www.sapere.it
Storia: l’Italia preromana e le origini di Roma
L'ultimo massiccio arrivo di nuovi popoli prima dell'avvento della
supremazia romana si ebbe tra il sec. VI e il V a. C. con i Galli,
che occuparono la Pianura Padana spingendo indietro Liguri ed
Etruschi, con punte d'infiltrazione che si spinsero fin nel cuore
della penisola (assalto a Roma nel 390 a. C.). Questo dunque il
quadro della geografia etnica dell'Italia nei primordi della sua
storia: la conformazione geografica della penisola, con le numerose
vallate trasversali scendenti dalle due parti dell'Appennino verso
il mare, favoriva la frammentarietà e la varietà dei popoli. Nelle
lotte, spesso aspre, tra popolo e popolo, non mancavano di emergere
alcuni gruppi che promossero processi di unificazione, prima in
ambito locale, poi a raggio più largo: tali gli Etruschi in Etruria
e i Greci nel Meridione, che poi vennero in urto fra loro, nelle
acque di Alalia, davanti alla Corsica, nel 535 a. C. ca., in una
battaglia navale in cui gli Etruschi ebbero la meglio sui Greci di
Massalia e i loro alleati Cartaginesi, conseguendo il controllo del
Tirreno inferiore a scapito della Magna Grecia. Ma nel 524 a. C. gli
stessi Etruschi subirono una sconfitta a Cuma per mano dei Greci,
così che il loro movimento di spinta verso il sud si arrestò in
concomitanza con l'arrivo nella Valle Padana dei Galli, che
compromisero gravemente la supremazia etrusca in tale regione.
Proprio in questo periodo, le tribù montane dell'Appennino
cominciarono a premere con intensità su quelle più evolute delle
zone costiere, in molti casi sopraffacendole, come fecero i Sanniti
in Campania a danno degli Etruschi, i Volsci nel Lazio meridionale
contro i Latini, i Lucani contro città greche della costa ionica.
Appunto nel complesso intreccio di questi urti e contrasti, Roma
trovò il suo inserimento come attiva protagonista a partire dal sec.
IV a. C. raggiungendo la supremazia politica sulla penisola nella
battaglia di Sentino (295 a. C.), in cui batté le forze coalizzate
dei maggiori popoli italici, Etruschi, Umbri, Galli, Sanniti. Tale
supremazia si rinsaldò sempre più grazie alla sua organizzazione
militare, alla diplomazia realistica dei suoi governanti, al sistema
delle numerose colonie che istituì nei territori via via
assoggettati, alle alleanze che strinse sulla base di patti diversi
con i popoli più periferici. Non instaurò però un controllo diretto
sui popoli entrati nella sua orbita: fu anzi rispettosa delle
autonomie locali sul piano amministrativo, economico, religioso,
linguistico. Questo fatto spiega come agli occhi dei popoli esterni
la penisola non apparisse quale Stato dei Romani; tant'è vero che la
denominazione di Italia, di origine greca, le venne dal termine
grecizzato di Vitelia (terra dei vitelli), che in origine
comprendeva un tratto della Calabria, dove aveva sede l'antico
popolo degli Itali, e poi, nel sec. V a. C., incluse anche il
territorio dei Bruzi, e, successivamente, nel sec. IV a. C., quello
dei Lucani e la Campania, per estendersi, dopo la spedizione di
Pirro, a tutta l'Italia a S della Liguria e della Gallia Cisalpina,
un'Italia intesa però ancora come espressione geografica, più che
come unità politica. È da precisare tuttavia che, in concomitanza
con tale denominazione, altri nomi erano anticamente usati per
indicare l'Italia, come Esperia (terra d'Occidente), Saturnia (terra
di Saturno, originariamente il Lazio), Oenotria (l'Italia
sudoccidentale, terra del vino), Ausonia (terra degli Ausoni), ma su
tutti si affermerà alla fine la denominazione destinata a durare nei
secoli.
Storia: l’unificazione romana. L’Impero
Premessa all'unificazione politica fu certo l'affermazione della
lingua latina in tutta la penisola, che non fu imposta dai Romani,
ma fu conseguenza dei rapporti ufficiali venutisi a stabilire tra
Roma e gli altri Stati e città d'Italia, che le circostanze
rendevano sempre più stretti. È vero però che Roma era nata dal
confluire sul suo territorio di più componenti etniche, sulle quali
si affermò alla fine quella latina, che aveva avuto il suo centro di
maggior forza espansiva sui Colli Albani, e sarà il patrimonio
ideale di tale componente, arricchito dal confluire e fondersi in
esso degli altri apporti, quello che alla fine cementerà l'unità
d'Italia sul piano culturale, superando i particolarismi locali. Il
banco di prova della solidità dell'organismo politico creato da Roma
in Italia si era avuto con la seconda guerra punica, durante la
quale quasi tutti i popoli della penisola le rimasero fedeli,
malgrado le profferte di libertà e indipendenza fatte da Annibale.
Il processo di unificazione promosso da Roma conobbe però un momento
critico con la guerra sociale del 90 a. C., scoppiata in conseguenza
delle riforme promosse dai Gracchi, le cui leggi agrarie prevedevano
distribuzioni di terreni dell'agro pubblico, ma da tali
distribuzioni erano esclusi i popoli italici: condizione per fruirne
era il possesso della cittadinanza romana, che Roma recalcitrava a
concedere; di qui la guerra sociale che vide coalizzati contro Roma
quasi tutti i popoli italici. Roma vinse la guerra, ma gli Italici
ottennero la cittadinanza romana, così il termine Italia, fino
allora avente accezione geografica, indicò finalmente un'unità
politica, includente, con Augusto, anche la Gallia Cisalpina fino ai
piedi delle Alpi. Il moto di fusione tra le varie parti si accentuò
nella prima età imperiale, anche grazie al sistema delle strade, via
via costruite in gran numero, colleganti le numerose città che in
ogni parte della penisola si sviluppavano e si abbellivano.
Profondi mutamenti avvennero intanto nell'economia dell'Italia. Già
i guasti della guerra annibalica avevano creato dei vuoti in zone un
tempo popolose; malgrado le grandi assegnazioni di terre ai veterani
operate da Augusto, lo sviluppo urbanistico ridusse sempre più di
numero i piccoli proprietari ai quali subentrarono i grandi, nelle
cui tenute, alle antiche colture di cereali, che ora arrivavano
dalle province a prezzi inferiori, si sostituivano allevamenti in
grande di animali. Nel Meridione poi si accentuarono le colture
specializzate: vite, olivo. Si aggiunga che i grandi impegni
militari dell'Impero sulle linee di confine spostarono gradualmente
verso il nord le attività commerciali, e questo fatto diminuì
l'importanza dell'Italia, che, già divisa in undici regioni da
Augusto, si incamminò sulla strada della provincializzazione. Queste
trasformazioni si accentuarono nel sec. II, sotto gli imperatori
dell'età antonina. Con la concessione della cittadinanza romana
fatta da Caracalla nel 212 a tutti gli abitanti dell'Impero,
l'Italia perdette il suo primato politico. Essa non forniva più da
tempo i quadri all'esercito, per il quale si arruolavano invece di
preferenza elementi delle province più periferiche e anche barbari.
Essa perdette anche il suo ruolo di centrale dell'amministrazione
imperiale. Con Diocleziano venne divisa in otto province raggruppate
in una diocesi, che Costantino divise in due: una, l'Italia
annonaria, che fece capo a Milano, e venne così chiamata per le
derrate che era tenuta a fornire per i servizi statali; l'altra,
l'Italia suburbicaria, che comprese la penisola nella sua parte
meridionale e le isole. La creazione da parte di Costantino di una
nuova capitale a Costantinopoli incrinò il peso ideale di Roma.
Intanto gli assalti dei barbari che premevano sempre più sul Reno e
sul Danubio impegnarono a fondo l'organizzazione politica e militare
romana in zone lontane; l'Italia, ormai aggregata in una sola
prefettura con l'Africa, perdette la sua individualità venendosi
sempre più a confondere con le altri parti dell'Impero.
Storia: dal 476 al regno longobardo
La vulnerabilità dell'Italia si manifestò drammaticamente di fronte
alle grandi migrazioni germaniche del sec. V. I Visigoti di Alarico
la scorsero tutta dalla Pianura Padana allo stretto di Messina e
dallo stretto di Messina alla riviera ligure e vi perpetrarono il
primo sacco di Roma nel 410; un secondo sacco perpetrarono nel 455 i
Vandali di Genserico, venuti per mare. Poco avanti il primo, la
Valle Padana e la Toscana subirono un'invasione di genti germaniche
di varie stirpi condotte da Radagaiso (405-406); poco avanti il
secondo, ancora la Valle Padana fu devastata dagli Unni di Attila
(452), che si ritirarono, sazi di preda e in condizioni di
incipiente disfacimento, di fronte alla suggestiva ambasceria venuta
da Roma per iniziativa dell'imperatore Valentiniano III con papa
Leone I come capo. Si consumava intanto, in un clima di anarchia,
quella definitiva eclissi del potere imperiale in Occidente, che si
concludeva nel 476 con la rivolta militare di Odoacre, il quale,
alla testa di mercenari eruli, rugi, sciri ecc., deponeva l'ultimo
larvale imperatore di Occidente, Romolo Augustolo, placava le sue
milizie con l'assegnazione di terre e, ponendo le insegne imperiali
a disposizione di Zenone, unico imperatore nell'Oriente, riduceva
l'Italia allo status di una delle varie province colonizzate da
barbari e sollecitava per sé il ruolo di delegato dell'imperatore
(patricius) per governarla. In questa veste (non mai pienamente
legittimata) governò non senza meriti finché nel 489, con il
patrocinio dello stesso Zenone, si riversò sull'Italia l'intero
popolo degli Ostrogoti, liberando l'Oriente da una pericolosa
pressione, sotto la guida dell'amalo Teodorico, nella duplice
qualità di patricius dell'Impero e di re degli Ostrogoti. Eliminato
Odoacre (Ravenna, 493), Teodorico inaugurò il regno romano-barbarico
degli Ostrogoti, formalmente non dissimile dagli altri esistenti in
Occidente, che durò circa sessant'anni e che con Teodorico (493-526)
esercitò una vera e propria supremazia sugli altri. Questo re si
adoprò per stabilire in Italia un regime di pacifica convivenza tra
Ostrogoti e Romani: Ostrogoti, costituenti l'aristocrazia militare e
politica (i duces, duchi) e l'esercito di religione ariana, di
costume e legge germanica (Edictum Theodorici, ca. 500); Romani,
accolti come consiglieri depositari di una raffinata cultura e di
una secolare esperienza amministrativa (Boezio, Cassiodoro, Liberio,
Simmaco), di religione cattolica, di costumi latini ed esperti
nell'agricoltura e nelle altre attività economiche. Ma
l'affiatamento tra i due popoli in Italia, a differenza che nella
Gallia occupata dai Franchi o nella Spagna occupata dai Visigoti,
non ebbe che un breve e difficile inizio: l'incompatibilità delle
rispettive fedi, culture, esperienze tecniche ed economiche,
posizioni politico-sociali, manifestatasi già verso la fine del
regno di Teodorico e inaspritasi sotto i suoi successori, provocò un
conflitto che offrì una valida occasione all'intervento
dell'imperatore Giustiniano, intenzionato a ricostituire l'unità
romana del Mediterraneo reintegrando l'Occidente all'Oriente.
Con la durissima guerra gotica (535-553) il regno degli Ostrogoti in
Italia fu abbattuto e la penisola, desolata e spopolata dalle
operazioni militari, dalle carestie e dalle epidemie, passò sotto la
diretta amministrazione imperiale di Bisanzio, alla quale fu
preposto un magistrato con pieni poteri, l'esarca, residente a
Ravenna. A Roma, l'autorità imperiale fu rappresentata da un dux
(duca), che si trovò tuttavia di fatto a condividere il governo con
il papa. Non solo a Roma, d'altronde, ma in tutte le città
episcopali i vescovi andarono assumendo autorità e pubblici poteri
in parte di diritto in parte di fatto, essendo ormai la Chiesa la
sola custode delle forme di vita civile sopravvissute alla crisi
portata dalle invasioni barbariche. Va notato che, appunto in età
gotica, nacque in Italia il monachesimo benedettino, una delle forze
spirituali più vivaci e feconde operanti nel Medioevo.
Sull'Italia ricongiunta all'Impero si scatenò nel 568-569
l'invasione dei Longobardi condotti da Alboino, che dal Friuli
estesero la loro conquista, disordinatamente e in tempi diversi, a
una gran parte della penisola, spezzandone per secoli l'unità. Il
regno longobardo (capitale Pavia), incoerente e anche nella sua
stagione più felice sostanzialmente debole, giunse a comprendere
un'ampia area padana con sbocchi sulle coste del Veneto e della
Liguria, e un'area toscana, e inoltre una parte dell'Umbria e quasi
tutto il Mezzogiorno (ducati di Spoleto e di Benevento), rimanendo
pertanto spezzato in due tronconi dai domini conservati dall'Impero
bizantino, che comprendevano l'attuale Romagna (l'Esarcato di
Ravenna), le Marche (la Pentapoli), una parte dell'Umbria e il Lazio
con Roma (il ducato romano), senza soluzione di continuità; e
ancora, nel Mezzogiorno, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia. Nel
corso della dominazione longobarda, che durò poco più di due secoli,
le condizioni della popolazione italiana variarono in rapporto al
progressivo incivilirsi dei barbari. Questi conservarono sempre il
controllo militare e politico, esercitato dai re e localmente dai
duchi (in numero di 36), le loro consuetudini primitive (raccolte
per la prima volta per iscritto, e temperate, nell'Editto del re
Rotari, 643), la loro indifferenza alle attività economiche e
civili; ma, sotto l'influsso dell'ambiente, abbandonarono a poco a
poco le forme di vita più rozze e, per iniziativa di papa Gregorio
I, che ebbe il valido appoggio della regina Teodolinda , e
successivamente per opera di missionari (tra i quali l'irlandese
Colombano), nel corso del sec. VII si convertirono dall'arianesimo o
dal semipaganesimo originario al cattolicesimo, avvicinandosi così
alla civiltà locale. I re longobardi del sec. VIII, Liutprando,
Astolfo, Desiderio, approfittando del decadimento della potenza
bizantina in Italia, tentarono di completare la conquista della
penisola. Ma i loro tentativi si infransero di fronte alla
resistenza non tanto dei Bizantini quanto dei papi che, sottrattisi
di fatto alla sovranità bizantina in Roma, aspiravano a instaurarvi
la propria, tenendone lontani i Longobardi. Arrestate pacificamente
le avanzate verso Roma del pio re Liutprando (che si atteggiava a
difensore della Chiesa in conflitto con Bisanzio per la questione
dell'iconoclastia) e ottenute anche da lui le prime donazioni “agli
apostoli Pietro e Paolo” (la prima, Sutri, 728), i papi si
scontrarono poi con l'aggressiva intransigenza del suo successore
Astolfo, risoluto a conquistare tutti i territori ancora in possesso
dell'Impero, da Ravenna a Roma. Cercarono allora l'alleanza della
potente monarchia cattolica dei Franchi e Stefano II, trasferita la
corona franca da Childerico III, ultimo dei Merovingi, a Pipino il
Breve, primo dei Carolingi (752), ottenne da quest'ultimo quegli
interventi in Italia grazie ai quali Astolfo dovette abbandonare gli
ampi territori da lui già tolti ai Bizantini e cederli al papa
(756). Da questa cessione, previamente concordata tra il papa e il
re dei Franchi (donazione di Pipino) e configurata poi come
restituzione di terre legittimamente appartenenti alla Chiesa in
forza della fantastica donazione di Costantino, ebbe origine il
grande complesso dei domini della Chiesa dall'Adriatico al Tirreno,
destinato a durare per oltre undici secoli. I successivi tentativi
dei Longobardi, con il re Desiderio, non solo di riprendere
l'offensiva, ma di conservare il regno, fallirono di fronte
all'alleanza franco-papale: con le definitive vittorie di Carlo
Magno contro Desiderio e Adelchi (774) la dominazione dei Longobardi
in Italia ebbe termine.
Storia: da Carlo Magno a Ottone I
Carlo si intitolò re dei Franchi e dei Longobardi e riorganizzò il
regno secondo l'ordinamento franco, sostituendo ai duchi nelle varie
regioni una ventina di conti (comites) di nazionalità franca;
continuarono tuttavia a esistere, ma in qualità di vassalli, i duchi
longobardi di Benevento. Nel 781, Carlo investì del regno,
ribattezzato Regno italico, il figlio Pipino e, dopo l'incoronazione
imperiale celebrata a Roma nell'800, il Regno italico, sempre con
Pavia come capitale, divenne parte integrante dell'Impero romano
ricostituito in Occidente. All'Impero bizantino restavano in Italia
Puglia, Basilicata, Calabria e, fino all'invasione degli Arabi
(avvenuta tra l'827 e gli inizi del sec. X), la Sicilia; restavano
anche, ma di fatto già indipendenti, Venezia, cresciuta durante le
invasioni, e Napoli. Nel sec. IX andarono consolidandosi le
strutture politiche, economiche e sociali feudali, compatibilmente
con le condizioni peculiari della penisola: non trovarono, infatti,
terreno propizio nelle numerose città, particolarmente in quelle
marinare, dove l'economia mercantile prevaleva sull'economia
agricola, supporto necessario del sistema feudale. La penisola
cominciò allora a essere attaccata dagli Arabi (Saraceni), che dal
mare penetrarono qua e là profondamente nell'interno, imponendo
severe misure difensive. Papi e vescovi svolsero un'intensa
attività, partecipando con peso spesso determinante alle complesse e
spesso drammatiche lotte tra i Carolingi e assumendosi poteri
pubblici sempre più ampi. Con Ottone I la corona del Regno d'Italia
venne definitivamente unita a quelle del Regno di Germania e
dell'Impero, e questa unione ebbe per l'Italia, e non solo per essa,
conseguenze storiche di grande rilievo.
Storia: il periodo del Sacro Romano Impero
La restaurazione imperiale ottoniana si attuò secondo due direttive
fondamentali: espansione del germanesimo verso l'Oriente slavo e
verso il Mezzogiorno latino e mediterraneo; valorizzazione politica
e culturale delle gerarchie ecclesiastiche, come forze
civilizzatrici, unificatrici di un potente sistema politico
romano-germanico, un grande Sacro Romano Impero, opposto all'Impero
bizantino, che riassumesse in un'unità sempre più salda i valori
della civiltà tedesca e della civiltà romana nella comune promozione
della fede cattolica. Sotto tale profilo va valutata la ferma, anche
se contrastata, tutela dell'imperatore sul Papato (al quale Ottone I
giunse a elevare con un atto d'imperio Leone VIII) e l'istituzione
dei vescovi-conti, con la quale diede vita a un'alta feudalità
ecclesiastica d'osservanza imperiale e priva del diritto di
ereditarietà, contrapposta come forza equilibratrice a quella laica.
Con l'attribuzione dei poteri comitali, alcuni vescovi divennero i
veri signori delle loro città (in Italia il primo vescovo-conte fu
quello di Parma, 962); ma anche gli altri, pur senza l'investitura
comitale, in forza di privilegi e di tradizioni e nel quadro della
politica imperiale, divennero arbitri della vita cittadina, mentre
l'autorità dei conti laici tendeva a ridursi alle campagne. Questo
fenomeno ebbe un'importanza eccezionale nella storia d'Italia.
Ottone I aspirò infine a integrare la sua politica italiana
contendendo il Mezzogiorno ai Bizantini, che vi si erano
consolidati, tenendo testa ai principi longobardi e agli Arabi e
valendosi del favore delle libere, ricche città mercantili di
Amalfi, Gaeta, Napoli. I due imperi si scontrarono sul terreno
diplomatico e anche militare, ma le cose rimasero allo statu quo,
consacrato dalle nozze tra il figlio di Ottone I, Ottone II, e la
principessa bizantina Teofano, che aprivano una remota prospettiva
di estensione dei domini della casa di Sassonia nel Mezzogiorno. E a
Roma e al Mezzogiorno dedicò gli ultimi anni del suo breve regno
Ottone II; ma, mentre salvò (a mala pena) il suo prestigio nella
città dei papi, fallì in pieno nella guerra santa contro gli Arabi
in Calabria (982), alla quale i Bizantini, che pure si atteggiavano
a difensori della fede, non diedero alcun apporto. Solo dopo la
sconfitta di Ottone II essi passarono all'offensiva e, sopravanzando
Arabi e Longobardi, accrebbero e irrobustirono le loro posizioni.
L'Italia meridionale era dunque, alla fine del sec. X, la frontiera
su cui si scontravano i due imperi “romani” rivali e i rispettivi
interessi mediterranei, concorrenti nonostante la comune necessità
di difendersi dagli Arabi. La restaurazione imperiale
romano-germanica promossa da Ottone I ebbe la sua ora meridiana
nella mistica e utopistica Renovatio Imperii ideata da Ottone III e
Silvestro II, che tra la fine del sec. X e l'inizio del sec. XI
ridiedero per breve tempo a Roma il classico ruolo di capitale di un
Sacro Romano Impero di vocazione missionaria e di aspirazioni
ecumeniche. Ma Roma stessa, l'Italia e la Germania respinsero
l'inattuale iniziativa, che si sovrapponeva a una realtà
incompatibile con essa, caratterizzata da un'evoluzione politica
pluralistica e non unitaria, nazionale o, nel caso dell'Italia,
regionale o cittadina e non universale. Perciò la Renovatio Imperii
s'interruppe alla morte del giovanissimo Ottone III (1002). Il suo
successore Enrico II, ultimo imperatore della casa di Sassonia, si
impegnò in Italia per più realistici obiettivi: conservare la corona
del Regno italico, contesagli tra il 1002 e il 1014 da Arduino
marchese d'Ivrea, che impersonava nel Nord la reazione del
feudalesimo laico a quello ecclesiastico creato e potenziato dagli
imperatori sassoni (ai vescovi, soprattutto, signori delle città);
mantenere a Roma la difficile posizione di solidarietà con il papa;
ritentare (invano) la conquista del Mezzogiorno bizantino. Enrico
II, d'altra parte, si sentiva investito come il suo predecessore di
una missione religiosa, per cui non solo fu generosissimo con il
clero, ma fece proprie le istanze per la riforma del costume
ecclesiastico, proposte già durante il sec. X dagli ambienti
monastici più rigorosi (Cluny) e da questi largamente diffuse, e
ora, nel generale risveglio religioso del secondo millennio, avviate
a tradursi in azione normativa e, sia pure indirettamente (per gli
interessi anche materiali che coinvolgevano e per la progressiva
sensibilizzazione del popolo), in movimenti politici. Il Mille fu un
secolo non solo di alta tensione religiosa, ma anche di intense
passioni e iniziative civili: vi fu una grande crescita quantitativa
e qualitativa della popolazione, una rifioritura dell'economia
agraria e, grazie a una forte ripresa della produzione artigianale e
del commercio, dell'economia cittadina, con le conseguenti tensioni
e trasformazioni sociali, che misero in crisi i tradizionali
rapporti di gerarchia nell'ordinamento feudale. Questo fu scosso da
tumultuose richieste o usurpazioni di libertà, vale a dire di
diritti o privilegi, da parte dei minori e degli esclusi: vassalli
minori aspiranti a diminuire la loro distanza dai maggiori (e
soddisfatti dalla Constitutio de feudis, data nel 1037 a Milano da
Corrado II il Salico, primo imperatore della casa di Franconia);
popolani economicamente avanzati aspiranti a posizioni politiche
adeguate nella gestione degli affari locali; rustici aspiranti a
liberi contratti sostitutivi di prestazioni di natura servile.
Questi sommovimenti dal basso coinvolgevano anche la Chiesa (in
particolare i vescovi delle maggiori città), che aveva largamente
recepito l'impronta feudale e si trovava di fronte a esigenze
opposte, di potenza mondana e di pura spiritualità, e anzitutto di
una riforma morale secondo gli ideali evangelici, che la società
reclamava dai suoi pastori in Italia più insistentemente che
altrove. La componente religiosa è manifesta in alcune rilevanti
vicende italiane del secolo, particolarmente incisive sul corso
futuro della storia: Genova e Pisa nelle acque sarde e corse,
Venezia nell'Adriatico, gettano le basi dei loro imperi marittimi,
militari e mercantili, sotto i segni della guerra contro gli
infedeli; i milanesi danno un precoce esempio di solidarietà
sociale, che preannuncia la coscienza civica del Comune, di fronte a
Corrado II il Salico, per lealtà alla tradizione ambrosiana
impersonata nell'arcivescovo Ariberto (1037); gli avventurieri
normanni infiltratisi nel Mezzogiorno, polarizzati intorno agli
Altavilla, legittimano la loro progressiva conquista dell'Italia
meridionale – continente e Sicilia – come servizio della Chiesa
cattolica contro i Bizantini, scismatici dal 1054, e gli Arabi
musulmani, e in pochi decenni, con la resa di Bari (1071) e degli
ultimi baluardi siciliani (1102), e tra l'una e l'altra della
longobarda Salerno (1078), unificano il Mezzogiorno in quel robusto
complesso politico, con propaggini a Malta e in Albania, che sarà il
Regno di Sicilia (1130), a S del Tronto e del Garigliano (con
esclusione di Benevento papale). Al vertice, l'ultimo imperatore che
si adoprò per la riaffermazione della politica sassone di tutela sul
Papato periodicamente compromesso negli intrighi romani e per
sollecitare la riforma disciplinare e morale della Chiesa fu Enrico
III di Franconia, che promosse l'elezione di ben quattro papi
germanici tra il 1046 e il 1054, tutti riformatori. Ma alla sua
morte (1056), durante la quasi decennale minorità di suo figlio
Enrico IV, l'iniziativa della riforma passò interamente al Papato e
con il lorenese Stefano IX e i suoi successori italiani Niccolò II e
Alessandro II, stimolati dai rigorosi teorici della riforma (Pier
Damiani, Umberto di Silvacandida, sopra tutti Ildebrando da Soana,
il futuro Gregorio VII), andò radicalizzandosi in una politica di
totale emancipazione della Chiesa (libertas Ecclesiae). Momenti
salienti furono: l'esclusione dell'imperatore dall'elezione papale
(con Niccolò II, 1059); la rigorosa condanna della simonia, estesa a
qualsiasi investitura ecclesiastica data da laici, compreso
l'imperatore creatore di vescovi-conti; l'imposizione del celibato
ecclesiastico; l'incoraggiamento dei movimenti popolari
(particolarmente accesi a Milano e a Firenze, sotto il nome di
pataria) contro vescovi e sacerdoti non allineati (con Alessandro II
e dopo di lui con Gregorio VII); la proclamazione infine, da parte
di Gregorio VII, non solo dell'assoluta libertas della Chiesa, ma
del primato del papa sull'imperatore e su tutti i principi della
Terra, del Sacerdotium sul Regnum, del clero sul laicato. Ciò
significava netta frattura tra i due sommi poteri e le relative
gerarchie, cioè il preciso rovesciamento della politica degli
imperatori sassoni, intesa alla loro intima compenetrazione
nell'ideale unità della Res publica christiana. La conseguente
guerra per la supremazia tra Papato e Impero (detta restrittivamente
“delle investiture” perché oggetto immediato della contesa era il
diritto di conferire le investiture spirituali, che la Chiesa
rivendicava come appartenente a essa sola, con l'esclusione
dell'imperatore e a fortiori di ogni altro laico) agitò per quasi
mezzo secolo (1076-1122) tutta la cristianità occidentale (regnanti
gli ultimi due imperatori della casa di Franconia, Enrico IV ed
Enrico V, e il papa Gregorio VII e i suoi successori, tra i quali
emersero Urbano II, Pasquale II e Callisto II, contestati da una
serie di antipapi); ma i suoi campi di battaglia furono la Germania
e l'Italia. Qui combatterono per il papa Matilde di Canossa,
marchesa di Toscana, e i Normanni di Sicilia, per l'imperatore gran
parte dei signori laici ed ecclesiastici dell'alta e media Italia,
senza peraltro una linea costante. A Canossa Enrico IV, scomunicato
e deposto, si umiliò ai piedi di Gregorio VII (1077), ma più tardi
si prese una grande rivincita attaccandolo a Roma e costringendolo
all'esilio senza ritorno nella normanna Salerno (1084). Rivincita
sterile, tuttavia, cui seguirono meno successi che rovesci politici
e militari e le ribellioni dei figli, prima Corrado, complici Milano
e altre città padane (1093), poi Enrico (V), che lo fece abdicare
(1106); e tra le due ribellioni, per iniziativa di un papa
gregoriano, Urbano II, quella straordinaria prova di forza del
Papato che fu la prima crociata. Enrico V tuttavia sfiorò una grande
vittoria a spese di papa Pasquale II, disposto a sacrificare
qualsiasi interesse temporale a patto di riservare esclusivamente a
sé le investiture spirituali, e costretto con la forza a cedere
anche su questo punto (1111); credette inoltre di poter disporre
della Toscana, impugnando il testamento di Matilde di Canossa (m.
1115) a favore della Chiesa, e di crearsi punti di forza nelle città
toscane e padane concedendo a esse larghe autonomie; si sforzò di
tenere in pugno Roma. Ma dovette adattarsi infine a un compromesso,
concludendo con Callisto II quel Concordato di Worms (1122) che
accordava bensì all'imperatore precisi diritti nella creazione dei
vescovi-conti e degli abati-conti, ma riservava esclusivamente al
papa l'investitura spirituale, spogliando così il potere imperiale
del suo tradizionale carattere carismatico. La libertas Ecclesiae
perseguita dai riformatori e in particolare da Gregorio VII trovava
nel concordato una precisa sanzione.
Storia: il Comune
Nel mezzo secolo della lotta delle investiture l'Italia si arricchì
di nuove, molteplici esperienze, che trasformarono profondamente la
mentalità e i modi di vita e diedero origine a nuove forme di
convivenza civile e di attività politica. Nella Valle Padana e in
Toscana prima e più diffusamente che altrove, la società cittadina,
sotto lo stimolo di élites di origine piccolo-nobiliare (rari ancora
gli elementi d'origine popolana, qualificati dalla ricchezza
acquisita con la produzione e il commercio), si organizzò nei
Comuni: la cittadinanza, l'universitas civium, rappresentata dai
consoli elettivi, si affiancò ai vescovi e finì con il sostituirli
nell'amministrazione della cosa pubblica, ora per progressive
usurpazioni ora per privilegi imperiali. Con ciò gli antichi feudi
comitali di origine franca si trasformarono, nelle regioni più
urbanizzate e pertanto di più intenso sviluppo economico e
culturale, in costellazioni di città autonome, tendenti alla piena
indipendenza e all'espansione sulle campagne circostanti, e rivali
tra loro per ambizioni di egemonia. Emergevano in Lombardia, Milano,
in Toscana, superando Lucca (capitale dell'antica marca), Firenze,
in Emilia, Parma e Bologna. Contemporaneamente la crociata apriva
larghe prospettive di espansione commerciale (e culturale e
politica) alle città marinare, Pisa, Genova e Venezia, e al
Mezzogiorno unificato dai Normanni. La crociata vitalizzò
gradualmente l'economia di tutto il Paese e contribuì a far
lievitare la nascente borghesia – il “popolo” medievale –, destinata
a sopravanzare nobiltà e clero e a trasformare, con le sue esigenze
e con il suo concetto della vita, prima la società cittadina, poi
quella rurale, essa pure orientata verso le forme del Comune. Il
processo verso la città-Stato, tipico dell'alta e media Italia (ma
non rigorosamente limitato a tali regioni), fu favorito da un buon
venticinquennio di carenza di potere, nell'Impero, dalla morte di
Enrico V (1125), ultimo imperatore della casa di Franconia,
all'avvento di Federico I di Svevia, il Barbarossa (1152), e nel
Papato, coinvolto nelle lotte di successione all'Impero, da un
insidioso scisma (1130-38) e dalla rivolta di Roma, dove, regnando
Innocenzo II, venne instaurato il Comune cittadino, con una impronta
nettamente popolare, antinobiliare e antiecclesiastica e una veste
classicheggiante (Renovatio Senatus, 1143); tra gli animatori,
Arnaldo da Brescia, che nel nuovo esperimento politico-sociale
infuse il fervore di un ideale evangelico di riforma della Chiesa.
Le vicende romane portarono a intese tra il Papato e l'Impero,
entrambi stretti dalla necessità di arrestare un pericoloso declino
dei loro poteri: Federico Barbarossa, venuto in Italia nel 1154,
dopo essersi reso conto delle gravi lesioni inferte ai suoi diritti
e redditi (regalia iura, regalie) dai Comuni padani di fatto
indipendenti e averne punito esemplarmente alcuni, come Tortona,
liberò da Arnaldo (che finì sul rogo) papa Adriano IV e fu da lui
incoronato a Roma (1155). Sulla via del ritorno, manifestò le sue
intenzioni di ricondurre l'Italia all'obbedienza seminando il
terrore, da Spoleto incendiata a Milano messa al bando. Ma Federico
I aveva un preciso programma di restaurazione imperiale, tanto
idealmente legato alle memorie di Ottone I, di Carlo Magno e persino
di Giustiniano, rievocato nella sua grandezza di legislatore dai
giuristi della scuola bolognese, quanto realisticamente impegnato a
rivendicare e recuperare le regalie largamente usurpate dai Comuni
padani, i più potenti e numerosi (quelli toscani ne fruivano almeno
parzialmente in forza di legittimi privilegi). E con la Dieta di
Roncaglia del 1158, in cui espose il suo programma in termini
ultimativi e incontrò una quasi generale resistenza, aprì le
ostilità. Nella lunga guerra che seguì, la fortuna dell'imperatore,
dopo un impressionante successo iniziale, la distruzione di Milano
(1162), voluta tuttavia meno da lui che dalle città rivali (Pavia,
Cremona, Como, Novara), andò complessivamente declinando per la
crescente capacità difensiva e offensiva dei Comuni, uniti nella
prima Lega Lombarda (1167), frutto di una diffidente, ma pur
efficace solidarietà di fronte al pericolo, patrocinata da papa
Alessandro III e appoggiata dal re Guglielmo II di Sicilia e
dall'imperatore bizantino Manuele I Comneno, e per l'inadeguato
sostegno dato dalla Germania alla politica italiana dello svevo.
Sconfitto nella battaglia di Legnano (1176) dai milanesi e dai loro
collegati (che salutarono il fatto come una vittoria “della Chiesa e
dell'Italia”), l'imperatore fece la pace con il papa e con il re di
Sicilia (Venezia, 1177) e, dopo sei anni di tregua spesi in
laboriose e insidiose trattative, con i Comuni della Lega, ancora
robusta malgrado alcune defezioni; fu questa la Pace di Costanza
(1183), con la quale l'imperatore riconobbe (nella forma rituale di
concessione per privilegio) come legittimo alle singole città della
Lega il possesso di quelle regalie per le quali aveva tanto
combattuto e consacrò così la piena autonomia dei Comuni nel quadro
dell'Impero, riservando a sé soltanto alcune prerogative sovrane,
che caddero presto in desuetudine, come reliquie di un ordine
feudale, in cui i Comuni si riconoscevano sempre meno. Ma quasi a
compenso del suo mancato successo nell'Italia settentrionale, il
Barbarossa riuscì ad assicurare alla casa di Svevia il regno di
Sicilia, vassallo della Chiesa, grazie al matrimonio di suo figlio
Enrico VI con Costanza d'Altavilla (1186), destinata a ereditarlo da
Guglielmo II (1189). Morto il Barbarossa alla terza crociata (1190),
Enrico VI s'impose con la forza nel regno stroncando la resistenza
legittimistica oppostagli da Tancredi di Lecce, di sangue normanno,
e avviò poi un'irruente politica di affermazione in Lombardia, in
Toscana, nei domini pontifici delle Marche e dell'Umbria, intesa a
porre tutta l'Italia sotto il suo governo diretto e a isolare Roma
accerchiata; e solo la sua morte prematura (1197) interruppe il
corso di questa restaurazione, che sarebbe stata ripresa più tardi
da suo figlio Federico II, allora di soli tre anni.
Storia: il Papato nel Medioevo
Nella contrastata successione di Enrico VI nei regni di Germania e
d'Italia e nell'Impero fu arbitro Innocenzo III (1198-1216), il papa
che, esercitando un'autorità senza pari nell'intransigente,
esclusivo servizio degli interessi sia religiosi (nella linea
ecumenica e disciplinare), sia politici (nella linea teocratica)
della Chiesa, portò il Papato medievale all'apogeo. Condizione
irrinunciabile di questa affermazione, la disponibilità dell'Italia,
vale a dire smantellamento delle posizioni imperiali in Romagna, in
Toscana, in Umbria e nelle Marche (ricondotte, queste due ultime
regioni, sotto il diretto dominio pontificio), sottomissione del
Comune di Roma, libero gioco, ma controllato, degli altri Comuni
padani e toscani e, obiettivo prioritario, regno di Sicilia
vassallo, epurato dalle presenze tedesche o filotedesche portate da
Enrico VI e rigorosamente separato dall'Impero, per scongiurare un
eventuale accerchiamento. Per costruirsi una così fatta piattaforma,
Innocenzo III diede il suo appoggio alla candidatura dapprima del
guelfo Ottone IV di Brunswick contro il ghibellino Filippo di Svevia
(fratello di Enrico VI), poi, tradito dal primo e scomparso il
secondo, a Federico II, già re di Sicilia, confidando nella lealtà
del giovane svevo, suo pupillo e vassallo, che gli prometteva di
rinunciare alla Sicilia quando avesse avuto l'Impero (1212).
Federico II trionfò su Ottone IV (1214) e Innocenzo III, dopo aver
celebrato il concilio ecumenico del 1215, una delle pietre miliari
della storia della Chiesa, morì nella presunzione di aver raggiunto
i più alti obiettivi religiosi (sui quali qui non si insiste) e
politici perseguiti. Ma la realtà apparentemente inalveata
dall'energico pontefice non tardò a straripare. Nei Comuni, al
relativo equilibrio interno tra i ceti dirigenti e alla relativa
solidarietà nella lotta contro il Barbarossa erano succedute
tensioni e guerre civili e reciproche continue sopraffazioni, nelle
quali andava acquistando ruolo di protagonista il popolo e di
antagonista la nobiltà. Era una vera e propria rivoluzione sociale e
politica in atto, tanto più profonda quanto meno spettacolare, che
alterava le originarie strutture costituzionali dei Comuni
(influenza politica crescente delle corporazioni o arti, istituzione
della magistratura unica del podestà al di sopra o in luogo dei
consoli ecc.) e le loro direttive d'azione (espansione territoriale
o della sfera di influenza conforme agli interessi economici). La
deviazione della quarta crociata su Costantinopoli e l'Impero
bizantino (1202-04), che trasformò un'impresa religiosa, voluta da
Innocenzo III, in un imponente affare mercantile per i veneziani,
può valere come emblema di una nuova mentalità laica, con un suo
mito della potenza fondata sulla ricchezza, coesistente e
contrastante con la pur sempre viva religiosità tradizionale. A
riscontro infatti, e in precisa opposizione, i nuovi ordini
mendicanti, germinati al tempo di Innocenzo III, ma fioriti dopo,
incarnavano l'esaltazione della povertà evangelica; come, più dei
dotti predicatori domenicani, i frati minori di san Francesco
d'Assisi per la loro immediata comunicazione con la gente più umile
e per il loro esempio vivente di una pratica della fede tanto
diversa da quella di una Chiesa troppo invischiata nel mondo; e
infine le frange estremiste ereticali, catari, valdesi e molti
altri. Tutto ciò s'agitava nell'Italia comunale; ma anche nel Regno
di Sicilia il passaggio dalla dinastia normanna a quella sveva e le
pressioni di Innocenzo III per renderne sempre più stretto il
vincolo vassallatico provocarono profondi risentimenti e turbamenti
nella composita società siculo-normanna, greca, araba e germanica
del Mezzogiorno. Il nodo siciliano fu sciolto da Federico II di
Svevia, re di Sicilia e, nonostante la preclusione papale, insieme
imperatore (1220). Il geniale svevo volle fare del regno, e in
particolare dell'isola, nel cuore del Mediterraneo mai come allora
denso dei traffici tra l'Oriente e l'Occidente aperti dalle
crociate, il cardine di quello che fu l'ultimo revival imperiale. E
dopo le schermaglie con i Comuni della rinnovata Lega Lombarda
(1226), le defatiganti negoziazioni per la pace con Onorio III, i
primi duri scontri con Gregorio IX, l'incruenta crociata infine, che
gli procurò il regno di Gerusalemme (1229), diede al Regno di
Sicilia un ordinamento politico originale, autoritario e
centralizzato, fortemente restrittivo dei privilegi feudali e delle
autonomie cittadine, agguerrito per terra e per mare, teso a un
rilancio economico di carattere dirigistico (questo, in effetti,
poco efficace) e illuminato da una feconda politica culturale,
aperta e spregiudicata. Le Costituzioni di Melfi (1231), legge
fondamentale dello Stato, l'Università di Napoli, il brillante
convegno di dotti di ogni nazione, tendenza e disciplina presso la
Magna Curia di Palermo, le opere di pubblica utilità e di
magnificenza promosse in tutto il territorio, tutto ciò sollevò
Federico II su un piano quasi leggendario e lo circonfuse ancor vivo
di un alone di stupita leggenda: Cesare redivivo? Anticristo? Ma
quando si adoprò per estendere a tutta l'Italia un regime analogo a
quello del regno, malgrado l'alleanza di molte forze ghibelline
(Bonifacio di Monferrato, Ezzelino da Romano, Comuni quali Pisa,
Siena, Cremona, Parma, Modena), si scontrò con le più agguerrite e
ricche forze guelfe, chiamate a raccolta da Gregorio IX e Innocenzo
IV (i Comuni padani della Lega, con Milano alla testa, i guelfi
toscani, disarticolati ma tenacissimi, Genova e Venezia con le loro
flotte) e infiammate da una veemente propaganda religiosa, quasi si
trattasse di combattere una crociata. Federico II si batté da
soldato e diplomatico di gran classe e con le grandi vittorie di
Cortenuova sui milanesi (1237) e del Giglio sui genovesi (1241)
sfiorò il pieno successo. Ma, con la definitiva solenne scomunica
(Lione, 1245), sopravvennero le defezioni e i rovesci (Parma, 1248;
Fossalta, 1249), l'estenuazione delle risorse, i tradimenti, la fine
(1250).
Storia: la crisi imperiale e la fine del Comune
L'Impero entrava in una crisi senza sbocco; per l'Italia, sovrastata
dal Papato, incominciava, o meglio giungeva a piena maturità,
un'“età guelfa”: si faceva guelfa Firenze, dove per la prima volta
s'imponeva nel governo quel “popolo” che con le industrie e i
commerci aveva fatto della città una potenza economica paragonabile
solo a Venezia e, assimilati a eretici e come tali perseguitati con
spirito di crociata, cadevano a uno a uno i capi ghibellini epigoni
di Federico II, da Ezzelino da Romano, leader del ghibellinismo
padano (1259), a Manfredi, figlio di Federico II, avventurosamente
insediato nel Regno di Sicilia, dove per alcuni anni (1258-66) tenne
accese le non inerti speranze dei ghibellini di ogni parte d'Italia.
Per abbatterlo ed estirpare con lui per sempre la pianta sveva, un
pontefice francese, Urbano IV, offerse, e un altro pontefice
francese, Clemente IV, diede la corona del Regno di Sicilia come
feudo della Chiesa a Carlo d'Angiò, fratello di Luigi IX re di
Francia, allora la più forte monarchia occidentale; e Carlo d'Angiò,
incoronato a Roma e di Roma creato senatore (ciò che gli conferiva
la tutela del papa), conquistò il regno con una breve guerra, nella
quale Manfredi cadde combattendo (Benevento, 1266). La successiva
spedizione di Corradino, l'adolescente nipote di Federico II
catturato e giustiziato da Carlo d'Angiò (1268), suggellò
tragicamente una situazione ormai decisa. Firenze, Roma e la nuova
capitale del regno, Napoli (potenza finanziaria, autorità religiosa,
prestigio politico e militare) costituirono in Italia una salda
dorsale guelfa, con la Francia a copertura invece che la Germania in
stato di quasi anarchia e il Sacro Romano Impero vacante dalla morte
di Federico II. Questo sistema pareva avviato ad allargare il già
ampio respiro dell'Italia nel Mediterraneo, in concorso, o in
concorrenza, con gli imperi di Venezia e di Genova in Oriente,
particolarmente avvantaggiata quest'ultima dalla restaurazione greca
a Costantinopoli (1261). Ma, oltre che dissidi interni, la rivolta
dei Vespri Siciliani contro Carlo d'Angiò (1282) e la successiva
guerra, che staccò la Sicilia dal continente e la inserì nell'orbita
aragonese, indebolirono gravemente il regno e il sistema politico di
cui era uno dei cardini; ciò che favorì le tendenze centrifughe,
vale a dire le manifestazioni di indipendenza e le ambizioni di
potenza dei Comuni maggiori padani e toscani. Per di più poco dopo,
con il fallimento della prova di forza tra papa Bonifacio VIII,
l'ultimo e più spregiudicato assertore della teocrazia, e Filippo IV
il Bello, il primo e non meno spregiudicato assertore
dell'assolutismo della regalità nazionale, Roma cessò di essere la
sede del Papato, che dal 1305 al 1377 fu in Francia (dal 1309 ad
Avignone), e anche nei territori della Chiesa trionfò il più
incoerente particolarismo. Ma nella seconda metà del sec. XIII e nei
primi anni del sec. XIV l'Italia di Dante, di Giotto, di Marco Polo,
linguisticamente e culturalmente avanzata verso l'unità quanto
politicamente orientata nella direzione opposta, raggiungeva la
massima efficienza economica ponendosi al primo posto in Europa; i
ceti promotori di questa floridezza costituivano ormai la classe
dirigente, determinando la politica interna ed esterna delle
rispettive patrie, le città-Stato, alla cui prosperità concorreva
largamente la gente dei campi, inserita, in condizione di
subordinazione, nel complesso circuito produttivo cittadino. Ragioni
economiche furono decisive nel processo di transizione dal Comune
alla Signoria, per esempioa Milano e a Verona, dove il “popolo”
sollevò, rispettivamente, le famiglie Della Torre (rovesciata poi
dai Visconti) e Della Scala; portarono, a Firenze, alla caduta dei
magnati e al governo diretto della borghesia mercantile (1282); alla
guerra tra Genova e Pisa, che si concluse con la definitiva rovina
di quest'ultima (1284); a una serie di guerre tra Genova e Venezia,
che nel complesso subì i maggiori danni e che si costituì allora in
repubblica oligarchica, dominata da un patriziato esclusivo di
origini mercantili (1297). Che l'Italia dell'età comunale al
tramonto, ricca e splendida ma senza pace, potesse essere pacificata
e composta nell'unità da un imperatore forte e giusto, fu
l'illusione di Dante e di pochi altri esclusi dal gioco politico,
dissipata dall'infelice spedizione di Enrico VII di Lussemburgo
(1310-13), il primo imperatore riapparso in Italia dopo la morte di
Federico II (1250) e l'ultimo a credere nella missione imperiale.
Storia: il XIV secolo
Già nel secondo decennio del sec. XIV l'economia italiana (e non
solo italiana) mutava segno e cominciava la serie delle carestie,
dei tracolli d'imprese, delle epidemie, che culminarono nella peste
nera del 1348, poi episodicamente ricorrente. Nelle calamità la
miseria della gente più umile, sfruttata e ignorata, levò le sue
prime, infelici e soffocate proteste. Nella prima metà del sec. XIV,
tra i vari Stati primeggiò il Regno di Sicilia (ma in effetti di
Napoli, essendo ormai la Sicilia aragonese) grazie al prestigio del
re Roberto d'Angiò (1309-43), patrono dei guelfi di tutta Italia,
tutore dei domini della Chiesa in assenza dei papi, protettore
generosamente rimunerato di Firenze, dotto e magnifico, riverito da
Petrarca. Ma alla sua morte la pressoché secolare crisi di
successione che sconvolse il regno mise a nudo la fragilità
politica, economica e sociale dello Stato, ancora dominato da una
feudalità riottosa, che ne perpetuava l'atonia civile, specialmente
nelle campagne. In Toscana, Firenze guelfa e borghese, mentre
cercava tra continue lotte interne un assetto adeguato alla sua
società varia, mutevole, inquieta, doveva difendersi dalle insidie
dei persistenti focolai ghibellini di Lucca, Pisa (ma questa ormai
depressa dalla sconfitta ricevuta da Genova nel 1284 e
dall'occupazione aragonese della Sardegna nel 1324) e Siena, pagando
caro il patrocinio angioino e subiva, poco prima della grande peste,
le conseguenze del fallimento delle sue maggiori banche e i
primissimi tumulti proletari. Da oltre Appennino puntavano sulla
Toscana anche le due più potenti signorie padane, i Visconti di
Milano e gli Scaligeri di Verona, concorrenti per un'egemonia per
impedire la quale Venezia fece le sue prime conquiste in terraferma
a spese degli Scaligeri (Treviso, 1339), con l'aiuto di Firenze e
dei Visconti. S'iniziava così quel processo di espansione dei
veneziani verso ovest e dei milanesi verso est che, eliminate le
minori signorie venete (Scaligeri di Verona, Carraresi di Padova) e
semiparalizzate le contigue (Estensi di Ferrara, Gonzaga di
Mantova), avrebbe portato le due maggiori potenze ad affrontarsi in
implacabili guerre. Genova, oltre ai problemi antichi e nuovi
dell'Oriente e alla connessa rivalità con Venezia, era coinvolta nei
conflitti franco-angioini-aragonesi nel Mediterraneo occidentale e
alle sue spalle si evolvevano situazioni nuove e minacciose:
dall'espansionismo visconteo e dal crescente interessamento dei
Savoia, ormai bloccati dalla Francia nelle loro ambizioni
transalpine, al Piemonte, in contrasto con gli Angioini (che vi
avevano alcune propaggini) e con i marchesi del Monferrato e di
Saluzzo, e anche alla Riviera (Nizza divenne sabauda nel 1388). Tra
il 1327 e il 1333 l'Italia subì due incursioni di mera rapina
provenienti d'oltre le Alpi: quella di Ludovico IV il Bavaro
(1327-30) che, in spregio del papa avignonese Giovanni XXII, suo
avversario implacabile, si fece incoronare a Roma dal popolo in
Campidoglio (1328) con un inedito rito laico ispirato alla dottrina
di Marsilio da Padova, e nominò anche antipapa uno di quei
fraticelli francescani che professavano l'estremismo ascetico e
mistico già caro un tempo a Celestino V, il papa del “gran rifiuto”,
e ora al bando dalla Chiesa; e quella di Giovanni di Boemia
(1330-33), figlio di Enrico VII, avventuriero puro, privo di alcun
titolo per occuparsi della penisola, ma illuso, lusingato e infine
deluso e scacciato da gran parte degli stessi suoi fautori italiani.
Nel 1347 fu la volta della rivoluzione romana di Cola di Rienzo,
densa di significati economico-sociali (rivalutazione del popolo
contro i nobili) e politici (rivalutazione di Roma e delle sue
tradizioni classiche, protesta contro il malgoverno e la diserzione
dei papi), ma presto degenerata e dissolta, stimolo tuttavia alla
ricostruzione degli Stati della Chiesa curata dal cardinale Egidio
Albornoz (1354-67) e al ritorno a Roma dei papi (1377). Nella
seconda metà del Trecento il policentrismo politico dell'Italia andò
radicalizzandosi, ma in un numero minore di Stati più ampi e più
forti e rivali e concorrenti per l'egemonia. All'avanguardia, lo
Stato di Milano che, dall'arcivescovo e signore Giovanni Visconti al
primo duca Gian Galeazzo, tra il 1350 e il 1402, straripò
impetuosamente fuori della Lombardia, giungendo, sia pure
temporaneamente, a Bologna e a Genova, poi a Verona, Vicenza, Padova
e Treviso, in area d'interesse veneziano, e a Pisa, Siena, Perugia,
Assisi, in area d'interesse fiorentino e pontificio. Non senza dure
opposizioni, superate tuttavia con l'impiego, allora generalizzato,
di compagnie di ventura e di spregiudicati quanto espertissimi
condottieri, con la diplomazia e con l'insidia: tutto sommato, con
il denaro, profuso altresì in opere di pubblica utilità, d'arte e di
magnificenza, come l'Università e la Certosa di Pavia e il Duomo di
Milano. La straordinaria fortuna viscontea fu favorita da situazioni
esterne fluttuanti o senz'altro precarie. La Repubblica di Venezia,
appena avviata la sua espansione in terraferma, fu impegnata in due
guerre contro Genova (1350-54 e 1378-81), che misero in gioco non
solo il suo impero commerciale in Oriente ma anche, la seconda (la
“guerra di Chioggia”), la sua stessa incolumità. Uscitane salva, si
trovò nella necessità di svolgere una più attiva politica
continentale e, per frenare i progressi verso il mare degli
Scaligeri di Verona e dei Carraresi di Padova, solidarizzò contro
costoro con i Visconti di Milano. Quanto a Firenze, proprio negli
anni del più temibile balzo visconteo, attraversava la duplice crisi
di una guerra con il papa reduce da Avignone (guerra degli “otto
santi”) e, alla fine di questa, del tumulto dei Ciompi (1378), la
prima grande rivolta proletaria indotta dalla dittatura economica e
politica borghese; rivolta, dopo effimeri successi, soffocata e
seguita da oltre mezzo secolo di oligarchia borghese (1382-1434),
nel quale si dissolsero, insieme con le aspirazioni dei ceti più
umili, le superstiti libertà comunali. I disegni di egemonia di
Firenze oligarchica sulla Toscana, di cui è esempio insigne la
sottomissione di Arezzo (1384), furono a fine secolo tenacemente
sventati da Gian Galeazzo Visconti. Negli Stati della Chiesa, la
ricostruzione del cardinale Albornoz, se predispose un risoluto
ritorno a Roma della sede papale con Gregorio XI (1377), non ebbe
tempo di fruttificare per l'aprirsi dello scisma d'Occidente (1378),
che vi portò guerra, accentuato frazionamento in signorie locali,
aggressioni come terra di agevole conquista, asservimento
finanziario (ai banchieri fiorentini) e deperimento economico; una
situazione di cui Roma stessa sofferse. Il Regno di Napoli, leader
fino alla morte del prestigioso re Roberto (1343), con la sua erede
Giovanna I precipitò nel caos per le lotte fra i tre rami della casa
d'Angiò (d'Ungheria, di Durazzo e di Taranto), che scatenarono
l'anarchia o brigantaggio dei baroni e richiamarono rapaci milizie
mercenarie italiane e straniere, prostrando un Paese già
economicamente depresso e socialmente dissestato. Nel 1372, a
novant'anni dai Vespri, cessò la guerra mai spenta del tutto per
togliere nuovamente agli Aragonesi la Sicilia, anch'essa senza pace
interna; ma in occasione dello scisma, altri conflitti, legati a
quelli dinastici, si accesero tra il regno e il Papato, a spese del
quale infine il re Ladislao di Durazzo s'impose su Roma e su tutti i
domini della Chiesa. Ma questo straordinario ed effimero rilancio
avvenne, nel primo quindicennio del sec. XV, entro un quadro
politico generale molto diverso da quello trecentesco.
Storia: le lotte tra gli Stati italiani
Caduta d'un colpo con la morte di Gian Galeazzo (1402) l'egemonia
viscontea e ridotto il Ducato di Milano alla Lombardia, insorsero
numerose signorie locali e, ciò che è ben più rilevante, Venezia
avanzava rapidamente, eliminando per sempre Scaligeri e Carraresi,
nel Padovano, nel Vicentino, nel Veronese, mentre il papa
raggiungeva Bologna; Firenze conquistava Pisa (1406), e Genova
entrava in orbita francese. La convulsa gara tra gli Stati italiani
per trarre profitto dal rovescio visconteo, che interessava l'intera
penisola, assunse una più precisa configurazione politica quando il
Ducato di Milano passò dall'imbelle Giovanni Maria Visconti a suo
fratello Filippo Maria (1412-47), che intraprese, sulle orme del
padre Gian Galeazzo, la ricostruzione e la riconquista; e in un
decennio ricompose il ducato da Vercelli a Brescia e da Alessandria
a Parma e ottenne la signoria su Genova. Ma si scontrò allora con
Venezia, per cui i domini di terraferma erano ormai divenuti una
fonte indispensabile di sopravvivenza, e con Firenze alleata di
Venezia: le due grandi potenze mercantili esigevano almeno libertà
di transito per la valle del Po. Si combatterono perciò contro
Filippo Maria tre guerre, il cui risultato più importante fu
l'espansione di Venezia fino a Brescia e a Bergamo (1428). Ma,
contemporaneamente, Firenze cresceva di prestigio e di potenza con
la fine del regime oligarchico e l'avvento della signoria di fatto
di Cosimo de' Medici (1434), uomo di punta del nuovo e più
agguerrito manipolo di mercanti e banchieri formatosi dopo la crisi
del sec. XIV; gli Stati della Chiesa, chiuso lo scisma (1418),
risalivano lentamente la china; nel Regno di Napoli, morta senza
figli Giovanna II d'Angiò-Durazzo (1435), sui pretendenti Angioini
di Francia prevaleva, designato dalla stessa regina e, con un
clamoroso rovesciamento di alleanze, aiutato da Filippo Maria
Visconti, Alfonso V re d'Aragona, di Sardegna e di Sicilia (1442)
così che tutta l'Italia meridionale e insulare a eccezione della
Corsica genovese rientrava nel circuito politico iberico, con
conseguenze rilevantissime per la storia futura di tutta l'Italia,
anzi di tutta l'Europa. Alla morte di Filippo Maria (1447), con il
quale si estinse la dinastia viscontea, l'aristocrazia di Milano
rivendicò le antiche e desuete libertà comunali, proclamando la
Repubblica ambrosiana, e analoghe esperienze furono promosse in
altre città, così che il ducato fu di nuovo sul punto di
disgregarsi. Si fecero allora avanti per spartirselo i veneziani da
una parte e dall'altra il duca Ludovico di Savoia, già da tempo
insediato a Vercelli (1427), mentre avanzavano rivendicazioni a
vario titolo il duca Carlo d'Orléans, il re Alfonso d'Aragona, il
marchese Giovanni di Monferrato. Ma tra tutti finì con l'aver
ragione Francesco Sforza, genero di Filippo Maria, condottiero e
politico di gran classe, che Milano repubblicana ebbe dapprima come
difensore, poi come aggressore e infine, per spontanea dedizione,
come signore, anzi, per acclamazione, quindi illegalmente, come duca
(1450). Venezia insistette nella guerra, ma perdette la preziosa
alleanza di Firenze, che Cosimo de' Medici le tolse e accordò allo
Sforza, giudicando nefasta per la sua patria un'eventuale egemonia
veneziana nell'Italia settentrionale quanto lo era stata quella
viscontea. Questa svolta politica, che si ripercosse anche sugli
altri avversari dello Sforza, smorzò in breve gli ardori guerreschi,
mentre la notizia della caduta di Costantinopoli nelle mani di
Maometto II (1453) e il conseguente appello di papa Niccolò V alla
pace e alla meditazione sul pericolo che incalzava la cristianità
affrettarono un accordo tra Venezia e Milano, nella persona di
Francesco Sforza, che consacrò come confine tra i due Stati l'Adda,
con qualche eccezione di scarso rilievo (Pace di Lodi, 1454). Seguì,
sempre sotto l'egida del papa, un patto di non aggressione e di
mutuo appoggio tra Milano, Venezia, Firenze, Roma e Napoli, i cinque
Stati maggiori, “per la pace e la quiete dell'Italia e per la difesa
della santa fede cristiana”, cui aderirono via via gli Stati minori.
Si iniziò in tal modo la cosiddetta “politica dell'equilibrio”,
unica alternativa ai vani ed estenuanti tentativi di conquista o
quanto meno di durevole egemonia su tutta la penisola fatti da
Napoli o Milano o Venezia. Il sistema dell'equilibrio si resse per
quarant'anni (1454-94) e Firenze – con Cosimo de' Medici e poi con
Lorenzo il Magnifico – ne fu il cardine. La relativa solidarietà tra
i cinque Stati più forti salvaguardò la penisola da interventi
stranieri (la “libertà d'Italia”), ancorché per il momento non
prevedibili. Le apparizioni degli imperatori nella seconda metà del
sec. XIV e nel sec. XV, non ebbero infatti alcun fine di conquista o
di affermazione; Alfonso V di Aragona, dopo la conquista, si stabilì
a Napoli e la antepose alla sua patria e il suo successore,
l'illegittimo Ferdinando I, erede della sola corona di Napoli, fu un
principe schiettamente italiano; da parte francese, le
rivendicazioni angioine per Napoli e orleanesi per Milano non
destavano più, o non ancora, allarmi. Ma alla solidarietà verso
l'esterno non ne corrispondeva una altrettanto salda all'interno: le
inestinguibili ambizioni di egemonia dei singoli Stati riaffiorarono
infatti in una serie di episodi che misero in crisi equilibrio e
pace: la congiura dei Pazzi a Firenze (1478), la progettata
spartizione del ducato estense di Ferrara (1482-84), la Congiura dei
baroni nel Regno di Napoli (1484-86) sboccarono in atti di guerra
tra i leader d'Italia, che la diplomazia fiorentina contribuì con
estrema maestria a smorzare.
Storia: il XVI secolo
La crisi dell'equilibrio politico in Italia tra gli Aragonesi di
Napoli, la Firenze medicea, gli Sforza di Milano, il Papato
rinascimentale e nepotista a Roma precipitava per il dinamismo degli
Stati europei: l'Italia diveniva possibile oggetto di dominio o
almeno zona d'intrigo per Francia, Spagna, per gli Asburgo, per la
stessa lontana Inghilterra: per tale predominio nella penisola si
combatterono le più grosse guerre del sec. XVI. La prima a
impegnarvisi fu la Francia di Carlo VIII che, con il motivo
ufficiale della crociata e con l'alleanza di Ludovico il Moro,
contando sull'appoggio a Roma degli avversari di Alessandro VI
Borgia e la fiacchezza di Piero de' Medici a Firenze, conquistava il
Napoletano (1494). Ma una coalizione si serrava intorno ai francesi,
obbligandoli a ritirarsi oltralpe. La Francia, con Luigi XII,
ritentava con successo l'impresa, stavolta puntando su Milano, per
discendenze da un Visconti, previ accordi con Venezia, con
Alessandro VI a favore del figlio Cesare, che così avviava la
creazione di un Ducato di Romagna, con gli stessi svizzeri al
servizio del Moro (1500-12), spartendo quindi il Napoletano con gli
Aragonesi: ma per poco (1501-03), restando poi esso, e per due
secoli (1503-1713), spagnolo, con già la Sicilia e la Sardegna.
L'intervento straniero di Asburgo e Francia era mobilitato
nuovamente da papa Giulio II della Rovere contro Venezia (Lega di
Cambrai, 1508-10) con la partecipazione anche di Inghilterra e
Ungheria; esso era mantenuto sotto insegna antifrancese addirittura
come Lega Santa (1511-13) per via del concilio scismatico convocato
a Pisa da Luigi XII, subito contrastato da quello Lateranense
(1512). L'Italia veniva così perduta dai francesi per l'azione
concomitante e concentrata di veneziani, Imperiali, svizzeri e
spagnoli. Per poco, però: il nuovo re di Francia, Francesco I, si
riconciliava con il nuovo papa Leone X e riprendeva l'iniziativa
egemonica in Italia riconquistando Milano (1515), ma perdeva la
partita con il nuovo imperatore Carlo V d'Asburgo a Pavia (1525)
nonostante la Lega di Cognac contro Spagna e Impero (1526) di
Milano, Firenze, papa Clemente VII. Il “sacco” di Roma (1527), la
Pace di Cambrai (1529), il Congresso di Bologna (1530) con
l'incoronazione di Carlo V segnavano il predominio di Spagna-Impero
con il Milanese nuovamente agli Sforza, ma sotto tutela imperiale, e
il Napoletano confermato alla corona di Spagna, Firenze repubblicana
(1512-29) ridotta con forze imperiali di nuovo sotto la signoria dei
Medici (1530). Francesco I ritentava la conquista del Milanese con
le armi e con la diplomazia valorizzando le irrequietudini interne
di Firenze, di Lucca (1540), di Genova (congiura dei Fieschi, 1547)
oltreché l'alleanza con i Turchi e l'insoddisfazione di Paolo III
Farnese per Carlo V, con qualche successo ma senza esito finale.
Analogo tentativo faceva il figlio Enrico II (1547-59) appoggiandosi
pur esso su propensioni antispagnole e antimperiali del papa e
avvalorando la resistenza antimedicea e antispagnola di Siena
(1552-56), mentre stavolta Genova appoggiava la Spagna: il tutto nel
quadro di più vaste azioni belliche in Europa e nel Mediterraneo.
L'egemonia ispano-asburgica subiva in Italia un'ulteriore minaccia
per l'iniziativa papale di Paolo IV Carafa che, alleandosi con la
Francia di Enrico II, metteva in moto gli alleati di questa, Turchi
e protestanti, su più vasto scacchiere, e così apriva lo Stato
papale all'invasione da sud delle truppe spagnole di Filippo II. La
Pace di Cateau-Cambrésis (1559) sigillava il predominio spagnolo in
Italia (Milanese, Napoletano, Sicilia e Sardegna, i presidi già di
Siena), ma anche la presenza francese (Marchesato di Saluzzo). Nella
penisola, in questo quadro politico-territoriale, si consolidavano
le nuove dinastie dei Medici a Firenze, dei Farnese a Parma e
Piacenza, dei Gonzaga a Mantova e anche nel Monferrato. La vita
politica e culturale, con l'egemonia spagnola non più contrastata da
iniziative e resistenze appoggiate dalla Francia in crisi, e per di
più sotto l'insegna della repressiva Controriforma, si veniva
affievolendo. Il Papato accentuò il suo carattere di guida
spirituale sia nella riforma interna (Concilio di Trento, 1545-63)
sia nell'azione di contenimento e di riconquista del protestantesimo
in Italia e fuori, in questo valorizzando uomini e istituzioni
italiani, come pure nelle missioni extraeuropee (Pio V, Gregorio
XIII), talora (Sisto V) impegnandosi energicamente anche nel governo
dello Stato papale. Tutti gli Stati d'Italia intrecciarono relazioni
con quelli maggiori d'Europa, sostenendo i loro particolari
interessi marittimi e commerciali come Venezia, Genova, Firenze, in
consapevole solidarietà soprattutto nel difendersi dai Barbareschi,
inserendosi così anche con matrimoni (Medici con i Valois e poi con
i Borbone di Francia) nel sistema politico europeo in formazione. Le
lettere e le arti, già ispirate a un gioioso individualismo, ora
erano costrette in un'atmosfera di severi canoni formali ed etici.
Lo stile rinascimentale cedeva il passo al barocco con contenuti di
ispirazione religioso-controriformistica, ma anche mondani. La vita
di società era attiva, ma diventava sempre più privilegio dei ceti
dominanti. La ricchezza, già mercantile, cominciava a preferire e
ricercare l'impiego agrario e con esso talora, mediante l'acquisto
di feudi, anche dignità e privilegio nobiliari.
Storia: gli spagnoli in Italia
Durante il predominio spagnolo l'assetto territoriale dell'Italia
subiva modifiche di minor rilievo: dopo Ferrara (1598) anche Urbino
veniva restituita al territorio pontificio (1631); il Piemonte
sabaudo aveva avuto Saluzzo (1601); Mantova e Monferrato ricevevano
nuove dinastie (1631), mentre la Valtellina, dopo una rivolta
appoggiata dalla Spagna, rimaneva dei Grigioni con garanzie di
libertà religiosa (1629). Però gli Stati d'Italia venivano pur
sempre investiti, anche se in minore misura, dai conflitti in cui
era implicata la Spagna: sia nei domini della corona per pressioni
fiscali in vista di reclutamenti di milizie, sia per la necessità
dei principi di schierarsi per l'uno o per l'altro dei contendenti.
La Francia di Luigi XIV riusciva a soppiantare in numerose corti
l'influsso di Madrid avviata alla decadenza. I vari Stati, pur
tendendo tutti alla struttura assolutistica od oligarchica,
mantennero ordinamenti interni della tradizione comunale. Negli
stessi vicereami spagnoli di Napoli e Sicilia sopravvivevano
istituzioni rappresentative (“Parlamenti”, “Bracci”), che però erano
usate dai ceti locali a difesa del privilegio economico e sociale,
determinando impacci e squilibri nella vita economica e sociale e
anche rivolte (Masaniello a Napoli, 1647). Più efficienti gli organi
locali nel Ducato di Milano. Alquanto simile a quella del Milanese
la situazione della Toscana medicea e quella di Genova, piegata alla
volontà del Re Sole dal bombardamento della flotta francese (1680).
Più attiva la politica interna ma anche quella internazionale del
Piemonte sotto Carlo Emanuele I con iniziative dapprima antifrancesi
e poi antispagnole (Monferrato, Valtellina, Mantova). Ne risultarono
un quasi vassallaggio francese e una guerra civile da cui lo Stato
sabaudo si riprese a fine secolo con Vittorio Amedeo II che seppe
creare nei suoi domini un'organizzazione accentrata sul modello
delle maggiori monarchie europee. Dimensioni europee ebbe pure la
politica di Venezia, provata nel prestigio e nelle risorse
finanziarie dalla lunga guerra di Candia: però essa si riprese nelle
coalizioni antiturche con Papato, Asburgo, Polonia. L'attività
artistica, letteraria, musicale sotto l'insegna del barocco
manteneva la sua vivacità, anche per la circolazione di uomini e
libri tra i diversi Stati italiani e stranieri, nonché per il
fervore delle accademie collegate al movimento culturale europeo.
Pur essendo ostacolato dalla censura della Chiesa e dello Stato, il
dibattito sulle idee portava a significativi progressi tra l'altro
nella fondazione della “nuova scienza” di G. Galilei e della sua
scuola.
Storia: il XVIII secolo
Agli inizi del Settecento la struttura politica dell'Italia era
caratterizzata dall'assolutismo dei sovrani, sia pure con qualche
eccezione nell'Italia settentrionale. La situazione economica
ristagnava per arretratezze nelle tecniche di produzione e di
commercio. La miseria diffusa era accompagnata dal brigantaggio
sulla terraferma e dalla pirateria di musulmani e cristiani sul
mare. Qualcosa di nuovo, tuttavia, si stava verificando, poiché
l'Europa più progradita cominciava a seguire l'esempio di
Inghilterra e Francia. I numerosi Stati dell'Italia continuavano a
essere più oggetti che soggetti nel gioco della politica
internazionale e gravitavano sull'uno o sull'altro dei grandi centri
d'attrazione, sulla Vienna degli Asburgo o le regge dei Borbone, che
con la Pace di Utrecht erano presenti non solo a Versailles, ma pure
a Madrid. La preoccupazione del controllo dell'Italia, in concreto
delle sue corti, rimaneva un problema centrale dell'equilibrio
europeo. Durante la guerra di successione spagnola l'Italia era
stata percorsa da eserciti nostrani e stranieri in funzione delle
alleanze, talora discontinue, delle sue corti, dei Savoia, dei
Medici, degli Estensi. Le paci di Utrecht e di Rastatt (1713-14)
avevano sanzionato la sostituzione, alla corona di Spagna, degli
Asburgo d'Austria in Lombardia, nel Regno di Napoli, in Sardegna con
incremento in territorio e prestigio, mentre i Savoia ottenevano,
con la Sicilia, la corona di re. L'insoddisfazione di Elisabetta
Farnese, moglie di Filippo V di Spagna, trovava nel cardinale
piacentino Alberoni il programmatore audace di una rottura dei
trattati suddetti; ma la reazione di una quadruplice alleanza nel
1718 bloccava tale tentativo. La Farnese però otteneva per il figlio
Parma e Piacenza e l'aspettativa sul Granducato di Toscana, dove
stava per spegnersi la dinastia medicea, mentre i Savoia dovevano
adattarsi a ricevere la Sardegna in cambio della Sicilia, che era
attribuita agli Asburgo (Pace dell'Aia, 1720). Le ulteriori guerre
di successione (quella polacca, 1731-38, e ancor più quella
austriaca, 1741-48) determinavano anche in Italia nuove combinazioni
di alleanze, nuove devastazioni, nuovi assestamenti, tutti
sanzionati dalla Pace di Aquisgrana (1748). In virtù di questa
l'Italia risultava politicamente divisa in tre parti: l'una
direttamente (il Milanese) o indirettamente (Firenze con la nuova
dinastia degli Asburgo-Lorena, Modena con gli Asburgo-Este) nella
sfera di potere o d'influenza di Vienna; una seconda “borbonica”,
con due infanti di Spagna insediati sui troni di Napoli-Sicilia e
Parma-Piacenza; una terza era l'Italia dei vecchi Stati, tra cui
emergeva quello sabaudo ampliato a est di altre foglie del “carciofo
lombardo”, accresciuto in prestigio internazionale, rafforzato da un
riordinamento interno sulla linea del dispotismo paternalistico. La
stabilità politica seguita al 1748 stimolava ovunque sviluppi nella
vita civile, nelle attività economiche, nella cultura sotto
l'influsso degli intensificati rapporti con l'Europa
dell'Illuminismo. La diffusione delle nuove dottrine e delle
“riforme” da esse ispirate fu assai disuguale per le diverse
condizioni degli Stati d'Italia; tuttavia il dispotismo illuminato
dava l'avvio a una trasformazione incisiva in diverse zone
dell'Italia, da considerarsi premessa lontana del Risorgimento. Di
conseguenza, le relazioni con la cultura europea si facevano più
vivaci e continue. La penisola non era più soltanto centro del mondo
cattolico nell'ambito religioso, ma diveniva uno dei nuclei della
cultura illuministica, offrendo suoi contributi al grande movimento
politico-culturale e ispirando riforme politico-amministrative ed
ecclesiastiche non solo nella Lombardia di Maria Teresa e di
Giuseppe II, ma pure a Modena e Parma, nella Toscana di Pietro
Leopoldo, nella Napoli di Tanucci, ma con minore incisività. Nella
stessa Roma al tradizionale mecenatismo artistico e culturale
s'affiancava sotto Benedetto XIV Lambertini e con Pio VI Braschi
l'apertura alle esigenze riformistiche in campo amministrativo ed
economico. Invece i principi sabaudi, fedeli al sistema del governo
burocratico-militaresco diffidente della libertà di espressione,
rimanevano in sostanza estranei al moto culturale dell'Europa
cosmopolita.
Storia: l’Italia napoleonica
In Italia il dispiegarsi della Rivoluzione francese provocava
insieme una crisi del riformismo dei principi e il manifestarsi di
gruppi giacobini che univano presto alle aspirazioni rinnovatrici in
campo politico-sociale quella dell'unificazione nazionale. Deluse
dalla politica spoliatrice degli eserciti di Francia in Savoia e a
Nizza, le speranze dei giacobini si ravvivarono nel 1796 all'arrivo
del generale Napoleone Bonaparte salutato come “liberatore” perché
più aperto a tali aspirazioni sociali e nazionali. Nasceva così in
un'assemblea di patrioti di città dell'Emilia l'idea di una
Repubblica Cispadana alleata a quella francese con proprio esercito
e propria bandiera, il tricolore verde-bianco-rosso (gennaio 1797).
Intanto Bonaparte aveva imposto al re di Sardegna la cessione di
Nizza e Savoia alla Francia, aveva battuto gli austriaci, imposto le
proprie condizioni ai duchi di Parma e di Modena, nonché a Pio VI,
compresa un'indennità di guerra in denaro e in opere d'arte,
aggravando le condizioni nella Pace di Tolentino (febbraio 1797).
Nella Lombardia sgombrata dagli austriaci veniva costituita la
Repubblica Cisalpina con il confine all'Adige in virtù del
sacrificio dello Stato della laguna (Pace di Campoformido, 1797). La
Repubblica Cisalpina, come le similari Repubbliche Ligure, Romana e
Napoletana (1798-99), rappresentava l'esperienza delle nuove idee e
forze politico-culturali affiorate al potere. Esse però, con i
regimi filofrancesi di Toscana e Piemonte, venivano travolte di lì a
poco dal ritorno offensivo austro-russo in coordinazione con forze
popolari ostili a Milano, Roma, Napoli. Ma la riapparizione
vittoriosa di Bonaparte, ora primo console, che travolgeva le forze
austriache della seconda coalizione imponendo, in concomitanza con
l'esercito del Reno, il Trattato di Lunéville (1801), permetteva il
ricostituirsi della Repubblica Cisalpina, che diveniva ora
Repubblica Italiana, e ai Borbone di Parma di divenire “re
d'Etruria”. Ma altra ridistribuzione era riservata ai territori
d'Italia nel quadro dell'Impero napoleonico (1805-14). L'intento era
di mantenere la penisola soggetta all'Impero francese, sia pur
provvedendo al suo sviluppo economico e civile, dando così
soddisfazione iniziale a quanti attendevano da Napoleone l'unità
politica e l'indipendenza dell'Italia. Nel Regno d'Italia allargato
a E e a S vennero così favoriti con il miglioramento della viabilità
i commerci, già promossi anche dall'introduzione del Codice
napoleonico; la subordinazione dell'economia italiana agli interessi
industriali francesi veniva però accentuata dal blocco continentale
del 1806. Maggiore autonomia ebbe il Regno di Napoli, sia sotto il
re Giuseppe Bonaparte sia sotto Gioacchino Murat, e anche più
incisive riforme (abolizione del regime feudale, Codice napoleonico,
istituzioni cautamente rappresentative, esercito nazionale). Nel
1810 tra i due regni d'Italia e Napoletano era incuneato in
profondità l'Impero francese che si era annesso la Toscana e lo
Stato Pontificio: rimaneva fuori la Sicilia sempre sotto i Borbone
protetti dalla flotta inglese come pure la Sardegna sabauda. E
questa semplificazione di confini facilitava gli interscambi in più
vaste zone. Ma, nonostante questo, pure in Italia il sentimento
nazionale si rivoltava contro il dispotismo napoleonico, sempre più
oppressivo per le leve militari, la pressione fiscale, il blocco,
gli arbitri, le prepotenze (per esempio nei riguardi di papa Pio
VII). Di questo approfittarono gli austriaci nella grande, decisiva
controffensiva del 1813-14, annunciandosi anch'essi quali liberatori
dallo straniero e fautori dell'unità italiana. Invano il viceré
Eugenio di Beauharnais cercava di conservare il regno: gli
antifrancesi prevalevano sui suoi fautori e Milano veniva rioccupata
dagli austriaci. Nel contempo a Torino rientrava dalla Sardegna
Vittorio Emanuele I, a Roma dall'esilio coatto Pio VII e così gli
altri principi avviando la Restaurazione. Più tenace la resistenza,
insieme politico-diplomatica e militare, di Murat a Napoli, che già
nel 1813 si era dissociato da Napoleone e che inalberava addirittura
il programma dell'unità durante i Cento Giorni del ritorno di
Napoleone al potere (proclama di Rimini, 30 marzo 1815). Ma egli
pure travolto dalle armi doveva sgombrare a favore di Ferdinando IV
di Borbone e un tentativo di ritorno si concludeva con la sua
cattura e fucilazione (ottobre 1815).
Storia: Restaurazione e primi moti
Le rilevanti innovazioni napoleoniche, ispirate a esigenze
economiche, oltreché politico-dinastiche e strategiche, lasciavano
le loro impronte anche negli Stati anterivoluzione restaurati con le
decisioni stabilite dal Congresso di Vienna (1815). Dalle
unificazioni realizzate nel Regno d'Italia traeva vantaggio
l'Austria mantenendo un Regno Lombardo-Veneto, e in esso talune
riforme assieme a corpi rappresentativi (le Delegazioni), pur
reintroducendo il Codice austriaco. Nella Restaurazione dei Lorenesi
in Toscana riemergevano le tradizioni del riformismo leopoldino e
mite era pure, per ragioni diverse, l'assolutismo reintegrato da
Maria Luisa d'Austria (la madre del “Re di Roma” Napoleone II ora
duca di Reichstadt), di Luisa di Borbone a Lucca, pur sotto il
controllo della corte di Vienna. Più radicale la reazione alle
istituzioni, alle idee, agli uomini del periodo francese a Modena e
Reggio con Francesco IV d'Austria-Este; come pure nei domini dei
Savoia, inoltre accresciuti dal Genovesato, al ritorno di Vittorio
Emanuele I. Diverse istituzioni napoleoniche aveva dovuto conservare
nel Napoletano Ferdinando IV di Borbone, pur non tardando a
reintegrare in privilegi e beni i nobili e, con il concordato del
1818, anche la Chiesa. Assumendo poi il titolo di re delle Due
Sicilie nel 1815 egli si illudeva di spezzare, con le tradizionali
autonomie della Sicilia, anche le aspirazioni liberali in esse
implicite che pure aveva lasciato sviluppare nell'isola durante il
periodo napoleonico, anche per sollecitazione inglese. Nello Stato
Pontificio la Restaurazione, dapprima sotto il cardinale Rivarola,
significò reazione radicale alle istituzioni francesi e persecuzione
dei loro fautori; in un secondo tempo però, con il più illuminato
governo del cardinale Consalvi, essa valorizzò le esperienze del
periodo napoleonico. Anche in politica estera Consalvi mantenne un
certo distacco dal direttorio delle grandi potenze, tra l'altro
rifiutando di aderire, oltreché alla Santa Alleanza, alla stessa
Lega Italica progettata da Metternich. Il malcontento che fermentava
a opera di ex ufficiali napoleonici, di ex funzionari filofrancesi,
di liberi spiriti aveva una prima manifestazione nel 1820-21. Da
Napoli, sotto la suggestione della rivoluzione di Spagna del gennaio
1820 e per iniziativa di “carbonari” muratiani, il moto si estendeva
alla Sicilia, dove però le istanze autonomistiche del governo
liberale formatosi a Napoli secondo la richiesta costituzione di
modello spagnolo furono subito represse. Presto erano corse intese
anche tra le società segrete di Lombardia, Romagna, Piemonte, dove
raggiungevano persino un erede al trono, Carlo Alberto di
Savoia-Carignano. Ma anche l'organo repressivo della Santa Alleanza
si metteva in movimento: nel Congresso di Lubiana, con l'adesione
dello spergiuro re Ferdinando, era decisa la repressione nel regno
del Sud con truppe austriache (1821). Cosa analoga queste facevano
per iniziativa del reggente Carlo Felice in Piemonte (aprile 1821).
In Lombardia, a Modena, nello Stato Pontificio avrebbero completato
l'azione repressiva polizia e tribunali nel 1823-24 (S. Pellico, P.
Maroncelli, F. Confalonieri). La Rivoluzione francese del luglio
1830 spingeva nel 1831 nuovamente all'azione gruppi di carbonari,
che facevano affidamento sulla Francia liberatrice, ma pare, con
calcolo errato, anche su ambizioni dinastiche di Francesco IV di
Modena: l'insurrezione dilagava da Modena e Reggio alle Legazioni e
alle Marche, dove gli insorti creavano uno Stato delle province
unite con governo provvisorio a Bologna. Nuovamente intervenivano le
truppe austriache su richiesta del duca di Modena. Queste entravano
poi ancora nelle Legazioni e nelle Marche quando i liberali,
insoddisfatti delle riforme introdotte nell'amministrazione in
seguito al memorandum delle potenze (21 maggio 1831), avevano
ripreso le agitazioni. Ma stavolta a controbilanciare la presenza
austriaca nello Stato Pontificio, sbarcavano ad Ancona forze
francesi: e la duplice occupazione durò fino al 1835. Dal 1831, a
fianco dell'iniziativa liberal-costituzionale e indipendentistica,
appoggiata a principi e sostenuta dalla Carboneria, si dispiegarono
dal basso quella democratico-repubblicana e rigorosamente unitaria
di G. Mazzini e della sua Giovine Italia, società inserita presto
nel più ambizioso quadro della Giovine Europa. Essa fece le sue
prime esperienze, invero negative, in Piemonte (1834) partecipe
Garibaldi, in Calabria nel 1844 con i fratelli Bandiera, poi in
Romagna nel 1854. Tali azioni accentuavano la polemica politica e
fornivano argomenti ai programmi moderati che prospettavano l'unità
politica nella forma attenuata di una confederazione degli Stati
esistenti, previe riforme interne che li modernizzassero nelle
strutture, nella vita economica, nella cultura, e questo con il
rilievo precipuo dell'elemento cattolico-papale nella tradizione
nazionale in spirito neoguelfo (V. Gioberti, A. Rosmini, N.
Tommaseo, M. D'Azeglio) e con riguardo alle possibilità offerte dal
gioco dell'equilibrio delle potenze (C. Balbo). E non mancava un
federalismo repubblicano (C. Cattaneo) con forte accento
anticlericale (G. Ferrari), che era condiviso dai “neoghibellini”
(G. Niccolini). A codesti moti e a codesti sviluppi di pensiero
risorgimentale in concordia discors si contrapponevano sia la
repressione poliziesca sia la polemica ideologicamente
conservatrice, particolarmente impegnata nel fronteggiare il
movimento mazziniano. E questo nel Sud sotto Ferdinando II, in
Sicilia (1837), nello Stato Pontificio sotto Gregorio XVI, a Modena;
mentre nel Lombardo-Veneto dal nuovo imperatore Ferdinando I erano
elargite amnistie e in Toscana perdurava la tradizione leopoldina di
buona amministrazione e di tolleranza. In Piemonte sotto Carlo
Alberto si venivano intanto preparando gli uomini e i programmi che
avrebbero fatto del regno subalpino la guida del moto risorgimentale
nella direttiva liberale-moderata. Un impulso imprevisto veniva dato
al movimento delle riforme dal nuovo papa Pio IX con amnistie per
reati politici, con l'introduzione di laici nel governo, con la
creazione di una Consulta di Stato, creando con ciò l'equivoco e il
mito del papa “liberale”. Intanto si delineava nell'economia del
Paese una crescita, sia pur lenta e graduale, della produzione
industriale con la meccanizzazione delle imprese di tessitura e
filatura; più invero nel Lombardo-Veneto e in Toscana e meno nello
Stato Pontificio e nel Piemonte. Sostanzialmente rurale e a coltura
estensiva rimaneva l'economia nel Sud con la proprietà terriera
accentrata in latifondi. La cultura invece passando dal classicismo
al romanticismo era in vigoroso sviluppo. L'Italia, già in fermento
fin dal 1846-47 per le riforme di Pio IX e la loro valorizzazione da
parte dei promotori di liberalismo e unità nazionale, veniva
investita dal movimento rivoluzionario di fuori con sviluppi cui
apportavano il loro contributo sia iniziative dall'alto (dei Savoia,
di Pio IX, parzialmente dei Borbone di Napoli e dei Lorenesi di
Toscana), sia iniziative popolari (di Mazzini, di Garibaldi, di
Cattaneo con i democratici lombardi, di Montanelli e dei democratici
toscani). Anche in Italia il biennio 1848-49 può essere distinto in
due fasi: una prima di insurrezioni vittoriose e una seconda di
rallentamento nei moti, di isolamento dei radicali e infine di
eliminazione dei governi insurrezionali. Inoltre l'insuccesso delle
correnti liberali e democratiche nella loro fase di potere, a
Milano, in Toscana, a Napoli-Palermo, a Roma, con la confermata
egemonia austriaca nella “seconda Restaurazione”, aprì la strada al
costituzionalismo piemontese (D'Azeglio, Cavour), che dispiegava
ardite iniziative tanto nelle innovazioni interne quanto nella
politica estera in vista dell'ormai prossima indipendenza e
dell'unità nazionale.
Storia: il 1848
Questo anno si caratterizza per la molteplicità dei centri e la
multiformità delle forze che premono per il mutamento o addirittura
per il rovesciamento dell'ordine esistente. Con il passare del
tempo, alle richieste di libertà politica, di istituzioni
rappresentative, di indipendenza e unità nazionale, si sono aggiunte
istanze più radicali di rivendicazione del potere al popolo o
addirittura socialiste di una nuova struttura economica e sociale.
Però nel biennio sono gli interessi della borghesia che in
prevalenza si fanno valere (libero commercio, sviluppo di strade,
canali, ferrovie, espansione del capitale, applicazione delle
macchine alla produzione artigianale). Già nel gennaio 1848 la
Sicilia era insorta reclamando la Costituzione autonomistica del
1812 e Ferdinando II (1830-59) elargiva a Napoli il 29 gennaio una
Costituzione. Carlo Alberto il 4 marzo 1848 pubblicava lo Statuto
formando un governo costituzionale con a capo C. Balbo; già Leopoldo
II di Toscana aveva concesso la richiesta Costituzione sul modello
di quella francese del 1830; e pure Pio IX pubblicava una
Costituzione (14 marzo), invero con disposizioni particolari. Per
riflesso della rivoluzione di Vienna si agitava anche il
Lombardo-Veneto come pure i ducati padani. I milanesi respingevano
un editto imperiale che prevedeva rappresentanze di tutte le
province in una dieta e, con lo stimolo e sotto la direzione di
radicali democratici (Cattaneo), organizzavano la rivolta armata,
obbligando gli austriaci a sgombrare la città (Cinque Giornate,
18-22 marzo). E con il ritiro delle truppe austriache anche i duchi
di Parma e di Modena erano costretti a cedere ai rivoltosi. A dare
man forte agli insorti lombardi organizzatisi rapidamente in milizie
volontarie, interveniva Carlo Alberto inalberando il tricolore del
Regno d'Italia, sia pure inserendovi la croce sabauda. La guerra
antiaustriaca si proclamava guerra “nazionale” e a essa aderivano i
governi costituzionali di Toscana e Napoli e, inizialmente, lo
stesso Pio IX. Questi però, a breve scadenza, in un'allocuzione del
29 aprile, limitava la funzione delle truppe pontificie alla
salvaguardia dei confini, pur consigliando a Vienna di rinunziare
alle sue province di qua dalle Alpi. Intanto anche Venezia era stata
sgombrata dagli Austriaci e aveva creato un governo provvisorio
inalberando nuovamente l'insegna di San Marco su ispirazione di
Manin. I successi militari di Carlo Alberto (Peschiera) e politici
(il plebiscito di annessione al Piemonte) erano però di corta
durata; sconfitto nel luglio a Custoza, nell'Armistizio Salasco si
obbligava a sgomberare i ducati padani e a sciogliere i corpi di
volontari lombardo-veneti. Queste vicende politico-militari, in cui
si era inserito anche G. Garibaldi, accorso dall'America, avevano
avuto immediate ripercussioni su quelle interne dei singoli Stati,
dove i partiti si scontravano nei giornali, nei Parlamenti, nei
comizi, propugnando i loro programmi: dal costituzionalismo moderato
al radicalismo democratico-repubblicano, dal tradizionale
municipalismo al federalismo giobertiano o addirittura
all'unitarismo mazziniano, che sollecitava la “costituente
italiana”, in cui i radicali senza volerlo facevano il gioco dei
fautori dell'assolutismo. Infatti già nel maggio 1848 Ferdinando II
scioglieva la Camera a Napoli, senza tuttavia, per il momento,
piegare il separatismo siciliano; Pio IX, con l'assassinio del suo
ministro costituzionale P. Rossi a opera di un popolano mazziniano
(Ciceruacchio), vedeva infranto il suo tentativo di stabilire ordine
nel quadro delle nuove istituzioni e abbandonava Roma per non
contestare né subire le direttive del nuovo governo “democratico”.
In tal modo i radicali mazziniani avevano mano libera: un
triumvirato, Mazzini, Saffi e Armellini, convocava un'Assemblea
Costituente romana, pensata come parte della Costituente italiana
(febbraio 1849), che dichiarava decaduto il potere temporale dei
papi e proclamava la Repubblica Romana. Una radicalizzazione analoga
era avvenuta pure in Toscana con il governo di D. Guerrazzi,
inducendo il granduca a raggiungere Pio IX nell'esilio di Gaeta
(febbraio 1849). Anche a Torino falliva il moderatismo del governo
Gioberti sia in politica interna sia in quella estera: i democratici
con U. Rattazzi al governo imponevano la denunzia dell'armistizio
con l'Austria, la ripresa delle ostilità, in coordinazione con
l'insurrezione di Brescia (marzo 1849); ed esse si concludevano
rapidamente con la sconfitta di Novara, l'abdicazione di Carlo
Alberto, la successione di Vittorio Emanuele II che, pur accettando
pesanti clausole militari e finanziarie, sapeva resistere alla
richiesta di abolire lo Statuto (Pace di Torino, agosto 1849). Ne
conseguiva la dura repressione di Brescia (Dieci Giornate) e anche
la Repubblica di S. Marco, assediata, doveva, pur difesa da patrioti
d'ogni regione, capitolare per la fame e per il colera (24 agosto
1849). La seconda Restaurazione procedeva rapida: nel maggio Palermo
cedeva ai Borbone; in Toscana Leopoldo II, richiamato, era rientrato
a Firenze con scorta austriaca; la Repubblica romana rimaneva
isolata, divisa da fazioni, premuta dall'esterno dagli interventi
chiesti dal papa alle potenze cattoliche (Napoli, Spagna, Austria e
la Francia con Luigi Napoleone presidente). E alle forze francesi,
la difesa, diretta da Garibaldi, doveva cedere il 1º luglio 1849.
L'Italia sembrava così ritornata alla situazione del 1846: ma i
fermenti e le esperienze del 1848-49 erano destinati a spezzare
definitivamente anche la seconda Restaurazione di lì a un decennio.
Storia: la politica di Cavour
Nel 1849, dopo una fase di predominanza del radicalismo mazziniano,
i vecchi regimi erano ritornati al potere in virtù delle forze
conservatrici di fuori ma in collaborazione con quelle interne
(fatta eccezione per lo Regno subalpino). La durezza delle
repressioni e la dimostrazione di forza della polizia e degli
eserciti, che Vienna controllava e coordinava, senza tuttavia
riuscire nel progetto di una lega doganale sul modello di quella
tedesca (1852), avevano come risposta un'intensificazione della
propaganda mazziniana coordinata da fuori da un Comitato democratico
europeo e attiva in comitati locali (a Mantova con E. Tazzoli, 1852;
a Milano, con A. Sciesa, febbraio 1851; in Cadore, con P. F. Calvi,
settembre 1853). Meno energica l'azione nei ducati padani, a Modena
e Parma, anche per un certo ritorno di quei principi al riformismo
paternalistico e per un certo distanziamento da Vienna. Vive le
aspirazioni liberali in Toscana di fronte al governo decisamente
reazionario di Leopoldo II, che aveva revocato la Costituzione e
abbandonato il tradizionale giurisdizionalismo nel concordato del
1851 con Pio IX. Fortemente controllata l'opinione pubblica nello
Stato Pontificio con un motu proprio di riforme, promesse, ma non
applicate, e l'occupazione straniera austriaca e francese di buona
parte del territorio. Il regime ierocratico si rivelava sempre meno
conciliabile con le nuove idee e con le nuove istituzioni
costituzionali e il mito di Pio IX liberale e generoso svaniva non
solo negli animi degli intellettuali e borghesi già fautori del
neoguelfismo, ma pure in gran parte del popolo. Anche l'azione di un
Comitato nazionale romano di moderati in relazione con Torino era
presto bloccata, mentre continuava l'iniziativa rivoluzionaria dei
mazziniani nell'illegalità. A Napoli Ferdinando II riprendeva a
governare dispoticamente, simpatizzando con il popolino, ma
isolandosi dal ceto culturale del Paese: personalità come L.
Settembrini, C. Poerio, S. Spaventa venivano duramente condannate
per la loro attività nella società segreta Unità italiana (gennaio
1851 e ottobre 1852). All'isolamento del re nei rapporti con i
sudditi si aggiungeva quello del regno sul piano internazionale,
soprattutto nelle relazioni con l'Inghilterra (Due lettere di
Gladstone sulle persecuzioni del governo napoletano) e con la
Francia dal 1856. Anche qui ci fu un moto mazziniano (quello di C.
Pisacane a Sapri, 1857), che venne di nuovo represso, determinando
indirettamente una crisi nei rapporti con il governo di Torino. Così
il Regno delle Due Sicilie, nonostante un forte impegno in lavori
pubblici, si avviava alla crisi, persistendo pure il contrasto tra
Napoli e Palermo, dove l'avversione ai Borbone era pressoché
generale e cresceva la simpatia per il Piemonte. L'iniziativa
indipendentistica e, subordinatamente, unitaria rimaneva pertanto
con prospettive di concreta efficienza nel Piemonte costituzionale:
esso si veniva preparando alla sua funzione italiana con la
trasformazione delle sue strutture interne in senso liberale, sia in
campo ecclesiastico e fiscale (leggi Siccardi-Rattazzi, 1855), sia
in campo economico, sotto la salda direzione di C. Benso di Cavour e
la sua maggioranza parlamentare di centrosinistra. Il Regno
subalpino si inseriva poi, in vista delle aspirazioni
indipendentistiche italiane, nella politica delle grandi potenze
alleandosi con Francia e Inghilterra nella guerra antirussa di
Crimea (1854-55) e tentando di inserire il problema italiano
nell'ordine del giorno della Conferenza di Parigi (1856) in
posizione nettamente antiasburgica. Miglior esito ebbero al riguardo
gli Accordi di Plombières (1858) per una guerra all'Austria, che
Cavour, eludendo la mediazione di pace inglese, si faceva
dichiarare, rifiutando lo scioglimento dei corpi volontari intimato
dall'Austria. Francesi e piemontesi riuscivano a riunirsi, a battere
gli austriaci, a entrare trionfalmente accolti in Milano; e questo
in coordinazione con i Cacciatori delle Alpi organizzati e comandati
da Garibaldi. Intanto la Società nazionale d'ispirazione cavouriana,
che accettava la direzione piemontese del movimento nazionale,
provocava il crollo del regime granducale a Firenze e quello dei
Borbone e degli Estensi a Parma e Modena, nonché del governo papale
nelle Legazioni, dando vita ai governi provvisori di Ricasoli in
Toscana, di Farini in Emilia, che subito chiedevano l'appoggio del
Piemonte e vi si dichiaravano annessi, proclamando Vittorio Emanuele
“dittatore”. Nelle Marche e in Umbria invece le insurrezioni
venivano represse dai pontifici. Ma la guerra di liberazione, dopo
le sanguinose battaglie a Solferino e San Martino (24 giugno 1859),
veniva improvvisamente fermata dall'Armistizio di Villafranca (11
luglio 1859) concordato a due tra Francesco Giuseppe e Napoleone III
e dalla successiva Pace di Zurigo (10 novembre 1859) senza
consultazione del re subalpino. I sovrani di Modena, Parma, Firenze
potevano ritornare sui loro troni (ma senza aiuto di fuori, come era
avvenuto nel 1849) e l'Austria era ammessa nella prevista
confederazione degli Stati d'Italia. Cavour dava le dimissioni, ma
continuava ad alimentare l'azione clandestina contro le clausole
dell'armistizio: ufficialmente i commissari sardi nei ducati e in
Toscana erano ritirati dal nuovo governo Lamarmora-Rattazzi; ma
questi vi rimanevano di fatto per voto di assemblee costituenti che
rinnovavano l'annessione al Piemonte. Codesti avvenimenti
mantenevano così aperta la questione italiana. Era quanto voleva
Cavour, il quale, ritornato al potere (gennaio 1860), riusciva a
convincere Napoleone III a riconoscere il diritto di autodecisione
delle popolazioni (come già aveva fatto l'Inghilterra), sia pure
cedendo quale contropartita Nizza e Savoia. E i plebisciti
sanzionavano nel marzo 1860 le annessioni di Toscana, ducati e
Legazioni al Regno subalpino.
Storia: da Garibaldi al Regno d’Italia
Gli avvenimenti politico-militari del Nord non tardavano a
ripercuotersi nel Sud. Qui l'agitazione antiborbonica, sia tra
intellettuali e borghesia sia tra i contadini, era esplosa in
turbolenze alimentate dai mazziniani di Sicilia, specialmente a
Palermo. Vi si inseriva la Società nazionale da fuori con F. Crispi
e G. La Farina, organizzando la “spedizione dei Mille”, volontari
sotto il comando di Garibaldi (maggio 1860), non senza l'aiuto
finanziario piemontese e il tacito assenso di Cavour. La conquista
della Sicilia era rapida per l'apporto dei contadini insorti
(picciotti), per i decreti agrari di Garibaldi che accentuavano il
carattere rivoluzionario e sociale dell'impresa, per lo sfaldamento
dell'esercito borbonico. Ancor più facile l'ulteriore marcia su
Napoli per l'entusiasmo delle popolazioni e la demoralizzazione
dell'esercito borbonico. A Napoli il “prodittatore” veniva raggiunto
da Mazzini che premeva per un'assemblea costituente in vista di uno
Stato unitario repubblicano. Garibaldi dichiarava che il Regno unito
d'Italia sotto Vittorio Emanuele l'avrebbe proclamato solo a Roma.
Di fronte a questo, per riavere in mano l'iniziativa, Cavour,
assicuratosi il consenso di Napoleone III, decideva l'intervento
regio. Con il motivo di disordini in Umbria e nelle Marche papali,
le faceva occupare (settembre 1860) e poco dopo (novembre) le
chiamava con un plebiscito all'annessione. Le truppe piemontesi
stringevano poi d'assedio Gaeta, ultimo fortilizio dei Borbone,
quando già a Napoli e a Palermo era stato tenuto (21 ottobre 1860)
il plebiscito per l'annessione a Torino. Tuttavia la battaglia
diplomatica per ottenere il riconoscimento delle annessioni si
presentava dura: però l'assenso, calcolato, inglese determinava
quello, meno convinto, di Parigi. Nel febbraio del 1861 si poteva
pertanto riunire il primo Parlamento con deputati di tutta l'Italia
libera: esso proclamava (17 marzo 1861) il Regno d'Italia e per esso
rivendicava subito Roma come capitale. L'unificazione così
rapidamente attuata poneva al nuovo Stato un gran numero di
problemi: un bilancio gravato di spese, dell'onere di debiti con il
difficile reperimento di nuove entrate; l'ordine pubblico minacciato
dal malcontento organizzato nel Sud, leggi, consuetudini, procedure
giudiziarie assai differenti nelle diverse parti dello Stato; un
diverso sviluppo economico e un diverso tenore di vita tra il Nord e
il Sud. L'improvvisa morte di Cavour (giugno 1861) ne rendeva anche
più difficile la soluzione. Lo Stato unitario si costituiva inoltre
centralizzato a scapito di autonomie attese e senza riguardo alle
tradizioni regionali. La pressione dei radicali per il completamento
dell'unità con il Veneto e Roma, ispiratore Garibaldi, era forte e
imponeva prese di posizione impopolari (Aspromonte, 1862). La
questione romana del 1864 (convenzione di settembre) veniva
accantonata per riguardo a Napoleone III: quella del Veneto era
risolta, invero in modo insoddisfacente, inserendo l'Italia (1866)
nella tensione tedesca tra Prussia e Austria, con l'alleanza
italo-prussiana (anche per prevenire l'azione di forza progettata
dalla sinistra mazziniana con Garibaldi). La sola Venezia Euganea
era così annessa nell'ottobre 1866, sempre con plebiscito. Anche la
questione romana maturava in connessione con la situazione
internazionale, dopo il vano tentativo di ottenere da Pio IX la
cessione pacifica di Roma al nuovo Stato unitario con la controparte
di una politica ecclesiastica ispirata al principio enunciato da
Cavour di “libera Chiesa in libero Stato”. La caduta di Napoleone
III, protettore interessato del residuo di potere temporale dei
papi, permetteva all'esercito regio l'azione di forza di porta Pia
(20 settembre 1870). Questa soluzione militare doveva però attendere
a lungo quella politica del riconoscimento internazionale. Pio IX
infatti sospendeva il Concilio Vaticano I, si dichiarava prigioniero
e non più in grado di esercitare liberamente le sue funzioni di
reggitore della Chiesa universale, comminava nuovamente la scomunica
sugli “usurpatori” dello Stato Pontificio e rifiutava per il
contenuto, oltreché per il suo carattere unilaterale di disposizione
non negoziata, la “legge delle guarentige” (maggio 1871). Questa,
approvata non senza contrasti tra moderati e radicali, intendeva
salvaguardare le prerogative del pontefice romano e della Santa
Sede, mantenendo, per quanto riguardava le relazioni dello Stato con
la Chiesa, il placet e l'exequatur dello Stato alla nomina di
vescovi e parroci, lasciando inoltre sopravvivere le leggi eversive
delle istituzioni e proprietà ecclesiastiche, riservando la nuova
regolamentazione a ulteriore legge, che però non fu mai impostata
fino al 1925.
Storia: la destra storica
L'unità territoriale si era realizzata con il consenso piuttosto
passivo di una parte considerevole della classe dirigente
nell'euforia del successo militare e politico del Piemonte: rimaneva
da realizzare l'unità nell'amministrazione, nelle leggi e, più
oltre, nella struttura economica, nel costume, nella cultura, nella
mutua conoscenza e nella mutua estimazione. Occorreva radicare
l'unità nelle coscienze con l'educazione e la cultura popolare, con
la partecipazione più larga di ceti e gruppi alla vita dello Stato,
alla determinazione dei suoi compiti e alla formulazione delle sue
leggi. Ne dovevano essere premessa la scuola primaria obbligatoria e
gratuita, l'allargamento del diritto di voto, il mitigamento delle
esclusioni politiche. L'accentramento amministrativo contro le
istanze autonomistiche avanzate tra gli altri da M. Minghetti e C.
Farini si accompagnava all'uniformità legislativa, che era in
sostanza rappresentata dall'estensione al resto dell'Italia delle
leggi piemontesi. Bisognava fondere le economie di numerosi Stati
che si erano sviluppate isolatamente, con proprie barriere doganali
e differenti criteri d'imposizione tributaria. L'abolizione delle
barriere interne danneggiò pertanto le industrie locali,
specialmente nel Sud: tuttavia le costruzioni ferroviarie e il
miglioramento della viabilità avviarono all'integrazione
dell'economia prevalentemente agricola del Sud con quella sempre più
industrializzata del Nord, mentre la Toscana sviluppava le sue
tipiche manifatture e ne impiantava di nuove. Anche la navigazione
si adeguava all'unità territoriale con il maggior movimento di merci
e passeggeri, dando incremento all'industria dei cantieri navali,
ancora agli inizi. Il credito affiancò lo sviluppo dell'economia,
con larga partecipazione anche di capitale straniero. Nel sistema
fiscale prevalevano tuttavia le imposte indirette sui generi di
largo consumo rispetto a quelle dirette sui redditi. Perdurava il
divario nel tenore di vita tra le zone industrializzate del Nord e
quelle ad agricoltura, prevalentemente estensiva, del Meridione. E
di questo lo Stato si rendeva consapevole attraverso inchieste
parlamentari sulle condizioni di vita nelle campagne (inchiesta
Jacini, 1876) e nelle industrie. Anche per merito della pressione
dal basso delle organizzazioni operaie, confortata da un largo
movimento di opinione pubblica, lo Stato si avviava sulla strada
della legislazione sociale. Tuttavia, in seguito all'aumento della
popolazione in misura superiore a quello dei mezzi di sussistenza
diretti o indiretti, si determinò a partire dal 1880 il grande
fenomeno dell'emigrazione in Europa e oltreoceano, che ha dato per
alcuni anni una sua impronta alla vita economica nazionale, e non
soltanto a quella. L'attività politico-legislativa e quella
amministrativa locale erano consentite, come elettori ed eletti,
solo a chi aveva un reddito, all'incirca solo al 2% della
popolazione. Ma da quella politica rimanevano assenti anche quanti
riluttavano in coscienza a riconoscere lo Stato unitario che aveva
manomessi diritti dichiarati intangibili dalla Santa Sede e
sviluppato una legislazione antiecclesiastica. Nel ceto, poi, che
esercitava il potere, la maggioranza (di destra) considerava suo
compito immediato il consolidamento delle istituzioni esistenti, il
rafforzamento dello Stato in senso accentratore, il pareggio del
bilancio. Ma tale politica era contestata da gruppi della borghesia
intellettuale di formazione giacobina e mazziniana, che
sollecitavano una laicizzazione più radicale per scuole e opere pie,
che propugnavano un sistema tributario meno gravoso per le classi
lavoratrici, nonché un allargamento del diritto di voto ai cittadini
non abbienti, operai e artigiani: e questo nello spirito di Mazzini
e di Saint-Simon in “patti di fratellanza”, ma anche in quello di K.
Marx in società operaie esprimenti la solidarietà del proletariato
nella lotta contro i detentori della ricchezza e del potere, ovvero,
addirittura nello spirito ancor più radicale dell'anarchico M. A.
Bakunin contro ogni forma di autorità e di disuguaglianza. Dei
600.000 iscritti nelle liste elettorali del 1871 (su 25 milioni) si
presentarono alle urne solo i due terzi: e tra i non votanti erano
facilmente avvertibili gli astensionisti (più nel Nord e nel Centro
che nel Sud) per protesta contro la direttiva antipapale e
anticlericale dello Stato. Il governo democratico e radicale della
sinistra iniziato nel 1876 avviava a un allargamento del voto: nel
1882 gli elettori salivano al 10% pur venendo ridotti di nuovo da
Crispi con una legge elettorale restrittiva (1887) al 7%. Nel 1892
si costituiva il Partito Socialista Italiano (PSI), con una
rappresentanza parlamentare di uomini autorevoli. Nuovi problemi
venivano così posti alla tribuna parlamentare come nei giornali e
nei comizi. La critica socialista, poi, della società per le misere
e insicure condizioni cui in essa erano ridotti operai, braccianti,
piccoli coltivatori, era sempre più affiancata da quella di
agguerrite cerchie cattoliche fuori del Parlamento, ma già attive
nelle amministrazioni locali, in organizzazioni cooperative e
assistenziali sulla scorta dell'enciclica Rerum Novarum di Leone
XIII. Esse, coordinate nazionalmente in un'Opera dei Congressi
cattolici, stavano preparando, pur nell'astensione dalle urne
politiche imposta dal non expedit papale, l'azione politica
organizzata. Ma lo scioglimento di associazioni socialiste,
cattoliche e repubblicane ebbe per la formazione della coscienza
nazionale l'effetto negativo di confermare in larghe cerchie della
popolazione l'idea che lo Stato messo in vita dal Risorgimento fosse
qualcosa di estraneo e di ostile alla povera gente e a istituzioni
che essa aveva care. La destra storica, con i ministeri Lanza
(1869-73) e Minghetti (1873-76) nel frattempo era riuscita a
consolidare la situazione internazionale del giovane Regno, aveva
portato al pareggio il bilancio, ma introducendo odiose imposte
indirette (quella sul macinato), aveva ampliato la rete ferroviaria,
impostandone inoltre il riscatto dal capitale straniero; aveva
represso tentativi insurrezionali in Romagna e Toscana.
Storia: dall’ascesa della sinistra a Giolitti
Nel marzo 1876, su una questione di procedura, Minghetti era messo
in minoranza e cedeva la direzione del governo alla sinistra guidata
da A. Depretis, che fin dal 1871 ne aveva delineato il programma.
Nel nuovo gabinetto entravano, tra gli altri, G. Nicotera e G.
Zanardelli, mentre alla presidenza della nuova Camera era nominato
Crispi. Il nuovo re Umberto I affidava la formazione del governo a
B. Cairoli (1879-80); però Depretis ritornava presto e per ben sette
anni al potere (1881-87), mettendosi in grado di far approvare da
maggioranze combinate di volta in volta tra sinistra e opposizione
(trasformismo) l'istruzione elementare obbligatoria e gratuita, la
semplice facoltatività dell'insegnamento religioso, la riduzione
delle imposte indirette e della tassa sul macinato, l'allargamento
del diritto di voto a tutti quanti sapevano leggere e scrivere. In
politica estera la sinistra s'impegnava nella Triplice Alleanza con
Germania e Austria-Ungheria (1882) per rivalsa contro la Francia a
Tunisi, ottenendo, nella rinnovazione del 1887, garanzie di compensi
nel caso di modifica dello status quo nei Balcani o nel
Mediterraneo. Più vivaci tensioni interne e maggiore attivismo nella
politica estera erano aperte dal ministero di Crispi a carattere
autoritario e imperialistico (1887-96) con l'intermezzo di un
gabinetto Di Rudinì (1891-92) e del ministero Giolitti (1892-93); ma
l'impresa d'Africa portava a un'umiliante sconfitta (Adua, 1896). Di
Rudinì, richiamato (1896-98), riusciva a concludere la guerra con
l'Abissinia e cercava di mitigare gli animi dei promotori delle
agitazioni sociali, rudemente represse da Crispi in Sicilia e in
Lunigiana, con amnistie. Ma a Milano, al fine di soffocare tumulti
di operai e massaie per il rincaro del pane, si ricorreva
all'autorità militare che sparava sulla folla e arrestava esponenti
socialisti, repubblicani (1898) e cattolici (don Albertario,
portavoce del movimento cattolico, insieme religioso, politico e
sociale). Codesti “fatti di Milano” facevano cadere il ministero Di
Rudinì: il suo reazionario successore, generale Pelloux (1898-1900),
combattuto fieramente dalla Camera, lasciava infine il posto a G.
Saracco (1900-01), non sgradito alle sinistre. Ma quanto fosse
difficile placare le esasperazioni lo mostrava di lì a poco (29
luglio 1900) l'assassinio di Umberto I a Monza, per mano di un
anarchico. Il giovane nuovo re Vittorio Emanuele III (1900-46)
incaricava della formazione del governo G. Zanardelli (1901-03), che
con G. Giolitti agli Interni e Prinetti agli Esteri avviava al
decennio di potere di Giolitti (1903-14), caratterizzato da una
nuova direttiva di governo e di amministrazione. Essa consisteva
nell'inserire nel programma di governo le istanze delle opposizioni
e nell'attrarre nell'orbita dell'azione legale, e quindi della
collaborazione, i rappresentanti delle opposizioni più sensibili
alle realizzazioni pratiche, isolando gli intransigenti
(internazionalisti, anarchici, repubblicani). Ciò avveniva con
l'ulteriore sviluppo della legislazione sociale, con la fondazione
di un Consiglio superiore del lavoro (1906) di cui erano membri
anche rappresentanti dei sindacati, di un Commissariato
dell'emigrazione per l'assistenza agli emigrati, nonché grazie a un
nuovo atteggiamento della forza pubblica e dei tribunali nei
riguardi delle organizzazioni operaie e delle loro agitazioni per
migliorare le loro condizioni di lavoro. Nel PSI si delineava, di
fronte a questo, una corrente disposta ad accettare il metodo
democratico per ottenere la soddisfazione delle aspirazioni delle
masse. Anche nei riguardi dei cattolici intransigenti, già attivi
nelle amministrazioni degli enti locali e di istituzioni sociali
pubbliche, riusciva la tattica giolittiana, ottenendo che
l'elettorato cattolico ubbidiente alle direttive della gerarchia
sostenesse contro candidati socialisti candidati liberali, previo
loro impegno di rispettare le istituzioni religiose (patto
Gentiloni, 1913), senza però riaprire per questo e con questo la
questione romana con la Santa Sede. In politica estera veniva
attenuato da Giolitti il rigido triplicismo con un riavvicinamento
alla Francia, che riconosceva ora gli interessi italiani in Africa.
Così veniva preparata e attuata la conquista della Libia (1911-12)
che rispondeva alle sollecitazioni della destra nazionalista (E.
Corradini) per una politica espansionistica. Quasi a contrappeso di
codesta politica militarista Giolitti nel 1913 promuoveva il
suffragio universale maschile, in virtù del quale gli elettori
politici salivano al 24%, per passare al 29% nel 1919. Ma
l'inserzione delle nuove forze popolari non consentiva più al
governo il tradizionale controllo delle elezioni e della Camera.
L'avanzata dei socialisti e la presenza di cattolici spaventava la
maggioranza dei deputati “ministeriali” che sollecitavano una
politica più conservatrice. Il portavoce riconosciuto di tale
esigenza, A. Salandra (1914-16), formava il nuovo governo, che
rivelava subito la sua direttiva reprimendo duramente le agitazioni
antimilitariste della “settimana rossa” (1914).
Storia: la Grande Guerra
La crisi internazionale che maturava poneva in primo piano i
problemi di politica estera, riservata per consuetudine a cerchie
ristrette di corte e di governo, senza partecipazione del
Parlamento. Ed essi erano la neutralità o l'intervento e le
condizioni dell'una e dell'altro; e anche questo, nel quadro degli
accordi politico-militari esistenti o diversamente considerando le
prospettive di un conflitto europeo di vaste proporzioni, presentito
da molti come ineluttabile e che di fatto iniziava nei Balcani per
estendersi rapidamente a tutta l'Europa nell'aprile 1914. Nel rapido
susseguirsi delle dichiarazioni di ostilità, l'Italia aveva
dichiarato la propria neutralità, ma per l'intervento premevano
molteplici forze dall'esterno e dall'interno. Con maggior efficacia
si muovevano i fautori dell'intervento a favore di Francia, Belgio e
Gran Bretagna democratiche: radicali, massoneria, socialisti
riformisti, l'ex socialista B. Mussolini, gli irredentisti trentini
e triestini tra cui il socialista C. Battisti, ai quali presto si
univano anche i nazionalisti con la vivace propaganda del poeta G.
D'Annunzio. Larghe cerchie dell'opinione pubblica però rimanevano
contrarie all'intervento: oltre ai socialisti per tradizione
pacifisti, gran parte dei cattolici per avversione alla guerra e per
solidarietà con le direttive papali di pace. Nel Parlamento la
corrente giolittiana, che vi deteneva la maggioranza, era per una
neutralità negoziata con l'Austria al fine di ottenere
pacificamente, quale controparte, le terre irredente. Il governo
Salandra, orientato in senso nazionalistico, autorizzava il ministro
degli Esteri A. Paternò-Castello, marchese di San Giuliano, e poi S.
Sonnino a trattare con Vienna e Berlino (ottobre 1914) per ottenere
Trento e Trieste quale compenso per l'espansione
dell'Austria-Ungheria nei Balcani. Al rifiuto di Vienna, nonostante
le pressioni di Berlino, erano aperte trattative segrete con
l'Intesa che si concludevano con il Patto di Londra (26 aprile
1915): il corrispettivo dell'intervento dell'Italia contro l'Austria
(non contro la Germania, cosa che avverrà nel 1916) era il Trentino,
l'Alto Adige fino al Brennero, Trieste e l'Istria, parte della
Dalmazia esclusa Fiume, e altre terre nei Balcani e in Asia Minore a
spese dell'Impero ottomano. Alla denunzia della Triplice la
maggioranza del Parlamento si distanziava dal governo; ma a favore
di questo si scatenavano manifestazioni di piazza e quando Salandra
presentava le dimissioni, il re le respingeva coprendo con il
prestigio della corona Salandra e la sua politica. Il lealismo
monarchico prevaleva nella Camera, che accordava i pieni poteri
richiesti, contrari i socialisti: e il governo dichiarava la guerra
all'Austria il 24 maggio 1915. Cominciò così quella lunga guerra di
logoramento che mutò volto nel 1916, quando la Germania, alleggerita
sul fronte orientale dalla crisi russa, appoggiava gli austriaci in
un'azione pensata decisiva sul fronte italiano. L'armata dell'Isonzo
veniva travolta per aggiramento, aprendo la pianura (Caporetto,
ottobre 1917); però il fronte era ristabilito sul Piave con rinforzi
alleati e l'Italia rimaneva nell'Intesa, accettando la direzione
strategica unitaria di un comando interalleato. Il Paese aveva
reagito alla sconfitta di Caporetto e alle recriminazioni circa i
responsabili (i generali o il disfattismo interno di socialisti e
cattolici pacifisti?) con slancio patriottico intensificando anche
l'apprestamento di uomini e mezzi. La controffensiva italiana
dell'ottobre 1918 si trovava ancora di fronte un esercito combattivo
e piegandolo con le armi (Armistizio di Villa Giusti, 4 novembre
1918) sigillava la dissoluzione dell'Impero asburgico. La politica
estera era stata sempre coordinata a quella dell'Intesa sia nella
dichiarazione di guerra anche alla Germania e ai suoi alleati, sia
nella determinazione nei fini della guerra, come pure nella risposta
all'appello di pace di papa Benedetto XV nel 1917, e nei riguardi
della Rivoluzione russa e dei “14 punti” di Wilson. Nel giugno del
1916 Salandra aveva ceduto il posto a P. Boselli che aveva allargato
il governo a cattolici e socialisti riformisti. Nel 1917 nella crisi
di Caporetto la direzione del governo era assunta da V. E. Orlando
con un impegno di unione nazionale e di resistenza patriottica,
accettando più apertamente la politica interalleata. E Orlando
rappresentò l'Italia a Parigi nella conferenza per la pace (1919).
Storia: la nascita del regime fascista
Nella Conferenza di Parigi l'Italia non ebbe difficoltà a ottenere
nei confronti dell'Austria umiliata il confine del Brennero
(Trattato di Saint-Germain-en-Laye, 10 settembre 1919): aveva
incontrato invece l'opposizione del nuovo Stato dei
Serbi-Croati-Sloveni la rivendicazione di Istria e Dalmazia, in
particolare quella di Fiume, che si era dichiarata italiana e che
D'Annunzio aveva occupato con volontari non senza intenzioni
rivoluzionarie di maggiore portata contro il governo di F. S. Nitti,
succeduto a Orlando nel giugno 1919. Il Trattato di Rapallo,
negoziato laboriosamente in seguito da Giolitti, stabilì i confini
con la Iugoslavia, riconoscendo a Fiume la condizione di “Città
libera” (1920; un successivo compromesso nel 1924 con Mussolini ne
dividerà il territorio tra Italia e Iugoslavia). Queste trattative
di Parigi si erano svolte in un'atmosfera di vivaci tensioni
interne, di recriminazioni (“la vittoria mutilata”), di aspettative
rivoluzionarie, di insoddisfazioni diffuse. Il dopoguerra italiano
presentava infatti con particolare accentuazione i problemi e le
tensioni di quello degli altri paesi europei, usciti come l'Italia
dalla guerra spossati, delusi, ansiosi: i reduci stentavano a
riadattarsi alla vita civile, la riconversione delle industrie di
guerra in industrie di pace era ardua, il bilancio era appesantito
dai debiti di guerra e dall'onere del prezzo politico del pane. Le
istituzioni, monarchia, governo, Parlamento, polizia,
amministrazione pubblica, avevano perduto prestigio e fiducia. I
vecchi partiti si erano logorati e ne avevano tratto vantaggio
innanzitutto il PSI, critico delle istituzioni, della guerra, del
sistema economico-sociale, ma anche il nuovo Partito Popolare
Italiano (PPI), sorto nel gennaio 1919 per iniziativa di esponenti
del movimento cattolico, anch'esso in posizione critica, ma meno
radicale. Pure un movimento di ex combattenti, che esaltava l'azione
a servizio dell'orgoglio nazionale (Fasci di combattimento), si
attestava su una posizione critica. Il governo Orlando aveva ceduto
alle correnti imperialistiche e lasciato inasprire la polemica
interna sulla “vittoria mutilata” a Parigi. Il governo Nitti, che si
presentava con più larga partecipazione di cattolici e socialisti
riformisti (1919-giugno 1920), continuava a essere assillato,
oltreché dalla questione di Fiume, da agitazioni operaie e contadine
(occupazione delle terre), dall'aggravio del bilancio. Le elezioni
del 1919, fatte con il sistema proporzionale, significavano per i
liberali la perdita della maggioranza, per i socialisti con 156
deputati assurgere a maggiore gruppo di possibile maggioranza, per i
100 deputati popolari divenire gli arbitri di qualsiasi maggioranza.
Giolitti, richiamato al potere, costituiva il nuovo governo,
oltreché con liberali e democratici, con cattolici e socialisti
riformisti. Lasciava sfogare agitazioni rivoluzionarie come
l'occupazione delle fabbriche a Torino (1920) e l'usurpazione
contadina di terre demaniali nel Sud, ma permetteva anche le
violenze antisocialiste di squadre “fasciste”, cui venivano
contrapposte “guardie rosse” e “avanguardie” di giovani cattolici.
Le elezioni del 1921 deludevano le speranze di Giolitti di
assicurarsi con esse una maggioranza che comprendesse nazionalisti e
fascisti: socialisti e “popolari” infatti erano ritornati alla
Camera con la stessa forza e le stesse esigenze. I governi del
riformista I. Bonomi (luglio 1921-febbraio 1922) e del giolittiano
L. Facta (febbraio-ottobre 1922) non riuscivano a restituire vigore
e dignità allo Stato di fronte alla violenza faziosa e tracotante,
che sembrava contare su tolleranze di polizia e magistratura, ed era
finanziata da agrari e conservatori timorosi della rivoluzione
socialista conclamata dai massimalisti di sinistra. Le istituzioni
erano state infatti indebolite pure dall'interno con approcci dei
fascisti alla monarchia, alle gerarchie ecclesiastiche, a generali e
magistrati, sotto veste di difensori o restauratori dell'ordine.
Allo sciopero generale proclamato dai sindacati e dal PSI contro lo
squadrismo di fascisti e nazionalisti questi rispondevano
provvedendo ostentatamente a servizi pubblici e affermando la
propria volontà di conquistare il potere (Congresso di Napoli,
luglio 1922). La loro “marcia su Roma” veniva bloccata alle porte
dell'Urbe, ma il re rifiutava di firmare il decreto di stato
d'assedio sottopostogli dal governo, prendeva contatto con B.
Mussolini, rimasto a Milano, e gli affidava la formazione di un
nuovo governo (28 ottobre 1922). Questo si presentava come
“nazionale”, di pacificazione e di restaurazione dell'ordine,
ottenendo l'approvazione di una legge che attribuiva al governo
pieni poteri (novembre 1922); con essi venivano legalizzate le
squadre d'azione come Milizia volontaria per la sicurezza nazionale,
e un Gran Consiglio del fascismo, sia pure solo con funzioni
consultive, veniva inserito nello Stato quale organo della
rivoluzione fascista; si ampliavano i poteri della polizia e si
restringeva la libertà di stampa. Nuove elezioni nel 1924, per
merito della nuova legge maggioritaria (aprile), assicuravano la
maggioranza a liste “nazionali”; però le opposizioni (socialisti,
popolari, liberaldemocratici) rivelavano, nonostante le
intimidazioni e i brogli, un seguito rilevante: 2.373.632 su oltre 7
milioni di votanti. La denunzia di codeste violenze e di codesti
brogli alla Camera costava al leader socialista G. Matteotti (1924)
il rapimento e l'assassinio. La reazione a questo delitto era
profonda alla Camera e nel Paese: al fine di imporre alla corona il
licenziamento di Mussolini i deputati dell'opposizione abbandonavano
Montecitorio; ma il re resisteva dando modo al fascismo di superare
il proprio disorientamento e Mussolini, nel gennaio 1925, si sentiva
in grado di dichiarare alle Camere che “governo e partito si
assumevano tutta la responsabilità politica, morale e storica
dell'accaduto”.
Storia: la politica di Mussolini dal 1925 al 1938
Al discorso di gennaio seguiva l'ulteriore fascistizzazione dello
Stato con la soppressione di altre strutture liberali-democratiche
risorgimentali. Sempre più autoritario e di polizia, esso sopprimeva
di fatto la libertà di parola, di stampa, di riunione: per i delitti
contro il capo dello Stato, ma anche contro il capo del governo, era
ristabilita la pena di morte. Il principio corporativo della
solidarietà delle classi si concretava nella loro subordinazione
agli interessi superiori della nazione (carta del lavoro, 21 aprile
1927). Sindacati di datori e assuntori di lavoro unificati e privati
di un reale potere affidarono a una magistratura del lavoro, con la
proibizione di scioperi e serrate, la definizione delle controversie
di lavoro. In un secondo tempo codesti sindacati confluirono in
organi unitari, le “corporazioni”, chiamate ad assicurare la
solidarietà dei fattori della produzione in funzione della direttiva
politico-economica del governo. Tale politica economica e
finanziaria era stata ed era ispirata a idee di prestigio,
autosufficienza, statalismo con il controllo delle attività
economiche (rivalutazione della lira, 1926; “battaglia del grano”,
migrazioni interne, lavori pubblici, anche di scavi archeologici a
esaltazione della romanità). Le difficoltà di industrie
siderurgiche, meccaniche, cantieristiche, nonché la crisi di
solvibilità di molte banche offrivano al governo il destro di
intervenire in loro favore, ma assumendone il controllo, con il
trasferire le azioni di maggioranza a enti pubblici di gestione
(IRI, IMI), avviando a un'indiretta nazionalizzazione dell'economia.
Ne risultavano rafforzate le strutture monopolistiche che per di più
rimanevano nelle mani delle vecchie dinastie industriali,
opportunisticamente inseritesi nelle gerarchie fasciste. In linea
con la sua antitesi allo Stato liberale era anche la politica
ecclesiastica di Mussolini con l'intento dichiarato di risolvere la
“questione romana” anche per prestigio interno ed esterno. La
soluzione in realtà era matura, dopo che i cattolici avevano
dimostrato il loro lealismo nei riguardi dello Stato unitario
durante la guerra e nel PPI; e aperture erano state fatte da Orlando
nel 1919. Con i popolari all'opposizione Mussolini aveva un motivo
in più per intendersi direttamente con la Santa Sede. L'intesa era
poi predisposta da misure gradite al Vaticano, quali la repressione
della massoneria e il riconoscimento della rilevanza della Chiesa
nella tradizione italiana. Le trattative aperte nel 1926 furono
laboriose e conobbero interruzioni per violenze fasciste a
istituzioni e persone della Chiesa: alla fine la “Conciliazione”
venne realizzata nei Patti Lateranensi (11 febbraio 1929) sulla base
di un “trattato politico” che ristabiliva lo Stato Pontificio in
limiti ridottissimi, di un “Concordato” che rivedeva la legislazione
laica risorgimentale, e di una “convenzione finanziaria” che
stabiliva un indennizzo di 1750 milioni di lire sia per la perdita
del territorio papale sia per i beni ecclesiastici secolarizzati. Il
significato politico interno della conciliazione si rivelava poco
dopo, nel maggio 1929, quando gli italiani venivano chiamati a
votare, con nuovo sistema, su una lista unica compilata dal Gran
Consiglio del fascismo senza possibilità di esclusioni, con un “sì”
o un “no”, e le gerarchie ecclesiastiche impegnavano i fedeli a
votare il “sì” con il risultato, invero non senza manipolazioni e
pressioni, di 8.500.000 “sì” su 8.650.000 votanti. L'idillio però
tra Chiesa e regime fascista era breve: affiorava una diversa
interpretazione, specialmente del Concordato, in personalità della
Chiesa e del regime con la diretta polemica tra Pio XI e Mussolini;
tuttavia il re faceva visita in Vaticano. Tale sopravvivenza di
divergenze sull'azione consentita alle organizzazioni di Azione
Cattolica si manifestava anche in violenze fasciste su queste
ultime. Di qui nuove polemiche di larga risonanza dentro e fuori il
Paese, assai sgradite al regime; questo accedeva a un accordo
interpretativo (1931) che, pur facendo concessioni formali,
manteneva l'Azione Cattolica italiana, quale vivaio di formazione
religiosa e sociale, fuori dall'influsso dell'ideologia e
organizzazione fascista e in potenziale antitesi con essa. La
politica estera di Mussolini mantenne dapprima l'allineamento con
gli antichi alleati nei riguardi dei grossi problemi comuni delle
riparazioni richieste ai vinti, dei debiti di guerra interalleati,
dell'applicazione dei trattati di pace, per bisogno di materie
prime, di capitali, di sbocchi commerciali, sia pur con iniziative
autonome (occupazione di Corfù, 1924) e con l'affermazione di un
certo distanziamento dallo spirito pacifista e democratico della
Società delle Nazioni. In questo spirito tuttavia concludeva la
questione di Fiume (1924). Codesta politica estera era ispirata dal
nazionalismo imperialistico integrato dalla teoria geopolitica dello
“spazio vitale” nonché dal mito di Roma dominatrice del
Mediterraneo. In siffatto quadro essa appoggiava movimenti
revisionistici di Ungheria e Bulgaria e si dichiarava solidale con
regimi autoritari e antidemocratici che si venivano instaurando in
Spagna, Portogallo, Polonia, Iugoslavia, Ungheria; nel contempo si
delineava una crescente irritazione nei riguardi di Francia,
Inghilterra, Belgio, Spagna popolare per l'accoglienza che vi
riceveva e la risonanza che vi otteneva l'opposizione antifascista
in esilio. A partire dal 1930 si facevano sentire anche in Italia le
ripercussioni della crisi economico-finanziaria suscitando diffuso
malcontento. Inoltre il fermento pangermanistico con la proposta
dell'annessione (Anschluss) dell'Austria alla Germania investiva
anche l'Italia per via della resistenza dei sudtirolesi di lingua
tedesca alla snazionalizzazione imposta da proconsoli fascisti in
Alto Adige. L'insoddisfazione nei confronti degli ex alleati si
manifestava alla Conferenza del disarmo (1930) con la richiesta
della parità con la Francia e nel condizionare a concessioni
economiche e politico-coloniali la richiesta solidarietà di fronte
al revisionismo tedesco. L'accordo italo-franco-inglese avrà
tuttavia modo di ricostituirsi ancora sia nel 1934 per reazione al
putsch nazista in Austria con l'uccisione di Dollfuss, sia negli
Accordi di Stresa (14 aprile 1935). Codesta solidarietà veniva però
spezzata senza rimedio dall'iniziativa italiana in Etiopia, per la
quale Mussolini aveva creduto di essersi assicurato tacitamente mano
libera da Londra e Parigi. Il governo di Addis Abeba ricorreva alla
Società delle Nazioni e questa non tardava a dichiarare l'Italia
“aggressore” e a raccomandare nei suoi riguardi sanzioni economiche,
che invero furono applicate fiaccamente e con un effetto
politico-psicologico ben diverso da quello atteso. Travolta la
resistenza del negus, occupata la capitale dell'Abissinia, a Roma il
re era proclamato “imperatore d'Etiopia” e Mussolini “fondatore
dell'Impero” (9 maggio 1936). La Società delle Nazioni decideva la
cessazione delle sanzioni contro l'Italia, ma senza riconoscere il
fatto compiuto e continuando ad ammettere alle assemblee il
rappresentante del negus: ragion per cui l'Italia prima si asteneva
e poi (dicembre 1937) si ritirava dalla Società delle Nazioni. Nel
frattempo, con il distacco da Francia e Inghilterra, si
intensificava la solidarietà del regime con l'ideologia e la pratica
tedesco-nazista. Già nell'ottobre 1936 veniva impostato l'asse
Roma-Berlino, politico-ideologico, preludio all'alleanza militare
(“patto d'acciaio”, 22 maggio 1939). Codesta solidarietà si
manifestava nel comune intervento nella guerra civile spagnola del
1936-38, con il comune riconoscimento del governo nazionalista del
generale Franco e l'invio di materiale bellico e di truppe sotto la
finzione di “volontari”.
Storia: l’attività delle forze di opposizione
Nonostante le restrizioni e le repressioni, gli oppositori del
fascismo rimanevano un fattore della vita italiana. Sciolti partiti
e sindacati, dopo il 1927 (imprigionati U. E. Terracini, A. Gramsci
e altri fieri nemici del fascismo), l'opposizione si era fatta
clandestina all'interno, ma continuava apertamente all'estero in
emigrati di prestigio, quali i socialisti G. E. Modigliani, F.
Turati, P. Nenni, G. Saragat, i democratici G. Salvemini, G.
Amendola, F. S. Nitti, C. Sforza, i popolari L. Sturzo, G. Donati,
G. L. Ferrari. A Parigi essi avevano creato una “concentrazione
antifascista” quasi a continuazione ideale dell'Aventino (1927-33)
con esclusione dei comunisti, orientati dalla Terza Internazionale
di Mosca, mantenendo collegamenti con l'opposizione interna. Questa
a sua volta era duplice: c'era quella legalitaria in Parlamento,
costituita da senatori liberali e democratici, nella cultura laica
con il distanziamento critico dalle teorie fasciste (B. Croce,
Manifesto degli intellettuali antifascisti in polemica con quello
degli intellettuali fascisti del 1925), in settori della cultura
cattolica che del fascismo denunziavano i motivi antitetici alla
morale e allo spirito del cristianesimo. C'era inoltre, all'interno,
la resistenza illegale, clandestina: di gruppi collegati al PSI, ma
specialmente al Partito Comunista Italiano (PCI), come pure di nuovi
gruppi del genere di quello Giustizia e Libertà (1929) dei fratelli
Rosselli (assassinati in Francia nel 1937), rappresentanti in Italia
della concentrazione antifascista fino al 1934 (quando questa cessò
e diede inizio al “patto d'azione” tra socialisti e comunisti),
riemergendo inoltre gruppi anarchici. La prassi degli attentati
facilitò al fascismo la creazione di ulteriori organi di
repressione, di una polizia segreta (OVRA), di un tribunale speciale
per la sicurezza dello Stato con condanne asprissime. La guerra
d'Etiopia segnò una certa incrinatura dell'antifascismo all'interno;
ma la guerra di Spagna creò un nuovo legame tra l'antifascismo
interno e quello di fuori, in attesa che l'irrigidimento
dittatoriale del regime e il suo progressivo scivolamento nei
programmi imperialistici e nell'imitazione aberrante della politica
razziale nazista determinasse una crisi di fiducia e atteggiamenti
di condanna in cerchie più vaste di italiani.