L'età moderna e contemporanea

a cura di Umberto Eco
La Biblioteca di Repubblica-L'Epresso
Roma 2013
vol. 13 L'Ottocento

 

La letteratura popolare (pp. 584-595)

di Lucia Roder

Con il romanticismo nascono la moderna cultura di massa e una letteratura commerciale che viene prodotta da scrittori generalmente borghesi. Con la nozione di letteratura popolare non si intende dunque uno scrivere dal popolo, ma per il popolo e, solo in qualche caso, col popolo.

La ricerca delle origini popolari

Prima del XIX secolo tra la gente comune dentro e fuori le città circolano almanacchi, vite di santi, fiabe, invettive satiriche e immagini che esprimono un'autonoma attività folklorica in gran parte non sfiorata dai valori letterari d'elite.

Il romanticismo segna invece il passaggio dal folklore tradizionale a una più moderna forma di cultura di massa, espressione delle classi medie e inferiori del loro desiderio di coinvolgimento politico o di distrazione, e insieme adattamento entro il sistema dei generi popolari di un'estetica che, con la Rivoluzione francese, si socializza, trasferendosi dai salotti settecenteschi alle piazze e ai teatri. Tale trapasso istituzionale ridefinisce il canone letterario secondo una morfologia anticlassica che ammette la versificazione più libera in poesia (enjambement, rime approssimate, vocabolario ampio), l'accantonamento delle tre unità drammatiche di tempo, spazio, azione, la fusione di comico e tragico nel teatro in prosa (con la conseguenza che nessun contenuto viene scartato solo perché non appropriato a virtù e valori classici) e il "medievalismo" sul modello di Walter Scott (1771-1832), con figure energiche, conflitti drammatici e un apparato scenico "goticheggiante".

Sul versante "popolare", dove le precedenti opere di poesia, teatro e narrativa erano state semplici nella forma, anonime per origine e liberamente disponibili nella ricezione, i nuovi testi divengono in certa misura più complessi, assimilando quegli elementi della poetica d'elite che vengono filtrati da mediatori professionisti, socialmente distinti dal pubblico dei destinatari. Viene così meno una genuina cultura popolare, legata ai moduli dell'oralità, e nasce la letteratura commerciale in forma stampata e venduta a prezzo modico.

Non va infatti dimenticato che il romanticismo del primo Ottocento coincide con lo sviluppo dell'editoria, dell'alfabetismo (che oscilla dall'80 percento della Prussia al 2 percento del Meridione italiano), della politicizzazione delle masse (con la conseguente curiosità intellettuale) e con la borghesizzazione dello scrittore di qualunque condizione sociale: la nuova generazione di autori postrivoluzionari impara presto a trarre profitto dal mercato culturale.

Con la nozione di "letteratura popolare" non si intende dunque uno scrivere dal popolo, ma per il popolo e, solo in qualche caso, col popolo. Bisogna allora chiedersi che cosa intendono i romantici per "popolo".

Il termine non è univoco, ma per lo più allude a un complesso di valori morali (naturale semplicità e sanità, spesso contrapposte all'artificiosità dei costumi moderni) ed estetici (creatività originaria e spontanea della poesia e dell'arte) connessi all'identità della "nazione": il popolo rappresenta la parte sana, custode della tradizione autentica di una collettività.

A questa entità intesa come anima nazionale e alla sua cultura (canti, leggende, fiabe e storie) si rivolgono intellettuali quali Walter Scott, Clemens Brentano, Achim Arnim, i fratelli Grimm e più tardi Niccolò Tommaseo per rintracciare documenti del passato e spontanee testimonianze della poesia medievale e cristiana. A parte i casi di Georg Büchner che "scopre" il quarto stato denunciandone le sofferenze con il soldato Woyzeck e di Heinrich Heine che a Parigi entra in contatto con Karl Marx ai letterati ottocenteschi manca dunque il concetto socio-economico di "classe" popolare e, con esso, quelli della divisione dei poteri e della contrapposizione degli interessi.

Verso la metà del secolo, allorché l'entusiasmo romantico verso la cultura "primitiva" lascia il posto a studi antropologici scientificamente più rigorosi e la "massa" dei lettori comincia a organizzarsi come "pubblico", assurgendo al ruolo del committente che vuole ritrovarsi in opere contemporanee, si afferma una tendenza culturale definita con il termine di "populismo"; esso consiste nella rappresentazione degli umili come modelli di moderni valori positivi (lavoro, risparmio, igiene, rispetto, famiglia) in una società organica in cui gli individui collaborano, ciascuno secondo la propria funzione e senza alcuna conflittualità.

Mentre l'operaio di fabbrica va acquistando coscienza e forza sociale, la letteratura esclude il proletariato e si fa "campagnola" o "piccolo-medio borghese", approntando una produzione middlebrow adatta anche al pubblico femminile, che si addentra volentieri nella sfera del privato e segue con partecipazione la cronaca di vicende socio-familiari in cui chi dirige si assume la responsabilità del destino amoroso, umano e sociale dei sottoposti (a cui non spetta, quindi, provvedere da sé a emanciparsi).

A parere della critica marxista, il letterato ottocentesco, filantropo e paternalista, non rappresenta la realtà del sistema economico borghese, basata sullo sfruttamento.

Resta comunque vero che la "folla" si è imposta sia come tema specifico, sia come presenza sociologica sottesa alla produzione e in certa misura incombente.

Il letterato guida il popolo

Nella prima metà del secolo alcuni artisti partecipano con il popolo alle questioni politiche, assumendo la missione di profeti dei destini nazionali. Nella tela La Libertà che guida il popolo Eugène Delacroix (1798-1863) celebra l'esperienza della rivoluzione parigina del 1830, mentre con Lefucilazioni Francisco Goya (1746-1828) fa vivere allo spettatore la notte di sangue alla Puerta del Sol: così i pittori saldano l'arte alla vita, secondo un canone civile di testimonianza della storia del proprio tempo.

Anche la scrittura si mescola alla realtà moderna per opera del poeta-vate, figura di patriota romantico che nasce tra Germania e Italia, allorché le lotte per l'indipendenza coinvolgono l'intera collettività. Infiammato dai Discorsi alla nazione tedesca di Fichte e sotto l'urgenza dell'invasione napoleonica del 1812-1813, Theodor Körner (17911813) unisce la "lira" alla "spada" sino alla precoce morte sul campo che ne consacra la fama di "poeta-soldato" (Alessandro Manzoni gli dedica Marzo 1821). Come le poesie di guerra di Körner, quelle del Risorgimento italiano propongono il linguaggio e lo stile della prosa, con versi parisillabi e cadenze facilmente orecchiabili, non senza enfasi retorica e reminiscenze classiche (basti pensare a "L'elmo di Scipio" del Canto nazionale di Goffredo Mameli), badando comunque sempre agli effetti sul destinatario popolare, sul cittadino che deve essere educato alle virtù, alla libertà della patria, all'interesse della cosa pubblica.

In altro contesto, animato non tanto da una tematica politico-patriottica immediata, quanto dall'epica celebrazione di vicende passate o dall'amoroso recupero delle tradizioni, Aleksandr Sergeevic Puskin (1799-1837) si erge a "profeta" dei "cuori degli uomini", dando impulso a una cultura nazionale e popolare, i cui effetti sono visibili in Turgenev e Gogol', in Goncarov e Tolstoj.

In Francia intanto l'oratoria popolare diviene voce di protesta con Victor Hugo (1802-1885), la più vistosa esemplificazione del poeta-vate impegnato nel dibattito politico-sociale: in sede parlamentare interviene contro la pena di morte e per il miglioramento delle condizioni del popolo; finito in esilio dopo il trionfo di Napoleone III, scrive contro l'"usurpatore" gli aspri componimenti dei Castighi e infine, ritornato a Parigi, celebra la grandiosità dell'esperienza della Comune e si batte per l'amnistia ai comunardi. Ma il cantore della "folla" non cerca "popolarità" solo con l'attività politica e con la lirica.

Abile nell'identificare le attese del pubblico e arguto manipolatore delle tecniche retoriche, Hugo sperimenta il romanzo e sin dal titolo con I miserabili e poi con I lavoratori del mare si rivolge agli umili, affidando loro una serie di personaggi emblematici: il generoso ex forzato Jean Valjean, il santo vescovo Myriel, la sedotta e abbandonata Fantine con la figlia Cosette, lo spietato commissario Javert, il monello Gavroche, il patriota Marius. Grande affresco della società francese del primo Ottocento, feuilleton e insieme opera umanitaria, I miserabili ottiene un successo straordinario.

La vicenda letteraria di Hugo è paradigmatica dell'adattamento di un artista al suo pubblico: da un lato autore collettivo di poesia agonale nei toni melodrammatici di Verdi, dall'altro scrittore di intrattenimento che, accanto a elementi seri e impegnati di analisi sociale, offre materiali "patetici", tra avventura e mistero.

Stringendo una fattiva collaborazione col mercato in divenire, il poeta romantico soggiace da ultimo alla legge della produzione e del consumo, accettandone le regole: se il contesto popolare diversifica i suoi interessi (dal politico al sociale e al sentimentale), il prodotto letterario deve acquisire competenze specifiche per servire i molteplici gruppi.

Questa è la cultura di quei "secoli democratici" che, secondo il lungimirante Alexis de Tocqueville (1805-1859), prediligono la "scintillante" varietà delle emozioni in modo da dimenticare una quotidianità alienata dalla divisione del lavoro.

E se, a partire dalla rivoluzione industriale, il popolo chiede un compenso onirico giornaliero al letterato, questi elargisce con benigna concessione una grande "massa" di testi straordinariamente omogenei nella struttura elementare e ripetitiva e nell'ideologia conservatrice.

Il romanzo per il popolo

Victor Hugo non è il primo a sperimentare l'efficacia dei moduli narrativi del feuilleton: personaggi ordinati secondo opposizioni semantiche assai nitide; vicende di persecuzione e seduzione che, attraverso agnizioni, rivelazioni, smascheramenti e travestimenti, determinano il trionfo finale della giustizia; tecnica della suspence, con apposite forme di controllo del tempo e artifici ritardanti come il cliffhanger (momentanea interruzione di una sequenza aneddotica).

Sempre in Francia, a partire dagli anni Trenta, la pubblicazione di romanzi a puntate in fondo alle pagine dei giornali diviene un vero e proprio affare sia per gli editori sia per gli autori: Balzac, George Sand, Alexandre Dumas ed Eugène Sue scrivono "in appendice", contribuendo non poco alla diffusione della stampa periodica. E la domanda diviene talmente incalzante che, per soddisfare le richieste degli impresari, Balzac non esita ad appaltare la stesura o la preparazione di alcune parti ad altri meno noti professionisti.

Clamoroso resta il caso di Dumas che impiega fino a 73 collaboratori, giungendo a pubblicare a suo nome assai più di quanto gli fosse materialmente possibile scrivere. A questa data, l'opera letteraria è davvero diventata una merce.

Ben presto, il canale comunicativo condiziona la struttura della narrazione perché a ogni puntata bisogna rinnovare la suspence del lettore, con episodi sempre nuovi e inattesi che facilitino l'identificazione con emozioni forti ma non perturbanti.

Anche dopo la metà del secolo prevale la figura dell'eroe che agisce a favore degli oppressi (Rodolfo di Gerolstein di Sue, Jean Valjean di Hugo) e punisce le ingiustizie (il conte di Montecristo e i tre moschettieri eroi "storici" alla Scott di Dumas); più tardi, ad esempio con Xavier de Montépin e Carolina Invernizio, campeggiano personaggi patetici conformi al gusto delle piccola borghesia conservatrice; e infine si impone la lotta tra l'eroe del male (il grande delinquente) e il garante del bene (il grande investigatore) che tutela gli spazi dilatati della metropoli: Rocambole di Pierre-Alexis Ponson du Terrail e, nel nuovo secolo, Fantomas di Souvestre e Allain, e Arsenio Lupin di Maurice Leblanc.

Con il feuilleton, ma anche con il melodramma e il vaudeville, la letteratura esce dai confini dell'"artigianato" per estendersi alla dimensione "industriale" della riproducibilità tecnica di tipi e situazioni.

Siamo già all'origine del processo che porta alla "perdita dell'aura" come afferma Walter Benjamin (1892-1940), mettendo in discussione la possibilità stessa di sopravvivenza dell'arte, così come era stata intesa per secoli.

Ma per quale ragione, secondo la testimonianza diretta di un Théophile Gautier (1811-1872) critico nei confronti di Sue, "quasi tutta la Francia fu impegnata per più di un anno con le avventure del principe Rodolfo prima di fare il proprio lavoro?"

L'ascesa della Trivialliteratur, di cui si potrebbe assumere quale data d'inizio il 1842, allorché appaiono i Misteri di Parigi di Eugène Sue, trova solide ragioni sociali, che vanno oltre l'ipotesi gramsciana della funzione compensatoria per un pubblico popolare cui vengono consentite solo fantasie di vendetta e giustizia.

Sembra di capire che il feuilleton sia anzitutto uno strumento di comprensione (anche attraverso il brivido della paura e del mistero) di un mondo che la rivoluzione industriale ha reso sempre più caotico e opprimente: non a caso lo spazio urbano è l'autentico protagonista del romanzo popolare. Ci sono le città dei misteri, dalla Parigi di Sue alla Firenze di Collodi, dalla Napoli di Francesco Mastriani alla Marsiglia di Fmile Zola; e ci sono i luoghi metropolitani del dolore in una Londra fatta di quartieri popolari e ospizi di carità, analizzati con intenzioni realistiche da Charles Dickens (il quale pratica le tecniche del feuilleton pubblicando "a dispense" i propri romanzi).

Verso la fine dell'Ottocento, sotto l'influsso del naturalismo francese, la metropoli europea assume tonalità lugubri e malinconiche, mentre aumenta il senso di reclusione fisica e spirituale che toglie qualsiasi speranza di vita migliore agli individui sempre più soli e alienati.

Persino nel mondo anglosassone, dove nel 1859 esce il fortunato Self Help di Samuel Smiles (18121904) manuale dell'uomo comune che può ottenere il successo solo in base alla sua capacità e intraprendenza la città diviene sempre più di frequente ricettacolo di crimini e violenze private, contrastate solo dall'intelligenza di alcuni detective, come Sherlock Holmes, creato da Conan Doyle (18591930).

Riducendo ed esorcizzando entro ambiti "borghesi" l'avventura e il mistero, il romanzo "poliziesco" è il prodotto della narrativa di massa destinato a svolgere il ruolo maggiore nel Novecento (affiancato dal romanzo "rosa"). Nata da una società che si autointerroga sulla dilagante criminalità e alimentata dall'operoso artigianato di scrittori popolari quali Ponson du Terrail, non senza avere affascinato Balzac e De Quincey, Hugo e Dickens, Dumas e Dostoevskij, la detective story illustra chiaramente il mutamento del gusto dei lettori popolari: in luogo dei generici proclami patriottici del primo Ottocento, essi esigono precise inchieste circa le responsabilità individuali; infastiditi dalla filantropia, vogliono un sistema di polizia efficiente e, prima di assaporare l'irrinunciabile happy end, pretendono la spiegazione dei "misteri" metropolitani.

Meno idealista o ribelle, la folla sembra amare l'ordine e la protezione. Si tratta in realtà di un giro stretto di collegamenti reciproci e condizionanti tra editori (rappresentanti degli interessi politico-culturali dominanti), scrittori e pubblico, per cui alla fine il lettore "chiede" spontaneamente ciò che l'impresario vuole dargli, e l'autore soddisfa le richieste di entrambi.

Divenuto criminologo, il romanziere non tende a instaurare un ordine nuovo (istanza implicita nella vecchia immagine del poeta-patriota), ma restaura quello vigente, gratificando tanto la fiducia nell'ordine pubblico quanto la capacità logico-analitica dei lettori, coinvolti nella caccia agli indizi e al criminale.

Con il suo repertorio di azioni complicate, tensione crescente, colpi di scena, sangue, orrori, morte, spesso in un clima da grand-guignol, il romanzo poliziesco risponde a un duplice bisogno del pubblico: da un lato esso vede rappresentati i fattori di maggiore complessità storico-sociale in cui si trova a vivere, dall'altro li vede ridotti all'ordine.

E poiché lo scontro insieme realistico e mitico tra bene e male coinvolge individui di diversa provenienza sociale (anche coloro che non ignorano la ben più drammatica lotta di classe), il "giallo" mostra l'omogeneità culturale dell'Europa fin de siècle, l'esito avanzato di quel processo romantico che ha portato il pubblico colto e quello popolare a consumare le stesse canzoni, le stesse opere teatrali, narrative e storiche, sempre più disponibili a basso costo. In questa democratizzazione senza precedenti della cultura consiste allora il mutamento più rilevante della sensibilità ottocentesca.

Finestre

EugèneSue, I misteri di Parigi, trad. it. di M. Militello, Milano, Sugar Editore, 1965

13 dicembre del 1838, in una serata piovosa e fredda, un uomo di statura atletica, con addosso un logoro camiciotto, attraversò il ponte e s'addentrò nella Cité, labirinto di vie oscure, strette, tortuose che va dal palazzo di Giustizia fino a Notre-Dame. Il quartiere del palazzo di Giustizia, assai circoscritto, alquanto sorvegliato, serve nondimeno d'asilo e di luogo d'appuntamento per i malfattori di Parigi. Non è strano, o meglio fatale, che un'irresistibile attrazione faccia sempre gravitare questi criminali attorno al temibile tribunale che li condanna alla prigione, ai lavori forzati, al patibolo?

Quella notte, dunque, il vento s'infilava con violenza nelle orrende viuzze del lugubre quartiere: la luce pallida, vacillante, dei lampioni investiti dalla tramontana si rifletteva sul rigagnolo d'acqua nerastra che scorreva in mezzo ai selciati fangosi. Le case color fango avevano rade finestre con le intelaiature tarlate e quasi senza vetri. Androni neri, infetti, conducevano a scale ancora più nere, più infette, e così perpendicolari che chi avesse voluto salirvi avrebbe dovuto aiutarsi con una corda fissata con ganci di ferro ai muri alti e umidi. Il pianterreno di alcune case era occupato da banchetti di carbonai, di trippai, o di rivenditori di carni di bassa macellazione. Nonostante lo scarso valore di questi generi di consumo, la vetrina di quasi tutte le miserabili botteghe era protetta da un'inferriata, talmente i venditori temevano l'audacia dei ladri del quartiere.

Il nostro uomo, entrando nella rue aux Fèves, situata al centro della Cité, rallentò di molto l'andatura: si sentiva a casa sua. La notte era profonda, l'acqua cadeva a torrenti, forti raffiche di vento e di pioggia frustavano le muraglie. Lontano, l'orologio del palazzo di Giustizia, rintoccavano le dieci. Alcune donne imboscate sotto portici a volta, oscuri, profondi come caverne, cantavano a mezza voce qualche arietta popolare. Una di queste creature doveva senza dubbio essere conosciuta dal nostro uomo; perché, fermandosi bruscamente davanti a lei, l'afferrò per un braccio. " Buonasera, Chourineur ".

Arthur Conan Doyle, Uno studio in rosso, Milano, Rizzoli, 1995 Sembrava proprio che non fosse difficile convivere con Holmes. Aveva abitudini tranquille e regolari. Di rado restava alzato oltre le dieci di sera, e invariabilmente aveva già fatto colazione ed era uscito quando io m'alzavo, la mattina. Qualche volta, passava la giornata al laboratorio chimico; altre volte, se ne stava dalla mattina alla sera in sala anatomica, e, di quando in quando, faceva lunghissime passeggiate, specialmente nei quartieri più miserabili della città. La sua energia sembrava inesauribile, quando lo coglieva un accesso di attività; ma, di tanto in tanto, succedeva in lui come una reazione. Allora, per giorni e giorni, se ne stava sul divano del salotto, pronunciando a malapena qualche monosillabo e senza contrarre un solo muscolo del viso, dal mattino alla sera. In quelle occasioni avevo notato un'espressione vacua, assente, nei suoi occhi, e avrei sospettato che facesse uso di qualche stupefacente, se la palese temperanza e l'igiene che regolavano la sua vita non m'avessero indotto a respingere una simile ipotesi.