Storia dell'Italia dall'età preromana fino alla seconda Guerra Mondiale

 

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Storia: l’Italia preromana e le origini di Roma

L'ultimo massiccio arrivo di nuovi popoli prima dell'avvento della supremazia romana si ebbe tra il sec. VI e il V a. C. con i Galli, che occuparono la Pianura Padana spingendo indietro Liguri ed Etruschi, con punte d'infiltrazione che si spinsero fin nel cuore della penisola (assalto a Roma nel 390 a. C.). Questo dunque il quadro della geografia etnica dell'Italia nei primordi della sua storia: la conformazione geografica della penisola, con le numerose vallate trasversali scendenti dalle due parti dell'Appennino verso il mare, favoriva la frammentarietà e la varietà dei popoli. Nelle lotte, spesso aspre, tra popolo e popolo, non mancavano di emergere alcuni gruppi che promossero processi di unificazione, prima in ambito locale, poi a raggio più largo: tali gli Etruschi in Etruria e i Greci nel Meridione, che poi vennero in urto fra loro, nelle acque di Alalia, davanti alla Corsica, nel 535 a. C. ca., in una battaglia navale in cui gli Etruschi ebbero la meglio sui Greci di Massalia e i loro alleati Cartaginesi, conseguendo il controllo del Tirreno inferiore a scapito della Magna Grecia. Ma nel 524 a. C. gli stessi Etruschi subirono una sconfitta a Cuma per mano dei Greci, così che il loro movimento di spinta verso il sud si arrestò in concomitanza con l'arrivo nella Valle Padana dei Galli, che compromisero gravemente la supremazia etrusca in tale regione. Proprio in questo periodo, le tribù montane dell'Appennino cominciarono a premere con intensità su quelle più evolute delle zone costiere, in molti casi sopraffacendole, come fecero i Sanniti in Campania a danno degli Etruschi, i Volsci nel Lazio meridionale contro i Latini, i Lucani contro città greche della costa ionica.

Appunto nel complesso intreccio di questi urti e contrasti, Roma trovò il suo inserimento come attiva protagonista a partire dal sec. IV a. C. raggiungendo la supremazia politica sulla penisola nella battaglia di Sentino (295 a. C.), in cui batté le forze coalizzate dei maggiori popoli italici, Etruschi, Umbri, Galli, Sanniti. Tale supremazia si rinsaldò sempre più grazie alla sua organizzazione militare, alla diplomazia realistica dei suoi governanti, al sistema delle numerose colonie che istituì nei territori via via assoggettati, alle alleanze che strinse sulla base di patti diversi con i popoli più periferici. Non instaurò però un controllo diretto sui popoli entrati nella sua orbita: fu anzi rispettosa delle autonomie locali sul piano amministrativo, economico, religioso, linguistico. Questo fatto spiega come agli occhi dei popoli esterni la penisola non apparisse quale Stato dei Romani; tant'è vero che la denominazione di Italia, di origine greca, le venne dal termine grecizzato di Vitelia (terra dei vitelli), che in origine comprendeva un tratto della Calabria, dove aveva sede l'antico popolo degli Itali, e poi, nel sec. V a. C., incluse anche il territorio dei Bruzi, e, successivamente, nel sec. IV a. C., quello dei Lucani e la Campania, per estendersi, dopo la spedizione di Pirro, a tutta l'Italia a S della Liguria e della Gallia Cisalpina, un'Italia intesa però ancora come espressione geografica, più che come unità politica. È da precisare tuttavia che, in concomitanza con tale denominazione, altri nomi erano anticamente usati per indicare l'Italia, come Esperia (terra d'Occidente), Saturnia (terra di Saturno, originariamente il Lazio), Oenotria (l'Italia sudoccidentale, terra del vino), Ausonia (terra degli Ausoni), ma su tutti si affermerà alla fine la denominazione destinata a durare nei secoli.

Storia: l’unificazione romana. L’Impero

Premessa all'unificazione politica fu certo l'affermazione della lingua latina in tutta la penisola, che non fu imposta dai Romani, ma fu conseguenza dei rapporti ufficiali venutisi a stabilire tra Roma e gli altri Stati e città d'Italia, che le circostanze rendevano sempre più stretti. È vero però che Roma era nata dal confluire sul suo territorio di più componenti etniche, sulle quali si affermò alla fine quella latina, che aveva avuto il suo centro di maggior forza espansiva sui Colli Albani, e sarà il patrimonio ideale di tale componente, arricchito dal confluire e fondersi in esso degli altri apporti, quello che alla fine cementerà l'unità d'Italia sul piano culturale, superando i particolarismi locali. Il banco di prova della solidità dell'organismo politico creato da Roma in Italia si era avuto con la seconda guerra punica, durante la quale quasi tutti i popoli della penisola le rimasero fedeli, malgrado le profferte di libertà e indipendenza fatte da Annibale. Il processo di unificazione promosso da Roma conobbe però un momento critico con la guerra sociale del 90 a. C., scoppiata in conseguenza delle riforme promosse dai Gracchi, le cui leggi agrarie prevedevano distribuzioni di terreni dell'agro pubblico, ma da tali distribuzioni erano esclusi i popoli italici: condizione per fruirne era il possesso della cittadinanza romana, che Roma recalcitrava a concedere; di qui la guerra sociale che vide coalizzati contro Roma quasi tutti i popoli italici. Roma vinse la guerra, ma gli Italici ottennero la cittadinanza romana, così il termine Italia, fino allora avente accezione geografica, indicò finalmente un'unità politica, includente, con Augusto, anche la Gallia Cisalpina fino ai piedi delle Alpi. Il moto di fusione tra le varie parti si accentuò nella prima età imperiale, anche grazie al sistema delle strade, via via costruite in gran numero, colleganti le numerose città che in ogni parte della penisola si sviluppavano e si abbellivano.

Profondi mutamenti avvennero intanto nell'economia dell'Italia. Già i guasti della guerra annibalica avevano creato dei vuoti in zone un tempo popolose; malgrado le grandi assegnazioni di terre ai veterani operate da Augusto, lo sviluppo urbanistico ridusse sempre più di numero i piccoli proprietari ai quali subentrarono i grandi, nelle cui tenute, alle antiche colture di cereali, che ora arrivavano dalle province a prezzi inferiori, si sostituivano allevamenti in grande di animali. Nel Meridione poi si accentuarono le colture specializzate: vite, olivo. Si aggiunga che i grandi impegni militari dell'Impero sulle linee di confine spostarono gradualmente verso il nord le attività commerciali, e questo fatto diminuì l'importanza dell'Italia, che, già divisa in undici regioni da Augusto, si incamminò sulla strada della provincializzazione. Queste trasformazioni si accentuarono nel sec. II, sotto gli imperatori dell'età antonina. Con la concessione della cittadinanza romana fatta da Caracalla nel 212 a tutti gli abitanti dell'Impero, l'Italia perdette il suo primato politico. Essa non forniva più da tempo i quadri all'esercito, per il quale si arruolavano invece di preferenza elementi delle province più periferiche e anche barbari. Essa perdette anche il suo ruolo di centrale dell'amministrazione imperiale. Con Diocleziano venne divisa in otto province raggruppate in una diocesi, che Costantino divise in due: una, l'Italia annonaria, che fece capo a Milano, e venne così chiamata per le derrate che era tenuta a fornire per i servizi statali; l'altra, l'Italia suburbicaria, che comprese la penisola nella sua parte meridionale e le isole. La creazione da parte di Costantino di una nuova capitale a Costantinopoli incrinò il peso ideale di Roma. Intanto gli assalti dei barbari che premevano sempre più sul Reno e sul Danubio impegnarono a fondo l'organizzazione politica e militare romana in zone lontane; l'Italia, ormai aggregata in una sola prefettura con l'Africa, perdette la sua individualità venendosi sempre più a confondere con le altri parti dell'Impero.

Storia: dal 476 al regno longobardo

La vulnerabilità dell'Italia si manifestò drammaticamente di fronte alle grandi migrazioni germaniche del sec. V. I Visigoti di Alarico la scorsero tutta dalla Pianura Padana allo stretto di Messina e dallo stretto di Messina alla riviera ligure e vi perpetrarono il primo sacco di Roma nel 410; un secondo sacco perpetrarono nel 455 i Vandali di Genserico, venuti per mare. Poco avanti il primo, la Valle Padana e la Toscana subirono un'invasione di genti germaniche di varie stirpi condotte da Radagaiso (405-406); poco avanti il secondo, ancora la Valle Padana fu devastata dagli Unni di Attila (452), che si ritirarono, sazi di preda e in condizioni di incipiente disfacimento, di fronte alla suggestiva ambasceria venuta da Roma per iniziativa dell'imperatore Valentiniano III con papa Leone I come capo. Si consumava intanto, in un clima di anarchia, quella definitiva eclissi del potere imperiale in Occidente, che si concludeva nel 476 con la rivolta militare di Odoacre, il quale, alla testa di mercenari eruli, rugi, sciri ecc., deponeva l'ultimo larvale imperatore di Occidente, Romolo Augustolo, placava le sue milizie con l'assegnazione di terre e, ponendo le insegne imperiali a disposizione di Zenone, unico imperatore nell'Oriente, riduceva l'Italia allo status di una delle varie province colonizzate da barbari e sollecitava per sé il ruolo di delegato dell'imperatore (patricius) per governarla. In questa veste (non mai pienamente legittimata) governò non senza meriti finché nel 489, con il patrocinio dello stesso Zenone, si riversò sull'Italia l'intero popolo degli Ostrogoti, liberando l'Oriente da una pericolosa pressione, sotto la guida dell'amalo Teodorico, nella duplice qualità di patricius dell'Impero e di re degli Ostrogoti. Eliminato Odoacre (Ravenna, 493), Teodorico inaugurò il regno romano-barbarico degli Ostrogoti, formalmente non dissimile dagli altri esistenti in Occidente, che durò circa sessant'anni e che con Teodorico (493-526) esercitò una vera e propria supremazia sugli altri. Questo re si adoprò per stabilire in Italia un regime di pacifica convivenza tra Ostrogoti e Romani: Ostrogoti, costituenti l'aristocrazia militare e politica (i duces, duchi) e l'esercito di religione ariana, di costume e legge germanica (Edictum Theodorici, ca. 500); Romani, accolti come consiglieri depositari di una raffinata cultura e di una secolare esperienza amministrativa (Boezio, Cassiodoro, Liberio, Simmaco), di religione cattolica, di costumi latini ed esperti nell'agricoltura e nelle altre attività economiche. Ma l'affiatamento tra i due popoli in Italia, a differenza che nella Gallia occupata dai Franchi o nella Spagna occupata dai Visigoti, non ebbe che un breve e difficile inizio: l'incompatibilità delle rispettive fedi, culture, esperienze tecniche ed economiche, posizioni politico-sociali, manifestatasi già verso la fine del regno di Teodorico e inaspritasi sotto i suoi successori, provocò un conflitto che offrì una valida occasione all'intervento dell'imperatore Giustiniano, intenzionato a ricostituire l'unità romana del Mediterraneo reintegrando l'Occidente all'Oriente.

Con la durissima guerra gotica (535-553) il regno degli Ostrogoti in Italia fu abbattuto e la penisola, desolata e spopolata dalle operazioni militari, dalle carestie e dalle epidemie, passò sotto la diretta amministrazione imperiale di Bisanzio, alla quale fu preposto un magistrato con pieni poteri, l'esarca, residente a Ravenna. A Roma, l'autorità imperiale fu rappresentata da un dux (duca), che si trovò tuttavia di fatto a condividere il governo con il papa. Non solo a Roma, d'altronde, ma in tutte le città episcopali i vescovi andarono assumendo autorità e pubblici poteri in parte di diritto in parte di fatto, essendo ormai la Chiesa la sola custode delle forme di vita civile sopravvissute alla crisi portata dalle invasioni barbariche. Va notato che, appunto in età gotica, nacque in Italia il monachesimo benedettino, una delle forze spirituali più vivaci e feconde operanti nel Medioevo.

Sull'Italia ricongiunta all'Impero si scatenò nel 568-569 l'invasione dei Longobardi condotti da Alboino, che dal Friuli estesero la loro conquista, disordinatamente e in tempi diversi, a una gran parte della penisola, spezzandone per secoli l'unità. Il regno longobardo (capitale Pavia), incoerente e anche nella sua stagione più felice sostanzialmente debole, giunse a comprendere un'ampia area padana con sbocchi sulle coste del Veneto e della Liguria, e un'area toscana, e inoltre una parte dell'Umbria e quasi tutto il Mezzogiorno (ducati di Spoleto e di Benevento), rimanendo pertanto spezzato in due tronconi dai domini conservati dall'Impero bizantino, che comprendevano l'attuale Romagna (l'Esarcato di Ravenna), le Marche (la Pentapoli), una parte dell'Umbria e il Lazio con Roma (il ducato romano), senza soluzione di continuità; e ancora, nel Mezzogiorno, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia. Nel corso della dominazione longobarda, che durò poco più di due secoli, le condizioni della popolazione italiana variarono in rapporto al progressivo incivilirsi dei barbari. Questi conservarono sempre il controllo militare e politico, esercitato dai re e localmente dai duchi (in numero di 36), le loro consuetudini primitive (raccolte per la prima volta per iscritto, e temperate, nell'Editto del re Rotari, 643), la loro indifferenza alle attività economiche e civili; ma, sotto l'influsso dell'ambiente, abbandonarono a poco a poco le forme di vita più rozze e, per iniziativa di papa Gregorio I, che ebbe il valido appoggio della regina Teodolinda , e successivamente per opera di missionari (tra i quali l'irlandese Colombano), nel corso del sec. VII si convertirono dall'arianesimo o dal semipaganesimo originario al cattolicesimo, avvicinandosi così alla civiltà locale. I re longobardi del sec. VIII, Liutprando, Astolfo, Desiderio, approfittando del decadimento della potenza bizantina in Italia, tentarono di completare la conquista della penisola. Ma i loro tentativi si infransero di fronte alla resistenza non tanto dei Bizantini quanto dei papi che, sottrattisi di fatto alla sovranità bizantina in Roma, aspiravano a instaurarvi la propria, tenendone lontani i Longobardi. Arrestate pacificamente le avanzate verso Roma del pio re Liutprando (che si atteggiava a difensore della Chiesa in conflitto con Bisanzio per la questione dell'iconoclastia) e ottenute anche da lui le prime donazioni “agli apostoli Pietro e Paolo” (la prima, Sutri, 728), i papi si scontrarono poi con l'aggressiva intransigenza del suo successore Astolfo, risoluto a conquistare tutti i territori ancora in possesso dell'Impero, da Ravenna a Roma. Cercarono allora l'alleanza della potente monarchia cattolica dei Franchi e Stefano II, trasferita la corona franca da Childerico III, ultimo dei Merovingi, a Pipino il Breve, primo dei Carolingi (752), ottenne da quest'ultimo quegli interventi in Italia grazie ai quali Astolfo dovette abbandonare gli ampi territori da lui già tolti ai Bizantini e cederli al papa (756). Da questa cessione, previamente concordata tra il papa e il re dei Franchi (donazione di Pipino) e configurata poi come restituzione di terre legittimamente appartenenti alla Chiesa in forza della fantastica donazione di Costantino, ebbe origine il grande complesso dei domini della Chiesa dall'Adriatico al Tirreno, destinato a durare per oltre undici secoli. I successivi tentativi dei Longobardi, con il re Desiderio, non solo di riprendere l'offensiva, ma di conservare il regno, fallirono di fronte all'alleanza franco-papale: con le definitive vittorie di Carlo Magno contro Desiderio e Adelchi (774) la dominazione dei Longobardi in Italia ebbe termine.

Storia: da Carlo Magno a Ottone I

Carlo si intitolò re dei Franchi e dei Longobardi e riorganizzò il regno secondo l'ordinamento franco, sostituendo ai duchi nelle varie regioni una ventina di conti (comites) di nazionalità franca; continuarono tuttavia a esistere, ma in qualità di vassalli, i duchi longobardi di Benevento. Nel 781, Carlo investì del regno, ribattezzato Regno italico, il figlio Pipino e, dopo l'incoronazione imperiale celebrata a Roma nell'800, il Regno italico, sempre con Pavia come capitale, divenne parte integrante dell'Impero romano ricostituito in Occidente. All'Impero bizantino restavano in Italia Puglia, Basilicata, Calabria e, fino all'invasione degli Arabi (avvenuta tra l'827 e gli inizi del sec. X), la Sicilia; restavano anche, ma di fatto già indipendenti, Venezia, cresciuta durante le invasioni, e Napoli. Nel sec. IX andarono consolidandosi le strutture politiche, economiche e sociali feudali, compatibilmente con le condizioni peculiari della penisola: non trovarono, infatti, terreno propizio nelle numerose città, particolarmente in quelle marinare, dove l'economia mercantile prevaleva sull'economia agricola, supporto necessario del sistema feudale. La penisola cominciò allora a essere attaccata dagli Arabi (Saraceni), che dal mare penetrarono qua e là profondamente nell'interno, imponendo severe misure difensive. Papi e vescovi svolsero un'intensa attività, partecipando con peso spesso determinante alle complesse e spesso drammatiche lotte tra i Carolingi e assumendosi poteri pubblici sempre più ampi. Con Ottone I la corona del Regno d'Italia venne definitivamente unita a quelle del Regno di Germania e dell'Impero, e questa unione ebbe per l'Italia, e non solo per essa, conseguenze storiche di grande rilievo.

Storia: il periodo del Sacro Romano Impero

La restaurazione imperiale ottoniana si attuò secondo due direttive fondamentali: espansione del germanesimo verso l'Oriente slavo e verso il Mezzogiorno latino e mediterraneo; valorizzazione politica e culturale delle gerarchie ecclesiastiche, come forze civilizzatrici, unificatrici di un potente sistema politico romano-germanico, un grande Sacro Romano Impero, opposto all'Impero bizantino, che riassumesse in un'unità sempre più salda i valori della civiltà tedesca e della civiltà romana nella comune promozione della fede cattolica. Sotto tale profilo va valutata la ferma, anche se contrastata, tutela dell'imperatore sul Papato (al quale Ottone I giunse a elevare con un atto d'imperio Leone VIII) e l'istituzione dei vescovi-conti, con la quale diede vita a un'alta feudalità ecclesiastica d'osservanza imperiale e priva del diritto di ereditarietà, contrapposta come forza equilibratrice a quella laica. Con l'attribuzione dei poteri comitali, alcuni vescovi divennero i veri signori delle loro città (in Italia il primo vescovo-conte fu quello di Parma, 962); ma anche gli altri, pur senza l'investitura comitale, in forza di privilegi e di tradizioni e nel quadro della politica imperiale, divennero arbitri della vita cittadina, mentre l'autorità dei conti laici tendeva a ridursi alle campagne. Questo fenomeno ebbe un'importanza eccezionale nella storia d'Italia. Ottone I aspirò infine a integrare la sua politica italiana contendendo il Mezzogiorno ai Bizantini, che vi si erano consolidati, tenendo testa ai principi longobardi e agli Arabi e valendosi del favore delle libere, ricche città mercantili di Amalfi, Gaeta, Napoli. I due imperi si scontrarono sul terreno diplomatico e anche militare, ma le cose rimasero allo statu quo, consacrato dalle nozze tra il figlio di Ottone I, Ottone II, e la principessa bizantina Teofano, che aprivano una remota prospettiva di estensione dei domini della casa di Sassonia nel Mezzogiorno. E a Roma e al Mezzogiorno dedicò gli ultimi anni del suo breve regno Ottone II; ma, mentre salvò (a mala pena) il suo prestigio nella città dei papi, fallì in pieno nella guerra santa contro gli Arabi in Calabria (982), alla quale i Bizantini, che pure si atteggiavano a difensori della fede, non diedero alcun apporto. Solo dopo la sconfitta di Ottone II essi passarono all'offensiva e, sopravanzando Arabi e Longobardi, accrebbero e irrobustirono le loro posizioni. L'Italia meridionale era dunque, alla fine del sec. X, la frontiera su cui si scontravano i due imperi “romani” rivali e i rispettivi interessi mediterranei, concorrenti nonostante la comune necessità di difendersi dagli Arabi. La restaurazione imperiale romano-germanica promossa da Ottone I ebbe la sua ora meridiana nella mistica e utopistica Renovatio Imperii ideata da Ottone III e Silvestro II, che tra la fine del sec. X e l'inizio del sec. XI ridiedero per breve tempo a Roma il classico ruolo di capitale di un Sacro Romano Impero di vocazione missionaria e di aspirazioni ecumeniche. Ma Roma stessa, l'Italia e la Germania respinsero l'inattuale iniziativa, che si sovrapponeva a una realtà incompatibile con essa, caratterizzata da un'evoluzione politica pluralistica e non unitaria, nazionale o, nel caso dell'Italia, regionale o cittadina e non universale. Perciò la Renovatio Imperii s'interruppe alla morte del giovanissimo Ottone III (1002). Il suo successore Enrico II, ultimo imperatore della casa di Sassonia, si impegnò in Italia per più realistici obiettivi: conservare la corona del Regno italico, contesagli tra il 1002 e il 1014 da Arduino marchese d'Ivrea, che impersonava nel Nord la reazione del feudalesimo laico a quello ecclesiastico creato e potenziato dagli imperatori sassoni (ai vescovi, soprattutto, signori delle città); mantenere a Roma la difficile posizione di solidarietà con il papa; ritentare (invano) la conquista del Mezzogiorno bizantino. Enrico II, d'altra parte, si sentiva investito come il suo predecessore di una missione religiosa, per cui non solo fu generosissimo con il clero, ma fece proprie le istanze per la riforma del costume ecclesiastico, proposte già durante il sec. X dagli ambienti monastici più rigorosi (Cluny) e da questi largamente diffuse, e ora, nel generale risveglio religioso del secondo millennio, avviate a tradursi in azione normativa e, sia pure indirettamente (per gli interessi anche materiali che coinvolgevano e per la progressiva sensibilizzazione del popolo), in movimenti politici. Il Mille fu un secolo non solo di alta tensione religiosa, ma anche di intense passioni e iniziative civili: vi fu una grande crescita quantitativa e qualitativa della popolazione, una rifioritura dell'economia agraria e, grazie a una forte ripresa della produzione artigianale e del commercio, dell'economia cittadina, con le conseguenti tensioni e trasformazioni sociali, che misero in crisi i tradizionali rapporti di gerarchia nell'ordinamento feudale. Questo fu scosso da tumultuose richieste o usurpazioni di libertà, vale a dire di diritti o privilegi, da parte dei minori e degli esclusi: vassalli minori aspiranti a diminuire la loro distanza dai maggiori (e soddisfatti dalla Constitutio de feudis, data nel 1037 a Milano da Corrado II il Salico, primo imperatore della casa di Franconia); popolani economicamente avanzati aspiranti a posizioni politiche adeguate nella gestione degli affari locali; rustici aspiranti a liberi contratti sostitutivi di prestazioni di natura servile. Questi sommovimenti dal basso coinvolgevano anche la Chiesa (in particolare i vescovi delle maggiori città), che aveva largamente recepito l'impronta feudale e si trovava di fronte a esigenze opposte, di potenza mondana e di pura spiritualità, e anzitutto di una riforma morale secondo gli ideali evangelici, che la società reclamava dai suoi pastori in Italia più insistentemente che altrove. La componente religiosa è manifesta in alcune rilevanti vicende italiane del secolo, particolarmente incisive sul corso futuro della storia: Genova e Pisa nelle acque sarde e corse, Venezia nell'Adriatico, gettano le basi dei loro imperi marittimi, militari e mercantili, sotto i segni della guerra contro gli infedeli; i milanesi danno un precoce esempio di solidarietà sociale, che preannuncia la coscienza civica del Comune, di fronte a Corrado II il Salico, per lealtà alla tradizione ambrosiana impersonata nell'arcivescovo Ariberto (1037); gli avventurieri normanni infiltratisi nel Mezzogiorno, polarizzati intorno agli Altavilla, legittimano la loro progressiva conquista dell'Italia meridionale – continente e Sicilia – come servizio della Chiesa cattolica contro i Bizantini, scismatici dal 1054, e gli Arabi musulmani, e in pochi decenni, con la resa di Bari (1071) e degli ultimi baluardi siciliani (1102), e tra l'una e l'altra della longobarda Salerno (1078), unificano il Mezzogiorno in quel robusto complesso politico, con propaggini a Malta e in Albania, che sarà il Regno di Sicilia (1130), a S del Tronto e del Garigliano (con esclusione di Benevento papale). Al vertice, l'ultimo imperatore che si adoprò per la riaffermazione della politica sassone di tutela sul Papato periodicamente compromesso negli intrighi romani e per sollecitare la riforma disciplinare e morale della Chiesa fu Enrico III di Franconia, che promosse l'elezione di ben quattro papi germanici tra il 1046 e il 1054, tutti riformatori. Ma alla sua morte (1056), durante la quasi decennale minorità di suo figlio Enrico IV, l'iniziativa della riforma passò interamente al Papato e con il lorenese Stefano IX e i suoi successori italiani Niccolò II e Alessandro II, stimolati dai rigorosi teorici della riforma (Pier Damiani, Umberto di Silvacandida, sopra tutti Ildebrando da Soana, il futuro Gregorio VII), andò radicalizzandosi in una politica di totale emancipazione della Chiesa (libertas Ecclesiae). Momenti salienti furono: l'esclusione dell'imperatore dall'elezione papale (con Niccolò II, 1059); la rigorosa condanna della simonia, estesa a qualsiasi investitura ecclesiastica data da laici, compreso l'imperatore creatore di vescovi-conti; l'imposizione del celibato ecclesiastico; l'incoraggiamento dei movimenti popolari (particolarmente accesi a Milano e a Firenze, sotto il nome di pataria) contro vescovi e sacerdoti non allineati (con Alessandro II e dopo di lui con Gregorio VII); la proclamazione infine, da parte di Gregorio VII, non solo dell'assoluta libertas della Chiesa, ma del primato del papa sull'imperatore e su tutti i principi della Terra, del Sacerdotium sul Regnum, del clero sul laicato. Ciò significava netta frattura tra i due sommi poteri e le relative gerarchie, cioè il preciso rovesciamento della politica degli imperatori sassoni, intesa alla loro intima compenetrazione nell'ideale unità della Res publica christiana. La conseguente guerra per la supremazia tra Papato e Impero (detta restrittivamente “delle investiture” perché oggetto immediato della contesa era il diritto di conferire le investiture spirituali, che la Chiesa rivendicava come appartenente a essa sola, con l'esclusione dell'imperatore e a fortiori di ogni altro laico) agitò per quasi mezzo secolo (1076-1122) tutta la cristianità occidentale (regnanti gli ultimi due imperatori della casa di Franconia, Enrico IV ed Enrico V, e il papa Gregorio VII e i suoi successori, tra i quali emersero Urbano II, Pasquale II e Callisto II, contestati da una serie di antipapi); ma i suoi campi di battaglia furono la Germania e l'Italia. Qui combatterono per il papa Matilde di Canossa, marchesa di Toscana, e i Normanni di Sicilia, per l'imperatore gran parte dei signori laici ed ecclesiastici dell'alta e media Italia, senza peraltro una linea costante. A Canossa Enrico IV, scomunicato e deposto, si umiliò ai piedi di Gregorio VII (1077), ma più tardi si prese una grande rivincita attaccandolo a Roma e costringendolo all'esilio senza ritorno nella normanna Salerno (1084). Rivincita sterile, tuttavia, cui seguirono meno successi che rovesci politici e militari e le ribellioni dei figli, prima Corrado, complici Milano e altre città padane (1093), poi Enrico (V), che lo fece abdicare (1106); e tra le due ribellioni, per iniziativa di un papa gregoriano, Urbano II, quella straordinaria prova di forza del Papato che fu la prima crociata. Enrico V tuttavia sfiorò una grande vittoria a spese di papa Pasquale II, disposto a sacrificare qualsiasi interesse temporale a patto di riservare esclusivamente a sé le investiture spirituali, e costretto con la forza a cedere anche su questo punto (1111); credette inoltre di poter disporre della Toscana, impugnando il testamento di Matilde di Canossa (m. 1115) a favore della Chiesa, e di crearsi punti di forza nelle città toscane e padane concedendo a esse larghe autonomie; si sforzò di tenere in pugno Roma. Ma dovette adattarsi infine a un compromesso, concludendo con Callisto II quel Concordato di Worms (1122) che accordava bensì all'imperatore precisi diritti nella creazione dei vescovi-conti e degli abati-conti, ma riservava esclusivamente al papa l'investitura spirituale, spogliando così il potere imperiale del suo tradizionale carattere carismatico. La libertas Ecclesiae perseguita dai riformatori e in particolare da Gregorio VII trovava nel concordato una precisa sanzione.

Storia: il Comune

Nel mezzo secolo della lotta delle investiture l'Italia si arricchì di nuove, molteplici esperienze, che trasformarono profondamente la mentalità e i modi di vita e diedero origine a nuove forme di convivenza civile e di attività politica. Nella Valle Padana e in Toscana prima e più diffusamente che altrove, la società cittadina, sotto lo stimolo di élites di origine piccolo-nobiliare (rari ancora gli elementi d'origine popolana, qualificati dalla ricchezza acquisita con la produzione e il commercio), si organizzò nei Comuni: la cittadinanza, l'universitas civium, rappresentata dai consoli elettivi, si affiancò ai vescovi e finì con il sostituirli nell'amministrazione della cosa pubblica, ora per progressive usurpazioni ora per privilegi imperiali. Con ciò gli antichi feudi comitali di origine franca si trasformarono, nelle regioni più urbanizzate e pertanto di più intenso sviluppo economico e culturale, in costellazioni di città autonome, tendenti alla piena indipendenza e all'espansione sulle campagne circostanti, e rivali tra loro per ambizioni di egemonia. Emergevano in Lombardia, Milano, in Toscana, superando Lucca (capitale dell'antica marca), Firenze, in Emilia, Parma e Bologna. Contemporaneamente la crociata apriva larghe prospettive di espansione commerciale (e culturale e politica) alle città marinare, Pisa, Genova e Venezia, e al Mezzogiorno unificato dai Normanni. La crociata vitalizzò gradualmente l'economia di tutto il Paese e contribuì a far lievitare la nascente borghesia – il “popolo” medievale –, destinata a sopravanzare nobiltà e clero e a trasformare, con le sue esigenze e con il suo concetto della vita, prima la società cittadina, poi quella rurale, essa pure orientata verso le forme del Comune. Il processo verso la città-Stato, tipico dell'alta e media Italia (ma non rigorosamente limitato a tali regioni), fu favorito da un buon venticinquennio di carenza di potere, nell'Impero, dalla morte di Enrico V (1125), ultimo imperatore della casa di Franconia, all'avvento di Federico I di Svevia, il Barbarossa (1152), e nel Papato, coinvolto nelle lotte di successione all'Impero, da un insidioso scisma (1130-38) e dalla rivolta di Roma, dove, regnando Innocenzo II, venne instaurato il Comune cittadino, con una impronta nettamente popolare, antinobiliare e antiecclesiastica e una veste classicheggiante (Renovatio Senatus, 1143); tra gli animatori, Arnaldo da Brescia, che nel nuovo esperimento politico-sociale infuse il fervore di un ideale evangelico di riforma della Chiesa. Le vicende romane portarono a intese tra il Papato e l'Impero, entrambi stretti dalla necessità di arrestare un pericoloso declino dei loro poteri: Federico Barbarossa, venuto in Italia nel 1154, dopo essersi reso conto delle gravi lesioni inferte ai suoi diritti e redditi (regalia iura, regalie) dai Comuni padani di fatto indipendenti e averne punito esemplarmente alcuni, come Tortona, liberò da Arnaldo (che finì sul rogo) papa Adriano IV e fu da lui incoronato a Roma (1155). Sulla via del ritorno, manifestò le sue intenzioni di ricondurre l'Italia all'obbedienza seminando il terrore, da Spoleto incendiata a Milano messa al bando. Ma Federico I aveva un preciso programma di restaurazione imperiale, tanto idealmente legato alle memorie di Ottone I, di Carlo Magno e persino di Giustiniano, rievocato nella sua grandezza di legislatore dai giuristi della scuola bolognese, quanto realisticamente impegnato a rivendicare e recuperare le regalie largamente usurpate dai Comuni padani, i più potenti e numerosi (quelli toscani ne fruivano almeno parzialmente in forza di legittimi privilegi). E con la Dieta di Roncaglia del 1158, in cui espose il suo programma in termini ultimativi e incontrò una quasi generale resistenza, aprì le ostilità. Nella lunga guerra che seguì, la fortuna dell'imperatore, dopo un impressionante successo iniziale, la distruzione di Milano (1162), voluta tuttavia meno da lui che dalle città rivali (Pavia, Cremona, Como, Novara), andò complessivamente declinando per la crescente capacità difensiva e offensiva dei Comuni, uniti nella prima Lega Lombarda (1167), frutto di una diffidente, ma pur efficace solidarietà di fronte al pericolo, patrocinata da papa Alessandro III e appoggiata dal re Guglielmo II di Sicilia e dall'imperatore bizantino Manuele I Comneno, e per l'inadeguato sostegno dato dalla Germania alla politica italiana dello svevo. Sconfitto nella battaglia di Legnano (1176) dai milanesi e dai loro collegati (che salutarono il fatto come una vittoria “della Chiesa e dell'Italia”), l'imperatore fece la pace con il papa e con il re di Sicilia (Venezia, 1177) e, dopo sei anni di tregua spesi in laboriose e insidiose trattative, con i Comuni della Lega, ancora robusta malgrado alcune defezioni; fu questa la Pace di Costanza (1183), con la quale l'imperatore riconobbe (nella forma rituale di concessione per privilegio) come legittimo alle singole città della Lega il possesso di quelle regalie per le quali aveva tanto combattuto e consacrò così la piena autonomia dei Comuni nel quadro dell'Impero, riservando a sé soltanto alcune prerogative sovrane, che caddero presto in desuetudine, come reliquie di un ordine feudale, in cui i Comuni si riconoscevano sempre meno. Ma quasi a compenso del suo mancato successo nell'Italia settentrionale, il Barbarossa riuscì ad assicurare alla casa di Svevia il regno di Sicilia, vassallo della Chiesa, grazie al matrimonio di suo figlio Enrico VI con Costanza d'Altavilla (1186), destinata a ereditarlo da Guglielmo II (1189). Morto il Barbarossa alla terza crociata (1190), Enrico VI s'impose con la forza nel regno stroncando la resistenza legittimistica oppostagli da Tancredi di Lecce, di sangue normanno, e avviò poi un'irruente politica di affermazione in Lombardia, in Toscana, nei domini pontifici delle Marche e dell'Umbria, intesa a porre tutta l'Italia sotto il suo governo diretto e a isolare Roma accerchiata; e solo la sua morte prematura (1197) interruppe il corso di questa restaurazione, che sarebbe stata ripresa più tardi da suo figlio Federico II, allora di soli tre anni.

Storia: il Papato nel Medioevo

Nella contrastata successione di Enrico VI nei regni di Germania e d'Italia e nell'Impero fu arbitro Innocenzo III (1198-1216), il papa che, esercitando un'autorità senza pari nell'intransigente, esclusivo servizio degli interessi sia religiosi (nella linea ecumenica e disciplinare), sia politici (nella linea teocratica) della Chiesa, portò il Papato medievale all'apogeo. Condizione irrinunciabile di questa affermazione, la disponibilità dell'Italia, vale a dire smantellamento delle posizioni imperiali in Romagna, in Toscana, in Umbria e nelle Marche (ricondotte, queste due ultime regioni, sotto il diretto dominio pontificio), sottomissione del Comune di Roma, libero gioco, ma controllato, degli altri Comuni padani e toscani e, obiettivo prioritario, regno di Sicilia vassallo, epurato dalle presenze tedesche o filotedesche portate da Enrico VI e rigorosamente separato dall'Impero, per scongiurare un eventuale accerchiamento. Per costruirsi una così fatta piattaforma, Innocenzo III diede il suo appoggio alla candidatura dapprima del guelfo Ottone IV di Brunswick contro il ghibellino Filippo di Svevia (fratello di Enrico VI), poi, tradito dal primo e scomparso il secondo, a Federico II, già re di Sicilia, confidando nella lealtà del giovane svevo, suo pupillo e vassallo, che gli prometteva di rinunciare alla Sicilia quando avesse avuto l'Impero (1212). Federico II trionfò su Ottone IV (1214) e Innocenzo III, dopo aver celebrato il concilio ecumenico del 1215, una delle pietre miliari della storia della Chiesa, morì nella presunzione di aver raggiunto i più alti obiettivi religiosi (sui quali qui non si insiste) e politici perseguiti. Ma la realtà apparentemente inalveata dall'energico pontefice non tardò a straripare. Nei Comuni, al relativo equilibrio interno tra i ceti dirigenti e alla relativa solidarietà nella lotta contro il Barbarossa erano succedute tensioni e guerre civili e reciproche continue sopraffazioni, nelle quali andava acquistando ruolo di protagonista il popolo e di antagonista la nobiltà. Era una vera e propria rivoluzione sociale e politica in atto, tanto più profonda quanto meno spettacolare, che alterava le originarie strutture costituzionali dei Comuni (influenza politica crescente delle corporazioni o arti, istituzione della magistratura unica del podestà al di sopra o in luogo dei consoli ecc.) e le loro direttive d'azione (espansione territoriale o della sfera di influenza conforme agli interessi economici). La deviazione della quarta crociata su Costantinopoli e l'Impero bizantino (1202-04), che trasformò un'impresa religiosa, voluta da Innocenzo III, in un imponente affare mercantile per i veneziani, può valere come emblema di una nuova mentalità laica, con un suo mito della potenza fondata sulla ricchezza, coesistente e contrastante con la pur sempre viva religiosità tradizionale. A riscontro infatti, e in precisa opposizione, i nuovi ordini mendicanti, germinati al tempo di Innocenzo III, ma fioriti dopo, incarnavano l'esaltazione della povertà evangelica; come, più dei dotti predicatori domenicani, i frati minori di san Francesco d'Assisi per la loro immediata comunicazione con la gente più umile e per il loro esempio vivente di una pratica della fede tanto diversa da quella di una Chiesa troppo invischiata nel mondo; e infine le frange estremiste ereticali, catari, valdesi e molti altri. Tutto ciò s'agitava nell'Italia comunale; ma anche nel Regno di Sicilia il passaggio dalla dinastia normanna a quella sveva e le pressioni di Innocenzo III per renderne sempre più stretto il vincolo vassallatico provocarono profondi risentimenti e turbamenti nella composita società siculo-normanna, greca, araba e germanica del Mezzogiorno. Il nodo siciliano fu sciolto da Federico II di Svevia, re di Sicilia e, nonostante la preclusione papale, insieme imperatore (1220). Il geniale svevo volle fare del regno, e in particolare dell'isola, nel cuore del Mediterraneo mai come allora denso dei traffici tra l'Oriente e l'Occidente aperti dalle crociate, il cardine di quello che fu l'ultimo revival imperiale. E dopo le schermaglie con i Comuni della rinnovata Lega Lombarda (1226), le defatiganti negoziazioni per la pace con Onorio III, i primi duri scontri con Gregorio IX, l'incruenta crociata infine, che gli procurò il regno di Gerusalemme (1229), diede al Regno di Sicilia un ordinamento politico originale, autoritario e centralizzato, fortemente restrittivo dei privilegi feudali e delle autonomie cittadine, agguerrito per terra e per mare, teso a un rilancio economico di carattere dirigistico (questo, in effetti, poco efficace) e illuminato da una feconda politica culturale, aperta e spregiudicata. Le Costituzioni di Melfi (1231), legge fondamentale dello Stato, l'Università di Napoli, il brillante convegno di dotti di ogni nazione, tendenza e disciplina presso la Magna Curia di Palermo, le opere di pubblica utilità e di magnificenza promosse in tutto il territorio, tutto ciò sollevò Federico II su un piano quasi leggendario e lo circonfuse ancor vivo di un alone di stupita leggenda: Cesare redivivo? Anticristo? Ma quando si adoprò per estendere a tutta l'Italia un regime analogo a quello del regno, malgrado l'alleanza di molte forze ghibelline (Bonifacio di Monferrato, Ezzelino da Romano, Comuni quali Pisa, Siena, Cremona, Parma, Modena), si scontrò con le più agguerrite e ricche forze guelfe, chiamate a raccolta da Gregorio IX e Innocenzo IV (i Comuni padani della Lega, con Milano alla testa, i guelfi toscani, disarticolati ma tenacissimi, Genova e Venezia con le loro flotte) e infiammate da una veemente propaganda religiosa, quasi si trattasse di combattere una crociata. Federico II si batté da soldato e diplomatico di gran classe e con le grandi vittorie di Cortenuova sui milanesi (1237) e del Giglio sui genovesi (1241) sfiorò il pieno successo. Ma, con la definitiva solenne scomunica (Lione, 1245), sopravvennero le defezioni e i rovesci (Parma, 1248; Fossalta, 1249), l'estenuazione delle risorse, i tradimenti, la fine (1250).

Storia: la crisi imperiale e la fine del Comune

L'Impero entrava in una crisi senza sbocco; per l'Italia, sovrastata dal Papato, incominciava, o meglio giungeva a piena maturità, un'“età guelfa”: si faceva guelfa Firenze, dove per la prima volta s'imponeva nel governo quel “popolo” che con le industrie e i commerci aveva fatto della città una potenza economica paragonabile solo a Venezia e, assimilati a eretici e come tali perseguitati con spirito di crociata, cadevano a uno a uno i capi ghibellini epigoni di Federico II, da Ezzelino da Romano, leader del ghibellinismo padano (1259), a Manfredi, figlio di Federico II, avventurosamente insediato nel Regno di Sicilia, dove per alcuni anni (1258-66) tenne accese le non inerti speranze dei ghibellini di ogni parte d'Italia. Per abbatterlo ed estirpare con lui per sempre la pianta sveva, un pontefice francese, Urbano IV, offerse, e un altro pontefice francese, Clemente IV, diede la corona del Regno di Sicilia come feudo della Chiesa a Carlo d'Angiò, fratello di Luigi IX re di Francia, allora la più forte monarchia occidentale; e Carlo d'Angiò, incoronato a Roma e di Roma creato senatore (ciò che gli conferiva la tutela del papa), conquistò il regno con una breve guerra, nella quale Manfredi cadde combattendo (Benevento, 1266). La successiva spedizione di Corradino, l'adolescente nipote di Federico II catturato e giustiziato da Carlo d'Angiò (1268), suggellò tragicamente una situazione ormai decisa. Firenze, Roma e la nuova capitale del regno, Napoli (potenza finanziaria, autorità religiosa, prestigio politico e militare) costituirono in Italia una salda dorsale guelfa, con la Francia a copertura invece che la Germania in stato di quasi anarchia e il Sacro Romano Impero vacante dalla morte di Federico II. Questo sistema pareva avviato ad allargare il già ampio respiro dell'Italia nel Mediterraneo, in concorso, o in concorrenza, con gli imperi di Venezia e di Genova in Oriente, particolarmente avvantaggiata quest'ultima dalla restaurazione greca a Costantinopoli (1261). Ma, oltre che dissidi interni, la rivolta dei Vespri Siciliani contro Carlo d'Angiò (1282) e la successiva guerra, che staccò la Sicilia dal continente e la inserì nell'orbita aragonese, indebolirono gravemente il regno e il sistema politico di cui era uno dei cardini; ciò che favorì le tendenze centrifughe, vale a dire le manifestazioni di indipendenza e le ambizioni di potenza dei Comuni maggiori padani e toscani. Per di più poco dopo, con il fallimento della prova di forza tra papa Bonifacio VIII, l'ultimo e più spregiudicato assertore della teocrazia, e Filippo IV il Bello, il primo e non meno spregiudicato assertore dell'assolutismo della regalità nazionale, Roma cessò di essere la sede del Papato, che dal 1305 al 1377 fu in Francia (dal 1309 ad Avignone), e anche nei territori della Chiesa trionfò il più incoerente particolarismo. Ma nella seconda metà del sec. XIII e nei primi anni del sec. XIV l'Italia di Dante, di Giotto, di Marco Polo, linguisticamente e culturalmente avanzata verso l'unità quanto politicamente orientata nella direzione opposta, raggiungeva la massima efficienza economica ponendosi al primo posto in Europa; i ceti promotori di questa floridezza costituivano ormai la classe dirigente, determinando la politica interna ed esterna delle rispettive patrie, le città-Stato, alla cui prosperità concorreva largamente la gente dei campi, inserita, in condizione di subordinazione, nel complesso circuito produttivo cittadino. Ragioni economiche furono decisive nel processo di transizione dal Comune alla Signoria, per esempioa Milano e a Verona, dove il “popolo” sollevò, rispettivamente, le famiglie Della Torre (rovesciata poi dai Visconti) e Della Scala; portarono, a Firenze, alla caduta dei magnati e al governo diretto della borghesia mercantile (1282); alla guerra tra Genova e Pisa, che si concluse con la definitiva rovina di quest'ultima (1284); a una serie di guerre tra Genova e Venezia, che nel complesso subì i maggiori danni e che si costituì allora in repubblica oligarchica, dominata da un patriziato esclusivo di origini mercantili (1297). Che l'Italia dell'età comunale al tramonto, ricca e splendida ma senza pace, potesse essere pacificata e composta nell'unità da un imperatore forte e giusto, fu l'illusione di Dante e di pochi altri esclusi dal gioco politico, dissipata dall'infelice spedizione di Enrico VII di Lussemburgo (1310-13), il primo imperatore riapparso in Italia dopo la morte di Federico II (1250) e l'ultimo a credere nella missione imperiale.

Storia: il XIV secolo

Già nel secondo decennio del sec. XIV l'economia italiana (e non solo italiana) mutava segno e cominciava la serie delle carestie, dei tracolli d'imprese, delle epidemie, che culminarono nella peste nera del 1348, poi episodicamente ricorrente. Nelle calamità la miseria della gente più umile, sfruttata e ignorata, levò le sue prime, infelici e soffocate proteste. Nella prima metà del sec. XIV, tra i vari Stati primeggiò il Regno di Sicilia (ma in effetti di Napoli, essendo ormai la Sicilia aragonese) grazie al prestigio del re Roberto d'Angiò (1309-43), patrono dei guelfi di tutta Italia, tutore dei domini della Chiesa in assenza dei papi, protettore generosamente rimunerato di Firenze, dotto e magnifico, riverito da Petrarca. Ma alla sua morte la pressoché secolare crisi di successione che sconvolse il regno mise a nudo la fragilità politica, economica e sociale dello Stato, ancora dominato da una feudalità riottosa, che ne perpetuava l'atonia civile, specialmente nelle campagne. In Toscana, Firenze guelfa e borghese, mentre cercava tra continue lotte interne un assetto adeguato alla sua società varia, mutevole, inquieta, doveva difendersi dalle insidie dei persistenti focolai ghibellini di Lucca, Pisa (ma questa ormai depressa dalla sconfitta ricevuta da Genova nel 1284 e dall'occupazione aragonese della Sardegna nel 1324) e Siena, pagando caro il patrocinio angioino e subiva, poco prima della grande peste, le conseguenze del fallimento delle sue maggiori banche e i primissimi tumulti proletari. Da oltre Appennino puntavano sulla Toscana anche le due più potenti signorie padane, i Visconti di Milano e gli Scaligeri di Verona, concorrenti per un'egemonia per impedire la quale Venezia fece le sue prime conquiste in terraferma a spese degli Scaligeri (Treviso, 1339), con l'aiuto di Firenze e dei Visconti. S'iniziava così quel processo di espansione dei veneziani verso ovest e dei milanesi verso est che, eliminate le minori signorie venete (Scaligeri di Verona, Carraresi di Padova) e semiparalizzate le contigue (Estensi di Ferrara, Gonzaga di Mantova), avrebbe portato le due maggiori potenze ad affrontarsi in implacabili guerre. Genova, oltre ai problemi antichi e nuovi dell'Oriente e alla connessa rivalità con Venezia, era coinvolta nei conflitti franco-angioini-aragonesi nel Mediterraneo occidentale e alle sue spalle si evolvevano situazioni nuove e minacciose: dall'espansionismo visconteo e dal crescente interessamento dei Savoia, ormai bloccati dalla Francia nelle loro ambizioni transalpine, al Piemonte, in contrasto con gli Angioini (che vi avevano alcune propaggini) e con i marchesi del Monferrato e di Saluzzo, e anche alla Riviera (Nizza divenne sabauda nel 1388). Tra il 1327 e il 1333 l'Italia subì due incursioni di mera rapina provenienti d'oltre le Alpi: quella di Ludovico IV il Bavaro (1327-30) che, in spregio del papa avignonese Giovanni XXII, suo avversario implacabile, si fece incoronare a Roma dal popolo in Campidoglio (1328) con un inedito rito laico ispirato alla dottrina di Marsilio da Padova, e nominò anche antipapa uno di quei fraticelli francescani che professavano l'estremismo ascetico e mistico già caro un tempo a Celestino V, il papa del “gran rifiuto”, e ora al bando dalla Chiesa; e quella di Giovanni di Boemia (1330-33), figlio di Enrico VII, avventuriero puro, privo di alcun titolo per occuparsi della penisola, ma illuso, lusingato e infine deluso e scacciato da gran parte degli stessi suoi fautori italiani. Nel 1347 fu la volta della rivoluzione romana di Cola di Rienzo, densa di significati economico-sociali (rivalutazione del popolo contro i nobili) e politici (rivalutazione di Roma e delle sue tradizioni classiche, protesta contro il malgoverno e la diserzione dei papi), ma presto degenerata e dissolta, stimolo tuttavia alla ricostruzione degli Stati della Chiesa curata dal cardinale Egidio Albornoz (1354-67) e al ritorno a Roma dei papi (1377). Nella seconda metà del Trecento il policentrismo politico dell'Italia andò radicalizzandosi, ma in un numero minore di Stati più ampi e più forti e rivali e concorrenti per l'egemonia. All'avanguardia, lo Stato di Milano che, dall'arcivescovo e signore Giovanni Visconti al primo duca Gian Galeazzo, tra il 1350 e il 1402, straripò impetuosamente fuori della Lombardia, giungendo, sia pure temporaneamente, a Bologna e a Genova, poi a Verona, Vicenza, Padova e Treviso, in area d'interesse veneziano, e a Pisa, Siena, Perugia, Assisi, in area d'interesse fiorentino e pontificio. Non senza dure opposizioni, superate tuttavia con l'impiego, allora generalizzato, di compagnie di ventura e di spregiudicati quanto espertissimi condottieri, con la diplomazia e con l'insidia: tutto sommato, con il denaro, profuso altresì in opere di pubblica utilità, d'arte e di magnificenza, come l'Università e la Certosa di Pavia e il Duomo di Milano. La straordinaria fortuna viscontea fu favorita da situazioni esterne fluttuanti o senz'altro precarie. La Repubblica di Venezia, appena avviata la sua espansione in terraferma, fu impegnata in due guerre contro Genova (1350-54 e 1378-81), che misero in gioco non solo il suo impero commerciale in Oriente ma anche, la seconda (la “guerra di Chioggia”), la sua stessa incolumità. Uscitane salva, si trovò nella necessità di svolgere una più attiva politica continentale e, per frenare i progressi verso il mare degli Scaligeri di Verona e dei Carraresi di Padova, solidarizzò contro costoro con i Visconti di Milano. Quanto a Firenze, proprio negli anni del più temibile balzo visconteo, attraversava la duplice crisi di una guerra con il papa reduce da Avignone (guerra degli “otto santi”) e, alla fine di questa, del tumulto dei Ciompi (1378), la prima grande rivolta proletaria indotta dalla dittatura economica e politica borghese; rivolta, dopo effimeri successi, soffocata e seguita da oltre mezzo secolo di oligarchia borghese (1382-1434), nel quale si dissolsero, insieme con le aspirazioni dei ceti più umili, le superstiti libertà comunali. I disegni di egemonia di Firenze oligarchica sulla Toscana, di cui è esempio insigne la sottomissione di Arezzo (1384), furono a fine secolo tenacemente sventati da Gian Galeazzo Visconti. Negli Stati della Chiesa, la ricostruzione del cardinale Albornoz, se predispose un risoluto ritorno a Roma della sede papale con Gregorio XI (1377), non ebbe tempo di fruttificare per l'aprirsi dello scisma d'Occidente (1378), che vi portò guerra, accentuato frazionamento in signorie locali, aggressioni come terra di agevole conquista, asservimento finanziario (ai banchieri fiorentini) e deperimento economico; una situazione di cui Roma stessa sofferse. Il Regno di Napoli, leader fino alla morte del prestigioso re Roberto (1343), con la sua erede Giovanna I precipitò nel caos per le lotte fra i tre rami della casa d'Angiò (d'Ungheria, di Durazzo e di Taranto), che scatenarono l'anarchia o brigantaggio dei baroni e richiamarono rapaci milizie mercenarie italiane e straniere, prostrando un Paese già economicamente depresso e socialmente dissestato. Nel 1372, a novant'anni dai Vespri, cessò la guerra mai spenta del tutto per togliere nuovamente agli Aragonesi la Sicilia, anch'essa senza pace interna; ma in occasione dello scisma, altri conflitti, legati a quelli dinastici, si accesero tra il regno e il Papato, a spese del quale infine il re Ladislao di Durazzo s'impose su Roma e su tutti i domini della Chiesa. Ma questo straordinario ed effimero rilancio avvenne, nel primo quindicennio del sec. XV, entro un quadro politico generale molto diverso da quello trecentesco.

Storia: le lotte tra gli Stati italiani

Caduta d'un colpo con la morte di Gian Galeazzo (1402) l'egemonia viscontea e ridotto il Ducato di Milano alla Lombardia, insorsero numerose signorie locali e, ciò che è ben più rilevante, Venezia avanzava rapidamente, eliminando per sempre Scaligeri e Carraresi, nel Padovano, nel Vicentino, nel Veronese, mentre il papa raggiungeva Bologna; Firenze conquistava Pisa (1406), e Genova entrava in orbita francese. La convulsa gara tra gli Stati italiani per trarre profitto dal rovescio visconteo, che interessava l'intera penisola, assunse una più precisa configurazione politica quando il Ducato di Milano passò dall'imbelle Giovanni Maria Visconti a suo fratello Filippo Maria (1412-47), che intraprese, sulle orme del padre Gian Galeazzo, la ricostruzione e la riconquista; e in un decennio ricompose il ducato da Vercelli a Brescia e da Alessandria a Parma e ottenne la signoria su Genova. Ma si scontrò allora con Venezia, per cui i domini di terraferma erano ormai divenuti una fonte indispensabile di sopravvivenza, e con Firenze alleata di Venezia: le due grandi potenze mercantili esigevano almeno libertà di transito per la valle del Po. Si combatterono perciò contro Filippo Maria tre guerre, il cui risultato più importante fu l'espansione di Venezia fino a Brescia e a Bergamo (1428). Ma, contemporaneamente, Firenze cresceva di prestigio e di potenza con la fine del regime oligarchico e l'avvento della signoria di fatto di Cosimo de' Medici (1434), uomo di punta del nuovo e più agguerrito manipolo di mercanti e banchieri formatosi dopo la crisi del sec. XIV; gli Stati della Chiesa, chiuso lo scisma (1418), risalivano lentamente la china; nel Regno di Napoli, morta senza figli Giovanna II d'Angiò-Durazzo (1435), sui pretendenti Angioini di Francia prevaleva, designato dalla stessa regina e, con un clamoroso rovesciamento di alleanze, aiutato da Filippo Maria Visconti, Alfonso V re d'Aragona, di Sardegna e di Sicilia (1442) così che tutta l'Italia meridionale e insulare a eccezione della Corsica genovese rientrava nel circuito politico iberico, con conseguenze rilevantissime per la storia futura di tutta l'Italia, anzi di tutta l'Europa. Alla morte di Filippo Maria (1447), con il quale si estinse la dinastia viscontea, l'aristocrazia di Milano rivendicò le antiche e desuete libertà comunali, proclamando la Repubblica ambrosiana, e analoghe esperienze furono promosse in altre città, così che il ducato fu di nuovo sul punto di disgregarsi. Si fecero allora avanti per spartirselo i veneziani da una parte e dall'altra il duca Ludovico di Savoia, già da tempo insediato a Vercelli (1427), mentre avanzavano rivendicazioni a vario titolo il duca Carlo d'Orléans, il re Alfonso d'Aragona, il marchese Giovanni di Monferrato. Ma tra tutti finì con l'aver ragione Francesco Sforza, genero di Filippo Maria, condottiero e politico di gran classe, che Milano repubblicana ebbe dapprima come difensore, poi come aggressore e infine, per spontanea dedizione, come signore, anzi, per acclamazione, quindi illegalmente, come duca (1450). Venezia insistette nella guerra, ma perdette la preziosa alleanza di Firenze, che Cosimo de' Medici le tolse e accordò allo Sforza, giudicando nefasta per la sua patria un'eventuale egemonia veneziana nell'Italia settentrionale quanto lo era stata quella viscontea. Questa svolta politica, che si ripercosse anche sugli altri avversari dello Sforza, smorzò in breve gli ardori guerreschi, mentre la notizia della caduta di Costantinopoli nelle mani di Maometto II (1453) e il conseguente appello di papa Niccolò V alla pace e alla meditazione sul pericolo che incalzava la cristianità affrettarono un accordo tra Venezia e Milano, nella persona di Francesco Sforza, che consacrò come confine tra i due Stati l'Adda, con qualche eccezione di scarso rilievo (Pace di Lodi, 1454). Seguì, sempre sotto l'egida del papa, un patto di non aggressione e di mutuo appoggio tra Milano, Venezia, Firenze, Roma e Napoli, i cinque Stati maggiori, “per la pace e la quiete dell'Italia e per la difesa della santa fede cristiana”, cui aderirono via via gli Stati minori. Si iniziò in tal modo la cosiddetta “politica dell'equilibrio”, unica alternativa ai vani ed estenuanti tentativi di conquista o quanto meno di durevole egemonia su tutta la penisola fatti da Napoli o Milano o Venezia. Il sistema dell'equilibrio si resse per quarant'anni (1454-94) e Firenze – con Cosimo de' Medici e poi con Lorenzo il Magnifico – ne fu il cardine. La relativa solidarietà tra i cinque Stati più forti salvaguardò la penisola da interventi stranieri (la “libertà d'Italia”), ancorché per il momento non prevedibili. Le apparizioni degli imperatori nella seconda metà del sec. XIV e nel sec. XV, non ebbero infatti alcun fine di conquista o di affermazione; Alfonso V di Aragona, dopo la conquista, si stabilì a Napoli e la antepose alla sua patria e il suo successore, l'illegittimo Ferdinando I, erede della sola corona di Napoli, fu un principe schiettamente italiano; da parte francese, le rivendicazioni angioine per Napoli e orleanesi per Milano non destavano più, o non ancora, allarmi. Ma alla solidarietà verso l'esterno non ne corrispondeva una altrettanto salda all'interno: le inestinguibili ambizioni di egemonia dei singoli Stati riaffiorarono infatti in una serie di episodi che misero in crisi equilibrio e pace: la congiura dei Pazzi a Firenze (1478), la progettata spartizione del ducato estense di Ferrara (1482-84), la Congiura dei baroni nel Regno di Napoli (1484-86) sboccarono in atti di guerra tra i leader d'Italia, che la diplomazia fiorentina contribuì con estrema maestria a smorzare.

Storia: il XVI secolo

La crisi dell'equilibrio politico in Italia tra gli Aragonesi di Napoli, la Firenze medicea, gli Sforza di Milano, il Papato rinascimentale e nepotista a Roma precipitava per il dinamismo degli Stati europei: l'Italia diveniva possibile oggetto di dominio o almeno zona d'intrigo per Francia, Spagna, per gli Asburgo, per la stessa lontana Inghilterra: per tale predominio nella penisola si combatterono le più grosse guerre del sec. XVI. La prima a impegnarvisi fu la Francia di Carlo VIII che, con il motivo ufficiale della crociata e con l'alleanza di Ludovico il Moro, contando sull'appoggio a Roma degli avversari di Alessandro VI Borgia e la fiacchezza di Piero de' Medici a Firenze, conquistava il Napoletano (1494). Ma una coalizione si serrava intorno ai francesi, obbligandoli a ritirarsi oltralpe. La Francia, con Luigi XII, ritentava con successo l'impresa, stavolta puntando su Milano, per discendenze da un Visconti, previ accordi con Venezia, con Alessandro VI a favore del figlio Cesare, che così avviava la creazione di un Ducato di Romagna, con gli stessi svizzeri al servizio del Moro (1500-12), spartendo quindi il Napoletano con gli Aragonesi: ma per poco (1501-03), restando poi esso, e per due secoli (1503-1713), spagnolo, con già la Sicilia e la Sardegna. L'intervento straniero di Asburgo e Francia era mobilitato nuovamente da papa Giulio II della Rovere contro Venezia (Lega di Cambrai, 1508-10) con la partecipazione anche di Inghilterra e Ungheria; esso era mantenuto sotto insegna antifrancese addirittura come Lega Santa (1511-13) per via del concilio scismatico convocato a Pisa da Luigi XII, subito contrastato da quello Lateranense (1512). L'Italia veniva così perduta dai francesi per l'azione concomitante e concentrata di veneziani, Imperiali, svizzeri e spagnoli. Per poco, però: il nuovo re di Francia, Francesco I, si riconciliava con il nuovo papa Leone X e riprendeva l'iniziativa egemonica in Italia riconquistando Milano (1515), ma perdeva la partita con il nuovo imperatore Carlo V d'Asburgo a Pavia (1525) nonostante la Lega di Cognac contro Spagna e Impero (1526) di Milano, Firenze, papa Clemente VII. Il “sacco” di Roma (1527), la Pace di Cambrai (1529), il Congresso di Bologna (1530) con l'incoronazione di Carlo V segnavano il predominio di Spagna-Impero con il Milanese nuovamente agli Sforza, ma sotto tutela imperiale, e il Napoletano confermato alla corona di Spagna, Firenze repubblicana (1512-29) ridotta con forze imperiali di nuovo sotto la signoria dei Medici (1530). Francesco I ritentava la conquista del Milanese con le armi e con la diplomazia valorizzando le irrequietudini interne di Firenze, di Lucca (1540), di Genova (congiura dei Fieschi, 1547) oltreché l'alleanza con i Turchi e l'insoddisfazione di Paolo III Farnese per Carlo V, con qualche successo ma senza esito finale. Analogo tentativo faceva il figlio Enrico II (1547-59) appoggiandosi pur esso su propensioni antispagnole e antimperiali del papa e avvalorando la resistenza antimedicea e antispagnola di Siena (1552-56), mentre stavolta Genova appoggiava la Spagna: il tutto nel quadro di più vaste azioni belliche in Europa e nel Mediterraneo. L'egemonia ispano-asburgica subiva in Italia un'ulteriore minaccia per l'iniziativa papale di Paolo IV Carafa che, alleandosi con la Francia di Enrico II, metteva in moto gli alleati di questa, Turchi e protestanti, su più vasto scacchiere, e così apriva lo Stato papale all'invasione da sud delle truppe spagnole di Filippo II. La Pace di Cateau-Cambrésis (1559) sigillava il predominio spagnolo in Italia (Milanese, Napoletano, Sicilia e Sardegna, i presidi già di Siena), ma anche la presenza francese (Marchesato di Saluzzo). Nella penisola, in questo quadro politico-territoriale, si consolidavano le nuove dinastie dei Medici a Firenze, dei Farnese a Parma e Piacenza, dei Gonzaga a Mantova e anche nel Monferrato. La vita politica e culturale, con l'egemonia spagnola non più contrastata da iniziative e resistenze appoggiate dalla Francia in crisi, e per di più sotto l'insegna della repressiva Controriforma, si veniva affievolendo. Il Papato accentuò il suo carattere di guida spirituale sia nella riforma interna (Concilio di Trento, 1545-63) sia nell'azione di contenimento e di riconquista del protestantesimo in Italia e fuori, in questo valorizzando uomini e istituzioni italiani, come pure nelle missioni extraeuropee (Pio V, Gregorio XIII), talora (Sisto V) impegnandosi energicamente anche nel governo dello Stato papale. Tutti gli Stati d'Italia intrecciarono relazioni con quelli maggiori d'Europa, sostenendo i loro particolari interessi marittimi e commerciali come Venezia, Genova, Firenze, in consapevole solidarietà soprattutto nel difendersi dai Barbareschi, inserendosi così anche con matrimoni (Medici con i Valois e poi con i Borbone di Francia) nel sistema politico europeo in formazione. Le lettere e le arti, già ispirate a un gioioso individualismo, ora erano costrette in un'atmosfera di severi canoni formali ed etici. Lo stile rinascimentale cedeva il passo al barocco con contenuti di ispirazione religioso-controriformistica, ma anche mondani. La vita di società era attiva, ma diventava sempre più privilegio dei ceti dominanti. La ricchezza, già mercantile, cominciava a preferire e ricercare l'impiego agrario e con esso talora, mediante l'acquisto di feudi, anche dignità e privilegio nobiliari.

Storia: gli spagnoli in Italia

Durante il predominio spagnolo l'assetto territoriale dell'Italia subiva modifiche di minor rilievo: dopo Ferrara (1598) anche Urbino veniva restituita al territorio pontificio (1631); il Piemonte sabaudo aveva avuto Saluzzo (1601); Mantova e Monferrato ricevevano nuove dinastie (1631), mentre la Valtellina, dopo una rivolta appoggiata dalla Spagna, rimaneva dei Grigioni con garanzie di libertà religiosa (1629). Però gli Stati d'Italia venivano pur sempre investiti, anche se in minore misura, dai conflitti in cui era implicata la Spagna: sia nei domini della corona per pressioni fiscali in vista di reclutamenti di milizie, sia per la necessità dei principi di schierarsi per l'uno o per l'altro dei contendenti. La Francia di Luigi XIV riusciva a soppiantare in numerose corti l'influsso di Madrid avviata alla decadenza. I vari Stati, pur tendendo tutti alla struttura assolutistica od oligarchica, mantennero ordinamenti interni della tradizione comunale. Negli stessi vicereami spagnoli di Napoli e Sicilia sopravvivevano istituzioni rappresentative (“Parlamenti”, “Bracci”), che però erano usate dai ceti locali a difesa del privilegio economico e sociale, determinando impacci e squilibri nella vita economica e sociale e anche rivolte (Masaniello a Napoli, 1647). Più efficienti gli organi locali nel Ducato di Milano. Alquanto simile a quella del Milanese la situazione della Toscana medicea e quella di Genova, piegata alla volontà del Re Sole dal bombardamento della flotta francese (1680). Più attiva la politica interna ma anche quella internazionale del Piemonte sotto Carlo Emanuele I con iniziative dapprima antifrancesi e poi antispagnole (Monferrato, Valtellina, Mantova). Ne risultarono un quasi vassallaggio francese e una guerra civile da cui lo Stato sabaudo si riprese a fine secolo con Vittorio Amedeo II che seppe creare nei suoi domini un'organizzazione accentrata sul modello delle maggiori monarchie europee. Dimensioni europee ebbe pure la politica di Venezia, provata nel prestigio e nelle risorse finanziarie dalla lunga guerra di Candia: però essa si riprese nelle coalizioni antiturche con Papato, Asburgo, Polonia. L'attività artistica, letteraria, musicale sotto l'insegna del barocco manteneva la sua vivacità, anche per la circolazione di uomini e libri tra i diversi Stati italiani e stranieri, nonché per il fervore delle accademie collegate al movimento culturale europeo. Pur essendo ostacolato dalla censura della Chiesa e dello Stato, il dibattito sulle idee portava a significativi progressi tra l'altro nella fondazione della “nuova scienza” di G. Galilei e della sua scuola.

Storia: il XVIII secolo

Agli inizi del Settecento la struttura politica dell'Italia era caratterizzata dall'assolutismo dei sovrani, sia pure con qualche eccezione nell'Italia settentrionale. La situazione economica ristagnava per arretratezze nelle tecniche di produzione e di commercio. La miseria diffusa era accompagnata dal brigantaggio sulla terraferma e dalla pirateria di musulmani e cristiani sul mare. Qualcosa di nuovo, tuttavia, si stava verificando, poiché l'Europa più progradita cominciava a seguire l'esempio di Inghilterra e Francia. I numerosi Stati dell'Italia continuavano a essere più oggetti che soggetti nel gioco della politica internazionale e gravitavano sull'uno o sull'altro dei grandi centri d'attrazione, sulla Vienna degli Asburgo o le regge dei Borbone, che con la Pace di Utrecht erano presenti non solo a Versailles, ma pure a Madrid. La preoccupazione del controllo dell'Italia, in concreto delle sue corti, rimaneva un problema centrale dell'equilibrio europeo. Durante la guerra di successione spagnola l'Italia era stata percorsa da eserciti nostrani e stranieri in funzione delle alleanze, talora discontinue, delle sue corti, dei Savoia, dei Medici, degli Estensi. Le paci di Utrecht e di Rastatt (1713-14) avevano sanzionato la sostituzione, alla corona di Spagna, degli Asburgo d'Austria in Lombardia, nel Regno di Napoli, in Sardegna con incremento in territorio e prestigio, mentre i Savoia ottenevano, con la Sicilia, la corona di re. L'insoddisfazione di Elisabetta Farnese, moglie di Filippo V di Spagna, trovava nel cardinale piacentino Alberoni il programmatore audace di una rottura dei trattati suddetti; ma la reazione di una quadruplice alleanza nel 1718 bloccava tale tentativo. La Farnese però otteneva per il figlio Parma e Piacenza e l'aspettativa sul Granducato di Toscana, dove stava per spegnersi la dinastia medicea, mentre i Savoia dovevano adattarsi a ricevere la Sardegna in cambio della Sicilia, che era attribuita agli Asburgo (Pace dell'Aia, 1720). Le ulteriori guerre di successione (quella polacca, 1731-38, e ancor più quella austriaca, 1741-48) determinavano anche in Italia nuove combinazioni di alleanze, nuove devastazioni, nuovi assestamenti, tutti sanzionati dalla Pace di Aquisgrana (1748). In virtù di questa l'Italia risultava politicamente divisa in tre parti: l'una direttamente (il Milanese) o indirettamente (Firenze con la nuova dinastia degli Asburgo-Lorena, Modena con gli Asburgo-Este) nella sfera di potere o d'influenza di Vienna; una seconda “borbonica”, con due infanti di Spagna insediati sui troni di Napoli-Sicilia e Parma-Piacenza; una terza era l'Italia dei vecchi Stati, tra cui emergeva quello sabaudo ampliato a est di altre foglie del “carciofo lombardo”, accresciuto in prestigio internazionale, rafforzato da un riordinamento interno sulla linea del dispotismo paternalistico. La stabilità politica seguita al 1748 stimolava ovunque sviluppi nella vita civile, nelle attività economiche, nella cultura sotto l'influsso degli intensificati rapporti con l'Europa dell'Illuminismo. La diffusione delle nuove dottrine e delle “riforme” da esse ispirate fu assai disuguale per le diverse condizioni degli Stati d'Italia; tuttavia il dispotismo illuminato dava l'avvio a una trasformazione incisiva in diverse zone dell'Italia, da considerarsi premessa lontana del Risorgimento. Di conseguenza, le relazioni con la cultura europea si facevano più vivaci e continue. La penisola non era più soltanto centro del mondo cattolico nell'ambito religioso, ma diveniva uno dei nuclei della cultura illuministica, offrendo suoi contributi al grande movimento politico-culturale e ispirando riforme politico-amministrative ed ecclesiastiche non solo nella Lombardia di Maria Teresa e di Giuseppe II, ma pure a Modena e Parma, nella Toscana di Pietro Leopoldo, nella Napoli di Tanucci, ma con minore incisività. Nella stessa Roma al tradizionale mecenatismo artistico e culturale s'affiancava sotto Benedetto XIV Lambertini e con Pio VI Braschi l'apertura alle esigenze riformistiche in campo amministrativo ed economico. Invece i principi sabaudi, fedeli al sistema del governo burocratico-militaresco diffidente della libertà di espressione, rimanevano in sostanza estranei al moto culturale dell'Europa cosmopolita.

Storia: l’Italia napoleonica

In Italia il dispiegarsi della Rivoluzione francese provocava insieme una crisi del riformismo dei principi e il manifestarsi di gruppi giacobini che univano presto alle aspirazioni rinnovatrici in campo politico-sociale quella dell'unificazione nazionale. Deluse dalla politica spoliatrice degli eserciti di Francia in Savoia e a Nizza, le speranze dei giacobini si ravvivarono nel 1796 all'arrivo del generale Napoleone Bonaparte salutato come “liberatore” perché più aperto a tali aspirazioni sociali e nazionali. Nasceva così in un'assemblea di patrioti di città dell'Emilia l'idea di una Repubblica Cispadana alleata a quella francese con proprio esercito e propria bandiera, il tricolore verde-bianco-rosso (gennaio 1797). Intanto Bonaparte aveva imposto al re di Sardegna la cessione di Nizza e Savoia alla Francia, aveva battuto gli austriaci, imposto le proprie condizioni ai duchi di Parma e di Modena, nonché a Pio VI, compresa un'indennità di guerra in denaro e in opere d'arte, aggravando le condizioni nella Pace di Tolentino (febbraio 1797). Nella Lombardia sgombrata dagli austriaci veniva costituita la Repubblica Cisalpina con il confine all'Adige in virtù del sacrificio dello Stato della laguna (Pace di Campoformido, 1797). La Repubblica Cisalpina, come le similari Repubbliche Ligure, Romana e Napoletana (1798-99), rappresentava l'esperienza delle nuove idee e forze politico-culturali affiorate al potere. Esse però, con i regimi filofrancesi di Toscana e Piemonte, venivano travolte di lì a poco dal ritorno offensivo austro-russo in coordinazione con forze popolari ostili a Milano, Roma, Napoli. Ma la riapparizione vittoriosa di Bonaparte, ora primo console, che travolgeva le forze austriache della seconda coalizione imponendo, in concomitanza con l'esercito del Reno, il Trattato di Lunéville (1801), permetteva il ricostituirsi della Repubblica Cisalpina, che diveniva ora Repubblica Italiana, e ai Borbone di Parma di divenire “re d'Etruria”. Ma altra ridistribuzione era riservata ai territori d'Italia nel quadro dell'Impero napoleonico (1805-14). L'intento era di mantenere la penisola soggetta all'Impero francese, sia pur provvedendo al suo sviluppo economico e civile, dando così soddisfazione iniziale a quanti attendevano da Napoleone l'unità politica e l'indipendenza dell'Italia. Nel Regno d'Italia allargato a E e a S vennero così favoriti con il miglioramento della viabilità i commerci, già promossi anche dall'introduzione del Codice napoleonico; la subordinazione dell'economia italiana agli interessi industriali francesi veniva però accentuata dal blocco continentale del 1806. Maggiore autonomia ebbe il Regno di Napoli, sia sotto il re Giuseppe Bonaparte sia sotto Gioacchino Murat, e anche più incisive riforme (abolizione del regime feudale, Codice napoleonico, istituzioni cautamente rappresentative, esercito nazionale). Nel 1810 tra i due regni d'Italia e Napoletano era incuneato in profondità l'Impero francese che si era annesso la Toscana e lo Stato Pontificio: rimaneva fuori la Sicilia sempre sotto i Borbone protetti dalla flotta inglese come pure la Sardegna sabauda. E questa semplificazione di confini facilitava gli interscambi in più vaste zone. Ma, nonostante questo, pure in Italia il sentimento nazionale si rivoltava contro il dispotismo napoleonico, sempre più oppressivo per le leve militari, la pressione fiscale, il blocco, gli arbitri, le prepotenze (per esempio nei riguardi di papa Pio VII). Di questo approfittarono gli austriaci nella grande, decisiva controffensiva del 1813-14, annunciandosi anch'essi quali liberatori dallo straniero e fautori dell'unità italiana. Invano il viceré Eugenio di Beauharnais cercava di conservare il regno: gli antifrancesi prevalevano sui suoi fautori e Milano veniva rioccupata dagli austriaci. Nel contempo a Torino rientrava dalla Sardegna Vittorio Emanuele I, a Roma dall'esilio coatto Pio VII e così gli altri principi avviando la Restaurazione. Più tenace la resistenza, insieme politico-diplomatica e militare, di Murat a Napoli, che già nel 1813 si era dissociato da Napoleone e che inalberava addirittura il programma dell'unità durante i Cento Giorni del ritorno di Napoleone al potere (proclama di Rimini, 30 marzo 1815). Ma egli pure travolto dalle armi doveva sgombrare a favore di Ferdinando IV di Borbone e un tentativo di ritorno si concludeva con la sua cattura e fucilazione (ottobre 1815).

Storia: Restaurazione e primi moti

Le rilevanti innovazioni napoleoniche, ispirate a esigenze economiche, oltreché politico-dinastiche e strategiche, lasciavano le loro impronte anche negli Stati anterivoluzione restaurati con le decisioni stabilite dal Congresso di Vienna (1815). Dalle unificazioni realizzate nel Regno d'Italia traeva vantaggio l'Austria mantenendo un Regno Lombardo-Veneto, e in esso talune riforme assieme a corpi rappresentativi (le Delegazioni), pur reintroducendo il Codice austriaco. Nella Restaurazione dei Lorenesi in Toscana riemergevano le tradizioni del riformismo leopoldino e mite era pure, per ragioni diverse, l'assolutismo reintegrato da Maria Luisa d'Austria (la madre del “Re di Roma” Napoleone II ora duca di Reichstadt), di Luisa di Borbone a Lucca, pur sotto il controllo della corte di Vienna. Più radicale la reazione alle istituzioni, alle idee, agli uomini del periodo francese a Modena e Reggio con Francesco IV d'Austria-Este; come pure nei domini dei Savoia, inoltre accresciuti dal Genovesato, al ritorno di Vittorio Emanuele I. Diverse istituzioni napoleoniche aveva dovuto conservare nel Napoletano Ferdinando IV di Borbone, pur non tardando a reintegrare in privilegi e beni i nobili e, con il concordato del 1818, anche la Chiesa. Assumendo poi il titolo di re delle Due Sicilie nel 1815 egli si illudeva di spezzare, con le tradizionali autonomie della Sicilia, anche le aspirazioni liberali in esse implicite che pure aveva lasciato sviluppare nell'isola durante il periodo napoleonico, anche per sollecitazione inglese. Nello Stato Pontificio la Restaurazione, dapprima sotto il cardinale Rivarola, significò reazione radicale alle istituzioni francesi e persecuzione dei loro fautori; in un secondo tempo però, con il più illuminato governo del cardinale Consalvi, essa valorizzò le esperienze del periodo napoleonico. Anche in politica estera Consalvi mantenne un certo distacco dal direttorio delle grandi potenze, tra l'altro rifiutando di aderire, oltreché alla Santa Alleanza, alla stessa Lega Italica progettata da Metternich. Il malcontento che fermentava a opera di ex ufficiali napoleonici, di ex funzionari filofrancesi, di liberi spiriti aveva una prima manifestazione nel 1820-21. Da Napoli, sotto la suggestione della rivoluzione di Spagna del gennaio 1820 e per iniziativa di “carbonari” muratiani, il moto si estendeva alla Sicilia, dove però le istanze autonomistiche del governo liberale formatosi a Napoli secondo la richiesta costituzione di modello spagnolo furono subito represse. Presto erano corse intese anche tra le società segrete di Lombardia, Romagna, Piemonte, dove raggiungevano persino un erede al trono, Carlo Alberto di Savoia-Carignano. Ma anche l'organo repressivo della Santa Alleanza si metteva in movimento: nel Congresso di Lubiana, con l'adesione dello spergiuro re Ferdinando, era decisa la repressione nel regno del Sud con truppe austriache (1821). Cosa analoga queste facevano per iniziativa del reggente Carlo Felice in Piemonte (aprile 1821). In Lombardia, a Modena, nello Stato Pontificio avrebbero completato l'azione repressiva polizia e tribunali nel 1823-24 (S. Pellico, P. Maroncelli, F. Confalonieri). La Rivoluzione francese del luglio 1830 spingeva nel 1831 nuovamente all'azione gruppi di carbonari, che facevano affidamento sulla Francia liberatrice, ma pare, con calcolo errato, anche su ambizioni dinastiche di Francesco IV di Modena: l'insurrezione dilagava da Modena e Reggio alle Legazioni e alle Marche, dove gli insorti creavano uno Stato delle province unite con governo provvisorio a Bologna. Nuovamente intervenivano le truppe austriache su richiesta del duca di Modena. Queste entravano poi ancora nelle Legazioni e nelle Marche quando i liberali, insoddisfatti delle riforme introdotte nell'amministrazione in seguito al memorandum delle potenze (21 maggio 1831), avevano ripreso le agitazioni. Ma stavolta a controbilanciare la presenza austriaca nello Stato Pontificio, sbarcavano ad Ancona forze francesi: e la duplice occupazione durò fino al 1835. Dal 1831, a fianco dell'iniziativa liberal-costituzionale e indipendentistica, appoggiata a principi e sostenuta dalla Carboneria, si dispiegarono dal basso quella democratico-repubblicana e rigorosamente unitaria di G. Mazzini e della sua Giovine Italia, società inserita presto nel più ambizioso quadro della Giovine Europa. Essa fece le sue prime esperienze, invero negative, in Piemonte (1834) partecipe Garibaldi, in Calabria nel 1844 con i fratelli Bandiera, poi in Romagna nel 1854. Tali azioni accentuavano la polemica politica e fornivano argomenti ai programmi moderati che prospettavano l'unità politica nella forma attenuata di una confederazione degli Stati esistenti, previe riforme interne che li modernizzassero nelle strutture, nella vita economica, nella cultura, e questo con il rilievo precipuo dell'elemento cattolico-papale nella tradizione nazionale in spirito neoguelfo (V. Gioberti, A. Rosmini, N. Tommaseo, M. D'Azeglio) e con riguardo alle possibilità offerte dal gioco dell'equilibrio delle potenze (C. Balbo). E non mancava un federalismo repubblicano (C. Cattaneo) con forte accento anticlericale (G. Ferrari), che era condiviso dai “neoghibellini” (G. Niccolini). A codesti moti e a codesti sviluppi di pensiero risorgimentale in concordia discors si contrapponevano sia la repressione poliziesca sia la polemica ideologicamente conservatrice, particolarmente impegnata nel fronteggiare il movimento mazziniano. E questo nel Sud sotto Ferdinando II, in Sicilia (1837), nello Stato Pontificio sotto Gregorio XVI, a Modena; mentre nel Lombardo-Veneto dal nuovo imperatore Ferdinando I erano elargite amnistie e in Toscana perdurava la tradizione leopoldina di buona amministrazione e di tolleranza. In Piemonte sotto Carlo Alberto si venivano intanto preparando gli uomini e i programmi che avrebbero fatto del regno subalpino la guida del moto risorgimentale nella direttiva liberale-moderata. Un impulso imprevisto veniva dato al movimento delle riforme dal nuovo papa Pio IX con amnistie per reati politici, con l'introduzione di laici nel governo, con la creazione di una Consulta di Stato, creando con ciò l'equivoco e il mito del papa “liberale”. Intanto si delineava nell'economia del Paese una crescita, sia pur lenta e graduale, della produzione industriale con la meccanizzazione delle imprese di tessitura e filatura; più invero nel Lombardo-Veneto e in Toscana e meno nello Stato Pontificio e nel Piemonte. Sostanzialmente rurale e a coltura estensiva rimaneva l'economia nel Sud con la proprietà terriera accentrata in latifondi. La cultura invece passando dal classicismo al romanticismo era in vigoroso sviluppo. L'Italia, già in fermento fin dal 1846-47 per le riforme di Pio IX e la loro valorizzazione da parte dei promotori di liberalismo e unità nazionale, veniva investita dal movimento rivoluzionario di fuori con sviluppi cui apportavano il loro contributo sia iniziative dall'alto (dei Savoia, di Pio IX, parzialmente dei Borbone di Napoli e dei Lorenesi di Toscana), sia iniziative popolari (di Mazzini, di Garibaldi, di Cattaneo con i democratici lombardi, di Montanelli e dei democratici toscani). Anche in Italia il biennio 1848-49 può essere distinto in due fasi: una prima di insurrezioni vittoriose e una seconda di rallentamento nei moti, di isolamento dei radicali e infine di eliminazione dei governi insurrezionali. Inoltre l'insuccesso delle correnti liberali e democratiche nella loro fase di potere, a Milano, in Toscana, a Napoli-Palermo, a Roma, con la confermata egemonia austriaca nella “seconda Restaurazione”, aprì la strada al costituzionalismo piemontese (D'Azeglio, Cavour), che dispiegava ardite iniziative tanto nelle innovazioni interne quanto nella politica estera in vista dell'ormai prossima indipendenza e dell'unità nazionale.

Storia: il 1848

Questo anno si caratterizza per la molteplicità dei centri e la multiformità delle forze che premono per il mutamento o addirittura per il rovesciamento dell'ordine esistente. Con il passare del tempo, alle richieste di libertà politica, di istituzioni rappresentative, di indipendenza e unità nazionale, si sono aggiunte istanze più radicali di rivendicazione del potere al popolo o addirittura socialiste di una nuova struttura economica e sociale. Però nel biennio sono gli interessi della borghesia che in prevalenza si fanno valere (libero commercio, sviluppo di strade, canali, ferrovie, espansione del capitale, applicazione delle macchine alla produzione artigianale). Già nel gennaio 1848 la Sicilia era insorta reclamando la Costituzione autonomistica del 1812 e Ferdinando II (1830-59) elargiva a Napoli il 29 gennaio una Costituzione. Carlo Alberto il 4 marzo 1848 pubblicava lo Statuto formando un governo costituzionale con a capo C. Balbo; già Leopoldo II di Toscana aveva concesso la richiesta Costituzione sul modello di quella francese del 1830; e pure Pio IX pubblicava una Costituzione (14 marzo), invero con disposizioni particolari. Per riflesso della rivoluzione di Vienna si agitava anche il Lombardo-Veneto come pure i ducati padani. I milanesi respingevano un editto imperiale che prevedeva rappresentanze di tutte le province in una dieta e, con lo stimolo e sotto la direzione di radicali democratici (Cattaneo), organizzavano la rivolta armata, obbligando gli austriaci a sgombrare la città (Cinque Giornate, 18-22 marzo). E con il ritiro delle truppe austriache anche i duchi di Parma e di Modena erano costretti a cedere ai rivoltosi. A dare man forte agli insorti lombardi organizzatisi rapidamente in milizie volontarie, interveniva Carlo Alberto inalberando il tricolore del Regno d'Italia, sia pure inserendovi la croce sabauda. La guerra antiaustriaca si proclamava guerra “nazionale” e a essa aderivano i governi costituzionali di Toscana e Napoli e, inizialmente, lo stesso Pio IX. Questi però, a breve scadenza, in un'allocuzione del 29 aprile, limitava la funzione delle truppe pontificie alla salvaguardia dei confini, pur consigliando a Vienna di rinunziare alle sue province di qua dalle Alpi. Intanto anche Venezia era stata sgombrata dagli Austriaci e aveva creato un governo provvisorio inalberando nuovamente l'insegna di San Marco su ispirazione di Manin. I successi militari di Carlo Alberto (Peschiera) e politici (il plebiscito di annessione al Piemonte) erano però di corta durata; sconfitto nel luglio a Custoza, nell'Armistizio Salasco si obbligava a sgomberare i ducati padani e a sciogliere i corpi di volontari lombardo-veneti. Queste vicende politico-militari, in cui si era inserito anche G. Garibaldi, accorso dall'America, avevano avuto immediate ripercussioni su quelle interne dei singoli Stati, dove i partiti si scontravano nei giornali, nei Parlamenti, nei comizi, propugnando i loro programmi: dal costituzionalismo moderato al radicalismo democratico-repubblicano, dal tradizionale municipalismo al federalismo giobertiano o addirittura all'unitarismo mazziniano, che sollecitava la “costituente italiana”, in cui i radicali senza volerlo facevano il gioco dei fautori dell'assolutismo. Infatti già nel maggio 1848 Ferdinando II scioglieva la Camera a Napoli, senza tuttavia, per il momento, piegare il separatismo siciliano; Pio IX, con l'assassinio del suo ministro costituzionale P. Rossi a opera di un popolano mazziniano (Ciceruacchio), vedeva infranto il suo tentativo di stabilire ordine nel quadro delle nuove istituzioni e abbandonava Roma per non contestare né subire le direttive del nuovo governo “democratico”. In tal modo i radicali mazziniani avevano mano libera: un triumvirato, Mazzini, Saffi e Armellini, convocava un'Assemblea Costituente romana, pensata come parte della Costituente italiana (febbraio 1849), che dichiarava decaduto il potere temporale dei papi e proclamava la Repubblica Romana. Una radicalizzazione analoga era avvenuta pure in Toscana con il governo di D. Guerrazzi, inducendo il granduca a raggiungere Pio IX nell'esilio di Gaeta (febbraio 1849). Anche a Torino falliva il moderatismo del governo Gioberti sia in politica interna sia in quella estera: i democratici con U. Rattazzi al governo imponevano la denunzia dell'armistizio con l'Austria, la ripresa delle ostilità, in coordinazione con l'insurrezione di Brescia (marzo 1849); ed esse si concludevano rapidamente con la sconfitta di Novara, l'abdicazione di Carlo Alberto, la successione di Vittorio Emanuele II che, pur accettando pesanti clausole militari e finanziarie, sapeva resistere alla richiesta di abolire lo Statuto (Pace di Torino, agosto 1849). Ne conseguiva la dura repressione di Brescia (Dieci Giornate) e anche la Repubblica di S. Marco, assediata, doveva, pur difesa da patrioti d'ogni regione, capitolare per la fame e per il colera (24 agosto 1849). La seconda Restaurazione procedeva rapida: nel maggio Palermo cedeva ai Borbone; in Toscana Leopoldo II, richiamato, era rientrato a Firenze con scorta austriaca; la Repubblica romana rimaneva isolata, divisa da fazioni, premuta dall'esterno dagli interventi chiesti dal papa alle potenze cattoliche (Napoli, Spagna, Austria e la Francia con Luigi Napoleone presidente). E alle forze francesi, la difesa, diretta da Garibaldi, doveva cedere il 1º luglio 1849. L'Italia sembrava così ritornata alla situazione del 1846: ma i fermenti e le esperienze del 1848-49 erano destinati a spezzare definitivamente anche la seconda Restaurazione di lì a un decennio.

Storia: la politica di Cavour

Nel 1849, dopo una fase di predominanza del radicalismo mazziniano, i vecchi regimi erano ritornati al potere in virtù delle forze conservatrici di fuori ma in collaborazione con quelle interne (fatta eccezione per lo Regno subalpino). La durezza delle repressioni e la dimostrazione di forza della polizia e degli eserciti, che Vienna controllava e coordinava, senza tuttavia riuscire nel progetto di una lega doganale sul modello di quella tedesca (1852), avevano come risposta un'intensificazione della propaganda mazziniana coordinata da fuori da un Comitato democratico europeo e attiva in comitati locali (a Mantova con E. Tazzoli, 1852; a Milano, con A. Sciesa, febbraio 1851; in Cadore, con P. F. Calvi, settembre 1853). Meno energica l'azione nei ducati padani, a Modena e Parma, anche per un certo ritorno di quei principi al riformismo paternalistico e per un certo distanziamento da Vienna. Vive le aspirazioni liberali in Toscana di fronte al governo decisamente reazionario di Leopoldo II, che aveva revocato la Costituzione e abbandonato il tradizionale giurisdizionalismo nel concordato del 1851 con Pio IX. Fortemente controllata l'opinione pubblica nello Stato Pontificio con un motu proprio di riforme, promesse, ma non applicate, e l'occupazione straniera austriaca e francese di buona parte del territorio. Il regime ierocratico si rivelava sempre meno conciliabile con le nuove idee e con le nuove istituzioni costituzionali e il mito di Pio IX liberale e generoso svaniva non solo negli animi degli intellettuali e borghesi già fautori del neoguelfismo, ma pure in gran parte del popolo. Anche l'azione di un Comitato nazionale romano di moderati in relazione con Torino era presto bloccata, mentre continuava l'iniziativa rivoluzionaria dei mazziniani nell'illegalità. A Napoli Ferdinando II riprendeva a governare dispoticamente, simpatizzando con il popolino, ma isolandosi dal ceto culturale del Paese: personalità come L. Settembrini, C. Poerio, S. Spaventa venivano duramente condannate per la loro attività nella società segreta Unità italiana (gennaio 1851 e ottobre 1852). All'isolamento del re nei rapporti con i sudditi si aggiungeva quello del regno sul piano internazionale, soprattutto nelle relazioni con l'Inghilterra (Due lettere di Gladstone sulle persecuzioni del governo napoletano) e con la Francia dal 1856. Anche qui ci fu un moto mazziniano (quello di C. Pisacane a Sapri, 1857), che venne di nuovo represso, determinando indirettamente una crisi nei rapporti con il governo di Torino. Così il Regno delle Due Sicilie, nonostante un forte impegno in lavori pubblici, si avviava alla crisi, persistendo pure il contrasto tra Napoli e Palermo, dove l'avversione ai Borbone era pressoché generale e cresceva la simpatia per il Piemonte. L'iniziativa indipendentistica e, subordinatamente, unitaria rimaneva pertanto con prospettive di concreta efficienza nel Piemonte costituzionale: esso si veniva preparando alla sua funzione italiana con la trasformazione delle sue strutture interne in senso liberale, sia in campo ecclesiastico e fiscale (leggi Siccardi-Rattazzi, 1855), sia in campo economico, sotto la salda direzione di C. Benso di Cavour e la sua maggioranza parlamentare di centrosinistra. Il Regno subalpino si inseriva poi, in vista delle aspirazioni indipendentistiche italiane, nella politica delle grandi potenze alleandosi con Francia e Inghilterra nella guerra antirussa di Crimea (1854-55) e tentando di inserire il problema italiano nell'ordine del giorno della Conferenza di Parigi (1856) in posizione nettamente antiasburgica. Miglior esito ebbero al riguardo gli Accordi di Plombières (1858) per una guerra all'Austria, che Cavour, eludendo la mediazione di pace inglese, si faceva dichiarare, rifiutando lo scioglimento dei corpi volontari intimato dall'Austria. Francesi e piemontesi riuscivano a riunirsi, a battere gli austriaci, a entrare trionfalmente accolti in Milano; e questo in coordinazione con i Cacciatori delle Alpi organizzati e comandati da Garibaldi. Intanto la Società nazionale d'ispirazione cavouriana, che accettava la direzione piemontese del movimento nazionale, provocava il crollo del regime granducale a Firenze e quello dei Borbone e degli Estensi a Parma e Modena, nonché del governo papale nelle Legazioni, dando vita ai governi provvisori di Ricasoli in Toscana, di Farini in Emilia, che subito chiedevano l'appoggio del Piemonte e vi si dichiaravano annessi, proclamando Vittorio Emanuele “dittatore”. Nelle Marche e in Umbria invece le insurrezioni venivano represse dai pontifici. Ma la guerra di liberazione, dopo le sanguinose battaglie a Solferino e San Martino (24 giugno 1859), veniva improvvisamente fermata dall'Armistizio di Villafranca (11 luglio 1859) concordato a due tra Francesco Giuseppe e Napoleone III e dalla successiva Pace di Zurigo (10 novembre 1859) senza consultazione del re subalpino. I sovrani di Modena, Parma, Firenze potevano ritornare sui loro troni (ma senza aiuto di fuori, come era avvenuto nel 1849) e l'Austria era ammessa nella prevista confederazione degli Stati d'Italia. Cavour dava le dimissioni, ma continuava ad alimentare l'azione clandestina contro le clausole dell'armistizio: ufficialmente i commissari sardi nei ducati e in Toscana erano ritirati dal nuovo governo Lamarmora-Rattazzi; ma questi vi rimanevano di fatto per voto di assemblee costituenti che rinnovavano l'annessione al Piemonte. Codesti avvenimenti mantenevano così aperta la questione italiana. Era quanto voleva Cavour, il quale, ritornato al potere (gennaio 1860), riusciva a convincere Napoleone III a riconoscere il diritto di autodecisione delle popolazioni (come già aveva fatto l'Inghilterra), sia pure cedendo quale contropartita Nizza e Savoia. E i plebisciti sanzionavano nel marzo 1860 le annessioni di Toscana, ducati e Legazioni al Regno subalpino.

Storia: da Garibaldi al Regno d’Italia

Gli avvenimenti politico-militari del Nord non tardavano a ripercuotersi nel Sud. Qui l'agitazione antiborbonica, sia tra intellettuali e borghesia sia tra i contadini, era esplosa in turbolenze alimentate dai mazziniani di Sicilia, specialmente a Palermo. Vi si inseriva la Società nazionale da fuori con F. Crispi e G. La Farina, organizzando la “spedizione dei Mille”, volontari sotto il comando di Garibaldi (maggio 1860), non senza l'aiuto finanziario piemontese e il tacito assenso di Cavour. La conquista della Sicilia era rapida per l'apporto dei contadini insorti (picciotti), per i decreti agrari di Garibaldi che accentuavano il carattere rivoluzionario e sociale dell'impresa, per lo sfaldamento dell'esercito borbonico. Ancor più facile l'ulteriore marcia su Napoli per l'entusiasmo delle popolazioni e la demoralizzazione dell'esercito borbonico. A Napoli il “prodittatore” veniva raggiunto da Mazzini che premeva per un'assemblea costituente in vista di uno Stato unitario repubblicano. Garibaldi dichiarava che il Regno unito d'Italia sotto Vittorio Emanuele l'avrebbe proclamato solo a Roma. Di fronte a questo, per riavere in mano l'iniziativa, Cavour, assicuratosi il consenso di Napoleone III, decideva l'intervento regio. Con il motivo di disordini in Umbria e nelle Marche papali, le faceva occupare (settembre 1860) e poco dopo (novembre) le chiamava con un plebiscito all'annessione. Le truppe piemontesi stringevano poi d'assedio Gaeta, ultimo fortilizio dei Borbone, quando già a Napoli e a Palermo era stato tenuto (21 ottobre 1860) il plebiscito per l'annessione a Torino. Tuttavia la battaglia diplomatica per ottenere il riconoscimento delle annessioni si presentava dura: però l'assenso, calcolato, inglese determinava quello, meno convinto, di Parigi. Nel febbraio del 1861 si poteva pertanto riunire il primo Parlamento con deputati di tutta l'Italia libera: esso proclamava (17 marzo 1861) il Regno d'Italia e per esso rivendicava subito Roma come capitale. L'unificazione così rapidamente attuata poneva al nuovo Stato un gran numero di problemi: un bilancio gravato di spese, dell'onere di debiti con il difficile reperimento di nuove entrate; l'ordine pubblico minacciato dal malcontento organizzato nel Sud, leggi, consuetudini, procedure giudiziarie assai differenti nelle diverse parti dello Stato; un diverso sviluppo economico e un diverso tenore di vita tra il Nord e il Sud. L'improvvisa morte di Cavour (giugno 1861) ne rendeva anche più difficile la soluzione. Lo Stato unitario si costituiva inoltre centralizzato a scapito di autonomie attese e senza riguardo alle tradizioni regionali. La pressione dei radicali per il completamento dell'unità con il Veneto e Roma, ispiratore Garibaldi, era forte e imponeva prese di posizione impopolari (Aspromonte, 1862). La questione romana del 1864 (convenzione di settembre) veniva accantonata per riguardo a Napoleone III: quella del Veneto era risolta, invero in modo insoddisfacente, inserendo l'Italia (1866) nella tensione tedesca tra Prussia e Austria, con l'alleanza italo-prussiana (anche per prevenire l'azione di forza progettata dalla sinistra mazziniana con Garibaldi). La sola Venezia Euganea era così annessa nell'ottobre 1866, sempre con plebiscito. Anche la questione romana maturava in connessione con la situazione internazionale, dopo il vano tentativo di ottenere da Pio IX la cessione pacifica di Roma al nuovo Stato unitario con la controparte di una politica ecclesiastica ispirata al principio enunciato da Cavour di “libera Chiesa in libero Stato”. La caduta di Napoleone III, protettore interessato del residuo di potere temporale dei papi, permetteva all'esercito regio l'azione di forza di porta Pia (20 settembre 1870). Questa soluzione militare doveva però attendere a lungo quella politica del riconoscimento internazionale. Pio IX infatti sospendeva il Concilio Vaticano I, si dichiarava prigioniero e non più in grado di esercitare liberamente le sue funzioni di reggitore della Chiesa universale, comminava nuovamente la scomunica sugli “usurpatori” dello Stato Pontificio e rifiutava per il contenuto, oltreché per il suo carattere unilaterale di disposizione non negoziata, la “legge delle guarentige” (maggio 1871). Questa, approvata non senza contrasti tra moderati e radicali, intendeva salvaguardare le prerogative del pontefice romano e della Santa Sede, mantenendo, per quanto riguardava le relazioni dello Stato con la Chiesa, il placet e l'exequatur dello Stato alla nomina di vescovi e parroci, lasciando inoltre sopravvivere le leggi eversive delle istituzioni e proprietà ecclesiastiche, riservando la nuova regolamentazione a ulteriore legge, che però non fu mai impostata fino al 1925.

Storia: la destra storica

L'unità territoriale si era realizzata con il consenso piuttosto passivo di una parte considerevole della classe dirigente nell'euforia del successo militare e politico del Piemonte: rimaneva da realizzare l'unità nell'amministrazione, nelle leggi e, più oltre, nella struttura economica, nel costume, nella cultura, nella mutua conoscenza e nella mutua estimazione. Occorreva radicare l'unità nelle coscienze con l'educazione e la cultura popolare, con la partecipazione più larga di ceti e gruppi alla vita dello Stato, alla determinazione dei suoi compiti e alla formulazione delle sue leggi. Ne dovevano essere premessa la scuola primaria obbligatoria e gratuita, l'allargamento del diritto di voto, il mitigamento delle esclusioni politiche. L'accentramento amministrativo contro le istanze autonomistiche avanzate tra gli altri da M. Minghetti e C. Farini si accompagnava all'uniformità legislativa, che era in sostanza rappresentata dall'estensione al resto dell'Italia delle leggi piemontesi. Bisognava fondere le economie di numerosi Stati che si erano sviluppate isolatamente, con proprie barriere doganali e differenti criteri d'imposizione tributaria. L'abolizione delle barriere interne danneggiò pertanto le industrie locali, specialmente nel Sud: tuttavia le costruzioni ferroviarie e il miglioramento della viabilità avviarono all'integrazione dell'economia prevalentemente agricola del Sud con quella sempre più industrializzata del Nord, mentre la Toscana sviluppava le sue tipiche manifatture e ne impiantava di nuove. Anche la navigazione si adeguava all'unità territoriale con il maggior movimento di merci e passeggeri, dando incremento all'industria dei cantieri navali, ancora agli inizi. Il credito affiancò lo sviluppo dell'economia, con larga partecipazione anche di capitale straniero. Nel sistema fiscale prevalevano tuttavia le imposte indirette sui generi di largo consumo rispetto a quelle dirette sui redditi. Perdurava il divario nel tenore di vita tra le zone industrializzate del Nord e quelle ad agricoltura, prevalentemente estensiva, del Meridione. E di questo lo Stato si rendeva consapevole attraverso inchieste parlamentari sulle condizioni di vita nelle campagne (inchiesta Jacini, 1876) e nelle industrie. Anche per merito della pressione dal basso delle organizzazioni operaie, confortata da un largo movimento di opinione pubblica, lo Stato si avviava sulla strada della legislazione sociale. Tuttavia, in seguito all'aumento della popolazione in misura superiore a quello dei mezzi di sussistenza diretti o indiretti, si determinò a partire dal 1880 il grande fenomeno dell'emigrazione in Europa e oltreoceano, che ha dato per alcuni anni una sua impronta alla vita economica nazionale, e non soltanto a quella. L'attività politico-legislativa e quella amministrativa locale erano consentite, come elettori ed eletti, solo a chi aveva un reddito, all'incirca solo al 2% della popolazione. Ma da quella politica rimanevano assenti anche quanti riluttavano in coscienza a riconoscere lo Stato unitario che aveva manomessi diritti dichiarati intangibili dalla Santa Sede e sviluppato una legislazione antiecclesiastica. Nel ceto, poi, che esercitava il potere, la maggioranza (di destra) considerava suo compito immediato il consolidamento delle istituzioni esistenti, il rafforzamento dello Stato in senso accentratore, il pareggio del bilancio. Ma tale politica era contestata da gruppi della borghesia intellettuale di formazione giacobina e mazziniana, che sollecitavano una laicizzazione più radicale per scuole e opere pie, che propugnavano un sistema tributario meno gravoso per le classi lavoratrici, nonché un allargamento del diritto di voto ai cittadini non abbienti, operai e artigiani: e questo nello spirito di Mazzini e di Saint-Simon in “patti di fratellanza”, ma anche in quello di K. Marx in società operaie esprimenti la solidarietà del proletariato nella lotta contro i detentori della ricchezza e del potere, ovvero, addirittura nello spirito ancor più radicale dell'anarchico M. A. Bakunin contro ogni forma di autorità e di disuguaglianza. Dei 600.000 iscritti nelle liste elettorali del 1871 (su 25 milioni) si presentarono alle urne solo i due terzi: e tra i non votanti erano facilmente avvertibili gli astensionisti (più nel Nord e nel Centro che nel Sud) per protesta contro la direttiva antipapale e anticlericale dello Stato. Il governo democratico e radicale della sinistra iniziato nel 1876 avviava a un allargamento del voto: nel 1882 gli elettori salivano al 10% pur venendo ridotti di nuovo da Crispi con una legge elettorale restrittiva (1887) al 7%. Nel 1892 si costituiva il Partito Socialista Italiano (PSI), con una rappresentanza parlamentare di uomini autorevoli. Nuovi problemi venivano così posti alla tribuna parlamentare come nei giornali e nei comizi. La critica socialista, poi, della società per le misere e insicure condizioni cui in essa erano ridotti operai, braccianti, piccoli coltivatori, era sempre più affiancata da quella di agguerrite cerchie cattoliche fuori del Parlamento, ma già attive nelle amministrazioni locali, in organizzazioni cooperative e assistenziali sulla scorta dell'enciclica Rerum Novarum di Leone XIII. Esse, coordinate nazionalmente in un'Opera dei Congressi cattolici, stavano preparando, pur nell'astensione dalle urne politiche imposta dal non expedit papale, l'azione politica organizzata. Ma lo scioglimento di associazioni socialiste, cattoliche e repubblicane ebbe per la formazione della coscienza nazionale l'effetto negativo di confermare in larghe cerchie della popolazione l'idea che lo Stato messo in vita dal Risorgimento fosse qualcosa di estraneo e di ostile alla povera gente e a istituzioni che essa aveva care. La destra storica, con i ministeri Lanza (1869-73) e Minghetti (1873-76) nel frattempo era riuscita a consolidare la situazione internazionale del giovane Regno, aveva portato al pareggio il bilancio, ma introducendo odiose imposte indirette (quella sul macinato), aveva ampliato la rete ferroviaria, impostandone inoltre il riscatto dal capitale straniero; aveva represso tentativi insurrezionali in Romagna e Toscana.

Storia: dall’ascesa della sinistra a Giolitti

Nel marzo 1876, su una questione di procedura, Minghetti era messo in minoranza e cedeva la direzione del governo alla sinistra guidata da A. Depretis, che fin dal 1871 ne aveva delineato il programma. Nel nuovo gabinetto entravano, tra gli altri, G. Nicotera e G. Zanardelli, mentre alla presidenza della nuova Camera era nominato Crispi. Il nuovo re Umberto I affidava la formazione del governo a B. Cairoli (1879-80); però Depretis ritornava presto e per ben sette anni al potere (1881-87), mettendosi in grado di far approvare da maggioranze combinate di volta in volta tra sinistra e opposizione (trasformismo) l'istruzione elementare obbligatoria e gratuita, la semplice facoltatività dell'insegnamento religioso, la riduzione delle imposte indirette e della tassa sul macinato, l'allargamento del diritto di voto a tutti quanti sapevano leggere e scrivere. In politica estera la sinistra s'impegnava nella Triplice Alleanza con Germania e Austria-Ungheria (1882) per rivalsa contro la Francia a Tunisi, ottenendo, nella rinnovazione del 1887, garanzie di compensi nel caso di modifica dello status quo nei Balcani o nel Mediterraneo. Più vivaci tensioni interne e maggiore attivismo nella politica estera erano aperte dal ministero di Crispi a carattere autoritario e imperialistico (1887-96) con l'intermezzo di un gabinetto Di Rudinì (1891-92) e del ministero Giolitti (1892-93); ma l'impresa d'Africa portava a un'umiliante sconfitta (Adua, 1896). Di Rudinì, richiamato (1896-98), riusciva a concludere la guerra con l'Abissinia e cercava di mitigare gli animi dei promotori delle agitazioni sociali, rudemente represse da Crispi in Sicilia e in Lunigiana, con amnistie. Ma a Milano, al fine di soffocare tumulti di operai e massaie per il rincaro del pane, si ricorreva all'autorità militare che sparava sulla folla e arrestava esponenti socialisti, repubblicani (1898) e cattolici (don Albertario, portavoce del movimento cattolico, insieme religioso, politico e sociale). Codesti “fatti di Milano” facevano cadere il ministero Di Rudinì: il suo reazionario successore, generale Pelloux (1898-1900), combattuto fieramente dalla Camera, lasciava infine il posto a G. Saracco (1900-01), non sgradito alle sinistre. Ma quanto fosse difficile placare le esasperazioni lo mostrava di lì a poco (29 luglio 1900) l'assassinio di Umberto I a Monza, per mano di un anarchico. Il giovane nuovo re Vittorio Emanuele III (1900-46) incaricava della formazione del governo G. Zanardelli (1901-03), che con G. Giolitti agli Interni e Prinetti agli Esteri avviava al decennio di potere di Giolitti (1903-14), caratterizzato da una nuova direttiva di governo e di amministrazione. Essa consisteva nell'inserire nel programma di governo le istanze delle opposizioni e nell'attrarre nell'orbita dell'azione legale, e quindi della collaborazione, i rappresentanti delle opposizioni più sensibili alle realizzazioni pratiche, isolando gli intransigenti (internazionalisti, anarchici, repubblicani). Ciò avveniva con l'ulteriore sviluppo della legislazione sociale, con la fondazione di un Consiglio superiore del lavoro (1906) di cui erano membri anche rappresentanti dei sindacati, di un Commissariato dell'emigrazione per l'assistenza agli emigrati, nonché grazie a un nuovo atteggiamento della forza pubblica e dei tribunali nei riguardi delle organizzazioni operaie e delle loro agitazioni per migliorare le loro condizioni di lavoro. Nel PSI si delineava, di fronte a questo, una corrente disposta ad accettare il metodo democratico per ottenere la soddisfazione delle aspirazioni delle masse. Anche nei riguardi dei cattolici intransigenti, già attivi nelle amministrazioni degli enti locali e di istituzioni sociali pubbliche, riusciva la tattica giolittiana, ottenendo che l'elettorato cattolico ubbidiente alle direttive della gerarchia sostenesse contro candidati socialisti candidati liberali, previo loro impegno di rispettare le istituzioni religiose (patto Gentiloni, 1913), senza però riaprire per questo e con questo la questione romana con la Santa Sede. In politica estera veniva attenuato da Giolitti il rigido triplicismo con un riavvicinamento alla Francia, che riconosceva ora gli interessi italiani in Africa. Così veniva preparata e attuata la conquista della Libia (1911-12) che rispondeva alle sollecitazioni della destra nazionalista (E. Corradini) per una politica espansionistica. Quasi a contrappeso di codesta politica militarista Giolitti nel 1913 promuoveva il suffragio universale maschile, in virtù del quale gli elettori politici salivano al 24%, per passare al 29% nel 1919. Ma l'inserzione delle nuove forze popolari non consentiva più al governo il tradizionale controllo delle elezioni e della Camera. L'avanzata dei socialisti e la presenza di cattolici spaventava la maggioranza dei deputati “ministeriali” che sollecitavano una politica più conservatrice. Il portavoce riconosciuto di tale esigenza, A. Salandra (1914-16), formava il nuovo governo, che rivelava subito la sua direttiva reprimendo duramente le agitazioni antimilitariste della “settimana rossa” (1914).

Storia: la Grande Guerra

La crisi internazionale che maturava poneva in primo piano i problemi di politica estera, riservata per consuetudine a cerchie ristrette di corte e di governo, senza partecipazione del Parlamento. Ed essi erano la neutralità o l'intervento e le condizioni dell'una e dell'altro; e anche questo, nel quadro degli accordi politico-militari esistenti o diversamente considerando le prospettive di un conflitto europeo di vaste proporzioni, presentito da molti come ineluttabile e che di fatto iniziava nei Balcani per estendersi rapidamente a tutta l'Europa nell'aprile 1914. Nel rapido susseguirsi delle dichiarazioni di ostilità, l'Italia aveva dichiarato la propria neutralità, ma per l'intervento premevano molteplici forze dall'esterno e dall'interno. Con maggior efficacia si muovevano i fautori dell'intervento a favore di Francia, Belgio e Gran Bretagna democratiche: radicali, massoneria, socialisti riformisti, l'ex socialista B. Mussolini, gli irredentisti trentini e triestini tra cui il socialista C. Battisti, ai quali presto si univano anche i nazionalisti con la vivace propaganda del poeta G. D'Annunzio. Larghe cerchie dell'opinione pubblica però rimanevano contrarie all'intervento: oltre ai socialisti per tradizione pacifisti, gran parte dei cattolici per avversione alla guerra e per solidarietà con le direttive papali di pace. Nel Parlamento la corrente giolittiana, che vi deteneva la maggioranza, era per una neutralità negoziata con l'Austria al fine di ottenere pacificamente, quale controparte, le terre irredente. Il governo Salandra, orientato in senso nazionalistico, autorizzava il ministro degli Esteri A. Paternò-Castello, marchese di San Giuliano, e poi S. Sonnino a trattare con Vienna e Berlino (ottobre 1914) per ottenere Trento e Trieste quale compenso per l'espansione dell'Austria-Ungheria nei Balcani. Al rifiuto di Vienna, nonostante le pressioni di Berlino, erano aperte trattative segrete con l'Intesa che si concludevano con il Patto di Londra (26 aprile 1915): il corrispettivo dell'intervento dell'Italia contro l'Austria (non contro la Germania, cosa che avverrà nel 1916) era il Trentino, l'Alto Adige fino al Brennero, Trieste e l'Istria, parte della Dalmazia esclusa Fiume, e altre terre nei Balcani e in Asia Minore a spese dell'Impero ottomano. Alla denunzia della Triplice la maggioranza del Parlamento si distanziava dal governo; ma a favore di questo si scatenavano manifestazioni di piazza e quando Salandra presentava le dimissioni, il re le respingeva coprendo con il prestigio della corona Salandra e la sua politica. Il lealismo monarchico prevaleva nella Camera, che accordava i pieni poteri richiesti, contrari i socialisti: e il governo dichiarava la guerra all'Austria il 24 maggio 1915. Cominciò così quella lunga guerra di logoramento che mutò volto nel 1916, quando la Germania, alleggerita sul fronte orientale dalla crisi russa, appoggiava gli austriaci in un'azione pensata decisiva sul fronte italiano. L'armata dell'Isonzo veniva travolta per aggiramento, aprendo la pianura (Caporetto, ottobre 1917); però il fronte era ristabilito sul Piave con rinforzi alleati e l'Italia rimaneva nell'Intesa, accettando la direzione strategica unitaria di un comando interalleato. Il Paese aveva reagito alla sconfitta di Caporetto e alle recriminazioni circa i responsabili (i generali o il disfattismo interno di socialisti e cattolici pacifisti?) con slancio patriottico intensificando anche l'apprestamento di uomini e mezzi. La controffensiva italiana dell'ottobre 1918 si trovava ancora di fronte un esercito combattivo e piegandolo con le armi (Armistizio di Villa Giusti, 4 novembre 1918) sigillava la dissoluzione dell'Impero asburgico. La politica estera era stata sempre coordinata a quella dell'Intesa sia nella dichiarazione di guerra anche alla Germania e ai suoi alleati, sia nella determinazione nei fini della guerra, come pure nella risposta all'appello di pace di papa Benedetto XV nel 1917, e nei riguardi della Rivoluzione russa e dei “14 punti” di Wilson. Nel giugno del 1916 Salandra aveva ceduto il posto a P. Boselli che aveva allargato il governo a cattolici e socialisti riformisti. Nel 1917 nella crisi di Caporetto la direzione del governo era assunta da V. E. Orlando con un impegno di unione nazionale e di resistenza patriottica, accettando più apertamente la politica interalleata. E Orlando rappresentò l'Italia a Parigi nella conferenza per la pace (1919).

Storia: la nascita del regime fascista

Nella Conferenza di Parigi l'Italia non ebbe difficoltà a ottenere nei confronti dell'Austria umiliata il confine del Brennero (Trattato di Saint-Germain-en-Laye, 10 settembre 1919): aveva incontrato invece l'opposizione del nuovo Stato dei Serbi-Croati-Sloveni la rivendicazione di Istria e Dalmazia, in particolare quella di Fiume, che si era dichiarata italiana e che D'Annunzio aveva occupato con volontari non senza intenzioni rivoluzionarie di maggiore portata contro il governo di F. S. Nitti, succeduto a Orlando nel giugno 1919. Il Trattato di Rapallo, negoziato laboriosamente in seguito da Giolitti, stabilì i confini con la Iugoslavia, riconoscendo a Fiume la condizione di “Città libera” (1920; un successivo compromesso nel 1924 con Mussolini ne dividerà il territorio tra Italia e Iugoslavia). Queste trattative di Parigi si erano svolte in un'atmosfera di vivaci tensioni interne, di recriminazioni (“la vittoria mutilata”), di aspettative rivoluzionarie, di insoddisfazioni diffuse. Il dopoguerra italiano presentava infatti con particolare accentuazione i problemi e le tensioni di quello degli altri paesi europei, usciti come l'Italia dalla guerra spossati, delusi, ansiosi: i reduci stentavano a riadattarsi alla vita civile, la riconversione delle industrie di guerra in industrie di pace era ardua, il bilancio era appesantito dai debiti di guerra e dall'onere del prezzo politico del pane. Le istituzioni, monarchia, governo, Parlamento, polizia, amministrazione pubblica, avevano perduto prestigio e fiducia. I vecchi partiti si erano logorati e ne avevano tratto vantaggio innanzitutto il PSI, critico delle istituzioni, della guerra, del sistema economico-sociale, ma anche il nuovo Partito Popolare Italiano (PPI), sorto nel gennaio 1919 per iniziativa di esponenti del movimento cattolico, anch'esso in posizione critica, ma meno radicale. Pure un movimento di ex combattenti, che esaltava l'azione a servizio dell'orgoglio nazionale (Fasci di combattimento), si attestava su una posizione critica. Il governo Orlando aveva ceduto alle correnti imperialistiche e lasciato inasprire la polemica interna sulla “vittoria mutilata” a Parigi. Il governo Nitti, che si presentava con più larga partecipazione di cattolici e socialisti riformisti (1919-giugno 1920), continuava a essere assillato, oltreché dalla questione di Fiume, da agitazioni operaie e contadine (occupazione delle terre), dall'aggravio del bilancio. Le elezioni del 1919, fatte con il sistema proporzionale, significavano per i liberali la perdita della maggioranza, per i socialisti con 156 deputati assurgere a maggiore gruppo di possibile maggioranza, per i 100 deputati popolari divenire gli arbitri di qualsiasi maggioranza. Giolitti, richiamato al potere, costituiva il nuovo governo, oltreché con liberali e democratici, con cattolici e socialisti riformisti. Lasciava sfogare agitazioni rivoluzionarie come l'occupazione delle fabbriche a Torino (1920) e l'usurpazione contadina di terre demaniali nel Sud, ma permetteva anche le violenze antisocialiste di squadre “fasciste”, cui venivano contrapposte “guardie rosse” e “avanguardie” di giovani cattolici. Le elezioni del 1921 deludevano le speranze di Giolitti di assicurarsi con esse una maggioranza che comprendesse nazionalisti e fascisti: socialisti e “popolari” infatti erano ritornati alla Camera con la stessa forza e le stesse esigenze. I governi del riformista I. Bonomi (luglio 1921-febbraio 1922) e del giolittiano L. Facta (febbraio-ottobre 1922) non riuscivano a restituire vigore e dignità allo Stato di fronte alla violenza faziosa e tracotante, che sembrava contare su tolleranze di polizia e magistratura, ed era finanziata da agrari e conservatori timorosi della rivoluzione socialista conclamata dai massimalisti di sinistra. Le istituzioni erano state infatti indebolite pure dall'interno con approcci dei fascisti alla monarchia, alle gerarchie ecclesiastiche, a generali e magistrati, sotto veste di difensori o restauratori dell'ordine. Allo sciopero generale proclamato dai sindacati e dal PSI contro lo squadrismo di fascisti e nazionalisti questi rispondevano provvedendo ostentatamente a servizi pubblici e affermando la propria volontà di conquistare il potere (Congresso di Napoli, luglio 1922). La loro “marcia su Roma” veniva bloccata alle porte dell'Urbe, ma il re rifiutava di firmare il decreto di stato d'assedio sottopostogli dal governo, prendeva contatto con B. Mussolini, rimasto a Milano, e gli affidava la formazione di un nuovo governo (28 ottobre 1922). Questo si presentava come “nazionale”, di pacificazione e di restaurazione dell'ordine, ottenendo l'approvazione di una legge che attribuiva al governo pieni poteri (novembre 1922); con essi venivano legalizzate le squadre d'azione come Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, e un Gran Consiglio del fascismo, sia pure solo con funzioni consultive, veniva inserito nello Stato quale organo della rivoluzione fascista; si ampliavano i poteri della polizia e si restringeva la libertà di stampa. Nuove elezioni nel 1924, per merito della nuova legge maggioritaria (aprile), assicuravano la maggioranza a liste “nazionali”; però le opposizioni (socialisti, popolari, liberaldemocratici) rivelavano, nonostante le intimidazioni e i brogli, un seguito rilevante: 2.373.632 su oltre 7 milioni di votanti. La denunzia di codeste violenze e di codesti brogli alla Camera costava al leader socialista G. Matteotti (1924) il rapimento e l'assassinio. La reazione a questo delitto era profonda alla Camera e nel Paese: al fine di imporre alla corona il licenziamento di Mussolini i deputati dell'opposizione abbandonavano Montecitorio; ma il re resisteva dando modo al fascismo di superare il proprio disorientamento e Mussolini, nel gennaio 1925, si sentiva in grado di dichiarare alle Camere che “governo e partito si assumevano tutta la responsabilità politica, morale e storica dell'accaduto”.

Storia: la politica di Mussolini dal 1925 al 1938

Al discorso di gennaio seguiva l'ulteriore fascistizzazione dello Stato con la soppressione di altre strutture liberali-democratiche risorgimentali. Sempre più autoritario e di polizia, esso sopprimeva di fatto la libertà di parola, di stampa, di riunione: per i delitti contro il capo dello Stato, ma anche contro il capo del governo, era ristabilita la pena di morte. Il principio corporativo della solidarietà delle classi si concretava nella loro subordinazione agli interessi superiori della nazione (carta del lavoro, 21 aprile 1927). Sindacati di datori e assuntori di lavoro unificati e privati di un reale potere affidarono a una magistratura del lavoro, con la proibizione di scioperi e serrate, la definizione delle controversie di lavoro. In un secondo tempo codesti sindacati confluirono in organi unitari, le “corporazioni”, chiamate ad assicurare la solidarietà dei fattori della produzione in funzione della direttiva politico-economica del governo. Tale politica economica e finanziaria era stata ed era ispirata a idee di prestigio, autosufficienza, statalismo con il controllo delle attività economiche (rivalutazione della lira, 1926; “battaglia del grano”, migrazioni interne, lavori pubblici, anche di scavi archeologici a esaltazione della romanità). Le difficoltà di industrie siderurgiche, meccaniche, cantieristiche, nonché la crisi di solvibilità di molte banche offrivano al governo il destro di intervenire in loro favore, ma assumendone il controllo, con il trasferire le azioni di maggioranza a enti pubblici di gestione (IRI, IMI), avviando a un'indiretta nazionalizzazione dell'economia. Ne risultavano rafforzate le strutture monopolistiche che per di più rimanevano nelle mani delle vecchie dinastie industriali, opportunisticamente inseritesi nelle gerarchie fasciste. In linea con la sua antitesi allo Stato liberale era anche la politica ecclesiastica di Mussolini con l'intento dichiarato di risolvere la “questione romana” anche per prestigio interno ed esterno. La soluzione in realtà era matura, dopo che i cattolici avevano dimostrato il loro lealismo nei riguardi dello Stato unitario durante la guerra e nel PPI; e aperture erano state fatte da Orlando nel 1919. Con i popolari all'opposizione Mussolini aveva un motivo in più per intendersi direttamente con la Santa Sede. L'intesa era poi predisposta da misure gradite al Vaticano, quali la repressione della massoneria e il riconoscimento della rilevanza della Chiesa nella tradizione italiana. Le trattative aperte nel 1926 furono laboriose e conobbero interruzioni per violenze fasciste a istituzioni e persone della Chiesa: alla fine la “Conciliazione” venne realizzata nei Patti Lateranensi (11 febbraio 1929) sulla base di un “trattato politico” che ristabiliva lo Stato Pontificio in limiti ridottissimi, di un “Concordato” che rivedeva la legislazione laica risorgimentale, e di una “convenzione finanziaria” che stabiliva un indennizzo di 1750 milioni di lire sia per la perdita del territorio papale sia per i beni ecclesiastici secolarizzati. Il significato politico interno della conciliazione si rivelava poco dopo, nel maggio 1929, quando gli italiani venivano chiamati a votare, con nuovo sistema, su una lista unica compilata dal Gran Consiglio del fascismo senza possibilità di esclusioni, con un “sì” o un “no”, e le gerarchie ecclesiastiche impegnavano i fedeli a votare il “sì” con il risultato, invero non senza manipolazioni e pressioni, di 8.500.000 “sì” su 8.650.000 votanti. L'idillio però tra Chiesa e regime fascista era breve: affiorava una diversa interpretazione, specialmente del Concordato, in personalità della Chiesa e del regime con la diretta polemica tra Pio XI e Mussolini; tuttavia il re faceva visita in Vaticano. Tale sopravvivenza di divergenze sull'azione consentita alle organizzazioni di Azione Cattolica si manifestava anche in violenze fasciste su queste ultime. Di qui nuove polemiche di larga risonanza dentro e fuori il Paese, assai sgradite al regime; questo accedeva a un accordo interpretativo (1931) che, pur facendo concessioni formali, manteneva l'Azione Cattolica italiana, quale vivaio di formazione religiosa e sociale, fuori dall'influsso dell'ideologia e organizzazione fascista e in potenziale antitesi con essa. La politica estera di Mussolini mantenne dapprima l'allineamento con gli antichi alleati nei riguardi dei grossi problemi comuni delle riparazioni richieste ai vinti, dei debiti di guerra interalleati, dell'applicazione dei trattati di pace, per bisogno di materie prime, di capitali, di sbocchi commerciali, sia pur con iniziative autonome (occupazione di Corfù, 1924) e con l'affermazione di un certo distanziamento dallo spirito pacifista e democratico della Società delle Nazioni. In questo spirito tuttavia concludeva la questione di Fiume (1924). Codesta politica estera era ispirata dal nazionalismo imperialistico integrato dalla teoria geopolitica dello “spazio vitale” nonché dal mito di Roma dominatrice del Mediterraneo. In siffatto quadro essa appoggiava movimenti revisionistici di Ungheria e Bulgaria e si dichiarava solidale con regimi autoritari e antidemocratici che si venivano instaurando in Spagna, Portogallo, Polonia, Iugoslavia, Ungheria; nel contempo si delineava una crescente irritazione nei riguardi di Francia, Inghilterra, Belgio, Spagna popolare per l'accoglienza che vi riceveva e la risonanza che vi otteneva l'opposizione antifascista in esilio. A partire dal 1930 si facevano sentire anche in Italia le ripercussioni della crisi economico-finanziaria suscitando diffuso malcontento. Inoltre il fermento pangermanistico con la proposta dell'annessione (Anschluss) dell'Austria alla Germania investiva anche l'Italia per via della resistenza dei sudtirolesi di lingua tedesca alla snazionalizzazione imposta da proconsoli fascisti in Alto Adige. L'insoddisfazione nei confronti degli ex alleati si manifestava alla Conferenza del disarmo (1930) con la richiesta della parità con la Francia e nel condizionare a concessioni economiche e politico-coloniali la richiesta solidarietà di fronte al revisionismo tedesco. L'accordo italo-franco-inglese avrà tuttavia modo di ricostituirsi ancora sia nel 1934 per reazione al putsch nazista in Austria con l'uccisione di Dollfuss, sia negli Accordi di Stresa (14 aprile 1935). Codesta solidarietà veniva però spezzata senza rimedio dall'iniziativa italiana in Etiopia, per la quale Mussolini aveva creduto di essersi assicurato tacitamente mano libera da Londra e Parigi. Il governo di Addis Abeba ricorreva alla Società delle Nazioni e questa non tardava a dichiarare l'Italia “aggressore” e a raccomandare nei suoi riguardi sanzioni economiche, che invero furono applicate fiaccamente e con un effetto politico-psicologico ben diverso da quello atteso. Travolta la resistenza del negus, occupata la capitale dell'Abissinia, a Roma il re era proclamato “imperatore d'Etiopia” e Mussolini “fondatore dell'Impero” (9 maggio 1936). La Società delle Nazioni decideva la cessazione delle sanzioni contro l'Italia, ma senza riconoscere il fatto compiuto e continuando ad ammettere alle assemblee il rappresentante del negus: ragion per cui l'Italia prima si asteneva e poi (dicembre 1937) si ritirava dalla Società delle Nazioni. Nel frattempo, con il distacco da Francia e Inghilterra, si intensificava la solidarietà del regime con l'ideologia e la pratica tedesco-nazista. Già nell'ottobre 1936 veniva impostato l'asse Roma-Berlino, politico-ideologico, preludio all'alleanza militare (“patto d'acciaio”, 22 maggio 1939). Codesta solidarietà si manifestava nel comune intervento nella guerra civile spagnola del 1936-38, con il comune riconoscimento del governo nazionalista del generale Franco e l'invio di materiale bellico e di truppe sotto la finzione di “volontari”.

Storia: l’attività delle forze di opposizione

Nonostante le restrizioni e le repressioni, gli oppositori del fascismo rimanevano un fattore della vita italiana. Sciolti partiti e sindacati, dopo il 1927 (imprigionati U. E. Terracini, A. Gramsci e altri fieri nemici del fascismo), l'opposizione si era fatta clandestina all'interno, ma continuava apertamente all'estero in emigrati di prestigio, quali i socialisti G. E. Modigliani, F. Turati, P. Nenni, G. Saragat, i democratici G. Salvemini, G. Amendola, F. S. Nitti, C. Sforza, i popolari L. Sturzo, G. Donati, G. L. Ferrari. A Parigi essi avevano creato una “concentrazione antifascista” quasi a continuazione ideale dell'Aventino (1927-33) con esclusione dei comunisti, orientati dalla Terza Internazionale di Mosca, mantenendo collegamenti con l'opposizione interna. Questa a sua volta era duplice: c'era quella legalitaria in Parlamento, costituita da senatori liberali e democratici, nella cultura laica con il distanziamento critico dalle teorie fasciste (B. Croce, Manifesto degli intellettuali antifascisti in polemica con quello degli intellettuali fascisti del 1925), in settori della cultura cattolica che del fascismo denunziavano i motivi antitetici alla morale e allo spirito del cristianesimo. C'era inoltre, all'interno, la resistenza illegale, clandestina: di gruppi collegati al PSI, ma specialmente al Partito Comunista Italiano (PCI), come pure di nuovi gruppi del genere di quello Giustizia e Libertà (1929) dei fratelli Rosselli (assassinati in Francia nel 1937), rappresentanti in Italia della concentrazione antifascista fino al 1934 (quando questa cessò e diede inizio al “patto d'azione” tra socialisti e comunisti), riemergendo inoltre gruppi anarchici. La prassi degli attentati facilitò al fascismo la creazione di ulteriori organi di repressione, di una polizia segreta (OVRA), di un tribunale speciale per la sicurezza dello Stato con condanne asprissime. La guerra d'Etiopia segnò una certa incrinatura dell'antifascismo all'interno; ma la guerra di Spagna creò un nuovo legame tra l'antifascismo interno e quello di fuori, in attesa che l'irrigidimento dittatoriale del regime e il suo progressivo scivolamento nei programmi imperialistici e nell'imitazione aberrante della politica razziale nazista determinasse una crisi di fiducia e atteggiamenti di condanna in cerchie più vaste di italiani.