Storia dell'Italia 1914-1945
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LE CAUSE DELLA PRIMA GUERRA MONDIALE
Ad originare la Prima Guerra Mondiale, fu un forte contrasto sorto
per questioni legate al dominio economico mondiale da attuarsi
attraverso i possedimenti coloniali, che vedeva coinvolte le
maggiori potenze europee dell’epoca: da una parte la Germania e
dall’altra l’Impero Britannico e la Francia.
Dopo la vittoriosa conclusione della Guerra Franco-Prussiana nel
1870, avvenuta a seguito della sconfitta subita dai francesi a
Sedan, la Germania si era costituita in nazione capitalistica. A
seguito di questa vittoria, essa si annettè l’Alsazia e la Lorena.
Nel 1871, sotto il governo del cancelliere Otto Bismarck, i land
tedeschi, per la prima volta nella storia della Germania, si unirono
portando così alla formazione dell’Impero tedesco, il cui primo
sovrano fu Guglielmo I. Gli Stati tedeschi che lo componevano erano
presieduti da un governo centrale composto da Bismarck, che svolgeva
funzioni di capo del Governo, da Guglielmo I, in quanto imperatore e
dallo Stato Maggiore, che disponevano di tutti i poteri, dato che il
Parlamento non aveva la possibilità di svolgere la propria funzione
di controllo. Vi era poi un Consiglio Federale, che era composto dai
rappresentanti dei diversi Stati, anch’esso con poteri piuttosto
limitati.
Bismarck riuscì a realizzare un’intesa conservatrice tra le due
classi che in quel periodo dominavano in Germania: l’aristocrazia
agraria, gli Junker, che occupava posizioni di rilievo nelle forze
armate e nella pubblica amministrazione, e gli industriali. Questa
alleanza si era ulteriormente rafforzata dopo la vittoria sulla
Francia e il raggiungimento dell’unità nazionale. Bismarck si
dimostrò molto duro con le rivendicazioni degli operai e con il
Partito Socialdemocratico che li rappresentava. Se da una parte egli
fece in modo che non venissero mai approvate leggi che permettessero
la libertà di stampa, di riunione ed altre libertà in genere,
dall’altra varò un sistema di previdenza sociale contro malattie,
infortuni sul lavoro e per la vecchiaia. Contrario al partito
cattolico, trovò poi il modo di fare con i suoi capi un accordo in
funzione antisocialista.
Nel 1864, il Cancelliere stipulò un’alleanza con l’Austria, che le
permise di attaccare la Danimarca, sottraendole i ducati dello
Schleswig e dell’Holstein, situati in una posizione strategica a
cavallo tra il Mar Baltico ed il Mare del Nord. Due anni più tardi,
nel 1866, non si fece scrupolo di attaccare l’alleata Austria,
costringendola poi a concedere l’autonomia all’Ungheria e il Veneto
all’Italia. A seguito di questi eventi, l’Impero asburgico cambiò
nome divenendo Impero Austro-Ungarico, con due distinte capitali:
Vienna e Budapest.
Nel 1873, Bismarck fu il promotore del Patto dei tre imperatori, che
però ebbe vita breve, visto i dissapori tra Austria e Russia sulla
situazione nei Balcani, dove lo zar avrebbe voluto un’egemonia
russa. Infatti alcuni territori di questa regione europea, per
liberarsi dalla secolare oppressione ottomana, chiesero l’aiuto
della Russia, la quale nel 1877 dichiarò guerra alla Turchia,
costringendola a riconoscere l’indipendenza o l’autonomia a quegli
Stati: Romania, Serbia, Montenegro, Bosnia, Erzegovina e Bulgaria,
riuscirono così ad affrancarsi da secoli di occupazione turca.
Questo tipo di situazione non piacque affatto all’Austria che
minacciò di guerra la Russia. La guerra venne evitata dal solito
Bismarck, che nel 1878 convocò un congresso internazionale a
Berlino, nel corso del quale venne riconosciuta l’indipendenza dei
vari Stati balcanici; all’Austria venne concesso il protettorato su
Bosnia ed Erzegovina, mentre alla Russia, che aveva sostenuto il
peso del conflitto contro la Turchia, venne assegnata la sola
Bessarabia. Sempre nel corso del congresso, l’Inghilterra ottenne il
possesso dell’Isola di Cipro, situata in posizione strategica, dalla
quale si dominava l’accesso al Mediterraneo Orientale. Questo
comportamento ottenne il risultato di avvicinare la Russia alla
Francia, in funzione anti-tedesca e anti-austriaca.
Nel 1908, l’Austria, approfittando di un colpo di Stato organizzato
in Turchia dal movimento dei Giovani Turchi, incluse in modo
definitivo al proprio territorio la Bosnia e l’Erzegovina. Il
riconoscimento di tale impresa da parte della Germania e
dell’Italia, provocò la nascita di un movimento irredentista slavo,
che nel 1914, con l’uccisione a Sarajevo dell’erede al trono
d’Austria Francesco Ferdinando d’Asburgo, fornì ai due imperi
centrali un valido motivo per scatenare la Prima Guerra Mondiale.
Dopo Bismarck, il nuovo Kaiser Guglielmo II consapevole della
notevole espansione economica raggiunta dalla Germania, soprattutto
nei settori meccanico, chimico, tessile ed elettrico, sviluppo
raggiunto anche grazie allo sfruttamento dei giacimenti di ferro e
carbone dell’Alsazia e della Lorena, era intenzionato a creare in
Europa una vasta area dominata dall’Impero tedesco.
Da qui ebbe inizio l’espansionismo coloniale tedesco che, nei piani
dell’Imperatore avrebbe dovuto permettere alla Germania di
recuperare il tempo perduto, nei confronti delle altre grandi
potenze coloniali: la Francia e l’Inghilterra, che opposero una
forte resistenza a questo espansionismo in Africa, Asia e Medio
Oriente. Nonostante questo, tra il 1883 ed il 1885, i tedeschi
riuscirono ad occupare il Togo ed il Camerun nell’Africa
Occidentale, la Namibia, l’Uganda ed il Tanganika nell’Africa
sud-orientale, la Nuova Guinea e l’arcipelago delle isole Bismarck
nel Pacifico, le isole Marianne e Caroline acquistate dalla Spagna e
la baia di Kiao-Ciao, avuta dietro pagamento di un affitto dalla
Cina nel 1898. Guglielmo II provvide a fornire la Germania di una
potentissima flotta militare in grado di competere, se non
addiriturra di primeggiare su quella inglese, iniziando quell’azione
di riarmo che precedette la Prima Guerra Mondiale.
Durante il conflitto greco turco per il possesso dell’isola di
Creta, la Germania appoggiò la Turchia, ottenendo in cambio la
concessione per la costruzione della linea ferroviaria che doveva
collegare lo stretto del Bosforo al Golfo Persico, andando così a
minacciare gli interessi inglesi in India. Per tutta la durata della
Prima Guerra Mondiale, la Germania e la Turchia rimasero alleate.
Nel 1893, la Francia, allarmata per quanto stava accadendo in casa
dello scomodo e potente vicino, e più che mai determinata a
recuperare l’Alsazia e la Lorena, le due regioni perdute nel
conflitto del 1870, stipulò un trattato di alleanza con la Russia.
Nel 1907, a questa alleanza aderì anche l’Inghilterra; per via del
numero delle potenze che vi parteciparono, questa alleanza prese il
nome di Triplice Intesa, alla quale si opponeva la Triplice Alleanza
composta da Germania, Impero Austro-Ungarico e Italia. Nel 1904, la
Francia e l’Inghilterra sottoscrissero la Cordiale Intesa, che
regolamentava i rispettivi interessi coloniali in Africa, in modo
tale da evitare dei contenziosi che sarebbero potuti risultare
nocivi in caso di una guerra contro la Germania. Nel 1906, nel corso
della Conferenza di Algeciras, la Francia impose il proprio
protettorato sul Marocco, ma in cambio dovette riconoscere alla
Germania alcuni territori in Congo. Nel 1907, la Russia stipulò un
accordo con l’Inghilterra che regolamentava i rispettivi interessi
in Persia, in Afghanistan e nel Tibet.
Nel 1912-13, scoppiarono due guerre balcaniche, miranti
all’affrancamento dal dominio turco. La prima venne condotta dalla
Lega balcanica composta da Serbia, Montenegro, Bulgaria e Grecia,
che vedrà la vittoria di questi paesi contro l’esercito turco. La
seconda vide la Bulgaria, appoggiata dall’Austria, contro la Grecia,
il Montenegro e la Serbia, alle quali si unirà successivamente la
Romania, per motivi di ripartizione dei territori riconquistati.
Dopo la sconfitta della Bulgaria, il territorio appartenente alla
Macedonia venne suddiviso tra la Grecia e la Serbia, mentre la
Romania ricevette dalla Bulgaria il sud della Dobrugia. Da parte sua
l’Austria, che era riuscita ad appoggiare con successo
l’indipendenza dell’Albania dai turchi, riuscì ad imporre un
principe tedesco a capo del governo di quel paese. A causa
dell’occupazione serba e greca della Macedonia e di Salonicco,
l’Austria dovette accantonare le sue mire espansionistiche verso il
Mar Egeo.
Si giunse quindi al fatale 28 giugno 1914,l’attentato di Sarajevo,
che segnò l’inizio della grave crisi che un mese più tardi portò
allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.
ITALIA: INTERVENTISTI E NEUTRALISTI
All’inizio delle ostilità, l’Italia dichiarò, la propria neutralità,
ma il Paese era diviso in due schieramenti opposti: gli
interventisti ed i neutralisti. Il primo schieramento era diviso al
suo interno in diverse correnti: a destra vi erano i nazionalisti,
che vedevano nella guerra l’unico modo per fermare il dilagante
socialismo; a sinistra i repubblicani, che erano convinti che
soltanto sconfiggendo l’impero austro -ungarico si potesse creare
un’Europa composta da Stati sovrani e indipendenti, ed i socialisti
riformisti che, con i sindacalisti rivoluzionari, vedevano con
sospetto il militarismo dell’impero tedesco; in ultimo una corrente
liberale, che riteneva fondamentale riunire all’Italia Trieste e
Trento, ed una corrente cattolica, l’unica a ritenere che si dovesse
intervenire a fianco dell’impero asburgico, cattolico e
conservatore. Un ruolo a parte l’ebbero alcuni artisti, molti dei
quali appartenenti al movimento Futurista.
Anche nello schieramento neutralista esistevano varie componenti: i
socialisti, che rappresentavano soprattutto la classe operaia del
Paese, i cattolici, radicati soprattutto nelle campagne, ed un’altra
corrente liberale facente capo a Giolitti, che rappresentava ampi
strati della borghesia, la quale temeva che una guerra avrebbe
potuto creare le condizioni per una rivoluzione. Mentre il Governo
guidato da Salandra prendeva accordi segreti con i rappresentanti di
Gran Bretagna, Francia e Russia, nelle piazze italiane, noti
personaggi interventisti tenevano i propri comizi. Con il loro
linguaggio acceso, che sfiorava in alcuni casi l’invettiva, essi
facevano leva sul nazionalismo e sul militarismo per conquistare ala
propria causa i piccolo-borghesi e gli studenti. In quest’opera di
convinzione, si distinse in modo particolare Gabriele D’Annunzio,
soprannominato il poeta-soldato.
Nell’aprile del 1915, l’Italia stipulò con le potenze della Triplice
Intesa gli Accordi di Londra, che prevedevano in caso di vittoria,
la consegna all’Italia delle città di Trento, Trieste e Gorizia,
dell’Istria, della Dalmazia Settentrionale, del porto albanese di
Valona in Albania, delle isole egee del Dodecaneso e di alcune
colonie tedesche in Africa. Come rappresentante di maggior spicco
della corrente neutralista in Parlamento, il 13 maggio del 1915, il
capo del Governo, Salandra, presentò al re le proprie dimissioni.
Davanti alla nuova ondata di manifestazioni di piazza organizzate
dagli interventisti, che presero poi il nome di radiose giornate di
maggio, i neutralisti non riuscirono a fornire una risposta
adeguata; perfino Giolitti rifiutò di assumere la carica di capo del
Governo, tanto che il re investì nuovamente della carica il
dimissionario Salandra.
Il 24 maggio, sull’onda dell’entusiasmo popolare, l’Italia diede
inizio alle ostilità contro l’Austria-Ungheria. Malgrado le
incertezze del Partito Socialista, che da un lato si dichiarava
contrario al conflitto, ma dall’altro non faceva nulla per
osteggiarlo, i militanti e la gran parte dei suoi dirigenti,
continuavano a rimanere ostili all’entrata in guerra dell’Italia.
L’ostilità al conflitto aumentava con l’aumento dei morti e dei
feriti da questo procurati e si manifestò in maniera evidente nelle
violente manifestazioni contro la guerra che si ebbero a Torino
nella seconda metà del 1917. Il papa, Benedetto XV fu contrario al
conflitto fin dall’inizio, e fino all’ultimo tentò di ricondurre
alla ragione i capi delle potenze europee che si accingevano a
risolvere con le armi le proprie divergenze.
Quando il 24 ottobre 1917 l’esercito italiano subì lo sfondamento
del fronte nel settore di Caporetto, il generale Luigi Cadorna,
comandante in capo delle forze armate, non trovò di meglio che
scaricare la colpa del rovescio militare sulle spalle dei socialisti
e dei cattolici, responsabili secondo lui di aver diffuso il
disfsattismo tra le file dell’esercito e nel Paese, accusando i
soldati di viltà, senza tener conto che a causa dei suoi errori,
qurantamila soldati italiani erano morti nell’estremo tentativo di
arginare il nemico dilagante, mentre altri trecentomila erano stati
catturati.
Un nuovo governo che fece appello all’unità nazionale e la
sostituzione di Cadorna con il generale Armando Diaz, permisero
all’Italia, con il nemico ben dentro al territorio nazionale, di
trovare la necessaria coesione per poter affrontare nella giusta
maniera i successivi e vincenti sviluppi bellici. La fine del
conflitto, vide i due scheramenti degli interventisti e dei
neutralisti, ancora sulle loro posizioni, che sotto certi aspetti si
erano perfino più radicalizzate. Gli accordi di pace non avevano
dato all’Italia tutti i territori promessi, tanto che i più accesi
nazionalisti parlavano di pace mutilata.
I neutralisti definivano invece la guerra appena conclusa e che era
costata la perdita di circa dieci milioni di esseri umani, come
un’inutile strage, accusando gli interventisti di aver trascinato
l’Italia in un conflitto non voluto dalla maggior parte della
popolazione e del Parlamento. A questa accusa, gli interventisti
tacciavano gli avversari di disfattismo. In particolare due
personaggi dominarono la scena dalla parte interventista: Gabriele
d’Annunzio, il Vate e l’ex direttore del quotidiano socialista,
l’Avanti, Benito Mussolini.
CONSIDERAZIONI SULLA STRATEGIA MILITARE NEL PRIMO CONFLITTO
MONDIALE.
Una delle asserzioni più comuni per sintetizzare, o forse meglio
qualificare, gli aspetti militari della grande guerra, è sempre
stata la generica definizione di “guerra di posizione o di
trincea”.
Sul piano degli effetti concreti, osservando in linea di massima
la dinamica del conflitto, tale principio può essere considerato
indiscutibile. Ma è possibile porre alcune obiezioni da un punto
di vista dottrinale e considerare anche qualche limitata accezione
per taluni aspetti circostanziali.
Il primo conflitto mondiale inizia a tutti gli effetti come guerra
di movimento, ma finisce coll'essere una guerra di posizione.
Questo concetto può essere visto sotto molteplici aspetti. Nei
primi mesi di guerra, sul fronte occidentale, si ponevano a
confronto due diverse strategie: quella tedesca, prevalentemente
di rapido movimento, sulla base del piano Schlieffen, che
risultava però poco flessibile e rigidamente pianificata; quella
francese, più attendista e posizionale, basata sul concetto
semplicista di sfondamento del fronte centrale (piano XVII), ma
comunque più aperta e flessibile rispetto alla strategia tedesca.
Lo scenario sembrerebbe paragonabile a quanto successo nella
seconda guerra mondiale, quando i francesi opponevano alle mobili
divisioni panzer la linea Maginot sul fronte centrale. In entrambe
le situazioni, solo i tedeschi sono convinti della possibilità di
una guerra lampo, mentre i francesi, fino a l'ultimo sperano
invece in una possibile pace.
Pierre Renouvin (1934) avvalora questo convincimento sottolineando
quanto l'ambasciatore di Francia aveva scritto il 12 giugno1914 a
Berlino: “Sono lungi dal credere che in questo momento ci sia
nell'aria qualcosa che rappresenti per noi una minaccia; proprio
al contrario”. Poco prima dello scoppio delle ostilità e almeno
fino al 1915, tutti si erano però convinti, francesi compresi, che
la guerra sarebbe stata rapida. La maggior parte dei generali
immaginava ancora uno scenario come quello napoleonico, con
campagne militari fulminee e veloci cambiamenti di fronte, dove il
valore del comandante e la resistenza degli uomini erano forse gli
unici fattori determinanti per la vittoria.
In effetti, le prime operazioni sul fronte occidentale sembrarono
dare ragione ai teorici di strategia militare. La velocità di
movimento della fanteria era tale da non far assolutamente pensare
ad una guerra statica e di trincea. Le marce a tappe forzate
potevano arrivare anche a 40 km giornaliere. Pensiamo ad esempio
alla rapida avanzata in Belgio dei tedeschi fino alla Marna e al
rapido aggiramento delle truppe russe vicino a Tannemberg e ai
laghi Masuri.
In Italia,invece, la guerra di posizione era un dato di fatto già
in partenza, per via dell'ambiente montano che ci divideva dagli
austriaci. Sul fronte medio orientale, la guerra portata avanti
dagli inglesi prima si arresta sulle montagne della Turchia
(penisola di Gallipoli), poi, dopo il 1917, assumerà, una rapida
accelerazione, portando alla conquista di quasi tutto il Medio
Oriente e della Mesopotamia.
La svolta posizionale della guerra fu inizialmente determinata da
una serie di errori di valutazione. Tranne i pochi reduci della
campagne coloniali, nessuno aveva una esperienza diretta della
guerra moderna. Difatti, andavano ora considerati numerosi altri
fattori: la produzione industriale, in quanto le armi e i mezzi
erano molto più determinanti in battaglia, la propaganda e la
fiducia delle popolazioni, molto più colpite dalla guerra che in
passato, il sostegno sociale, la gestione delle materie prime, la
ricerca di crediti finanziari, le innovazioni scientifiche, ecc.
E' pur vero che le maggiori innovazioni tecnologiche arrivarono
sul campo da battaglia non prima del 1916, senza contare il tempo
di preparazione del personale e la messa a punto dei mezzi, e
questo ha sicuramente influito a rallentare gli effetti dinamici
di una guerra moderna, ma non ad escluderli.
La guerra di posizione diventa perciò una sorta di attesa, data
l'impotenza degli uomini a superare le barriere difensive
preparate dal nemico. Un primo tentativo in tal senso si
concretizza con lo sviluppo dell'artiglieria, che subisce
anch'essa una trasformazione, sulla base della diversa condotta
della guerra: da un concetto di guerra di movimento ad uno di
guerra posizionale; per poi tentare di adeguarsi ad una ripresa
della guerra di movimento con lo sviluppo dell'artiglieria
semovente. All'inizio del conflitto, infatti, la maggior parte
delle artiglierie impiegate era di tipo leggero e da
accompagnamento. Con la guerra di trincea, invece, l'artiglieria
viene fondamentalmente impiegata nel bombardamento delle
postazioni nemiche. Questo comportò un necessario aumento del loro
calibro medio, che passò da 75 a 150 mm. Ogni corpo d'armata, in
genere, era dotato di almeno 12 obici pesanti da 150mm. Questa
concentrazione di mezzi di artiglieria non si arrestò per tutto il
resto del conflitto. Uno dei più grossi concentramenti di
artiglieria avvenne durante la battaglia di Verdun, quando da
parte tedesca vennero schierati più di 800 cannoni, di cui 540
pesanti. Nel 1918, su 20.000 cannoni in dotazione all'esercito
tedesco circa 8000 erano di grosso calibro. Ai grandi cannoni a
postazione fissa, come il grande Bertha tedesco, usato per il
bombardamento di Parigi, facevano da contraltare, sempre sul
finire della guerra, i grossi cannoni mobili su rotaia, come i 355
mm americani e i primi cannoni semoventi, espressione di una
ritrovata necessità di movimento.
Verso la fine del 1917, gli spostamenti delle truppe alleate sono
già più rapidi e si comincia a dare alla guerra una certa
dinamicità.
Nel 1918, lo sfondamento delle linee austro tedesche venne
determinato dalla “stanchezza del soldato”, ma anche dal crescente
numero di armi meccaniche a disposizione degli eserciti alleati.
Con la diffusione dei veicoli ruotati a motore, la guerra assunse
una sua maggiore dinamicità. L'esercito italiano, che era entrato
in guerra con circa 5.000 autocarri, al 30 settembre del 1918, ne
contava più di 36.000. Sul fronte italiano, l'impiego in massa di
mezzi automobilistici, nel maggio del 1916, permise di far
confluire i rinforzi necessari per arginare la Strafexpedition. In
quella occasione, il Comando italiano fece giungere al fronte
120.000 uomini in soli 4 giorni con 1000 autocarri disponibili.
Così pure, l'esercito francese, durante l'offensiva di Verdun,
portò i propri rinforzi fino ad una decina di chilometri dalla
base di smistamento per il fronte.
Anche l'impiego operativo dei carri armati fu alquanto tardivo. La
causa di questo ritardo è solo in parte imputabile alle resistenze
dei principali Stati Maggiori europei. Fin dal 1914, infatti,quasi
tutte le nazioni industrializzate, Russia compresa, stavano
cercando di portare avanti la sperimentazione nel campo dei
corazzati. La FIAT, ad esempio, stava collaudando il modello 2000.
La Gran Bretagna e la Francia erano comunque le nazioni più avanti
nella ricerca. Il colonnello Estienne, il 25 agosto del 1914,
aveva giustamente profetizzato che “la vittoria in questa guerra
apparterrà a quello dei due belligeranti che riuscirà per primo a
sistemare un cannone da 75 su una vettura capace di muoversi su
qualsiasi terreno”. A quella macchina ben presto venne montata la
corazza e nacque così il carro armato. Il primo progetto francese,
datato 11 dicembre 1915, diede i suoi primi frutti nell'inverno
del 1916 con il carro Schneider. I Tank inglesi fecero la loro
prima apparizione nello scontro di Flers, il 15 settembre 1915. In
quella occasione, vennero impiegati solo 12 mezzi, ma nella
successiva battaglia di Cambrai, il 20 novembre 1917, i nuovi
modelli Mark IV vennero impiegati massicciamente, ottenendo dei
brillanti risultati e sfondando la linea Hindemburg per una
profondità di 8 km.
L'esercito inglese, non solo aveva meglio collaudato i propri
mezzi, ma risultava essere più attento nell'impiego dei corazzati
in una guerra di movimento. Questa organizzazione prendeva corpo,
nel giugno del 1917, per merito del neo costituito Royal Tank
Corps.
I Tedeschi, in ritardo, impiegarono inizialmente i carri catturati
in combattimento, fino all'apparizione del loro primo modello A7V,
prodotto in soli 20 esemplari, pesante e poco maneggevole.
Tuttavia, dopo l'effetto sorpresa, i tedeschi impararono a sapersi
difendere dai giganti d'acciaio per mezzo dei loro primi cannoni
anticarro. Così, durante la controffensiva di Villers-Cotterets,
quando gli inglesi impiegarono in massa 350 carri armati, ne
persero ben 245 in un solo giorno. Il giorno dopo ne rimanevano in
efficienza solo una quarantina. Altrettanto, dopo 4 giorni di
combattimento ad Amiens, su 430 carri inglesi impiegati ne
restarono solo 38.
Le maggiori perdite erano certamente imputabili ai guasti
meccanici, ma ciò che importa è chi si dava inizio alla guerra di
movimento dei corazzati. Quanto avvenne durante la seconda guerra
mondiale, non fu quindi una novità, ma la semplice possibilità di
generalizzare la guerra corazzata.
Durante l'offensiva delle Somme, i carri impiegati in massa,
riuscirono di fatti ad avere successo sulla difesa tedesca; ma
molto spesso, una volta sfondate le linee nemiche, i carri
restavano a combattere affianco alla fanteria, perdendo il loro
slancio offensivo. La loro scarsa mobilità e la debole corazza ne
faceva poi dei facili bersagli da parte dell'artiglieria.
Questo però non può limitarci nell'estendere il concetto di guerra
di movimento già durante il primo conflitto mondiale. Tali
reticenze sopravvissero anche durante la seconda guerra mondiale.
L'idea di impiegare i mezzi corazzati in piccoli gruppi insieme
alla fanteria rimase infatti prerogativa delle forze corazzate
francesi, ma anche gli inglesi avevano ancora alcuni dubbi e così
anche loro continuarono a costruire i loro carri armati Churchill,
qualificati come carri per la fanteria e adatti per il superamento
delle trincee. Solo la difficile resa tedesca del 1918, impedì
quindi al primo conflitto mondiale di trasformarsi nuovamente e
definitivamente in guerra di movimento, con l'invasione
territoriale della Germania e dell'Austria. Questo porterebbe a
concludere che, in un certo qual modo, entrambi i conflitti furono
contemporaneamente guerra di movimento e guerra di posizione, ma
con tempi diversi.
Nella seconda guerra mondiale, i tedeschi, artefici del
blitzkrieg, si rifugiano alla fine in una nuova guerra di
posizione, costruendo una serie di fortificazione sui diversi
fronti: i trinceramenti in Unione Sovietica, la linea Siegfrid sul
fronte francese, e addirittura in Italia per ben tre volte dietro
la Gustav, la Hitler e la Gotica.
Epperò vero, che, a differenza della grande guerra, nel secondo
conflitto mondiale, i mezzi bellici a disposizione degli eserciti
consentivano un relativamente rapido sfondamento delle linee
posizionali, cosa che non fu semplice nella grande guerra, quando
la meccanizzazione corazzata e gli aerei non avevano ancora
assunto un ruolo così preponderante.
L'arrestarsi dei tedeschi sulla Manica dopo la sconfitta della
guerra aerea contro la Gran Bretagna, con la costruzione delle
postazioni difensive sulla costa della Normandia, non fu altro che
una nuova versione di una guerra di posizione, questa volta
rivolta contro gli inglesi.
Il rapido sfondamento del fronte tedesco, durante la seconda
guerra mondiale, è da addebitarsi in gran misura ai massicci
bombardamenti aerei e alle numerose armi da assalto e da
bombardamento a disposizione degli anglo americani. In altro modo,
la guerra di movimento iniziale si sarebbe trasformata in
posizionale, così come avvenuto nel primo conflitto mondiale.
Così, il tentativo di Hitler di resistere contro i sovietici
difendendo il territorio “palmo a palmo”, fallisce di fronte alla
valanga di mezzi che l'Unione Sovietica ha potuto schierare dopo
il '43. La differenza tra le due guerre sarebbe quindi nulla se
non nella tempistica. Mentre nella prima guerra mondiale le
operazioni di movimento iniziali sono di durata più breve, nella
seconda si prolungano per più tempo, ma divengono comunque
posizionali quando i tedeschi si pongono sulla difensiva, con la
differenza che la durata della resistenza è più breve a causa
della effetti più distruttivi delle armi.
E' anche opportuno chiarire che, durante il primo conflitto
mondiale, non è mancato il concetto di strategia globale, ma solo
i mezzi necessari per superare il tatticismo posizionale. Il
concetto di grande guerra uguale guerra di posizione è inoltre
sempre stato considerato sotto il solo aspetto terrestre,
trascurando il fatto che si trattava, pur con i dovuti limiti
tecnologici, di una guerra tridimensionale, dove navi e aerei
hanno anche giocato un loro ruolo e impiegati con velleità
tutt'altro che posizionali. Non si tratta dunque di considerare la
guerra di posizione sotto un profilo esclusivamente
fisico-geografico, ovvero il controllo del confine territoriale,
ma di considerare la posizione come funzione tattica della guerra.
L'impiego della varie armi, cioè, non è mai stato considerato
nella sola funzione tattica ma pure in funzione strategica e di
movimento.
I tedeschi, già prima della guerra, avevano già ben chiaro il
concetto di bombardamento aereo strategico. La prima aeronave
Zeppelin aveva solcato i cieli della Germania fin dal 1900, e nel
1914, tutti erano ormai convinti della grande versatilità del
dirigibile: bombardamento strategico, osservazione aerea,
trasporto. Con il perfezionamento dell'aereo, il ruolo delle
aeronavi ebbe un rapido declino, anche se il loro impiego non
cessò mai del tutto, e ciò nonostante la nascita dei primi
bombardieri. Alcuni modelli tedeschi, come il Luftschiffe 70 o il
Super Zeppelin avrebbero certamente potuto continuare a giocare un
ruolo rilevante nella strategia aerea tedesca se messi in
produzione in numero sufficiente, possedendo doti non ancora
eguagliate dagli aeroplani. La loro tangenza operativa, infatti,
gli avrebbe resi immuni dall'intercettazione, e, potendo caricare
grosse quantità di carburante, avrebbero potuto sorvolare anche
l'intera costa scozzese o raggiungere l'Atlantico per appoggiare i
sommergibili. Sfortunatamente per i tedeschi, nonostante tali
peculiarità, l'unico grande modello 70 prodotto venne abbattuto da
un intercettore britannico sulle coste di Norfolk.
D'altro canto, malgrado la massiccia diffusione degli aerei, ne
furono costruiti oltre 10.000 durante tutto il conflitto, il ruolo
strategico svolto dalla nuova arma fu di scarsa rilevanza. Ad un
significativo aumento del raggio di azione degli apparecchi, non
corrispose una adeguata capacità di carico bellico in grado di
creare significativi danni alle installazioni nemiche. I primi
bombardamenti strategici ebbero perciò più un effetto psicologico
che materiale, ma certamente contribuirono ad aprire un nuovo
scenario della guerra contemporanea.
Molto più efficace fu il loro utilizzo nella ricognizione. Le
macchine fotografiche in pellicola permettevano, infatti, di
mappare facilmente il fronte ed avere, così, utili informazioni
sulla posizione del nemico. Molto diffuso era pure l'impiego
dell'aereo da caccia, sia nell'attacco diretto a terra, con il
mitragliamento della fanteria nemica, sia in funzione di
intercettazione. In questo senso, possiamo affermare che l'aereo
rimase relegato in un ruolo di semplice appoggio alla fanteria.
In un bilancio complessivo, sarebbe comunque giusto tenere
presente che, durante il primo conflitto mondiale, si è andato
affermando l'uso dell'aereo militare secondo le più moderne
accezioni: intercettazione; attacco al suolo; ricognizione;
bombardamento; uso dell'aereo imbarcato.
Per quanto riguarda la guerra navale, gli eventi ci mostrano le
marine da guerra europee come ormai abbastanza mature per un
guerra moderna, eccezion fatta per l'aereo imbarcato ancora in via
di sperimentazione: ricordiamo per esempio in Italia la nave
aerostiro Europa. Nel decennio prima dello scoppio della guerra,
tutte le potenze europee erano state impegnate nel rinnovo e nel
potenziamento della propria flotta militare. Con l'entrata in
scena delle nuove navi da battaglia Dreadnought, le vecchie
corazzate, dotate di cannoni fissi, divennero ormai obsolete e
inadeguate alla nuova guerra navale d'alto mare. Veniva così
abbandonato il vecchio concetto dello speronamento, in cambio
delle straordinarie potenze di fuoco dei nuovi cannoni, capaci di
colpire a distanze notevoli. Nonostante questo impegno, durante il
primo conflitto mondiale, non ci furono grandi battaglie navali, a
parte quella dello Jutland. I tedeschi furono impegnati in una
prima battaglia nei pressi di Helgoland e poi in un solo scontro
nel mare del Nord.
La battaglia dello Jutland può essere considerata come il
tentativo tedesco di forzare la guerra navale “posizionale”
condotta dagli alleati con il blocco continentale. La dinamica
della battaglia fu comunque un episodio degno di nota per il suo
rapido susseguirsi degli eventi. Durante la battaglia dello
Jutland (31 maggio-1 giugno 1916), le forze navali inglesi
andarono incontro alla flotta tedesca, che aveva preso il largo
per forzare il blocco navale e distruggere con una sortita le navi
da battaglia inglesi. Questi riuscirono ad intercettare i messaggi
radio germanici e ad anticipare le mosse dei tedeschi. Nella prima
fase della battaglia, gli incrociatori corazzati del Reich, pur
numericamente inferiori, riuscirono ad affondare due unità
britanniche e ad attirare le rimanenti verso sud, dove era il
grosso delle forze tedesche. Gli inglesi, in fuga di fronte alla
superiorità del nemico, si fecero inseguire a nord, mettendo di
fronte ai tedeschi le loro corazzate e infliggendo gravi danni
alla flotta germanica, che riuscì tuttavia ad affondare un altro
incrociatore. Il passaggio da una guerra posizionale-navale ad una
guerra di movimento si avrà finalmente con l'impiego massiccio dei
sommergibili.
Nel 1914, tutte le nazioni belligeranti possedevano delle piccole
flottiglie di sottomarini. La Germania fu la nazione più impegnata
nello sviluppo di tale arma. I motivi di questo impegno vanno
cercati semplicemente in una scelta strategico-militare da parte
dei Comandi tedeschi, costretti in qualche modo a dover colmare la
differenza di tonnellaggio di superficie rispetto ai paesi rivali.
É altresì vero che se le nazioni alleate avessero fatto
altrettanto, costruendo anche loro un numero cospicuo di
sommergibili, esse non avrebbero avuto lo stesso risultato; non
avrebbero,cioè, avuto obbiettivi da colpire, in quanto le navi
tedesche, militari e mercantili, erano pressoché bloccate nei
porti per via del blocco.
L'offensiva sottomarina tedesca, volta a strangolare
economicamente la Gran Bretagna, può essere divisa in tre momenti
diversi. In una prima fase, si ebbero attacchi quasi
esclusivamente contro navi militari; in un secondo momento si
moltiplicarono gli attacchi contro navi civili e da carico; dopo
il 1917, con una flotta operativa di oltre 100 battelli, iniziò la
guerra ai convogli. Quest'ultimo frangente fu il più cruento, e la
perdita di mercantili alleati arrivò a una media di circa 630.000
tonnellate al mese.
Dopo il 1918, la produzione di navi da scorta da parte dei paesi
alleati aumentò considerevolmente, diminuendo significativamente
le perdite subite tra i mercantili e infliggendo gravi perdite
alla flotta sottomarina tedesca.
La guerra per il controllo dei traffici dell'atlantico, può essere
quindi considerata come una vera e propria trasformazione del
conflitto in mare, sostenendo la teoria del concetto di guerra di
movimento e non più quindi esclusivamente posizionale, come era
stato, in via concettuale, il blocco continentale. Considerando
tali osservazioni nel loro complesso, non sarebbe perciò possibile
dare un giudizio univoco alla prima guerra mondiale,
considerandola come esclusivamente guerra di posizione. Ciò può
essere vero solo su un piano quantitativo e complessivo degli
eventi, ma risulterebbe discutibile se considerata su un piano
prettamente dottrinale.
Autore: Massimiliano Italiano
LA SOCIETÀ ITALIANA NEL PRIMO DOPOGUERRA.
Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, la situazione economica in
Italia era molto difficile a causa degli enormi debiti contratti
all’estero, ed in particolare quelli con gli Stati Uniti, oltre che
per la debolezza della lira, che si svalutava sempre più
rapidamente. Il mercato internazionale era soggetto ad una forte
contrazione a livello commerciale per diversi motivi: principalmente
a causa dell’uscita dell’Unione Sovietica, che limitò gli accordi
commerciali con i paesi occidentali per evitare condizionamenti
politici; quindi per le misure protezionistiche adottati da alcuni
Stati, ed infine a causa del Dollaro americano, che si stava
proponendo sui mercati come la nuova moneta forte, soppiantando la
sempre più debole Sterlina inglese.
Tutto questo si ripercuoteva negativamente su tutte le classi
sociali italiane, traducendosi con una maggiore pressione fiscale ed
un aumento del costo della vita e della disoccupazione, che
raggiunse limiti mai toccati prima di allora. Tutto ciò suonò come
un tradimento per i reduci che tornavano dal fronte: nessuna delle
promesse fatte per mantenerli buoni nelle trincee durante il
conflitto era stata infatti mantenuta. L’aumento della pressione
fiscale bloccava infatti gli investimenti, creando nuova
disoccupazione. Ma la cosa peggiore era costituita dal fatto che,
gli introiti derivanti dal gettito fiscale, servivano anche per
restituire, con i relativi interessi, i debiti che lo Stato aveva
contratto durante la guerra per coprire le spese militari. Questi
debiti derivavano dall’immissione sul mercato di Buoni del Tesoro,
acquistati da coloro che la guerra la vedevano solo sulle pagine dei
giornali e che ora reclamavano il frutto dei loro investimenti.
Anche gli operai dell’industria premevano per l’accoglimento di una
serie di rivendicazioni economiche, ed in particolare per la
giornata lavorativa ridotta a otto ore ed un controllo operaio sulla
produzione, oltre a rivendicazioni di ordine politico, come ad
esempio una partecipazione di rappresentanti delle forze operaie
nell’amministrazione dei comuni. Anche nelle campagne, i braccianti
ed i contadini si battevano per il possesso delle terre.
Queste agitazioni non potevano non impensierire gli industriali e i
grandi latifondisti che si sentivano fortemente minacciati da queste
agitazioni sociali, dai continui scioperi e dalle sempre più
frequenti occupazioni di fabbriche e terreni. In questo scenario, il
fossato che divideva interventisti e neutralisti, divenne ancor più
profondo. I contadini per esempio, pur partecipando alle lotte
sociali, si allontanarono sempre più dal partito che in questo
settore era più attivo: il Partito Socialista. Quest’ultimo,
continuava ad attaccare i politici e i militari che avevano voluto
la guerra senza poi preoccuparsi dei problemi di quella parte della
popolazione che l’aveva fatta: principalmente i contadini appunto,
dato che gli operai erano necessari nelle fabbriche per alimentare
la produzione bellica.
Gli ex combattenti, al loro ritorno dal fronte non trovarono le
terre che erano state loro promesse al momento della partenza e
neppure un posto di lavoro, occupato da quelli che essi definivano
gli imboscati. Tra i reduci vi erano anche centossessantamila
ufficiali congedati, che avevano grossi problemi di reinserimento
nel mondo del lavoro. La maggior parte di essi provenivano dalla
media borghesia e nella vita civile precedente la guerra avevano
svolto lavori da impiegati, commessi o piccoli professionisti.
Durante la guerra essi si erano abituati a comandare sui loro
sottoposti e come ufficiali avevano sempre avuto a disposizione una
discreta quantità di denaro da spendere. Per loro era quindi molto
più difficile tornare al ritmo della vita di tutti i giorni. Per
questa ragione la maggior parte di questi uomini entrò fin dal
momento della sua fondazione nel movimento fascista, dopotutto chi
esaltava le doti degli ufficiali e dei militari in genere, chi
gettava benzina sul fuoco del risentimento nazionale era la destra.
LE ELEZIONI POLITICHE DEL NOVEMBRE 1919
A causa dell'insuccesso ottenuto dalla delegazione italiana alla
Conferenza di Pace, il Governo presieduto da Orlando si dimise. Il
suo successore, Francesco Saverio Nittiinserì nel proprio esecutivo
molti ministri dell'area di Giolittisperando in tal modo di poter
continuare a sostenere il ruolo di arbitro della politica. Ma la
situazione economica dell'Italia era molto grave e l'inflazione
erodeva progressivamente le conquiste economiche raggiunte a prezzo
di dure lotte dai lavoratori. La politica finanziaria adottata da
Nitti per rallentare l'inflazione e risanare il bilancio pubblico
non ebbe l'effetto sperato : non convinse gli imprenditori e scatenò
l'ira popolare che si tradusse nelle sommosse contro il carovita,
che scoppiarono in diverse città della penisola nel mese di Luglio.
La crisi dello Stato liberale venne sancita dalla nascita nel
gennaio del 1919 del Partito Popolare Italiano, fondato dal
sacerdote siciliano Don Luigi Sturzo. Questo partito aggregava tutte
le forze cattoliche del Paese presenti in molti strati della
popolazione, contendendo ai partiti della destra una buona fetta
degli elettori delle classi rurali. La vecchia politica ricevette un
forte scossone: fino a quel momento i capi del Governo avevano
sempre avuto a che fare con delle correnti, più che con dei partiti
veri e propri, per cui era sufficiente contattare un singolo
deputato per averne l'appoggio. In questo caso però, il Partito
Popolare si presentava strutturato e compatto proprio come un
partito moderno: esso era infatti collegato al mondo dei lavoratori
per mezzo di un sindacato cattolico, laConfederazione Italiana dei
Lavoratori ed era presente in diversi organismi di grande importanza
per la vita sociale ed economica del Paese, quali le Casse Rurali e
le cooperative, solo per citare le più importanti. In base a ciò non
era più possibile stabilire alleanze o prendere decisioni con
incontri di corridoio, ma per fare accordi era ora necessario
conferire direttamente con la segreteria del nuovo partito.
Prima delle elezioni, accadderò due fatti estremamente importanti:
il 20 ed il 21 luglio, vi fu uno sciopero generale a sostegno delle
repubbliche di Russia e Ungheria e contro l'intervento delle
maggiori potenze in quell'area. Doveva trattarsi di un grande
sciopero a livello internazionale ma riuscì solo in Italia. A
seguito di questo evento, il 7 agosto, il governo presieduto da
Nitti richiamò in Patria il corpo di spedizione italiano inviato in
Russia. Il secondo grave fatto fu l'occupazione di Fiume avvenuta il
12 settembre e compiuta da un corpo di spedizione composto da
volontari e guidato da Gabriele D'Annunzio. A seguito di
quell'azione, negli ambienti della destra si pensò che il poeta
fosse l'uomo giusto per mettere ordine nella politica italiana. Ma
nella realtà quest'impresa servì solo ad entusiasmare qualche
nazionalista convinto e una buona parte della gioventù, ma la
maggior parte della popolazione era ormai stanca di gesti
velleitari; in particolar modo essa non piacque alla media e grande
borghesia, che alle azioni clamorose avrebbero preferito più ordine
nel Paese e una maggiore stabilità economica e politica. Fu in
questo modo che si iniziò a prendere in maggior considerazione la
figura di Mussolini, che pur appoggiando dalle colonne del Popolo
d'Italia l'impresa di D'Annunzio, non attaccava in modo aperto il
governo.
Alle elezioni che si tennero a novembre, i Fasci di combattimento,
che si presentarono nell'unica lista di Milano, ottennero solo 4.795
voti, contro i 170.000 dei socialisti ed i 64.000 dei popolari della
stessa circoscrizione. I partiti tradizionali uscirono sconfitti
dalle elezioni perdendo molti seggi. Il risultato più eclatante lo
ottenne il Partito Popolare Italiano, che divenne il secondo partito
nazionale con il 20,5 % dei voti e 100 deputati. Ai socialisti andò
il 32,4% dei voti, il doppio rispetto al risultato ottenuto nella
tornata elettorale del 1913. Da queste elezioni risultava chiaro che
gli italiani avevano espresso la loro fiducia ai partiti che
rappresentavano le posizioni neutraliste.
LO SQUADRISMO FASCISTA TRA IL 1920 ED IL 1921.
La fine dell' occupazione delle fabbriche nel settembre del 1920,
segnò l'inizio del progressivo declino del movimento operaio e di
un'aumento delle azioni delle squadre fasciste. Inizialmente
finanziate dai grandi proprietari terrieri, le camicie nere
trovarono negli industriali un nuovo e più cospicuo appoggio
finanziario; inoltre esse godevano di una larga tolleranza da parte
delle forze dell'ordine.
Nel primo semestre del 1921 vennero occupate, devastate, distrutte o
date fiamme circa duecento Camere del Lavoro, una ventina di
tipografie e sedi di testate giornalistiche, ed un certo numero
diCase del Popolo cooperative; la stessa sorte toccò a circa
centocinquanta sezioni dei partiti socialista e comunista, una
trentina di sedi sindacali ed un cospicuo numero di circoli
culturali. Vennero anche dannegiate o distrutte una decina di
biblioteche e altrettanti teatri popolari, oltre ad una cinquantina
di circoli operai ed un elevato numero di abitazioni private. Negli
scontri fra le squadre fasciste ed i socialisti i morti accertati
furono 207, mentre più di 800 furono i feriti. Molto illuminante è
anche il dato degli arresti e dei denunciati: più di 1400 gli
attivisti socialisti arrestati dalle forze dell'ordine, contro poco
più di 400 fascisti; circa 620 socialisti vennero denunciati a piede
libero contro 878 fascisti. Innumerevoli furono i casi di non luogo
a procedere nei confronti degli squadristi fascisti.
Per rendere ancora più teso il clima, ebbero inizio una serie di
attentati contro obbiettivi civili:il più efferato fu senza dubbio
quello avvenuto il 23 marzo del 1921 contro il Teatro Diana a
Milano, nel quale persero la vita ventuno persone e quasi duecento
rimasero ferite. La stessa sera le squadre fasciste milanesi
partirono alla volta della sede del quotidiano socialista Avanti da
poco ricostruita e la distrussero nuovamente. Era il marzo del 1921
e le elezioni politiche erano previste per il 15 maggio successivo.
Il Partito Socialista stava attraversando un momento di profonda
crisi che si era concretizzata nel gennaio nel corso del congresso
di Livorno, durante il quale ci fu una scissione interna che sancì
la nascita del nuovo Partito Comunista Italiano, che si riconosceva
nella III Internazionale. Il capo del Governo Giolitti, tentò di
approfittare di questa momentanea debolezza della sinistra ed inserì
Mussolini ed i suoi collaboratori nelle liste del Blocco Nazionale,
un insieme di partiti che comprendeva democratici, liberali e
nazionalisti. Egli continuò a lasciare mano libera alle camicie
nere, i cui capi andavano assumendo giorno dopo giorno sempre più
fama: l'avvocato Roberto Farinacci a Cremona, Italo Balbo a Ferrara,
Dino Grandi e Arpinati a Bologna. Alcuni tra loro erano lautamente
stipendiati dai grandi proprietari terrieri e tutti erano
abbondantemente riforniti di camion e armi sia dagli agrari che dai
militari, godendo inoltre di una certa immunità.
Le elezioni di maggio videro una tenuta della sinistra e una
crescita del Partito Popolare. Il tentativo di Giolitti di portare
via voti ai socialisti e ai popolari con il suo blocco nazionale,
fallì miseramente. Questa sua mossa avventata avvantaggiò i
fascisti, che riuscirono a portare in Parlamento ben 35 deputati.
Mussolini era felicissimo per l'ottimo risultato ottenuto: in aula
occupò l'ultimo posto a destra, e nel corso del suo primo discorso
parlamentare, il 21 giugno, precisò subito che la sua sarebbe stata
una politica di destra, enunciando quelli che poi sarebbero stati i
punti base della sua attività.
Il nuovo governo formato da Giolitti durò poco più di un mese e
venne poi sostituito da un governo di centrosinistra guidato da
Ivanoe Bonomi. Anch'egli si trovò con le mani legate nei confronti
delle azioni condotte dalle squadre fasciste, poichè era stato
eletto nel blocco nazionale e quindi anche con i voti dei fascisti.
Nell'estate del 1921, per far fronte alle continue violenze delle
camicie nere, prese vita un movimento che assunse la denominazione
di Arditi del Popolo, che nelle intenzioni dei fondatori avrebbe
dovuto arginare la violenza delle squadre fasciste.Inizialmente essi
vennero appoggiati sia dai socialisti che dai comunisti, che in
seguito presero poi le distanze da questo movimento, che indebolito
dalle defezioni giunse a stringere una tregua ufficiale con i
dirigenti fascisti.
GLI SCIOPERI DEL 1920
Gli scioperi contro il costo della vita iniziati nel 1919,
continuarono anche per tutto il 1920. Tutte le categorie ne furono
coinvolte ed in tutte le regioni italiane. Il numero degli iscritti
alla Confederazione Generale del Lavoro, la CGL, in pochi anni si
quadruplicò, superando di larga misura il numero di un milione e
mezzo di adesioni. Per risolvere quello che per il Governo
rappresentava un grosso problema sotto tutti gli aspetti, il
Presidente del Consiglio Nitti, nell'aprile del 1920 varò una
iniziativa tra le più impopolari dalla fine della guerra: il Governo
decise infatti di tesserare la vendita di alcuni prodotti di prima
necessità quali il pane, la pasta, l'olio, il burro ed i formaggi.
Per rispondere alle agitazioni di piazza ormai sempre più frequenti,
Nitti decise di utilizzare il sistema del bastone e della carota.
Gli scontri fra le forze dell'ordine ed i manifestanti furono molto
aspri e alla fine si contarono circa 150 morti tra i lavoratori ed
un numero infinitamente minore tra le forze di polizia e
dell'esecito.Alla Guardia Regia, istituita da Nitti come forza di
repressione, si affiancarono i fascisti, che iniziarono in quel
periodo le loro prime spedizioni punitive contro gli avversari
politici e contro alcune istituzioni: nel febbraio del 1920, una
squadra fascista assaltò la sede della Camera del lavoro di Bari
devastandola. Lo sciopero non fu l'unica forma di lotta adottata dai
lavoratori, già dal primo semestre del 1920 si assistette alle prime
occupazioni di fabbriche.
La sinistra appoggiava queste azioni, ma era spaccata al suo
interno: mentre la CGL desiderava mantenere la lotta nell'ambito
delle rivendicazioni sindacali, i socialisti insistevano
sull'aspetto puramente politico, senza tuttavia appoggiare uno
sblocco rivoluzionario della situazione, sostenuta invece da molti
operai e da alcuni intellettuali socialisti, che facevano sentire la
propria voce per mezzo di una rivista uscita a Torino il 1° maggio
del 1919: L'Ordine Nuovo, fondata da Antonio Gramsci, Angelo Tasca,
Umberto Terracini e Palmiro Togliatti. Davanti ad una situazione che
precipitava di giorno in giorno, gli industriali fecero fronte
comune e nel marzo del 1920 nacque la Confederazione Generale
dell'Industria.
La prima dimostrazione di forza del padronato avvenne nelle
Indistrie Metallurgiche a Torino: davanti alle pressanti richieste
normative e salariali rilanciate dal sindacato, la proprietà decise
il licenziamento di tre dei membri della commissione interna e con
la chiusura degli stabilimenti. A seguito di ciò vi fu uno sciopero
generale che coinvolse tutti i lavoratori piemontesi. Nel frattempo,
a causa dei continui insuccessi e della sua ormai scarsa popolarità,
Nitti fu costretto a rassegnare le proprie dimissioni. Al suo posto
fu richiamato l'ormai anziano Giolitti, che non commise l'errore del
suo predecessore, e anzichè inviare la forza pubblica a sedare le
manifestazioni di piazza, cercò di sedare i disordini con la
trattativa: promise di colpire i profitti di guerra, di rendere più
trasparenti i titoli azionari con la nominatività, di introdurre
imposte sulle successioni e di permettere lo sfruttamento delle
terre incolte.
In politica estera, egli risolse con la diplomazia la questione di
Fiume, lasciatale in eredità dal precedente governo. Il 12 novembre
del 1920, a Rapallo venne siglato un accordo con la Jugoslavia che
pevedeva l'attribuzione all'Italia della città di Zara, mentre Fiume
sarebbe divenuta città libera. D'Annunzio, che non accettò il
trattato, venne fatto sgomberare dalla città con la forza alla fine
di dicembre. Per quanto concerneva la politica interna, Giolitti
continuò a giocare la carta della trattativa e delle riforme,
riuscendo in tal modo a mantenere la situazione sotto controllo,
anche se le lotte operaie si estesero dal Piemonte a tutto il
territorio nazionale. Ciò avvenne nel mese di agosto, quando la
Federazione degli Operai Metalmeccanici, la FIOM, invitò tutti i
lavoratori del settore a scendere in campo per ottenere dei
miglioramenti salariali. Il 31 dello stesso mese, la Confindustria
proclamò la serrata di tutti gli stabilimenti, a cui fece seguito,
nei giorni seguenti, l'occupazione delle fabbriche ad opera dei
lavoratori. La produzione non subì rallentamenti, nonostante l'opera
di ostruzionismo messa in atto dalle banche e il boicottaggio delle
materie prime, ma venne condotta direttamente dagli operai.
Anche in questo caso Giolitti rimase fermo, nonostante il parere
negativo degli industriali, che avrebbero preferito l'uso della
forza. Egli riuscì invece a far dialogare i padroni ed i sindacati,
che raggiunsero un accordo sugli aumenti salariali e approvarono
congiuntamente un disegno di legge riguardante il controllo della
produzione da parte degli operai, disegno di legge che non giunse
mai all'attuazione effettiva. Se da una parte Giolitti indugiva
davanti agli scioperi e alle occupazioni della sinistra, dall'altra
egli temporeggiava anche nei confronti delle attività delle squadre
fasciste che, secondo i suoi piani, avrebbero potuto fargli comodo
in funzione antisocialista.
Questa inattività del Presidente del Consiglio, dava credito a certe
voci secondo le quali, a seguito del trattato di Rapallo, Mussolini
avrebbe rinunciato a sostenere la causa di D'Annunzio in cambio
della libertà d'azione delle camice nere. Gli episodi di violenza
erano ormai all'ordine del giorno, fino a giungere verso l'ultimo
quarto dell'anno ad una situazione di guerriglia quotidiana.
Nonostante tutto, nelle elezioni amministrative di novembre, i
socialisti mantennero gli stessi voti conquistati nelle precedenti
elezioni del 1919, riuscendo a conquistare più di duemila Comuni,
fra i quali Milano e Bologna.In Emilia, la vittoria della sinistra
fu schiacciante: vennero conquistati ben 233 Comuni su un totale di
280. Questa travolgente vittoria, ottenne il risultato di far
aumentare in quella regione le azioni delle squadre d'azione
fasciste, sostenute finanziariamente dai grandi latifondisti locali
che non vedevano di buon occhio le amministrazioni di sinistra.
DALLA CRISI DELLA CLASSE DIRIGENTE ALLO SCIOPERO LEGALITARIO DEL
1° AGOSTO DEL 1922
Durante il primo conflitto mondiale la grande industria conobbe un
grandissimo sviluppo: per motivi bellici, lo Stato richiedeva
infatti di tutto, dal materiale bellico ai capi di vestiario e al
cibo riservato ai militari al fronte. Per rendere meglio l’idea
dello sforzo bellico delle industrie italiane, basti pensare che
l’Ansaldo, una delle maggiori operanti in Italia nel periodo, mentre
in tempo di pace dava lavoro a circa quattromila operai, durante la
guerra ne contava più di cinquantacinquemila. La stessa cosa
successe alla FIAT, che dai cinquemila operai del tempo di pace,
arrivò a contarne fino a cinquantamila.
Per far fronte alle esigenze belliche, nei quattro anni del
conflitto, l’Ansaldo produsse oltre undicimila cannoni, dieci
milioni di proiettili, circa quattromila aeroplani e un centinaio di
navi militari di diverso tipo. I grandi profitti derivanti da questa
straordinaria produzione, portarono il capitale sociale dell’azienda
dai trenta milioni di lire precedenti alla guerra a circa
cinquecento milioni al suo termine. Nel panorama economico-sociale
del Paese, assunsero sempre più importanza dei personaggi lontani
dei vecchi centri di potere: ai grandi proprietari terrieri, si
sostituirono gli industriali arricchiti dalla guerra, che si
organizzarono nella Confindustria. Al termine della guerra, in
Italia come nel resto d’Europa, si venne a creare il problema della
conversione dell’industria da bellica ad uso civile. Ma purtroppo in
quel periodo vi era una diffusa stagnazione dei mercati mondiali,
aggravata in Italia dalla scarsa competitività dei prodotti
industriali nazionali, dovuta in parte alla dissennata politica di
protezione doganale fino ad allora praticata dal governo italiano.
Mentre gli altri Paesi dettero inizio all’allargamento del mercato
interno, in Italia gli industriali preferirono mantenere bassi i
salari, precludendosi anche questa possibilità. All’estero
l’industria si attivò riuscendo a compiere la propria conversione
con i grandi profitti derivati dalla produzione bellica, nel nostro
Paese gli industriali attesero l’intervento dello Stato: i governi
Giolitti e Bonomi, non solo non intervennero in aiuto all’industria,
ma colpirono i profitti di guerra non reinvestiti.
Le grandi industrie cresciute a dismisura durante la guerra,
iniziarono a dare segni di cedimento, ed alcune di esse crollarono
sul finire del 1921. Fra esse l’Ansaldo e l’Ilva, che trascinarono
nel loro fallimento la Banca Italiana di Sconto, rovinando migliaia
di piccoli risparmiatori che vi avevano depositato i loro risparmi.
Per far si che lo Stato concedesse il proprio aiuto all’industria,
occorreva un nuovo governo non più legato ai vecchi possidenti, ma
bensì un governo che lasciasse alla nuova classe dirigente libertà
di azione. Fu da quel momento che gli industriali iniziarono a
vedere in Mussolini il possibile nuovo capo del governo. Gli agrari,
più conservatori, avrebbero preferito il proseguimento dello Stato
liberale, ma si accorsero che ormai la cosa era improponibile.
La guerra aveva definitivamente emancipato gli operai ed i
contadini, che nella vita terribile passata nelle trincee fece
conoscere ad individui, che se non fosse stato per la guerra non
sarebbero mai usciti dal luogo natio, cose ed idee nuove. Il
suffragio universale si abbattè come una mannaia ed il nuovo sistema
elettorale proporzionale, rese ancora più difficile la manipolazione
dei risultati elettorali. L’alternativa ai fascisti era costituita
dai socialisti, che avrebbero attuato chissà quali riforme, mentre
Mussolini avrebbe probabilmente mantenuto l’inviolabilità della
proprietà privata.
Il 2 febbraio del 1922, cadde il governo Bonomi, preceduto da due
fatti importanti per il mondo cattolico: dal 20 al 23 novembre del
1921, si tenne a Venezia il congresso del Partito Popolare Italiano,
mentre il 22 gennaio del 1922 morì papa Benedetto XV. Dal congresso
dei popolari emersero le due anime del partito: la destra che
avrebbe voluto un’alleanza con i fascisti e con i conservatori non
cattolici, e la sinistra, che rappresentava la maggioranza assoluta
del partito, che avrebbe voluto intavolare delle trattative con i
socialisti, ma solo nel caso che questi avessero tralasciato ogni
velleità rivoluzionaria.
Anche il Partito Socialista era diviso al suo interno in
Massimalisti, ancorati saldamente alle idee di Marx, ed i socialisti
di destra, che essendo in minoranza, non erano in grado di imporre
al partito la loro volontà, che consisteva nella possibilità di
formare un nuovo governo con i cattolici.
In questo clima si inserì la Santa Sede, nella persona del nuovo
papa Pio XI. In quegli anni, lo Stato del Vaticano era in condizioni
economiche alquanto precarie, e già dai tempi di Pio IX, le offerte
che giungevano alle casse di San Pietro dai fedeli di tutto il mondo
cristiano, bastavano appena a coprire le necessità interne. Le cose
non migliorarono nè sotto il pontificato di Leone XIII e neppure
sotto quello di Pio X, che si vide addirittura costretto a vendere i
doni più preziosi ricevuti dai fedeli. Quando iniziò la Prima Guerra
Mondiale papa Benedetto XV vide diminuire drasticamente i contributi
all’Obolo di San Pietro da parte di Francia e Belgio. Questi due
Paesi continuarono a non inviare contributi in Vaticano anche dopo
la guerra, così come pure la Germania e l’Austria. Gli unici
introiti sicuri provenivano quasi interamente dal Nord e dal Sud
America. Ad aggravare la situazione economica della Chiesa,
intervenne la legge varata da Giolitti nel 1920, che obbligava i
possessori di titoli sia pubblici che privati, a registrarli sotto
il loro nome. I capi delle organizzazioni delle associazioni e degli
ordini religiosi che possedevano questi titoli, erano infatti
persone piuttosto anziane e quindi, in caso di decesso, si sarebbero
dovute pagare imposte di successione molto alte che avrebbero fatto
correre il rischio di perdere la quasi totalità del capitale. A
complicare le cose, il Banco di Roma, nel quale erano depositati
gran parte dei soldi del Vaticano e di numerose altre organizzazioni
cattoliche, era sull’orlo del fallimento. I precedenti governi
liberali non fecero nulla per salvare la Banca Italiana di Sconto e
a maggior ragione non ci si attendeva nulla di buono dai socialisti.
Ai motivi di ordine finanziario si aggiunse anche il fatto che
quando era arcivescovo di Milano, Achille Ratti, ora papa Pio XI,
era noto per le sue idee conservatrici e nonostante la base del
Partito Popolare fosse nella sua stragrande maggioranza democratica,
egli dalle pagine dell’Osservatore Romano prese sempre posizioni più
vicine alla destra, boicottando in ogni modo un possibile
avvicinamento tra cattolici e socialisti. La ricerca di un
successore di Bonomi, non fu affatto facile. Occorreva infatti
formare un governo in grado di porre fine alla guerra civile in atto
e che riprendesse in mano le forze di polizia e dell’esercito.
La scelta cadde infine su Luigi Facta, considerato come succube di
Giolitti, che ricevette i voti dei liberali, dei conservatori, dei
popolari e dei fascisti. Le Camicie nere si erano intanto
impadronite della maggior parte dei comuni della Valle Padana, della
Toscana, dell’Umbria e della Puglia, dove imposero le dimissioni dei
sindaci regolarmente eletti e l’allontanamento dei prefetti non
graditi. Il 12 maggio esse occuparono Ferrara, il 30 Bologna e
quindi Rimini e Adria. Il 12 luglio del 1922 vennero assediate
Viterbo e Cremona. In quest’ultima città erano molto forti le Leghe
bianche, rappresentate in città dal deputato cattolico Guido
Miglioli. Le squadre di Farinaccioccuparono prima la prefettura,
quindi devastarono le sedi delle organizzazioni operaie e per finire
infierirono sull’abitazione del Miglioli. I
l Fascismo, appoggiato dai militari, agiva ormai come uno Stato
nello Stato, senza che il governo Facta intervenisse in alcun modo.
Il 19 Luglio il governo si dimise e si aprì una nuova lunga crisi.
Mentre Giolitti, Bonomi ed Orlando iniziarono ad intessere delle
trame segrete intese a traghettare i fascisti nel futuro governo, vi
fu un avvicinamento tra i socialisti e i cattolici, che fece subito
pensare ad un’alleanza in funzione antifascista. Ma la situazione
era ormai incontrollabile per le forze democratiche, soprattutto a
causa della forte compromissione dell’esercito con le azioni
commesse dalle squadre fasciste e dal veto posto da Giolitti circa
un’unione tra cattolici e socialisti. Nel frattempo i fascisti
continuarono ad occupare con la forza paesi e città: il 29 luglio fu
la volta di Ravenna, dove vennero incendiate la sede principale
delle cooperative e un edificio storico che fu abitazione di Byron.
Una delle pochissime città che si ribellarono a questa forma di
occupazione fu Parma, nella quale gli Arditi del Popolo, appoggiati
dalla maggior parte della popolazione, si scontrarono
vittoriosamente con le squadre di Balbo e Farinacci, riuscendo
perfino ad ottenere la neutralità dell’esercito.
In questo clima, l’alleanza del Lavoro, organizzazione fondata dal
Sindacato dei ferrovieri, alla quale avevano dato la propria
adesione la Confederazione Generale del Lavoro, l’Unione Sindacale e
il Sindacato dei lavoratori Portuali, fissò per il primo di agosto
uno sciopero generale a carattere nazionale, definito Legalitario,
poichè tramite esso si intendeva chiedere il ripristino della
legalità e di misure atte a porre fine alle violenze perpetrate dai
fascisti. Diverse erano le speranze riposte nella manifestazione dai
sui promotori: gli anarchici ed i comunisti speravano ancora in una
rivoluzione, i moderati nell’indignazione generale antifascista che
rendesse possibile la formazione di un governo democratico di
sinistra.
I Popolari, che non vennero interpellati in merito, si schierarono
per il no allo sciopero, lo stesso Don Sturzo, era convinto che
l’alleanza sindacale fosse stata manipolata da agenti provocatori. I
fascisti colsero l’occasione mobilitandosi allo scopo di far fallire
lo sciopero che essi dichiararono illegale e annunciarono che se lo
Stato non fosse intervenuto entro quarantotto ore , i fascisti
avrebbero agito in sua vece. Lo sciopero fu un fallimento e
coinvolse solo una parte dei lavoratori e della popolazione, ma
malgrado ciò si verificarono ugualmente gravi incidenti fra fascisti
e manifestanti. Alle 12 del 3 agosto, gli organizzatori dello
sciopero ne annunciarono la fine. La rappresaglia fascista non si
fece attendere: in pochi giorni vennero occupate decine di comuni e
anche Milano, roccaforte socialista venne presa d’assalto. La sede
dell’Avanti venne nuovamente distrutta. Le camicie nere entrarono a
Palazzo Marino, sede del comune, con il consenso del prefetto della
città. Queste azioni furono il preludio alla Marcia su Roma, che
sancirà la presa del governo da parte di Mussolini.
LE ORIGINI DEL FASCISMO
La parola “fascismo” deriva dal fascio di verghe che erano portate
nell’antica Roma da appositi addetti chiamati “littori”, (da qui la
denominazione “fascio littorio”). I fascis littorii erano le guardie
del corpo personali del magistrato e rappresentavano il potere che
avevano di uccidere il re. Tra le verghe del Fascio, o lateralmente,
vi era inserita una scure, che però in età repubblicana veniva tolta
quando si era all’interno della città. Dopo la disfatta di
Caporetto, il termine Fascio cominciò ad essere legato alla
necessità di un’unione nazionale al di sopra degli interessi dei
partiti. Come tale, ma accompagnato da rivendicazioni
rivoluzionarie, l’emblema romano venne accolto da Benito Mussolini,
divenendo il simbolo dei Fasci di Combattimento e in seguito del
Partito Nazionale Fascista, per simboleggiare l’unione del popolo
italiano e per volersi ispirare alla potenza e alla grandezza del
popolo romano.
Per i giovani la Prima Guerra Mondiale era stata un’avventura,
un’esperienza vissuta con l’esaltazione dell’eroismo e del coraggio,
ma il disastro morale sopraggiunse quando si scoprì che era una
guerra nuova, lunga, di logoramento. Così si accusò il Parlamento e
i partiti di disfare con vuote polemiche quello che i combattenti
conquistavano col sangue. Queste accuse, anche se prive di
fondamento, prepararono il terreno per i futuri semi dei movimenti
combattentistici; vale a dire: arditismo, futurismo politico,
fiumanesimo, fascismo. I movimenti combattentistici fecero della
partecipazione alla guerra l’origine, legittima, del loro diritto al
potere e alla guida del paese rinnovato. Dovevano, infatti, salvare
la patria dal nemico interno, come l’avevano salvata da quello
esterno, e rinnovarla, attraverso vari propositi: purificazione
morale, lotta all’analfabetismo, giustizia per tutti, riconoscimento
dei diritti delle donne, istituzione del divorzio, riforma del
costume.
Il movimento non presentò solo quest’aspetto, in alcuni nuclei di
minoranza, dai quali sorse la prima classe dirigente fascista, fu la
premessa di un’ideologia sovversiva, che voleva la distruzione degli
istituti liberali e l’esaltazione del ruolo avuto dalle aristocrazie
guerriere, in particolare gli arditi. Questi ultimi, che rifiutavano
di riprendere un posto nel “sistema” una volta finita la guerra,
furono guardati con sospetto o corteggiati, soprattutto dai partiti
estremi, che tentarono di accaparrare per sé quel capitale d’energie
e d’individui pronti a tutto, privi di scrupolo ed efficaci
combattenti. Durante la guerra gli arditi avevano goduto, in
compenso del rischio, particolari privilegi, senza dover subire la
logorante vita di trincea. Essi quindi avevano vissuto la guerra
soltanto come spettacolo del loro eroismo individuale, esibito
sempre ai limiti della morte. N’era derivato un gusto per il
temerario, una familiarità con la morte stessa, che diventava quasi
un desiderio d’apparire tanto coraggiosi e superiori alla massa
comune, da amare la morte e da assumerla a simbolo del loro valore.
Gli arditi erano convinti di aver acquisito valori e qualità che li
rendevano superiori alle masse.
Sorsero così formazioni d’arditismo, corpi scelti destinati alle
azioni più pericolose, con simboli che rispecchiavano il loro
carattere e la loro esaltata psicologia; simboli “strani” in cui
tornava sempre il colore, l’immagine, l’idea della morte (stendardi
neri, teschi col pugnale fra i denti). Gli arditi furono certamente
fra i primi a distinguere il combattentismo fra partecipazione
attiva, aristocratica e partecipazione di massa, passiva e
incosciente. L’istintiva neutralità delle masse era un fatto
indiscutibile, comune sia alla borghesia sia al proletariato, ma
dovuto più ad un naturale sentimento di evitare il peggio, che ad
una convinta adesione a teorie pacifiste. L’aspetto più interessante
della loro “ideologia”, fu l’esaltazione della giovinezza e
dell’azione, ideologia efficace nell’attrarre i giovani,
specialmente quelli che non avevano fatto la guerra. Al contatto con
futuristi e fascisti, gli arditi aspirarono a formulare la loro
dottrina sulla base dell’esperienza della guerra, dando vita a una
contestazione verso la società borghese, rivolta soprattutto verso
la sua mentalità, piuttosto che verso i suoi fondamenti.
Sul piano politico chiedevano l’annessione delle terre italiane e
delle terre necessarie alla grandezza della nazione, la riforma
elettorale, la Costituente, la rappresentanza dei combattenti, la
revisione dei contratti di guerra, l’incriminazione dei profittatori
e infine, l’espropriazione dei capitali e nuove leggi sul lavoro.
Attivismo, nazionalismo (esaltazione dello stato nazionale,
considerato come ente indispensabile per la realizzazione delle
aspirazioni sociali, economiche e culturali di un popolo) e
giovinezza sono caratteri dell’arditismo che il fascismo fece suoi.
Gli arditi fornirono alla forza nascente del fascismo quadri attivi,
armati, esperti nelle azioni rapide, pronti alla violenza e allo
scontro fisico, poco o per nulla rispettosi delle idee altrui.
Inoltre l’arditismo fu il metodo di lotta del fascismo, che ne prese
anche i simboli e lo stile (la camicia nera).
All’interno dell’estremismo combattentista, l’unico gruppo che
avesse un’ideologia, a cui attinsero arditi e fascisti, era quello
futurista. Nato come movimento artistico nel 1909, il futurismo fu
la prima avanguardia del Novecento che, per la sua polemica contro
le radici dell’arte (no scuola classica, no città monumentali) e
della cultura tradizionale, investiva tutto il mondo di valori, di
abitudini, di istituzioni legato a quello della cultura stessa
(Filippo Tommaso Martinetti). Al centro dell’ideologia futurista vi
era la concezione della vita come movimento verso il futuro e la
libertà assoluta dell’individuo come il valore fondamentale; perciò
questa ideologia non ammetteva né leggi, né religione, né
tradizioni. Per il futurismo parlare di solidarietà e di
uguaglianza, in senso assoluto, era in linguaggio passatista. La
lotta quotidiana, l’aggressività dei forti verso i deboli, erano
considerate norme valide sia per gli individui e sia per i popoli,
perché erano necessarie per eliminare gli elementi decadenti, deboli
e corrotti. Da queste premesse di darwinismo sociale, i futuristi
negarono la solidarietà fra gli esseri umani e fra i popoli, ed
esaltarono le virtù della giovinezza, il coraggio, l’amore del
rischio e dell’avventura, che servivano appunto per selezionare gli
uomini nuovi dalla massa dei vecchi inerti. Anche la violenza era
accettata, essendo vista come manifestazione dell’esuberanza e
dell’insofferenza dei giovani per la politica delle parole e dei
compromessi.
I futuristi quindi accolsero con viva approvazione la decisione di
Mussolini di fondare i Fasci di combattimento e ne furono i primi
animatori ed organizzatori. La data di nascita ufficiale del
Fascismo viene comunemente fatta coincidere con questa fondazione
(23 marzo 1919). Mussolini però intendeva dar vita ad un movimento
più che ad un partito, quest’ultimo, infatti, fu creato soltanto il
7 novembre 1921.
Il tentativo di teorizzare il fascismo fu affrontato nel giugno del
1932, con la pubblicazione del XIV volume dell’Enciclopedia Italiana
contenente la voce Fascismo a firma di Benito Mussolini. Il saggio
si divideva in due parti ben distinte: le Idee fondamentali e la
Dottrina politica e sociale; la prima, a carattere teorico e
dottrinale, fu scritta, in realtà, da Giovanni Gentile (1875 –
1944), la seconda, più “politica” in senso stretto, da Mussolini. I
punti che il filosofo sviluppò nel suo scritto sono: la coincidenza
di prassi e pensiero, la polemica antiliberale e la differenziazione
dai nazionalisti. Nel binomio pensiero e azione il filosofo
siciliano vedeva, infatti, la più netta e decisa presa di posizione
contro la tradizione italiana, di origine appunto rinascimentale,
che mirava a separare l’uomo di pensiero dai problemi della società,
cioè della politica. Nel suo testo Gentile analizza “che cos’è” il
fascismo e a quali concezioni politiche esso si oppone. Il fascismo
è prassi, in quanto è inserito in uno specifico momento storico, ma
è anche pensiero poiché contiene in sé un ideale che lo eleva a
formula di verità. E’ una concezione spiritualistica, ma non è
scettica, né agnostica, né pessimistica, né passivamente
ottimistica, come lo sono, in generale, le dottrine che pongono il
centro della vita fuori dell’uomo. Il fascismo vuole un individuo
attivo, che concepisca la vita come lotta e che capisca che solo lui
può conquistarsi l’esistenza che vuole. Per questo viene data
grandissima importanza alla cultura in tutte le sue forme (arte,
religione, scienza) e all’educazione. Esso è anche una concezione
religiosa, in cui l’uomo è visto in rapporto con una Volontà
superiore e obiettiva che lo eleva a membro consapevole di una
società spirituale. Inoltre è una concezione storica, nella quale
l’uomo “esiste” solo in rapporto con la società, la famiglia, la
nazione e la storia. Per questo motivo viene dato gran peso alle
tradizioni, ai costumi, alle memorie e alle norme del vivere civile,
contrariamente a quanto professava il futurismo politico. Ha una
concezione antiindividualistica dello Stato, ed è quindi contro il
socialismo poiché non esistono né individui, né partiti fuori dello
Stato.
Al tempo stesso però il fascismo è contro la democrazia, che
“ragguaglia il popolo al maggior numero abbassandolo al livello dei
più” (segue il darwinismo sociale dei futuristi). Per Gentile, e
quindi per Mussolini, non è la nazione a generare lo Stato, ma il
contrario, perché esso dà al popolo, consapevole della propria unità
morale, una volontà e un’effettiva esistenza. Lo Stato disciplina
tutti gli individui, ispirando con i suoi principi le personalità di
ognuno; per questo il fascismo è educatore e promotore di una vita
spirituale, volendo rifare l’uomo stesso, il suo carattere e la sua
fede. La sua insegna è perciò il fascio littorio, simbolo
dell’unità, della forza e della giustizia.
LA NASCITA DEL PARTITO NAZIONALE FASCISTA
Se nel 1919 e nel 1920 le spedizioni punitive delle camicie nere
furono quasi sempre a livello locale e piuttosto estemporanee,
dall’estate del 1921 vi fu un radicale cambiamento nel modus
operandi. Nelle squadre d’azione iniziarono infatti ad aver un peso
sempre maggiore i militari: ciò portò ad un miglioramento
nell’organizzazione e nella disciplina di questi uomini e in una
vera e propria programmazione delle azioni da compiere. In questo
modo ai fascisti fu possibile puntare a bersagli che non erano più i
singoli individui, ma bensì i comuni retti dalle giunte socialiste.
La tecnica più utilizzata consisteva nel far convergere nel luogo
scelto per l’azione, migliaia di squadristi che potevano giungere
anche da molto lontano. Una volta completata l’adunata, aveva inizio
l’opera di devastazione della Camera del Lavoro locale, delle sedi
delle cooperative, dei circoli ricreativi operai e delle abitazioni
degli attivisti socialisti. Infine le squadre fasciste si ponevano
alla ricerca del Sindaco e dei membri della giunta e del consiglio
comunale, che una volta scovati venivano costretti con la forza a
rassegnare le proprie dimissioni. Avvenuto ciò giungeva il Prefetto
che provvedeva a nominare un commissario, che naturalmente era una
persona di provata fede fascista, che aveva il compito di
amministrare la località.
Ma non tutte le città che ebbero la sventura di essere liberate
dalle squadre fasciste erano amministrate dai socialisti. Uno degli
esempi più illuminanti in questo senso fu senza dubbio l’azione che,
il 12 luglio del 1921, portò alla cacciata da Treviso della giunta
retta da membri del Partito Popolare Italiano di Don Sturzo. Nel
frattempo all’interno del movimento fascista ebbero inizio i primi
dissidi . Con l’ingresso in Parlamento di un buon numero di deputati
del proprio schieramento, Mussolini tentava in ogni modo di dare una
parvenza di legalità al suo movimento ed in questo senso accettò la
mediazione dell’allora Presidente della Camera Enrico De Nicola, che
il 2 agosto del 1921, portò ad un patto di pacificazione con i
socialisti. Ma già il 16 agosto i Fasci dell’Emilia Romagna, riuniti
in congresso a Bologna, ribadirono la non accettazione del patto da
parte loro, seguiti circa un mese più tardi da quelli della Toscana,
e il 28 settembre da quelli dell’Umbria e a seguire da tutti gli
altri. I grandi capi dello squadrismo, come Roberto Farinacci il Ras
di Cremona, Dino Grandi,capo indiscusso del fascismo bolognese,
Italo Balbo, capo delle squadre ferraresi e il barese Caradonna, si
schierarono apertamente contro Mussolini. Essi continuarono le loro
azioni contro le giunte popolari e contro i comunisti, che non
avevano voluto scendere a patti con i fascisti.
In questa occasione, Mussolini ebbe modo di esprimere tutta la
propria capacità nel gestire la situazione che era venuta a crearsi
e nel manovrare gli uomini: con grande clamore egli si dimise dalla
Commissione esecutiva dei Fasci. In realtà, stava meditando di
trasformare il movimento dei Fasci di Combattimento in un partito
politico, mantenendo però operative sia le squadre d’azione che i
loro capi. Al Terzo congresso nazionale dei Fasci, che si tenne a
Roma dal 7 al 10 novembre del 1921 e che sancÌ la nascita del
Partito Nazionale Fascista, Mussolini fece il proprio intervento
senza più parlare di dimissioni e con tono conciliante verso coloro
che lo avevano criticato.
L'abbraccio con Grandi sancì l'avvenuta riappacificazione. Sempre
nel corso di quel congresso venne reso pubblico il programma del
nuovo partito che rispetto a quello del precedente movimento dei
Fasci di Combattimento prevedeva molti cambiamente sostanziali:
vennero rimossi tutti i punti considerati socialisteggianti e quelli
sfavorevoli al capitalismo; divenne inoltre palese l'avvicinamento
alla Confindustria tramite alcune dichiarazioni liberiste. Anche la
monarchia fu rassicurata circa il proprio futuro: venne infatti
rimosso dal programma ogni accenno alla repubblica.
LA NASCITA DEI FASCI DI COMBATTIMENTO
Il 23 marzo del 1919, in Piazza San Sepolcro, Benito Mussolini fondò
i Fasci di combattimento, che rappresentavano l'evoluzione dei
precedenti Fasci di azione rivoluzionaria. Fra i circa cento
presenti nella sala dell'Alleanza industriale e commerciale,
spiccavano i nomi di alcuni noti personaggi: Michele Bianchi,
Ferruccio Vecchi, Filippo Tommaso Marinetti e altri. Il programma di
questo nuovo movimento rappresentava un misto di nazionalismo,
antisocialismo e anticapitalismo; un movimento quindi buono un pò
per tutti. Nelle sue file militavano infatti ex combattenti,
studenti, contadini, rappresentanti della piccola borghesia e
industriali.
I punti del programma, vennero raggrupati da Mussolini in quattro
grandi problemi: la politica, il problema sociale, quello militare e
il problema finanziario. Sotto il problema politico, era indicato un
punto dedicato ai giovani e che riguardava l'abbassamento a 18 anni
per gli elettori e a 25 anni per poter essere eletti deputati.
Veniva quindi una proposta di abolizione del Senato, i cui membri
venivano nominati direttamente dal re e una politica estera più
dinamica, che contrastasse quella vigente, che secondo Mussolini
tendeva a stabilizzare l'egemonia delle vecchie potenze
plutocratiche. Il problema sociale era poi particolarmente sentito,
e ad esso vennero dedicati ben 10 punti del programma: per quanto
riguardava la classe operaia, venivano accolte le giuste
rivendicazione per una diminuzione delle ore lavorative, che
avrebbero dovuto essere portate a otto; per una partecipazione dei
lavoratori al funzionamento tecnico delle industrie; per
un'affidamento ai sindacati della gestione delle industrie stesse e
dei servizi pubblici, ed infine un riordino dei trasporti e la
modifica dell'età pensionabile, che sarebbe stata vincolata
all'usura dovuta al tipo di lavoro svolto. Anche i contadini ed i
reduci erano citati in questa parte del programma: veniva infatti
previsto l'obbligo ai proprietari di coltivare le terre, precisando
che i terreni incolti sarebbero stati espropriati e ceduti alle
cooperative contadine, favorendo soprattutto i reduci di guerra;
veniva inoltre previsto un intervento contributivo dello Stato per
la costruzione di case coloniche. Per quanto riguardava la scuola,
era previsto che lo Stato avrebbe dovuto inserire nel proprio
bilancio, i fondi necessari a coprire le spese per garantire
l'istruzione scolastica obbligatoria. Riguardo alla burocrazia, la
riforma prevedeva il decentramente del personale e una sana
epurazione che avrebbe garantito l'ingresso di elementi più idonei e
produttivi. La questione militare comprendeva un unico punto nel
quale, facendo riferimento alla politica estera futura, si sosteneva
la necessità di periodi di breve durata ma frequenti, di
addestramento militare, in modo tale da poter fare dell'Italia una
Nazione pronta a sostenere eventuali conflitti nel modo più idoneo
possibile.
La parte del programma riguardante la finanza, risultava senza
dubbio la più provocatoria; nei suoi punti si citavano fra l'altro:
una forte imposta straordinaria sul capitale, che avrebbe dovuto
avere un carattere progressivo, una vera e propria espropriazione
parziale di tutte le ricchezze; il sequestro dei beni appartenenti
alle congregazioni religiose e la chiusura delle mense vescovili,
viste come una grande fonte di passività per la Nazione e un
privilegio a favore di pochi; una revisione di tutti i contratti
sulle forniture di guerra, ed il sequestro dei 3/4 dei profitti di
guerra. I punti del programma non furono dei principi assoluti,
anzi, essi venivano, a seconda delle necessità del momento, o in
base alla platea alla quale Mussolini si rivolgeva, ribaditi o
elusi, in modo tale da aggregare al movimento sempre più larghi
strati della popolazione. Il vero volto dei Sansepolcristi, si
rivelò in tutta la sua drammaticità il 15 aprile 1919 a Milano, dove
una squadra di fascisti, attaccò violentemente un gruppo di
lavoratori in sciopero che si stavano recando all'Arena. Nello
stesso momento, un altra squadra assaltò la sede del quotidiano
socialista Avanti distruggendone gli impianti e gli uffici.
IL PRIMO GOVERNO MUSSOLINI
Con le sue sole forze alla camera dei Deputati, Benito Mussolini non
avrebbe mai potuto formare un proprio governo. Ma grazie ai contatti
e alle trattative che egli condusse per tutto il mese di ottobre, le
bastò inserire qualche esponente liberale, democratico e popolare
nella compagine governativa e tra i sottosegretari, per raggiungere
il proprio scopo.
Il 19 novembre del 1922, la Camera votò con larga maggioranza la
fiducia al Governo Mussolini. Fra coloro che votarono a favore,
figuravano nomi importanti del panorama politico italiano: Giolitti,
Salandra, Facta, Bonomi, Orlando, e anche due personaggi destinati a
divenire molto importanti nel futuro: Gronchi, futuro presidente
della Repubblica Italiana nel dopoguerra, e Alcide De Gasperi,
futuro Presidente del Consiglio nell’immediato dopoguerra. Questi
voti vennero dati a Mussolini, nonostante egli, in occasione della
presentazione alla Camera del nuovo esecutivo, avesse minacciato i
deputati presenti, facendo loro presente che se solo avesse voluto,
avrebbe potuto facilmente ottenere con la forza la fiducia del
Parlamento. Tutto ciò avvenne senza che l’allora Presidente della
Camera dei Deputati Enrico De Nicola, che diverrà in seguito il
primo Presidente della neonata Repubblica Italiana, intervenisse,
anzi, egli diede il proprio voto al nuovo Governo.
A fine novembre, anche il Senato accordò la fiducia al Governo
Mussolini, che non ancora soddisfatto, il 24 novembre chiese ed
ottenne dal Parlamento i pieni poteri per un anno. I suoi primi
decreti legge vennero accolti come un ringraziamento da quanti lo
avevano sostenuto nella sua scalata al potere: industriali e ricchi
possidenti terrieri. Venne infatti abolita la nominatività dei
titoli azionari, alla quale fecero seguito le privatizzazioni e la
soppressione della tassa di successione familiare. Vennero quindi
ridotte l’imposta sugli immobili, e sulla ricchezza mobile, estesa
anche agli stipendi dei lavoratori pubblici e parastatali. I
possidenti terrieri vennero invece premiati con lo sblocco dei fitti
e con il blocco di ogni progetto di riforma agraria: a subirne le
conseguenze furono i contadini ed i mezzadri, gravati di una nuova
imposta. A subire le maggiori ritorsioni furono i ferrovieri, che
con la loro lotta erano stati un esempio per tutte le altre
categorie di lavoratori: molti di loro vennero licenziati con la
scusa di un esubero di personale o con altre motivazioni. la
festività del 1° Maggio venne abolita e al suo posto venne inventato
il Natale di Roma, che cadeva il 21 aprile. Nel corso di quel
periodo nel quale Mussolini ebbe i pieni poteri, venne costituito un
esecutivo che divenne successivamente organo costituzionale: il Gran
Consiglio del Fascismo. Il Vaticano ricevette rassicurazioni circa
il salvataggio del Banco di Roma; il costo dell’operazione ricadde
poi sulle spalle dello Stato e di conseguenza degli italiani. Per
ingraziarsi ulteriormente le gerachie vaticane, venne resa
obbligatoria la presenza del crocifisso in tutti gli edifici e
uffici statali, e verranno concessi aumenti di rendite ai parrocci e
ai vescovi. Inoltre seminaristi e sacerdoti vennero esentati dagli
obblighi militari.
Il 14 gennaio 1923 venne costituita la Milizia Volontaria di
Sicurezza Nazionale, nella quale affluirono le fedeli camicie nere,
che giuravano fedeltà a Mussolini ma non al re. Questo corpo
paramilitare svolgeva compiti di polizia territoriale ed era
stipendiata dallo Stato. Per entare a far parte di questi reparti,
occorreva essere iscritti al Partito Nazionale Fascista. Tutti
coloro che in precedenza erano a capo delle squadre fasciste, che in
precedenza si erano macchiate dei più svariati crimini, divennero
ufficiali della M.V.S.N. il cui primo console, grado corrispondente
a quello di colonnello, fu Piero Brandimarte, che si era messo in
evidenza a Torino dove rivestiva la carica di capo del Fascio.
Fra il 18 ed il 22 dicembre 1922 a causa dell’uccisione di un
fascista, vennero assassinati 22 attivisti di sinistra, mentre due
riuscirono miracolasamente a fuggire mettendosi in salvo. Gennaro
Gramsci, scambiato per il più famoso fratello Antonio Gramsci, venne
assalito e preso a bastonate, mentre tutti i giornalisti del
quotidiano Ordine Nuovo vennero duramente perseguiti. In quei giorni
a Torino venne incendiata la locale Camera del Lavoro, il circolo
dei ferrovieri ed altri centri di aggregazione appartenenti ad
organizzazioni di sinistra, o legate al movimento operaio. Nelle
contempo, nelle altre città italiane imperversavano bastonate ed
olio di ricino. Tutti questi fatti vennero denunciati dal deputato
socialista Giacomo Matteotti. Tra il 1° novembre 1922 ed il 31 marzo
1923, secondo alcune fonti ufficiali, i fascisti commisero più di
100 omicidi, per i quali nessuno venne mai condannato.
LA MARCIA SU ROMA
Fra l’agosto ed il settembre 1922, le azioni di violenza da parte
delle squadre fasciste non cessarono, facendo registrare decine di
omicidi, pestaggi e danneggiamenti di vario genere ai danni di
abitazioni private e edifici appartenenti alle associazioni
politiche di sinistra, o comunque non favorevoli al fascismo. Nel
frattempo Facta, il cui Governo era stato sfiduciato il 19 luglio,
ottenne alla Camera dei Deputati la fiducia per il nuovo esecutivo,
che nell’insieme risultò essere più debole del precedente. Il 20
settembre apparve sulle pagine del Corriere della Sera, una lettera
che alcuni deputati del Partito Popolare avevano inviato a Don
Sturzo, per metterlo in guardia circa la posibilità di stringere
alleanze con il Partito Socialista. La paura di un’alleanza di quel
genere, crebbe ulteriormente dopo la fine del congresso dei
socialisti, tenutosi a Roma dal 1° al 3 di ottobre, nel corso del
quale, la corrente di destra del partito si staccò dal movimento
creando un nuovo partito politico: il Partito Socialista Unitario,
alla cui segreteria venne designato Giacomo Matteotti. Si formò così
alla Camera un gruppo di socialisti disposti ad appoggiare un
governo di centrosinistra e a farne parte integrante. Questa
situazione non fece piacere al Vaticano e neppure ai cattolici
conservatori. Altri esponenti politici, appoggiati dai grandi
industriali e dai latifondisti, speravano ancora di poter riportare
il Fascismo ad una parvenza di legalità per potersene servire per i
propri scopi e per difendere i propri interessi, minacciati dalle
leggi proposte dal nuovo governo di centrosinistra, che sarebbero
state molto dannose per i loro patrimoni.
Mussolini nel frattempo si preparava a compiere un’azione di forza,
mantenendo comunque ancora aperte delle trattative con i più
importanti esponenti politici dell’epoca quali Giolitti, Nitti,
Orlando e Facta. Il 16 ottobre si tenne a Milano una importante
riunione alla quale presero parte i principali capi delle camicie
nere e perfino dei generali dell’esercito in pensione. Fu in
quell’occasione che venne creato il Quadrumvirato formato da Italo
Balbo, Emilio De Bono, De Vecchi e Bianchi; quest’ultimo era il
segretario del Partito Nazionale Fascista. A questo Quadrumvirato
venne assegnato come compito principale l’organizzazione della
mobilitazione e della strategia militare da adottare. La decisione
di anticipare i tempi per l’azione di forza, venne presa il 4
novembre nel corso del congresso del PNF a Napoli, e venne
ufficialmente annunciata il 27 di ottobre. Il quartier generale
venne stabilito a Perugia. Mussolini non era presente, infatti, al
termine del congresso si recò a Milano, dove attese l’evolversi
degli eventi.
La sera del 27 ottobre, il re Vittorio Emanuele III,che si trovava
nella residenza di San Rossore, rientrò precipitosamente a Roma, e
nel corso della nottata,tutti i prefetti ricevettero l’ordine di
passare i propri poteri alle autorità militari. Purtroppo, salvo
rare eccezioni,queste confinarono i propri reparti nelle caserme,
lasciando che i fascisti occupassero tranquillamente i punti
strategici quali gli uffici telefonici e telegrafici, le stazioni
ferroviarie, i ponti e le sedi dei quotidiani, ma soprattutto i
depositi di armi e munizioni. Questi ultimi furono molto importanti,
poichè pochi fascisti disponevano di armi da fuoco regolari. Il
numero esatto dei componenti di questo esercito improvvisato non si
conoscono a tutt’oggi: l’unica cosa certa e che essi erano ancora
fuori da Roma il 28 ottobre, mentre Facta si recava dal re per farle
firmare il decreto per lo stato d’assedio. In quelle ore Vittorio
Emanuele III aveva ascoltato i consigli e le pressioni che le
giungevano da parte di una serie di importanti personalità in
massima parte arroccate su posizioni filofasciste: l’ammiraglio
Thaon de Revel, il generale Armando Diaz, il generale Cittadini,
aiutante di campo del sovrano, ed il rappresentante dei nazionalisti
Federzoni. Quando a corte giunse la voce che il duca d’Aosta
Emanuele Filiberto, cugino di Vittorio Emanuele III, si era
incontrato con i capi fascisti ed in quel momento si trovava nei
pressi di Perugia, al re parve subito chiaro che si era già trovato
il suo sostituto, e si rifiutò di firmare il decreto dello stato
d’assedio. Appena si sparse la notizia, migliaia di fascisti si
riversarono nelle strade: prendendo d’assalto i treni essi
marciarono su Roma inneggiando a Mussolini, ponendo in questo modo
una seria ipoteca sul candidato che i militari ed i nazionalisti
avevano proposto al re, ovvero Salandra, che comunque non sarebbe
riuscito ad ottenere la fiducia. Infatti la Confindustria fece
sapere che avrebbe gradito come Presidente del Consiglio solo
Mussolini.
Non firmando lo stato d’assedio, Vittorio Emanuele III si precluse
anche la possibilità di poter scegliere in nuovo Premier. Il 29
ottobre inviò un telegramma a Mussolini, che si trovava ancora a
Milano, invitandolo a Roma. Questi raggiunse il re il giorno
successivo in treno. In quel momento la preoccupazione maggiore era
generata dall’esercito di camicie nere accampato alle porte della
capitale. Per risolvere il problema senza generare incidenti,
vennero messi a disposizione delle squadre fasciste che ancora
dovevano raggiungere Roma, dei treni e altri mezzi di locomozione,
alfine di consentire loro di raggiungere il punto di adunata senza
creare problemi. Per quelli che invece erano già giunti nei pressi
della capitale, vennero trovati degli alloggi di fortuna e serviti
dei pasti caldi, in attesa che giungessero gli altri. Finalmente,
nel pomeriggio del 31 ottobre, i primi fascisti mobilitatisi per
l’impresa, con le altre migliaia di camicie nere che giunsero
successivamente, entrarono trionfanti a Roma. La Marcia su Roma
segnò l’inizio dell’era fascista e la fine della democrazia in
Italia.
LA RIFORMA ELETTORALE DEL 17 LUGLIO 1923
Raggiunta la presidenza del Consiglio dei Ministri, Mussolini, non
ancora soddisfatto del fatto che il Partito Nazionale Fascista non
avesse la maggioranza assoluta in parlamento, decise che era giunto
il momento di riformare la legge elettorale. Fino a quel momento
l’Italia era suddivisa in ampi collegi elettorali, in ognuno dei
quali ciascun partito otteneva un numero di deputati proporzionato
al numero dei voti conquistati dalla propria lista. Il progetto di
legge presentato in aula dal sottosegretario fascista agli Interni
Giacomo Acerbo prevedeva la somma dei voti raccolti nei vari
collegi, ed il partito che fosse riuscito ad ottenere il risultato
migliore, con un tetto minimo posto al 25%, avrebbe ottenuto
automaticamente due terzi dei seggi in tutti i collegi elettorali,
ottenendo in tal modo la maggioranza assoluta in Parlamento. Anche
se al termine del loro congresso, i popolari si erano schierati per
il mantenimento del sistema proporzionale, essi cercarono un
compromesso, che venne esposto dall’Onorevole Alcide De Gasperi alla
Commissione della Camera riunita per discutere la riforma della
legge elettorale. Questi propose che il partito che avesse raggiunto
il 40% dei voti avrebbe ottenuto il 60% dei seggi; naturalmente la
proposta venne sdegnosamente rifiutata dai fascisti, che non si
discostarono dalle loro posizioni iniziali. Essi misero in atto una
campagna intimidatoria nei confronti dei popolari e degli altri
oppositori, sia per mezzo della stampa, oppure con il supporto della
Milizia Volontaria di Sicurezza Nazionale, che ormai svolgeva
attività di presidio costante a Montecitorio.
Il 10 luglio la legge venne infine portata in Parlamento per essere
illustrata e votata. Il giorno successivo, Don Sturzo diede le
proprie dimissioni dalla segreteria del Partito Popolare Italiano.
Il fatto ebbe molto rilievo sulla stampa nazionale dell’epoca: la
dirigenza fascista, aveva infatti informato il Vaticano di non poter
più garantire l’incolumità di Don Sturzo e dei sacerdoti in genere.
Fu quindi il Vaticano stesso che convinse il segretario dei popolari
a dimettersi. Queste dimissioni furono il risultato di un incontro
che Mussolini aveva avuto poco tempo prima con il Cardinale
Gasparri: nel corso dell’incontro Mussolini assicurò all’alto
prelato, che si sarebbe attivato per salvare il Banco di Roma,
chiedendo in cambio del favore le dimissioni di Don Sturzo. Nel
frattempo, la riforma scolastica presentata dal Ministro della
Pubblica Istruzione Giovanni Gentile, introdusse l’Esame di Stato,
mentre le scuole private e religiose ottennero le stesse condizioni
delle scuole pubbliche.
Subito dopo le dimissioni di Don Sturzo, vi fu una vera escalation
di azioni violente perpetrate dalle squadre fasciste e rivolte
soprattutto contro le sedi delle varie organizzazioni cattoliche:
queste azioni avevano come obbiettivo, quello di far capire ai più
recalcitranti, che era meglio sottomettersi al nuovo stato di cose,
sia dentro che fuori dal Parlamento. Anche alcuni sacerdoti caddero
vittime della cieca violenza fascista: il caso più eclatante fu
l’assassinio ad Argenta(FE) di Don Giovanni Minzoni, parroco della
cittadina e organizzatore della gioventù cattolica locale. Il povero
sacerdote venne assassinato la notte del 23 agosto da tre uomini,
che pare fossero stati inviati da Italo Balbo, per zittire un
personaggio scomodo.
Il 15 luglio la camera dei Deputati votò a larga maggioranza la
fiducia al Governo. Il 17 luglio toccò alla legge elettorale. Nei
quattro giorni durante i quali la legge restò all’esame del
Parlamento, i popolari tentarono ancora, ma invano, di trovare un
compromesso che accontentasse le parti. Solo due giorni prima,
Mussolini, in un discorso conciliante rivolto a tutta l’assemblea
parlamentare, fece intendere che se la legge Acerbo fosse stata
approvata, le violenze e gli omicidi sarebbero terminati, poichè
sarebbe venuto a mancare l’oggetto del contendere.Naturalmente la
legge venne approvata, e Vittorio Emanuele III, quello stesso
giorno, firmò il decreto. Il 13 novembre anche il Senato diede la
sua approvazione alla riforma della legge elettorale. Il 1923
volgeva al termine, ed il 1924 si presentava come foriero di
imminenti sventure.
DALLE ELEZIONI DEL 6 APRILE 1924 AL DELITTO MATTEOTTI
La campagna elettorale fascista causò un incremento delle violenze
commesse dalle squadre di camicie nere. Ai candidati dei partiti
antifascisti fu praticamente impedito di tenere i propri comizi
elettorali: gli unici manifesti elettorali visibili sui muri delle
città italiane erano quelli del Partito Nazionale Fascista. La
polizia trasse in arresto centinaia di oppositori della nascente
dittatura. Antonio Piccinini, candidato nel collegio elettorale di
Reggio Emilia per il Partito Socialista massimalista, venne
assassinato. Ogni partito si presentò alle elezioni con una propria
lista, mentre Benito Mussolini presentò un listone composto da 135
candidati fra fascisti, che erano in netta maggioranza rispetto agli
alleati, liberali, democratici, socialdemocratici, cattolici e
altri. Una buona parte di questi uomini, erano dei politici di
vecchia data, che portarono alla lista di Mussolini il proprio
prestigio, ma soprattutto i loro colleghi di partito. Fra questi
personaggi, i più famosi erano Vittorio Emanuele Orlando e Antonio
Salandra, entrambi ex Presidenti del Consiglio, ed Enrico De Nicola
ex Presidente della Camera e primo Presidente della Repubblica nel
dopoguerra. Ques’ultimo ritirò la propria candidatura poco prima del
voto, ma non venne mai perseguitato dal fascismo:Mussolini anni dopo
lo nominò senatore.
Nel corso di questa campagna elettorale, i fascisti utilizzarono per
la prima volta la Radio come mezzo propagandistico. Mussolini capì
fin dall’inizio la potenzialità di questo mezzo di comunicazione, in
grado di far giungere in tutto il territorio nazionale il suo
messaggio politico. La mattina del 6 aprile vennero aperti i seggi
elettorali, che quasi ovunque erano presidiati da picchetti di
fascisti armati.
Numerosi furono i casi di violenza a danno di cittadini chesi
recavano alle urne. Le irregolarità furono innumerevoli, al punto
che in alcuni seggi votarono perfino delle persone decedute. I
fascisti ottennero la maggioranza assoluta nell’Italia del sud,
mentre nelle città del Nord i partiti antifascisti ottennero
numerosi successi. Avendo comunque ottenuto il 66% dei voti totali,
il listone proposto da Mussolini si aggiudicò 374 deputati, la
maggioranza assoluta, in virtù della Legge Acerbo. Particolarmente
penalizzati furono i democratico-liberali che passarono dai
precedenti 210 seggi agli agli attuali 45, quindi il Partito
Popolare che da 106 passò a 39 seggi; infine i socialisti delle
varie correnti, che dai 122 seggi che avevano prima delle elezioni
si ritrovarono con 46. Aumentarono i propri deputati il Partito
Repubblicano, 7 seggi, il Partito Comunista, 19 seggi e la lista
Amendola con 8 seggi. In totale, l’opposizione poteva contare in
aula su 159 deputati, divisi fra diversi partiti spesso in lotta tra
loro.
Gli imbrogli e le intimidazioni messe in atto dai fascisti durante
le elezioni del 6 aprile, vennero denunciate il 30 maggio del 1924
in Parlamento, dal deputato dei socialisti unitari Giacomo
Matteotti. In un discorso avvincente, fece i nomi e diede il
dettaglio dei fatti più incresciosi accaduti in quelle ore,
interrotto continuamente dalle ingiurie e dalle grida provenienti
dai banchi occupati dai fascisti. Matteotti terminò il proprio
intervento dicendo che quele elezioni non potevano essere ritenute
valide, sancendo in tal modo la propria condanna a morte. I brogli
elettorali furono solo l’ultimo anello di una catena costituita da
interrogazioni parlamentari, discorsi e scritti, nei quali egli ebbe
il coraggio di denunciare la corruzzione vigente tra i gerarchi e
all’interno dei componenti del governo di Mussolini. In effetti,
appena arrivati al potere, molti fascisti approfittarono della
propria posizione per arricchirsi o per favorire persone a loro
vicine. Matteotti denunciò il traffico dei residuati bellici, che
costituì una vera e propria truffa ai danni dello Stato; l’acquisto
di aziende economicamente dissestate; le tangenti pagate dagli
imprenditori in cambio di appalti o favori, concessi senza che
venisse presentata una qualsiasi garanzia.
Il pomeriggio del 10 giugno, Matteotti venne agredito e rapito da
cinque uomini in Lungotevere Arnaldo da Brescia. Il suo corpo venne
rinvenuto solo il 16 agosto, maldestramente sepolto nella macchia
della Quartarella, situata a nord di Roma. Già il giorno successivo
al rapimento, gli italiani reagirono con sdegno: in tutta Italia
vennero organizzati degli scioperi spontanei, manifestazioni e
cortei. Il 13 giugno i deputati dell’opposizione decisero per
protesta di astenersi dai lavori parlamentari.Mentre la gente, senza
essere minacciata continuava a portare fiori sul luogo del
rapimento, la stampa iniziò ad occuparsi dettagliatamente del
delitto. I fatti iniziarono ad apparire anche sui grandi quotidiani
a tiratura nazionale, nelle pagine dei quali si facevano anche i
nomi dei mandanti: Giovanni Marinelli, tesoriere del Partito
Nazionale Fascista, Cesare Rossi, capo dell’ufficio stampa di
Mussolini, ed infine Mussolini stesso.
Durante quel breve periodo di libertà di stampa, i giornali
pubblicarono anche i resoconti di tutte le violenze delle quali i
fascisti si erano macchiati precedentemente e sempre taciute
all’opinione pubblica. Per le strade le camicie nere diradarono la
loro presenza e molti ferventi fascisti stracciarono per protesta la
tessera del partito. Nonostante tutto ciò, il 26 giugno il Senato
espresse la propria fiducia al Governo Mussolini a grande
maggioranza. Nel frattempo, a seguito delle segnalazioni di un
testimone oculare che aveva annotato il numero di targa sulla quale
venne caricato a forza Matteotti, vennero arestati i componenti del
commando che aveva prelevato e successivamente assassinato il
deputato socialista: Amerigo Dumini, Amleto Poveromo, Giuseppe
Viola, Augusto Malacria e Albino Volpi.Emilio De Bono, che in
qualità di direttore generale della Pubblica Sicurezza tentò tentò
di insabbiare le prove contro Dumini, venne rimosso dal suo incarico
e sostituito da Federzoni. I comunisti cercarono di convincere gli
altri partiti antifascisti ad abbandonare la cosiddetta protesta
dell’Aventino per formare un controparlamento da opporre ai
fascisti. Non essendo riusciti nell’impresa decisero di rientrare da
soli nell’aula parlamentare. Gli altri partiti, speravano con la
loro assenza di bloccare i lavori parlamentari e confidavano in un
intervento del re, che loro speravano avrebbe sciolto la camera,
visto che il Primo Ministro era coinvolto nell'omicidio Matteotti:
ma Vittorio Emanuele III non fece nulla.
Mentre gli aventiniani attendevano lo sviluppo degli eventi
disertando il Parlamento, i fascisti, che nel frattempo si erano
ripresi dallo scossone loro inferto dal grave fatto di sangue,
ricominciarono con le loro violenze e Mussolini, nonostante le
richieste da parte dei suoi sostenitori più moderati di evitare
certi atteggiamenti, riprese i suoi comizi pubblici, nei quali tenne
discorsi estremamenti violenti contro i suoi oppositori. Negli
ultimi giorni dell’anno, le strade di Firenze rimasero in balia
della violenza delle squadre fasciste: la rabbia delle camicie nere
si scaricò in modo particolare contro il Nuovo Giornale, la cui sede
venne data alle fiamme; anche il Circolo di Cultura e il circolo dei
reduci e del loro periodico vennero devastati. Molti danni subirono
anche le abitazioni private di deputati dell’opposizione. Chiunque
venne a trovarsi sulla strada delle squadre fasciste venne percosso
senza motivo. Nei giorni successivi, le stesse imprese si ripeterono
in altre città della Toscana, dell'Emilia e della Lombardia.
I MEZZI DI REPRESSIONE DEL FASCISMO. IL CONFINO DI POLIZIA
Autore: Michele Strazza
Nel 1926, nell’Italia Fascista, viene approvato il nuovo Testo Unico
delle Leggi di Pubblica Sicurezza ( R.D. n.1848 del 06.11.26).
L’emanazione era stata preceduta, pochi mesi prima, dalla nomina a
Capo della Pubblica Sicurezza del Prefetto Arturo Bocchini che
grande parte ebbe nella riorganizzazione dell’apparato repressivo
del Regime.
Il T.U.L.P.S. dedicava molto spazio alle misure di prevenzione,
strutturate come semplici fattispecie di sospetto, funzionali alla
repressione del dissenso politico e dotate di maggiore effettività
rispetto alla disciplina repressiva della Legge Penale, sancendo
l’ampia applicazione, in nuova forma, di un istituto giuridico già
presente nell’Ordinamento: il Confino. Secondo l’art 185 del T.U. il
confino di polizia si estendeva da uno a cinque anni e si scontava,
con l’obbligo del lavoro, in una colonia o in un comune del Regno
diverso dalla residenza del confinato.
Il “domicilio coatto” era stato applicato, dopo l’Unità d’Italia,
per la prima volta all’interno della legislazione del 1863 sul
Brigantaggio (Legge n.1409 del 1863 c.d. Legge Pica ), come
provvedimento provvisorio e di emergenza, ma non aveva dato grossi
risultati. L’istituto giuridico, tuttavia, venne introdotto
stabilmente nella legislazione ordinaria nel 1865, come
completamento logico dell’ammonizione, con l’emanazione del primo
Testo Unico di Pubblica Sicurezza ed esteso, inizialmente, ai
vagabondi recidivi, agli oziosi ed ai sospetti di alcuni reati.
In seguito, con la legge 294 del 1871, vennero coinvolti tutti gli
ammoniti. La misura non poteva essere inferiore a 6 mesi e
oltrepassare i 5 anni. La competenza ad emettere il provvedimento
era attribuita al Ministero dell’Interno e, successivamente ed entro
certi limiti, anche ai Prefetti.
Con il nuovo Testo Unico di P.S. del 1889 (Regio Decreto n.6144 del
del 1889) l’ammonizione fu estesa anche ai “diffamati” sottoposti a
procedimento penale ed assolti. I “diffamati” erano le persone
indicate come colpevoli di certi reati dalla “voce pubblica”. Il
domicilio coatto, invece, venne comminato agli ammoniti dopo due
contravvenzioni all’ammonizione oppure dopo due condanne, sempre
sussistendo la condizione della pericolosità per la sicurezza
pubblica.
Nel 1894, infine, Crispi, per combattere le agitazioni contadine ed
operaie, introdusse nuove disposizioni “eccezionali” sul domicilio
coatto. La misura diveniva, cioè, applicabile nei confronti di
chiunque fosse stato processato per delitti contro l’ordine pubblico
o contro l’incolumità pubblica, nonché nei confronti dei promotori
delle associazioni contro gli ordinamenti sociali.
Tale misura di Polizia, pur conservando certe regole del vecchio
sistema, nel 1926 venne estesa ben oltre una generica area di
emarginazione sociale, diventando uno strumento cardine del
controllo poliziesco del Fascismo. Nel solo periodo
novembre-dicembre 1926 vi furono ben 900 assegnazioni al confino.
Rispetto alla precedente disciplina rimase il duplice scopo di
tutelare lo Stato contro i pericoli di turbamento della sicurezza
pubblica, allontanando dal loro ambiente abituale persone che, per i
loro precedenti e la loro condotta, dimostravano persistente
tendenza a delinquere. La nuova misura, tuttavia, aveva una netta
differenza con il “domicilio coatto” che andava a sostituire. A
differenza di quest’ultimo, infatti, poteva essere applicato
immediatamente e non solo a seguito di una trasgressione alle
prescrizioni dell’Autorità di P.S.
Il confino, se era diretto a colpire le persone pericolose alla
sicurezza pubblica, non poteva applicarsi che agli ammoniti, in
quanto il provvedimento già adottato non si ravvisasse efficace o
sufficiente a impedire attentati all’ordine pubblico; se invece si
aveva riguardo all’ordine pubblico poteva applicarsi a chiunque
avesse commesso o manifestato il deliberato proposito di commettere
atti diretti a sovvertire violentemente gli ordinamenti nazionali,
sociali ed economici costituiti nello Stato o a menomarne la
sicurezza ovvero a contrastare od ostacolare l’azione dei poteri
dello Stato, in modo da recare comunque nocumento agli interessi
nazionali, in relazione alla situazione interna o internazionale
dello Stato (Art. 184 del R.D. 06.11.1926 n.1848). Secondo Barile
veniva cioè introdotta la “pena per un reato rimasto nella sfera del
pensiero”.
A differenza delle sanzioni penali vere e proprie, il confino non
richiedeva una responsabilità giudizialmente accertata per fatti
considerati dalla Legge come reati, ma soltanto una condotta tale da
produrre un pericolo effettivo alla sicurezza pubblica ed all’ordine
politico, tanto da indurre l’Autorità a togliere il soggetto
pericoloso dal luogo di residenza e sottoporlo a particolare
vigilanza per un periodo di tempo che poteva variare da uno a cinque
anni. Spesso, però, il limite massimo dei cinque anni non veniva
affatto rispettato, nel senso che si procedeva ad una nuova
riassegnazione ad altri cinque anni nei confronti di soggetti
ritenuti particolarmente pericolosi per non aver modificato le
proprie convinzioni sovversive.
Tale misura di Polizia completava, pertanto, la funzione punitiva
dello Stato, non lasciando la società indifesa contro coloro che,
pur non incorrendo in specifiche condanne per reati, presentavano,
in sommo grado, una pericolosità spesso più grave e più nociva di
quella derivante dalla consumazione di reati scoperti e puniti. Per
tale motivo, venne impiegata indiscriminatamente contro tutti coloro
che non sarebbe stato possibile perseguire con i metodi propri della
giustizia ordinaria a causa della loro non provata reità.
Alcune volte, addirittura, essa venne usata per evitare la
celebrazione di processi, per reati di pertinenza della magistratura
ordinaria, a carico di persone note o iscritte al Partito Fascista,
onde evitare le inevitabili ripercussioni sull’opinione pubblica.
Il provvedimento era affidato alla facoltà discrezionale della
stessa Commissione Provinciale che emetteva le ordinanze di
ammonizione, composta dal Prefetto che la convocava e presiedeva,
dal Procuratore del Re, dal Questore, dal Comandante Provinciale
dell’Arma dei Carabinieri e da un Ufficiale Superiore della Milizia
Fascista, designato dal comandante di zona; svolgeva le funzioni di
segretario un funzionario di Pubblica Sicurezza (Artt. 186 e 168).
Non erano prescritte speciali formalità. La proposta di confino
veniva formulata dal Questore competente per territorio, sulla base
delle risultanze di polizia, mentre era del tutto inesistente il
diritto di difesa. La situazione della persona proposta per il
confino era, da questo punto di vista, totalmente paradossale anche
rispetto agli imputati davanti al Tribunale Speciale che
usufruivano, invece, della presenza dell’avvocato difensore.
L’ordinanza emessa dalla Commissione Provinciale per l’assegnazione
al confino veniva poi trasmessa al Ministero dell’Interno per la
designazione del luogo, diverso dalla residenza del confinato
(Art.187 R.D. 06.11.26 n.1848).
Era anche previsto un ricorso, nel termine di 10 giorni dalla
notifica dell’ordinanza, alla Commissione di Appello, istituita
presso il Ministero dell’Interno, composta dal Sottosegretario di
Stato all’Interno, che la convocava e presiedeva, dall’Avvocato
Generale presso la Corte di Appello di Roma, dal Capo della Polizia,
da un Ufficiale Generale dell’Arma dei Reali Carabinieri a da un
Ufficiale Generale della Milizia, designati dai rispettivi comandi
generali. Qualora il confinato si fosse allontanato dal luogo di
confino, sarebbe stato punito con l’arresto da tre mesi a un anno
(art. 193), mentre in caso di buona condotta era prevista la
liberazione condizionale (art. 191).
Il 25 novembre 1926, con la Legge n.2008 (“Provvedimenti per la
Difesa dello Stato”), emanata come legge di emergenza dopo
l’attentato Zaniboni a Mussolini, veniva istituito il Tribunale
Speciale per la Difesa dello Stato, composto da un presidente scelto
tra gli ufficiali dell’esercito, della marina, dell’aeronautica e
della milizia volontaria per la sicurezza nazionale, dalla quale
provenivano altri cinque giudici, ed un relatore scelto tra il
personale della Giustizia Militare (Art.7 L. 2008/1926 e decreti di
attuazione R.D. 12.12.26 n.2062, R.D. 13.03.27 n.313 e R.D. 03.10.29
n.1759).
Il Tribunale, il quale aveva competenza sui reati politici
introdotti dalla nuova normativa e per quelli contro la sicurezza
dello Stato, era, in definitiva, un vero e proprio organo di
giustizia politica che giudicava secondo la procedura penale in
tempo di guerra, con un rito inquisitorio e ridotte garanzia
difensive: una fase istruttoria segreta senza patrocinio
dell’avvocato, una fase predibattimentale con possibile segretazione
degli atti processuali, obbligo del mandato di cattura,
impossibilità della libertà provvisoria, non ricorribilità in
Cassazione per le sentenze, inesistenza di altri mezzi di
impugnazione, ad eccezione della revisione. Quest’ultima, peraltro,
era affidata ad un Consiglio di Revisione composto anch’esso da
membri scelti tra gli ufficiali dell’esercito e della milizia
fascista e presieduto dallo stesso presidente del collegio di primo
grado.
Con il nuovo Testo Unico di Pubblica Sicurezza del 1931 (R.D. 18
giugno 1931 n.773, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n.146 del
26.06.1931) la disciplina delle misure di prevenzione resta
sostanzialmente immutata rispetto al 1926, ma viene resa ancora più
esplicita la possibilità di ammonire gli avversari politici e
destinarli al confino.
Nel luglio del 1931 entra in vigore il nuovo codice penale preparato
da Alfredo Rocco e quello di procedura penale. La contemporanea
riforma carceraria (R.D. 18.06.1931 n.787) porta altresì ad un
notevole inasprimento punitivo. L’apparato legislativo repressivo
del Regime ha ormai assunto una forma definitiva ed il confino è
diventato il migliore strumento per la lotta gli avversari politici.
La genericità delle norme, basate sulla prevalenza dei momenti
soggettivi e sganciate da una concreta pericolosità sociale,
consentirà un controllo del dissenso molto più penetrante del
ricorso ai delitti politici codificati.
Le nuove leggi di P.S. permetteranno, inoltre, un forte collegamento
tra misure custodiali e misure di prevenzione grazie alla
possibilità dell’arresto immediato delle persone proposte per
l’assegnazione al confino ed alla prassi di trattenere in carcere
gli imputati prosciolti del Tribunale Speciale, in attesa della
valutazione, da parte dell’Autorità di P.S., di adottare o no
provvedimenti di Polizia.
Fu proprio il potere di arresto concesso alle Commissioni
Provinciali ad amplificare l’efficacia repressiva del confino. Le
vittime venivano tenute a lungo in carcere prima che il loro destino
fosse deciso. Ugualmente, i prosciolti e assolti per insufficienza
di prove che si trovavano in stato di custodia cautelare spesso
passavano dalla galera fascista direttamente al confino.
Con la nuova misura, dunque, ai vecchi confinati comuni
(delinquenti, prostitute, mafiosi, ecc.) si aggiungono ora tutti
coloro che in qualche modo deviano dal “comune sentire” fascista,
dimostrando, anche solo vagamente, la loro dissonanza con i valori
della Nazione e con i suoi simboli. Antifascisti veri o presunti,
semplici mormoratori, sospetti, tutti incappano nelle maglie di
questa sanzione che, per l’agilità della procedura e l’ampia
discrezionalità di irrogazione, diventa il mezzo più veloce per
eliminare soggetti pericolosi o soltanto fastidiosi. A questi si
aggiungeranno, con l’abbraccio mortale della Germania e l’entrata in
Guerra, gli ebrei, gli zingari, gli irredentisti slavi e tutti i
nuovi oppositori politici.
In realtà il confino verrà utilizzato moltissimo anche per casi
“marginali”, per soggetti cioè tutt’altro che pericolosi, colpevoli
soltanto di aver commesso piccoli gesti di intolleranza, spesso
perpetrati in stato di ubriachezza, nei confronti dei simboli del
Regime. Saranno, infatti, numerosi coloro che verranno giudicati
dalle Commissioni Provinciali soltanto per aver usato parole
irriguardose nei confronti del Governo, per aver “maltrattato” il
ritratto del Duce o per aver raccontato barzellette su Mussolini.
Altre volte si tratterà di soggetti, giudicati sovversivi” soltanto
per aver inneggiato in pubblico al Comunismo ed alla Russia oppure
per aver cantato “bandiera rossa”.
Anche la distinzione tradizionale tra confinati politici e comuni
non sarà mai troppo netta. L’ampia discrezionalità nell’irrogazione
della misura di Polizia porterà spesso ad una confusione di
tipologie, per cui semplici truffatori verranno ritenuti pericolosi
per gli interessi economici dello Stato ed inviati al confino come
“politici”.
Sotto l’implacabile scure del confino passò un numero altissimo di
italiani. Con nomi noti o sconosciuti, dal fior fiore
dell’antifascismo militante fino a semplici sfortunati solo per aver
pronunciato, in un momento d’ira, invettive contro il Duce, tutti
furono prima arrestati e poi inviati in zone dove dovevano perdere
il contatto con il proprio retroterra, affinché fossero messi in
condizioni di non nuocere. Si trattò veramente di una migrazione
interna di vaste proporzioni che aveva come unico obiettivo quello
di ridurre al silenzio quanti si opponevano all’unicità di pensiero
del capo. Una vera e propria “persecuzione di popolo”, dunque, ma,
come ogni persecuzione, essa fu anche la culla, per coloro che
continuarono a tenere duro, nella quale crebbe il senso della
democrazia e della tolleranza.
IL FASCISMO DI MUSSOLINI
Autore: Giuseppe Di Summa
Sommario
Capitolo 1 “I fuochi d’artificio“
Capitolo 2 “Fuori il palo e fuori la corda“
Capitolo 3 “La filosofia dei tempi“
Capitolo 4 “Un tratto di fine arte politica“
Capitolo 5 “Vincere e vinceremo!“
Capitolo 6 “Credere, obbedire, combattere“
Capitolo 7 “Capitolazione o resistenza?“
Capitolo 8 “L’impossibilità di continuare“
Capitolo 9 “Mirate al cuore“.
I fuochi d'artificio
In un caldo pomeriggio del 29 luglio 1883, alle due di pomeriggio,
nasce a Dovia, piccola frazione di Predappio, Benito Mussolini.
Questo paesino in pieno Appennino non distante da Forlì rimane
famoso per avere dato i natali ad uno dei protagonisti indiscussi
della vita italiana della prima metà del novecento.
Come molti giovani contestatori trovò casa nel socialismo anche se
di stampo “rivoluzionario“ e sin da giovane si distanziò dalla linea
moderata del partito negando legittimità all’istituzione
parlamentare ed esaltando la rivoluzione.
Qualche anno dopo passata la giovinezza affermerà: “Ho sempre
sputacchiato il buon senso dai greci la pazzia era ritenuta
d’origine divina, e le rivoluzioni sono le rivincite della follia
sul buon senso“.
Anche da socialista comincia a manifestare tendenze ad un suo
movimento autonomo con idee che vedono proporsi la creazione di
nuovi simboli che esaltino un tempo vissuto nella povertà
nell’avvicinarsi di una prossima futura prima guerra mondiale.
Inizia a prendere nette posizioni antimilitaristiche e si allarga
anche con intemperanze giovanili in forti affermazioni di carattere
ateo definendo Dio come “Un mostruoso parto dell’ignoranza umana“.
Nell’autunno del 1904 fu espulso dalla Svizzera perché renitente
alla leva. Il suo ritorno in Italia evitando problemi con la legge
fu possibile solo grazie ad una amnistia per festeggiare la nascita
del principe ereditario Umberto di Savoia.
Al rientro fu comunque costretto a sostenere il servizio militare.
Mentre era sotto le armi le sue convinzioni antimilitaristiche si
placarono e cominciò a farsi anche delle simpatie.
Dopo la leva sembrò lasciarsi tutto alle spalle e ritornò ad essere
quello che era prima.
Nel febbraio 1909 fu a Trento dove gli fu affidata la direzione del
Giornale “L’Avvenire del Lavoratore“ e la segreteria della Camera
del Lavoro.
Risvegliò il giornale col suo dinamismo tanto che Cesare Battisti lo
volle come redattore capo al “Popolo“.
In Trentino nella sua breve permanenza ebbe diversi scontri con
Alcide De Gasperi giovane leader dei cattolici definendolo con tutta
la sua arroganza del tempo in vari modi tipo “pennivendolo“, “uomo
senza coraggio“, “intellettivamente stitico“. De Gasperi non gli
riservò molto tranne un chiaro “Cannibale Antireligioso“.
Dal Trentino si spostò a Forlì dove nel 1910 diventò segretario
della locale Federazione Socialista con posizioni sempre
antimilitaristiche anche nei confronti della guerra di Libia
definita con sue parole “la nuova avventura africanista“.
Questo fu un momento di consensi tanto che George Sorel di lui
disse: “è un condottiero del XV secolo un giorno lo vedrete alla
testa di un battaglione sacro“.
In breve tempo portò la tiratura del giornale socialista Avanti! da
28 mila a 100 mila copie.
Nel 1913 si presentò alle elezioni politiche nel collegio di Forlì e
ne uscì sconfitto.
Si rifece l’anno dopo venendo eletto consigliere comunale a Milano.
Ormai si avvicinava il primo conflitto mondiale ( 1915-1918 ) è la
posizione del nostro Governo fu come tutti sanno dapprima
neutralista e su queste posizioni si mantenne anche Mussolini
scrivendo anche un articolo dal titolo “Abbasso la Guerra!“ e iniziò
dopo alcune riserve una neutralità attiva ed operante.
La sua posizione era comunque destinata a cambiare e senza grandi
indugi passo lentamente ma con costanza ad essere favorevole ad un
intervento nel conflitto che lo costrinsero ad abbandonare la
direzione del giornale socialista.
Il partito mal sopportava le sue posizioni e dopo avere fondato un
nuovo giornale "Il Popolo D'Italia" abbandonò le file prendendosi
anche i complimenti di uno come Prezzolini che gli scrisse via
telegramma “Partito Socialista ti espelle Italia ti accoglie“.
Gli interventisti riuscirono nel loro intento e Salandra il 24
Maggio 1915 proclamò guerra all’Austria.
Quando la nostra nazione entrò nel conflitto la guerra vedeva
Austria e Germania vincenti.
Nel 1917 col ritiro della Russia tutto sembrava perduto tanto è vero
che gli Austro-ungarici riuscirono ad entrare in Italia vincendo la
battaglia di Caporetto.
La situazione fu salvata dall’intervento degli americani e l’Italia
si riscattò sconfiggendo definitivamente gli austro-ungarici nella
battaglia di Vittorio Veneto.
Nel Novembre 1918, Austria, Ungheria, Germania, Bulgaria ed, impero
ottomano furono costretti alla resa. La conferenza di Versailles
segnò una serie di umiliazioni per il nostro capo del governo
Orlando da far definire da D’Annunzio la vittoria “mutilata“.
Orlando fu sfiduciato dalle Camere e dovette cedere il posto a
Nitti.
Dopo la prima guerra mondiale il potere politico andava dalla parte
dei lavoratori che dopo avere combattuto non erano più disposti ad
essere sfruttati e si vedevano come i protagonisti della scena
politica, volevano contare di più.
Le rivendicazioni della classe proletaria si possono evincere dalle
dichiarazioni programmatiche del partito socialista nel 1918.
1- socializzazione dei mezzi della produzione
2- distribuzione dei prodotti fatta esclusivamente dalla
collettività
3- abolizione della coscrizione militare e disarmo universale, in
seguito alla unione di tutte le repubbliche proletari
internazionali.
La posizione di Mussolini in questo momento insieme ai suoi primi
collaboratori è quella di un esasperato patriottismo di tipo
nazionalistico manifestato in maniera confusa in diversi settori
(sindacale, giornalistico, politico). Questa confusione portò
comunque alla costituzione dei Fasci di combattimento creati nel
1919 che ebbero scarsa incidenza nella vita politica visto che
cercarono uno scontro forzoso con i movimenti operai cattolici e
socialisti.
I Fasci animarono diversi scontri anche danneggiando sedi e persone
che Mussolini motivò in questa maniera: “Il popolo lavoratore avrà
il buon senso e la forza di non lasciarsi traviare da coloro i quali
mirano a trascinarli alla rovina Viva l’Italia! La nostra patria
forte in pace come lo fu in guerra.“
Per i fascisti questi scontri erano giustificati dallo eccessivo uso
degli scioperi Carlo Dalcroix scriveva a proposito (Un uomo un
popolo) “lo sciopero era diventato una malattia epidemica ed aveva
assunto forme croniche e deliranti. Senza vera necessità, spesso con
un pretesto, si abbandonavano le fucine ed i campi, trascendendo ad
atti vandalici, si facevano spegnere le fornaci; si danneggiavano
gli impianti, si lasciavano morire le messi nei solchi, si faceva
morire il bestiame nelle stalle. Si videro gli infermieri
abbandonare i malati e perfino i becchini rifiutarsi di seppellire i
morti; si ebbe anche un comizio di protesta degli accattoni per
l’aumento delle elemosine. Salariati ed impiegati di stato davano
esempio ed i servizi più vitali erano sottoposti ad un’alternativa
di ostruzionismo e di scioperi, le navi ferme nei porti, i treni
abbandonati nelle stazioni le città al buio, le folle minacciose e
le truppe accampate via; fu questo uno spettacolo durato per anni.“
Dalcroix esasperava da vero sostenitore una situazione in maniera
enfatica e polemica ma queste erano in quel periodo le idee di
Propaganda di Benito Mussolini.
Nel 1921 Mussolini affermò: “Il movimento operaio deve assumere
nuove forme diverse da quelle vecchie e superate del partito
socialista : il fascismo sarà la sintesi tra le tesi indistruttibili
dell’economia liberale e queste nuove forme del movimento operaio“.
In questo periodo il fascismo inizia a diffondersi soprattutto nelle
città dell’Italia Settentrionale e Centrale arrivando ai 310.000
iscritti.
La crisi dei sindacati e del movimento socialista, la delusione e lo
smarrimento che ormai serpeggiavano nelle masse fecero intravedere
la possibilità di una soluzione autoritaria.
La classe politica italiana era disposta ad accettare la rivoluzione
fascista dello stato.
Comuni in molti uomini politici era la convinzione che il fascismo
per il suo carattere più emotivo che politico, avesse avuto vita
breve Giolitti infatti no dava molta importanza ai fasci e di
Mussolini diceva “Sono fuochi d’artificio che fanno molto rumore ma
poi si spengono rapidamente“.
Nell’attesa che si spegnessero li si poteva utilizzare. Anche
Mussolini sapeva che il suo movimento non godeva d9i grande forza e
che vi era il bisogno di dare ai fasci una facciata più rispettabile
depurandoli dagli elementi estremisti.
Condusse nel 1921 all’interno del Partito una vittoriosa battaglia
contro le correnti di sinistra e si guadagnò la fiducia degli
industriali con un programma economico liberista e fece un passo
avanti verso la chiesa. Pio XI , eletto nel ’22 non darà l’appoggio
della chiesa ai popolari di Don Sturzo contribuendo alla vittoria
definitiva del fascismo. Il fascismo si rendeva agli occhi
dell’opinione pubblica più rispettabile e molti uomini politici del
vecchio stato liberale o gettarono la spugna o passarono dalla parte
fascista.
Fuori il palo e fuori la corda
Il partito fascista riusciva ad entrare in Parlamento grazie alle
elezioni del 1921 anche se con una rappresentanza tale da non potere
determinare gli indirizzi politici.
Le forze maggiori erano il partito socialista e il partito popolare.
Ma nel clima politico italiano l’unica novità erano Mussolini e i
suoi. Il parlamento non dava segnali di attività; i popolari si
videro negare l’appoggio del Vaticano e nel gruppo socialista vi
furono grosse divisioni.
Non potendo contare su grandi numeri Mussolini era più invogliato ad
utilizzare le folle e nei suoi discorsi iniziò a ricattare
apertamente la monarchia; era pronto a guidare un’insurrezione
popolare e dalle parole passò ai fatti con una iniziativa che prese
il nome di marcia su Roma.
La marcia su Roma fu sicuramente un azione che non richiese grande
sforzo bellico e prese il via il 24 ottobre 1922.
L’appuntamento era a Napoli perché proprio in quella città era già
da tempo in programma la riunione del consiglio nazionale del
partito fascista.
Quando Mussolini arrivò la città era piena di camicie nere ve ne
erano circa 60 mila.
Il duce impartì le sue direttive : le squadre dovevano essere pronte
per il 26. Il 27 sarebbe iniziata la mobilitazione. Dopo avere
impartito i suoi ordini ripartì per Milano. Due gerarchi De Vecchi e
Costanzo Ciano si recarono da Salandra e reclamarono le dimissioni
del presidente del Consiglio Luigi Facta , gli venne risposto di no,
esso era convinto che Mussolini bluffasse. La mattina del 28 il
presidente del consiglio venne svegliato da un fascio di telegrammi
in cui i prefetti segnalavano che i fascisti erano già in marcia.
Facta convocò il consiglio dei ministri che decise di proclamare lo
stato d’assedio. La sorpresa per Facta, che non avrebbe mai potuto
prevederla , fu che il re si rifiutò di fermare il decreto.
“Queste decisioni– disse - spettano a me………..dopo lo stato d’assedio
non c’è la guerra civile…….”
Facta fu così costretto a rassegnare le dimissioni . In un primo
momento il re pensò di affidare al Governo a Salandra ma informato
telefonicamente Musssolini commentò “non ho fatto quello che ho
fatto per provocare la resurrezione di Don Antonio Salandra”
Il re dunque aveva a disposizione un solo nome quello di Mussolini e
proprio a capo dei fascisti affidò al nuovo Governo.
La marcia delle camicie nere avvenne ma il suo valore fu simbolico
il risultato prefisso era stato ottenuto senza sforzo militare era
bastata la minaccia. Il duce arrivò a Roma il 30 Ottobre e dopo
avere deposto il suo bagaglio in albergo si presentò in camicia nera
al quirinale: “maestà – disse- vi porto l’Italia di Vittorio Veneto“
Formò un Governo composto, oltre che da fascisti da nazionalisti, da
liberali.
Il duce tenne per sé i dicasteri degli esteri e degli interni.
Mussolini si presentò il 16 novembre alle camere per ottenere la
fiducia. Nel suo primo discorso, al Parlamento, affermava con
tranquillità: “Le libertà statutarie non saranno vulnerate e la
legge sarà fatta rispettare a qualunque costo“.
Vi furono in quel discorso alcuni passi ormai diventati cavalli di
battaglia antifascista:
"Io affermo che la rivoluzione ha i suoi diritti………sono qui per
difendere e potenziare al massimo grado , la rivoluzione delle
camicie nere , inserendola intimamente come forza di sviluppo di
progresso e di equilibrio nella storia della nazione. Mi sono
rifiutato di stravincere e potevo stravincere . Mi sono imposto dei
limiti; mi sono detto che la migliore saggezza è quella che non si
abbandona dopo la vittoria. Con trecentomila giovani armati di tutto
punto decisi a tutto e quasi misticamente pronti ad un mio ordine io
potevo castigare tutti coloro che hanno diffamato e tentato di
infangare il fascismo. Potevo fare di questa aula sorda e grigia un
bivacco di manipoli“.
Ad un interruzione di Modigliani che disse “Viva il Parlamento!“
Mussolini rispose: “Potevo sprangare il Parlamento e costituire un
Governo di soli fascisti“.
Il Governo otteneva 306 si e 116 no.
Durante i primi mesi di Governo prevalse il Mussolini legalitario.
La prima impronta del regime si ebbe nel 1923 con l’istituzione di
due nuovi organi : la milizia fascista e il gran consiglio del
fascismo. La prima era il riconoscimento legale delle squadre
d’azione; il secondo era il massimo organo del partito fascista.
Nell’Aprile, sempre più privi dell’appoggio della chiesa, i popolari
abbandonarono il Governo.
I successivi mesi portarono l’Italia verso la dittatura. Dittatura
che Mussolini realizzò tramite la legge Acerbo che fu la risposta
alla possibilità di essere tolto di mezzo dopo l’omicidio Matteotti.
La legge Acerbo aveva il compito di agevolare la creazione di un
partito unico (quello fascista naturalmente). La commissione che si
occupò di questa legge era composta da: Giolitti ( presidente ),
Orlando , Salandra, Bonomi, De Gasperi, Turati e una nutrita
rappresentanza di deputati fascisti.
Il regime sentì il bisogno di questa legge perché pur essendo di
fatto padrone del paese aveva alla Camera una rappresentanza assai
inferiore dei consensi conquistati era dunque ovvio che il duce
mirasse a sciogliere anticipatamente la camera ed a indire nuove
elezioni. In questa prospettiva, il Governo, fra il luglio e il
novembre 1923, fece approvare dalla Camera e dal Senato la nuova
legge elettorale , detta appunto Acerbo dal nome del proponente, che
prevedeva un larghissimo premio maggioranza (2/3 dei seggi) per la
lista che avrebbe raggiunto la maggioranza relativa dei consensi.
Se nessuna lista avrebbe raggiunto il livello prescritto le elezioni
si sarebbero ripetute con il sistema proporzionale.
Non è tanto la bontà della legge ma il periodo in cui fu approvata a
farcene vedere il mezzo per consentire a Mussolini la dittatura.
Dittatura non instaurata tramite la forza militare , anche se un
contributo lo diede anche quest’ultima , ma tramite un’azione
politica agevolata dalla mancanza di pesi a difesa della democrazia.
Nel gennaio 1924 la camera fu sciolta e le elezioni vennero indette
per il 6 aprile.
Nel “listone“ fascista entrarono uomini come Salandra, De Nicola,
Vittorio Emanuele Orlando.
Ai fascisti si contrapponevano i socialisti del P.S.I e del P.S.U, i
comunisti, i popolari, i liberali democratici, i repubblicani e
altri gruppi minori, uno dei quali capeggiato da Giolitti.
Non fu una campagna elettorale, come era prevedile dal clima
instauratosi nel paese, tranquilla e vi furono numerosi scontri ed
accuse di intimidazione.
I risultati finali furono favorevoli ai fascisti che ottennero più
del 60% dei voti.
Il clima si fece sempre più rovente ed in Parlamento il deputato
socialista Giacomo Matteotti elencò le violenze dei fascisti nel
periodo preelettorale; l’uccisione del candidato del P.S.I Antonio
Piccinni, i bandi imposti ai candidati dell’opposizione, le urne
affidate in custodia alla milizia fascista.
Questo discorso tenuto il 20 maggio 1924 provocò violente reazioni
nelle file fasciste tanto che il 10 giugno Matteotti fu aggredito a
Roma, da quattro squadristi, rapito in automobile e trucidato.
Il suo cadavere fu ritrovato solo il 16 Agosto. Mussolini cercò di
controllare l’emozione nel paese facendo arrestare gli esecutori
materiali del delitto : Dumini, Volpi , Poveromo , questi i loro
nomi.
Nel processo iniziato solo nel marzo 1926 i tre sicari furono
condannati a solo 6 anni di carcere. Ma presto furono scarcerati
grazie ad un amnistia nel 1947 il processo subì una revisione e gli
assassini furono condannati al carcere a vita. L’onda emotiva che
attraversò il paese fu fortissima e in quel momento il duce avrebbe
potuto perdere tutto. Gramsci in sua lettera descrive così quei
giorni:
“Ho vissuto giornate indimenticabili e continuo a viverle. Dai
giornali è impossibile farsi una impressione esatta di ciò che sta
avvenendo in Italia. Camminavamo sopra un vulcano in ebolizione; di
colpo, quando nessuno se l’aspettava, specialmente i fascisti
arcisicuri del proprio potere infinito, il vulcano è scoppiato,
sprigionando una immensa fiumana di lava ardente che ha invaso tutto
il paese, travolgendo tutto e tutti del fascismo. Gli avvenimenti si
sviluppano con una rapidità fulminea, inaudita ; di giorno in giorno
, di ora in ora la situazione cambiava, il regime era investito da
tutte le parti, il fascismo veniva isolato nel paese e sentiva il
suo isolamento nel panico dei suoi capi, nella fuga dei suoi
gregari“.
Il Governo fu duramente attaccato alla Camera dove tutte le
opposizioni, tranne i comunisti, abbandonarono il Parlamento in
segno di protesta.
Questa ritirata fu detta dell’Aventino e s’ispirava all’ipotesi che
travolto dalla squalifica morale e magari per l’intervento del re,
il Governo dovesse dimettersi. Mussolini doveva in quel momento
decidere se sfidare l’opposizione o abbandonare il campo. Aiutato da
Vittorio Emanuele III che gli confermò la fiducia il duce decise di
sfidare i partiti. Rispose alle opposizioni ritirate sull’Aventino
nel gennaio 1925 con un discorso in Parlamento dai più definito “Il
Battesimo della dittatura mussoliniana“. Il duce nel suo discorso
riassunse l’azione del Governo in campo economico e nella politica
internazionale. Mettendo l’accento sull’annessione di Fiume dalla
Jugoslavia si dichiarò amareggiato che nessuna forza politica
volesse partecipare al bagno di giovinezza che aveva rinvigorito
l’Italia. Perché tanta ostilità? Perché negare legittimità ad un
partito che aveva milioni di consensi? Secondo Mussolini la regola
parlamentare era stata rispettata anche se taluni residui di
violenza e di illegalità resistevano, ma questo non poteva bastare a
mettere sotto accusa un’intera classe dirigente, ecco alcuni passi
del suo discorso nel quale praticamente Mussolini si assume la
responsabilità del delitto Matteotti.
“Ebbene, dichiarò qui, al cospetto di questa assemblea e al cospetto
di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la
responsabilità politica, morale e storica di quanto è avvenuto. Se
le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori
il palo e fuori la corda.
Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non
invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me
la colpa! Se il fascismo è stato una associazione a delinquere io
sono il capo di questa associazione a delinquere. Se tutte le
violenze sono state il risultato di un determinato clima politico e
morale.
Ebbene a me la responsabilità di questo clima storico politico e
morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento ad
oggi. Io ho voluto deliberatamente che le cose giungessero a quel
determinato punto estremo e ricco della mia esperienza di vita in
questi sei mesi ho foggiato il partito (……)
Voi avete creduto che il fascismo fosse finito perché io lo
castigavo e poi avevo la crudeltà di dirlo. Ma se io mettessi la
centesima parte dell’energia che ho messo a comprimerlo, a
scatenarlo, voi vedreste allora. Non ci sarà bisogno di questo
perché il Governo è abbastanza forte per stroncare in pieno
definitivamente la sedizione dell’Aventino.
L’Italia o Signori vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la
calma laboriosa, gliela daremo con l’amore, se è possibile, e con la
forza, se sarà necessario. State certi che nelle quarantotto ore
successive a questo mio discorso, la situazione sarà chiarita su
tutta l’area.“
Non passarano infatti più di quarantott'ore perché le sedute della
Camera fossero sospese. Nello stesso arco di tempo ai prefetti fu
ordinato di provvedere allo “scioglimento di tutte le organizzazioni
che sotto qualsiasi pretesto possono raccogliere elementi turbolenti
o che comunque tendano a sovvertire; i poteri dello Stato“.
I partiti in pratica venivano chiusi. Mussolini che aveva già la
maggioranza in Parlamento era riuscito a trovare il modo di fare
tacere le opposizioni. Il discorso del Gennaio del ’25 dava inizio
alla dittatura e di conseguenza tutti i settori vitali dello stato,
giustizia, economia, cultura furono interessati dalla nuova
organizzazione voluta dal regime.
La filosofia dei tempi
Nel corso del ’25 e sino alla fine del ’26 furono varate le
cosiddette “leggi fascistissime“ opera di una coppia di ex
nazionalisti: Luigi Federzoni, Ministro dell’Interno ed il giurista
Rocco, Ministro Guardasiggilli.
La stampa italiana aveva visto la nascita dell’Unità (12 febbraio
1924) ad opera di Antonio Gramsci che sulla rivista Ordine Nuovo
scriveva di Mussolini “Conosciamo quel viso: conosciamo quel roteare
degli occhi nelle orbite che nel passato dovevano, con la loro
feroce meccanica, fare venire i vermi alla borghesia e oggi al
proletariato. Conosciamo quel pugno sempre chiuso alla minaccia.
Conosciamo tutto questo armamentario e comprendiamo che esso possa
impressionare e muovere i precordi alla gioventù delle scuole
borghesi: esso è veramente impressionante anche visto da vicino fa
stupire: Ma egli è il capo? Il tipo concretato del piccolo borghese
italiano, rabbioso, feroce, impastato di tutti i detriti lasciati
dal suolo nazionale da vari secoli di dominazione degli stranieri e
dei preti: non poteva diventare il capo del proletariato, divenne il
dittatore della borghesia, che ama le facce feroci quando ridiventa
borbonica, che spera di vedere nella classe operaia lo stesso
terrore che esso sentiva per quel roteare degli occhi e quel pugno
chiuso teso alla minaccia“.
A seguito degli avvenimenti del ’25 anche questo tipo di stampa
poteva essere un elemento turbolento teso a sovvertire i poteri
dello stato e dunque nello stesso anno la libertà di stampa venne
soppressa. La giustizia, che doveva occuparsi non solo dei normali
reati ma anche di quelli politici, fu interessata da una serie di
provvedimenti che andarono dall’introduzione della pena di morte
alla istituzione del “Tribunale speciale per la difesa dello Stato“.
Con questo organismo si aboliva la tradizione liberale e democratica
che aveva affermato il principio della libertà d’opinione, il regime
fascista riprendeva modelli inquisitoriali per colpire la
“cospirazione“.
Durante tutta la sua attività che durò dal ’26 alla caduta di
Mussolini, il tribunale speciale emise 2319 sentenza (tra di esse 42
condanne a morte). Le sue vittime furono uomini appartenenti per lo
più alle classi subalterne del centro–nord.
Diverse furono le personalità che incapparono nel tribunale.
Riportiamo una sentenza del ’29 che riguarda il futuro Presidente
della Repubblica Sandro Pertini:
Processo a carico di Pertini Alessandro
Avvocato socialista unitario
Già condannato e poi amnistiato nel ’25 per incitamento all’odio di
classe.
Già assegnato al confine di polizia nel 1926, espatriò con Filippo
Turati il 12.12.26 in Francia dove svolse, con scritti e conferenze,
attività e propaganda sovversiva ed antifascista.
Nell’ottobre 1928 impiantò persino in Nizza una stazione radio
telegrafica con al quale riuscì a propagare false notizie ai danni
dell’Italia.
In occasione del procedimento penale che per tale fatto subì in
Francia cercò di trasformare il dibattimento in comizio
antifascista.
Chiamando a testimoni del “barbaro dominio“ i più noti fuoriusciti.
Nel marzo u.s si allontanò dalla Francia ed attraversò la Svizzera
con passaporto falso, rientrò in Italia.
Venne riconosciuto ed arrestato a Pisa il 14 aprile.
Antifascista fegatoso e spavaldo in udienza ha ammesso ai fatti e
dopo la sentenza ha gridato “Viva il Socialismo“.
Condannato a dieci anni e nove mesi di reclusione.
I nostri diplomatici all’estero ricevettero da Mussolini in persona
l’ordine di togliere a Nitti la cittadinanza italiana. Nitti era in
quel periodo il simbolo dei fuoriusciti (successivamente gli altri
fuoriusciti si vedranno levare cittadinanza e beni) ed era sempre
stato seguito con una attenzione del duce. Tutto questo avveniva nel
giugno del ’25.
Qualche settimana dopo vennero uccisi due fieri oppositori del
regime Amendola e Gobetti.
Dopo il ’25 anche l’atteggiamento dei fascisti, verso i comunisti,
subì un cambiamento. In un primo momento il duce li aveva esaltati
come il “pericolo bolscevico“ tanto temuto dalla borghesia italiana,
successivamente però con la nuova situazione creatasi con l’aventino
anche l’opposizione comunista venne soppressa.
Ad accorgersi del nuovo orientamento fu Antonio Gramsci che l’8
settembre 1926 venne trasportato in manette a Regina Coeli. Ecco
come descrive quei giorni: “Arrestato l’8 di sera alle 10 e 30 e
condotto immediatamente in carcere, sono partito da Roma il mattino
prestissimo del 25 novembre. La permanenza a Regina Coeli è stato il
periodo più brutto della detenzione: 16 giorni di isolamento
assoluto in cella, disciplina rigorosissima”.
Trasferito a Milano nel carcere di San Vittore deve aspettare che
l’istruttoria del processo sia ultimata.
Il dibattimento dura dieci giorni e al Presidente che gli dice:
“Siete imputato di attività cospirativa, di istigazione alla guerra
civile, di apologia di reato e di incitamento all’odio di classe“,
Gramsci risponde: “Sono comunista e la mia attività politica è nota
per averla esplicata pubblicamente come deputato e come scrittore
dell’Unità. Non ho svolto attività clandestina di sorta perché ove
avessi voluto, questo mi sarebbe stato impossibile. Già da anni ho
sempre avuto vicino sei agenti, con il compito dichiarato di
accompagnarmi fuori o di sostare in casa mia. Non fui, così, mai
lasciato solo; e, con il pretesto della protezione, fu esercitata
nei miei confronti una sorveglianza che diviene oggi la mia migliore
difesa (……..)Se d’altronde l’essere comunista importa responsabilità
l’accetto“.
Il risultato del processo fu la condanna a venti anni da scontare a
Portolongone ma una visita medica accertò che il detenuto era
affetto da uricemia cronica e lieve esaurimento nervoso e quindi per
scontare la pena (che durò sino al 24 aprile 1937) venne scelta la
casa penale speciale di Turi di Bari.
Assieme a Gramsci vennero condannati quasi tutti i dirigenti di
primo piano del P.C.I. tra cui Terracini, Scoccimarro, Roveda,
Riboldi.
La nuova legislazione si occupò anche: della soppressione della
massoneria; di concedere al governo amplissime facoltà di emanare
decreti di legge; di riformare i codici; di fascistizzare la
burocrazia e di sopprimere ogni autonomia delle amministrazioni
comunali. Iniziarono a nascere in questo periodo i movimenti
organizzati dei fuoriusciti.
La prima organizzazione antifascista nacque attorno a Bruno Buozzi,
il quale ricostruì, in esilio la rappresentanza del movimento
sindacale italiano. Intorno a lui si riunirono il deputato
socialista Felice Quaglino, Pallante, Rugginenti, Giuseppe Bensi,
Giuseppe Sardelli, i quali erano stati investiti in Italia della
rappresentanza del movimento sindacale. Buozzi iniziò le
pubblicazioni del giornale “L’operaio Italiano“, organo della
Confederazione Generale del Lavoro.
All’estero oltre a Buozzi vi furono Luigi Campolonghi e Alceste De
Ambris che formarono la “concentrazione antifascista“. De Ambris era
stato uno dei fascisti della prima ora, lasciò il movimento e si
spostò in Francia dove poco dopo, iniziò la sua attività
antifascista. Secondo Campolonghi la concentrazione avrebbe dovuto
raccogliere maggiori adesioni individuali fra gli iscritti ai vari
partiti di sinistra. Ci fu una contropoposta di Modigliani che
voleva una intesa fra gruppi e partiti sufficientemente affini (era
lo schema dei futuri comitati di liberazione). Alla concentrazione
aderirono le due fazioni socialiste (la massimalista e la
socialdemocratica), il partito repubblicano, la lega dei diritti
dell’uomo e la confederazione del lavoro di Buozzi. Non aderirono i
comunisti che volevano continuare con i loro piani insurrezionali .
Le prime iniziative furono la pubblicazione di un settimanale, “La
libertà“ il cui direttore fu Carlo Treves. Il primo numero uscì il
1° maggio 1927, con un articolo di Turati intitolato “Il primo
maggio dei vinti“.
Questo settimanale si poneva naturalmente in una posizione di
critica verso il regime. La concentrazione rimase unità finchè
Treves fu direttore della “Libertà“. Quando se ne andò nel 1933 essa
si sciolse.
Dopo l’esperienza della “Libertà“ Facchinetti e Pacciardi fondarono
la “Voce Repubblicana“; la confederazione del lavoro si limitò a
spingere gli operai verso la organizzazione sindacale francese.
Buozzi fece uscire “L’operaio Italiano“ nel 1934. Iniziarono poco
dopo le pubblicazioni di un settimanale “Giustizia e Libertà“
diretto fino a quando fu assassinato dai fascisti da Rosselli.
È accertato un collegamento dei fuoriusciti con l’internazionale
socialista probabilmente alcuni di essi volevano un rovesciamento
del regime fascista e l’instaurazione di una repubblica bolscevica.
Per controllare la cospirazione contro il regime venne costituita e
affidata alla direzione del Prefetto Bocchini l’OVRA (Organizzazione
Vigilanza Reati Antifascisti). Questa organizzazione iniziò la sua
attività partendo da Milano ma successivamente di diffuse su tutto
il territorio nazionale. Ciascuna zona aveva i suoi informatori
sconosciuti anche agli ispettori centrali.
In seguito ad un attrito fra Bocchini e l’allora segretario del
partito Starace quest’ultimo creò una propria polizia politica
l’UPI.
Chi veniva denunciato veniva mandato via dall’Italia anche se era
sempre Mussolini a dire l’ultima parola.
L’opera di riorganizzazione non si fermava qui. Al fascismo
bisognava dare una ideologia. Seguaci del regime fascista furono nel
mondo culturale i futuristi (in prima fila Marinetti) i Dannunziani
e tutti gli intellettuali nazionalisti.
Nel 1925 non furono certo pochi gli scrittori che firmarono “il
manifesto degli intellettuali fascisti“ redatto da Giovanni Gentile.
Assieme al Croce il Gentile collaborò alla “critica“ spinto dalla
convinzione che il filosofo non potesse isolarsi ma dovesse
partecipare e in prima persona alla vita politica della nazione.
Lo stato corporativistico, secondo Gentile, trionfava su quello
liberale. Lo stato ora doveva essere inteso come centro degli
interessi della collettività. C’è da sottolineare che Gentile non fu
sempre in sintonia con il regime ed intervenne per censurarne alcune
esagerazioni.
Nel mondo culturale del tempo si muovevano altre due figure di
grandissimo spessore Giuseppe Prezzolini e Benedetto Croce.
Prezzolini fondò nel 1908 “La Voce“ con l’intenzione di combattere
la cultura del positivismo e di diffondere il pensiero e la
sensibilità intuzionistica e idealistica e fu in un certo modo
vicino al fascismo anche se in una lettera al direttore del Corriere
della Sera, il 18 Giugno 1981 Prezzolini scrive:
“Non ho mai avuto alcun incarico da un’organizzazione fascista, non
ho mai avuto nemmeno un biglietto di tranvai gratis dal fascismo
(….), quanto ai miei auguri a Mussolini nel 1922, dopo la marcia su
Roma, chi non glieli faceva? Ma i miei auguri furono chiariti quando
pubblicai presso l’israelita Formiggini e per sua richiesta la forse
prima biografia di Mussolini nel 1924 che terminava: “tocca al paese
offrirgli gli uomini per un compito superiore quale sarà il ritorno
alla vita dei paesi più progrediti, civili e legali“. Per mia
richiesta alla biografia di Mussolini fece seguito una biografia di
Giovanni Amendola che terminava: “Giovanni Amendola ha affrontato
con serietà , tenacia e coraggio – fino al rischio della vita –
l’impopolarità dei compatrioti e l’ostilità del partito avversario.
Queste profonde qualità gli avrebbero valso soltanto la stima di una
minoranza di italiani e non quella simpatia più vasta che gli è
stata regalata dalla persecuzione fascista“.
Il Croce partecipò attivamente alla vita politica come Senatore e
Ministro e per alcuni anni manifestò simpatia e comprensione per il
movimento, simpatia e comprensione al liberalismo. Votò a favore del
Governo fascista e conservò fiducia in esso anche dopo l’omicidio
Matteotti.
Le leggi eccezzionali del 1925 e la politica culturale del regime
spinsero Croce alla opposizione e alla stesura di una “Protesta“
contro il “Manifesto“ degli intellettuali fascisti, la quale fu
pubblicata il 1 maggio 1925 e raccolse ampi consensi.
Dopo tale presa di posizione il Croce mantenne un fermo
atteggiamento di condanna del regime, che fu costretto a concedergli
un certo margine di libertà anche per la notorietà internazionale da
lui raggiunta, in un'opera del 1940 “il carattere della filosofia
moderna“, il Croce scriveva:
“Senza dubbio, vi sono tempi nei quali tra la vita pratica, sociale
e politica si osserva una sorta di rispondenza (…….) tempi
singolarmente felici nei quali un medesimo fervore morale genera
quasi gemelli i modi della filosofia e i modi della vita. Ma c’è ne
sono altri, travagliati e dolorosi nei quali il pensatore stà
solitario e con poca compagnia (…) guai al filosofo se egli per
isfuggire la solitudine e per altri assai meno nobili sentimenti si
piega e adegua la sua filosofia alla “filosofia dei tempi“ e in
qualche modo la seconda! Che per contrario, allora tanto più stretto
e più urgente è il dovere suo di rammentare agli uomini mercè dei
concetti speculativi e dei giudizi storici quella che è la vera e
compiuta umanità tanto più che egli deve essere allora rigido verso
gli altri e verso se stesso , perché, se il sale si insipido chi
potrà mai salarlo? il suo regno è ben di questo mondo, ma non già
dell’istante che passa.“
Un tratto di fine arte politica
Prima la giustizia , poi la cultura , ora bisognava occuparsi dei
rapporti con la chiesa , dell’economia e della politica estera ed il
duce non si tirò indietro.
Un successo di Mussolini fu il ripristino dei rapporti con la Santa
Sede che si erano incrinati dal 1870 quando l’unità era stata
ottenuta sacrificando lo Stato Pontificio.
La politica dello stato liberale fu una politica laica di netta
separazione dei rapporti tra stato e chiesa. Mussolini non aveva
pregiudizi liberali capiva che era fondamentale avere la chiesa
dallapropria parte.
Per fare un’accordo bisognava essere almeno in due e alla volontà di
Mussolini si associò quella del Pontefice che nel fascismo vedeva
l’antagonista del comunismo ateo.
I primi contatti iniziarono nel 1926 e vennero portati a buon fine
l’11 Febbraio 1929 con la firma tra Mussolini e il Cardinale Pietro
Gasparri.
Vennero stipulati tre atti diplomatici; un trattato che sanciva
l’accordo intervenuto fra l’Italia e la Santa Sede costituita in
Città del Vaticano; un concordato che riconosceva alla chiesa
determinati privilegi sulle altre confessioni e religioni, una
convenzione finanziaria in forza della quale lo Stato Italiano si
impegnava a pagare una somma determinata alla Santa Sede.
Qui riportiamo una parte del discorso in Parlamento di Benedetto
Croce, laico per eccellenza, con il quale il filosofo motivò il suo
voto contrario al concordato “Al nostro rifiuto taluni obiettano che
quel che si è eseguito mercè il concordato sia un tratto di fine
arte politica, da giudicare, non secondo le ingenue idealità etiche
, ma come politica, giusto il trito detto che Parigi val bene una
messa, né io nego la mia ammirazione all’arte politica, né ignoro
che quel trito detto si suole attribuire, leggendariamente, a un
grand’uomo, a un eroe della storia della Francia (Enrico IV), del
quale si credette così di interpretare il riposto pensiero;
quantunque forse gli si fece torto, perché sta di fatto che egli non
pronunciò mai quelle parole. Come che sia, accanto o di fronte agli
uomini che stimano Parigi val bene una messa è una cosa che vale
infinitamente più di Parigi perché è affare di coscienza. Guai alla
società, alla storia umana, se uomini che così diversamente sentono,
le fossero mancati o le mancassero! E’ il nostro voto comunque per
altri rispetti si voglia giudicarlo, ci è imposto dalla nostra
intima coscienza , alla quale non possiamo rifiutare l’obbedienza
che ci domanda“.
Nello stesso anno del Concordato, il 1929, si svolsero le elezioni.
Il fascismo (unica lista presente) portò a casa 8 milioni di voti
contro 136 mila contrari.
L’accordo Stato-Chiesa contribuì in quel momento a rafforzare il
regime. Nel 1929 sull’economia italiana si abbattè l’uragano della
crisi economica scatenata dall'impennata dei prezzi dei cereali che
misero in grave difficoltà gli agricoltori statunitensi.
Il 24 ottobre ( giovedì nero ) la borsa di Wall-Street crollò le
azioni persero circa 1/3 del valore e la tendenza al ribasso
continuò sino al Luglio del 1932.
Per cercare di risanare l’economia il nuovo Presidente Americano
Roosvelt propose agli americani il New Deal ( Nuovo Patto ) con il
quale venne seppellita per sempre la tesi del liberalismo puro e si
introdusse la politica dello Stato assistenziale.
Il fascismo che era andato al Governo proprio per risollevare
l’Italia dalla crisi in cui era entrata nel dopoguerra nella quale
uno dei settori vitali per la sua esistenza , nel quale avrebbe
dovuto dimostrare di avere delle capacità, in uno stato vicino al
tracollo poiché l’economia faceva fatica.
Ma come fu amministrata questa fatica dal regime?
Per tre o quattro anni dal 22’ al 25’ vi fu una politica economica
liberale o quasi liberistica.
Prima che si diffondesse il motto “tutto per lo stato, tutto nello
stato“, il liberismo fu applicato da Alberto De Stefani il quale fu
nominato Ministro delle Finanze da Mussolini il 31 Ottobre 1922.
De Stefani diverrà l’anno seguente anche Ministro del Tesoro, la sua
politica favorì le esportazioni e quindi di conseguenza la ripresa
della produzione industriale, realizzò una fiscalità propizia agli
investimenti ed ai profitti fino ad arrivare a raddrizzare il
bilancio dello Stato.
L’alta tariffa doganale del 1921 venne abbassata, ridotti furono gli
interventi pubblici nell’economia, mentre la spesa pubblica scendeva
in poco tempo dal 35 al 13 per cento del reddito nazionale.
Mussolini che nel ’22 aveva gridato “Basta con lo stato ferroviere,
lo stato postino e lo stato assicuratore“ mutò progressivamente
opinione.
La Confindustria poi dopo avere salutato con gioia questi
provvedimenti cominciò a rammaricarsi che l’economia non fosse in
mano ad un ministro di sua completa fiducia. De Stefani era troppo
autonomo, occorreva un uomo dell'industria e della finanza come era
il Conte Giuseppe Volpi di Misurata.
Il Volpi iniziò una politica di difesa ad oltranza della lira
cercando di diminuire le importazioni di grano, minerali, petrolio
ed incentivando la cerealicoltura, diede vita alla famosa “battaglia
del grano“.
Questa battaglia fu combattuta tramite una legge del 1932 con la
quale furono istituiti dei consorzi agrari che raccoglievano i
prodotti agricoli, soprattutto i cereali, offrendo agli agricoltori
anticipi sulle vendite e assicurando la collocazione delle derrate
sul mercato.
La produzione subì un reale incremento: mentre nel 1923 si
producevano in Italia circa 59 milioni di quintali di frumento, nel
1933 se ne produssero 79 milioni di quintali.
In questo periodo si iniziarono anche iniziative di bonifica di
terreni incolti e malarici di una superficie di oltre 4 milioni e
mezzo di ettari.
Venne dato notevole impulso ai lavori pubblici ma tutte le
iniziative avevano come vizio d’origine l’essere il mezzo per
realizzare una politica protezionista.
Questa politica si spiegava con le tendenze imperialistiche del
nostro governo che intensificò di molto la spesa per gli armamenti e
sempre in questa ottica perseguì una politica di incremento delle
nascite.
Questa politica fu realizzata tramite l’imposta sul celibato,
facilitazioni fiscali per le famiglie numerose, condizioni di favore
riservate ai coniugati, premiazione delle madri prolifiche.
Come gli altri paesi europei anche l’Italia aveva subito il
contraccolpo della grande crisi del 1929 e non aveva senso investire
in soldi rimasti in armi.
Ma nel clima di recessione il 3 Ottobre 1935 l’esercito Italiano
oltrepassa il Mareb dando inizio alla Guerra contro l’Etiopia.
La Campagna d’Africa aveva un significato soprattutto simbolico
poiché nel nostro esercito bruciava la delusione per la sconfitta di
Adua nel 1896. Io osservo oggi come scrivente le emozioni di tale
evento e si volevano proprio scannare per stanchezza. Bisogna
sottolineare che il prestigio internazionale, si era rivali in
questi primati, si misurava ancora in base alla grandezza del
proprio territorio.
La Storia degli Italiani in Africa non era agli inizi, un posto dove
siamo stati per anni, nel 1885 un gruppo di 1.500 Bersaglieri
occuparono Massaua in Eritrea. Nel 1892 si acquisirono i
protettorati su Somalia ed Etiopia e nel 1912 vi fu la conquista
della Libia.
L’idea dell'Africa quindi non era certo nuova e Mussolini cercando
di mostrare al popolo Italiano e al consesso internazionale di
essere forte, ci provava in continuazione ogni giorno per preparare
questa missione militare, decise di ritentare la via del continente
nero.
Ma perché venne scelta proprio l’Etiopia?
Alla questione in maniera attendibile si risolve sostenendo che non
interessava a nessun paese colonizzatore.
Le armate Italiane al Comando di Rodolfo Graziani dopo una serie di
facili vittorie occuparono il 5 Maggio 1936 Addis Abeba.
Nelle piazze apparvero grandi carte geografiche dell’Africa
Orientale dove giornalmente, la gente poteva seguire i progressi
delle truppe italiane; lo stesso avvenne in ogni classe delle scuole
e la parola d’ordine “Noi tireremo diritto“ apparve sui muri, nei
manifesti e nei cartelli delle dimostrazioni a favore del fascismo e
della guerra;
avanzerei seri dubbi su quello a cui essa serva come sempre.
Il Comando della Compagnia d’Africa passò nelle mani di Badoglio e
si concluse rapidamente grazie alla superiorità soprattutto
organizzativa e numerica del nostro esercito.
Alla campagna etiopica ora viene, giustamente, data poca importanza
ed a distanza di anni la scelta di sostenerla pare illogica ed è
sicuramente sbagliata.
L’obiettivo era quello di distogliere gli Italiani dalla crisi
economica ed unirli in nome del comune patriottismo era un’obiettivo
propagandistico perché non risolveva nessun problema, anzi li
aggravava e dunque come poteva l’Italia occuparsi di un altro Stato
quando non riusciva ad occuparsi di se stessa?
L’aggressione Italiana fu condannata dalla società delle Nazioni.
Ma le sanzioni decise vennero applicate blandamente e la reazione
tutt’altro che decisa aprì le porte alla Germania che comprese la
scarsa unità Internazionale per la sua politica e, capita l’ostilità
anglo- francese il regime dovette aprire una forte collaborazione
con la Germania.
Da quel momento il Fascismo iniziò a perdere consensi ed è saggio
scriverlo adesso.
"Vincere e vinceremo"
La situazione internazionale spinse l’Italia a stringere accordi di
alleanza con la Germania anche se i rapporti tra Mussolini ed Hitler
non erano sempre stati idilliaci. Si incrinarono per l’appoggio dato
dalla Italia al progetto semi-dittatoriale di Dolfuss in Austria e
per la collaborazione offerta alle forze austriache per scongiurare
il tentativo di colpo di stato nazista del 1934, si riavvicinarono
per la guerra di Abissinia e soprattutto per la guerra civile
spagnola.
Per uniformarsi al totalitarismo tedesco Mussolini dovette condurre
nel 1938 una campagna di riorganizzazione dello Stato Fascista per
alimentare la propaganda vennero mobilitati radio e giornali che
iniziarono a trasmettere messaggi di stampo nazionalista e fascista.
L’obiettivo che si poneva il regime era di cancellare completamente
ogni traccia del carattere “borghese“ degli italiani; si dovevano
modificare cultura e stili di vita ed il primo passo fu
l’introduzione del voi o meglio ancora del tu contro l’uso del lei.
La rivista di Bottai “Critica Fascista“ scrisse “Si ristabilisca il
tu, espressione dell’universale romano e cristiano, e il voi, segno
di rispetto e di gerarchia“.
I cambiamenti non interessarono solo il modo di parlare degli
italiani, anzi dei camerati, venne imposto anche un nuovo modo di
marciare “il passo romano“ creato dal Duce per evidenziare il
carattere guerriero del popolo italiano.
Nel Giugno del 1938 si proibì in tutti i luoghi pubblici la stretta
di mano, bastava il saluto romano.
La mossa che rese più evidente il tentativo di allinearsi sulle
posizioni tedesche fu l’introduzione della legislazione razziale
ispirata ad un documento che venne pubblicato il 14 Luglio 1938 ad
opera di ignoti, patrocinati dal Ministro della Cultura, sotto il
titolo “Manifesto della razza“ ecco alcune delle tesi esposte nel
Manifesto:
“Il carattere di razza è puramente biologico (………..) Alla base delle
differenze di popolo e di nazione stanno le differenze di razza. La
popolazione dell’Italia attuale è ariana. Esiste oramai una pura
razza italiana. Questo concetto è basato (…..) sulla purissima
parentela di sangue che unisce gli italiani di oggi alle generazioni
che da millenni popolano l’Italia. E’ tempo che gli Italiani si
proclamino francamente razzisti. Tutta l’opera che finora ha fatto
il regime in Italia è in fondo del razzismo (……..) La questione del
razzismo in Italia deve essere trattata da un punto di vista
puramente biologico, senza intenzioni filosofiche o religiose.
Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. I caratteri fisici e
psicologici puramente europei degli italiani non devono essere
alterati in nessun modo“.
A seguito del dibattito instauratosi nel paese vennero adottati tra
il 1938 ed il 1939 una serie di provvedimenti.
Nel Settembre del 1938 le scuole italiane eliminarono dal loro
interno alunni, insegnanti e testi ebrei.
Nel Novembre 1938 è vietato il matrimonio tra italiani di razza
ariana e di altra razza: si limitano fortemente i diritti di
proprietà immobiliare degli ebrei e si impedisce agli imprenditori
di possedere aziende con più di 100 dipendenti.
Ai giovani di religione ebraica vengono interdetti lo svolgimento
del servizio di leva e l’inserimento nella pubblica amministrazione
e proibita agli ebrei l’iscrizione alle organizzazioni fasciste. Nel
Giugno del 1939 i professionisti ebrei vengono raggruppati in un
albo separato da quello ufficiale, la loro libertà di esercizio
della professione è ristretta alla sola cerchia di persone della
stessa razza.
La “Dichiarazione sulla razza“ approvata dal Gran Consiglio del
Fascismo il 6 ottobre del 1938 stabilisce in ogni caso che i
provvedimenti sopra descritti non vengano applicati nei confronti di
persone che nel corso del secolo abbiano acquisito particolari
benemerenze nelle guerre combattute dall'Italia, o siano stati
iscritti, prima del 1922, al partito Fascista.
Un altro dei provvedimenti del regime fu l’istituzione del “Sabato
fascista“: non si lavorava negli uffici e nelle scuole si svolgevano
solo ore di ginnastica.
Allo sport il regime fu sempre attento perché attraverso lo sport si
potevano esaltare le masse e i successi italiani nelle competizioni
internazionali potevano essere presentati e vissuti come vittorie
della intera Italia fascista e le vittorie non mancarono, infatti,
nel 1938 il purosangue Nearco vinse il prestigioso Grand Prix de
Paris; la nazionale di calcio si aggiudicò per la seconda volta
consecutiva la coppa Rimet; Bartali dominò il Tour de France.
Questi provvedimenti di riorganizzazione dello stato furono seguiti
da una politica diplomatica molto attiva a livello internazionale e
che, come politica, era di pieno appoggio alla Germania nazista.
I primi risultati tangibili si ebbero nella Conferenza di Monaco che
doveva decidere della annessione dei Sudati, ossia dei territori
Cecoslovacchi dove era massiccia la presenza etnica dei Tedeschi, il
Duce appoggiò in quella occasione la Germania, che li rivendicava,
nella lotta con la Francia e l’Inghilterra che proteggevano la
Cecoslovacchia.
Il risultato della Conferenza fu che i Sudeti furono occupati dai
Tedeschi che successivamente senza rispettare gli impegni occuparono
anche il resto della Cecoslovacchia.
La nascente alleanza Italo-Tedesca aveva però dei problemi, era duro
il Duce, poiché Mussolini era irritato dal fatto che Hitler lo
informava solo a fatto compiuto ed il capo del Fascismo voleva
essere trattato alla pari.
Mussolini anticipando per una volta Hitler decise di annunziare il 6
Maggio 1939 in occasione di una visita del Ministro Von Ribbentrop,
l’imminente firma di una alleanza italo-tedesca.
Il trattato venne firmato a Berlino il 22 Maggio e venne denominato
“Patto d’Acciaio“. Le parti con questo patto si impegnavano a
tenersi in contatto e nell' articolo 3 troviamo il punto più
importante: ”Se malgrado i desideri e le speranze delle parti
contraenti dovesse accadere che una di esse venisse a essere
impegnata in complicazioni belliche con un’altra o con altre
potenze, l’altra parte contraente si porrà immediatamente come
alleata al suo fianco e la sosterrà con tutte le sue forze
militari“….
Il trattato prevedeva agli articolo 4 e 5 “La collaborazione nel
campo della economia di guerra e la non conclusione in caso di
conflitto, di amnistia e di pace se non in pieno accordo tra di
loro“.
Nell’accordo la consultazione fra le due parti era molto teorica e
soprattutto non vi era nessuna clausola che fissasse la volontà
italiana di preservare la pace per almeno tre anni.
L’Italia non poteva entrare in guerra e quando fu evidente che la
Germania non avrebbe aspettato, Mussolini inviò un messaggio a
Hitler nel quale sottolineava due punti:
1- Se la Germania attacca la Polonia ed il conflitto rimane
localizzato, l’Italia darà alla Germania ogni forma di aiuto pratico
ed economico che sarà richiesto.
2- Se la Germania attacca la Polonia e gli alleati di questa
contrattaccano la Germania, l’Italia non prenderà iniziative di
operazioni belliche date le attuali condizioni della nostra
preparazione militare, regolarmente e tempestivamente segnalate al
Fùhrer e a Von Ribbentrop. L’Italia non può che affrettare la sua
preparazione militare e la sollecitudine del suo intervento sarà in
relazione ai mezzi bellici e materie prime. Il Duce resta in attesa
di conoscere il giudizio del Fùhrer su tutto quanto precede.
Nel paese le reazioni all’accordo con la Germania non furono molto
favorevoli il Re Vittorio Emanale III non aveva avuto mai grande
simpatia per i nazisti ed era decisamente contrario ad un
coinvolgimento dell'Italia in guerra.
L’antipatia del re verso i tedeschi era contraccambiata da Hitler
che definiva il sovrano “Imbecille“ e faceva riferimento solo a
Mussolini.
Contrari alla alleanza erano anche il Papa e lo stesso Galeazzo
Ciano che pubblicamente, il 16 Dicembre 1939, in un discorso alla
Camera espresse il suo scetticismo verso l’alleato tedesco.
Sembra che proprio in quel momento Ciano potesse subentrare a
Mussolini, infatti, una nota della segreteria vaticana riferisce:
“C (Ciano) un mese fa era in predicato di succedere a M (Mussolini)
e ciò poteva avvenire da un momento all’altro“; ma il Re preferì,
non trovando il coraggio, tenersi Mussolini che il 5 Gennaio 1940 in
una lettera a Hitler sosteneva che “Il nemico numero uno era l’Urss;
sconfiggere completamente Gran Bretagna e Francia era impossibile,
perché gli Usa sarebbero intervenuti a difesa delle democrazie; era
opportuno non attaccare in Occidente ed arrivare ad un
compromesso………”.
Hitler rispose il 10 Marzo invitando l’Italia ad entrare in Guerra e
Mussolini sembrava convincersi sempre più ed in un promemoria
segretissimo il duce scriveva: L’Italia non può rimanere neutrale
per tutta la durata della guerra……senza squalificarsi…il problema
non è quindi sapere se l’Italia entrerà in guerra; si tratta
soltanto di sapere quando e come; si tratta di ritardare il più a
lungo possibile compatibilmente con l’onore e la dignità, la nostra
entrata in guerra, per prepararsi in modo tale che il nostro
intervento determini la decisione; perché l’Italia non può fare
guerra lunga”….
Quando la Germania travolse e conquistò la Francia e l’intervento
italiano non era più tanto un fatto militare quanto una necessità
politica il duce si decise: aveva infatti bisogno, "di alcune
migliaia di morti per sedersi al tavolo della pace quale
belligerante“ e temeva che la Germania vittoriosa avrebbe fatto
pagare caro all' Italia il suo non intervento.
Il 10 Giugno 1940 Ciano consegnò la Dichiarazione di Guerra
all’Ambasciatore di Francia che commentò “E’ un colpo di pugnale ad
un uomo a terra…….I tedeschi sono padroni duri e ve ne accorgerete
anche voi“ questo avveniva e non certo il regime voleva essere
innocente in una guerra già partita da anni.
Nello stesso giorno, infatti, alle ore 18.00 a Piazza Venezia a
Roma, dal famoso balcone il Duce comunicò alla Nazione l’entrata in
guerra. La gente avrebbe capito visto che nell' ascoltarlo si erano
riuniti non solo lì ma anche vicino alla radio messa a disposizione
nelle sedi di partito, ed ecco alcuni dei passaggi del discorso
pronunciato da Mussolini in quella occasione:
Combattenti di terra, di mare e dell’aria!
Camicie nere della rivoluzione e delle legioni!
Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania!
Ascoltate
Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria.
L’ora delle decisioni irrevocabili.
La dichiarazione di guerra e già stata consegnata agli ambasciatori
di Gran Bretagna e Francia.
Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie
dell’occidente che in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia, e
spesso insidiato l’esperienza medesima del popolo italiano (………..)
Questa lotta gigantesca non è che una fase dello sviluppo logico
della nostra rivoluzione; è lotta dei popoli poveri e numerosi di
braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio
di tutte le ricchezze e di tutto l’oro della terra; è lotta tra due
secoli e due idee (……….) L’Italia proletaria e fascista è per la
terza volta in piedi, forte, fiera e compatta come non mai. La
parola d’ordine è una sola, categorica ed impegnativa per tutti.
Essa trasvola ed accende i cuori dalle alpi all’Oceano Indiano:
Vincere! e vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace
con la giustizia all’Italia, all’Europa ed al mondo.
Popolo Italiano
Corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo
valore!
Non si può perdere il brivido dunque della entrata in guerra della
Italia.
Il duce aveva aspettato il momento propizio e secondo lui lo aveva
trovato ma la decisione di entrare in guerra non fu certo un buon
affare per la nostra nazione visto che di un affare si trattava
perché l’Italia era animata dall’interesse di avere dalla Germania
un trattamento da alleato fedele ed utile e non dà un interesse di
difesa della propria identità nazionale.
Questa scelta non si poteva interrompere o evitare ed era nella
logica del Patto d’acciaio e dello avvicinamento all’alleato tedesco
ed a nulla poteva servire la dichiarazione di non belligeranza
perché l’Italia senza combattere sarebbe diventata una colonia
tedesca.
Non furono tanto i sogni imperialistici ma la necessità di fare
sentire la propria voce a spingere Mussolini verso il conflitto ma
per noi l’alleanza con la Germania non faceva certo sentire uno
Stato sicuro ma in assenza di questa alleanza l’entrata in guerra ci
avrebbe riguardato lo stesso ma su questi argomenti si era aperta
una discussione nella quale i contrari a questa alleanza
rappresentati dal Re, dal Pontefice ed alcuni importanti gerarchi
fascisti continuavamo a manifestare l’idea che nulla sarebbe andato
bene con questo accordo.
Ma al momento Mussolini rimaneva delle sue idee e cambiare la scelta
di allearsi con i tedeschi sembrava impossibile.
Se nella Prima Guerra Mondiale l’Italia era entrata impreparata,
nella Seconda Guerra Mondiale entrò ancora più impreparata o come
potrei scrivere “vicinissima a forti perdite umane“ che non poteva
non essere noto a tutti.
L’esercito italiano disponeva di armamenti decisamente mediocri, non
sappiamo come ne erano convinti i soldati o i gerarchi: aveva una
artiglieria artigianale risalente alla Guerra del 1915-1918.
La guerra nella quale Mussolini ci faceva entrare non si faceva con
le baionette e neppure con il fucile ’91 in dotazione all’esercito
sin dai tempi della guerra d’Africa.
Per combattere occorrevano carri armati e noi non ne avevamo più di
1.400 diciamo piccolini; occorrevano munizioni e ve ne erano solo
per combattere per una sessantina di giorni di guerra. Anche la
tanto esaltata aeronautica “arma fascistissima“ voluta dallo stesso
Mussolini, nel 1923 non era poi in condizioni tanto eccellenti: al
momento dell’entrata in guerra contava 1322 bombardieri (di cui 900
efficienti e solo 600 relativamente moderni) e 1.100 tra caccia e
assaltatori (di cui 700 impiegabili e solo pochi moderni).
L’arma che godeva della salute migliore era la marina, ma anche qui
vi erano grossi problemi poiché mancavano le basi d’appoggio e una
adeguata protezione aerea e per questo le nostre navi sarebbero
facilmente diventate affondabili.
A conti fatti come si legge non si poteva tranquillizzare nessuno
degli oppositori al conflitto perché a conti fatti la nostra forza
bellica era inconsistente per il conflitto che si andava a
combattere, che era già pieno di forti rischi per i nostri soldati.
“Credere, obbedire, combattere“
La guerra italiana, poco elegantemente, iniziò con l’offensiva
contro la Francia che era una nazione a quel tempo che era stata
messa completamente a terra dalla Germania e dunque ci si aspettava
una rapida soluzione del nostro impegno.
I nostri soldati erano guidati dal Principe Umberto ed erano
equipaggiati con divise estive mentre sul fronte di guerra
imperversavano temperature gelide. Oltre alle difficoltà
organizzative c’era l’incapacità dei nostri di fronteggiare le
truppe alpine francesi che conoscevano il terreno ed erano più
addestrate rispetto ai nostri.
Nella guerra che ci doveva vedere facilmente vittoriosi contro i
moribondi francesi al momento dell'armistizio potevamo vantare la
sola occupazione di Mentone sulla costa e di alcuni villaggi
montani. Questi risultati erano ottenuti con un prezzo alto anzi
altissimo: 1300 tra morti e dispersi, 3000 feriti e 2125 congelati.
I giorni che ci aspettavano erano tutt'altro che rosei.
Come reagì, il paese a questi primi risultati?
Il regime da quello a cui siamo a conoscenza fu molto attento ad
alimentare la sua attività propagandistica che mirava a nascondere
tutto ciò che era possibile ed aveva come obiettivo il testimone di
una guerra che ci vedeva vincere e per questo si ricorreva al metodo
dei motti che ossessionavano la popolazione che doveva affrontare
questa civiltà, quella di “Credere, obbedire, combattere“; “Battere
il nemico ovunque “; “Un popolo di soldati con un esercito di
cittadini“;
Riconoscere questo nuovo popolo non convinceva comunque totalmente
l’uomo italico che però sapeva che la guerra non si fermava in
Francia, doveva continuare da qualche parte e sperava di capirne il
bilancio, poiché era l’Inghilterra il prossimo obiettivo.
Alla Italia venne affidata la responsabilità del Mediterraneo sia
per la posizione geografica, sia per i nostri interessi in
Nordafrica.
Le nostre mansioni non si sa se è un sospetto di inefficienza, erano
ritenute poco importanti dal Fuhrer che non era interessato né al
Mediterraneo né ai paesi africani.
Lasciate senza l’aiuto tedesco le nostre navi nel Mediterraneo erano
bersaglio facile degli Inglesi.
Le nostre difficoltà navali davano problemi per la mancanza di
rifornimenti alle truppe di stanza in Nordafrica.
Il nostro anno nero fu il 1941.
Occorre prima di iniziare a trattare il proseguimento della guerra,
aprire una parentesi: vero è che il Duce forse non avrebbe potuto
evitare l’entrata nel conflitto ma altrettanto vero è che il modo in
cui condusse la nostra presenza nel conflitto fu disastroso.
La parola d’ordine per i nostri alti comandi era attaccare per
potersi mettere alla pari dell’alleato tedesco, ma rispetto ai
tedeschi noi eravamo lontani anni luce e questa differenza risultò
evidente nel 1941.
L’Italia in quell’anno risultava impegnata nel continente africano.
In Africa orientale tra Eritrea, Etiopia e Somalia aveva concentrato
290.000 uomini che rispetto ai nostri avversari, gli Inglesi, erano
molti di più ma non bastava la superiorità numerica, ed il nostro
esercito aveva sempre lo stesso difetto: essere male organizzato e
male attrezzato e non era poco.
Per i primi mesi di guerra la superiorità numerica fu sufficiente
per i primi mesi di guerra e gli italiani riuscirono a prendere la
Somalia britannica.
Una vittoria che strategicamente non fu un granchè visto che gli
Inglesi abbandonarono il campo contenendo le perdite al minimo.
Sul finire del 1940 la situazione in Africa Orientale si aggravò:
gli Inglesi avevano ricevuto numerosi rinforzi sia umani che tecnici
e, sul territorio, i guerriglieri etiopici iniziarono ad infastidire
i nostri.
La nostra strategia difensiva ebbe come risultato il concentramento
delle forze nel centro della colonia.
Ma le sconfitte iniziarono a farsi pesanti: gli Inglesi si ripresero
facilmente la Somalia e conquistarono l’Eritrea. In seguito a queste
sconfitte Amedeo d’Aosta il 19 Maggio 1941 si arrese agli Inglesi.
Anche in Africa Orientale la nostra forza era solo sulla carta ed a
comandare le operazioni c’era uno dei gerarchi più in vista del
regime, Italo Balbo, che però venne abbattuto per errore dalla
nostra contraerea.
Il 28 Giugno 1941 a sostituirlo fu inviato il Generale Graziani.
Mussolini che aveva urgenza di successi ordinò l’offensiva contro
l’Egitto che non fu possibile perché l’esercito rimase bloccato per
la mancanza di rifornimenti a Sidi Barrani.
Questa sosta permise agli Inglesi di rafforzarsi e di sferrare
un’attacco che sbaragliò i nostri. Graziani rassegnò le dimissioni e
venne sostituito da Rommel; i tedeschi erano venuti a salvarci.
Rapidamente la situazione in Africa fu riequilibrata con una serie
di vittoriose battaglie me la guerra era destinata a concludersi con
la chiusura del conflitto mondiale grazie allo sbarco degli
americani in Marocco.
A rendere evidente la dipendenza dell’Italia rispetto alla Germania
ed a spazzare via ogni velleità di Mussolini in qualsiasi tavolo di
pace, fu la guerra contro la Grecia che fu il vero fallimento della
nostra nazione.
La nostra avventura in Grecia era iniziata nel 1940 e non procedeva
bene anzi, andava malissimo e le perdite per il nostro esercito
furono ingenti.
L’intera campagna ci costerà 13.755 morti, 50 mila feriti, 12 mila
congelati, 25 mila dispersi. A salvarci dovettero intervenire i
tedeschi che in soli 15 giorni fecero sventolare la svastica su
Atene.
I nostri guai non erano finiti.
Il Duce c’è l’aveva sempre avuta con quelli che oggi sono i russi e
ieri l’URSS e più volte aveva espresso al Fuhrer il desiderio di
essere presente ad un eventuale attacco ai sovietici e l’occasione
non mancò.
Furono preparati per l’impresa 62 mila uomini.
I nostri furono costretti a combattere tra la neve e l’esercito
russo non scherzava già era forte sul terreno normale immaginiamoci
sulla nave a casa propria.
Una novità fu che non uscimmo sconfitti solo noi ma anche i tedeschi
e qui si inizio a capire che anche la Germania avrebbe potuto
perdere la guerra.
Il popolo italiano cominciò a capire come andavano veramente le
cose, sino a quel momento coperte dalla propaganda fascista, grazie
ai primi bombardamenti sulle loro teste e ai racconti dei reduci ma
soprattutto dalle notizie di morte dei loro cari per mano degli
avversari che non ci facevano portare a termine quello che avremmo
voluto fare.
Capitolazione o resistenza?
Le sconfitte per l’asse iniziarono a farsi pesanti ed oramai i
tedeschi e gli italiani erano sconfitti su ogni fronte grazie
soprattutto all'entrata nel conflitto degli americani.
L’azione degli alleati, dopo la presa dell' Africa Settentrionale,
prevedeva l’accerchiamento della Germania e lo sbarco in Italia,
precisamente in Sicilia, ritenuta il punto debole dell’asse.
Dopo le sconfitte sul territorio straniero stavano per arrivare
quelle sul territorio nazionale.
La situazione interna nel 1943 vedeva il Duce oggetto di diversi
malumori e soprattutto iniziavano a maturare vere e proprie
congiure.
L’equilibrio si ruppe con lo sbarco degli alleati in Sicilia nel
quale, furono impiegati 160.000 uomini con 2.800 navi, 600 carri
armati e 100 cannoni.
Uno sforzo bellico di grandi proporzioni che aveva l’obiettivo non
solo di conquistare l’isola ma di farlo rapidamente e così fu. A
seguito di questo avvenimento gli oppositori del regime iniziarono a
farsi vivi e moltiplicarsi.
Mussolini si era già trovato a dovere fronteggiare oppositori ma
erano oppositori appartenenti ad altri partiti che il Duce aveva
liquidato con l’esilio o con l’isolamento. Adesso il gioco era più
duro, sia perché egli non era a conoscenza di chi lo avversava, sia
perché chi ne voleva decretare la fine aveva consentito al Duce di
prendere il potere e consolidarlo: erano oppositori del regime
appartenenti al regime.
Primo fra tutti vi era il Re che aveva capito che piano si andava
verso il fondo ma che doveva pur sempre organizzare la caduta del
regime con tutti i rischi che questo poteva portare.
Il Re poteva contare sull’appoggio di molti degli alti comandi
militari e anche di alcuni gerarchi fascisti e bisognava contattarli
e muoversi.
Del complotto militare erano responsabili soprattutto due uomini che
erano il Generale Ambrosio ed il suo ufficiale addetto Generale
Castellano.
Ambrosio era animato da una grande avversione per i tedeschi ed era
un fedelissimo della monarchia aveva capito che la guerra era
perduta e vedeva l’alleanza con Hitler come un pericolo.
Il generale aveva sperato che a mettere fine alla Alleanza con la
Germania potesse essere lo stesso Mussolini ma un incontro nel
Luglio del 1943 tra i due dittatori aveva dimostrato ancora una
volta che il duce era subalterno al fuhrer e incapace di opporsi in
qualsiasi modo, nonostante stimolato dai suoi, al volere nazista.
Venne quindi messo a punto da Castellano un piano per eliminare il
duce.
Il piano passò per le mani di D’Ambrosio ed arrivò tramite
Acquarone, Ministro della real casa, al Re, il monarca non aspettava
altro.
Castellano sapendo di poter rischiare portò a conoscenza del piano
anche Galeazzo Ciano.
I contatti affidati al Re ed Acquarone proseguirono, ed in pochi
giorni il Ministro della real casa incontrò Ivanoe Bonomi, ex
Presidente del Consiglio e Marcello Soleri, Ministro del Governo
Facta spazzato via dalla Marcia su Roma. A seguito di questi
contatti vi fu un incontro tra il Re e Bonomi, nel quale il Bonomi
espose il piano da applicare dopo la rimozione di Mussolini: il
Governo ad un militare e scioglimento del patto d’acciaio con i
tedeschi.
I contatti di Vittorio Emanuele III continuarono e le cose per
Mussolini si fecero serie quando anche il Presidente della Camera
dei Fasci Dino Grandi, in un incontro il 3 Giugno del ’43, manifestò
l’intenzione di liquidare Mussolini.
L’invasione della Sicilia da parte degli alleati rese più veloce il
complotto.
Oltre al Re anche il Vaticano portava avanti il progetto di
eliminare Mussolini e, sembra da recenti indagini (Novembre 96)
compiute dalla ricercatrice Albertina Vittoria che tre mesi prima
del 25 luglio 1943, insieme agli Stati Uniti, il Pontefice Pio XII
avesse preparato un piano che comportava la sostituzione di
Mussolini con Luigi Federzoni, Ministro degli Interni e delle
Colonie e poi Presidente del Senato, che godeva della fiducia del
Pontefice per essere stato uno dei protagonisti della trattativa per
la firma, nel 1929, dei patti lateranensi.
Questo progetto non venne mai attuato.
Le prime contestazioni pubbliche Mussolini le ricevette il 16 Luglio
in una riunione dei gerarchi che dovevano preparare alcuni raduni
propagandistici in varie città.
Il duce accettò la proposta di Grandi che era assente a quella
riunione, di convocare il Gran Consiglio del Fascismo.
Prima di esso il Duce andò dal Fuhrer per un ennesimo vertice.
Fu l’ulteriore dimostrazione di impotenza che ne indebolì ancora di
più l’immagine.
Il 21 Luglio Scorza telefonò a tutti i membri del Gran Consiglio per
convocarli a Palazzo Venezia. L’appuntamento era per le 17.00 del 24
Luglio nella sala del Pappagallo. Nella stanza erano disposti a
ferro di cavallo 28 tavoli uno dei quali, innalzato leggermente
rispetto agli altri, era assegnato a Mussolini.
Il Gran Consiglio comprendeva i membri vitalizi, i membri divenuti
tali per le cariche che ricoprivano i membri cooptati per fini
speciali.
Ad un invito del commesso Navarra tutti si sistemarono ai loro
posti, quindi entrò – erano le 17.15 – Mussolini, che non rivolse la
parola a nessuno. Iniziò il suo intervento ammettendo che la guerra
era in una fase critica ma continuò proclamando la sua fedeltà alla
alleanza con la Germania. Egli disse “E’ giunto il momento di
stringere le fila e di assumere le responsabilità necessarie“ poi
pose il dilemma guerra o pace? Capitolazione o resistenza?
Il discorso del Duce, si dilungò per due ore, fu debole, poco
incisivo e non convinse nessuno. Dopo Mussolini, erano le 21 circa,
era il turno di Dino Grandi che presentò l’ordine del giorno e lo
illustrò dopo aver proclamato la sua fedeltà al Duce. Grandi
concluse il suo discorso citando una frase pronunciata nel ’24 da
Mussolini stesso “Periscano tutte le fazioni anche la nostra, purchè
si salvi la patria“.
Dopo Grandi fu il turno di Galeazzo Ciano. Il conte doveva tutto a
Mussolini e ne aveva sposato la figlia, ma il suo tono non era
affatto benevolo e il Duce incominciò a manifestare un certo
malumore.
Quando Ciano ricordò che la Germania nel ’39 s’era buttata in guerra
dopo avere assicurato che non l’avrebbe fatto se non molto dopo,
Mussolini mormorò “Verissimo“ erano passate le 23, Galbiati suggerì
qualcosa a Scorza che dopo passò un biglietto a Mussolini “Alcuni
camerati data l’ora tarda e il prolungamento della seduta – disse il
Duce – né propongono il rinvio a domani“. Grandi insorse: “Per la
carta del lavoro ci tenesti qui sette ore adesso che si tratta della
salvezza della patria possiamo rimanere a discutere per tutto il
tempo necessario“. Senza scomporsi il Duce accettò l’obiezione “Va
bene –disse– sospendiamo per mezza ora“.
La seduta riprese dopo quarantacinque minuti e andò avanti
blandamente fino a quando intervenne il Capo di Stato Maggiore della
milizia fascista Galbiati che si lanciò in veementi, per i
dissidenti minacciose, affermazioni di fede fascista.
In quel momento Mussolini dovette avere la sensazione che fosse
possibile domare la rivolta e finalmente parlò con efficacia.
“Chi chiede la fine della dittatura – disse –sa di volere la fine
del fascismo. Io ho sessant’anni e so che cosa vogliono dire certe
cose del resto la mia meravigliosa ventura è gia durata vent’anni“.
Ribadì la sua sicurezza della vittoria finale e ammonì che se il Re
avesse liquidato lui, avrebbe anche liquidato insieme con lui, tutti
i presenti che l’avevano sollecitato ad agire.
Lo sviluppo del dibattito aveva oramai fatto capire che l’ordine del
giorno Grandi era una sfida per il Duce. Si ebbero le prime
defezioni: Cianetti espresse alcune perplessità che gli salvarono la
vita nel processo di Verona. Il Presidente del Senato Suardo ritirò
la firma già apposta e propose una fusione tra il testo di Grandi ed
il testo di Scorza, idea questa che trovò consenziente Ciano.
Mussolini non propose un’ordine del giorno proprio e alle 2.30 diede
inizio alla votazione. Cominciarono dall’ordine del giorno Grandi ed
i Si furono 19 i no 8 e gli astenuti 1 (Suardo).
Votare gli altri documenti era oramai superfluo.
"Chi porterà al Re questo ordine del giorno?" Domandò Mussolini
raccogliendo le sue carte.
“Tu“ rispose Grandi.
“Signori – Sentenziò Mussolini – voi avete aperto la crisi del
regime“
Ancora per una quindicina di minuti Mussolini si trattenne a Palazzo
Venezia e ricevette alcuni componenti del Gran Consiglio che si
dichiararono fedeli, uno di loro propose di arrestare i 19.
“Arrestarli?“ disse ironicamente Mussolini e sottolineò che fra i
rivoltosi c’erano i più alti rappresentanti del regime.
Grandi una volta uscito da Palazzo Venezia si incontrò con Acquarone
che aspettava con ansia accanto a Montecitorio, e dopo si recò da
Vittorio Emanuele III.
I due prepararono il Decreto che nominava Badoglio Capo del Governo.
Nella notte in cui si preparava tutto ciò Mussolini riuscì a
riposare un po’ e alle sette del mattino era già in piedi.
Nonostante la brevità del riposo chi si era concesso apparve pieno
di energia al suo segretario De Cesare.
Incontrando un giornalista tedesco, De Cesare disse che nessun
comunicato sulla seduta del Gran Consiglio era previsto, egli,
evidentemente in buona fede dichiarò “La seduta è stata lunga, ma
non interessante né importante“.
Stranamente Mussolini non prese i provvedimenti che la logica della
Dittatura avrebbe suggerito, si preoccupò solo di fissare una
udienza con il Re il pomeriggio alle ore 17.00.
In quel colloquio Mussolini tentò di spiegare i suoi progetti
politici e militari. Ma il Re non ne volle sapere e non gli diede il
tempo di farlo dicendo al Duce “Io vi voglio bene, ve l’ho
dimostrato più volte difendendovi da ogni attacco, ma questa volta
devo pregarvi di lasciarmi libero di lasciare ad altri il Governo.
Rispondo con la mia testa della vostra sicurezza personale, statene
certo.“
Al nome di Badoglio, Mussolini esclamò “Allora tutto è finito“
“Mi spiace, mi spiace“ ripeteva il Re.
Quando Mussolini, giunto alla uscita, si avviò verso la macchina, il
capitano Pigneri gli si fece incontro dicendo “Sua Maestà mi prega
di proteggervi e vi prego di seguirmi“.
Fu caricato su un'autoambulanza e trasportato in una caserma all'una
di notte. Il Duce ricevette una lettera di Badoglio in cui gli si
diceva che lo si era trattato in quel modo nel suo “personale
interesse“.
In meno di 24 ore Benito Mussolini da capo del Governo e Duce del
Fascismo passava ad essere un prigioniero ingombrante e pericoloso.
L’impossibilità di continuare
Mussolini era dunque fuori gioco e il Re come concordato con Bonomi
affidò il Governo ad un militare il Maresciallo Pietro Badoglio.
Per niente nuovo alla scena, il maresciallo era infatti uno degli
eroi di guerra del nostro paese ma non aveva mai ricoperto incarichi
di così alta responsabilità politica.
Si potrebbe dire di lui che era un uomo che nell'ordinaria
amministrazione funzionava bene ma che nell'emergenza perdeva la
testa. Era il migliore generale italiano ma in un esercito come
quello tedesco al massimo sarebbe stato colonnello.
I giorni del suo Governo non furono certo un esempio di buon
governo, per non usare termini più pesanti, e forse per alleviarne
le responsabilità si può dire che non era certo circondato da geni.
Combattuto tra le preoccupazioni del Re e tra quelle dei partiti
antifascisti non volle scontentare né gli uni e né gli altri non
prendendo quelle grandi decisioni che la gravità del momento
richiedeva.
I suoi primi provvedimenti furono l’emanazione di un proclama in cui
si annunciava che la guerra continuava e il divieto di assemblee e
riunioni.
Il partito fascista venne sciolto ma non fu permessa la costituzione
di altri partiti. I prigionieri politici vennero liberati , ma
vennero mantenuti ai loro posti anche militari e funzionari di fede
tedesca.
Badoglio prometteva che la vita politica sarebbe ripresa dopo le
elezioni. Per ora la nazione doveva aver fiducia nel Governo.
Questa però si mostrava assai poco degno della fiducia che
richiedeva.
Mentre il Fuhrer decideva di far affluire truppe nel nostro
territorio, Badoglio diceva no a Grandi che voleva un immediato
rovesciamento delle alleanze. Il maresciallo voleva guadagnare tempo
ma di tempo non c’è ne era e gli eventi lo travolsero, infatti,
dall' Ottobre 1942 all'Agosto del 1943 diverse città italiane, le
più importanti del Nord Italia, furono bombardate dagli alleati.
Milano fu sicuramente la città più colpita: 1500 milanesi morirono
ed i monumenti più importanti furono danneggiati.
Il Governo era con l’acqua alla gola ma lottava ancora per una pace
onorevole. Gli alleati risposero di essere disposti a concedergli
una resa incondizionata e qui c’era poco di onorevole ma quella
proposta non si poteva rifiutare.
Il Governo con il suo comportamento iniziava a scontentare tutti :
- I tedeschi oramai sicuri del tradimento
- Gli alleati che ci guardavano con grande diffidenza
- Gli italiani che vedevano arrivare la guerra nelle loro case
Badoglio e il Re volevano l’impossibile e cioè far uscire il paese
dal conflitto con il consenso dei tedeschi e dopo avere ottenuto una
pace favorevole dagli alleati.
L’Italia non aveva nessun potere per ottenere questo.
Le trattative di pace con gli alleati furono affidate al Generale
Castellano ma da trattare c’era ben poco: infatti gli alleati
volevano un si o un no deciso. Il 3 Settembre 1943 a Cassibile, uno
sperduto villaggio siciliano, l’armistizio fu firmato.
Il Governo Badoglio riuscì però ad ottenere che l’annuncio
dell’armistizio fosse dilazionato fino a che le truppe alleate
fossero sbarcate nell’Italia Meridionale. Sbarco che avrebbe dovuto
essere accompagnato da un lancio di paracadutisti su Roma. Gli
alleati constatarono che il Progetto lancio era impossibile perché i
tedeschi controllavano orami gli aeroporti della capitale. Quindi il
lancio di paracadutisti non si poteva effettuare.
Badoglio tentava di rimandare l’annuncio e il Re era addirittura
pronto a disconoscerlo ma il Generale Eisenhower due ore dopo che
Radio Londra ne aveva dato la notizia, trasmise una dichiarazione di
Badoglio nella quale si annunciava l’armistizio: era l’8 Settembre
1943.
Badoglio nel proclama che fu emanato dopo l’annuncio dichiarava alla
Nazione:
"Il Governo italiano riconosciuta l’impossibilità di continuare la
impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento
di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla nazione, ha
chiesto un armistizio al Generale Eisenhower comandante in capo
delle forze alleate Angloamericane.
La richiesta è stata accolta.
Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze
angloamericane deve cessare da parte delle Forze Italiane, in ogni
luogo esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra
provenienza“.
Naturalmente i tedeschi non restarono con le mani in mano. Hitler
aveva sempre ribadito che l’alleanza con l’Italia c’era perché c’era
Mussolini, e già all’indomani della seduta del Gran Consiglio aveva
preparato un suo piano d’azione che prevedeva quattro punti:
1- La liberazione di Mussolini
2- L’occupazione di Roma
3- L’occupazione militare di tutta l’Italia
4- La cattura o la distruzione della flotta italiana
Per attuare i suoi propositi il Fuhrer spostò sul fronte italiano 6
divisioni di fanteria, 2 corazzate, 1 di paracadutisti, 1 brigata da
montagna, oltre a unità varie delle tre forze armate. Altre 4
divisioni di fanteria erano in Austria a ridosso della frontiera
italiana.
Appena dopo l’annuncio dell’armistizio i tedeschi presero Roma dove
incontrarono la flebile resistenza di troppe mescolate a civili
antifascisti.
Ma che fine aveva fatto il Re, di Mussolini che ne era stato?
Come e con chi si erano mossi?
Il Re il 10 Settembre assieme ai suoi più stretti collaboratori
lasciò Roma per Pescara da dove con una corvetta raggiunse Brindisi,
anche Badoglio era con lui.
L’esercito fu lasciato allo sbando privo di ordini e con il terrore
della deportazione nei campi di concentramento.
Mussolini, invece, si trovava sul Gran Sasso sa dove il 26 Luglio
aveva indirizzato una rassicurante lettera a Badoglio che
evidenziava la sua voglia di capire l’atmosfera e di tirarsi fuori
da eventuali ritorni al Governo.
"Desidero, scriveva, assicurare al Maresciallo Badoglio, anche del
ricordo del lavoro in comune svolto in altri tempi, che da parte mia
non solo non gli verranno create difficoltà di sorta, ma che le sarà
data ogni possibile collaborazione. Faccio voti che il successo
(dove vedi il rischio della fucilata della Bomba o della esplosione
per dirla con Carlo Rossella noto giornalista) coroni il grave
compito al quale il Maresciallo Badoglio si accinge per ordine e per
nome di sua maestà il Re, del quale durante ventuno anni è stato
leale servitore, e tale ora rimane.
Cambiò tutto ed anche il rischio quando un gruppo di paracadutisti
liberò il Duce dalla prigionia, forse sarebbe meglio dire dall'
esilio in cui si trovava e tra qualche tentennamento lo accompagnò a
Monaco di Baviera dove ritrovò moglie e figli e alcuni gerarchi
rifugiatesi in Germania dopo il Gran Consiglio (Farinacei, Pavolini,
Ricci, Preziosi).
L’obiettivo dei tedeschi era il ristabilimento di un Governo
fascista e il 15 Settembre 1943 le agenzie di stampa diramarono un
comunicato:
"Benito Mussolini ha ripreso oggi la suprema direzione del fascismo
in Italia.
In questo comunicato c’erano anche cinque ordini del giorno del
Duce, le cui decisioni erano comunque più che influenzate dai
tedeschi, si nominava Alessandro Pavolini segretario provvisorio del
partito, che assumeva il nome di partito fascista repubblicano, si
ordinava a tutte le autorità e ai funzionari destituiti da Badoglio
di riprendere il loro posto e di appoggiare attivamente l’alleato
tedesco, si ricostituiva la milizia fascista con a capo Renato Ricci
e si scioglievano gli ufficiali delle forze armate dal giuramento
prestato al Re.
Il 18 Settembre Mussolini parlò anche agli italiani da Radio Monaco
annunciando la nascita della Repubblica Sociale Italiana con sede a
Salò sul lago di Garda.
Il testo fondamentale della nuova repubblica venne approvato nel
corso del primo congresso del partito fascista repubblicano svoltosi
a Verona dal 14 al 16 Novembre 1943.
Erano stati preparati 18 punti che proponevano riforma della
organizzazione dello stato grazie alla convocazione di un’assemblea
costituente che sancisse la fine della monarchia e portasse alla
elezione del Presidente della Repubblica ogni cinque anni.
Vi erano poi altre tesi di carattere prettamente sociale che
riguardavano i lavoratori.
Per combattere la Guerra la RSI aveva bisogno di un esercito il cui
comando fu affidato a Rodolfo Graziani che chiamò alla leva le
classi 24-25 ma alla chiamata rispose solo il 40% del totale.
Il duce da Campo Imperatore aveva manifestato a Badoglio di non
volere essere d’ostacolo ma il Fuhrer riuscì a ritirarlo dentro.
Perché accettò?
1a Ipotesi: Mussolini aveva voglia di riabilitarsi, la sua uscita di
scena non era stata poi tanto gloriosa.
2a Ipotesi: Mussolini aveva paura per la propria vita minacciata sia
dagli alleati e in caso di rifiuto anche dai tedeschi che comunque
non è che non imposero niente.
Una volta assuntosi la responsabilità di guidare la RSI Mussolini
dovette accettare la volontà tedesca senza potere dire la sua e
quando la doveva dire era in ritardo.
Raccontare in queste righe con precisione la sua nuova dialettica,
il ricorso al reportage, il tentativo di cancellare i fallimenti,
tutte cose che vengono fuori quando ci si aspetta di chiudere con i
problemi e di vincere, ma tutto ciò era impossibile poiché nell’aria
della RSI c’è stata sempre la sconfitta ed il regolamento di conti
con il passato: niente è andato bene.
La Germania voleva che tutti i traditori del regime venissero
puniti.
Molti di loro, vedi Grandi, erano fuggiti all’estero; altri, vedi
Ciano, si erano consegnati ai tedeschi direttamente o non
nascondendosi come la logica avrebbe voluto.
Il Consiglio dei Ministri del 28 Ottobre 1943 riunito a Gargnano
nella villa Feltrinelli decise l’istituzione di un tribunale
speciale straordinario destinato a giudicare i componenti del Gran
Consiglio rei di tradimento.
Alla Presidenza fu designato Aldo Secchioni, Avvocato, pubblico
accusatore Andrea Fortunato, i giudici Celso Riva, Franz Pagliani,
Enrico Vezzalini, Otello Gaddi, Giovanni Raggio, Renzo Montagna.
Giudice Istruttore l’avvocato Vincenzo Cersosimo.
Ricostruiamo il Processo di Verona grazie ad un articolo del
Corriere della Sera del 29-7-1993 firmato da F.Felicetti che si
occupava dell’argomento alla luce dei documenti comparsi.
Di quello che era successo a Verona, luogo in cui si svolse il
processo, sino a ieri c’era soltanto qualche fotografia. Oggi da un
angolo remoto dell’archivio di stato è stato ritrovato un filmato
della fucilazione di Galeazzo Ciano e di quattro traditori del 25
luglio.
Quella mattina d’inverno, accanto al plotone, c’era un cineoperatore
ufficiale italiano o forse tedesco, con il compito di alimentare la
macchina della propaganda e di far vedere agli altri quanto fosse
inflessibile il fascismo di Salò.
La pellicola venne sviluppata in Germania tutto è documentato.
11 Gennaio 1944 9.15-9.30 di mattina.
Non è molto freddo, niente nebbia.
Lo scenario è il poligono di tiro di San Procolo poco fuori Verona:
un vasto spazio erboso, un terrapieno dove venivano piazzate le
sagome e un muro di cinta non alto e tutto uguale.
Il plotone d’esecuzione è composto da venticinque miliziani, una
fila in ginocchio e una in piedi.
I condannati erano Emilio De Bono vecchio ed esausto che non c’è la
fa a camminare.
Ciano il più osservato, il genero di Mussolini che Hitler vuole
morto.
Impermeabile chiaro, cappello, le mani in tasca si guarda intorno
senza paura sembra avere fretta di chiudere una recita già scritta.
Gli altri sono: Gottardi, Pareschi e Marinelli svenuto alla lettura
della sentenza.
I condannati sono seduti a cavalcioni su delle seggiole ed offrono
la schiena al plotone.
Prima di sedersi Ciano compie un gesto istintivo si tira su
leggermente i pantaloni per stare più comodo, come se non andasse a
morire. Partono i colpi, il plotone non aveva una grande mira in un
rapporto delle SS si legge:
“……..gli uomini che giacevano a terra erano stati colpiti così male
che si contorcevano e gridavano. Dopo una breve pausa pochi altri
colpi furono sparati….
La pellicola si sofferma su Ciano, la sua faccia è la più
insanguinata.
Nello stesso archivio di Stato sono stati trovati anche degli
spezzoni che raccontano il processo di Verona.
L’aula di Castelvecchio, era buia, un gran fascio lettorio e in
fondo un lungo tavolo con i nove conponenti del tribunale speciale.
Tra di essi vi erano fanatici squadristi in cerca di vendetta come
Celso Riva, Renzo Montagna, Franz Pagliani.
Gli imputati sono l’ombra di loro stessi. Vi è un pubblico assai
selezionato. I giornalisti prendono appunti ma scriveranno solo
quello che sarà detto loro dal Ministro Mezzasoma“.
I tedeschi, secondo il loro stile, avevano avuto vendetta ma il
Processo di Verona segna un precedente importante quella della
fucilazione di uomini del nostro stato per propaganda politica Ciano
e gli altri furono i primi a loro seguirà proprio Mussolini.
Mirate al cuore
La situazione nel nostro paese incominciava ad essere difficile,
parte del territorio in mano ai tedeschi e parte agli alleati, gli
italiani non contavano più niente.
Non contava Mussolini, assoggettato alla volontà di Hitler, ma non
contava neanche Vittorio Emanuele III che gli alleati tenevano
ancora in gioco per non creare ulteriore confusione ma che ormai non
aveva nessuna voce in capitolo anzi, gli alleati erano già pronti,
spinti dai fascisti ed antifascisti a sostituirlo, era già nell’aria
il progetto del referendum per scegliere tra monarchia e repubblica.
Con il paese diviso in due iniziarono a dividersi anche parenti ed
amici e lo spettro della fame e della morte invase la vita degli
italiani.
I partiti antifascisti si erano riuniti nel CLN (Comitato di
Liberazione Nazionale). Il primo congresso del CLN si tenne a Bari
nel Gennaio del 1944 ed avanzò la proposta di abdicazione del Re e
la proposta di una Assemblea Costituente alla fine della guerra.
Il Governo ed i partiti raggiunsero un accordo voluto soprattutto
dal PCI che vide l’impegno nel Governo delle componenti
Antifasciste.
Il compromesso ebbe come conseguenza l’uscita di scena da parte di
Vittorio Emanuele III che venne sostituito dal figlio Umberto.
Questi erano problemi politici che avevano comunque poco peso sulla
guerra che ancora si combatteva, e che vedeva il popolo intento a
sopravvivere ai bombardamenti, ai rastrellamenti, ai razionamenti di
cibo e di conseguenza l’attenzione verso il Re, il Governo e i
Partiti era molto bassa e parlandoci chiaro c’era un completo e
giustificato disinteresse.
Mentre al Sud si assisteva al tentativo di riorganizzazione dello
Stato, al Nord chi non combatteva nella RSI gioco forza anche per
salvarsi la pelle doveva combattere contro.
Nacquero così i partigiani.
Le bande partigiane agirono inizialmente soprattutto in montagna e
nelle campagne dove i controlli erano minori.
Lo sviluppo dei partigiani e l’incremento della loro forza si
accompagnò all’avanzamento degli alleati.
Il ruolo svolto dai partigiani è oggetto di diverse interpretazioni:
c’è chi attribuisce loro un ruolo decisivo e chi invece uno
marginale.
Alle brigate partigiane può senza dubbio riconoscersi il non
trascurabile merito di aver svegliato gli italiani, poiché in Italia
si combatteva una guerra che era la loro, quella degli italiani
appunto.
Nel Giugno del ’44 le truppe alleate entrarono in Roma, a seguito di
questa operazione Badoglio abbandonò e lasciò a Bonomi la
presidenza.
Nell’Agosto venne liberata anche Firenze.
L’avanzata alleata ad un certo punto si bloccò sulla così detta
Linea Gotica ed in quel momento iniziarono le difficoltà per i
partigiani, oggetto di rastrellamenti, e per la popolazione civile,
che divenne bersaglio delle varie esecuzioni e deportazioni decise
dai nazifascisti.
La vita cominciò ad essere veramente dura: è di questo periodo la
maggior parte dei 40.000 morti della guerra di liberazione.
La situazione si sbloccò nell’Aprile del 1945 quando gli alleati
riuscirono ad entrare nel Nord Italia. Il crollo tedesco era oramai
evidente non solo nel nostro paese ma sull’intero fronte di guerra e
con la caduta del Fuhrer si chiudeva anche l’avventura della RSI ora
restava a Mussolini solo la fuga.
Il 25 Aprile viene festeggiato ancora oggi come festa della
liberazione.
I corpi del Duce, della Petacci e di altri gerarchi vennero esposti
a Milano il 29 Aprile. Prima di essere fucilato ebbe la forza di
esclamare “Mirate al cuore“….
Bibliografia.
G. Fiori “Processo a Gramsci“, Newton, pagina 17
Camera / Fabietti “1948 ai giorni nostri“, Zanichelli
Guglielmetti “I dittatori“, C.e.n – Roma
Cadauna “Processo a Mussolini“, C.e.n – Roma
Procacci “Storia degli italiani“, Laterza
Getto /Solari “Novecento“, Minerva Italica
Cervi / Montanelli “L’Italia della disfatta“, Rizzoli
G.Carocci “Storia del fascismo“, Newton
U.Cerroni “Il pensiero politico del novecento“, Newton.
Grazie ai quotidiani: Il Giornale e l’Unità.