedi Legge di Say.

La critica all'altro pilastro della teoria neoclassica, la legge di Say, è il terzo grande punto di discontinuità tra Keynes e i suoi predecessori. Per la legge di Say (che prende il nome da Jean-Baptiste Say, economista classico) «l'offerta crea la propria domanda»: la domanda si adegua alla produzione, al punto tale che non è possibile che ciò che viene prodotto resti invenduto, perché la produzione genera un reddito di importo equivalente e il reddito, a sua volta, viene sempre speso per intero per acquistare merci. La spiegazione neoclassica di questa legge consiste nel sostenere che c'è un prezzo (che in questo caso è il tasso di interesse) che porta sempre in equilibrio risparmio e investimento, in modo da far sì che domanda e offerta di beni vengano eguagliate. Keynes non contesta l'ipotesi che la produzione generi un reddito di importo equivalente, bensì si concentra sull'ipotesi successiva: il fatto che tutto il reddito venga speso (prima o poi) è, a suo avviso, un'assunzione errata, e la spiegazione va cercata soprattutto nelle motivazioni che determinano le scelte di investimento.

La legge della domanda effettiva

La croce keynesiana

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Una delle più celebri rappresentazioni grafiche del principio keynesiano della domanda effettiva è quella esposta da Alvin Hansen nel 1953, nella sua opera A Guide to Keynes. Il grafico è conosciuto come "diagramma a croce diagonale" o come "croce keynesiana".

In un diagramma cartesiano, in ordinata è riportato il livello della domanda aggregata (29ae38122282a2780dd7e07ca6dd71c7.png) e in ascissa il livello della produzione (d0b2de72087a82eb8e2a16113dc385e6.png). Dall'origine degli assi è tracciata una retta inclinata a 45 gradi, che è la retta sulla quale si trovano tutte le possibili posizioni di equilibrio (bcf25732df84c89f3999a547c2f00958.png, la domanda è uguale alla produzione): la produzione non potrà attestarsi su punti al di fuori della retta, in quanto questi ultimi rappresentano situazioni di disequilibrio tra domanda e offerta. Affinché sia determinato il livello di produzione che l'industria metterà in atto, tra gli infiniti punti di equilibrio sulla retta bcf25732df84c89f3999a547c2f00958.png, c'è bisogno di un ulteriore elemento: il livello della domanda aggregata, rappresentato dalla retta di colore blu. Nel punto in cui le due rette si incontrano, il livello della produzione è tale che la domanda (retta blu) è uguale all'offerta. Quando la domanda è maggiore della produzione, le scorte si esauriranno e le imprese decideranno di produrre di più in un periodo successivo, generando un aumento del reddito distribuito. Il ragionamento inverso può essere fatto in caso di eccesso di offerta. Di conseguenza, a livelli più alti della domanda aggregata (a posizioni più elevate della retta blu) corrisponderanno livelli più alti di produzione. Graficamente, elevando la posizione della retta blu, il punto in cui essa incontra la retta a 45 gradi è corrispondente ad un livello più alto di d0b2de72087a82eb8e2a16113dc385e6.png, cioè della produzione.


Alla pars destruens consistente nel rifiuto della legge di Say, fa seguito una pars costruens, nella quale l'autore cerca di spiegare da cosa è determinato il reddito di equilibrio. Keynes individua la determinante principale del reddito di equilibrio nel livello della domanda effettiva.

Per Keynes gli imprenditori adeguano la produzione in base al ricavo che pensano di ottenere da un determinato livello di occupazione. L'obiettivo degli imprenditori è quello di massimizzare i propri profitti. Il profitto dell'imprenditore, sommato al costo dei fattori della produzione, costituisce il ricavo totale di un dato livello di occupazione. Indicando con f9c1b05c0bc11393c6814d9ad6a1eff4.png il ricavo previsto da un dato livello di occupazione 0d3bb157050546770cc4f0be14a983e2.png, e con e68d44886f2d6caeac2dd2b0dff6489a.png il prezzo complessivo di offerta, sempre con lo stesso livello di occupazione 0d3bb157050546770cc4f0be14a983e2.png, agli imprenditori converrà produrre fino a quando e71f0389fad7869b892513d88abd30c5.png. Finché 28909650b16badc1a4e84db6e395c194.png, agli imprenditori converrà aumentare la produzione, perché potranno ottenere maggiori profitti. Aumenterà, quindi, l'occupazione 0d3bb157050546770cc4f0be14a983e2.png. Aumentando l'occupazione, aumenteranno anche i costi di produzione (e68d44886f2d6caeac2dd2b0dff6489a.png) e, di conseguenza, f9c1b05c0bc11393c6814d9ad6a1eff4.png e e68d44886f2d6caeac2dd2b0dff6489a.png tenderanno ad eguagliarsi. Il livello di f9c1b05c0bc11393c6814d9ad6a1eff4.png per il quale questo valore è uguale a quello di e68d44886f2d6caeac2dd2b0dff6489a.png viene detto domanda effettiva. La produzione andrà ad attestarsi al livello della domanda effettiva e l'occupazione verrà adeguata allo scopo.

Maggiore è il ricavo che gli imprenditori pensano di ottenere, maggiore sarà la produzione, e maggiore sarà l'occupazione necessaria. f9c1b05c0bc11393c6814d9ad6a1eff4.png, ovvero il ricavo previsto dagli imprenditori, è la somma di due quantità: 5bcc623210975e257192d005cb6e81c2.png, la spesa in consumi prevista dall'imprenditore, e fcf634b222fcdbadc207622e1eee67b7.png, la spesa in nuovi beni capitali (o investimento) sempre come prevista dall'imprenditore. 5bcc623210975e257192d005cb6e81c2.png, a sua volta, dipende dalla propensione al consumo, dalla percentuale di reddito, cioè, che i suoi percettori decidono di destinare all'acquisto di beni di consumo. Quando l'occupazione 0d3bb157050546770cc4f0be14a983e2.png aumenta, nella teoria keynesiana, aumenta il reddito ed aumenta la domanda di beni di consumo (5bcc623210975e257192d005cb6e81c2.png); quest'ultima aumenta meno del reddito, perché i percettori di reddito non consumeranno tutto ciò che percepiscono. Di conseguenza, ferma restando la propensione al consumo, se fcf634b222fcdbadc207622e1eee67b7.png non aumenta, agli imprenditori non converrà più mantenere il precedente livello di occupazione, perché f9c1b05c0bc11393c6814d9ad6a1eff4.png sarebbe minore di e68d44886f2d6caeac2dd2b0dff6489a.png ed essi produrrebbero in perdita. Un basso livello di fcf634b222fcdbadc207622e1eee67b7.png, secondo Keynes, può portare ad un equilibrio stabile di sotto-occupazione. La cosa più grave che l'autore della Teoria generale sottolinea, inoltre, è che più una società è ricca, meno spenderà per i propri consumi e maggiore sarà la necessità di fcf634b222fcdbadc207622e1eee67b7.png nella prospettiva di una piena occupazione. Non solo: una società ricca ha, di regola, una gran quantità di capitale già accumulato, e le opportunità di investimento necessarie a far crescere fcf634b222fcdbadc207622e1eee67b7.png sono più scarse che in una società povera (la quale, inoltre, spende gran parte del proprio reddito in beni di consumo, facendo aumentare 5bcc623210975e257192d005cb6e81c2.png e rendendo meno drammatica la necessità di investimenti in beni capitali).

A ben vedere, dire che l'investimento non è sufficiente a colmare il divario tra 5bcc623210975e257192d005cb6e81c2.png e f9c1b05c0bc11393c6814d9ad6a1eff4.png, cioè tra la domanda per consumi e reddito, equivale a dire che il risparmio è maggiore dell'investimento, perché la differenza tra il consumo e il reddito derivante da una determinata produzione è il risparmio. Di conseguenza, Keynes sostiene che la collettività non può risparmiare per un ammontare minore rispetto all'investimento, in quanto questo farebbe aumentare il reddito ed anche il risparmio, fino a quando risparmio e investimento tornano ad uguagliarsi. Lo stesso vale nel caso in cui il risparmio eccede il livello dell'investimento. Questo in quanto, come si è visto, se l'investimento è minore del risparmio, agli imprenditori converrà diminuire il volume della produzione (perché la domanda sarà minore dell'offerta), e, quindi, diminuirà il reddito. La diminuzione del reddito farà scendere anche il livello del risparmio, fino a quando questo andrà ad eguagliare l'investimento. Il ruolo dell'investimento nella crescita del reddito viene approfondita nel decimo capitolo, dedicato al cosiddetto moltiplicatore degli investimenti e della produzione.

Le componenti della domanda aggregata: la propensione al consumo

Il terzo e il quarto libro della Teoria generale sono dedicati alle componenti della domanda aggregata: rispettivamente essi trattano del consumo e dell'investimento, ovvero dei motivi che spingono a consumare (o non consumare) e ad investire.

La propensione al consumo è definita come il rapporto tra il consumo e il reddito. Indicando con cc70857933548ea0747aea9647ce6b78.png il consumo espresso in termini di unità di salario, con 020417a632c6e18dd95bc5ec8634181d.png il livello del reddito espresso sempre in unità di salario e con e5d7a288d52f75131c60b3b1b5d81fb3.png la propensione al consumo, si potrà scrivere:

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Il valore della propensione al consumo è determinato da due ordini di fattori: i fattori oggettivi e quelli soggettivi. I fattori oggettivi che contribuiscono alla determinazione del valore della propensione al consumo sono vari. Il primo è una variazione dell'unità di salario, che porterà i consumi a variare nella stessa direzione. Il ruolo di questo tipo di variazioni nella propensione al consumo è comunque già insito nella formula vista, nella quale consumi e reddito sono espressi, appunto, in unità di salario. Altro fattore che determina il valore di e5d7a288d52f75131c60b3b1b5d81fb3.png è una variazione della differenza tra reddito e reddito netto. Quando la relazione tra reddito e reddito netto è stabile, si può tener conto del reddito; quando la relazione non è stabile, si può tener conto del reddito solo laddove questo influisca sul reddito netto. Ancora in riferimento al reddito netto, Keynes dà molta importanza a variazioni accidentali dei valori capitali delle quali non si è tenuto conto nel calcolare il reddito netto. Il quarto fattore che può influire sulla propensione al consumo è il tasso di interesse, ma l'effettivo ruolo di questa variabile è considerato molto incerto. Se è vero che il tasso di interesse ha poca importanza nel determinare la propensione al consumo, ciò non vale per il ruolo che il tasso di interesse gioca nel determinare le somme effettivamente destinate al consumo: il valore del tasso di interesse, infatti, influisce sul livello degli investimenti e, quindi, sul valore della domanda effettiva e sul reddito distribuito. Cambiando il valore del reddito, può quindi cambiare il valore della spesa in consumi senza che si modifichi la propensione al consumo. Anche la politica fiscale ha un suo ruolo, soprattutto laddove venga utilizzata per distribuire più equamente il reddito. Sempre nell'ambito della politica fiscale, viene sottolineato che la costituzione di fondi per l'ammortamento dei debiti statali ha un suo ruolo sul valore della domanda effettiva, in quanto è un vero e proprio risparmio forzato. L'ultimo fattore oggettivo è costituito dalle variazioni nelle aspettative sulla relazione fra il livello presente e futuro del reddito, ma viene trattato in modo molto superficiale perché considerato molto poco importante e, comunque, troppo incerto. In definitiva, Keynes considera la propensione al consumo come una funzione molto stabile e questi fattori oggettivi, sebbene non vadano trascurati, non sono molto importanti.

Lo stesso dicasi per i fattori di tipo soggettivo che possono spingere a consumare o, in alternativa, a risparmiare. Per quel che riguarda gli individui, i fattori che possono influenzare la propensione al consumo (e quindi al risparmio) sono: la necessità di dar vita a una riserva per affrontare imprevisti, la volontà di risparmiare per investimenti futuri (ad esempio nell'educazione dei figli), il progetto di godere del tasso di interesse, o di una spesa progressivamente crescente. Inoltre è possibile che gli individui vogliano risparmiare per avere un maggior senso di indipendenza economica, per avere disponibile moneta per progetti speculativi o commerciali, per costituire un'eredità o per avarizia pura e semplice. Anche l'amministrazione pubblica e le società hanno motivazioni per decidere di risparmiare: la costituzione di una riserva atta a investire ulteriormente senza indebitamento, la volontà di detenere una certa somma liquida per far fronte ad emergenze, il movente del miglioramento, atto a dar vita ad un reddito crescente, e la prudenza finanziaria. Anche gli elementi soggettivi, comunque, sono considerati come statici e non influiscono sulla stabilità del rapporto tra consumi e reddito.

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Le curve del consumo (rossa) e del risparmio (verde) in funzione del reddito.

Nel descrivere la forma che la funzione del consumo assume in funzione del reddito, si ipotizza che di norma il consumo aumenta con l'aumentare del reddito, ma non tanto quanto aumenta il reddito. In termini matematici, «7cf63e0fe768533ae968f45d915c7eb6.png ha lo stesso segno di ab44db250d23e69ad3cc0448b628c48e.png, ma è inferiore, ossia 224ad8c84dcefa014bc66893ca47e4e0.png è positiva e inferiore all'unità». Ne consegue che, all'aumentare del livello del reddito, il consumo crescerà, ma crescerà sempre di meno. La funzione del consumo viene così ad essere crescente in maniera decrescente. Conseguenza diretta di quanto affermato, è che il livello del risparmio, invece, è una funzione crescente in maniera crescente. Questo è compatibile con l'affermazione che, all'aumentare del reddito, se non aumentano anche gli investimenti, i consumi non cresceranno a sufficienza per mantenere quel determinato livello dell'occupazione. Un basso livello degli investimenti (50af521f0de40c195845d96113e9a670.png) farà tendere il livello dell'occupazione e del reddito distribuito verso il basso, e il processo andrà avanti fino a quando il risparmio scenderà ad un punto tale che il livello degli investimenti sia sufficiente (209c26fd309ffb10639d1a4b2b965278.png) a mantenere quel determinato livello di occupazione.

La propensione marginale al consumo e il moltiplicatore keynesiano

Nel 1931, l'economista inglese Richard Ferdinand Kahn pubblicò un articolo nel quale introduceva una relazione tra il livello dell'occupazione e quello degli investimenti. Nella Teoria generale, partendo da questo modello, denominato moltiplicatore dell'occupazione, John Maynard Keynes introduce il concetto di moltiplicatore dell'investimento. Un ruolo importante, nella formulazione della teoria, viene giocato da quella che viene chiamata propensione marginale al consumo, cioè l'aumento del consumo dovuto a un aumento del reddito. In termini matematici, la propensione marginale al consumo è data dalla formula 224ad8c84dcefa014bc66893ca47e4e0.png. Il moltiplicatore dell'investimento ha un valore strettamente legato a quello della propensione marginale al consumo. La formula cui viene applicato il moltiplicatore è la seguente:

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Grazie a questa formula, viene descritto l'effetto che un aumento degli investimenti ha sulle variazioni del reddito, data la propensione marginale al consumo. ab44db250d23e69ad3cc0448b628c48e.png è la variazione del reddito misurato in termini di unità di salario, 10b2393f70565da189ad83ed0d32e40d.png è la variazione degli investimenti misurati in termini di unità di salario e 2cc2ffacf2cc90de890fda4533f604e2.png è il moltiplicatore dell'investimento. La propensione marginale al consumo è pari a 12ef7c86ca4aa2d1df799877e53d9096.png, e si può quindi concludere che il valore del moltiplicatore è pari al reciproco della propensione marginale al risparmio. Più sarà alta la propensione marginale al consumo (più bassa, dunque, la propensione marginale al risparmio), più ampio sarà l'effetto dell'aumento degli investimenti sul reddito. Ne deriva che, in una collettività nella quale la propensione marginale al consumo è pari al 90%, cioè a a03a13a240339eac5364a8e676cf9083.png, il valore di 2cc2ffacf2cc90de890fda4533f604e2.png sarà pari a 10.

Il finanziamento degli investimenti è affidato al maggiore risparmio derivante dall'aumento del reddito. «Il moltiplicatore ci indica di quanto l'occupazione deve aumentare per far aumentare il reddito reale in misura sufficiente ad indurre il pubblico ad accantonare il necessario risparmio aggiuntivo. [...] Se il risparmio è la pillola e il consumo è la marmellata, la nuova marmellata deve esser proporzionata alla grandezza della pillola aggiuntiva».

L'effetto degli investimenti può essere parzialmente eliso da alcuni fattori, soprattutto laddove gli investimenti sono di natura pubblica. In questi casi, potrebbe verificarsi un aumento del tasso di interesse e del costo dei beni capitali, il che potrebbe portare a un minore investimento da parte dei privati. Lo stesso effetto potrebbe essere causato da una diminuzione della fiducia nella crescita dell'economia. Bisogna, inoltre, tener conto del fatto che in un sistema aperto agli scambi con l'estero, l'aumento della domanda viene in parte rivolto ai beni esteri (anche se questo elemento porta ad un aumento del reddito estero e, quindi, ad una maggiore domanda estera, anche per beni nazionali). Infine, laddove vi siano aumenti consistenti del reddito, bisogna considerare anche la diminuita propensione marginale al consumo. Per descrivere quantitamente questi effetti di elisione, Keynes prende in prestito un'analisi di Kahn in base alla quale se un'economia fosse caratterizzata, in quanto sistema chiuso, da un moltiplicatore pari a 5, questo, in un sistema aperto e con le complicazioni introdotte, andrebbe a scendere tra 2 e 3. Ciò non significa, però, che il ruolo del moltiplicatore vada trascurato.

Gli effetti del moltiplicatore sono sintetizzabili dicendo che un aumento dell'investimento fa aumentare l'occupazione nei settori che producono beni capitali. L'aumento dell'occupazione, però, non si ferma a questi settori, ma, tramite l'aumentato consumo dei fattori che partecipano alla produzione dei beni capitali, si estende anche alle imprese che producono beni di consumo. Questo processo va avanti ad ondate sempre meno consistenti, dovute alla forma decrescente della propensione marginale al consumo. Questi effetti possono essere considerati istantanei laddove gli aumenti di investimento siano del tutto previsti dalle imprese che producono beni di consumo, mentre possono essere differiti nel tempo in caso contrario. Ciò non viene considerato, dall'autore, influente sulla validità della teoria.

In conclusione del capitolo dedicato al moltiplicatore, Keynes utilizza una metafora, quella dello "scavar buche", contro i principi del laissez-faire. Effettuare investimenti considerati parzialmente improduttivi può essere più utile che effettuarne di totalmente improduttivi, ma più accettabili politicamente (come i sussidi di disoccupazione). La provocazione di Keynes sta nell'affermare che se l'autorità pubblica seppellisse bottiglie e lasciasse ai privati il compito di disseppellirle, per il principio del moltiplicatore, aumenterebbero il reddito reale e l'occupazione. Anche la spesa in armamenti e le guerre, i terremoti e altre catastrofi che richiedano una ricostruzione, sono considerate dei toccasana, dal punto di vista degli indicatori macroeconomici, in una società troppo prudente in ambito finanziario. «Effettivamente sarebbe più sensato costruire case e simili; ma se per questo si incontrano difficoltà politiche e pratiche, quanto sopra sarebbe meglio di niente», afferma Keynes.

Il ruolo delle aspettative a breve termine nelle decisioni di produzione

Nel capitolo 5 viene affrontato, in via introduttiva, il tema delle aspettative degli imprenditori e del ruolo che queste hanno sulla produzione e sull'occupazione. La necessità che i datori di lavoro si formino delle aspettative deriva dal fatto che tra il momento della produzione e il momento della vendita deve trascorrere del tempo, tempo durante il quale l'imprenditore «non ha altra scelta fuorché lasciarsi guidare da tali aspettative».

Keynes delinea due tipi di aspettative:

le aspettative a breve termine, cioè quelle riguardanti il ricavo previsto dalla vendita di prodotti finiti e rilevanti nel momento in cui l'imprenditore dà vita al processo di produzione;

le aspettative a lungo termine, riguardanti i ricavi futuri previsti in seguito ad un acquisto di beni capitali da aggiungere agli impianti.

Le prime aspettative saranno utili all'imprenditore nel momento in cui questi decide l'entità della produzione giornaliera. Anche il ricavo effettivamente conseguito avrà un ruolo nelle scelte del produttore, ma solo laddove andrà a modificare le aspettative. Inoltre, le aspettative passate avranno influenza sulla produzione corrente in quanto già incorporate nell'entità degli impianti già esistenti. In generale, comunque, le aspettative modificheranno gradualmente l'occupazione (con la possibilità, da Keynes ritenuta molto probabile, di un'iniziale reazione eccessiva).

Le aspettative a breve termine non sono, nelle conclusioni della Teoria generale, indispensabili nel cercare di spiegare il livello della produzione. Infatti, esse sono soggette ad una revisione continua e ciò porta ad un andamento molto ondivago della cosiddetta occupazione di lungo periodo. Ad ogni livello delle aspettative, infatti, corrisponde un'occupazione di lungo periodo: è il livello di occupazione che si avrebbe se le aspettative rimanessero valide per un periodo abbastanza lungo da permettere loro di influire in modo completo.

Le aspettative a lungo termine e l'efficienza marginale del capitale

Una delle variabili che influenzano le scelte di investimento degli operatori è la cosiddetta efficienza marginale del capitale. Keynes la definisce come il rapporto tra il reddito prospettico di un investimento e il prezzo di offerta di un capitale, o come il rapporto tra il reddito prospettico derivante da un'unità aggiuntiva di capitale e il costo al quale questa unità viene prodotta. Il reddito prospettico è costituito dalla somma dei ricavi futuri che l'imprenditore si aspetta di ottenere da un determinato investimento. Il prezzo di offerta del capitale non è il prezzo di mercato del capitale, ma «il minimo prezzo sufficiente ad indurre un produttore a produrre una nuova unità aggiuntiva di tale capitale». L'efficienza marginale del capitale può essere definita anche come quel particolare tasso di sconto che rende uguali il valore attuale del reddito prospettico atteso e il prezzo di offerta. Ciò significa che se l'efficienza marginale del capitale (cb78038ca3022e2c2a1ea08137ab7209.png) è maggiore del tasso di interesse (bf58147b31e6cf2c87a7d746e0fee771.png), sarà conveniente effettuare l'investimento. L'investimento finirà di aumentare quando cb78038ca3022e2c2a1ea08137ab7209.png sarà uguale a bf58147b31e6cf2c87a7d746e0fee771.png. All'aumentare dell'investimento, l'efficienza marginale del capitale si riduce, perché diminuisce il reddito prospettico ed aumenta il prezzo di offerta dei beni capitali. Keynes pone fortemente l'accento sul fatto che l'efficienza marginale del capitale è legata alle aspettative sui valori del reddito prospettico. Sostiene che queste sono molto importanti nella determinazione del valore dell'investimento: questo aumenterà, oggi, nel caso in cui le aspettative suggeriscano maggiori costi di produzione in futuro. L'evento di maggiori costi di produzione in futuro significa che la produzione del futuro avrà prezzi più alti e sarà meno competitiva rispetto alla merce prodotta oggi. Il contrario avverrà in caso di aspettative volte a vedere i costi di produzione in ribasso.

Il valore della moneta (ovvero il livello dei prezzi) è molto importante nell'analisi in questione. Previsioni di un futuro aumento dei prezzi fanno aumentare il reddito prospettico atteso, e in questo modo influiscono sull'efficienza marginale del capitale. Anche il tasso di interesse atteso ha un suo ruolo, sebbene ritenuto poco importante dall'autore: le sue variazioni, in futuro, influenzeranno la convenienza a dar vita ad una nuova produzione e a nuovi investimenti, e le aspettative al riguardo influenzano il livello attuale della produzione e dell'investimento.

Un altro fattore che influisce sull'efficienza marginale del capitale è il rischio. A rischiare, nella decisione di investire, sono generalmente due tipi di operatore: l'imprenditore e il suo creditore. Quando l'imprenditore utilizza fondi già a sua disposizione, bisogna tener conto solo del rischio che egli corre di non vedere realizzate le proprie previsioni, ma quando utilizza fondi prestati, il ruolo del rischio raddoppia. Ciò ha importanza soprattutto nelle fasi di boom economico, nelle quali gli operatori diventano molto poco avversi al rischio.

Fattori che influenzano le aspettative a lungo termine

Le aspettative a lungo termine sono quelle che influenzano l'incentivo ad investire. Infatti esse, cambiando, modificano il reddito prospettico e, di conseguenza, l'efficienza marginale del capitale. Le aspettative di questa categoria sono associate a un grado crescente di incertezza, quanto più si spingono in avanti nel tempo, e questo porta gli operatori a concentrarsi maggiormente su considerazioni riguardanti fatti più vicini nel tempo e concretamente osservabili. Ne deriva la tendenza a proiettare le attuali condizioni anche ai periodi successivi. Questo è un altro fattore che influenza l'efficienza marginale del capitale, attraverso l'influenza sulle aspettative: lo stato di fiducia nelle proprie previsioni.

La stabilità delle aspettative, secondo Keynes, è andata diminuendo, e quindi lo stato di fiducia è andato peggiorando, con l'introduzione delle borse e con la separazione tra proprietà e gestione delle imprese. La possibilità di rastrellare i risparmi tramite il mercato azionario ha certamente favorito gli investimenti nuovi, ma ha anche minato la loro stabilità, a causa della componente speculativa predominante negli scambi di questo tipo. L'esempio di Keynes è il seguente: potrebbe sembrare ragionevole effettuare un investimento di 25 attendendosi di ottenere un reddito prospettico di 30, ma per investimenti trattabili su mercati azionari ciò non è sempre vero, in quanto il mercato stesso potrebbe valutarlo 20, senza che effettivamente siano cambiate le condizioni reali (gusti dei consumatori, livello della domanda aggregata, stato della tecnologia) che erano alla base della previsione di un reddito prospettico pari a 30.

Ciò che ha reso le borse uno strumento indispensabile per garantire un certo afflusso di investimenti nuovi è anche ciò che li ha resi così instabili. Nel breve periodo l'investitore può essere abbastanza tranquillo: ha la possibilità di modificare le sue scelte di investimento tanto rapidamente quanto più liquidi sono i titoli (cioè quanto più rapidamente sono scambiabili con moneta), in modo da sentirsi sicuro. Contemporaneamente egli rende, in un certo senso, un servizio alla collettività, garantendole una quantità pressoché fissa, in linea generale, di investimento nuovo. Nello stesso tempo, però, la facilità con la quale egli può modificare le sue scelte di investimento si traduce nella possibilità che i capitali investiti si prosciughino, danneggiando anche gli investitori di lungo periodo e l'attività produttiva.

La separazione tra proprietà e gestione ha influenzato la stabilità della valutazione dei titoli e, quindi, del valore degli investimenti, perché sempre di più coloro che decidono come investire sanno poco o nulla delle reali condizioni dell'impresa. Allo stesso modo, i mercati tendono a reagire eccessivamente alle notizie sui profitti degli investimenti, e sono soggetti a irrazionali crisi di panico o ad altrettanto irrazionali fasi di euforia, dovute ai cosiddetti animal spirit, gli istinti degli operatori. Anche lo stato di fiducia dei creditori, ovvero dei prestatori dei fondi con i quali verranno effettuati gli investimenti, ha un suo ruolo. La principale causa dell'instabilità delle quotazioni sui mercati azionari è, però, il comportamento degli speculatori. Questi soggetti non hanno alcun interesse al rendimento prospettico degli investimenti e ai dividendi, ma sono interessati solo ai guadagni in conto capitale, ovvero alle variazioni di valore dei titoli. Perseguendo questo obiettivo, la loro principale preoccupazione è quella di capire quanto il mercato valuterà un determinato investimento, non quanto esso effettivamente vale. Inoltre, poiché tutti gli speculatori agiscono così, essi dovranno cercare di capire l'opinione degli altri speculatori sulla valutazione che verrà data dal mercato. Keynes, basandosi anche sulla sua fortunata esperienza di investitore, utilizza una metafora molto celebre, cioè quella del concorso di bellezza (beauty contest). In questa metafora, un giornale mette in palio un premio per chi sarà in grado di indovinare la ragazza vincitrice di un concorso di bellezza nel quale a votare sono gli stessi partecipanti al gioco a premi, «cosicché ciascun concorrente deve scegliere, non quei volti che egli ritenga più graziosi, ma quelli che ritiene più probabile attirino i gusti degli altri concorrenti», a loro volta consapevoli dell'atteggiamento degli altri partecipanti. In questo esempio, «la nostra intelligenza è rivolta ad indovinare come l'opinione media immagina che sia fatta l'opinione media medesima». Keynes ammette che non sempre l'influenza degli speculatori sarà superiore a quella dei cassettisti, ma fa notare come i due "mestieri" siano molto diversi in quanto ad intelligenza necessaria ad affrontarli e difficoltà che comportano. Il cassettista, infatti, a differenza dello speculatore, ha bisogno di maggiori fondi (per ottenere in prestito i quali gode di minore fiducia) ed ha meno informazioni a sua disposizione.

Uno degli strumenti che vengono suggeriti per superare l'instabilità descritta è quello fornito dagli investimenti pubblici, che dovrebbero avere come scopo non quello di guadagnare dal reddito prospettico o dalle oscillazioni del mercato azionario, ma quello di un ritorno in termini sociali. Il reddito prospettico di questi investimenti può anche essere inferiore al tasso di interesse, ma questo riveste comunque una sua importanza, perché lo Stato potrà effettuare investimenti maggiori con tassi più bassi. Nonostante ciò, l'effetto di riduzioni del tasso di interesse tramite una politica monetaria espansiva avrà poca importanza nello stimolare gli investimenti.

Moneta, interesse e liquidità

Gli economisti di scuola neoclassica sostenevano che il tasso di interesse fosse il prezzo che portava in equilibrio la domanda di risparmio, ovvero l'investimento, e il risparmio stesso. La curva dell'investimento veniva mostrata come decrescente rispetto al tasso di interesse, in quanto al diminuire di questa variabile aumentava la convenienza ad investire. Il risparmio, invece, aumentava in maniera direttamente proporzionale rispetto al tasso di interesse. Di conseguenza, la scelta tra il consumare e il non consumare era dettata dal livello del tasso di interesse. Un aumento del risparmio personale era visto come un comportamento virtuoso e benefico nei confronti della comunità: aumentando il risparmio, infatti, il tasso di interesse sarebbe diminuito in quanto gli operatori si sarebbero trovati con risparmio inutilizzato e avrebbero deciso di prestarlo ad un tasso più basso, favorendo l'investimento. Keynes capovolse questo ragionamento, osservando in primo luogo che non si poteva considerare l'atto di risparmiare esattamente uguale all'atto di aumentare l'investimento e l'occupazione. L'aumentata propensione al risparmio porta ad un minor livello del moltiplicatore e della domanda, mettendo in funzione un meccanismo che fa diminuire la produzione, l'occupazione e il reddito. Il tasso di interesse non porta in equilibrio risparmio e investimento (la quantità che si aggiusta è, invece, il reddito), ma domanda e offerta di moneta.

Nella Teoria generale si sostiene che il livello del risparmio è determinato dal livello del reddito, data la propensione al consumo (e, in via residuale, la propensione al risparmio). Il tasso di interesse entra in gioco in una fase successiva, ovvero nel momento in cui il percettore di reddito deve decidere come utilizzare il suo risparmio. Egli ha due opzioni: la prima è quella di conservare la moneta in forma liquida, la seconda è quella di acquistare titoli di credito. La scelta verrà effettuata proprio tenendo conto del livello del tasso di interesse. Per Keynes è possibile costruire una curva della domanda di moneta decrescente rispetto al tasso di interesse. Poiché il tasso di interesse non è mai negativo, sembra che sia impossibile che qualcuno voglia detenere moneta in forma liquida, perché potrebbe guadagnare acquistando titoli di credito, ma ciò non è verificato a causa dell'incertezza sui valori futuri del tasso di interesse. Le motivazioni principali che inducono a detenere moneta sono quattro: il movente del reddito, volto a detenere moneta in funzione delle transazioni che si desiderano effettuare; il movente commerciale, che spinge a detenere moneta per affrontare il periodo che intercorre tra il pagamento dei costi di produzione e il momento in cui si percepiscono i ricavi (insieme al movente del reddito, costituisce il movente per le transazioni); il movente precauzionale, che nasce dalla volontà di mettersi al sicuro da eventuali rischi; il movente speculativo. Quest'ultimo movente è quello che riveste maggiore importanza nella teoria keynesiana ed è quello che ha più rilievo nella determinazione del tasso di interesse di equilibrio. Un aumento del tasso di interesse spingerà gli operatori a detenere minore moneta per due motivi: il primo è che il costo-opportunità di detenere moneta aumenta, essendo misurato proprio dal tasso di interesse che si potrebbe guadagnare dando in prestito la moneta; il secondo è che quando il tasso di interesse aumenta, la maggior parte degli operatori pensa che esso discenderà e gli speculatori sanno che i propri titoli aumenteranno in valore, consentendo loro di ottenere guadagni in conto capitale. In questo senso, la moneta viene domandata non in quanto fonte di potere d'acquisto, ma in qualità di fondo di valore.

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La curva della preferenza per la liquidità. Al tendere del tasso di interesse a un livello molto basso, tende a diventare assoluta.

La politica monetaria viene esercitata attraverso gli effetti provocati dalla preferenza per la liquidità. Fino a quando, infatti, vi saranno operatori il cui pensiero differisce da quello del mercato riguardo alle prospettive del tasso di interesse, sarà possibile manovrarlo tramite operazioni di mercato aperto. Ad esempio, aumentando adeguatamente l'offerta di moneta, il prezzo delle obbligazioni aumenterà in modo da convincere chi ancora detiene titoli a venderle in cambio di moneta. Infatti, lo speculatore che detiene titoli, pensa che il tasso di interesse discenderà ulteriormente e che, quindi, potrà ottenere guadagni in conto capitale. Aumentando l'offerta di moneta in cambio di obbligazioni, il prezzo di queste salirà e alcuni operatori saranno disposti ad abbandonarle, convinti che il prezzo non potrà salire ulteriormente e il tasso di interesse non potrà scendere ulteriormente. Finché vi è una sorta di resistenza psicologica da vincere per rinunciare alla liquidità o per sceglierla, l'autorità monetaria ha il controllo sul tasso di interesse. Questo è ciò che Keynes vuole dire quando sostiene che è «interessante che la stabilità del sistema e la sua sensibilità a variazioni della quantità di moneta dipendano in così grande misura dall'esistenza di una varietà di opinioni riguardo a ciò che è incerto». Cosicché, nel momento in cui il tasso di interesse futuro è previsto all'unanimità, l'autorità monetaria perde il controllo di questa variabile. Ciò è particolarmente importante nel caso in cui il tasso di interesse diventa così basso che nessuno crederà ad ulteriori ribassi: la preferenza per la liquidità diventa assoluta. In questo modo, tutti gli operatori saranno disposti ad accettare di detenere moneta senza negoziazioni sul prezzo delle obbligazioni. Un ulteriore abbassamento dei tassi è reso difficile anche laddove l'opinione pubblica sia abituata ad alti tassi di interesse. Tassi più bassi rispetto a un determinato livello critico sarebbero poco credibili. Ciò è tipico delle economie legate a regimi di cambi fissi o controllati, o caratterizzate da una politica monetaria ondivaga e poco credibile.

La natura del capitale

Nelle sue considerazioni sulla natura del capitale, Keynes marca la sua vicinanza con la dottrina classica. Egli, infatti, considera scorretto sostenere che il capitale sia "produttivo". Considera più corretto vedere il capitale come un bene che dà diritto ad un profitto in virtù della sua scarsità, e non della sua produttività. Ad esempio, la produttività fisica di un capitale non si modificherebbe all'aumentare della sua quantità, ma ciononostante esso darebbe luogo ad un minore rendimento.

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« I sympathise, therefore, with the pre-classical doctrine that everything is produced by labour, aided by what used to be called art and is now called technique, by natural resources which are free or cost a rent according to their scarcity or abundance, and by the results of past labour [...] It is preferable to regard labour, including, of course, the personal services of the entrepreneur and his assistants, as the sole factor of production, operating in a given environment of technique, natural resources, capital equipment and effective demand. »

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« Sono quindi vicino alla dottrina pre-classica, che ogni cosa è prodotta dal lavoro, coadiuvato da ciò che allora usava chiamarsi arte e che ora si chiama tecnica, dalle risorse naturali che sono gratuite o costano una rendita a seconda della loro abbondanza o scarsità, e dai risultati del lavoro del passato [...] È preferibile considerare il lavoro, compresi naturalmente i servizi personali dell'imprenditore e dei suoi collaboratori, come l'unico fattore di produzione, operante in un dato ambiente di tecnica, di risorse naturali, di beni capitali e di domanda effettiva. »

Alcuni processi produttivi lunghi sono molto inefficienti fisicamente, ma non per questo non vengono intrapresi. Il fatto che vengano utilizzati va ricercato nelle circostanze nelle quali i beni in questione vengono prodotti, che possono benissimo implicare una maggior convenienza ad utilizzare processi lunghi. In questi casi, bisogna tenere sufficientemente scarsi i processi brevi affinché siano profittevoli nonostante la consegna immediata del prodotto.

La società "quasi stazionaria"

In una situazione in cui il mercato viene lasciato libero di operare, una società dotata di uno stock di capitale così ampio da avere un'efficienza marginale del capitale pari a zero e in una situazione di piena occupazione, ma nella quale sia presente ancora un incentivo a risparmiare, andrebbe incontro ad un impoverimento. Infatti, se vi è risparmio, ma l'efficienza marginale è zero e, quindi, non possono essere effettuati nuovi investimenti che diano luogo a un profitto, i produttori rischieranno di subire delle perdite continuando a mantenere inalterata la produzione e l'occupazione, poiché la domanda aggregata risulterà sicuramente inferiore alla produzione. La società, quindi, si impoverirà fino a ridurre a zero il risparmio. Ciò potrebbe essere evitato, in assenza di intervento pubblico, solo grazie alla preferenza per il lusso di alcuni individui o all'espediente, già citato, di scavare buche nel terreno. Ancora una volta, però, viene sottolineato che ricorrere a questi escamotage è superfluo, quando si conoscono le determinanti della domanda aggregata e la si può manovrare agevolmente.

Il suggerimento di Keynes è di agire sugli investimenti pubblici e sul tasso di interesse. Quest'ultimo dovrebbe essere tenuto sufficientemente basso affinché non vi sia volontà di accumulare ricchezza, mentre gli investimenti dovrebbero essere spinti al punto in cui sia verificata la piena occupazione e l'efficienza marginale del capitale sia tendente a zero. In questo modo, si darebbe vita ad una «collettività quasi stazionaria» (quasi-stationary community) e avrebbe luogo la cosiddetta eutanasia del redditiere, ovvero dell'operatore che ottiene un rendimento senza svolgere funzioni concrete, ma solo in virtù della sua accumulazione passata e della scarsità del capitale. Ciò non porterebbe alla scomparsa dell'imprenditore, perché colui che sfida la propria capacità di prevedere i redditi prospettici potrebbe ancora venire ricompensato.

Le peculiarità della moneta e il ruolo determinante del tasso di interesse monetario

Così come il tasso di interesse monetario indica l'eccedenza percentuale di una quantità di moneta da corrispondere in futuro, rispetto alla quantità attuale, allo stesso modo tutti i beni durevoli hanno un loro tasso di interesse, diverso per ciascuna merce. Keynes cerca di spiegare perché, sebbene ogni merce durevole abbia il proprio tasso di interesse, sia quello monetario a determinare il tetto massimo oltre il quale la produzione non può spingersi per continuare ad essere conveniente.

Ogni bene capitale ha tre qualità, corrispondenti ai diversi servizi che essi rendono (o oneri che essi comportano) per chi li possiede: partecipa ad un processo di produzione; ha dei costi di mantenimento; è caratterizzato da una certa liquidità. Definendo 0332e6fca491307a6dafe8d6158556a1.png il prodotto ottenuto grazie a quel capitale, 4af8e78733e70c1826b39692ffb9a6e5.png i suoi costi di mantenimento e bcb84e97e1e1c4038fd94213b7c7731f.png il "servizio di liquidità" che esso offre, ne deriva che, in totale, quel capitale rende 4eaabf69a6f4bd689dad5dc8462e247d.png. Prendendo ad esempio i beni "case", "grano" e "moneta", ognuno di essi ha una qualità principale, mentre le altre due sono trascurabili. In particolare, le case offrono un alto rendimento, chiamato c1aa15cd815f7ab252bc6dc030c608bd.png in termini di case, ed hanno un trascurabile costo di mantenimento e un ancor più trascurabile premio per la liquidità; il grano offre un basso rendimento ed una scarsa liquidità, e comporta alti costi di mantenimento, definiti 700bbc2880bf95fc11b435c6eac32ace.png in termini di grano; la moneta, infine, dà diritto a un basso rendimento, è caratterizzata da bassi costi di mantenimento, ma in compenso è il bene liquido per eccellenza, e la sua liquidità è indicata come 39df3d255ecdb2f42a7a897d6e9e617b.png in termini di moneta. Riportando il tutto in termini di moneta e aggiungendo ai vantaggi dei beni poco liquidi le aspettative sul loro apprezzamento in termini monetari (ef0c1a9acd953ff1a84a284e1a12456b.png e 8db0b35a4818224cebb2c42cca227046.png, rispettivamente per le case e per il grano), è possibile confrontare i vari tassi di interesse (ovvero b2c31685337a264896dcd39d80b00e56.png, e81531ba8df57d467c7323dd0969ff9a.png e 39df3d255ecdb2f42a7a897d6e9e617b.png). La domanda di questi beni capitali sarà tanto più grande quanto più alto sarà il loro tasso di interesse e, al limite, le tre quantità si eguaglieranno. Affinché un bene capitale venga prodotto, è necessario che la sua efficienza marginale (in termini di qualunque bene) sia più alta del tasso di interesse (in termini dello stesso bene). All'aumentare dello stock di capitale, la sua efficienza marginale diminuirà, fino a quando la convenienza a produrlo si azzererà del tutto. Al limite, b2c31685337a264896dcd39d80b00e56.png, e81531ba8df57d467c7323dd0969ff9a.png e 39df3d255ecdb2f42a7a897d6e9e617b.png si eguagliano. Ciò vuol dire che se c'è un tasso che scende più lentamente degli altri due, questi ultimi dovranno adeguarsi ad esso. Per Keynes, è proprio il tasso monetario il più restio a diminuire all'aumentare dello stock di capitale, ed è quindi quello che determina il tetto massimo della produzione.

Il ruolo frenante del tasso monetario di interesse è causato dalle caratteristiche peculiari della moneta, la quale ha, infatti, un'elasticità di produzione pari o molto vicina allo zero, nel senso che non può ottenersi più moneta applicando alla sua produzione più lavoratori, e un'elasticità di sostituzione altrettanto bassa, in quanto pur in presenza di un aumento del valore di scambio, non si può essere sicuri che essa venga sostituita con altri beni. In più, una caduta dell'unità di salario (ovvero la quantità di moneta pagata ad un'unità di lavoro), che potrebbe rendere una parte della moneta disponibile in forma liquida e, quindi, soddisfare la preferenza per la liquidità, è non solo molto difficile da attuare, ma rischierebbe di trasformarsi in una manovra controproducente, per gli effetti perversi sulla domanda e, quindi, sull'efficienza marginale del capitale. Tornando alle notazioni precedentemente introdotte, se 795bcfc5afcca36cfb494d33384e2d98.png, non sarà possibile produrre maggiori quantità di case e grano, facendo diminuire c1aa15cd815f7ab252bc6dc030c608bd.png e 700bbc2880bf95fc11b435c6eac32ace.png, se 39df3d255ecdb2f42a7a897d6e9e617b.png non diminuirà a sua volta (ceteris paribus, ovvero considerando immobili ef0c1a9acd953ff1a84a284e1a12456b.png e 8db0b35a4818224cebb2c42cca227046.png). Come si è visto, è difficile che si verifichi un'evenienza del genere.

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« Unemployment develops [...] because people want the moon;—men cannot be employed when the object of desire (i.e. money) is something which cannot be produced and the demand for which cannot be readily choked off. There is no remedy but to persuade the public that green cheese is practically the same thing and to have a green cheese factory (i.e. a central bank) under public control. »

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« ...la disoccupazione si sviluppa perché la gente vuole la luna: gli uomini non possono essere occupati quando l'oggetto del desiderio (cioè la moneta) è qualcosa che non può essere prodotta e la cui domanda non può essere facilmente ridotta. Non vi è alcun rimedio, salvo che persuadere il pubblico che il formaggio sia la stessa cosa e avere una fabbrica di formaggio (ossia una banca centrale) sotto il controllo pubblico. »

I motivi per cui la moneta offre un così alto premio di liquidità rispetto agli altri beni, soprattutto se confrontato con costi di mantenimento irrisori, sono due. Il primo consiste nel fatto che i salari sono definiti in termini di moneta e il secondo, il più importante, è la stabilità del valore della moneta rispetto a quello dei salari. Entrambe queste caratteristiche, poi, sono legate alla quasi inesistente elasticità di produzione del bene-moneta. Da queste considerazioni, Keynes fa discendere un'ipotesi sul motivo per cui l'accumulazione tende ad essere insufficiente. In contrasto con Marshall, che attribuiva la scarsità dei capitali allo scarso risparmio, egli la fa risalire al fatto che, in passato, la terra aveva caratteristiche che oggi sono proprie della moneta.

Per questo motivo, Keynes guarda con favore alle proposte di "riformatori" quali Silvio Gesell, al quale dedica un paragrafo del ventitreesimo capitolo della sua opera e che definisce uno «strano e immeritatamente trascurato profeta». In particolare Keynes si sofferma sulla sua idea (opportunamente modificata) di imporre la stampigliatura della moneta. La pratica consisterebbe nell'obbligare i detentori di moneta a stampigliare periodicamente le banconote, ovvero ad applicarvi delle marche, pena la perdita di validità delle medesime. In questo modo si aumenterebbero i costi di mantenimento della moneta, riducendo la preferenza per la liquidità, ovvero il principale ostacolo a una discesa del tasso monetario d'interesse.

Il ciclo economico: oscillazioni e stabilità

Partendo dall'osservazione della realtà e in base a considerazioni teoriche, la Teoria generale presenta alcune considerazioni sulla stabilità dell'economia. Vi sono infatti alcune cause che portano le diverse variabili che influiscono sulla produzione ad essere abbastanza stabili, ma, contemporaneamente, anche a non allontanarsi troppo da un trend molto distante dalla povertà collettiva e abbastanza distante dalla piena occupazione.

Le cause della stabilità sono tre. In primo luogo, a causa delle variazioni dei costi di produzione al variare della quantità prodotta, le variazioni dell'efficienza marginale del capitale e del tasso di interesse non hanno effetti sproporzionati sul livello dell'investimento. In secondo luogo, il livello di quest'ultimo, a sua volta, non ha un effetto sproporzionato sull'occupazione, in quanto il moltiplicatore non è molto elevato a causa delle caratteristiche della propensione marginale al consumo. Anche la stabilità dei salari monetari contribuisce alla stabilità dei sistemi economici, poiché, anche in periodi di forti fluttuazioni nel livello dell'occupazione, essi non reagiscono in maniera eccessiva.

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Il ciclo economico.

A causare invece il ciclo economico è la natura dei beni capitali, colpiti in genere da un costante logorìo. Al di sotto e al di sopra di un punto critico nel livello dell'investimento, infatti, l'efficienza marginale del capitale tenderà, rispettivamente, a salire o a scendere rapidamente, provocando, di conseguenza, l'espansione o la recessione dell'attività produttiva.

Le variazioni dei salari monetari

La ricetta della teoria neoclassica per stimolare la produzione e l'occupazione consiste nella riduzione dei salari monetari, che conduce alla discesa dei prezzi dei prodotti e, quindi, ne aumenta la domanda. Keynes sostiene che in alcuni casi ciò è possibile, ma che l'analisi non può non tener conto dell'effetto che la contrazione dei salari monetari ha sul livello della domanda da parte dei percettori di salario. Egli contesta la pretesa di trasferire sul piano macroeconomico la legge microeconomica della domanda.

Una riduzione dei salari monetari, infatti, influisce, nella teoria keynesiana, anche sulle componenti della domanda aggregata, ovvero il consumo e gli investimenti. Le variabili da prendere in considerazione sono ancora una volta la propensione al consumo, l'efficienza marginale del capitale e il tasso di interesse. Un aumento della produzione non accompagnato da una propensione marginale al consumo del 100% o da un aumento degli investimenti verrebbe a configurarsi come una perdita per l'imprenditore, qualora questi dovesse illudersi sugli effetti espansivi della diminuzione dei salari monetari. L'accumulazione delle scorte lo indurrà, quindi, a ridurre la produzione e l'occupazione, vanificando l'effetto sperato.

Gli effetti sulla propensione al consumo sarebbero nefasti, perché la riduzione dei salari e, conseguentemente, dei prezzi, metterebbe in atto un trasferimento di reddito dai salariati, che hanno un'alta propensione al consumo, agli altri fattori della produzione. Tale effetto non verrebbe contrastato dalle maggiori entrate per i percettori di rendita, che hanno una propensione marginale al consumo molto bassa.

Un effetto favorevole è l'aumento degli investimenti provocato dal miglioramento della bilancia commerciale, a sua volta dovuto alla maggiore competitività delle merci interne sul mercato internazionale, favorite dal ribasso dei prezzi. C'è da prendere in considerazione, però, il peggioramento della ragione di scambio che deriva dalla riduzione dei prezzi delle merci nazionali rispetto a quelle estere, accompagnato da una riduzione dei redditi reali.

Bisogna tener conto anche delle aspettative riguardo ai futuri livelli dei salari monetari. Infatti, una riduzione che sia considerata passeggera farà aumentare sia l'efficienza marginale del capitale, sia i consumi. Queste due variabili peggioreranno, invece, in caso opposto. Il ruolo delle aspettative è importante anche dal punto di vista dei tassi di interesse. Infatti salari e prezzi più bassi faranno diminuire la domanda di moneta, portando così il tasso di interesse a livelli più favorevoli agli investimenti. Gli investimenti, però, non aumenteranno se si prevede che i prezzi e i salari risaliranno nel futuro, perché l'effetto sui tassi a lungo termine sarà minimo, se non nullo. Inoltre, le tensioni sociali derivanti dalla discesa dei salari monetari potrebbero far aumentare la preferenza per la liquidità. Le stesse reazioni dei lavoratori potrebbero dimostrarsi controproducenti.

L'effetto negativo della discesa dei prezzi sulla posizione debitoria degli imprenditori sarebbe ulteriormente frenante per l'andamento dell'economia, soprattutto se accompagnata da un consistente debito pubblico, il cui peso aumenterebbe, alimentando la sfiducia.

Le poche possibilità di successo che Keynes attribuisce ad una politica di contrazione dei salari monetari riposano sulla diminuita preferenza per la liquidità. Egli, quindi, paragona la discesa dei salari ad una politica monetaria espansiva, ovvero fondata sull'aumento della quantità di moneta in circolazione. Le due politiche, però, non sono uguali dal punto di vista sociale ed economico, considerate le difficoltà connaturate a raggiungere una certa uniformità nella riduzione dei salari di diverse categorie di lavoratori, l'ingiustizia insita nel far pagare ai soli lavoratori il prezzo del rilancio, l'aumento dell'onere delle posizioni debitorie dovuto al ribasso dei prezzi e, nel complesso, la riduzione delle possibilità di investimento dovuta ai precedenti effetti della riduzione dei salari.

La funzione dell'occupazione, la sua elasticità e il livello dei prezzi

La funzione dell'occupazione di Keynes è l'esatto opposto di quella della produzione. Se quest'ultima, infatti, è pari a 65f5b7a9ee919d4a3ed7fde0aeeb7c15.png (dove e68d44886f2d6caeac2dd2b0dff6489a.png è la produzione e 0d3bb157050546770cc4f0be14a983e2.png è l'occupazione), la funzione dell'occupazione può essere scritta nel seguente modo: d02a01717fc43480c24b8bfdfea4cc5d.png (in cui 2b91716d370caf7a580e30cbc91268e9.png rappresenta il livello della domanda in termini di unità di salario). Ciò è coerente con l'idea che il livello dell'occupazione dipende dal livello della domanda aggregata. Questa affermazione, però, non rende appieno le idee keynesiane al riguardo. Infatti, andando ad analizzare nello specifico le componenti della funzione dell'occupazione, si vedrà che essa assumerà forme diverse a seconda di due variabili: l'elasticità dell'occupazione nelle diverse industrie e la durata dell'intero processo di produzione del bene.

L'elasticità dell'occupazione rispetto alla domanda può essere rappresentata ponendo 7116f5c32b3c73d024d880f88e031c06.png. Per la singola impresa bf58147b31e6cf2c87a7d746e0fee771.png avremo ba4b2156494c99ebb2c20dc4fce38197.png. Poiché le elasticità in diverse industrie possono essere diverse, risulta che un'eventuale variazione della domanda avrà maggior effetto se rivolta verso industrie caratterizzate da un'alta elasticità dell'occupazione. In questo caso, l'effetto sarà positivo per la domanda aggregata nel periodo successivo, in quanto i percettori di reddito da lavoro, per Keynes, hanno una propensione al consumo più alta rispetto agli imprenditori. Il maggior reddito conseguito da questi in caso di aumento della domanda verso industrie a bassa elasticità di occupazione non influirà molto sull'aumento della domanda aggregata.

La durata del processo di produzione è strettamente legata a un'altra elasticità, quella di produzione, ovvero la reattività del sistema produttivo rispetto alle variazioni della domanda. Le industrie di beni che necessitano di molto tempo prima di vedere concluso il proprio processo di produzione, reagiranno più lentamente alle variazioni della domanda, creando tensioni nei prezzi.

La critica di Keynes alla teoria quantitativa della moneta parte dalla considerazione che un aumento dell'offerta di moneta non causa, ipso facto, un aumento dei prezzi. Un eventuale aumento dei prezzi potrebbe essere spiegato solo attraverso l'aumento della domanda conseguente a una discesa dei tassi di interesse, ma solo per aumenti di domanda al di là del livello di piena occupazione. L'automatismo tra livello dell'offerta di moneta e livello dei prezzi, quindi, non viene preso in considerazione se non quando l'elasticità della produzione rispetto alla domanda diventa pari a zero. Da questo punto in poi, infatti, i lavoratori non accetteranno più salari reali decrescenti o costanti e l'aumento dei salari monetari che ne deriverà dovrà essere compensato da un aumento dei prezzi. Cosicché nel sistema non cambierà nulla dal punto di vista reale, ma si avrà solo ed esclusivamente inflazione. Solo in questo caso la teoria quantitativa della moneta è rispettata.

Le unità

Il capitolo 4, che apre il secondo libro dell'opera, ha rilevanza soprattutto di natura tecnica. Esso è dedicato all'analisi e alla critica delle unità utilizzate dagli economisti per descrivere e studiare la realtà economica. L'autore indica principalmente nel reddito nazionale, nella consistenza del capitale reale e nel livello generale dei prezzi le unità ritenute insoddisfacenti.

La critica al concetto di reddito nazionale è strettamente legata alla definizione utilizzata da Marshall e Pigou: «il volume della produzione corrente o reddito reale, e non il valore della produzione o reddito monetario». Nella Teoria generale, questa definizione è considerata insufficiente in quanto la produzione è considerata non omogenea, non misurabile e, quindi, inadatta a una scienza di tipo quantitativo. Il secondo concetto analizzato è la consistenza e l'incremento del capitale reale, difficilmente misurabile, quest'ultimo, perché in primo luogo bisogna confrontare nuovi e vecchi beni capitali, quest'ultimi soggetti all'usura del tempo e dell'utilizzo, tenendo conto anche di novità tecnologiche che rendono i beni capitali disomogenei. Inoltre Keynes critica l'impostazione pigouviana della questione, in quanto considera implicito in quella impostazione che Pigou introduca variazioni in valore, variazioni quantitative ma non fisiche, e di carattere non monetario. Infine, considera il concetto di livello generale dei prezzi manifestamente indeterminato. Queste unità, di conseguenza, non hanno una grande utilità in un'analisi di tipo quantitativo, ma possono essere prese in considerazione solo in sede storica e statistica.

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« To say that net output to-day is greater, but the price-level lower, than ten years ago or one year ago, is a proposition of a similar character to the statement that Queen Victoria was a better queen but not a happier woman than Queen Elizabeth—a proposition not without meaning and not without interest, but unsuitable as material for the differential calculus. »

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« Dire che il prodotto netto odierno è maggiore, ma il livello dei prezzi è più basso, di un anno o dieci anni fa è press'a poco come dire che la regina Vittoria fu, come regina, migliore della regina Elisabetta, ma non più felice come donna; proposizione non priva di significato né di interesse, ma inadatta a fornire materia per il calcolo differenziale. »

Le unità che Keynes considera utilizzabili e sufficienti per la sua analisi sono il valore monetario e il volume di occupazione. Per mostrarlo, costruisce una funzione dell'offerta nei termini suddetti. Pone quindi abd73bbad964b49365600c03f7563537.png, ove d4c47c31d304863f6e5ec3c1547e2d5c.png rappresenta il ricavo al netto del costo delle utilizzazioni la cui aspettativa darà vita a un livello 7bdd6bb9fb38738589faadf1d87e38ad.png di occupazione, 815dbf512d3157bb6547ceb651512a84.png, ove feb6b48a9698db80c69ef1d7b86c99b3.png rappresenta il livello della produzione in funzione del livello di occupazione 7bdd6bb9fb38738589faadf1d87e38ad.png. Anche il livello del costo delle utilizzazioni viene descritto in funzione del livello di occupazione, f774f326f1ccc9e1dbe0ac47753f7a71.png. Di conseguenza, viene introdotta la formula del prezzo in relazione alla produzione:

5ed1919af58440dee2af60bbe6763f95.png

Considerazioni extra-economiche

La forza delle idee

Keynes sosteneva che le idee avevano una notevole forza nel guidare gli uomini, e questa forza si manifestava soprattutto attraverso le decisioni degli uomini di potere. In questo il suo pensiero differiva, ad esempio, da quello di Karl Marx, il quale sosteneva che «le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti». Per lui, le idee dominanti erano quelle che si erano sedimentate nel tempo ed erano potenti al punto da influenzare i comportamenti degli uomini di potere. Queste considerazioni sono presenti anche nella Teoria generale. Nel XXIV e ultimo capitolo dell'opera, Note conclusive sulla filosofia sociale alla quale la teoria generale potrebbe condurre, è scritto:

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« Practical men, who believe themselves to be quite exempt from any intellectual influences, are usually the slaves of some defunct economist. Madmen in authority, who hear voices in the air, are distilling their frenzy from some academic scribbler of a few years back. »

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« Gli uomini della pratica, i quali si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto. Pazzi al potere, i quali odono voci nell'aria, distillano le loro frenesie da qualche scribacchino accademico di pochi anni addietro. »

L'impatto dell'opera

La spesa in disavanzo e la produttività degli investimenti pubblici

La ricetta keynesiana, per quanto si è visto, consiste quindi nel sostenere, in qualche modo, la domanda aggregata attraverso l'intervento pubblico. Ciò può avvenire sia in maniera indiretta (tenendo bassi i tassi di interesse, infondendo un clima di fiducia negli investitori, destinando maggiore reddito ai percettori di salario), che in maniera diretta. In particolare, l'intervento diretto dello Stato nell'economia può essere effettuato attraverso spesa (anche improduttiva) «finanziata con fondi presi a prestito». Questo è quel che, nei manuali di economia, viene definito deficit spending o spesa in disavanzo: l'autorità di governo, pur di sostenere la domanda aggregata, mette in secondo piano la necessità di avere un bilancio in pareggio o, addirittura, in avanzo.

Come ricorda il premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz, uno degli aspetti sui quali si è concentrata la critica monetarista alla teoria economica keynesiana è il ricorso al deficit di bilancio, considerato tutt'altro che utile nel migliorare la situazione economica. Ad esempio, si è sostenuto che le politiche di spesa in disavanzo provocassero l'aumento del tasso di interesse attraverso la maggiore richiesta di fondi (dando origine al fenomeno dello spiazzamento o crowding out), un clima di sfiducia tra gli investitori e tensioni inflazionistiche. La frase che, però, ha maggiormente prestato il fianco a queste critiche è quella, già citata, che indica lo "scavar buche" come alternativa all'inattività. Si è ritenuto che le politiche keynesiane fossero, oltre che inutilmente dispendiose, anche improduttive. Come, però, alcuni economisti keynesiani (come Joan Robinson) e neo-keynesiani (come lo stesso Stiglitz) hanno osservato, «Keynes non voleva che nessuno scavasse buche per riempirle», ma utilizzava questa metafora per criticare quello che riteneva un inutile atteggiamento di austerità da parte delle autorità. Il curatore dell'edizione italiana UTET del 2006 della Teoria generale, Terenzio Cozzi, sostiene, nell'introduzione all'opera, che i riferimenti a progetti di investimento non produttivi sono quasi del tutto assenti, fatta eccezione per il passo sullo "scavar buche".

La Teoria generale nella politica economica

Spesso le politiche keynesiane negli Stati Uniti sono associate al presidente Franklin Delano Roosevelt. Roosevelt effettivamente gestì direttamente i due eventi che, secondo Galbraith, sono alla base del successo delle politiche keynesiane tra i policy maker. Gli eventi in questione sono la crisi del 1929 e la seconda guerra mondiale. Roosevelt, eletto nel 1932, l'anno successivo inaugurò la fase del New Deal. Quest'ultimo, ovviamente, non poteva essere influenzato dalla Teoria generale, che sarebbe stata pubblicata soltanto tre anni dopo, ma risentiva, comunque, dell'influenza dei precedenti lavori di Keynes.

Effetti ancora maggiori ebbe la seconda guerra mondiale, con gli ingenti investimenti in materiale bellico previsti dal Victory Program del 1941. Essa fu il primo grande banco di prova dell'efficacia di una politica fortemente interventista da parte delle autorità economiche. Effettivamente il prodotto nazionale lordo statunitense, nel periodo 1939-1944, ebbe un incremento notevole (da 320 a 569 milioni di dollari); la disoccupazione scese dal 17,2 per cento all'1,2 per cento nel medesimo periodo. Il merito di questa marcata espansione economica fu quasi unanimemente attribuito alle politiche di investimento bellico. Dopo la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, durante gli anni sessanta diversi paesi (tra i quali il Giappone, diversi paesi europei, come Francia, Germania e Italia, e alcuni paesi in via di sviluppo) adottarono provvedimenti riconducibili ai precetti keynesiani.

Skidelsky critica l'impostazione che vede le idee di Keynes come la principale causa della crescita del periodo bellico e post-bellico, sostenendo che, sia nel bene (la fase di crescita), che nel male (l'inflazione degli anni settanta), l'influenza della teorie economiche keynesiane è stata sopravvalutata. Skidelsky si spinge ancora oltre nel minimizzare l'influenza di Keynes e della Teoria generale sulle scelte politiche dei paesi in questione. La sua critica si basa sul fatto che nei due paesi che hanno per primi attuato politiche keynesiane, ovvero Stati Uniti e Gran Bretagna, non sarebbero mai state prese decisioni realmente keynesiane, in quanto nessuno dei due paesi attuò il deficit spending suggerito dall'economista britannico per rincorrere l'obiettivo della piena occupazione. Entrambi poterono basarsi su bilanci floridi che permettevano di espandere la spesa pubblica senza ricorrere all'aumento delle passività del settore pubblico.

L'eredità della Teoria generale: critiche, integrazioni e rinascita

Per Keynes, contrariamente a quanto si sosteneva nell'Ottocento, l'economia di libero mercato fondata sull'«individualismo capitalista d'oggigiorno» non è in grado di regolarsi da sola, ma è necessario che lo Stato intervenga pesantemente sia per evitarne l'autodistruzione, sia per perseguire attivamente lo scopo della piena occupazione: «una socializzazione di una certa ampiezza dell'investimento si dimostrerà l'unico mezzo per consentire di avvicinarci alla occupazione piena», all'interno di «una vasta estensione delle funzioni tradizionali di governo», difesa «sia come l'unico mezzo attuabile per evitare la distruzione completa delle forme economiche esistenti, sia come la condizione di un funzionamento soddisfacente dell'iniziativa individuale». Il rischio, altrimenti, è quello di una completa perdita di libertà, non solo economica: «i moderni sistemi di stato autoritario sembrano risolvere il problema della disoccupazione a scapito dell'efficienza e della libertà». Qui si vede fra l'altro che la riflessione della Teoria generale era fortemente legata al contesto storico: non solo alla crisi del '29 ma anche ai regimi autoritari degli anni trenta. Keynes non era un socialista, tutt'altro. Per lui il capitalismo era un sistema economico imperfetto, ma migliorabile, e sicuramente preferibile all'alternativa prospettata dal marxismo. In questo senso è lo stesso autore a definire la sua dottrina «moderatamente conservatrice nelle conseguenze che implica». È a questo che si riferiscono diversi autori quando definiscono la teoria keynesiana come una "Rivoluzione per salvare il capitalismo", o quando sostengono che «in contrasto con il mutamento a un tempo sollecitato e previsto da Marx, il risultato conseguito da Keynes consistette in quanto egli permetteva che restasse immutato».

Keynes previde perciò nella Teoria generale che il suo lavoro avrebbe condotto a una rivoluzione nel modo di intendere la politica economica e l'intervento dello Stato nell'economia: il pensiero keynesiano ebbe in effetti un'enorme influenza nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale. Il boom del dopoguerra fu favorevole all'adozione di politiche basate sui precetti keynesiani e fino agli anni settanta la teoria dell'economista di Cambridge fu quella maggiormente in voga, sia nello studio dell'economia politica, sia nelle politiche economiche dei governi.

Il pensiero keynesiano si fece spazio ben presto negli ambienti accademici statunitensi, con qualche resistenza eccellente (uno su tutti, Joseph Schumpeter). I principali "apostoli" dei contenuti della Teoria generale furono Alvin Hansen e Lauchlin Currie. Il primo, inizialmente acceso sostenitore della teoria ortodossa, fu in seguito il maggior sostenitore delle idee esposte nell'opera di Keynes. Lauchlin Currie, che fu funzionario della Federal Reserve e consigliere economico del presidente, favorì l'adozione di politiche fondate sulla nuova teoria. Altro accademico importante nel campo della diffusione del pensiero keynesiano fu Simon Kuznets, il quale, attraverso i suoi modelli statistici, avvalorò le idee che prevedevano un intervento a sostegno della domanda aggregata.

Inizialmente, gli economisti neoclassici si erano limitati a cercare punti di contatto tra la loro visione dell'economia e le ricette di Keynes. Nacque il cosiddetto modello della sintesi neoclassica della teoria keynesiana, meglio conosciuto come modello IS-LM, incentrato sull'applicazione delle teorie di Léon Walras sull'equilibrio economico generale alle conclusioni della Teoria generale.

Tra gli anni sessanta e gli anni settanta, come già accennato, emerse un nuovo problema, del quale la Teoria generale non si era occupata in maniera approfondita: l'inflazione, accompagnata da disoccupazione. La stagflazione di quegli anni rese l'approccio keynesiano meno popolare tra economisti teorici e uomini di governo. Così come in un periodo di disoccupazione e deflazione aveva trionfato un economista che proponeva idee per risolvere questi problemi, allo stesso modo durante gli anni settanta ebbe successo il monetarismo, il cui principale esponente era Milton Friedman, tutto incentrato sul controllo dell'inflazione e sul ritorno a concezioni liberiste della politica economica.

Una rinascita delle teorie di Keynes si è avuta con il sorgere della nuova macroeconomia keynesiana ad opera di economisti come Olivier Blanchard, Edmund Phelps, Joseph Stiglitz e altri. Essa si basa sull'informazione incompleta che colpirebbe le conoscenze degli operatori economici, portandoli ad una posizione di equilibrio, definita come una situazione in cui, pur non essendovi equilibrio in senso stretto, ovvero uguaglianza tra domanda e offerta, nessuno ha interesse a modificare i propri comportamenti. Ciò deriva dall'imperfezione della concorrenza, a sua volta provocata dal sussistere di asimmetrie informative.


Economia del benessere

L'Economia del benessere, che prende il nome dal titolo di un celebre libro dell'economista inglese Arthur Cecil Pigou, The Economics of Welfare, è una disciplina dell'economia che studia le ragioni e le regole di fenomeni sociali al fine di formulare soluzioni tali da tendere ad una situazione di ottimo sociale.

Descrizione

È un'analisi di tipo normativo, che si preoccupa pertanto non solo di analizzare ma anche di valutare determinate situazioni economiche.

Gli strumenti macroeconomici utilizzati si rifanno alla teoria dell'equilibrio economico generale di stampo keynesiano, quindi alla determinazione della capacità produttiva e redistributiva del sistema nel suo complesso, e hanno l'obiettivo di determinare la massimizzazione del benessere della comunità tutta.

L'Economia del benessere per trovare attuazione concepisce il ruolo centrale dell'attività dell'apparato statale, non come autonoma fonte di valori ma come aggregato delle volontà individuali, con oggetto la valutazione della desiderabilità sociale di situazioni economiche alternative, costruendo una graduatoria di diversi stati del mondo.

Criteri dell'analisi

L'Economia del benessere si basa su due criteri di valutazione fondamentali, l'efficienza e l'equità di un determinato stato del mondo, mentre i giudizi di valore sono:

ottimo paretiano: Una situazione economica nella quale non è possibile accrescere il benessere di un individuo senza diminuire quello di un altro rappresenta una situazione di ottimo paretiano. Un ottimo paretiano è una condizione di unanimità circa l'impossibilità di raggiungere uno stadio migliore del mondo attraverso altre transazioni.

la valutazione del livello del benessere viene effettuata dall'individuo preso in esame e non da terzi.

Il primo giudizio comporta il necessario consenso unanime della collettività presa in esame ed è il parametro principale per raggiungere la valutazione riguardo l'efficienza.

Teoremi fondamentali

« Un sistema di mercato perfettamente concorrenziale è in grado di realizzare un'allocazione ottimo-paretiana »

(Primo teorema fondamentale dell'economia del benessere)

« Modificando adeguatamente la distribuzione iniziale delle risorse tra gli individui e lasciando poi all'operare del mercato la realizzazione dell'allocazione efficiente delle risorse, è possibile raggiungere una diversa situazione di ottimo rispetto a quella realizzata con l'iniziale distribuzione delle risorse. »

(Secondo teorema fondamentale dell'economia del benessere)

Stato sociale

Lo Stato sociale è una caratteristica dello Stato che si fonda sul principio di uguaglianza sostanziale, da cui deriva la finalità di ridurre le disuguaglianze sociali. In senso ampio, per Stato sociale si indica anche il sistema normativo con il quale lo Stato traduce in atti concreti tale finalità; in questa accezione si parla di welfare state (stato del benessere tradotto letteralmente dall'inglese, detto anche stato assistenziale).

Caratteristiche

Lo Stato sociale è una forma di Stato che si propone di fornire e garantire diritti e servizi sociali, ad esempio:

Assistenza sanitaria.

Pubblica istruzione.

Indennità di disoccupazione, sussidi familiari, in caso di accertato stato di povertà o bisogno.

Previdenza sociale (assistenza d'invalidità e di vecchiaia).

Accesso alle risorse culturali (biblioteche, musei, tempo libero).

Difesa dell'ambiente naturale.

Questi servizi gravano sui conti pubblici attraverso la cosiddetta spesa sociale in quanto richiedono ingenti risorse finanziarie, le quali provengono in buona parte dal prelievo fiscale che ha, nei Paesi democratici, un sistema di tassazione progressivo in cui l'imposta cresce più che proporzionalmente al crescere del reddito.

Origine dello stato sociale

Lo Stato sociale nacque e si consolidò in Occidente durante il XIX ed il XX secolo, di pari passo con la storia della civiltà industriale. La sua evoluzione può essere suddivisa in tre fasi successive.

Una prima, elementare, forma di Stato sociale o più esattamente di Stato assistenziale. venne introdotta nel 1601 in Inghilterra con la promulgazione delle leggi sui poveri (Poor Law). Queste leggi prevedevano assistenza per i poveri nel caso in cui le famiglie non fossero in grado di provvedervi e, oltre ad avere in sé un palese contenuto filantropico, prendevano le mosse da considerazioni secondo cui riducendo il tasso di povertà, si riducevano i fenomeni negativi connessi come la criminalità.

La seconda fase, opera di monarchie costituzionali conservatrici o di pensatori liberali, si riconduce alla prima rivoluzione industriale ed alla legislazione inglese del 1834 (l’estensione al continente europeo avvenne solo nel periodo tra il 1885 ed il 1915). Anche in questo caso le forme assistenziali sono da ritenersi individuali e da intendersi rivolte unicamente agli appartenenti ad una classe sociale svantaggiata (minori, orfani, poveri ecc.) ed in questo contesto nacquero le prime assicurazioni sociali che garantivano i lavoratori nei confronti di incidenti sul lavoro, malattie e vecchiaia; in un primo momento queste erano su base volontaria, in seguito però divennero obbligatorie per tutti i lavoratori. Le motivazioni della svolta in questa fase furono la ricerca della pace sociale conciliando le rivendicazioni di maggior protezione da parte dei lavoratori proletari (di ceti medi possiamo parlare solo a partire dalla seconda rivoluzione industriale) e dalla richiesta di una manodopera a minor costo possibile da parte degli industriali. Sempre in Inghilterra, fu compiuto un ulteriore passo avanti con l'istituzione delle workhouse, case di lavoro e accoglienza che si proponevano di combattere la disoccupazione e di tenere, così, basso il costo della manodopera. Tuttavia queste si trasformarono di fatto in luoghi di detenzione forzata; la permanenza in questi centri pubblici equivaleva alla perdita dei diritti civili e politici in cambio del ricevimento dell'assistenza governativa. Nel 1883 nacque, questa volta in Germania, l'assicurazione sociale, introdotta dal cancelliere Otto von Bismarck per favorire la riduzione della mortalità e degli infortuni nei luoghi di lavoro e per istituire una prima forma di previdenza sociale. Secondo alcuni studiosi fu proprio il "capitale" a spingere per i versamenti obbligatori dei propri operai, al fine di non doversi più accollare per intero il costo della sicurezza sociale dei lavoratori.

La terza fase, la fase dell'attuale welfare, ha inizio nel dopoguerra. Il 1942 fu l'anno in cui, nel Regno Unito, la sicurezza sociale compì un decisivo passo avanti grazie al cosiddetto Rapporto Beveridge, stilato dall'economista William Beveridge, che introdusse e definì i concetti di sanità pubblica e pensione sociale per i cittadini. Tali proposte vennero attuate dal laburista Clement Attlee, divenuto Primo Ministro nel 1945. Fu la Svezia nel 1948 il primo paese ad introdurre la pensione popolare fondata sul diritto di nascita. Il welfare divenne così universale ed eguagliò i diritti civili e politici acquisiti, appunto, alla nascita. Nello stesso periodo l'economia conobbe una crescita esponenziale del PIL mentre il neonato Stato sociale era alla base dell'incremento della spesa pubblica.

La situazione, a grandi linee, riuscì a mantenersi in sostanziale equilibrio per qualche decennio. Infatti nel periodo che va dagli anni cinquanta fino agli anni anni ottanta e anni novanta la spesa pubblica crebbe notevolmente, specialmente nei Paesi che adottarono una forma di welfare universale, ma la situazione rimase tutto sommato sotto controllo grazie alla contemporanea sostenuta crescita del Prodotto interno lordo generalmente diffusa. Tuttavia negli anni ottanta e novanta i sistemi di welfare entrarono in crisi per ragioni economiche, politiche, sociali e culturali al punto che oggi si parla di una vera e propria crisi del Welfare State.

Modelli di Stato assistenziale

Il sociologo danese Gøsta Esping-Andersen, in The Three Worlds of Welfare Capitalism, ha introdotto una classificazione dei diversi sistemi di welfare state strutturata in tre tipologie riconoscibili in base alle loro diverse caratteristiche. Questa tripartizione è fondata sulle differenti origini dei diritti sociali che ogni Stato concede ai propri cittadini.

Regime liberale

Il modello è detto di welfare "residuale". I diritti sociali derivano dalla dimostrazione dello stato di bisogno. Il sistema è fondato sulla precedenza ai poveri meritevoli (teoria della less eligibility) e sulla logica del "cavarsela da soli". Pertanto i servizi pubblici non vengono forniti indistintamente a tutti, ma solamente a chi è povero di risorse, previo accertamento dello status di bisogno; in virtù di questo, tale meccanismo viene spesso definito residuale, in quanto concernente una fascia di destinatari molto ristretta. Per gli altri individui, che costituiscono la maggior parte della società, tali servizi sono acquistabili sul mercato privato dei servizi. Quando l'incontro tra domanda e offerta non ha luogo, per l'eccessivo costo dei servizi e/o per l'insufficienza del reddito, si assiste al fallimento del mercato, cui pongono rimedio programmi destinati alle fasce di maggior rischio; negli Stati Uniti d'America, ad esempio, sono previsti organismi come il Medicaid per i poveri, il Medicare per gli anziani e l'AFDC per le madri sole.

Tale regime riflette una teoria politica secondo cui è utile ridurre al minimo l'impegno dello Stato, individualizzando i rischi sociali. Il risultato è un forte dualismo tra cittadini non bisognosi e cittadini assistiti.

Tale modello è tipico dei paesi anglosassoni: Australia, Nuova Zelanda, Canada, Gran Bretagna e Stati Uniti caratterizzato dalla predominanza del mercato.

Regime conservatore-corporativo

In questo modello (detto "particolaristico") i diritti derivano dalla professione esercitata: le prestazioni del welfare sono legate al possesso di determinati requisiti, in primo luogo l'esercitare un lavoro. In base al lavoro svolto si stipulano delle assicurazioni sociali obbligatorie che sono all’origine della copertura per i cittadini. I diritti sociali sono quindi collegati alla condizione del lavoratore. Questo è il modello tipico degli Stati dell’Europa continentale e meridionale, tra cui l’Italia (per determinati servizi). Una variante del modello particolaristico è il cosiddetto welfare aziendale che si è diffuso in alcuni Paesi occidentali ed in Giappone che si basa su contributi dei dipendenti e della stessa azienda che, nel caso in cui si possano prevedere utili nel lungo periodo (specie in caso di monopoli), possono rappresentare la parte principale del finanziamento dei servizi.

Regime socialdemocratico

Il modello è detto "universalistico". I diritti derivano dalla cittadinanza: vi sono quindi dei servizi che vengono offerti a tutti i cittadini dello Stato senza nessuna differenza. Tale modello promuove l’uguaglianza di status passando così dal concetto di assicurazione sociale a quello di sicurezza sociale, fornendo un Welfare che si propone di garantire a tutta la popolazione degli standard di vita qualitativamente più elevati. Tale modello è tipico degli Stati dell’Europa del nord.

Nuovi modelli

Di fronte alla crisi dello Stato sociale e dei ceti medi (visibili in questi anni) alcuni economisti sostengono la necessità di diminuire la spesa pubblica ed il prelievo fiscale, sostenendo allo stesso tempo nuove forme di socialità basate sulla gestione secondo economie di scala ed alto ricorso alle tecnologie informatiche dei servizi da erogare al cittadino. In questo modo i servizi risulterebbero più efficienti e meno costosi. Si sostiene allo stesso tempo l'idea di affidare (in tutto o in parte) a gestori privati, servizi come le pensioni (fondi pensione privati), la sanità e l'istruzione. Tuttavia i problemi di giustizia ed equità sociale, nonché il ridotto ruolo dello Stato nella redistribuzione della ricchezza, che deriverebbero da simili scelte, per molti non sono affatto trascurabili, specie alla luce dei risvolti dimostratisi nell'attuale crisi evidenziata nel 2008. Infatti questo modello, basato sulle privatizzazioni, si pensa sia responsabile del fatto che negli ultimi anni la ricchezza si sia spostata verso sempre meno persone e che le differenze tra i ceti sociali, in termini di tenore di vita, si siano drammaticamente accentuate facendo diventare sempre più poveri e in numero maggiore i poveri, e sempre più ricchi e in numero minore i ricchi. Altri pensano che questi modelli, rispecchiati nelle politiche economiche neoliberiste, tendendo a mettere sempre più da parte lo Stato, possano condurre a realtà in cui lo Stato stesso perde la capacità di tutelare il cittadino dalla furia predatoria dei liberi mercati.

Macroeconomia

In economia la teoria macroeconomica (o semplicemente macroeconomia) è un ramo dell'economia politica che, diversamente dalla microeconomia che studia i comportamenti dei singoli operatori economici, studia invece il sistema economico a livello aggregato.

Descrizione

Le interazioni tra le interdipendenti variabili macroeconomiche sono studiate nel loro contributo alla determinazione di un equilibrio economico (di breve periodo, di medio periodo e di lungo periodo). Costituiscono variabili economiche:

La domanda (domanda aggregata) e l'offerta complessiva (offerta aggregata) di un paese. L'eccesso di offerta di beni incrementa le scorte e induce gli imprenditori a diminuire la produzione.

Il prodotto interno lordo (P. I.L.) sommatoria del valore dei beni e servizi finali prodotti in un paese in un tempo determinato, un suo incremento aumenta la domanda di moneta a scopo transattivo.

Il consumo (C).

L'investimento (I) si distingue in scorte ed in investimenti fissi: sommatoria dei beni e servizi in grado di incrementare lo sviluppo della capacità produttiva di un paese.

Il risparmio (S) differenza tra reddito e consumo e può essere investito anche in moneta ed in obbligazioni.

Le esportazioni (X).

Le importazioni (M).

La Bilancia dei pagamenti che si suddivide in due sezioni: in partite correnti (incassi e pagamenti) ed in movimenti di capitale (investimenti di capitale e di portafoglio).

La moneta. Assente nell'economia di baratto che per funzionare necessita di una coincidenza di bisogni, riveste un ruolo fondamentale nelle transazioni di beni e servizi. In teoria qualunque bene può assumerne il ruolo, a condizione che tutti gli individui siano disposti ad accettarlo. La moneta ha la triplice funzione di intermediaria negli scambi, di unità di conto e di riserva di valore e può essere suddivisa in due componenti: circolante e deposito in conto corrente. Il mercato della moneta tende all'equilibrio molto più velocemente del mercato dei beni e servizi;

L'inflazione.

Il tasso di interesse di mercato ha l'importante funzione di riequilibrare l'offerta e la domanda di moneta. Quando aumenta fa diminuire:

- Gli investimenti e quindi la domanda aggregata, il reddito e la domanda di moneta a scopo transativo;

- Il prezzo dei titoli obbligazionari e quindi innalza il reddito degli stessi, ciò incentiva l'acquisto di obbligazioni e disincentiva la detenzione del risparmio in moneta. Ne consegue una riduzione della domanda di moneta a scopo speculativo.

La disoccupazione.

Le aspettative degli operatori.

La politica monetaria della Banca centrale.

La politica fiscale del Governo.

Il saldo del bilancio dello Stato che esprime la differenza tra le entrate e le spese correnti; diventa positivo all'aumentare delle imposte (TA) e al diminuire della spesa per beni e servizi (G) e dei trasferimenti (TR).

Il fine è anche quello di prevedere gli scenari futuri (attraverso la raccolta e l'elaborazione dei dati), in modo che la politica economica possa intervenire per correggere, ove necessario, i trend (le tendenze) e perseguire il controllo dell'inflazione e l'aumento del reddito.

Modelli economici

Lo studio delle variabili macroeconomiche impiega modelli economici (rappresentazioni semplificate della realtà) elaborati per spiegare il funzionamento dell'economia nelle prospettive temporali considerate. Ad esempio:

il modello IS-LM, che analizza l'equilibrio economico e le sue variazioni nel breve periodo;

il modello AD-AS, che analizza il processo di aggiustamento dell'equilibrio economico, che opera nel medio periodo a seguito delle variazioni di breve periodo;

i modelli appartenenti alla teoria della crescita, che analizzano le determinanti del processo di crescita di lungo periodo.

La teoria dello sviluppo economico analizza le cause che determinano variazioni del reddito (Y), variabile oggetto di studio della teoria del ciclo economico. La crescita della domanda aggregata [sommatoria dei consumi (C) e degli investimenti (I) delle famiglie e delle imprese, della spesa dei beni e servizi (G) e dei trasferimenti (TR) dello Stato, delle esportazioni (X) al netto delle imposte (TA) e delle importazioni (M)], incrementa il processo produttivo e aumenta il reddito.

Trattazione matematica

Definizioni

Notazioni

I principali concetti della teoria macroeconomica sono spesso indicati con questa notazione, presente nei libri di testo universitari e nella formulazione originale di John Maynard Keynes:

d0b2de72087a82eb8e2a16113dc385e6.png: reddito nazionale

0c89ba2a29e2caf0a9be4ab19c75a591.png: reddito disponibile

797f13ddb9a755ff72b445c7d10dbcb0.png: tributi o prelievo fiscale

308a6177f629dba9fc1f1ffbd02ef5e6.png: aliquota fiscale, con b49d530d2e74a55f43cec70f5acc71c0.png

fb94060e554a63209887f6303a9254f7.png: consumi

80e6d0ed8ae9c9ba4a66631547b6783c.png: risparmi

f4ec9eacfe2a196bf9df5edeefaf3210.png: investimenti

3354bf455a693aca9bba1447c7c9c23c.png: spesa pubblica

224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png: bilancio dello Stato.

Il prodotto interno lordo

Il PIL è definibile in due modi equivalenti:

complesso dei redditi prodotti;

somma di consumi, investimenti e spesa pubblica.

A consuntivo di fine anno queste due modalità di calcolo devono portare allo stesso risultato.

Il reddito pro-capite

A partire dal PIL è definibile il reddito pro-capite medio come il rapporto tra il PIL e il numero dei cittadini: è evidente la correlazione diretta fra la ricchezza individuale e quella nazionale.

L'eguaglianza fra PIL e valore aggiunto è l'equazione fondamentale della contabilità nazionale.

A partire dalla precedenti notazioni si possono dare una serie di definizioni, oltre a quella iniziale del PIL.

Tributi

L'ammontare 797f13ddb9a755ff72b445c7d10dbcb0.png del prelievo o gettito fiscale è pari a:

aeba098331058399bb5d5d4b10d53627.png, ossia deriva da un'aliquota (pressione fiscale media) applicata al reddito nazionale.

Bilancio dello Stato

Il bilancio dello Stato 224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png è dato dalla differenza fra entrate (imposte) e uscite (spesa pubblica + trasferimenti):

b26ed30770af1cad7c117c827f75e769.png

In generale:

69dcc848f87bc9357b93a016ae41fb25.png. Il bilancio può presentarsi in avanzo, disavanzo o in pareggio (saldo primario).

Reddito disponibile

Il reddito disponibile di famiglie, Stato e imprese per i consumi è definito come il reddito totale al netto del prelievo fiscale:

c1bb3f49b83d9c314c6acee75e993739.png

Consumi

Fra consumi e reddito disponibile viene ipotizzata l'esistenza di una relazione analitica lineare (ipotesi semplificativa).

La relazione non lega direttamente consumi e reddito nazionale, ma consumi e reddito disponibile, evidenziando come il carico fiscale riduce la possibilità di spesa dei soggetti economici.

294b185a85e5ee993b3f027ddb09664b.png, dove 07fd21bc95245fe5a5b20ba770a9b737.png

La precedente equazione è detta funzione di consumo. L'equazione, come da ipotesi, ha il grafico di una retta presentandosi nella forma descritta dall'equazione di una retta:

1c1fe930beb0ad226ca34f2b3c0f3442.png

Dalla funzione di consumo ipotizzata si ricava che la pendenza della retta è:

b9dec62318e66b9f70b1fd4d413a19e4.png

dove 4af8e78733e70c1826b39692ffb9a6e5.png è detto propensione marginale al consumo.

Risparmio

Risparmio e consumi sono le due componenti del reddito disponibile. Per differenza si ha che il risparmio S è:

e7e718038d2ee90e3f38adeb270832f9.png

Allo stesso modo dei consumi, fra risparmio e reddito disponibile viene ipotizzata una relazione analitica lineare.

a948f8150faa8957ff63852ba525d073.png, dove 7be22256def1c62e7de77c9195524bab.png

Dall'equazione della precedente retta, si ricava che la pendenza è:

b410cec312925e5162243d8117206cf3.png

dove 77ccb75bcb11bb1340bf4b9040cca0d3.png è detta propensione marginale al risparmio.

La relazione fra propensione marginale al consumo e propensione marginale al risparmio è:

a17a1250f32eb76221623b58c5edab49.png.

ricavabile dalle definizione di risparmio sostituendovi le funzioni di consumo e di risparmio.

Il PIL come complesso dei redditi prodotti

Il PIL o ricchezza nazionale può essere definito come complesso dei redditi prodotti (somma di consumi C, investimenti I e spesa pubblica G) pari a:

a1305c535210b803df8e9c08f692caf1.png

Per dedurre gli effetti sul reddito di un aumento della spesa pubblica e/o delle tasse si sostituisce a fb94060e554a63209887f6303a9254f7.png la funzione dei consumi:

04c403c0884c3265f145bcdc123cdca0.png

Abbiamo detto anche che il PIL è somma di consumi, risparmi e spesa pubblica. Esso deve dunque eguagliare il valore aggiunto della precedente definizione (somma di consumi, investimenti e spesa pubblica). Si ha:

dcbf3eba1903a0f37c1d221e1f684189.png

da cui:

0da9ab81ae3e2860ef10916d4402570b.png

Eguagliando i due membri dell'equazione si ottiene che i risparmi sono uguali agli investimenti, ossia che i risparmi finanziano gli investimenti produttivi. L'equazione è tendenziale, non vera in ogni istante.

Moltiplicatore sul reddito della spesa pubblica

Per vedere il solo effetto di una variazione della spesa pubblica sul reddito nazionale, si ipotizza di agire a parità di altri fattori, e che 86276f322f13851eb719f03b20a526b7.png:

3d9ecc7b6923a1afa34f045b37f977d0.png

Il fattore e19968a0da635e5c38c37ac0be18aabe.png è detto moltiplicatore sul reddito della spesa pubblica poiché il suo valore è sempre maggiore dell'unità: quindi, a fronte di un aumento della spesa pubblica di 10, si avrà un aumento del reddito pari a 11, 20, etc., con un ritorno più che proporzionale.

Infatti, posto:

9b40adca2e7798c5af117603ce9357a6.png,

si ottiene che:

5f3ab625c26349c905707a418d6300b2.png, vero 0f432a9ad6a092c25ad84f7853b700b1.png (essendo 07fd21bc95245fe5a5b20ba770a9b737.png)

Un intervento di aumento sulla spesa pubblica genera dunque un incremento del reddito nazionale. Il finanziamento di questa spesa è un problema distinto e può avvenire in vari modi impiegando un avanzo di bilancio, con indebitamento dello Stato o con pari entrate fiscali.

Il moltiplicatore sul reddito della spesa pubblica ha una formulazione leggermente diversa se si tiene conto che questa spesa venga finanziata, in parte o integralmente, con le tasse:

3ecdafa3b660224f4572615326230d7e.png.

Il motiplicatore è anche in questo caso sempre maggiore dell'unità. Infatti, posto:

72616c79b7cbea68348c1c36f4438986.png,

si ottiene che:

d465ae98ed49cbb7297fd7177cb34a30.png, vero 0f432a9ad6a092c25ad84f7853b700b1.png e c2b5bfc80bdc112883feeefb10e193e3.png

Inoltre in tutti i casi quanto più piccola è la propensione al risparmio 5e58f224acec36fb511e647862d969ba.png ossia tanto maggiore è la propensione ai consumi, tanto più alto è l'aumento di ricchezza nazionale, qualunque azione venga intrapresa (riduzione delle tasse, spesa pubblica, spesa in disavanzo). Fu Keynes ad affermare che la domanda è un dato ed è il motore della crescita economica ovvero che l'economia è consumistica: la domanda è infatti una domanda di consumo.

Moltiplicatore sul reddito delle imposte

Una riduzione delle imposte genera invece il seguente effetto sul reddito prodotto:

2fad5aa01f170fb71c7f678d439d02df.png

Il segno negativo indica che un incremento del reddito deriva da una riduzione delle tasse (3c6bf7b869adc833782fe71c8c98d930.png negativo).

Il fattore 211ec8d3f69dfc48080b9e6efdaff22a.png è detto moltiplicatore sul reddito delle tasse o anche moltiplicatore della leva fiscale, perché è sempre maggiore dell'unità. Infatti, posto:

d513ae2529371967cb0bdd752f4f8870.png,

si ottiene un'identità, vera 0f432a9ad6a092c25ad84f7853b700b1.png (045d808200623799e80c42be3a42958f.png)

Una riduzione dell'ammontare di tasse equivale a una riduzione della pressione fiscale definita come rapporto fra le entrate (che sono tasse e imposte) e il PIL.

Confronto fra i due moltiplicatori

La spesa pubblica ha un moltiplicatore sul reddito nazionale più alto di quello che ha la riduzione delle imposte. In altri termini un aumento della spesa pubblica o un taglio delle tasse hanno lo stesso effetto sul bilancio pubblico, ma un effetto differente sul reddito nazionale: in generale per incrementare la ricchezza di una nazione è più conveniente un intervento diretto dello Stato tramite la spesa pubblica rispetto ad un taglio delle imposte.

Infatti il moltiplicatore (sul reddito) della spesa pubblica è maggiore di quello derivante da un riduzione delle imposte:

3dfcfbc0bbbebba726337a814abf6638.png

5e2cdbb92d7214d64375e1a89e8ddd92.png

Da cui:

c5fbbf99ed8397ef8666e30e06f1f85d.png, essendo per ipotesi 07fd21bc95245fe5a5b20ba770a9b737.png (confrontando i due moltiplicatori, si ottiene 8780aa3bc68536f4decba4d74859297d.png, vera 0f432a9ad6a092c25ad84f7853b700b1.png).

Confronto in funzione dell'aliquota fiscale

Il risultato è confermato anche confrontando i due moltiplicatori nella loro forma più generale.

Il moltiplicatore delle tasse sul reddito, sostituendo a 08887df0a8ccbe89c931b5301eadb442.png, diventa:

fd54b88feb6b1ea3edd48ed90d835978.png

Se si confronta con il moltiplicatore della spesa pubblica sul reddito in funzione dell'aliquota fiscale, si ottiene che:

496640ece381b9d12f48ea8f87a6555b.png, da cui:


9d6be69b8d326358e8222c2bfb709d04.png, che è una quantità sempre positiva.

Il teorema del bilancio in pareggio

Enunciato del teorema

Il teorema del bilancio in pareggio afferma che l'aumento del reddito è massimo quando ogni incremento di spesa pubblica è corrisposto da un analogo incremento delle entrate cioè non vi sia disavanzo pubblico o deficit pubblico. Il valore di questo incremento massimo del reddito è pari all'esatto ammontare della spesa pubblica.

L'incremento di reddito di una spesa pubblica finanziata da un incremento delle tasse sarà infatti dato dalla somma dei due moltiplicatori (della spesa pubblica e delle tasse):

3b0d47de522b2edb991a2869e1815474.png


Se 2b69f88dd3410bd529894a5733c2759b.png, ossia 100d6fd1e5f020a2f3f33602556e19f4.png, sostituendo si ha che:


8b2cd114e9dc57a8ff7a64bc50e55dd8.png


Se aumentiamo spesa pubblica e imposte in modo da lasciare invariato il saldo del bilancio pubblico, il reddito varia di questo stesso ammontare.

Considerazioni economiche

Per il teorema del bilancio in pareggio l'aumento del PIL (ricchezza nazionale) prodotto dalla spesa pubblica è massimo quando il disavanzo pubblico è pari a zero. L'effetto è più contenuto quando il disavanzo è diverso da zero. Alcuni sostenitori del deficit spending si richiamano alle precedenti teorie keynesiane per favorire la crescita economica, mentre l'analisi di merito mostra che, proprio secondo il teorema del pareggio di bilancio, non è conveniente la spesa in disavanzo.

Secondo gli economisti moderni, la spesa in disavanzo conviene solo per temporanee condizioni di crescita del reddito prossima allo zero, o negativa, mentre un avanzo pubblico non è conveniente dal punto di vista della ricchezza nazionale perché non produce aumenti del reddito. La spesa pubblica per Keynes ha come unico obiettivo la piena occupazione e la pubblica utilità.

Un risultato sorprendente del teorema è invece che un avanzo del bilancio pubblico ha un effetto negativo sulla spesa pubblica, perciò, strutturalmente la pubblica amministrazione tende a non avere risparmi. Questa non avendo strutturalmente grandi risparmi, non è il motore degli investimenti produttivi: la spesa pubblica è infatti un termine diverso dagli investimenti produttivi, la cui peculiarità è invece l'orientamento al profitto.

La componente occupazionale della spesa è essenziale per l’impatto di moltiplicatore economico di questa. Se la congiuntura è negativa, le grandi opere pubbliche hanno un ruolo anticiclico se provengono da settori che non siano ad alta intensità di capitale, ma labour intensive.

Da un lato gli investimenti richiedono la domanda e i consumi, dall'altro sono possibili soltanto con i risparmi (che sono rinunce di consumo) dei cittadini. Ciò vale sia per consumi e risparmio dei cittadini che per consumi e risparmi delle imprese. Questa dualità trova però un punto di equilibrio.

Dei tre soggetti economici, escluso lo Stato, resta che la fonte degli investimenti produttivi sono i risparmi delle stesse imprese e principalmente dei cittadini. L'efficacia nella stimolazione della domanda è però sempre maggiore nel caso della spesa pubblica che produce il maggior aumento della ricchezza nazionale (e tasso di crescita annuo).

La macroeconomia disconosce l'opportunità delle teorie reaganiane di riduzione delle tasse in favore di un intervento diretto dello Stato nell'economia (con la spesa pubblica).

Tradizionalmente, l'austerità e il pareggio di bilancio sono obiettivi opposti alla piena occupazione ed alla spesa pubblica. Il teorema mostra che la spesa pubblica è conveniente quando si è raggiunto il pareggio.

Critiche alla teoria del bilancio in pareggio

Gli economisti odierni concordano sulla convenienza della spesa in disavanzo in situazioni di recessione o crescita lenta del PIL (inferiore al 4% annuo) per la quale lo Stato spende in misura maggiore delle sue entrate, indebitandosi. Anche una spesa pubblica in disavanzo produce un aumento del PIL maggiore ed è più efficace di una riduzione della pressione fiscale.

Infatti, il moltiplicatore della spesa pubblica sul reddito è, comunque, maggiore di quello fiscale. Quindi, l'incremento di reddito derivante dalla spesa pubblica è più che proporzionale alla riduzione dovuta all'aumento della pressione fiscale per finanziare tale spesa. A patto, tuttavia, che il maggior carico fiscale si traduca in domanda interna e, non, come in parte accade attualmente nei paesi fortemente indebitati, in trasferimenti di valuta all'estero.

Microeconomia

La microeconomia è quella branca della teoria economica che studia il comportamento dei singoli agenti economici, o sistemi con un numero limitato di agenti, che operano in condizioni di scarsità di risorse. Assieme alla macroeconomia, che studia sistemi a livello aggregato, costituisce la macro-categoria in cui si possono raggruppare tutte le discipline legate all'economia politica.

Differenze con la macroeconomia

La macroeconomia, invece, altra grande branca della teoria economica, si occupa delle grandezze economiche cosiddette 'aggregate', come, per esempio, il livello e il tasso di crescita del prodotto nazionale, i tassi di interesse, la disoccupazione e l'inflazione, le quali dipendono in qualche modo dalla 'somma' delle grandezze microeconomiche ovvero dai comportamenti microeconomici globali dei consumatori. La filosofia di fondo è dunque quella del riduzionismo classico: il sistema economico globale è descritto a partire dalla somma delle azioni o comportamenti dei singoli consumatori

Il confine tra la microeconomia e la macroeconomia è diventato negli ultimi anni sempre meno netto. Il motivo principale è dovuto al fatto che anche la macroeconomia ha a che fare con l'analisi dei mercati. Per capire come funzionano, infatti, è necessario comprendere prima di tutto il comportamento dei singoli operatori che costituiscono questi mercati. Quindi i macroeconomisti sono diventati sempre più attenti ai fondamenti microeconomici dei fenomeni economici aggregati.

L'uso e i limiti della teoria microeconomica

Come ogni scienza, l'economia si occupa della spiegazione e della previsione dei fenomeni osservati. La spiegazione e la previsione sono fondate su teorie, le quali servono a spiegare i fenomeni osservati, in termini di un insieme di regole e di ipotesi di base. La teoria dell'impresa, per esempio, nasce da una semplice ipotesi: le imprese cercano di massimizzare il profitto (anche se in alcuni particolari mercati non è sempre così: per esempio secondo la teoria di Baumol in mercati monopolistici le imprese potrebbero perseguire il fine di massimizzare i ricavi totali, mantenendo il pareggio di bilancio del profitto come semplice vincolo sotto cui non eccedere). La teoria utilizza questa ipotesi per spiegare come le imprese scelgono l'ammontare di forza lavoro, di capitale e di materie prime da usare per la produzione, così come le quantità di beni da produrre. Questa teoria serve anche a spiegare in che modo queste scelte dipendono dai prezzi dei fattori produttivi e qual è il prezzo che le imprese sono in grado di ottenere per i loro prodotti.

Le teorie economiche servono anche da presupposto per fare previsioni. Quindi, la teoria dell'impresa ci dice se il livello di produzione di un'impresa aumenterà o diminuirà in seguito ad un aumento dei salari o a una diminuzione del prezzo delle materie prime. Utilizzando tecniche statistiche ed econometriche, la teoria può dunque essere usata per costruire modelli, sui quali poi basare previsioni di tipo quantitativo. Un modello è una rappresentazione di tipo matematico, fondato sulla teoria economica di un'impresa, di un mercato, o di qualche altro tipo di entità economica.

Nessuna teoria è perfettamente corretta. Ognuna parte da assunzioni di base o da approssimazioni più o meno ragionevoli o realistiche della realtà. L'utilità e la validità di una teoria dipendono dalla capacità che essa ha di spiegare e prevedere l'insieme dei fenomeni reali che si vogliono studiare. Dato questo obiettivo, le teorie sono continuamente messe a confronto (testate) con le osservazioni della realtà; in seguito a questo confronto, esse sono spesso soggette a modifica e riformulazione, e a volte anche al rigetto. Il processo di verifica e riformulazione è di primaria importanza per lo sviluppo dell'economia come scienza. Per valutare una teoria, è importante tenere presente che essa è necessariamente imperfetta.

Analisi positiva e analisi normativa

La microeconomia dà risposta a diversi interrogativi siano essi di natura positiva o di natura normativa. Gli interrogativi di natura -positiva- hanno a che fare con la spiegazione e la previsione, mentre le questioni di natura -normativa- riguardano ciò che dovrebbe essere.

Le teorie nascono per spiegare i fenomeni, vengono confrontate con l'osservazione e sono utilizzate per costruire modelli su cui basare le previsioni. L'uso della teoria economica per formulare previsioni è importante sia per i manager delle imprese sia per le politiche economiche pubbliche. A volte si vuole andare oltre la spiegazione e la previsione per porsi domande del tipo: «Che cosa sarebbe meglio fare?». È questo il campo dell'analisi normativa, anch'essa importante sia per i manager d'impresa sia per coloro che devono prendere decisioni di politica economica. L'analisi normativa non si occupa soltanto delle diverse opzioni di politica economica, ma riguarda anche l'implementazione delle politiche prescelte. Questa analisi è spesso accompagnata da giudizi di valore. Ogni volta che sono necessari giudizi di valore, la microeconomia non è in grado di dirci quale sia la soluzione migliore, ma può chiarire i vari trade-off (scelte alternative) e aiutare quindi a individuare i problemi e a mettere a fuoco i termini della questione.

Capitoli principali

Teoria del consumatore: legge di Gossen, utilità (economia), utilità marginale, curve di indifferenza, funzioni di domanda, elasticità, surplus del consumatore, teoria della preferenza rivelata, indice del costo della vita, Teoria dell'utilità attesa, paradosso di Allais

Teoria della produzione: funzione di produzione, economia di scala, produttività marginale, isocosto, elasticità di sostituzione, la funzione di costo, costo marginale

Teoria dei mercati (concorrenza perfetta): domanda e offerta, equilibrio, ciclo del maiale

Teoria dei mercati (concorrenza monopolistica): monopolio, duopolio (modelli di Cournot, Bertrand, Hotelling, Stackelberg), oligopolio (generalizzazione del modello di Cournot, modello di Salop)

Equilibrio economico generale: scatola di Edgeworth, esistenza, unicità e stabilità

Ottimo economico: ottimo paretiano, efficienza della concorrenza perfetta, funzione di utilità sociale (teorema dell'impossibilità di Arrow), teoremi dell'economia del benessere

Esternalità e beni pubblici: teorema di Samuelson, teorema di Coase, modello di Lindahl, rivelazioni delle preferenze (Clarke, Groves)

Economia dell’informazione: azzardo morale, asimmetria informativa, selezione avversa, il mercato dei limoni, modello di Spence, modello principale-agente

Ipotesi alla base del comportamento del consumatore

La teoria microeconomica, nella sua versione mainstream, pone alla base della sua analisi due ipotesi fondamentali più una accessoria:

1. Completezza: Il consumatore, se posto di fronte alla scelta tra due panieri di beni (es: X e Y), sa sempre dire quale delle due preferisce o se gli sono indifferenti;

2. Transitività: Avendo date quantità di tre beni X, Y e Z, se il consumatore preferisce una unità di X a una unità di Y e una unità di Y a una unità di Z allora preferirà naturalmente anche una unità di X a una di Z.

3. Non Sazietà: Il consumatore è via via più soddisfatto se consuma panieri che hanno la stessa quantità del bene X e una quantità via via maggiore del bene Y.

4. Continuità: Le curve di indifferenza (ossia gli insiemi dei panieri tra cui il consumatore è indifferente) sono funzioni continue.

5. Convessità stretta: Dato un paniere X' l'insieme dei panieri X preferiti a X' è strettamente convesso.

La Teoria della preferenza rivelata propone di ottenere le preferenze del consumatore osservando il suo comportamento.

Equilibrio economico generale

In economia la teoria dell'equilibrio economico generale è una branca della microeconomia, che ha per obiettivo quello di spiegare la determinazione congiunta delle scelte di produzione e di consumo, e dei prezzi, nell'intera economia. L'approccio adottato dalla teoria dell'equilibrio economico generale è di tipo bottom-up; in altre parole, la teoria deriva le sue conclusioni sulla base delle scelte di agenti individuali (consumatori, imprese) che operano in ciascun mercato.

Un approccio alternativo, di tipo top-down, è invece stato adottato dalla macroeconomia, a partire dalla sua formulazione originale ad opera di John Maynard Keynes. Nella teoria macroeconomica, l'analisi si fonda su aggregati di operatori economici; d'altra parte la moderna macroeconomia in generale pone una notevole enfasi sull'esigenza di dare una microfondazione, o fondazione in termini microeconomici, ai suoi modelli, così che la distinzione tra i due tipi di approccio è oggi più sfumata. Ciononostante, i modelli macroeconomici tipicamente si concentrano su un generico "mercato dei beni e servizi", di cui studiano le interazioni, ad esempio, con il mercato delle attività finanziarie. Per contro, i modelli di equilibrio economico generale sono basati sull'analisi di tutta una serie di mercati, dove sono scambiati diversi beni e servizi.

Introduzione

L'idea alla base della teoria dell'equilibrio economico generale è che in un sistema di mercato, i prezzi e le scelte di produzione e di consumo dei diversi beni (ivi compresi "beni" quali il denaro, o "prezzi" quali il tasso d'interesse) siano interrelati. Un cambiamento nel prezzo di un bene, ad esempio il pane, potrebbe influenzare un altro prezzo, ad esempio il salario dei panettieri. A seconda delle preferenze dei panettieri, la domanda di pane sarà allora influenzata dalla variazione nel salario dei panettieri, andando a incidere nuovamente sul prezzo del pane, e così via. Dunque, la determinazione del prezzo di un singolo bene risulta potenzialmente collegata a quella del prezzo di qualunque altro bene nell'intera economia.

La teoria dell’equilibrio generale spiega come un’economia decentralizzata, composta da numerosi agenti indipendenti che agiscono secondo il loro interesse, sia compatibile con un equilibrio su tutti i mercati. Questo equilibrio è ottenuto senza che ci sia un organismo che si occupa della logistica economica. Si cita sovente il caso di una grande città dove nessuno è incaricato della distribuzione del pane e del latte. Ciononostante, c’è abbastanza pane e latte per tutti gli abitanti. Adam Smith parla di una mano invisibile che conduce gli agenti verso un equilibrio che ha molte proprietà interessanti. L’esistenza dell’equilibrio generale è stata studiata per la prima volta da Léon Walras. Gli studi furono continuati da Vilfredo Pareto e altri discepoli della Scuola di Losanna. Il nome è dovuto al luogo dove Walras e Pareto insegnavano.

La prima prova rigorosa dell’esistenza dell’equilibrio generale è stata presentata da Abraham Wald nel 1936. Dopo la Seconda guerra mondiale, Gérard Debreu e Kenneth Arrow hanno pubblicato delle prove più generali e più complete (v. Modello di Arrow-Debreu). L’equilibrio generale suppone che i consumatori e, in generale, tutti gli agenti economici, considerano i prezzi come un dato (price taker) e, su questa base, esprimono le loro domande e offerte. Per esempio, se il prezzo dello zucchero aumenta, la domanda di zucchero ma anche quella di miele cambia, come pure la produzione di barbabietole. Ci sono dunque degli effetti diretti e indiretti che influiscono sul prezzo d’equilibrio. L’equilibrio generale è ottenuto quando su tutti i mercati la domanda è uguale all’offerta. Walras dà l’esempio del banditore d’asta che grida un prezzo e guarda se la domanda è uguale all’offerta. Se c’è una differenza, grida un prezzo più alto quando l’offerta è insufficiente e un prezzo più basso nel caso contrario. Si arriva all’equilibrio dopo alcuni tentativi (Tâtonnement). Tutti gli scambi si fanno al prezzo d’equilibrio.

La legge di Walras

Walras aveva osservato che la domanda dipende solo dai prezzi relativi. Se un contadino si reca al mercato per vendere delle mele e comperare del pane e i prezzi raddoppiano, la sua domanda e la sua offerta non cambiano. Infatti, la spesa raddoppia ma pure il ricavo. La domanda e l’offerta possono allora essere espresse in termini di prezzi relativi. Nel caso di m beni, abbiamo dunque solo m-1 variabili. Secondo la teoria dei sistemi d’equazioni lineari, che Walras conosceva, c’è una soluzione unica quando le equazioni indipendenti sono pure m-1. Walras è riuscito a mostrare che effettivamente ciò era il caso. Questo risultato è chiamato oggi la legge di Walras: se m-1 mercati sono in equilibrio allora il mercato restante deve pure essere in equilibrio.

Esistenza dell’equilibrio

Le funzioni di domanda non sono necessariamente delle funzioni lineari. La legge di Walras non permette dunque di mostrare l’esistenza dell’equilibrio generale. Le dimostrazioni moderne utilizzano approcci topologici all'esistenza del punto fisso, come il Teorema del punto fisso di Brouwer o quello più generale di Shizuo Kakutani.

Si tratta di puri teoremi di esistenza, non costruttivi, che non forniscono alcuna indicazione su come trovare il punto fisso. Nel 1967, Scarf ha proposto un algoritmo di calcolo del punto fisso. I modelli d’equilibrio generale hanno allora potuto essere applicati per risolvere dei problemi concreti, come gli effetti di un cambiamento del sistema fiscale o la soppressione dei dazi doganali.

Unicità e stabilità dell’equilibrio generale

Le condizioni per un equilibrio unico o stabile sono molto restrittive. Se un equilibrio non è stabile, sarà difficile trovarlo. Modelli con equilibri multipli sono proposti in certi casi.

Abraham Wald

Abraham Wald (Kolozsvár, 31 ottobre 1902 – Travancore, 13 dicembre 1950) è stato un matematico e statistico ungherese.Contribuì alla teoria delle decisioni, all'analisi sequenziale, alla geometria e all'econometria.

Non frequentando il sabato la scuola in quanto ebreo, fece la scuola dell'obbligo in casa. Grazie all'educazione ricevuta venne ammesso alle locali scuole superiori. Nel 1927 iniziò l'università a Vienna dove conseguì nel 1931 il Ph.D. in matematica.

In seguito alle persecuzioni dei nazisti seguite all'annessione dell'Austria del 1938 nel Terzo Reich, emigrò negli Stati Uniti.

Morì in un incidente aereo in India, paese nel quale si era recato per tenere dei seminari di statistica su invito del governo indiano.

John von Neumann

John von Neumann, nato János Lajos Neumann (IPA: [ˈjaːnoʃ ˈlɒjoʃ ˈnojmɒn]) (Budapest, 28 dicembre 1903 – Washington, 8 febbraio 1957), è stato un matematico, fisico e informatico ungherese naturalizzato statunitense.

A lui si devono fondamentali contributi in numerosi campi come la teoria degli insiemi, analisi funzionale, topologia, fisica quantistica, economia, informatica, teoria dei giochi, fluidodinamica e in molti altri settori della matematica. Viene generalmente considerato come uno dei più grandi matematici della storia moderna oltre ad essere una delle personalità scientifiche preminenti del XX secolo.

Biografia

John von Neumann è stato una delle menti più brillanti e straordinarie del secolo scorso. Insieme a Leó Szilárd, Edward Teller ed Eugene Wigner, i quattro facevano parte del "clan degli ungheresi" ai tempi di Los Alamos e del Progetto Manhattan. Oltre ad essere ungheresi, tutti e quattro erano di origini ebraiche ed erano stati costretti a rifugiarsi negli USA per sfuggire alle persecuzioni naziste.

Le sue capacità hanno permesso a Neumann di apportare contributi significativi e spesso assolutamente innovativi in molti campi della ricerca, dalla matematica alla statistica, dalla meccanica quantistica alla cibernetica, dall'economia all'evoluzione biologica, dalla teoria dei giochi all'intelligenza artificiale.

Quello di von Neumann con i militari è stato un rapporto piuttosto stretto, alimentato dalle sue convinzioni anti-naziste prima e anti-comuniste poi, sfociate in un vero e proprio odio che lo porterà ai vertici delle istituzioni politico militari degli Stati Uniti come membro del potente Comitato per i missili balistici intercontinentali.

Johnny, come lo chiamavano i suoi colleghi americani, era anche un grande amante della vita, e accanto alla personalità geniale ma cinica e spietata conviveva, apparentemente senza contraddizione alcuna, l'altro volto dello scienziato ungherese, quello affabile, mai presuntuoso, simpatico e goliardico.

Attorno alla sua figura sono state scritte molte storie che hanno caratterizzato nell'eccesso questo personaggio, gran parte delle quali, però, dettate da ostilità e avversione nei confronti del suo pensiero politico e sociale.

Vita in Europa (1903-1930)

János Lajos Neumann nasce a Budapest il 28 dicembre del 1903 da una famiglia di banchieri ebrei. Già a sei anni intrattiene gli ospiti di famiglia con la sua prodigiosa memoria, ripetendo all'istante intere pagine di elenco telefonico che gli erano state mostrate solo per pochi istanti, o eseguendo a mente, rapidamente e in maniera corretta divisioni con due numeri da otto cifre. Non contento "Jancsi" si diverte con il padre conversando in greco antico, arrivando a padroneggiare, intorno ai dieci anni, sei lingue diverse.

Nel 1911 entrò nel Ginnasio Luterano e le sue capacità intellettuali non passarono inosservate. D'altronde ai bambini prodigio la scuola era già abituata, visto che nella classe superiore a quella di von Neumann si trovava Eugene Wigner. Così Laszlo Ratz, il prestigioso professore di matematica del ginnasio, si adoperò affinché al giovane Jancsi non mancasse un precettore privato universitario che lo seguisse e lo introducesse a poco a poco nell'ambiente matematico. Tra i suoi precettori va ricordato in particolare Mihaly Fekete.

In questo ambiente ricco di stimoli culturali, di contatti con gli ambienti più colti e influenti della società, Janos maturò la convinzione che gli aspetti economici e sociali della società e le relazioni tra individui potessero essere trattati in termini matematici. Questa visione "pan matematica" del mondo caratterizzerà il pensiero e la vita del giovane genio fino alla fine.

Al termine della Prima guerra mondiale, che non lasciò tracce sulla sua educazione, la famiglia von Neumann fu costretta a trasferirsi in Austria a causa dell'ascesa al potere di Béla Kun e della Repubblica sovietica ungherese. Ma tornò in patria poco dopo e come ebrei subirono la persecuzione del dopo Kun.

A 18 anni, al termine della sua educazione presso la scuola luterana, in collaborazione con Fekete scrisse il suo primo lavoro, poi pubblicato nel 1922 sulla rivista dell'Unione dei matematici tedeschi. Fu nominato miglior studente di matematica dell'Ungheria.

Ma il padre aveva per lui altri progetti e chiese a Theodore von Karman di convincere il giovane Jancsi a intraprendere la carriera negli affari o a seguire corsi universitari meno teorici e più rivolti ad applicazioni pratiche. Si arrivò a un compromesso, e Jancsi si iscrisse a chimica. O meglio, anche a chimica. A ventidue anni, infatti, si laureò in ingegneria chimica presso il Politecnico di Zurigo e in matematica a Budapest, dopo aver seguito a Berlino i corsi di Fritz Haber e di Albert Einstein.

Si trasferì poi a Gottinga, dove si occupò dei fondamenti della matematica e della meccanica quantistica, che studiò sotto la supervisione di David Hilbert per due anni, fino al 1927. In questo ambiente von Neumann entrò nel pieno della propria maturità scientifica e i lavori che qui produsse lo elevarono al rango di uno dei massimi matematici di ogni tempo. Sotto la guida di Hilbert, von Neumann si fece portabandiera dell'approccio assiomatico della matematica e del pensiero del suo maestro, che mirava a creare una teoria "metamatematica" in grado di dimostrare la coerenza di qualsiasi sistema formale.

L'approccio hilbertiano crollò con il teorema di incompletezza di Kurt Gödel, che sottolineava l'impossibilità di conseguire una dimostrazione completa della coerenza dell'aritmetica nel contesto del pensiero matematico. Quando Gödel espose i suoi risultati al Congresso di Königsberg, von Neumann ne capì immediatamente la portata e nel giro di due mesi descrisse, parallelamente a Gödel, l'indimostrabilità della coerenza dell'aritmetica come conseguenza del teorema di incompletezza.

Johann, come si faceva chiamare in quel periodo, era già una celebrità e oltre a pubblicare articoli di estrema importanza nella fisica sub nucleare sviluppò la teoria dei giochi, pubblicando nel 1928 sulla rivista Mathematische Annalen l'articolo Zur Theorie der Gesellschaftspiele (Sulla teoria dei giochi di società) che conteneva fra l'altro il risultato noto come "teorema di minimax".

Vita in America (1930-1957)

Tra il 1930 e il 1933 viene invitato a Princeton, dove mette in luce una vena didattica non proprio esemplare; la sua grande fluidità di pensiero mette in difficoltà molti degli studenti, che sono costretti a seguire i calcoli su una piccola porzione di lavagna che lo scienziato cancella poi velocemente impedendo agli allievi di copiare le equazioni. Nel 1933 apre i battenti l'Institute for Advanced Study, sempre a Princeton, e von Neumann è uno dei sei professori originari di matematica insieme a Albert Einstein, Hermann Weyl, Morse, Alexander e Oswald Veblen.

Poco dopo, con l'arrivo dei nazisti al potere, abbandona la sua posizione accademica in Germania, considerando l'avventura americana ben più promettente. Terrà la cattedra di Princeton fino alla fine dei suoi giorni.

Negli anni successivi, von Neumann dà sfoggio del suo enorme talento nel campo della ricerca e si interessa dei problemi legati alla turbolenza idrodinamica e quindi alla risoluzione delle equazioni differenziali non lineari, che gli serviranno come stimolo per studiare nuove possibilità legate alla computazione elettronica.

Ma a rendere famoso e amato Johnny è anche l'altro lato della sua personalità, quello allegro e gioviale, che lo rende particolarmente abile nell'organizzare e animare le feste. I suoi party sono famosi, numerosi e piuttosto lunghi e sa intrattenere amabilmente gli ospiti con un repertorio vastissimo di barzellette e storielle, naturalmente in molte lingue.

Durante la Seconda guerra mondiale crea la teoria dei giochi pubblicando nel 1944, insieme a Oskar Morgenstern, un testo che diverrà un classico, Theory of Games and Economic Behavior.

Alcuni anni più tardi Shannon, uno dei padri fondatori della teoria dell'informazione, si baserà sui lavori di von Neumann per pubblicare il suo articolo Una macchina giocatrice di scacchi.

Sempre nel 1944, von Neumann viene a conoscenza da un suo collega, Herman Goldstine, impegnato anch'esso nel Progetto Manhattan, dei tentativi effettuati presso il laboratorio balistico di costruire una macchina capace di trecento operazioni al secondo. Von Neumann rimane profondamente colpito da questa cosa e dentro alla sua mente si aprono nuovi e affascinanti scenari.

Il primo incontro con un calcolatore risale a poco tempo dopo, con la macchina Harvard Mark I (ASCC) di Howard Aiken, costruita in collaborazione con l'IBM; poi conosce ENIAC (Electronic Numerical Integrator And Computer) presso il Ballistic Research Laboratory, un ammasso enorme di valvole, condensatori e interruttori da trenta tonnellate di peso, costruita da Prosper Eckert e John Mauchly.

Questo primordiale computer è utile per eseguire calcoli balistici, meteorologici o sulle reazioni nucleari, ma è una macchina limitata, quasi del tutto priva di memoria e di elasticità, che può eseguire solo operazioni predeterminate. Per migliorarla bisogna utilizzare l'intuizione che aveva avuto Alan Turing una decina d'anni prima nel suo articolo sui numeri computabili , e cioè permettere al computer (l'hardware) di eseguire le istruzioni codificate in un programma (software) inseribile e modificabile dall'esterno. Nel 1945 esce così First Draft of a Report on the Edvac.

L'EDVAC (Electronic Discrete Variables Automatic Computer) è la prima macchina digitale programmabile tramite un software basata su quella che sarà poi definita l'architettura di von Neumann. Il merito dell'invenzione, oltre che allo scienziato ungherese, va ad Alan Turing (per l'idea: l'EDVAC, a dispetto della propria memoria finita, è la realizzazione della macchina universale inventata da Turing nel 1936, ovvero, un computer programmabile nel senso moderno del termine) e ad Eckert e Mauchly (per la realizzazione).

Gli anni della guerra vedono von Neumann coinvolto nel Progetto Manhattan per la costruzione della bomba atomica; è un coinvolgimento alimentato da un profondo odio verso i nazisti, i giapponesi e successivamente verso i sovietici. Già nel 1937, dopo aver ottenuto la cittadinanza statunitense, gli viene proposto di collaborare con le forze armate e da quel momento la sua escalation ai vertici delle istituzioni politico-militari non conoscerà più soste. È lui a suggerire come deve essere lanciata la bomba atomica per creare il maggior numero di danni e di morti, è lui che interviene nella costruzione della bomba al plutonio realizzando la cosiddetta "lente al plutonio", ed è ancora lui a incentivare la costruzione di ordigni nucleari sempre più potenti. Ma si spinge oltre, proponendo alle autorità militari di bombardare preventivamente l'Unione Sovietica per scongiurare il pericolo rosso. La sua teoria dei giochi viene utilizzata in questo contesto per studiare e ipotizzare tutti i possibili scenari bellici che si possono sviluppare in seguito a certe decisioni. Il fervore con cui appoggia lo sviluppo degli ordigni atomici lo spinge a seguire di persona alcuni test sulle armi nucleari nella seconda metà degli anni quaranta, che raggiungeranno l'apice con l'esplosione della bomba H nelle Isole Marshall nel 1952. Probabilmente saranno proprio le radiazioni sprigionate da questi test a condannarlo a morte, da lì a poco.

Nello stesso anno dell'esplosione della bomba H, viene nominato membro del General Advisory Committee della AEC (Atomic Energy Commission) e consigliere della CIA (Central Intelligence Agency, l'agenzia statunitense per lo spionaggio all'estero). Tre anni più tardi diventa membro effettivo dell'AEC.

Nel pieno della Guerra Fredda, a metà degli anni Cinquanta, si impegna al massimo per appoggiare la costruzione del missile balistico intercontinentale (ICBM) Atlas che, successivamente modificato, servirà per le missioni spaziali, portando John Glenn nello spazio nel 1962.

Un tumore alle ossa lo costringe sulla sedia a rotelle, anche se la malattia non gli impedisce di seguire di persona le riunioni strategiche con i militari, mentre si dedica a nuovi studi che riguardano programmi capaci di autoriprodursi e che lui chiama automi cellulari.

Confortato da pochi amici che gli saranno vicini fino all'ultimo, come Wigner, muore l'8 febbraio 1957.

Oskar Morgenstern

Oskar Morgenstern (Görlitz, 24 gennaio 1902 – Princeton, 26 luglio 1977) è stato un economista austriaco, cofondatore insieme a John von Neumann della teoria dei giochi.

Vita

Dopo gli studi a Vienna divenne direttore dell'istituto austriaco di ricerca sulla congiuntura economica e professore ordinario a Vienna. Nel 1938 emigrò negli USA dove divenne professore alla Princeton University e direttore del programma di ricerca in economia.

Con il suo libro pubblicato nel 1944 The Theory of Games and Economic Behavior Oskar Morgenstern e John von Neumann fondarono la teoria dei giochi.

Nel 1963 Morgenstern insieme a Paul Lazarsfeld fondò l'Institut für Höhere Studien (IHS) Istituto per studi superiori a Vienna, che guidò fino al 1970. In seguito fece ritorno negli USA.

John Hicks 

 Nobel per l'economia 1972

Sir John Richard Hicks (Warwick, 8 aprile 1904 – Blockley (Distretto di Cotswold), 20 maggio 1989) è stato un economista inglese.

Nato a Leamington Spa nel Warwickshire (Inghilterra), Hicks studiò a Oxford ai college Clifton e Balliol. In seguito insegnò alla London School of Economics, dove incontrò Friedrich von Hayek. Trascorse gli anni dal 1935 al 1938 all'Università di Cambridge, occupato principalmente nella scrittura del suo volume Value and capital. Tra il 1938 e il 1946 fu professore alla Victoria University di Manchester. Nel 1946 ritornò a Oxford, prima come research fellow al Nuffield College (1946-1965), quindi come Drummond Professor of Political Economics (1952-1965) e infine come research fellow al college All Souls (1965-1971).

Nel 1972 vinse il Premio della Banca di Svezia in memoria di Alfred Nobel per le Scienze Economiche. Tra i suoi contributi teorici, il noto criterio di "compensazione" detto Kaldor-Hicks per confronti in termini di benessere sociale, presentato nel 1939. Collaborò intensamente con il professor Roy Allen della London School of Economics. Il suo più influente contributo alla scienza economica è probabilmente il modello IS-LM (detto anche modello di Hicks-Hansen), basato sulla teoria macroeconomica sviluppata da John Maynard Keynes.

Kenneth Arrow

 Nobel per l'economia 1972

Kenneth Joseph Arrow (detto anche Ken) (New York, 23 agosto 1921) è un economista statunitense, vincitore del Premio Nobel per l'economia nel 1972, insieme a John Hicks, per i contributi pionieristici alla teoria dell'equilibrio economico generale e alla teoria del benessere.

Arrow è considerato tra i fondatori della moderna economia neoclassica. I suoi contributi principali riguardano la teoria della scelta sociale, soprattutto con il teorema dell'impossibilità che porta il suo nome, e l'analisi delle situazioni di equilibrio economico generale. Inoltre, ha contribuito ad altre aree della ricerca economica, come la teoria della crescita endogena e lo studio delle asimmetrie informative.

Biografia

Si diplomò alla Townsend Harris High School e ottenne un Bachelor's degree al City College of New York nel 1940. Alla Columbia University, nel 1941, conseguì il master. La seconda guerra mondiale interruppe gli studi di Arrow, che fu ufficiale del servizio meteorologico dell'esercito degli Stati Uniti dal 1942 al 1946. Dal 1946 al 1949 fu studente alla Columbia university, ma anche ricercatore associato in seno alla Cowles Foundation alla University of Chicago. Inoltre, nello stesso periodo fu professore assistente di economia presso la stessa università. Nel 1947 sposò Selma Schweitzer, dalla quale avrebbe avuto due figli, David Michael ed Andrew Seth. Nel 1951 ottenne il Ph. D. alla Columbia. Nel 1972 gli fu assegnato il Premio Nobel, ed Arrow divenne il più giovane vincitore (51 anni) del riconoscimento. Oggi è Joan Kenney Professor Emerito di economia e di ricerca operativa alla Stanford University. Nel 2004 il Presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, gli consegnò la National Medal of Science, il più alto riconoscimento scientifico negli Stati Uniti, per i suoi contributi nella ricerca sulla determinazione delle decisioni in condizioni di informazione imperfetta e sulla gestione del rischio. Inoltre, Arrow è membro fondatore della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.

Principali contributi alla teoria economica

Teorema dell'impossibilità

La dimostrazione del teorema comporta l'impossibilità della democrazia rappresentativa basata sui principi che solitamente sono considerati alla base della democrazia stessa: uguaglianza dei voti, univocità della scelta, certezza del risultato.

Teoria dell'equilibrio economico generale

Insieme a Gerard Debreu, che avrebbe vinto il Nobel nel 1983, Arrow fornì la prima prova rigorosa dell'esistenza di una situazione di equilibrio (v. Modello di Arrow-Debreu), dati alcuni vincoli, in grado di condurre all'equilibrio economico generale. Arrow ha, poi, continuato a estendere il modello facendo in modo che esso affrontasse anche le questioni dell'incertezza e della stabilità dell'equilibrio raggiunto, e analizzando la questione dell'efficienza degli equilibri competitivi.

Teoria della crescita endogena

Arrow contribuì alla nascita della ricerca sulla teoria della crescita endogena, riguardante lo studio dei cambiamenti tecnologici, considerati un elemento chiave della crescita economica. Fino ad allora, la teoria principale della crescita trattava il cambiamento tecnologico come generato in maniera esogena. La teoria ha cercato di studiare le ragioni economiche che spingono le imprese a innovare, portando così all'interno dei modelli la determinazione del cambiamento tecnologico.

Le asimmetrie informative

Arrow studiò anche i problemi causati dalle asimmetrie informative nei mercati. In molte transazioni, una parte (di solito il venditore) ha maggiori informazioni riguardo al prodotto, rispetto all'altra parte. Queste asimmetrie incentivano comportamenti sleali da parte dell'operatore in possesso di informazioni più precise. Il risultato è stato la nascita di strumenti in grado di far funzionare questi mercati, pur sussistendo le asimmetrie, come le garanzie e l'autenticazione ad opera di una terza parte. Al riguardo, Arrow si dedicò alla questione delle asimmetrie nell'assistenza medica, nello scambio di titoli nel mercato secondario, nelle aste online e nelle assicurazioni.


Teorema dell'impossibilità di Arrow


Il teorema dell'impossibilità di Arrow, o semplicemente teorema di Arrow, è un teorema formulato nel 1951 da Kenneth Arrow, Premio Nobel per l'economia nel 1972, nel libro Social Choice and Individual Values. Esso dice che, dati i requisiti, spiegati più avanti, di universalità, non imposizione, non dittatorialità, monotonicità, indipendenza dalle alternative irrilevanti, non è possibile determinare un sistema di votazione che preservi le scelte sociali. Lo scopo era trovare una qualsiasi procedura di decisione collettiva che potesse soddisfare alcuni requisiti ragionevoli per una scelta non arbitraria. Un esempio di una procedura che non può soddisfare tutti i requisiti considerati da Arrow è il sistema di voto maggioritario come mostrato dal paradosso di Condorcet. Il paradosso di Condorcet mostra come la votazione a maggioranza, usata nella democrazia rappresentativa, può condurre a delle scelte ambigue: partendo dalle preferenze individuali, si vuole arrivare ad una preferenza collettiva pure coerente (se A è preferito a B, e B è preferito a C, allora A deve essere preferito a C). Come detto, il paradosso di Condorcet mostra che ciò non è sempre il caso per le preferenze collettive. Jean-Charles de Borda ha proposto un'altra procedura, detta conteggio di Borda, che consiste nell'attribuire dei punti e fare la somma, la quale non ha questo difetto, ma il teorema di Arrow ci dice che ci deve essere un requisito che non è soddisfatto: l'indipendenza dalle alternative irrilevanti. In italiano il nome del teorema non è ambiguo, mentre in inglese si preferisce la versione estesa per evitare confusione con un ipotetico teorema della freccia. La dimostrazione del teorema comporta, sorprendentemente, l'impossibilità di soddisfare simultaneamente tutti i requisiti considerati da Arrow.

Illustrazione ed enunciato del teorema

Si ipotizzi che una società necessiti di adottare un ordine di preferenze tra diverse opzioni. Ciascun individuo della società ha un proprio ordine di preferenza, che può esprimere per esempio tramite un voto. Il problema è quello di trovare una procedura (per esempio un sistema di voto), più in generale chiamato una funzione di scelta pubblica, che trasformi l'insieme delle preferenze individuali in un ordinamento globale coerente. Il teorema considera le seguenti proprietà, che Arrow ipotizza rappresentare requisiti ragionevoli per un sistema di voto equo:

universalità (o dominio non ristretto): la funzione di scelta sociale dovrebbe creare un ordinamento delle preferenze sociali deterministico e completo, a partire da qualsiasi insieme iniziale di preferenze individuali;

non imposizione (o sovranità del cittadino): qualsiasi possibile preferenza sociale deve essere raggiungibile a partire da un appropriato insieme di preferenze individuali (ogni risultato deve poter essere raggiunto in qualche maniera);

non dittatorialità: la funzione di scelta sociale non deve semplicemente seguire l'ordinamento delle preferenze di un individuo o un sottoinsieme di individui, al contempo ignorando le preferenze degli altri;

monotonicità, o associazione positiva tra i valori individuali e sociali: se un individuo modifica il proprio ordinamento di preferenze promuovendo una data opzione, la funzione di scelta sociale deve promuovere tale opzione o restare invariata, ma non può assegnare a tale opzione una preferenza minore (nessun individuo dovrebbe essere in grado di esprimersi contro un'opzione assegnandole una preferenza maggiore);

indipendenza dalle alternative irrilevanti: se si confina l'attenzione ad un sottoinsieme di opzioni, e la funzione di scelta sociale è applicata ad esse soltanto, il risultato deve essere compatibile con il caso in cui la funzione di scelta sociale è applicata all'intero insieme di alternative possibili.

Il teorema di Arrow afferma che se il gruppo di cittadini votanti comprende almeno due individui e l'insieme delle alternative possibili almeno tre opzioni, non è possibile costruire una funzione di scelta sociale che soddisfi al contempo tutti i requisiti sopra enunciati.

Secondo una versione alternativa del teorema di Arrow, il requisito di monotonicità è rimpiazzato da:

unanimità (o criterio paretiano, o efficienza paretiana): se ogni singolo individuo preferisce una certa opzione A all'opzione B, allora A deve essere preferita a B anche da parte della funzione di scelta sociale.

Tale formulazione è più restrittiva, in quanto ipotizzare sia la monotonicità che l'indipendenza dalle alternative irrilevanti implica l'efficienza paretiana. Va tuttavia detto che la teoria paretiana dell'efficienza nel liberismo è stata confutata dal premio Nobel per l'Economia Amartya Sen.

Formulazione logica

Facciamo le seguenti ipotesi. Siano e8b7ea8375ca2c4b61a210ebdf48e670.png l'insieme dei voti, 65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png e 224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png i candidati. Per semplicità, consideriamo il caso senza schede nulle o bianche e senza possibilità di pareggio (casi che sono sempre riconducibili a questo eliminando da e8b7ea8375ca2c4b61a210ebdf48e670.png i voti nulli o in bianco, e ricorrendo eventualmente al ballottaggio). Detto 7228b5af2e244193d605372bf4c4e4bf.png l'insieme dei voti per 65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png, risulta completamente determinato 939eb2e42699e96908aa60aaaceaa95e.png, in quanto non è altro che il complementare, 426b801109150f367a3a546011bdcdb5.png .

Un'altra ipotesi è che se 7228b5af2e244193d605372bf4c4e4bf.png è sufficiente ad 65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png per vincere, egli vince anche se prende più voti. Nelle votazioni a maggioranza, il minimo di tali insiemi di voti è la metà più uno di e8b7ea8375ca2c4b61a210ebdf48e670.png. Ogni insieme che permetta la vittoria di un candidato (poniamo 65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png) è detto insieme decisivo.

Chiamiamo 416c37e9f969aed78c6a0098ba71d19f.png l'insieme degli insiemi decisivi a favore di 65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png.

In termini matematici abbiamo postulato che, detto ee38fe80cc15888155d970f2825fc909.png un insieme decisivo per 65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png su e8b7ea8375ca2c4b61a210ebdf48e670.png:

1. Se ee38fe80cc15888155d970f2825fc909.png è contenuto in ee38fe80cc15888155d970f2825fc909.png, allora ee38fe80cc15888155d970f2825fc909.png appartiene ad 416c37e9f969aed78c6a0098ba71d19f.png.

2. Ogni voto sta in ee38fe80cc15888155d970f2825fc909.png o nel suo complementare.

3. O ee38fe80cc15888155d970f2825fc909.png o il suo complementare è decisivo.

Queste proprietà sono molto vicine a quelle di un filtro su e8b7ea8375ca2c4b61a210ebdf48e670.png, mancando solamente quella della chiusura rispetto all'intersezione. Mostreremo dunque che l'ipotesi della monotonicità (ossia che se 65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png vince su 224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png, e 224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png vince su fb94060e554a63209887f6303a9254f7.png, allora 65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png vince su fb94060e554a63209887f6303a9254f7.png) è equivalente alla chiusura rispetto all'intersezione degli insiemi decisivi di e8b7ea8375ca2c4b61a210ebdf48e670.png.

Quanto sopra è l'enunciato del teorema.

Dimostrazione

Supponiamo che f9bd3dd75b5c6edc9c3f12bb8de41cf2.png non sia decisivo. Allora, per la proprietà 3, lo è il suo complementare 74cd1b6032bf2cade7a933929f22fda9.png. Quindi, se ee38fe80cc15888155d970f2825fc909.png fa vincere 65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png su 224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png, e ee38fe80cc15888155d970f2825fc909.png fa vincere 224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png su fb94060e554a63209887f6303a9254f7.png, vediamo come ogni votante esprimerebbe le sue preferenze:

1. per ogni elettore di f9bd3dd75b5c6edc9c3f12bb8de41cf2.png65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png vince su 224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png, e 224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png su fb94060e554a63209887f6303a9254f7.png (bb3084cc70fc86cc500152f44d9533f5.png);

2. per ogni elettore di 5e3aca1b88ea0b9f614dcb2c040c03b8.png224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png su fb94060e554a63209887f6303a9254f7.png, e 224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png su 65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png (160a18382f9475835e03407156588a19.png);

3. per ogni elettore di 66ed864f2bfc6d7af01dfe5fc056ea2f.pngfb94060e554a63209887f6303a9254f7.png su 224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png, e 65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png su 224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png (a9a2c64c9883ed88d95dfe9e76d5fe4e.png);

4. per ogni elettore di c0f4f7b86930bcf116e8b285b3d8c459.pngfb94060e554a63209887f6303a9254f7.png su 224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png, e 224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png su 65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png (3c1c44b9467f652d1448d54837e2ee13.png).

Allora 65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png vince su 224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png perché ee38fe80cc15888155d970f2825fc909.png è decisivo, 224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png vince su fb94060e554a63209887f6303a9254f7.png perché è decisivo ee38fe80cc15888155d970f2825fc909.png e fb94060e554a63209887f6303a9254f7.png vince su 65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png perché 74cd1b6032bf2cade7a933929f22fda9.png è decisivo. Quindi abbiamo il paradosso di Condorcet. Viceversa, dato un qualunque ordine delle prefenze, siano ee38fe80cc15888155d970f2825fc909.png, d0b2de72087a82eb8e2a16113dc385e6.png e e68d44886f2d6caeac2dd2b0dff6489a.png rispettivamente i votanti che preferiscono 65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png a 224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png, 224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png a fb94060e554a63209887f6303a9254f7.png ed 65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png a fb94060e554a63209887f6303a9254f7.png. Tutti e tre sono decisivi. Vediamo ora che ogni votante di f9bd3dd75b5c6edc9c3f12bb8de41cf2.png preferisce 65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png a 224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png, e 224584ce7cd5d333de422073d9faca7c.png a fb94060e554a63209887f6303a9254f7.png, e poiché l'ordine individuale è lineare, 65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png a fb94060e554a63209887f6303a9254f7.png. Dunque bab0e5376c5819fe36278d34b192e7bb.png. E dunque, poiché f9bd3dd75b5c6edc9c3f12bb8de41cf2.png è decisivo, lo è anche e68d44886f2d6caeac2dd2b0dff6489a.png. 8dbf8a684e6d6d0d903dfe37bf595e0c.png

Per le proprietà viste prima, gli insiemi decisivi che rispettano la chiusura rispetto all'intersezione formano un ultrafiltro, e dato che l'insieme dei votanti è, per fortuna, finito, anche un filtro principale. Esiste, dunque, un singolo votante, che Arrow chiama il dittatore, che da solo determina il risultato della votazione: egli è l'intersezione di tutti gli insiemi decisivi. Quindi, con le ipotesi che abbiamo fatto, delle due l'una: o accettiamo il paradosso di Condorcet, e quindi l'esito delle votazioni dipende dall'ordine in cui vengono effettuate, oppure in un sistema che esclude questa possibilità, ogni insieme decisivo comprende un dittatore, ossia un votante che da solo determina il risultato della votazione. Entrambe le possibilità sono in contrasto con l'idea istintiva di democrazia rappresentativa, che è quindi matematicamente impossibile. Contrariamente a quanto possa sembrare, sono possibili alternative che consentano ad una Costituzione di attuare una democrazia rappresentativa senza il paradosso di Condorcet, però queste forme devono necessariamente rinunciare ad una o più delle ipotesi viste in precedenza. Data la semplicità delle ipotesi di partenza, e la complessità della spiegazione del perché sono inaccettabili, è arduo ipotizzare che sia possibile far varare una legge elettorale conforme alle soluzioni prospettate.

Interpretazioni

Il teorema di Arrow è un risultato matematico, ma è spesso espresso in termini non matematici, con affermazioni come: nessun sistema di voto è equo, qualunque sistema di voto può essere manipolato, o il solo sistema di voto non manipolabile è la dittatura. Queste affermazioni rappresentano semplificazioni del risultato di Arrow che non sono considerate corrette da tutti.

Arrow usa il termine fair (equo) con riferimento ai suoi criteri. In effetti alcuni di essi, quali l'ottimo paretiano o la richiesta di assenza di imposizioni, possono apparire banali. Non così, ad esempio, per il criterio dell'indipendenza dalle alternative irrilevanti. Si consideri il seguente esempio: Dave, Chris, Bill e Agnes concorrono per uno stesso posto di lavoro; si supponga che Agnes abbia un chiaro vantaggio rispetto agli altri concorrenti. Ora, in base al risultato di Arrow, si potrebbe avere una situazione in cui, se Dave si ritira, Bill, e non Agnes, ottiene il posto. Ciò potrebbe apparire non equo a molti; tuttavia il teorema di Arrow implica che situazioni di questo tipo non possono in generale essere evitate.

Diversi teorici, e non, hanno proposto di rilassare, ossia rendere meno restrittivo, il criterio dell'indipendenza dalle alternative irrilevanti al fine di risolvere il paradosso. I fautori di sistemi di voto basati su ordinamenti delle alternative affermano che il criterio sarebbe restrittivo senza ragione, e che non troverebbe applicazione nella maggioranza delle situazioni concrete. In effetti, tale criterio è escluso da diversi meccanismi di voto di comune impiego, così come in generalizzazioni quali il metodo di Borda.

Il teorema di Gibbard-Satterthwaite, un tentativo di rilassare le condizioni che portano al risultato di Arrow, sostituisce al criterio dell'indipendenza dalle alternative irrilevanti un criterio di non-manipolabilità. Il teorema, tuttavia, giunge alle stesse conclusioni (paradossali) di Arrow, dimostrando così l'equivalenza tra il criterio dell'indipendenza dalle alternative irrilevanti e la non-manipolabilità.

In conclusione, il teorema di Arrow mostra che il voto è un gioco non banale, e che la teoria dei giochi potrebbe essere impiegata per predire l'esito della maggior parte dei meccanismi di voto. Ciò potrebbe essere interpretato come un risultato scoraggiante, dal momento che un gioco non ha necessariamente un equilibrio efficiente (o desiderabile dal punto di vista sociale). L'alternativa sarebbe di traslare al campo della politica elettorale i risultati ottenuti da Sen nel campo dell'economia, il che però richiede di rilassare una delle condizioni viste all'inizio.

Conseguenze

Nel 1970, applicando lo stesso principio di Arrow, il Premio Nobel per l'economia Amartya Sen ha mostrato l'impossibilità matematica del liberismo paretiano. Tramite una generalizzazione del metodo ad insiemi di vettori ad n dimensioni, l'economista Herbert Scarf ha mostrato nel 1962 l'inesistenza della mano invisibile per mercati con più di due beni i cui prezzi siano interdipendenti. Il risultato di Arrow rappresenta uno dei primi approcci alle scienze sociali tramite il formalismo matematico; tramite questo e altri lavori Kenneth Arrow ha contribuito significativamente all'evoluzione dell'economia politica nel corso del XX secolo nella direzione di un maggior rigore matematico.


Piero Sraffa

Piero Sraffa (Torino, 5 agosto 1898 – Cambridge, 3 settembre 1983) è stato un economista italiano.

Gli anni della formazione

Figlio unico di Angelo Sraffa, professore di diritto commerciale tra i più eminenti del suo tempo, e di Irma Tivoli, entrambi provenienti da famiglie di origine ebraica, Piero nacque a Torino, ma nei primi anni di vita scolastica seguì il padre nelle sue peregrinazioni accademiche (Pisa, Camerino, Messina, Parma, Milano). Al rientro a Torino studiò prima al liceo classico Vincenzo Gioberti e quindi al Massimo D'Azeglio, dove si diplomò nel 1915, per poi frequentare la facoltà di Giurisprudenza presso l'Università di Torino.

In realtà a 18 anni e mezzo, nella primavera del 1917 iniziò il servizio militare come ufficiale del Genio, ma sotto il comando della Prima Armata e quindi in posizioni di retroguardia. Dalla fine della guerra (novembre 1918) fino a marzo del 1920 fu membro della Reale commissione d'inchiesta sulle violazioni del diritto delle genti commesse dal nemico. Il periodo militare corrispose quindi di fatto a quello 'universitario'. Si laureò infatti nel novembre 1920 con una tesi sull'inflazione in Italia nel periodo della prima guerra mondiale con Luigi Einaudi (il futuro Presidente della Repubblica). (Alcuni aneddoti raccontano di esami fatti in grande scioltezza con la divisa da ufficiale.)

Nel 1919, tramite Umberto Cosmo, conobbe Antonio Gramsci e frequentò l'Ordine Nuovo, fondato il 1º maggio da Gramsci stesso con Angelo Tasca, Umberto Terracini e Palmiro Togliatti. Fu questo il primo momento di svolta della sua vita.

Tra aprile 1921 e giugno 1922 studiò alla London School of Economics. In questo periodo, a Cambridge, incontrò due volte Keynes che lo invitò alla collaborazione. Questa richiesta portò Sraffa a scrivere due articoli sul sistema bancario italiano che furono pubblicati nel 1922. Il primo (The Bank Crisis in Italy) sull'Economic Journal, la rivista inglese di economia politica diretta appunto da Keynes. Il secondo (L'attuale situazione delle banche italiane) fu pubblicato sul supplemento di economia del quotidiano Manchester Guardian (ora The Guardian). Keynes affidò a Sraffa anche la cura dell'edizione italiana del suo A Tract on Monetary Reform. L'incontro con Keynes fu indubbiamente un altro e fondamentale punto di svolta della biografia di Sraffa.

Al rientro in Italia 1922 per qualche mese - dal giugno al 2 dicembre - fu direttore dell'ufficio provinciale del lavoro di Milano, dove frequentò ambienti socialisti e in particolare Carlo Rosselli e Raffaele Mattioli, entrambi all'epoca assistenti di Einaudi. Ma la marcia su Roma e l'avvento del fascismo fu un evento destinato ad incidere profondamente sulla biografia anche dell'italiano Piero Sraffa.

Dopo essere stato anche oggetto di un'aggressione squadristica fascista, il padre Angelo ricevette il 20 e il 21 dicembre 1922, due telegrammi assai minacciosi dallo stesso Mussolini che esigeva una pubblica ritrattazione sul contenuto del secondo articolo pubblicato in Inghilterra durante l'anno. Piero - d'accordo con Keynes - partì per l'Inghilterra. Ma a Dover il 26 gennaio 1923 fu respinto e rispedito a Calais. Rimase quindi a Parigi fino a metà marzo. Questi avvenimenti lo portarono probabilmente alla decisione di dedicarsi alla vita accademica, più garantita.

Così a novembre del 1923 assunse un incarico come libero docente all'Università di Perugia, con un corso di economia politica per il quale adottò i Principi di Marshall, e nel marzo del 1926, vincendo il concorso, divenne ordinario sempre di economia politica a Cagliari.

Nel frattempo, nel maggio del 1924, la sua vecchia conoscenza Antonio Gramsci rientrò in Italia. Questi, che si stava avviando a diventare il maggior esponente nel Partito Comunista d'Italia, si trovò bloccato a Mosca - dove si trovava ai lavori dell'Internazionale Comunista - dall'avvento al potere del fascismo. Quindi soggiornò qualche mese a Vienna, dove attese l'esito delle elezioni italiane e una volta eletto al parlamento rientrò a Roma. Da questo momento al suo arresto (8 novembre 1926) i rapporti tra i due intellettuali si intensificarono e probabilmente divennero una tappa decisiva della biografia umana e intellettuale di Piero Sraffa. Assieme alla cognata di Gramsci, Tatiana Schucht, Sraffa fu infatti il tramite tra il prigioniero ed il partito, Togliatti in particolare, un ruolo sufficientemente chiarito solo di recente (Vacca 2012).

Nel dicembre 1925 Sraffa pubblicò la memoria intitolata Sulle relazioni fra costo e quantità prodotta che avviò la critica della dominante teoria dei prezzi. Edgeworth, che dirigeva con Keynes l'Economic Journal e che lo lesse in italiano, gli chiese un articolo sullo stesso argomento, che venne pubblicato nel dicembre 1926 col titolo The Laws of Returns under Competitive Conditions. Questo articolo - pubblicato in Inghilterra - ebbe ovviamente una maggiore risonanza ed avviò una nuova stagione della teoria dell'impresa.

Le leggi della produttività in regime di concorrenza

Nell'articolo del 1926, Sraffa riprende e sviluppa il suo lavoro del 1925 per mostrare l'inconsistenza della teoria marshalliana dei prezzi, secondo la quale, per ciascun bene:

il prezzo d'equilibrio viene determinato dall'intersezione tra la curva della domanda e quella dell'offerta;

la curva dell'offerta, simmetrica a quella della domanda, è basata sulla legge dei rendimenti crescenti (primo tratto) e sulla legge dei rendimenti decrescenti (secondo tratto).

Sraffa rileva che le due leggi hanno origini e ambiti di applicazione diversi (e pertanto non possono spiegare i due tratti di una stessa curva): la legge dei rendimenti decrescenti si applicava in origine all'intera economia e conseguiva dalla scarsità della terra come fattore di produzione (la teoria della rendita differenziale di David Ricardo); la legge dei rendimenti crescenti si applicava alla singola impresa e conseguiva dai benefici della divisione del lavoro. La prima consentiva di studiare le leggi della distribuzione, la seconda quelle della produzione. Marshall, invece, estese la legge dei rendimenti decrescenti a qualsiasi fattore di produzione scarso e sostituì le economie esterne alla divisione del lavoro per motivare i rendimenti crescenti. In ogni caso, nota Sraffa, Marshall crede di poter determinare l'equilibrio della singola impresa di una particolare industria analizzando piccoli incrementi nella sua produzione e assumendo invariata la situazione in altre imprese della stessa industria e dell'intera economia; tuttavia:

quanto ai rendimenti decrescenti, vi sono due casi:

se un bene viene prodotto utilizzando una quota considerevole di un fattore scarso, un piccolo aumento della produzione comporta un significativo aumento del costo sia di quel bene, sia di altri beni nella cui produzione venga impiegato; ne seguono una minore domanda di quel bene e di quel fattore scarso, quindi il contenimento del loro costo;

se un bene viene prodotto utilizzando una piccola quota di un fattore scarso, un piccolo aumento della sua produzione si traduce più in una riduzione delle quantità del fattore scarso utilizzate da altre imprese che in un suo generale maggiore utilizzo; l'incremento del costo del fattore è quindi trascurabile;

quanto ai rendimenti crescenti, lo stesso Marshall nota che le economie esterne difficilmente possono essere attribuite con chiarezza ad un'industria specifica, ma interessano in misura notevole gruppi, spesso di grandi dimensioni, di industrie collegate; conseguentemente, non è possibile ipotizzare un aumento dei rendimenti in una sola impresa tenendo invariati quelli di altre.

Sraffa ne conclude che, in concorrenza perfetta, i costi di produzione devono essere considerati costanti per piccole variazioni della quantità prodotta e che la teoria classica del costo di produzione appare meglio fondata.

Considera poi il caso opposto del monopolio, in cui il prezzo non è dato ma è inversamente proporzionale alla quantità venduta, e osserva che l'esperienza mostra che molte imprese (in particolare la maggior parte di quelle che producono beni di consumo) operano in condizioni di costi decrescenti, che consentono di diminuire il prezzo per aumentare le vendite, come se operassero in regime di monopolio. Ipotizza, quindi, che tali imprese non operino in un vero e proprio regime di monopolio, ma possano comunque disporre ciascuna di un suo particolare mercato.

Tali considerazioni saranno poi sviluppate da Joan Robinson nella sua teoria della concorrenza imperfetta.

Gli anni di Cambridge

Nel 1927 avvenne la svolta più importante della vita di Piero Sraffa. John Maynard Keynes, a seguito degli articoli pubblicati nel 1925-26, lo invitò a Cambridge per una lectureship di qualche anno. Sraffa accettò, anche per allontanarsi dall'Italia diventata per lui molto pericolosa. Il 26 novembre 1926 infatti il fascismo fece approvare la 'legge per la difesa dello stato', dando avvio allo stato totalitario. A Cambridge Piero Sraffa giunse nel luglio del 1927 e vi rimase fino alla fine della sua esistenza.

Nel riparo di Cambridge, tenne nei primi tre anni dei corsi sulla teoria avanzata del valore. Quindi, sempre con l'aiuto di Keynes, ebbe un incarico da bibliotecario e si poté dedicare allo studio, intrecciando rapporti con una serie d'intellettuali destinati a lasciare notevoli e durature tracce. John Maynard Keynes (1883-1946) è stato il faro di questo territorio. Tra gli economisti vanno ricordati almeno Michał Kalecki (1899-1970), Maurice Dobb (1900-1976), Joan Robinson (1903-1983) e Nicholas Kaldor (1908-1986). Tra i filosofi Frank Plumpton Ramsey (1903-1930), morto prematuramente, fu certamente d'aiuto durante l'elaborazione delle equazioni iniziali di Produzioni di merci a mezzo di merci, databili nel 1928.

Di particolare importanza e oggetto di indagine nella storia del pensiero è l'intenso rapporto avuto con Ludwig Wittgenstein. Dal ritorno di questi a Cambridge (febbraio 1929) e fino alla famosa 'rottura' del 1947, avvenuta ad opera di Sraffa e subita traumaticamente da Wittgenstein, i due intellettuali hanno avuto una frequentazione costante. Soprattutto negli anni che hanno preceduto la guerra, le discussioni avvenute durante gli incontri settimanali hanno portato il pensatore viennese a rivedere radicalmente, anche se progressivamente, il suo approccio al problema del linguaggio fissato nel Tractatus Logico-Philosophicus, pubblicato nel 1922. L'influenza di Sraffa è stata riconosciuta con grande evidenza dallo stesso Wittgenstein nella prefazione alla sua opera più matura, Philosophical Investigations (Ricerche filosofiche), uscita postuma nel 1953. (E per gli studiosi di Sraffa rimane aperta la questione dell'influenza reciproca, quindi anche quella di Wittgenstein su Sraffa.)

Circola su questo rapporto un celebre aneddoto che va riportato, anche se tende a semplificare quello che fu senz'altro un lungo processo. Accadde infatti che durante una passeggiata lungo il Cam, il fiume di Cambridge, Sraffa mettesse in grave difficoltà la convinzione espressa nel Tractatus che il linguaggio possa ridursi alla logica, semplicemente chiedendogli a quale logica si potesse ridurre il tipico gesto 'napoletano' effettuato con l'indice ed il medio della mano che strofinando il mento dall'interno verso l'esterno indica incuranza, menefreghismo.

Luigi Pasinetti, sulla base dei manoscritti non pubblicati di Sraffa (papers) [1], ha individuato cinque fasi del suo lavoro a Cambridge:

1928-1931: ricerche sulla storia delle teorie economiche, tese a recuperare l'economia "ragionevole" dei classici, Marx in primo luogo, scartando l'economia "aberrante" dei marginalisti; intenzione di lavorare ad un libro analogo a quello che avrebbe dovuto essere Il Capitale di Marx, Teorie sul plusvalore comprese, ma evitando il rischio di "finire come Marx" che, avendo esposto prima la teoria, non è riuscito a completare la parte storica e proprio per questo "non è riuscito a farsi capire"; Sraffa intende esporre prima la storia, poi la teoria, "per il che si richiede che io vada dritto all'ignoto, da Marshall a Marx, dalla disutilità al costo materiale"; prima elaborazione delle sue equazioni senza sovrappiù;

1931-1940: edizione delle opere di Ricardo; quasi pronte per la stampa, non vengono pubblicate sia perché manca l'"Introduzione" (scritta da Sraffa più tardi), sia perché si scoprono nuovi documenti, tra cui tutte le lettere di Ricardo a James Mill;

1941-1945: critica dell'economia marginalista, in particolare della teoria della produzione e distribuzione, della teoria del valore (dei prezzi), della teoria dell'utilità marginale e della teoria dell'interesse come premio per l'astinenza; elaborazione delle sue equazioni con sovrappiù;

1946-1955: pubblicazione dei primi dieci volumi delle opere di Ricardo (l'undicesimo, contenente gli indici, viene pubblicato nel 1973);

1955-1960: preparazione di Produzione di merci a mezzo di merci come mera "premessa ad una critica dell'economia politica"; il progetto originario si è rivelato troppo vasto: della parte storica rimane solo una Appendice di poche pagine intitolata "Nota sulle fonti" e si auspica nella Prefazione che la critica vera e propria venga tentata "più tardi, o dall'autore o da qualcuno più giovane e meglio attrezzato per l'impresa".

Produzione di merci a mezzo di merci

Con la sua opera Production of Commodities by Means of Commodities. Prelude to a critique to economic theory (1960) si propone di gettare le basi teoriche per una critica della scuola economica ai suoi tempi prevalente, quella marginalista, e di perfezionare la teoria classica del valore in economia sviluppata da Ricardo.

In tale opera, divenuta una pietra miliare nella storia del pensiero economico, Sraffa analizza un modello di produzione lineare in cui è possibile determinare la struttura dei prezzi relativi e una delle due variabili distributive (saggio di profitto o di salario), data esogenamente l'altra variabile e la tecnologia, rappresentata dalle quantità fisiche dei singoli beni necessari per produrre le varie merci con i relativi output.

La determinazione simultanea comporta che il valore del capitale impiegato può essere conosciuto solo insieme ai prezzi delle merci da cui è costituito. In questo modo divengono incompatibili con questo sistema le teorie che partono da dati valori dei fattori produttivi e spiegano i prezzi con la remunerazione di tali fattori in base alla loro produttività marginale.

In sostanza, Sraffa dimostra che:

non è possibile individuare una legge che determini simultaneamente il salario ed il saggio del profitto (come remunerazioni, rispettivamente, del lavoro e del capitale), in quanto:

il saggio del profitto può essere determinato solo fissando il salario (o viceversa);

non è possibile misurare il capitale senza determinare anche i prezzi (compreso il profitto), quindi non è possibile calcolare il profitto sulla base del valore del capitale (come sua remunerazione);

non si può assumere che, all'aumentare del salario, il lavoro venga sostituito dal capitale, in quanto il valore del capitale dipende dalla durata dell'investimento iniziale; considerando capitali di diversa durata, può ben succedere che si preferisca sostituire capitale con lavoro anche se i salari aumentano (cosiddetto "ritorno delle tecniche"); ne segue che non è possibile attribuire la disoccupazione all'aumento dei salari, come se si trattasse di minore domanda di un fattore di produzione il cui prezzo è aumentato.

Questo apparato analitico è stato utilizzato dai seguaci di Sraffa anche per la critica alla teoria del valore di Marx e per la soluzione al problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione. Secondo Luigi Pasinetti, Sraffa consente di superare i limiti del sistema input-output di Wassily Leontief, in particolare con riguardo agli effetti del progresso tecnico; l'approccio di Pasinetti è stato recentemente ripreso ed ampliato, sempre in linea col pensiero di Sraffa, da Heinz Kurz e Neri Salvadori.

Altre note biografiche

La pubblicazione, a metà del 1960, di Produzione di merci a mezzo di merci avvenne simultaneamente alla versione inglese, Production of Commodities by means of Commodities, e - pur se con un lento avvio - il pensiero di Sraffa divenne oggetto di grande dibattito, sia sul versante della teoria economica che su quello della pratica politica. Tuttavia, pur partecipando al dibattito stesso, la sua proverbiale discrezione non venne mai meno. Mantenne infatti la sua residenza a Cambridge, con poche uscite, anche in Italia, dove pur aveva forti rapporti intellettuali e d'amicizia. Tra i rapporti più noti quelli con il vecchio amico Raffaele Mattioli, senz'altro il più lungo e più costante, con Claudio Napoleoni e con Giorgio Napolitano, allora membro importante del Partito Comunista Italiano.

Sraffa ricevette due lauree ad honorem, dalla Sorbona di Parigi nel 1972 e dall'Università di Madrid nel 1976, ma - soprattutto - ricevette nel 1961 la medaglia Söderström della Swedish Royal Academy, un premio che anticipava di fatto il Nobel per l'economia istituito solo nel 1969.

Sraffa non ebbe mai problemi economici, avendo ereditato una notevole fortuna alla morte del padre, ma diventò ancora più ricco grazie ad un investimento di lungo termine in obbligazioni del governo giapponese che egli aveva acquistate nei giorni successivi ai bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki, ritenendo giustamente che il Giappone di quel periodo storico non sarebbe rimasto privo di risorse per molto tempo e che avrebbe rispettato i suoi impegni. Fu l'unica sua operazione finanziaria, ma piuttosto significativa.

Sraffa - che viene sempre descritto come persona di eccezionale intelligenza, piuttosto timido e molto riservato - aveva una grande passione per i libri. Fu un grande ricercatore delle più rare edizioni e famoso fu il ritrovamento con Keynes di un piccolo ma importante libretto di David Hume (An abstract of A treatise of human nature, 1740). Lasciò la sua biblioteca alla Wren Library del Trinity College: il catalogo online [2] è di oltre 7.000 volumi (7085 records).

L'opera pubblicata di Sraffa, se si fa eccezione per Produzione di merci e per la sua tesi di laurea, è contenuta in un volume dei saggi ed articoli di sole 265 pagine. E tuttavia è certo che la sua critica e la sua impostazione scientifica impegneranno le menti ancora per molto tempo.

Piero Sraffa è inoltre ricordato per avere avuto importanti rapporti personali ed intellettuali con tre dei maggiori protagonisti del Novecento europeo: il politico e pensatore comunista italiano Antonio Gramsci, l'economista inglese John Maynard Keynes, il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein. Tre figure assai diverse, ma tre riconosciuti leader e rivoluzionari nel loro campo.

Produzione di merci a mezzo di merci

Produzione di merci a mezzo di merci. Premesse a una critica della teoria economica (Production of Commodities by Means of Commodities. Prelude to a critique to economic theory) venne pubblicato nel 1960 e costituisce l'opera principale di Piero Sraffa (1898 - 1983).

Intendimenti ed ipotesi dell’analisi di Sraffa

Sembra opportuno innanzitutto indicare gli obiettivi perseguiti e le ipotesi di partenza, affinché non sorgano equivoci circa la reale portata del modello sraffiano.

Gli obiettivi

Da più parti si è avanzata l’opinione che la teoria di Sraffa sia scaturita dall’esigenza di risolvere quei problemi che sorgono per la teoria ricardiana non appena si abbandoni l’ipotesi di solo capitale circolante e di composizione del capitale uniforme in tutti i settori.

Il problema che Sraffa risolve in Produzione è indubbiamente quello cui aveva atteso David Ricardo in tutte le sue opere: rendere lo studio della distribuzione del reddito indipendente dalla teoria del valore. Sraffa riesce a trovare la merce numerario tanto cercata da Ricardo, risolvendo anche il problema di rendere possibile la determinazione del saggio di profitto (qualora sia dato esogenamente il saggio di salario) prima della determinazione dei prezzi e in modo indipendente da essa.

Oltre a questo in Produzione vi è anche un’implicita critica a tutta la costruzione marginalista. Il sottotitolo dell’opera è Premesse a una critica della teoria economica e nella Prefazione Sraffa afferma:

« E’ carattere particolare della serie di proposizioni che vengono ora pubblicate che esse, per quanto non si addentrino nell’esame della teoria marginale del valore e della distribuzione, sono state tuttavia concepite così da poter servire di base per una critica di quella teoria. Se la base terrà, la critica potrà essere tentata più tardi, o dall’autore o da qualcuno più giovane e meglio attrezzato per l’impresa. »

Va comunque detto che presumibilmente Sraffa sviluppò la sua analisi anche grazie al contributo di John Von Neumann. Questi aveva pubblicato nel 1945 uno scritto - il cui titolo, nella traduzione inglese curata da Nicholas Kaldor, è: A model of general economic equilibrium - in cui il problema del mutamento dei metodi di produzione era trattato in termini analoghi. Sraffa conosceva sicuramente l’opera, essendo citato da David Gawen Champernowne, il curatore dell’appendice matematica nella traduzione inglese, per l’aiuto fornitogli.

Le ipotesi

I rendimenti di scala

Sraffa era propenso ad accogliere l’ipotesi di rendimenti di scala costanti, in contrasto con la letteratura marginalista che supponeva rendimenti di scala decrescenti.

Va tuttavia messo in luce che tale ipotesi non è per nulla necessaria per la validità del modello: Secondo lo stesso Sraffa infatti:

« Non viene infatti considerato alcun cambiamento nel volume della produzione e neppure (almeno nelle prime due parti del volume) alcun cambiamento nelle proporzioni in cui i diversi mezzi di produzione sono usati in ciascun’industria, cosicché la questione se i rendimenti siano costanti o variabili non sorge nemmeno. »

Ciò che interessa a Sraffa è analizzare, rebus sic stantibus, le relazioni fra variazioni nelle variabili distributive e prezzi:

« Questo punto di vista, che è quello degli economisti classici, è stato sommerso e dimenticato in seguito all’avvento della teoria neoclassica", necessariamente incentrata sul cambiamento, poiché senza cambiamento non vi può essere un prodotto o un costo marginale. »

« E’ necessario", avverte inoltre l’autore, "stare attenti a non confondere margini spuri per margini genuini. Si incontreranno in queste pagine casi che a prima vista sembrano indistinguibili da esempi di produzione marginale; ma il segno sicuro che sono spuri è l’assenza di ogni cambiamento del tipo richiesto. »

(1960, Prefazione pagg. V-VI)

Salario di sussistenza e salario di sovrappiù

Nel modello sraffiano il salario è considerato pagato alla fine del periodo di produzione; il fondo salari non viene dunque conteggiato tra il capitale anticipato. L’abbandono della concezione di un salario anticipato dal capitalista, propria degli economisti classici, è strettamente consequenziale alla mancata distinzione in Produzione dei due elementi del salario: di sussistenza e di sovrappiù. Il primo risulta dato in termini reali ed indica l’insieme di quei beni strettamente necessari alla sussistenza dei lavoratori, e che come tali figurano fra i mezzi di produzione (questa era l’unica componente considerata dagli economisti classici). Il secondo, che è determinato solo post factum, cioè a produzione realizzata, misura invece la porzione del sovrappiù realizzato assegnata ai lavoratori.

Seppur incline a considerare separatamente le due componenti, peraltro in sintonia con la sua formazione classica, in omaggio alla tradizione neoclassica Sraffa sceglie di non operare una tale distinzione. L’autore stesso avverte tuttavia che l’inconveniente di questa scelta è la diversità di ruolo svolta all’interno del sistema dai beni destinati al consumo di sussistenza; meglio, e anticipando concetti che illustreremo più avanti, la conseguenza è che questi beni "vengono ipso facto relegati nel limbo dei prodotti non base".

La variabile distributiva esogena

La teoria di Sraffa riesce a determinare la struttura dei prezzi e una delle due variabili distributive (saggio di profitto o di salario), date l’altra variabile e la tecnologia. Resta dunque da decidere quale delle due variabili scegliere come indipendente ed in che modo determinarla.

Sraffa propende per la fissazione esogena del saggio di profitto, poiché, quando si abbandoni l’ipotesi classica di salario ancorato ai livelli di sussistenza e il salario stesso si assuma come dato in termini di un’unità di misura più o meno astratta, esso non può essere stabilito fino a che non lo siano i prezzi delle merci.

Nel caso sia il saggio di profitto la variabile esogena le soluzioni possono essere:

ipotizzare che venga determinato sul mercato monetario;

legarlo al saggio di crescita per studiare il modello in un contesto dinamico;

assumerlo come fissato in un’economia a pianificazione centrale per il raggiungimento di determinati obiettivi;

riferirsi ad un saggio di profitto medio ritenuto normale dagli imprenditori in connessione alla particolare situazione dell’economia in un dato periodo.

Il modello a produzione singola

La parte prima di Produzione

Seguendo la classificazione utilizzata da Léon Walras in Elements d’economie politique pure, un classico della teoria marginalista in cui si analizza l’equilibrio economico generale, Produzione è divisa in tre parti: nella prima viene affrontato il caso più semplice di produzione singola, in cui ogni industria produce un solo bene, e di solo capitale circolante; nella seconda è introdotta l’ipotesi di produzione congiunta e vengono inseriti il capitale fisso e le risorse scarse; nella terza infine è trattato il cosiddetto problema della scelta della tecnica.

I metodi di produzione (l’insieme delle equazioni che collegano i mezzi di produzione ai prodotti) si assumono dati nelle prime due parti, mentre sono considerati incognite nella terza.

La produzione per sussistenza

Sraffa, in sintonia con Ricardo, dà una rappresentazione del sistema economico focalizzata attorno alle relazioni interindustriali.

Si abbiano le merci 1, 2, ...n, ciascuna prodotta da un’industria diversa. Siano b43038cb246f040ec064b9d960b7e12f.png le quantità prodotte annualmente rispettivamente delle merci 1, 2,...n. Siano altresì c7f453deb7b872c26a35fe04816a121d.png le quantità delle merci 1, 2,...n annualmente usate dall’industria che produce il bene 1; e7a8f925e6a3fdf81c7517212b2d41fd.png le corrispondenti quantità usate dall’industria che produce la merce 2; e così via. Le condizioni di produzione assumono la forma seguente:

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f92586ed636a7aa0195812730566445e.png

Va notato come non sia necessario supporre che ogni merce entri direttamente nella produzione di ogni altra; quindi alcune delle quantità nei primi membri delle equazioni potranno benissimo essere uguali a zero.

Data l’ipotesi di stato reintegrativo del sistema, si avrà che la somma della prima colonna (7410a68f5612593b1f28c2561e8e9080.png) sarà uguale alla prima linea (995f8493011cb767a03a545e719bfbd6.png), la somma della seconda colonna uguale alla seconda linea, e così via. Questo comporterà poi che, affinché questa ulteriore condizione sia soddisfatta, ciascuna delle n equazioni del sistema dipenderà dalle altre.

Ora, date queste condizioni, esisterà un’unica serie di valori di scambio (d77148dc75c97309f0be9aef766a8e27.png) i quali, adottati dal mercato, permetteranno di ristabilire la distribuzione originaria dei prodotti, creando così le condizioni necessarie perché il processo possa rinnovarsi.

Va notato che, date le ipotesi, tali valori scaturiscono direttamente dai metodi di produzione.

La produzione con sovrappiù

Quando si passa dall’ipotesi di stato reintegrativo stricto sensu a quello di stato reintegrativo con sovrappiù insorgono delle difficoltà. La ragione di ciò è che nel sistema economico il sovrappiù generato viene distribuito in proporzione dei mezzi di produzione anticipati (il capitale), ma una siffatta proporzione, constando i mezzi di produzione di merci eterogenee, non può essere determinata indipendentemente dai prezzi.

Potremmo definire il rapporto fra il prodotto netto del sistema e la somma delle merci impiegate quali mezzi di produzione saggio di sovrappiù ed indicarlo con R, tuttavia un tale rapporto non avrebbe senso con riferimento alle quantità, essendo le merci non omogenee.

Solo il riferimento ai prezzi delle singole merci potrebbe dare senso al rapporto. Sembrerebbe pertanto preclusa una determinazione di questo saggio indipendentemente dai prezzi.

Il sistema tipo

Determinazione del saggio di sovrappiù in modo indipendente dai prezzi

Consideriamo tuttavia un sistema (Sraffa lo chiama sistema tipo) in cui le varie merci siano prodotte nella stessa proporzione in cui si ritrovino nel complesso dei mezzi di produzione; in tal caso

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da cui:

7d1511f8633f318848c1d5b7b9dac08a.png

In questi rapporti le quantità comparate riguardano merci omogenee. Ora, poiché:

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possiamo scrivere:

afe16ba4a45e3c0fa02f684b22a7bafa.png (1)

A ben guardare il numeratore di questo rapporto non è altro che il prodotto netto generato dal sistema, mentre il denominatore rappresenta i mezzi di produzione anticipati. L'equazione precedente determina dunque il saggio di sovrappiù:

fd189a89f1aa21110f0aa79901e61004.png (2)

Inoltre R indica sia la proporzione in cui la quantità prodotta di ciascuna merce eccede la quantità della stessa utilizzata quale mezzo di produzione, sia il rapporto fra l’eccedenza totale delle merci rispetto alle quantità impiegate nella produzione, laddove un tale rapporto abbia senso, e cioè nel sistema tipo.

"La possibilità di parlare di una proporzione fra due gruppi di merci eterogenee senza bisogno di ricorrere alla misura comune del prezzo è dovuta quindi alla circostanza che entrambi i gruppi sono costituiti nelle stesse proporzioni." Essendo questo un rapporto fra quantità, "il risultato non verrebbe modificato se moltiplicassimo le singole merci per i rispettivi prezzi. [...] E tale rapporto non verrebbe nemmeno turbato se, dopo aver moltiplicato le merci per i loro prezzi, questi prezzi dovessero variare ognuno per conto proprio in direzioni e misure diverse." (Sraffa, 1960, pag. 27)

La merce tipo

L’eccedenza totale delle merci nel sistema tipo, cioè il prodotto netto del sistema tipo, è chiamata da Sraffa: prodotto netto tipo.

Dato il modo in cui il sistema tipo è stato costruito, il prodotto netto tipo consisterà delle stesse merci, combinate nelle stesse proporzioni, che si riscontrano nell’insieme dei mezzi di produzione del sistema.

Il prodotto netto tipo può essere anche riguardato come una particolare merce composita in cui le merci del sistema entrano in proporzioni ben determinate. Tale merce composita, o qualsiasi multiplo o frazione di essa, è denominata da Sraffa: merce tipo.

Determinazione del saggio di profitto in modo indipendente dai prezzi

Quanto detto circa il rapporto fra prodotto netto e mezzi di produzione si può ripetere tal quale se al posto del prodotto netto mettiamo una qualsiasi frazione di esso: tale rapporto risulta determinato indipendentemente dalla struttura dei prezzi e rimane immutato qualunque sia la variazione di questi ultimi.

Supponiamo dunque che il salario consista in una frazione del prodotto netto tipo. Sia dunque ω la porzione di tale prodotto che va ai salari. La parte del prodotto netto che andrà ai profitti sarà la restante, cioè:

f83d80b510cd80f8040efb1550b091d8.png

Il saggio di profitto potrà dunque essere espresso nel seguente modo:

4ea70bbc6b725a76e02dcec31d27a3f6.png

Dalle Equazioni 1 e 2 deriva:

704e57157e6ed768391292be2ea9e42a.png (3)

Il saggio di profitto nel sistema tipo si presenta quindi come un rapporto fra quantità di merci, senza bisogno di ricorrere ai loro prezzi.

La relazione che intercorre fra il saggio di profitto e il saggio di salario è lineare: il primo aumenta in proporzione diretta rispetto alla riduzione complessiva del secondo.

Il sistema dei prezzi

Passiamo ora a considerare il sistema dal punto di vista dei prezzi. Indicando con 14a1187d0fab2ec0219ff0d9030eb950.png i prezzi delle merci 1, 2,...n, con 1e3472b100349c79b39859f9a17d59aa.png le quantità annualmente impiegate di lavoro nelle industrie che producono rispettivamente la merce 1, 2,...n, con w il saggio di salario, e ricordando quanto detto circa l’ipotesi di Sraffa di un salario pagato post factum, possiamo rappresentare il sistema economico come segue:

93d61e933975be69fce86fd3fa7e4a1f.png

e385ba61846b4c33c9e3274ca6ca2dc6.png

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7b0eb45cf6357b10369eaf78d56347ef.png

Qualora il sovrappiù prodotto dal sistema vada tutto al capitale il sistema assumerà la forma seguente:

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5ce3d4923918ab8678468f8651c6bd8c.png

6a9910291a23331aef3bc3cfd49e79e7.png

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Dove Π indica il saggio di profitto massimo: il saggio di profitto sperimentato nel caso in cui tutto il prodotto netto generato dal sistema vada ai profitti.

Saggio di sovrappiù e saggio di profitto massimo

Va ora richiamato quanto detto circa il saggio di sovrappiù nel sistema tipo: questo rappresenta non solo il rapporto fra il prodotto netto e i mezzi di produzione, ma, non venendo il risultato modificato dal riferimento ai prezzi, anche il rapporto fra il valore del prodotto netto e il valore dei mezzi di produzione.

Questo secondo rapporto tuttavia non è altro che il saggio di profitto massimo; quindi:

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Da cui, sostituendo nella Equazione 3, abbiamo:

f2a8618ddd2b826e8471006af409e346.png (4)

La merce tipo come numerario

Sulla validità della relazione fra saggio di profitto e salario nel sistema effettivo

La Equazione 4 ci può tuttavia interessare solo se è possibile mostrare che la sua validità non è limitata all’immaginario sistema tipo, ma è atta ad essere estesa al sistema economico reale. Si tratta in altre parole di vedere, dice Sraffa, "se l’importanza che la merce tipo ha in questa relazione sia basata sul fatto che essa è la sostanza da cui sono costituiti reddito nazionale e mezzi di produzione, oppure sul fatto che essa rappresenta la misura nella quale i salari sono espressi". Nella prima ipotesi la relazione varrà solo per il sistema tipo; nella seconda al contrario essa continuerà ad essere valida anche nel sistema effettivo, a condizione che i salari vengano espressi in termini della merce tipo appropriata.

Ripercorrendo i passaggi svolti finora potrebbe giungersi alla conclusione che sia vera la prima ipotesi. Questo perché la determinazione del saggio di profitto in termini fisici sembra esser stata resa possibile dalla particolare costruzione del sistema tipo: in tale sistema, infatti, il rapporto tra la quantità prodotta di una qualsiasi merce e la quantità impiegata della stessa quale mezzo di produzione è lo stesso per tutte le merci.

« Ma il sistema reale consiste delle stesse equazioni base di cui consta il sistema tipo, prese soltanto in proporzioni diverse; cosicché, qualora sia dato il salario, il saggio di profitto è determinato per entrambi i sistemi, indipendentemente dalle proporzioni in cui le equazioni sono prese nell’uno o nell’altro di essi. [...] La relazione lineare fra il salario e il saggio di profitto è quindi valida in ogni caso, alla sola condizione che il salario sia espresso in termini di prodotto tipo. Lo stesso saggio di profitto che viene ottenuto nel sistema tipo come un rapporto fra quantità di merci, risulterà nel sistema reale da un rapporto fra valori complessivi. »

(1960, pagg. 29-30)

Consideriamo ad esempio un sistema tipo in cui il saggio di sovrappiù sia del 20% e i 3/4 del reddito nazionale tipo vadano ai salari; il saggio di profitto sarà del 5%. Nel sistema effettivo corrispondente, se i salari continuano a venire espressi in merce tipo, il saggio di profitto continuerà ad essere del 5%. Si noti però che in quest’ultimo caso "la parte dei profitti consisterà di quello che rimane del reddito nazionale effettivo, e non più tipo, dopo che se ne è dedotto l’equivalente di 3/4 del prodotto netto tipo: e i prezzi dovranno essere tali da rendere il valore di quanto va ai profitti uguale al 5% del valore dei mezzi di produzione effettivi della società".

Costituzione della merce tipo

Abbiamo detto che il sistema tipo consiste delle stesse equazioni base di cui consta il sistema effettivo, prese soltanto in proporzioni diverse. Da questo segue che, dato un sistema effettivo, la ricerca del corrispondente sistema tipo si riduce alla ricerca di appropriati moltiplicatori che, applicati alle rispettive industrie del sistema originario, ne determinano un’espansione (se maggiori di 1) o una contrazione (se minori di 1). Detti moltiplicatori (c64d0984dd048ac8b409b71e15a82a53.png) dovranno essere tali che le quantità risultanti delle varie merci stiano fra di loro nelle stesse proporzioni sul lato destro delle equazioni (cioè come prodotti) in cui stanno nell’insieme del lato sinistro (cioè come mezzi di produzione). Ciò implica che il saggio di sovrappiù (R) sia uguale per tutte le industrie.

La suddetta condizione può essere espressa mediante un sistema di equazioni che contiene le stesse costanti (le quali rappresentano le quantità di merci) che si riscontrano nelle equazioni della produzione del sistema effettivo considerato, ma disposte in modo diverso; tale cioè che le colonne dell’uno corrispondano alle righe dell’altro. Questo sistema è il seguente:

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3c4c1cfdb92ca5f82584404b802699c6.png (5)

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c5c74cd42017ee2d8af31c06f5a60622.png

Vi sono n equazioni in n + 1 incognite (gli n moltiplicatori x più R).

Per risolvere il sistema potrebbe porsi uno dei moltiplicatori uguale ad 1; in questo modo tuttavia si determinerebbe solo la struttura di produzione (le proporzioni di produzione dei vari processi), e non la scala di produzione (la produzione complessiva). Dato che quest’ultima è determinata dalla quantità di forza lavoro occupata, e poiché vogliamo che tale quantità sia uguale a quella del sistema reale, definiamo l’unità mediante un’equazione supplementare che contiene questa condizione, e cioè:

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dove cad9a33de642067411a5e64b70b04e81.png sono le quantità di lavoro annualmente impiegate nelle industrie che producono rispettivamente la merce 1, 2, ...n e, in base a quest’ulteriore equazione di normalizzazione, esprimono frazioni del lavoro annuale della società, preso come unità.

Diventa ora possibile determinare tutte le incognite.

Esistenza ed unicità del sistema tipo

È a questo punto necessario dimostrare che per ogni sistema effettivo esiste il corrispondente sistema tipo, esiste cioè una serie di n moltiplicatori (x), dove n è il numero delle industrie del sistema considerato, non negativi e non tutti nulli, e un saggio di sovrappiù (R) tali che la proporzione in cui ogni merce prodotta si ritrova nel complesso dei mezzi di produzione diventa la stessa per ciascuna merce.

Bisogna dimostrare inoltre, non solo che tale sistema tipo esiste, ma anche che è unico, affinché, dato un sistema reale, siano unici il saggio di sovrappiù e la merce tipo in cui i salari vengono misurati.

In Produzione Sraffa riesce a provare sia l'esistenza che l'unicità del sistema tipo, fornendo dimostrazioni che possono essere viste come applicazioni particolari dei teoremi di Perron-Frobenius per le matrici non negative.

Prodotti base e prodotti non base

L’ipotesi di un sistema in stato reintegrativo con sovrappiù comporta la possibilità dell’esistenza di "merci di lusso", merci cioè che non vengono usate per la produzione delle altre merci, né come strumenti di produzione né come mezzi di sussistenza. Quando al contrario si è considerato il caso di produzione per sussistenza, tutte le merci dovevano trovarsi tanto fra i prodotti quanto fra i mezzi di produzione.

Guardando al modo in cui abbiamo costruito il sistema tipo partendo da quello effettivo si nota che i moltiplicatori associati alle industrie che producono le merci di lusso sono nulli; tali merci non entrano dunque a far parte della merce tipo. Un cambiamento nei processi produttivi che riguardasse esclusivamente uno di tali prodotti avrebbe conseguenze solo sul prezzo dello stesso, e non influirebbe minimamente sui prezzi relativi degli altri e sul saggio di profitto. Sraffa li definisce prodotti non base (o merci non base).

Viceversa denomina prodotti (o merci) base quelli che entrano, in modo diretto o indiretto, nella produzione di tutte le merci. Le condizioni di produzione di tali merci influiscono sulla determinazione sia della struttura dei prezzi sia del saggio di profitto. Qualora fosse nulla la quantità prodotta anche di una sola di queste merci, dovrebbe necessariamente essere nulla la produzione di tutte le merci, base e non base.

Una caratteristica, finora implicitamente supposta, del sistema economico che stiamo considerando è l’esistenza di almeno un prodotto base. Del resto, se così non fosse, non ci troveremmo di fronte ad un vero e proprio "sistema economico", ma a più sistemi fra loro accostati.

Va notato finalmente che quanto detto circa le merci non base riguarda anche quei prodotti che vengono impiegati nella produzione di altri prodotti non base, fra i quali possono essere compresi essi stessi. Qualora, infatti, una merce di questa specie sia utilizzata solo per la produzione di una merce non base della specie considerata per prima, è chiaro che seguirà la sorte di quella e il suo moltiplicatore sarà anch’esso nullo.

Così, se ad esempio la merce 2 entrasse solo nella produzione della merce non base 1 le prime due equazioni della (5) sarebbero:

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Ora, essendo b296c2f924251eae61852527eee614a8.png, seguirà b8956145378a72cd63405a247d46b57a.png.

In quanto poi sia usata per la sua propria produzione il rapporto fra la sua quantità come prodotto e la sua quantità come mezzo di produzione sarà indipendente da R, e perciò in generale incompatibile con il sistema tipo.

Infatti, se ad esempio la merce 1 fosse utilizzata solo come proprio mezzo di produzione l’equazione corrispondente della (5) diventerebbe:

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In questa equazione, qualsiasi valore assumesse il moltiplicatore, esso non inciderebbe sull’entità del saggio di sovrappiù; quindi delle due l’una: o il saggio di sovrappiù nel processo è esattamente quello del sistema tipo cercato – ed allora 47d9b924672246a1dbb6053bcea140a4.png potrebbe assumere qualsiasi valore; oppure il saggio di sovrappiù cercato non è quello riscontrato nel processo – ed allora l’unico valore di 47d9b924672246a1dbb6053bcea140a4.png che potrebbe soddisfare l’equazione è 0.

Riassumendo possiamo distinguere tre tipi di prodotti non base:

1. prodotti che non si trovano fra i mezzi di produzione di nessuna industria;

2. prodotti ciascuno dei quali si trova soltanto fra i suoi propri mezzi di produzione;

3. prodotti che si trovano soltanto fra i mezzi di produzione di un gruppo di prodotti non base collegati fra di loro.

La parte III di Produzione

Il mutamento dei metodi di produzione nel modello a produzione singola

Finora si è supposto che per ogni merce si disponga di un solo metodo di produzione, con il risultato che le variazioni nella distribuzione del reddito non possono influire in alcun modo sui processi produttivi impiegati. L’ultima parte di Produzione è dedicata proprio alla trattazione del caso in cui, al contrario, per una o più merci esistano uno o più metodi di produzione.

Per poter effettuare una scelta fra possibilità alternative occorre adottare un criterio di scelta. Sraffa suppone che tale criterio sia quello di redditività, e più precisamente che, quali che siano le caratteristiche istituzionali, quando ci si trovi di fronte a più di un processo tecnico alternativo per la produzione della stessa merce, si scelga quello che comporta il costo minimo.

Nella trattazione che segue definiremo tecnologia l’insieme di tutti i processi produttivi disponibili e tecnica qualsiasi sottoinsieme di questi processi tale che vi sia uno e un solo processo per ogni merce prodotta.

Le scelte tecnologiche per le merci non base

Supponiamo inizialmente che la scelta fra metodi alternativi riguardi esclusivamente un prodotto non base che non sia richiesto nella produzione di nessun’altra merce non base.

Poiché i cambiamenti nei processi produttivi che riguardano esclusivamente un tale tipo di prodotto non hanno conseguenze sui prezzi relativi degli altri e sul saggio di profitto massimo del sistema, le due tecniche differiscono solo per il prezzo del prodotto considerato. È dunque possibile, rebus sic stantibus, una comparazione dei soli processi alternativi.

Se ad esempio per produrre la merce non base 2 si conoscono due metodi alternativi, che chiameremo I e II, l’impiego alternativo di uno di questi due metodi di produzione comporta per la merce 2 uno dei due costi di produzione alternativi, a7fd00b721b7c0ad8cf1994a747e4341.png e 2fcdab4c93b556b69a91a7d829f9ae3b.png, così ottenuti:

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6be9da6c805c419dc9af4ed49e4b1508.png

dove i prezzi del sistema economico considerato sono espressi in termini di qualsiasi numerario.

In questo caso sono dati:

le quantità prodotte e utilizzate come mezzi di produzione delle n merci per le due tecniche alternative:

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i prezzi di tutte le altre merci n-1 merci e il salario unitario (o il saggio di profitto qualora fosse il salario la variabile esogena).

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Tecniche di produzione alternative per merce non base nel caso di produzione singola

Il problema della scelta del metodo produttivo per la merce 2 si esaurisce quindi nel semplice confronto dei due prezzi e nella scelta di quel metodo che comporta il prezzo, cioè il costo, minore. Questa scelta è naturalmente relativa ad un dato saggio di profitto (salario). Essa potrebbe variare se si adottasse un saggio diverso. Sappiamo infatti che, col variare del saggio di profitto, variano tutti i prezzi e il salario unitario. Inoltre al progressivo aumento (o diminuzione) del saggio di profitto, non seguirà sempre un aumento o sempre una diminuzione del prezzo della merce prodotta con un metodo rispetto al prezzo della stessa merce prodotta con un altro metodo; vi potranno cioè essere casi in cui il prezzo della merce 2 prodotta con il processo I, rispetto al prezzo della merce 2 prodotta con il processo II, aumenterà in un certo campo di variazione della variabile, per poi ad esempio diminuire o rimanere costante (la Figura mostra uno dei possibili casi).

I saggi di profitto corrispondenti ai punti di intersezione delle curve dei prezzi rappresentano punti di mutamento di tecnica, o più semplicemente punti di mutamento (nella figura 8c90c887a261e094c5fffc649d6f13f8.png e 813b0f5736cb1247beed069f56080094.png). A questi punti singolari del saggio di profitto è indifferente l’adozione di un metodo di produzione piuttosto che di un altro, poiché i prezzi della merce sono uguali (e1121869b8c2c102e503200a4982eb3d.png).

I ragionamenti fin qui svolti sono indipendenti dal tipo di numerario usato per il sistema dei prezzi. Dalla modifica del numerario discende solo il cambiamento della forma di tutte le curve, stante tuttavia l’invarianza dei punti di mutamento.

Le scelte tecnologiche per le merci base

Il problema si complica laddove la scelta fra metodi alternativi riguardi un prodotto base. Nel caso dei prodotti base infatti, entrando gli stessi, direttamente o indirettamente, nella produzione di tutte le merci, il cambiamento di un metodo produttivo nella singola industria ha effetti che si estendono all’intero sistema economico. Il problema della scelta tecnologica per le merci base non può quindi impostarsi semplicemente mediante il confronto dei prezzi alternativi come è invece stato possibile fare nel caso delle merci non base.

« In tali circostanze sembra mancare un terreno comune sul quale i due metodi possano essere messi a confronto. Infatti, secondo che l’uno o l’altro metodo venga usato, ci troviamo nell’uno o nell’altro sistema economico, e ad ogni dato saggio di profitto corrisponderà, in ciascun sistema, un diverso salario, anche se espresso in termini della stessa merce, e un diverso sistema di prezzi relativi; con la conseguenza che un confronto fra i prezzi della merce prodotta secondo i due metodi è privo di senso. »

(Sraffa, 1960, pag.104)

Tuttavia, nota Sraffa, ai livelli del saggio di profitto che corrispondono ai punti di intersezione dei due metodi, essendo identico il prezzo della merce base prodotta con i due metodi, i due sistemi economici presenteranno la stessa struttura dei prezzi relativi e lo stesso salario.

Al fine poi di rendere confrontabili entro lo stesso sistema i due metodi alternativi anche a quei livelli del saggio di profitto che li rendono fra di loro incompatibili, Sraffa suppone che tali metodi producano due merci distinte che, pur potendo essere considerate identiche per tutti i possibili usi base, per gli usi non base non siano sostituibili. La conseguenza di una tale supposizione è che, mentre per gli usi base la scelta cadrà sul metodo che ad ogni dato saggio di profitto è più conveniente, l’altro metodo troverà comunque applicazione per gli usi non base.

Definiamo quindi sistema I il sistema economico in cui è il primo metodo ad essere impiegato per gli usi base e sistema II quello in cui per tali usi è utilizzato il secondo metodo. Supponendo ora che il saggio di profitto massimo del sistema I sia più alto di quello del sistema II (a5130b5ff0b77b0d022d139fa013e7ac.png), ai saggi di profitto compresi tra tali massimi (8632d8817260ae6c7873b4fe87c344f6.png) per la produzione del prodotto base il metodo I sarebbe l’unico possibile, e quindi a fortiori il più conveniente, poiché ai quei valori del saggio di profitto il sistema II sperimenterebbe un salario nullo o negativo. Man mano poi che il saggio di profitto venisse diminuito, qualsiasi cambiamento nell’ordine di convenienza dei due metodi dovrebbe "verificarsi ugualmente nei due sistemi, poiché esso implica il passaggio attraverso un punto di intersezione, e punti siffatti sono evidentemente comuni ai due sistemi". Ora, poiché lungo l’arco di variazione del saggio di profitto abbiamo visto che possono aver luogo più intersezioni fra i prezzi dovuti ai due metodi, ne seguiranno altrettanti mutamenti nell’ordine di convenienza di questi e conseguenti passaggi da uno all’altro sistema.

« Data questa possibilità – conclude Sraffa - non si può affermare (contrariamente a quanto ci si aspetterebbe) che in generale, fra due metodi di produzione di una stessa merce, quello che corrisponde al sistema tipo con una più alta proporzione fra prodotto e mezzi di produzione (in pratica il sistema economico con il saggio di profitto massimo più elevato) sia il più conveniente quando il saggio di profitto è relativamente alto e il meno conveniente quando esso è relativamente basso. »

L’analisi effettuata può estendersi all’ipotesi in cui i metodi fra loro alternativi siano più di due, e ciò non solo per uno dei prodotti, ma per ciascuno di essi. In tal caso all’aumentare del saggio di profitto vi sarà una "rapida successione di mutamenti nei metodi di produzione dell’una o dell’altra delle merci".

Va finalmente rilevato che, nonostante che ad ogni mutamento del metodo di produzione il rapporto tipo e il saggio massimo di profitto del sistema possano salire o scendere, tuttavia all’aumentare del saggio di profitto, qualsiasi sia la merce scelta come numerario, seguirà sempre una diminuzione del salario. Questo accade perché le variazioni nel saggio di profitto e nel salario che avvengono senza che vi sia mutamento di metodo, avvengono in uno stesso sistema; mentre, qualora vi sia il passaggio da un metodo ad un altro, questo avviene a dati livelli del salario e del saggio di profitto, senza implicare di per sé alcuna variazione delle variabili distributive.

Concorrenza imperfetta

In economia, per concorrenza imperfetta si intende una quella forma di mercato che assume in se alcune caratteristiche della concorrenza perfetta e altre caratteristiche proprie del monopolio.

La concorrenza perfetta è una forma di mercato in cui tutti i produttori sono caratterizzati dalle medesime funzioni di produzione e di costo, con informazione perfetta, nel senso che tutti dispongono delle stesse informazioni e un'omogeneità, quindi perfetta sostituibilità, dei prodotti.

Tali ipotesi sono difficilmente riscontrabili in mercati reali e costituiscono, al più, un'approssimazione che può essere o meno utile all'analisi economica. Al fine di realizzare un modello economico maggiormente corrispondente alle condizioni reali dei mercati, diverse delle ipotesi del modello di concorrenza perfetta sono state rilassate; in particolare:

1. Alcuni modelli ipotizzano che produttori e consumatori siano disomogenei, che i prodotti siano non perfettamente sostituibili tra loro, dando adito a fenomeni di fidelizzazione dei consumatori a un dato marchio (in inglese, brand loyalty);

2. Si sono considerati modelli che prevedono barriere all'entrata e all'uscita dai mercati, ossia costi che un'impresa deve necessariamente sostenere per entrare o uscire da un dato mercato;

3. È stata rimossa l'ipotesi di informazione perfetta, andando a studiare modelli caratterizzati da asimmetrie informative;

4. Si sono considerati casi in cui il modello di mercato perfettamente concorrenziale non consegue un risultato ottimale, in termini di benessere, per la collettività: si tratta dei modelli di esternalità e beni pubblici.

Concorrenza monopolistica

La concorrenza monopolistica è una forma di mercato molto diffusa. Spesso caratterizza i mercati di libri, ristoranti, film, abbigliamento, ecc.

Concorrenza monopolista e concorrenza perfetta

La concorrenza monopolistica è simile alla concorrenza perfetta in quanto esiste un elevato numero di consumatori e offerenti e c'è libertà d'ingresso e di uscita dal mercato nel lungo periodo.

Tuttavia, si differenzia dalla libera concorrenza per la mancanza di informazione perfetta da parte dei consumatori e offerenti, nonché per la non-omogeneità della merce trattata, ragion per cui il consumatore esegue i suoi acquisti presso un determinato offerente (di fiducia).

I motivi che orientano la scelta possono essere diversi: :

1. Caratteristiche del prodotto (qualità e prezzo) effettive o presunte (dichiarate dai messaggi pubblicitari);

2. Abilità personale dell'offerente e dei suoi collaboratori nel trattare la clientela;

3. Agevolazioni di pagamento quali la possibilità di rateizzare il prezzo d'acquisto;

4. Di praticare ad interesse zero;

5. Di dotare l'esercizio commerciale di una buona accessibilità (disponibilità di parcheggi);

6. Di corrispondere dei premi se gli acquisti superano un determinato importo.


Nella concorrenza monopolistica il singolo offerente può praticare dei prezzi maggiori rispetto al regime di concorrenza perfetta, in quanto può contare su una clientela affezionata che è disposta ad accordargli la fiducia acquistando i suoi prodotti. Si realizza perciò un prezzo leggermente superiore rispetto a quello di equilibrio che riguarda un teorico regime di libera concorrenza.

È il mercato di molti prodotti di largo consumo nel settore alimentare, dell'abbigliamento, dell'arredamento, degli elettrodomestici, degli apparecchi elettronici, dei medicinali, dei prodotti di cosmesi e di pulizia personale.

La differenziazione del prodotto

Si instaura quando un certo numero di venditori offre sul mercato beni o prodotti che, nati per soddisfare lo stesso bisogno, si presentano in modo diverso. Esiste quindi per ogni prodotto una domanda stabile e ripetuta dalla clientela che apprezza quelle caratteristiche. Una variazione di prezzo crea comunque una variazione di segno contrario della domanda.

Il prodotto può essere differenziato in vari modi:

secondo il tipo e lo stile;

secondo la localizzazione;

secondo la qualità.

Modello di Chamberlin

Edward Chamberlin osserva che in molti rami economici ci sono numerose imprese che vendono dei beni differenziati (marca, qualità, localizzazione differenti). Il potere di monopolio di queste imprese è molto limitato poiché ci sono molti beni sostituti. A lungo termine i ricavi della maggioranza di queste imprese coprono appena i costi di vendita. I piccoli negozi di quartiere, i ristoranti, i parrucchieri o gli idraulici sono degli esempi di queste imprese.

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La curva di domanda dell'impresa rappresentativa ha un pendenza negativa siccome la differenziazione dei prodotti le conferisce un certo potere di monopolio. Se il prezzo aumenta l'impresa non perde tutti i suoi clienti.

All'inizio e a corto termine l'impresa fa un profitto come nel caso di un ristorante che apre in un nuovo quartiere. Il primo grafico illustra questo caso. L'equilibrio dell'impresa implica l'uguaglianza tra il ricavo marginale (Rm) e il costo marginale (Cm). Il prezzo di vendita è p*. Il profitto (b0ebdc95bd2c6d4ce3a315ca2dd71ffd.png) è dato dalla differenza tra il ricavo medio (RM), la curva di domanda, e il costo medio (CM) moltiplicata per la quantità prodotta (q*).

Questo profitto attira dei nuovi ristoranti che vedono la possibilità di fare degli ottimi affari in questo quartiere. Siccome non ci sono delle barriere all'entrata in questo settore la curva di domanda per i prodotti dell'impresa si sposta a sinistra (il ristorante avrà perso una parte dei suoi clienti). Questo movimento continua fino alla scomparsa del profitto (equilibrio a lungo termine).

Rispetto alla concorrenza perfetta, il prezzo sarà più alto e l'impresa non produce ai costi minimi. C'è un eccesso di capacità in questo ramo (si può produrre di più e a dei costi più bassi) ma c'è anche una più grande varietà.

Altri modelli

Dixit e Stiglitz introducono esplicitamente le preferenze per le varietà nella funzione di utilità del consumatore rappresentativo . Due casi sono esaminati: nel primo le preferenze sono rappresentate da una funzione di utilità a elasticità di sostituzione costante; nel secondo l'elasticità è variabile.

Produrre al livello di costi minimi non è una soluzione ottimale dal punto di vista dell'utilità sociale quando i diversi beni non sono dei sostituti perfetti. Non c'è dunque troppa varietà nella concorrenza monopolistica.

Il modello di Dixit e Stiglitz è stato utilizzato da Paul Krugman nei suoi modelli di commercio internazionale e sulla concorrenza spaziale delle attività economiche.

Ogni modello di concorrenza monopolistica deve basarsi sulle condizioni seguenti:

numerose imprese che producono dei beni differenziati

le imprese sono piccole e hanno degli effetti trascurabili sulle altre imprese

la libera entrata sul mercato conduce a lungo termine alla scomparsa del profitto

la domanda dei prodotti delle imprese ha una pendenza negativa

Hart suppone numerosi consumatori con dei gusti differenti e numerose imprese che producono dei beni differenti. I consumatori sono interessati ad un numero limitato di questi beni. Ogni bene ha la medesima probabilità di essere desiderato dal consumatore. Gli effetti di un cambiamento dell'offerta di un'impresa sono allora ripartiti su tutte le altre imprese. Hart arriva alla conclusione che, secondo i casi, ci possono essere troppe o troppo poche varietà.

Oligopolio

L'oligopolio dal greco antico ὀλίγοι (ὀlígoi: «poco» «pochi») e -πώλιον (pólion, da πωλεῖν — polèin, vendere) è una forma di mercato con pochi offerenti definiti leader, le cui decisioni, di fatto, hanno e tengono conto di avere influsso sulle decisioni degli altri offerenti.

Un esempio di oligopolio viene, ad esempio, dall'industria automobilistica. Il duopolio è, in particolare, un oligopolio con soli due offerenti.

Caratteristiche

Diversamente da forme di mercato quali la concorrenza perfetta o il monopolio, non esiste un modello universale di oligopolio. Ciò è almeno in parte dovuto al fatto che le imprese che operano all'interno di un mercato oligopolistico hanno la possibilità di adottare comportamenti di tipo strategico, ossia di effettuare le proprie decisioni di produzione o prezzo in funzione delle scelte effettuate dalle imprese concorrenti. Questa caratteristica dà adito a una maggiore varietà di possibili comportamenti, che si traduce nel gran numero di modelli di oligopolio proposti dalla teoria economica. Si presentano di seguito i modelli standard di oligopolio à la Bertrand, Cournot e Stackelberg, normalmente trattati in un testo introduttivo di microeconomia o economia industriale.

L’oligopolio è caratterizzato da:

poche imprese

prodotti omogenei oppure differenziati

barriere di entrata

naturali (innocenti): economie di scala, pubblicità, ricerca e sviluppo….

strategiche: controllo degli input essenziali, capacità produttiva in eccesso

Modelli di oligopolo

Modello di Bertrand

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Per approfondire, vedi Modello di Bertrand.

Concetto sviluppato dall'economista e matematico francese Joseph Louis François Bertrand; il modello si basa su:

le 2 imprese concorrono sul prezzo;

il mercato risulta efficiente;

il guadagno di ogni impresa è pari a 0, perché le imprese abbasseranno i prezzi fino al costo marginale (situazione distruttiva per le imprese).

Modello di Cournot

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Per approfondire, vedi Oligopolio di Cournot.

Modello sviluppato dall'economista Antoine Augustin Cournot; il modello si basa su:

le (2) imprese concorrono sulla quantità da produrre;

il prezzo di mercato risulta maggiore del prezzo in concorrenza perfetta ma minore del prezzo in caso di monopolio;

il guadagno di ogni impresa risulta positivo.

Modello di Stackelberg

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Per approfondire, vedi Duopolio di Stackelberg.

Il concetto di questo modello si basa su:

una delle 2 imprese conduce = impresa "leader": fissa per prima la quantità;

l'altra impresa segue = impresa "follower": fissa la quantità sulla base di cosa ha fatto l'altra.

Ciò significa che una delle 2 imprese adatta la propria quantità da produrre in base alla quantità prodotta della concorrente.

Oligopolio omogeneo

Il modello di Sylos-Labini per l'oligopolio vale in un mercato dove è presente un prodotto omogeneo, non differenziato, offerto da imprese che hanno dimensioni e costi della produzione molto diversi, con forti discontinuità tecnologiche, e un'impresa di grandi dimensioni, più efficiente delle altre, in grado di esercitare una leadership di prezzo. Quindi, tre ipotesi:

prodotto omogeneo;

aziende con tecnologia, costi e volumi di produzione molto diversi;

un'azienda con volumi e costi di produzione tali da determinare il prezzo di equilibrio nel mercato.

Per il postulato di Sylos-Labini una nuova impresa entra nel mercato se e solo se il prezzo di equilibrio, di mercato, che si viene a determinare dopo la sua entrata gli consente di realizzare almeno il profitto normale.

L'impresa che ha la leadership di prezzo adotterà un prezzo che deve essere remunerativo per sé e le altre aziende presenti sul mercato, ma con un saggio di mark-up non troppo alto, tale da dissuadere altri potenziali concorrenti dall'ingresso nel mercato.

Il prezzo limite 1a31da3b02dc85072718404c883c7e9e.png che l'impresa leader praticherà, è dato da:

9b9cbd66bd6c0cf5b6f825e506c5f108.png,

dove:

2280b49aabae51c5453edc4c8d4f2500.png è la dimensione, la quantità prodotta dal potenziale entrante;

16c2def31cae8619b98a765764f3ff89.png, elasticità della domanda rispetto al prezzo;

0059a461b0bda02111b9b35977cd45b1.png, variazione del prezzo che interviene nel mercato;

de9e72586b0f71ed492050b8d9a2cecd.png.

William Baumol

William Jack Baumol (New York, 26 febbraio 1922) è un economista statunitense, professore della New York University e della Princeton University, si occupa del mercato del lavoro e di altri fattori economici. Ha inoltre apportato considerevoli contributi alla storia del pensiero economico. È tra i 500 migliori economisti del mondo secondo la RePEc.

Biografia

Tra i suoi contributi più noti: la teoria dei mercati contendibili, il modello Baumol-Tobin sulla domanda di moneta con movente transattivo, la descrizione di quella che Baumol ha chiamato la malattia dei costi nel settore dei beni sociali, e i lavori sulle imposte pigouviane.

Nel 2006 la riunione annuale della American Economic Association, onorando i suoi innumerevoli contributi, ha tenuto una sessione speciale in suo nome, nella quale sono stati presentati 12 documenti sull' imprenditorialità.

La rivista inglese The Economist ha pubblicato un articolo su William Baumol e il suo lavoro di una vita teso a sviluppare un posto nella teoria economica dell'imprenditore (11 marzo 2006, pag. 68), molto del quale deve la sua genesi a Joseph Schumpeter. Entrambi hanno infatti notato che la tradizionale teoria microecomica tiene in considerazione sia 'prezzi' che le 'imprese' ma non per ciò che (apparentemente) è il più importante motore dell'innovazione: l'imprenditore. Baumol ha il merito di aver posto rimedio a questa lacuna: "Grazie all'accurata opera di Baumol, ora per gli economisti gli imprenditori hanno un po' più di considerazione nelle loro teorie."

Baumol è tra i curatori dell'associazione Economists for Peace and Security. È membro straniero dell'Accademia dei Lincei.

Herbert Simon

 Nobel per l'economia 1978

Herbert Alexander Simon (Milwaukee, 15 giugno 1916 – Pittsburgh, 9 febbraio 2001) è stato un economista, psicologo e informatico statunitense.

Le sue ricerche spaziano nei campi della psicologia cognitiva, dell'informatica, dell'economia, del management e della filosofia della scienza. Con circa un migliaio di pubblicazioni, molte citatissime, è uno dei più importanti scienziati sociali del XX secolo.

Attività scientifica

Simon non è stato solo un uomo universale, ma un pensatore veramente innovativo. È stato tra i padri fondatori di molte tra le più importanti discipline scientifiche, inclusa l'intelligenza artificiale, l'elaborazione dell'informazione, la teoria dell'organizzazione, il problem solving, i sistemi complessi e la simulazione al computer della scoperta scientifica.

Il genio e l'influenza di Simon sono evidenziati dai molti premi ricevuti, tra i quali: il premio Turing della Association for Computing Machinery (1975) insieme a Newell per aver dato "contributi fondamentali all'intelligenza artificiale, alla psicologia cognitiva e al trattamento delle liste" (1975); il Premio Nobel per l'economia "per le sue pioneristiche ricerche sul processo decisionale nelle organizzazioni economiche" (1978); la Medaglia Nazionale per la Scienza (1986); e il premio della American Psychological Association per gli eccezionali contributi alla psicologia (1993).

Ha analizzato in maniera sistematica il comportamento decisionale degli individui all'interno delle organizzazioni, osservando che costoro non si attenevano ai criteri imposti dalle teorie normative. In particolare ha evidenziato come la scelta effettuata da un individuo non rispetta gli assiomi fondamentali dell'approccio logico. Quindi un individuo più che fare scelte ottimali, fa scelte soddisfacenti, vuoi per i vincoli svolti dalle organizzazioni, vuoi per i limiti imposti dal sistema cognitivo umano.

Simon è stato anche un pioniere nel campo dell'intelligenza artificiale, creando con Allen Newell i programmi "Logic Theory Machine" (1956) e "General Problem Solver" (GPS) (1957). Il GPS è stato forse il primo tentativo di separare la strategia di problem solving dall'informazione sui problemi da risolvere. Ambedue i programmi furono sviluppati usando il linguaggio Information Processing Language (IPL) (1956) sviluppato da Newell, Cliff Shaw e Simon.

Contributi economici

Herbert Simon ha realizzato cambiamenti importanti in microeconomia. A lui si deve il concetto di organizational decision-making come lo conosciamo oggi. È stato il primo a discutere questo concetto in un contesto di incertezza, e per il lavoro su questo argomento è stato insignito del Premio Nobel nel 1978.

Lavorando nella "Cowles Commission for Economic Research" , l'obiettivo di Simon era di collegare la teoria economica con matematica e statistica. I suoi contributi più importanti riguardano l'equilibro generale e l'econometria. È stato fortemente influenzato dal dibattito marginalista iniziato negli anni trenta.

Un contributo importante riguarda le ricerche sull'organizzazione industriale, dove ha sostenuto che l'organizzazione interna delle imprese e le decisioni sul business non sono conformi alle teorie neoclassiche sulle decisioni "razionali". Simon ha scritto numerosi articoli sull'argomento, concentrandosi sulla questione delle decisioni sotto l'ipotesi di comportamento nota come razionalità limitata.

"Comportamento razionale", in economia, significa che gli individui massimizzano la loro funzione di utilità sotto i vincoli dati (ovvero limiti di bilancio, scelte limitate...) ricercando il loro interesse personale. Il termine razionalità limitata indica la scelta razionale che tiene conto dei limiti cognitivi e conoscitivi. La razionalità limitata è un argomento centrale dell'economia comportamentale, riguardante i modi in cui il processo decisionale influenza le decisioni. Le teorie sulla razionalità limitata abbandonano alcuni assunti della teoria dell'utilità.

Simon decise che il modo migliore di studiare questi temi fosse quello di utilizzare modelli di simulazione. Perciò s'è interessato di intelligenza artificiale, interazione uomo-computer, principi di organizzazione di uomini e macchine, processi informativi, uso del computer per studiare problemi filosofici e implicazioni sociali della tecnologia del computer. Alcune delle ricerche hanno riguardato il cambiamento tecnologico e i cambiamenti nel processo dell'informazione.

Come cittadino di Pittsburgh, ha fornito consulenza alla cittadinanza su varie questioni, incluso l'uso di fondi pubblici per costruire stadi e i metodi per raccogliere le imposte.

La teoria della "razionalità olimpica"

"Razionalità olimpica" è un termine coniato da Herbert A. Simon per definire la razionalità piena di un soggetto. Quando Simon parla di razionalità olimpica (olympic rationality, nell'originale) si riferisce a un contesto di stipulazione contrattuale. Simon distingue infatti due tipologie di contratti: contratti completi e contratti incompleti.

I primi sono contratti che dovrebbero essere sviluppati tra persone che possiedono entrambe razionalità olimpica. In questo caso le parti saranno in grado di prevedere tutte le situazioni verificabili nell'ambito del loro rapporto e inserire all'interno del contratto determinati comportamenti da assumere nel caso in cui le situazioni si verifichino.

L'altra definizione di contratto è quella di contratto incompleto. Questa tipologia di contratto è stipulata tra persone che non sono in possesso di razionalità olimpica. Per contratto incompleto si intende, quindi, quel contratto in cui non sono state calcolate tutte le situazioni verificabili. Il contratto incompleto è un contratto che, perché venga rispettato nella sua totalità, avrà bisogno di un giudice o un arbitro che decida il comportamento che le due parti dovranno assumere in una determinata situazione.

Simon usa un’immagine efficace per fare distinzione tra i due modelli di razionalità. Usa l’immagine della mano di un individuo che prende, senza tremolii, un oggetto da un paniere.

Perché ciò possa avvenire, il soggetto deve essere in grado, in un breve lasso di tempo, di individuare ciascun oggetto del paniere, individuare le caratteristiche e prenderne uno dal paniere con la mano decisa. Dato che questo implica che l’individuo sia in possesso di razionalità olimpica, è più probabile che la sua mano, mentre sta per cogliere un oggetto dal cesto di elementi, sia una mano tremolante; quindi non decisa sulla scelta dell'oggetto.

Stagnazione

Con stagnazione si intende una situazione economica caratterizzata dal persistere di modeste variazioni del prodotto interno lordo e del reddito procapite.

Si distingue dalla recessione, nella quale per più periodi la produzione complessiva e/o pro capite diminuisce, e dalla stagflazione, nella quale la stagnazione si accompagna ad un'inflazione più elevata di quella compatibile con una crescita economica molto lenta.

Esempio: il Giappone

Nel corso degli anni novanta il Giappone ha registrato un lungo periodo di stagnazione.

Dopo il boom azionario degli anni ottanta, il mercato azionario giapponese è crollato per effetto dello sgonfiamento di una rilevante bolla speculativa. I valori elevati dei titoli azionari e degli immobili hanno sostenuto l'indebitamento delle imprese e dei cittadini, e messo in crisi il sistema bancario quando imprese e cittadini sovraindebitati non sono stati in grado di rimborsare i prestiti ricevuti.

L'eccessivo indebitamento ha quindi ridotto la capacità delle imprese di sostenere gli investimenti, recuperando competitività attraverso l'offerta di nuovi beni e servizi e dei cittadini di sostenere la domanda attraverso l'espansione dei consumi.

Il tentativo di sostenere i consumi, gli investimenti e di impedire i fallimenti nel sistema bancario giapponese è avvenuto attraverso la diminuzione del tasso di sconto, che ha raggiunto livelli vicini allo zero, la svalutazione dello yen e la crescita della spesa pubblica, con un debito cresciuto ben oltre il 100% del PIL.

Recessione

In economia la recessione è una condizione macroeconomica caratterizzata da livelli di attività produttiva (PIL) più bassi di quelli che si potrebbero ottenere usando completamente ed in maniera efficiente tutti i fattori produttivi a disposizione in contrasto al concetto di crescita economica.

Descrizione

Negli Stati Uniti d'America si parla di recessione quando il Prodotto interno lordo (PIL) reale diminuisce per almeno due trimestri consecutivi.

Si ha recessione economica se la variazione del PIL rispetto all'anno precedente è negativa; se tale variazione è inferiore all'1% si parla di crisi economica. Quindi, se il PIL dell'anno precedente è uguale a 100 e quello dell'anno successivo è 99, si ha la recessione. Se invece è di 99,5 si parla di crisi economica.

Ad esempio, il valore del PIL in Germania nel 2002 è stato di -0,1% (crisi economica), mentre nel 2003 è stato di -2% (recessione economica).

Sintomi delle fasi di recessione possono essere la diminuzione del tasso di crescita della produzione, l'aumento della disoccupazione, la diminuzione del tasso di interesse in seguito alla riduzione della domanda di credito da parte delle imprese, il rallentamento del tasso di inflazione causato dalla diminuzione della domanda di beni e servizi da parte dei consumatori. In alcuni casi, la recessione può essere associata con l'aumento dei prezzi (inflazione) e tale fenomeno è anche conosciuto come stagflazione.

In caso di recessione un aumento dei tassi di interesse produce un'ulteriore diminuzione della produzione, con conseguente aumento della disoccupazione e dei prezzi al consumo, diminuzione del credito al consumo e il tutto si traduce con diminuzione della domanda di beni e servizi da parte dei consumatori spingendo la recessione verso una vera e propria depressione (es. Grande depressione (1873-1895) e Grande Depressione del 1929).

Il superamento della recessione si definisce come rinascita.

Stagflazione

In economia, con il termine stagflazione (combinazione dei termini stagnazione ed inflazione) si indica la situazione nella quale sono contemporaneamente presenti - su un determinato mercato - sia un aumento generale dei prezzi (inflazione), sia una mancanza di crescita dell'economia in termini reali (stagnazione economica).

La stagflazione è un fenomeno presentatosi per la prima volta alla fine degli anni sessanta, prevalentemente nei paesi occidentali; precedentemente inflazione e stagnazione si erano invece sempre presentate disgiuntamente. La contemporanea presenza di questi due elementi mise in crisi la teoria di John Maynard Keynes (e le successive teorie post-keynesiane) che, per oltre 30 anni, era stata la spiegazione più convincente per l’andamento dei sistemi economici, oltre che valido strumento di politica economica per i governi di paesi ad economia di mercato.

Milton Friedman, Nobel in Economia nel 1976, era stato tra i pochi a discostarsi dalle visioni keynesiane e roosveltiane e a prevedere, nei suoi due libri Capitalism and Freedom e Storia Monetaria degli Stati Uniti, l'avvento della stagflazione.

Nella visione keynesiana, la disoccupazione è causata da un livello non sufficiente della domanda aggregata, mentre l’inflazione è giustificata solo quando il mercato raggiunge il pieno impiego: a quel punto l’eccesso della domanda aggregata rispetto all’offerta aggregata, non potendo riversarsi sulla quantità reale (già massima e non espandibile), si riversa sui prezzi, incrementandoli e determinando un aumento del prodotto interno lordo nominale, ovvero dei prezzi e non delle quantità. Nella teoria keynesiana una situazione di disoccupazione non è compatibile invece con prezzi in aumento, ma solo con prezzi in diminuzione in linea col calo della domanda per effetto della diminuzione dei consumi cioè in regime di recessione.

La stagflazione fu così inizialmente contrastata, conformemente alla teoria keynesiana, con l’applicazione di politiche economiche improntate ad una forte espansione: gli effetti di queste scelte aggravarono, però, ulteriormente la tendenza, già presente nei sistemi economici, al rialzo dei prezzi dei beni per di più senza drastici cali della disoccupazione, come auspicato invece dai governi. Il fenomeno fu principalmente spiegato col prevalere di comportamenti di monopolio sia nel mercato del lavoro (per la rigidità dei salari), che in quello dei prodotti per la presenza di cartelli (in special modo nei mercati delle materie prime).

Dal momento che la teoria keynesiana non era in grado di spiegare correttamente questo nuovo fenomeno molti economisti superarono l’idea keynesiana, che fino ad allora era riuscita a spiegare e giustificare validamente i fenomeni presenti nelle economie di mercato, ritornando alle convinzioni della teoria economica classica.

Lotta alla stagflazione

Una proficua lotta alla stagflazione è particolarmente complessa, in quanto per diminuire la spinta inflazionistica le Banche Centrali dovrebbero ridurre la massa di moneta circolante e, indirettamente, contenere la domanda di beni e servizi; ma una diminuzione della domanda causata da scarsità della massa monetaria non favorisce la crescita economica e quindi il rientro della disoccupazione. Rispetto agli anni '70, oggi il fenomeno della stagflazione viene mitigato dalla mancata rincorsa prezzi/salari, ovvero ad un aumento dei prezzi, soprattutto petrolio e materie prime, non corrisponde automaticamente un adeguamento inflativo delle richieste salariali che vengono condizionate dalla possibilità per le imprese di esportare sempre di più la produzione in paesi che hanno un costo del lavoro nettamente inferiore. Questa tendenza a sua volta riduce la possibilità di contrattare eventuali aumenti salariali nei paesi più sviluppati riportando in equilibrio il mercato del lavoro e quindi senza produrre un ulteriore peggioramento del tasso d'inflazione. A questo punto una politica monetaria restrittiva risulta inefficace e quindi occorre agire piuttosto su quella fiscale, con una sensibile riduzione della spesa corrente ed una corrispondente riduzione della pressione fiscale, unica strumento efficace per stimolare i consumi e perciò la domanda aggregata di beni e servizi. La conseguente crescita economica rende quindi possibile una ripresa dell'occupazione, proprio in conseguenza della sopra citata moderazione salariale. Alle Banche centrali spetta quindi il compito di fine tuning, ovvero di equilibrare con la maggiore precisione possibile, la liquidità immessa nel sistema, in particolare attraverso una migliore allocazione della massa monetaria allargata che accompagni la ripresa dell'economia.

Modello IS-LM

Il modello IS-LM è una rappresentazione sintetica del pensiero economico keynesiano, così come interpretato dalla sintesi neoclassica. La sigla sta per le parole inglesi Investment Saving - Liquidity Money ovvero Investimento Risparmio - Liquidità Denaro. Ha lo scopo di rappresentare insieme il settore reale (IS) e quello monetario (LM).

Introduzione

Nel 1936 l'economista inglese John Maynard Keynes diede alle stampe l'importante Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta che rimase per almeno trent'anni la più importante opera economica a occuparsi di temi macroeconomici. Nel 1937 sir John Richard Hicks formalizzò il sistema keynesiano elaborando uno schema che considera congiuntamente gli aspetti reali e monetari. Questi elaborò due curve che chiamò IS-LL, che subirono successive rielaborazioni nel dopoguerra, diventando le curve IS-LM (investment-saving, investimento-risparmio; liquidity-money, liquidità-denaro).

Si parla di schema delle curve IS-LM o della sintesi neoclassica-keynesiana. Oggi lo schema è completato dalle curve AD-AS (domanda aggregata-offerta aggregata).

Il modello IS-LM unisce la rappresentazione del settore reale (curva IS) con quella del settore monetario (LM).

L'equilibrio generale macroeconomico si ha quando i due mercati sono simultaneamente in equilibrio, vale a dire quando nel settore reale la domanda aggregata è uguale all'offerta aggregata e quando nel settore monetario la domanda di moneta è uguale all'offerta di moneta. L'equilibrio è simultaneo in quanto i due mercati presentano variabili comuni, e dunque essi sono interdipendenti.

Statica comparata del modello IS-LM

Immaginiamo che nel nostro sistema economico tutte le attività si suddividano in 2 categorie: quelle che maturano interessi dette "titoli" e quelle che non fruttano alcun interesse dette "moneta". La domanda di moneta è la quantità di moneta di cui hanno bisogno le famiglie per provvedere agli acquisti e per fronteggiare imprevisti. Essa cresce con l'aumentare del PIL infatti se il PIL cresce aumenta la necessità di moneta da parte delle famiglie per effettuare le proprie transazioni, mentre decresce con l'aumentare del tasso di interesse dei titoli perché le famiglie riterranno più conveniente investire in titoli piuttosto che possedere moneta. La domanda di moneta L quindi è una funzione differenziabile nelle 2 variabili Y ed r essendo Y il PIL ed r il tasso di interesse. Essendo L(Y,r) crescente in Y e decrescente in r risulta:

e66d2ac5109b36a88752c1a7e00f46bb.png

e

41278c993995cea1ecb88e6092f9652a.png

Inoltre poiché gli agenti economici possono detenere esattamente la quantità di moneta offerta dalla Banca centrale allora l'offerta di moneta m deve eguagliare la domanda di moneta L pertanto:

5262cdb9ac96cbdbdae89bfd5c052867.png

Poiché sono soddisfatte le ipotesi del teorema delle funzioni implicite o di Dini esiste un intorno di una coppia 0ba1b664692b3866b33bf1d150374c93.png e una funzione Y=f(r) soluzione di 5262cdb9ac96cbdbdae89bfd5c052867.png e risulta:

e40cb827a7362e0f65e62f83b927b99f.png

quindi se il tasso di interesse cresce, deve crescere il PIL affinché la domanda di moneta continui ad eguagliare l'offerta di moneta. Quando il tasso di interesse cresce, L decresce in r ma cresce in Y quindi se cresce r e cresce anche il PIL e viceversa l'equilibrio tra domanda e offerta di moneta si mantiene.

Secondo l'ipotesi keynesiana l'investimento in titoli delle famiglie (risparmio S) non dipende solo dal tasso di interesse ma anche dal livello del reddito (PIL) pertanto S = sY dove s è la propensione marginale al risparmio con 0<s<1. I titoli delle famiglie possono finanziare o l'investimento delle aziende I oppure la spesa pubblica dello Stato G pertanto:

28d208dbedcebf1ba5a84588fc0b6de1.png

La funzione I è decrescente in r infatti maggiore è il tasso di interesse, minore saranno i prestiti nel mercato dei capitali. Essendo soddisfatte anche in tal caso le ipotesi del teorema delle funzioni implicite relativamente alla funzione a 2 variabili H(Y,r):=sY-I(r) risulta:

c9135c0b1f79163ab1b821ed5191e509.png

quindi affinché i risparmi continuino ad eguagliare la spesa pubblica e la spesa per investimenti se cresce r deve decrescere Y e viceversa.

Ora considerato il sistema dato dalle 2 funzioni implicite sopra indicate dove Y ed r si considerano variabili endogene ed m, G esogene:

51a9fc77480f5b3627876676a2356373.png

poiché le 2 funzioni L ed H sono differenziabili e il determinante:

efd7373a63fade6abcf93b6731ea2957.png

si può applicare il teorema di invertibilità locale delle funzioni allora esistono 4 valori

0db7e844bc6b330466292de5dfd19a75.png tali che :

9b0b5e7d959faec6d91642092cacdfb5.png

Calcolando la matrice inversa di J e risolvendo il sistema si ottiene:

39851aaadc0596695b567cadd88a3835.png

Essendo nell'equazione 3) i termini che moltiplicano dG e dm tutti positivi, mentre nell'equazione 4) uno positivo e l'altro negativo esistono 8 possibilità di politica fiscale e monetaria:

1. Se aumenta l'offerta di moneta della Banca centrale ed aumenta la spesa pubblica di sicuro aumenta il PIL ma non si può dire nulla sulla variazione del tasso di interesse.

2. Se aumenta l'offerta di moneta e diminuisce la spesa pubblica di sicuro il tasso di interesse diminuisce ma nulla si può dire sulla variazione del PIL.

3. Se diminuisce sia la spesa pubblica che l'offerta di moneta di sicuro diminuisce il PIL ma nulla si può dire sulla variazione del tasso di interesse.

4. Se diminuisce l'offerta di moneta ed aumenta la spesa pubblica il tasso di interesse aumenta ma nulla si può dire sulla variazione del PIL.

5. Se non c'è variazione di offerta di moneta e la spesa pubblica aumenta, aumentano sia il PIL che il tasso di interesse.

6. Se non c'è variazione di offerta di moneta e diminuisce la spesa pubblica diminuisce sia il PIL che il tasso di interesse.

7. Se non c'è variazione di spesa pubblica ma aumenta l'offerta di moneta il Pil aumenta ma il tasso di interesse diminuisce.

8. Se non c'è variazione di spesa pubblica e diminuisce l'offerta di moneta il Pil diminuisce ma il tasso di interesse aumenta.

Dinamica del Modello IS-LM nel dominio del tempo

Dopo avere valutato la statica comparata del Modello IS-LM è opportuno valutarne anche la dinamica. In particolare è possibile valutare in che modo variano in funzione del tempo il PIL Y e il tasso di interesse r, che costituiscono le nostre variabili di stato, a partire da uno stato iniziale prestabilito sotto l'effetto di un prestabilito ingresso nel sistema costituito dalla spesa pubblica G e dall'offerta di moneta m della Banca Centrale. Poiché il PIL cresce quando la domanda (spesa pubblica più investimenti) supera i risparmi e il tasso di interesse cresce quando la domanda di moneta supera l'offerta si ha :

53feb82ab20773d40555d2bef4e397f6.png

66edd79f1bed25e9ddfa68080ee23bd8.png

Riscrivendo il sistema in forma lineare si ha

31552294027d56313cd1e0bcfc9eb4ef.png

6b6bf06f3441ec53a7d372c7f0ed2fac.png

Applicando la definizione di stato stazionario di un sistema dinamico si ha che nel caso specifico esso risulti uguale alla coppia b063a4362fd9d027872cc4a53128ea06.png tale che :

37749e9c7ae1b3e1e1e0367b19f15b4a.png

dd09263eb1699cab3f78ab8ed3e650ae.png

Essendo le funzioni 5989ba6a95bfeb7e5050c0977ffad863.png, 28d477e40bff5341744cff462fe14b8b.png lineari e crescenti in base alle ipotesi allora esistono le loro rispettive funzioni inverse e si ha :

a26498c9f6c67470868743bf035dfd41.png

272d74a6eb3aef44a57cc1c65fd6a485.png

e quindi :

f80cb5030ec86ccd948b6cf9a9e19be7.png

6ea8feff021ae053ea481f29c09352e6.png

Risolvendo il sistema si ottiene lo stato stazionario :

dc7aae0a3bab03b2257a3cd3cb322c39.png

f036daba1b33ab020b7b5f7d2b3cab6b.png

Posto :

5c3cdf9d02d59f08932c3facb0ca60be.png

e

d57fa0c95f3efc64bce23549c7208299.png

per la linearità delle 2 funzioni si ha :

e49a2d06e07a180a399db647461e685b.png

f25b826184b46e8fa3b0c317f973ced5.png

Applicando la formula di Taylor alle funzioni e160f48b29dadc8899708c47e608ee8c.png, 8f9dcec0b0d49b4b3029b68475b66dfe.png si ha :

b4299a6550da8934d88030fd2ce551cf.png

30d97f3d6121c74ff617fd8d613d2e52.png

che si può scrivere nella forma:

26c53255b04ca57d53b4e1956b246317.png

Calcolando gli autovalori e gli autovettori della matrice :

85921da74b6924597bef6c0a13a2b982.png

e applicando la formula per il calcolo della soluzione dei sistemi dinamici lineari nel caso di autovalori reali e distinti si ha :

c0850f009ae5790b46eab32775914d0d.png

con 6e6e638a0f1f0c638997b1bff3167ce4.png matrice 8d7650372f1eb9bff0c2d1b4ae679a86.png le cui colonne sono gli autovettori di A,406b6a6ef337b475502cf1df44f2891e.png matrice diagonale dove sulla diagonale principale vi sono gli esponenziali elevati a ciascun autovalore moltiplicato per 308a6177f629dba9fc1f1ffbd02ef5e6.png.

Applicando la formula per il calcolo della soluzione dei sistemi dinamici lineari nel caso di autovalori complessi coniugati si ha:

e1b558fdcba39b86ea4912908252e326.png

con

46beeea318031ce5731011319cfcb0f3.png

e

a0b08809dfe638f929a376b52600f9fc.png

con b0534ca61ff7cb7a2ca253be033824d1.png e 825b006b860360db1b90226fa38dc1bb.png rispettivamente parte reale e parte immaginaria degli autovalori complessi coniugati.

Si nota che essendo 77ccb75bcb11bb1340bf4b9040cca0d3.png, e1e234c5a514c3ab12243cc9c1d76936.png, 2cc2ffacf2cc90de890fda4533f604e2.png, 34316b77751405f5d8710a284cfa4202.png quantità positive gli autovalori della matrice 65bec5f7739f4ebe7c0e99a68e6274f7.png sono sia nel caso reale che nel caso complesso coniugato con parte reale negativa quindi calcolando il limite per 308a6177f629dba9fc1f1ffbd02ef5e6.png tendente a infinito dello stato del sistema (vettore 4445c9666a89a798e79372c14147d8db.png le cui componenti sono il PIL e il tasso di interesse) si nota che il PIL e il tasso di interesse convergono sempre verso lo stato stazionario, pertanto il modello IS LM è asintoticamente stabile. La convergenza verso lo stato stazionario può avvenire o crescendo o decrescendo oppure oscillando.

Dinamica del Modello IS-LM nel dominio di s

Trasformando secondo Laplace ambo i membri del sistema di equazioni differenziali e lineari :

27f335e8979fddf98163f505c1358309.png

si ottiene :

9d7734b9cc15466ff4c35922cc578120.png

che risulta uguale a :

b81819ae7e36730b9a3d499b900b0d28.png

In particolare risulta nel caso di autovalori della matrice A reali e distinti 6c6c2db537269c944c6f5ca343c6828e.png:

71e6393f50e64760632f392bf4c3fcc2.png

con :

ee1c045a727d1c8e8451ced5a25f4fbe.png

Quindi risulta :

63907cee42c2cf2cbca7de6c68a68fc9.png

Antitrasformando secondo Laplace si ottiene :

2a11cc79cd08e71cabf102ef255d5a62.png

Nel caso di autovalori della matrice A complessi coniugati si ottiene :

5868d669cc630cfcdc7f8e65234218a7.png

e quindi :

eb22abcfd7786048bbdb0d968de07da6.png

con :

b9599ef5b0e2551fb33bc7a817a6e75a.png

Antitrasformando secondo Laplace si ottiene:

3cb2171e0f72fc1fe05e821584d596df.png

Equazioni della curva LM

La curva LM indica tutte le possibili combinazioni dei livelli del reddito reale e del tasso di interesse per le quali vi è uguaglianza tra la domanda e l'offerta di moneta in termini reali. Si denotano in quanto segue il tasso di interesse prevalente nel mercato delle attività finanziarie con 93fdebfd1e398f362a5bbd7e1dc78e5f.png, e il reddito nazionale con c632c7f48bbbb2fcf01c19e69726c57a.png.

Si supponga esogena e costante l'offerta di moneta 63eee076a3545909d853ee8c725e9146.png (s sta per supply - offerta, in inglese, 6fbdd045bf50dc6bcff015bab9578a68.png indica una quantità data), e una domanda di moneta che dipende dal reddito, (considerando per semplicità una funzione lineare 341cf5f22365d9e678ca67da4f42cd3b.png), e inversamente correlata al tasso di interesse, dunque tale che:

f5c643c100fa018a54e379289864f82a.png

L'eguaglianza tra domanda e offerta (62c0d3988f062817417c5c877f05ed09.png) definisce la curva, o relazione di equilibrio nel mercato monetario, LM:

4027d93cb125f125788997416e6d32cb.png

La scrittura sopra è equivalente a:

9d75b31c423b12bd271d7192b5bef4f9.png

In particolare la prima equazione viene rappresentata su assi cartesiani con la variabile Y sull'asse delle ascisse e il tasso di interesse i su quello delle ordinate. La curva ha generalmente inclinazione positiva.

Dalle espressioni sopra discende che un aumento (riduzione) della quantità offerta di moneta 55ecdad6dadd71683842180ab2ccad8d.png provocherà, ceteris paribus, una traslazione verso il basso (verso l'alto) della curva LM, per una distanza pari a 9823821f7033c907a24ab6391b0a673a.png, o equivalentemente, una traslazione verso destra (sinistra) per una distanza pari a 7f8c3e1ce3ff281e1fa467d25c37173a.png.

Equazioni della curva IS

Analogamente immaginando uno schema semplificato, senza spesa pubblica, tassazione e settore estero, il reddito nazionale è semplicemente uguale alla somma di consumi C e investimenti I:

829f23cff9d0c666b842e70feb3ab411.png

Si supponga ora che i consumi siano una funzione lineare del reddito nazionale, 411bc9efc2da0043d35fbf8cfaab6bf6.png, dove 817f4f88270438802dab06e1510eef81.png è detta propensione marginale al consumo, e ha valore compreso tra 0 e 1; la relazione implica che all'aumentare del reddito nazionale il consumo aggregato aumenti. Si assuma inoltre che gli investimenti siano una funzione lineare decrescente del tasso di interesse i, 206e9933a8656007193e5eb13bd50261.png, dove ancora 0091ebd7023b6cc93ab6ba86ebe5da28.png ha valore compreso tra 0 e 1; in altre parole un aumento del tasso di interesse, aumentando il costo medio del finanziamento di un investimento, riduce l'ammontare di investimento osservato a livello aggregato nell'economia.

Sostituendo le espressioni per consumi e investimenti aggregati all'interno dell'espressione per il reddito nazionale, si giunge alla relazione di equilibrio nel mercato dei beni reali, o curva IS:

17475b02c4d87f35cc486d52a03a3a2b.png

L'equazione sopra può essere esplicitata per i, analogamente a quella relativa alla curva LM:

be7c2944b84496ad208fff54c6e3aeb7.png

Tale espressione può essere estesa al caso di un'economia in cui è presente l'imposizione fiscale in ammontare 997b228959619895bc7b8679e9b15f47.png, la spesa pubblica per l'acquisto di beni e servizi fa2a518f35d0ab9a975e7a19e462c920.png, il settore estero, sinteticamente rappresentato dalle esportazioni nette 99f96591825357838ae065663ee64d61.png, dove 95becce987265568bfb452f322fc6609.png denota le esportazioni, e 0fcd6f4f47ce3ca119c225590e8ce1c2.png le importazioni. Il reddito nazionale è in tal caso pari a:

b8d1f2b731cee37a890ca67a0d8c4da2.png

Ad esempio, si può ipotizzare che la tassazione sia una funzione affine del reddito nazionale: be59e9ffcad8a95aa6d0e4d5cdba84de.png, con 818412dcce794bbdf9193218d3598a4c.png compreso tra 0 e 1; l'introduzione della tassazione consente inoltre di distringuere tra reddito c632c7f48bbbb2fcf01c19e69726c57a.png e reddito disponibile, 5e3caf65a594dd1b5db77ffc9a34a341.png, da cui dipendono i consumi. Si potrebbe inoltre sviluppare una qualche forma funzionale per le esportazioni nette 4a3db0c19ecd61dcff3560028d280b64.png, che ad esempio possono dipendere dal tasso di cambio, a sua volta dipendente dal differenziale tra il tasso di interesse nel mercato nazionale e quello medio prevalente sui mercati internazionali. Per sostituzione di tali relazioni nell'espressione per il reddito nazionale si otterrà ancora una curva IS; tralasciando per semplicità considerazioni relative alle esportazioni nette, di seguito trattate come una costante esogena, si ha:

206e9933a8656007193e5eb13bd50261.png

be59e9ffcad8a95aa6d0e4d5cdba84de.png

75bfa7cdce90b007b2ec63bfc39ee7be.png

Sostituendo, la curva IS è data da:

70171d3749e1fa04e6ce444ed0e592b9.png

Così come la curva LM, la curva IS è normalmente rappresentata con i valore del reddito nazionale Y sull'asse delle ascisse e quelli del tasso di interesse su quello delle ordinate. Le equazioni sopra indicano che una variazione della spesa autonoma per consumi 83d5bdb1edd9a9bf1e60e484f46a5a86.png o degli investimenti autonomi 785721a024699ae5f35cf0bd93a11883.png provocherà una traslazione verso destra-sinistra della curva IS per una distanza cbdb2fdc1e3e2ae4ce679904a25317c1.png o 10747586962d63a64ffc7d8686cd34c0.png nel caso del modello semplificato, con effetti analoghi nel caso del modello esteso. Con riferimento a quest'ultimo, è possibile osservare che un aumento (riduzione) della spesa pubblica per beni e servizi 7f9de1b560452519211ffeb6e2e4fb41.png ha, ceteris paribus, l'effetto di traslare verso destra (sinistra) la curva IS per una distanza f8931e9b7caa86fb611179d844f2938f.png.

Equilibrio simultaneo nei mercati dei beni reali e delle attività finanziarie

Unendo infine le curve IS e LM si ottiene un'espressione per il tasso di interesse che realizza l'equilibrio simultaneo nel mercato dei beni reali e delle attività finanziarie, pari a:

5dfe5881e77520b562994134431a59fa.png

Il reddito nazionale di equilibrio è inoltre dato da:

77f49ae9ce0e8b133aa7f5e537af8109.png

Nel caso del modello esteso, comprendente spesa pubblica, imposizione ed esportazioni nette, le espressioni sopra sono ovviamente più complicate, restando tuttavia invariata la logica del modello.

Analisi del comportamento dell'economia attraverso gli spostamenti delle curve IS-LM

Politica fiscale

La politica fiscale è messa in atto dallo stato facendo variare le Tasse (T) o le Spese statali (G). Questa politica influenza direttamente la curva IS in due differenti maniere:

Una diminuzione delle tasse o un aumento delle spese statali comporta graficamente uno spostamento della curva IS verso destra.

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Un aumento delle tasse o una diminuzione delle spese statali comporta uno spostamento della curva IS verso sinistra.

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Il "moltiplicatore keynesiano", dal nome del suo scopritore (o inventore, secondo l'opinione epistemologica che si ha della scienza economica) John Maynard Keynes, è l'effetto per cui un incremento della domanda aggregata derivante appunto da un aumento delle componenti autonome, come spesa pubblica, consumo delle famiglie, investimenti...ecc. genera un aumento più che proporzionale nel reddito di equilibrio. In altre parole quello che Keynes afferma è che è possibile aumentare il reddito (e l'occupazione) incentivando la domanda aggregata AD. Il modo migliore per incentivare la domanda aggregata è quello di effettuare politiche di spesa pubblica G(infatti AD è composta tra le altre cose(C,I,NX; il modello è basato sull'economia chiusa, quindi NX non sarebbe comunque presente)) anche da G). Ancora oggi, tutte le politiche di sostegno pubblico alla domanda aggregata vengono definite "keynesiane", con riferimento a questa teoria.

Politica Monetaria

La politica monetaria è messa in atto dall'autorità monetaria facendo variare la quantità di moneta circolante (cf9fb7d8d781f69dde0b335c849cd797.png) presente sul mercato. Questa politica influenza direttamente la curva LM in due differenti maniere:

Un aumento di cf9fb7d8d781f69dde0b335c849cd797.png determina graficamente uno spostamento della curva LM verso destra.

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Una diminuzione di cf9fb7d8d781f69dde0b335c849cd797.png determina graficamente uno spostamento della curva LM verso sinistra.

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Analisi degli effetti della politica economica nel modello IS-LM

Si esaminano di seguito gli effetti della politica economica nel contesto del modello IS-LM; è importante precisare che, a scopo semplificativo, l'analisi è basata sull'ipotesi di un'economia chiusa al commercio estero, o tale per cui gli effetti legati alle esportazioni/importazioni siano trascurabili.

Politica fiscale

La politica fiscale agisce tramite la spesa pubblica per l'acquisto di beni e servizi, fa2a518f35d0ab9a975e7a19e462c920.png nella notazione sopra, e tramite l'imposizione fiscale 997b228959619895bc7b8679e9b15f47.png. Una variazione di una o entrambe le grandezze si rifletterà sui valori di equilibrio del reddito nazionale e del tasso di interesse prevalente sul mercato, simultaneamente determinati nel contesto del modello IS-LM; un'analisi di tali effetti sull'equilibrio è definita esercizio di statica comparata.

A seconda delle ipotesi sul valore dei parametri che figurano nelle equazioni del modello, la politica fiscale produce effetti assai diversi, illustrati di seguito e in figura.

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Al fine di illustrare tale conclusione, si consideri il caso di una politica fiscale espansiva, in cui cioè si aumenta la spesa pubblica per beni e servizi fa2a518f35d0ab9a975e7a19e462c920.png. Ciò comporta, per quanto visto sopra, una traslazione verso destra della curva IS; l'effetto netto sull'equilibrio dipende dall'interazione con la curva LM.

Una prima possibilità (caso generale) è che la curva LM abbia pendenza positiva; in tal caso l'aumento della spesa pubblica provoca un aumento del reddito nazionale (da 05f34f6113a019ad6bbc2de95075db03.png a 0a5623f1a5ef7c5e25bb64e3c4ba48ed.png) ma anche un aumento del tasso di interesse (da 9d4d65720c0c63958fa46bea8eba785c.png a e4cded121569d739aacfba1dc657ed77.png). Ciò provoca una parziale riduzione degli investimenti, il cui costo aumenta all'aumentare del tasso di interesse - si parla di spiazzamento (in inglese, crowding out) degli investimenti; così che il reddito nazionale aumenta in misura minore rispetto a quanto avverrebbe in assenza di variazioni del tasso di interesse.

Questo primo caso è intermedio rispetto a due casi "estremi", associati ai punti di vista classico e Keynesiano, che si contrappongono nella teoria macroeconomica. Il punto di vista classico è che la domanda di moneta sia insensibile a variazioni del tasso di interesse: nella notazione sopra adottata, 7e3d3082dc33c46df8143538e7653c2a.png, così che la curva LM è verticale. In tal caso una politica fiscale espansiva che trasli verso destra la curva IS non ha alcun potere di alterare il livello del reddito nazionale; l'intero effetto della politica fiscale si scarica infatti sul tasso di interesse, con il completo spiazzamento degli investimenti da parte della spesa pubblica.

Il punto di vista Keynesiano è invece che la domanda di moneta sia infinitamente sensibile a variazioni del tasso di interesse, e che f8267107e8b2b3b2ff5ba7990000dcb6.png, così che la curva LM è orizzontale. Questa ipotesi è anche detta della trappola della liquidità: poiché la domanda di moneta è molto sensibile a variazioni del tasso di interesse, il mercato delle attività finanziarie sopporterà una qualunque iniezione di moneta senza che il tasso di interesse si modifichi. In tal caso, una politica fiscale espansiva non avrebbe alcun effetto sul tasso di interesse, non dando dunque adito ad alcuno spiazzamento degli investimenti, e andando ad aumentare il livello del reddito nazionale.

Politica monetaria

L'analisi della politica monetaria nell'ambito del modello IS-LM è analoga al caso della politica fiscale; anche qui si distingue tra ipotesi generale, classica, e Keynesiana, illustrate di seguito e in figura.

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Onde illustrare il funzionamento del modello, si consideri una politica monetaria espansiva, che aumenti l'offerta di moneta cf9fb7d8d781f69dde0b335c849cd797.png. Nel caso generale, ciò provoca una traslazione verso destra della curva LM, che riduce il livello del tasso di interesse; ciò causa a sua volta un aumento degli investimenti, incrementando il reddito nazionale. Nel caso classico, l'effetto è ancora più pronunciato, poiché la curva LM è verticale; nel caso Keynesiano per contro, essendo la curva LM orizzontale, non si produce alcun effetto sul tasso di interesse né, di conseguenza, sul reddito nazionale.

Quali conclusioni per la politica economica?

Come illustrato sopra, gli effetti della politica economica possono essere assai differenti a seconda delle ipotesi sui valori dei parametri del modello IS-LM considerati. Le conclusioni esposte sopra hanno suggerito l'attribuzione di colorazioni "politiche" alle diverse scuole di pensiero: a causa della maggiore efficacia della politica fiscale sotto le ipotesi Keynesiane, la scuola Keynesiana è considerata fautrice di un rilevante intervento dello Stato nell'economia; per contro, la scuola classica è reputata più favorevole a una politica di laissez-faire. Inutile precisare che tali interpretazioni sono legate a notevoli semplificazioni dei pensieri Keynesiano e (neo-) classico, e che attribuire a questi una connotazione politica non è più sensato che attribuirla, ad esempio, alla meccanica Newtoniana o a quella quantistica nell'ambito della fisica. Il messaggio dell'analisi di statica comparata condotta, con strumenti euristici, sopra, è che lo studio degli effetti della politica economica non può prescindere da un'analisi empirica delle condizioni dell'economia, volta a determinare quale delle ipotesi considerate (generale, Keynesiana, classica) sia maggiormente fondata.

Popolarità del modello IS-LM

Il modello IS-LM è stato a lungo il modello di riferimento per valutare le conseguenze della politica economica. A partire dagli anni settanta, tuttavia, è stato oggetto di crescenti critiche da parte delle scuole di pensiero neoclassica e monetarista, a causa della difficoltà di trattare i problemi relativi all'inflazione, particolarmente feroce in quel decennio. La scuola monetarista inoltre, seguendo l'argomentazione dell'economista Robert Lucas, critica il modello per l'assenza di una trattazione esplicita delle aspettative concernenti la politica economica. L'approccio IS-LM presta inoltre il fianco alle critiche dei sostenitori della microfondazione della macroeconomia, ossia della posizione per cui i modelli macroeconomici dovrebbero essere basati su rigorose fondamenta microeconomiche che giustifichino le relazioni formulate a livello aggregato, piuttosto che muovere da premesse generali concernenti variabili aggregate come quelle presentate sopra.

Viceversa gli economisti post-keynesiani rifiutano il modello IS-LM di Hicks, in quanto lo ritengono un’interpretazione indebita del pensiero di Keynes, che tradisce i principi più innovativi della Teoria generale, riportandoli nell’ambito dell’equilibrio economico generale (J. Robinson definiva sprezzantemente questo approccio “keynesismo bastardo”).

Allo stato attuale (2005) al modello IS-LM è riconosciuta una indubbia validità euristica, nonché validità come buona approssimazione in condizioni di inflazione moderata, quali ad esempio quelle degli ultimi anni.

Franco Modigliani

« Non è tollerabile che una banca centrale, isolata, che non ha nessuna responsabilità né l'obbligo di spiegare quello che fa, possa continuare a creare disoccupazione mentre i governi stanno zitti. »

(su Il Tempo del 22 ottobre 2000)

 Nobel per l'economia 1985

Franco Modigliani (Roma, 18 giugno 1918 – Cambridge, 25 settembre 2003) è stato un economista italiano. La sua attività di studio ha rivoluzionato la finanza aziendale moderna.

Biografia

Vincitore del Premio Nobel per l'economia nel 1985, nacque a Roma da una famiglia ebraica (cugino dello psicoanalista Claudio Modigliani). A soli 17 anni entra all'Università di Roma, dove è iscritto al GUF, vincendo i Littoriali della cultura e dell'arte. Lascia la capitale italiana nel 1939 a causa delle leggi razziali fasciste e si reca a Parigi, ospite dei futuri suoceri. A Parigi tenta invano di seguire alcuni corsi alla Sorbona ("Ho trovato l'insegnamento lì impartito prosaico e una perdita di tempo") e completa la scrittura della tesi (lavorando soprattutto nella Biblioteca Sainte-Geneviève). Tornato brevemente a Roma per discutere la tesi e ricevere la laurea, nel 1939 lascia l'Europa, ormai tutta indirizzata verso un nuovo conflitto militare, e si reca negli Stati Uniti prendendone la cittadinanza nel 1946.

Contributi

Modigliani, assieme a Merton Miller, formulò il cosiddetto Teorema di Modigliani-Miller della finanza aziendale. Questo importante risultato, esposto per la prima volta nel giugno del 1958, nella "American economic review", spiega sotto quali condizioni il valore di un'azienda rimanga lo stesso sia che venga finanziata attraverso raccolta di capitali sul mercato azionario (emissione di azioni), sia che venga finanziata attraverso acquisizione di debito (emissione di obbligazioni). Nonostante le assunzioni del teorema lo rendano inverificabile dal punto di vista empirico, rimane comunque un risultato importante perché da esso è scaturita una enorme letteratura, tuttora fiorente, che cerca di spiegare sotto quali diverse condizioni il risultato non sia valido.

Modigliani fu anche l'ideatore dell'ipotesi del ciclo vitale, che spiega come il risparmio ed il consumo cambino nell'arco di vita di un individuo. I consumatori, secondo Modigliani, tendono ad effettuare le loro scelte di consumo non in base al loro reddito corrente, ma in base alla loro aspettativa di reddito e consumo totale futuri. Per questo, gli individui tendono a risparmiare in alcune fasi della loro vita per poi spendere il denaro accumulato in altre fasi, per esempio durante il pensionamento.

Milton Friedman

Nobel per l'economia 1976

Milton Friedman (Brooklyn, 31 luglio 1912 – San Francisco, 16 novembre 2006) è stato un economista statunitense, di area neoliberista, esponente principale della scuola di Chicago. Il suo pensiero ed i suoi studi hanno influenzato molte teorie economiche, soprattutto in campo monetario. Fondatore del pensiero monetarista, è stato insignito del Premio Nobel per l'economia nel 1976.

Biografia

Di famiglia ebrea poverissima, emigrata dall'Europa orientale, (Austria-Ungheria, attualmente Ucraina), divenne un liberista convinto. È stato più volte definito l'anti-Keynes, per il suo rifiuto verso qualsiasi intervento dello Stato nell'economia ed il suo sostegno convinto a favore del libero mercato e della politica del laissez-faire.

I suoi maggiori contributi alla teoria economica riguardano gli studi sulla teoria quantitativa della moneta, sulla teoria del consumo, sull'elaborazione del concetto di tasso naturale di disoccupazione e sul ruolo e l'inefficacia della curva di Phillips nel lungo periodo. Secondo Friedman, l'inflazione è solo un fenomeno monetario e non è utile nel lungo periodo per ridurre la disoccupazione. La sua regola di politica monetaria, incentrata nel conseguimento del controllo della crescita della massa monetaria, è stata utilizzata dalla Federal Reserve negli Stati Uniti ed anche dalla Banca centrale europea (BCE).

Autore di molti libri tra i quali menzioniamo Capitalismo e libertà, Liberi di scegliere e Due persone fortunate, Friedman si dimostra un ottimo divulgatore ed uno dei più insigni rappresentanti del pensiero liberista in economia del nostro tempo.

Sposò Rose Director Friedman, dalla quale ebbe due figli, tra cui David, economista di scuola anarco-capitalista.

Influenza sulla politica

Le sue teorie hanno esercitato una forte influenza sulle scelte del governo britannico di Margaret Thatcher e di quello statunitense di Ronald Reagan, degli anni ottanta. Le sue idee sono ancora oggi oggetto di accesi dibattiti: ad esempio, rigettò la stakeholder view e la responsabilità sociale d'impresa, sul piano economico ed etico, sostenendo che i manager sono agenti per conto terzi e dipendenti dei proprietari-azionisti, e che devono agire nell'interesse esclusivo di questi ultimi (utilizzare il denaro degli azionisti per risolvere problemi sociali, significa fare della beneficenza con i soldi degli altri, senza averne il permesso e tassarli senza dare un corrispondente servizio, violando il principio del «no taxation without representation»).

In Italia le teorie friedmaniane sono state riprese da alcuni settori e movimenti politici di minoranza, come l'ala liberale e liberista di Forza Italia, i Radicali italiani e i Riformatori liberali.

Controversie negli anni '80

Sono stati oggetto di controversia i suoi rapporti con il regime dittatoriale di Augusto Pinochet in Cile. Pinochet intraprese una serie di riforme economiche di stampo liberista che seguivano gli orientamenti di Friedman. Diversi economisti suoi allievi consigliarono il generale nell'attuazione di queste riforme, e lo stesso Friedman nel 1975 indirizzò a Pinochet una lettera, in risposta ad un consiglio su come gestire l'economia, chiesto da Pinochet stesso durante una visita negli Stati Uniti. Pinochet rispose con ringraziamenti alla lettera di Friedman, nella quale l'economista raccomandava al dittatore un programma economico conforme alle proprie teorie, spiegando al generale, punto per punto, la possibile applicazione pratica del liberismo alla realtà cilena. Friedman compì anche alcune visite a Santiago del Cile.

Per questa sua apertura verso Pinochet, Milton Friedman è stato spesso attaccato, come avvenuto svariate volte anche a José Piñera, altro economista liberista ed allievo di Friedman a Chicago, poi Ministro di Pinochet e autore della riforma delle pensioni in Cile.

I difensori di Friedman ripetono che l'economista Premio Nobel non era a conoscenza dei particolari delle violazioni dei diritti umani, perpetrate da Pinochet, né le sostenne in alcun modo, e i suoi consigli erano rivolti esclusivamente alla sua sfera di competenza, l'economia.

Ultimi anni

Il 17 ottobre 1988 venne insignito della Medaglia presidenziale della libertà, la prestigiosa onorificenza statunitense, dal Presidente Ronald Reagan, convinto seguace neoliberista.

Nel 2005, Milton Friedman è stato il primo firmatario di un appello sottoscritto da oltre 500 economisti statunitensi per denunciare gli enormi costi (7,7 miliardi di dollari all'anno) del proibizionismo sulla marijuana. Considerava questa legge un sussidio virtuale del governo al crimine organizzato.

È morto per infarto cardiaco il 16 novembre 2006 a San Francisco, all'età di 94 anni.

Critiche

Milton Friedman è stato spesso criticato da economisti liberali, in particolar modo dalla scuola austriaca. Nel 1971 Murray N. Rothbard, pensatore anarco-capitalista, scrisse per la rivista The Individualist un articolo nel quale definiva le teorie di Friedman come totalitarie e stataliste. In particolare Rothbard criticò aspramente le contraddizioni presenti nel pensiero economico di Friedman da molti punti di vista, come ad esempio da un punto di vista monetario, ed in generale sul ruolo centrale affidato allo Stato da parte di Friedman.

« Ma penso che sia inoltre molto chiaro che non bisogna essere un esperto dei testi di Friedman per rendersi conto che Milton è per il controllo assoluto della riserva monetaria da parte dello Stato, che è a favore del 3 o 4 per cento di aumento della riserva monetaria (i numeri cambiano in continuazione) da parte dello Stato ogni anno, che è a favore di un'imposta sul reddito negativa che è essenzialmente un reddito annuale garantito dallo Stato e che è a favore di un programma di buoni che lascerebbe allo Stato il solido controllo dell'istruzione. Queste cose sono abbastanza plateali; non c'è segreto a proposito. Penso che sia abbastanza chiaro che Friedman è uno statalista. Voglio dire, se siete per lo Stato che controlla la riserva monetaria, il sistema educativo ed un reddito annuale garantito, è detto tutto. Non c'è molto altro da aggiungere. »

(Intervista a Murray N. Rothbard)

Friedman viene anche aspramente criticato dalla giornalista di area progressista canadese Naomi Klein che nel suo libro Shock economy afferma che le riforme liberiste volute da Friedman e dai suoi discepoli sono applicabili solo per mezzo di shock violenti che catturino l'attenzione dell'opinione pubblica. I seguaci della Scuola di Chicago quindi, secondo le teorie no-global della Klein, si sono resi complici di colpi di stato e di torture perpetuate dopo di questi nei confronti dei ribelli che hanno osato opporsi alle scelte neoliberiste spesso a favore di multinazionali straniere.

Svariati esponenti del governo totalitario di Pinochet hanno studiato a Chicago, con borse di studio finanziate da grandi multinazionali statunitensi come la ITT (telecomunicazioni). Questo programma ha avuto inizio negli anni cinquanta ed ha permesso a centinaia di studenti cileni di assorbire le teorie di Friedman, per poi riproporle con scarso successo democraticamente alle elezioni del 1970. Visti gli scarsi risultati del metodo democratico, le grandi corporazioni statunitensi con interessi in Cile che non potevano tollerare la nazionalizzazione delle miniere ed altri settori, progettarono il colpo di stato insieme agli studenti ormai laureati e "missionari" delle teorie di Friedman. Sebbene questi economisti abbiano avuto il ruolo intellettuale di progettare il piano economico del regime e non attivo nei massacri, da documenti dissecretati negli anni 2006 e 2007 si apprende come Friedman e un altro suo collega, fossero in contatto attivo con Pinochet, ed avessero consigliato la "terapia di shock" per rendere possibile all'indomani del colpo di stato la radicale trasformazione, in senso neoliberista del sistema Cileno. Il signor Friedman si riferiva esplicitamente al modello indonesiano, dove il generale Suharto ha sterminato centinaia di migliaia di persone ed ha potuto così realizzare alla perfezione un piano economico altrimenti non accettabile dalla popolazione.

Milton Friedman venne criticato anche per aver giustificato l'evasione fiscale come necessaria, in certi casi.

Teoria quantitativa della moneta

La teoria quantitativa della moneta è una teoria dell'economia secondo cui i prezzi generali o il valore nominale delle spese è correlato positivamente (se cresce l'uno cresce l'altra e viceversa) alla quantità di moneta. Secondo questa teoria, la quantità di moneta disponibile determina il valore della moneta stessa.

Teoria

Per comprendere questa teoria, si deve partire dalla differenza tra domanda ed offerta di moneta.

La domanda di moneta (Md, money demand) è quella parte del reddito che gli individui detengono in forma liquida. Essa si distingue dal risparmio, che è dato dalla differenza tra reddito percepito e reddito consumato, perché è una delle forme in cui esso può essere detenuto. Ogni volta che ci offrono un bene viene chiesto in cambio moneta. Se indichiamo con x i vari beni e con p il prezzo di questi, possiamo dire che la domanda di moneta è

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Indichiamo allora con T la somma delle quantità dei beni prodotti e scambiati e possiamo dire che Md = P*T, dove P è il livello generale dei prezzi.

L'offerta di moneta (Ms, money supply) è data dalla quantità di biglietti di banca messi in circolazione dalla banca centrale (M) per la velocità di circolazione della moneta (V).

Ms = M*V

La condizione di equilibrio è

Md = Ms

P*T = M*V

P = M*V / T

Ora si pone il problema di trasformare questa identità in un'eguaglianza e per fare ciò bisogna introdurre ipotesi nel comportamento delle variabili P,M,V,T.

V e T secondo Fisher sono costanti. V sarebbe costante perché essendo la velocità di circolazione della moneta, e poiché nella teoria classica la moneta è solo un mezzo di intermediazione degli scambi, V dipende dalle abitudini dei consumatori. Poiché esse non cambiano nel breve periodo V è costante poiché è costante la giacenza media della moneta, che è il reciproco della velocità di circolazione della moneta. T è costante perché nella teoria classica si immagina un sistema in piena occupazione delle risorse. Se V e T sono costanti allora vi sarà un rapporto tra M e P tale per cui all'aumentare di M aumenta P.

Sostanzialmente, in virtù del fatto che la moneta nella teoria classica è solo un mezzo di intermediazione degli scambi, un aumento della quantità di moneta in circolazione ha la conseguenza di far aumentare la domanda globale dei beni. Siccome il sistema opera già in piena occupazione e quindi non può espandere la produzione, a questo aumento di domanda consegue l'aumento dei prezzi.

L'inflazione (aumento di P, prezzi) dipende da una sola grandezza, la quantità di moneta in circolazione, che perde di valore all'aumentare dei prezzi.

Inoltre la teoria presuppone che la moneta sia neutrale, ovvero non abbia influenza sulle variabili reali, come il reddito, ma solo sulle grandezze monetarie. La moneta sarebbe quindi un velo che copre gli scambi, i fenomeni reali.

Scuola di Cambridge

La scuola di Cambridge rivede questa teoria e apporta delle modifiche, introducendo una nuova formula che essenzialmente pone in relazione la quantità di moneta M col reddito.

M = PKY

laddove:

K = la percentuale di reddito che gli individui detengono in forma liquida

Y = reddito reale

quindi P = M / (KY), quindi se la parte di reddito detenuta in forma liquida diminuisce, il livello dei prezzi aumenta (minore ritenzione di moneta = maggiore consumo = aumento di prezzi). Tra l'equazione di Fisher e l'equazione della scuola di Cambridge cambia solo il modo di studiare il mercato: in quella di Fisher si afferma che il valore degli esborsi corrisponde al valore delle spese; in quella della scuola di Cambridge si afferma che la moneta viene detenuta in quota fissa sul livello del reddito nazionale. In entrambe le versioni resta fermo che tra M e P c'è una relazione diretta.

John Maynard Keynes criticherà anche questa teoria in quanto egli dà alla moneta anche la funzione di "fondo di valore", cioè di deposito di ricchezza, oltre alla funzione di intermediaria degli scambi che già le era stata attribuita. Secondo Keynes V e T non sono costanti. V non è costante perché K dell'equazione di Cambridge può variare e quindi può variare anche V essendo il suo reciproco. T non è costante perché varia al variare degli investimenti attraverso il meccanismo del moltiplicatore. Negando la costanza di V e T Keynes spezza il legame sostenuto da Fisher tra quantità di moneta in circolazione e livello dei prezzi. Perché se un aumento della quantità di moneta in circolazione viene compensato da una diminuzione di V, i prezzi non cambiano. Per Keynes la domanda di moneta può essere: a scopo transazionale, precauzionale o speculativo. Maggiore sarà il reddito e maggiore sarà la domanda di moneta a scopo transazionale e precauzionale. La domanda di moneta a scopo speculativo è funzione decrescente del tasso di interesse. Keynes si riferiva alle obbligazioni, che sono titoli a reddito fisso. Quando il prezzo delle obbligazioni aumenta, il tasso di interesse diminuisce. Viceversa, quando il prezzo delle obbligazioni diminuisce e il tasso di interesse aumenta, gli speculatori acquistano le obbligazioni se prevedono che di lì a poco il tasso di interesse diminuirà e quindi il prezzo delle obbligazioni aumenterà. In tal caso gli speculatori rivenderanno le obbligazioni speculando, appunto, sulla differenza tra il prezzo a cui avevano comprato le obbligazioni (che era più basso) e il nuovo prezzo (aumentato perché è diminuito il tasso di interesse) a cui le venderanno.

Una critica ancora più radicale viene portata dai teorici della moneta endogena. Secondo questi economisti l'identità di Fisher MV = PQ va letta al contrario: è il livello dei prezzi a determinare la quantità di moneta in circolazione, e non viceversa.

Cenni storici

I mercantilisti ritenevano che se MV = PT (moneta per velocità di circolazione della stessa = prezzo per numero delle transazioni), un aumento della moneta circolante avrebbe portato ad un aumento di T (transazioni) e non di P (prezzi). Era la fase del bullionismo, secondo cui la ricchezza delle nazioni si misurava dalla quantità di moneta e metalli preziosi da esse posseduti. Determinante era allora la bilancia commerciale con l'estero.

Thomas Mun (1571-1641), mercante della Compagnia delle Indie, sviluppò questo concetto e, parlando della bilancia commerciale inglese, precisò che non si doveva guardare al deficit dell'Inghilterra con l'Oriente (fuoriuscita di metallo prezioso per l'acquisto di materie prime), bensì alla bilancia commerciale complessiva con gli altri paesi in quanto le materie prime divenivano merci lavorate che erano poi esportate all'estero con un rientro maggiore di metallo.

David Hume (1711-1776), che con Mun può essere considerato il fondatore della teoria quantitativa della moneta, osservò che la bilancia commerciale non può essere sempre in attivo. Ciò infatti comporta un afflusso di oro che avrebbe provocato un aumento dei prezzi interni e reso meno competitive le esportazioni.

Politica monetaria

La politica monetaria è l'insieme degli strumenti, degli obiettivi e degli interventi adottati per modificare e orientare la moneta, il credito e la finanza, al fine di raggiungere obiettivi prefissati di politica economica, di cui la politica monetaria fa parte.

Descrizione

Obiettivi

Gli obiettivi si distinguono in obiettivi finali e obiettivi intermedi. Gli obiettivi finali sono gli stessi della politica economica (prezzi, occupazione, sviluppo). La politica monetaria si occupa di raggiungere uno o più di tali obiettivi manovrando le variabili monetarie (tasso d'interesse o quantità di moneta).

Solitamente, il principale obiettivo affidato alla politica monetaria è la stabilità dei prezzi. Infatti, si è osservato che il perseguimento di tale obiettivo è il maggior contributo che la politica monetaria può dare alla crescita economica nel medio periodo.

Poiché, però, il livello dei prezzi non è direttamente manovrabile dalla Banca centrale, è stata teorizzata la necessità di definire degli obiettivi intermedi. L'obiettivo intermedio deve presentare le seguenti caratteristiche:

possibilità di una tempestiva rilevazione del suo livello (ritardi informativi molto ridotti);

controllabilità entro limiti molto stretti e con gli strumenti a disposizione delle autorità;

stabilità della relazione tra obiettivo intermedio ed obiettivo finale.

A questo punto, tuttavia, la scelta dell'obiettivo intermedio e, più in generale, del regime di politica monetaria da adottare dipende fortemente dalle ipotesi teoriche sui meccanismi di trasmissione degli impulsi monetari. I due principali regimi di politica monetaria sono il monetary targeting e l'inflation targeting.

Strumenti e operazioni di politica monetaria

Per raggiungere tali obiettivi, le banche centrali, cui viene affidata solitamente la politica monetaria, in maniera più o meno indipendente dal Tesoro, hanno a disposizione due strumenti: la base monetaria ed il tasso d'interesse.

Le Banche centrali agiscono principalmente attraverso operazioni di mercato aperto che, con la compravendita di titoli, modificano il volume della base monetaria e il livello tassi d'interesse a brevissimo termine. A loro volta le modifiche dei tassi a breve si trasmettono ai tassi a più lungo termine e ai tassi bancari sui prestiti e sui depositi dei clienti finendo così con l'influenzare il livello dell'attività economica. Un'altra operazione tipica delle banche centrali, ma che ha perso importanza nel tempo è il risconto. Inoltre, esse hanno il potere di imporre un coefficiente di riserva obbligatoria.

Altri due strumenti di politica monetaria sono il quantitative easing e la forward guidance.

Tipi di politica monetaria

Si definisce espansiva una politica monetaria che, attraverso la riduzione dei tassi di interesse, voglia stimolare l'offerta di moneta delle banche alle imprese, e quindi gli investimenti e la produzione di beni e servizi.

Al contrario si definisce restrittiva una politica monetaria che, attraverso l'aumento dei tassi d'interesse, riduca l'offerta di moneta e quindi renda meno conveniente investire e produrre.

Le politiche monetarie restrittive hanno l'obiettivo di ridurre l'inflazione, o far calare il disavanzo pubblico, facendo rallentare la crescita economica.

Politica fiscale

In politica economica la politica fiscale è una delle linee di azione, adottata dal governo all'interno della politica di bilancio ed espressa nella legge finanziaria, per far fronte in maniera predeterminata agli obiettivi di bilancio pubblico, ovvero stabilire un livello di imposizione o prelievo fiscale sui contribuenti per coprire la quota di uscite statali prefissate (spesa pubblica). Tali risultati si ottengono attraverso modifiche al cosiddetto sistema fiscale definito come il livello medio di pressione fiscale e le modalità di ripartizione dei tributi sui contribuenti stessi.

Un problema tipico e fortemente limitante che un governo si trova spesso ad affrontare in materia fiscale per cercare di raggiungere i propri obiettivi di bilancio è quello dell'evasione fiscale.

Descrizione

Se facciamo riferimento alla curva IS risultano immediatamente evidenti questi tre elementi:

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Tra queste variabili, quelle che sono manovrabili dallo Stato sono:

TR = trasferimenti (quota di denaro che lo Stato eroga gratuitamente a vario titolo alle famiglie)

t*Y = TA = imposte riscosse (dato da una aliquota t calcolata sul reddito Y)

G = spesa pubblica

Da queste tre variabili possiamo inoltre evidenziare da cosa sia composto il bilancio di uno Stato:

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In generale possiamo affermare che le manovre attuabili dallo Stato sono di due tipi: manovre espansive e manovre restrittive.

Una manovra espansiva consiste nell'aumento della spesa pubblica o dei trasferimenti, oppure in una riduzione delle imposte. Tale manovra, come risulta evidente, genera un disavanzo pubblico nel bilancio dello Stato. Una manovra restrittiva invece, consiste nella riduzione della spesa pubblica o dei trasferimenti, oppure in un aumento delle imposte con effetto di avanzo pubblico o pareggio di bilancio.

Una manovra espansiva comporta una spostamento verso destra della curva IS; tale manovra, ceteris paribus, provoca un aumento del reddito (Y) e un aumento del tasso di interesse (i). A causa dell'aumento di i ci sarà una riduzione degli investimenti che causerà una leggera riduzione di Y. Una manovra restrittiva invece comporta uno spostamento verso sinistra della curva IS; tale manovra, ceteris paribus, provoca una riduzione del reddito (Y) e una riduzione del tasso di interesse (i). A causa della riduzione di i ci sarà un aumento degli investimenti che causerà un leggero aumento di Y.

Una terza politica di bilancio è quella del pareggio di bilancio che impone l'uguaglianza tra entrate e uscite ovvero una politica di fiscale in cui le entrate fiscali eguagliano la spesa pubblica.

Economia aperta

Il discorso cambia leggermente se ci troviamo in economia aperta. In questo caso allora dovremo fare attenzione anche al tasso di cambio. Infatti una manovra espansiva o restrittiva avrà influenza anche sulla quantità di esportazioni nette. Ad esempio, una politica fiscale espansiva aumenterà la produzione nazionale (in funzione della quale variano negativamente le importazioni), mentre non ha effetto sulla produzione estera (da cui dipende la domanda estera di prodotti nazionali e dunque le esportazioni). Di conseguenza, una politica fiscale espansiva in economia aperta produrrà un surplus nella bilancia commerciale.

Aspetti socio-economici

Tipicamente spesso si hanno due distinte e contrapposte posizioni in materia di politica fiscale spesso dettate da scelte politiche, ognuna con delle limitazioni:

da una parte privilegiare un'imposizione fiscale sui redditi alti favorendo così una redistribuzione del reddito nella società e i consumi dal basso, ma che almeno in parte può tramutarsi in una limitazione sugli investimenti da parte delle imprese per produrre innovazione e quindi in ultimo una possibile limitazione sulla crescita economica;

dall’altra privilegiare un'imposizione fiscale sui redditi medio-bassi ovvero sul ceto medio preservando gli investimenti da parte della classe imprenditoriale, ma con possibili conseguenze negative sui consumi cioè sulla domanda e quindi conseguentemente una limitazione sull'offerta e sulla crescita economica stessa.

Nel mezzo ovviamente sono possibili varie situazioni intermedie di compromesso.

Tuttavia diversi economisti fanno notare come sia preferibile stimolare una crescita economica dal basso ovvero favorendo i consumi, e quindi abbassando la pressione fiscale sui meno abbienti, piuttosto che stimolarla dall'alto favorendo investimenti e innovazione cioè diminuendo la pressione fiscale sui più abbienti (tra cui la classe imprenditoriale) in quanto l'innovazione senza consumi non porterebbe ad alcuna reale crescita per semplice calo della domanda.

Robert Lucas 

 Nobel per l'economia 1995

Robert Emerson Lucas (Yakima, 5 settembre 1937) è un economista statunitense.

Si laureò in storia nel 1959 e ottenne successivamente un Ph.D. in Economia nel 1964, entrambi i titoli conseguiti all'Università di Chicago. Ha insegnato alla Carnegie Mellon University fino al 1975, per tornare poi a quella di Chicago.

È stato probabilmente uno degli economisti più influenti dagli anni settanta, ha contrinuito a cambiare i fondamenti della teoria macroeconomica, argomentando che un modello macroeconomico deve contenere fondamenti microeconomici. È conosciuto, in primo luogo, per le sue ricerche circa le implicazioni nell'assumere le "aspettative razionali". Ha sostenuto la visione del ciclo economico come equilibrio dinamico. Ha sviluppato il concetto della critica di Lucas sulla politica economica, sostenendo che le relazioni tra parametri che sembrano rimanere stabili, come per esempio l'apparente relazione tra inflazione e disoccupazione, mutano in funzione dei cambi della politica economica. Ha aiutato lo sviluppo del modello delle Isole-Lucas, il quale suggerisce che la produzione può aumentare in seguito alla politica monetaria inattesa poiché i produttori scambiano l'aumento del livello generale dei prezzi per un aumento del prezzo del bene che producono.

Nuova macroeconomia classica

La nuova macroeconomia classica emerge come scuola di macroeconomia durante gli anni settanta. Opposta all'economia Keynesiana, costruì la propria analisi interamente su modelli di economia neoclassica. Specificatamente la nuova macroeconomia classica (NMC) sottolinea l'importanza delle azioni dei singoli individui quali agenti razionali, che basano le proprie scelte su modelli microeconometrici. La Nuova economia keynesiana si sviluppa in risposta alle assunzioni delle nuova macroeconomia classica.

Alcune assunzioni sono comuni alla gran parte dei modelli della NMC. Innanzitutto si assume che tutti gli agenti sono razionali (tentano quindi di massimizzare la propria utilità) e possiedono delle aspettative razionali. Inoltre si assume che la macroeconomia ha un unico equilibrio di piena occupazione, che è stato raggiunto attraverso un aggiustamento dei prezzi e dei salari.

La nuova macroeconomia classica è stata anche pioniera nell'uso di modelli con l'agente rappresentativo.

Il più famoso modello neoclassico è quello della Real Business Cycles, sviluppato da Robert Lucas, Finn Kydland, e Edward C. Prescott, costruito sull'idea di John Muth.

Arthur Laffer

Arthur Betz Laffer (Youngstown, 14 agosto 1940) è un economista statunitense, sostenitore della teoria dell'offerta, che divenne molto influente negli anni dell'amministrazione Reagan, tanto da esserne uno dei massimi consiglieri economici negli anni della sua presidenza..

Contributo all'economia

Laffer è conosciuto principalmente per la sua curva di Laffer. La curva ipotizza che se la pressione fiscale è troppo alta, le entrate fiscali calano, in virtù dei disincentivi a aumentare -in presenza di aliquote elevate- l'attività lavorativa. Sebbene non rivendichi la paternità di questo concetto, rimane popolare un incontro con esponenti repubblicani prima delle elezioni presidenziali del 1980. Leggenda vuole che Laffer incontrò Reagan in un ristorante e, scarabocchiando la curva su un tovagliolo, lo convinse della bontà della propria teoria. Gli economisti simpaticamente parlano di questo tovagliolo come il "tovagliolo di Laffer of eponymity."

I fatti hanno dimostrato che le entrate fiscali, in seguito alla riduzione delle aliquote operata dall'amministrazione Reagan, sono diminuite fortemente nel breve periodo fino ad aumenta altrettanto fortemente sul lungo.

Il termine "curva di Laffer" fu coniato da Jude Wanniski (giornalista del Wall Street Journal), anch'egli presente a quell'incontro. Il concetto di base non è rivoluzionario: lo stesso Laffer affermò di averlo appreso da John Maynard Keynes. Il senso della teoria è che le entrate fiscali sarebbero nulle sia con un'aliquota dello 0% oppure con quella massima del 100%, e di conseguenza tra 0% e 100% c'è un'aliquota che massimizza le entrate totali. L'aspetto innovativo introdotto da Laffer era pensare che il livello fiscale che massimizza le entrate fosse molto più basso di quanto supposto in precedenza. Prima della teoria di Laffer, era convinzione diffusa che l'aliquota più redditizia per l'erario fosse approssimativamente vicina al 100%.

Amartya Sen

 Nobel per l'economia 1998

Amartya Kumar Sen (Santiniketan, 3 novembre 1933) è un economista indiano, Premio Nobel per l'economia nel 1998, Lamont University Professor presso la Harvard University.

Biografia

Nato nello stato indiano del Bengala Occidentale, all'interno di un campus universitario, da una famiglia originaria dell'odierno Bangladesh, dopo gli studi al Presidency College di Calcutta ha conseguito il PhD al Trinity College di Cambridge . Ha insegnato in numerose e prestigiose università tra le quali Harvard, Oxford e Cambridge. È stato, inoltre, docente presso la London School of Economics . È membro del Gruppo Spinelli per il rilancio dell'integrazione europea.

Rapporto tra etica ed economia

Partendo da un esame critico dell'economia del benessere, Sen ha sviluppato un approccio radicalmente nuovo alla teoria dell'eguaglianza e delle libertà. In particolare, Sen ha proposto le due nuove nozioni di capacità e funzionamenti come misure più adeguate della libertà e della qualità della vita degli individui. Sen elabora la teoria dei funzionamenti, che si pone come alternativa alle più consuete concezioni del well-being economico come appagamento dei desideri, felicità o soddisfazione delle preferenze, (comunemente etichettate come concezioni welfariste o benesseriste, di cui uno degli esempi più noti è l'utilitarismo). "Il welfarismo è la visione secondo cui la bontà di una certa situazione può essere interamente giudicata dalla bontà delle utilità di quella situazione, l'utilitarismo è un caso speciale di welfarismo. Mentre i suddetti approcci privilegiano aspetti soggettivi del well-being, la visione dei funzionamenti si basa sulla realizzazione di certe dimensioni oggettive, definite da Sen come stati di fare o di essere, o genericamente funzionamenti, che sono dei risultati acquisiti dall'individuo su piani come quello della salute, della nutrizione, della longevità, dell'istruzione." Sen intende quindi proporre, in contrasto con una teoria del benessere sociale centrata sull'appagamento mentale soggettivo e non coincidente necessariamente con livelli adeguati di vita, una prospettiva tesa all'effettiva tutela di aspetti centrali dei diritti umani. La scienza economica tende da tempo a spostare l'attenzione dal valore delle libertà a quello delle utilità, dei redditi e della ricchezza.

Leggiamo in Lo sviluppo è libertà: "I livelli di reddito della popolazione sono importanti, perché ogni livello coincide con una certa possibilità di acquistare beni e servizi e di godere del tenore di vita corrispondente. Tuttavia accade spesso che il livello di reddito non sia un indicatore adeguato di aspetti importanti come la libertà di vivere a lungo, la capacità di sottrarsi a malattie evitabili, la possibilità di trovare un impiego decente o di vivere in una comunità pacifica e libera dal crimine."

Sen sottolinea la sterilità, sotto il profilo teorico, della prospettiva di discorso utilitarista affermando la necessità di mediare tra quest'ultima e una dottrina fondata sui diritti. Per l'utilitarismo ciò che conta sono gli stati di cose, la sua è un'impostazione aggregativa, non è sensibile a come le utilità sono di fatto distribuite, ma si concentra esclusivamente sull'utilità complessiva, tralasciando l'importanza dell'individuo come tale che diviene un 'tramite per progetti collettivi'. Sen è d'accordo con John Rawls, il quale richiede l'uguaglianza dei diritti e doveri fondamentali e sostiene in contrapposizione con l'utilitarismo che le ineguaglianze economiche e sociali sono ammesse, cioè sono giuste, ma non se avvantaggiano pochi, molti o anche i più tralasciando coloro che si trovano nelle situazioni più precarie. Il fatto che esistano degli svantaggiati è, per Rawls, un dato di fatto, ma è necessario che le istituzioni usino dei criteri che risultino compensativi rispetto a tali situazioni, egli valuta quindi il miglioramento del benessere sociale non in base allo sviluppo del benessere generale, ma soprattutto in base a quello dei più svantaggiati, senza alcuna polemica per il fatto che questo possa portare anche al miglioramento delle posizioni più avvantaggiate.

Sen utilizza il concetto di attribuzioni per indicare l'insieme dei panieri alternativi di merci su cui una persona può avere il comando in una società, usando l'insieme dei diritti e delle opportunità. Tale concetto può essere usato per spiegare le morti causate dalle carestie: le modeste attribuzioni di una parte della popolazione espone queste persone ai rischi della carestia benché il paese a cui appartengono possieda risorse alimentari sufficienti a sfamarli. Il concetto di capacità indica l'abilità di fare cose. Dall'espansione delle capacitazioni dipende per Sen lo sviluppo economico. Le attribuzioni sostanziano le capacità. L'uso di queste categorie ha spiegato perché l'India è stata capace di combattere le carestie meglio della Cina, che a sua volta si è dimostrata più abile nel combattere la povertà e la fame endemica.

In India le opposizioni e la stampa hanno indotto i governi a intervenire per affrontare le carestie, che hanno provocato molti più morti in un paese privo di una opposizione e di una stampa libera qual è la Cina, dove politiche sbagliate non sono state corrette in conseguenza di critiche insistenti. La struttura economica capitalista dell'India d'altra parte ha fatto sì che mancasse qualsiasi tutela per la qualità della vita della popolazione più povera, e mentre in Cina si istituivano ambulatori rurali e la lunghezza della vita aumentava ciò in India non accadeva.

« sembra che l'India riesca a riempire ogni otto anni il suo armadio di più scheletri di quanti la Cina non ve ne abbia stipati nei suoi anni di vergogna [1958-61] »

Il merito di Sen è di aver usato nuove categorie, capaci di superare i limiti delle analisi economiche tradizionali. Grazie agli studi di Sen si viene infatti a delineare un nuovo concetto di sviluppo che si differenzia da quello di crescita. Lo sviluppo economico non coincide più con un aumento del reddito ma con un aumento della qualità della vita. Ed è proprio l'attenzione posta sulla qualità, più che sulla quantità, a caratterizzare gli studi di questo economista. È stato tuttavia, anche sulla base di dati FAO, un limite di Sen di non aver previsto il cambiamento dello scenario mondiale, che ha portato ad un aumento del prezzo delle derrate agricole e a un accentuarsi del pericolo di una nuova era di carestia.

Il paradosso di Sen

Prendendo spunto dal teorema dell'impossibilità di Arrow, Sen dimostra che, in uno stato che voglia far rispettare contemporaneamente efficienza paretiana e libertà, possono crearsi delle situazioni in cui al più un individuo ha garanzia dei suoi diritti. Egli dunque dimostra matematicamente l'impossibilità di perseguire l'efficienza ottimale, secondo Vilfredo Pareto, e insieme il liberalismo. Il paradosso è analogo a quello di Arrow sulla democrazia. Come per quest'ultimo, sono possibili alternative sociali che non ne sono soggette, ma richiedono l'abbandono dell'una o dell'altra assunzione.

Prendiamo l’esempio di Sen del libro licenzioso. Ci sono due individui (chiamiamoli Andrea e Giorgio) e tre possibilità (1: Andrea legge il libro, 2: Giorgio legge il libro, 3: nessuno legge il libro). Andrea è un puritano e preferisce che nessuno legga il libro (possibilità 3) ma, come seconda possibilità, preferisce leggere lui il libro affinché Giorgio non possa leggerlo. Abbiamo dunque 3 preferito a 1 e 1 preferito a 2. Giorgio trova piacere ad imporre la lettura a Andrea. Preferisce 1 a 2 e 2 a 3. Secondo il principio dell’ottimo paretiano, se si deve scegliere tra 1 e 2, bisogna scegliere 1 poiché per le due persone 1 è preferito a 2.

Una società liberale non vuole imporre la lettura a Andrea e perciò 3 è preferito a 1. Essa lascia inoltre che Giorgio legga il libro (2 è preferito a 3). Abbiamo dunque 2 preferito a 3 e 3 preferito a 1. Questo risultato è contrario al principio dell’ottimo paretiano poiché, come abbiamo visto, 1 è preferito a 2. Sen intitola il suo articolo "sull'impossibilità di un liberale paretiano".

L'importanza della negazione dell'ottimo paretiano consiste nel superamento del concetto che il solo mercato basti per sviluppare una società liberista, derivato dal teorema di Arrow che fa da base anche per il lavoro di Herbert Scarf sul disequilibrio dei mercati lasciati a sé.

Fallimento del mercato

In economia, viene chiamata fallimento del mercato quella situazione in cui - a detta di taluni autori - i mercati non sarebbero in grado di organizzare la produzione in maniera efficiente, o non saprebbero allocare efficientemente beni e servizi ai consumatori. Dal punto di vista di tali economisti di scuola dirigista, il termine si riferisce normalmente a situazioni in cui l'inefficienza risultante sarebbe notevole, o quando istituzioni esterne al mercato e implicanti l'uso della forza potrebbero essere impiegate per raggiungere un risultato preferibile. Nel linguaggio di tutti i giorni, d'altra parte, il termine è impropriamente utilizzato per designare le situazioni in cui le forze di mercato non appaiono servire ciò che è definito quale interesse pubblico.

La situazione in cui il mercato risulta incapace di pervenire ad una allocazione efficiente delle risorse si verifica quando viene violata anche una sola delle condizioni di validità del 1º Teorema dell'Economia del Benessere di Vilfredo Pareto.

Le condizioni di validità del 1º Teorema di Pareto sono:

Gli agenti devono operare come price-takers

Completezza dei mercati e assenza di esternalità

Assenza di beni pubblici

Assenza di asimmetrie informative

Se queste condizioni sono rispettate, l'equilibrio (economico generale) è unico. Nel caso in cui in un'economia di mercato venga violato uno di questi principi, secondo Pareto è da ritenersi giustificato l'intervento pubblico.

Il teorema del benessere invece dice che:

Se sono soddisfatte le precedenti condizioni allora l'equilibrio è efficiente, cioè non si può fare di meglio.

Date le condizioni sopra citate, la configurazione dell'economia che dà il massimo benessere si può ottenere sempre da un'economia di mercato.

Costi e benefici esterni al mercato

Una prima fonte di fallimenti del mercato sarebbe legata alla presenza di costi e/o benefici esterni al mercato stesso. Esempi sono dati da:

Assenza di concorrenza

Esternalità

Beni pubblici

Mancanza di definizione di diritti di proprietà

Asimmetrie informative, e problemi di:

Selezione avversa

Azzardo morale

Problemi principale-agente

Tra le strategie sviluppate per mitigare gli effetti di tali imperfezioni, si è proposto l'intervento di istituzioni esterne al mercato, quali regolamentazione centralizzata tramite l'azione del governo o dello Stato, la tradizione, la democrazia, nonché un'estensione dei diritti di proprietà a entità che nella tradizione giuridica degli ultimi secoli non potrebbero formarne oggetto, quali ad es. l'aria pulita; si veda al riguardo il teorema di Coase.

Assenza di concorrenza

Negli schemi teorici dell'economia neoclassica, una concorrenza non perfetta limita la capacità del mercato di allocare le risorse in maniera efficiente, causandone il fallimento. Esempi di strutture di mercato subottimali sono dati da:

Concorrenza non perfetta:

Potere di mercato

Monopolio

Monopsonio

Oligopolio

Oligopsonio

Concorrenza monopolistica

Curva del costo medio di lungo periodo decrescente e monopolio naturale

Discriminazione di prezzo

Informazione asimmetrica

Per esempio nel mercato dei Bidoni (lemons) l'acquirente non ha tutte le informazioni. Supponendo che nel mercato vi sia il 50% di bidoni il cui valore è appunto 100 e il 50% di macchine di alta qualità il cui valore è 200, un individuo ragionevole sarebbe disposto a pagare non più di 150 (100*1/2)+(200*1/2)= 150. Per la selezione avversa le macchine di alta qualità verranno ritirate dal mercato. La selezione avversa procederà fino all'eliminazione di tutte le macchine dal mercato. Per far sì che il mercato non si estingua si possono creare dei meccanismi che cerchino di tutelare l'informazione (in questo caso rivenditori specializzati, esperti, ecc.)

Società di assicurazioni: ipotizziamo che una società stipuli polizze contro la malattia e la popolazione sia idealmente divisa tra popolazione incline alle malattie e popolazione con bassa probabilità di malattie: se l'informazione fosse completa, questo farebbe sì che solo le persone inclini ad ammalarsi stipulerebbero la polizza. Gran parte degli assicurati dovrebbe essere risarcito e ciò comporterebbe il fallimento della società assicurativa.

Quindi le compagnie si tutelano con la Discriminazione dei prezzi (ciò è anche agevolato nel caso delle assicurazioni su vetture, che sono obbligatorie).

Mercato del lavoro: il datore di lavoro ha davanti a sé aspiranti dipendenti stakanovisti e fannulloni: per non rischiare gli converrà stipulare un salario basso: solo i fannulloni saranno disposti ad accettare, mentre gli stakanovisti rifiuteranno. Il potere di decisione è in fin dei conti in mano al datore di lavoro.

Moral Hazard: Una chiave per l'eliminazione dell'azzardo morale è l'esistenza di incentivi a comportarsi correttamente (vedi società per azioni)

Souvenir: dato che i turisti difficilmente conoscono il prezzo normale dei souvenir, i venditori furbi sfruttano l'asimmetria informativa e alzano il prezzo per guadagnare molto di più degli altri. La soluzione è fornire informazione simmetrica e completa.

Esternalità

. Essi sono effetti positivi o negativi che le azioni di un agente economico hanno sul benessere di un altro soggetto e che non sono regolati dal meccanismo dei prezzi.

Consideriamo il caso di Esternalità negativa, come per esempio l'inquinamento. Le possibili soluzioni all'inquinamento sono:

Proibizione: è difficile stabilire il limite rispetto all'ottimo locale"

Tasse: è difficile stabilire comunque il valore delle aliquote.

Una buona soluzione sarebbe fondere le due precedenti poiché si terrebbe conto di entrambe le esigenze.

Voucher: detti anche buoni determinano il diritto di inquinare fino ad una certa quantità (metodo americano). Se il mercato funziona bene ci si scambia i voucher fino al raggiungimento del massimo guadagno. (questa è la soluzione efficiente al problema delle esternalità).

Interpretazioni

Il tema dei fallimenti del mercato (ipotetici o reali che siano) e di come bisognerebbe affrontarli è fonte di un vivace dibattito tra le diverse scuole del pensiero economico e del diritto.

Scuola neoclassica

Tutte le situazioni menzionate sopra si riferiscono a casi in cui il mercato dà adito a inefficienze; questo punto di vista segue la prospettiva della scuola di pensiero attualmente dominante in ambito accademico, la scuola neoclassica. Sotto tale prospettiva, se un risultato è efficiente in senso paretiano, non è considerato un fallimento del mercato, a prescindere dal fatto che serva o meno l'interesse pubblico, in qualunque modo quest'ultimo sia definito. Dunque in quest'ottica è possibile arrecare danno al pubblico interesse anche in assenza di fallimenti del mercato.

Ad esempio, diversi osservatori considererebbero l'esistenza di notevoli disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza e del reddito come un elemento contrario al pubblico interesse; tuttavia tale risultato può essere efficiente in senso paretiano. Si pensi al caso in cui tutta la ricchezza di un'economia sia sotto il controllo di un singolo individuo, e tutti gli altri individui non possiedano nulla. Evidentemente, non è possibile migliorare la posizione di questi ultimi senza peggiorare quella dell'individuo che detiene tutta la ricchezza; dunque la situazione di partenza è un ottimo paretiano, e una redistribuzione volta a ridurre la disuguaglianza, paradossalmente, sarebbe inefficiente sotto il profilo paretiano. Dal punto di vista neoclassico, il tema della disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza originante dal passato di un'economia è completamente separato dal problema del fallimento del mercato, almeno in un'analisi di tipo statico.

Questo risultato non è necessariamente vero nel caso di modelli di sapore neoclassico che esplicitamente incorporino una particolare dinamica. In particolare, diversi economisti neoclassici sono propensi a vedere un fallimento del mercato in quelle situazioni in cui il libero operare delle forze di mercato conduce a una crescente disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. L'abilità di coloro che detengono una quota maggiore di ricchezza di usare il proprio potere economico per incrementarla, nello specifico, costituirebbe nella prospettiva di diversi ricercatori un fallimento del mercato.

Scuola keynesiana/neokeynesiana

La moderna, specialmente nelle varietà keynesiana e neokeynesiana affermatesi a metà del XX secolo, applica il punto di vista neoclassico, interpretando l'incapacità di conseguire il pieno impiego delle risorse (così come per la legge di Say) nei termini delle teorie del fallimento del mercato. Una volta modificato per tener conto dei fallimenti del mercato, il modello Walrasiano di equilibrio economico generale in genere produce risultati dal sapore keynesiano. Nella prospettiva della nuova macroeconomia keynesiana, si pone l'accento sui ritardi nell'aggiustamento di grandezze quali prezzi e (soprattutto) salari.

Scuole austriaca e della public choice

Diversi sostenitori del laissez faire in economia, come i liberisti e gli economisti della scuola austriaca, sovente negano l'esistenza di fallimenti del mercato, o le considerano accidentali, irrilevanti, temporanee. Ad esempio, il problema delle esternalità è visto quale effetto di fallimenti dello Stato, che da un lato ha assorbito in sé il diritto e al tempo stesso non appare in grado di tutelare i legittimi diritti di proprietà.

Gli economisti della scuola della public choice argomentano che il fallimento del mercato non implica necessariamente la necessità o l'opportunità dell'intervento del governo, in quanto i costi legati ai fallimenti del governo potrebbero essere maggiori di quelli legati al fallimento del mercato che si cerca di mitigare. Il fallimento del governo è visto come il risultato di problemi inerenti alla democrazia, nonché del potere di gruppi di potere che cercano posizioni di rendita (rent seekers), nel settore privato come nella burocrazia governativa.

Agli occhi di queste scuole, i fallimenti del mercato sono letti soprattutto come assenze di mercato. In alternativa, si argomenta che i risultati chiamati "fallimenti del mercato" non sarebbero in realtà tali, se la presenza di mercati non ne evita lo sviluppo. Inoltre, condizioni che molti considererebbero negative sono spesso viste come effetti della distorsione delle forze del mercato da parte dell'intervento dello Stato.

Laddove alcuni considererebbero una forte concentrazione nella distribuzione della ricchezza un "fallimento del mercato", la risposta della scuola liberale del laissez faire è che l'obiettivo di distribuire uniformemente la ricchezze non è assolutamente legato a quello di istituire un mercato. Quanto sono critici di questa posizione replicano proponendo le tesi più classiche della prospettiva statalista e domandando chi, in primo luogo, determini lo scopo dei mercati; ad esempio, i programmi di privatizzazione, ossia la sostituzione di imprese statali che operano in condizioni di monopolio legale con imprese non statali soggette alla concorrenza, rifletterebbe semplicemente l'influenza politica di gruppi di interesse che vedrebbero delle opportunità di profitto nel ricorso al mercato, nonché dell'ideologia che caratterizza potenti organizzazioni come il Fondo Monetario Internazionale, che in realtà sono comunque espressione dei governi e quindi tutt'altro che orientate verso posizione liberiste. Al posto di un programma di governo, che in linea di principio rifletterebbe il volere, democraticamente espresso, dei cittadini, per questi autori statalisti il risultato sarebbe essenzialmente un monopolio nelle mani del settore privato, in combutta con insider del mondo politico, un tipo di capitalismo che la maggior parte degli economisti, e soprattutto quelli per il laissez-faire, osteggia.

Scuole socialdemocratiche e neoliberali

Altri, come i socialdemocratici o i neoliberali, vedono nei fallimenti del mercato un problema comune a qualsiasi sistema di mercato non regolamentato, a conseguentemente argomentano in favore dell'intervento dello Stato nell'economia, al fine di assicurare al contempo l'efficienza e la giustizia sociale (quest'ultima solitamente interpretata in termini di limite alle disuguaglianze di ricchezza e reddito). Sia la verificabilità all'interno di un sistema democratico di tale regolamentazione che le capacità tecnocratiche degli economisti giocherebbero un ruolo importante nel definire il tipo e l'intensità dell'intervento.

Un rilevante argomento contro tali tesi è che esse riporrebbero troppa fiducia nella buona fede del governo e/o nella capacità dei cittadini di controllarne l'operato con strumenti democratici. Come osservato, i sostenitori del laissez-faire vantano numerosi esempi di fallimento del governo, in cui l'internvento dello Stato o del governo nei mercati ha prodotto risultati peggiori. Socialdemocratici e neoliberali replicano che si dovrebbe ricercare una combinazione ottimale di mercato e Stato, alla luce dei fallimenti di entrambi. Naturalmente, dal punto di vista della maggioranza degli economisti mainstream (il cosiddetto Washington consensus) i mercati non esisterebbero se lo Stato non fosse garante dei diritti di proprietà e dei contratti, per cui nella loro prospettiva l'idea di un mercato completamente libero ed in cui proprietà e contratti siano tutelati grazie ad agenzie private in concorrenza non è nemmeno immaginabile.

Scuola marxista

In generale, la scuola marxista considera il sistema dei diritti di proprietà un fondamentale problema in sé, e sostiene che le risorse dovrebbero essere allocate in altra maniera (di solito, democraticamente, o assegnate da un pianificatore centrale, o comitato di pianificazione, che dovrebbe essere democraticamente responsabile nei confronti del popolo). Ciò è intrinsecamente diverso da concetti di fallimento del mercato incentrati su situazioni specifiche - tipicamente intese come "anomale" - ed in cui i mercati producono risultati inefficienti. La scuola marxista, in prima approssimazione, sostiene che 'qualunque' mercato conduce a un risultato inefficiente e non auspicabile in un ordinamento democratico.

In altre parole, la scuola di pensiero marxista considera il fallimento del mercato inerente a qualunque economia capitalista. Ad ogni modo, quantunque i marxisti siano per l'abolizione del capitalismo, il fallimento del mercato non rientra in genere tra le loro argomentazioni a sostegno di tale posizione, preferendo essi basarsi su altre argomentazioni. Il marxismo non individua nel "mercato perfetto" (senza, cioè, fallimenti) un obiettivo ragionevole. Inoltre, afferma l'esistenza di sfruttamento capitalista, conflitto di classe, e crisi economiche anche in un contesto di mercati "perfetti". Vengono, per contro, messi in risalto i temi della disuguaglianza nella ricchezza e della sua entità, nonché quello collegato, delle disuguaglianze nel potere all'interno della società.

Sebbene non discuta esplicitamente il tema dei fallimenti del mercato, la scuola marxista non manca di osservare che i leader di governo e coloro che traggono beneficio dai fallimenti del mercato (titolari di imprese che inquinano, monopolisti, etc.) spesso formano alleanze, così che il governo non è un potere neutrale, in grado di apportare soluzioni tecnocratiche nel nome del popolo. La stessa democrazia "formale" spesso è solo la maschera dietro cui vi è il dominio della borghesia. Sotto questa prospettiva, il fallimento del mercato accompagnerebbe quello del governo. Soltanto la pressione popolare sia sul governo che sulle imprese capitaliste che si avvantaggiano del fallimento del mercato, insieme all'azione rivoluzionaria di piccoli gruppi organizzati (avanguardie del proletariato), possono modificare la situazione ed eliminare i problemi legati ai fallimenti del mercato. I critici di tale posizione obiettano però che laddove il comunismo si è realizzato, esso si è subito trasformato in un dominio di un piccolo gruppo (Nomenklatura) senza alternative e senza concorrenti, oltre che sottratto ad ogni ordinamento giuridico di carattere generale. In questo senso tale critica ai "fallimenti del mercato", secondo gli avversari del marxismo, sarebbe perfettamente funzionale ad un dominio dispotico e porrebbe le premesse per ben più gravi "fallimenti di Stato".

Joseph Stiglitz

 Nobel per l'economia 2001

Joseph Eugene Stiglitz (Gary, 9 febbraio 1943) è un economista e saggista statunitense.

Biografia

Stiglitz è nato a Gary, nell'Indiana, da Charlotte e Nathaniel Stiglitz. Dal 1960 al 1963, studia all'Amherst College, poi si trasferisce al MIT per il suo quarto anno come undergraduate e in seguito per conseguirvi la laurea. Dal 1965 al 1966 riceve una borsa di studio (la "Fulbright Fellowship") che gli permette di frequentare l'università di Cambridge. Negli anni successivi, insegna al MIT e alla Yale. Attualmente insegna alla "Graduate School of Business" presso la "Columbia University". Dal 3 ottobre 2003 è membro della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali. Dal 2005 presiede il "Brooks World Poverty Institute", nella School of Environment and Development, University of Manchester.

Oltre a produrre influenti contributi nel campo della microeconomia, Stiglitz ha rivestito ruoli rilevanti nella politica economica. Ha lavorato nell'amministrazione Clinton come Presidente dei consiglieri economici (1995 – 1997). Alla Banca Mondiale, è stato Senior Vice President e Chief Economist (1997 – 2000), prima di essere costretto alle dimissioni dal Segretario del Tesoro Lawrence Summers.

Il contributo più famoso di Stiglitz alla teoria economica riguarda lo screening, una tecnica usata da un agente economico che voglia acquisire informazioni - altrimenti private - da un altro. È per questo contributo alla teoria delle "asimmetrie informative" che ha condiviso il premio Nobel con George A. Akerlof e A. Michael Spence.

In linea con le sue pubblicazioni economiche tecniche, Stiglitz è l'autore di "Whither Socialism", un libro divulgativo che fornisce un'introduzione alle teorie circa il fallimento economico del socialismo nell'Europa dell'est, il ruolo dell'informazione imperfetta nei mercati e le concezioni erronee su quanto sia realmente libero il mercato nel sistema capitalista-liberista.

Nel 2002 pubblica "Globalization and Its Discontents" ("La globalizzazione e i suoi oppositori", Einaudi), dove analizza gli errori delle istituzioni economiche internazionali – e in particolare del Fondo Monetario Internazionale – nella gestione delle crisi finanziarie che si sono susseguite negli anni novanta, dalla Russia ai paesi del sud est asiatico all'Argentina. Stiglitz illustra come la risposta del FMI a queste situazioni di crisi sia stata sempre la stessa, basandosi sulla riduzione delle spese dello Stato, una politica monetaria deflazionista e l'apertura dei mercati locali agli investimenti esteri. Tali scelte politiche venivano di fatto imposte ai paesi in crisi ma non rispondevano alle esigenze delle singole economie, e si rivelavano inefficaci o addirittura di ostacolo per il superamento delle crisi.

Riceve la laurea honoris causa in economia e commercio nell'anno accademico 2003/2004 presso l'Università degli Studi di Bergamo dove nel 1979 anche il suo maestro Franco Modigliani la ricevette. Il 5 febbraio 2010, nel corso della cerimonia d'inaugurazione dell’anno accademico 2009/2010 della LUISS Guido Carli, gli è stata conferita la laurea honoris causa in economia.

Stiglitz afferma che il Fondo Monetario Internazionale, perseguendo il cosiddetto "Washington consensus", non protegge le economie più deboli né garantisce la stabilità del sistema economico globale, ma fa in realtà gli interessi del suo "maggiore azionista", gli Stati Uniti, a discapito di quelli delle nazioni più povere. Le argomentazioni di Stiglitz sono particolarmente degne di attenzione perché provengono da un economista inserito nelle istituzioni finanziarie internazionali, e contribuiscono a spiegare perché la globalizzazione ha generato l'opposizione dei movimenti sociali che hanno organizzato le proteste di Seattle e Genova (luglio 2001, v. Fatti del G8 di Genova).

Nel 2011 appoggia e partecipa al movimento Occupy Wall Street sostenendo che Wall Street "nazionalizza le perdite e privatizza i guadagni" usando le stesse parole di Andrew Jackson.

Nel 2012 afferma, riguardo al "salvataggio" economico della Grecia, che l'ISDA (International Swaps and Derivatives Association), un'organizzazione di privati, condiziona fortemente le politiche economiche della BCE.

Asimmetria informativa

L' asimmetria informativa è una condizione in cui un'informazione non è condivisa integralmente fra gli individui facenti parte del processo economico, dunque una parte degli agenti interessati ha maggiori informazioni rispetto al resto dei partecipanti e può trarre un vantaggio da questa configurazione.

Il concetto viene usato e studiato in economia, dove si suppone la presenza di asimmetrie informative per spiegare i differenti comportamenti dei soggetti economici.

La presenza di asimmetrie informative spiega per esempio perché i risparmiatori preferiscono ricorrere ai servizi di investimento offerti dalle banche benché siano costosi. Rispetto ai risparmiatori, le banche possiedono infatti informazioni migliori su un maggior numero di possibili investimenti. La minore conoscenza da parte del risparmiatore lo induce quindi a ricorrere a un operatore specializzato nella raccolta e nell'elaborazione delle informazioni circa i possibili modi di investire il denaro.

Gli azionisti di una società vorranno certamente assumere il miglior manager sul mercato con il compito di gestire l'azienda e definire i piani in difesa dei loro interessi. Noteremo la presenza di un accesso differenziato alle informazioni: da un lato gli azionisti non sono in grado di valutare le capacità manageriali dell'agente prima della sua assunzione (adverse selection o selezione avversa), dall'altro non hanno un controllo puntuale sulle sue azioni e decisioni (azzardo morale o moral hazard). Se il manager viene pagato a stipendio fisso, il suo interesse è quello di minimizzare gli sforzi e, in mancanza di variabili o elementi verificabili su cui fondare un contratto ottimale, cercherà di sfruttare il "vantaggio informativo" per incrementare la sua utilità a scapito di quella degli azionisti. Quindi la selezione avversa è un opportunismo pre-contrattuale, invece l' azzardo morale è un opportunismo post-contrattuale.

Il vantaggio informativo condiziona la definizione delle caratteristiche del contratto ottimale tra il principale (colui che propone il contratto) e l'agente (colui che può accettare o rifiutare). Se le parti avessero interessi comuni, tutte le informazioni rilevanti verrebbero immediatamente scambiate e ogni asimmetria informativa cesserebbe di esistere. Quando una delle parti contrattuali possiede maggiori o migliori informazioni sulla disponibilità a pagare dell'avversario, questa asimmetria si riflette sulla capacità di influenzare a proprio favore il prezzo. Potere informativo è quindi sinonimo di potere contrattuale ed economico.

L'asimmetria informativa si presenta generalmente nei casi di:

1. Selezione avversa (o adverse selection)

2. Segnalazione e Selezione

3. Azzardo morale (o moral hazard)

Selezione avversa

La selezione avversa è un problema di opportunismo pre-contrattuale e sorge a causa delle informazioni private che i clienti delle assicurazioni hanno prima dell'acquisto della polizza e nel momento in cui la considerano conveniente.

Il termine è stato coniato nel settore delle assicurazioni. Le persone che acquistano un'assicurazione non rappresentano un campione casuale della popolazione, ma piuttosto un gruppo di individui con informazioni private sulla loro situazione privata, pertanto è probabile che queste persone ricevano un livello di rimborsi/pagamenti più elevato della media.

Se ad esempio una compagnia di assicurazioni voglia emettere una polizza individuale che copra i costi medici riguardanti il parto e la maternità, sicuramente è facile prevedere che la polizza sarà acquistata da una percentuale più che proporzionale delle donne in progetto di avere figli nell'immediato futuro. Quindi la pianificazione della maternità rappresenta la caratteristica inosservata del compratore di una polizza che ha notevole impatto sui costi di assicurazione. Quindi una copertura universale funziona meglio di quella individuale.

Studiata inizialmente da Akerlof, per il mercato delle auto usate, negli anni settanta, il caso di selezione avversa è un tipico caso che, oggi, interessa soprattutto il mercato assicurativo. In questo settore i ricavi sono corrisposti anticipatamente al verificarsi dell'evento e la non conoscenza dell'effettivo manifestarsi dell'evento determina incertezza nella quantificazione del prezzo da attuare. Il prezzo attuariale deve corrispondere al costo medio atteso dell'evento dannoso che non essendo prevedibile in maniera certa, poiché il grado di rischiosità dell'assicurato è noto solo a quest'ultimo, condurrà a una situazione di inefficienza.

Infatti, l'assicuratore è costretto a fissare il premio sulla base di una probabilità media del verificarsi dell'evento. Da un lato questo premio sarà troppo alto per individui con un basso grado di rischiosità che decideranno quindi di non assicurarsi. Dall'altro lato, questo sarà vantaggioso per coloro che presentano alti profili di rischiosità che quindi saranno gli unici a sottoscrivere il contratto assicurativo. Tutto ciò condurrà a un aumento del verificarsi degli eventi dannosi e a un conseguente innalzamento dei livelli di premi assicurativi, con un ciclo negativo che conduce rapidamente al fallimento del mercato.

In termini analitici la situazione può essere riassunta in questo modo: supponiamo esistano due segmenti di popolazione, A e B, percepenti entrambi un reddito R. La popolazione A, il 40% del totale, ha il 60% di probabilità di ammalarsi, mentre la popolazione B, corrispondente al restante 60%, ha il 40% di probabilità di contrarre una malattia. In caso di malattia, si viene a contrarre un danno in termini economici pari a d, tale che il reddito effettivo da malati sarà Rd.

Supponiamo che l'assicurazione proponga una polizza che consente alla popolazione A e B di proteggersi completamente dal rischio di contrarre una malattia, garantendo in tal caso un risarcimento pari a S = d; supponiamo che il premio di assicurazione sia pari a una percentuale p del risarcimento, in modo tale che esso coincida con p × S.

Per la compagnia di assicurazione risulta quindi fondamentale determinare tale percentuale p. In caso di perfetta informazione (ossia l'assicurazione sa distinguere quali sono gli individui appartenenti ad A e a B), l'assicurazione farà coincidere p con la probabilità di ammalarsi di ciascun segmento di popolazione. Per A quindi il premio sarà 0,6 × S, mentre per B sarà 0,4 × S; questa soluzione soddisfa i bisogni di tutti, poiché il premio richiesto è proporzionale alla possibilità di ammalarsi, quindi sia A sia B si assicureranno.

Consideriamo un caso di asimmetria informativa: in questo caso l'assicurazione conosce solo la distribuzione percentuale di A e di B, ma non è in grado di capire a quale segmento appartenga un singolo assicurato; sarà costretta quindi a trovare una percentuale p che possa applicare a tutti senza incorrere in perdite; tale percentuale sarà la somma dei p dei singoli segmenti ponderati per l'incidenza in termini di popolazione, ossia 0,6 × 0,4 + 0,4 × 0,6 = 0,48. In questo caso però, 0,48 è maggiore della probabilità degli appartenenti a B di ammalarsi (0,4); il segmento B, quindi, troverà troppo iniquo assicurarsi e preferirà correre il rischio della riduzione del proprio stipendio causa malattia; si assicureranno quindi solo gli appartenenti ad A, che inizialmente conseguiranno un vantaggio economico, poiché p = 0,48 è minore del p = 0,6 che avrebbero avuto in caso di perfetta informazione; l'assicurazione, tuttavia, si troverà ben presto con delle perdite, poiché gli appartenenti ad A si ammalano più frequentemente della media stimata in precedenza (60% dei casi, e non il 48%): il premio p aumenterà fino ad arrivare a 0,6, scoraggiando ancora di più gli appartenenti a B ad assicurarsi e creando un effetto perverso in cui il prodotto (assicurato) "cattivo" scaccia quello "buono".

Segnalazione e Selezione

A volte l'informazione privata responsabile della selezione avversa può essere acquisita sia attraverso esami attitudinali e sulla preparazione, sia tramite l'invio del curriculum vitae. Comunque vi sono costi o limitazioni che riducono il loro utilizzo mantenendo la relazione contrattuale soggetta ad asimmetrie informative. Nelle situazioni di opportunismo pre-contrattuale, gli individui potrebbero avvantaggiarsi rivelando le loro informazioni private e certamente anche le altre parti ne trarrebbero beneficio. Le difficoltà consistono nel fatto che non esiste un metodo efficace in grado di rivelare informazioni credibili se non attraverso il tentativo delle parti non informate di ricercare le informazioni attraverso l'analisi delle dichiarazioni verificabili. La segnalazione è la strategia intrapresa dalla parte privatamente informata mentre la selezione viene intrapresa dalla sua controparte.

Azzardo morale

L'azzardo morale è una forma di opportunismo post-contrattuale che si verifica durante il rapporto assicurativo. Il consumatore, avendo stipulato un contratto che lo tutela e lo risarcisce in caso di accadimento dell'evento negativo, è portato a non usare più strumenti e accortezze cautelari che lo prevengano dall'evento. Il fatto di essere assicurato induce l'individuo a ridurre l'attività di prevenzione o parallelamente a sovrautilizzare la disponibilità di risorse a lui dovute più di quanto non necessiti.

Le precauzioni infatti non sono osservabili e verificabili, pertanto è impossibile farne oggetto di un accordo effettivamente vincolante: infatti il contratto potrebbe imporre il mantenimento di un certo comportamento, ma la compagnia di assicurazione non è in grado di verificarne il rispetto. Il moral hazard si presenta anche nella vita di tutti i giorni: se il guidatore è responsabile per tutti i danni, è probabile che guiderà una macchina noleggiata più prudentemente che nel caso fosse coperta da assicurazione.


Crisi economica del 2008-2013


La crisi economica del 2008-2013 (chiamata anche grande recessione) ha avuto avvio nel 2008 in tutto il mondo in seguito ad una crisi di natura finanziaria (originatasi negli Stati Uniti con la crisi dei subprime). Tra i principali fattori della crisi figurano gli alti prezzi delle materie prime (petrolio in primis), una crisi alimentare mondiale, un'elevata inflazione globale, la minaccia di una recessione in tutto il mondo e per finire una crisi creditizia con conseguente crollo di fiducia dei mercati borsistici. Viene considerata da molti economisti come una delle peggiori crisi economiche della storia, seconda solo alla Grande depressione iniziata nel 1929.

Alla crisi finanziaria scoppiata nell'agosto del 2007 sono seguite una recessione, iniziata nel secondo trimestre del 2008 e una grave crisi industriale (seguita al fallimento di Lehman Brothers il 15 settembre per la crisi dei subprime) scoppiata nell'autunno dello stesso anno - di proporzioni più ampie che nella Grande crisi - con una forte contrazione della produzione e degli ordinativi.

L'anno 2009 ha poi visto una crisi economica generalizzata, pesanti recessioni e vertiginosi crolli di Pil in numerosi paesi del mondo e in special modo nel mondo occidentale. Terminata la recessione nel terzo trimestre 2009, tra la fine dello stesso anno e il 2010 si è verificata una parziale ripresa economica.

Tra il 2010 e il 2011 si è conosciuto l'allargamento della crisi ai debiti sovrani e alle finanze pubbliche di molti paesi (in larga misura gravati dalle spese affrontate nel sostegno ai sistemi bancari), soprattutto ai paesi dell'eurozona (impossibilitati a operare manovre sul tasso di cambio o ad attuare politiche di credito espansive e di monetizzazione), che in alcuni casi hanno evitato l'insolvenza sovrana (Portogallo, Irlanda, Grecia), grazie all'erogazione di ingenti prestiti (da parte di FMI e UE), denominati "piani di salvataggio", volti a scongiurare possibili default, a prezzo però di politiche di bilancio fortemente restrittive sui conti pubblici (austerità) con freno a consumi e produzione e alimentazione della spirale recessiva.

Cause della crisi

A partire dalla metà degli anni settanta la deregolamentazione finanziaria, la creazione di nuovi strumenti finanziari, i progressi tecnologici nel campo dell'informatica (vd. terza rivoluzione industriale), l'aumento della frequenza dei flussi finanziari (high frequency trading) e della liquidità nell'economia internazionale (a partire dallo sganciamento dall'oro del dollaro nel 1971 e dall'aumento della massa monetaria in seguito al rialzo del prezzo del petrolio), accanto all'aumento del costo del petrolio, hanno prodotto un rafforzamento del ruolo della finanza internazionale all'interno del sistema economico (aumento del ricorso ai derivati, accordi di pagamenti il cui valore deriva dal valore di un bene o di un indice), con perno nelle maggiori piazze borsistiche globali (anche se larga importanza rivestono oggi gli spazi di contrattazione elettronici non regolamentati, detti dark pools, al di fuori dei mercati azionari, costituiti da computer e server che sfruttano particolari algoritmi), tanto che, ad oggi, il peso economico dei prodotti finanziari risulta superiore in larga misura a quello della produzione mondiale di beni e servizi.

La costituzione di fondi sovrani (strumenti finanziari a controllo pubblico che dispongono di enormi liquidità), tra cui hedge fund e private equity, attraverso l'impiego delle riserve accumulate dai paesi esportatori di petrolio e da alcuni paesi asiatici grazie ai surplus commerciali, ha determinato la creazione di forti indotti di liquidità finanziaria utilizzati per scopi speculativi.

Grazie alle politiche delle banche centrali, a partire da quelle adottate dalla FED, che favorirono il basso costo del denaro, venne incentivata una più facile erogazione del credito alle famiglie, spinte a indebitarsi in misura crescente per alimentare i consumi, e agli speculatori (banche d'investimento, imprese e fondi finanziari), portati a effettuare investimenti sui mercati finanziari (con la conseguente creazione di bolle speculative, con ricadute poi sull'economia produttiva).

Anche i grossi istituti finanziari, le banche di investimento in particolare, presero a indebitarsi a breve termine per realizzare operazioni speculative. Tutto ciò era favorito, soprattutto con riguardo alle più massicce attività di compravendita azionaria, dalla creazione di "sistemi bancari ombra" (sistemi di intermediazione creditizia costituiti da entità ed attività operanti al di fuori del normale sistema bancario), messi in opera dalle stesse banche, che sfruttavano spazi di contrattazione non regolamentati (le così dette dark pools) e specializzati nella raccolta e nell'investimento di prodotti e sotto-prodotti finanziari strutturati, oltreché derivati finanziari. A ciò va aggiunto il crescente peso esercitato dalle agenzie di rating americane (Moody's, Standard & Poor's, Fitch), spesso accusate di esprimere giudizi di valutazione del credito tendenziosi.

La fine del dollar standard e la liberalizzazione dei mercati finanziari

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Crescita del commercio globale tra il 2000 e il 2008, anno di un brusco crollo delle esportazioni.

« Alla fine degli anni Settanta l'inflazione persisteva. Aumenti delle tasse, riduzione della spesa pubblica, intervento diretto sui salari e prezzi furono tutti esclusi come rimedi. Come è stato osservato a sufficienza, rimaneva solo la politica monetaria. Perciò nell'ultima parte del decennio l'amministrazione dichiaratamente liberale del presidente Jimmy Carter negli Stati Uniti e il governo dichiaratamente conservatore del primo ministro Margaret Thatcher in Gran Bretagna avviarono una forte azione monetaristica. La Rivoluzione keynesiana fu messa in soffitta. Nella storia dell'economia l'età di John Maynard Keynes cedette il passo all'età di Milton Friedman. »

(J. K. Galbraith, Storia economica)

Tra il 1971 e il 1973, sotto la presidenza di Richard Nixon, gli Stati Uniti abbandonarono il regime di convertibilità del dollaro in oro (Gold standard), adottando un sistema fondato sull'inconvertibilità del dollaro. Gli Stati Uniti decisero quindi di lasciar fluttuare liberamente la moneta secondo la legge della domanda e dell'offerta, operando una serie di svalutazioni monetarie fino al 1973. Ciò favorì un aumento improvviso e repentino della circolazione monetaria (alimentata dall'ingente flusso di petroldollari ricavati dai paesi dell'Opec e reinvestiti sui mercati finanziari e bancari europei), che fu tra le cause, accanto al rialzo dei prezzi del greggio, del forte irrobustimento dei fenomeni inflattivi, già nondimeno verificatisi alla fine degli anni sessanta, complice anche lo shock petrolifero dello stesso 1973 (che vide aumentare di tre volte il prezzo del petrolio e fino a quattro volte nel 1979). Le teorie keynesiane in quel tempo subirono un rapido declino, sotto i colpi delle critiche e delle accuse di aver provocato stagflazione rivolte dagli economisti monetaristi (convinti, sulla base dell'equazione di Fisher, che fosse il volume di moneta a determinare i prezzi, tanto da applicare tale modello all'indirizzo delle stesse banche centrali, che tenevano alti i tassi d'interesse, nel tentativo di ridurre l'inflazione) e neoclassici (tra cui il più influente fu Milton Friedman) alla dottrina keynesiana.

L'aumento dell'inflazione durante gli anni settanta, determinato da shock di natura geopolitica legata a squilibri nell'area mediorientale e dai conseguenti rialzi dei prezzi delle commodities (del petrolio su tutte, che triplicò il suo costo nuovamente nel 1979), dalle rivendicazioni operaie e poi dalla recessione del 1975, l'emergere di teorie a supporto della liberazione da vincoli e posizioni di monopolio (specie statale, connesso ai grandi enti a controllo pubblico) dell'economia, condusse alla ribalta le teorie di matrice liberoscambista, influenzate dalle ricerche dell'Università di Chicago e dalle teorie patrocinate dagli studiosi Ludwig von Mises, Friedrich von Hayek, Alfred Edward Kahn e lo stesso Friedman. Si ritornava così a un modello economico liberista-concorrenziale che aveva già dominato la scena mondiale nei decenni precedenti la prima guerra mondiale (vd. "prima globalizzazione").


Negli Stati Uniti il processo di deregolamentazione fu portato avanti dapprima sotto la presidenza Carter, influenzato da Kahn, e poi proseguito in maniera più estesa da Ronald Reagan a partire dal biennio 1980-1981 (e contestualmente dal primo ministro Margaret Thatcher in Gran Bretagna), tanto da far parlare poi di deregulation reganiana e "reaganomics" (condotta al motto di "meno stato, più mercato" o "meno società, più individuo"). Il Federal reserve board all'epoca procedette ad innalzare al 25% la soglia di realizzo degli istituti di credito sui propri utili e a istituire il ricorso al leveraged buyout (LBO), che subì un vero boom tra 1983 e 1989. Sotto la presidenza Clinton l'amministrazione democratica interruppe nel 1999 la separazione del sistema bancario (abrogando il Glass-Steagall Act, attraverso il Gramm-Leach-Billey Act) tra attività bancaria commerciale e d'investimento (investment banking), legittimando la nascita di grandi conglomerati finanziari (Merrill Lynch, Bear Sterns, Lehman Brothers, Goldman Sachs e Morgan Stanley) e favorendo negli anni successivi la deregolamentazione del trading dei derivati e dei Credit default swap (CDS) (in particolare attraverso il Commodity futures modernization act), e il ricorso alla cartolarizzazione dei titoli obbligazionari. Nel 2000 il Commodity Futures Modernization Act, approvato dalla stessa amministrazione Clinton, deregolamentò il mercato degli strumenti derivati over the counter, non facendoli più rientrare nella vigilanza della SEC (autorità di vigilanza bancaria USA).

Le politiche di liberalizzazione finanziaria avviate nel mondo anglosassone furono immediatamente recepite dal resto del mondo sviluppato, come l'Unione Europea dove vennero compiute tra il 1985 e il 1990. Le banche centrali furono sollevate dall'obbligo di finanziare i debiti pubblici (e rese indipendenti dal potere esecutivo); allo stesso tempo banche, fondi finanziari e fondi pensione furono liberalizzati, venendo acquisite da soggetti privati; fu liberalizzata la circolazione internazionale dei capitali, non più sottoposti a controlli preventivi o a regole di movimentazione, mentre gli afflussi di capitali si fecero più massicci e si avviarono rimozioni di vincoli, come quello dei massimali di credito (divieto di erogare credito oltre certe soglie) o dell'obbligo di acquistare quote di titoli di debito nazionale per le istituzioni economiche controllate dallo stato.

Questi fenomeni di deregolamentazione si accompagnavano a eventi che preparavano una vera rivoluzione in senso finanziario dell'economia e l'apertura di un'epoca di "seconda globalizzazione" (vd. globalizzazione). La crescita dei commerci internazionali, la mondializzazione dei flussi finanziari, l'avvento di una industria proiettata nel post-fordismo (il superamento del modello produttivo fordista-taylorista fondato sulla grande impresa, sull'organizzazione del lavoro e sulla catena di montaggio, sostituito dalle industrie fondate sui distretti e sulle reti produttive, sulla "ri-specializzazione" del lavoro e sul know-how), la teoria del just in time, la velocizzazione dei flussi informativi, monetari e informatici, il decentramento della produzione, la flessibilità del lavoro e non ultimo l'aumento dell'ineguaglianza globale aprirono una fase "post-industriale" in cui gli investimenti di natura finanziaria, oltre ad apparire spesso preferibili rispetto a quelli produttivi (col conseguente calo degli investimenti tecnologici delle imprese e quindi della produttività), acquisivano importanza crescente e mostravano la loro "originalità" in relazione alla funzione stessa della produzione e del capitalismo classico. Gli Stati-nazione tradizionali inoltre, apparendo spesso vulnerabili di fronte alla rapidità, alla natura e alla dimensione dei movimenti finanziari (che saranno diretti a colpire con finalità puramente speculative anche i debiti sovrani), vedevano indebolire le loro capacità di controllo e regolazione del mercato finanziario dominato dalle grandi imprese, non riuscendo a tutelare adeguatamente neppure la posizione, spesso debole anch'essa, degli stessi soggetti risparmiatori e lavoratori.

La scintilla dei subprime

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Per approfondire, vedi Mutui subprime.

Accanto ai CDS, il cui valore raggiunse la cifra dei 60.000 miliardi di dollari nel 2008, cresceva anche l'esposizione al credito delle banche, delle imprese, e delle stesse famiglie (ai fini del consumo), favorita dai tassi d'interesse ridotti e dalla facilità nella concessione dei prestiti. Il ricorso alla sottoscrizione dei mutui a basse garanzie (subprime), sottoscritti anche da persone agiate che confidavano in consistenti guadagni, si fece sempre più frequente, venendo concessi dalle banche spesso con la consapevolezza di non poter essere rimborsati: il trading dei subprime crebbe dal valore di 145 miliardi nel 2001 ai 635 miliardi del 2005.

Nel giro di due anni, tuttavia, i tassi di riferimento furono portati tra il 2005 e il 2007 dall'1,5% al 5,25% per intervento della FED, nel tentativo di frenare la speculazione e drenare liquidità dal sistema economico. Nel 2006, come effetto immediato, il numero dei pignoramenti e delle insolvenze si moltiplica, soprattutto per quanto riguarda gli acquirenti di subprime, colpiti in particolare dall'aumento improvviso delle rate dei fidi. La bolla immobiliare a quel punto esplose facendo precipitare il prezzo delle case e innescando un'ondata di vendite che mandarono in rovina numerosissimi soggetti tra risparmiatori e istituti di credito (oberati anche dai prestiti ponte elargiti alle private equity perché operassero operazioni di leveraged buyout), provocando un blocco del sistema finanziario americano.

Andamento storico del mercato petrolifero

Agli inizi degli anni sessanta gli Stati Uniti, che fino ad allora erano stati fornitori marginali di greggio, ovvero in grado di esercitare influenza sui prezzi ed equilibrare il mercato intervenendo sui volumi di forniture, videro erodere la propria capacità inutilizzata di petrolio. Successivamente, gli shock petroliferi del 1973 (Guerra del Kippur) e del 1979 (Rivoluzione iraniana) - con improvvise difficoltà di approvvigionamento energetico -, conseguenze di consistenti abbassamenti dell’offerta e della capacità operativa dell’OPEC (di cui fanno parte tredici paesi esportatori di petrolio, principalmente mediorientali e africani), crearono ulteriori turbolenze nel mercato petrolifero e una impennata inflazionistica generalizzata, che colpì soprattutto i paesi dell'Europa occidentale e il Giappone. L’aumento conseguente delle quotazioni del greggio causò una marcata flessione della domanda mondiale, specialmente nei paesi OCSE, inducendo alcuni paesi esterni all’OPEC ad accrescere l’offerta di petrolio. Ciò indebolì il controllo dell’Organizzazione, favorendo un progressivo calo delle quotazioni.

I prezzi del greggio, tuttavia, sono tornati a essere sensibilmente più instabili dalla seconda metà degli anni novanta e sono cresciuti a un ritmo sempre più sostenuto fra il 2004 e la metà del 2008. Le prospettive future per l’offerta di petrolio indussero timori a livello internazionale, a causa del fatto che dalla fine del 2004 la crescita della produzione petrolifera nei paesi non appartenenti all’OPEC si mantenne praticamente nulla, come conseguenza di limiti di natura geologica. La stasi economica nei principali paesi avanzati e l'avvio della crisi finanziaria nel biennio 2007-2008, con la successiva drastica contrazione dell’attività economica mondiale (2009), provocarono il rallentamento della domanda di greggio nelle economie emergenti e il consequenziale crollo dei prezzi petroliferi.

Impennata dei prezzi delle materie prime industriali

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Andamento del prezzo del petrolio tra gennaio 2003 e dicembre 2008.

La decadenza economica degli anni 2000 si è cominciata a manifestare a partire dall'incremento dei prezzi delle materie prime, alimentari e industriali, che ha seguito una riduzione dei costi delle stesse nel precedente periodo 1980-2000. Nel 2000 il costo del greggio (che esercita un ulteriore impatto influenzando i prezzi di altre fonti energetiche, soprattutto il gas naturale e il carbone) subì un aumento del 45% circa, con una oscillazione da 26 dollari a 34 dollari nel corso dell’anno, mentre dal 2001 (anno dell'attentato alle Torri Gemelle) al 2003 il prezzo si conservò pressoché invariato, oscillando intorno ai 20 dollari. Nel 2004, a fine anno si ebbe un forte innalzamento pari al 100%, con il raggiungimento dei 40 dollari al barile.

La zona euro, fortemente dipendente dalle importazioni di petrolio in percentuale vicina al 100%, ha risentito non solo a livello produttivo, ma anche sui prezzi al consumo, con conseguenze non indifferenti in termini di Pil, consumi privati, investimenti e esportazioni. Gli effetti sull'economia possono variare fra i paesi in base non solo alla dipendenza dall'importazione delle materie prime e alla loro intensità di utilizzo, ma anche in relazione al fatto che il rialzo delle quotazioni è indotto da una contrazione dell’offerta o da un eccesso di domanda.

I prezzi delle materie prime sono cresciuti vertiginosamente negli ultimi anni, per poi arretrare in misura marcata a partire da metà 2008 allorché, in conseguenza della crisi finanziaria, sono state riviste al ribasso le aspettative sulla crescita futura della domanda. Nel gennaio 2008, il prezzo del petrolio superò i 100 dollari al barile per la prima volta nella sua storia, continuando a salire nei mesi successivi, fino ad arrivare ai 147 dollari a barile (qualità Brent), in rialzo del 470% rispetto all’inizio del 2000, per poi scendere a settembre.

Nel caso del greggio, l’incremento fu dovuto all'effetto congiunto della crescente domanda mondiale, in particolare a causa della forte espansione delle economie emergenti (Cina, India e Medio Oriente in particolare), dell'aumento della frequenza delle interruzioni di fornitura e delle revisioni al ribasso apportate alle aspettative sugli approvvigionamenti futuri. Anche altre materie essenziali nella catena della produzione, come l'acido solforico e la soda caustica, hanno visto un forte incremento del loro prezzo fino al 60%. La crisi dell'aumento del costo del petrolio e di alcune altre sostanze alimentari sono state oggetto di dibattito nel 34° vertice del G8 tenutosi in Hokkaido nel luglio 2008. Le cause di questi repentini rialzi sono plurime (picco di Hubbert) e sono state individuate oltre che nei problemi di instabilità geopolitica (seconda guerra del Golfo), anche nella crescita delle potenze asiatiche, nella svalutazione del dollaro, nella carenza di investimenti tecnologici (rischiosi) nel campo dell'industria estrattiva, nell'impennata della domanda mondiale (2001-2007), con un potenziale di crescita ancora rilevante, nelle politiche di offerta di alcuni produttori, e, in ultima analisi, nella speculazione finanziaria (finanziarizzazione dei mercati delle materie prime).

Aumento dei prezzi dei prodotti di prima necessità

Solo dal 2008 l'incremento dei prezzi delle commodity, in particolare il rialzo del prezzo del petrolio grezzo e di alcuni cereali, si è fatto sentire a tal punto da cominciare a creare serie conseguenze economiche e frenare gradualmente l'attività economica, minacciando il terzo mondo con l'aumento del rischio della fame, producendo stagflazione e ponendo ostacoli al commercio globale (a causa dell'aumento dei costi di trasporto, cresciuti parallelamente all'aumento del costo del greggio). Tutto ciò causò ripercussioni dirette sul fenomeno della globalizzazione, accanto a un'ondata generalizzata di ribassi nelle borse di tutti i continenti. L'aumento dei prezzi delle materie prime si tradusse poi nell'aumento dei costi finali di produzione dei beni di consumo, con conseguenze sulle fasce più deboli della popolazione mondiale.

Nel 2007, inoltre, di fronte alle prime avvisaglie della crisi dei subprime, e poi in misura più ampia con l'esplosione della crisi, una enorme massa di liquidità finanziaria è stata diretta all'investimento nel settore dei beni rifugio (oro, petrolio, materie prime, prodotti alimentari), contribuendo, assieme a fenomeni di natura climatica, come la siccità in Russia, all'aumento dei prezzi dei prodotti di prima necessità per milioni di persone, condotte sotto la soglia di povertà. A cavallo tra 2010 e 2011 il carovita spinse le popolazioni colpite alla rivolta contro le autorità costituite, come accaduto nel corso della Primavera araba, determinando in alcuni casi il rovesciamento di regimi dittatoriali decennali (si vedano Egitto, Libia, Yemen, Tunisia).

Crisi dei sub-prime negli Stati Uniti

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Per approfondire, vedi Crisi dei subprime.

Crisi del mercato immobiliare statunitense

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Andamento del mercato dei subprime tra il 1997 e il 2007

La crisi imprevista dei mutui sub-prime, mutui a basse garanzie (perché sottoscritti da contraenti con reddito inadeguato o con passato di insolvenze o fallimenti) concessi dalle banche d'investimento americane (istituti che concedevano finanziamenti chiedendo tassi d’interesse variabili e crescenti nel tempo ottenendo una compensazione del rischio con il rendimento dei prestiti), inizia a manifestarsi nel 2006 per scoppiare nel 2008. La crisi raggiunse il punto di non ritorno quando i risparmiatori americani cominciarono a non ripagare più i mutui dando avvio a un massiccio aumento dei pignoramenti (1,7 milioni di case coinvolte nel solo 2007).

All'origine di questo fenomeno la vertiginosa crescita del mercato immobiliare americano (picco 2004-2006), con il forte aumento dei prezzi delle abitazioni e la successiva espansione degli investimenti nel settore. Tale "bolla" speculativa si espanse di pari passo col costante apprezzamento delle case. Essa tendeva a raggiungere, attraverso l'aumento costante della destinazione di risorse nel settore, l'espansione permanente del mercato. L'indebitamento delle famiglie americane provocò nel 2006 l'esplosione dei prezzi delle attività, e in particolare di quelli immobiliari; l'indebitamento aumentava via via che cresceva il valore delle proprietà immobiliari. La caduta dei prezzi nel 2007 provocò l'esplosione del valore dei mutui a livelli superiori alla consistenza stessa del valore delle abitazioni. Le famiglie più fortemente indebitate avevano scommesso sul protrarsi della crescita, ignorando il rischio di un rovesciamento del mercato.

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() Diagramma storico dell'andamento della crisi del mercato dei subprime.

L'esplosione della bolla dei mutui fu amplificata dal fatto che le banche statunitensi, al fine di ridurre l'esposizione rispetto a questi prodotti finanziari altamente rischiosi, vendevano a terzi i mutui stessi attraverso diversi strumenti finanziari, parcellizzandoli e riassemblandoli con altri prodotti (CDO, CMO, CLO, ABS). In questo modo le banche scaricavano su altri soggetti (inizialmente investitori istituzionali, ma poi anche banche e risparmiatori) i rischi corsi concedendo tali finanziamenti. La cartolarizzazione dei mutui subprime (ovvero la creazione di titoli garantiti dai mutui ipotecari), sempre più diffusa, moltiplicava spesso i rendimenti in quanto chiedeva un ulteriore rendimento ai soggetti a cui si rivendevano i derivati dei mutui secondari. Tali processi hanno reso infetto l'intero sistema finanziario mondiale di questi titoli, a un certo punto della crisi conosciuti, con un'espressione peggiorativa ma efficace, come "tossici". La cartolarizzazione e il successivo "impacchettamento" dei titoli in sempre nuovi prodotti nei quali doveva essere assemblato, assieme a una parte di titoli garantiti, un certo quantitativo di titoli tossici, aveva lo scopo di fare alzare il giudizio di affidabilità delle agenzie, cosicché a un rapporto maggiore di titoli sani rispetto a quelli tossici nello stesso "pacchetto" sarebbe corrisposta una qualità del rating superiore (A, AA, AAA ecc.).

La forte svalutazione di questi strumenti innescò difficoltà gravissime in alcuni fra i più grandi istituti di credito americani. Bear Sterns, Lehman Brothers e AIG vennero ridotti al collasso e poi messi in sicurezza dall'intervento del Tesoro statunitense di concerto con la FED. Anche banche europee, come la britannica Northern Rock (quinto istituto di credito inglese), e grossi istituti finanziari (la svizzera UBS, la belga Fortis, la franco-belga Dexia -questi ultimi due parzialmente nazionalizzati dai governi francese, belga e lussemburghese-, la tedesca Hypo Real Estate e l'italiana Unicredit), furono investiti dalla svalutazione dei titoli immobiliari, venendo successivamente o nazionalizzati o costretti a ricapitalizzarsi. Dopo diversi mesi di debolezza e perdita di impieghi, il fenomeno è collassato tra il 2007 e il 2008 causando la bancarotta di banche ed entità finanziarie e determinando una forte riduzione dei valori borsistici e della capacità di consumo e risparmio della popolazione (con effetti immediatamente recessivi sull'economia).

Crollo delle borse e crisi di fiducia

Il rapido crollo del mercato immobiliare fu reso più devastante dal graduale rialzo del tasso di sconto operato dalla FED negli anni dell'esplosione della crisi dei mutui. Gli Stati Uniti, l'economia più grande del mondo, entrati in una grave crisi creditizia e ipotecaria, patirono anche lo svilimento del valore del dollaro molto basso rispetto all'euro e ad altre valute.

Il peggioramento delle borse, segnato dalle fortissime vendite sul mercato bancario, fu immediato. A causarlo la radicale crisi di fiducia dei depositanti e degli azionisti verso le banche. L’indice S&P500 di Wall Street, termometro dello stato di salute della finanza mondiale, nel periodo a cavallo tra settembre e ottobre 2008 segnò una flessione del 25,9%, con ondate di vere e proprie vendite da panico (panic selling) in alcuni giorni che riportarono alla memoria crolli storici del mercato come quelli del martedì nero 29 ottobre 1929 e del lunedì nero 19 ottobre 1987. A ciò si accompagnò una crisi del credito, determinata dal clima di pessimismo e di diffidenza tra le stesse banche (forte aumento dei tassi interbancari), che portò in breve tempo alla carenza di liquidità nel sistema economico.

La crisi dei mutui in pochi mesi colpì anche l'economia reale provocando recessione, caduta degli investimenti e dei redditi e crollo dei consumi. La risposta più immediata alla crisi del credito e alla crisi di fiducia apparve il massiccio intervento degli stati e delle banche centrali che provvidero a tagliare i tassi d’interesse e a immettere liquidità nel sistema economico, cercando di incentivare gli investimenti e la rimessa in moto dell'economia. Altre misure di intervento ponderate furono la sospensione delle contrattazioni nelle piazze azionarie per impedire danni su scala mondiale e la proibizione, da parte delle commissioni di vigilanza delle piazze azionarie, delle vendite allo scoperto (ovvero quelle effettuate senza il reale possesso di titoli) su titoli finanziari e assicurativi.

Intervento del Tesoro americano sul sistema bancario e finanziario

L'aggravarsi della crisi spinse il governo americano a intervenire. Il segretario all'economia Henry Paulson patrocinò l'attuazione di un corposo piano di salvataggio del sistema finanziario americano, approvato il 3 ottobre 2008 (dopo essere stato bocciato il 29 settembre alla Camera) dal Congresso degli Stati Uniti, venendo in soccorso dei grandi istituti di credito e delle banche americane ridotte al rischio di fallimento.

Il cosiddetto Tarp (Troubled asset relief program) prevedeva un programma di interventi statali in più fasi nel cuore dell'economia Usa, ponendo fine al modello economico della deregulation reganiana impiegato negli Stati Uniti durante gli anni seguiti alla caduta del muro di Berlino e alla fine della Guerra Fredda. Gli ingenti piani di nazionalizzazione e di intervento nel sistema economico americano ponevano fine a un'epoca in cui l'amministrazione americana, soprattutto negli anni novanta (presidenza Clinton), aveva esercitato pressioni sulle banche semipubbliche perché concedessero più credito ai ceti meno abbienti, alimentando le speranze dell'"american dream" e in una sostanziale continuità con le politiche della destra repubblicana, sulla scia del reaganismo.

Il piano di intervento, che all'inizio prevedeva una soglia nominale massima non superiore ai 700 miliardi di dollari, complessivamente ammontò a 7.700 miliardi di dollari. Tale quantitativo di liquidità venne immesso sul mercato bancario a tassi vicino alla zero dalla Federal Reserve, a sostegno delle banche non solo americane, ma anche europee (come Royal Bank of Scotland e UBS) durante il biennio di crisi 2007-2009. Istituti come Bear Stearns, quasi fallita, (acquisita da J.P. Morgan Chase), Freddie Mac e Fannie Mae (queste ultime poste sotto il controllo governativo tramite la neonata Federal Housing Finance Agency), Merrill Lynch (assorbita da Bank of America), AIG (società nazionalizzata per l'80% degli attivi e sostenuta con un prestito di 85 miliardi di dollari), Morgan Stanley, Citigroup, State Street e Wells Fargo giovarono dell'intervento del Tesoro americano e della Fed oppure vennero acquisite da altri gruppi bancari americani di maggiori proporzioni (Goldman Sachs, J.P. Morgan Chase, Bank of America), costituendo in questo modo forti posizioni di monopolio.

I 600 miliardi di asset tossici posseduti da Fannie Mae e Freddie Mac vennero acquisiti dalla Federal Reserve, impedendo il fallimento delle due banche. La decisione della Fed arrivò dopo un altro intervento in favore di Citigroup, beneficiaria dal dipartimento del Tesoro e dalla Federal Deposit Insurance Corporation (l'equivalente della Cassa Depositi e Prestiti) di garanzie per 306 miliardi di dollari, legate ad asset correlati al mercato immobiliare. Aig, allora la più grande compagnia assicurativa del mondo, già colpita dal giudizio negativo delle agenzie di rating, subì fortissime perdite economiche a causa della caduta del settore immobiliare e cadde in crisi di liquidità. Il 17 settembre 2008, il Federal Reserve System mise in atto una linea di credito, legata anche all'intervento di investitori privati, del valore 85 miliardi di dollari in favore di Aig in cambio di una quota del 79,9% del capitale della compagnia, realizzando il più importante salvataggio di una compagnia privata nella storia degli Stati Uniti. Il 9 ottobre 2008 la Fed attivò un ulteriore prestito da 37,8 miliardi di dollari in favore della compagnia.

La bancarotta di Lehman Brothers


Il fallimento di Lehman Brothers fu il più grande della storia degli Stati Uniti e fece precipitare nel panico le borse mondiali con effetti devastanti sull'intero sistema economico-finanziario mondiale. La bancarotta superò per grandezza quelle di gruppi come Worldcom o Enron (fino ad allora i più grandi fallimenti della storia degli USA). Prima che Lehman Brothers annunciasse bancarotta la Federal Reserve e il governo americano avevano cercato di pattuire l'acquisizione della banca d'affari da parte di Barclays o di Bank of America, che tuttavia avevano opposto il loro rifiuto al tentativo di fusione. La logica del too big to fail in questa circostanza non venne rispettata. Le agenzie di rating, nonostante la condizione di serio dissesto dell'istituto, mantennero rating più che discreti sul titolo Lehman Brothers fino al giorno della bancarotta ("A" Standard & Poor's, "A2" Moody's, A+ Fitch).

La banca d'investimento, all'epoca il quarto istituto di credito americano, non ricevette l'erogazione dei fondi statali né l'intervento di capitali esterni, venendo costretta a iniziare le procedure fallimentari il 15 settembre 2008 (facendo ricorso al "chapter 11", ossia alla norma statunitense per la bancarotta con liquidazione controllata) con un indebitamento di 613 miliardi di dollari. Lehman Brothers nel 2007 aveva chiuso i bilanci con ricavi di 19 miliardi di dollari e un utile netto di 4,19 miliardi. Solo il 10 settembre dell'anno successivo, cinque giorni prima del fallimento, alla fine del secondo trimestre, i ricavi del gruppo apparivano negativi per 2,9 miliardi di dollari, mentre gli utili per 3,9 miliardi. La causa del rapido tracollo erano stati i debiti contratti sui mutui ad alto rischio, le massicce svalutazioni dei titoli seguite al crollo del mercato immobiliare e le contemporanee esposizioni che il gruppo aveva accumulato nel mercato dei credit default swap. Come conseguenza immediata del fallimento, in una sola giornata le borse mondiali videro cancellati 1.200 miliardi di dollari di capitalizzazione (quasi 900 miliardi di euro), oltre l’intera capitalizzazione della sola borsa di Milano, mentre le perdite europee complessive si attestarono a 125 miliardi.

Tra coloro che sono ritenuti, a vario titolo, in quanto ricoprenti incarichi di rilievo nelle grandi banche d'affari, tra i responsabili principali della bolla speculativa, molti hanno successivamente riassunto nuovi incarichi o non sono stati per nulla sottoposti al giudizio della magistratura americana. Tra questi figurano:

1. Dick Fuld, amministratore delegato di Lehman Brothers, fallita il 16 settembre 2008, processato dal congresso, iniziò in proprio una nuova attività.

2. Ralph Cioffi e Matthew Tannin, gestori di fondi della Bear Stearns, accusati di aver mentito ai propri clienti, nel loro vano tentativo di contenere le perdite legate alle speculazioni dei subprime, rischiarono venti anni di reclusione, ma senza mai venire condannati; il 10 novembre 2010 vennero assolti dalle accuse.

3. Angelo Mozilo, amministratore delegato di Countrywide, accusato di aver nascosto l'entità delle perdite nel portafoglio immobiliare della sua società.

4. Ken Lewis, numero uno di Bank of America, accusato di aver ingannato i suoi azionisti e lo stato sull'entità delle perdite della banca di investimento Merrill Lynch, che Bank of America acquisì nel 2008, si collocò in quiescenza con una liquidazione di 50 milioni di dollari.

5. Lloyd Blankfein, elemento di spicco di Goldman Sachs, dovette accettare una transazione record da 550 milioni di dollari che la banca versò il 16 aprile 2010 alla Sec e una multa da 267 milioni di dollari comminata dalla Fsa britannica per non aver reso pubblica la notizia di essere sotto inchiesta da parte della stessa Sec.

6. Joseph Cassano, membro di Aig, la cui gestione sarebbe costata 180 miliardi dollari ai contribuenti americani a causa delle manovre speculative che avrebbe attuato attraverso Credit default swaps (contratti assicurativi sulle perdite sui titoli legati alle ipoteche sui subprime) che la divisione di Cassano aveva stipulato con eccessiva facilità.

7. John Thain, amministratore delegato di Merrill Lynch, venduta a Bank of America, accusato di aver lasciato l'istituto in uno stato deficitario, venne nominato nel febbraio 2012 a capo di CIT Group.

Crisi finanziaria in Europa

Il salvataggio delle banche da parte dei governi europei


Salvataggio del sistema bancario in Gran Bretagna

La generalizzata presenza nelle banche di asset "tossici" favorì l'allargamento della crisi, intaccando direttamente anche diversi paesi europei: le borse del vecchio continente accumularono sin dallo scoppio della crisi molteplici perdite. La crisi dei mutui toccò per prima la Northern rock, quinto istituto di credito britannico, specializzato nei mutui immobiliari. A metà settembre del 2007, la diffusione della notizia che la banca non sarebbe stata in grado di ripagare i suoi clienti a causa dell'impossibilità di rifornirsi sul mercato interbancario, innescò il panico tra i risparmiatori che presero d'assalto gli sportelli nel tentativo di recuperare i propri depositi.

La Banca d'Inghilterra e l'FSA, l'ente che controlla il settore creditizio, diffusero proclami che invitavano alla calma i correntisti. Secondo i quotidiani britannici Northern rock aveva continuato tuttavia a concedere ai clienti prestiti sino a cinque volte l'ammontare dei salari e fino al 125% del valore delle case, nonostante tutti gli avvertimenti sull'instabilità economica e il possibile crollo delle quotazioni degli immobili. La Banca centrale britannica procedette quindi alla nazionalizzazione dell'istituto impegnando circa 110 miliardi di sterline. L'intervento della Banca d'Inghilterra fu poi all'intero sistema bancario, attraverso interventi di ricapitalizzazione e acquisti ingenti di bond a favore di vari istituti. La Bradford & Bingley venne anch'essa tratta in salvo e nazionalizzata, mentre vennero acquistate anche azioni di Hbos, Lloyds Tsb e Royal Bank of Scotland. Il governo inglese in alcuni casi ha acquisito il diritto alla nomina dei vertici e alla deliberazione di decisioni importanti per le banche beneficiarie, imponendo più severe regole di governance.

Piani di salvataggio nel resto d'Europa

A beneficiare degli aiuti di stato sono stati anche altri due grandi grossi gruppi finanziari: Dexia e Fortis. La prima, banca specializzata nei prestiti alle collettività locali, finanziandosi in gran parte a breve termine, vendendo obbligazioni agli investitori o indebitandosi verso altre banche, si trovò particolarmente esposta alla crisi del credito e al clima di sfiducia tra gli istituti finanziari non più disposti a prestarsi denaro tra loro. Il governo belga intervenne per primo iniettando liquidità per 3 miliardi di euro insieme agli azionisti belgi. Anche il governo francese, in parte attraverso Cdc, la Cassa Depositi transalpina a controllo statale, intervenne riservandosi una parte consistente del capitale della banca. Il Lussemburgo partecipò al piano di salvataggio con una relativamente piccola quota di capitale. Anche il gruppo bancario belga-olandese Fortis subì una parziale nazionalizzazione. Pesantemente danneggiata a fine settembre dal crollo della borsa, ricevette il soccorso dei governi di Belgio, Olanda e Lussemburgo. Il contributo più importante fu quello belga; di proporzioni inferiori quello del governo olandese, mentre quello lussemburghese fu il più ridotto.

La valutazione al ribasso delle stime sulla solidità di Hypo Real Estate e la conseguente richiesta di rifusione da parte dei creditori causò il rischio di tracollo dell'istituto tedesco. Guidata dal governo di Berlino, dalla Banca centrale tedesca e dalla BaFin, l'authority tedesca di controllo dei mercati finanziari, il piano di salvataggio della HRE fu il più grande della storia tedesca. Il governo tedesco intervenne anche su Sachsen Lb, West Lb e Ikb, optando per una strategia diretta ad assicurare la capitalizzazione di banche e compagnie assicurative e la garanzia sui titoli di nuova emissione. Altri piani di salvataggio vennero predisposti da Svezia, Danimarca, Portogallo, Grecia e Olanda.

Gli aiuti effettivamente erogati dai governi alle banche dei rispettivi sistemi nazionali furono 1.240 miliardi di euro (10,5% del Pil Ue), per la maggior parte elargiti in forma di garanzie (757 miliardi), la restante parte attraverso ricapitalizzazioni (303 miliardi), gestione di titoli (104 miliardi) e linee di credito (77 miliardi). I tre maggiori mercati bancari europei beneficiati dagli aiuti furono quelli Germania, Francia e Gran Bretagna. Ai dieci maggiori istituti di credito europei furono destinati 620 miliardi, mentre le successive venti banche ricevettero il 25% del totale. Trai maggiori dieci istituti figuravano: Rbs, Hypo, Lloyds Banking Group con oltre 74 miliardi, Dexia, Fortis e Anglo Irish con quasi 50 miliardi ciascuna, HSH Nordbank, Allied Irish, Ing e Credit Agricole con circa 25 ciascuno. Gli ultimi due hanno in parte restituito i capitali incassati. In totale è stato calcolato che il costo dei salvataggi bancari nel mondo produsse un aumento del debito consolidato dei paesi del G7 (dove era compresa anche l'Italia) di 18.000 miliardi di dollari, fino a un livello di indebitamento mai toccato di 140.000 miliardi. Dell'ammontare totale dei 18.000 miliardi, 5.000 miliardi furono il prodotto dell'azione delle banche centrali del G7 (ossia Fed, Banca del Giappone, Banca d'Inghilterra e Bce).

Effetti della crisi finanziaria nel mondo

La crisi colpisce l'economia reale

Complessivamente, nella prima metà del 2008 si assistette a un rallentamento deciso delle principali economie del pianeta e all'aumento repentino dell'inflazione, che sarebbe stata spinta dall'aumento dei prezzi delle commodity, anche se altri studi affermano che i prezzi più elevati delle materie prime non avrebbero generato ripercussioni consistenti sull’inflazione. La parte finale dell'anno vide il manifestarsi di una pesante recessione, seguita all'aggravarsi dopo l'estate della crisi finanziaria e creditizia. Sintomo della grave situazione di crisi l'abbassamento in picchiata dei prezzi delle materie prime e del greggio, che scese fino a toccare i 40 dollari al barile (WTI e Brent). Il fallimento di Lehman Brothers e l'aggravarsi della crisi finanziaria e economica, spinse le principali banche centrali, tra cui la BCE e la FED (dopo aver in estate scelto di non operare ribassi dei tassi d'interesse per contrastare l'alta inflazione) a intervenire riducendo i tassi di sconto e immettendo grosse dosi di liquidità a sostegno del sistema bancario al fine di evitare una crisi del credito, come non era mai stato fatto dai tempi del dopoguerra.

Conseguenze nel mondo

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Crescita del prezzo del Brent tra il 1987 e il 2011. Si noti il crollo seguito alla recessione iniziata nel 2008.

La bolla immobiliare americana ed il successivo fallimento di Lehman Brothers provocarono ripercussioni economiche a livello mondiale. La produzione industriale in Europa a partire dall'autunno del 2008 calò bruscamente, per ridursi ulteriormente l'anno successivo con una pesante recessione che colpì l'intero mondo occidentale, mentre le economie emergenti (Cina, India, Brasile) accusarono solo lievi o poco consistenti flessioni del Pil. Il rapido contagio tra le economie del pianeta mise a nudo un'evidente dipendenza dei modelli di sviluppo dal commercio estero. In America Latina la crescita si attestò al 4,6 rispetto al 5,8% del 2007; i paesi più colpiti furono quelli dell'America centrale, esportatori di materie prime. L'economia cinese vide ridotta la crescita dal 13 al 9% con una riduzione dell'export, mentre i consumi privati mantennero un buon livello. L'India crebbe invece del 7,3 rispetto al 9,3% del 2007. Anche l'Europa orientale, che pure aveva sperimentati tassi di crescita sostenuti, conobbe grosse difficoltà legate soprattutto alla frenata della domanda della Germania, maggior partner delle economie della zona. Particolarmente colpiti furono i paesi dell'area baltica, penalizzati dal blocco improvviso del credito che aveva eccitato i consumi di famiglie e incentivato gli investimenti. La Russia mantenne invece un dinamismo costante con uno sviluppo complessivo nel 2008 del 5,6%, venendo penalizzata soprattutto nella seconda parte dell'anno dalla caduta del prezzo del petrolio e dalla svalutazione del rublo.

Altri paesi soffrirono gravi effetti immediati dall'esplosione della crisi finanziaria americana: la Danimarca entrò in recessione (sei mesi consecutivi di crescita economica negativa) nel primo trimestre del 2008, colpita soprattutto dalla crisi del mercato degli immobili, da una forte disoccupazione e dalle difficoltà nel settore bancario che porteranno al fallimento di 11 istituti di credito. Nel periodo luglio-settembre del 2008, l'insieme delle economie dell'eurozona si contrasse dello 0,2%, mentre nel quarto trimestre si toccò la cifra dell'1,6%. La produzione industriale dell'area euro evidenziò nei mesi conclusivi del 2008 una riduzione del quasi 3%; particolarmente colpita fu la produzione manifatturiera tedesca. Ancor peggio l'Islanda, la cui fragile economia fu messa in crisi dal fallimento quasi contemporaneo delle tre maggiori banche del paese e da una massiccia svalutazione della corona, accompagnata a tassi di disoccupazione e inflazione a due cifre. L'Islanda, che aveva ricevuto il sostegno finanziario del Fondo Monetario Internazionale (FMI), di stati europei e degli USA, rifiutò però la restituzione di quattro miliardi ai risparmiatori inglesi e olandesi colpiti dal fallimento della banca Icesave. Il presidente islandese, Ólafur Ragnar Grímsson, pose un netto rifiuto all'accordo con Gran Bretagna e Olanda per rimborsare 4 miliardi ai circa trecentomila risparmiatori della banca Icesave, controllata da Landsbanki, fallita nel 2008, determinando un forte raffreddamento delle relazioni con i due stati.

Se fino ai mesi estivi le prospettive di espansione economica non sembravano compromesse, alla fine dell'estate l'allargamento della crisi creditizia si fece più marcato e più profonda si avvertì la recessione. Il Pil degli Stati Uniti sul finire dell'anno, nel quarto trimestre, si contrasse del 6,3% (su base congiunturale), mentre la produzione industriale si ridusse complessivamente nel 2008 del 2,2% e la disoccupazione passò dal 4,9 al 7,2. Segnali ugualmente negativi si ebbero per i prezzi al consumo e quelli del mercato immobiliare, che raggiunse livelli minimi mai raggiunti. Nel periodo ottobre-dicembre il Pil del Giappone, sebbene la sua economia fosse meno esposta rispetto alle turbolenze del settore finanziario, si ridusse del 3,2%; a fine anno il saldo della bilancia dei pagamenti fu negativo per la prima volta dal 1996. Anche il Regno Unito, ugualmente esposto alla crisi del settore immobiliare e bancario come gli Stati Uniti, risentì di un forte rallentamento dell'economia con una crescita nel 2008 dello 0,7% rispetto al 3% dell'anno precedente. La Bank of England nel tentativo di contenere l'inflazione diminuì per ben 5 volte nel 2008 i tassi di riferimento (dal 5,5 al 2%).

Recessione del 2009

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Variazioni del Prodotto interno lordo nella recessione del 2009

Nel 2009 l’economia mondiale risentì pienamente degli effetti della crisi finanziaria originatasi negli Stati Uniti e acuitasi nell’ultima parte del 2008. Radicale fu la contrazione dell’attività economica in tutti i principali paesi del mondo, raggiungendo il punto di massima contrazione nel primo trimestre dell’anno, tanto che quella del 2009 è stata considerata come la peggiore recessione dal 1929. La crisi generalizzata determinò un aumento verticale della disoccupazione che compresse la capacità di spesa delle famiglie, favorì la propensione al risparmio, indebolendo la domanda aggregata. Nell’aprile 2009, per la prima volta in Europa, il tasso di disoccupazione maschile superò quello femminile, mentre la disoccupazione giovanile (al di sotto di 25 anni), subì fortemente le conseguenze della fase recessiva, con una crescita costante che raggiunse il 18,7% ad aprile 2009.

In Europa la recessione determinò effetti profondamente negativi con forti riduzioni di Pil in Irlanda (-5,0%), nel Regno Unito (-2.8%), e in Germania (-2.3%), Olanda e Spagna (-2,0%), Belgio (-1,9%), Francia (-1,8%). Solo la Slovacchia, appena entrata nell'euro, registrò ancora una crescita significativa (2,7%), ma comunque in netta frenata rispetto alla stima del 2008 (7,1%) e il 10,4% dell'anno precedente. Dati ancora peggiori si registrarono nell'Europa dell’est, dove la crescita a cavallo tra metà 2008 e 2009 accusò sensibili cali: Lettonia (-6,9%), Estonia (-4,7%), Lituania (-4,0%), Polonia (-2,0%), Italia (-3,1%). L'inflazione dell'eurozona, nel periodo tra il maggio 2008 e 2009 rimase invece stazionaria per la politica di contenimento adottata dalla BCE diretta da Jean-Claude Trichet.


Le difficoltà della ripresa furono determinate anche da una troppo fragile condizione del sistema creditizio, appesantito dalle conseguenze della crisi di fiducia dei mesi precedenti. L'export delle economie meno sviluppate, risultato della riduzione del prodotto e dei consumi nei paesi più avanzati, segnò una brusca riduzione, nell'ordine del 12,3%. L'interscambio ha poi iniziato a riattivarsi nei mesi estivi del 2009. Il segno di una ripresa, già in corso nel 2009, fu il rialzo deciso dei costi delle materie prime (nel 2009 quelle industriali del 27%, quelle alimentari del 15%), la cui discesa era stata più alta per quelle industriali che per quelle alimentari. Essa fu però più decisa nelle economie emergenti e più stentata in quelle avanzate; più dinamica apparve la ripresa degli Stati Uniti in confronto all'Europa, dove la minore consistenza delle misure adottate per l'uscita dalla crisi e una maggiore tutela a beneficio dell'occupazione hanno comportato più alti costi a carico delle imprese, non in grado di attuare sin dall'inizio dei piani di riconversione. Da poco più di 40 dollari a barile, il prezzo del Brent, il greggio di riferimento per i mercati europei, è salito fino ai 70 dollari in giugno. A partire da ottobre, le quotazioni del petrolio hanno fluttuato all’interno di un andamento compreso tra i 70 e gli 80 dollari a barile.

Nella prima parte del 2009 la Banca Centrale Europea proseguì la fase di ribassi dei tassi di interesse ufficiali che aveva iniziato nell’ottobre dell’anno precedente. L'istituto centrale continuò inoltre ad attuare interventi "non convenzionali", introdotti nell’ottobre del 2008, finalizzati a favorire il funzionamento del mercato interbancario, a sostenere i bilanci delle banche e ad allentare le condizioni di finanziamento al settore privato e promuovere l’ulteriore riduzione degli spread nel mercato monetario e ad incoraggiare l’attività di prestito delle banche alle imprese ed alle famiglie. A fine anno, nella riunione del 3 dicembre 2009, il consiglio direttivo della BCE decise, in seguito ai miglioramenti delle condizioni reali e finanziarie, di avviare sin dall’inizio del 2010 un graduale rientro dalle misure non convenzionali.

L’andamento dei mercati azionari e obbligazionari manifestò un miglioramento delle prospettive economiche a partire dal secondo trimestre del 2009. Nel primo trimestre dell’anno era proseguita la discesa delle quotazioni azionarie che aveva avuto inizio alla fine del 2007. A partire dal secondo trimestre del 2009, invece, le condizioni dei mercati finanziari subirono un significativo miglioramento, stabilizzandosi negli ultimi tre mesi dell’anno.

Parziale ripresa economica (2010-2011)

Nel corso del 2009 la caduta dell'economia negli Stati Uniti, dopo aver raggiunto il picco negativo nel primo trimestre, periodo in cui il PIL si fletté del 6,4%, ha in seguito evidenziato una decisa risalita, tanto da far registrare una variazione positiva del 5,6% negli ultimi tre mesi dell’anno. Nel primo trimestre del 2010 si verificò un aumento di prodotto interno lordo del 2,2%, favorito soprattutto dall'aumento dei consumi e dall'accumulo di scorte; sul fronte dell'occupazione, la percentuale dei senza lavoro non accusò miglioramenti, rimanendo nel 1º trimestre pari al 9,7% (15 milioni di disoccupati). Positivi si registrarono i contributi delle esportazioni nette (1,1 punti percentuali) e della spesa pubblica, beneficiata dagli effetti della manovra di 787 miliardi di dollari fortemente espansiva approvata dal governo americano guidato da Barack Obama. Anche l'eurozona dopo aver seguito un andamento negativo nella prima parte dell'anno, tornò a percentuali di sviluppo positive nel 3º trimestre, non registrando alcuna variazione nel trimestre successivo. Tra i paesi avanzati il Giappone risentì maggiormente del ciclo economico negativo internazionale. Le economie emergenti dell’Asia, dopo essere state colpite duramente nella prima parte dell’anno, tornarono a evidenziare un'accelerazione grazie soprattutto alla ripresa cinese, che guidò il recupero degli scambi commerciali.Singapore e Taiwan evidenziarono un calo particolarmente accentuato, con una caduta dell'export tendenzialmente superiore al 9%. Nel secondo trimestre Indonesia, Singapore, Taiwan e Hong Kong subirono anch'esse contrazioni in termini di Pil. La Cina riuscì a limitare le conseguenze congiunturali attestandosi su una crescita dell’8,7%, dopo aver toccato nel primo trimestre dell’anno il tasso di crescita minimo dal 1990 (6,1%).

Dopo una dura contrazione del pil e del commercio mondiali nei primi due trimestri del 2009, a partire dal terzo trimestre si verificarono segnali di ripresa economica (crescita del commercio mondiale del 12,4% nel 2010 rispetto al 10,9 del 2009). Complessivamente nel 2010 il pil mondiale crebbe del 5%, pur distribuendosi in maniera molto eterogenea nelle diverse aree del pianeta (più stentata in Europa, ad eccezione della Germania, più dinamica in USA e Giappone). Si registrò mediamente una sostenuta ripresa nei paesi sviluppati, ed un'ancor più forte nei paesi emergenti, dove le economie mostrarono un rapido e deciso recupero (Cina e India in media del 10%). Questa fase di recupero si trascinò, sebbene subendo un certo rallentamento (il pil Usa 2011 ebbe una crescita dell'1,7%, valore minore rispetto a quello del 2010 del 3%) nel 2011, per arrestarsi verso fine dello stesso anno (terzo e quarto trimestre), a partire dal quale si accusò un calo deciso delle economie, con sensibili riduzioni del pil. Il pil italiano in particolare, dopo la crescita del primo e secondo trimestre 2011, calò per un intero semestre, proseguendo nella discesa anche per l'intero 2012 ed il 2013, documentando lo stato di recessione dell'economia del paese.

Le conseguenze sociali della crisi

La rete di protezione sociale sviluppata dopo la crisi del 1929 - principale discriminante in termini di ripercussioni sociali - negli stati più avanzati ha segnato la differenza di incidenze della grande fase di contrazione dell'economia nel mondo occidentale sulla condizione dei redditi delle famiglie. L'impatto di breve periodo, tenuto conto della caduta dell’attività produttiva, sarebbe stato complessivamente contenuto. Suscettibile di variazione appare quello nel lungo periodo, sulla base dei provvedimenti che i singoli stati adotteranno per contenere gli effetti degli squilibri portati dalla recessione, soprattutto in relazione al forte indebitamento di alcuni stati, cresciuto verticalmente in numerosi paesi del mondo e in particolare in occidente, date le conseguenze più pesanti della recessione. Ciò nonostante, soprattutto nelle famiglie con figli (ove il capofamiglia ha meno di 40 anni e soprattutto tra i 40 e i 64 anni), la condizione di povertà si sarebbe aggravata; i redditi lordi dei lavoratori autonomi sono calati repentinamente, mentre i redditi dei pensionati e quelli dei lavoratori dipendenti avrebbero continuato lungo i rispettivi trend pre-crisi, cioè comunque con lenta ma costante diminuzione di potere d'acquisto reale.

L'anno 2012 tra recessione e ripresa

I rischi per l’economia mondiale, pur rimanendo alti, si attenuarono a seguito dell’accordo raggiunto negli Stati Uniti per evitare il fiscal cliff (burrone fiscale), dell’allentamento delle tensioni finanziarie nell’area dell’euro e del miglioramento delle prospettive nei paesi emergenti (vd. BRICS), che pure andranno incontro a un rallentamento del tasso di crescita (a causa dell'impatto negativo della congiuntura internazionale). Nella seconda metà del 2012 la dinamica dell’economia globale rimase debole e le stime di crescita del commercio internazionale erano riviste al ribasso. Nell’area dell’euro l'attività economica continuò a perdere vigore nell’ultimo trimestre del 2012. Le conseguenze delle tensioni finanziarie su alcuni paesi dell’area (Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Irlanda) e gli effetti del consolidamento dei bilanci pubblici si ripercuotevano sulle economie ritenute più solide (Germania e Francia), pur riducendosi i rendimenti dei titoli di stato nei paesi maggiormente interessati dalle tensioni (ma mantenendosi elevati i divari nei tassi bancari attivi). A questi sviluppi favorevoli contribuivano, seppure in minima misura, gli effetti dell’annuncio, in estate, del piano Outright Monetary Transactions da parte della BCE, la decisione dell’Eurogruppo in novembre di rinnovare i prestiti alla Grecia e il miglioramento, seppur lieve (nonostante il persistere di pesanti squilibri tra paesi del nord e del sud Europa), dei saldi del sistema Target 2.

Complessivamente si registrava una disparità della ripresa tra alcuni paesi occidentali, in particolare Regno Unito, Stati Uniti e Giappone, e l'area euro la cui la crescita invece mostrava un tasso negativo: in Francia e Germania la produzione industriale declinava, mentre nei paesi dell'Europa meridionale si evidenziavano pesanti segnali di stagnazione. La riduzione dell'inflazione (a dicembre al 2,2) e la decelerazione dei prezzi al consumo (a causa della debolezza della domanda e delle minori pressioni dal lato dei costi) evidenziava l'aggravarsi della condizione di deflazione e recessione (non attenuate neppure da un sostegno della maggiore erogazione del credito bancario, che appariva vieppiù in contrazione).

Sviluppi

Le stime preliminari della crescita del Pil del quarto trimestre 2011 certificavano che l'economia europea era entrata in recessione (dopo due contrazioni congiunturali consecutive). Per la Germania, il quarto trimestre 2011 mostrò segnali di crisi, mentre solo la Francia, in controtendenza rispetto agli altri grandi paesi europei, continuava a mostrare una crescita del Pil moderatamente positiva anche nel quarto trimestre. Italia, Spagna, Portogallo e Grecia apparivano invece già in recessione, come anche Belgio e Olanda. L’Italia presentò il dato peggiore di tutti i paesi, fatta esclusione della Grecia, destinata assieme al Portogallo ad essere fanalino del continente.

Nel primo trimestre 2012 in termini congiunturali il Pil aumentava in Giappone, negli Stati Uniti e in Germania, mentre si manteneva stazionario in Francia e diminuiva in Italia e Regno Unito. Nei mesi successivi, in termini congiunturali il quadro non mutava: il prodotto interno lordo registrava un incremento in Giappone, negli Stati Uniti e in Germania, mentre diminuiva nel Regno Unito ed rimaneva stabile in Francia, collocandosi a livello stazionario rispetto al 2011 su scala europea. Particolarmente colpite dalla crisi del settore industriale Italia, Spagna, Portogallo e Grecia, con sensibili riduzioni degli ordinativi e perdita di interi settori produttivi, cali profondi del pil che annullavano gli effetti della ripresa a cavallo tra 2009 e 2010, e aggravamento della disoccupazione, specie giovanile. Secondo le stime dell'Ocse nell'insieme il Pil aggregato del G7 per il 2012 si incrementava dell'1,4%, ma in maniera molto difforme: se la Germania accumulava una crescita dello 0,8, la Francia non registrava alcun aumento, la Gran Bretagna subiva un calo dello 0,7%, mentre USA e Giappone cresevano del 2,3 e del 2,2. Se il Pil europeo rimaneva fermo, il Pil mondiale si portava invece sul 3,5, con un forte timore del blocco della domanda aggregata mondiale a causa delle previsioni negative per le economie emergenti. Per la seconda volta nel giro di tre anni, la zona euro entrava così in recessione: dopo aver registrato una crescita nulla nel corso dei primi tre mesi del 2012, i due trimestri successivi mostravano una passività complessiva (rispettivamente, -0,1% e -0,2%). A differenza di Italia e Spagna, il Pil di Germania e Francia rimaneva leggermente superiore allo zero.

Il rallentamento economico riguardava anche le economie dei BRICS, con una crescita attestata sui 3 punti percentuali per quanto attiene il Brasile, e uno sviluppo rispettivamente del 7,5, del 6,6 e del 4, relativamente a Cina, India e Russia. A ciò va aggiunto che i costi del greggio di qualità Brent apparivano instabili (con una discesa dei prezzi arrestatasi solo a novembre, a fronte di un picco raggiunto a marzo), a causa dal peggioramento del quadro congiunturale globale, dalle politiche espansive delle banche centrali (che provocavano un aumento della domanda e delle quotazioni dell'oro), e del persistere di tensioni di natura geopolitica sull’offerta (guerra civile siriana e libica, problemi produttivi nel Mare del Nord, minaccia di attacco israeliano all'Iran). All'interno di questo quadro, la Cina, dopo aver commerciato in yuan con Giappone e Iran lo scorso giugno, il 6 settembre 2012 decise di pagare le forniture di greggio provenienti dalla Russia con la propria valuta senza ricorrere al dollaro.

Crisi dei debiti sovrani

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Per approfondire, vedi Crisi del debito sovrano europeo.

La crisi economica apparve ulteriormente aggravata dalla crisi dei debiti pubblici di alcuni stati europei (Grecia, Irlanda, Spagna, Portogallo, Italia, Cipro, Slovenia), i cui piani di salvataggio finanziario (erogati dalla cosiddetta troika) volti a scongiurare il rischio di insolvenza sovrana (default), con effetti che si rilevarono tuttavia ulteriormente recessivi, furono subordinati all'accettazione di misure di politica di bilancio fortemente restrittive sui conti pubblici (austerity) e aumenti delle imposte.

La riduzione del ruolo dello Stato imposta dal FMI e dall'UE appariva ispirata a politiche economiche neo-liberistiche (riduzione della spesa pubblica, consolidamento del bilancio, privatizzazioni massicce, abolizione dell'interferenza di enti regolatori), affermatesi alla metà degli anni 70 come soluzione per il superamento della recessione seguita alla crisi petrolifera, ma sempre rimaste nell'agenda del Fondo monetario.

Tali ricette neoliberiste sono state pesantemente messe in discussione, venendo sempre più spesso contraddette e additate, da gran parte del mondo accademico internazionale (specie di formazione keynesiana), come una delle cause dell'aggravarsi dello stato di crisi che, soprattutto all'interno dell'Eurozona.

Crisi greca

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Per approfondire, vedi Crisi economica della Grecia.

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Crescita del debito pubblico greco tra il 1999 e il 2012 nel confronto con gli altri paesi della zona dell'euro

La Grecia, nella prima parte del 2009, sembrava avere attraversato la fase di crisi internazionale in maniera relativamente meno negativa, supportata dalla capacità di resistenza delle sue esportazioni e da consistenti aumenti salariali. Negli anni precedenti la Grecia aveva conosciuto uno sviluppo economico sostenuto (fino alla recessione del 2008 nel 2006 il pil cresceva del 5,6%, nel 2007 del 4,28%). Nell'ultima parte del 2009 la situazione però peggiorò drasticamente (il pil nel 2009 calò del 2,04%).

A ottobre il nuovo governo a guida socialista di George Papandreou rese noto che il deficit di bilancio nel 2009 avrebbe raggiunto il 12,7% del Pil: più del triplo di quanto previsto dall’amministrazione precedente. Il governo Karamanlis aveva nascosto un buco di bilancio nei conti di Atene sconosciuto alle autorità europee. Gli effetti di tale annuncio, avvenuto in concomitanza con la crisi del settore immobiliare a Dubai e l’avvio della discussione su una futura exit strategy da parte della BCE, si concretizzarono nel declassamento dell'affidabilità finanziaria della Grecia sul suo debito da parte delle maggiori agenzie di rating, suscitando forti preoccupazioni circa la possibilità di default della Grecia.

Il governo Papandreou sceglie una linea di intervento che punta ad attuare una serie di tagli della spesa pubblica insieme a provvedimenti profondamente impopolari, stridenti peraltro con il suo programma politico. La diffusione della reale situazione economica delle Grecia gettò l'allarme sui mercati finanziari. Il 16 dicembre 2009 Standard & Poor’s tagliò il rating sul debito di Atene a BBB+; dopo pochi mesi, il 27 aprile, la stessa agenzia opererà taglio di rating sul debito greco di altri tre livelli declassandolo a BB+, ossia al livello di "obbligazione spazzatura" (junk bond). Emerse, a giudizio degli osservatori, il rischio di un "contagio" che toccasse anche altri stati della periferia europea come Portogallo, Spagna e Irlanda.

Il segno della debolezza dell'UE risiedeva nell'assenza di un meccanismo che consentisse agli organismi europei di difendere i propri membri più fragili in caso di crisi gravi. Papandreou promise un rientro del deficit greco al 3% del Pil (entro i parametri di Maastricht) in quattro anni. Tuttavia la scoperta di un debito pubblico superiore al 120% del Pil, con un deficit intorno al 13%, un'economia sommersa pari a un quarto del Pil e la corruzione ammontante a 20 miliardi di euro l’anno, mise in discussione le rassicurazioni del governo greco, difficilmente in grado di riequilibrare autonomamente il bilancio dello stato. Nei mesi successivi la Grecia sarebbe stata costretta a operare nuovi tagli decisi del deficit statale ed approvare pesanti interventi di riduzione della spesa statale, venendo obbligata dalle continue emergenze di liquidità ad essere rifinanziata con nuovi piani di concessione di credito da parte di FMI, Commissione Europea e BCE (designati nel gergo giornalistico "troika").

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Prezzi dei Credit default swap di alcuni paesi europei da gennaio 2010 ad aprile 2013.

Ripercussioni mondiali

Il 25 maggio 2010 segnò un'ennesima seduta bancaria negativa con forti vendite di titoli (113 miliardi di euro di capitalizzazione bruciati nel continente). La paura fu scatenata dal fatto che le misure di risanamento adottate dall'Europa potessero minare la ripresa economica. Contestualmente vennero annunciate importanti manovre di bilancio d'emergenza, tese al contrasto del deficit e alla riduzione del debito pubblico. Il capo del dipartimento del Tesoro Usa Timothy Geithner e il presidente della Fed Ben Bernanke incontrarono il vicepresidente cinese Wang Qishan per cercare di convincerlo a promuovere ulteriori svalutazioni dello yuan. Il deprezzamento dell’euro sul dollaro e sulla stessa moneta cinese metteva a rischio le esportazioni cinesi e in parte quelle statunitensi.

Il petrolio, inoltre, risentì pesantemente gli effetti della nuova crisi in quanto collegato al dollaro e alla domanda di energia dell’Europa. In giugno ulteriori riduzioni del rating greco fecero aumentare le preoccupazioni mondiali sul possibile default della Grecia o su una eventuale sua uscita dall'eurozona (pur non contemplando il trattato di Lisbona -art. 50- la possibilità dell'uscita dall'unione monetaria, ma solo dall'Unione unica), e sulla eventualità dell'indebolimento, come conseguenza indiretta, della moneta unica europea, provocando forti ribassi nelle piazze borsistiche. Lo "spettro" dell'insolvenza greca continuò ad agitarsi sull'Europa per tutto il 2011 e fino al 2012, provocando un persistente stato di instabilità sui mercati borsistici del pianeta, soprattutto nei momenti in cui gli investitori percepivano difficoltà nel raggiungimento di un accordo con i creditori.

Piano di salvataggio europeo

Il 2 maggio 2010 venne varato un finanziamento da 110 miliardi di euro, in cambio di forti interventi di austerità da parte del governo greco, appoggiato dall’Unione Europea e dal Fondo Monetario Internazionale dopo che l’euro era già sceso sotto un cambio di 1,3 contro il dollaro. Dopo un venerdì terribile, l'8 maggio, i vertici Ecofin annunciarono il lunedì successivo la creazione di un fondo europeo da circa 750 miliardi di euro per il sostegno dell’Eurozona. Il piano prevedeva, per la prima volta nella storia dell'Europa, prestiti bilaterali dagli stati della zona euro per 440 miliardi, 60 di fondi del bilancio Ue e fino a 250 miliardi di contributi prestati dal FMI (pari a un terzo del totale), nonché la possibilità (mai avvenuta in passato) di intervento della BCE, in grado agire sul mercato secondario dei titoli di stato acquistando obbligazioni pubbliche.

Il crollo degli indici borsistici della seduta dell'8 maggio aveva mostrato come il caso della Grecia pesasse sul futuro stesso della tenuta dell'unione monetaria europea. I dubbi del governo di Berlino e i timori di un allargamento del "contagio" ad altri stati periferici come il Portogallo, la Spagna, l’Irlanda e, dopo che la si era ritenuta inattaccabile, anche l’Italia finirono per generare il panico nei mercati. Sui mercati obbligazionari e su quelli dei credit default swap, polizze assicurative contro il default degli stati, spesso strumento della speculazione divenuto riferimento per la fissazione dei rendimenti, e la crescita dei tassi d'interesse chiesti dagli investitori in titoli statali, dimostrò l'allargamento della crisi all'intera Eurozona.

Presto, l'inefficacia dei piani di austerità e la profonda crisi dell'economia del paese (il debito in rapporto al Pil salì rapidamente al 160%), indussero l'Institute of international finance (IIF), la BCE e l'UE ad avviare complesse trattative per la ristrutturazione (riduzione) del debito greco, decidendo il coinvolgimento del settore privato (banche, fondi d’investimento, fondi pensioni e hedge fund), ormai anche disposto a un severo "haircuit" (taglio) dei bond greci impossibili da rimborsare per le finanze elleniche, di cui larghe posseditrici apparivano numerose banche francesi e tedesche. Il 26 ottobre 2011 si decise un abbattimento forfettario del debito del 50% a carico dei creditori privati. Alla vigilia del vertice del G20 convocato a Cannes per il 3 e 4 novembre Papandreou rese nota la volontà da parte sua di indire un referendum sull'accordo europeo per il salvataggio del paese. Pochi giorni prima lo stesso Papandreou aveva operato la sostituzione improvvisa dei vertici delle forze armate, secondo alcuni, nel timore di possibili golpe. La diffusione della notizia del referendum portò a un'ondata di vendite sul mercato borsistico. Pochi giorni dopo il premier greco rassegnerà le dimissioni, venendo sostituito da un ex membro della Bce, Lucas Papademos, sostenuto da una maggioranza parlamentare trasversale.

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Rating S&P (giudizio di affidabilità finanziaria) dei paesi europei a gennaio 2013.

Le trattative per l'abbattimento del debito (o per un "default controllato", come è stato definito) proseguirono per diversi mesi e tra difficoltà, innescando timori sulle borse, soprattutto per la possibilità che il taglio del debito potesse non essere sufficiente ad evitare l'insolvenza delle casse greche; inoltre nuove misure economiche e riforme vennero richieste, soprattutto dalla Germania, al governo Papademos a condizione dell'ottenimento di un secondo piano di assistenza finanziaria, approvate in definitiva dal parlamento greco a febbraio 2012 (con tagli dei salari minimi e messa in mobilità di 15.000 statali). Nella notte del 21 febbraio infine, l'Eurogruppo, raggiunto un accordo con I'IIF per un taglio del valore nominale dei titoli greci del 53,5% (che saliva in termini reali a un valore vicino al 75%) e di una riduzione del debito greco di circa 100 miliardi, concesse con riserva un prestito di 130 miliardi alla Grecia evitandone l'insolvenza. Lo stato greco in cambio fu costretto ad accettare un controllo più stringente dei bilanci da parte della Troika (UE, BCE, FMI), con il rafforzamento della missione dei contabili della Commissione e del Fondo monetario presso Atene. L'operazione di finanziamento venne confermata con l'adesione allo swap da parte dei creditori (nella misura del 95%) il 9 marzo.

Crisi irlandese

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Debito pubblico in rapporto al Pil nel mondo (2010)

L'Irlanda fu investita dallo scoppio della bolla speculativa immobiliare -Irish property bubble- (fortissima espansione del settore edilizio) con il repentino ribasso dei prezzi delle abitazioni, tra 2007 e 2008, che gettò in crisi l'intero sistema bancario del paese. L'Irlanda aveva conosciuto un periodo di espansione economica tra i più vasti della sua storia, a tal punto che tale periodo storico venne definito della "Tigre celtica" (ventennio 1988-2008). In tempi recenti una crescita avvenuta con la leva degli aumenti salariali e l'attrazione di investimenti esteri (grazie al ricorso al dumping fiscale), accanto alla speculazione immobiliare che aveva contribuito a provocare l'espansione economica (con conseguente crescita della domanda di investimenti), della domanda interna e della prosperità delle famiglie (susseguente all'allargamento della capacità del credito), aveva segnato il riscatto del paese dopo decenni passati di arretratezza.

Le conseguenze della crisi nei mesi del 2009 apparvero dure: riduzione del Pil del 7,5%, tasso di disoccupazione al 13,8% nel 2009 (12,5% nel marzo 2010), una deflazione al 6,5% nello stesso 2009, un aumento del deficit pubblico da 33,6 miliardi di euro a 40,46 miliardi di euro, contenuto da un rapporto debito-PIL del 63,7%. I timori, sul piano internazionale, relativi ad un indebolimento delle finanze pubbliche irlandesi erano inizialmente legati al piano di salvataggio di 30 miliardi deciso dal governo irlandese a sostegno della Anglo-Irish bank, cifra vicina al 20% del Pil e che avrebbe portato a un eccessivo ingrandimento del deficit. L'impennata degli spread fra titoli del debito irlandese e titoli tedeschi, rafforzava i segnali di sfiducia del mercato nei confronti delle finanze irlandesi e della sua capacità di ripagare i rendimenti: il 25 agosto i CDS irlandesi salirono a 322 punti base.

Dopo che la BCE aveva già elargito finanziamenti a medio termine per le banche irlandesi, il governo di Brian Cowen fu così costretto a cedere alle pressioni europee e del FMI accettando a fine novembre un programma di salvataggio accanto a un prestito di 85 miliardi di euro (concertato anche assieme a paesi non membri della zona dell'euro, Gran Bretagna, Svezia e Danimarca), cui sarebbe corrisposto un piano di austerità e di contenimento del deficit, con severe riduzioni della spesa sociale, tagli degli stipendi pubblici e applicazione di nuove imposte. Il 12 luglio 2011 l'agenzia internazionale di rating Moody's tagliò il rating dell'Irlanda a livello "junk" (Ba1), con prospettive negative, nel timore che "al termine del corrente programma di aiuti di Unione europea e Fondo monetario, alla fine del 2013, il Paese abbia bisogno di ulteriori finanziamenti prima di tornare sul mercato. E con la probabilità che una partecipazione del settore privato sia richiesta come precondizione per un sostegno addizionale".

Crisi portoghese

A inizio aprile 2010 le banche portoghesi danno l'annuncio di non essere in grado di acquistare in asta i titoli del debito pubblico portoghese, destando la sorpresa del mercato. L'esito, anch'esso molto anomalo, dell'asta dei titoli di stato a breve termine portoghesi il 6 aprile 2011, con i T-bill a scadenza semestrale e annuale, assegnati con tassi in forte rialzo rispetto alle emissioni precedenti costituì il campanello d'allarme per l'imminente crisi di liquidità dello stato portoghese. Il Portogallo stava scontando la condizione di tassi di crescita economica molto lievi, dovuti all'erosione continua di competitività, di salari troppo alti rispetto alla produttività, di infrastrutture inadeguate o insufficienti, istruzione inadeguata e scarsa razionalizzazione della spesa pubblica. L'assenza di sviluppo si combinò con un gettito fiscale insufficiente, fattori che inseriti nel contesto di una crisi di fiducia degli investitori condussero rapidamente il Portogallo ad essere incapace di rifinanziarsi sul mercato e di onorare il debito già contratto. Nel marzo 2011 il premier José Sócrates era stato costretto alle dimissioni in seguito alla bocciatura in aula delle misure di austerità (quarta manovra economica in ordine di tempo).

Dopo aver fatto richiesta ufficiale di aiuti per 80 miliardi di euro, l'eurogruppo approvò il piano di salvataggio del Portogallo, concesso a condizione che il parlamento approvasse il risanamento di bilancio. L'intervento, dell'ammontare complessivo di 80 miliardi, fu concesso in una situazione di estrema emergenza di fondi dello stato, impossibilitato a coprire i rimborsi e le spese ordinarie. Successivamente il parlamento portoghese sarà costretto a discutere e approvare pesanti misure riduzione del disavanzo e delle spese, tra le più dure degli ultimi 50 anni. Il 5 luglio 2011 anche il Portogallo fu colpito dal declassamento di Moody's, con un taglio di quattro note del rating a lungo termine (dal Baa1 a Ba2) e outlook negativo alla luce - secondo il comunicato ufficiale dell'agenzia - del "crescente rischio che il Portogallo chieda una seconda tranche di finanziamenti internazionali prima che possa tornare sul mercato privato e dell’aumento delle possibilità che venga chiesta come pre-condizione la partecipazione del settore privato".

Crisi del debito italiano

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Percentuali di deficit/surplus (blu), debito (verde) e Pil (arancio) di Irlanda, Portogallo, Spagna, Grecia e Italia, confrontati con quelli di UE, Eurozona, Regno Unito e Germania

La crisi del debito italiano fu scatenata da tre ragioni combinate: l'alto livello del debito pubblico, in rapporto al Pil (che subì una forte crescita a partire dal 2008, in coincidenza con la crisi, dopo diversi anni di complessiva riduzione); la scarsa o assente crescita economica, con il prodotto interno lordo aumentato in termini reali solo del 4% nel decennio 2000-2010, e andato poi a ridursi progressivamente; la scarsa credibilità dei governi e del sistema politico, spesso apparso privo di decisione o tardivo nell'affrontare le emergenze del paese agli occhi degli osservatori internazionali e degli investitori.

L'indebitamento estero del settore privato (soprattutto verso i paesi centro-europei, cresciuto con l'adesione all'UEM), l'impossibilità di ricorrere alla svalutazione della moneta (proibita dagli accordi di Maastricht) per stimolare la competitività delle esportazioni, il forte deficit della bilancia commerciale, cui va aggiunto il dato dell'enorme quantità di debito pubblico pregresso (aumentato inoltre tra 2008 e 2011 del 7%), indussero molti investitori, soprattutto esteri, a nutrire sfiducia verso la capacità dell'Italia di essere solvibile, provocando un deflusso di investimenti e un ritiro improvviso dei capitali (con conseguente impennata dei tassi di interesse sui titoli di stato).

Le tensioni legate all'instabilità politica e all'approfondirsi della crisi erano attenuate, sul piano internazionale, dagli interventi monetari della Banca centrale europea e dal controllo delle politiche di spesa assunto dai vertici europei. Tale subalternità alle scelte europee avveniva a prescindere delle maggioranze e degli equilibri politici interni del paese, tanto da definire una sostanziale eterodirezione (o "commissariamento", termine ricorrente nel gergo giornalistico) delle iniziative dei governi da parte delle burocrazie dell'UE e dell'Eurotower.

Innalzamento del differenziale di rendimento

Il 2009 aveva visto un crollo del Pil italiano del 5%, mentre l'indebitamento della amministrazioni pubbliche era aumentato a 80,8 miliardi, pari al 5,3% del Pil; il deficit aveva visto un incremento del 2,6%. Molto pesante fu il crollo del settore industriale, calato del 15,1%, come anche gli ordinativi che subirono un brusco contraccolpo. Particolarmente consistente fu il crollo del settore dell'auto, con un calo delle vendite a dicembre del 2008 del 48,9%. Sul fronte del debito pubblico, tra il 2008 e il 2010, nel contesto di una scarsa crescita e di un'economia in stagnazione (pur avendo avuto il Pil italiano un incremento nel 2010 intorno all'1,2%, ma segnando un nuovo calo nel 2011 con percentuali vicine allo zero), il debito pubblico italiano aumentò dal 103,6% al 119,0% (quarto valore più grande al mondo in rapporto al Pil), per un ammontare complessivo nel 2010 a 1.843.015 milioni di euro, a fronte di un Pil pari a 1.548.816 milioni.

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In rosso, gli stati europei chiamati "PIGS" nel mondo anglosassone (in inglese "maiali"), cioè Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna, indicati come fomiti di tensioni nell'eurozona, in virtù della loro ritenuta cattiva situazione finanziaria e economica. A questi si è aggiunta prima l'Italia formando l'acronimo "PIIGS" e poi il Regno Unito con l'acronimo "PIIGGS".

L'ammontare dei titoli di stato italiani in circolazione fa riferimento a tutti i titoli emessi dallo stato, sia sul mercato interno (attraverso BOT, CTZ, CCT, BTP e BTP€i), sia sul mercato estero (programmi global, MTN e carta commerciale). A partire dal 2008 la forbice tra buoni del tesoro poliennali e Bund inizia ad ampliarsi. Essa appariva quasi del tutto irrilevante nel 2006, quando il tasso di rendimento dei titoli italiani rispecchiava un'affidabilità superiore ai Treasuries americani e ai Gilts britannici. Nel 2008 tuttavia lo spread raggiunse la soglia vicina ai 100 punti base, salendo l'anno successivo di ulteriori 50 punti e raggiungendo in dicembre i 176 punti base.

La crisi del debito sovrano italiano raggiunse la sua fase più acuta a partire dall'estate del 2011, dopo che già Grecia, Irlanda e Portogallo avevano, a vario titolo, riscontrato difficoltà nel collocamento dei titoli di debito pubblico sul mercato finanziario (con tassi di rendimento ormai attestati su soglie proibitive), giungendo nella condizione di non potersi rifinanziare. Ciò alla fine di un anno circa lungo il quale il costo della raccolta per il Tesoro aumentò di oltre 1,5 punti percentuali: il BTP quinquennale nel 2010 assegnato in asta attorno al 2,64%, a luglio 2011 toccava il 4,629% (+2% circa).

Fino all'inizio dell'estate 2011, tuttavia, i buoni del tesoro poliennali italiani avevano conservato contenuti rendimenti e buona appetibilità sul mercato, tanto da essere considerati un "bene rifugio", al pari dei titoli dei paesi più solidi dell'eurozona sotto il profilo dell'affidabilità del debito (Germania, Olanda, Austria e Francia). Per oltre dieci anni dall'introduzione della moneta unica l'Italia aveva potuto collocare a tassi vantaggiosi i propri titoli di stato, pur nelle differenze oggettive tra le economie dei paesi membri e nonostante le difficoltà maggiori riscontrate dall'Italia, già prima dell'adesione all'eurozona, nella distribuzione dei titoli pubblici.

Prima che esplodesse la crisi della Grecia, nella primavera 2011 il Tesoro italiano rifinanziava il debito pubblico collocando titoli di stato in asta con costi medi all'emissione scesi a livelli record del 2,1 per cento. In un'asta tenutasi a metà luglio, però, i titoli a 15 anni vennero venduti al 5,90%, il massimo della storia della moneta unica, mentre quelli a 5 anni al 4,93%. L'ampliamento dello spread, il differenziale di rendimento fra titoli di stato italiani e tedeschi (Bund), contribuì a innescare una crisi di fiducia sulla redimibilità dell'Italia, provocando il ribasso dei mercati azionari europei e in particolare della Borsa di Milano. In una progressività crescente, il differenziale si attestò a 200 punti a fine giugno, a 350 a inizio luglio, a 400 a inizi agosto, per poi scendere lungo il mese di agosto, in coincidenza con l'intervento della BCE, e arrivare a 500 ai primi di novembre, toccando il massimo degli ultimi anni il 9 novembre 2011.

Tagli di rating e intervento della BCE a sostegno del sistema bancario

Le banche italiane, benché scarsamente esposte sul versante degli asset tossici, erano largamente posseditrici di buoni del tesoro. Il 60% del portafoglio titoli delle principali 5 banche italiane, con Intesa Sanpaolo e Unicredit principalmente, includeva bond italiani, percentuale equivalente a quasi 100 miliardi di titoli pubblici. Le stesse maggiori banche italiane (Intesa Sanpaolo, Unicredit, Montepaschi, Banco Popolare, Ubi Banca) nella seconda settimana di luglio registrarono perdite sul mercato borsistico, segnato da vendite da panico, speculazione e meccanismi automatici di vendita, per circa 8 miliardi di euro di capitalizzazione. La situazione era resa ancora più seria dal fatto che l'Italia fosse costretta continuamente a emettere titoli per rifinanziarsi, con aste a scadenza settimanale, e che fosse necessario che tali titoli venissero venduti a percentuali di interesse che non comportasse né un bagaglio di eccessivi oneri per le capacità delle finanze statali, né l'eventualità di risultare ad alto rischio per gli investitori, difficilmente disponibili all'acquisto di titoli laddove il pericolo d'insolvenza dell'emittente fosse ritenuto realistico.

Nella notte del 20 settembre 2011 l'agenzia internazionale di rating Standard & Poor's annunciò, a sorpresa, la decisione di tagliare il voto di affidabilità sul debito pubblico italiano, con prospettive future negative, a motivo della "limita capacità di risposta dello stato" rispetto alla crisi corrente. A fine novembre lo spread continuò a crescere, giungendo alla soglia dei 495 punti, con il titolo triennale che sfiorò l'8% tornando a livelli sfiorati solo nel 1996. Sotto le pressioni di Piazza Affari in caduta e dei rendimenti dei titoli italiani in costante ascesa, il premier Silvio Berlusconi, infine, nella serata del 12 novembre, raggiunto un accordo col capo dello stato Giorgio Napolitano, rassegnò le proprie dimissioni dall'esecutivo. Alcuni giorni prima il presidente della Repubblica aveva nominato senatore a vita Mario Monti, decisione ritenuta un atto di investitura ufficiale per il conferimento dell'incarico per un nuovo governo. Il neo senatore infatti scioglierà la riserva il giorno dopo le dimissioni di Silvio Berlusconi, accettando l'incarico di formare un nuovo governo, composto esclusivamente di tecnici. In conseguenza della nomina a senatore a vita e della formazione del governo il differenziale btp-bund si ridusse sensibilmente, per poi tornare a salire a fine anno toccando nuovamente i 500 punti base.

Il 13 gennaio 2012 Standard's & Poor's declassò ulteriormente il rating italiano portandolo da A a BBB+, collocandolo nella posizione medio-bassa della scala di giudizio relativa alla solvibilità. Lo stesso giorno la medesima agenzia sottrae di un punto il rating di livello massimo della Francia e dell'Austria (portandoli ad AA+), decurtando ulteriormente anche quelli di Portogallo (BB), Malta, Slovacchia e Slovenia. L'agenzia emise la decisione motivandola con la condizione di persistente instabilità nella zona euro. S&P segnalò il peggioramento delle condizioni del credito nell'intera eurozona, l'aumento dello spread per diversi paesi, anche con tripla A (rating di livello massimo), denunciando il disaccordo fra i leader europei sulle misure necessarie a allentare il panico sulle piazze europee e a risollevare la fiducia degli investitori. L'agenzia sottolineò infine l'elevato livello di debito pubblico e privato e il crescente rischio di recessione nel 2012, come fattori forieri di un ridotta stabilità finanziaria.

All'inizio del 2012, dopo la manovra di 20 miliardi di euro attuata dal governo Monti allo scopo di consolidare le finanze dello stato (nella prospettiva del raggiungimento del pareggio di bilancio, nei piani del governo utile ai fini dell'abbattimento del debito), nonostante il giudizio negativo deciso dalle agenzie S&P e Fitch, si assisteva a un miglioramento dell’opinione dei mercati, che vide calare in modo consistente i costi dell’indebitamento italiano in una serie di aste del debito sovrano con buone sottoscrizioni. Lo spread, risalito tra dicembre e gennaio, andò incontro a una progressiva riduzione fino al mese di marzo, contestualmente all'attenuarsi del timore su un possibile default greco. La riduzione dei rendimenti fu dovuta in particolare all’operazione di liquidità di tre anni della Bce, il Long term refinancing operation (LTRO), che alcune banche italiane utilizzarono per acquistare debito sovrano. Sul versante dell'economia reale la situazione continuava a mantenersi però nel complesso negativa, vedendo la disoccupazione giovanile in costante aumento, un considerevole calo dei consumi, una riduzione del credito dalle banche e una prospettiva di contrazione del Pil per il 2012 di più di un punto percentuale.

Piani di acquisto eccezionali da parte delle banche centrali

Piani di sostegno ai debiti europei e agli istituti di credito


Il 16 agosto 2011, di fronte al precipitare della situazione, con i rendimenti dei Bot italiani e dei Bonos spagnoli in aumento, la BCE annunciò l'attuazione di un intervento massiccio sul mercato obbligazionario, ricorrendo all'acquisto dei titoli europei più esposti alle vendite e alla speculazione. L'intervento della Bce (Securities Markets Programme), già deciso il 14 maggio del 2010, cessato per 19 settimane, e fattosi più ingente con l'aumento delle tensioni sui titoli italiani, costituì un mutamento importante del ruolo dell'istituzione responsabile della politica monetaria dell'eurozona, rispetto alla precedente convinzione che dovesse essere demandata principalmente ai governi nazionali la responsabilità del contenimento degli squilibri interni. Nello stesso periodo gli Stati Uniti persero la tripla A del rating di Standard & Poor's, il giudizio di massima affidabilità sui mercati finanziari, non determinando tuttavia grosse conseguenze sul mercato borsistico. Nella seconda settimana di agosto la BCE ricorse ad acquisti di titoli di stato dell'Eurozona per 22 miliardi di euro, contribuendo a ridimensionare il livello dello spread dei rendimenti dei bond italiani e spagnoli. L'acquisto di Btp italiani proseguirà anche nei mesi successivi, giungendo a novembre ad un ammontare complessivo di acquisti per 70 miliardi di euro.

L'intervento della BCE, tuttavia, a giudizio di numerosi analisti, doveva limitarsi non già all'acquisto nel breve-medio periodo, dei bond dei paesi membri, ma doveva superare il ruolo stesso sancito dai trattati europei (ovvero di istituto che preservasse dai rischi di inflazione) per assumere quello di prestatore di ultima istanza, al pari di altre banche centrali mondiali. L'acquisto di titoli pubblici avrebbe dovuto proseguire fino a quando gli spread non fossero rientrati in regime di maggiore sostenibilità. Tale eventualità tuttavia incontrava l'opposizione dei banchieri centrali tedeschi e, a fasi alterne, degli stessi governi tedesco e francese. Alternativa alla veste di "prestatore" della BCE fu la proposta di obbligazioni comunitarie, detti "Eurobond", ovvero la creazione di titoli del debito pubblico dei paesi facenti parte dell'eurozona, al fine di contenere gli effetti della crescita dei rendimenti dei paesi periferici europei. Anche la proposta degli Eurobond riceveva l'accoglienza fredda, financo ostile, degli stati sedicenti "virtuosi" della comunità europea (Germania in testa), i quali paventavano il rischio di assumere, senza alcuna garanzia, un onere aggiuntivo, in termini di costo del debito, a favore dei paesi ritenuti meno rigorosi sotto il profilo della finanza pubblica.

A settembre 2011 il membro tedesco del board della Banca Centrale, Juergen Stark, rassegnò le proprie dimissioni in polemica con l'acquisto di titoli di stato. A dicembre, il neo governatore della BCE Mario Draghi, che sin dal primo giorno del suo mandato ruppe la strategia di contenimento dei tassi fin lì tenuta dall'istituto, annunciò misure eccezionali a favore delle banche allo scopo di garantire accesso alla liquidità agli istituti di credito, negando tuttavia la possibilità che l'istituto centrale potesse monetizzare i debiti europei minando la base monetaria. Sempre a dicembre, il rischio che il mercato creditizio cominciasse a permanere in uno stato di irrigidimento dell'incontro tra domanda e offerta di risorse finanziarie si fece più diffuso. Secondo stime di Morgan Stanley la limitata capacità delle banche di prestare a tassi ragionevoli fu causata dal virtuale congelamento del mercato delle obbligazioni bancarie, tale da configurare già dall'estate 2011, in coincidenza con l'allargamento della crisi dei debiti, un pesante aggravamento della stretta del credito (credit crunch), con soli 20 miliardi di euro collocati dalle banche europee tra giugno e ottobre. In dicembre la stessa Autorità bancaria europea (EBA) evidenziò la necessità di una urgente ricapitalizzazione da parte delle banche europee.

Nel successivo 2012 le operazioni di quantitative easing (operazione volta ad aumentare la quantità di moneta in circolazione attraverso l’acquisto di titoli) da parte delle banche centrali si intensificavano, non solo per iniziativa della BCE (programma Ltro). La Fed, a settembre 2012, lanciò l’inizio del terzo ciclo di Qe al ritmo di 40 miliardi di dollari al mese, senza precisarne la fine. Operazioni analoghe venivano operate dalla Banca centrale del Giappone (BoJ) e da quella del Regno Unito (BoE). Analoga, anche se di diversa natura, l’immissione record da 46 miliardi di dollari di liquidità da parte della Banca Popolare Cinese (Repo), decisa il 25 settembre, con l'obiettivo di stimolare la domanda interna (discostandosi, sin dal 2008, dalla linea di austerity imposta dall’Uem e dell’Inghilterra), seguita da un'altra iniezione il 10 ottobre (di altri 42 miliardi di dollari), a causa del peggioramento del quadro congiunturale e delle basse prospettive di crescita, molto vicine alla soglia del 7%.

Long term refinancing operation

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Per approfondire, vedi Long term refinancing operation.

A gennaio 2012 la BCE però negò l'insistenza di una condizione di stretta del credito, sebbene a partire dal novembre precedente si fosse riscontrato un rallentamento dei crediti e in dicembre l'istituto avesse versato una quantità record di liquidità (489 miliardi) a 523 banche europee in un'asta con tassi di interesse all'1%, nell'ambito di un programma straordinario denominato "Long term refinancing operation".

I dati degli ultimi mesi rivelarono inoltre come lo stock di depositi detenuti dalle banche della zona euro presso la Bce (deposit facility) avesse raggiunto un livello vicino ai 500 miliardi di euro, aumentato in modo marcato nel periodo dell'aggravamento della crisi del debito sovrano, ma esploso a seguito dello stesso finanziamento straordinario da parte della BCE. L'intervento a favore degli istituti bancari europei doveva servire a fornire (sebbene solo virtualmente, considerata anche la riluttanza da parte delle banche a operare qualsivoglia operazione, compresa l'attività di acquisto di titoli, che esponesse le banche a rischi di crisi di liquidità) la quantità necessaria di risorse utili a sostenere l'acquisto dei titoli di debito per calmierare il costante aumento dei livelli di spread (in una strategia "indiretta" di sostegno a favore degli stati dell'eurozona).

Le banche europee infatti possono ricorrere a rifinanziamenti dalla propria banca centrale, ma con l'obbligo di versare titoli di garanzia, ovvero un "collaterale", che qualora non fosse stato più sufficiente, a causa delle difficoltà finanziarie degli istituti, poteva essere coperto dall'emissione di obbligazioni garantite dagli stati, in modo da consentire alle banche di ottenere liquidità e di reinvestirla nell'acquisto di bond pubblici, a loro volta offerti come garanzia per accedere alle operazioni di quantitative easing operate dalla Banca Centrale.

Un piano di finanziamento di uguali proporzioni rispetto a quello del 21 dicembre fu operato dalla banca centrale il 29 febbraio. La BCE elargì un prestito di 530 miliardi a tre anni al tasso dell'1% alle banche europee, nell'intento che tale somma potesse stimolare la ripresa economica col sostegno da parte degli istituti di credito a imprese e famiglie.

Outright Monetary Transactions

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Per approfondire, vedi Outright Monetary Transactions.

Il 6 settembre 2012 il presidente della BCE Mario Draghi annunciò un nuovo piano di quantitative easing sul mercato secondario da parte dell'istituto, denominato Outright Monetary Transactions (OMT). Di fronte all'aperta ostilità della Bundesbank e di parte dell'opinione pubblica tedesca, Draghi dette avvio a un piano di acquisto di titoli sovrani dei paesi esposti all'insostenibile incremento dei rendimenti, al fine di “salvaguardare l’omogeneità del meccanismo di trasmissione della politica monetaria nell’area euro”. L'obiettivo appariva quello di porre un argine al crescente disimpegno di molti investitori privati o istituzionali rispetto al finanziamento dei debiti pubblici di alcuni stati europei. Il meccanismo avviato da Draghi era vincolato al rispetto di quattro presupposti:

1. prevedeva un piano di acquisti illimitato nella sua portata;

2. gli acquisti di titoli non ponevano in discussione l'integrità della base monetaria, ovvero non comportavano un aumento del medio circolante;

3. l’acquisto di titoli si rivolgeva ai bond con scadenza dall'uno ai tre anni, lasciando fuori quelli a scadenza sessennale (termine medio del debito pubblico italiano ) e decennale;

4. il piano di intervento prevedeva, a carico del paese a beneficio del quale interveniva, un programma di "stabilizzazione macroeconomica", deciso con l’Esm, ovvero il rispetto di un memorandum di riforme imposte dall'autorità centrale europea.

Meccanismo europeo di stabilità

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Per approfondire, vedi Meccanismo europeo di stabilità.

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Paesi membri del MES.

Il Meccanismo europeo di stabilità (abbr. MES) fu istituito dalle modifiche al Trattato di Lisbona approvate il 23 marzo 2011 dal Parlamento europeo e confermate dal Consiglio europeo a Bruxelles il 25 marzo 2011. Esso si configurava inizialmente come Fondo finanziario europeo della zona euro (art. 3 del Trattato isitutivo). Esso ha assunto, con l'aggravarsi della crisi, la struttura di vera e propria organizzazione intergovernativa (sul modello dell'FMI), a motivo dell'impianto fondato su un consiglio di governatori e su un consiglio di amministrazione e del potere, attribuito dallo stesso trattato, di imporre scelte di politica macroeconomica ai paesi aderenti al fondo-organizzazione che ne dovessero richiedere l'intervento.

Il Consiglio Europeo di Bruxelles del 9 dicembre 2011, con l'aggravarsi della crisi dei debiti sovrani, decise l'anticipazione dell'entrata in vigore del fondo, inizialmente prevista per la metà del 2013, a partire da luglio 2012. Successivamente, però, l'attuazione del fondo è stata temporaneamente sospesa in attesa della pronuncia da parte della corte costituzionale della Germania sulla legittimità del fondo con l'ordinamento tedesco. La Corte Costituzionale Federale tedesca ha sciolto il nodo giuridico il 12 settembre 2012, quando si è pronunciata in favore della sua compatibilità con il sistema costituzionale tedesco.

Nella notte tra il 28 e il 29 giugno 2012 il Consiglio Europeo nel tentativo di trovare un argine alla crescente esposizione dei paesi dell'Eurozona (in particolare alcuni paesi mediterranei tra cui Italia e Spagna che pongono in veto allo scopo di esercitare pressione sul Consiglio) alla crisi di fiducia degli investitori, deliberò di implementare l'utilizzo del MES come copertura dai rischi di rifinanziamento degli stati e di fare del MES, accanto al Fondo europeo di stabilità finanziaria, un meccanismo di preservazione dall'aumento incontrollato dei rendimenti dei titoli pubblici, attribuendo agli stessi la funzione di intervenire acquistando per conto della BCE titoli di debito pubblico sul mercato secondario, a condizione che il paese richiedente sottoscrivesse un documento di intesa e si impegnasse a rispettare severe condizioni. In più venne attribuita al fondo la capacità di ricapitalizzare le banche senza l'intermediazione dei governi nazionali.


Bibliografia

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Jean Ziegler, La privatizzazione del mondo. Predoni, predatori e mercenari del mercato globale, il Saggiatore, Milano 2010