Rosario Romeo

Storia d'Italia: 476-1937

EEG vol. 6 pp. 368-388

I regni barbarici

Quel tanto di tessuto connettivo che la conquista di Roma aveva creato tra gli abitanti della penisola, quale coscienza di una specifica individualità italiana nell'impero e come risultato della più fitta e organica rete di rapporti civili intrecciatasi tra ceti, regioni e città diverse, era venuto in buona parte lacerandosi già prima della deposizione di Romolo Augustolo: per effetto dell'inaridirsi dei commerci, del prevalere dell'economia fondiaria accentrata attorno alle villae signorili, della decadenza dei centri di consumo cittadini, della graduale rovina e della insicurezza delle grandi vie di comunicazione di un tempo.

Il dominio delle varie stirpi barbariche unite sotto lo scettro di Odoacre (476-493) e poi degli ostrogoti di Teodorico (489-526) introdusse nella società italiana, con la divisione etnica, un nuovo elemento di frattura, anche se per il momento l'unità territoriale venne conservata, e importanti funzioni restarono all'aristocrazia fondiaria romana.

Da essa provenivano uomini come Cassiodoro, Simmaco e Boezio, che raggiunsero posizioni dominanti nella cultura e nell'amministrazione, e per qualche tempo ancora poterono quindi equilibrare il potere militare riservato ai soli goti, grazie anche alla politica di collaborazione con gli eredi della civiltà di Roma, a cominciare dall'impero d'oriente, seguita dai sovrani barbarici.

Ma già le persecuzioni dell'ultimo periodo di Teodorico mostrarono la precarietà di quell'equilibrio: il quale venne infranto dalla riconquista bizantma, attraverso i vent'anni della guerra gotica (535-553) passati alla storia come il momento in cui le condizioni della penisola toccarono il livello forse più basso, con la fortissima diminuzione della popolazione, ridottasi a 4-5 milioni di abitanti, l'estensione delle paludi, l'abbandono dell'agricoltura a favore dell'allevamento brado, la distruzione di molti dei superstiti centri urbani. Fatti, tutti, che peraltro dovettero probabilmente aggravarsi ulteriormente con la grande rottura provocata dalla conquista longobarda.

L'irruzione della nuova stirpe germanica, che varcò le Alpi nel 569, sotto la guida di Alboino, segnò infatti l'introduzione di tutta una nuova serie di fattori di disgregazione nel corpo di ciò che restava della vecchia società romana. Allora venne infranta l'unità territoriale della penisola, ché alla conquista longobarda si sottrassero il litorale veneto, l'esarcato e la Pentapoli (Romagna e Marche), il cosiddetto ducato romano, attorno alla sede pontificia, il litorale ligure e campano, salvo Salerno, la Puglia, buona parte della Calabria e della Basilicata e le isole; e solo la Liguria passò più tardi sotto il dominio longobardo.

Ma anche più grave fu la decadenza, nell'Italia bizantina non meno che in quella longobarda, di tutti gli elementi che avevano delineato, grazie a Roma, la fisionomia di una società e di una civiltà unitaria. L'autorità del regno longobardo, che, diversamente da quel che avevano fatto Odoacre e Teodorico, non riconosceva più l'alta sovranità dell'impero d'oriente, all'interno era frazionata nei ducati, che spesso godevano, specie nelle regioni periferiche, di larghe autonomie; e in confronto poco valeva l'amministrazione regia stanziatasi a Pavia, sede del Palazzo Regio, e da cui dipendeva la rete dei gastaldi, sculdasci ecc., destinati a operare nella periferia. Una struttura, insomma, essenzialmente instabile, che si reggeva sul seguito personale dei capi e che solo lentamente venne consolidandosi con il crescere dell'autorità regale.

Per di più, la conquista segnò una netta frattura tra longobardi e romani: espropriata gran parte dell'aristocrazia fondiaria a vantaggio dei longobardi, la popolazione romana nel suo complesso venne a trovarsi in una condizione giuridica di netta inferiorità, da cui erano investiti anche coloro che restavano tuttavia in possesso dello status di liberi; e un indice di questa frattura si ha nell'importanza che ora venne assumendo, nei rapporti giuridici, la professione di legge romana o longobarda.

Si aggiunga il contrasto religioso tra il cristianesimo ariano dei longobardi e il cattolicesimo delle popolazioni locali, superato solo fra il sec. VII e l'VIII, con il completamento della conversione già avviata al tempo di Gregorio Magno.

Semidistrutte e in parte abbandonate molte delle antiche città, i centri urbani sopravvissuti videro ridotta la propria funzione a quella di meri insediamenti di contadini e pastori, con vasti campi coltivati presenti entro la cerchia delle antiche mura; e alcuni si trasferirono dai fondovalle, ormai invasi dalle acque e minacciati dalle piene in seguito al crollo delle antiche opere, sui dossi e sui crinali, che divennero anche il percorso preferito dalle nuove vie di comunicazione.

Venuta poi meno la struttura economica e organizzativa necessaria a tenere in vita le grandi aziende cerealicole condotte da schiavi, vennero moltiplicandosi le concessioni di terre a coltivatori legati in permanenza al suolo e sottoposti al concedente da vincoli di dipendenza personale, ma cointeressati alla produzione dalla facoltà a essi concessa di appropriarsi il prodotto, una volta soddisfatti gli obblighi (prestazioni di opere o versamento di canoni quasi sempre in natura) a vantaggio del signore terriero.

Siffatte forme nuove di utilizzazione del suolo, che venivano evolvendosi specialmente nell'Italia padana verso le forme classiche dell'economia curtense, trovavano una indispensabile integrazione nella utilizzazione collettiva di boschi, prati e persino terre agricole adibite al pascolo dopo il raccolto: e tutto ciò contribuì, insieme al prevalere del diritto germanico (nonostante qualche sopravvivenza di diritto romano sia visibile in quel fondamentale documento della legge longobarda che è l'editto di Rotari, 643), alla dissoluzione del concetto romano della proprietà, che riemergerà solo con la rinascita del diritto romano nei secc. XI-XII sec.

Se a questo si aggiunge che molte terre di liberi, già in età tardoromana, erano state cedute a potentes in virtù di atti di commendatio, si scorge come per molte vie si fossero creati quei legami di dipendenza dei coltivatori rispetto ai signori terrieri che in età franca riceveranno la loro sistemazione nel quadro giuridico e formale della signoria fondiaria.

Nonostante la cornice generale assai diversa, processi analoghi venivano svolgendosi nell'Italia bizantina. Qui la vita agraria non conobbe rotture così drastiche come nella valle padana, ma si aggravò quella degradazione dall'agricoltura alla pastorizia che aveva contrassegnato già gli ultimi secoli dell'impero; e l'espansione araba, che strapperà la Sicilia a Bisanzio nel corso del sec. IX, e fonderà stabili insediamenti in altri punti della penisola, spingendosi a minacciare la stessa Roma (846), già dal sec. VII contribuì a ridurre ulteriormente i commerci e i legami con l'impero d'oriente.

Anche nell'Italia bizantina si ebbe dunque una graduale frammentazione della vita economica e civile in una serie di nuclei locali, mentre sul piano politico i duchi bizantini, da funzionari imperiali che erano, venivano avviandosi a forme di autonomo dominio ereditario, dando così vita a una serie di ducati indipendenti, da quello di Napoli a quello di Amalfi e di Gaeta, così come avverrà anche per il ducato longobardo di Benevento, da cui poi si staccheranno i principati di Capua e di Salerno.

In questa vittoria del particolarismo pure nell'Italia bizantina, acquista un particolare rilievo l'autonomia pressoché completa gradualmente conquistata dal papa nel ducato romano. Era questo il risultato di un processo secolare, che aveva visto emergere l'autorità ecclesiastica come unica istanza valida in tanta rovina delle strutture politiche e civili; ed esso traeva forza dall'autorità spirituale del pontefice, dalla quale il nuovo dominio (che dall'Agro Romano venne estendendosi all'Adriatico, e nella crisi del regno longobardo si arricchì anche dell'esarcato e della Pentapoli già bizantini) ricevette una impronta affatto particolare.

Fisionomia a parte ebbe anche il dominio autonomo di un altro duca bizantino, quello di Venezia, città sorta nelle lagune dopo le invasioni, ma presto avviatasi, a differenza dei nuovi principati nel mezzogiorno d'Italia, a un reggimento aristocratico e non ereditario.

Con una popolazione che si aggirava sui 5 milioni di abitanti, un territorio per gran parte ricoperto nuovamente dalla vegetazione spontanea, un'agricoltura nella quale i cereali inferiori, segale, orzo, spelta, venivano prendendo il posto una volta riservato al grano, l'Italia offriva al tempo di Gregorio Magno (590-604) uno spettacolo di desolazione: «Vediamo lutti, città distrutte, i castelli sono rovinati, le campagne devastate, non ci sono contadini nei campi, non è rimasto quasi nessun abitante nelle città.» Ma appunto in questo quadro acquista rilievo la funzione della chiesa, affiancata dal monachesimo benedettino (e da quello basiliano nell'Italia bizantina) come depositaria, e sia pure in uno spirito profondamente deformato dalle finalità apologetiche, della grande tradizione di cultura trasmessa dal mondo classico.

Nella rozza società militare e agricolo-pastorale di quei secoli, chiesa e vita religiosa sono le sole fonti di una più«alta visione della realtà e della vita: ma si tratta di una visione nella quale l'antico nome d'Italia, quando sopravvive, è ormai vuoto di ogni sentimento e coscienza di unità culturale e politica, anche negli ambienti intellettualmente più formati, per non parlare dei tanti nuclei di vita locale in cui le diverse collettività insediatesi nella penisola sono frammentate.

Ogni tentativo di postulare una continuità della successiva storia d'Italia con quella della romanità non può non apparire poco più che un espediente retorico, davanti alla drastica rottura di qualsiasi nesso unitario maturatasi in quei secoli.

□ L'età feudale

La graduale penetrazione di elementi della superiore civiltà romana nella compagine longobarda aveva conferito anche un crescente peso al clero, che si traduceva, nei rapporti esterni, in una crescente autorità del papato e del nascente Stato della Chiesa. Le relazioni col pontefice divennero dunque, negli ultimi decenni della sua esistenza, il problema dominante del regno longobardo, che ne venne alla fine travolto (774), quando il papato invocò il soccorso dei re franchi.

Non solo il titolo di re dei longobardi passò al futuro Carlo Magno; ma tutta la struttura del regno venne rimodellata sull'esempio delle istituzioni franche. Conti e marchesi presero il posto dei duchi longobardi: ma da funzionari regi quali erano stati in un primo tempo, divennero presto detentori ereditari di quelle cariche, nel quadro del generale processo di feudalizzazione avviatosi sotto i Carolingi.

I vari elementi che i feudisti classificheranno più tardi nell'omaggio, nel beneficio e nell'immunità, erano stati già a lungo presenti negli ordini sociali preesistenti: ma ora riceveranno una più rigida applicazione, determinando, al disopra dei rapporti di dipendenza legati alle attività rurali o ai ministeria, la formazione di ben distinti rapporti vassallatici, in cui l'elemento caratterizzante è costituito dalla prestazione da parte del vassallo, come corrispettivo del beneficio, di servizi nobili (auxilium et consilium), di tipo essenzialmente militare, e dunque nettamente distinti da quelli connessi ad altri rapporti di dipendenza. Dall'ambito sociale così definito deriverà, soprattutto, la più tarda classe nobiliare; e la concessione di terre in beneficio diverrà la forma normale di remunerazione degli uffici pubblici (honores), presto diventati anch'essi ereditari. Per questa via il particolarismo raggiungerà, nei secc. IX e X, le sue forme più accentuate.

D'altro canto, il conferimento della corona imperiale a Carlo Magno da parte del pontefice (800) introduceva nella storia d'Italia un momento universalistico che condizionerà in larga misura e per molti secoli le vicende della penisola. In questo quadro, il Regno Italico fino alla deposizione di Carlo il Grosso (887) fu solo un elemento del mutevole gioco della successione imperiale; e nel periodo seguente divenne l'appannaggio dei grandi feudatari della penisola, marchesi del Friuli, d'Ivrea, di Toscana e di Spoleto, che per ottant'anni se ne contesero la corona. Queste rivalità offrirono il destro all'intervento di potentati stranieri come Ugo di Provenza, che per un certo tempo riuscì a ottenere il dominio di Roma, nel periodo di più grave oscuramento dell'autorità pontificia («età di ferro» del papato).

Nella ressa dei particolarismi si smarriva anche quell'ideale colto della renovatio dell'«aurea» Roma che era balenato nella fuggevole rinascita carolingia.

Battuto Berengario II, ultimo sovrano italico indipendente, Ottone i di Sassonia, re di Germania, nel 951 cingeva la corona di «re dei franchi e degli italici» e nel 962 quella imperiale.

Rinasceva così il Sacro Romano Impero, non più franco ma romano-germanico; e attraverso di esso si stabiliva un nesso tra storia italiana e tedesca che avrà vigore per quasi un millennio, e che nel comune legame dei due paesi al destino universalistico della chiesa e dell'impero si tradurrà in una loro caratteristica vocazione sovranazionale e particolaristica insieme. Su questo terreno, gli imperatori sassoni cercarono di assicurare l'organica unità dei due poteri attraverso la netta sottomissione della chiesa alla sovranità imperiale, dalla quale venne allora interamente a dipendere la elezione dei pontefici e buona parte della gerarchia episcopale, chiamata a esercitare funzioni importanti di governo: situazione particolarmente favorevole a un nuovo rilancio del tema della renovatio, che raggiunse uno dei suoi momenti più alti nel breve regno di Ottone in (996-1002).

I tentativi che gli imperatori sassoni fecero in questo periodo, peraltro senza successo, di estendere il proprio dominio anche all'Italia meridionale, vanno visti nel quadro di tali prospettive universalistiche, in cui acquistava un posto preminente il rapporto con la romanità orientale impersonata dall'imperatore di Bisanzio.

□ La rinascita cittadina

Nuove distruzioni arrecarono all'Italia settentrionale, nel corso del sec. X, le invasioni ungare, provocando spopolamenti delle campagne e l'abbandono di molti centri abitati, e sollecitando la costruzione di cinte murate e di fortificazioni (la cui difesa e manutenzione doveva rappresentare uno degli stimoli più efficaci alla creazione delle nuove forme di vita associata che caratterizzano l'epoca successiva).

Ma già nello stesso sec. X, e nell'XI, si moltiplicano le testimonianze, in Italia come in tutta l'Europa occidentale, di una vasta ripresa demografica e della conseguente espansione delle scarse terre finora messe a coltura.

Probabilmente avviato qua e là da spontanee iniziative contadine, il moto di rinnovamento agricolo acquistò poi una portata più generale quando alla sua testa si misero signori laici ed enti ecclesiastici, in grado di disporre dei capitali necessari a intraprese più vaste, e soprattutto alla creazione di nuovi insediamenti. Crebbe di conseguenza la disponibilità di derrate agricole; ed esse alimentarono correnti di scambio attivate dai nuovi più profittevoli sbocchi, aperti — specialmente per certi prodotti come il vino, l'olio, gli agrumi, il pistacchio (in parte introdotti per il tramite degli arabi di Sicilia) — dalla crescente fortuna di centri commerciali come Pisa, Genova, Venezia, che negli stessi anni contendono sempre più vigorosamente ai saraceni il dominio del Mediterraneo.

Si aggiunsero verso la fine del sec. XI le crociate, che aprirono alle città italiane stabili vie di traffico con l'oriente bizantino e, per suo tramite, con i mercati asiatici. Si definisce in tal modo quella funzione di mediazione tra l'occidente agricolo e l'oriente fornitore di prodotti pregiati su cui per alcuni secoli si fonderà la supremazia europea delle città e dunque di tutta l'economia italiana. Le conseguenze saranno profonde e durevoli. Aumento della popolazione, diboscamento e riconquista dei terreni agricoli abbandonati nei secoli precedenti, abbandono in larghe zone dell'agricoltura estensiva fondata sulla combinazione di campi arati e pascolo brado, introduzione in molte regioni collinari, specie del mezzogiorno e dell'Appennino, di un'agricoltura di qualità, fondata sulle colture specializzate e su accurate sistemazioni dei declivi. Fu questa, in effetti, un'epoca di vaste bonifiche, che portò a redimere estesi terreni agricoli, anche se nel tempo stesso ebbe inizio quell'opera secolare di incontrollato diboscamento che tanto danno doveva recare alla difesa del suolo italiano in epoche successive.

Allora venne anche avviata quella sistemazione e canalizzazione della valle padana che doveva portare alla creazione, nella bassa Lombardia e nelle province orientali del Piemonte, della grande agricoltura irrigua, monumento tra i maggiori della civiltà italiana.

E l'aumentata ricchezza agricola e commerciale significa rapporti più fitti tra uomini e località, rottura di barriere ormai secolari, creazione, anche a livello dei rapporti economici e della vita sociale, di un nuovo tessuto connettivo tra comunità rimaste isolate da secoli.

Tutto ciò, del resto, non sarebbe stato possibile senza una vasta trasformazione dei rapporti sociali nelle campagne. I nuovi dissodamenti crearono una domanda crescente di manodopera agricola che si tradusse nella incrinatura dei vecchi rapporti servili, nella moltiplicazione delle carte di libertà personale e delle concessioni di terre. Quasi dovunque venne perciò infranta la struttura dell'antico «manso» legato alla curtis signorile; mentre la maggiore facilità di rifornirsi di beni sul mercato, dopo la rinascita dell'economia monetaria, riduceva l'importanza della produzione autonoma della pars dominica, e conduceva quindi all'abbandono di gran parte delle prestazioni d'opera che nei secoli precedenti erano state appunto giustificate da siffatte esigenze.

La qualità di rustico resterà per ora ben lungi dall'essere equiparata a quella di cittadino: ma già verso la fine del sec. XII la servitù della gleba era scomparsa in quasi tutte le campagne dell'Italia del nord, e altrettanto avverrà qualche secolo dopo nell'Italia meridionale e in Sicilia.

□ I comuni e il regno normanno-svevo

Su questo sfondo acquista tutto il suo rilievo il grande fatto nuovo dei comuni. L'esercizio dei larghi poteri affidati ai vescovi con le investiture comitali dell'età ottomana (che consacravano e ampliavano una tendenza affermatasi in tutti i secoli dell'alto medioevo) aveva portato alla creazione, da parte degli stessi vescovi, di una serie di organi, individuali e collegiali, destinati ad affiancarli nell'esercizio dei loro compiti. Feudalità locale (milites), giurisperiti (iudtces et notarli), mercanti (negotiatores) erano così venuti acquistando un complesso di poteri e di giurisdizioni che finirono per esercitare in maniera largamente autonoma, e che si aggiungevano a quelli di cui erano già titolari in proprio i feudatari locali, sulla città e sul contado.

Ciascuno di questi gruppi o ceti o famiglie privilegiate era indotto ad allargare nella misura del possibile la propria sfera di privilegio: e ciò avvenne, in genere, a scapito dei poteri regi e imperiali, erosi dall'interno da una sempre crescente richiesta di autonomie. Non si trattava certo di uno sforzo concorde e unitario. Alla conquista di nuove posizioni da parte delle famiglie feudali (capitanei, cioè titolari di un feudo direttamente concesso dal sovrano) succedeva la lotta per la parificazione da parte della minore feudalità (valvassori) e degli strati superiori della popolazione cittadina.

La realizzazione classica di questo processo si ha nelle vicende milanesi del 1036-39, quando l'arcivescovo Ariberto da Intimiano riuscì a formare contro l'imperatore Corrado II il Salico, della nuova dinastia di Franconia, una coalizione di tutti i ceti in difesa delle autonomie cittadine, ma vide poi delinearsi la sollevazione degli strati popolari e borghesi contro la nobiltà grande e piccola: conflitto superato attraverso una transazione che faceva posto a tutti questi ceti in una nuova associazione, «volontaria e giurata».

Il comune che in tal modo si viene affermando e realizzando non è, come a lungo si credette, una formazione antitetica al regime feudale, mirante fin dall'origine a sostituire al regime di privilegio quello di libertà: ma realizza esso stesso un centro di particolari diritti e privilegi, nato dal conferimento al comune delle giurisdizioni già spettanti in proprio ai singoli associati, e dal graduale assorbimento di quelle vescovili e comitali. Anzi, come particolare associazione privilegiata, esso coesiste in molte località e per vari decenni con altre e preesistenti autorità, feudali, vescovili, comitali, in un confuso intreccio di poteri e di diritti, fino a quando la sua crescente potenza non gli consente di trasformarsi da associazione personale in ente territoriale, che esercita la propria sovranità su tutta la città e sul contado adiacente.

Questa unione di città e contado è fatto importante, che caratterizza e differenzia il comune italiano da quello francese, tedesco o fiammingo: e si spiega con la presenza nel comune italiano, a fianco di elementi cittadini come quelli che caratterizzano in modo esclusivo i comuni d'oltralpe, di elementi feudali (minori rispetto alla grande feudalità delle famiglie marchionali e comitali) che apportano al comune anche una somma di giurisdizioni sui luoghi del contado. Dove, peraltro, è testimoniata una fioritura di comuni rustici, nei quali anche i ceti agricoli rivendicano una loro sfera di autonomia, minore e condizionata rispetto ai poteri pressoché sovrani del comune cittadino, quasi riflesso ed eco di quel più grande movimento.

Si ha così quella fase del comune consolare (dalla denominazione dei supremi magistrati comunali, ai quali si affiancano assemblee di varia ampiezza, ma di cui neanche le più ampie — arenghi o parlamenti — si estendono al di là della cerchia della privilegiata associazione comunale) o commune militum che, accompagnandosi alla ricordata fioritura dell'economia italiana, vede in gran parte dell'Italia del nord e del centro la creazione di una fitta rete di rapporti fra ceti e località diverse; essa prende il posto di quella dissolta nei secoli dell'alto medioevo, e permette ora di scorgere le linee di una nuova realtà, che è la incipiente realtà della nuova e moderna nazione italiana.

Ben diversa la sorte dell'Italia meridionale. Qui la frammentazione dei centri di potere sorti dalla decadenza araba e dalla crisi dell'impero bizantino aveva aperto la via da un lato allo sviluppo di città come Amalfi avviate sulla strada di una decisa autonomia, e dall'altro alla moltiplicazione di una serie di potentati locali nei cui contrasti si inserì, ai primi del sec. XII, la forza estranea dei normanni, con effetti che dovevano caratterizzare tutta la successiva storia del mezzogiorno.

Dopo aver ottenuto nel 1030 la concessione della contea di Aversa, essi, con i fratelli Roberto il Guiscardo e Ruggero I, estesero le loro conquiste a tutti gli antichi territori bizantini del continente e alla Sicilia, strappata al dominio arabo (1061-91).

Tra gli avversari fu, per qualche tempo, anche il papa, del quale peraltro con l'accordo di Melfi (1059) i normanni riconobbero l'alta signoria feudale, acquistando così una legittimazione del proprio dominio diversa da quella imperiale, e culminata con l'incoronazione di Ruggero II a re di Sicilia (1130).

Col nuovo stato, se non nacque, come a lungo si ripetè, il primo stato moderno d'Europa, ebbe tuttavia origine una forte monarchia in grado non solo di far valere la propria autorità in tutto il mezzogiorno d'Italia, ma anche di perseguire per qualche secolo un'attiva politica estera in direzione dei Balcani, del Mediterraneo orientale e dell'Africa settentrionale; ed essa rese possibile, con la politica di larga tolleranza praticata dai suoi sovrani, un incontro di culture e di civiltà (latina, araba e bizantina), che doveva conferire alla Sicilia una fisionomia inconfondibile e farne, con la scuola siciliana al tempo di Federico II, la prima culla della letteratura italiana.

In tal modo, una profonda divisione si stabiliva tra l'Italia comunale del nord e del centro della penisola, e la tradizione monarchica del mezzogiorno, quasi due diverse tipologie sociali destinate a differenziarsi vieppiù col tempo.

A ciò si aggiunga che con i normanni si introdusse nel mezzogiorno il diritto feudale, fino allora sconosciuto a bizantini e longobardi; e con esso si rafforzò una serie di rapporti di dipendenza che dureranno assai oltre la loro distruzione nel resto d'Italia, dove erano penetrati molto prima.

In quest'epoca le campagne meridionali, con l'intensità delle colture specializzate, la varietà delle piantagioni, l'importanza commerciale di certi prodotti, presentavano un quadro nel complesso più avanzato e civile che non le altre regioni: ma il latifondo a grano e a pascolo che altrove veniva avviato a trasformazioni profonde, con l'irrigazione, il maggior posto fatto alle colture foraggere ecc., qui era già inchiodato a una sorta di immobilismo sociale e tecnologico che si sarebbe rivelato in tutta la sua gravità nei secoli successivi.

Fra il sec. XI e il XII la società italiana, mentre si veniva organizzando, nel nord e nel sud della penisola, in nessi più vasti, e si cominciavano a delineare, almeno nelle linee generali, certi tratti distintivi di una sua più stretta integrazione sociale e territoriale, venne coinvolta nel grande scontro della lotta delle investiture fra le due potestà universali della chiesa e dell'impero.

Preceduto, come è noto, dal rinnovamento cluniacense, il moto di riforma della chiesa trovò in Italia, in pontefici come Niccolò II e soprattutto Gregorio VII (1073-85), i suoi massimi sostenitori. Qui infatti la reazione contro la mondanizzazione e corruzione della chiesa si traduceva nella lotta contro le ingerenze laiche e feudali nella vita ecclesiastica, diventate cosa assai comune nell'età degli imperatori sassoni. La restaurazione dell'autorità pontificia condusse non solo a emancipare l'elezione papale dalle ingerenze imperiali ma a proclamare la superiorità dell'autorità papale su ogni altra potestà terrena, compresa quella imperiale.

Il concordato di Worms (1122) segnò una sostanziale vittoria del papato, mentre l'impero soffriva una indubbia perdita di autorità e di prestigio: e ciò contribuì a intensificare il moto autonomistico delle città comunali, nelle quali spesso l'agitazione popolare per la riforma religiosa si intrecciò a quella per l'autonomia cittadina, rafforzandola. A metà del sec. XII, si era ormai trasferita ai comuni una serie di diritti e di poteri propri dell'autorità comitale, e dunque di spettanza regia.

Contro queste autonomie si scontrò la volontà di restaurazione di un sovrano di grandi qualità come Federico I di Svevia, detto il Barbarossa, nel quale l'alta coscienza della propria missione si alimentava di una concezione della dignità imperiale come potere assoluto, nei termini in cui veniva teorizzata dai nuovi cultori del diritto romano, che allora veniva rinascendo. Le città che si opposero furono dapprima duramente colpite (distruzione di Milano, 1162); ma la minaccia diede vita alla lega lombarda che, rafforzata dall'adesione del papa, del regno normanno e persino dell'impero d'oriente, fu essenzialmente una consapevole manifestazione di solidarietà di genti italiche contro l'avversario teutonico, sentito chiaramente come stirpe estranea e diversa.

La vittoria di Legnano (1176) fu dunque vittoria in certo senso nazionale, anche se questo nuovo sentimento di nazione non escludeva ancora la comune fedeltà delle stirpi cristiane all'impero; e questa fedeltà da parte dei comuni italiani fu confermata nella pace di Costanza (1183), che al tempo stesso ne consacrava il successo, riconoscendo le loro autonomie e le giurisdizioni conquistate.

Ma in realtà venne allora consacrato il tramonto del potere imperiale in Italia; e ad arrestarlo non valse neppure la nuova potenza di Enrico VI di Svevia, divenuto, per il matrimonio (1186) con Costanza d'Altavilla, erede al trono normanno, anche re di Sicilia. Come non valse, alcuni decenni dopo, neppure la personalità eccezionale di Federico II di Svevia, imperatore germanico e re di Sicilia, assai più italiano che tedesco nella sua formazione e nella sua cultura, e che tuttavia alla sua morte (1250) lasciò la causa imperiale ormai votata in Italia a un irreparabile declino.

□ Comuni di popolo, signorie e principati

Secoli di lotta fra chiesa e impero fornirono anche i simboli, guelfi e ghibellini, sotto i quali vennero a schierarsi le parti politiche italiane. Ma l'origine più vera dei conflitti che allora lacerarono la penisola è da vedere negli sviluppi della società cittadina sotto lo stimolo dei maggiori traffici e del crescere di un artigianato che a Firenze, Milano, Venezia, assumerà dimensioni se non struttura di industria. Nuove forze sociali e gruppi di potenti si formano al di fuori della oligarchia del commune militum: e danno vita a nuove organizzazioni di parte (popolo, credenza, parte guelfa ecc.) che si contrappongono alla struttura ufficiale del comune; e il processo continua anche quando il nuovo istituto del podestà forestiero sostituisce i consoli nella guida degli organi collegiali del comune.

Ne deriva una situazione eccezionale: organi e gruppi diversi, con separati ordinamenti militari, amministrativi e di parte, nei quali vengono ad assumere peso determinante i ceti che stanno alla testa delle corporazioni artigiane e mercantili, coesistono nella stessa cerchia urbana, alimentando conflitti e lotte asperrime; ed essi caratterizzano in modo inconfondibile la fisionomia e la tradizione cittadina in Italia, non meno dello spirito municipale e della solidarietà che pure stringe gli abitanti nella contrapposizione che si fa sempre più netta ai rustici del contado.

La supremazia della città sta alla radice della grande arte di questi secoli, tutta cittadina nella ispirazione e nelle finalità, e nella quale si esprime (esempio insigne il campanile-torre eretto da Giotto a Firenze) l'ideale, civile e religioso insieme, che sta al centro della vita urbana. Da questa più fitta rete di rapporti politici e di commerci, dalla fisionomia borghese della nuova società, dalla cultura che nella lingua dei grandi scrittori toscani troverà il suo più potente tratto unificatore, nasce ora e si sviluppa una civiltà veramente italiana, che nelle sue propaggini culturali si estende anche al mezzogiorno monarchico e feudale.

La nazione italiana come fatto di cultura è ormai una coscienza ben viva nel mondo degli intellettuali, anche se alla sua traduzione sul terreno politico si oppongono il prestigio tuttora grande dell'idea imperiale, l'universalismo della chiesa di Roma, e, più tardi, la coscienza sovranazionale del nuovo classicismo umanistico.

Col crescere dello sviluppo economico, i nuovi ceti di mercanti e banchieri acquistarono quasi dovunque, nel corso della seconda metà del sec. XIII e nei primi decenni del XIV, una decisa supremazia sugli esponenti del vecchio comune magnatizio. La lotta tuttavia continuò a trascinarsi per decenni, soprattutto per l'incapacità delle forze nuove del «popolo grasso», come si disse a Firenze, di stroncare in modo definitivo la potenza dei magnati, fortemente radicata nel contado, dove invece i nuovi borghesi di estrazione specificamente cittadina avevano pochi legami.

Si aggiungano le scarse attitudini militari della nuova borghesia e la sua incapacità di crearsi una base sufficiente di consenso nella «plebe» cittadina, nel cui ambito crescevano i lavoratori salariati, e i motivi di insoddisfazione sociale. Ciò spiega come sempre più spesso il nuovo comune di popolo finisca per affidarsi a un potente, spesso di antica famiglia feudale, il quale dapprima è designato con titoli derivanti dal consenso popolare, come per esempio quello di capitano del popolo, ma acquista poi una legittimazione giuridica con la qualifica di vicario imperiale.

Si apre in tal modo la strada all'avvento della signoria di famiglie come gli Scaligeri a Verona, gli Este a Ferrara, i Torriani e poi i Visconti a Milano, i Da Carrara a Padova, i Malatesta a Rimini, i Montefeltro a Urbino.

Più a lungo le istituzioni comunali durarono a Firenze, dove la ristretta oligarchia delle arti maggiori e della parte guelfa riuscì a sopravvivere anche alla rivolta dei cardatori di lana detti ciompi (1378), la più radicale che si registrasse allora in Italia. In tal modo Firenze potè continuare a impersonare per decenni la causa della libertà repubblicana e contrastare validamente le ambizioni espansionistiche di Gian Galeazzo Visconti, che nel 1395 era stato investito del titolo di duca di Milano, inaugurando così la storia del principato territoriale in Italia.

Per qualche tempo parve che a Gian Galeazzo fosse aperta la strada al dominio di tutta la penisola. Con Bonifacio VIII era infatti fallito l'ultimo tentativo teocratico (1302, bolla Unam sanctam), e in seguito la sede pontificia per un settantennio sarà trasferita ad Avignone (1309-77) sotto la diretta influenza francese. Nel vuoto lasciato a Roma dal papato si svolse allora la grande e patetica avventura (1347-54) di Cola di Rienzo, proteso all'ideale di una restaurazione imperiale romana di cui fosse protagonista però tutta la nazione italiana, ormai avvertita nella piena attualità della coscienza culturale e morale. Dopo il suo fallimento e la riconquista dello stato a opera del cardinale Albornoz, la via sarà aperta al ritorno in Italia del papato, che tuttavia poggerà su basi assai incerte fino al superamento dello scisma d'occidente (1417).

Il regno meridionale, passato agli Angiò dopo la battaglia di Benevento (1266), aveva perduto la sua unità in seguito alla lunga guerra del vespro (1282-1302), che erigeva la Sicilia a regno separato con Federico II d'Aragona. Con Roberto I d'Angiò il Regno di Napoli potè tuttavia mirare all'egemonia italiana (1309-43); ma in seguito i segni della decadenza vennero accentuandosi, soprattutto per l'incapacità del regno di adeguarsi ai progressi economici dell'Italia comunale, che aprirono a mercanti fiorentini e genovesi la conquista di privilegiate posizioni economiche nel mezzogiorno.

Grandi successi militari aveva ottenuto Genova, che prevalse su Pisa nella battaglia della Meloria (1284), e più volte mise in gravi difficoltà la stessa Venezia: ma questa, respinto l'attacco portato con la guerra di Chioggia (1378-81) alle porte della laguna, finì per uscire meglio dalla lotta, grazie soprattutto alla organica debolezza politica di Genova (dove lo stato comunale fu anche più debole che altrove) e alla forza invece della propria costituzione interna, avviandosi, già con la serrata del Maggior consiglio (1297), a un graduale consolidamento delle istituzioni aristocratiche.

Morto Gian Galeazzo Visconti (1402), nessuno stato italiano si mostrò dunque in grado di aspirare seriamente alla unificazione della penisola, nonostante gli accrescimenti cospicui di Venezia nella terraferma.

Tuttavia lo stato cittadino aveva ormai raggiunto il termine della sua stagione. Incapaci di reggere alla violenza armata delle compagnie di ventura, le città videro ascendere taluni dei loro condottieri (primo fra tutti Francesco Sforza a Milano) a dignità principesca; e il conferimento di titoli feudali di origine imperiale o pontificia rafforzò il regime signorile, garante di un maggiore equilibrio tra città dominanti e contado, e di una struttura statale svincolata dal gioco delle parti in lotta. Vantaggi, questi, che saranno tuttavia pagati a gravissimo prezzo, con la riduzione dello stato a mero meccanismo di potere; esso sarà il primo a elaborare in Europa, nella burocrazia, nella finanza, nella diplomazia, taluni strumenti dello stato moderno, ma vedrà restringersi in modo decisivo la misura della partecipazione popolare su cui si era retta finora la vita delle città-stato italiane.

E ciò anche là dove, come a Firenze, le forme repubblicane vennero cedendo il luogo, verso la metà del sec. XV, a una signoria non di tipo feudale e militare, ma strettamente cittadina e borghese come quella dei Medici.

□ Il rinascimento

Anche l'Italia conobbe, a metà del sec. XIV, quella crisi demografica che allora investì tutta l'Europa e per certi aspetti interruppe lo slancio espansivo dei secoli precedenti. La crescita della produzione agricola, sollecitata dalla crescita della popolazione, aveva infatti trovato un limite invalicabile nella stazionarietà delle tecniche: il conseguente peggioramento del tenore alimentare doveva esporre con assai minori difese le popolazioni a epidemie, che nel 1348 assunsero il carattere di una autentica catastrofe demografica. Diminuzioni nella popolazione di molti grandi centri e scomparsa di abitati minori si constatano anche in Italia; e ne derivano sensibili modificazioni nella ripartizione delle colture, nel livello dei salari agricoli, nella stessa distribuzione del possesso della terra.

Ma la crescente influenza della borghesia nel contado consentì lo sviluppo di quella agricoltura a giardinaggio che doveva essere il maggior vanto dell'Italia peninsulare; e la rete dei commerci non solo si accrebbe, ma favorì nuovi ampliamenti nell'artigianato, soprattutto tessile, legato all'importazione dall'estero di materia prima e volto in larga misura a mercati anch'essi esteri.

Sorsero allora a Firenze, a Milano, a Venezia, unità produttive di dimensioni rilevanti anche in termini moderai (qualche migliaio di addetti in uno stesso opificio), in cui già si verificava una netta separazione del lavoro dalla proprietà dei mezzi di produzione, e che erano legate nella loro gestione alla funzione dominante del capitale commerciale; e analogamente crebbero, soprattutto a Siena e a Firenze, le attività finanziarie e bancarie, che dal piccolo prestito erano ora passate al finanziamento di papi e imperatori, di signori e di sovrani italiani e stranieri.

Così la città italiana conserva anche in quest'epoca una vitalità che le consente di alimentare fra il sec. XV e il XVI la fase più matura e più alta del rinascimento. Allora culminò la stagione più creativa della storia d'Italia. Dalla riscoperta del mondo antico nei suoi lineamenti autentici, rivelati dalla nuova filologia, nacquero infatti nuovi atteggiamenti verso la cultura, la politica, il mondo della natura, e una concezione nuova dell'uomo e del suo destino, di cui ora si scorge una dimensione laica e terrena che drammaticamente si contrappone e talora si sostituisce a quella sovrannaturale insegnata per secoli dal cristianesimo. Dramma autentico, perché il nuovo umanesimo ben raramente assume posizioni nettamente anticristiane, ma sente invece acutamente il problema d'inserire la nuova cultura sul tronco della vecchia.

Nei secoli precedenti l'Italia aveva vissuto profondamente ideali di rinnovamento cristiano: e forse soprattutto alla religione consolatrice e alla visione di un universo fatto di amore predicata dal francescanesimo, la religiosità italiana dovette quei caratteri che più tardi la metteranno al riparo dai drammi più tempestosi della riforma. Tuttavia, anche in Italia l'adeguamento dell'antica mentalità religiosa al mondo moderno ebbe talora i caratteri di una drammatica frattura: e non è forse un caso che proprio la città emblematica della nuova era abbia conosciuto, con Savonarola, il momento più intenso e consapevole di questo scontro.

La superiore armonia di una visione classica e naturalistica del mondo; la scoperta di una nuova dignità dell'uomo; la visione spregiudicata della realtà; la convinzione che ora, finalmente, fosse tornata a risplendere dopo la lunga parentesi dell'età media la sola e vera civiltà di Grecia e di Roma; un nuovo rapporto con la natura, che non è ancora, nonostante Leonardo, quello della scienza moderna, ma ricerca nuove vie per dominarla; l'esaltazione della funzione civile delle lettere: questi temi, che fanno del rinascimento italiano uno dei grandi momenti della cultura universale, sono anche i temi attraverso i quali si consolida il sentimento di una rinnovata superiorità civile italiana sulle nazioni «barbare» d'oltralpe. Che è, con accenti diversi, sentimento comune anche a queste nazioni stesse, specie quando con le guerre d'Italia esse verranno a più diretto contatto con la civiltà che a Firenze e a Roma ha i suoi centri maggiori.

Ma le forze economiche e politiche di cui si alimentava questa fioritura culturale erano ormai incapaci di ulteriori sviluppi. Nella politica di equilibrio che domina i rapporti tra i cinque maggiori stati, Milano, Venezia, Firenze, Napoli e Stato della Chiesa durante la seconda metà del Quattrocento, si esprime l'impossibilità per l'Italia di darsi uno stato nazionale paragonabile a quelli creati dalle grandi monarchie d'occidente negli stessi anni: impossibilità a lungo deplorata e oggetto per secoli di amare riflessioni, a cominciare da quella machiavelliana, e che tuttavia trova le sue ragioni in quella stessa vitalità del particolarismo italiano da cui attingeva le sue forze più autentiche la grande cultura del rinascimento.

Ma sul terreno politico quel particolarismo doveva crollare nell'urto con le nuove massicce realtà politiche d'oltralpe: e la grande lotta fra Francia e Spagna, conclusasi nel 1559 con la prevalenza di quest'ultima, segnava la fine non solo dell'indipendenza ma anche del rinascimento italiano. La mancanza di tradizioni militari dei ceti borghesi che avevano soppiantato l'aristocrazia feudale doveva limitare ulteriormente la capacità di resistenza delle strutture politiche degli stati italiani, a base troppo ristretta, e privi di solide tradizioni: come si vide nella sia pur provvisoria disgregazione provocata nei momenti di crisi dalla ripresa di vecchi motivi di autonomia cittadina anche nei più saldi tra gli stati regionali, inclusa la stessa Venezia dopo Agnadello (1509).

Nonostante episodi di tenace resistenza, tra i quali va ricordata la lotta della Repubblica Fiorentina contro le truppe imperiali nel 1530, nacque allora il detto che gli italiani «non si battono», destinato ad accompagnare la cattiva fama di cui essi come soldati hanno sempre goduto dopo di allora: che è un fatto di cui non esistono spiegazioni semplici, ma nel quale invece confluiscono la scarsa autorità morale e politica degli stati regionali, la debolezza delle loro risorse, la rottura dei vecchi legami di fedeltà personale tra popolazioni del contado e signori feudali, l'imborghesimento dell'antica nobiltà terriera e militare.

Il sacco di Roma (1527) sembrò la fine di un mondo, il mondo della splendida Italia rinascimentale: e se questa può apparire ed è per certi aspetti una drammatizzazione eccessiva, è tuttavia un fatto che la perdita dell'indipendenza aggiunse un ostacolo ulteriore all'evoluzione della penisola a stato nazionale, cioè a una delle condizioni essenziali che sostennero l'ascesa dei grandi paesi d'occidente a punte avanzate della civiltà moderna.

In Italia le civilissime oligarchie cittadine, prive del sostegno delle masse popolari da tempo ormai escluse da ogni partecipazione politica, e da sempre segregate dal contado, venivano così degradate a custodi di un glorioso passato di cui sempre più insistentemente ci si chiederà se avesse un avvenire.

D'altra parte, con la riforma una nuova sfida veniva lanciata al predominio spirituale non solo della Roma cattolica ma della cultura italiana, la quale, nel suo insieme, restò solidale con la prima, nonostante fenomeni di straordinario interesse intellettuale, come G. Bruno, T. Campanella e gli eretici italiani che, tra fanatismo cattolico e protestante, lanciarono per primi la parola di tolleranza religiosa.

□ Dominio straniero e controriforma

Il prestigio della cultura rinascimentale continuò in ogni modo a illuminare la vita intellettuale italiana fino alla seconda metà del sec. XVII, e assicurò all'italiano come lingua di cultura e alla civiltà della penisola una irradiazione europea destinata a durare per molti decenni. Da ciò la storiografia recente, nel proposito di reagire agli eccessi patriottici della tradizione risorgimentale, ha tratto motivo di raffigurare l'età della «decadenza» e delle «preponderanze straniere» come una positiva stagione della vita nazionale, contrassegnata da un livello civile ancora comparativamente elevato e da conquiste intellettuali fra le quali occupa un posto capitale la scoperta del metodo matematico sperimentale, che inaugurò la scienza moderna e che assicura a Galileo Galilei una posizione preminente in tutto lo svolgimento della cultura mondiale.

Ma si trattò di risultati rimasti per secoli pressoché senza seguito, perché anche in questi settori la funzione di guida venne allora passando ad altri paesi.

Gradualmente la vita italiana venne estraniandosi dalle grandi correnti culturali e politiche del mondo moderno, e la parte che nel loro sviluppo ebbero gli emigrati dalla penisola, politici come Mazarino, militari come Montecuccoli, artisti come Metastasio, fu piuttosto la proiezione di una vitalità ancora energica seppure in declino che non una promessa di avvenire.

La reazione controriformista tentò di volgere a difesa della religione tradizionale le risorse della cultura umanistica e rinascimentale, che acquisterà una dimensione sociale nuova nell'attività pedagogica dei gesuiti, nell'impiego propagandistico della cultura figurativa del barocco, nel'azione educativa della chiesa riformata dal concilio di Trento. È probabilmente errato ridurre ogni aspetto della controriforma a mero esercizio di autorità e di potere a difesa delle istituzioni esistenti, perché è indubbio che controriforma significò, anche in Italia, modi di più intensa pietà, impegno più attivo sul terreno caritativo e della assistenza ad ammalati e bisognosi, clero meno incolto e più vicino alle masse popolari.

Certo, andarono smarriti in gran parte i fermenti di rinnovato cristianesimo, mondo da inframmettenze temporali, che anche da noi avevano animato le esperienze di riforma cattolica del primo Cinquecento: ma i nuovi culti popolari e i nuovi ordini religiosi e il fervore della cultura ecclesiastica, che vantò nomi come quelli di san Roberto Bellarmino e di C. Baronio, destinati a restare tra le massime forze intellettuali della chiesa, non possono ridursi a soli fatti di ostentazione ed esteriorità.

L'Italia religiosa della controriforma non vantò momenti di così intenso misticismo e di così vissuta santità come quelli che in Spagna si riassumono nel nome di santa Teresa di Àvila né forse esperienze religiose così varie e diffuse come quelle che si registrarono in Francia: ma allora tuttavia si ebbe una più vera conquista della società civile da parte della religiosità cattolica, o quanto meno del costume cattolico, promosso da un clero che il concilio di Trento aveva radicalmente migliorato.

In tal senso va anche intesa la dimensione culturale e religiosa che sta all'origine del barocco, nel quale si realizzò ancora una grande fase dell'arte italiana e una sorta di risposta complessiva della cultura cattolica alla spinta che veniva dai paesi protestanti: e fu anzi una risposta ricca di temi autonomi e originali, destinati in seguito a non più rinnovarsi.

Un giudizio equilibrato su questi aspetti, che hanno dato luogo ancora in anni recenti a discussioni impegnate sui concetti per certo aspetto contrapposti di riforma cattolica e di controriforma, è reso tuttora arduo dagli strascichi di antiche polemiche. Senza dubbio, la controriforma fu anche autoritarismo e repressione, in misura non secondaria; contribuì anche a diseducare gli italiani alle forme più moderne della vita civile che venivano affermandosi nell'Europa occidentale, e che del resto in Italia stentavano ad attecchire per ragioni anzitutto politiche ed economiche. Ma non sembra che siffatte considerazioni possano essere accolte tuttora nei termini in cui per secoli sono state proposte dalla polemica protestante, largamente introdottasi anche in Italia per il tramite della cultura laica e liberale.

In tal senso, i richiami che tuttora si fanno alla mancata riforma protestante come origine di tutti i mali, veri o presunti, della vita morale e del costume civile italiano, sono da relegare in modo definitivo tra i prodotti di una mitologia storica che esercitò a suo tempo una funzione importante, ma che oggi è interamente esaurita.

D'altra parte, sul terreno politico il predominio spagnolo significò graduale decadenza del papato dalle vette nuovamente raggiunte fra Quattrocento e Cinquecento, e riduzione degli stessi stati italiani nominalmente indipendenti, Venezia e Firenze, Genova e Savoia (nonostante il dinamismo di quest'ultima con Carlo Emanuele I, 1580-1630), a una immobilità che è anche impotenza politica; mentre lo spirito del tempo, legato a una concezione ancora largamente personale della sovranità, consentiva di avvertire meno gravemente il fatto che adesso Napoli e Milano facessero capo al re di Spagna.

Contemporaneamente venivano a cessare le condizioni che per secoli avevano assicurato la supremazia economica della penisola. Non che si debbano accogliere le vecchie ipotesi di una subitanea decadenza italiana a seguito della scoperta delle nuove vie di navigazione atlantiche. Per quasi tutto il Cinquecento, infatti, è difficile parlare di una riduzione delle attività economiche, commerciali e industriali, delle città italiane; e Genova conquista anzi nella seconda metà del secolo un primato finanziario a livello europeo, con i suoi banchieri, finanziatori della Spagna di Filippo ii, che prendono il posto di quelli di Augusta e di Anversa.

Ma l'avanzata turca erode a poco a poco i residui possessi italiani nel levante, nonostante il contributo recato soprattutto da Venezia alla grande vittoria di Lepanto (1571); i pirati barbareschi insidiano sempre più le rotte mediterranee e le stesse coste della penisola; le flotte inglesi e olandesi nella seconda metà del secolo appaiono anch'esse al di qua di Gibilterra e infliggono seri colpi alle navi genovesi e veneziane, sul piano commerciale e su quello militare. Si avvicina l'epoca della grande fioritura di Livorno come base della presenza commerciale britannica nel Mediterraneo.

Il predominio della legislazione cittadina sul contado rende d'altronde più arduo alle industrie nuove sottrarsi al controllo delle corporazioni urbane, trasferendosi in campagna, come invece accadeva allora in Francia, Olanda e Inghilterra.

I proventi del grande commercio coloniale restavano preclusi ai mercanti italiani, tagliati fuori dalle rotte oceaniche per ragioni geografiche e militari, e privi di quei possessi oltremare che la politica del mercantilismo riservava al monopolio della madrepatria. Così si accentua il riflusso di capitali verso la terra, che già si era iniziato nel sec. XV: con conseguenze peraltro diverse nelle diverse parti del paese.

Il Cinquecento è infatti un secolo di indubbia prosperità agricola: ma il mezzogiorno e la Sicilia, che figurano tuttora tra i grandi esportatori di grano, restano legati alle tradizionali strutture latifondistiche, mentre nella valle padana lo sviluppo dell'allevamento, l'evoluzione del grande affitto verso forme imprenditoriali, l'estensione dell'irrigazione gettano le fondamenta del capitalismo agrario. Le conseguenze si avvertiranno soprattutto dopo il 1620, col crescente divario fra le due regioni.

È questa un'epoca nella quale molta parte della borghesia degli uffici e degli affari entra nelle file della nobiltà terriera, con l'acquisto di titoli largamente concessi, specie dalla Spagna. Non serve parlare, a questo proposito, di rifeudalizzazione, che i contenuti sociali degli istituti che regolano la vita delle campagne sono ormai, tranne che nel mezzogiorno, profondamente diversi.

Ma certo il Seicento è caratterizzato da una netta prevalenza delle forze terriere, che investono buona parte della rendita fondiaria nella grandiosa edilizia signorile dell'età barocca; ed è anche un'epoca di decadenza mercantile, nella quale per la prima volta lo sviluppo demografico delle campagne supera quello delle città.

E a questo irrigidirsi delle strutture sociali corrisponde la stagnazione intellettuale della cultura umanistica nella nuova interpretazione della controriforma e il consolidamento, a livello politico, degli stati assoluti e delle repubbliche aristocratiche. Sono stati caratterizzati da una completa impotenza sul piano internazionale (a eccezione dello stato sabaudo), e ciò preclude anche lo sviluppo di quel tanto di spirito politico nazionale che nei paesi d'occidente si educa invece alla scuola delle grandi lotte per il predominio.

Tuttavia le strutture statali create nel tardo medioevo, al tempo delle signorie e dei principati, si vengono consolidando, e intorno a esse si sviluppa una più stabile coscienza politica, limitata ai ceti che più direttamente sono chiamati a partecipare alla loro direzione. È questa una partecipazione che assume forme diverse a seconda delle diverse istituzioni politiche vigenti nei vari stati, dagli organismi collegiali di governo che circondano il doge a Venezia all'assolutismo burocratico militare piemontese alle istituzioni parlamentari siciliane.

Ma è comune a tutti questi gruppi dirigenti (fa eccezione il caso specialissimo del governo ecclesiastico nello Stato della Chiesa) una coscienza fondata sul privilegio politico e sociale che li divide dal resto della popolazione e ne fa i portatori di specifiche responsabilità collettive nei pubblici affari. Nascono così le «nazioni» veneta e piemontese, siciliana e napoletana, non troppo diverse, nei caratteri interni e nei contenuti, dalle più grandi «nazioni» francese o inglese o spagnola, che anch'esse resteranno, sino alla rivoluzione e allo sviluppo del liberalismo moderno, nazioni di soli ceti privilegiati.

La parola «nazione» è più o meno frequentemente adoperata nelle varie regioni per indicare le rispettive comunità civili e politiche, ma sarebbe fuorviante attribuire a questa diversità di consuetudini verbali un significato prevalente in confronto all'evidente analogia dei contenuti. Resta, tuttavia, questa coscienza delle «nazioni» regionali, tanto meno intensa e meno vigorosa quanto meno vigorose e più povere di sviluppo sono la vita politica e la reale autonomia degli stati italiani in confronto alle grandi potenze protagoniste della storia moderna d'Europa; e tanto più facilmente tali nazioni saranno perciò spazzate via dalla crisi rivoluzionaria che trasformerà la Francia dalla vecchia monarchia del re cristianissimo nella Francia della nation mobilitata dalla leva in massa, e inaugurerà la storia delle nazionalità e dei nazionalismi moderni.

La presenza di una coscienza politica a livello regionale non toglie tuttavia che una sorta di coscienza dei comuni interessi italiani si riveli a tratti, e abbia anche manifestazioni di rilievo, come accadde nel diffuso antispagnolismo che raggiunse, con Alessandro Tassoni, un'eco europea. Ma questa coscienza degli interessi comuni non giunse mai, nonché a prevalere, neppure a improntare durevolmente la politica dei singoli stati, sempre orientata essenzialmente in funzione dei loro particolari interessi.

Dopo il 1620 la decadenza economica non solo segna un distacco crescente tra l'Italia e quelli che si comincia a designare come «i grandi paesi manifatturieri d'occidente», ma dà anche luogo a grosse insurrezioni contadine di cui la più importante (e più significativa dei contemporanei tumulti di Masaniello a Napoli e di Giuseppe d'Alesi a Palermo) sarà quella del 1647-48 nelle campagne meridionali: senza peraltro che ne venissero mutate le sorti del paese, divenuto ormai passivo oggetto della politica internazionale, nella quale persino il papato, dopo la pace di Vestfalia, ha cessato di recitare una parte di rilievo.

E solo le modificazioni dell'equilibrio europeo seguite alla guerra di successione di Spagna metteranno termine, all'inizio del sec. XVIII, al predominio spagnolo nella penisola. Il posto della Spagna sarà preso dall'Austria, che si insedierà durevolmente a Milano, mentre il Regno di Napoli, con la Sicilia, nel 1734 riconquisterà, sotto Carlo di Borbone, la sua indipendenza, e la Sardegna nel 1720 entrerà a far parte dei possessi sabaudi al posto della Sicilia, che nel 1713 aveva apportato ai duchi di Savoia il titolo regio.

□ Illuminismo e riforme

Fra Seicento e Settecento venne dunque a maturazione quel ritardo, non più solo politico ma anche sociale e culturale, che doveva caratterizzare tutta la successiva storia d'Italia in confronto ai paesi dell'Europa nordoccidentale. Il grande commercio oceanico, gli imperi coloniali, gli sviluppi della produzione manifatturiera in Inghilterra, Francia e Olanda, erano all'origine di una nuova realtà economica e sociale alla quale l'Italia, anche nelle regioni più progredite, restava penosamente inadeguata.

La «crisi della coscienza europea» metteva in discussione i valori della tradizione religiosa, e cattolica in particolare, nel nome dell'illuminismo razionalistico i cui esponenti più radicali e combattivi erano espressione della cultura d'oltralpe: anche se all'origine di tutto ciò v'era, accanto alla riforma, quella scienza moderna che nell'italiano Galilei aveva avuto uno dei suoi fondatori. E, con l'illuminismo, acquistavano una posizione egemonica nella cultura europea la visione della storia religiosa e civile e la scala di valori ideali e morali che erano derivati dalla rivoluzione protestante, e il cui bersaglio polemico più vistoso era proprio quella tradizione umanistica e cattolica in cui si era assestata, dalla metà del Cinquecento, la vita italiana.

Alla serena coscienza della propria superiorità intellettuale, che gli italiani avevano ereditato dal rinascimento, venne dunque sostituendosi, a partire dagli ultimi decenni del Seicento, e più nel secolo successivo, la presa di coscienza di un divano culturale che venne gradualmente ampliandosi a divario di civiltà. Da quest'epoca, i gruppi più vivaci e moderni, sul terreno culturale e su quello politico, si proporranno anzitutto di colmare quel divario, di portare l'Italia al livello dei grandi paesi d'occidente, visti ormai come possessori di un indiscutibile primato nel quadro della civiltà moderna. Le conseguenze saranno amplissime e durature, anche in funzione del rapporto che all'interno della coscienza nazionale verrà a stabilirsi tra i valori della tradizione culturale italiana e quelli della nuova civiltà moderna laica e razionalista.

Il classico senso dell'armonia, la scettica tolleranza, l'acuto individualismo, l'istinto scenografico, la tendenza al compromesso, nati dalla civiltà comunale e signorile e dalla tradizione cattolica: tutto ciò insomma che era più specificamente italiano e costituisce ancora, agli occhi di italiani e stranieri, la più amabile caratteristica dei rapporti umani nella penisola, verrà avvertito dalla cultura e dalla coscienza politica più impegnata e militante come indice di arretratezza e di inferiorità etica e civile rispetto al rigore morale, alla razionalità, disciplina ed efficienza del mondo nordico e protestante.

I valori di questo mondo verranno anche teorizzati come proiezione ultima della cultura italiana del rinascimento, e il ricongiungimento all'Europa moderna verrà dunque sentito e predicato anche come ricerca, da parte dell'Italia, del suo essere più vero e della sua più vera tradizione: ma la meta apparirà sempre rinviata nel tempo e il compito irresolubile, come quello che chiedeva al paese di cimentarsi su un terreno nel quale esso appariva irrimediabilmente svantaggiato. E ne deriverà una sorta di coscienza schizofrenica, che sarà all'origine di quella alternanza di esasperato nazionalismo e di internazionalismo astratto da cui è caratterizzata la successiva storia italiana; fino a quando essa non sembrerà assestarsi, come oggi accade, nel riconoscimento di una funzione e posizione strutturalmente secondaria dell'Italia nel mondo moderno. Riconoscimento tanto più grave quanto più i valori umani e civili di quella «modernità» verranno a coincidere, o verranno sentiti come coincidenti, con quelli che meglio si adattano alla dimensione tecnologica delle società avanzate.

Nel corso del Settecento anche in Italia la cultura illuministica venne dunque prendendo un posto dominante: e non solo come ricezione di quanto veniva fatto e pensato altrove, ma grazie anche all'originale contributo che allo sviluppo delle nuove idee diedero scrittori e pensatori italiani, da P. Giannone (che propriamente illuminista non fu ma venne tuttavia innalzato a simbolo universale della lotta contro la curia romana) ai fervidi seguaci del nuovo credo: A. Genovesi, F. Galiani, G. Filangieri, i fratelli P. e A. Verri, C. Beccaria.

Le tradizioni culturali e le strutture sociali della penisola contribuirono tuttavia a tenere l'illuminismo italiano entro limiti ai quali rimasero sostanzialmente ignote le posizioni più estreme dell'illuminismo d'oltralpe, sul piano metafisico-religioso e su quello del pensiero e dell'utopia politica e sociale.

Anche in Italia l'autorità intellettuale della chiesa venne comunque a ricevere una scossa assai grave, e subì sconfitte non lievi, sul piano giurisdizionale e su quello del potere politico, fra l'altro per lo scioglimento della Compagnia di Gesù (1773).

Ma decisivo fu soprattutto il terreno delle riforme. Le quali ebbero efficacia maggiore là dove, come nella Lombardia austriaca, potere politico e intellettuali intervennero, con la riforma fiscale e il catasto teresiano, a sostegno di un'attività economica in fase di rapida espansione e rinnovamento strutturale; ebbero grande eco in Toscana, dove si giunse prima che altrove all'abolizione della pena di morte e alla libertà di commercio dei grani; furono al centro di una grande battaglia intellettuale nel Regno di Napoli in tutto ciò che riguarda la rivendicazione della sovramtà dello stato nei confronti della curia (culminata nell'abolizione della soggezione feudale del regno verso Roma, 1788), mentre vi rimasero arretrate e prive di efficacia le misure intese a combattere o abolire il privilegio feudale, che ancora trovava, nelle strutture agrarie del mezzogiorno, un sostegno che altrove veniva rapidamente svanendo nella penisola.

Il Settecento fu infatti quasi dovunque un periodo di ripresa e progresso agrario. Lo sviluppo della grande azienda capitalistica nelle zone irrigue della valle padana diede vita alle forme produttive più avanzate che si registrassero in tutte le campagne italiane; e anche nelle zone asciutte della pianura e in vaste zone della collina lombardo-piemontese le vecchie forme mezzadrili vennero evolvendosi in senso capitalistico, grazie anche allo sviluppo delle colture legnose, e in particolare del gelso, in relazione alle maggiori esportazioni di seta greggia sollecitate dalla crescente domanda delle industrie francesi e inglesi.

Queste esportazioni dovevano avere un'importanza determinante nel progresso economico dell'Italia padana e della Lombardia in particolare; assumendo un'importanza non minore di quella che si attribuisce alla coltura del granturco, diffusasi nel sec. XVII, che aveva segnato un decisivo incremento delle disponibilità alimentari. Progressi si registrarono anche altrove, specie nel settore delle colture specializzate, anch'esse sollecitate dalla maggiore domanda dei paesi occidentali a livello di vita più elevato.

Pur nell'arretrato mezzogiorno nuovi proprietari borghesi vennero sostituendosi alla nobiltà, e lo sviluppo della produzione agricola consentì di registrare dopo il 1764 la definitiva scomparsa delle carestie, nonostante che nel corso del secolo la popolazione di quelle regioni passasse da tre a cinque milioni.

Ma nell'insieme l'attività riformatrice dei principi non riuscì a inserire l'Italia nell'area di accelerata espansione che si era formata nell'Europa occidentale.

Sul piano politico il Piemonte aveva realizzato cospicui vantaggi nella prima metà del secolo, con l'acquisto del titolo regio e più tardi (1748) con l'annessione dell'alto novarese, di Voghera e di Vigevano. Ma il successivo ravvicinamento franco-austriaco, che garantì all'Italia mezzo secolo di pace, eliminò anche la condizione prima dell'espansionismo sabaudo.

□ Il risorgimento

Tutto ciò mette in rilievo la decisiva importanza che per l'Italia ebbe l'urto con la nuova realtà uscita dalla rivoluzione francese. Ancor prima dell'apparizione di Bonaparte alla testa dell'armata d'Italia, la rivoluzione suscitò speranze ed entusiasmi, trasformatisi poi in forme organizzate di appoggio e di consenso nelle nuove repubbliche, e più tardi nel Regno d'Italia e nelle altre regioni, annesse all'impero direttamente o sotto forma di stati satelliti. Le armate francesi fornirono ai riformatori la forza politica che era mancata nell'età precedente, e resero dunque possibile una serie di innovazioni assai più vaste e radicali.

Certo, non va dimenticato che la rivoluzione esercitò in Italia il suo maggiore influsso quando la fase estremista e giacobina era sostanzialmente superata: da ciò l'assenza nella penisola di radicali esperienze rivoluzionarie, e in particolare di quel vasto processo di ridistribuzione della proprietà terriera che in Francia liquidò anche una larga parte della proprietà nobiliare, mentre in Italia restò limitato ai beni ecclesiastici. Tuttavia alla sua caduta l'impero lasciò in Italia una serie di istituzioni civili e amministrative di tipo moderno che per gran parte sopravvissero, e una società borghese assai più sviluppata. Il dominio francese suscitò anche reazioni, che nella parte più vitale si tradussero non nel vagheggiamento dell'antico regime, ma in una ideologia nazionale che si alimentava insieme della esperienza rivoluzionaria e del romanticismo.

L'eredità rivoluzionaria e napoleonica fu particolarmente viva negli anni fino al 1830-31, che videro ancora sulla scena uomini e metodi della rivoluzione e dell'impero. Le organizzazioni settarie, della carboneria al sud e dei federati al nord, furono in buona parte strumento dei ceti borghesi sviluppatisi nell'era napoleonica, che tentarono, nel 1820-21, di tornare al potere a Napoli e in Piemonte. L'ideale comunistico di F. Buonarroti, che pur ebbe tanta parte in quelle trame, incise, di fatto, in modo assai scarso sugli avvenimenti di quell'anno. Libertà e nazionalità divennero invece, specie nel moto piemontese, gli ideali dominanti, traducendo per la prima volta sul terreno politico le aspirazioni letterarie della generazione alfieriana e foscoliana; e allora apparve tra gli avversari da battere, più e prima delle tirannidi domestiche, la potenza austriaca, saldamente installatasi nel Lombardo-Veneto.

Ma solo con Mazzini la predicazione nazionale penetrò largamente nella borghesia italiana e in alcuni strati dell'artigianato, e assunse quel tono religioso e quell'impegno morale che dovevano caratterizzare così profondamente l'idea della «patria» risorgimentale. Con Mazzini il moto nazionale italiano si definiva come parte del più vasto moto di rivolta della nuova Europa dei popoli contro la vecchia Europa dei sovrani della restaurazione; ma al tempo stesso, con caratteristica contraddizione, iscriveva sulla sua bandiera la lotta contro il materialismo rivoluzionario, rivendicando una specifica iniziativa italiana che in questo senso, e solo in questo, si accosta alla rivendicazione giobertiana del Primato. Espressioni, l'una e l'altra, della fondamentale antinomia che caratterizza, come si è detto, la posizione della nuova classe dirigente italiana fra tradizione nazionale ed Europa moderna; e che sarà invece assente dall'opera di Cavour, tutto Europa e progresso moderno, diffidente delle tradizioni umanistiche della vecchia Italia, e fiducioso nell'avvenire di un mondo che attorno a Francia e Inghilterra facesse tuttavia posto a un'Italia rinnovata nel nome della civiltà razionalistica liberale.

A uomini come Cavour e alla borghesia moderata settentrionale, legata al mondo dell'agricoltura e del commercio padano in rapido sviluppo, si dovette l'apporto più deciso alla modernizzazione del paese: modernizzazione che peraltro non giunse mai a coinvolgere l'intera società italiana, ma approfondì anzi le antinomie sociali e culturali che stavano alla sua base.

Sentimento romantico della tradizione e della missione nazionale nel mazzinianesimo, volontà di ammodernamento del moderatismo liberale più avanzato e, per un breve periodo, tradizione cattolica neoguelfa si unirono dunque nell'impegno nazionale di tutte le forze attive della società e della cultura italiana; e nella grande prova del 1848 sembrò che tutte uscissero battute.

Ma il Piemonte, pur dopo la nuova sconfitta del 1849 a Novara, riuscì a conservare, unico fra gli stati italiani, lo statuto concesso l'anno prima da re Carlo Alberto: e a salvaguardare, con esso, la piattaforma sulla quale Cavour potè erigere il nuovo edificio liberale.

Riunite le forze del liberalismo moderato nell'alleanza parlamentare del «connubio» (1852), la laicità dello stato venne affermata con la soppressione delle corporazioni religiose (1855), seguita alle leggi Siccardi (abolizione dei privilegi ecclesiastici) del 1850; il predominio del parlamento sulla corona fu sanzionato dopo la crisi calabiana dello stesso anno; lo sviluppo economico fu accelerato con una politica di intransigente liberismo e di incentivi agli investimenti esteri.

L'intervento in Crimea (1855) offrì l'occasione di schierare il regno sardo a fianco delle potenze occidentali; e, benché privo di risultati immediati (congresso di Parigi, 1856), volse al Piemonte le speranze e le attese di gran parte del movimento nazionale. Le aspirazioni italiane del Piemonte divennero un elemento di primo piano nei disegni di Napoleone in miranti alla revisione dei trattati del 1815.

Gli accordi di Plombières (1858) si tradussero nella seconda guerra d'indipendenza del 1859; e con essa l'egemonia austriaca sulla penisola ricevè un colpo mortale. I preliminari di Villafranca arrestarono la guerra prima che il Veneto fosse raggiunto: ma la Lombardia veniva unita al Piemonte, e l'anno successivo l'Emilia e la Toscana, già liberatesi degli antichi sovrani, venivano annesse in seguito ai plebisciti del marzo 1860. Per ottenere l'assenso di Napoleone in a queste annessioni Cavour aveva dovuto cedere alla Francia la Savoia e Nizza; ma la garanzia così acquistata si rivelò preziosa anche quando Garibaldi e il Partito d'azione promossero la spedizione dei Mille nel mezzogiorno.

Il dominio dei Borboni crollò nel generale sfaldamento di ogni struttura militare, politica e morale, solo in parte riscattata dall'ultima resistenza al Volturno e a Gaeta. Ma con ciò veniva rimessa in discussione la direzione sabauda del moto nazionale: e fu questa la minaccia che Cavour fronteggiò con la spedizione nell'Italia centrale, che assicurò l'acquisto delle Marche e dell'Umbria e portò, con i plebisciti (novembre 1860), all'annessione delle regioni meridionali al regno di Vittorio Emanuele II.

L'intervento monarchico nel mezzogiorno parve, a molti del Partito d'azione, illegittima spoliazione dei frutti della vittoria, e creò una lacerazione morale che doveva pesare a lungo sulla storia del paese. Ma il 17 marzo 1861 nasceva ufficialmente il Regno d'Italia, che, eccetto le Venezie, ancora austriache, e il Lazio, rimasto, con Roma, al pontefice, comprendeva tutta la penisola, riunificata dopo oltre un millennio.

L'Italia liberale

A completare siffatta unità e a consolidarla a livello amministrativo, economico e civile, si volse lo sforzo della destra storica, erede della tradizione cavourriana e proveniente per buona parte da un ristretto ceto di proprietari terrieri e di benestanti di origine settentrionale. A tutta la penisola vennero estesi la legislazione amministrativa, l'ordinamento fiscale e il regime doganale piemontese: e contro le aspirazioni e le attese autonomistiche, di cui si temevano i pericoli, specie in relazione alla crescente resistenza del mezzogiorno, si riaffermò un rigido accentramento amministrativo.

Nel tempo stesso si diede inizio a una politica di grandi investimenti pubblici, soprattutto nelle costruzioni ferroviarie, mentre il liberismo doganale, in regime di alti prezzi internazionali, favoriva la commercializzazione dell'agricoltura, distruggeva l'industria domestica e creava in tal modo il mercato interno necessario allo sviluppo della produzione capitalistica.

La politica di investimenti, unita alle grosse spese militari e al deficit ereditato dal Piemonte cavourriano, rese necessario un regime fiscale assai gravoso, e specialmente risentito nel mezzogiorno, più povero e sostanzialmente incapace di inserirsi nelle prospettive di sviluppo che si aprivano invece per le regiom settentrionali.

Di tutto questo si alimentò la rivolta contadina nel mezzogiorno che, nella forma del brigantaggio, infuriò fino al 1870 e costrinse lo stato liberale a un grosso e sanguinoso sforzo di repressione.

In politica estera il governo della destra, stretto fra la tutela concessa al potere temporale da Napoleone III e le arrischiate iniziative del Partito d'azione, assentì, nel 1864, al trasferimento della capitale a Firenze, quale pegno della sua rinuncia a una immediata annessione di Roma, e nel 1866 scese nuovamente in campo contro l'Austria: ma la delusione fu amarissima, con la duplice sconfitta subita per terra a Custoza e per mare a Lissa.

Tuttavia, le vittorie della Prussia alleata e l'appoggio diplomatico di Napoleone in valsero ugualmente all'Italia l'annessione del Veneto, e nel 1870 la caduta di Napoleone ni sgombrò la via di Roma.

L'Italia acquistava così la sua storica capitale, sia pure a prezzo di un contrasto col mondo cattolico destinato a protrarsi per decenni, e poteva volgere tutte le sue energie allo sviluppo economico e civile.

Le delusioni del 1866 e la coscienza, che si veniva acquisendo, delle molte debolezze del paese (povertà, analfabetismo, impreparazione alla vita moderna) si univano a persuadere che ormai si era entrati in una «età della prosa» nella quale conveniva guardare ai problemi concreti e non alle illusioni, pur tradottesi in risultati di tanto rilievo, di cui pareva si fosse alimentata l'età precedente; e in questa atmosfera si smarriva quel sentimento di sé che gli italiani avrebbero pur potuto derivare legittimamente dall'opera compiuta nel risorgimento.

Nel 1876 la destra, sempre più isolata nel paese, con il suo rigido autoritarismo e il suo fiscalismo, dovette lasciare il governo alla sinistra: ma questa aveva da tempo accettato la piattaforma monarchico-costituzionale, e non rappresentava nulla di realmente nuovo e diverso rispetto al vecchio partito di governo. Venne soppressa qualche imposta più impopolare come il macinato, e fu allargata la legge elettorale, ma per il resto si assistette allora, con la politica parlamentare ispirata da A. Depretis, a una progressiva scomparsa dei confini tra i due maggiori partiti, più volte condannata come fenomeno deteriore e «trasformismo».

E in effetti, se quel fenomeno corrispondeva alla reale identificazione ormai verificatasi tra destra e sinistra, esso denunciava tuttavia l'incapacità delle istituzioni parlamentari a esprimere adeguatamente i nuovi e più reali contrasti che invece proprio allora venivano aprendosi alla base del paese.

Gli effetti della crisi agraria, avvertiti soprattutto dopo il 1880, si tradussero in una nuova ondata di miseria per la grande massa dei contadini, e in serie difficoltà per i proprietari. I primi reagirono, particolarmente nelle regioni meridionali, con il grandioso fenomeno dell'emigrazione, che costituì la più vistosa manifestazione di quel disagio che i meridionalisti denunciavano con sempre più grande vigore davanti all'opinione pubblica nazionale, mentre gli altri chiedevano sollecite ed energiche misure di protezione.

Negli stessi anni le banche si impegnavano sempre più nei finanziamenti all'industria, specie nei settori dell'edilizia, dell'industria cotoniera e di quella metallurgica; e appunto metallurgici e cotonieri, uniti ai proprietari fondiari (settentrionali, assai più che meridionali, nonostante le teorizzazioni di un blocco industriale-agrario), furono i maggiori sostenitori e beneficiari della nuova politica protezionista introdotta nel 1887. Essa contribuì in misura cospicua ad avviare il paese sulla via dell'industrializzazione, ma accentuò in modo rilevante il divario fra nord e sud, operando quasi esclusivamente a vantaggio del nucleo industriale esistente, e già concentrato in buona parte nelle regioni settentrionali.

Per di più, l'inizio della nuova politica commerciale coincise con lo scoppio di una guerra doganale con la Francia, con la quale ì rapporti politici erano sempre stati assai cattivi dopo il 1870, prima per le tendenze clericaleggianti del governo francese, poi per l'accostamento dell'Italia alla Germania nella triplice alleanza.

Dopo la presa di Roma l'Italia aveva infatti praticato per più anni una politica di indipendenza da legami internazionali; ma l'isolamento cominciò ad apparire assai gravoso al tempo del congresso di Berlino (1878), e ancor più quando la Francia potè impunemente annettersi la Tunisia (1881), sede di una fiorente colonia italiana, sulla quale da tempo si appuntavano speranze e ambizioni dell'Italia.

Così si giunse l'anno successivo alla Triplice (migliorata nel 1887 in varie sue stipulazioni), che doveva costituire per oltre un trentennio il pilastro della nostra politica estera; mentre nello stesso anno 1882 l'Italia metteva per la prima volta piede in territorio africano, ad Assab, e successivamente iniziava, con lo sbarco a Massaua (1885), una graduale espansione in Africa Orientale.

Sostenitore di accentuato triplicismo e di espansione coloniale fu soprattutto F. Crispi, da molti invocato, dopo Depretis, come l'uomo forte di cui il paese abbisognava per uscire dalle bassure in cui sempre più affondava la vita nazionale. Ma la fase infelicissima che la vita economica attraversava in questi anni era la meno adatta a sostenere quei grandi disegni. Dopo il 1887 vi fu una crisi pesante nel commercio estero, dissesti numerosi nell'industria edilizia, disoccupazione ed emigrazione crescente; e nel 1893-94, mentre gli scandali bancari travolgevano buona parte del sistema creditizio italiano, tumulti assai gravi scoppiavano in Sicilia e in Lunigiana.

Crispi, al quale pur si devono riforme amministrative tra le più importanti in tutta la storia dello stato italiano, represse con durezza questi tumulti, e fronteggiò la crescente opposizione a livello politico e parlamentare che vi si univa; ma dopo l'iniziale successo africano ottenuto col trattato di Uccialli (1889), in cui pareva che l'Abissinia accettasse il protettorato italiano, fu travolto dal disastro di Adua (1896).

L'Italia conservò nell'Africa Orientale la colonia dell'Eritrea, e venne poi espandendosi gradualmente in Somalia: ma l'esperienza crispina fu una tipica dimostrazione di quel contrasto fra aspirazioni di grandezza e povertà di risorse materiali e morali in cui era destinata a oscillare a lungo la vita italiana.

Nel 1892 era nato a Genova il Partito socialista: e attorno a esso si veniva organizzando buona parte del malcontento e della protesta sociale, mentre anche l'opposizione cattolica assumeva forme più precise ed efficaci.

La crisi ebbe un nuovo vertice nei tumulti di Milano del maggio 1898, sanguinosamente repressi, mentre si affacciavano disegni di instaurazione autoritaria come unica via atta a salvare l'Italia risorgimentale dalla duplice minaccia dell'Italia «rossa» e dell'Italia «nera». Ma i tentativi del governo Pelloux in questo senso naufragarono davanti alla opposizione congiunta delle sinistre costituzionali e del socialismo; e l'esasperata tensione esistente nel paese sboccò nel 1900 nell'assassinio del re Umberto I.

La svolta che seguì non fu tuttavia in senso reazionario ma liberale: a opera soprattutto di G. Giolitti, il quale mirava, attraverso la libertà d'azione concessa (anche ai danni della stretta legalità liberale) al movimento operaio, a soddisfarne le aspirazioni a maggiore giustizia sociale, e a integrarlo in tal modo nello stato: politica, questa, nella quale egli incontrò il sostanziale consenso e l'appoggio dell'ala socialista capeggiata da F. Turati.

Dal 1896-98, del resto, erano assai migliorate le condizioni dell'economia. Le banche «miste» di tipo tedesco, create al posto degli istituti crollati nel 1893-94, si rivelarono strumento assai efficace per la raccolta e l'avviamento del risparmio verso gli impieghi industriali: e, unite al protezionismo e al favorevole andamento del mercato internazionale, promossero un processo di rapida trasformazione in senso industriale dell'Italia del nord e in parte di quella del centro; mentre ancora arretrato rimaneva il sud, nonostante le «leggi speciali» allora approvate a suo vantaggio. Un tentativo di sciopero generale promosso nel 1904 dall'ala intransigente del socialismo fallì; e Giolitti continuò a dominare quasi incontrastato un parlamento caratterizzato da una larga maggioranza di suoi seguaci.

Migliorati intanto i rapporti con la Francia attraverso gli accordi del 1900 e del 1902 e ricomposte talune lacerazioni che i dissensi manifestatisi alla conferenza di Algeciras del 1906 e l'annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina (1908) avevano prodotto nel tessuto della Triplice, nel 1911-12 Giolitti potè realizzare, con la guerra di Libia, l'antica aspirazione italiana a metter piede sulla sponda africana del Mediterraneo, a cui si aggiunse l'occupazione temporanea, ma divenuta definitiva dopo il 1919, delle isole del Dodecaneso. Quasi a compensare le sinistre, Giolitti fece anche approvare, allora, la istituzione del suffragio universale maschile, per la prima volta sperimentato nel 1913. Non si ebbe il crollo della maggioranza liberale che taluni avevano paventato: ma si registrarono alleanze tra candidati liberali e organizzazioni cattoliche che suscitarono scandalo (patto Gentiloni).

Soprattutto, la violentissima campagna antimilitarista lanciata dalle sinistre durante la guerra di Libia contribuì assai a tendere l'atmosfera nel paese, mentre gli intransigenti riprendevano il controllo del Partito socialista nel congresso di Reggio Emilia (1912), che portò all'espulsione dell'ala riformista. I risultati si videro nelle gravissime agitazioni della «settimana rossa» (1914), fronteggiate con forza e moderazione da A. Salandra, succeduto, senza reale contrasto, a Giolitti.

Dopo l'attentato di Sarajevo l'Italia scelse in un primo tempo la neutralità; ma presto si fecero strada forti correnti che auspicavano l'intervento contro l'Austria, vecchio nemico del risorgimento, nonostante i trent'anni di alleanza nella Triplice.

Nel maggio 1915 l'Italia entrò dunque in guerra a fianco dell'Intesa, per l'azione congiunta della piazza interventista e del governo conservatore di A. Salandra e S. Sonnino, e contro l'avviso di Giolitti; mentre restava fedele al neutralismo il Partito socialista, solo tra tutti quelli d'Europa.

L'Italia affrontò la guerra con tutte le energie maturate nei decenni dell'Unità: energie economiche, cresciute specialmente nell'ultimo quindicennio; ed energie morali, formate in mezzo secolo di servizio militare obbligatorio, di vita politica nazionale, di educazione patriottica di cui era stata veicolo soprattutto la scuola carducciana. Ma sussistevano anche grandi debolezze, in questo paese per molta parte ancora contadino, da secoli disavvezzo ai grandi cimenti, troppo povero per competere da pari a pari con le altre grandi potenze. E tuttavia nei primi anni di guerra si potè cogliere qualche modesto successo, sia pure a prezzo di enormi perdite; e quando nel 1917 la ritirata di Caporetto provocò una crisi morale che travolse buona parte dell'esercito, si riuscì infine a resistere sul Piave, e, rintuzzata una nuova offensiva austriaca nel giugno 1918, a vincere definitivamente a Vittorio Veneto, quando peraltro l'Austria era ormai in piena dissoluzione.

Fu una prova grandiosa per l'Italia liberale: ma le sue energie ne furono quasi interamente esaurite, come si scorse subito nella gravissima crisi che la colpì nel dopoguerra.

L'Italia ottenne nei trattati di pace il Trentino e la Venezia Giulia, e nuovi confini che includevano anche notevoli minoranze tedesche e slave; ma il mancato acquisto della Dalmazia e la questione di Fiume fecero subito nascere negli ambienti nazionalisti e borghesi il mito della «vittoria mutilata»; mentre, dall'altra parte, operai sedotti dal miraggio della rivoluzione bolscevica e vecchi neutralisti, come i socialisti e lo stesso Giolitti, chiedevano espiazione a quanti giudicavano responsabili di aver condotto il paese alla guerra.

Le elezioni del 1919, condotte per la prima volta con il sistema proporzionale, registrarono un grande successo dei socialisti e del nuovo Partito popolare fondato dai cattolici di L. Sturzo. Nel paese si moltiplicavano gli scioperi e le agitazioni socialiste, culminate, nel settembre 1920, nella occupazione delle fabbriche, conclusa solo grazie al pesante intervento del governo sugli industriali, costretti ad accettare il principio del controllo operaio sulle fabbriche.

Ma tutto ciò scatenò una violenta reazione conservatrice e nazionalistica, decisa a contrapporre violenza a violenza, sotto gli occhi di uno stato liberale impotente a controllare i nuovi movimenti di massa che irrompevano sulla scena.

Protagonista di questa reazione fu il movimento fascista, sorto nel 1919 a opera di B. Mussolini, e visto con simpatia da tutti gli elementi «d'ordine» del paese, fiduciosi che anche il fascismo sarebbe rientrato, a suo tempo, nell'ordine costituzionale. Queste simpatie consentirono a Mussolini, dopo avere travolto gran parte delle organizzazioni socialiste e comuniste (il Partito comunista d'Italia era sorto nel 1921 dalla scissione verificatasi al congresso socialista di Livorno), di realizzare senza efficaci opposizioni la «marcia su Roma» delle sue «camicie nere» (ottobre 1922), e di ottenere così dal re l'investitura a presidente del consiglio.

□ L'era fascista

Del governo Mussolini entrarono a far parte anche liberali e popolari; ma l'attesa «normalizzazione» tardava a venire, tra ripetuti episodi di violenza delle squadre fasciste, organizzate poi nella Milizia volontaria sicurezza nazionale, e l'approvazione nel 1924 di una legge elettorale maggioritaria che assicurava i due terzi dei seggi alla lista vincente.

In effetti le elezioni tenute quell'anno furono un grande successo per il fascismo: ma di lì a poco l'assassinio, a opera di elementi fascisti, del deputato socialista G. Matteotti provocò una gravissima crisi per il nuovo regime, abbandonato da gran parte dei suoi alleati e investito da una generale condanna morale nel paese. Un gruppo di deputati, detti «aventiniani», rifiutò di partecipare alle sedute della camera fino a quando il sovrano non avesse dimesso Mussolini dal governo.

Ma questi riprese il controllo della situazione, assumendosi, il 3 gennaio 1925, ogni responsabilità morale del delitto Matteotti, e lanciando nel paese una controffensiva che presto condusse alla soppressione della libertà di stampa e dei partiti di opposizione, all'arresto o all'esilio dei leader antifascisti, all'approvazione di norme che grandemente accrescevano i poteri del governo.

Nasceva così il regime totalitario, fondato sull'abolizione delle libertà politiche, sul partito unico, e sulla organizzazione delle forze produttive nel nuovo ordinamento dello stato corporativo.

Nei primi anni il fascismo aveva realizzato, con l'eliminazione delle «bardature di guerra», una politica economica liberista alla quale si era accompagnata una grande ripresa produttiva; ma l'indebolimento della lira, determinato principalmente dal deficit della bilancia dei pagamenti legato a questa politica, portò in seguito all'adozione di una politica di rigidi controlli sull'economia.

Nel tempo stesso la battaglia del grano e la bonifica integrale venivano erette a massimi obiettivi della politica agraria, e la «carta del lavoro», approvata ufficialmente nel 1927, fissava i principi di un sistema in cui le organizzazioni di categoria dei lavoratori e dei datori di lavoro, tutte fascistizzate, avrebbero dovuto trovare la loro conciliazione e sintesi nell'interesse nazionale impersonato dalle corporazioni, organismi statali destinati a presiedere a ciascuno dei grandi settori della vita nazionale: il sistema corporativo, peraltro, rimase per buona parte sulla carta.

Soppresse le organizzazioni sindacali socialiste e cattoliche, inquadrata la gioventù nell'Opera nazionale balilla (più tardi Gioventù italiana del littorio), asserita risolutamente la superiorità dello stato sul Partito fascista, i consensi al regime crebbero in misura considerevole.

Tuttavia, il depotenziamento del partito avviava l'esperimento totalitario verso una sempre più inerte e inefficiente burocratizzazione, mentre il volto conservatore del fascismo riceveva un'ulteriore consacrazione dalla conciliazione raggiunta nel 1929 con la chiesa, che scioglieva antichi voti dei cattolici italiani, ma sacrificava brandelli non trascurabili della laicità dello stato.

Nel 1929 anche l'Italia fu investita dalla crisi mondiale. Le grandi banche «miste» che ancora controllavano buona parte dell'industria italiana vennero messe in pericolo, e lo stato si dovette impegnare in una serie di «salvataggi» che portarono le stesse grandi banche e buona parte dell'industria italiana sotto controllo pubblico, attraverso l'Istituto nazionale per la ricostruzione industriale (IRI).

Nel 1935, con la decisione di procedere alla conquista dell'Etiopia , maturò la svolta decisiva nella storia del regime. Fino allora Mussolini, nonostante occasionali dichiarazioni in senso revisionista, aveva sostanzialmente appoggiato il sistema di Versailles; ma l'attacco all'Etiopia condusse l'Italia a scontrarsi con l'opposizione — pur moderata — della Francia e dell'Inghilterra, fautrici del sistema di sicurezza collettiva imperniato sulla Società delle nazioni, e ad accostarsi invece alla Germania, impegnata nella ricostituzione della propria potenza sulle rovine delle stipulazioni di Versailles. Le operazioni militari nell'Africa Orientale si conclusero con un brillante successo, e il 9 maggio 1936 veniva proclamato l'Impero italiano d'Etiopia.

Intanto scoppiava la guerra civile spagnola, che tese ulteriormente l'atmosfera internazionale, e assorbì molte forze militari italiane a sostegno della causa nazionalista, vittoriosa nel 1939. Il tentativo di acquistare maggior autonomia sul piano internazionale, facendo leva sulla Germania contro gli occidentali, si rivelava sempre più gravoso.

Nel 1938 l'Austria, da tempo nella sfera d'influenza italiana, veniva annessa al Reich tedesco; e nonostante che nell'autunno dello stesso anno la guerra fosse a malapena evitata con gli accordi di Monaco, l'Italia occupava l'Albania (aprile 1939) e rinsaldava ancora i suoi legami con la Germania mediante il «patto d'acciaio» (maggio 1939).

Allo scoppio del secondo conflitto mondiale (settembre 1939) l'Italia, militarmente e moralmente impreparata, proclamò dapprima la sua «non belligeranza»: ma quando nel giugno 1940 la vittoria tedesca appariva ormai certa, anch'essa entrò in guerra, nella fiducia di una facile vittoria. Presto si registrarono però i primi insuccessi contro gli inglesi sui fronti africani, mentre falliva anche il tentativo di invasione della Grecia operato dalle basi albanesi (ottobre 1940). L'intervento tedesco valse a ripristinare la situazione nell'Africa settentrionale e a determinare l'occupazione della Grecia; ma le sconfitte militari subite ebbero effetti disastrosi sul prestigio del regime. Il fascismo si mostrava incapace di guidare l'Italia in un così grave cimento, così come il paese si rivelava militarmente, economicamente e tecnicamente inadeguato alla violenza e alle dimensioni del conflitto.

Quando, dunque, perduti i territori in Africa, distrutta l'armata italiana in Russia, e sbarcati gli anglo-americani in Sicilia, il sovrano fece arrestare Mussolini (25 luglio 1943), il regime crollò senza resistere. Il governo militare di P. Badoglio negoziò allora un armistizio segreto e il passaggio a fianco degli alleati: ma all'annuncio dell'armistizio (8 settembre 1943) le forze tedesche occuparono gran parte del paese, liberarono Mussolini, instaurarono nelle zone da loro controllate un regime repubblicano.

Nei due anni successivi, mentre le forze alleate avanzavano lentamente lungo la penisola, tra ogni sorta di distruzioni, infuriò la guerra civile, specie tra le forze fasciste della Repubblica Sociale Italiana e i partigiani organizzati nelle montagne dai ricostituiti partiti antifascisti. Alla sconfitta militare tedesca seguì, il 25 aprile 1945, l'insurrezione partigiana, che travolse i residui del fascismo, e portò alla cattura e alla fucilazione dello stesso Mussolini.

Nella seconda guerra mondiale tutti i miti del nazionalismo italiano, la posizione di grande potenza ereditata dal risorgimento, la fiducia stessa dell'Italia nella propria capacità di rappresentare una parte di primo piano nel mondo moderno, furono annientati. Il trattato di pace (Parigi 1947) sanzionò la perdita di tutte le colonie, di non pochi territori al confine orientale, la consegna della flotta ecc.; e condizioni più gravi furono evitate solo grazie ai contrasti che già si delineavano tra i vincitori.