da
http://www.storiologia.it/suditalia/cap109m.htm
Franco Savelli
Il Meridione d'Italia nel periodo Restaurazione e Insurrezione
Sommario
- Riflessi del Congresso di Vienna: processi di restaurazione e
movimenti insurrezionali..
- Il regno delle Due Sicilie nel periodo di Ferdinando I: il
ritorno sul trono, i moti del 1820 a Napoli e l’insurrezione di
Palermo. Il breve regno di Francesco I.
- Il Regno di Ferdinando II nel periodo 1831-1850:
attività di governo. Motivazioni e manifestazioni
insurrezionali del 1848 a Palermo ed a Napoli. Ribellioni in
Calabria.
- Il Regno di Sardegna ed il Piemonte: dai moti del 1821 al
Regno di Carlo Alberto fino alla guerra del 1848-49 e l’esilio.
Riflessi del Congresso di Vienna
- Processi di restaurazione
Il ritorno dei principi nelle rispettive nazioni sancito dal
Congresso di Vienna diede origine a differenti reazioni. E se nella
Spagna, nel Regno delle Due Sicilie ed in altre regioni italiane
significò l’instaurarsi di una politica interna repressiva ed
autoritaria che finì col causare nuove ribellioni, in altri
Stati europei, come Baviera, Sassonia e Wurtemberg, (1) si
avviò, pur senza la concessione della Costituzione, un
programma di valide riforme. Aperture avversate dall’Austria (2)
che, mantenendosi nel rigoroso rifiuto di ogni concessione, impose,
attraverso l’intensa attività del suo ministro Metternich, in
tutti i territori in cui estendeva la sua influenza, un gravoso
controllo poliziesco, auspicando che questi, attraverso appositi
accordi, si modellassero al suo regime dispotico-illuministico.
Il Congresso di Vienna, nel chiudere l’epoca iniziata con la
rivoluzione francese (1789), le cui cronache cruente avevano destato
impressione in tutta Europa e le cui idee innovative si erano
diffuse con le guerre napoleoniche, diede inizio ad un periodo di
transizione che venne definito restaurazione. Termine che non vuole
solo significare il ritorno, con Luigi XVIII , dei Borbone sul trono
di Francia ma piuttosto riassume l’insieme di quei tentativi volti a
neutralizzare, con programmi politici di resistenza, gli effetti
prodotti dalle idee maturate nel periodo rivoluzionario. Esse,
consolidate in diverse esperienze, pur se di breve durata,
contribuirono a formare nuove coscienze che, dagli strati più
colti, si estesero fino a sensibilizzare, pur lentamente, anche
quelle masse solitamente resistenti ad accogliere le novità
che i mutamenti politici proponevano. Venne così a maturare
una visione di Costituzione che, sulla base di quelle concesse, nel
1812, in Spagna ed in Sicilia e di quella tardivamente proposta da
Murat per il Regno di Napoli, indicava una maniera per avviare la
costruzione di uno Stato rappresentativo dell’intera nazione, in cui
il popolo potesse esprimere la sua volontà e garantirsi la
libertà. Una eventualità del genere, ritenuta un
veicolo permissivo di rivoluzione, mise in allarme i governanti
ostili ad ogni cambiamento che concordarono un trattato di mutua
collaborazione per il mantenimento della pace, La Santa Alleanza,
concordata a Parigi il 26 ottobre del 1815. Essa, promossa dallo zar
Alessandro, coinvolse inizialmente l’imperatore d’Austria, Francesco
I, il re di Prussia, Guglielmo II, a cui si unirono via via altri
sovrani cattolici europei, ma non la Gran Bretagna che si tenne ai
margini. (3).
L’atto di mutua collaborazione che legava i sovrani fu, dalla
visione restauratrice del cancelliere austriaco Metternich,
tramutato in uno strumento di repressione dei movimenti
nazionalistici. Questo primo accordo fu completato con uno seguente,
del 20 novembre dello steso anno, in cui Gran Bretagna, Russia,
Austria e Prussia (quadruplice alleanza) si impegnarono a convocare
con regolarità una serie di riunioni che, al fine di valutare
lo stato degli eventi, si tennero a Troppau e successivamente a
Lubiana (1821) prima che la prassi entrasse in crisi a Verona (1822)
(4) per la dissociazione britannica dalle posizioni reazionarie
delle altre potenze.
- Movimenti insurrezionali
Ma quali timori contribuivano a mantenere alto il livello di
vigilanza dei governanti?
La norma dell’uguaglianza dei diritti, equivalente a libertà
di pensiero e di coscienza, acquisita dalla rivoluzione francese e
divulgata con l’adozione dei codici napoleonici, era stata, con i
processi restaurativi successivi al Congresso di Vienna,
accortamente rivista e, se pur fosse stata mantenuta la parte
riguardante la sfera privata, una sensibile limitazione avevano
subito i diritti politici (suffragio universale) e quelli civili
delle donne, la cui posizione risultò drasticamente limitata.
Tuttavia, il principio di uguaglianza, pur così contratto,
produceva ugualmente effetti destabilizzanti in una società i
cui componenti, da secoli strutturati in caste giuridicamente
distinte, si venivano a trovare in una situazione di virtuale
uguaglianza che avrebbe dovuto essere ordinata in una nuova
struttura statale. Cambiamento che avrebbe comportato radicali
modifiche nell’assolutismo istituzionale monarchico il quale,
dall’emanazione di nuove regole (statuti), ne sarebbe uscito
fortemente limitato nelle sue prerogative. Trasformazione che i
governanti dell’epoca cercarono contrastare ed allontanare nel
tempo, sottovalutando la consistenza del sentimento popolare e
l’influenza che avrebbe avuto quel grande movimento ideologico che,
sotto il nome di Romanticismo, (5) si era già sviluppato alla
fine del ‘700.
Esso investì la vita culturale e politica di tutti i paesi
ridestando, attraverso dibattiti ed illustrazioni che raggiungevano
le masse, tradizioni e cultura delle varie individualità
nazionali. Nei regimi di tipo dispotico come i Regni di Sardegna e
delle Due Sicilie dove la diffusione delle idee non poteva
realizzarsi liberamente, si organizzarono società segrete (6)
che, ispirate dalla Massoneria, si diffusero attraverso l’esercito
dove anche i giovani del ceto medio e della nobiltà,
ritenendo ormai superato il tempo dei privilegi di casta, aderirono
a movimenti di opposizione. A questi si unirono frammenti di classi
diverse come intellettuali, artigiani e commercianti che divennero
promotori e protagonisti delle prime ribellioni, diversamente dalle
masse popolari che non si sentivano ancora coinvolti in un processo
di trasformazione istituzionale. I moti del 1820-21 che non videro
la partecipazione dei ceti sociali inferiori, misero in evidenza la
fragilità dei governi ed il fallimento cui andarono incontro
va spiegato nel tentativo di imporre regole che avrebbero ridotto
sensibilmente il potere dei sovrani i quali, per conservarlo, si
appellarono alla solidarietà delle grandi potenze. Questi
moti ebbero un seguito, nell’ambito dello stesso processo politico
sociale mirante alla costituzione di libere entità nazionali,
in altre due ondate rivoluzionarie negli anni 1830-31 e 1848-49.
Questi ultimi assunsero un carattere partecipativo più
coinvolgente e, con un adeguamento della strategia, si cercò
di concordare un compromesso che coinvolgesse le monarchie.
I moti del 1820 ebbero inizio a Cadice, in Spagna, e coinvolsero il
Portogallo, la Grecia e, con motivazioni differenziate il Regno
delle Due Sicilie, il Piemonte e successivamente la Russia. Il
periodo di restaurazione conseguente a questi primi moti fu
caratterizzato da repressione poliziesca avvallata dalla
solidarietà delle grandi potenze che, tuttavia, non
riuscirono a controllare i movimenti rivoluzionari impegnati in una
intensa attività cospirativa svolta principalmente dalla
Carboneria.
Nel 1830 a seguito della ribellione di Parigi mossa dalla politica
reazionaria di Luigi XVIII, resa ancor più acuta da Carlo X,
(8) i moti si estesero, inizialmente con gli stessi connotati
missionari del 1789, nell’Europa centrale ed, in Italia, a Modena e
Parma (9) suscitando, a seconda della collocazione, timori e
speranze.
Tra il 1830 ed il 1848, il patriottismo rivoluzionario, sviluppatosi
più sul versante radicale strettamente legato all’idealismo
politico che su quello moderato, diede avvio all’ondata
insurrezionale del 1848-49 che, ispiratasi alla lotta, teorizzata da
Mazzini, (10) contro l’assolutismo ed il dominio straniero, portava
con se idee di democrazia e di socialismo.
L’insurrezione nacque e trovò impulso soprattutto nelle
città a partire da Palermo e Napoli per diffondersi nel
Lombardo-Veneto ed in Piemonte, dove la borghesia era numerosa e
più sentita l’aspirazione all’unità nazionale, quindi
nello Stato Vaticano e nel centro dell’Europa.
Il Regno delle Due Sicilie nel periodo di Ferdinando I (1815-1825)
Prima degli anni di dominio napoleonico (1806-1815) i Regni di
Napoli e Sicilia erano due diverse entità, pur se governati
dallo stesso sovrano che non a caso aveva due differenti numeri
d’ordine, Ferdinando IV, come re di Napoli e III, quale re di
Sicilia. Regni che il Congresso di Vienna unificò, abolendo
il più antico regno d’Italia, quello di Sicilia e
riconoscendo Ferdinando I, re delle Due Sicilie con l’impegno di
mantenere, secondo gli accordi di Casa Lanza norme ed
istituzioni del periodo napoleonico, ritenuti tra i migliori
d’Europa. Impegno che di fatto ignorò, comportandosi in
maniera arbitraria e dispotica come era suo costume.
Nel 1815, come nel precedente ritorno dalla Sicilia dopo la caduta
della Repubblica Partenopea, emerse la volontà del sovrano
Ferdinando I di vendicarsi di coloro che avevano avuto parte nel
precedente periodo napoleonico utilizzando un vecchio strumento di
repressione quale era il principe di Canosa (12). Questi, per
opporsi al movimento clandestino, piuttosto che la repressione,
usò, con eccesso di zelo ma con scarso successo, metodi di
infiltrazione nella carboneria talmente odiosi (n. 7) da collidere
con il ministro Luigi de’ Medici (13) e da indurre gli ambasciatori
di Austria e Russia a chiederne la rimozione.
- Napoli ed i moti del 1820
Particolare rilevanza ebbe la rivoluzione napoletana che
preoccupò l’Austria, timorosa che essa si potesse estendere
alle altre regioni del suo dominio. Essa ebbe inizio il 2 luglio
(14) 1820 allorché, verosimilmente ispirata da ufficiali di
formazione napoleonica che, nel 1812, avevano combattuto in Spagna
(15) e promossa dai tenenti Michele Morelli e Giuseppe Silvati, a
cui si aggiunse un gruppo di carbonari guidati dall’abate liberale
Luigi Minichini, si sollevò la guarnigione (centoventisette
elementi) di Nola e di Avellino e si rafforzò con la
progressiva adesione di esterni. Da qui la rivolta si propagò
ad Aversa e ad altre regioni del Regno (Puglia e Basilicata, Abruzzo
e Calabria).
Il governo pensò di inviare il generale Guglielmo Pepe (16) a
sedare la rivolta ma, ritenuto non affidabile, si rinunciò al
suo apporto. Tuttavia egli, legato alla carboneria, tentò di
rallentare l’intervento della gendarmeria e, nel timore di essere
arrestato, assemblò una nutrita compagnia di soldati e si
schierò dalla parte dei rivoltosi. Il re, sollecitato da
ministri e collaboratori, promise (6 luglio) la concessione della
costituzione entro otto giorni. Ma, nel sospetto di manovre
dilatorie, la ribellione, che si era affidata alla direzione di
Guglielmo Pepe, si intensificò e le milizie liberali che,
raggruppate ad Avellino e Salerno, si predisponevano ad entrare a
Napoli. Per scongiurare ciò Ferdinando, malgrado le sue
convinzioni nettamente avverse ad ogni forma costituzionale, si
convinse ad emanare (9 luglio) la stessa Costituzione concessa in
gennaio a Cadice (n. 16) ed a giurare solennemente (13 luglio)
fedeltà ad essa. (17) Concessione che, secondo quanto
riferì l’ambasciatore, principe di Cariati, venne accolta con
disappunto dalla Corte di Vienna.
Dalle elezioni tenute sulla base della costituzione emanata (18)
emersero un parlamento (ottobre 1820) in cui prevaleva la borghesia
agraria ed un governo costituzionale dominato dal ministro Zurlo che
si rifiutò di assecondare la richiesta di indipendenza delle
province e mantenne ai margini del potere le forze radicali che si
divisero tra coloro cui bastava una monarchia costituzionale e
coloro che auspicavano forme più avanzate di democrazia. Il
governo, trascurando le conseguenze derivanti dalla concessione
della costituzione, non prese alcuna iniziativa per mantenere
contatti con le potenze straniere, presumibilmente perché
distratto dall’insurrezione promossa in Sicilia dai movimenti
separatisti (15 luglio) che lo mise nella necessità di
assumere una posizione di salvaguardia dell’unità del Regno.
Il nuovo assetto del Regno delle Due Sicilie non era stato accettato
dalle nazioni della Santa Alleanza, la Francia non lo riconosceva,
l’Inghilterra non manifestava apprezzamento. Altre nazioni, come la
Spagna, Paesi Bassi e Svezia, con il loro formale riconoscimento,
non fecero altro che allarmare le prime che vedevano nella
rivoluzione di Napoli, incruenta ed ideologica, non promossa da
sofferenze economiche e portatrice di nuova libertà, una
minaccia per la sicurezza dei troni.
Nello stesso ottobre del 1820, l’Austria, sulla base degli accordi
della Santa Alleanza, promosse una riunione a Troppau in Slesia per
esaminare gli eventi dall’insurrezione di Napoli. Mentre
l’Inghilterra mantenne una posizione di dissenso (n. 4), le altre
potenze riuscirono a controllare le perplessità dello zar
Alessandro a cui furono prospettati i pericoli dell’estensione alla
stessa Russia delle idee rivoluzionarie, e rinviarono la discussione
al gennaio 1821 a Lubiana (Slovenia), dove sarebbe stato invitato
anche Ferdinando I. Questi, sulla base della costituzione emanata,
doveva ricevere, per quel viaggio, il consenso dal parlamento
eletto. Malgrado le molte perplessità ed un acceso dibattito,
il consenso al viaggio fu concesso a seguito della promessa e del
reiterato giuramento di difendere il sistema costituzionale in atto
(19) . Ma giunto a Lubiana, Ferdinando sconfessò la
Costituzione che sostenne gli era stata estorta e sollecitò
l’intervento della Santa Alleanza al fine di ristabilire il
precedente regime. Il cancelliere austriaco Metternich si
sentì autorizzato da questa richiesta ad intervenire, (20)
malgrado l’Inghilterra ritenesse l’azione puramente repressiva.
Il 4 febbraio 1821 un contingente austriaco (cinquantamila uomini,
mentre uno russo era di riserva) varcato il Po, si diresse verso i
confini del Regno mentre a Napoli, dove la posizione di Ferdinando
aveva destato stupore ed indignazione, si cercava di predisporre le
difese che non potevano essere particolarmente efficaci, essendo
stati i reparti migliori inviati per controllare la rivolta in
Sicilia. Il governo, rifacendosi alla natura pacifica della
rivoluzione napoletana, diede alle proprie truppe un mandato
puramente difensivo che avrebbe dovuto evitare ogni forma di
aggressione e mirare a contenere gli attacchi degli eserciti
stranieri. Guglielmo Pepe che, dimessosi dall’esercito era stato
nominato comandante della guardia civile (trentamila uomini) ed il
generale Michele Carascosa, capo di quella militare, si schierarono
sui confini abruzzesi. Il generale Guglielmo Pepe, malgrado i pareri
contrari dei suoi ufficiali, decise sconsideratamente di attaccare a
Rieti (7 marzo 1821) con la sua guardia civile impreparata ad azioni
di guerra, l’esercito austriaco guidato dal generale Frimont, che
non ebbe difficoltà a mettere in fuga gli aggressori. Poco
poterono fare i generali Carascosa e Giovanni Russo per contenere
l’esercito austriaco che, pur sorpreso per la facilità
dell’azione, avanzò con cautela ed, entrato a Napoli (23
marzo), accolto da una vibrata protesta di un gruppo di deputati
guidati da Giuseppe Poerio (21), si impossessò dei forti
dando inizio ad una occupazione che si protrasse fino al 1827.
l popolo accomunò tutti nel disprezzo, la doppiezza del re,
la debolezza dei ministri, l’infamia di generali e soldati e la
codardia dei cospiratori.
Napoli venne così restituita al potere di Ferdinando, che, di
ritorno da Lubiana, si fermò nella più sicura Firenze.
Da qui, dopo aver inviato alla Chiesa della Madonna Annunziata una
ricca lampada in argento ed oro per essere sciolto dai giuramenti,
richiamava in servizio il principe di Canosa a cui
impartì, come sua abitudine, disposizioni di ritorsione ed
epurazioni con arresti e processi contro coloro che avevano avuto
ruolo nel breve periodo costituzionale. Mentre molti cercavano
rifugio all’estero (22), gli austriaci imponevano, come capo di
governo il ministro Medici che, a causa di vecchi contrasti, rimosse
il Canosa, la cui attività repressiva non aveva fatto
migliorare la sicurezza pubblica, anzi l’attività settaria si
era rinvigorita e bande infestavano Calabria ed Abruzzo.
- La Sicilia ed i moti del 1820
Ferdinando, rimesso sul trono dal Congresso di Vienna, lasciò
la Sicilia (1815) per ritornare a Napoli che, con tutti i territori
continentali, gli austriaci avevano rioccupato per suo conto.
Allontanandosi dai siciliani verso cui dimostrava solo insofferenza
e liberandosi dalla tutela della Gran Bretagna, Ferdinando che aveva
promesso all’Austria di rompere con ogni forma di costituzionalismo
fu felice di operare le sue vendette a cominciare dalla abrogazione
della costituzione che, concessa nel 1812 in Sicilia su pressione
delle forze britanniche e modellata su quella inglese, egli
aveva giurato di mantenere.
Fu abolita la bandiera siciliana e la libertà di stampa. Da
allora leggi ed istituzioni, tra cui i codici napoleonici ed i
sistemi amministrativi francesi, sulla base di quanto stabilito
nella convenzione di Casa Lanza, furono importate dal continente
sostituendosi a quelle che erano state emanate con la costituzione.
Con il paradosso che la Sicilia, ancora impregnata da feudalesimo e
che non aveva mai fatto parte dell’impero napoleonico, veniva
istituzionalmente ad essere governata da leggi napoleoniche
avanzate. Ciò venne percepito come una imposizione esterna
che, contribuendo ad eludere ogni precedente forma di autonomia,
stimolò sentimenti di separatismo in una regione che per usi,
costumi e civiltà si sentiva diversa dal meridione
continentale. Tanto più in un periodo in cui, venendo a
mancare il contributo che gli inglesi avevano assicurato durante la
loro permanenza, si manifestava una crisi occupazionale ed
economica. I sentimenti di separatismo si erano risvegliati a
seguito del recente inglobamento della Sicilia nel regno delle Due
Sicilie facendole perdere quell’autonomia che conservava dai tempi
del Vespro (1282) e si diffusero velocemente, sostenute non tanto
dai liberali, che o erano in esilio o si erano adattati a dipendere
dall’aristocrazia, ma dall’aristocrazia stessa che vedeva nella
secessione la possibilità di conservare qualcuno dei suoi
privilegi se non proprio di restaurare l’antico ordinamento feudale.
Con l’aristocrazia fu solidale la classe borghese nel trovare
più vantaggioso il precedente ordinamento e nell’avversare il
governo di Napoli più di quanto si era manifestato in tempi
passati contro la Spagna. Ciò conferì alla rivolta un
carattere apparentemente liberal-democratico.
Va tuttavia sottolineato come i sentimenti separatisti non fossero
condivisi dalle classi più avvedute che, consapevoli della
mancanza di risorse per una autonoma gestione, temevano che la
Sicilia finisse col divenire protettorato di qualche grande nazione.
I moti si manifestarono a Palermo il 15 luglio 1820, a seguito dalla
notizia della concessione della costituzione spagnola voluta dai
liberali napoletani (23). Le iniziali richieste di riesumare la
costituzione anglicana del 1812 (che di fatto stabiliva la
separazione della Sicilia dal Regno di Napoli) e di ottenere un
federalismo che riconoscesse alla Sicilia governo e parlamento
propri esaltarono una folla che, già per le strade eccitata
dalla festa di Santa Rosalia, trasformò le rivendicazioni in
un tumulto che travolse i tentativi di contenimento, innescò
guerre fra bande, aprì le prigioni, acquisì il forte
cittadino di Castellamare. Fu creata una Giunta
aristocratico-borghese guidata dal cardinale Gravina ed in cui
entrò a fare parte il principe di Villafranca mentre il
principe Castelnuovo preferì restarne fuori ed i
generali Church e Naselli, rispettivamente comandante militare e
vicario regio, furono costretti ad imbarcarsi per Napoli. Il moto,
intriso di anarchia, manifestò le solite violenze (uccisioni
e rapine) ed i capi delle corporazioni artigiane, come altre volte
in passato, provvidero a riportare un certo ordine a Palermo con la
formazione di una milizia civile di muratori e carpentieri. La
rivolta non interessò tutta la Sicilia ma si allargò
alle province di Palermo ed Agrigento dove i braccianti occuparono
le aree coltivabili da cui erano stati esclusi.
A Napoli, con la concessione della costituzione di Spagna, era stato
garantito un parlamento congiunto (territori continentali e Sicilia)
per cui il governo liberale si mostrò indisponibile a
riconoscere qualsiasi richiesta di autonomia. Altrettanto
intransigente si mostrò la Giunta di Palermo a non
riconoscere alle province orientali (24) il diritto di discutere la
sua direzione politica, trovandosi così isolata
allorché il governo napoletano inviò (fine agosto) in
Sicilia il generale Florestano Pepe (n. 17) per sedare la rivolta.
L’esercito napoletano (novemila fanti), affiancato da bande armate
siciliane sotto contratto e da volontari provenienti dalle province
orientali (Messina, Catania, Siracusa) e da Trapani, dopo aver
prevalso negli scontri, si accampò sulle alture della
città controllandone i rifornimenti. Gli aristocratici
presero le distanze dalla rivolta e Pepe, forse fraintendendo le
disposizioni ricevute dal ministro Zurlo e certamente per ricomporre
i contrasti con Napoli, ottenne, propiziata da un abile intervento
del principe di Paternò, la resa dei rivoltosi (5 ottobre)
con la promessa della concessione della costituzione siciliana del
1812 opportunamente modificata, a fronte del riconoscimento di re
Ferdinando. In sostanza accordando quelle concessioni che il governo
aveva rifiutato e che avevano causato l’intervento armato. Promessa
che il governo napoletano non poté condividere e si
affrettò ad inviare in Sicilia il generale Colletta (25) per
ripristinare la legalità in Sicilia. Giunto a Palermo, con
fermezza sciolse la Giunta di governo, impose il rispetto alla
Costituzione di Napoli e fece eleggere i deputati al parlamento
comune, acuendo nel popolo il sentimento di rifiuto nei confronti di
Napoli e rafforzando ancor più quello indipendentista.
Palermo perse autorità uscendone ridimensionata e se pur
rimase capitale dell’isola, i capoluoghi che avevano collaborato a
sedare la ribellione, furono liberate della sua dipendenza
giudiziaria.
Nel febbraio 1821 giunse la notizia, a seguito della riunione di
Lubiana, del ritiro della costituzione concessa da Ferdinando il 9
luglio ed a fine maggio l’esercito austriaco entrò anche a
Palermo.
Dopo aver concordato con il Metternich il ritiro delle truppe
austriache stanziate a totale carico delle casse del Regno, (ritiro
che si concluderà nel 1827), a fronte dell’ingaggio di
mercenari svizzeri, quale garanzia per il mantenimento dell’ordine,
Ferdinando I morì (gennaio 1825) dopo sessantacinque anni di
regno.
Gli successe il figlio Francesco I (1825-1830), personaggio
incompetente, inesperto e di modesta levatura, provato da malanni e
dal peso di un lungo vicariato. Affidò la gestione al
ministro Medici e la responsabilità in Sicilia ad Ugo delle
Favare che si distinse per crudeltà ed ingiustizia,
permettendo il diffondersi di quella attività che, nata come
guardia privata a difesa dei ricchi proprietari terrieri, si
rivolgeva ora contro gli stessi al fine di impadronirsi dei loro
beni (26). Francesco non avvertì, o ne fu dissuaso, la
necessità di assecondare lo spirito liberale e
costituzionalista che manteneva sempre accesi gli stimoli alla
ribellione, perpetuando invece un sistema repressivo che, nella
rivolta del Cilento del 1828 sedata dal marchese Francesco Saverio
del Carretto (1777-1861) (27) , lasciò memoria di uno degli
esempi più crudi della dinastia Borbone.
Nel suo breve regno Francesco operò prevalentemente
nell’interesse di Napoli, accrescendo il divario con la Sicilia che,
pur avendo potuto godere negli anni del protettorato inglese
(1806-1815) di un processo di modernizzazione analogo a quello
realizzatosi nella Napoli murattiana, restava nelle maniere, nelle
pratiche agricole ed artigianali, oltre che nella lingua. Tuttavia
la consapevolezza del divario esistente diede avvio al sorgere in
Sicilia di un nuovo sentimento di emancipazione che, nel superamento
della generale avversione per il governo di Napoli, avrebbe potuto
trovare espressione solo nell’ambito di una nazione italiana.
Il Regno di Ferdinando II nel periodo 1830-1850
Il figlio ventenne di Francesco I, Ferdinando II (1830-1859) (28)
che gli successe suscitò speranze nei suoi atti di esordio
che videro la sostituzione di diversi ministri, il tentativo di
pacificazione delle parti sociali con l’amnistia per i detenuti
politici, richiamo degli esuli, la riassunzione degli ufficiali
murattiani destituiti nel 1820, l’impegno nel risanamento delle
finanze pubbliche che, a fronte di una contenuta pressione fiscale,
riuscì a realizzare entro il 1838, destando, per lo sviluppo
conseguito nel settore economico, industriale (tessile e
metallurgico), agricolo e della marina commerciale, ammirazione e
consenso delle corti europee. (29)
In Sicilia (30) sostituì (1830) Ugo delle Favare con il
fratello Leopoldo, principe di Siracusa (31), siciliano di nascita,
che diede la sensazione di praticare una gestione autonoma e,
pertanto, gradita a tutti. Ferdinando rivolse la sua attenzione ai
ceti popolari di cui ne privilegiò gli interessi in contrasto
con quelli dei proprietari terrieri che, assieme all’elevata
criminalità ed alla dispersione di energie nel contenerla,
riteneva responsabile dello stato miserevole in cui versava la
popolazione. Questi tentativi di cambiamento non valsero comunque a
far accettare ai siciliani l’idea della dipendenza da Napoli.
Nel 1837, a causa del diffondersi di una epidemia di colera (32),
predispose per tempo le contromisure fissando pene severe per coloro
che trasgredivano le disposizioni sanitarie emanate ed intervenne
personalmente nella organizzazione dei vari presidi. L’epidemia
lasciò cadaveri dappertutto e nella Sicilia occidentale,
Catania, Siracusa ed in altri centri, diede origine al fermento
cittadino che esplose in selvagge manifestazioni di collera intrise
da egoismi e sentimenti di rivalsa che non trascurò
ritorsioni e vendette. A queste si sovrappose l’avversione a Napoli
che si manifestò con l’abituale richiesta di indipendenza e
l’esposizione della bandiera gialla che ne era il simbolo.
L’intervento delle truppe mercenarie svizzere e qualche esecuzione
concluse questa estemporanea e malinconica rivolta.
Il viaggio in Sicilia del 1838 consentì a Ferdinando II di
rendersi conto del disagio popolare che attribuì alla mancata
applicazione delle leggi esistenti. Costume che cercò di
contrastare con disposizioni di carattere amministrativo e
finanziario, mediante cui revocò la riserva della conduzione
degli uffici amministrativi ai funzionari siciliani esposti, per
vincoli familiari, all’influenza delle clientele ed alla
intimidazione dei potenti cui si aggiunse la riduzione dell’imposta
sul macinato che maggiormente gravava sulle classi più
povere. Diede disposizione di avviare una nuova suddivisione dei
latifondi ecclesiastici sotto patronato reale. Tentativi di riforma
di nuovo ostacolati dalla miopia delle classi abbienti che, nemici
di ogni cambiamento, non compresero che l’incremento della
popolazione accresceva la minaccia della fame e, con essa, la
potenzialità rivoluzionaria. Questa, da anarchica che era,
nel momento in cui l’orgoglio popolare si rafforzò con
l’insoddisfazione verso il governo centrale cui si faceva risalire
le responsabilità di ogni malessere, assunse carattere
politico in grado di rappresentare l’aspirazione dei siciliani
all’autonomia. Questa, raggiungibile attraverso l’adesione ad una
confederazione italiana, costituiva l’unica via per sottrarsi al
governo di Napoli (34) che, consapevole delle divisioni tra
siciliani e della mancanza di una guida, riteneva di poter
controllare.
Nel 1839 si inaugurò nel Regno il primo tronco ferroviario
costruito in Italia, la Napoli-Portici cui seguirono numerose altre
opere tra cui il primo ponte sospeso in ferro.
Ferdinando in politica estera cercò di controllare il
tentativo del ministro inglese Palmerston (n. 48) di assumere il
controllo del mediterraneo. Ed in questo tentativo si inserisce la
sua rottura con l’Inghilterra allorché nel 1838, nel corso
del suo viaggio in Sicilia, per compensare la perdita derivante
dalla eliminazione della tassa sul macinato sui suoi territori (vedi
seguito) e per agevolare l’industria ed il commercio dello zolfo,
materia prima per la produzione di esplosivi e più importante
risorsa mineraria, stipulò con una ditta di Marsiglia una
convenzione notevolmente più vantaggiosa di quella in vigore
con l’Inghilterra. Il ministro Palmerston reagì interrompendo
le relazioni diplomatiche e, non ottenendo soddisfazione in sede
giudiziaria, decise l’embargo di tutti i porti napoletani.
Provvedimento quindi revocato per l’intervento mediatore del re di
Francia Luigi Filippo che fece revocare il contratto coll’industria
francese a fronte di un indennizzo che ricevettero anche i mercanti
inglesi per il mancato guadagno. Tutto a carico dei siciliani in cui
crebbe il risentimento verso Ferdinando. E gli stessi inglesi non
dimenticarono (n. 48).
Le rivoluzioni del ‘48 nel Regno delle Due Sicilie
- Le motivazioni
Alla base di esse vi furono le rivendicazioni economiche politiche e
culturali che, in Europa, vanno ricercate nei cambiamenti indotti
dalle rivoluzioni industriale e sociale di fine ‘700. Le ragioni di
carattere economico sono in buona misura attribuibili al 40% di
crescita demografica verificatasi dall’inizio dell’800, senza che, a
fronte di questa, si realizzasse un adeguato progresso agricolo ed
industriale (35). Nel clima di crescita disordinata, le popolazioni
interessate a migliorare il loro stato sollevarono una serie di
proteste che potevano essere soddisfatte con una razionale
organizzazione del lavoro e con la scomparsa dello sfruttamento. La
classe borghese invece, più interessata a perseguire
obiettivi di libertà politica, mirava ad abbattere il sistema
creato dal Congresso di Vienna ed appena intaccato dalle rivoluzioni
degli anni ’20 e ’30, al fine di ottenere la concessione della
Costituzione o, dove essa era già in vigore, il corretto
funzionamento del sistema parlamentare. Intanto i moderati ed i
reazionari, interessati a conservare gli ordinamenti economici e
sociali esistenti, erano assaliti dal timore della rivoluzione e
dalla la paura della diffusione delle idee socialiste che portava a
vedere, in ogni manifestazione popolare di rivendicazione liberale o
di richiesta di riforme, l’ombra minacciosa della sovversione e
l’attentato alla proprietà.
Le tensioni si acuirono alla fine degli anni ’40 a causa della crisi
economica che, derivante dalla caduta degli investimenti ed dalle
speculazioni legate alla costruzione della rete ferroviaria,
causò in Europa (36) una serie di rivoluzioni che da Parigi
(22 febbraio) dilagarono riuscendo a conciliare interessi
contrastanti.
In Italia alla fine degli anni ‘40 la scintilla rivoluzionaria si
innescò con l’elezione di Pio IX (luglio 1846) (37)
che, avvenuta in contrapposizione al cardinale Lambruschini,
dichiaratamente conservatore, sollevò nuove speranze con
timide aperture (libertà di stampa), inducendo analoghe
concessioni in Piemonte ed in Toscana e fornendo ai democratici
motivo per riproporre i temi dello sviluppo economico e sociale e
delle riforme politiche.
Il 1848, un anno problematico per l’Italia. Si era avviato con
manifestazioni a Milano (sciopero del fumo del 1 gennaio), era
proseguito con insurrezioni nel Regno delle Due Sicilie e nel
Lombardo-Veneto, con la decisione di Carlo Alberto di promuovere la
guerra di indipendenza contro l’Austria (vedi seguito) e con la
costituzione della Repubblica Romana (n. 38).
Contro l’assolutismo di Ferdinando che rifiutava ogni apertura
democratica insorse Palermo (12 gennaio) nella rivolta più
generalizzata dal tempo dei Vespri, cui fece seguito Napoli ed altre
città del Regno con importanti manifestazioni che indussero
Ferdinando II a fare appello all’intervento austriaco. Reso vano
tale appello dal rifiuto del Papa di concedere il passaggio delle
truppe nel suo territorio, Ferdinando si vide costretto a concedere,
il 29 gennaio, la Costituzione, che, proclamata il 10 febbraio 1848
(38), diede avvio ad altre concessioni in Italia dove il 17 febbraio
veniva concesso lo Statuto in Toscana, il 4 marzo in Piemonte lo
Statuto Albertino ed il 14 marzo la Costituzione nello Stato
Vaticano.
- L’insurrezione di Palermo del 1848
Nel mese di luglio del 1847 con l’arrivo a Palermo di Ferdinando II
per i festeggiamenti di Santa Rosalia si erano verificati segnali di
insofferenza che, prontamente sedati, si ripeterono in novembre
quando avvennero i primi scontri con la polizia.
Sulla scia di questa, altre agitazioni si verificarono nelle
principali città del Regno, favorite dalla diffusione della
Protesta del popolo delle Due Sicilie, di Luigi Settembrini (39).
La sommossa di Palermo, da qualche giorno annunciata confidando
sullo spirito cronicamente ribelle del popolo, insoddisfatto per i
disagi derivanti dalla crisi economica cui si sovrappose la
tradizionale tendenza separatista, scoppiò il 12 gennaio
1848. Senza un orientamento politico riconoscibile, prevalsero i
motivi sociali contrapponendo la categoria rivoluzionaria dei
contadini ai pastori, nemici dell’agricoltura. Categorie che in
comune covavano un desiderio di vendetta contro la società
urbana. A questo si aggiungeva la rivalità fra famiglie e tra
bande.
La folla abituale dei giorni di festa ricevette il segnale da
piccoli gruppi di democratici borghesi guidati dallo studente
Giuseppe La Masa ed ispirati dalle società segrete. La
rivolta, di violenza inaspettata, si manifestò con
l’occupazione del popolare quartiere di Fieravecchia e la
costruzione di barricate, dilagando quindi in città e nelle
campagne. In città si verificarono crudeli assassini di
poliziotti e di informatori di origine siciliana mentre non si
manifestava altrettanta ostilità verso i soldati stranieri.
Nelle campagne, l’eccitazione scandita dal suono delle campane
provocò stragi di greggi e distruzioni di terre coltivate. In
tale caotica situazione due noti malviventi, Di Miceli e Scordato
con i loro uomini armati, giunsero a Palermo in appoggio
all’insurrezione e si misero ai margini del potere costringendo il
contingente borbonico, privo di guida e di approvvigionamenti, ad
abbandonare la città. Non appena l’esercitò si
ritirò divenne necessario sottrarre la città alla
furia vandalica dei popolani ed indirizzare la rivolta verso un
obiettivo politico separatista con la formazione di comitati
composti da membri liberali che ricevettero l’adesione di altre
città, Messina e Catania e numerosi villaggi.
Ferdinando II si vide costretto ad offrire la possibilità di
autogoverno a condizione che fosse riconosciuta la sua
sovranità, ma i responsabili, trascurando di valutare la loro
debolezza, rifiutarono, procedendo all’elezione del parlamento
secondo la costituzione siciliana del 1812. Non potendo votare i
contadini e la stragrande maggioranza dei cittadini analfabeti,
risultò eletto un parlamento moderatamente conservatore.
Questo, appena insediato (25 marzo 1848), dopo aver dato vita ad un
governo presieduto da Ruggero Settimo e composto, fra gli altri, dal
barone Riso al ministero della guerra e Michele Amari alle finanze,
proclamò (1 aprile) l’indipendenza (40) e successivamente, 13
aprile, la decadenza di Ferdinando II, dotando la Sicilia di
un’autonomia che non conosceva da secoli. Essa fu dichiarata
componente di una federazione italiana con l’invio di ambasciatori
per il riconoscimento del Regno di Sicilia da parte di altri Stati
italiani e di un simbolico contingente che contribuisse alla lotta
di liberazione in corso in Lombardia.
Per il mantenimento dell’ordine e per limitare il potere delle
squadre armate, fu reclutata una Guardia Nazionale che, costituita
con personale borghese e nobiliare, face prevalere la
necessità di risposte sociali (pane, lavoro e riduzione dei
dazi) in contrasto con gli interessi delle classi benestanti. Questa
contrapposizione contribuì a far decadere l’iniziale comune
entusiasmo e fece peggiorare il controllo dell’amministrazione e
l’organizzazione dei servizi di sicurezza, dando spazio alle
scorrerie delle bande armate nei villaggi e nelle campagne. Con il
prevalere del disordine rinacque il desiderio di un governo
efficiente, che, pur in un susseguirsi di cambiamenti, non si
riuscì a recuperare il controllo della situazione.
Ferdinando II, avendo consolidato la sua posizione a Napoli, nel
settembre 1848, inviò un contingente guidato dal generale
Carlo Filangeri ad assediare Messina che resistette sorretta dalle
squadre di Di Miceli e Scordato e da volontari accorsi da molte
parti (41). Si verificarono tra siciliani e napoletani scontri
corredati da episodi di crudeltà attribuibili all’odio che li
divideva. Nel febbraio del 1849, a seguito dell’isterico rifiuto
all’offerta di Ferdinando II volta ad assicurare alla Sicilia un
parlamento separato ed un viceré, l’esercito borbonico
intensificò la sua azione di bombardamento su Messina,
sorretta da un esercito siciliano non addestrato, né
disciplinato e guidato da un polacco inesperto ed in
difficoltà a farsi comprendere. Messina e Catania caddero
dopo scontri feroci, Siracusa si arrese per non subire una analoga
sorte. Palermo, con la indistinta partecipazione di tutta la
popolazione scavò trincee protettive mentre tutta la
struttura rivoluzionaria crollava ed i ministri si sottraevano alle
loro responsabilità. Il comandante della Guardia Nazionale,
il moderato barone Riso, sostenuto dall’industriale Florio e da
altri imprenditori, si adoperava per far cessare le ostilità
in contrapposizione con i radicali (42) alla ricerca di soluzioni
estreme. Allorché la folla, priva di guida cominciò a
presidiare le barricate, Riso che aveva ricevuto l’appoggio dei
capibanda, desiderosi di trovarsi dalla parte vincente, prese
contatto con Filangeri che, con le truppe, entrò in una
Palermo ormai controllata dalle bande che avevano disarmato la
gente.
L’ingloriosa conclusione della rivoluzione di Palermo procurava
sollievo alle province timorose di cadere sotto il suo giogo.
- L’insurrezione di Napoli del 1848
L’esempio di Palermo e le notizie che giungevano da Parigi accese
gli animi anche a Napoli ed in altre città del meridione
coinvolgendo la classe contadina che si rifiutava di pagare le tasse
ed invadeva le terre signorili e demaniali. In città intanto
il ceto medio costituito, in gran parte da impiegati e
professionisti divisi da tendenze diverse e contrapposti da
personali animosità, trovava motivi di tumultare contro le
istituzioni, fornendo occasione alle varie fazioni (democratici,
legittimisti, moderati) di attivarsi e proporre varie istanze tra
cui quella di inviare un esercito regolare a sostegno dei patrioti
lombardi, accettata da Ferdinando al fine di limitare i disordini.
Dalle elezioni politiche di aprile emerse una maggioranza liberale
ed all’apertura del Parlamento del 13 maggio, Ferdinando II lanciava
un proclama in cui apriva all’idea di indipendenza italiana ma
veniva in contrasto con i deputati sulla formula di giuramento. La
diffidenza nei confronti del monarca e voci di colpo di stato
sollevò tra la folla tale concitazione da fare uscire le
truppe dalle caserme per presidiare la città. Evento che
accese ancor più gli animi dei cittadini che incominciarono
ad erigere barricate, inducendo il re a proporre (15 maggio) una
formula di giuramento “..giuro di essere fedele alla costituzione
quale sarà svolta e modificata dalle due camere d’accordo con
il re ..” che, pur accettata dai deputati, non valse a sedare gli
animi ormai troppo infiammati. Allo scoppio di tafferugli risposero
le artiglierie dei fortini rivolti contro le barricate che erano
state costruite e che furono assaltate ed espugnate dalle truppe
svizzere e napoletane, guidate dal generale Nunziante e sostenute
dai lazzaroni (43) causando un numero imprecisato di morti
imprecisato e numerosi arresti. Sedata la ribellione il re
cambiò la composizione del ministero, sciolse la camera dei
deputati, dichiarò lo stato d’assedio ed istituì una
commissione per inquisire i reati commessi. Senza abolire la
costituzione del 10 febbraio fu indetta l’elezione di un nuovo
parlamento e richiamate le truppe inviate in appoggio a Carlo
Alberto.
Ferdinando riprese il potere assoluto sferrando una controffensiva
coll’intento di mantenere il suo regno isolato ad ogni apertura.
Controffensiva che si estese alla Sicilia. Ogni libertà fu
cancellata e si cercò di estirpare ogni traccia di quel
partito liberale che prima era stato fautore della costituzione ed
ora dell’unità. Come nella tradizione borbonica, furono
avviati numerosi processi che, impostati sulla base di semplici
sospetti e delazioni (44), videro tra i condannati i maggiori
esponenti della cultura napoletana tra cui Luigi Settembrini (n.
38), Carlo Poerio (n. 21), Silvio Spaventa, Francesco da Sanctis,
Pasquale Villari.(45)
- Rivolte in Calabria
La Calabria si era distinta per le attività rivoluzionarie
delle sue genti (46) che a Catanzaro, nel marzo del 1823, avevano
promosso una rivolta di breve durata i cui responsabili furono
giustiziati.
Alla fine degli anni ’30 una situazione di tensione scandita
dall’epidemia di colera fu aggravata da sommosse, nel cosentino e
nel catanzarese, controllate dal Del Carretto (n. 28) commissario
per le Calabrie e braccio destro del ministro della polizia. Da
questa immagine di Regione pronta all’insurrezione furono attratti i
fratelli veneziani Attilio ed Emilio Bandiera allorché, nel
1844, da loro esilio di Corfù decisero di tentare di
promuovere una sommossa sbarcando a Crotone con un decina di loro
compagni. La piccola spedizione si diresse verso Cosenza ma, tradita
da un componente, fu intercettata a S. Giovanni in Fiore ed i
fratelli Bandiera con una decina di loro compagni catturati e
fucilati nel vallone di Rovito (25 luglio 1844). Sembra che questo
tentativo fosse stato sconsigliato dal Mazzini che, tuttavia, era
accusato dai moderati di sprecare vite umane in tentativi che non
ricevevano ancora il favore dell’opinione pubblica.
Nel settembre del 1847, sul versante ionico della Calabria
(Roccella, Gioiosa e Gerace), si era registrato, con la richiesta di
una costituzione liberale. Tale tentativo insurrezionale si concluse
in breve con l’intervento delle truppe governative guidate da
Nunziante e con la fucilazione degli insorti.
Nel 1848, a seguito delle rivolte di Napoli avvennero manifestazioni
in Calabria dove, a Cosenza, si formò un governo provvisorio
che, in nome della libertà nazionale, chiese aiuti alla
Sicilia che, ancora in periodo rivoluzionario, il 12 giugno,
inviò a sostegno un esiguo contingente guidato dal colonnello
Ribotti il quale si mise a capo di tutte le forze che si erano
radunate dalla provincia. Il governo di Napoli per sedare la rivolta
predispose l’invio di tre contingenti, due via mare sbarcarono a
Sapri, quello guidato da Busacca ed a Pizzo quello guidato dal
generale Ferdinando Nunziante in maniera da sbarrare la strada ai
ribelli da nord e sud, mentre un terzo contingente, guidato da
Lanza, giungeva in zona via terra. Ribotti, potendo contare su un
esiguo gruppo, peraltro decimato dalle defezioni dei volontari,
ripiegò verso le montagne del Tiriolo (2 luglio) dove lo
seguì anche il governo provvisorio. Nunziante che contava di
accerchiare i rivoltosi, negò loro la facoltà di
ritirarsi in Sicilia. Questi trovarono comunque la via per
raggiungere la costa ionica ed imbarcarsi per riparare in Grecia
dove giunsero, a Corfù, l’11 luglio, inseguiti da un vascello
napoletano comandato da Salazar che, per trarre in inganno i
fuggitivi, issò la bandiera inglese. Salazar riuscì
così a catturare i fuggiaschi e condurli in varie fortezze
borboniche dove sarebbero finiti sul patibolo se non fosse
intervento l’ammiraglio inglese Parker che, venuto a conscenza
dell’inganno, informò il governo napoletano che l’Inghilterra
(48) avrebbe disapprovato “qualsiasi atto di severità
associato all’abuso della bandiera britannica”. I prigionieri ebbero
salva la vita ma molti rimasero per lunghi anni in carcere, in
attesa del processo.
Note
1) Questi Stati avevano condotto una politica differenziata da
quella austriaca e si erano dati una costituzione che non prevedeva
una limitazione del potere del principe ma l’introduzione di un
governo rappresentativo.
2) L’Austria, Regno di Sardegna a parte, aveva in maniera diretta o
indiretta il controllo del territorio italiano dove, governando
attraverso funzionari, avrebbe voluto creare, con una centrale di
polizia a Milano, una lega fra gli Stati italiani, la cui direzione
sarebbe spettata all’imperatore d’Austria. Tali progetti non videro
la realizzazione perché gli stessi sovrani italiani
appartenenti agli Asburgo, sostenuti dalla diplomazia russa e
francese che rinfocolava sospetti nell’intento di impedire
all’Austria la realizzazione dei suoi piani, erano gelosi della loro
indipendenza. Nel Lombardo-Veneto, si poteva tuttavia rilevare, pur
in mancanza di libertà, una certa efficienza amministrativa
ed altrettanto nei Ducati di Parma e Piacenza, in quello di Modena e
soprattutto nel Granducato di Toscana dove venne mantenuta la
tradizione riformista di Leopoldo d’Asburgo.
3) Il ministro inglese Castlereagh definì l’accordo “un
documento di sublime misticismo ed assurdità”.
4) Tra le molte proposte vanno segnalate quelle di premere sulla
Svizzera per espellere i rifugiati, di privare Carlo Alberto del
diritto di successione al trono di Sardegna per il suo ruolo nei
moti piemontesi del 1821 descritti di seguito.
5) Il Romanticismo, un movimento filosofico letterario si
sviluppò in contrasto con la schematizzazione
dell’illuminismo il cui fine era stato quello di razionalizzare
tutti i modelli della vita civile. In ciò coinvolgendo alcuni
monarchi (despota illuminato) che, utilizzando quegli schemi in un
opera di livellamento legislativo ed amministrativo, andarono a
scontrarsi con gli interessi dei ceti privilegiati, rafforzando di
fatto, il potere assoluto. Questo livellamento ha innescato un
movimento culturale tendente ad esaltare tradizioni, lingua e
cultura delle popolazioni che cercavano di rivendicare la propria
originalità. Il movimento si politicizzò
allorché i popoli soggetti dovettero subire la politica
energica e sbrigativa di Napoleone che applicava schemi
amministrativi uguali dappertutto. Il fermento di popolo che si era
innescato non si arrestò con la caduta di Napoleone, anzi si
accentuò con la restaurazione diffondendosi anche nei paesi
politicamente indipendenti. Il desiderio di affermazione
dell’individualità nazionale trovò l’unanime consenso
di tutti i ceti sociali che, però, si differenziarono sulla
scelta delle forme politiche da perseguire. In Italia, G. Mazzini
diede una forte connotazione democratica al romanticismo,
contrapponendo la centralità del popolo ad una concezione
elitaria della politica.
6) In Spagna si diffusero i Comuneros, in Germania la Burschenchaf,
in Grecia l’Eteria, in Italia la Carboneria. Questa società,
un fenomeno elitario e di minoranza, durante il periodo napoleonico,
nacque nelle regioni meridionali, generandosi dalla Massoneria, come
associazione di mutuo soccorso dando origine, nel 1813, ai primi
tentativi di insurrezione, a Cosenza, Teramo e Pescara, repressi da
Murat. La carboneria operava sottoforma con circoli clandestini
(vendite o club) che servivano da collegamento fra i suoi componenti
provenienti dall’esercito, dalla borghesia terriera e dal basso
clero. Essa si diffuse quindi nello Stato Vaticano, nel Piemonte ed
in Lombardia, infiltrandosi poi tra tutte le classi sociali,
perseguendo un programma politico moderato basato su una monarchia
costituzionale in cui era consentita la libertà di stampa, di
riunione e di manifestazione del pensiero, pur se non mancarono
tendenze di tipo repubblicano o separatista. Nel Regno delle Due
Sicilie era avversata dalla società segreta dei Calderai che,
organizzata dal principe di Canosa (n. 13) e costituita dal peggio
della plebe napoletana, abusò in furti ed omicidi. I calderai
avevano come simbolo un caldaia sotto cui arde e si consuma il
carbone. La carboneria fu investita dall’ondata repressiva
conseguente i moti del 1820 e le strutture che sopravvissero furono
influenzate dalle ideologie radicali promosse dalla società
segreta Adelphia che, guidata da Filippo Buonarroti (1761-1831),
cospiratore toscano naturalizzato francese, operava principalmente
in Piemonte.
7) Responsabile della rivolta a San Pietroburgo fu il movimento
decabrista (dicembre 1825, da cui il nome). Essa fu organizzata da
ufficiali dell’esercito imperiale e volta ad indirizzare la Russia
verso una economia liberale con l’abolizione della schiavitù.
La rivolta approssimativamente preparata, fu facilmente sedata dallo
zar Nicola I (1825-1855, fratello di Alessandro I) che fece
impiccare i responsabili e destinò ai lavori forzati in
Siberia diverse centinaia i partecipanti.
8) Carlo X (1757-1836) divenne re nel 1824, dopo la morte del
fratello Luigi XVIII, rendendosi subito impopolare per le sue
concezioni assolutiste e bigotte. Dopo le elezioni del 1830, ancora
favorevoli all’opposizione, Carlo reagì con quattro ordinanze
(luglio 1830) che sospendevano la libertà di stampa,
scioglievano il parlamento e convocavano nuove elezioni, con
restrizione del corpo elettorale. La risposta si ebbe, a Parigi, con
le tre giornate insurrezionali del 27-29 luglio che indussero il re
a promettere il ritiro dei decreti. Promessa che non convinse i
rivoltosi e costrinse il re alla fuga. I moderati, nel timore del
risorgere della repubblica, offrivano la corona al duca Luigi
Filippo d’Orleans (1830-1848) che entrò a Parigi accolto da
Lafayette (v. Il Meridione d’Italia Borbone di fine ‘700, I parte;
stesso sito). L’affermarsi di questa rivoluzione poneva fine al
periodo della restaurazione. Gli avvenimenti di Francia ebbero
ripercussioni in Belgio e Polonia.
Il Belgio, con l’insurrezione dell’agosto 1830, si affrancò
dall’Olanda, da cui lo dividevano storia religione e lingua ed a cui
era stato aggregato dal Congresso di Vienna, e si diede un re,
Leopoldo di Sassonia Coburgo (1790-1865) ed una nuova costituzione
ritenuta più avanzata di quella francese aggiornata da Luigi
Filippo e divenuta modello per i movimenti liberali.
In Polonia fu la classe nobiliare ed alcuni gruppi intellettuali a
promuovere l’insurrezione (novembre 1830) mirante a scrollarsi la
dipendenza dalla Russia ed a costituire un nuovo Stato nazionale. Il
reggente Costantino, fratello dello zar Nicola I, fu costretto a
lasciare Varsavia. Il mancato coinvolgimento della classe contadina
e la mancanza di sostegno dall’Europa, permisero allo zar di
abbattere, nel settembre 1831, la resistenza: “l’ordine regna a
Varsavia”.
9) In Emilia i moti, di origine carbonara, furono promossi da un
facoltoso commerciante modenese, Ciro Menotti (1799-1831) che
prospettò al duca Francesco IV di Modena la
possibilità di ottenere, attraverso una sommossa, un
ampliamento dei suoi territori e l’eventuale corona di re. Progetto
che trovò l’opposizione dei liberali toscani, diffidenti del
duca e dei suoi legami con l’Austria e non convinse lo stesso duca
che, nella notte del 3 febbraio, arrestò Menotti ed i suoi i
compagni, nell’intento di prevenire la sommossa fissata per il
giorno 5. Questa si sviluppò ugualmente nelle Marche ed
Umbria fino ai confini con il Lazio dove i poteri locali vennero
sostituiti da governi provvisori. Ciò indusse il duca a
riparare a Mantova, portando con se Menotti imprigionato ed a
sollecitare l’intervento austriaco che non ebbe difficoltà a
ristabilire l’ordine, mentre alcuni promotori si rifugiavano
all’estero. Francesco rientrò e Menotti venne giustiziato il
26 maggio. Il moto non ebbe rilevanza ma diede il segno che, pur in
un periodo di generale stagnazione, gli animi erano pronti ad
infiammarsi.
10) Giuseppe Mazzini (1805-1872), grande profeta del patriottismo
italiano. Ricevette una educazione improntata alla rigida
religiosità giansenista (Giansenismo è una dottrina
elaborata da Giansenio, XVII sec., che ritiene l’uomo, a seguito del
peccato originale, incapace di resistere al male e che la grazia
è concessa da Dio secondo la sua volontà), si
affiliò alla Carboneria, 1830. Arrestato e rimesso in
libertà per mancanza di prove, si reco in esilio a Marsiglia.
Venne in contatto con Buonarroti (n. 7) e con le idee di Saint-Simon
(n. 12). Si staccò dalla carboneria di cui criticava il
settarismo e fondò la Giovane Italia (1831). Egli pose al
centro del programma di lotta contro l’assolutismo ed il dominio
straniero, l’unità e l’indipendenza delle nazioni oppresse
che potevano essere conseguite attraverso una profonda rivoluzione
politica, intellettuale e morale di cui il popolo doveva essere
protagonista al fine di rispecchiare le esigenze di tutta la
comunità e gestire direttamente e democraticamente uno nuovo
Stato repubblicano. Qualunque altra soluzione avrebbe lasciato
sopravvivere, pur in forma diversa, i vecchi mali. Egli, malgrado
abbia avuto, nel meridione, discepoli come Luigi Settembrini a
Napoli (n. 40), Benedetto Musolino di Pizzo, fondatore dei Figliuoli
della Giovane Italia, ebbe poca attenzione per queste regioni,
ritenendo, in particolare i movimenti liberali siciliani, troppo
finalizzati alla loro indipendenza per sentire un profondo
sentimento di unità nazionale.
11) La parola socialismo divenne comune intorno al 1830 e non nacque
da una filosofia politica ma da un sentimento che emergeva dalle
miserevoli condizioni di vita cui era costretta la stragrande
maggioranza della popolazione. Questa condizione aveva posto
all’attenzione dei responsabili e degli intellettuali la questione
sociale che doveva essere affrontata con interventi legislativi di
politica sociale le cui modalità furono argomento di
dibattito politico e di diversi percorsi legislativi. La questione
sociale venne affrontata, In Inghilterra, con un’azione congiunta
tra movimento riformatore ed organizzazioni sindacali (Trade Unions,
sorte in Inghilterra, con l’affermazione del capitalismo la cui
origine è controversa ma che si affermò con la
rivoluzione industriale del XVIII sec.). In altre realtà,
partendo dalla considerazione che il capitalismo cresciuto con la
rivoluzione industriale avrebbe prodotto maggiore miseria, si
impostarono forme più radicali di trasformazione sociale,
abbinando nuovo sistema sociale a nuovo Stato. Prendeva forma, con
le varianti caratterizzanti ciascun paese, il socialismo come
pensiero politico che, nel subordinare i diritti individuali agli
interessi della collettività, si contrapponeva al liberalismo
(affermatosi con la dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del
cittadino della rivoluzione francese, aveva assunto poi varie
differenziazioni) teso a valorizzare la libertà individuale.
Nella sua prima fase ideale di elaborazione si possono distinguere
il socialismo utopistico (Hanri de Saint-Simon, Charles Fourier,
Pierre-Joseph Proudhon, Luis Blanc) dal socialismo scientifico (Karl
Marx, Friederich Engels).
12) Antonio Capece Minutolo, principe di Canosa (1763-1838), diede
fin dal suo apparire segni di insubordinazione essendo stato
arrestato sia dai francesi (1799) perché fervente sostenitore
borbonico, sia dai Borboni (1799) per insubordinazione al vicario
regio. Riappacificatosi con Ferdinando lo seguì in Sicilia
nel 1806 e fu utilizzato per diversi incarichi, dalla gestione delle
isole di Capri, Ponza e Ventotene alle formalità per la
condanna e fucilazione di Gioacchino Murat (*). Dopo la
restaurazione del 1816 viene chiamato al governo come ministro della
Polizia, rimosso e richiamato nel 1821.
13) Luigi de’ Medici (1759-1830), appartenente al ramo napoletano
dell’illustre famiglia, funzionario dei Borbone, li seguì in
Sicilia e fu loro plenipotenziario al Congresso di Vienna. Divenuto
ministro, condusse una politica moderata tendente a saldare la
classe dirigente borbonica con quella del periodo murattiano che
aveva favorito la formazione del ceto borghese. Concluse un
Concordato con la Santa Sede (1818). Messo in disparte durante la
rivoluzione liberale del 1820, fu reintegrato per imposizione degli
Austriaci.
14) Festa di San Teobaldo, patrono della Carboneria.
15) A Cadice, unica città spagnola non conquistata dai
francesi, nel 1812, dopo la liberazione della Spagna da parte delle
truppe del Duca di Wellington, si era riunita una assemblea che
aveva emanato la “Costituzione di Cadice” (nota anche come
Costituzione del 1812), abrogata poi da Ferdinando VII, reintegrato
sul trono di Spagna dal Congresso di Vienna del 1815 (*). Il 1
gennaio 1820 a Cadice erano state concentrate per imbarcarsi verso
l’America meridionale truppe che, senza paga ed afflitte dalla
febbre gialla, furono indotti alla ribellione da Ufficiali della
setta dei comuneros (n. 7), capeggiati dal colonnello Rafael del
Riego. Venne chiesto il ripristino della Costituzione del 1812. La
rivolta propagatasi alle regioni circostanti coinvolse numerose
città costringendo Ferdinando VII a concedere la costituzione
ed accettare l’elezione di un parlamento (Cortes). La insurrezione
di Spagna si propagò in Portogallo ed in Grecia, unico posto
dove si registrò uno stabile successo. Infatti in Portogallo,
nel 1821, anche Giovanni VI fu costretto a concedere la Costituzione
sul modello spagnolo e l’indipendenza al Brasile, assegnando la
corona al figlio Don Pedro. Mentre in Grecia i patrioti guidati da
Ypsanti, capo dell’Eteria (n. 7) ed affiancati da volontari venuti
da tutta Europa, combatterono contro l’impero ottomano che,
sconfitto a Novarino da una flotta anglo-francese, riconobbe (pace
di Adrianopoli) l’indipendenza della Grecia (1830).
16) Guglielmo Pepe (1783-1855), come il fratello Florestano
(1778-1851), ambedue generali, aderirono alla Repubblica Partenopea,
combatterono negli eserciti napoleonici e, nel 1820-21, nelle fila
dei costituzionalisti. Guglielmo, di sentimenti democratici, onesto
ed intraprendente ma anche ambizioso ed avventato in alcune
decisioni, dopo la sconfitta subita a Rieti, si imbarcò per
gli Stati Uniti. Rientrato nel 1836, nel 1848 fu a capo
dell’esercito napoletano inviato a sostegno di Carlo Alberto contro
gli austriaci, quindi si recò a Venezia dove divenne
comandante dell’esercito della Repubblica Veneta ed, alla caduta di
questa, andò in esilio e morì a Torino. Il cugino
Gabriele (1779-1849) seguì le stesse scelte ed a Firenze si
legò al gruppo di Antologia. Nel 1826 sfidò a duello
lo scrittore A. de Lamartine che aveva definito “l’Italia, terra di
morti”.
17) Nel tempio del palazzo reale, Ferdinando giurò “in nome
di Dio e di sopra i santi Evangeli” di difendere e conservare la
costituzione e che “se operassi contra il mio giuramento e contra
qualunque articolo di esso, non dovrò essere ubbidito ed ogni
operazione con cui vi contravvenissi sarà nulla e di nessun
valore”.
18) Lo storico Colletta (n. 26) riferisce di “collegi elettorali
affollati come in paesi di antica libertà”.
19) Col fraterno amico, il Duca d’Ascoli che, perplesso per le
posizioni assunte, gli chiedeva consigli sul comportamento da tenere
in sua assenza, Ferdinando si mostrò sorpreso che l’amico
pensasse ad un suo qualche ravvedimento rispetto alle concessioni
fatte. Ferdinando, nel viaggio di rientro da Lubiana, a costituzione
sconfessata, decretò l’esilio del Duca d’Ascoli.
20) Ferdinando, scrivendo al vicario, il figlio Francesco, e
riferendosi alle potenze della Santa Alleanza, sminuiva il suo ruolo
“Le ho trovate irrevocabilmente determinate a non ammettere lo stato
di cose che è risultato da tali avvenimenti ….”
21) Giuseppe Poerio (1775-1843) ebbe ruolo nella Repubblica
Partenopea ed, alla sua caduta, fu condannato e liberato nel 1801.
Collaborò con i francesi nel periodo napoleonico. I figli:
Alessandro (1802-1848) morì nella difesa della Repubblica di
Venezia; Carlo (1803-1867) fu ministro nel governo rivoluzionario
del 1848, condannato a 24 anni, quindi liberato, divenne deputato
nelle fila dei liberali moderati del parlamento italiano (1860).
22) Morelli e Silvati, i promotori della rivolta furono giustiziati
e, per altri 28, la pena capitale fu convertita in reclusione.
23) In quel tempo le notizie si trasmettevano attraverso un
telegrafo ottico o ad asta che, installato su una torre, consisteva
in un braccio rotante che portava all’estremità due bracci
minori. Queste potevano assumere configurazioni corrispondenti a
lettere e numeri che, con un cannocchiale, venivano captatati da una
postazione successiva e, da questa, trasmessi a quella seguente.
24) Erano favorevoli alla costituzione spagnola e non a quella
siciliana.
25) Il generale Pietro Colletta (1775-1831) storico, ufficiale con i
Borbone, percorse una rapida carriera militare sotto il regno di
Gioacchino Murat di cui divenne consigliere. Per le sue eccezionali
qualità non venne rimosso, col ritorno del Borbone, dal grado
di generale, ma fu tenuto in disparte. A seguito della restaurazione
del 1821, andò in esilio, stabilendosi a Firenze. La sua
concezione politica che vedeva lo sviluppo politico della
società da realizzarsi con una graduale maturazione delle
masse e non con la rivoluzione, influenzò la corrente
moderata risorgimentale. Alla sua Storia del reame di Napoli,
vissuta dall’interno, si fa costante riferimento.
26) Questa pratica che darà origine al sistema mafia, viene
cosìdescritta in un rapporto del procuratore del re, Pietro
Calà Ulloa: “..vi ha in molti paesi delle unioni o
fratellanze, specie di sette, che si dicono partiti, senza colore o
scopo politico, senza altro legame che quello della dipendenza da un
capo che qui è un possidente, là un arciprete. Una
cassa sovviene ai bisogni di far esonerare un funzionario, ora di
difenderlo, ora di proteggere un imputato, ora d’incolpare un
innocente. Sono tante specie di piccoli governi nel governo..”
Fin dall’inizio dell’800 le truppe britanniche si erano trovati a
far fronte ad associazioni segrete che avevano fama di onore,
crudeltà e completo disprezzo della legge. In effetti erano
già presenti tutti gli ingredienti della mafia con sistemi di
estorsione, verso i proprietari delle miniere a cui si minacciava di
appiccare il fuoco allo zolfo, di pressione sui latifondisti
perché assumessero criminali come guardiani dei fondi o
guardie del corpo, di sequestri di persona in cui erano spesso
coinvolti preti in grado di scrivere messaggi per chiedere il
riscatto. Esistevano gruppi in grado di svolgere attività
politica a favore o contro i Borboni e di corrompere testimoni e
funzionari. Una situazione difficilmente controllabile in cui la
debole struttura giudiziaria applicava meno condanne che a Napoli ed
in cui l’avversione per la polizia, spesso collusa con i criminali,
era uno degli elementi più importanti nel far crescere
l’opposizione al regime borbonico.
27) La rivolta promossa dal prete Antonio Maria de Luca al fine
della concessione della Costituzione fu prontamente repressa con
l’invio di un contingente guidato da un ex carbonaro, il marchese
del Carretto che catturò e fece giustiziare numerosi insorti
con macabri rituali ed esposizione dei loro resti. Il paese di Bosco
che aveva sostenuto i rivoltosi fu dato alle fiamme, raso al suolo e
cosparso di sale in maniera che non potesse più risorgere.
28) Ferdinando II, nato in Sicilia nel 1810, sposò nel 1832
Maria Cristina di Savoia che, figlia di Vittorio Emanuele I,
morì dopo aver messo al mondo l’erede Francesco II (1836).
Sposò quindi l’arciduchessa Maria Teresa d’Asburgo-Lorena da
cui ebbe nove figli. Si distinse anche come esponente di un
assolutismo illuminato, caratterizzato da equilibrio e mitezza che
lo portarono alla sospensione della pena capitale tra il 1851 e 1854
ed alla concessione della grazia per delitti politici e comuni,
malgrado la presenza di numerosi aderenti alle sette segrete.
29) La produzione agricola raggiunse il 50% di quella dell’intera
Italia a fronte di 1/3 della popolazione. Lo sviluppo economico di
quel tempo riguardò prevalentemente l’area napoletana che
accrebbe il divario rispetto alle province. La marina arrivò
ad essere la terza d’Europa dopo quelle di Inghilterra e Francia.
30) Nel giugno-luglio 1831, a trenta miglia da Sciacca, annunciata
in successione da boati, ribollimento delle acque ed emissione di
lapilli e scorie infuocate, emerse un’isola vulcanica con un cratere
centrale di circa 180 m. Ad essa, con decreto fu dato il nome di
Ferdinandea ed inclusa nel territorio del Regno. Altrettanto
rapidamente essa fu sommersa dal mare dove attualmente giace a 25
metri sotto il livello per una superficie di circa 500 m.
31) Leopoldo di Borbone (1813-1860), conte di Siracusa, sposò
nel 1837, Maria Vittoria Filiberta di Savoia Carignano. Come
amministratore della Sicilia, cercò di comprenderne il
disaggio che, a seguito dei moti che nel febbraio-marzo 1831 avevano
interessato i ducati di Modena e Parma (n. 10), si manifestò,
in settembre, con disordini capeggiati a Palermo da un manipolo di
popolani malamente armati e guidati da Domenico di Marco. Questi non
sostenuti dal popolo, furono agevolmente controllati dal generale
del Carretto (n. 28). Leopoldo per alleviare il disagio della
popolazione mise in atto una serie di disposizioni a favore
dell’industria, dell’edilizia e della viabilità che,
insufficienti a dare slancio allo sviluppo economico, non placarono
la carica di insoddisfazione sociale. Nel 1835, il fratello
Ferdinando II, sospettando che l’eccessiva comprensione di Leopoldo
per le cose di Sicilia potesse stimolare le aspettative separatiste,
lo sostituì con Lucchesi Palli, principe di Campofranco che
riesumò i metodi brutali e dispotici dei suoi predecessori.
32) L’epidemia di colera che si era diffusa in Europa, aveva
contaminato Napoli nell’anno precedente. Un riacutizzarsi invernale
dell’epidemia si estese a tutto il territorio continentale (14.000
vittime), espandendosi anche in Sicilia in cui (65.000 morti) vi
furono timori di un voluto contagio (diceria dell’untore) da parte
del governo di Napoli.
33) Un secolare costume di attribuire ad altri responsabilità
legate ai comportamenti locali: la carenza non stava nelle leggi ma
nella loro mancata applicazione, la giustizia era corrotta ma i
giudici erano siciliani.
34) Michele Amari (1806-1889) studioso e politico autore di diverse
opere: Storia dei musulmani in Sicilia, tradotta anche in arabo;
Guerra del Vespro. In quest’ultima accostava la liberazione dai
francesi nel XIII sec. con quella auspicata da Napoli. Il libro non
fu gradito al governo di Napoli che costrinse Amari ad espatriare in
Francia dove si avvicinò a Mazzini e ne diffuse le idee.
Rientrò temporaneamente in Sicilia durante i moti del 1848 e
definitivamente nel 1860 per partecipare alla vita politica
dell’Italia unita e divenire senatore e ministro della pubblica
istruzione.
35) Come si era realizzato in Inghilterra ed in buona misura anche
in Germania. Progresso che non era avvenuto senza lotte a tutela
degli interessi dei lavoratori.
36) In Francia, il cui governo di Luigi Filippo (n. 9) si era
mostrato sordo alle richieste di liberalizzazione, il movimento
rivoluzionario aveva prodotto uno scontro in cui la folla parigina
rappresentata dalla borghesia ebbe la meglio sulle forze
governative. In febbraio il parlamento proclamava la repubblica (II
Repubblica) e formava un governo presieduto da Lamartine (n. 17) che
prevenne un tentativo di rivolta operaia causata dall’esclusione dal
governo del socialista Blanc. Dalle elezioni presidenziali, cui
partecipava Lamartine e numerosi altri, emerse a sorpresa ed a
stragrande maggioranza, Luigi Napoleone, nipote dell’imperatore, al
cui favore giocò il fascino del nome.
L’espandersi della protesta aveva sollevato anche a Vienna una
rivoluzione borghese appoggiata da popolo e studenti che aveva
portato alla fine del potere di Metternich, rifugiatosi in
Inghilterra, ed alla convocazione di una Costituente che aveva
prodotto mutamenti democratici con la costituzione di un governo
nazionale. Negli stati germanici, coinvolti dal movimento liberale,
la riforma non si limitò agli ordinamenti ma mise in evidenza
la questione dell’unità nazionale.
37) Il nuovo Papa Pio IX, Giovanni Mastai Ferretti (1792-1878), pur
se riteneva necessari alcuni cambiamenti, non era particolarmente
attratto dalle idee liberali del tempo. La circostanza della
contrapposizione con un conservatore nel corso della sua elezione ed
alcuni suoi iniziali intenti, come il desiderio di emancipare lo
Stato della Chiesa dalla tutela austriaca e timidi provvedimenti di
apertura come l’amnistia per i reati politici (1846), la concessione
della libertà di stampa (1847) e della Costituzione, marzo
1848, avevano destato speranzose attese nei democratici. Durante
l’insurrezione di Milano (1848) spedì, in soccorso dei
patrioti lombardi e contro l’Austria un contingente comandato dal
generale Giovanni Durando (1804-1869). Contingente che il mese
successivo (aprile) ritirò, su imposizione di una commissione
cardinalizia. La motivazione fu esplicitata, in un
discorso/allocuzione del 29 aprile, con il timore che, sostenendo
una parte fra cristiani in conflitto, potesse rischiare di
distruggere il suo regno spirituale. Per fronteggiare quindi
l’agitazione che ne seguì, affidò il governo ad un
personaggio di valore quale era Pellegrino Rossi (*) che fu ucciso
(novembre 1848) in una congiura popolare, costringendo il Papa a
rifugiarsi a Gaeta, territorio del Regno delle Due Sicilie.
Sostenuta da Giuseppe Mazzini, fu eletta una assemblea costituente
(febbraio 1849) che proclamava la decadenza del potere temporale dei
Papi e la creazione della Repubblica Romana il cui governo era
affidato ad un triunvirato costituito dallo stesso Mazzini, Aurelio
Saffi e Carlo Armellini. Contro questa si mosse la Francia di Luigi
Napoleone che inviò un contingente, al comando del generale
Oudinot in difesa dei diritti del Papa. Roma, malgrado l’apporto di
volontari giunti da ogni parte, fra cui Garibaldi, cadde il 3 luglio
del 1849. Il Papa rientrò, nel 1850, solo dopo l’introduzione
di pesanti misure repressive e coll’intento di avversare ogni
cambiamento, in linea con il comportamento dell’Austria con cui
firmò un concordato nell’agosto del 1855 e con il contributo
dei gesuiti, la cui posizione intransigente venne diffusa attraverso
la rivista Civiltà Cattolica. In questo periodo vennero
assunti importanti affermazioni dogmatiche che riguardavano la
immacolata concezione di Maria e dell’infallibilità del Papa.
38) Costituzione conteneva un eccesso di clericalismo in quanto la
religione cattolica era l’unica ammessa e veniva vietata la
professione di altri culti. Fu uno dei motivi per cui gli ebrei si
schierarono a favore del movimento unitario e ne finanziarono le
attività.
39) Il pamphlet pubblicato anonimo nel 1847, riporta una serie di
affermazioni espresse con sincerità in cui nulla è
taciuto a cominciare dalle accuse a Ferdinando (stolto,
superstizioso, avaro, ecc). Luigi Settembrini (1813-1876), membro
della Giovine Italia, fondò la setta Figliuoli della Giovine
Italia, ed, accusato di cospirazione passò tre anni in
carcere. Partecipò ai moti del 1848 divenendo membro del
governo costituzionale, quindi fu coinvolto nella repressione e
condannato al carcere a vita. Nel 1859, la nave che lo deportava in
Argentina fu dirottata dal figlio Raffaele in Irlanda, da dove
rientrò nel 1862 per insegnare letteratura a Bologna e
Napoli.
40) Essa prevedeva che il sovrano chiamato a reggere la Sicilia non
poteva, pena la decadenza, regnare su altri paesi; al re era negata
la facoltà di sciogliere le assemblee parlamentari; i
trattati dovevano ricever l’approvazione del parlamento cui
apparteneva il potere di fare le leggi; il voto era universale.
41) Garibaldi, pur avendo promesso il suo intervento, fu distratto
da altri impegni in Toscana.
42) Francesco Crispi, coinvolto nella ribellione e che
successivamente con l’impresa dei mille e con l’unificazione,
assumerà ruoli di primo piano, ebbe a scrivere “I moderati
temevano più la vittoria del popolo che quella delle truppe
borboniche”.
43) Vedi il capitolo “Il meridione Borbone di fine ‘700, parte I”
stesso sito.
44) L’inglese William Gladstone visitò (1851) Napoli che,
come Palermo, per le sue attrattive era meta turistica. Egli
denunciò il clima trovato a Napoli, definendo il regime
borbonico “negazione di dio eretta a sistema di governo”.
45) Silvio Spaventa (1822-1893) fratello del filosofo Bertrando,
protagonista dei moti del 1848, fu condannato con pena commutata in
ergastolo e poi in esilio da cui riuscì a rientrare nel 1859.
Ebbe ruolo, come inviato di Cavour, durante la spedizione dei mille.
Deputato della destra e ministro nel Parlamento italiano fu fautore
della statalizzazione delle ferrovie. Si batté per uno stato
forte, una amministrazione imparziale, contro il trasformismo di
Depretis e per il bipartitismo.
Francesco De Sanctis (1817-1883), letterato (Storia della
letteratura italiana) a seguito della sua partecipazione, fu
imprigionato per tre anni prima di andare in esilio. Più
volte ministro dell’istruzione nel governo unificato, cercò
inutilmente di introdurre nel sistema scolastico criteri educativi
di ispirazione laica e democratica.
Pasquale Villari (1826-1917) storico (Storia di G. Savonarola e N.
Macchiavelli ed i suoi tempi) fu ministro dell’istruzione (1891-92)
ed il primo ad avviare il dibattito sulla questione meridionale
(Lettere meridionali).
46) Michele Morelli promotore dei moti del 1820 a Napoli ed i Pepe
erano originari di Monteleone (attuale Vibo V.) e Squillace,
ripettivamente.
47) L’Inghilterra del ministro Palmerston (Henry John Temple,
1784-1865), già in rotta con il Borbone per i fatti legati
alle miniere di solfo in Sicilia (1838), accentuò il suo
distacco e finirà con il contribuire all’unificazione
italiana che avrebbe potuto bilanciare l’influenza austriaca e
francese in quel settore del mediterraneo, sostenendo l’impresa dei
mille (1860). Palmerston, come ministro degli esteri inglese
(1830-41 e 1846-51), appoggiò i moti riformatori in Italia e
decadde per il sostegno fornito al colpo di Stato in Francia da
Napoleone III (1851). Come primo ministro (1855-65) svolse un ruolo
determinante nella unificazione italiana.
48) Tra gli esponenti liberali piemontesi vi era Cesare Balbo e, tra
i lombardi, Federico Confalonieri.
Santorre di Santarosa (1783-1825) esponente della nobiltà
piemontese, dopo il fallimento dell’insurrezione, fu esule e
morì combattendo per l’indipendenza della Grecia.
Di Cesare Balbo (1789-1853) in verità non è chiaro il
peso del suo coinvolgimento nei moti del 1821, fatto sta che dopo il
fallimento venne confinato fino al 1826, dedicandosi agli studi
storici (Storia d’Italia, 1830; Speranze d’Italia, 1844). Nel 1848
fu chiamato da Carlo Alberto a presiedere il primo governo
costituzionale del Regno di Sardegna.
Federico Confalonieri (1785-1846) affiliato alla Carboneria,
fondatore del giornale Conciliatore, si impegnò, nel 1821, a
sostenere i patrioti piemontesi con una rivolta concordata a Milano.
Arrestato, fu condannato a morte e la pena commutata in carcere a
vita, nella fortezza dello Spielberg (Moravia), assieme a Piero
Maroncelli e Silvio Pellico, graziati rispettivamente nel 1835 il
primo e, nel 1830, Maroncelli e Pellico.