Ettore Cinnella

12 L'età dell'imperialismo e la prima guerra mondiale

XIX. La rivoluzione russa (pp. 773-831)
La Storia
a cura di Massimo L. Salvadori



1. La rivoluzione di Febbraio

Sul carattere spontaneo dei moti rivoluzionari che portarono al crollo della secolare monarchia zarista concordano i giudizi degli storici più seri e le testimonianze di numerosi protagonisti dell'epoca. Un'insurrezione popolare partita dai quartieri operai di Pietrogrado - nuovo nome di San Pietroburgo a partire dal 1914 - spazzò via nel giro di pochi giorni il regime autocratico russo, la cui crisi si era aggravata in maniera drammatica negli anni della guerra mondiale. La condotta disastrosa delle operazioni belliche (già nel 1915 la Russia aveva perso i territori polacchi, la Lituania e parte dell'Ucraina occidentale, della Bielorussia e della Lettonia), la paurosa inefficienza e corruzione dell'amministrazione statale, l'arroganza e gli intrighi degli ambienti di corte (la torbida avventura di Rasputin non fu un episodio isolato), avevano scavato un baratro tra gli ambienti governativi e la stessa opposizione borghese. Tra la fine del 1916 e l'inizio del 1917, al progetto liberale di una rivoluzione di palazzo che costringesse all'abdicazione lo zar Nicola II e instaurasse una monarchia costituzionale, aderirono anche alcuni settori della nobiltà e una parte delle gerarchie militari. Tuttavia, prima ancora che l'iniziativa dell'opposizione liberale avesse modo di concretarsi, le manifestazioni popolari esplose nella capitale contro la penuria di generi alimentari imposero un esito radicale alla crisi del regime zarista.

Il 23 febbraio (8 marzo secondo il calendario gregoriano) 1917, nella giornata internazionale dell'operaia, si svolse a Pietrogrado una manifestazione pacifica delle donne, alla quale si unirono gli operai licenziati delle officine Putilov e migliaia di lavoratori in sciopero. Il giorno seguente, sin dalle prime ore del mattino gruppi di scioperanti dei rioni Vyborg e  Pietroburgo  si  recarono  nell'altro grande quartiere operaio - l'isola di Vasilij - per esortare i loro compagni a incrociare le braccia e a partecipare  ai  cortei.  Il  24  febbraio,  comunque,  restò Vyborg il centro del movimento di protesta: qui infatti, come risulta dai dati raccolti da Igor. P. Lejberov, si astennero dal lavoro 74.842 operai di 61 fabbriche, cioè più di febbraio dei tre quarti dei proletari del quartiere (in tutta la città si contarono ca. 200.000 scioperanti). Nel corso della giornata, dai quartieri operai, affluirono verso il centro della città, scontrandosi ripetutamente con le forze di polizia, numerose colonne di dimostranti.

La sera del 25 febbraio, dopo una giornata caratterizzata dallo sciopero generale e da violenti scontri tra manifestanti e polizia a cavallo, lo zar ordinò al generale Chabalov, comandante della regione militare di Pietrogrado, di far cessare i disordini. Il tentativo di coinvolgere nell'opera di repressione i reparti militari, fino allora trattenuti nelle La rivolta caserme, si rivelò fatale per il regime. Se già il 26 febbraio si verifi-dei soldati carono episodi di ribellione in alcune unità dell'esercito, indignate per aver avuto l'ordine di sparare sui dimostranti, il 27 il fermento si estese a numerosi reparti e portò alla fraternizzazione tra soldati e operai. La rivolta dell'esercito divenne così un fattore decisivo per il trionfo dell'insurrezione popolare. A differenza della rivoluzione del 1905, in cui gli ammutinamenti e le agitazioni tra le truppe erano rimasti un fenomeno limitato e secondario nonostante alcuni episodi celebri, nel 1917 i soldati ebbero sin dall'inizio un ruolo di protagonisti nelle vicende rivoluzionarie.

Il 27 febbraio, quando la vittoria dell'insurrezione sembrava ormai  certa, venne costituito un comitato provvisorio dai membri del gruppo operaio centrale del comitato per l'industria bellica (tali organismi, sorti nel 1915, comprendevano anche sezioni operaie elette dal proletariato) e da alcuni deputati socialisti della duma di Stato (il parlamento zarista). Il comitato provvisorio invitò con un proclama i lavoratori della capitale a eleggere i propri rappresentanti nel soviet dei deputati operai. Tra i lavoratori di Pietrogrado era ancora vivo il ricordo del consiglio operaio creato nel momento culminante della battaglia rivoluzionaria dell'autunno 1905. L'appello lanciato dal comitato esecutivo fu subito raccolto: il 28 febbraio nella maggior parte delle fabbriche si svolsero le elezioni dei delegati al soviet.

Al di là dell'indubbia influenza della tradizione rivoluzionaria del 1905, il nuovo consiglio operaio sorto nel febbraio 1917 presentava non pochi tratti originali rispetto al precedente soviet. Le prime embrionali esperienze consiliari della primavera-estate del 1905, nella regione industriale centrale, erano nate dall'esigenza di coordinare le lotte politiche e sindacali dei lavoratori, privi di qualsiasi forma di rappresentanza (si pensi al «consiglio dei delegati » di Ivanovo-Voznesensk o all'«assemblea degli scioperanti» di Kostroma, che erano in sostanza dei comitati di sciopero). Anche il leggendario soviet di Pietroburgo, che aveva svolto un ruolo d'importanza nazionale, era sorto nel corso dello sciopero politico generale dell'ottobre 1905 ed era rimasto un organo apartitico, pur annoverando tra i suoi membri non pochi esponenti dei partiti socialisti. Nella rivoluzione di Febbraio, invece, il consiglio operaio fu creato solo dopo la vittoria dell'insurrezione popolare spontanea e della rivolta dei soldati. Inoltre, anche se nel corso delle giornate rivoluzionarie in alcune fabbriche era stata lanciata l'idea di un nuovo soviet, la concreta iniziativa politica e organizzativa venne da alcuni esponenti socialisti (soprattutto menscevichi). Questa circostanza fece sì che il consiglio dei deputati operai fosse sin dall'inizio un organo fortemente politicizzato e con una precisa linea programmatica. Già nell'appello del 28 febbraio 1917 alla popolazione di Pietrogrado e della Russia, il soviet indicò i suoi compiti fondamentali individuandoli nell'organizzazione delle forze popolari e nella lotta per il consolidamento della libertà politica e della sovranità popolare in Russia.

Il ruolo dei soldati nella rivoluzione di Febbraio fu sancito dall'ingresso di delegati militari nel consiglio operaio, che assunse quindi la denominazione di «soviet dei deputati degli operai e dei soldati» (anche l'organo ufficiale, il cui primo numero uscì il 28 febbraio, s'intitolava «Izvestija Petrogradskago soveta rabocich i soldatskich deputatov»). In un primo momento le norme rappresentative, che concedevano a ogni compagnia o unità militare corrispondente il diritto d'inviare un delegato, favorirono sul piano numerico la sezione dei soldati rispetto a quella operaia (per quest'ultima era prevista l'elezione di un deputato per ogni mille lavoratori, a eccezione delle fabbriche più piccole che avevano anch'esse il loro rappresentante). L'articolazione del nuovo soviet in due distinte sezioni, che nominavano ciascuna una propria commissione esecutiva, era la novità più vistosa rispetto ai consigli del 1905, che erano stati organi esclusivamente proletari (se si escludono i comitati dei soldati sorti in alcune città nel novembre-dicembre e se si eccettua l'episodio di Krasnojarsk, dove si era formato un soviet congiunto degli operai e dei soldati).

Il riconoscimento ufficiale dei diritti dei militari fu uno dei  primi atti del soviet di Pietrogrado. La celebre «ordinanza n. 1», promulgata il primo marzo 1917, garantiva ai soldati e ai marinai russi il pieno esercizio delle libertà civili e politiche e autorizzava tutti i reparti militari ad avere un proprio organo rappresentativo. Agli ufficiali e sottufficiali era proibito usare maniere grossolane (per esempio, dare del tu) nei rapporti con i militari di truppa, i quali dovevano comunque «osservare la più rigorosa disciplina» nell'espletamento degli obblighi di servizio. Il proclama stabiliva infine che «in tutti i loro atti politici» le unità militari avrebbero obbedito solo al soviet e ai propri comitati. Dopo un periodo iniziale caratterizzato dalle frequenti e tumultuose assemblee generali di migliaia di delegati operai e militari, i lavori del soviet presero un ritmo sempre più regolare e ordinato man mano che la sua struttura organizzativa si precisava e consolidava. Furono create numerose commissioni e si definirono meglio le funzioni del comitato esecutivo, il quale alla fine di marzo comprendeva già 42 membri, inclusi il presidente e i due vicepresidenti. A metà marzo si formò un ufficio del comitato esecutivo composto da 7 persone, con il compito di occuparsi degli affari correnti; in seguito l'ufficio fu allargato a 24 membri e cominciò a riunirsi ogni giorno, mentre il comitato esecutivo veniva convocato tre volte alla settimana.

Mentre le forze popolari andavano organizzandosi nel soviet, gli uomini politici liberali non rimasero inattivi. Il comitato provvisorio della duma, formato il 27 febbraio da alcuni autorevoli membri del parlamento allo scopo di «ristabilire l'ordine statale e sociale» e «creare normali condizioni di vita e di governo nella capitale», si rivolse all'esercito esortandolo alla regolare prosecuzione delle operazioni belliche ed entrò in trattative con il soviet per il nuovo assetto politico del Paese. Risolta ai primi di marzo la questione istituzionale con l'abdicazione di Nicola II e la successiva rinuncia al trono del granduca Michele, fratello dello zar, il problema più urgente era definire meglio il programma del governo provvisorio creato il 2 marzo per iniziativa del comitato della duma e presieduto dal principe L'vov. Il rifiuto del soviet di mandare i propri rappresentanti al governo fece sì che quest'ultimo avesse una composizione politica abbastanza omogenea. Le personalità più influenti erano il cadetto (cioè componente del Partito democratico-costituzionale, siglato KD) Miljukov, che assunse il ministero degli Affari esteri, e il dirigente del Partito ottobrista Guckov, nominato ministro della Guerra e della Marina (entrambi figure di spicco del liberalismo russo, di cui rappresentavano il primo l'ala progressista e il secondo quella conservatrice).

Il 3 marzo 1917 il comitato della duma annunciò al Paese la lista dei ministri e l'orientamento programmatico del nuovo governo (il documento fu pubblicato dalle «Izvestija» del soviet di Pietrogrado). Oltre all'immediata amnistia «per tutti i reati politici e religiosi, tra cui gli attentati terroristici, le rivolte militari, i disordini agrari, ecc.», il governo provvisorio prometteva «l'abolizione di ogni discriminazione sociale, religiosa e nazionale» e il pieno esercizio dei diritti politici («libertà di parola, di stampa, di associazione, di riunione e di sciopero»), estesi anche ai militari compatibilmente con le esigenze di servizio. L'impegno a indire elezioni amministrative e a convocare subito l'assemblea costituente liberamente eletta era un altro punto essenziale della dichiarazione programmatica. Il documento si concludeva con la solenne assicurazione che il governo non avrebbe approfittato del conflitto bellico in corso per rinviare l'attuazione delle riforme annunciate.

Nonostante il consiglio degli operai e dei soldati si fosse pronunciato contro la partecipazione di rappresentanti socialisti al ministero diretto dal principe L'vov, il vicepresidente del soviet Kerenskij volle entrare lo stesso nel governo provvisorio come titolare del dicastero della giustizia. Kerenskij era allora una delle figure più prestigiose della «democrazia rivoluzionaria»: presidente del gruppo parlamentare dei trudoviki (socialrivoluzionari moderati) prima della rivoluzione, aveva pronunciato dai banchi dell'opposizione fieri discorsi contro il regime zarista e fuori della duma si era reso celebre partecipando come avvocato a diversi processi politici. Nelle giornate di febbraio Kerenskij aveva mantenuto i contatti con l'opposizione liberale ed era stato l'unico esponente socialista nel comitato della duma. Queste circostanze rendevano la sua presenza nel governo preziosa per i partiti borghesi, che contavano così di assicurarsi il sostegno e la collaborazione delle forze popolari. In realtà, i rapporti tra il soviet e il governo borghese furono tutt'altro che facili sin dall'inizio. Non era un mistero per nessuno che Miljukov e Guckov avessero tentato di salvare l'istituto monarchico cercando di convincere il granduca Michele a non rinunciare al trono. Né si poteva contare, nonostante le promesse, sulla volontà del governo di portare a compimento il programma di riforme democratiche concordato con il soviet. E, soprattutto sulla questione della guerra, si profilava la minaccia di un duro scontro tra la «democrazia rivoluzionaria» e le forze borghesi.

Come vedremo meglio più avanti analizzando i programmi e le strategie dei partiti popolari, il conflitto mondiale aveva provocato nel movimento socialista russo dibattiti e lacerazioni in misura forse maggiore che in qualsiasi altro Paese belligerante. L'atteggiamento del soviet verso la guerra non era unanime e rifletteva le posizioni delle diverse correnti rivoluzionarie. Ciò nonostante il 14 marzo, nel corso di una seduta plenaria, fu approvato nell'entusiasmo generale un appello «ai popoli di tutto il mondo», che enunciava con chiarezza la visione e gli obiettivi della «democrazia rivoluzionaria». Annunziando con fierezza il crollo del «pilastro della reazione mondiale» e il trionfo della libertà in Russia, il soviet di Pietrogrado assicurava che la «democrazia russa» si sarebbe opposta con tutti i mezzi «alla politica di conquista delle proprie classi dominanti» e invitava i popoli a lottare contro «le mire espansionistiche di tutti i governi». Una viva esortazione veniva rivolta «ai fratelli proletari della coalizione austro-germanica e soprattutto al proletariato tedesco» perché rovesciassero i loro governi dispotici, avvertendoli comunque che la rivoluzione russa non avrebbe indietreggiato «davanti alle baionette dei conquistatori». Una simile posizione non poteva non creare tensioni e conflitti con il governo provvisorio, di cui era ben nota la volontà di proseguire la guerra attenendosi agli accordi conclusi dal regime zarista con le potenze alleate. Neppure la dichiarazione governativa del 27 marzo - con la quale si escludeva che tra gli obiettivi di guerra ci fosse l'occupazione o la conquista di territori stranieri - riuscì a fugare i timori del soviet circa le reali intenzioni dei ministri borghesi. La crisi sarebbe esplosa qualche settimana più tardi provocando la caduta del gabinetto presieduto dal principe L'vov e la formazione di un governo di coalizione.

Come spiegare il «paradosso della rivoluzione di Febbraio» (l'espressione è di Trotskij, che intitolò così un capitolo della sua Storia della rivoluzione russa), cioè la rinuncia della «democrazia rivoluzionaria» ad assumere il potere dopo il trionfo dell'insurrezione popolare? Godendo di un immenso prestigio tra i lavoratori e i soldati non solo della capitale ma di tutto il Paese, il soviet di Pietrogrado esercitava di fatto ampie funzioni governative e amministrative. I soviet locali che dai primi di marzo andavano formandosi nelle più lontane province, chiedevano istruzioni e prendevano ordini dal consiglio degli operai e dei soldati della capitale. Come scriveva il 9 marzo 1917 il ministro della Guerra Guckov al generale Alekseev, comandante supremo delle forze armate,

«il governo provvisorio non possiede un potere reale e i suoi ordini sono eseguiti solo per quel tanto che è permesso dal soviet dei rappresentanti degli operai e dei soldati, che ha in mano gli elementi più importanti del vero potere, cioè i soldati, le ferrovie, il servizio postale e telegrafico. »

Eppure, il soviet di Pietrogrado permise la formazione di un governo borghese, assicurandogli oltretutto il proprio sostegno «nella misura in cui» la sua attività non fosse stata in contrasto con le esigenze e le aspirazioni delle masse popolari. In realtà, come ha scritto nel 1967 lo storico M. Reiman,

«l'evoluzione stessa spingeva al compromesso tra il soviet e gli esponenti borghesi: il primo non poteva e non aveva né il coraggio né la convinzione necessari per assumere il potere; la borghesia, nella capitale, non era in grado di formare un governo contro la volontà del soviet che qui dominava le masse.»

Al momento dell'improvvisa e massiccia esplosione del malcontento popolare, i partiti socialisti operavano in condizioni di semiclandestinità ed erano indeboliti dalle feroci repressioni (numerosi dirigenti e militanti si trovavano in esilio o in prigione). Nel tentativo di organizzare e dirigere il movimento insurrezionale, i quadri rivoluzionari presenti a Pietrogrado cercarono di elaborare le parole d'ordine valide per la nuova situazione attingendole al patrimonio ideologico dei rispettivi gruppi politici. Essendo radicata in tanta parte del movimento socialista la convinzione del carattere democratico-borghese della rivoluzione russa, alla maggioranza del soviet non parve inammissibile la formazione di un governo liberale dopo il crollo del regime autocratico. Il fatto che i partiti borghesi fossero meno disorganizzati e i loro dirigenti avessero una migliore conoscenza della macchina statale e amministrativa, contribuì alla nascita subitanea del primo governo provvisorio. Né va infine dimenticato che, al momento della rivoluzione di Febbraio, molti uomini politici liberali godevano di un notevole prestigio per aver condotto negli ultimi anni una dura battaglia contro il regime zarista.

La situazione di «dualismo di potere», creatasi in seguito al rivolgimento di febbraio, scaturiva dalla stessa dinamica del processo rivoluzionario, caratterizzato dall'intreccio di due differenti movimenti politico-sociali. Lo sviluppo industriale degli ultimi decenni dell'Ottocento non aveva scalfito la struttura autocratica del potere statale, lasciando insoddisfatta l'esigenza di rinnovamento politico-costituzionale avvertita da diversi strati della società (membri delle professioni liberali, rappresentanti delle amministrazioni locali, settori più avanzati della borghesia produttiva e della nobiltà). Dopo la breve parentesi d'entusiasmo costituzionale, alimentato dalla promessa di libertà politiche e di un parlamento con poteri legislativi (manifesto imperiale del 17 ottobre 1905), il conflitto tra movimento liberale e governo zarista si era acuito in seguito al brutale scioglimento della prima e seconda dumo, e all'esautoramento delle successive assemblee parlamentari.  Tuttavia, la debolezza numerica dei ceti medi urbani (il limitato sviluppo economico non aveva prodotto grandi sconvolgimenti nella struttura arcaica della società russa) privava il movimento liberale di un'ampia e solida base sociale, impedendogli così di assumere un ruolo egemonico nel processo rivoluzionario.

Per contro, le spaventose condizioni di vita - aggravate dal lungo e sanguinoso conflitto bellico - spingevano le masse popolari a rivendicazioni elementari e radicali, spesso incompatibili con gli interessi economici delle classi proprietarie. Dopo le giornate di febbraio, i partiti borghesi cercarono d'incanalare la protesta popolare nell'alveo di una rivoluzione liberale che si limitasse a smantellare il vecchio apparato amministrativo dello Stato zarista senza sconvolgere l'assetto economico-sociale del Paese e senza pregiudicare la prosecuzione delle operazioni belliche a fianco delle potenze alleate. Dapprima il tentativo riuscì, almeno in parte, favorito anche dalla disponibilità del governo provvisorio e dei ceti abbienti ad accogliere alcune urgenti rivendicazioni economiche delle masse lavoratrici. Ma nei mesi successivi il divario tra rivoluzione borghese e rivoluzione plebea divenne sempre più profondo, man mano che il movimento popolare andava emergendo e articolandosi in una miriade di organizzazioni politico-sindacali.

2. La rivoluzione nelle province: l'esempio di Samara

Tra la fine di febbraio e l'inizio di marzo fu Pietrogrado il centro propulsore del movimento rivoluzionario in Russia. Solo dopo la vittoria dell'insurrezione popolare nella capitale sorsero un po' dappertutto, a partire dal primo marzo 1917, comitati locali dalle più svariate denominazioni, i quali demolirono in breve tempo le strutture politico-amministrative del vecchio regime nelle province, nei distretti e nei circondari rurali. Quasi sempre l'iniziativa spettò ai membri dei consigli municipali o degli zemstvo, (le amministrazioni provinciali e distrettuali), cioè all'opposizione liberale raccolta intorno al Partito cadetto. Avuta notizia che il comitato provvisorio della duma a Pietrogrado stava formando un nuovo governo, i rappresentanti delle amministrazioni locali espressero subito la loro adesione convocando pubbliche assemblee e prendendo contatto con le organizzazioni operaie e con i partiti socialisti. Per esempio, a Vologda il primo marzo si formò un «comitato governativo provinciale provvisorio» composto da 5 membri della dumo cittadina, 3 operai, 3 contadini, 2 rappresentanti delle cooperative e 6 esponenti politici (2 cadetti, 2 socialdemocratici e 2 socialisti rivoluzionari). Nello stesso giorno il consiglio municipale di Niznij-Novgorod, nel corso di una seduta animata da un enorme pubblico, diede lettura del telegramma giunto da Pietrogrado e salutò con entusiasmo la nascita del comitato provvisorio della dumo, di Stato; fu anche deciso di eleggere un nuovo organo del potere locale -denominato «comitato esecutivo cittadino» - con la partecipazione di rappresentanti della duma municipale, degli zemstvo, delle organizzazioni sociali e degli operai. A Caricyn (poi Stalingrado, Volgograd e oggi nuovamente tornata alla sua denominazione originaria) i consiglieri della giunta municipale, i membri del comitato per l'industria bellica e i rappresentanti di alcune organizzazioni sociali formarono un «comitato esecutivo provvisorio». I nuovi organismi rappresentativi così creati procedevano all'arresto o all'esautoramento del governatore provinciale e degli altri funzionari del potere zarista.

Nelle province il passaggio dal vecchio al nuovo regime fu nel complesso rapido e indolore non solo per l'influenza determinante degli avvenimenti di Pietrogrado, ma anche grazie alla partecipazione popolare, manifestatasi dovunque con comizi e dimostrazioni a sostegno della rivoluzione, e all'atteggiamento delle guarnigioni militari, che si rifiutarono di diventare strumento della reazione. Già ai primi di marzo, sull'esempio del soviet di Pietrogrado, in numerose città si formarono consigli di deputati degli operai e dei soldati; anche i reparti che combattevano al fronte crearono ben presto i loro organi rappresentativi. Nello stesso tempo i partiti rivoluzionari, usciti dalla clandestinità, avevano modo di ricostruire o ampliare la loro rete organizzativa. Comunque, nei giorni immediatamente successivi alla caduta della monarchia zarista, i gruppi politici liberali (e soprattutto il Partito cadetto) riuscirono a esercitare una notevole influenza sul movimento popolare in tantissimi capoluoghi di provincia e di distretto e nella seconda capitale del Paese.

A Mosca, nelle elezioni municipali del dicembre 1916 i cadetti  avevano ottenuto 149 seggi su 160. Irritato per l'opposizione condotta dal Partito costituzionale democratico per tutto il periodo della guerra, il governo invalidò le elezioni prendendo a pretesto irregolarità procedurali. Fino alla rivoluzione di Febbraio restò quindi in carica la vecchia giunta municipale, dal momento che la duma recentemente eletta non aveva potuto riunirsi. In seguito alle notizie sull'insurrezione a Pietrogrado, la sera del 27 febbraio si svolse nella sede della duma municipale, per iniziativa del sindaco cadetto Celnokov, una conferenza cittadina a cui parteciparono, oltre ai consiglieri della passata e della nuova amministrazione, rappresentanti degli industriali, delle cooperative, delle casse di mutuo soccorso operaio. Fu deciso di formare un «comitato delle organizzazioni sociali» (komitet obscestvennych organizacij o KOO) e si elesse subito l'ufficio organizzativo incaricato di stabilirne la composizione.

Il primo marzo, quando si tenne la prima assemblea generale del nuovo comitato, erano presenti 171 delegati in rappresentanza di 23 organizzazioni (duma cittadina, zemstvo distrettuale e provinciale, comitato per l'industria bellica, varie categorie di impiegati, ecc). Il gruppo sociale più forte era quello operaio, che annoverava ben 64 rappresentanti (di cui 20 provenivano dal soviet operaio, costituitosi nello stesso giorno, e 44 dalle organizzazioni sindacali e dalle casse di mutuo soccorso). I 15 membri del comitato esecutivo del KOO, eletti nella seduta plenaria del primo marzo, provenivano dalle file di tutti i maggiori partiti d'opposizione; c'erano infatti cadetti e loro simpatizzanti, menscevichi, socialisti rivoluzionari e bolscevichi. In seguito, anche il soviet dei deputati dei soldati mandò propri rappresentanti al comitato delle organizzazioni sociali. A differenza di quel che era avvenuto a Pietrogrado, a Mosca i soldati si riunirono il 4 marzo in un proprio soviet, che collaborò con il consiglio operaio restando comunque indipendente sul piano organizzativo. Anche in altre città le due istanze rappresentative delle masse lavoratrici e dei militari stabilirono stretti rapporti di collaborazione senza però giungere a una vera e propria fusione. Il KOO restò in vita per diversi mesi e svolse un ruolo importante a Mosca godendo, soprattutto nelle prime settimane, della fiducia e collaborazione delle principali forze politiche e sociali.

L'esempio di Mosca e di tantissime città di provincia mostra come la rivoluzione borghese avesse all'inizio un'ampiezza e profondità, che gli storici non sempre hanno saputo o voluto cogliere. La rivoluzione popolare, pur prorompendo con straordinaria forza nella capitale fino a provocare il crollo subitaneo del vecchio regime, non riuscì a imporsi subito in tutto il Paese e subì quindi, in una prima fase, l'egemonia del movimento liberale. Solo in un secondo momento il rapporto tra le due tendenze fondamentali del processo rivoluzionario andò capovolgendosi con il declino dell'influenza borghese e l'avanzata del movimento plebeo. Ma prima di analizzare l'ulteriore sviluppo delle vicende rivoluzionarie, vale forse la pena di soffermarsi sulla storia di Samara nella primavera del 1917, così come risulta dall'ampia e minuziosa cronaca curata da I. I. Bljumental' nel 1927. Potremo così, seguendo le vicende di un'importante provincia della regione del Volga, osservare da vicino l'azione dei partiti politici e dei gruppi sociali nella prima fase della rivoluzione russa.

Gli eventi che portarono all'instaurazione del nuovo potere a Samara presentano evidenti analogie con altre situazioni locali, anche se forse si osserva qui una maggior timidezza della borghesia nella lotta contro i rappresentanti dell'antico regime. Il primo marzo 1917, quando si ebbero le prime notizie sulla rivoluzione nella capitale, nel corso di una riunione privata dei consiglieri municipali il sindaco Usakov lesse il telegramma inviatogli dal presidente della duma di Stato, Rodzjanko. La seduta ufficiale della duma municipale, svoltasi successivamente, sancì la legittimità del «comitato cittadino provvisorio», che era stato eletto durante l'incontro privato, concedendogli anche la facoltà di cooptare rappresentanti delle organizzazioni sociali. Il comitato espresse in un telegramma a Rodzjanko la propria soddisfazione per il passaggio dei poteri alla duma e mandò una delegazione dal governatore provinciale, il quale l'accolse con molta cortesia promettendo la massima collaborazione. Nello stesso giorno il «comitato operaio provvisorio», eletto durante un incontro di esponenti socialisti (bolscevichi, menscevichi, socialisti rivoluzionari e membri del Bund ebraico), decise di organizzare un soviet dei deputati operai e lanciò un appello ai lavoratori invitandoli a «mantenere la calma e non interrompere il lavoro».

La sera del 2 marzo si svolsero nei teatri cittadini affollate assemblee operaie, nel corso delle quali venne eletto un soviet provvisorio di 15 membri. Il primo atto politico importante del consiglio operaio fu la decisione, presa l'indomani mattina, di chiedere al comitato cittadino, che si mostrava ancora incerto e titubante, l'adozione di una serie di misure urgenti, capaci di assicurare la vittoria della rivoluzione: taglio dei telefoni dell'amministrazione zarista e introduzione della censura sulla corrispondenza, nomina di commissari per i servizi postali e telegrafici, arresto del governatore e dei responsabili della gendarmeria, disarmo della polizia e creazione della milizia popolare, stretta collaborazione con la guarnigione militare, liberazione dei prigionieri politici. L'iniziativa del soviet impresse una svolta decisiva agli avvenimenti. Il comitato cittadino accolse le proposte della delegazione operaia e decise anche di chiamarsi d'ora innanzi «comitato per il potere popolare» {komitet narodnoj piasti). Il 4 marzo, nella seduta plenaria del nuovo comitato, alla quale parteciparono anche 200 rappresentanti delle organizzazioni sociali e dell'esercito, fu nominato un comitato esecutivo di 30 membri; dopo il rifiuto di Usakov, alla carica di presidente del comitato per il potere popolare venne eletto all'unanimità il cadetto Podbel'skij. Con l'arresto del governatore e di altri funzionari della vecchia amministrazione, avvenuto lo stesso giorno, il passaggio dei poteri nella provincia di Samara poteva ormai dirsi concluso.

Anche nei capoluoghi di distretto l'antico regime si dissolse nel giro di un paio di giorni. Il 3 marzo il «comitato di pubblica sicurezza» (komitet obscestvennoj bezopa-snostì) di Novouzensk — composto da rappresentanti dello zemstvo, della duma municipale, dell'esercito e di varie organizzazioni cittadine - procedette al disarmo della polizia. La stessa denominazione aveva il comitato locale che a Po-krovsk mise agli arresti l'ufficiale della gendarmeria, alcuni agenti di polizia e, su richiesta dei soldati, il comandante del reggimento. Lo stesso giorno, la duma e i cittadini di Buzuluk dichiararono il loro sostegno al nuovo regime. Il 4 marzo fu la volta di Buguruslan, che vide anch'essa la nascita di un comitato di pubblica sicurezza, e di Nikolaevsk, dove la giunta municipale e i militari formarono un «comitato provvisorio per il potere popolare».

Il fatto che i ceti sociali tradizionalmente fedeli al vecchio regime non opponessero alcuna resistenza, è da considerarsi un'altra prova della disgregazione e decomposizione dello zarismo. Il 5 marzo i marescialli della nobiltà e gli altri rappresentanti dell'aristocrazia della provincia di Samara decisero di sostenere la duma di Stato e il nuovo governo. Una deliberazione non dissimile fu presa lo stesso giorno dall'assemblea del clero ortodosso. Quest'ultimo, anzi, si spinse più avanti sulla strada del rinnovamento, pronunciandosi il 20 aprile a favore dell'eleggibilità delle cariche ecclesiastiche e della separazione tra Stato e Chiesa. Al nuovo regime sembrava opporsi ancora solo qualche parroco di villaggio, che continuava come prima a menare propaganda reazionaria dal pulpito.

Verso la metà di marzo esistevano già 7 consigli operai, oltre al soviet di Samara, anche se in alcuni casi si trattava di organismi rudimentali (la popolazione proletaria era concentrata soprattutto nel capoluogo di provincia). Per esempio, il soviet di Balakovo coincideva con la sezione operaia del locale comitato per il potere popolare, mentre il consiglio operaio del villaggio di Bogatoe era più che altro un comitato di fabbrica, creato il 9 marzo dai lavoratori e dagli impiegati dello zuccherificio. Il soviet di Samara aveva invece un proprio organo di stampa e una struttura complessa. Nella seduta del 12 marzo furono elaborate precise norme rappresentative per l'elezione dei delegati e si stabilì che il comitato esecutivo sarebbe stato costituito dal presidium (di cui facevano parte, oltre al presidente, i 2 vicepresidenti e i 2 segretari) e dai presidenti di tutte le commissioni (allora ne esistevano già sei). Il 21 marzo, dei 5 membri del presidium due erano bolscevichi, due aderivano alla frazione menscevica e uno era iscritto al Bund (l'organizzazione socialdemocratica ebraica); il bolscevico Kujbysev occupò per un certo periodo la carica di presidente. Il soviet svolse un'intensa attività organizzativa tra le masse operaie, promovendo la formazione di numerosi sindacati di categoria (l'11 marzo se ne contavano già dodici) e dirigendo la lotta per la giornata lavorativa di 8 ore.

Nel complesso l'atteggiamento del consiglio operaio verso le battaglie rivendicative dei lavoratori fu abbastanza prudente e moderato, seguendo in ciò una tendenza largamente diffusa nel Paese nei primi mesi della rivoluzione. Nella risoluzione approvata il 3 aprile si diceva a chiare lettere che «il soviet considera compito fondamentale del proletariato in questo momento la lotta politica, non quella economica»; le difficili condizioni di vita di «alcune categorie di lavoratori» rendevano legittime le richieste di miglioramenti economici per questi settori della classe operaia, purché ciò avvenisse in modo organizzato, «con il benestare dei sindacati» e «d'accordo con il comitato esecutivo del soviet». Oltre al consiglio operaio, esisteva a Samara anche un soviet militare, creato l'8 marzo dai rappresentanti dei soldati nel comitato per il potere popolare. A giugno i due soviet decisero di fondersi. I bolscevichi nelle prime settimane della rivoluzione di Samara mostrarono una sorprendente moderazione e una notevole incertezza. Non solo nei rapporti con i menscevichi, caratterizzati dalla ricerca dell'intesa e dalla volontà di superare le divergenze ideologiche, ma soprattutto nel giudizio sulla situazione politica sul quale il comitato bolscevico mantenne per un certo tempo posizioni che avrebbe abbandonato solo più tardi per aderire alla strategia di Lenin. Per esempio, la risoluzione sulla guerra approvata il 9 aprile dalla conferenza cittadina, dopo aver denunciato il carattere imperialistico del conflitto mondiale e ribadito l'urgente necessità della lotta per una pace democratica, così terminava: «Consideriamo nostro dovere dichiarare che, poiché la guerra continua, siamo costretti non solo nell'interesse della rivoluzione russa ma anche nell'interesse della democrazia internazionale, a tendere le forze in difesa della nostra libertà, in difesa della rivoluzione russa dall'attacco esterno». Neppure nell'atteggiamento verso il governo provvisorio i bolscevichi di Samara si discostavano molto dagli altri partiti della «democrazia rivoluzionaria».

Il severo giudizio sulla natura di classe del ministero L'vov e l'esortazione a un «costante e vigile controllo» mal si conciliavano con l'impegno a sostenerne l'azione:

«Finché il governo provvisorio continuerà a seguire le indicazioni degli operai e dei contadini, noi riteniamo necessario appoggiare le sue misure volte a eliminare i resti del vecchio regime e ad attuare le rivendicazioni della classe operaia e dei contadini.»

La svolta si ebbe alla fine di aprile, quando l'assemblea dei bolscevichi del quartiere lettone chiese il passaggio del potere nelle mani dei soviet degli operai, dei soldati e dei contadini. La stessa richiesta venne poi formulata nella risoluzione del comitato provinciale, pubblicata il 7 maggio dalla «Privolzskaja Pravda».

3. La vitalità della tradizione populistica: il Partito dei socialisti rivoluzionari

Tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, quando sembrava che il «grande slancio» industriale e la nascita di gruppi politici marxisti avessero inferto un duro colpo alla tradizione populistica, era sorto in Russia un partito capace di rinnovare in modo originale il patrimonio ideologico e la prassi politica del vecchio socialismo contadino. Nato alla fine del 1901 dalla fusione di alcuni gruppi populistici, il Partito dei socialisti rivoluzionari (PSR) non si limitò a compiere, con l'ausilio della leggendaria Organizzazione di combattimento, spettacolari attentati terroristici contro alti dignitari del regime zarista. Nel 1902 fu fondata a Saratov da Bresko-Breskovskaja, Gersuni e Rakitnikov l'Unione contadina del PSR, che cominciò a svolgere un intenso lavoro politico nelle campagne insieme all'altra organizzazione ausiliaria del partito, l'Unione dei maestri elementari. Pur attribuendo alla classe operaia di recente formazione un ruolo politico centrale nella lotta contro lo zarismo, i socialisti rivoluzionari restavano convinti dell'importanza del movimento contadino nella rivoluzione russa.

A differenza dei socialdemocratici, per i quali il capitalismo era già penetrato in profondità nelle campagne disgregando la comunità contadina (obscina) e creando classi antagonistiche all'interno del mondo rurale, il programma socialrivoluzionario partiva dalla premessa che le antiche tradizioni egualitarie, tipiche del villaggio russo, non fossero state minate dallo sviluppo economico. Era quindi possibile non solo coinvolgere le masse contadine nella guerra contro il regime autocratico, ma anche fare della riforma agraria il punto di partenza della trasformazione socialista in Russia. A questo mirava la «socializzazione», cioè la fondamentale richiesta programmatica del PSR, in base alla quale tutte le terre (dalle proprietà signorili ai beni demaniali) avrebbero dovuto esser confiscate e date in uso alle comunità rurali democratiche.

Le felici intuizioni sulla natura dei rapporti sociali nelle campagne e lo stretto legame con gli abitanti dei villaggi, di cui conoscevano bene bisogni e mentalità, permisero ai militanti socialrivoluzionari di esercitare una profonda influenza sul movimento contadino già nella prima rivoluzione russa. Mentre la parola d'ordine socialdemocratica delle «due guerre sociali» (battaglia antifeudale di tutti i contadini da un lato, e scontro tra proletariato agricolo e borghesia rurale dall'altro) nasceva da una visione erronea della realtà e provocava disorientamento e confusione tra gli agitatori di partito, i socialisti rivoluzionari videro confermata dalle rivolte agrarie la loro concezione politico-strategica, che individuava nella lotta della popolazione rurale contro i grandi proprietari terrieri il vero conflitto di classe nelle campagne. Se poi si tiene presente che nel 1905 il PSR riuscì a far proseliti anche tra gli operai di fabbrica (molti dei quali erano ancora legati ai villaggi d'origine) e prese parte attiva al lavoro dei soviet e alle più importanti battaglie rivoluzionarie, si deve concludere che il Partito populistico esprimeva meglio dei menscevichi o dei bolscevichi i bisogni e le aspirazioni delle masse plebee russe. La crisi politica e organizzativa del PSR cominciò dopo la sconfitta della rivoluzione, a causa delle repressioni governative e in seguito alle rivelazioni sul tradimento di Evno Azef (un agente provocatore divenuto dirigente del partito). Dopo le dimissioni di tutto il comitato centrale nel maggio 1909 e la deportazione in Siberia dei nuovi membri eletti, tra i dirigenti socialrivoluzionari in esilio si formò un gruppo di destra - detto dei «liquidatori» - che proponeva al partito di limitarsi all'attività politica legale.

Alla grave crisi organizzativa si unì un profondo smarrimento ideale, provocato dalla riforma agraria di Stolypin (che mirava a creare una classe di agricoltori proprietari allentando i vincoli comunitari dei contadini russi). Lo scoppio della guerra mondiale produsse ulteriori lacerazioni in un partito già provato e disorientato. La conferenza svoltasi il 22 agosto 1914 a Beaugy-sur-Clarens in Svizzera rivelò profondi contrasti tra i dirigenti socialrivoluzionari. Oltre alle due correnti fondamentali dei «difensori della patria» (Avksent'ev, Bunakov-Fondaminskij, Argunov e Rudnev) e degli internazionalisti (Cernov e Natanson), esistevano divergenze anche all'interno di ciascuna tendenza. Per esempio, mentre il teorico del partito Cernov, giudicando pericolosa la sconfitta di una sola nazione belligerante, sosteneva che la propaganda contro la guerra in Russia dovesse accompagnarsi a un'attività simile in Germania, il vecchio eroe rivoluzionario Mark Natanson vedeva nella disfatta militare dello zarismo il preludio della rivoluzione. Le divisioni andarono approfondendosi sempre di più nel corso della guerra, anche se non si giunse mai a una rottura formale.

La rivoluzione di Febbraio colse dunque il partito in uno stato di confusione e disorganizzazione: un rapporto di polizia del 25 febbraio 1917, pur segnalando la presenza di militanti del PSR nella capitale, osservava che «non esiste a Pietrogrado un'organizzazione di questo partito». Tuttavia, la nuova situazione di libertà politica creatasi con la caduta dello zarismo favorì la ripresa e la rapida crescita dei socialisti rivoluzionari, che divennero in pochi mesi il partito popolare con il più largo seguito nel Paese. Sin dall'inizio il PSR dichiarò il proprio sostegno al governo provvisorio, purché quest'ultimo s'impegnasse ad attuare il programma enunciato, ed ebbe propri rappresentanti nel soviet di Pietrogrado e negli altri organismi consiliari che andavano formandosi nel Paese. Ai soviet degli operai e dei soldati, i socialisti rivoluzionari assegnavano l'importante compito di mobilitare le masse popolari in difesa della democrazia e di garantire la tutela degli interessi economici dei lavoratori. La risoluzione approvata il 4 marzo dalla conferenza dei socialisti rivoluzionari della regione di Pietrogrado chiese che il consiglio degli operai e dei soldati della capitale organizzasse al più presto un soviet pan-russo dei deputati degli operai, dei soldati e dei contadini. Fu proprio il PSR, come vedremo in un prossimo paragrafo, a promuovere fin dal mese di marzo la creazione dei soviet nelle campagne. Tuttavia, nella strategia socialrivoluzionaria i soviet, pur esprimendo i bisogni di vasti settori delle classi popolari, non rappresentavano tutta la «democrazia del lavoro» e non potevano sostituirsi all'assemblea costituente democraticamente eletta, l'unica istituzione capace di assicurare la sovranità del popolo e avviare le grandi riforme economico-sociali.

Riguardo al conflitto mondiale il PSR aveva una posizione non dissimile da quella assunta dal soviet di Pietrogrado, chiedeva la convocazione di un congresso socialista internazionale per coordinare l'azione dei partiti operai nella lotta contro la guerra; la pressione sui governi dei Paesi belligeranti per giungere a una pace democratica «senza annessioni e senza riparazioni» sulla base del principio dell'autodeterminazione delle nazionalità; la difesa della nuova Russia libera e rivoluzionaria dai nemici esterni. I vecchi contrasti all'interno del PSR, che la vittoria della rivoluzione sembrava aver sopito, tornarono a manifestarsi in occasione della seconda conferenza del comitato petrogradese (3-5 aprile). Il rapporto di Goc sul problema della guerra, che ribadiva le tesi sopra esposte, fu aspramente contestato dalla sinistra del partito. Intervenendo nel dibattito, Kamkov definì «socialpatriottica» la posizione difesa da Goc e sostenne che solo un «incendio rivoluzionario mondiale» avrebbe potuto porre fine all'immane carneficina. La risoluzione approvata dalla conferenza - con 68 voti a favore, 56 contrari e 13 astenuti - riprese sostanzialmente i concetti espressi da Goc, chiedendo inoltre che il governo provvisorio pubblicasse tutti i trattati conclusi dal regime zarista.

Nonostante le profonde divergenze sul problema della guerra, la minoranza di sinistra dichiarò, per bocca di Mstislavskij, di non voler provocare una scissione, salvando così ancora una volta l'unità formale del partito.

4. I socialdemocratici russi: menscevichi e bolscevichi

I dissidi sul primo paragrafo dello statuto e su altre questioni organizzative avevano causato già nel 1903 una grave lacerazione nel partito operaio socialdemocratico russo (POSDR) d'ispirazione marxista. Le divergenze si erano acuite nel corso della rivoluzione del 1905, quando le due opposte frazioni della socialdemocrazia -menscevichi e bolscevichi - elaborarono differenti parole d'ordine e strategie politiche. Per i menscevichi, il partito operaio doveva restare la forza di «estrema opposizione rivoluzionaria» e spingere avanti il movimento liberale nella lotta contro il regime zarista. Trattandosi di una rivoluzione democratico-borghese (tutti i marxisti russi erano convinti che non esistessero in Russia le condizioni economiche per un'immediata trasformazione socialista), il proletariato non poteva mirare al potere né prender parte a eventuali governi liberali dopo il crollo della monarchia zarista. I lavoratori dovevano preoccuparsi piuttosto di consolidare le proprie posizioni creando organizzazioni sindacali e formando i soviet (a differenza dei bolscevichi, molti dei quali guardavano con diffidenza a questi organi apartitici, nel 1905 i menscevichi capirono subito l'importanza dei consigli operai). Negli anni della reazione i menscevichi, pur sforzandosi di tenere in vita l'apparato clandestino, cercarono di utilizzare tutti gli angusti spazi legali concessi dal governo zarista: parlamento, sindacati, cooperative, comitati per l'industria bellica, ecc.

Allo scoppio della guerra il piccolo drappello di deputati menscevichi votò contro il bilancio militare. Alcuni autorevoli esponenti del partito, tra cui Potresov e Plechanov, in patria e all'estero sostennero la necessità della difesa nazionale, mentre la corrente degli «internazionalisti» (Martov, Martynov e altri) rimase fedele agli ideali socialisti richiamandosi alle deliberazioni delle conferenze di Zim-merwald (1915) e Kienthal (1916).

Come s'è già accennato, i menscevichi ebbero una parte importante nella creazione del soviet di Pietrogrado; menscevichi erano il presidente (Scheidze) e uno dei due vicepresidenti (Skobelev). Negli avvenimenti della rivoluzione di Febbraio i menscevichi videro la conferma della loro linea politico-strategica. La formazione di un governo liberale dopo la vittoria dell'insurrezione popolare era la logica conseguenza del carattere borghese della rivoluzione. Alle masse lavoratrici spettava il compito di consolidare le conquiste democratiche dando vita ai consigli degli operai e dei soldati, che avrebbero esercitato un controllo dal basso sull'attività di governo. Un ruolo altrettanto importante dovevano avere le organizzazioni sindacali: in un appello lanciato il 10 marzo la «Rabocaja gazeta» - l'organo del partito - sosteneva la necessità dell'immediata creazione dei sindacati per dirigere le lotte economiche della classe operaia. In una situazione politica ancora fluida e incerta i menscevichi giudicavano pericolose le azioni spontanee e disorganizzate: come riportato ancora dalla «Rabocaja gazeta» del 26 marzo 1917, le legittime aspirazioni dei lavoratori andavano soddisfatte mediante «trattative e accordi con gli imprenditori», evitando il più possibile l'arma dello sciopero e ricorrendo alle camere di conciliazione, all'intervento del soviet e anche alla mediazione governativa

Pur respingendo la leggenda storiografica che attribuisce ai seguaci di Lenin un ruolo decisivo negli avvenimenti del febbraio 1917, bisogna comunque riconoscere che i bolscevichi erano il più forte partito della clandestinità rivoluzionaria. L'ufficio russo del comitato centrale e l'organizzazione di Pietrogrado reagirono ai nuovi eventi proponendo l'immediata formazione di un «governo rivoluzionario provvisorio», composto da rappresentanti degli operai e dei soldati insorti. Non è difficile scorgere in questa richiesta l'eco della parola d'ordine «dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini»: questa formula, elaborata da Lenin nel 1905, implicava l'alleanza strategica e la collaborazione governativa tra classe operaia e masse rurali al fine di garantire il successo della rivoluzione democratica contro l'instabilità della grande borghesia.

La nascita del governo provvisorio ai primi di marzo pose un difficile problema politico ai bolscevichi di Pietrogrado. Contro ogni previsione e aspettativa del partito, il potere statale non apparteneva al popolo insorto, ma era passato nelle mani della borghesia con il consenso del soviet. L'ufficio russo del comitato centrale - diretto da Molotov, Sljapnikov e Zaluckij - propendeva per una linea di dura opposizione al governo «controrivoluzionario», mentre il comitato di Pietrogrado sosteneva l'opportunità di un atteggiamento più moderato che si conciliasse meglio con la posizione prevalente in seno al soviet. L'arrivo nella capitale dall'esilio siberiano di Kamenev, Muranov e Stalin (13 marzo) non fece che aumentare l'incertezza e la confusione nelle file del partito. Kamenev giunse a scrivere sulla «Pravda» che «quando un esercito fronteggia un altro esercito, non ve niente di più inutile del suggerire a uno dei due eserciti di deporre le armi e di andare a casa», ripudiando la strategia del disfattismo rivoluzionario propugnata dai bolscevichi negli anni della guerra. Non meno incerta e contraddittoria era la tattica seguita dai comitati locali, come abbiamo visto accennando all'organizzazione di Samara e ricordando la partecipazione dei bolscevichi di Mosca al comitato delle organizzazioni sociali (e si potrebbero citare numerosi altri esempi).

Il ritorno di Lenin in Russia (3 aprile) impresse una svolta decisiva alla politica del partito. Durante il conflitto mondiale egli aveva analizzato la natura dell'imperialismo, traendone la conclusione che si trattava dell'ultimo stadio del capitalismo e che era quindi imminente la rivoluzione socialista. Per porre fine al sanguinoso macello di popoli, conseguenza inevitabile del capitalismo maturo, bisognava «trasformare la guerra imperialistica in guerra civile», cioè abbattere l'ordinamento economico borghese in tutti i Paesi belligeranti. Riflettendo sulla forma statale della futura società socialista, Lenin studiò a fondo l'esperienza storica della Comune di Parigi (l'unico esempio di presa del potere da parte del proletariato), di cui aveva spesso sottolineato in scritti precedenti i limiti e gli errori. Adesso invece gli sembrava che la classe operaia dovesse prendere a modello, nella lotta per il superamento della repubblica parlamentare borghese, proprio l'esperienza di democrazia diretta realizzata nel 1871 dagli insorti parigini (queste idee sarebbero poi state sviluppate nell'opuscolo Stato e rivoluzione dell'estate 1917). Dopo la rivoluzione di Febbraio, a Lenin parve che i soviet sorti rapidamente in tutta la Russia rappresentassero lo sviluppo e l'attuazione su scala più ampia dei principi di democrazia proletaria affermati per la prima volta dalla Comune parigina.

Le Tesi di aprile, lette da Lenin subito dopo il suo arrivo a Pietro-grado, nascevano da tutte queste riflessioni. Poiché la fase democratico-borghese della rivoluzione russa si era già conclusa con il crollo del regime zarista e la nascita del governo provvisorio, si poneva con urgenza il problema politico del passaggio alla seconda fase, ossia la presa del potere da parte del proletariato e dei contadini poveri. Sul piano economico ciò avrebbe comportato non «l'immediata introduzione del socialismo», ma la fusione di tutte le banche in un'unica banca nazionale e il controllo popolare sulla produzione e distribuzione. Nessun compromesso era dunque ammissibile con il governo del principe L'vov, al cui posto bisognava instaurare una «repubblica dei soviet dei deputati degli operai, dei braccianti e dei contadini». Non meno nette e intransigenti erano, nelle tesi leniniane, la critica delle posizioni inclini alla «difesa rivoluzionaria della patria» e la condanna degli scopi imperialistici perseguiti dal governo provvisorio. Rendendosi conto della scarsa influenza esercitata in quel momento dai bolscevichi nella maggior parte dei soviet,

Lenin indicava al partito la priorità del paziente e sistematico lavoro di chiarificazione tra le masse per conquistare la maggioranza nei consigli degli operai e dei soldati.

Le Tesi di aprile suscitarono stupore e sgomento tra i bolscevichi, ai quali le posizioni del loro massimo dirigente apparivano molto distanti dalla strategia seguita fino allora (la «Pravda» le pubblicò l'8 aprile definendole «l'opinione personale del compagno Lenin»). A loro avviso, la nuova linea politica sottovalutava il carattere borghese della rivoluzione russa e rischiava d'isolare il partito dalle altre forze presenti nei soviet. Solo dopo una lunga e aspra battaglia e grazie al suo immenso prestigio Lenin riuscì a imporre il proprio punto di vista. La settima conferenza bolscevica, svoltasi a Pietrogrado dal 24 al 29 aprile, fu un momento importante nel processo di assimilazione della nuova strategia. Vedendo nella rivoluzione in corso «il primo stadio della prima delle rivoluzioni proletarie generate inevitabilmente dalla guerra», la conferenza giudicò ormai prossimo anche «il secondo stadio», in cui «tutto il potere statale» sarebbe passato «ai soviet o ad altri organi che esprimano direttamente la volontà della maggioranza del popolo» (organi dell'autogoverno locale, assemblea costituente, ecc.). Nonostante certe cautele di linguaggio dei documenti finali della conferenza, riconducibili alle perplessità ancora presenti in alcuni delegati, alla fine di aprile il programma leniniano era ormai diventato patrimonio comune del Partito bolscevico.

5. Le lotte operaie e il movimento sindacale

Dopo il crollo del regime zarista e la formazione del nuovo governo, gli operai di Pietrogrado non tornarono subito al lavoro. All'inizio di marzo nella maggior parte delle fabbriche della capitale i lavoratori erano ancora in agitazione, per scongiurare un eventuale colpo di coda della reazione monarchica e soprattutto per ottenere un miglioramento delle proprie condizioni di vita. Il 5 marzo il soviet decise, dopo un lungo dibattito e con una maggioranza di 1170 voti contro 30, di rivolgere un appello agli operai perché riprendessero il lavoro. Questa decisione incontrò all'inizio una vivace resistenza nelle fabbriche cittadine, alcune delle quali chiesero addirittura la rielezione del consiglio degli operai e dei soldati. L'associazione degli industriali di Pietrogrado, che il 7 marzo aveva convocato un'assemblea straordinaria per esaminare le rivendicazioni dei lavoratori, prese contatto con il soviet nella speranza di giungere a un accordo. Gli operai chiedevano l'immediata introduzione della giornata lavorativa di 8 ore, l'abolizione degli straordinari, la riduzione dell'orario nei giorni prefestivi, un mese di ferie pagate all'anno e altri miglioramenti economici. Ma quel che più spaventava gli imprenditori era la volontà espressa dalle maestranze - e già attuata in alcune fabbriche - di cacciar via i capireparto e i dirigenti a loro invisi.

Il 10 marzo fu raggiunta un'intesa tra gli industriali e il soviet, che prevedeva la riduzione dell'orario di lavoro a 8 ore nei primi cinque giorni della settimana e a 7 il sabato, la formazione in ogni azienda di comitati di fabbrica eletti dagli operai e la costituzione di camere di conciliazione composte da rappresentanti dei lavoratori e degli imprenditori. L'allontanamento dalle fabbriche di capireparto o di membri dell'amministrazione senza una sentenza della competente camera di conciliazione veniva giudicato «inammissibile». A Mosca il soviet dei deputati operai stabilì il primo marzo che dovessero riprendere il lavoro dal giorno successivo solo le imprese la cui attività produttiva fosse necessaria per soddisfare i bisogni alimentari della popolazione; lo sciopero non doveva invece essere interrotto nelle fabbriche che lavoravano per la guerra. Quando poi il 6 marzo il soviet si pronunciò per la ripresa della produzione, gli operai tornarono alle presse attuando in diverse fabbriche la giornata lavorativa di 8 ore.

A Mosca non si giunse a un accordo tra il soviet e gli industriali, perché questi ultimi in una risoluzione approvata il 14 marzo dichiararono che la questione dell'orario di lavoro aveva importanza nazionale e non poteva quindi esser risolta su base locale. Allora il consiglio operaio, dopo aver ascoltato le relazioni dei rappresentanti di quartiere sulla situazione nelle fabbriche della città, decise nella seduta del 18 marzo d'introdurre la giornata di 8 ore e di rivolgersi al governo provvisorio con la richiesta dell'immediata promulgazione di una legge in tal senso. Questa linea di condotta trovò sostanziale conferma nelle deliberazioni della conferenza regionale dei soviet degli operai e dei soldati, svoltasi a Mosca dal 25 al 27 marzo. A giudizio dei delegati, tutte le richieste economiche contenute nel programma minimo dei partiti socialisti - e in primo luogo l'introduzione della giornata lavorativa di 8 ore - andavano soddisfatte al più presto per via legislativa; anzi, bisognava attuarle subito «nell'ambito locale e in forme organizzate» ancor prima della promulgazione delle leggi corrispondenti.

I lavoratori delle altre città seguirono l'esempio degli operai di Pietrogrado e di Mosca, cercando di ottenere miglioramenti salariali e normativi. La battaglia si incentrò soprattutto sulla questione dell'orario di lavoro, la cui eccezionale lunghezza (9-10 ore in media, ma in alcuni casi anche 11-12) era avvertita come un peso insopportabile dal proletariato russo. Spesso i soviet locali si rivolgevano al comitato esecutivo di Pietrogrado chiedendo istruzioni sul da farsi. Queste interpellanze divennero così numerose che il soviet della capitale, non potendo rispondere a ognuna di esse, il 22 marzo fece diffondere dalla stampa un comunicato per chiarire la natura e i limiti territoriali dell'accordo concluso con gli industriali della capitale. La precisazione del consiglio operaio di Pietrogrado non pose termine alla lotta, che continuò ancora per parecchio tempo con esiti diversi a seconda delle località.

In molte città (a Samara, Jaroslavl', Saratov, Simferopol' e altrove) non fu difficile raggiungere un'intesa di massima tra il soviet e gli imprenditori sull'introduzione della giornata lavorativa di 8 ore. A Kazan', invece, il consiglio dei deputati operai ridusse di propria iniziativa l'orario di lavoro nelle fabbriche cittadine a partire dal primo aprile. Il piccolo soviet di Bol'soj Tokmak (provincia di Tauride), avendo applicato l'orario ridotto «sull'esempio di molte città della Russia», inviò il 2 aprile un'interpellanza al consiglio operaio di Mosca sollecitando urgenti chiarimenti su una serie di questioni relative all'attuazione di tale misura: per esempio, se la giornata di 8 ore dovesse essere introdotta «per via rivoluzionaria, ricorrendo anche a scioperi» ed estesa anche «alle botteghe artigiane, ai negozi, agli uffici, alle banche, ecc.». Il soviet di Ufa preferì rivolgersi al governo provvisorio chiedendo la pubblicazione di un decreto valido per tutto il Paese.

La reazione del padronato alle richieste avanzate dai lavoratori non fu sempre uguale. Si è già ricordato il diverso atteggiamento degli industriali di Pietrogrado e di Mosca sul problema della giornata lavorativa di 8 ore. A Omsk i contrasti insorti su tale questione tra gli imprenditori della regione indussero il locale comitato di Borsa a intervenire perché si superassero i dissidi e si pervenisse a un accordo con le organizzazioni dei lavoratori. Talvolta le associazioni padronali inviavano petizioni e reclami al soviet di Pietrogrado denunciando le eccessive pretese e il comportamento scorretto delle maestranze operaie. Per esempio, nella supplica presentata il 20 marzo dalla società mineraria di Sergi e Ufalej negli Urali, si raccontava di come i lavoratori di alcune officine, oltre a volere aumenti salariali e a esigere la cacciata di tecnici e direttori, avessero pure cominciato a portar via la legna, cioè una materia prima indispensabile per il normale processo produttivo; gli amministratori della società si rivolgevano al soviet pregandolo di «far cessare le ruberie e ristabilire l'ordine».

Nel complesso, si può dire che nei primi mesi dopo la rivoluzione di Febbraio le associazioni imprenditoriali si mostrarono inclini al compromesso e pronte ad accordarsi con i soviet e le organizzazioni sindacali. Ci furono anche casi d'iniziative clamorose e forse demagogiche come la deliberazione, presa all'unanimità il 21 aprile dalla società degli industriali e dei commercianti di Samara, di rinunciare a un profitto superiore al 10% su tutti i beni di largo consumo sino alla fine della guerra. La breve durata e il successo della maggior parte degli scioperi in questo periodo si spiegano principalmente con l'atteggiamento conciliante del padronato. Secondo L.S. Gaponenko, a marzo oltre il 92% degli scioperi si concluse con la vittoria totale o parziale dei lavoratori, ad aprile I'88%, a maggio ca. l'86% e a giugno quasi l'82%; a luglio la percentuale diminuì sensibilmente per poi crollare nei due mesi successivi (in base ai dati raccolti da A. M. Liseckij, a giugno ci fu un notevole calo del numero degli scioperi vittoriosi).

La crescita impetuosa del movimento sindacale fu senza dubbio uno dei fenomeni più vistosi e importanti della rivoluzione del 1917. Il bisogno d'organizzarsi per tutelare i propri interessi era avvertito con forza dalle masse lavoratrici russe, private per troppo tempo dei più elementari diritti. Sin dai primi di marzo, nell'ebbrezza della libertà politica appena conquistata, i sindacati di categoria sorti in tutti i centri urbani stabilirono collegamenti tra di loro per creare organizzazioni regionali e nazionali. Se alla vigilia della rivoluzione di Febbraio le unioni sindacali tollerate dal governo zarista contavano qualche decina di migliaia di aderenti, alla conferenza panrussa dei sindacati (24-28 giugno 1917) erano rappresentate 976 leghe con un totale di quasi un milione e mezzo di iscritti. A settembre i membri delle diverse associazioni sindacali erano già due milioni.

Sorti spontaneamente a Pietrogrado nelle giornate rivoluzionarie di febbraio come organi di lotta e di sciopero, i comitati di fabbrica (fabricno-zavodskie kotnitety) acquisirono in seguito una fisionomia più precisa e si diffusero negli altri centri industriali. A promuoverne la formazione erano spesso gli stessi soviet, che li consideravano, come testimoniato dal progetto d'istruzioni ai comitati di fabbrica, elaborato il 14 aprile dall'ufficio regionale moscovita dei soviet, propri «organi ausiliari». Solo in pochi casi (per esempio, a Odessa) i lavoratori accolsero, all'inizio con diffidenza o perplessità, l'invito loro rivolto a eleggere nelle singole imprese commissioni interne, che potevano apparire come la riesumazione della legge zarista del 1903 sugli «anziani di fabbrica». Oltre a dedicarsi ad attività assistenziali, culturali e ricreative a favore degli operai, i comitati di fabbrica cercavano d'intervenire in tutte le questioni relative all'organizzazione del lavoro e di controllare l'assunzione e il licenziamento della manodopera. Il diritto di espellere dalla fabbrica il personale tecnico-direttivo inviso alle maestranze operaie era spesso rivendicato dai comitati e violentemente osteggiato dai proprietari d'azienda. I tentativi di controllo diretto del processo produttivo furono invece piuttosto rari fino all'autunno del 1917.

Con la legge del 23 aprile 1917 «sui comitati operai nelle imprese industriali», il governo provvisorio tentò di regolamentare le funzioni e le competenze dei comitati di fabbrica attribuendo loro, oltre a molteplici compiti culturali e ricreativi, il diritto di rappresentare i lavoratori in tutte le controversie con l'amministrazione e anche nei rapporti con le istituzioni pubbliche. Ma non bastò un provvedimento legislativo ad arginare le lotte sociali della classe operaia, le cui conquiste economiche vennero presto vanificate dalla spirale inflazionistica e dalla scarsità di generi alimentari. A partire dall'estate la parola d'ordine bolscevica del «controllo operaio» cominciò a far presa sui comitati di fabbrica più combattivi e politicizzati, che videro nell'intervento diretto dei lavoratori nel processo produttivo l'unica via d'uscita dalla crisi economica.

6. Dalla crisi di aprile alle giornate di luglio

 II 18 aprile 1917 il ministro degli Esteri Miljukov trasmise ai Paesi alleati il testo della dichiarazione governativa del 17 marzo, di cui si è trattato nel paragrafo 1, accompagnandola con una nota diplomatica, in cui si precisava che il nuovo governo russo avrebbe osservato gli obblighi contratti con loro e si esprimeva l'auspicio che al momento della pace le democrazie riuscissero a imporre le «garanzie e sanzioni» necessarie per prevenire ulteriori conflitti. La nota di Miljukov suscitò un'immediata reazione da parte del soviet e delle forze popolari, che videro confermati i loro sospetti sulle mire annessionistiche del governo provvisorio. Il 21 aprile un'imponente manifestazione popolare nelle strade della capitale chiese le dimissioni di Miljukov e dell'intero gabinetto; ci furono anche morti e feriti quando il corteo si scontrò con gruppi di studenti e ufficiali favorevoli al governo. Anche se l'appello ai soldati e agli operai pubblicato l'indomani dal soviet riuscì a riportare la calma in città, la fiducia popolare nel governo provvisorio era ormai minata. Si cominciò a parlare di un governo di coalizione con la partecipazione di rappresentanti della «democrazia rivoluzionaria».

Dopo lunghe trattative, il 5 maggio si giunse alla formazione del nuovo governo, diretto ancora una volta dal principe L'vov (che assunse anche il ministero degli Interni). Ne facevano parte 10 esponenti borghesi (di cui 4 cadetti) e 6 rappresentanti dei partiti socialisti e del soviet; tra questi ultimi le personalità più prestigiose e influenti erano Kerenskij (che ebbe l'importante ministero della Guerra e della Marina), il menscevico Cereteli (nominato ministro delle Poste) e il socialista rivoluzionario Cernov (a cui fu assegnato il dicastero dell'Agricoltura). Naturalmente Miljukov dovette andarsene e cedere la direzione degli affari esteri al meno intransigente Terescenko.

Nella dichiarazione programmatica resa nota il 5 maggio il nuovo governo provvisorio annunciò il suo obiettivo di realizzare «l'ideale di libertà, eguaglianza e fraternità», che era alla base della rivoluzione russa. Nel campo della politica estera si respingeva qualsiasi idea di pace separata e si ribadiva la volontà di giungere a una pace generale fondata non su conquiste territoriali, ma sulla rinuncia ad annessioni e riparazioni e sul diritto dei popoli dell'autodeterminazione; intanto obiettivi immediati sarebbero stati la democratizzazione dell'esercito e il potenziamento della sua capacità bellica. Altri punti del programma erano: la lotta risoluta contro lo sfacelo economico ricorrendo al «controllo governativo sulla produzione, i trasporti, gli scambi, la distribuzione dei beni di consumo»; l'adozione di «misure di protezione del lavoro» (senza ulteriori precisazioni); la preparazione di provvedimenti urgenti per l'agricoltura lasciando all'assemblea costituente il compito di discutere la questione del trasferimento della terra ai contadini; «l'aumento delle imposte dirette sui ricchi» (imposta sull'eredità, sui profitti di guerra, ecc); la convocazione «il più presto possibile» dell'assemblea costituente.

La nascita del governo di coalizione aveva suscitato vivaci discussioni all'interno del soviet e dei partiti socialisti. A parte la minoranza bolscevica, che reclamava il passaggio del potere ai soviet, anche la sinistra menscevica era contraria sia pure per altri motivi, alla collaborazione governativa con i partiti borghesi; il 27 aprile il leader degli «internazionalisti» Martov telegrafò dall'estero ai menscevichi di Pietrogrado, ammonendoli contro qualsiasi partecipazione a gabinetti di coalizione. Anche dopo il suo ritorno in Russia (9 maggio), Martov restò fedele alla vecchia strategia menscevica sostenendo la necessità che il partito restasse all'opposizione. Intervenendo al congresso panrusso dei soviet nel giugno 1917, egli chiese il ritiro dei ministri socialisti dal governo: il potere andava lasciato in mano alla borghesia, mentre ai soviet spettava il compito di esercitare la «massima pressione» sull'attività dei ministri liberali.

Nel Partito socialrivoluzionario la risoluzione favorevole all'ingresso nel governo borghese passò il 3 maggio con 172 voti, tra questi quelli contro furono 37, gli astenuti 5; la mozione presentata dalla sinistra auspicava invece l'instaurazione di un «autentico potere rivoluzionario, organizzato dalla democrazia sociale tramite il soviet dei deputati degli operai, dei soldati e dei contadini». Come si poneva, dopo la formazione del gabinetto di coalizione, il problema fondamentale del rapporto tra governo e soviet? La presenza di ministri socialisti doveva porre fine alla situazione di «dualismo di potere», esistente dopo la rivoluzione di Febbraio? Ecco come rispondeva il menscevico Cereteli, un socialista moderato divenuto eminenza grigia del soviet di Pietrogrado nella primavera del 1917:

«La nostra posizione, la posizione delle organizzazioni democratiche verso il governo è cambiata. Prima non solo controllavamo il governo, ma ne svolgevamo spesso le funzioni intervenendo in suo aiuto. Senza l'aiuto delle organizzazioni democratiche nell'amministrazione il governo non ce l'avrehhe fatta. Ora invece il potere dovrebbe essere rimesso integralmente al governo provvisorio. Le organizzazioni della «democrazia rivoluzionaria» conservano l'arma della critica all'azione del governo, ma non si immischiano più nelle questioni dell'amministrazione.»

Ma la realtà era ben diversa dal quadro idilliaco tracciato da Cereteli. Le strutture politico-amministrative sorte dopo il crollo dell'autocrazia zarista apparivano ancora informi e per di più condizionate dalla presenza di forti e combattive organizzazioni politico-sindacali delle masse popolari. Le istituzioni governative centrali e periferiche erano deboli e non sempre riuscivano ad aver la meglio nei conflitti con i soviet e gli altri comitati popolari. I soviet locali, pur riconoscendo formalmente l'autorità del governo di Pietrogrado, erano gelosi delle prerogative acquisite e non intendevano rinunciare alle funzioni politico-amministrative che di fatto già esercitavano.

L'episodio della «Repubblica di Kronstadt» nella primavera del 1917 mostrò in maniera clamorosa e drammatica quanto poco avesse influito sulla struttura dualistica del potere la formazione della nuova compagine ministeriale. Sin dal mese di marzo l'isola di Kronstadt - la fortezza militare nei pressi della capitale - era in mano ai soldati e ai marinai, che si rifiutavano di liberare gli ufficiali arrestati al momento della rivoluzione di Febbraio. Dopo aver costretto alle dimissioni il commissario governativo Pepeljaev, il soviet locale dominato da bolscevichi e socialisti rivoluzionari di sinistra decretò il 16 maggio che «l'unico potere della città di Kronstadt è il soviet dei rappresentanti degli operai e dei soldati, che per le questioni di Stato entra in rapporto diretto con il soviet dei rappresentanti degli operai e dei soldati di Pietrogrado». Anche se in seguito gli insorti di Kronstadt si lasciarono convincere da una delegazione del soviet di Pietrogrado a riconoscere l'autorità del governo provvisorio, la sfida lanciata dalla turbolenta base militare era un chiaro segno della radicalizzazione del processo rivoluzionario.

Un altro motivo di preoccupazione per il nuovo governo era costituito dalle spinte autonomistiche e indipendentistiche delle nazionalità periferiche, ansiose di scrollarsi di dosso il giogo loro imposto dal regime zarista. Soprattutto la rada (l'assemblea nazionale ucraina) insisteva presso il governo centrale per veder riconosciuti i propri diritti. A maggio una delegazione della rada giunse a Pietrogrado e dopo qualche giorno di attesa fu ricevuta solo dalla commissione giuridica del governo provvisorio; alle sue precise richieste - riconoscimento del principio di autonomia, partecipazione dell'Ucraina alla conferenza di pace, formazione di un esercito nazionale - fu data risposta evasiva o negativa. Allora, in seguito all'insuccesso di questa missione, il 10 giugno la rada promulgò il primo «universale», cioè la sua prima legge sovrana: il documento, sotto forma di appello al popolo ucraino, ribadiva con energia il principio della piena autonomia legislativa e amministrativa dell'Ucraina pur nell'ambito dello Stato russo.

Nonostante questi e altri segnali di crisi, il mese di giugno segnò il momento di maggior successo per i menscevichi e i socialisti rivoluzionari, cioè per i partiti che sostenevano il governo di coalizione. Dal 3 al 24 giugno si tenne a Pietrogrado il primo congresso panrusso dei soviet, a cui parteciparono 1090 delegati (822 con pieno diritto di voto) in rappresentanza di 305 consigli locali degli operai e dei soldati e di 21 organizzazioni militari. Il congresso, come attesta O. Anwei-ler in uno studio del 1958, «era senza dubbio, date le circostanze -in assenza di un parlamento eletto a suffragio universale - la più ampia rappresentanza democratica della Russia». I 105 delegati bolscevichi erano in minoranza rispetto ai 285 socialisti rivoluzionari e ai 248 menscevichi; e quindi anche il comitato esecutivo centrale pan-russo (VCIK) eletto dal congresso fu dominato da questi due partiti. Tuttavia, i vincitori del congresso non seppero utilizzare con intelligenza la fiducia loro accordata dalle masse popolari. L'errore più grave fu la decisione di lanciare una grande offensiva militare per riconquistare i territori occupati dal nemico e per sollevare il morale dei soldati al fronte. Lo stesso giorno in cui aveva inizio questa folle avventura (18 giugno), a Pietrogrado le parole d'ordine e i cartelli degli agitatori bolscevichi - soprattutto lo slogan «tutto il potere ai soviet»
-  predominavano nella grande manifestazione popolare indetta dal
soviet proprio in risposta alla dimostrazione che il partito di Lenin
aveva annunciato per il 10 giugno e poi revocato. II fallimento del
l'offensiva militare favorì ancor più la penetrazione della propaganda
bolscevica nell'esercito e tra i lavoratori.

Il 2 luglio i ministri cadetti rassegnarono le dimissioni perché in disaccordo (questa era la motivazione addotta) con il progetto, discusso il giorno prima, di concessione dell'autonomia all'Ucraina; in realtà i contrasti riguardavano la politica generale del governo di coalizione, giudicata troppo arrendevole nei confronti delle rivendicazioni popolari. La crisi politica fece precipitare la situazione già così tesa. Il 3 luglio scesero in piazza, oltre ai lavoratori di Vyborg e agli operai delle officine Putilov, i soldati del 1 ° reggimento mitraglieri e altri reparti militari; ai manifestanti della capitale si unirono il giorno seguente i marinai giunti da Kronstadt. I dimostranti armati assediarono il palazzo di Tauride, sede del soviet, ordinando minacciosamente ai partiti socialisti di prendere subito il potere (il ministro dell'Agricoltura Cernov sfuggì al linciaggio solo grazie al coraggioso intervento di Trotskij). Ci furono anche scontri sanguinosi con le truppe fedeli al governo. Solo il 5 luglio le manifestazioni cessarono e la calma cominciò a tornare nelle strade della capitale. Pur non avendole preparate e organizzate, i bolscevichi si erano posti alla testa delle dimostrazioni armate. Subirono quindi le conseguenze dell'insuccesso della prova di forza. Una violenta campagna di stampa si scatenò contro Lenin, accusato di essere un agente del governo tedesco. Furono emessi mandati di cattura contro i massimi dirigenti bolscevichi: Trotskij e altri vennero arrestati e rilasciati poco dopo, mentre Lenin e Zinov'ev si misero in salvo rifugiandosi in Finlandia. Il partito, braccato e perseguitato, sembrava ormai sconfitto dopo il fallimento dell'insurrezione di luglio. Invece stava cominciando a Pietrogrado e in tutto il Paese il processo di bolscevizzazione delle masse popolari.

7. La rivoluzione nelle campagne

Nelle campagne le notizie sulla rivoluzione di Febbraio e sulla caduta della monarchia si diffusero molto più lentamente che nelle città; in alcuni villaggi i contadini vennero a sapere addirittura con settimane di ritardo che il regime zarista non esisteva più. Non per questo la reazione della popolazione agricola fu meno decisa e combattiva. Sin dal mese di marzo furono eletti un po' dappertutto comitati di villaggio (sel'skie komitety) e comitati di circondario (vo-lostnye komitety), che liquidarono le vecchie strutture amministrative nelle campagne; pur essendo sottoposti al controllo dei commissari del governo provvisorio, questi organismi di base mantennero il loro carattere democratico e riuscirono a conservare una grande autonomia. L'odio secolare dei contadini contro i grandi proprietari terrieri (pomesciki) esplose subito in modo spontaneo e selvaggio, non appena giunsero nei villaggi le prime voci sul crollo del vecchio regime. A marzo ci furono numerosi incendi e saccheggi delle tenute signorili. Nei mesi successivi il movimento contadino continuò a svilupparsi e crescere incessantemente assumendo però un carattere sempre più organizzato.

Secondo J.A. Jakovlev, che ne riporta i dati nel 1927, a marzo il movimento si estendeva a 34 distretti, ad aprile ne erano colpiti già 174, a maggio 236, a giugno 280, a luglio Le lotte agrarie 325. A partire da aprile le lotte agrarie furono caratterizzate da azioni meno violente: i contadini cercavano di disorganizzare le aziende signorili, rifiutandosi di fornire prestazioni di lavoro e di pagare i canoni d'affitto o anche terrorizzando gli amministratori delle proprietà. Le stesse occupazioni di terre prendevano forme peculiari, in genere pacifiche e semilegali, di boicottaggio delle proprietà signorili (per esempio, divieto per i pomesciki di coltivare le terre e raccoglierne i frutti). Anche se non mancarono episodi importanti d'occupazione diretta, non fu questo l'aspetto essenziale del movimento nei primi mesi della rivoluzione.

Nella primavera del 1917 il Partito dei socialisti rivoluzionari esercitò un'influenza politica determinante sul movimento contadino, costruendo una vasta rete organizzativa nelle campagne e convincendo le masse rurali ad affidare la soluzione della questione agraria alla futura assemblea costituente. Pur continuando ad agitare la bandiera della «socializzazione», cioè del trasferimento di tutta la terra al popolo lavoratore, il PSR condannava severamente le occupazioni violente e le altre forme di lotta anarchiche. Una volta abbattuto il governo zarista, gli abitanti delle campagne non dovevano più abbandonarsi ad atti inconsulti, capaci solo di ostacolare il complesso lavoro di preparazione della riforma agraria. Bisognava invece creare al più presto i soviet dei deputati contadini a livello di circondario (volost'), distretto (uezd) e provincia (gubernija).

I soviet contadini, alla cui nascita e diffusione i socialisti rivoluzionari diedero un contributo fondamentale, erano concepiti non come organizzazioni sindacali della popolazione agricola ma piuttosto come istanze politiche atte a promuovere nelle campagne la discussione sui grandi temi d'interesse nazionale e a propagandare tra le masse rurali il programma del partito. Se i soviet dovevano svolgere un ruolo eminentemente politico, al comitato agrario statale e ai comitati agrari locali spettava invece il compito di promulgare alcune norme provvisorie in materia di rapporti fondiari, compiere il lavoro di raccolta ed elaborazione del materiale necessario per la riforma e regolare tutti i conflitti agrari fino alla convocazione dell'assemblea costituente. Con la legge del 21 aprile 1917 il governo provvisorio istituì il comitato agrario centrale (glavnyj zemel'nyj komitet) e i comitati agrari locali, incaricati di «preparare la riforma agraria ed elaborare misure transitorie urgenti fino alla soluzione della questione agraria da parte dell'assemblea costituente». Se il comitato agrario centrale cominciò presto i suoi lavori e anche i comitati provinciali e regionali furono creati in tempi brevi, la formazione dei comitati di base procedette più a rilento.

I risultati dell'impegno politico e organizzativo dei socialisti rivoluzionari nelle campagne si videro già nella primavera del 1917. Tra marzo e maggio nella maggior parte delle città della Russia europea si tennero congressi contadini, che preludevano quasi sempre alla nascita dei soviet provinciali e distrettuali dei deputati contadini. La nascita dei soviet di circondario fu invece seriamente ostacolata dalla dispersione della popolazione agricola, che viveva disseminata in piccoli villaggi spesso distanti l'uno dall'altro. Analizzando i dati relativi a 29 province della Russia europea, O.N. Moiseeva, in una ricerca del 1967, ha calcolato che alla vigilia della rivoluzione d'Ottobre si erano formati 800 soviet di circondario sui 6770 possibili. Nello stesso periodo, sempre secondo Moiseeva, in tutto il territorio russo esistevano 67 soviet provinciali (le province erano 82, senza contare la Finlandia e la Polonia), mentre i soviet distrettuali erano presenti nel 67% dei distretti e delle circoscrizioni allora esistenti (circa 650, escludendo la Finlandia, la Polonia e le zone occupate dalle truppe tedesche).

Dal 4 al 28 maggio 1917 si tenne a Pietrogrado il primo congresso del soviet panrusso dei deputati contadini: dei 1115 delegati presenti all'inizio dei lavori (il numero salì a 1300 gli ultimi giorni del congresso) ben 537 erano iscritti al PSR. Le assise contadine, presiedute dal socialista rivoluzionario di destra Avksent'ev, discussero i principali problemi di attualità votando risoluzioni politiche di tono moderato (fiducia nel nuovo governo di coalizione, necessità della difesa nazionale, attesa dell'assemblea costituente). Ma l'aspetto più interessante dei lavori congressuali fu naturalmente il lungo e appassionato dibattito sulla questione agraria, che mise bene in evidenza i desideri e le aspirazioni ancestrali dei muziki russi. Anche in seguito il giornale del soviet contadino panrusso («Izvestija Vseros-sijskago Soveta Krest'janskich Deputatov») continuò a farsi interprete dei bisogni delle masse rurali, pubblicando «sentenze» (prigo-vory) e «mandati» (nahazy) delle assemblee di villaggio e dando notizia degli incontri con i «supplicanti» (chodoki) giunti a Pietrogrado da ogni angolo del Paese. Il 19 agosto 1917 apparve nelle «Izvestija» il programma fondamentale dei contadini russi, compilato sulla base di 242 documenti delle assemblee rurali. Questo «mandato modello» chiedeva l'abolizione della proprietà privata sulla terra, la confisca del bestiame e degli attrezzi agricoli dei grandi proprietari, la proibizione del lavoro salariato nelle campagne e la spartizione tra i contadini «secondo principi egualitari» di tutti i terreni coltivabili.

Il momento di maggior prestigio e influenza dei socialisti rivoluzionari nelle campagne si ebbe dopo l'ingresso di rappresentanti del partito nel gabinetto di coalizione. Le assemblee contadine - citiamo tra le tante la deliberazione presa il 13 maggio dal soviet di Saransk (provincia di Penza) - salutavano con entusiasmo il nuovo governo «che mira ad attuare la libertà, l'eguaglianza e la fratellanza», esprimendogli «piena e incondizionata fiducia» e promettendogli il massimo appoggio. La speranza che l'assemblea costituente si sarebbe presto riunita e avrebbe dato loro la terra induceva i contadini a rinunciare alle occupazioni violente; abbiamo visto come alla fine della primavera il movimento agrario, pur abbracciando un numero sempre maggiore di distretti, si mantenesse nel complesso entro limiti legali o semilegali. Ma l'appello ad attendere un'istituzione la cui convocazione appariva ancora lontana, rischiava di suscitare sconforto e delusione tra i contadini. Gli esponenti della sinistra socialrivoluzionaria se ne accorsero per tempo e tentarono di contrastare l'orientamento dominante al vertice del partito. A loro giudizio non bastava esortare i contadini a organizzarsi; un partito che in passato si era radicato nelle campagne sostenendo le lotte concrete contro i pomesciki non poteva adesso rinunciare a dirigere il movimento spontaneo di occupazione delle terre. I socialisti rivoluzionari di sinistra non si limitarono a criticare aspramente la politica ufficiale del partito, ma cercarono di mettere in atto la loro strategia.

Uno degli episodi più celebri fu la deliberazione approvata il 13 maggio a Kazan', nel corso di un'assemblea generale, dal soviet provinciale dei deputati contadini presieduto da Kolegaev: i delegati decisero di mettere subito a disposizione dei comitati di circondario, che le avrebbero date in uso ai contadini fino all'assemblea costituente, tutte le terre con il bestiame e gli strumenti. Ma si trattava di casi isolati ed eccezionali; la grande maggioranza dei congressi contadini, dominata dalla destra e dal centro del PSR, condannava le occupazioni illegali e altre consimili forme di lotta.

Che la politica agraria del PRS si stesse cacciando in un vicolo cieco fu chiaro già a luglio, quando il movimento contadino, pur raggiungendo un altissimo livello di organizzazione, cominciò a manifestare alcuni segni d'una diversa tendenza con l'aumento del numero dei saccheggi e delle distruzioni delle proprietà signorili. Sfidando le autorità provinciali e il governo centrale, durante l'estate molti comitati agrari di base si impadronirono delle terre dei pomesciki. Il sogno socialrivoluzionario di una rivoluzione agraria pacifica e legalitaria stava naufragando, sommerso dall'impazienza e dalla disperata fame di terra dei contadini. Il crollo della rete organizzativa socialrivoluzionaria, già in atto ad agosto, creava un pauroso vuoto politico nelle campagne. La rabbia contadina, non più frenata dalla fiducia in una soluzione dall'alto dell'annoso problema della terra, sarebbe tornata a manifestarsi in autunno con inaudita ferocia.

8. L'insurrezione bolscevica d'ottobre

La crisi politica aperta dalle dimissioni dei ministri cadetti e ag-Kerenskij gravata dal tentativo insurrezionale bolscevico fu risolta dopo lunghe discussioni e trattative con la formazione, il 24 luglio 1917, di un secondo governo di coalizione, presieduto questa volta da Kerenskij. J.S. Curtiss (Le rivoluzioni russe del 1917, Milano 1967) commenta così questo avvenimento:

«Nonostante la maggioranza socialista, il nuovo governo era più conservatore del precedente, dato che i socialisti, spaventati dagli avvenimenti di luglio, avevano perduto ogni traccia di slancio rivoluzionario. Kerenskij dominava sempre più la scena. Avendo tuttora un seguito liberale, era tutt'altro che radicale e intendeva piuttosto lasciare intatto l'ordine sociale esistente.»

Venne deciso il ripristino della pena di morte al fronte e il conferimento del supremo comando militare al generale Kornilov, ex-comandante della guarnigione di Pietrogrado, che ad aprile aveva rassegnato le dimissioni ed era partito per il fronte, perché il soviet gli aveva impedito di usare le truppe durante le dimostrazioni popolari contro Miljukov. Con tali decisioni, il nuovo primo ministro non lasciò dubbi sulla sua volontà d'intensificare gli sforzi bellici e di rispondere con il terrore alle proteste dei soldati. Ma la situazione nelle trincee continuava a peggiorare irrimediabilmente: sempre più numerosi erano gli ammutinamenti, le diserzioni, le violenze contro gli ufficiali, gli episodi di fraternizzazione con i soldati nemici. La caduta di Riga, occupata il 21 agosto dalle truppe tedesche, mostrò bene come fosse ormai ridotto a zero lo spirito combattivo dell'esercito russo.

Sul piano interno Kerenskij cercò di dare lustro al suo governo di Stato convocando una sorta di grande assemblea consultiva (la conferenza di Stato), che avrebbe dovuto sancire l'inizio di un periodo di tregua sociale e di unione nazionale. La composizione sociale e politica degli oltre 2000 delegati della pittoresca conferenza, che si riunì a Mosca dal 12 al 15 agosto, era oltremodo eterogenea: c'erano rappresentanti dei partiti politici, degli enti locali, delle cooperative, dei sindacati, dei soviet, delle associazioni industriali. Vi partecipò anche il generale Kornilov, accolto dagli applausi e dalle ovazioni dei settori di destra. La lunga e teatrale stretta di mano tra il leader menscevico Cereteli e il capo degli industriali Bublikov fu forse il momento più spettacolare di un'assemblea inconcludente che annegò in un mare di parole.

Per il 12 agosto, giorno d'apertura dei lavori della conferenza di Stato, i bolscevichi di Mosca avevano proclamato uno sciopero generale cittadino di protesta. La perfetta riuscita dello sciopero fu la prova che il partito di Lenin si era ripreso dalla sconfitta di luglio e guadagnava terreno tra le masse popolari. Nelle grandi città la propaganda bolscevica riscuoteva consensi sempre più ampi, come mostrarono le elezioni per la duma municipale e per i consigli di quartiere: a Pietrogrado ad agosto la lista bolscevica ottenne 67 seggi passando al secondo posto (i socialisti rivoluzionari, che restavano ancora il primo partito nella capitale, ne presero 75). Sul finire dell'estate il peggioramento della situazione economica e la radicalizzazione dei conflitti sociali favorirono l'opera degli agitatori bolscevichi, la cui influenza andava aumentando di giorno in giorno in tutte le organizzazioni di massa del proletariato urbano. Le loro parole d'ordine cominciavano a prender piede persino nei sindacati, dominati fino allora dal Partito menscevico. Nei comitati di fabbrica, sensibili sin dai primi mesi della rivoluzione alla propaganda bolscevica, la loro egemonia era incontrastata.

In questo periodo la guerra tra gli imprenditori e i comitati di fabbrica si fece più aspra e violenta, non limitandosi agli scontri sull'assunzione e licenziamento della manodopera e sull'organizzazione del lavoro. In alcuni casi, davanti alla minaccia di chiusura dell'azienda per mancanza di combustibile e materie prime, le maestranze operaie tentarono la gestione diretta del processo produttivo (anche se con risultati fallimentari sia per le difficoltà oggettive che per il basso livello d'istruzione e qualificazione dei lavoratori). Non possiamo tuttavia ravvisare in questi episodi, determinati dallo sfascio economico più che ispirati da un cosciente programma di autogestione, finalità e obiettivi socialisti, come tende a fare spesso la storiografia sovietica esagerando l'importanza politica della lotta per il «controllo operaio». Non mancano tuttavia giudizi più equilibrati e sereni, come questo di PV. Volobuev, del 1962:

«Non bisogna sopravvalutare l'ampiezza e ì risultati generali del movimento per il controllo operaio prima della rivoluzione d'Ottobre. In questo periodo [marzo-ottobre] il movimento non si manifestò dappertutto, ma fu embrionale e frammentario e riguardò solo alcuni aspetti dell'attività delle imprese.»

Ma non c'è dubbio che si trattasse di segni drammatici del malcontento e dell'esasperazione delle classi lavoratrici, su cui incombeva lo spettro della fame e della disoccupazione.

I fatti di luglio produssero una grossa svolta nella tattica bolscevica. Se nei mesi precedenti Lenin non aveva escluso la possibilità di uno sviluppo pacifico della rivoluzione (e anzi la sua strategia mirava proprio a conquistare la maggioranza nei consigli degli operai e dei soldati mediante un paziente lavoro di persuasione tra le masse), dopo la fallita insurrezione egli giudicò improponibile la richiesta di trasferimento dei poteri ai soviet sostenendo che questi ultimi stavano diventando «foglie di fico della controrivoluzione». Solo una dittatura rivoluzionaria di classe, fondata sull'alleanza tra proletariato urbano e contadini poveri, avrebbe potuto salvare il Paese dall'imminente pericolo reazionario. La nuova strategia leniniana apparve assurda e avventurosa a non pochi bolscevichi, restii ad abbandonare la formula «tutto il potere ai soviet» sancita dalla conferenza d'aprile.

Le divergenze emersero chiaramente in occasione del VI congresso del partito, svoltosi a Pietrogrado in condizioni di semiclandestinità dal 26 luglio al 3 agosto. Prevalse ancora una volta nei documenti conclusivi la linea politica di Lenin:

«La parola d'ordine, propagandata dal nostro partito, del trasferimento del potere ai soviet sorti nella prima fase della rivoluzione voleva dire sviluppo pacifico della rivoluzione, passaggio indolore del potere dalla borghesia agli operai e ai contadini, graduale abbandono delle illusioni da parte della piccola borghesia. Adesso lo sviluppo pacifico e il passaggio indolore del potere ai soviet sono divenuti impossibili, poiché il potere è già passato di fatto in mano alla borghesia controrivoluzionaria. L'unica parola d'ordine corretta adesso può essere la liquidazione della dittatura della borghesia controrivoluzionaria. Solo il proletariato rivoluzionario, con l'appoggio dei contadini più poveri, è in grado di realizzare quest'obiettivo, che implica un nuovo slancio della rivoluzione.»

Intanto, nel Paese la situazione politica stava precipitando. Gli ultimi giorni di agosto il generale Kornilov, appellandosi al «popolo di Russia» con un proclama in cui dichiarava che il governo provvisorio, sotto la pressione della maggioranza bolscevica dei soviet, stava agendo in completa armonia con lo stato maggiore tedesco e stava «uccidendo l'esercito e minando il Paese», tentò di rovesciare il governo Kerenskij e instaurare una dittatura militare. Il pericolo fu scongiurato dalla pronta reazione del soviet di Pietrogrado, che organizzò la difesa della capitale e inviò propri attivisti tra i soldati di Kornilov I ferrovieri contribuirono in modo decisivo al fallimento del colpo di Stato bloccando i movimenti delle truppe che marciavano verso la capitale. I bolscevichi si unirono agli altri partiti socialisti impegnandosi a fondo nella battaglia contro Kornilov.

All'inizio di settembre, dopo la sconfitta del golpe, il clima politico appariva mutato. Il primo settembre fu proclamata ufficialmente la repubblica (fino allora i partiti borghesi avevano impedito che si dichiarasse decaduta la monarchia). Tra i menscevichi trovavano ascolto adesso le proposte politiche formulate negli ultimi tempi dalla corrente di sinistra (nel corso delle giornate insurrezionali di luglio Martov e gli «internazionalisti» avevano abbandonato l'idea che il partito dovesse restare all'opposizione e si erano convinti della necessità di prendere il potere «passando sulla testa della borghesia liberale»). Il 30 agosto i menscevichi lanciarono la proposta di una conferenza delle organizzazioni popolari democratiche (partiti socialisti, cooperative, sindacati, enti locali, soviet, comitati dei soldati), che avrebbe dovuto discutere il problema della formazione del nuovo governo. Il giorno successivo il comitato centrale del partito si pronunciò categoricamente contro la partecipazione al governo di esponenti politici coinvolti in qualche modo nell'affare Kornilov (cioè dei cadetti, che avevano favorito o quanto meno non si erano opposti al tentato colpo di Stato).

Il 14 settembre si aprirono a Pietrogrado i lavori della convenzione democratica patrocinata dai menscevichi, che però non si espresse in modo chiaro contro l'esclusione dei ministri borghesi dal governo. Il risultato più vistoso della convenzione fu la creazione di un consiglio della repubblica o preparlamento, una sorta di corpo consultivo che sarebbe dovuto restare in vita fino alla convocazione dell'assemblea costituente. Il 25 settembre, infine, Kerenskij formò il terzo e ultimo governo di coalizione, chiamando a farne parte ancora una volta esponenti borghesi e deludendo così chi aveva sperato in un radicale rinnovamento della direzione politica del Paese. Anzi, il nuovo ministro della Guerra Verchovskij, un generale democratico che proponeva un programma coraggioso e intelligente (radicali riforme sociali, avvio d'immediate trattative di pace, smobilitazione di una parte delle truppe e mantenimento di un piccolo esercito per scopi difensivi), fu prima emarginato e poi costretto a lasciare il governo.

Ai primi di settembre, nel nuovo clima politico creatosi con il fallimento del tentativo controrivoluzionario, Lenin aveva accennato alla possibilità di un «progresso pacifico della rivoluzione» e si era dichiarato disposto ad appoggiare un governo socialista responsabile davanti ai soviet. Ma verso la metà del mese cambiò ancora una volta strategia proponendo al suo partito di organizzare l'insurrezione armata e conquistare il potere. Il dirigente bolscevico dovette condurre una dura battaglia, minacciando persino le dimissioni dal comitato centrale, per convincere i suoi compagni che era giunto il momento di passare all'azione. Il 10 ottobre, con una maggioranza di 10 voti (tra cui quello di Lenin, Trotskij, Stalin e Kollontaj) contro 2 (Zinov'ev e Kamenev), il comitato centrale bolscevico giudicò «inevitabile e completamente matura» l'insurrezione armata e invitò «tutte le organizzazioni del partito a orientarsi sulla base di questa constatazione e a discutere e risolvere da questo punto di vista tutte le questioni pratiche».

Nel Paese la bolscevizzazione delle masse procedeva a passi da gigante. Il 19 settembre il bolscevico Nogin fu eletto presidente del soviet di Mosca. Nello stesso periodo il partito di Lenin conquistò la maggioranza anche nel consiglio degli operai e dei soldati della capitale: il 25 settembre Trotskij divenne presidente del soviet di Pietrogrado. Nell'esercito l'influenza bolscevica era grande soprattutto tra i reparti combattenti sul fronte settentrionale vicino alla capitale: verso la metà d'ottobre la V armata elesse un nuovo comitato a maggioranza bolscevica. Di orientamento estremistico era pure il Centrobalt, la potente organizzazione dei marinai della flotta del Baltico. In tutte le città grandi e piccole gli agitatori bolscevichi riscuotevano consensi tra i ceti più diseredati, promettendo l'immediata cessazione delle ostilità e il soddisfacimento dei bisogni popolari. A questo riguardo basterà citare la testimonianza di un partito avversario, cioè la corrispondenza da Vitebsk apparsa il 6 ottobre 1917 nel «Delo naroda», organo centrale dei socialisti rivoluzionari:

«L'epidemia bolscevica non ha risparmiato la nostra città. Come dappertutto, da noi si svolgono adesso nuove elezioni per il soviet dei deputati degli operai e dei soldati. Intervenendo nelle riunioni elettorali, gli oratori bolscevichi sottopongono a dura critica la tattica dei socialisti rivoluzionari e dei menscevichi. L'uditorio interpreta ì loro slogan — «abbasso la guerra» e simili — nel senso che bisogna concluder subito una pace separata. Parlando nelle caserme e nelle campagne gli oratori pongono domande del tipo «chi vi darà il pane e la pace?», per rispondere essi stessi all'istante «noi bolscevichi». Le masse dotate dì scarsa coscienza politica credono a queste larghe promesse e non danno agli oratori menscevichi e socialrivoluzionari la possibilità d'esprimersi. Quando questi ultimi intervengono, si levano grida ostili: «complici di Kornilov», «difensori della monarchia zarista», «servi della borghesia», ecc.»

Lo strumento di cui i bolscevichi si servirono per preparare e dirigere l'insurrezione armata contro il governo provvisorio fu il comitato militare rivoluzionario (voenno-revoljucionnyj komitei), che era stato creato il 9 ottobre su proposta dei menscevichi di Pietrogrado allo scopo di coordinare la difesa della capitale da un possibile attacco delle truppe tedesche. Avendo il controllo della guarnigione, di cui si erano conquistati le simpatie opponendosi alla decisione governativa di trasferire al fronte alcuni reparti, non fu difficile ai dirigenti bolscevichi del soviet e del comitato militare rivoluzionario portare a compimento il progettato rovesciamento del gabinetto Kerenskij. La data prescelta per l'insurrezione - 25 ottobre (7 novembre) 1917 - coincideva con il giorno della convocazione del secondo congresso panrusso dei soviet, che avrebbe dovuto così ratificare la caduta del governo provvisorio e l'instaurazione del nuovo potere popolare.

Nella notte dal 24 al 25 ottobre le guardie rosse bolsceviche occuparono le stazioni ferroviarie e i principali edifici pubblici di Pietrogrado. Dopo la fuga di Kerenskij, che il 25 aveva lasciato La fuga di Kerenskij furtivamente la città con l'intenzione di ritornare nella capitale alla testa di truppe fedeli, il più importante centro di resistenza restava il palazzo d'Inverno, l'ex-residenza degli zar divenuta negli ultimi tempi la sede del governo provvisorio. La presa del palazzo d'Inverno e l'arresto dei ministri da parte dei rivoltosi sancì la vittoria dell'insurrezione, attuata con estrema decisione e rapidità e senza eccessivo spargimento di sangue. I lavori del congresso panrusso del soviet si aprirono la sera del 25 ottobre, quando non si erano ancora spenti nelle strade gli echi delle sparatorie e degli scontri armati. Dopo aver protestato invano contro il colpo di mano bolscevico, i delegati menscevichi e socialrivoluzionari, che erano in minoranza, abbandonarono la seduta e fondarono un «comitato per la salvezza della patria e della rivoluzione».

I rappresentanti bolscevichi, sostenuti dai socialisti rivoluzionari di sinistra (questi ultimi si erano ormai staccati dal resto del partito e costituivano un gruppo politico indipendente), proseguirono i lavori per tutta la notte. Il giorno seguente il congresso approvò all'unanimità il «decreto sulla pace» letto da Lenin, che era in sostanza un appello «a tutti i popoli belligeranti e ai loro governi» perché si avviassero subito le trattative per una pace «giusta e democratica», cioè per una pace «senza annessioni (vale a dire senza occupazione di territori stranieri o incorporazione di nazioni straniere) e senza riparazioni». Il nuovo «governo operaio e contadino nato dalla rivoluzione del 24-25 ottobre» si impegnava ad abolire la diplomazia segreta e a «condurre tutti i negoziati apertamente, sotto gli occhi di tutto il popolo» e proponeva a tutti i Paesi belligeranti, in vista della stipula dei trattati di pace, un immediato armistizio per un periodo non inferiore a tre mesi. Prima di sciogliersi, le assise dei soviet ratificarono il 26 ottobre la formazione del governo rivoluzionario provvisorio, denominato «consiglio dei commissari del popolo» (Sovnarkom) e presieduto da Lenin. Ne facevano parte solo esponenti bolscevichi: tra gli altri, Trotskij (Esteri), Rykov (Interni), Nogin (Industria e Commercio), Lunacarskij (Pubblica istruzione) e Stalin (Nazionalità).

9. La grande guerra contadina

Mentre i bolscevichi rovesciavano il governo provvisorio e s'impadronivano del potere a Pietrogrado, nei villaggi dell'immenso territorio russo divampava una furiosa guerra di classe dei contadini contro l'aristocrazia fondiaria. Anche se gli storici e i memorialisti della rivoluzione hanno appuntato l'attenzione soprattutto sull'audace azione insurrezionale del Partito bolscevico, il teatro decisivo degli avvenimenti nell'autunno del 1917 fu in realtà la sterminata campagna russa, dove viveva oltre l'80% della popolazione. Deluse per le promesse non mantenute e stanche d'attendere la convocazione dell'assemblea costituente, le masse rurali passarono all'azione tra la fine dell'estate e l'inizio dell'autunno abbandonando le forme di lotta pacifiche e organizzate dei mesi precedenti. A settembre i contadini della provincia di Tambov, saccheggiarono e incendiarono 105 tenute signorili uccidendo o ferendo in alcuni casi i pomesciki e i loro amministratori. La grande jaquerie contadina, esplosa in un primo momento nelle campagne di Tambov, si diffuse a macchia d'olio tra settembre e ottobre nelle altre regioni agricole; nella provincia di Rjazan', per esempio, in questi due mesi si ebbero - secondo Kostrikin - ben 180 sommosse agrarie, cioè quasi la metà di tutti i casi registrati da marzo a ottobre.

Lenin seppe valutare con precisione e tempestività - e in questo consiste la genialità della sua politica - l'ampiezza del movimento agrario in un movimento in cui dai villaggi giungevano ancora notizie vaghe e confuse sulle rivolte contadine e gli uomini politici della capitale non si rendevano conto fino in fondo di quel che stava accadendo nel Paese. L'appello leniniano per l'immediata presa del potere - e abbiamo visto quanto grande fosse all'inizio la titubanza di larghi settori del Partito bolscevico a lanciarsi in quella che appariva una pericolosa avventura politico-militare - nasceva, oltre che dalla fiducia in un'imminente rivoluzione di operai e soldati in Germania, dalla convinzione che l'insurrezione armata del proletariato urbano avrebbe trovato un valido sostegno nelle sommosse rurali. Se l'attesa della rivoluzione tedesca si sarebbe rivelata ingenua e illusoria, esatta era invece la valutazione della forza dirompente del movimento contadino. Anzi, per conquistarsi le simpatie degli abitanti delle campagne, Lenin non esitò a gettare alle ortiche l'ambiguo e contraddittorio programma agrario del partito (approvato dalla conferenza d'aprile), che chiedeva la nazionalizzazione di tutte le terre, considerandola una misura di carattere democratico-borghese, capace di spazzar via i residui feudali e incoraggiare «la lotta di classe del proletariato agricolo contro i contadini agiati (borghesia contadina)». Dopo la vittoria dell'insurrezione bolscevica a Pietrogrado, il 26 ottobre Lenin propose al congresso dei soviet, che l'approvò all'unanimità, un «decreto sulla terra», in cui non v'era alcuna traccia della terminologia dottrinaria dei precedenti documenti bolscevichi di politica agraria; si trattava infatti del testo pubblicato il 19 agosto 1917 sulla «Izvestija» del soviet panrusso dei deputati contadini, cioè in sostanza del programma agrario socialrivoluzionario a cui il consiglio dei commissari del popolo dava adesso forza di legge.

La promulgazione del «decreto sulla terra» non ebbe tuttavia effetti pratici immediati nelle campagne, dove continuò a infuriare ancora per alcuni mesi la guerra contadina contro i pomesciki. Contro la leggenda storiografica che attribuiva alla rivoluzione d'Ottobre un'influenza decisiva sull'andamento del movimento agrario, è stato ormai dimostrato che la vittoria dell'insurrezione bolscevica «non deve essere considerata una pietra miliare nelle vicende della lotta contadina contro i pomesciki». Le rivolte rurali, esplose spontaneamente al di fuori del controllo dei partiti politici, ebbero anche a novembre e dicembre un carattere selvaggio e distruttivo. I contadini non solo andavano a tagliar legna nei boschi e s'impadronivano in modo disordinato degli attrezzi e dei prodotti agricoli appartenenti ai pomesciki, ma penetravano nelle stesse case padronali saccheggiandole e distruggendole; spesso i contadini concludevano le loro spedizioni dando alle fiamme l'odiato «nido» nobiliare perché i signori non vi facessero mai più ritorno.

Solo a partire dal gennaio-febbraio 1918 si giunse gradualmente a forme più organizzate di liquidazione delle proprietà signorili, che venivano distribuite tra tutti i contadini (seguendo anche le disposizioni della legge sulla «socializzazione della terra», promulgata dal Sovnarkom il 19 febbraio 1918). In questo periodo nei circondari rurali assunsero funzioni sempre più ampie e precise, sostituendosi a poco a poco agli altri organismi politico-amministrativi fino allora operanti nelle campagne, i soviet dei deputati contadini. Tra i molteplici compiti dei soviet di circondario figuravano non solo le modalità di gestione e spartizione delle terre confiscate, ma anche l'organizzazione della difesa del territorio contro i nemici della rivoluzione, la soluzione del problema degli approvvigionamenti, la fornitura di materie prime e combustibile alle piccole aziende artigiane, l'assistenza agli orfani, agli invalidi, ai vecchi ecc, e talvolta persino l'intervento nelle controversie matrimoniali.

Sul piano politico i soviet contadini di circondario erano dominati dai socialisti rivoluzionari di sinistra, la cui influenza si manifestò soprattutto nell'attuazione della riforma agraria secondo criteri e principi fortemente egualitari. In un periodo in cui i bolscevichi si preoccupavano ancora di consolidare il loro potere nelle città e potevano contare su un infimo numero di cellule di partito nelle zone rurali, fu proprio la leale e fattiva collaborazione dei socialisti rivoluzionari di sinistra, che avevano ben più saldi legami con il mondo contadino, a permettere al nuovo regime sovietico di sopravvivere nei primi mesi dopo l'ottobre e a metter radici nelle campagne.

10. La tragedia della rivoluzione russa

Ai bolscevichi non fu difficile conquistare il potere a Pietrogrado, a Mosca e nei più importanti centri urbani (ma va ricordato che nelle altre città gli scontri armati furono più lunghi e sanguinosi che nella capitale e si protrassero talvolta anche per settimane o mesi). Le difficoltà maggiori sorsero dopo l'insurrezione d'ottobre, quando si trattò di risolvere i problemi drammatici che angustiavano il Paese e che avevano favorito l'ascesa politica del partito di Lenin.

Se il programma di pace annunciato il 26 ottobre riscuoteva larghi consensi popolari e il «decreto sulla terra» era destinato a legare alla rivoluzione le masse contadine, su altre questioni l'atteggiamento bolscevico appariva settario e intransigente. Innanzitutto si poneva il problema - sentito anche da alcuni dirigenti bolscevichi che sottolineavano la necessità dell'intesa con gli altri partiti socialisti dissentendo dalla linea di Lenin e Trotskij - della formazione di un governo più rappresentativo del primo Sovnarkom. Solo le pressioni e le minacce del Vihzel (il potente sindacato dei ferrovieri) indussero il Partito bolscevico ad avviare trattative politiche, che si conclusero a dicembre con l'entrata nel governo dei socialisti rivoluzionari di sinistra.

La collaborazione governativa tra bolscevichi e sinistra populistica, essenziale per il consolidamento del nuovo regime, durò fino al marzo 1918, quando gli esponenti socialrivoluzionari lasciarono gli incarichi nel Sovnarkom per protesta contro la conclusione della pace separata con la Germania (trattato di Brest-Litovsk del 3 marzo, per il quale la Russia perdeva la Polonia orientale, le province baltiche, la Finlandia e la Transcaucasia), da loro giudicata un colpevole cedimento all'imperialismo tedesco e quasi un tradimento della causa rivoluzionaria (giudizio condiviso del resto anche da alcuni settori dello stesso Partito bolscevico).

Ben più difficili e conflittuali furono i rapporti con gli altri partiti socialisti. Va detto in proposito che gli storici non hanno ancora del tutto chiarito questo aspetto fondamentale delle vicende rivoluzionarie. In realtà, se si esaminano i documenti delle organizzazioni locali, si nota subito che le posizioni erano abbastanza articolate e non sempre coincidevano con le deliberazioni prese a Pietrogrado. In generale si può affermare che i partiti d'ispirazione socialista - PSR e menscevichi -dopo la rivoluzione d'Ottobre cominciarono a rivolgere critiche anche severe verso le passate esperienze di collaborazione con le forze borghesi e, pur condannando l'insurrezione armata, si mostrarono favorevoli alla ricerca di un accordo con gli avversari bolscevichi. Oltremodo interessante è a questo riguardo la mozione «sulla formazione del governo provvisorio centrale» discussa e approvata dal congresso contadino convocato a Saratov il 23 novembre 1917 dai socialisti rivoluzionari. Vi si diceva tra l'altro:

«II nuovo governo deve essere omogeneo e socialista. I partiti borghesi non ne devono far parte. Al governo dovranno partecipare solo quei bolscevichi che rifiuteranno il potere esercitato da una minoranza su tutto il popolo e riconosceranno che il potere deve appartenere all'assemblea costituente.»

Solo i settori di destra del PSR mostravano un atteggiamento duro e intransigente predicando il rovesciamento violento del regime bolscevico. I menscevichi furono ancor più prudenti e misurati, se si eccettuano alcune frange minoritarie schierate su posizioni fieramente antibolsceviche. Pur ripudiando i metodi insurrezionali e criticando in varie occasioni la politica governativa dei bolscevichi, Martov e gli internazionalisti erano inclini ad attribuire importanza storica alla rivoluzione d'Ottobre e riuscirono a far prevalere nel partito il loro punto di vista. Era d'altronde assai viva nei menscevichi la preoccupazione che la fine violenta del nuovo regime avrebbe aperto la strada ad avventure reazionarie. Come scriveva il 21 gennaio 1918 il «Golos naroda» - organo dei menscevichi di Tuia - il confronto con i bolscevichi doveva restare sul terreno politico e non scivolare verso «congiure armate», perché

«nella lotta armata contro il bolscevismo bisognerebbe allearsi con forze dichiaratamente controrivoluzionarie le quali, in caso di successo, non si limiterebbero certo alla repressione del bolscevismo ma soffocherebbero tutto il movimento operaio e socialista.»

La risposta dei bolscevichi fu quasi sempre faziosa e intollerante, come si vide già al momento della convocazione dell'assemblea costituente, le cui elezioni svoltesi il 12 novembre avevano dato la maggioranza ai socialisti rivoluzionari. I deputati eletti dal popolo furono costretti a sciogliersi subito dopo l'inizio dei lavori, mentre le manifestazioni pacifiche a favore dell'assemblea a Pietrogrado e in altre città venivano represse nel sangue. Anche in seguito i bolscevichi mal tollerarono qualsiasi tipo di opposizione alla loro linea politica guardando con ostilità e perseguitando gli altri partiti popolari. Se prima della rivoluzione d'Ottobre i menscevichi e il PSR avevano commesso errori grossolani ostinandosi a collaborare con le forze liberali e rinviando la soluzione dei più urgenti problemi del Paese, dopo l'insurrezione vittoriosa furono i bolscevichi a macchiarsi di colpe gravi e a cacciarsi in un pericoloso isolamento con la loro politica della terra bruciata.

Sul piano economico i semplicistici slogan bolscevichi, pur rivelandosi efficaci strumenti di propaganda nel corso della rivoluzione, non potevano offrire indicazioni utili per la soluzione dei complessi problemi di un sistema industriale sull'orlo del collasso. Il «controllo operaio», che era stato il cavallo di battaglia degli agitatori bolscevichi nelle fabbriche, fu attuato in maniera anarchica e con risultati catastrofici dai lavoratori di molte imprese nelle settimane successive all'insurrezione d'ottobre. Il Sovnarkom dovette correre ai ripari cercando in un primo momento di regolamentare il fenomeno (decreto del 14 novembre 1917) e passando poi a una più decisa politica di centralizzazione economica (graduale esautoramen-to dei comitati di fabbrica e loro fusione con le organizzazioni sindacali, nazionalizzazione delle banche e delle fabbriche più importanti, creazione degli organi della pianificazione).

Ma fu la questione agraria il vero banco di prova del nuovo regime. Dopo aver soddisfatto, con un atto politico lungimirante, la secolare fame di terra dei contadini, il governo bolscevico fu preso dal panico e reagì in modo maldestro quando le difficoltà degli approvvigionamenti imposero scelte decisive e coraggiose. Al rifiuto dei contadini di consegnare il grano e gli altri generi alimentari senza un'adeguata fornitura di prodotti industriali, il governo rispose con la politica delle requisizioni attuata dalle «squadre annonarie» {prodotrjady). Com'era prevedibile, i contadini opposero una resistenza accanita e unitaria contro i nuovi usurpatori. Lenin e i bolscevichi tirarono allora di nuovo fuori dal loro armamentario ideologico il vecchio e rancido mito della lotta di classe tra proletariato agricolo e borghesia rurale, attribuendo a quest'ultima la responsabilità delle rivolte contro le consegne obbligatorie e non rendendosi conto che il «decreto sulla terra» aveva semmai introdotto un maggior livellamento nelle campagne. L'istituzione dei «comitati dei contadini poveri» {kombedy) l'I 1 giugno 1918 valse solo ad aggravare la situazione.

La guerra tra Stato bolscevico e masse contadine ebbe effetti catastrofici sulle già precarie condizioni alimentari della popolazione. Costretti a cedere alle autorità, in cambio di nulla, tutte le loro eccedenze, gli abitanti delle campagne preferirono ridurre la produzione. La forsennata politica agraria della primavera 1918 ebbe anche gravi ripercussioni sul piano politico, sancendo la rottura definitiva tra bolscevichi e socialisti rivoluzionari di sinistra. Contrariamente a quanto si ripete spesso, non fu la pace di Brest-Litovsk la vera causa del conflitto tra i due partiti. A livello locale la sinistra socialrivoluzionaria continuò a collaborare attivamente con i bolscevichi, come risulta dai verbali dei congressi dei soviet contadini di circondario e di distretto. I rapporti divennero tesi e sfociarono in aperto conflitto quando i socialisti rivoluzionari di sinistra presero le difese delle masse rurali contro la nuova politica dei bolscevichi.

Tra la fine della primavera e l'inizio dell'estate la rivoluzione russa era entrata in un vicolo cieco. Il Paese era ancora più esausto e affamato rispetto all'ottobre, le speranze e gli entusiasmi sembravano appartenere a un'epoca lontana, il regime sovietico appariva isolato e staccato dalle grandi masse popolari, la guerra civile già divampava in diverse regioni. Il Partito bolscevico al potere fece fronte alle immense difficoltà, di alcune delle quali era esso stesso responsabile, usando il pugno di ferro. La dittatura spietata e sanguinaria imposta al Paese negli anni del «comunismo di guerra» lasciò ferite profonde e tracce indelebili, distruggendo per sempre il grandioso patrimonio democratico di una rivoluzione che aveva visto le masse lavoratrici e diseredate irrompere sulla scena, sia pur in modo caotico e primordiale, e organizzarsi tumultuosamente in una pluralità di forme politico-sindacali.


Personaggi storici

Lo zar Nicola II

Nel 1894, Nicola II (1868-1918) ereditò dal padre, Alessandro III, la corona e la linea politica, improntata all'assolutismo e alla russificazione del vasto impero. Nelle sue scelte lo zar fu incoraggiato dalla moglie, Alice d'Assia (incoronata come Alessandra Fèdorovna): ambedue i sovrani andarono soggetti a influenze mistiche e occultistiche facendosi dominare anche da ciarlatani e avventurieri e specialmente dal famigerato monaco Rasputin.

Durante i primi dieci anni del governo di Nicola, la Russia visse un periodo di relativa tranquillità caratterizzato dal rapido incremento dell'industrializzazione, sostenuta dalla politica del ministro Witte, che favorì l'impiego di ingenti capitali stranieri, promuovendo varie riforme in campo tecnico e finanziario. Con la modernizzazione economica si approfondirono anche i problemi sociali della Russia: accanto alle masse contadine si formava ora un proletariato industriale. In politica estera Nicola continuò e sviluppò l'alleanza franco-russa già avviata dal padre. La Russia cercò di distendere le proprie relazioni anche con l'Austria, regolando la rivalità nei Balcani con le intese del 1897 e del 1904. Sebbene Nicola si facesse promotore di due conferenze internazionali per la pace a L'Aia (1899-1907), le quali non dettero risultati notevoli, la Russia s'impegnò in una grande guerra con il Giappone per la predominanza in Manciuria (1904-1905). La guerra fu disastrosa per i Russi, che perdettero Port Arthur (gennaio 1905), furono sconfitti a Mukden (marzo) ed ebbero distrutta la flotta a Tsushima (27-28 maggio). I successi del Giappone furono suggellati dalla pace firmata a Portsmouth, con la mediazione degli Stati Uniti (5 settembre 1905). Durante la guerra russo-giapponese si ebbe una prima rivoluzione in seno alla Russia. Dopo una serie di agitazioni e di rivolte estese anche alle forze armate (fra cui è famoso l'ammutinamento dell'incrociatore Potémkin), Nicola si decise con un manifesto imperiale dell'ottobre 1905 a concedere una serie di libertà costituzionali, e l'anno seguente istituì un'assemblea legislativa {duma) eletta a suffragio indiretto.

Il regime costituzionale non ebbe uno svolgimento organico regolare, dimostrandosi incapace di portare a una effettiva liberalizzazione delle istituzioni del Paese. In seno alla duma si contrapposero il Partito costituzionale democratico (cadetti) che mirava a uno svolgimento in senso parlamentare, e quello dei costituzionali conservatori (ottobristi), mentre al di sopra della assemblea il governo rimaneva sostanzialmente autocratico e nel Paese continuava l'agitazione dei partiti estremi, principalmente di quello socialista, diviso in menscevichi e bolscevichi. Quando nell'ottobre 1908 l'Austria-Ungheria annesse la Bosnia e la Serbia si oppose all'annessione, la Russia tentò di prenderne le parti, ma infine cedette di fronte all'intervento della Germania. Per riparare allo scacco strinse un accordo con l'Italia (1909) e favorì l'alleanza degli Stati balcanici. In conseguenza delle due guerre balcaniche (1912-1913) rinacque la tensione austro-serba e austro-russa, che - in seguito all'attacco austriaco contro la Serbia, conseguenza dell'attentato di Sarajevo contro l'arciduca d'Austria Ferdinando (28 giugno 1914) - sfociarono nella guerra mondiale. Le gravi disfatte subite durante la guerra dall'esercito russo e la cattiva amministrazione dell'impero, sempre più evidente, insieme con l'intensificata agitazione dei partiti estremi, produssero la prima rivoluzione russa del marzo 1917, di fronte alla quale Nicola abdicò. Dopo la seconda rivoluzione di novembre, che portò al potere i bolscevichi, Nicola, con la sua famiglia, fu confinato a Ekaterinburg. Qui, essendosi diffuso il timore dell'arrivo di truppe cecoslovacche antibolsceviche, il soviet locale procedette al massacro dell'ex-zar, della moglie e dei figli nella notte tra il 16 e il 17 luglio 1918.

Aleksandr Kerenskij

Aleksandr Kerenskij (1881-1970), di professione avvocato, entrò nel 1912 alla duma alla testa del piccolo gruppo dei trudoviki, l'ala moderata del movimento socialrivoluzionario. Più volte incarcerato dal regime zarista, diventò uno dei protagonisti della rivoluzione russa. Nel febbraio 1917 diventò vicepresidente del soviet di Retrogrado e ministro della Giustizia nel gabinetto liberal-conservatore del principe L'vov. Passato al dicastero della guerra, fu l'animatore dell'ultima disastrosa offensiva russa contro gli Austro-Tedeschi e nel luglio del 1917 divenne capo del governo provvisorio. Sventato in settembre il tentativo di colpo di Stato del generale Kornilov, Kerenskij assunse il comando delle forze armate passando la maggior parte del suo tempo al fronte, il che favorì il suo isolamento politico. La rivoluzione d'Ottobre lo colse impreparato e impotente a fronteggiare l'assalto bolscevico. Sfuggito a stento alla cattura, lasciò per sempre la Russia nel maggio 1918.

Lenin, l'uomo della rivoluzione

Vladimir llic Uljanov, detto Lenin (1870-1924), nacque da famiglia borghese di Simbirsk. L'impiccagione del fratello maggiore Aleksandr, populista, per un fallito attentato allo zar nel 1887, rafforzò in lui l'impegno politico ma anche la critica alle insufficienze del populismo.

La sua critica al populismo si espresse compiutamente nel saggio Che cosa sono gli «Amici del popolo» e come lottano contro i socialdemocratici? (1894). Confinato in Siberia dal 1897 al 1899, vi scrisse Lo sviluppo del capitalismo in Russia (1899), in cui analizzava l'integrazione della Russia nell'economia capitalistica e la nascita di una moderna classe operaia rivoluzionaria. Costretto ancora all'esilio (1907), visse in Svizzera e in Germania e fu promotore del Partito operaio socialdemocratico russo (POSDR), e insieme con Martov e Plechanov fondò la rivista teorica «Iskrà» (scintilla). In questi anni elaborò la teoria sul partito rivoluzionario (Che fare?, 1902; Un passo avanti, due passi indietro, 1904): convinto che la coscienza rivoluzionaria non sorgesse «spontaneamente» nella classe operaia, sostenne la necessità di un'avanguardia di «rivoluzionari di professione» organizzata in un partito saldamente disciplinato, in grado di abbattere l'autocrazia zarista e di saldare l'alleanza fra operai e contadini, per accelerare la rivoluzione proletaria. Ben presto il POSDR si scisse nelle due fazioni: bolscevica, leninista, e menscevica, marxista riformista. Nel 1912 la rottura si fece definitiva e i bolscevichi si costituirono in partito autonomo. Nel novembre 1914, allo scoppio del conflitto mondiale, pubblicò a nome del comitato centrale del partito il manifesto La guerra e la socialdemocrazia russa, che condannava il «socialpatriottismo» dei partiti della seconda Internazionale e auspicava la «trasformazione della guerra imperialista in guerra civile».

Ne L'imperialismo, fase suprema del capitalismo (1916) individuò nella guerra lo sbocco inevitabile delle contraddizioni del capitalismo, e ribadì la necessità di trasformare la guerra imperialistica in guerra rivoluzionaria. Il precipitare degli eventi in Russia, con la rivoluzione del febbraio 1917, accelerò la maturazione del suo pensiero politico, che espresse prima nelle Tesi di aprile sulla conquista rivoluzionaria del potere in Russia, giudicando esaurita la fase borghese e poi in Stato e rivoluzione, in cui perfezionò la definizione di «dittatura del proletariato».

Rientrato in patria su un vagone piombato nell'aprile 1917, rifiutò ogni collaborazione con il governo provvisorio e si batté per il passaggio alla fase socialista della rivoluzione auspicando il ritiro immediato dalla guerra, il passaggio del potere ai soviet e quello della proprietà delle terre e delle officine ai contadini e agli operai (Tesi di aprile). In ottobre lottò per l'immediata presa del potere da parte dei soviet, in cui i bolscevichi avevano la maggioranza. La rivoluzione scoppiò a Pietrogrado il 7 novembre 1917 e rapidamente si estese a tutta la Russia. Le vicende successive coincidono con la storia dell'URSS, nelle fasi della sua prima organizzazione interna e della guerra civile. L'attività leniniana di tale periodo fu assorbita dai compiti di governo e di partito. In una situazione obiettiva di crisi e di riflusso rivoluzionario, nel 1921 Lenin lanciò la Nuova politica economica (NEP) quale fattore distensivo nei confronti delle masse contadine e stimolante ai fini dell'industrializzazione del Paese. Preoccupanti erano, intanto, le prospettive politiche, soprattutto quando il 3 aprile 1922 l'XI congresso del partito nominò Stalin segretario generale. La lotta al vertice divenne serrata, mentre Lenin, colpito da emorragia cerebrale, fu costretto alla quasi totale inazione fino alla morte. Ultimo documento politico di notevole rilievo - che attesta le sue preoccupazioni per le questioni interne -furono gli appunti per il comitato centrale del dicembre 1922 e noti come «Testamento di Lenin», in cui si criticava Stalin e la cui autenticità sarebbe stata ammessa in URSS soltanto nel 1956 al XX congresso.

Il termine «bolscevismo» deriva dalla parola russa bol'scintvò, «maggioranza»; entrò nel lessico politico quando indicò la maggioranza guidata da Lenin al II congresso del Partito operaio socialista democratico russo (POSDR), che si svolse a Londra e a Bruxelles (1903). La discussione si svolgeva sulla linea politica e organizzativa del partito.

Superata la divergenza menscevica (da men'scintvò, «minoranza») sul programma, in cui furono introdotti il concetto di dittatura del proletariato e le rivendicazioni del movimento contadino, lo scontro si spostò sul tema dell'organizzazione.

Lenin voleva un partito a rigida struttura centralistica, composto di «rivoluzionari di professione»; i menscevichi volevano un partito non burocratizzato e promosso dal basso, anziché dall'alto. Lenin riuscì a imporsi, non senza difficoltà, dato che i menscevichi tentarono di impadronirsi dei centri dirigenti del partito. Negli anni successivi, la frattura si aggravò. Lenin proponeva l'assunzione diretta dell'iniziativa rivoluzionaria da parte del proletariato alleato con le masse contadine per sovvertire il regime zarista. I menscevichi sostenevano al contrario la preliminare necessità di una rivoluzione borghese e capitalistica prima dell'avvento del socialismo; in questa fase le forze proletarie avrebbero dovuto fiancheggiare la borghesia, limitandosi a difendere gli interessi economici propri del ceto operaio urbano, favorendo allo stesso tempo lo sviluppo industriale. Nel 1912 menscevichi e bolscevichi si separarono formalmente alla VI conferenza del POSDR. Lo scontro tra le due posizioni accompagnò gli ultimi anni della seconda Internazionale, quelli della guerra mondiale e quindi la rivoluzione in Russia. Dopo la rivoluzione d'Ottobre, e con la costituzione della terza Internazionale (1919), il termine bolscevismo è stato applicato sia ad alcuni esperimenti rivoluzionari che ebbero luogo all'indomani della prima guerra mondiale, sia ai moti politici ed economico-sociali promossi da alcuni partiti socialisti, sia al fenomeno di assimilazione al modello leninista dei vari partiti comunisti, che si configuravano come minoranze politiche e sindacali da strutturare in vista della conquista violenta del potere e dell'instaurazione della dittatura proletaria.

Lev Davidovic Trotskij

Proveniente da una famiglia di agiati contadini ucraini, Trotskij (il cui vero nome era Lejba Bronstein, 1879-1940) si oppose fin da giovane al regime zarista. Nel 1897 fondò l'Unione operaia della Russia del sud; nel 1898 fu arrestato e deportato per quattro anni in Siberia orientale.

Fuggì nel 1902 e si recò in Inghilterra da Lenin. Nell'ambiente dei rivoluzionari russi a Londra collaborò alla rivista «Iskra». Nel 1904 partecipò al secondo congresso del partito operaio socialdemocratico russo (POSDR) schierandosi prima con la fazione menscevica; quindi, fino al 1917, in una posizione indipendente, per l'unità delle due fazioni, opponendosi alla concezione centralista del bolscevismo (/ nostri compiti politici, 1904).

Allo scoppio della rivoluzione del 1905 rientrò in Russia, e fu presidente del soviet di Pietroburgo. Sotto la pressione degli avvenimenti Trotskij aveva intanto precisato le proprie idee sul futuro corso della rivoluzione in Russia, teorizzando la «rivoluzione permanente» {Bilanci e Prospettive, 1906). Le condizioni di arretratezza della Russia avrebbero fatto sì che la rivoluzione proletaria saltasse la fase democratico-borghese per avviare direttamente un'esperienza socialista, che avrebbe dovuto infine estendersi a livello mondiale.

Condannato all'ergastolo e deportato in Siberia, Trotskij evase nel 1907, e fu a Londra, poi a Berlino, infine a Vienna. Contro la politica della SPD tedesca che aveva votato i crediti di guerra prese posizione ne La guerra e l'Internazionale. Nel 1915 partecipò alla conferenza intemazionale di Zimmerwald e ne redasse il manifesto finale. All'inizio del 1917 giunse a New York, dove collaborò con Bucharin e la Kollontaj al quotidiano degli emigrati russi «Kievskaya Mysl», stringendo legami con il movimento operaio americano. Scoppiata la rivoluzione del febbraio 1917, Trotskij giunse a Pietroburgo il 17 maggio salutando il «prologo della rivoluzione mondiale». Con la sua adesione al Partito bolscevico si stabilì un accordo politico tra Trotskij e Lenin, in opposizione a Kamenev, Stalin e Zinov'ev, fautori dell'unificazione con i menscevichi e del sostegno al governo provvisorio. Divenuto uno dei principali dirigenti della rivoluzione, organizzò l'insurrezione armata dell'ottobre e assunse l'incarico di commissario del popolo agli Affari esteri nel nuovo governo diretto da Lenin. In questa veste avviò nel 1918 le trattative di pace di Brest-Litovsk.

Gli fu poi assegnato il compito di organizzare l'Armata Rossa, che costituì utilizzando anche l'esperienza militare dei vecchi ufficiali dello zar, affiancati da commissari politici e da validi collaboratori e teorici militari come Tuchacevskij. Nella fase del «comunismo di guerra» fu tra i responsabili della repressione della rivolta di Kronstad (1921). Con la malattia e poi la morte di Lenin prese avvio la lotta interna. Trotskij sottolineò la necessità di una nuova iniziativa rivoluzionaria per evitare la degenerazione burocratica del partito (Le lezioni dell'ottobre, 1924). Alla XII conferenza del partito (1924) il trotskismo era condannato ufficialmente come «deviazione piccolo borghese», mentre Stalin cominciava a dare corpo agli interessi dell'apparato, formulando la teoria del «socialismo in un solo paese», contrapposta alla teoria della «rivoluzione permanente». Trotskij fu infine espulso dal partito nel novembre 1927, deportato ad Alma Ata nel gennaio 1928, per poi essere espulso dall'URSS nel 1929.

Nel 1937 scrisse La rivoluzione tradita, in cui l'URSS era descritta come uno Stato operaio degenerato e la burocrazia una «escrescenza parassitaria», cinghia di trasmissione dell'imperialismo, da estirpare con una rivoluzione politica che restituisse il potere ai lavoratori. Nel 1938 fondò a Parigi la quarta Internazionale, raggruppando marxisti che in tutto il mondo cominciavano a opporsi allo stalinismo.

Nel 1940 fu infine ucciso a Città del Messico dal sicario di Stalin Ramon Mercader.