da http://www.storiologia.it/suditalia/cap109n.htm

Franco Savelli

Il Meridione e l'unificazione

LA CONQUISTA

Sommario:

--- La situazione italiana
---La decadenza del Regno delle Due Sicilie, l’ultimo decennio di Ferdinando II e la successione di Francesco II.
--- Il Regno di Sardegna fulcro dell’unificazione: Vittorio Emanuele II, Cavour e Mazzini. La preparazione diplomatica con la partecipazione alla guerra di Crimea e l’appoggio della Francia di Napoleone III. La II Guerra d’Indipendenza, la pace di Villafranca e l’annessione della Lombardia. L’annessione per plebiscito degli Stati centrali (Toscana ed Emilia) e la cessione alla Francia di Nizza e Savoia.
--- La liberazione del Meridione: Garibaldi, Vittorio Emanuele II e Cavour.
--- Garibaldi e l’impresa dei Mille, la preparazione e l’attuazione: lo sbarco, Salemi, Calatafimi, Palermo e Milazzo. L’attraversamento dello Stretto di Messina ed il ruolo dei generali borbonici. La conquista delle regioni continentali.
--- Francesco II lascia Napoli per Gaeta. Garibaldi giunge a Napoli.


La situazione italiana

Intorno alla metà del XIX secolo le idee portatrici di socialismo e di democrazia avevano raggiunto vasti strati di popolazione e divennero prioritarie particolarmente in quelle regioni soggette a domini assoluti, acquisendo un grado diverso di attualità a seconda delle condizioni sociopolitiche e dello sviluppo culturale che esse vivevano. A Torino, Milano e, con maggior difficoltà a Firenze e Napoli si erano sviluppati negli ultimi decenni importanti iniziative culturali.

A Firenze era stata vietata dal granduca Leopoldo II la pubblicazione dell’Antologia (2), sostituita da altre riviste che comunque svolsero un certo ruolo, mentre a Napoli, a causa di una censura oppressiva, ogni iniziativa perdeva mordente. Torino invece fu il centro di quella scuola moderata che voleva trovare risposte alla questione italiana che si poneva come obiettivo la realizzazione dell’unità d’Italia senza rivoluzioni ma affidando al Papa (neoguelfismo sostenuto da Gioberti*) o alla Monarchia Savoia (ipotesi sostenuta da Balbo e d’Azeglio*) la guida di una federazione di Stati italiani. A Milano Carlo Cattaneo (3) con la rivista Il Politecnico cercò di dimostrare quanto ormai fossero inadeguati i governi del tempo ed anacronistico il frazionamento della nazione in una società la cui oppressione politica ne limitava la crescita.

Intanto il fallimento delle rivoluzioni nel Regno delle Due Sicilie e la sconfitta del Regno di Sardegna nella I Guerra d’Indipendenza aveva portato ad una accentuazione della pressione austriaca. Il Lombardo-Veneto venne gestito dalla ferma dittatura del maresciallo Josef Radetzky (1766-1858) mentre truppe austriache si installavano nell’Italia centrale per restaurare l’ordine.

Il Regno di Sardegna e quello delle Due Sicilie si indirizzarono verso gestioni di diverso segno.

Il Regno delle Due Sicilie al collasso

- La decadenza

Nel Regno delle Due Sicilie, Ferdinando II che aveva controllato le sommosse di Palermo, Napoli e di altre città (1848, *) senza ricorrere all’aiuto straniero, aveva restaurato un regime assolutistico che, basato sul controllo di polizia ed esercito, travolgeva le più tipiche conquiste del liberalismo (libertà di stampa e di parola). Inoltre, imprigionando indegnamente (4) quasi tutti gli elementi migliori capaci di assumere la guida del paese (*), aveva bloccato ogni prospettiva di sviluppo politico, economico e culturale, nel timore che qualsiasi iniziativa potesse preludere a nuove agitazioni, lesive per il difficile equilibrio su cui si reggeva la monarchia. Il risultato che ne conseguì fu quello di isolare il Regno (5) rispetto al movimento progressista che si affacciava nelle altre regioni.

Nell’ultimo decennio del regno di Ferdinando II, le attività agricole ed industriale languivano, l’attuazione di opere necessarie fu bloccata ed il regno caratterizzato da un immobilismo che gli fece perdere ogni prestigio internazionale. Situazione che divenne ancor più critica dopo il congresso di Parigi (1856, v. seguito) allorché Inghilterra e Francia, intervenendo nel tentativo di favorire un alleggerimento dello stato repressivo, riportarono, come riscontro, la rottura delle relazioni diplomatiche (21 ottobre 1856).

In un quadro politico che si faceva sempre più esplosivo, dopo il fallimento di un attentato a Napoli contro Ferdinando II per mano di Agesilao Milano, Mazzini  assunse l’iniziativa di utilizzare un giovane socialista napoletano, Carlo Pisacane (1818-57), per una impresa destinata miseramente a fallire. Questi, imbarcatosi con un gruppo di ventitre compagni a Genova su un battello diretto a Cagliari (23 maggio 1857), costrinse l’equipaggio a dirigersi verso Ponza dove vennero liberati dalle carceri trecento detenuti. Quindi attuò uno sbarco a Sapri coll’intendo di provocare una sommossa sostenuta dai contadini, che, impreparati all’evento o più verosimilmente disinteressati alla rivolta, anziché unirsi al gruppo, collaborarono al loro accerchiamento. Pisacane si uccise per evitare la cattura.

Ferdinando II, consapevole delle condizioni in cui versava il suo popolo, pur di non gravare con nuove tasse sui consumi e fornire occasione di proteste, cercò di economizzare su tutto e, caso insolito, ridusse anche il suo appannaggio, ma non riuscì a trovare soluzioni per la questione sociale del mezzogiorno rappresentata dallo squilibrio esistente tra centro e provincia. Ma ormai sia tra le personalità più avvedute del Regno, che all’esterno tra coloro che miravano ad unificare il Regno delle Due Sicilie con quello di Sardegna per la costituzione di una nazione italiana, si radicava la convinzione che il regime borbonico, per la sua debolezza, sarebbe stato prossimo al collasso. Si predisponevano, pertanto, i piani per riceverne l’eredità.

Ferdinando II, alla sua scomparsa (maggio 1859), lasciò un regno ormai in sfacelo al figlio ventitreenne Francesco II (6) che, bigotto e di carattere mite, tenuto lontano dagli affari di Stato, era privo di ogni esperienza atta a gestire la problematica situazione. Francesco chiamò al governo Carlo Filangeri (7) che, nei pochi mesi di attività, favorì il ritorno degli esuli e, per orgoglio nazionale, licenziò i mercenari svizzeri (*) che costituivano gli unici reparti efficienti dell’esercito. Valutando gli avvenimenti che scandivano i cambiamenti nelle regioni centrali e rendendosi conto che anche il Regno sarebbe stato travolto dalla stessa ondata, Filangeri si dimise nel marzo 1860 allorché Franceso II respinse il suo progetto di Costituzione. Gli successe l’ottantenne Principe di Cassaro.

Nel breve periodo di regno di Francesco II, furono decisi interventi di carattere sociale quali, il dimezzamento dell’imposta sul macinato, la riduzione delle tasse doganali, la distribuzione sottocosto del grano acquistato all’estero a seguito della carestia, progettò l’ampliamento della rete ferroviaria del regno con la costruzione della Napoli-Foggia e della Palermo-Messina-Catania (8). Dal punto di vista politico si allineò alle posizioni conservatrici del padre e, pur avendo ristabilito le relazioni diplomatiche con Francia ed Inghilterra, non si lasciò convincere dalle sollecitazioni che il Cavour gli rivolse, attraverso un suo inviato Salmour, per un mutamento di linea. E senza mitigare la sua posizione assolutistica, si allontanò sempre più dalla realtà del tempo, non riuscendo ad impostare una qualche forma di governo che tenesse conto delle diffuse aspirazioni di liberalismo, aggravando il fallimento cui era destinata la società meridionale (9) .

- La Sicilia

Dopo il 1848 il generale Filangeri che aveva domato la rivolta divenne governatore (fino al 1855) e mantenne equilibrio e buon senso, pur in una situazione difficile nel controllo del territorio, per la qualcosa ricorse ai capibanda Scordato e Di Miceli  cui affidò anche il compito di esattori e guardacoste.

Intanto la rivalità con il governo di Napoli, alimentata dalle radicate tendenze autonomiste e dal movimento di unità nazionale, era largamente diffusa. Ma i più avveduti erano i primi a riconoscere che non esisteva, tra varie fasce sociali, unità di intenti e capacità organizzative tali da conquistarsi da soli l’indipendenza, malgrado alcune zone che, nel 1848, si erano mantenute ai margini della sommossa, manifestavano ora maggiore consapevolezza e partecipazione.

E non potendo sperare che un aiuto diretto potesse venire dall’Inghilterra verso cui i siciliani conservano un certo gradimento, si pensava al liberali del nord.


Il Regno di Sardegna, fulcro dell’unificazione italiana

- La preparazione

La situazione in Piemonte, all’indomani dell’insediamento di Vittorio Emanuele II, si presentava ben diversa che nel Regno delle Due Sicilie dal momento che il re, dopo aver sedato la rivolta democratica di Genova (10) si mosse coll’intento di salvare lo Statuto Albertino a condizione che risultassero emarginate le correnti antimonarchiche di sinistra. Queste non intendevano approvare le gravose condizioni imposte dall’Austria a seguito della sconfitta riportata nella I Guerra d’indipendenza (11) . La qualcosa si verificò a seguito delle elezioni indette con il proclama di Moncallieri (20 novembre 1849) mediante il quale il primo ministro Massimo d’Azeglio sollecitava l’elezione di una Camera moderata che ratificasse la pace con L’Austria. La maggioranza del parlamento eletto, favorevole alla ratifica del trattato, scongiurò, per un verso, le intenzioni della destra di risolvere i problemi politici del Regno con un colpo di Stato che avrebbe abolito lo Statuto e, per l’altro, diede la possibilità al governo di riprendere la via delle riforme interrotta a seguito dagli eventi del 1848. A cominciare con la limitazione dei privilegi ecclesiastici ispirati dal ministro di grazia e giustizia Giuseppe Siccardi (1802-57) (12) e sostenuti dal nuovo ministro dell’agricoltura commercio e marina, il liberale di centro-destra Camillo Benso di Cavour (13).

L’impegno di questi in una politica liberista, condivisa anche dalla sinistra di Urbano Rattazzi (1808-73), fu alla base di un accordo (polemicamente definito connubio dai conservatori) che, isolando le estreme ed unendo progressisti di destra e moderati di sinistra, gli consentì di assumere, nonostante l’avversione che il re nutriva nei suoi confronti, la presidenza del Consiglio (novembre 1852) e condurre il Regno di Sardegna in una fase politica intraprendente e dinamica. Il percorso del suo governo, coerente con il rafforzamento del regime liberale, dello sviluppo economico e dell’egemonia politica in Italia, incontrò difficoltà nel momento in cui si decise di riprendere il cammino delle riforme in campo ecclesiastico con un progetto di incameramento dei beni che si scontrò con i sentimenti religiosi del re. Questi cercò di mettere in crisi il governo ma nulla potè contro la palese volontà della maggioranza dei deputati favorevole a Cavour che vide rafforzata la sua posizione.

In politica estera gli obiettivi di Cavour furono rivolti alla contrapposizione all’Austria evidenziata con una legge che concedeva un indennizzo a tutti i rifugiati lombardi in Piemonte vittime di sequestro dei loro beni a seguito dell’insurrezione milanese del febbraio 1853 (n. 8). Contrapposizione che si sarebbe rivelata priva di conseguenze se il Regno non si fosse inserito nel dinamismo delle alleanze europee. Queste subivano, in quel tempo, un rimescolamento a seguito della crisi emergente nelle nazioni orientali causata dello sfaldamento dell’impero Ottomano (attuale Turchia), ritenuto il malato d’Europa e sorretto unicamente in funzione antirussa.

Allorché la Russia dello Zar Nicola I approfittò del progressivo cedimento dell’impero turco per occupare (1853) i principati ottomani di Moldavia e Valacchia (attuale Romania) per crearsi nuove vie verso il Mediterraneo, Inghilterra e Francia, attente a mantenere l’equilibrio dei poteri e salvaguardare i loro interessi, sostennero la Turchia, invitando altre potenze europee a regolarsi in maniera analoga. Mentre la reazionaria Austria apparve inizialmente riluttante a schierarsi a fianco delle potenze liberali e contro una Russia altrettanto reazionaria, Cavour riuscì a far entrare il regno Sardo nell’alleanza antirussa ma senza ottenere garanzie in sede diplomatica. Che anzi, rispetto ai suoi obiettivi, furono deludenti perché Francia ed Inghilterra, pur di coinvolgere l’Austria, le garantirono l’integrità dei suoi domini in Italia. L’episodio centrale della guerra vinta dall’alleanza franco-inglese si svolse in Crimea (14) e l’armistizio del 1856 preludeva al Trattato di pace di Parigi dove il quadro internazionale messo a punto con il Congresso di Vienna del 1815 ne uscì sensibilmente modificato:

- l’Austria che non aveva partecipato al conflitto ne uscì isolata, in dissidio da una parte con la Francia che estese la sua influenza a danno della stessa Austria, e dall’altra con la Russia che perdette la sua supremazia militare in Europa;
- Il Regno Sardo con Cavour ottenne il risultato diplomatico di mettere all’ordine del giorno di una seduta suppletiva la discussione sulla situazione italiana, dove Cavour, sostenuto dal ministro inglese Gorge Clarendon, ebbe modo di sollevare una protesta sia per la presenza di truppe austriache che occupavano arbitrariamente territori italiani operando una politica repressiva, sia per la politica reazionaria che Ferdinando II attuava nel Regno delle Due Sicilie, fornendo motivo di propaganda rivoluzionaria e destabilizzante anche per gli altri stati italiani. Per entrambe le situazioni evidenziate Cavour ottenne solo comprensione ma, al momento, nessun impegno.

L’imperatore francese Napoleone III (15) che era riuscito a spezzare il fronte conservatore tra Austria e Russia, si stava avvicinando agli interessi di Cavour nella prospettiva di una alleanza franco-piemontese mirante ad estendere l’influenza francese a danno dell’Austria. Un attentato, operato dall’italiano Felice Orsini (gennaio 1858) offrì a Cavour l’opportunità di attribuire la responsabilità dell’attentato a Mazzini (16) e di adottare una serie di efficaci misure contro i rivoluzionari, convincendo Napoleone III della necessità di eliminare i motivi che avrebbero potuto scatenare una rivoluzione di tipo mazziniano e di incontrarlo segretamente Cavour a Plombiers (20 luglio del 1858) (17). Qui fu puntualizzato un accordo di alleanza contro l’Austria che prevedeva una comune guerra che doveva assumere un carattere difensivo e progettava la semplificazione della situazione politica italiana con l’istituzione di una confederazione di tre regni presieduti dal Papa:
- regno dell’Alta Italia con l’annessione del Lombardo-Veneto e dell’Emilia e Romagna al Regno di Sardegna/Piemonte che avrebbe ceduto alla Francia la Savoia e la provincia di Nizza;
- regno dell’Italia Centrale comprendente la Toscana e la parte restante dello Stato Pontificio che sarebbe potuto andare al cugino dell’imperatore, il principe Napoleone Girolamo, con la sovranità su Roma riconosciuta al Papa;
- regno delle Due Sicilie che, protetto dallo zar, sarebbe rimasto inalterato ma sul regno borbonico sarebbe dovuto subentrare un discendente di Murat.

L’accordo, sul piano internazionale, non era quanto di meglio Cavour auspicasse ma la sottrazione all’Austria dei domini Italiani avrebbe aperto la prospettiva ad altri vantaggi per il Regno Sardo che, tuttavia, avrebbe dovuto prepararsi a contenere le mire di Napoleone III volte a sostituire l’egemonia austriaca con la sua. Sul piano interno, l’accordo aveva potenziato il consenso intorno a Cavour al punto da attrarre sulla sua linea monarchica e moderata gran parte del movimento patriottico che si era finora riferito a quella democratica e rivoluzionaria di Mazzini.

- La II Guerra d’Indipendenza

Avendo concordato l’intervento della Francia legato ad un pretesto legalistico, il Regno Sardo, che non poteva dichiarare guerra all’Austria, attese l’evento favorevole. Evento di chiara aggressione, onde non consentire incertezze in Napoleone III e senza smuovere gli interessi delle grandi nazioni europee (18).

Intanto l’attivismo diplomatico di Cavour aveva già allarmato l’Austria che, a seguito della disponibilità emersa nel discorso d’apertura del parlamento (10 gennaio 1859) da Vittorio Emanuele II “Non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d’Italia si leva verso di noi”, schierò un corpo d’armata, sul Ticino, lungo il confine con il Piemonte, il quale, nel timore di una aggressione, mobilitò l’esercito a cui si aggiunse il corpo di volontari (Cacciatori delle Alpi) guidato da Giuseppe Garibaldi (19).

Fin qui non vi sarebbe stato alcun chiaro motivo di guerra se l’Austria non avesse intimato al Piemonte, con un ultimatum (23 aprile 1859), la smobilitazione delle truppe e lo scioglimento del corpo volontario. Vittorio Emanuele respinse l’ultimatum e l’Austria con le sue truppe varco il Ticino per invadere il Piemonte. Era l’aggressione che avrebbe fatto scattare l’intervento francese in appoggio al Regno Sardo.

Il comando supremo dell’esercito sardo fu assunto da Vittorio Emanuele, coadiuvato dal ministro della guerra Lamarmora (n. 10) e dal capo di Stato Maggiore Morozzo della Rocca, per quell’avventura che viene denominata II Guerra d’Indipendenza.

Le operazioni videro due fasi distinte. Nella prima, caratterizzata da un certo staticismo, l’esercito austriaco comandato dal maresciallo Gyulai (20) invece di aggredire l’esercito piemontese prima dell’arrivo dei francesi secondo le disposizioni ricevute, procedette con cautela, nel timore di essere aggirato, fino ad occupare Biella e Vercelli (inizio maggio), quindi, incerto se puntare su Torino o attaccare Alessandria, base dell’esercito piemontese, preferì sostare in Lomellina, concedendo ai francesi il tempo di giungere ad Alessandria (14 maggio 1859) dove Napoleone assunse il comando delle operazioni. Iniziava quindi la seconda fase operativa della guerra e, mentre Garibaldi con i suoi Cacciatori occupava Varese e sconfiggeva gli austriaci a San Fermo (26-27 maggio), l’esercito franco-sardo si diresse verso nord (21), sorprendendo Giulay che, sconfitto a Palestro (31 maggio) e pur ritirandosi ad est del Ticino, non evitò lo scontro e la sconfitta del 4 giugno a Magenta, a seguito di una incerta e sanguinosa battaglia sostenuta dall’esiguo contingente franco-sardo che era riuscito ad attraversare il Ticino.

L’esercito Austriaco demoralizzato retrocedette per trincerarsi nel quadrilatero (le fortezze di Mantova, Peschiera, Verona e Legnago). Napoleone, anziché pressare l’esercito austriaco in ritirata, preferì prendere la strada, ormai priva di ostacoli, verso Milano dove entrò, con Vittorio Emanuele II (8 giugno), ricevendo un’accoglienza che ricordò quella ricevuta dallo zio (1797).

Con le imprese di Garibaldi che, dopo aver occupato Bergamo e Brescia, si avviava verso la Valtellina, la Lombardia era conquistata ma la guerra non ancora vinta. Infatti l’imperatore Francesco Giuseppe (22), dopo aver rimosso Giulay ed assunto il comando del contingente austriaco, si preparava allo scontro decisivo con l’esercito alleato. Questo, conseguite a Solferino da parte dei francesi ed a San Martino dai sardi (24 giugno) vittorie decisive, si predisponeva ad attraversare il Mincio per penetrare nel Veneto pressando gli austriaci in ritirata. Frattanto la flotta franco-sarda nell’Adriatico bloccava Venezia, mentre Napoleone III, ritenendo pericoloso il prosieguo della guerra, concordava con gli austriaci un armistizio a Villafranca (8 luglio) e, tre giorni dopo, le condizioni di pace che prevedevano il passaggio della Lombardia alla Francia che l’avrebbe trasferita al Regno Sardo, ricevendo in cambio la Savoia e la provincia di Nizza (23). Veniva inoltre auspicato che “.. i duchi di Toscana e di Modena rientrino nei loro Stati”.

Varie sono le ipotesi volte a spiegare la prematura decisione di Napoleone III di concordare l’armistizio senza consultare Vittorio Emanuele II ma condizionandolo alla sua ratifica, che avvenne malgrado il vivace dissenso di Cavour. Il re non aveva la visione politica del Cavour e, pur se messo di fronte a fatti gestiti unilateralmente da Napoleone, presumibilmente si sentì appagato dell’acquisizione della Lombardia che realizzava un antico desiderio dei suoi predecessori. Cavour invece, con il Veneto rimasto sotto dominio austriaco, vide infrangersi i suoi obiettivi di unificazione e si dimise, abbandonando freddamente il re che diede incarico a Lamarmora (n. 10) e Rattazzi di formare il nuovo ministero.

L’annessione di Toscana ed Emilia-Romagna al Regno Sardo avvenne attraverso distinti momenti che, pur in tempi brevi, passarono dalla fase di sostegno alla guerra contro l’Austria, all’istituzione di governi provvisori ed all’adesione al regno costituzionale di Vittorio Emanuele II.

Fin dalle prime avvisaglie di crisi con l’Austria, i democratici toscani ed emiliani premettero per un diretto sostegno alla guerra condotta dal Regno Sardo, scontrandosi con le posizioni dei rispettivi sovrani che, collegati con l’Austria, scelsero una posizione di neutralità che li costrinse ad abbandonare le rispettive sedi rimaste sguarnite a seguito del ritiro dei contingenti austriaci, utilizzati per sopperire i rovesci subiti nella guerra.

In Toscana, Il granduca Leopoldo II di Lorena (n. 2), prendendo atto del favore che si manifestava nelle varie organizzazioni liberali a favore del Regno di Sardegna e rifiutandosi di abdicare in favore del figlio Ferdinando, in concomitanza con una manifestazione indetta per il 27 aprile dalla Società Nazionale (n. 13), preferì abbandonare Firenze, consentendo l’istituzione di un Governo Provvisorio Toscano che offrì la dittatura a Vittorio Emanuele II. Questi temendo di sollevare problemi nell’incerto panorama diplomatico, si limitò ad accordare la propria protezione ed a nominare, con funzioni di capo di Stato il suo inviato Carlo Boncompagni che formò un governo guidato da Bettino Ricasoli (26). Questi, dopo la pace di Villafranca, convocò le elezioni e l’assemblea eletta votò, 7 agosto 1859, una dichiarazione di decadenza della dinastia Lorenese e la volontà della Toscana di entrare a far parte di una Regno costituzionale diretto da Vittorio Emanuele II (27).

In Emilia, dopo l’abbandono del ducato di Modena da parte di Francesco V d’Asburgo d’Este (duca di Modena, Reggio ecc) a seguito della sconfitta subita dagli austriaci a Magenta, si formò un governo provvisorio (15 giugno 1859) diretto da Luigi Farini (28) che fece approvare da una assemblea (21 agosto) sia la decadenza estense che l’unione al Regno Sardo.
Ugualmente accadde nel ducato di Parma con la partenza di Maria Luisa di Borbone (reggente per conto del figlio Roberto) e l’assunzione di poteri da parte i Giuseppe Manfredi.

Nelle Legazioni Pontificie dell’Emilia (Bologna e Romagna) dopo il ritiro delle truppe austriache subentrò, a Bologna, nel governo provvisorio Gioacchino Pepoli, sostituito l’11 luglio (dopo l’armistizio) da Massimo D’Azeglio in qualità di commissario, quindi dal governatore Leonetto Cipriani che, il 6 settembre, convocò l’assemblea che sancì la fine del governo pontificio e l’annessione al Regno Sardo.

Deliberate le annessioni, Toscana ed Emilia assunsero l’iniziativa di costituire un lega militare al cui comando fu posto il generale Manfredo Fanti (29). La determinazione con cui si era sviluppato il movimento di liberazione nelle regioni centrali d’Italia, rendeva evidente che un eventuale tentativo di restaurazione non sarebbe stato privo di reazione e Napoleone garantì che non vi sarebbe stato intervento armato in mancanza di disordini.
Intanto per Vittorio Emanuele II si pose il problema di come accogliere diplomaticamente tali eventi e, secondo il suggerimento di Napoleone che anche gli promise di sostenerlo in sede negoziale, adottò la formula dell’accoglienza. La qualcosa lasciò sconcertati i rappresentanti di Emilia e Toscana che, da Cavour, che seguiva l’evoluzione dietro le quinte, ricevettero il suggerimento di intenderla piuttosto come accettazione.

Quando, per l’inadeguatezza del governo Rattazzi-La Marmora rispetto alle iniziative che la situazione chiedeva, fu richiamato al governo Cavour (21 gennaio 1860), egli riuscì, con una serrata trattativa ad attenuare la posizione di Napoleone in difesa dei domini pontifici e di contrattare il consenso francese all’annessione di Toscana ed Emilia, in cambio della conferma della cessione del territorio di Nizza e Savoia (n. 23) (30).
Il plebiscito del 11-12 marzo 1860 in Toscana ed Emilia confermò a grandissima maggioranza il favore all’annessione al Regno di Sardegna. L’assimilazione al nuovo Stato si realizzò in buona parte entro la fine dello stesso anno, anche se alcune procedure rimasero in vigore per anni.

Le insurrezioni nelle Marche ed Umbria erano state frattanto decisamente represse dalle truppe pontificie (31) aggravando la situazione dello Stato che continuava a sopravvivere grazie alla presenza di un presidio di truppe francesi. Marche ed Umbria saranno successivamente annesse al Regno di Vittorio Emanuele II per plebiscito dopo la battaglia di Castelfidardo (settembre 1860; v. capitolo successivo).

In Veneto l’Austria manteneva l’occupazione malgrado le difficoltà in cui essa versava per l’inasprirsi della rivalità con la Prussia.

Il Regno delle Due Sicilie, chiuso ad ogni apertura liberale, continuava a scivolare verso un decadimento sempre più profondo.

La spedizione dei Mille e la liberazione del meridione

- Le premesse

Le vicende dell’Italia centrale avevano avviato il processo di unificazione ma, parallelamente a quella dello Stato Pontificio, si era ancor più aggravata la crisi politica nel Regno delle Due Sicilie. L’obiettivo insurrezionale dei democratici che inizialmente era rivolto allo Stato pontificio si spostò quindi verso la Sicilia dove l’equilibrio tra popolazioni e governo era più facilmente alterabile.

In Sicilia, nei moti degli anni ’20 e ’48 che avevano registrato una massiccia partecipazione popolare, era ormai maturata la convinzione che l’indipendenza da Napoli poteva essere ottenuta mediante l’adesione ad un progetto di confederazione italiana. Non era pertanto irrealistica la previsione che un intervento armato potesse provocare una sollevazione. Della qualcosa non era convinto Cavour mentre stavano cedendo le perplessità di Garibaldi (32). A Francesco Crispi ed a Rosolino Pilo (33), ambedue siciliani ed il primo in rapporti di vicinanza con Mazzini, era stato affidato il compito di preparare il terreno per tale eventualità ed avevano convinto Garibaldi che era maturato il momento di sfruttare l’endemica irrequietezza contadina e che il sentimento di staccarsi da Napoli era ormai diffuso in tutte le classi (34). Era pertanto divenuta praticabile la possibilità di promuovere, secondo l’idea mazziniana, la rivoluzione dal basso. Idea che Vittorio Emanuele, in costante contatto con un Garibaldi deciso ad ottenere adeguatezza di mezzi e finalità di unificazione al Regno Sardo, incoraggiava segretamente senza compromettersi.

Altri esuli siciliani più conservatori, frattanto, allarmati dal timore che si potessero ripetere gli eccessi del 1849, per sondare la possibilità di una azione diplomatica sorretta da una militare rivolta all’annessione, fatta salva l’autonomia, avevano preso contatto con Cavour il quale promise che, ove gli eventi portassero la Sicilia ad una annessione al Regno Sardo, essa avrebbe ricevuto un notevole grado di autonomia. Cavour, aspramente e personalmente avversato da Garibaldi per la cessione di Nizza, malgrado si rendesse conto dello stato di crisi del regime borbonico, riteneva prematura qualsiasi azione militare, comunque condotta, nel timore che essa, per la tendenza separatista dei siciliani, potesse assumere una impronta mazziniana difficilmente gestibile. Tuttavia egli, in stretto contatto con l’esule La Farina (35), era favorevole a mantenere in Sicilia un costante stato di agitazione, sperando che il governo borbonico, non riuscendo a controllare l’anarchia delle campagne, ricorresse al Piemonte per una qualsiasi forma di sostegno. Ed, a tal fine, attraverso il suo ministro Villamarina, cercava di stabilire con i Borboni un qualche rapporto che li sottraesse all’influenza austriaca.

Mazzini sosteneva l’impresa cui si accingeva Garibaldi, avendo superato la contrapposizione repubblica-monarchia e privilegiando l’obiettivo dell’unità nazionale.

Crispi era ritornato segretamente in Sicilia stabilendo contatti con la rete di forze insurrezionali e con alcuni capibanda per organizzare le fasi iniziali della rivolta che avrebbero dovuto preparare il terreno per l’azione di Garibaldi. All’inizio del 1860 piccoli focolai di disordine si manifestavano ovunque e la popolazione, diffondendosi l’attesa di una imminente rivoluzione, cominciò ad agitarsi per ottenere giustizia ed a porre le prerogative per un movimento di vaste proporzioni. Un tentativo insurrezionale, prematuramente organizzato e condotto da Francesco Riso a Palermo (4 aprile), fu prontamente sedato presso il convento della Gancia con la fucilazione di numerosi insorti.

Il fermento popolare non cessò e si estese alle campagne ed ai centri (Messina, Carini, ecc.) assecondato dall’aristocrazia e dalla nuova borghesia terriera che, mirando a difendere la solida impalcatura feudale, tendeva ad attribuire al governo le colpe della miseria e dello sfruttamento, trovando la solidarietà dei contadini che furono trascinati in una guerriglia con obiettivo del conseguimento dell’autonomia, non dell’unità nazionale. La guerriglia si diffuse, attaccando gli avamposti delle truppe borboniche che, pur preventivamente informate, non riuscivano a prevenire. Vennero tagliate le linee telegrafiche (36) diffondendo il panico tra i funzionari e vennero interrotti i rifornimenti, causando un aumento dei prezzi che rinfocolava le proteste e, col deteriorarsi dell’ordine, creava una situazione caotica e di diffusa anarchia.

Scordato e De Miceli (v. prima), fiutando il corso degli eventi, divennero rivoluzionari per controllare la rivolta e preservare i loro imperi privati. Il governo per controllare il disordine incoraggiò la formazione di una milizia di volontari della classe media e trovò aiuto in coloro che, pur avversando i Borboni, ancor più temevano la rivolta contadina.

Il 26 marzo Rosolino Pilo con Giovanni Carrao era partito da Genova recando in Sicilia un ingente quantitativo d’armi ed appena arrivato era riuscito, dopo l’insuccesso del 4 aprile, a serrare le fila dei rivoltosi. Prese contatto anche con i capi della delinquenza locale di Cinisi, Tenasini, Montelepre, S. Giuseppe Iato Corleone, Partitico ecc. e, ridestando le speranze, riuscì a creare un’attesa carica di tensione (37). La notizia della reazione borbonica al tentativo insurrezionale fu taciuta a Garibaldi ma provocò apprensione ed indusse Crispi a sollecitare l’organizzazione di Genova ad accelerare i preparativi per la spedizione che erano intralciati da difficoltà di ordine politico create da Cavour. Questi si sentiva in difficoltà a favorire un movimento diretto contro lo Stato borbonico con cui si mantenevano relazioni diplomatiche ma, politicamente indebolito per la cessione di Nizza e della Savoia, non era in grado di contrastare apertamente Garibaldi. Comunque egli, pur non fidandosi di Garibaldi e temendo l’influenza che avrebbe potuto esercitare Mazzini, non aveva obiezioni di principio verso gli obiettivi della spedizione ed, oltre ad operare un attento controllo della fase preparativa, manteneva una cauta posizione di attesa.

- La partenza dei Mille

Al quartier generale dell’operazione di Genova, Villa Spinola, sotto gli occhi vigili del governo, giungevano per arruolarsi poco più di un migliaio di volontari (1162) tra esuli meridionali, giovani intellettuali, studenti e popolani (38), provenienti dalle regioni del nord che si acquartierarono presso la spiaggia di Quarto. Restava la difficoltà degli scarsi armamenti e del reperimento delle navi per il trasposto. A queste provvidero Nino Bixio (39) e Benedetto Castiglia che, il 5 maggio, con poche decine di uomini e con la collaborazione di Giambattista Fauché (n. 39), prese possesso, nel porto di Genova, di due navi a vapore della compagnia marittima di Raffaele Ribattino (40), il Lombardo ed il Piemonte, su cui si imbarcarono i volontari per partire, la mattina del 6 maggio 1860, verso la Toscana. Qui, dal comandante della guarnigione del Regno Sardo di Telamone, Garibaldi, dichiarandosi generale dell’esercito piemontese, si fece consegnare armi e munizioni. Quindi, prima di proseguire, inviò un gruppo di sessantaquattro uomini che, guidati da Callimaco Zambianchi, operarono una manovra diversiva verso territori dello Stato pontificio quindi raggiunsero a scaglioni la Sicilia. Dopo la partenza da Talamone (9 maggio) (41) le due imbarcazioni fecero sosta a Porto S. Stefano per rifornimenti di carbone, quindi si diressero verso la Sicilia. Nei pressi della quale, godettero della provvidenziale copertura della flotta britannica che, con il pretesto di proteggere i cittadini inglesi residenti in Sicilia, incrociava intorno alle coste sicule, frapponendosi fra le navi garibaldine e quelle borboniche per ostacolare l’eventuale intervento di queste, a meno di rischiare uno scontro con gli inglesi che avrebbe potuto causare il coinvolgimento armato dell’Inghilterra (42). Anche all’arrivo a Marsala (11 maggio) dove e non a caso Garibaldi scelse di sbarcare riuscendo a procedere le navi borboniche all’inseguimento, fu protetto dalla presenza in porto di navi inglesi (Argus ed Intrepid) che, non occasionalmente alla fonda, manovravano opportunamente per proteggerlo dal cannoneggiamento delle navi borboniche. Il Piemonte si arenò per favorire lo sbarco mentre il Lombardo fu cannoneggiato ed affondato quando ormai tutti i volontari garibaldini erano sbarcati.

- La conquista della Sicilia

Il contingente sbarcato, trovò fredda accoglienza dai cittadini di Marsala. Il giorno successivo, salutato dal console inglese Collins, diviso il suo contingente in sette compagnie cui si erano uniti decine di volontari siciliani, Garibaldi concordò la strategia con il suo capo di stato maggiore, Sirtori (44), quindi procedette con cautela verso Salemi beneficiando della generosa ospitalità ricevuta lungo il percorso dal marchese di Torrealta. Lungo il trasferimento il contingente evitò le principali vie di comunicazione, guidato dalla eccezionale capacità di Garibaldi che, non volendo scontrarsi con forze nettamente preponderanti, attuava una strategia di guerriglia appresa nel decennio di lotte in Sud America. Essa consisteva nell’evitare la battaglia in campo aperto e preferire assalti improvvisi in campi angusti, rapide marce ed accurate dispersioni, tattica che demoralizzava il nemico ed animava i suoi.

Giunto il 13 maggio a Salemi accolto da entusiastici festeggiamenti, Garibaldi emanò, il giorno successivo, un proclama in cui dichiarava di assumere la dittatura della Sicilia in nome di Vittorio Emanuele II, quindi si diresse verso Calatafimi. Qui, il generale borbonico Francesco Landi (45) inviò un distaccamento, tre compagnie di 2000 uomini, guidato dal maggiore Sforza il quale decise di attaccare appena resosi conto della esiguità numerica dei volontari garibaldini. Questi, schierati sulle alture di Pietralunga, rimasero in attesa finché i borbonici non furono alla portata quindi spararono a bruciapelo ed aggredirono all’arma bianca (15 maggio). Nello scontro violento, sanguinoso ed incerto i garibaldini ebbero la meglio grazie all’apporto di volontari siciliani (46).

La diffusione della notizia dello scontro vittorioso, propagata con i falò sulle alture, rappresentò un elemento determinante per il prosieguo dell’impresa che fu sostenuta dall’entusiasmo e dal coinvolgimento delle masse contadine. Esse vedevano in Garibaldi il vendicatore delle ingiustizie patite ed egli, con il suo carisma e la sua sensibilità popolare, riuscì a valorizzare la loro partecipazione creando una atmosfera di entusiasmo e di fiducia che concorsero ad accrescerne la leggenda.

L’aggregazione diretta al contingente di alcune migliaia di volontari (picciotti) guidati da Rosolino Pilo e da Giuseppe La Masa  creò in tutta l’isola un clima rivoluzionario.

L’aggregazione diretta al contingente di alcune migliaia di volontari (picciotti) (47) guidati da Rosolino Pilo e da Giuseppe La Masa  creò in tutta l’isola un clima rivoluzionario.
Da Calatafimi (16 maggio), attraverso Alcamo, Partinico e Borsetto, il contingente garibaldino si diresse, in un susseguirsi di rapidi scontri nel corso dei quali perse la vita (21 maggio) Rosolino Pilo (n. 33), verso Palermo dove si stavano asserragliando, per preparare una controffensiva, le truppe borboniche del generale Landi che, su suggerimento di Filangeri (n. 7), venne sostituito dal generale Ferdinando Lanza, siciliano conoscitore dei luoghi ma vecchio e lento, cui era stato dato mandato di evitare il concentramento delle forze a Palermo. Garibaldi che intuiva la minaccia incombente, predispose una apparente manovra di ritirata con l’invio di un gruppo di volontari, attraverso la Piana dei Greci, verso Corleone. Manovra che trasse in inganno il corpo di tremila svizzeri che, guidati dal colonnello Von Mekel, erano stati inviati ad intercettare i garibaldini. Frattanto Garibaldi, col grosso dei suoi volontari, di notte e per vie secondarie aggirò a sud Palermo e all’alba del 27 maggio, con l’avanguardia condotta da Bixio, sorprese le disorientate truppe borboniche da est, presso il ponte dell’Ammiraglio conquistato all’arma bianca dopo un breve ma violento combattimento (48).

I garibaldini, esprimendo livelli elevati di eroismo, si aprirono l’accesso alla città che li accoglieva sostenendoli ed affiancandoli. Il comandante delle truppe borboniche, Lanza, abbandonò via via gran parte dei quartieri cittadini, premuto dai garibaldini e dagli insorti e, nel tentativo di capovolgere le sorti dello scontro, si ritirò sulle alture del forte di Castellammare da dove, per tre giorni, cannoneggiò la città sottoponendola ad un inutile massacro che causò centinaia di morti. Malgrado l’arrivo di rinforzi, i borbonici continuavano ad arretrare, finché su intervento del comandante della squadra britannica nel porto di Palermo, ammiraglio Mundy, fu proposto un armistizio. Questo, concordato su una nave britannica (31 maggio) da Garibaldi e Crispi con gli inviati borbonici, prevedeva il mantenimento delle rispettive posizioni militari (49).

Il generale Lanza aveva ricevuto dal re, cui era stato fatto un quadro molto più fosco della realtà, facoltà di decidere. Egli, attanagliato dall’inevitabilità della sconfitta, rinunciò alla difesa di Palermo lasciandola in mano agli irregolari di cui conosceva l’ardore e, predisponendosi per uno scontro in campo aperto, il 6 giugno, concordò l’imbarco delle truppe. Queste, entro il 19 giugno, lasciarono Palermo, attuando, come era accaduto nel 1848, il piano di emergenza che consisteva nel ripiegare su Messina dove le truppe borboniche vennero affidate al comando del generale Clary (50).

A Palermo Garibaldi istituì il quartier generale a Palazzo Pretorio ed un governo provvisorio (2 giugno) da lui presieduto ma sostanzialmente diretto da Crispi, in qualità di ministro degli interni. Intanto l’eco provocata dai successi garibaldini ebbe favorevoli ripercussioni all’interno in quanto tutta l’isola si sollevava abbattendo, a parte la piazzaforte di Messina, i presidi borbonici che, fin dall’inizio, assuefatti alla convinzione che avrebbero agevolmente controllato l’arrivo di un migliaio di garibaldini male armati, erano impreparati a reggere una vasta rivolta popolare.
Nelle campagne, infatti, da parte del proletariato agrario si era scatenata una sanguinosa sommossa che, priva di carattere politico, si rivolgeva non solo contro i borbonici ma anche contro i proprietari terrieri ed i gabellotti (affittuari di latifondi), ritenuti responsabili del loro malessere.

I successi dei garibaldini promossero diverse reazioni.

A Napoli, consigliato da Carlo Filangeri, il re Francesco II cercò di correre ai ripari con tardive concessioni liberali fino a ripristinare la costituzione del 1848, dare avvio alla formazione di un governo moderato diretto dal principe Antonio Spinelli di Scalea (25 giugno 1860) ed adottare il tricolore. Scelte che comunque non servirono ad arrestare la disgregazione del Regno.

In continente la fama risonante dell’impresa garibaldina e l’entusiasmo destato aveva moltiplicato gli sforzi con ripetuti invii, tra giugno e luglio, di materiali ed uomini che accorrevano da tutte le parti d’Italia (51).

In luglio Garibaldi inviò tre colonne di circa seimila uomini, tutti regolarmente inquadrati e giustamente equipaggiati a presidio del territorio di Girgenti (Agrigento), quella comandata da Bixio, a Catania quella di Stefano Turr (52) , e la terza, la più consistente, di duemilacinquecento uomini, guidata da Giacomo Medici (n. 51) verso Messina dove si erano raggruppate le truppe borboniche. Quest’ultima, intercettata a Milazzo da un contingente borbonico fu raggiunta da Garibaldi (19 luglio) ed il giorno successivo avvenne lo scontro col contingente borbonico del colonnello Beneventano del Bosco che, nello scontro più articolato e sanguinoso fino ad allora combattuto in Sicilia inflisse loro severe perdite (quasi ottocento garibaldini rimasero sul campo) ma fu costretto a ritirarsi nel forte di Milazzo. Il 24 luglio, tra Medici e Clary, fu stabilito un accordo che prevedeva la resa di Milazzo ed il 28 della città di Messina mentre il contingente borbonico si sarebbe ritirato nella cittadella di Messina.

Ora che la Sicilia era conquistata sorgevano le questioni di carattere amministrativo e politico.

- L’amministrazione della Sicilia

Garibaldi, dopo la conquista di Palermo, doveva amministrare la Sicilia ed, aiutato dalla sua autorità morale, lo fece con zelo riformatore privilegiando gli interessi del popolo. Ma carente come era di esperienza ed abilità politica, non riuscì a portare a termine quanto era nei suoi intenti perché i notabili, appena si riebbero dalla rapidità dei cambiamenti, ripresero ad influenzare e determinare gli eventi. Inizialmente furono emessi una serie di decreti che sancivano sgravi fiscali, eliminazione della tassa sul macinato e dei dazi, nazionalizzazione delle proprietà ecclesiastiche, ripartizione delle terre demaniali regie tra i contadini che accettavano di combattere. Ingenuamente Garibaldi cercò di impedire che i contadini si rivolgessero al padrone chiamandolo “eccellenza” e baciandogli la mano (usanza troppo radicata perché potesse essere rimossa per decreto). Egli aveva in programma di liberalizzare gli scambi, potenziare le infrastrutture, costruire villaggi, arginare fiumi, rimboschire i fianchi delle montagne, costruire asili e potenziare ogni tipo di scuola.
Ed anche se il governo dittatoriale aveva adottato provvedimenti a favore della ripartizione delle terre ai contadini, furono repressi gli eccessi soprattutto laddove essi avrebbero potuto limitare l’azione di unificazione avviata.

Le lotte dei contadini si allargarono facendo tramontare ogni possibilità di convivenza con la classe borghese ed anticipando quel fenomeno di rivolta, brigantaggio, che caratterizzerà, nel meridione, il primo decennio dell’unificazione. Le rivolte scoppiate nell’area etnea, Randazzo, Regalbuto, Biancavilla, Cesarò ecc. e soprattutto a Bronte affondavano le loro radici nei decenni precedenti, allorché essendosi avviati altrove processi di distribuzione di terre ai contadini, in quella zona tutto era rimasto congelato, nella protezione del feudo appartenente agli eredi dell’ammiraglio Horace Nelson (54) e di altri possedimenti, in zona, di cittadini inglesi. I contadini, dando libera interpretazione ai decreti di Garibaldi, pensarono di potersi liberare prontamente dal giogo che li aveva oppressi per secoli. Negli ultimi giorni di luglio, spinti non da motivi politici ma sociali legati alla miseria ed all’ingiustizia, si coalizzarono per impadronirsi degli immensi patrimoni terrieri e, compatti ed armati, scesero nelle piazze creando tumulti e presidiando, in un clima di terrore, le strade per impedire la fuga dei possidenti. Il furore popolare, sostenuto da una miscela veemente di desiderio di libertà e mosso da odi e soprusi a lungo repressi, si sfogò in eccidi brutali.

Per tutelare gli interessi di cittadini inglesi, il console Goodwin sollecitò l’intervento di Garibaldi. Questi, non potendo ignorare l’aiuto inglese nell’organizzazione e conduzione della sua impresa, non volendo alienarsi l’appoggio dei proprietari terrieri e tantomeno cedere alle pressioni delle masse contadine, ordinò a Bixio, di stanza a Giardini, di recarsi a Bronte per reprimere una rivolta che aveva ampiamente oltrepassato il limite della civiltà. Bixio, giunto a Bronte il 6 agosto, allorché la rivolta aveva esaurito la sua carica violenta ed i contadini si erano già dispersi nelle campagne, proclamò lo stato d’assedio, intimò la consegna delle armi e, quale deterrente per altre analoghe situazioni in atto in altri comuni, attuò una rappresaglia senza precedenti, trasformando in vittime innocenti coloro che per primi caddero nella rete (55).

Cavour, sorpreso dagli eventi e dalla rapidità con cui essi si erano verificati, studiava la maniera di utilizzare la conquista e, pensando ad una annessione, dopo aver verificato il favore degli inglesi e la tacita approvazione di Napoleone III, inviò in Sicilia La Farina (n. 35) con l’incarico di promuovere un plebiscito (56). Questi incontrò il dissenso di Garibaldi, di Crispi e di tutto l’entourage. Il primo, pur mantenendo una posizione di lealtà nei confronti del re, non riteneva conclusa la sua azione prima della conquista dei territori continentali e dello Stato pontificio ed il secondo, pur essendo di sentimenti democratici ma autonomista, ebbe un aspro scontro con La Farina. Il quale, tuttavia, avviando diverse iniziative favorite da coloro che non si sentivano protetti da Garibaldi ma non dalla moltitudine interessata solo all’indipendenza e non ad una forma di sottomissione, riuscì a consolidare l’ipotesi dell’annessione. Ma il 7 luglio, con una sfida aperta al governo sardo in cui Cavour non voleva perdere la possibilità di controllare lo sviluppo degli eventi, La Farina fu arrestato ed espulso (57), facendo cadere, per il momento, l’ipotesi annessionista.

Garibaldi in previsione di lasciare la Sicilia per risalire il continente, dovette accettare con Torino un compromesso che comportò la nomina a prodittatore di Agostino Depretis (v. capitolo successivo), un esponente della sinistra moderata da lui imposto, su suggerimento di Crispi che lo affiancò.

Depretis si insediò il 22 luglio con l’impegno a non avviare il processo di annessione senza il consenso di Garibaldi.


- La conquista dei territori continentali

Lo sbarco in Calabria che significava un affondo più diretto alla dinastia borbonica fu proceduto da articolate valutazioni politiche. L’operazione di sbarco infatti non poteva che avere come risultato l’unificazione di tutta l’Italia ed il probabile attacco allo Stato Vaticano che era nelle esplicite intenzioni di Garibaldi e dei suoi collaboratori, in particolare di Bertani (n. 51). Gli inglesi che erano in rotta con i Borboni e che avevano favorito la prima fase dell’impresa di Garibaldi erano favorevoli alla costituzione di uno Stato Italiano purché nessuna altra nazione trovasse occasione di ingrandimenti. Nella Francia di Napoleone III alla iniziale posizione di tacita accondiscendenza si era sostituita la preoccupazione che gli eventi potessero assumere un aspetto non facilmente controllabile. L’Austria manteneva la sua posizione di ostilità impotente. Cavour voleva impedire che il meridione continentale fosse conquistato da Garibaldi e, dopo aver ottenuto, con la collaborazione della diplomazia francese, le concessioni precedentemente indicate da parte di Francesco II a Napoli (costituzione e formazione di un governo democratico) contava su una subalternità di questo al governo piemontese.

A tal fine, Cavour fece rientrare a Napoli tutti gli esuli ma la prospettiva era di lungo periodo mentre gli eventi incalzavano. Restava la possibilità di fare scoppiare a Napoli un moto rivoluzionario contro i borboni che anticipasse le mosse di Garibaldi. Ma anche questa ipotesi svanì perché le classi moderate che avrebbero dovuto provocarlo, sentendosi minacciate da una rivolta, propendevano per l’annessione. Cavour, che riteneva elevati i rischi legati all’impresa garibaldina continuò a non sostenerla ed ordinò all’ammiraglio della flotta sarda, Persano (58), che incrociava nelle acque siciliane, di non ostacolare la flotta borbonica nei tentativi di impedire l’attraversamento dello stretto dell’armata garibaldina. Restava però attento ad utilizzare gli eventuali risvolti positivi. Il re Vittorio Emanuele inviava a Garibaldi missive ufficiali per invitarlo a desistere dall’impresa e, confidenzialmente gli faceva pervenire suggerimenti per il rifiuto.
Era questa la situazione diplomatica al momento in cui Garibaldi decise l’attraversamento dello stretto.

Anticipate da una fitta propaganda che prometteva regole che consentissero forme di vita più eque, nella notte tra l’8 ed il 9 agosto, sbarcarono, trasportati da barche, sull’estremo lembo della penisola le avanguardie garibaldine di circa duecento uomini guidati da Benedetto Musolino (*) che, con l’apporto di numerosi volontari guidati da Agostino Plutino ed appartenenti a tutte le classi sociali, stabilirono una testa di ponte da cui partirono ripetuti e vani tentativi di conquistare il forte di Altafiumara, difeso dal generale Ruiz (59).

Garibaldi, appena rientrato dalla Sardegna dove era andato a sbloccare la partenza per la Sicilia di volontari che, organizzati da Bertani, erano stati impediti dalle autorità nel timore che fossero diretti contro lo Stato Pontificio, raggiunse Taormina. Là si era radunato il grosso del contingente (3600 uomini) che imbarcatosi a Giardini (Taormina) su due navi di trasporto (Franklin e Torino) attraversò nella notte del 18 agosto le acque dello Stretto di Messina senza essere ostacolato da presenze ostili (60).

Sbarcò all’alba del 19 agosto, a Melito di Porto Salvo accolto dall’entusiasmo popolare. La stessa notte Reggio fu attaccata costringendo alla resa la guarnigione borbonica.

La felice operazione di sbarco riscosse risonanza all’estero, suscitò favore in Italia e convinse Cavour delle prospettive positive ad essa legate (61). Egli assunse di conseguenza una posizione di favore impegnandosi a controllare l’evoluzione dell’impresa al fine di evitare l’insorgere di suscettibilità all’estero. E per questo era necessario non coinvolgere lo Stato Pontificio su cui si stendeva la protezione di Napoleone III.

Dopo la liberazione di Reggio i garibaldini erano fronteggiati da circa 16.000 soldati borbonici dislocati tra Reggio e Monteleone (attuale Vibo Valentia). Il contingente guidato da Garibaldi e Medici attaccò le truppe borboniche guidate dai generali Fileno Briganti e Nicola Melendez attestati nel pressi di Scilla che, non ricevendo il sostegno delle forze comandate dai generali Ruiz e Vial, si arresero (62). Le truppe garibaldine, rafforzate da un secondo contingente che, guidato da Bertani e Cosenz era sbarcato, il 22 agosto, sul lido di Favazzina (tra Scilla e Bagnara), iniziarono la risalita e, superato il fiume Amato nella piana di Santa Eufemia, vennero in contatto, ad Agrifoglio, con un reparto borbonico in ritirata che, con una manovra di aggiramento condotta dal generale Stocco, fu accerchiato nei pressi di Soveria Mannelli (30 agosto) costringendo il generale borbonico Ghio alla resa, malgrado la prevalenza numerica.

Conquistata agevolmente la Calabria , Garibaldi, da Cosenza (30 agosto), attraverso Castrovillari raggiunge Scalea dove si imbarcò per Sapri e, da qui, attraverso Sala, giunse il 6 settembre a Salerno. Qui lo raggiunsero ambasciatori inviati dal ministro degli interni del governo napoletano, Liborio Romano , che, preoccupato per l’ordine pubblico, lo invitava a prendere pacifico possesso di Napoli e di assumere, come in Sicilia la carica di dittatore.

Francesco II, vedendo che tutto gli crollava attorno (65), dopo il rifiuto di Filangeri (n. 7) di riprendere in mano la situazione, il 4 settembre tenne un consiglio di guerra dove venne decisa di posizionare la parte di esercito rimasta fedele, al comando del generale Giosué Ritucci, su una area di difesa fortificata, posizionata tra i fiumi Volturno e Garigliano. Quindi, il 6 settembre, in compagnia della moglie ed ignorato da tutti mentre gli inservienti ne rimuovevano le insegne, lasciò Napoli, portando con se solo poche cose. Sulla nave Messaggero raggiunse Gaeta (66) dove, il giorno seguente, insediò un nuovo governo borbonico guidato dal generale Casella. Nelle caserme di Napoli restavano seimila soldati comandati dal generale Cataldo.

Il 7 settembre Garibaldi con Bertani, Cosenz e pochi altri giungeva a Napoli per ferrovia (Napoli-Portici; si era imbarcato a Cava dei Tirreni) accolto da un tripudio di popolo.

Venne affidata a Liborio Romano la guida del nuovo governo di cui facevano parte i ministri Crispi agli esteri, Cosenz alla guerra e Bertani, prodittatore per le province. Al generale Ghio fu affidato il comando della piazza di Napoli mentre giungeva notizia che il generale borbonico al comando delle truppe in Abruzzo aveva dato ordine di cessare ogni resistenza.

Il regime borbonico era crollato ma non ancora completamente abbattuto.
 
Note:
(2) Fu questa divieto, avvenuto su pressione austriaca uno dei pochi episodi di intolleranza del governo riformatore ed illuminato di Leopoldo II (1797-1870), figlio di Ferdinando III e di Maria Luisa di Borbone-Napoli, divenne, in pectore granduca alla morte del fratello maggiore Francesco Leopoldo (1800).
(3) Carlo Cattaneo (1801-69) estraneo alla politica attiva, diresse il consiglio di guerra durante le cinque giornate di Milano (*) e fu esule a Parigi. Dopo averla rifiutata nel 1861, accettò nel 1867 l’elezione a deputato ma senza partecipare ai lavori per non dover giurare fedeltà alla corona.
(4) Legati ai ceppi come delinquenti comuni furono visitati dallo statista britannico William Gledstone (1809-98) che ne rimase talmente scosso da denunciare le illegalità del regime borbonico “negazione di Dio eretta a sistema di governo”. E’ opinione diffusa che tale descrizione sia stata amplificata per motivi di contrasto politico.
(5) Secondo Francesco Saverio Nitti, Ferdinando governò “senza guardare all’avvenire, senza aver vedute, senza prospettive” un regno che, secondo la sua visione, doveva galleggiare “tra l’acqua salata e l’acqua santa”, cioè isolato dal mare e dallo Stato Pontificio.
(6) Francesco II (1836-94), altrimenti noto come Franceschiello, figlio di Maria Cristina di Savoia e, come lei, bigotto ma non sprovveduto come generalmente viene ritenuto. Da poco sposato con la sorella dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, (n. 22), Maria Sofia di Baviera, con cui ebbe un avvio matrimoniale che richiese, su di lui, l’intervento del confessore. Maria Sofia, di carattere risoluto ed in conflitto con la regina madre Maria Teresa d’Asburgo-Lorena (*) (matrigna di Francesco II), cercò di condizionare le scelte del re.
(7) Carlo Filangieri (1784-1867) figlio del giurista Gaetano, fu ufficiale dell’esercito Napoleonico e mantenuto nel grado anche dopo la restaurazione borbonica del 1806. Partecipò ai moti liberali del 1821 ed, espulso da Ferdinando I, fu riammesso nell’esercito da Ferdinando II. Represse i moti del 1848 in Sicilia, quindi ne divenne governatore. Divenne presidente del consiglio e ministro della guerra nel 1859.
(8) Lo sviluppo della ferrovia in Sicilia era limitato dagli scarsi investimenti privati e dalle controversie che sorgevano per la scelta degli itinerari che venivano a favorire o meno località e poderi. La costruzione della Palermo-Messina-Catania pur progettata da Francesco II, fu deliberata da Garibaldi nel suo periodo dittatoriale e realizzata successivamente.
(9) Anche nei centri di una certa consistenza, la frequenza delle scuole era sconosciuta ed il popolo cresceva senza istruzione e nozioni di morale.
(10) Genova, dopo l’ingloriosa pace di Vignale (*), aveva promosso una rivolta antimonarchica con l’intento di riacquistare la sua antica indipendenza, perduta ad opera delle truppe napoleoniche nel 1797.
Il generale Alfonso Lamarmora (1804-78) che, dopo la sconfitta di Novara era divenuto commissario reale a Genova, sedata la rivolta, permise atti di cruda violenza sulla popolazione, definita “vile ed infetta razza di canaglia”, ricevendo l’elogio del re. Lamarmora divenne ministro della Guerra nei governi D’Azeglio e Cavour, comandante della spedizione in Crimea e primo ministro, a seguito delle dimissioni di Cavour successive alla pace di Villafranca. Prefetto a Napoli nel 1861, condusse la lotta al brigantaggio. Fu presidente del consiglio anche nel 1864-66 allorché si dimise per guidare le operazioni della III Guerra d’indipendenza in cui ebbe gravi responsabilità nella sconfitta di Custoza.
(11) Accordi di armistizio concordati da Vittorio Emanuele II con il maresciallo Radetsky a Vignale il 24 maggio e che sarebbero dovuti essere trasformati in trattato di pace dopo l’approvazione del Parlamento (9 gennaio 1850). Essi prevedevano la cessione all’Austria della fortezze di Alessandria e territori tra il Po, il Sesia ed il Ticino.
(12) Esse, tra l’altro, prevedevano, per le corporazioni ecclesiastiche il divieto di acquisire beni e ricevere eredità e donazioni, senza l’approvazione del Governo. Contro cui si sollevò la reazione clericale che fu controllata con severi provvedimenti che videro l’incarcerazione dell’arcivescovo di Torino e l’espulsione dal regno degli arcivescovi di Cagliari e Sassari.
(13) Camillo Benso di Cavour (1810-61) dopo la giovinezza nell’esercito e la formazione all’estero dove studiò gli effetti della rivoluzione industriale in Gran Bretagna, Francia e Svizzera acquisendo i principi economici e sociopolitici del sistema liberale, assunse la presidenza del consiglio a seguito della caduta del ministero d’Azeglio sul progetto istituzionale del matrimonio civile osteggiato sia dal re che dai conservatori. Questione che Cavour non ripropose per non alienarsi il consenso verso le sue iniziative politiche che, miranti allo sviluppo dell’economia, delle infrastrutture (ferrovie, bonifiche, sistemi di coltivazione, politica doganale), all’accentuazione del sistema parlamentare e potenziamento dei commerci, avrebbe acquisito per il Regno una posizione di prestigio europeo. La laicizzazione dello Stato (libera Chiesa in libero Stato), pur se contrastata da cattolici e dallo stesso re, attrasse l’attenzione di noti repubblicani confluiti a Torino, come Giuseppe Garibaldi, il toscano Giuseppe Montanelli, il veneziano Daniele Manin (*), il siciliano Giuseppe la Farina (n. 35), il milanese Giorgio Pallavicino Trivulzio (n. 19), il napoletano Francesco De Sanctis che diedero avvio alla formazione della Società Nazionale Italiana con il motto “Italia e Vittorio Emanuele” (1857). Queste personalità che avevano abbandonato la linea rivoluzionaria di Mazzini, premettero perché Cavour, assieme a Vittorio Emanuele II, tramutato malgrado il suo residuo spirito antiparlamentare in un simbolo rassicurante di sovrano costituzionale, assumesse il patrocinio dell’unità nazionale. Egli, con il suo acume diplomatico, riuscì a modificare gli equilibri internazionali favorevoli all’Austria, acquisendo una posizione di riferimento nel processo di Risorgimento italiano.
Mazzini (*), invece, che aveva accantonato la sua pregiudiziale repubblicana solo nel 1848 in occasione della guerra di Carlo Alberto contro l’Austria, dai suoi successivi esili (Marsiglia, Ginevra, Parigi e Londra), attraverso comitati rivoluzionari, continuava ad incoraggiare attività cospirative ed iniziative insurrezionali volte a conquistare l’indipendenza e l’unità nazionale in uno Stato repubblicano. A questa primaria esigenza egli subordinò ogni azione invitando i socialisti a tralasciare, a tal fine, le lotte di classe che riteneva un fattore di divisione delle forze interessate ad abbattere i regimi assoluti. Egli, ritenendo che l’Italia non sarebbe stata unificata con la diplomazia e le armi straniere, collante inconsistente, si contrappose a Cavour che, considerando che l’Italia non poteva essere unificata dai pochi italiani impegnati senza il consenso delle masse, si era legato alle potenze straniere nella speranza che ciò giovasse alla causa Italia. Mazzini continuò nel tentativo di muovere dal basso il movimento unitario ma dopo lo sfortunato tentativo milanese disertato dalla borghesia (6 febbraio 1853) ed a seguito altri tentativi falliti (Genova e Livorno dove la polizia ebbe facilmente ragione dei pochi partecipanti e per cui era stato condannato a morte ed escluso dall’amnistia concessa dal governo di Torino all’inizio della guerra del 1859) che gli avevano procurato accuse e fatto perdere prestigio, riprese la lotta trasformando il suo movimento (Giovane Italia) in Partito d’azione (1853). Questo, con le stesse finalità, organizzò una serie di falliti tentativi insurrezionali, tra cui la spedizione di Pisacane. Tali insuccessi causarono riserve e critiche anche all’interno dell’area democratica e provocarono il distacco di Medici, Bertani e Cosenz (n. 49) e delle personalità (v. sopra) che confluirono nella Società Nazionale Italiana, per abbracciare la linea monarchico unitaria, strumento della politica pragmatica di Cavour in cui il raggiungimento dell’indipendenza era abbinato delle conquiste sociali.
(14) Nel settembre 1854 le potenze alleate sbarcarono truppe in Crimea, cui si aggiunsero nel 1855 circa !8.000 uomini del Regno Sardo comandati dal generale Lamarmora (n. 10) con l’aperto dissenso di Mazzini che vedeva i soldati italiani combattere a fianco di potenze che avevano fornito garanzie all’Austria. Nell’assedio della fortezza di Sebastopoli, base della flotta Russa nel Mar Nero, il contingente italiano aveva contribuito validamente al successo. L’Austria non aveva partecipato alla guerra cui la morte dello zar Nicola I e la successione di Alessandro II poneva fine con l’armistizio del 25 febbraio 1856.
(15) Luigi Napoleone (*), dopo l’elezione alla presidenza della repubblica del 1848, con un colpo di Stato sciolse nel 1851 il parlamento e col plebiscito del 1852 si fece proclamare imperatore, dando origine al II Impero caratterizzato da un regime clericheggiante e poliziesco.
(16) Orsini, pur essendo un mazziniano, aveva agito senza il consenso di Mazzini che si indignò per le accuse ricevute. Orsini aveva in mente di favorire una ripresa democratica sia in Francia che in Italia e, prima di essere giustiziato, scrisse a Napoleone suscitandone la sensibilità con l’invocazione ad adoperarsi per la causa italiana.
(17) La disponibilità di Napoleone III all’accordo era stata propiziata con una serie di vicende in cui la diplomazia sotterranea ebbe un ruolo non trascurabile. Attraverso un giovane collaboratore, Costantino Nigra (1828-1907), aveva appreso che Napoleone III mirava a far sposare a Maria Clotilde, figlia quindicenne di Vittorio Emanuele II, il cugino Gerolamo, un maturo libertino che aveva perso il titolo di principe ereditario per la nascita di un erede. Per vincere la ritrosia del re, Cavour usò con cinismo le sua capacità di convinzione ed altrettanto fece nel convincere la contessa di Castiglione a mettersi nella disponibilità del Nigra ed usare la sua avvenenza per conquistare Napoleone alla causa italiana.
(18) L’obiettivo era quello di far ricadere sull’Austria la responsabilità del conflitto per garantirsi, da una parte, la neutralità russa che, in caso diverso, non avrebbe tollerato un aggressione all’Austria che avrebbe comportato una guerra nel centro dell’Europa e, dall’altra, di contenere la diffidenza dell’Inghilterra e della Prussia che, attente a non lasciar modificare gli equilibri a favore della Francia, avevano preso l’iniziativa di una infruttuosa azione diplomatica per prevenire la guerra (febbraio 1859).
(19) Giuseppe Garibaldi (1807-82), nativo di Nizza, aderì alla Giovine Italia mazziniana, si arruolò nella marina da guerra sarda e per la partecipazione al fallito tentativo insurrezionale mazziniano in Savoia fu condannato a morte in contumacia. Per sottrarsi alla condanna riparò a Marsiglia quindi fuggì in Sudamerica (1835) dove partecipò (1842-46) alle lotte di liberazione del Rio Grande e dell’Uruguay, a fianco del presidente Ribera e contro il dittatore argentino Rosas (da qui l’appellativo di eroe dei due momdi). In questo periodo costituì la Legione Italiana contraddistinta dalla camicia rossa (colore occasionale risalente ad una stoffa o a casacche acquistate a basso prezzo), sposò Anita Ribeiro da cui ebbe quattro figli ed aderì alla Massoneria. Rientrato in Italia per guidare una legione di volontari nella I Guerra d’indipendenza (1848, *) ed espulso dopo l’armistizio, si recò a Roma per partecipare agli eventi della Repubblica Romana, organizzando la difesa contro i Francesi. Caduta la città e, persa la moglie durante la fuga, espatriò esule a New York (1850-54). Rientrato e trasferitosi nell’isola di Caprera da lui acquistata, si allontanò dalla politica rivoluzionaria del Mazzini per aderire alla Società Nazionale di cui divenne vicepresidente (con Pallavicino, presidente; n. 13), attratto dalla politica del Cavour cui riconosceva la capacità diplomatica di promuovere l’indipendenza e l’unità dell’Italia.
(20) Ferencz Giulay aveva sostituito il maresciallo Radetzky, morto da poco (*) e di cui dimostrò di non possedere né la decisione né le capacità tattiche.
(21) Per la prima volta vennero utilizzate le tradotte ferroviarie.
(23) Francesco Giuseppe (1830-1916), figlio dell’Arciduca Francesco Carlo, nipote dell’Imperatore Ferdinando I (1830-48), divenne nel 1848, a seguito dell’abdicazione dello zio e della rinuncia del padre, imperatore per un periodo tra i più lunghi che la storia conosca. Salito al trono dopo le sommosse del 1848 (Vienna, Budapest, Milano e Venezia), perseguì un programma di restaurazione dell’autorità imperiale. Nel 1854 sposò Elisabetta di Baviera (Sissi) figlia di Massimiliano di Wittelsbach, divenuto re di Baviera. La sua posizione esitante in occasione della guerra di Crimea gli alienarono le simpatie dello zar senza fargli conquistare quelle degli alleati, ponendo le promesse per il suo isolamento nella guerra del 1859 con i franco-sardi che segnarono l’inizio dell’estromissione dai domini d’Italia. Insuccessi che proseguirono nel 1866 con la perdita del Veneto e dell’egemonia in Germania. Subì anche da parte del suo governo liberale l’abolizione del concordato (1870) che aveva sottoscritto con la Santa Sede nel !855. L’annessione della Bosnia-Erzegovina (1908) può essere ascritto come un suo successo. Ma da essa partirono le vicende che causarono la I Guerra Mondiale.
(23) Gli accordi di Plombiers prevedevano la cessione della Savoia e di Nizza in cambio dell’annessione del Lombardo-Veneto e non della sola Lombardia. Quanto al ripristino dell’autorità legittima negli Stati in cui si erano verificate ribellioni, non poteva trattarsi che di un auspicio dal momento che i due sovrani si impegnavano a non intervenire militarmente. Gli accordi di Villafranca sarebbero state sancite nella conferenza di pace di Zurigo (10 novembre 1859).
(24) In Toscana ed Emilia-Romagna si erano contemporaneamente verificate sommosse che vengono spiegate di seguito.
(25) La decisione di concordare l’armistizio potrebbe essere in parte attribuita al gran numero di morti che le due battaglie, Magenta e Solforino, avevano causato (Jean Hanri Dunant impressionato per la stage, prese l’iniziativa di costituire un sodalizio per l’assistenza ai feriti delle guerre ed altre calamità, iniziativa che si concretizzò nel 1863 con la nascita della Croce Rossa Internazionale) e che poteva avere un impatto sfavorevole sull’opinione francese, non disposta a tollerare ulteriori sacrifici per una causa che non l’attraeva. Inoltre le forze più conservatrici erano contrariate dalle insurrezioni che la guerra aveva favorito nelle Legazioni pontificie. I compensi territoriali concordati potevano giustificare il sacrificio fin qui sostenuto ma proseguire nella guerra all’Austria asserragliata nelle proprie fortezze comportava rischi incalcolabili. C’era poi la considerazione che la Prussia, non era ancora intervenuta a sostegno dell’Austria perché le condizioni poste (il riconoscimento di Stato guida della Confederazione Germanica) non erano state da questa accettate. Ma l’imperatore austriaco messo in difficoltà avrebbe potuto cedere, creando l’intervento della Prussica e condizioni ancor più difficili per la Francia. Vi era inoltre da tener conto degli avvenimenti che, in svolgimento in Toscana ed Emilia-Romagna, avevano dato una scossa ai suoi intendimenti di influenza in Italia (nomina del cugino Napoleone Girolamo per il Regno dell’Italia entrale e di Luciano Murat per quello delle Due Sicilie) fecendogli temere di perdere ancor di più il controllo della situazione.
(26) Bettino Ricasoli (1809-80), uomo d’azione, contribuì con il giornale “La Patria” alla formazione del sentimento di nazionalità italiana. La sua attività fu determinante per adesione della Toscana al Regno d’Italia, nato il 12 marzo 1860. Il 12 giugno 1861 successe a Cavour alla carica di Primo ministro del Regno d’Italia.
(27) La dichiarazione conteneva la raccomandazione di accoglimento da parte di Napoleone III e delle nazioni europee neutrali.
(28) Luigi Farini (1812-66) gestì l’annessione dell’Emilia al Regno Sardo e fu primo ministro del Regno d’Italia nel 1862-63.
(29) Inizialmente si era pensato di affidare il comando a Garibaldi che, ritenuto non gestibile, venne sopravanzato da Fanti che, per assumere tale incarico, dovette prendere concedo dalle sue funzioni a Torino. Garibaldi divenne comandante in seconda.
(30) Cavour aveva continuato a sostenere con i suoi liberali il governo Rattazzi-La Marmora convinto che si sarebbero logorati da soli, incapaci com’erano di assumere iniziative e lasciando il re libero di assumere le sue personali. In tale situazione Cavour manteneva contatti con Mazzini ed entrambi, pensando di utilizzarlo, con Garibaldi, pronto ad accorrere là dove vi fossero state sommosse. La qualcosa avrebbe potuto offrire pretesto all’Austria per un intervento armato. Un timore del genere convinse Cavour a rientrare ed attorno a lui fecero quadrato le forze moderate, esercitando una tale pressione che convinse il re ad accettarlo, malvolentieri, sapendo di dover rinunciare alla sua politica personale. Cavour, sapendo che Napoleone si era convinto del fatto che il Papa, riducendo il suo Stato a Roma e dintorni, avrebbe accresciuto la sua autorità morale, prese contatto con lui, comunicandogli la disponibilità a trattare per la cessione di Nizza e Savoia. Intanto, con la strategia del fatto compiuto, sollecitò Farini e Ricasoli ad avviare i plebisciti in Emilia e Romagna. Napoleone, sapendo della disponibilità del governo di Londra a lasciare decidere le popolazioni dell’Italia centrale del proprio destino, non perse l’occasione per aderire. La notizia dei risultati dei plebisciti in Emilia e Romagna giunse a Parigi assieme a quella della firma del documento che sanciva l’annessione di Nizza e Savoia alla Francia (aprile 1860). Garibaldi, deputato di Nizza protestò vivacemente, ritenendo incostituzionale la cessione in quanto le modifiche territoriali avrebbero dovuto essere approvate dal parlamento. Ma all’imbarazzo di Cavour, rispose con un discorso talmente approssimativo ed arruffato da mettere in imbarazzo suoi stessi sostenitori. All’annuncio del risultato del plebiscito di Nizza e Savoia, pressoché unanime all’annessione alla Francia, Garibaldi si dimise da deputato. La cittadina ligure di Chiavari gli offrì la cittadinanza.
(31) Il 20 giugno 1859 un contingente pontificio guidato dal colonnello Schmidt assediò Perugia che il legato pontificio aveva abbandonato per dissociarsi dalla diffusa intenzione di partecipare alla guerra contro l’Austria. I soldati svizzeri, penetrati in città, operarono atroci rappresaglie ed il loro comandante Schmidt ricevette la promozione a generale.
(32) Garibaldi, dopo aver sposato ed immediatamente ripudiata Giuseppina Raimondi, si era ritirato a Caprera. Egli era in buoni rapporti con il re con cui aveva diverse cose in comune: entrambi, di gusti plebei, detestavano Cavour ed erano attratti più dall’azione che dalla politica. Egli, considerata la scarsa partecipazione ai tentativi dei fratelli Bandiera (*), di Bentivegna (n. 33), e di Pisacane, non confidava nello spirito rivoluzionario dei meridionali se indirizzato a fini politici.
(33) Francesco Crispi (1819-1901), avvocato di Ribera, mazziniano, oppositore dei Borbone, partecipò all’insurrezione del 1848 facendo parte del comitato di guerra, quindi esule in Piemonte da dove venne espulso per le sue idee repubblicane. Dopo il fallito tentativo insurrezionale a Milano (1853) fu esule a Malta ed a Londra dove stabilì ottimi rapporti con Mazzini. Con i Mille divenne ministro dell’interno del governo provvisorio siciliano. Deputato del Regno nel 1861, fece parte dell’opposizione democratica di sinistra, presidente della Camera (1876-77), ministro dell’interno ((1877-78, costretto a dimettersi per l’accusa di bigamia) e primo ministro (1887-91 e 1893-96).
Rosolino Pilo (1820-60), mazziniano partecipò all’insurrezione del 1848 ed all’organizzazione della spedizione di Pisacane.
(34) Alla fine del mese del novembre 1856, Francesco Bentivegna aveva promosso una insurrezione rapidamente domata.
(35) Giuseppe La Farina (1815-63), patriota siciliano, repubblicano convertito all’idea monarchica, fu tra i fondatori della Società Nazionale, ebbe ruolo nella spedizione dei Mille, come fiduciario di Cavour, in contrasto con Garibaldi e Crispi.
(36) Il telegrafo elettrico, inventato da Morse nel 1837, aveva ormai sostituito quello ottico o ad asta di inizio secolo.
(37) Una analoga situazione si verificò, nel 1282, dopo la rivolta dei Vespri, in attesa dell’arrivo i Pietro III d’Aragona.
(38) Tra i Mille era considerevole il numero di avvocati e medici, numerosi anche gli ingegneri e qualche decina di farmacisti. Vi erano anche numerosi appartenenti a classi benestanti e molti stranieri, ungheresi, inglesi, turchi e tedeschi tra cui Wolff che assunse il comando dei disertori tedeschi e svizzeri dalle fila borboniche.
(39) Gerolamo Bixio detto Nino (1821-73), massone genovese affiliato, come Giambattista Fauché, alla loggia Trionfo Ligure, combatté con Garibaldi in difesa della Repubblica romana (1849), nei Cacciatori delle Alpi. Nell’impresa dei Mille resta emblematica la maniera con cui represse la rivolta contadina di Bronte. Entrato nell’esercito regolare partecipò nella III Guerra d’indipendenza. Fu deputato e senatore.
(40) In effetti, il giorno precedente a Torino era stato stipulato, alla presenza del notaio Vincenzo Baldioli, un contratto con cui Garibaldi, rappresentato da Giacomo Medici (n. 43) acquistava le due imbarcazioni (con ruota laterale a pale) dalla Società Ribattino, con un finanziamento garantito dal Regno di Sardegna. Altri finanziamenti erano giunti da una sottoscrizione nazionale “per un milione di fucili” avviata nel dicembre del 1859. Dalle logge massoniche dell’Inghilterra (presumibilmente dal Governo inglese attraverso le logge), dove grazie all’attività di Mazzini, vi era molto favore per l’Italia, Garibaldi ricevette rilevanti finanziamenti in piastre d’oro turche (moneta franca nell’area mediterranea, corrispondente a svariati milioni degli attuali euro) che furono amministrate da Ippolito Nievo (1831-61, letterato che aveva partecipato con Garibaldi alla II Guerra d’indipendenza ed alla spedizione di Mille. Morì in un naufragio. Autore di racconti e romanzi di ambiente contadino, Novelliere campagnolo, e di romanzi storici, Le confessioni di un italiano) servirono anche a limitare l’impegno dei generali borbonici.
Anche dagli Stati Uniti giunsero aiuti tra cui cento pistole inviate dall’industriale Colt.
(41) Un gruppetto di volontari di ispirazione repubblicana avevano abbandonato l’impresa. Restarono 1089 volontari diretti in Sicilia.
(42) L’ostilità britannica contro i Borbone datava dalla guerra dello zolfo (*, 1838) e si era acuita con altri episodi (*). Tuttavia il motivo politico prevalente alla base dell’ostilità dell’Inghilterra nei riguardi del Regno borbonico consisteva nella vicinanza di questo all’Impero russo che aspirava ad avere uno sbocco nel Mediterraneo. Infatti, in prossimità dell’apertura del canale di Suez (1869), i porti siciliani assumevano una importanza strategica rilevante.
Marsala era quasi una colonia inglese per la presenza di numerosi cittadini legati al commercio del vino pregiato e dello solfo, ragion per cui era abituale la presenza di navi inglesi alla fonda nel porto.
(43) Sembra che il comandante della nave borbonica Capri, Marino Caracciolo, abbia aspettato lo sbarco dei volontari prima di procedere al cannoneggiamento.
(44) Giuseppe Sirtori (1813-74), partecipò alla difesa di Venezia (1849). Dopo l’impresa dei Mille divenne generale dell’esercito italiano, prendendo parte alla III Guerra d’indipendenza.
(45) Egli, malgrado avesse a disposizione 25.000 uomini, ritenne sufficiente l’impiego di un esiguo distaccamento per affrontare i garibaldini. Dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno d’Italia, Landi fu promosso generale di corpo d’armata dalla nuova amministrazione, quindi messo a riposo con una cospicua pensione.
(46) Il feudatario Coppola, uomo accorto e conoscitore degli umori del luogo, si era unito con circa duecento contadini a Garibaldi. Sembra che in questa occasione Garibaldi, in risposta a Bixio che, valutando le difficoltà, gli consigliava un ripiegamento, pronunciasse il leggendario “Qui si fa l’Italia o si muore!”
(47) Talvolta questi mancavano di disciplina e si combattevano tra loro ma furono particolarmente utili a Garibaldi perché creavano diversioni e, sapendo come muoversi nelle campagne, controllavano le bande di irregolari. Questi ultimi, montanari armati approssimativamente (un chiodo infilato in un bastone), costituivano, nelle città, un mito terrificante. Essi continuarono le loro lotte incendiando le proprietà dei nobili, invadendo le terre demaniali e feudali e bruciando i documenti di proprietà nei municipi.
(48) Garibaldi aveva avuto informazione della dislocazione delle truppe borboniche a Palermo dai numerosi contatti che aveva con ufficiali inglesi e giornalisti che andavano a trovarlo.
(49) Ciò accadeva mentre giungeva a Palermo von Makel il quale, con improvvisi assalti, aveva ripreso alcuni quartieri ed avrebbe potuto capovolgere la situazione se non fosse stato obbligato da Lanza al rispetto dell’armistizio.
(50) Il generale Lanza era rientrato a Napoli dove venne imprigionato e mandato sotto processo, che non fu realizzato per l’evolversi degli eventi e la caduta del Borbone.
(51) Le spedizioni partivano da Genova, organizzate da Agostino Bertani (1812-86, politico e medico, fu fra gli organizzatori delle cinque giornate di Milano, dei servizi sanitari dei Cacciatori delle Alpi e della spedizione dei Mille in cui ebbe funzioni direttive nel governo dittatoriale. Massone ed aderente alla sinistra storica, fu ispiratore della nascita del Partito radicale) e guidate da Giacomo Medici (1817-82, volontario garibaldino di personalità autorevole ed unico a rivolgersi a Garibaldi con il “tu”, partecipò alla I, II e III Guerra d’indipendenza ed alla difesa della Repubblica romana del 1849. Fu deputato e senatore al Parlamento unitario) e da Enrico Cosenz (1820-98; ufficiale dell’esercito borbonico, passò alle dipendenze di Garibaldi nei Cacciatori delle Alpi ed ebbe un ruolo in Sicilia come ministro della guerra e nella battaglia di Milazzo. Dopo il 1860, fu deputato, senatore e capo di stato maggiore dell’esercito italiano) che portarono in Sicilia, oltre a un considerevole quantità di armi, circa 20.000 volontari che, secondo alcuni, non erano altro che soldati piemontesi camuffati.
(52) Stefano Turr (1825-1908), ufficiale dell’esercito austriaco, disertò durante le cinque giornate di Milano (1848), rifugiandosi in Piemonte ed entrato nell’esercito Sardo da cui fu espulso per aver partecipato alle insurrezioni mazziniane del 1853. Partecipò alla guerra di Crimea nel corpo britannico ed alla II Guerra di indipendenza con i Cacciatori delle Alpi di Garibaldi. Giacomo Medici (1817-82), volontario garibaldino, partecipò alla I, II e III Guerra d’indipendenza ed alla difesa della Repubblica romana del 1849. Fu deputato e senatore al Parlamento unitario.
(53) Questa, difesa dal maresciallo Fergola, fu espugnata dal generale Cialdini soltanto nel marzo 1861.
(54) Gli era stato donato da Ferdinando IV in cambio dei servizi resigli: i fatti illustrati nel capitolo “Meridione d’Italia Borbone di fine ‘700/ Parte II”.
(55) A Bronte, l’avv. Nicolò Lombardo, persona dotata di equilibrio e correttezza, capo della fazione più popolare (comunali) in contrapposizione con quella dei proprietari terrieri (ducali), ma privo di poteri effettivi, malgrado ripetuti e convinti tentativi, non era riuscito a fermare la violenza che si era sviluppata in una serie di sedici barbare esecuzioni, caratterizzate da eccessi che sconfinarono oltre ogni limite umano. Di queste furono vittime non tanto i possidenti ma persone ad essi legate (notaio, contabile, impiegato del catasto, ecc.). Gli avversari di Lombardo colsero l’occasione per eliminarlo, indicandolo a Bixio quale responsabile della rivolta. Gli amici gli suggerirono di fuggire per sottrarsi alla rappresaglia ma egli, consapevole di aver mantenuto corretti comportamenti, si presentò a Bixio che lo aggredì verbalmente senza fornirgli occasione di discolpa, ordinandone l’arresto e sottoponendolo a giudizio, assieme a quattro malcapitati popolani analfabeti (fra cui uno mentalmente infermo) ritenuti promotori degli eccidi. Il giudizio si celebrò il 9 agosto, con gravi carenze procedurali e con un esito scontato, malgrado il Lombardo avesse cercato di convincere i giudici della estraneità di tutti i sottoposti a giudizio. La fucilazione avvenne all’alba del 10 agosto.
La scelta di Bixio trascurava ogni regola di giustizia per soddisfare alle ciniche regole dell’opportunità imposte dalla guerra e ripristinando quelle regole di vita che Garibaldi, coi suoi proclami, aveva inteso abbattere.
I fatti di Bronte restano tutt’ora oggetto di dibattiti ed interpretazione.
(56) Cavour cercava di affrettare l’annessione, pervaso come era dal costante timore che, sotto l’influenza di Mazzini, l’impresa potesse volgere verso un profilo repubblicano.
(57) Sembra che l’episodio vada connesso all’arresto di due spie borboniche che poi risultò informassero anche Cavour.
(58) Carlo Persano (1806-83), personaggio insicuro, fu ministro della guerra nel 1862, anno in cui avrà ruolo nell’assedio di Ancona. Concluderà con la battaglia di Lissa (III Guerra d’indipendenza) a seguito della quale, accusato di imperizia, fu processato e destituito.
(59) Il forte verrà conquistato a fine agosto dalle retroguardie garibaldine.
(60) Le navi borboniche Fulminante e Aquila rimasero inoperose al punto che i loro comandanti subirono maltrattamenti dalla ciurma indignata per la mancanza di reazione.
(61) Cavour scriveva a Nigra (n. 17) ambasciatore a Parigi: “….preferisco veder sparire la mia popolarità, perdere a reputazione, ma veder fare l’Italia …”
(62) La capitolazione fin troppo sollecita dei contingenti borbonici può essere spiegata con la scarsa efficienza e la cattiva direzione dai poco zelanti generali, forse scarsamente dotati e motivati ma certamente assaliti dalla sindrome di disfacimento che aleggiava sul Regno. Briganti, sospettato di tradimento venne ucciso dagli stessi soldati a Mileto, Giambarttista Vial, nominato in luglio comandante delle forze in Calabria, avviò trattative con Garibaldi dopo aver ordinato al grosso delle sue truppe (più di quindicimila uomini), guidate dal generale Ghio, di ritirarsi verso Napoli. Quindi si imbarcò a Pizzo sulla Protis per raggiungere Napoli. Così come fece il generale Afan de Rivera. A Pizzo subito dopo sbarcava, dal piroscafo Eugenia, il maggiore borbonico Ludovico de Sauget per raccogliere informazioni su quanto stava verificandosi nell’esercito borbonico. Re Francesco II aveva amaramente previsto: “dei nostri soldati non si vedranno che i culi ed i tacchi”.
(63) Garibaldi e Stocco attribuirono la facilità con cui avevano risalito la Calabria all’apporto del popolo cui Garibaldi rivolse un messaggio di gratitudine “Dite al mondo…..”
(64) Questi, tramite il Persano, era in contatto con Cavour.
(65) Lo stesso ministro della guerra, generale Pianell, diede le dimissioni (3 settembre) e partì per la Francia, per ricomparire dopo alcuni mesi con i gradi di generale nelle fila dell’esercito unificato.
(67) Il comandanti delle navi Fieramosca, Ruggiero e Guiscardo, si rifiutarono di seguirlo.

Il Meridione e l'unificazione (Parte seconda)

L'ANNESSIONE

di Franco Savelli

Sommario
--- Garibaldi a Napoli : la battaglia decisiva sul Volturno, il plebiscito e l’annessione al Nuovo Stato dell’ex Regno delle Due Sicilie. Garibaldi, incontro con Vittorio Emanuele II ed il triste commiato.
--- L’esercito piemontese invade Umbria e Marche con il fine di sedare disordini; l’esercito pontificio sconfitto si ritira e le regioni votano l’annessione al Nuovo Stato.
--- La caduta delle roccaforti borboniche, l’assedio alla fortezza di Gaeta ed esilio di Francesco II a Roma.
--- Il Nuovo Stato: la scomparsa di Cavour e la difficile sostituzione, Ricasoli, Rattazi, Minghetti e La Marmora.
--- Il completamento dell’unità nazionale: i vani tentativi di Garibaldini conquistare Roma ed il suo arresto in Aspromonte ed a Villa Glori. La III Guerra d’indipendenza e la conquista di Roma.
--- Il governo del Meridione e la guerra contro il brigantaggio. Rivolte in Sicilia.
--- Gli epiloghi: Mazzini, Vittorio Emanuele II, Pio IX, Garibaldi (n. 59).
--- Il sottosviluppo e la “questione meridionale”.

 
L’annessione del Meridione

- Garibaldi a Napoli

Francesco II di Borbone con la moglie e poche cose si era già imbarcato, il 6 settembre 1860, sulla nave a vapore Messaggero per rifugiarsi con pochi fedeli nella fortezza di Gaeta (2) difesa con coraggio ed efficienza da circa 13.000 soldati. La parte di esercito rimasta fedele al sovrano borbonico, tra cui quei contingenti che abbandonavano le caserme di Napoli, al comando del generale Giosué Ricucci, si andarono a posizionare su una linea fortificata tra il fiume Volturno e Gaeta per contrapporsi all’esercito garibaldino.

Il giorno successivo alla partenza del re (7 settembre), Garibaldi giunse a Napoli in ferrovia, accolto dall’entusiasmo del popolo e dai governanti che si prostravano al nuovo padrone. Miscredente e mangiapreti come era, ma fine conoscitore degli umori popolari, così come aveva omaggiato a Palermo S. Rosalia, Garibaldi manifestò il desiderio di rendere omaggio al sepolcro di S. Gennaro dove fu portato in trionfo ed il giorno successivo non mancò di inginocchiarsi davanti all’immagine della Madonna di Piedigrotta.
Garibaldi che ormai riteneva vinta la partita contro i Borboni, assunta la dittatura del Regno delle Due Sicilie per conto di Vittorio Emanuele II, fece confiscare la consistente flotta borbonica, nominò Giorgio Pallavicino (3) (*) profittatore (indicazione accettata da Cavour), assegnò a Bertani (*) il ruolo di prodittatore per le province ed a Liborio Romano (*) la guida del Governo in cui Crispi (*) assumeva il ministero degli esteri e Cosenz (*), quello della guerra. Mentre tutto il suo esercito si schierava fra S. Maria Capua Vetere e Maddaloni, Garibaldi si pose come prossimo obiettivo la conquista di Roma, in ciò rassicurato, nei suoi frequenti contatti, del sostegno inglese.

Cavour, avvertito da Persano, non fidandosi della vocazione realista di Garibaldi, malgrado i ripetuti proclami emessi a nome di Vittorio Emanuele, ritenne fosse giunto il momento di dare uno sbocco istituzionale alla fortunosa ed imprevista conquista del meridione, prima che le forze repubblicane, di vocazione mazziniana, potessero attuare una rivoluzione popolare di difficile gestione. Cercò quindi di porre al re in termini drammatici l’eventualità che Garibaldi attuasse il suo intento di puntare su Roma, senza prendere in considerare la reazione che avrebbe potuto mettere in atto Napoleone III, da sempre protettore del Papato. Il re replicò che in tale eventualità si sarebbe opposto con la forza, placando l’ira di Cavour il quale si sentì legittimato a procedere nel disegno di annettere i territori conquistati da Garibaldi. A tal fine diede disposizione di organizzare il plebiscito in Sicilia al prodittatore Agostino Depretis (4) , il quale aveva assunto con Garibaldi l’impegno a non assumere una tale decisione senza il suo consenso(*). Depretis, dopo essersi recato a Napoli nel vano tentativo di convertire Garibaldi al plebiscito, trovò opportuno rinunciare all’incarico, venendo ad interrompere il canale di comunicazione che collegava Cavour e Garibaldi e creando l’effettivo pericolo che quest’ultimo cedesse alle sollecitazioni che gli venivano dai molti repubblicani confluiti a Napoli, fra cui Mazzini e Carlo Cattaneo (*). Il primo, pur accolto fraternamente da Garibaldi, non riuscì a convincerlo ad ostacolare la soluzione annessionistica del Meridione al Regno Sardo al fine di favorire la convocazione di una Assemblea costituente, il secondo avanzò, inascoltato, la proposta di costituzione di una federazione di Stati autonomi (5).

- Intanto in Umbria e Marche

Intanto Cavour, con una missione affidata a Farini (6) ed al generale Cialdini, era riuscito ad allarmare Napoleone III e, prospettandogli le intenzioni di Garibaldi di attaccare lo Stato Pontificio, lo aveva convinto della necessità di fermarlo sul Volturno, per la qualcosa, le truppe piemontesi sarebbero dovute passare attraverso i territori pontifici (Marche ed Umbria), fermo restando l’impegno alla inviolabilità di Roma. Napoleone finse di credere o credette realmente alle motivazioni e, volendo egli stesso sottrarre l’iniziativa a Garibaldi, diede il suo assenso purché l’operazione fosse condotta con celerità “faites, mais faites vite” (7).

Cavour, negli stessi giorni in cui Garibaldi giungeva a Napoli, era impegnato a programmare il manifestarsi di disordini e tentativi insurrezionali nei territori pontifici ed a predisporre un esercito di quarantamila uomini pronto a muoversi con il pretesto di intervenire a sedare i disordini nell’Italia centrale e con l’obiettivo di controllare l’impresa garibaldina, nel timore che essa potesse assumere connotazioni repubblicane. Quindi cercò di creare il casus, ed a seguito dei disordini scoppiati, intimò al segretario dello Stato pontificio, cardinale Giacomo Antonelli, di sciogliere i reparti di volontari stranieri di stanza nello Stato, ritenuti responsabili dei disordini stessi. Il cardinale rispose negativamente e l’esercito piemontese, comandato dal generale Fanti , entrò nelle Marche conquistando, tra l’11 ed il 14 settembre, Pesaro, Urbino, Senigallia, Perugia e Foligno e, con l’armata del generale Cialdini (n. 8), sconfiggendo facilmente e disperdendo, il 18 settembre, a Castelfidardo l’esercito pontificio guidato dal generale de Lamoriciere. Questi, con il resto del suo contingente, si rifugiò nella fortezza di Ancona che, mentre la città subiva un bombardamento navale ad opera dell’ammiraglio Persano (*), espose bandiera bianca (27 settembre). Lamoriciere avviò trattative per la resa che, senza che l’inutile massacro causato dal bombardamento fosse interrotto, fu conclusa il 29 settembre.

Dopo qualche giorno (3 ottobre), compiaciuto dall’iniziativa da Cavour, giunse ad Ancona Vittorio Emanuele per assumere il comando di parte dell’esercito sabaudo e dirigersi (7 ottobre) verso Napoli (9), lentamente, per dar tempo agli eventi di compiersi.
Per il governo dell’Umbria e delle Marche vennero nominati, rispettivamente, Pepoli e Valerio che incominciarono ad assumere provvedimenti in vista dell’unificazione. Il plebiscito nell’Umbria e Marche avvenne con esito largamente positivo (n. 12), a breve scadenza (4 novembre) di quello tenuto nel Regno delle Due Sicilie.
Al Papa restava il controllo del solo Lazio.

- La battaglia decisiva sul Volturno

Al rientro da Palermo dove si recò ad insediare (18 settembre) Antonio Mordini prodittatore in sostituzione di Depretis, Garibaldi trovò che la situazione militare sul campo si era evoluta e Stefano Turr (*) aveva assunto l’iniziativa di inviare (19 settembre) una squadra di 300 uomini ad occupare Caiazzo al di là del fiume Volturno, provocando la reazione dei Borboni . Questi, vantando forze decisamente preponderanti, passarono al contrattacco riconquistando Caiazzo (21 settembre) ed aprendo una falla nelle linee garibaldine che, Garibaldi, precipitatosi sul terreno di battaglia, riuscì a colmare. Ma l’insuccesso, opportunamente dilatato dalla propaganda cavouriana, fece perdere a Garibaldi parte del favore popolare che, sensibile alla invincibilità dei suoi eroi, si andava spostando i suoi favori verso le scelte di Cavour. Garibaldi cominciò a capire che l’esercito piemontese aveva colto l’opportunità di conquistare i territori pontifici mosso dall’iniziale obiettivo di costituire un argine alle sue iniziative. Amareggiato per l’ingratitudine e disgustato per le trame politiche di Cavour, si immerse nei problemi di carattere militare predisponendo uno scontro con il nemico su terreno aperto che non era abituale alla sua genialità di guerrigliero ma che mise a punto con la collaborazione dei suoi aiutanti di campo (Sirtori, Medici, Cosenz, Turr).

Il 1° ottobre il comandante borbonico scatenò su un ampio fronte un attacco che prevedeva l’aggiramento delle forze garibaldine da parte delle armate borboniche di Ruiz e von Mekel (n. 10) che si sarebbero dovute congiungere a Maddaloni. Ma Bixio, riuscendo ad intercettare Von Mekel, impedì l’aggiramento ed affidò ad iniziative estemporanee le fasi della battaglia che, combattuta attorno alle località di S. Maria e S. Angelo, ebbe esiti incerti fino al primo pomeriggio allorché Garibaldi utilizzò le riserve stanziate a Caserta ed, all’artiglieria, marinai inglesi giunti da Napoli e volontariamente offertisi. Verso sera il comandante borbonico Ricucci ordinò il ripiegamento verso Caserta ed il giorno successivo anche il contingente di Von Mekel, in ritirata verso l’insediamento di Capua, venne attaccato dai garibaldini segnando definitivamente le sorti della battaglia e facendo affossare le residue speranze di rientrare a Napoli di Francesco II. Egli si ritirò nella fortezza di Gaeta con parte del suo esercito che conservava ancora una discreta capacità operativa mentre alcuni reparti si asserragliarono nelle roccaforti di Capua e Civitella del Tronto. Anche la cittadella di Messina, come si è visto in precedenza (*), era rimasta in mano ad una guarnigione borbonica.

Garibaldi, malgrado le gravi perdite subite, aveva conseguito forse la più significativa delle sue vittorie, ma la gioia fu appannata dall’evolversi degli avvenimenti che tendevano ad emarginarlo.

- Il Plebiscito

Cavour, con la rapidità dell’intervento dell’esercito piemontese nei territori pontifici, era riuscito a prevenire ogni azione da parte delle potenze cattoliche europee ed a conquistare il generale consenso dell’opinione pubblica italiana, dello stesso parlamento che gli aveva affidato libertà di azione ed anche del re che vedeva, nelle scelte del suo ministro la strategia vincente. Anche i collaboratori più stretti di Garibaldi (Turr, Bertani), rendendosi conto che, nel momento in cui occorreva massimizzare il risultato delle conquiste effettuate, Garibaldi era inidoneo a gestire un tale evento, cercavano di predisporlo al trapasso dei poteri. Del resto, malgrado Garibaldi fosse formalmente il dittatore del Regno conquistato, il potere gestionale effettivo era nella mani dei due prodittatori, Mordini e Pallavicino che, pur vicini a Garibaldi, ormai propendevano per l’organizzazione del plebiscito piuttosto che per altre soluzioni dilatorie (11) che avrebbero potuto mettere a rischio i risultati fin qui ottenuti.

Garibaldi oscillava fra varie ipotesi finché Pallavicino, da convinto unitario quale era, superò gli indugi fissando la data della convocazione per il plebiscito, il 21 ottobre e dandone notizia. La qualcosa, oltre a giungere inattesa a Palermo, dove tuttavia venne confermata la stessa data per il plebiscito in Sicilia, suscitò l’ira di Garibaldi nei riguardi di Pallavicino che, accusato di essere portatore delle disposizioni di Cavour, si dimise provocando una serie di reazioni mal gestite da Garibaldi che, per intervento di Turr, collegato a Cavour, confermò la data del plebiscito. Esso si tenne regolarmente sia in Sicilia che nelle regioni continentali alla data stabilita fornendo un esito favorevole all’annessione, formalmente totalitario anche se i più non capivano il significato e la destinazione del loro consenso (12) in quanto non vi era stato il tempo per informare anzi, per indurre la partecipazione, si diedero spiegazioni di comodo miranti a far tacere ogni forma di dissenso.
L’alternativa democratica era quindi accantonata.


- L’incontro con Vittorio Emanuele ed il commiato

Vittorio Emanuele, malgrado l’avversione nei riguardi di Cavour, si rendeva perfettamente conto che quella del suo ministro era la strategia vincente ed, in quel momento, nonostante il comportamento leale mantenuto dal dittatore Garibaldi, non avrebbe potuto accettare alcuna richiesta di questi senza alterare i fragili equilibri abilmente tessuti da Cavour che, al fine di condizionarne le mosse, aveva affiancato al re il ministro degli interni Farini. Era quindi nell’interesse di Vittorio Emanuele di mirare ad assorbire nel più breve tempo l’opera portata a termine da Garibaldi.
Accompagnato dal generale Fanti, re Vittorio, che all’inizio di ottobre aveva raggiunto le sue truppe ad Ancona, si era avviato verso il territorio borbonico andandosi a posizionare (13 ottobre) presso l’area di Castel Morrone (Caserta). Successivamente (20 ottobre) ebbe uno scontro, nei pressi del Macerone, con un reparto borbonico cui venne chiusa la via della ritirata verso Isernia.

Dopo il plebiscito del 21 settembre era giunto per il re il tempo di avviarsi verso Napoli e Garibaldi decise di andargli incontro a riceverlo affiancato dal suo contingente. Nel primo mattino del 26 ottobre, Garibaldi si diresse verso il luogo da dove proveniva il suono della fanfara reale e come, presso Vairano (quadrivio della Taverna della Catena) intravide il re affiancato da Fanti e Farini, gli andò incontro e, togliendosi il cappello, lo accolse con “Saluto il primo re d’Italia!” quindi affiancandolo cavalcarono fino all’ingresso di Teano. Tutto qui. Pochi convenevoli, scarso calore e frasi di circostanza.

Garibaldi accompagnò Vittorio Emanuele nel suo festoso ingresso a Napoli (7 novembre) mentre le forze regolari si sostituivano a quelle garibaldine.

Non accettò ricompense, offerti in forma di titoli nobiliari o militari, dimore e pensione, e dovette subire l’amarezza della mancata presenza del re e della proibizione dell’inno nell’atto di commiato ai suoi volontari che ricevettero la medaglia decretata in loro onore dalla città di Palermo. Dal re giunse un formale ringraziamento, redatto e sottoscritto dal generale Della Rocca. Con sua grande amarezza, infine, gli fu imposto di sciogliere il suo esercito di garibaldini (13).

Ignorato dai piemontesi e salutato dal solo Persano, nella notte del 9 novembre, dando un intenzionale appuntamento a Roma, si imbarcò con pochi amici sul Washington diretto verso l’isola di Caprera che aveva acquistato e scelto come sua dimora, nel 1854.

Si concludeva così l’impresa dei Mille .

- L’esilio del re borbone, Francesco II

Vittorio Emanuele, sentendo il bisogno di mostrare una sua partecipazione al crollo del reame di Napoli, aveva dato ordine di attaccare le truppe borboniche sparse per la Campania e principalmente quelle confluite a Capua e comandate da De Corné. Dopo che l’esercito piemontese affiancato da volontari guidati da Sirtori (*) respinse una sortita borbonica, il 1° novembre, iniziò il cannoneggiamento contro Capua, cui Garibaldi aveva rifiutato di parteciparvi e che provocò un elevato numero di vittime tra i civili e la resa del contingente.

Dopo le battaglie del Volturno, la resa di Capua e di altre località sotto controllo borbonico (Mola e Castellone), a Gaeta, con la presenza del re, si era stabilita l’ultima e più consistente resistenza borbonica. L’assedio a Gaeta, iniziato il 13 novembre durò a lungo, per via della presenza della flotta francese che impediva il cannoneggiamento dal mare e si protrasse fino alla resa del 14 febbraio del 1861 . (15)

Prima di partire Francesco II rivolse un ringraziamento alle truppe assediate e sconfitte dall’esercito piemontese. Quindi andò in esilio a Roma dove inizialmente venne ospitato da Papa Pio IX nel palazzo Quirinale quindi si stabilì nel palazzo Farnese fino al 1870 per rifugiarsi quindi in Francia (16).

Il successivo 12 e 20 marzo cadevano rispettivamente la cittadella di Messina ancora presidiata dal contingente borbonico comandato da Fergola  e la roccaforte di Civitella del Tronto.

Il Nuovo Stato

Il 18 febbraio 1861 si riuniva a Torino il primo Parlamento nazionale nel quale erano rappresentate tutte le regioni unificate ed, il 17 marzo, ratificò l’unificazione proclamando il Regno d’Italia (17). Vittorio Emanuele II assunse “per grazia di Dio e volontà della nazione “ il titolo di Re d’Italia, senza mutare l’ordinale, con questo sottolineando non solo il principio dinastico sabaudo ma piuttosto l’ampliamento di un regno. Venne proclamato che Roma sarebbe stata sottratta al Papa per diventare la capitale del Regno.
Dopo il plebiscito in Sicilia la carica di luogotenente generale venne affidata a Montezemolo in sostituzione di Mordini ed, a Napoli, a Farini, sostituito quindi da Costantino Nigra, nel 1861.

Nel nuovo Stato che si costituiva con l’affermazione della corrente moderata rappresentata dalla borghesia progressista del nord che aveva stabilito un compromesso con i latifondisti del sud , garantiti circa la continuità dei loro privilegi che escludevano sia le masse contadine che importanti strati della piccola borghesia da ogni influenza nella vita politica, emergevano due necessità:
- completare l’unità nazionale con l’acquisizione del Lazio e del Veneto;
- governare una nazione che si era formata dall’unione di realtà sociali, culturali, economiche ed amministrative profondamente diverse.

E mentre per la realizzazione della prima potevano verificarsi, sia a Roma che nel Veneto, le condizioni per la soluzione in tempi relativamente brevi, per la seconda occorreva un progetto articolato che si sarebbe dovuto proiettare per un tempo piuttosto lungo al fine di poter dipanare, soprattutto nel meridione, il peso di tutte le contraddizioni non affrontate e dei problemi irrisolti, accentuato dalla mancanza di competenze (19) e di tempo per crearle. Competenze che avrebbero dovuto assumere ruoli di responsabilità nella fase delicata in cui governo e parlamento dovevano mettere a punto norme per regolare la nuova struttura sociale in cui, oltre a dover unificare sette diversi sistemi legislativi, amministrativi, metrici e monetari, bisognava creare un mercato unico abolendo dazi interni, costruire infrastrutture e ferrovie inesistenti nel meridione, ponendo attenzione a ripartire gli appalti in maniera omogenea ed affrontare il problema dell’analfabetismo.

Purtroppo in questo delicato momento si dovette registrare la scomparsa di Cavour (6 giugno 1861) a causa di grave riacutizzazione di una sua sofferenza. Egli, pur cinico calcolatore, con il suo acume politico e diplomatico, capace di coniugare l’audacia con la prudenza, era stato capace di muoversi, utilizzando le esigue risorse di un piccolo Stato, conciliando diverse esigenze, eludendone altrettante e forzandone molte altre, per realizzare l’unificazione della nazione.
Cavour, fin dagli ultimi mesi del 1860, aveva iniziato a riflettere sui problemi dell’annessione del Veneto, della riconciliazione con la Chiesa (20) e quello di Roma che riteneva il più tortuoso. La città possedeva i requisiti storici, intellettuali e morali per divenire la capitale d’Italia ma la sua conquista non doveva significare schiavitù per i cattolici. Doveva attuarsi il principio di “libera Chiesa in libero Stato” che voleva significare annessione di Roma con una Chiesa cui era garantita l’indipendenza. Non ritenendo possibile, allo stato delle cose, una contrapposizione con Napoleone III, inflessibile protettore della difesa del potere temporale del Papa, per poterne vincere la diffidenza aveva pensato di offrirgli la garanzia dello Stato Italiano sui territori pontifici in cambio del ritiro del contingente francese stanziato negli stessi territori.

Completamento dell’unità nazionale
(questione romana e questione veneta)

Alla successione di Cavour fu chiamato il toscano barone Ricasoli (21) che, capo della maggioranza parlamentare, dovette subito occuparsi del riconoscimento, da parte delle nazioni europee, del Nuovo Regno. Va sottolineato che esso si era costituito inglobando, senza dichiarazione di guerra, un Regno autonomo e sovrano come quello borbonico, nell’indifferenza delle potenze europee. E se poi esse non posero condizioni al riconoscimento, la Francia lo concesse (giugno 1861) con la notazione che essa avrebbe ritirato la sua guarnigione dallo Stato Pontificio solo dopo la riconciliazione del Regno d’Italia con il Papa. Al riconoscimento della Francia seguì quello dell’Inghilterra e delle altra importanti nazioni.

Ricasoli si spese nel tentativo di riconciliazione mentre il re anteponeva, alla questione romana la conquista del Veneto, in ciò incoraggiato da Napoleone III (22) che aveva l’intento di distogliere da Roma l’interesse del governo italiano. Nel momento in cui il contrasto fra i due divenne evidente, Ricasoli si dimise (marzo 1862) e fu chiamato a sostituirlo il piemontese Urbano Rattazzi (23), legato al re e disponibile ad assecondarne le scelte. Egli, quale esponente della sinistra, diede spazio a gruppi di quest’area che avevano istituito una Associazione Emancipatrice ed affidato la presidenza a Garibaldi (24). Questi stava volgendo il suo interesse alla liberazione del Veneto al punto da recarsi in Lombardia (Trescore) per reclutare volontari per l’impresa (metà maggio). Il sovrano, preoccupato, inviò il generale Saifront a vigilare ed, allorché occasionalmente a seguito delle indagini per una rapina in una banca a Genova si rinvenne il piano di Garibaldi per un attacco nel Veneto contro l’Austria, fu dato mandato di intervento alle forze regolari che arrestarono molti volontari e bloccarono i passi. Agli arresti seguirono tumulti (Palazzolo, Sarnico) che la polizia dovette sedare con azioni sbrigative e sanguinose. Garibaldi reagì sostenendo le proteste contro il governo e smentendo le sue effettive intenzioni. Ebbe un alterco con Rattazzi in cui i due si scambiarono reciproche accuse ma non si seppe quanta ambiguità vi fosse stata nei loro rapporti.

Garibaldi, rientrato a Caprera spostò il suo obiettivo su Roma ed, a fine giugno 1862, si recò a Palermo dove, circondato dall’entusiasmo popolare, pronunciò discorsi infiammati al grido di “Roma o morte” incoraggiando l’accorrere di migliaia di volontari, salutati con calore dalle truppe regolari che ritenevano di essere di fronte al rifacimento dell’impresa dei Mille, intimamente sostenuta dal re. Garibaldi fece concentrare i suoi volontari nei pressi di Catania, mentre Vittorio Emanuele II, consapevole che una azione contro Roma avrebbe provocato la reazione di Napoleone III , emanò un proclama (3 agosto 1862) con l’invito a non compiere atti di ostilità ed il monito che essi sarebbero stati repressi. Garibaldi, cui era forse pervenuto il segnale di un possibile appoggio, nella convinzione della pubblica sconfessione e della segreta accondiscendenza, ignorò il monito ma, mentre i più ritenevano il contrasto con il re una finzione, ricevette emissari del re che lo scongiuravano di fermarsi. Garibaldi, giunto a Catania (20 agosto) accolto da entusiastici festeggiamenti, fece requisire (25 agosto) due piroscafi alla fonda con cui traghettare i suoi circa duemila volontari in Calabria, nello stesso luogo di sbarco della sua precedente impresa, Melito di Porto Salvo. L’ammiraglio Albini al comando di alcune navi da guerra, non avendo ricevuto chiari segnali di comportamento, si limitò ad una inefficace azione dimostrativa. Da Melito, per evitare una pattuglia di carabinieri che invece sparava per davvero, si inoltrò verso l’Aspromonte, seguito dal contingente del generale Cialdini che si trovava in Sicilia dove aveva conquistato (marzo precedente) la cittadella di Messina ancora in mano ai Borboni. I due contingenti vennero a contatto (29 agosto) sulle falde dell’Aspromonte (località Forestali) e malgrado Garibaldi avesse ordinato di non rispondere al fuoco, vi fu comunque uno scambio di colpi che provocarono una decina di morti ed una trentina di feriti, tra cui lo stesso Garibaldi, ferito alla coscia ed al piede (26).

Catturato e ricevute le prime cure ed, ignorato da un Cialdini borioso e sprezzante, fu trasportato a Scilla dove venne imbarcato sulla fregata Duca di Genova (30 agosto) e trasportato presso la fortezza del Varignano di La Spezia. Qui fu curato e raggiunto da numerosi amici e visitatori mentre in Europa si susseguivano dimostrazioni ed appelli in suo favore. Il re, d’accordo con Napoleone III, colse l’occasione del matrimonio della figlia Maria Pia con il re del Portogallo per promulgare una amnistia che toglieva tutti dall’imbarazzo.
La repressione attuata contro le truppe garibaldine mise in crisi la politica contraddittoria del governo Rattazzi che, per evitare di coinvolgere il re, si dimise (29 novembre 1862), aprendo una difficile successione.

Dopo alcune rinunce e la breve esperienza di Farini (n. 6), costretto ad abbandonare per una grave malattia, il governo fu affidato (marzo 1863) a Marco Minghetti (27) che, sintonizzato sulla stessa linea politica cavouriana, affidò il ministero degli esteri al giovane nobile Lombardo, Visconti Venosta (n. 27) che ripropose la questione romana nei termini enunciati da Cavour, cioè riportandola nell’ambito di una soluzione concordata con la Francia. E per superare le diffidenze di quest’ultima si pensò di allontanare la prospettiva di Roma capitale, trasferendo la capitale a Firenze (28). Su tale base si riuscì a convenire con la Francia (15 settembre 1864) il ritiro, entro due anni, del contingente francese di stanza nello Stato pontificio. La notizia del trasferimento suscitò a Torino il timore di un ridimensionamento del Piemonte che si espresse con manifestazioni di protesta contro cui la polizia agì con decisione (21-22 settembre 1864) fornendo al re, peraltro contrario al trasferimento della capitale da Torino, di pretendere le dimissioni di Minghetti ed affidare il nuovo governo al generale La Marmora (*). Che, comunque, attuò il trasferimento della capitale a Firenze (1865) e trovò, nell’ambito della crisi internazionale che si delineava, lo spazio entro cui inserire la questione del Veneto.

- L’acquisizione del Veneto (1866)

Con l’assunzione al cancellierato da parte di Otto von Bismarck (1862), in Prussia si era avviato il rafforzamento dell’esercito ed iniziato attraverso l’annessione dei ducati Schleswig-Holtein (1863) (29), imporre gradualmente in Germania l’egemonia prussiana fino a porsi in conflitto con l’Austria. Conflitto egemonico cui Napoleone guardava con interesse nell’intento di trarre vantaggi territoriali sul Reno. Come l’Italia che puntava ad inserirsi in contrapposizione all’Austria, tra i cui domini vi era il Veneto.

Nel momento in cui la Prussia decise di risolvere la questione della supremazia con l’Austria, il cancelliere Bismarck avviò approcci con l’Italia (1865), mirando a coinvolgerla nel conflitto per costringere l’Austria a mantenere aperto anche un fronte di guerra a sud. Approcci che furono avviati sia a livello ufficiale con il governo che riservati con il re, ma anche con i mazziniani e con agitatori perché fomentassero disordini nel Veneto. Per evitare l’eventualità di una alleanza dell’Italia con la Prussia, l’Austria era altrettanto interessata a raggiungere un compromesso che avrebbe mantenuto fuori dal conflitto l’Italia. Questa fu coinvolta in un complesso negoziato, in parte concordato con la Francia ed in parte condotto autonomamente. Ed allorché, a seguito della convenzione di Gastein (n. 29), sembrava sopragiungere un’intesa tra Prussia ed Austria, l’Italia cercò di ottenere dall’Austria la cessione del Veneto, per via diplomatica ed in cambio di una consistente indennità. La risposta negativa ricevuta a questa offerta, avvicinò l’Italia alla Prussia e, nell’aprile 1866, fu concordata a Berlino dal generale Giuseppe Govone (n. 56) una alleanza che impegnava l’Italia, nei prossimi tre mesi, a dichiarare guerra all’Austra, nel caso la Prussia l’avesse fatto. L’accordo prevedeva di non concludere armistizio o pace separata fino a che l’Austria non avesse accettato di cedere all’Italia il Veneto e la provincia di Mantova ed alla Prussia territori di popolazione equivalente. (30)

A fronte di questo vi fu un tentativo (maggio 1866) dell’Austria che, per garantirsi la neutralità di Italia e Francia, si impegnava a cedere il Veneto a quest’ultima perché lo trasmettesse all’Italia. La qualcosa, per la grave perdita di prestigio che il baratto comportava, non fu ritenuta accettabile (31).

Valutazione in parte spiegabile con l’errata convinzione di Lamarmora di ottenere da una guerra non solo il Veneto ma anche il Trentino e con il miraggio di condurre una guerra vittoriosa cui il Regno d’Italia aspirava per guadagnarsi il prestigio internazionale che la maniera fortunosa con cui si era arrivati all’unità non gli aveva garantito.
Mentre l’Austria concordava la neutralità con la Francia (n. 31) La Prussia, contestando pretestuosamente alcune decisioni del governatore austriaco nello Holstein (n. 29), rompeva le relazioni con l’Austria e dava avvio alle operazioni di guerra sul fronte tedesco (16 giugno) . L’Italia seguiva e, con la dichiarazione di guerra all’Austria (20 giugno), dava avvio alla III Guerra d’Indipendenza.

A metà maggio il re invitava Garibaldi ad assumere il comando di un corpo di volontari che si stava costituendo in Lombardia. Garibaldi giunse a metà giugno e, costatando il disordine e lo scarso equipaggiamento, cercò di provvedere e sopperire infondendo entusiasmo. Il generale La Marmora cedette a Bettino Ricasoli la presidenza del consiglio, per assumere la carica di capo di stato maggiore, affiancando Vittorio Emanuele II (per statuto comandante in capo ma privo di esperienze militari) e Cialdini al comando di un esercito ingente (più di 200.000 uomini). Più numeroso di quello austriaco ma non addestrato, non amalgamato (napoletani e piemontesi si erano combattuti fino a tempi recenti), non coordinato nei comandi (gelosie dividevano i vari generali) e con piani logistici inadeguati. Le armate di La Marmora si disposero sul Mincio mentre quelle di Cialdini sul basso Po a fronteggiare quelle austriache, parte delle quali erano asserragliate nel quadrilatero (*). Il 24 giugno, il fronte delle divisioni di La Marmora che, nei pressi di Custoza, avanzavano oltre il Mincio, venne spezzato dalle guarnigioni austriache che, comandate dall’arciduca Alberto, avanzavano compatte. Il fronte italiano disarticolato subì una sconfitta pesante ma non definitiva, considerando che l’armata di Cialdini non era ancora stata impiegata. La dispersione del fronte che ne seguì indusse La Marmora, malgrado le esigue perdite subite (750 uomini) ad ordinare la ritirata mentre Cialdini (33), anziché correre in supporto, ordinò, a sua volta, la ritirata verso Modena. Gli austriaci, non avevano le forze sufficienti per insistere nell’offensiva e non pressarono, travagliati dalle notizie dei disastri subiti in Germania (n. 32). Ai primi di luglio, le armate di Cialdini ripresero ad avanzare verso il Veneto, giungendo a Padova (14 luglio).

Frattanto le dodici corazzate della flotta italiana, ancorate ad Ancona e comandate da Persano, dopo la sconfitta di Custoza, ricevettero l’ordine di entrare in azione (15 luglio). Persano che non aveva reagito all’attacco subito dalla flotta ancora in porto da parte della marina austriaca, mise a punto frettolosamente un piano per attaccare l’isola di Lissa, base avanzata austriaca nell’Adriatico. Nello scontro del 20 luglio, la meno consistente flotta austriaca (sette corazzate) abilmente guidata dal vice ammiraglio Tegetthoff, affondò due navi della flotta italiana (Re d’Italia e Palestro) mal disposte per lo scontro. Dopo aver subito il danneggiamento di una delle sue, la flotta austriaca si ritirò verso la base di Pola non inseguita da quella italiana, malgrado gli ufficiali facessero pressanti sollecitazioni su Persano (34).

Solo Garibaldi, tenuto volontariamente lontano dal teatro delle operazioni, con i suoi volontari salvava il prestigio italiano conseguendo, nella battaglia di Bezzecca (21 luglio), una vittoria faticosa ma costosa per le perdite subite che costrinse l’Austria, già prostrata per i rovesci subiti sul fronte prussiano a chiedere l’armistizio. Questo sottoscritto a Cormons (12 agosto) fu il preliminare per la pace conclusa con il trattato di Vienna (3 ottobre) in cui l’Austria cedette il Veneto e la provincia di Mantova alla Francia che, a sua volta, le cedette all’Italia. Non venne accolta la richiesta italiana di mantenere i territori del trentino conquistati da Garibaldi.

La cessione dei territori attraverso la Francia è il segno dello scarso credito in cui l’Austria teneva l’Italia, battuta sul campo, e dell’intenzione di compensare Napoleone per la sua neutralità, offrendogli la possibilità di mantenere una posizione condizionante sull’Italia.

Il plebiscito per l’annessione diede l’esito largamente scontato. L’Italia, uscita moralmente ridimensionata dal conflitto, assistette al penoso scambio di accuse fra generali che rigettavano la responsabilità di quella disfatta (Custoza e Lissa).
L’Italia aveva fatto un altro passo in avanti nel completamento delle sue frontiere naturali ma l’andamento della guerra non aveva suscitato l’entusiasmo che avrebbe potuto contribuire a creare una salda coscienza nazionale.

- La conquista di Roma (1867-70)

L’ultimo obiettivo per completare l’unità non poteva essere raggiunto attraverso un accordo con Papa Pio IX che già riteneva un sopruso la sottrazione di territori pontifici (Marche ed Umbria) a beneficio del Regno d’Italia. A cui il Papa rispose con una enciclica Quanta cura (dicembre 1864), contemporaneamente alla quale pubblicò il Sillabo che, nell’elencare i principali errori del suo tempo (36), condannava la libertà di discussione (corromperebbe l’anima), la libertà di coscienza e di stampa, il socialismo, il razionalismo e l’affermazione secondo cui il pontefice deve conciliarsi con il progresso, il liberalismo e la civiltà moderna. Questo decalogo provocò indignazione e la gerarchia ecclesiastica lo accolse nella stragrande maggioranza sebbene la parte meno illiberale del clero si affrettasse a metterne in dubbio l’importanza e l’autorità. Ed il governo italiano accrebbe il contrasto promulgando una serie di leggi che metteva fine ai vistosi privilegi ecclesiastici, sopprimendo congregazioni ed incamerandone i beni immobiliari con la motivazione dell’assunzione di responsabilità da parte dello Stato dell’istruzione e della pubblica beneficenza.

Dovendo ugualmente escludere, per l’acquisizione di Roma, una posizione accondiscendente di Napoleone III dopo quanto concordato con la convenzione di settembre (1864) (37), bisognava puntare sulla possibilità di una insurrezione popolare all’interno dello Stato pontificio che avrebbe costretto il governo italiano ad intervenire.

Le elezioni politiche del marzo 1867 avevano riportato al governo l’esponente della sinistra Urbano Rattazzi e Garibaldi, mosso dal disappunto per la maniera con cui era stato acquisito il Veneto, accese su tutte le piazze la polemica con lo Stato pontificio al punto da indurre Napoleone a richiamare il rispetto della convenzione (n. 37) mediante l’ambasciatore a Firenze. Le intenzioni di Garibaldi, umiliato per la maniera con cui era stato acquisito il Veneto e malgrado l’insolito invito alla prudenza formulato da Mazzini, di indurre una sommossa nello Stato pontificio erano palesi ed i volontari incominciarono a giungere spontaneamente a Monterotondo, nell’iniziale indifferenza delle autorità. Successivamente Garibaldi, mentre si trovava ospite di amici a Sinalunga (Toscana) venne arrestato (24 settembre) dai carabinieri e, malgrado la sua vivace reazione sostenuta anche dall’esterno, ricondotto a Caprera (38). Questo non impedì la penetrazione di volontari garibaldini nello Stato pontificio senza che ciò sollevasse alcun segno di sommossa e di intervento che impedisse il verificarsi di un disastro analogo a quello dell’Aspromonte. Garibaldi riuscì a fuggire da Caprera e col suo ritorno in continente, a Livorno (19 ottobre 1867), e con l’entusiasmo che provocava, mise in crisi l’impotente Rattazzi che fu costretto a dimettersi per essere sostituito da Menabrea (39).

Garibaldi, avvertito da Crispi di un nuovo mandato di cattura, penetrò nel territorio pontificio dove si trovavano già i suoi volontari (40).

Il piano di rivolta registrò solo due episodi, il 22 ottobre l’assalto ad una caserma ed il 23 ottobre un fallito tentativo insurrezionale a Roma con una serie di scontri fra cui quello nel parco di Villa Glori, nei pressi di Ponte Milvio dove trovarono la morte i fratelli Enrico e Giovanni Cairoli (41).

L’episodio indusse Napoleone III ad inviare in tutta fretta un contingente francese che, guidato dal generale De Faille, giunse a Civitavecchia il 30 ottobre e poco più tardi, il 3 novembre 1867, le forze garibaldine, tra l’indifferenza o addirittura ostilità della cittadinanza romana (in maggioranza ecclesiastici, albergatori e mendicanti), vennero sconfitte a Mentana dalle truppe francesi armate con i nuovi fucili a retrocarica Chassepots.

Garibaldi, ripassato il confine fu di nuovo arrestato e ricondotto a Caprera, dopo aver sostato di nuovo per qualche giorno nel forte Varignano di La Spezia.
La sconfitta di Mentana, seguente a quelle di Custoza e Lissa aveva compromesso le sorti della monarchia e la soluzione della questione romana, ostacolata dall’intransigenza francese, sembrava allontanarsi.
Ma la soluzione si verificò non molto tempo dopo.

Nel dicembre del 1869, Lanza (n. 39) aveva sostituito Menabrea alla presidenza del consiglio.

Nel 1870 la crisi dei rapporti della Francia con la Prussia (42) e la guerra scoppiata nel luglio successivo costrinse Napoleone a ritirare il presidio francese da Roma (agosto 1870). Poche settimane più tardi, a seguito della caduta del II Impero francese di Napoleone, il governo italiano tentò un accordo con Pio IX ed al rifiuto ricevuto, superò le ultime reticenze, ricorrendo all’azione. Il 12 settembre, le truppe italiane al comando del generale Cadorna entrarono nel territorio pontificio senza incontrare resistenza e la mattina del 20 settembre attraverso una breccia che l’artiglieria aveva aperto nelle mura romane, presso Porta Pia, i bersaglieri occuparono Roma, senza penetrare nel Vaticano.

Roma divenne capitale d’Italia (27 marzo 1871) . (43)

Con quest’ultimo risultato, ottenuto anch’esso come i precedenti in maniera casuale, si completava l’unità territoriale dell’Italia che, inoltre, si sottraeva al condizionamento francese.

L’annessione dell’ultimo lembo di territorio italiano, il Trentino e la Venezia Giulia, si realizzerà con la I Guerra mondiale (1918).

Si concludeva anche la vicenda storica del potere temporale dei papi che durava da quando si erano verificate le donazioni dei Longobardi (44).

Il Papa si chiuse in Vaticano e lanciò la scomunica contro i responsabili della caduta del suo potere (45) dando avvio ad un contrasto che sarà risanato con i Patti Lateranensi del 1928.

Il governo del Meridione

Cavour, male o opportunisticamente interpretando il voto plebiscitario e dimenticando la promessa di autogoverno fatta alla Sicilia nella fase progettuale, nel timore che l’autonomia venisse scambiata con disintegrazione della nazione e che i governi locali potessero cadere in mano a potentati locali, cambiò parere ed optò per uno Stato centralizzato più facile da dirigere cui estese le leggi piemontesi. Che, nel Sud, vennero imposte anche con l’uso della forza risollevando, in Sicilia, il sentimento autonomista e facendo subentrare la delusione all’iniziale entusiasmo con cui era stato accolto l’abbattimento del regime borbonico (46).

Egli, pur non essendo mai stato a Napoli e tanto meno nel meridione più profondo di Calabria, Puglia e Sicilia che riteneva la parte debole e corrotta d’Italia, aveva ben chiaro il problema della fusione effettiva fra Nord e Sud ma, ignorando le condizioni socioeconomiche di quelle regioni, dove l’analfabetismo interessava il 90% della popolazione e c’erano da combattere il rinascente fenomeno sociale del brigantaggio, non aveva avuto il tempo di elaborare in merito una politica globale ed efficace. Questa impostazione di governo centralizzato rafforzò l’idea che una regione, il Piemonte, avesse in pratica conquistato le altre. E che di ciò si fosse trattato veniva confermato dalla evidenza che il parlamento eletto nel 1861 assunse, nella terminologia ufficiale, l’ordinale di ottavo anziché di primo del nuovo Regno come non vi fosse stata alcuna discontinuità col Regno di Sardegna e così Vittorio Emanuele mantenne l’ordinale di secondo e la costituzione del Nuovo Stato fu esattamente la stessa piemontese del 1848 (Statuto Albertino).

I successori di Cavour, presi come erano dalle questioni del contingente, da gestioni di governo piuttosto brevi, da un parlamento in cui regnavano indisciplina ed interesse di parte, non ebbero la capacità o la possibilità di programmare obiettivi a lunga scadenza mentre le necessità e le richieste delle regioni annesse e, particolarmente del meridione, erano impellenti. Bisognava comunque dare risposte alle richieste che provenivano da più parti, da quella di pane e lavoro a quella di infrastrutture (ferrovie e strade) e di scuole (malgrado mancassero i maestri), dalla necessità di presenze di gendarmi nelle province a quella di compensi per i martiri e danni subiti. A questo si aggiungeva il bisogno di agire con moderazione, non abbandonando le competenze che si erano formate con le precedenti amministrazioni, di mantenere le tradizioni ed istituzioni locali e quanto di buono restava nell’amministrazione locale. Ma bisognava agire con altrettanta accortezza ed evitare di far sedere giudici dei passati regimi accanto a persone che avevano perseguitato o condannato.

I funzionari locali si trovarono in difficoltà per la dipendenza dall’amministrazione di Torino che, benché sufficientemente onesta ed efficiente, appariva lontana, imbarazzata e priva d’immaginazione nel suggerire la maniera di affrontare la varietà di problemi che le si proponevano. E la presenza di funzionari piemontesi che estromisero i locali sollevò la protesta dei notabili che mal sopportavano di essere governati da burocrati non appartenenti alla loro classe privilegiata e pertanto insensibili alla loro rabbia che nasceva dal vedere i loro fondi occupati con la forza dai loro stessi salariati. A questa protesta si rispose vendendo loro a costi irrisosi le terre ecclesiastiche confiscate ed a quella dei popolani in cerca di occupazione con il loro impiego nella costruzione delle ferrovie.

L’organizzazione politica e militare creata da Garibaldi nel mezzogiorno fu smantellata e la luogotenenza a Napoli e Palermo, deludendo le aspettative di Garibaldi che sperava di restare in qualità di viceré, fu assunta da rappresentanti del governo piemontese (47) che, al fine di lanciare messaggi rassicuranti ai potenziali investitori nelle strutture del sud, ricevettero l’ordine di impiegare, ai primi segni di protesta, l’esercito con metodi bruschi e di allontanare borbonici e garibaldini. Questi ultimi, sebbene avessero conquistato metà del territorio del Regno, nella gran maggioranza, vennero perfino discriminati a favore dei componenti dello sconfitto esercito borbonico, preferendo gli ufficiali piemontesi fondersi con ufficiali che appartenevano al loro stesso rango che con personaggi pur validi ma di diversa estrazione ideale.

Nelle regioni meridionali si percepiva tuttavia una ostilità diffusa che rese necessaria la presenza di un esercito di 90.000 uomini in regioni in cui la profondità dei problemi e le differenze non potevano essere eliminate in breve tempo attraverso il rigido controllo del territorio (48). E dopo le attese suscitate dal movimento che aveva abbattuto il vecchio regime borbonico e le cui finalità non erano penetrate nelle coscienze della moltitudine, l’occupazione militare diffuse tale disappunto da collocare all’opposizione anche coloro (tra questi Garibaldi e Mazzini) che erano stati ispiratori ed artefici del movimento unitario ed ora temevano che tanti eroici sacrifici potessero vanificarsi.

Il processo di centralizzazione con la celere introduzione delle leggi del nord accanto alla sensazione di annessione, provocò il risveglio di sentimenti locali che fecero fallire il tentativo di sopprimere il Banco di Napoli mentre le filiali del Banco di Torino cominciarono ad operare in perdita e gli operatori locali si mostrarono riluttanti a servirsi di banconote del Nord. Il Sud che si era ribellato al malgoverno dei Borboni si accorse incapace di accettare una qualsiasi forma di governo che non avesse lasciato la gestione ai potentati locali e diminuito le tasse. Questa insoddisfazione aggravata dall’indignazione per la repressione poliziesca avviata con l’arrivo di Cialdini (ottobre 1860) che faceva fucilare sul posto ogni contadino trovato in possesso di armi, si intensificò nell’anno successivo, in un clima di insubordinazione e di anarchia, favorendo l’inasprimento del brigantaggio o banditismo (49), non nuovo in quelle regioni ed a cui, in diversi periodi, i re Borboni avevano ricorso come strumento di lotta contro i nemici del momento. Anche Francesco II, dal suo esilio romano e col favore del Papa, ricorse al reclutamento di briganti come strumento di lotta e destabilizzazione contro il governo dei piemontesi, questi stessi ritenuti briganti dal Papa a causa della sottrazione dei domini centrali (Umbria e Marche).

- Il brigantaggio nel meridione continentale (1861-65)

Esso deve essere ritenuto prevalentemente un fenomeno di protesta sociale prodotto dall’endemico malessere e sottosviluppo della classe contadina che sconfinò il livello della semplice delinquenza ed, a modello di coloro che dopo regolamenti di conti si erano dati alla macchia per sfuggire alla giustizia, trovava nella rapina la maniera di sopravvivenza.
Il brigantaggio, un fenomeno non nuovo né locale ma che nel meridione assunse sempre caratteristiche peculiari, si rinvigorì con la caduta della fortezza di Gaeta (febbraio 1861) allorché gruppi di soldati ed ufficiali del disciolto esercito borbonico cominciarono ad organizzarsi per continuare la guerra all’invasore piemontese, fu favorito dalla endemica predisposizione alla rivolta degli strati più emarginati della popolazione che reagirono alla introduzione di leggi, regolamenti e codici avvertiti come estranei, a nuove imposte particolarmente impopolari come quelle sul pane e sul sale ed dalla leva militare obbligatoria (50) sconosciuta sotto i Borbone. Si diffuse in tutte le regioni continentali a partire dall’Abruzzo si era esteso in Calabria, Irpinia, Molise e Puglia, concentrandosi particolarmente, nel Beventano ed in Basilicata. Esso assunse, in questo passaggio storico, il livello di guerriglia organizzata, accogliendo fra le sue fila oltre ai giovani che fuggivano dalla coscrizione, contadini assetati di vendetta, evasi, avventurieri attratti dal miraggio del bottino, preti rinnegati, popolani frustati dalla difficoltà della sopravvivenza. Le bande, che nel 1861 arrivarono ad essere circa 350 alcune delle quali particolarmente numerose (sfioravano le 400 unità), controllavano minuziosamente il territorio, colpivano i notabili e i sospettati di essere liberali (ritenuti filoitaliani), imponevano taglie e riscatti, assaltavano centri abitati sopraffacendo le guarnigioni minori, massacravano i soldati fatti prigionieri, incendiavano gli archivi degli uffici delle imposte.

Molti cittadini, assimilando i briganti alla stregua di combattenti contro i proprietari terrieri e contro un governo remoto e straniero che aveva arbitrariamente introdotte le proprie regole, li elessero a simbolo delle loro stesse aspirazioni frustrate e, dimenticando le pratiche di saccheggio e di rapina, li sostennero in quanto capaci di procurarsi quella giustizia che la legge non riusciva a fornire e diedero loro diverse forme di protezione (informazioni ed ospitalità).
Il governo, che aveva sottovalutato il disordine economico e sociale prodotto dall’unificazione, prima di organizzare la controffensiva nelle province, dovette assicurarsi il controllo delle città dove operavano numerose organizzazioni di ribelli ed a tal fine vennero tentati contatti, con la vecchia aristocrazia, con i radicali e persino con la malavita organizzata cui vennero affidate funzioni di polizia. Quindi, essendo risultato infruttuoso un contenimento non violento del brigantaggio affidato a Gustavo Ponza, il governo, per rispondere alla efferata violenza del brigantaggio, inviò (giugno 1861) il generale Cialdini con un esercito iniziale di 22.000 soldati per operare una sanguinosa repressione militare che si macchiò in tutto il meridione di atrocità, massacri ed atti ignobili tali da essere paragonati a quelli di vecchi campioni della violenza utilizzati da Ferdinando IV di Borbone (n. 49). Persone vennero fucilate per semplici sospetti, intere famiglie punite a causa di un loro membro, villaggi saccheggiati ed incendiati per aver dato rifugio a briganti e venne perseguitato lo stesso clero, il principale amico dei poveri.

Nel gennaio 1863, la commissione parlamentare guidata dal deputato Giuseppe Massari (1821-84) per indagare sul brigantaggio rilevò che questo era più debole là dove esistevano soddisfacenti rapporti fra lavoratori e datori di lavoro e dove vigeva il sistema della mezzadria che vincolava alla terra gli interessi dei contadini (52). La relazione, esplicita nel denunciare l’aiuto prestato dal governo pontificio che trasmetteva ordini attraverso l’episcopato, rivelava come fosse indispensabile dimostrare alle popolazioni locali i vantaggi che, con la libertà, ne sarebbero derivate per il loro benessere. In essa si suggeriva una serie di interventi necessari quali: frazionare e distribuire le proprietà ecclesiastiche tenute in manomorta, tutelare la sicurezza pubblica allontanando il timore della gente di subire rappresaglie essendo remota l’eventualità di una restaurazione borbonica e così indurla alla collaborazione, migliorare la sicurezza delle carceri per evitare che facili evasioni alimentassero il brigantaggio. Tali misure dovevano servire a disincentivare il brigantaggio ma intanto era necessario abbatterlo e la severità appariva la strategia più facilmente applicabile.

In forza della legge che porta il nome del deputato abruzzese Giuseppe Pica (53) fu posto in stato d’assedio quasi tutto il meridione d’Italia (ad eccezione di Napoli, Teramo e Reggio Calabria) con un esercito che arrivò a raggiungere le 120.000 unità e che, affidato ai generali Ferdinando Pinelli (in Abruzzo) e Pallavicino di Priola (Campania e Basilcata) succeduti a Cialdini venne dislocato nelle regioni meridionali col mandato di applicare norme restrittive e la legge marziale anche nei riguardi di semplici sospetti. Le rappresaglie da ambo le parti furono atroci con il coinvolgimento, loro malgrado, delle masse che, vedendo distrutti i loro villaggi, furono costretti a trovare rifugio altrove, portandosi dietro odio e sete di vendetta.

Il brigantaggio, con l’uccisione di quasi diecimila briganti (54) le cui teste sovente venivano esposte sui crocicchi delle strade e un centinaio di miglia di imprigionati o fuoriusciti, fu sconfitto nel 1865 ma, nelle campagne, rimase in forma endemica fino al 1870. Alcuni capi (n. 54) ripararono nello Stato pontificio ed i loro affiliati continuarono l’attività di rapina sulle maggiori vie di comunicazione, anche se molti contadini, affrancati dal timore di rappresaglie, cominciarono a denunciare i reati subiti.
Il costo di questa lunga e crudele guerra civile contro il brigantaggio fu enorme. Il numero di soldati morti di malaria fu superiore a quelli periti in combattimento, il cui numero complessivo fu rilevante ma imprecisato.

- Rivolta in Sicilia (1866)

Cavour, come si è detto in precedenza, per non dar spazio al dibattito ed ignorando le promesse di una certa autonomia, decise per una annessione in tempi rapidi, imponendo alla Sicilia le istituzioni piemontesi, confidando nel consiglio di notabili locali e di esuli siciliani che avevano ormai perso il contatto con la loro terra e che talvolta nascondevano motivi personali non sempre apprezzabili. L’amministrazione dell’isola fu affidata a persone che non godevano il favore di Garibaldi iniziando a far nascere nei siciliani quei sentimenti antigovernativi che prima avevano aiutato Garibaldi contro i borboni e che poi si diressero contro il governo piemontese. Sentimenti che si acuirono man mano che venivano varate quelle norme, come coscrizione e nuove imposte.

Già nel 1861 funzionari piemontesi delusi nel trovarsi immersi in una società così diversa dalla loro ed a contatto con una lingua quasi incomprensibile, riferivano che le stesse bande che avevano prestato aiuto a Garibaldi erano ricomparse ed avevano ripreso ad operare contro il governo del Nord. Esse, assieme a miglia di disertori alla macchia ed a vasti strati di popolazione che viveva uno stato di semibarbarie, erano difficilmente controllabili e protette dal clero che, a causa delle enormi ricchezze e superfici agricole confiscati alla Chiesa , si era schierato contro il nuovo Regno coprendo l’inosservanza verso la legge e l’ordine.

Nel 1863 fu inviato in Sicilia con pieni poteri il generale Giuseppe Govone (56) che condusse operazioni pianificate su vasta scala che, non tralasciando la tortura e la crudeltà, perseguivano l’obiettivo di catturare migliaia di renitenti alla leva, senza tener conto del conseguente inasprimento del sentimento di ribellione. E quando, ultimata nel nord la guerra del 1866, furono trasferite nuove truppe in Sicilia, si verificò una rivolta (16-22 settembre 1866) iniziata a Monreale e proseguita con una marcia verso Palermo da parte delle bande armate (57) che, sostenute da tutti coloro che erano ai margini della società o estromessi dalla nuova amministrazione, diedero l’assalto agli uffici amministrativi lasciando soltanto il porto ed il municipio al controllo del sindaco marchese di Rudinì (58).

Gli insorti, favoriti dalla classe benestante fino a quando questa stessa non venne da essi obbligata al versamento di ingenti somme di denaro, costituirono un governo provvisorio cui furono costretti a partecipare alcuni nobili e prelati.
Il governo centrale inviò la flotta a bombardare Palermo causando diverse centinaia di vittime. Quindi, dopo negoziati mediati dal console francese, la rivolta si placò e la repressione mandò in prigione migliaia di individui e numerosi ecclesiastici.

Garibaldi si dimise dal parlamento per protestare contro il brutale trattamento riservato alla Sicilia.

Mentre i personaggi che avevano avuto ruolo nella costruzione dell’unità dell’Italia scomparivano (59), il Meridione d’Italia, non solo a seguito della lotta al banditismo ma anche di scelte economiche che avevano aumentato le imposte, sostituito la moneta aurea ed argentea borbonica con carta moneta piemontese (60), abolito le tariffe protezionistiche ed affidato gli appalti per la costruzione di infrastrutture alle imprese del nord, vedeva devastata la sua economia.

Con l’economia agricola impoverita, quasi tutte le fabbriche chiuse, il commercio inaridito in moltissime province, la disoccupazione divenuta un fenomeno di massa, si allargò nella popolazione la fascia della miseria e della fame che fece dilagare il malessere già esistente all’atto dell’unificazione e lasciò alla deriva economica e sociale tutto il meridione. I politici preferirono ritenere che le regioni meridionali fossero condannati alla miseria dal malgoverno borbonico dimenticando il fatto che la Sardegna si trovava in condizioni peggiori della Sicilia nonostante i 150 anni di governo sabaudo piemontese.

Ci vollero decenni prima che il Mezzogiorno d’Italia fosse oggetto di indagine che identificò, nel sottosviluppo del Sud, il problema cruciale della vita italiana, la questione meridionale.
 

Note:

(2) Francesco, accompagnato da pochi aiutanti, portò con se l’archivio personale e lasciò nella Reggia e nel Banco di Napoli la sua personale e favolosa fortuna, i gioielli e gli abiti della moglie ed i depositi privati di questa. Prima di partire, il 5 settembre, emanò un proclama in cui affermava di allontanarsi da Napoli per evitare danni alla città ed evidenziava di non aver reagito alle innumerevoli cospirazioni ordite contro di lui, non per debolezza, ma per non macchiarsi di crudeltà. Nello stesso proclama, rivolgendosi ai sudditi li ammoniva profeticamente “…sognate l’Italia ma, arriverà il giorno che non avrete più nulla, nemmeno gli occhi per piangere”. A Gaeta fu istituito un nuovo governo affidato al generale Casella ed il re ricevette il saluto dei diplomatici di molte nazioni, tranne Inghilterra e Francia.
(3) Giorgio Pallavicino Trivulzio (1796-1878), componente della società segreta del Federati, fu arrestato dalla polizia austriaca e, con sue ammissioni, causò l’arresto di Federico Gonfalonieri con cui scontò la pena presso il carcere austriaco dello Spielberg. Condannato e rilasciato nel 1835 fu animatore delle cinque giornate di Milano (1848). Rifugiatosi in Piemonte, fu tra i fondatori della Società Nazionale (*). Dopo l’impresa dei Mille, divenne senatore.
(4) Agostino Depretis (1813-87) deputato al Parlamento subalpino del 1848, mazziniano ed oppositore del governo fino al 1859. Prodittatore in Sicilia (luglio-settembre 1860), ministro nei governi Rattazzi e II-Ricasoli, nel 1876 diresse il primo governo di sinistra con l’appoggio della destra in una maggioranza che, prescindendo da posizioni ideologiche, si costituiva, di volta in volta, su specifici problemi. Maniera che, definita trasformismo, consentì il superamento di alcune rigidità parlamentari e l’attuazione di una politica moderatamente progressista che fu adottata anche nei governi di Giolitti. Depretis diresse diversi governi negli anni: 1876-78, 1878-79 e 1881-87.
(5) Ambedue le ipotesi avrebbero allontanato l’annessione e favorito percorsi e soluzioni di ardua gestione da parte di Cavour. Mazzini, uscendone dal colloquio con Garibaldi amareggiato nel constatare la debolezza politica di “.. quell’uomo..”, si convinse dell’inutilità dei suoi progetti (esule in patria). Criticò allora la scelta monarchica del Risorgimento italiano e fondò “Il popolo d’Italia” per promuovere l’idea di una Repubblica del Sud che si esaurì con il plebiscito del 21 ottobre.
(6) Luigi Carlo Farini (*) (1812-66), stretto collaboratore di Cavour, dittatore in Emilia (1859) di cui ne gestì l’annessione. Luogotenente generale (1860-61) nel Meridione dopo l’annessione. Presidente del consiglio (dicembre 1862-marzo 1863), si dimise per una grave malattia. Era un dichiarato avversario di Garibaldi al punto di vantarsi di non avergli mai stretto la mano.
(7) Napoleone non intravedeva altra possibilità di intervento se non concordato con l’Austria e, piuttosto che ridestare le forze repubblicane, accolse l’idea di un allargamento della Stato Sardo prevedendo che esso, dominato dai conseguenti problemi sociali, sarebbe stato debole ed ancor più bisognoso della protezione francese.
(8) Manfredo Fanti (1808-65), combattè nella I e II Guerra d’indipendenza e partecipò alla spedizione in Crimea. Ministro della guerra nel 1860-61, guidò l’occupazione di Umbria e Marche e l’assedio a Gaeta. Fondò l’accademia militare di Modena.
(9) Enrico Cialdini (1811-92), prese parte ai moti del 1831 a Parma, quindi andò esule in Francia. Rientrato nel 1848, prese parte alla spedizione in Crimea. Dopo la partecipazione ai fatti del 1860, divenne luogotenente del re a Napoli (1861-62) e diresse le operazioni che fermarono Garibaldi in Aspromonte (1862). Partecipò con scarso successo alla III Guerra d’Indipendenza.
(9) “…per far mettere giudizio a Garibaldi e gettare al mare quel nido di repubblicani rossi e di socialisti demagoghi che si era formato attorno a lui…” (pensiero di Cavour espresso in una lettera a Nigra).
(10) Le forze borboniche vantavano circa 50.000 uomini comandati da Ricucci, affidati ai generali Afan de Rivera, Tabacchi, Ruiz, Colonna di Stigliano, Von Mekel e sorretti dalla presenza di re Francesco II e due suoi fratelli, il conte di Trani ed il conte di Caserta.
(11) Una di queste era la istituzione di una Costituente che, patrocinata da Crispi (come da Mazzini, n. 5), avrebbe allontanato il plebiscito e ridestato i sentimenti di ispirazione indipententistica o democratica repubblicana.
(12) Il voto venne esteso ad una fetta di popolazione più ampia di quella (2% circa) che partecipava al voto politico. In Sicilia votò il 75% degli iscritti alle liste elettorali (575.000 rispetto ad una popolazione di 2.232.000 abitanti) e solo 667 espressero voto contrario. Anche nel continente votò il 75% degli iscritti alle liste elettorali (1.650.000 su 6.500.000 abitanti) e solo 10.302 espressero voto contrario. Il voto era completamente pubblico in quanto veniva depositato in due urne, una per il “SI” e l’altra per il “NO” sotto l’occhio vigile ed intimidatorio di vari funzionari che, solidali con il nuovo corso, gestivano il voto dei numerosi analfabeti. Mazzini e D’Azeglio rimasero disgustati di tali modalità. In Sicilia, molti si sottrassero al voto nascondendosi in montagna nel timore che esso fosse collegato ad un nuovo sistema di riscossione delle imposte ed i più ritennero di aver votato per l’autonomia. Il ministro degli esteri inglese, Lord John Russel, approvò con una circolare diplomatica (ottobre 1860) l’Unificazione Italiana anche se in un dispaccio al ministro Palmerston rilevò che “I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore” e l’ambasciatore inglese scrisse al suo governo: “moltissimi vogliono l’autonomia, nessuno l’annessione ma i pochi che votano sono costretti a votare questa”. Lo stesso Cavour ricevette diverse segnalazioni che lo invitavano a non lasciarsi ingannare dal risultato del plebiscito spiegabile con l’odio per il regime borbonico, in quanto i fautori dell’annessione erano in netta minoranza.
Come si può dedurre e secondo lo storico Mack Smith “non fu chiara e libera manifestazione plebiscitaria della volontà dei Siciliani ma un vero e proprio atto di forza”. Tuttavia l’annessione, per Inghilterra e Francia, si inseriva nell’ambito degli eventi previsti, mentre Russia (da sempre protettore del Regno Borbone), Austria e Prussia, pur avendo preso in esame la nuova situazione (25 ottobre a Varsavia) non concordarono alcuna azione.
Due settimane dopo, 4 novembre, si svolse il plebiscito nelle Marche ed Umbria con risultati analoghi in quanto votarono rispettivamente il 63% ed il 79% degli iscritti alle liste, esprimendo, in ambedue le regioni, un consenso del 99% e meno dell’1% di dissenso.
(13) L’ingratitudine con cui fu ricompensato Garibaldi destò sorpresa in Napoleone che consigliò tuttavia di non farne un martire ed il primo ministro inglese Palmerston (*) che si era adoperato a favore dell’unificazione non nascose la sua indignazione per il trattamento riservato a Garibaldi.
(14) L’impresa dei Mille, che senza dubbio ebbe il merito di provocare il definitivo collasso del Reame borbonico e favorirne l’annessione, per quanto coatta si voglia (n. 12), al Regno di Vittorio Emanuele II, è stata rivisitata ed analizzata rispetto alle modalità di realizzazione. Come si può desumere dall’illustrazione degli eventi è fuor di dubbio che essa sia stata agevolata dall’appoggio finanziario e dalla protezione del governo britannico, senza trascurare la presenza, ricca di risorse finanziarie e solo apparentemente ostile, della flotta piemontese guidata da Persano. Perché un gruppo così esiguo di volontari non addestrati ed approssimamene armati poco avrebbero potuto fare contro un esercito ampiamente più numeroso come quello borbonico se non si fosse verificata la fellonia di molti amministratori politici e generali borbonici, gli uni e gli altri vecchi, incompetenti e preoccupati della personale sopravvivenza. I primi assunsero un ruolo in mancanza delle migliori personalità del Regno di Napoli, esuli in Piemonte. I secondi, in parte venduti, in parte intimoriti dall’ostilità popolare, erano attanagliati dalla sindrome della disfatta che ne condizionò i comportamenti al punto che alcuni di essi vennero uccisi dai loro stesi soldati indignati per la chiara rinuncia a combattere. All’impresa di Garibaldi ha giovato in particolare l’endemica disponibilità alla ribellione del popolo siciliano che ritenne di trovare occasione di affrancarsi dalla sopraffazione che da secoli subiva, a ciò inizialmente attratto dal carisma dell’eroe e dai primi suoi decreti giudiziosi e popolari. In sostanza il popolo, per quel poco di politico che vi era nella sua azione, combatté con il miraggio dell’autonomismo non certo per l’annessione che invece fu favorita dalle classi che trovarono nel nuovo regime protezione per i perpetuarsi dei loro privilegi. Le genti di Calabria e Basilicata favorirono il passaggio dell’eroe inconsapevoli degli esiti che sarebbero maturati. L’affrettata e cinica annessione di un mondo ad un altro distinto e distante non favorì l’integrazione ed i metodi e criteri di governo applicati produssero risentimenti malintesi e rancori che provocarono malcontento e sconfortanti delusioni che fecero germogliare il seme della ribellione.
(15) La fortezza, difesa da oltre 20.000 uomini, era dotata di numerose ma obsolete bocche da fuoco. In città risiedevano circa 3000 cittadini e mancava il vettovagliamento per resistere a lungo senza rifornimenti. Già dopo pochi giorni si era verificata una epidemia di tifo petecchiale che causò parecchie vittime. Verso la fine di dicembre i bombardamenti dell’esercito piemontese comandato da Cialdini divennero più serrati ma gli assediati riuscirono a ricevere vettovagliamento da Marsiglia. Cavour, d’accordo con la Gran Bretagna, riuscì a convenire con Napoleone la partenza della flotta francese da Gaeta entro il 19 gennaio in cambio della cessione di Mentone e Roccabruna (trattato del 2 febbraio 1861). Partita la flotta francese l’accesso del porto venne bloccato (21 gennaio) dalla flotta di Persano. Da allora Gaeta fu sottoposta ad un continuo bombardamento da terra e dal mare, inizialmente con scarso successo quindi con maggior precisione. Dopo una tregua (6 febbraio) per seppellire i morti ed evacuare i feriti, il 9 febbraio il bombardamento riprese con violenza e precisione. Il giorno successivo iniziarono le trattative per la cessione della fortezza, dopo che questa fosse stata abbandonata dai sovrani. Durante le trattative, Cialdini anziché sospendere il bombardamento lo intensificò sottoponendo la popolazione ad un inutile massacro. Il 14 febbraio il re e la regina, salutati da civili e militari commossi, uscirono dalla fortezza per imbarcarsi sulla nave francese Mouette. Subito dopo entrò la brigata piemontese comandata da De Regis che, secondo gli accordi, avrebbe mantenuto prigioniera la guarnizione borbonica fino alla caduta delle roccaforti di Civitella del Tronto e Messina.
(16) Il palazzo era di proprietà di Elisabetta Farnese, moglie di Filippo V di Borbone, re di Spagna, da cui venne la discendenza Borbone di Napoli (v. capitolo “Il meridione d’Italia conteso da Savoia, Asburgo e Borbone”.
Francesco II e la moglie, dopo la presa di Roma si stabilirono a Parigi dove vissero senza grandi mezzi economici perché il Regno d’Italia aveva confiscato tutti i beni dei Borboni, proponendone la restituzione a condizione della rinuncia, da parte di Francesco, ad ogni pretesa sul Regno delle Due Sicilie. Compromesso che non accettò “il mio onore non è in vendita”. Francesco morì nel 1894 durante un soggiorno in Trentino. La moglie Maria Sofia sperò nella restaurazione del Regno e, mantenendo contatti con socialisti ed esuli anarchici, fu sospettata di essere stata ispiratrice dell’attentato di Giovanni Passannante al re d’Italia Umberto I (1878) e del regicidio di Umberto I ad opera di Gaetano Bresci (1900). Maria Sofia morì a Monaco nel 1925 e, dal maggio 1984, è sepolta con il marito nella Chiesa di Santa Chiara in Napoli.
(17) Nella formazione dello Stato unitario i moderati prevalsero, rispetto alle altre correnti di pensiero, mazziniani, radicali e socialisti, ma trovarono resistenze da parte della Chiesa e dei sostenitori dei precedenti regimi.
(18) Questi inizialmente avevano assunto una posizione di non interferenza rispetto all’impresa di Garibaldi quindi, nel timore di essere travolti dal disordine e dall’anarchia per periodo rivoluzionario, pensarono di collaborare, prima con Garibaldi, quindi con il Piemonte da cui si sentivano più protetti, con la speranza di restaurare un ordine che consentisse loro di conservare quanto più era possibile del loro passato.
(19) Molti fra gli elementi migliori erano morti nelle varie guerre, logorati dai lunghi anni di lotta o riparati all’estero o in Piemonte. Là avevano modificato mentalità e, nel lungo esilio, perso la sensibilità che il diretto contatto con il territorio e gli eventi consente. Interpellati o coinvolti nelle decisioni, finirono con il suggerire o condividere interventi rivelatisi del tutto inadeguati.
(20) La Chiesa aveva scomunicato i capi del nuovo Stato, benché formalmente cattolici e punì il frate che assistette Cavour sul letto di morte.
(21) Bettino Ricasoli (1809-80), conservatore cattolico non clericale, esponente della destra più austera, rigido, inflessibile e tenace (barone di ferro), non possedeva la vivacità, l’iniziativa e l’intuizione del grande politico. Fondò con altri del giornale La Patria con cui stimolò la costituzione della nazionalità italiana, assumendo un ruolo nell’annessione della Toscana (*). Dopo del dimissioni del 1862, ritornò a presiedere il consiglio dei ministri in occasione della III Guerra d’indipendenza.
(22) Nigra (*), ambasciatore a Parigi, avvertì Ricasoli che il re manteneva con Napoleone contatti al di fuori della diplomazia ufficiale. Ricasoli chiese a Napoleone di astenersi da questi contatti e questi avvertì Vittorio Emanuele, il quale (1864) manteneva contatti riservati anche con Mazzini che lo incitava, al pari di Garibaldi, a marciare su Venezia, minacciandolo, nel caso di tentennamenti, di riprendere la propaganda repubblicana.
(23) Urbano Rattazzi (1808-73), si accordò con Cavour per la coalizione parlamentare del 1852 (connubio *). Da ministro degli interni nel ministero La Marmora (1859-60) elaborò la legge che estese gli ordinamenti piemontesi ai comuni e province lombarde e che divenne la base del sistema amministrativo italiano. Presidente del consiglio anche nel 1867, dovette, entrambe le volte, dimettersi per crisi legate ai tentativi di Garibaldi (Aspromonte e Mentana) di conquistare Roma.
(24) Egli godeva all’estero di ampia popolarità e prestigio ed era in contatto con diplomatici, giornalisti, politici, ex garibaldini e popolo di vario genere che andavano a trovarlo a Caprera e con cui faceva progetti di ampia portata che uscivano dai confini nazionali. Lincoln gli aveva offerto il comando di una armata di nordisti nella guerra di secessione americana che egli rifiutò.
(25) Napoleone non si era lasciato convincere dalle motivazioni con cui gli si prospettava che era preferibile lasciare occupare Roma agli italiani, per evitare che i radicali la potessero conquistare con le armi.
(26) Alcuni soldati regolari che avevano disertato per unirsi a Garibaldi furono giustiziati sul posto.
(27) Marco Minghetti (1818-86) emiliano, partecipa alla I Guerra d’indipendenza nelle fila dell’esercito piemontese. Nel 1859 divenne presidente dell’Assemblea delle Romagne e ministro degli interni con Cavour e Ricasoli e ministro delle finanze con Farini. Nel 1870, con l’appoggio di Quintino Sella, riformò l’accademia dei Lincei sul modello dell’Istitute de France. Ad egli, quale ministro degli interni, si deve il disegno di legge che avviava, con la creazione delle regioni, una politica di decentramento dell’ordinamento amministrativo che, a differenza del federalismo, non implicava sovranità territoriale ma affidava ampi poteri agli enti locali, regioni, province e comuni. Questa legge, presentata da Cavour, trovò la decisa contrarietà dei conservatori e Ricasoli, dopo un anno di dibattito, riuscì a bloccarla provocando le dimissioni di Minghetti. Questo disegno di legge fu ripreso approvato ma non completamente definito dall’Italia repubblicana. In sostituzione del progetto Minghetti, il Regno fu diviso in province (59), circondari (193) e mandamenti (1601).
Emilio Visconti Venosta (1829-1914), deputato dal 1860 subito si distinse in missioni diplomatiche, ricevette da Cavour un incarico stabile al Ministero degli Esteri quindi ricoprì più volte la carica di ministro degli esteri fino al 1876 durante i quali condusse delicati negoziati connessi alla guerra franco-prussiana (1870) ed all’occupazione di Roma (1871). Senatore dal 1886, impegnato in una missione diplomatica nel 1894 e di nuovo ministro degli esteri (1896) con Di Rudinì nel difficile passaggio della disfatta in Abissinia ed ancora nel 1899, nel secondo governo Pelloux.
(28) L’eventualità che la capitale fosse trasferita a Napoli, la più grande città del nuovo Regno, venne accantonata per la decisa contrarietà dei siciliani.
(29) I ducati di Schleswig-Holtein, di tradizioni tedesche e facenti parte della Confederazione germanica ma sotto la sovranità della corona danese, dopo la morte di re Federico VII (1863) ,vengono sottratti alla Danimarca per incorporarli nello Stato. La Prussia, ponendosi in conflitto con l’Austria ma garantendosi la neutralità delle grandi potenze, prese l’iniziativa di annessione dei due ducati. Nell’agosto 1865 a Gastein, Prussia ed Austria si accordarono per la spartizione dei due ducati (Schleswig alla Prussia ed Holtein all’Austria).
(30) Il tentativo dell’Italia di fare entrare nella trattativa l’acquisizione del Tirolo e Trentino che facevano parte della Confederazione Germanica, non trovò concrete risposte. Bismarck aveva concordato con Garibaldi, e trovato il consenso di Vittorio Emanuele, una azione in territorio slavo (Serbia e Croazia) per promuovere una rivolta contro l’Austria. Il progetto ricevette il veto di La Marmora e ciò spiega perché l’Italia non riuscì a ricevere dalla Prussia tutti i vantaggi dell’alleanza.
(31) Vi fu un successivo accordo in cui l’Austria, in cambio della neutralità della Francia (giugno 1866), si impegnava, in caso di vittoria, a non mutare lo stato dei domini in Italia senza il consenso della Francia che, oltre a ricevere compensi territoriali, non avrebbe ostacolato la distruzione dell’unità italiana.
(32) Le armate prussiane, con rapidità grazie ai trasporti ferroviari, si concentrarono per invadere Sassonia Hannover ed Assia, prima di penetrare in Boemia e travolgere le guarnizioni austriache (22-23 giugno). Queste vengono di nuovo sconfitte ad Hannover e Langensalza (29 giugno) ed ancora nella battaglia decisiva di Sadowa (3 luglio). L’Austria fu costretta ad avviare trattative di pace che, dopo i preliminari di Nikolsburg (26 luglio) in cui Bismarck rifiutò la mediazione di Napoleone III, si tennero a Praga (23 agosto). L’Austria ne uscì notevolmente ridimensionata avendo dovuto cedere Holstein (n. 29) e territori della Slesia mentre la Prussia acquisì tutti i territori del nord ed estese la sua influenza nella Germania meridionale.
(33) Cialdini, arrogante ed altezzoso, se avesse varcato il Po invece di ritirarsi senza motivo, avrebbe potuto capovolgere le sorti dello scontro.
(34) L’opinione pubblica rimase sbalordita. L’ammiraglio Persano che, dopo lo scontro, aveva telegrafato di essere rimasto “padrone delle acque” cercò di incolpare del disastro i suoi ufficiali. Egli subì un processo e, riconosciuto colpevole di imperizia, fu destituito con la perdita della pensione e delle decorazioni.
(35) Lo storico Pasquale Villari (1826-1917), nel commentare l’esito della guerra nel settembre 1866, sul Politecnico di Carlo Cattaneo, dava un quadro allarmante delle reali condizioni del Paese “V’è nel seno della nazione stessa un nemico più potente dell’Austria ed è la nostra colossale ignoranza, sono le moltitudini analfabete, i burocrati macchina, i professori ignoranti, i politici bambini, i diplomatici impossibili, i generali incapaci, l’operaio inesperto, l’agricoltore patriarcale e la retorica che ci rode le ossa. Non è il quadrilatero di Mantova e Verona che ha potuto arrestare il nostro cammino, ma è il quadrilatero di 17 milioni di analfabeti e di 5 milioni di Arcadi”.
(36) Il Sillabo era diviso in dieci paragrafi tematici riguardanti, fra altri, razionalismo assoluto e moderato, socialismo, comunismo, società segrete, diritti e privilegi della Chiesa e suoi rapporti con la società civile, morale naturale e cristiana, il matrimonio, il potere temporale del pontefice, il liberalismo.
(37) La Convenzione di settembre prevedeva il trasferimento della capitale a Firenze a garanzia del ritiro del contingente francese da Roma, cosa che si era regolarmente verificata entro la fine del 1866, sostituito da un gruppo di volontari provenienti da Antibes. Operazione con cui Napoleone, sostanzialmente sfuggiva alla convenzione che, peraltro, impegnava il governo italiano a non attaccare dall’esterno ma non escludeva un rovesciamento dall’interno. Rattazzi pensava che, nell’invio di volontari, vi fossero gli elementi per denunciare la convenzione ed operare l’annessione ma non osò realizzare il proposito.
(38) Il motivo del passaggio dalla apparente indifferenza all’azione da parte del governo forse va spiegata con il timore di un presunto accordo con Mazzini per una soluzione repubblicana della questione romana.
(39) Luigi Federico Menabrea (1809-96) generale aiutante di campo del re e politico esponente della destra, già ministro della marina e dei lavori pubblici.
- Giovanni Lanza (1810-82) esponente della destra storica, fu presidente del consiglio fino al 1873 con Quintino Sella (1827-84) al ministero delle finanze.
(40) Il re confidava al ministro britannico Paget che il suo debole esercito non gli consentiva di sostenere Garibaldi contro i Francesi e si riprometteva invece di condividere l’eventuale reazione di questi, a meno di schierarsi con Garibaldi ove fosse risultato vincitore.
(41) Giovanni non morì in battaglia ma a seguito delle ferite riportate. I loro fratelli Ernesto e Luigi erano già scomparsi in altre imprese garibaldine, con i cacciatori il primo e con i Mille il secondo. La loro madre rifiutò ogni ricompensa ed onorificenza. L’altro fratello Benedetto Cairoli (1825-89), ferito nell’impresa dei Mille, fu presidente del consiglio nel 1878 e nel 1879-81.
(42) I rapporti tra Francia e Prussia si erano incrinati nel 1863 allorché Bismarck aveva rifiutato l’intromissione di Napoleone nella controversia con l’Austria. Dopo la guerra del 1866 la Prussia aveva acquisito tale potenza e prestigio da sembrare inevitabile, per la supremazia in Europa, uno scontro con la Francia dove Napoleone aveva consolidato la sua autorità interna (plebiscito del maggio 1870). Il momento del contrasto si verificò allorché Bimarck, senza consultare i francesi, propose il principe Leopoldo di Hohenzollern per il trono di Spagna, da cui una rivoluzione aveva allontanato la regina Isabella II (1868). Una eventualità inaccettabile per la Francia che si sarebbe venuta a trovare stategicamente accerchiata. Una Francia costretta a reagire impreparata fu sconfitta dalle armate prussiane di von Moltke, a Sedan, (2 settembre 1870). Sconfitta che causò la caduta del regime imperiale di Napoleone. La guerra si protrasse con l’istituzione della Repubblica e con un governo di difesa nazionale, che, malgrado la sconfitta a Metz (27 ottobre), resistette fino al 28 gennaio 1871 prima di chiedere l’armistizio e cedere Alsazia e Lorena ad una Germania unificata (v. Garibaldi, n. 51).
Leopoldo di Hohenzollern rifiutò il trono di Spagna che venne assegnato (1870) al figlio di Vittorio Emanuele II, Amedeo di Savoia Aosta (1845-90), il quale dovette poi (1873) abdicare per l’ostilità degli aristocratici.
(43) Il 2 ottobre del 1870 si tenne il plebiscito, come al solito addomesticato, con cui il Lazio con quasi la totalità (99%) dei votanti (80% rispetto agli aventi diritto) sceglieva l’annessione al Regno d’Italia.
(44) Liutprando nel 728 donò a Gregorio II i castelli di Sutri, Ameria, Bomarzo ed Orte (capitolo Caduta dell’Impero romano e dominazioni straniere, stesso sito).
(45) Enciclica Resipiscientes ea del 1 novembre 1870. Nel precedente 18 luglio 1870 era stata pubblicata la costituzione dogmatica Pastor Aeternus con cui si definiva il dogma dell’infallibilità del Papa perché sostenuto ed ispirato dallo Spirito Santo.
Il 15 maggio 1871 fu approvata la Legge sulle guarentigie con la quale lo Stato italiano regolava le prerogative del sommo pontefice e le relazioni fra Stato e Chiesa, garantendo al Papa l’inviolabilità e l’immunità nei luoghi in cui risiedeva (vaticano e Castel Gandolfo) fu respinta da Pio IX con l’enciclica Ubi nos (15 maggio 1871), rimase in vigore fino alla Conciliazione del 1829.
(46) In verità la mancata concessione dell’autonomia non dispiacque ai singoli comuni che ritenevano di acquisire così maggiore autonomia gestionale che se dipendessero dalle capitali regionali.
(47) Montezemolo in Sicila, Farini (n. 6) già sofferente a Napoli.
(48) Molti e D’Azeglio (*) fra questi si chiesero se fosse necessario a sud del Tronto (confine delle Marche con i territori appartenuti ai Borbone) un tale dislocamento di forze quando al nord non se ne ravvisava la necessità.
(49) Il brigantaggio, un fenomeno presente nel meridione già in epoca spagnola-aragonese, assunse rilevanza nel 1799 all’epoca della repubblica Partenopea ed in periodi successivi (capitolo Il meridione d’Italia Borbone di fine ‘700/ II parte, Il meridione d’Italia nel periodo Napoleonico (stesso sito) con l’utilizzo di bande di irregolari da parte di Garibaldi durante l’impresa dei Mille (*).
(50) Circa metà dei richiamati in Sicilia ed i tre quarti in Basilicata, per sottrarsi, fuggiva regolarmente sui monti unendosi alle bande di briganti. Particolare risentimento suscitò il fatto che i ricchi potessero comprarsi l’esenzione come avvenne per lo scrittore siciliano Giovanni Verga.
Rilevando che giornalisti del tempo descrivevano questi giovani come “… soldati che hanno rifiutato di arruolarsi…” mentre erano definiti briganti dai piemontesi, va comunque sottolineata l’analogia con la situazione che si verificò nel 1943 allorché molti giovani delle province del nord, occupate dai tedeschi, per sfuggire alla coscrizione imposta dalla Repubblica di Salò presero la via dei monti unendosi alle bande partigiane. Queste erano definite banditi dai tedeschi e partigiani dai sostenitori della resistenza al nazi-fascismo. Molti vedono nelle attuali aree di crisi mediorientali la medesima dicotomia fra terroristi e resistenti o patrioti.
(51) Un esempio emblematico riguarda il sarto sordomuto Antonio Cappello che viene torturato a morte perché ritenuto un simulatore; il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli verrà insignito della Croce dei SS Maurizio e Lazzaro.
Le violenze vennero di pubblica conoscenza al punto da indurre Napoleone III a rilevare al re Vittorio Emanuele “I Borboni non commisero in cento anni gli errori e gli orrori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno” e da essere denunciate da lord Henry Lennox alla camera dei Lords (8 maggio 1863), occasione in cui rivelò che l’Inghilterra, più di Garibaldi, aveva avuto ruolo nel processo di unificazione del meridione italiano.
(52) Nella relazione si legge “...La vita del brigante abbonda di attrattive per il povero contadino il quale ponendola a confronto con la vita stentata e misera che egli è condannato a menare ….. il brigantaggio diventa in tal guisa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro le antiche secolari ingiustizie …….. la sola miseria non sortirebbe forse effetti cotanto perniciosi se non fosse congiunta ad altri mali che la infausta signoria dei Borboni creò ed ha lasciato nelle province napoletane. Questi mali sono l’ignoranza gelosamente conservata ed ampliata, la superstizione diffusa ed accreditata e segnatamente la mancanza assoluta di fede nelle leggi e nella giustizia …. L’amministrazione che non procede, le leggi antiche distrutte ma non le usanze antiche né rimosse da quegli uffici le persone che quelle usanze praticavano, le leggi nuove e male eseguite …. Da tutte queste cose consegue una prostrazione degli spiriti, un languore da cui i tristi si studiano continuamente di tra profitto ……… La diffusione dell’istruzione pubblica, l’affrancazione delle terre, la equa composizione delle questioni demaniali, l’attivazione dei lavori pubblici ….. valgono ad innalzare le plebi a dignità di popolo…. e produce in pari tempo il salutare effetto di trasformare le condizioni del contadino e di distruggere quel proletariato selvaggio che sotto l’impulso della fame e della miseria non obbedisce ad altra voce se non quella dell’avidità e fornisce si ampio contingente al brigantaggio”
(53) Rimasta in vigore fino alla fine del 1865 prevedeva rastrellamenti alla ricerca di evasi, pregiudicati, renitenti alla leva e semplici sospetti; la pena di morte mediante fucilazione per tutti i briganti che avessero opposto resistenza e lavori forzati a vita per chi si arrendeva e per i complici. La legge mise un freno all’arbitrario esercizio della forza che, negli anni precedenti, aveva condotto la repressione senza regole.
(54) Tra esse le bande a cavallo del brigante più noto Carmine Crocco, con quelle di Vincenzo Mastronardi, Giuseppe Summa ed Antonio Locaso che operavano in Basilicata, quelle di Luigi Alonzi e Nicola Napoletano nel Beneventano, ed altre di Michele Caruso nel Molise, Gaetano Manzo e Gaetano Trachella nel Salernitano, ecc. Il più noto di questi, Carmine Crocco, si era dato alla macchia nel 1860 ed, a capo di un manipolo di ricercati, si mise alle dipendenze del re Borbone scontrandosi ripetutamente con le forze regolari. Allorché queste cominciarono a prevalere (luglio 1864), si rifugiò nello Stato Pontificio dove venne arrestato e, nel 1872, processato dalla giustizia italiana che lo condannò a morte, pena quindi commutata in ergastolo.
(55) Esse ammontarono a circa 250.000 ettari che finirono col divenire appannaggio dei latifondisti e solo un esigua porzione finì a gente che coltivava attivamente.
(56) Giuseppe Govone (1825-72), combatté nella III Guerra d’Indipendenza operando una serie di contrattacchi che, se sostenuti, avrebbero potuto mutare le sorti della battaglia di Custoza. Nella missione in Sicilia adoperò tale brutalità da essere indicato come “criminale di guerra” e, malgrado un contrastato dibattito in parlamento, non venne censurato ma promosso. Nel 1866 fu inviato a Berlino per trattare l’alleanza italo-prusiana.
(57) Di esse facevano parte anche elementi che avevano partecipato alle insurrezioni del ’48 e ’60, tra cui Miceli (*) che trovò la morte nel tentativo di liberare i carcerati dell’Ucciardone.
(58) Antonio Starabba marchese di Rudinì (1839-1908), divenuto popolare per i suoi tentativi di reprimere il contrabbando, rimase al suo posto. Il suo palazzo, presso i Quattro Canti fu bruciato e successivamente gli risultò difficile continuare a vivere a Palermo, ndignato per il comportamento della sua gente che riteneva la più corrotta d’Italia Fu uno dei più autorevoli esponenti della destra, ministro degli interni nel governo Menabrea (1869) e presidente del consiglio nel 1891-92 e 1896-98 allorché si dovette dimettere per la decisione con cui fece reprimere i moti di quell’anno.
(59) Gli epiloghi :
Mazzini (*; n. 5, 10, 22, 38) ripetutamente eletto in Parlamento vide la sua elezione annullata. Nel 1870 venne catturato, ad opera del suo allievo Giacomo Medici, dopo aver incoraggiato un tentativo di rivolta in Sicilia. Liberato, morì due anni dopo a Pisa (10.3.1872), sotto falso nome, ospite della famiglia Rosselli ed in polemica aperta con Marx e Bakunin. Lasciò, con numerosi scritti politici, l’esempio di concezioni anticipatrici e della sua onestà e coerenza. Egli, in forte anticipo sui tempi, accanto all’idea repubblicana, sostenne con coerenza la riforma sociale, la libertà di coscienza, l’eguaglianza fra sessi ed un’Europa Federale.
Vittorio Emanuele II (*), nel 1873, dopo Giovanni Lanza (n. 39) chiamo Agostino Depretis (n. 4) a presiedere il primo governo di sinistra. Scomparve il 9 gennaio del 1878, dopo un breve malattia dovuta ad infezione malarica. Pio IX, facendo decadere la scomunica che aveva inflitto a Casa Savoia, inviò un prelato per somministrare i sacramenti. Fu tumulato a Roma nel Pantheon. Gli successe il figlio Umberto (1878-1900) che assunse il numerale I, anziché IV, relativo alla numerazione sabauda.
Pio IX (*), accusato da molti di ambiguità e cinismo per l’uccisione di molti oppositori, per le numerose e macabre esecuzioni operate su delinquenti comuni (il boia Mastro Titta!) e per l’accusa di forzare la conversione giovani ebrei al cattolicesimo (il caso di Edgardo Mortasa!), dopo la perdita di Roma, istituì il non expedit (1874) con cui vietava ai cattolici di partecipare alla vita politica. Morì l’8 febbraio 1878 e subito il Terz’Ordine Francescano di Vienna lo propose per la beatificazione, il cui processo, iniziato nel febbraio 1907, si concluse con il riconoscimento di venerabile (luglio 1895) e di beato (settembre 2000).
Garibaldi, nel 1870, malgrado l’avversione per Napoleone III e per il suo regime liberticida e clericheggiante, allorché fu informato che i tedeschi dilagavano a Parigi lasciò una Caprera presidiata dalla flotta italiana per accorrere in aiuto dei francesi. Messo a capo di una brigata di volontari male equipaggiati e di diversa estrazione, riuscì con la sua strategia da guerrigliero ad ottenere gli unici, se pur non significativi, successi di parte francese, mettendo in difficoltà le armate di von Moltke (n. 42). Quale riconoscimento popolare, fu eletto deputato in sei dipartimenti francesi. Elezione che rifiutò per ritornarsene a Caprera e trascorrere un lungo tramonto. Nel gennaio 1875 ricevette dalla Stato italiano una pensione ed un dono nazionale che rifiutò per accettarlo nel 1876 dal primo governo di sinistra presieduto da Agostino Depretis. Scomparve il 2 giugno 1881.
(60) Provvedimento del ministro dell’economia Quintino Sella del 12 luglio 1862.