Wikipedia
Con Risorgimento la storiografia si riferisce al periodo della
storia d'Italia durante il quale la nazione italiana
conseguì la propria unità nazionale, riunendo in un
solo Stato – il Regno d'Italia – gli stati preunitari.
Il termine, che designa anche il movimento culturale, politico e
sociale che promosse l'unificazione, richiama l'ideale romantico e
nazionalista di una resurrezione d'Italia attraverso il
raggiungimento di un'identità unitaria che si era iniziata
a delineare durante la dominazione romana, la cui
specificità «...valse a imprimere sull'Italia un
tratto oggettivo di esperienza unitaria...». Tale processo
identitario si arrestò definitivamente nella seconda
metà del VI secolo.
Sebbene non vi sia consenso unanime tra gli storici, la maggior
parte di essi tende a stabilire l'inizio del Risorgimento, come
movimento, subito dopo la fine del dominio Napoleonico e il
Congresso di Vienna nel 1815, e il suo compimento fondamentale con
l'annessione dello Stato Pontificio e lo spostamento della
capitale a Roma nel febbraio 1871.
Tuttavia, gran parte della storiografia italiana ha esteso il
compimento del processo di unità nazionale sino agli inizi
del XX secolo, con l'annessione delle cosiddette terre irredente,
a seguito della prima guerra mondiale, creando quindi il concetto
di quarta guerra di indipendenza. Anche la Resistenza italiana
(1943-1945) è stata talvolta ricollegata idealmente al
Risorgimento.
Sin dalla nascita del Regno d'Italia, sono state mosse critiche al
processo di unificazione, le quali hanno dato origine ad una
storiografia revisionista, di varia ispirazione culturale ed
ideale, che contesta in diverso modo la rappresentazione offerta
dalla storiografia più diffusa circa i processi politici e
militari che condussero all'unità d'Italia, tanto da
influenzare, in taluni casi, l'origine di movimenti autonomisti e
separatisti, meridionali e settentrionali.
Indice
1 Estensione cronologica del fenomeno
2 Premesse storiche
2.1 Impero romano e Medioevo
2.2 Rinascenze e Rinascimento
2.3 Età napoleonica
3 Le idee e gli uomini
4 Gli anni della restaurazione
4.1 I moti carbonari
4.1.1 1817
4.1.2 1820-1823
4.1.3 1824-1847
4.2 Rivolte mazziniane
4.3 I congressi scientifici prima del '48
5 Il biennio delle riforme
6 La "primavera dei popoli" e la Prima guerra d'indipendenza
7 Il "decennio di preparazione"
7.1 Le azioni mazziniane
7.2 La realpolitik cavouriana
8 La Seconda guerra d'indipendenza
9 La Spedizione dei Mille e la proclamazione del Regno d'Italia
10 Terza guerra di indipendenza e Roma capitale
10.1 La terza guerra di indipendenza
10.2 Roma capitale
11 L'ideale conclusione e il completamento territoriale
12 I problemi dello stato unitario
12.1 Nord e Sud
12.2 Le condizioni del Regno
12.3 Il brigantaggio
12.4 Decentramento e accentramento
13 Interpretazioni storiografiche
13.1 L'assenza delle masse contadine e il contrasto
città-campagna
13.2 Le cinque giornate di Milano (18 - 22 marzo 1848)
13.3 Da guerra federalista a guerra regio-sabauda
13.4 La spedizione dei Mille
13.5 Critiche al processo di unificazione
13.6 Il "popolarismo" risorgimentale
13.6.1 Il Risorgimento come moto nazional-popolare
Estensione cronologica del fenomeno
La definizione dei limiti cronologici del Risorgimento risente
evidentemente dell'interpretazione storiografica riguardo a tale
periodo e perciò non esiste accordo unanime fra gli storici
sulla sua determinazione temporale, formale ed ideale.
Esiste inoltre un collegamento tra un "Risorgimento letterario" e
uno politico: fin dalla fine del XVIII secolo si scrisse di
Risorgimento italiano in senso esclusivamente culturale.
La prima estensione dell'ideale letterario a fatto politico e
sociale della rinascita dell'Italia si ebbe con Vittorio Alfieri
(1749-1803), non a caso definito da Walter Maturi il «primo
intellettuale uomo libero del Risorgimento», vero e proprio
storico dell'età risorgimentale, che diede inizio a quel
filone letterario e politico risorgimentale che si sviluppò
nei primi decenni del XIX secolo.
Come fenomeno politico, il Risorgimento viene compreso da taluni
storici fra il proclama di Rimini (1815) e la breccia di Porta Pia
da parte dell'esercito italiano (20 settembre 1870), da altri, fra
i primi moti costituzionali del 1820-1821 e la proclamazione del
Regno d'Italia (1861) o il termine della terza guerra
d'indipendenza (1866).[6]
Altri ancora, in senso lato, vedono la sua nascita fra
l'età riformista della seconda metà del XVIII secolo
e l'età napoleonica (1796-1815), a partire dalla prima
campagna d'Italia[8].
La sua conclusione, parimenti, viene talvolta estesa, come detto,
fino al riscatto delle terre irredente dell'Italia nord-orientale
(Trentino e Venezia Giulia) a seguito della prima guerra mondiale.
Infine, le forze politiche che diedero vita alla Costituzione
della Repubblica Italiana ed una parte della storiografia hanno
individuato nella Resistenza all'occupazione nazi-fascista, tra il
1943 ed il 1945, un "secondo" Risorgimento.
Premesse storiche
Il Risorgimento italiano trae origine idealmente da diverse
tradizioni storiche.
Impero romano e Medioevo
Durante l'età augustea l'Italia fu organizzata in un
sistema amministrativo distinto da quello tipico della province
divenendo la parte privilegiata dell'impero: i suoi abitanti
liberi erano cittadini romani, esentati dalla tassazione diretta,
eccetto la nuova tassa sulle eredità creata per finanziare
i bisogni militari. L'Italia fu dotata di una fitta rete stradale
e di numerose strutture pubbliche (evergetismo augusteo). I
privilegi accordati da Roma all'Italia, tanto da farne una sorta
di metropoli rispetto alle altre province dell'impero, affondavano
le loro radici nella più antica politica d'espansione
romana, che facendo leva sul comune substrato culturale e
linguistico caratterizzante molti popoli italici (Latini, Osci,
Falisci, Umbri ecc.) ed i Veneti, assimilava poi nella stessa
koiné anche gli altri popoli della regione italiana
(Liguri, Celti, ecc.).
Con la caduta dell'Impero romano d'Occidente, l'unità
territoriale della penisola non venne meno né col regno
degli Ostrogoti, il primo di tante occasioni mancate nel Medioevo
per far nascere anche in Italia una coscienza nazionale come
viceversa avvenne in altri paesi europei, né dopo
l'intervento diretto dell'imperatore d'Oriente Giustiniano I e la
successiva guerra gotica (535-553); questa unità si ruppe
con l'invasione longobarda e la conseguente spartizione della
penisola.
I Longobardi inizialmente tesero a rimanere separati dalle
popolazioni soggette sia sotto il profilo politico che militare,
ma col tempo finirono sempre più per fondersi con la
componente latina e tentarono, sull'esempio romano e ostrogoto, di
riunificare la penisola per dare una base nazionale al loro
regno.Tale tentativo fallì per l'intervento dei Franchi
richiamati da papa Adriano I, secondo un copione tipico destinato
a ripetersi nei secoli a venire, che vede il papa cercare il
più possibile di impedire la nascita di una potenza nemica
sul suolo italico in grado di compromettere la sua autonomia.
Prima della conquista franca infatti, il Regnum Langobardorum si
identificava con la massima parte dell'Italia peninsulare e
continentale e gli stessi re longobardi, dal VII secolo, non si
consideravano più solo re dei longobardi, ma dei due popoli
(longobardi e italici di lingua latina) posti sotto la propria
sovranità nei territori non bizantini e dell'Italia tutta
(Dei rex totius Italiae). I vincitori si erano pertanto
gradualmente romanizzati, abbracciando la cultura dei vinti grazie
anche all'accettazione del latino come unica lingua scritta dello
Stato e come strumento di comunicazione privilegiato a livello
giuridico e amministrativo. Durante il periodo longobardo, a
seguito della Donazione di Sutri si formò il primo nucleo
dello Stato Pontificio: il Patrimonium Sancti Petri, primo nucleo
territoriale su cui si estenderà il potere temporale della
Chiesa, fino al 1870.
I Franchi, a partire dalla seconda metà dell'VIII secolo,
tentarono di ricostituire l'Impero con Carlo Magno: tale organismo
prese corpo definitivamente un secolo e mezzo più tardi,
con un sovrano germanico, Ottone I di Sassonia. Il Regno d'Italia
era legato a questo grande organismo statuale da vincoli di
vassallaggio, dai quali vanamente cercò di sottrarsi. I
più celebri fra tali tentativi furono quello di Berengario
del Friuli (850-924), e poi di Arduino d'Ivrea (955-1015),
personaggi considerati dalla storiografia nazionalista come
antesignani dei patrioti risorgimentali. Arduino, attorno all'anno
1000, sostenuto dalla nobiltà laica del nord Italia,
condusse alcune campagne militari per liberare l'Italia dalla
tutela germanica.
Nei primi secoli dopo il Mille, lo stesso desiderio di autonomia e
libertà portò a un notevole sviluppo delle
Repubbliche marinare (Amalfi, Genova, Pisa e Venezia), e poi dei
liberi Comuni di popolo, favorendo quella rinascita dell'economia
e insieme delle arti che approderà al Rinascimento, e che
fu anticipata dal risveglio religioso che si ebbe nel Duecento con
le figure di Gioacchino da Fiore e Francesco d'Assisi.
Se durante l'alto Medioevo il sentimento nazionale italiano si
mantenne ancora piuttosto in ombra, partecipando alla contesa tra
le due potenze di allora, il Papato e l'Impero, con i quali si
schierarono rispettivamente Guelfi e Ghibellini, esso
cominciò così lentamente a emergere, alimentandosi
soprattutto del ricordo dell'antica grandezza di Roma, e trovando
nell'identità religiosa rappresentata dalla Chiesa,
idealmente erede delle istituzioni romane, un senso di comune
appartenenza. La vittoria nella battaglia di Legnano ad opera
della Lega Lombarda contro l'imperatore Federico Barbarossa
(1176), e la rivolta dei Vespri Siciliani contro il tentativo del
re di Francia di assoggettare la Sicilia (1282), saranno assunte
in particolare dalla retorica romantica ottocentesca come i
simboli del primo risveglio di una coscienza di patria.
Mentre però da un lato la formazione dei comuni e delle
signorie portò al fallimento di una composizione politica
unitaria, per il prevalere di interessi locali in un'Italia
suddivisa in piccoli stati, spesso in lotta fra di loro, d'altro
lato, secondo taluni autori, fu proprio questo il periodo in cui
si formò l'Italia come nazione, «...forse...la
più precoce delle nazioni europee...», e in cui,
secondo alcuni storici, si produsse ad opera di Federico II il
primo serio tentativo di unificazione peninsulare. Tale tentativo,
secondo altre correnti storiografiche, fu invece espressione della
volontà di una politica espansionistica di assoggettamento
ad opera del sovrano svevo-italiano, tesa a favorire l'instaurarsi
di signorie ghibelline a lui amiche, sottraendo l'Italia
dall'influenza papale e sottomettendola per intero all'impero
germanico.
Rinascenze e Rinascimento
Durante le rinascenze culturali del XIII e XIV secolo, che
avrebbero condotto al fiorire del Rinascimento, si dimostrò
ben vivo il ricordo della passata grandezza dell'Italia come
centro del potere e della cultura dell'impero romano e come centro
del mondo, e il Paese fu ispirazione ed oggetto di studio per
poeti e letterati, cantando lodi all'Italia antica - già
vista come continuum culturale se non nazionale - e deprecandone
la contemporanea situazione.
Un sentimento di comune appartenenza nazionale sembrò
maturare presso gli intellettuali del tempo mentre il volgare
latino locale veniva elevato al rango di lingua letteraria, primo
ideale elemento di una coscienza collettiva di popolo. Anche
grazie a tali letterati e intellettuali, fra cui emersero le
figure universali di Dante, Petrarca e Boccaccio, che ebbero
scambi culturali senza tener conto dei confini regionali e locali,
la lingua italiana dotta si sviluppò rapidamente,
evolvendosi e diffondendosi nei secoli successivi anche nelle
più difficili temperie politiche, pur rimanendo per molti
secoli lingua veicolare solo per le classi più colte e
dominanti, venendo progressivamente ed indistintamente adottata
come lingua scritta in ogni regione italofona, prescindendo dalla
nazionalità dei suoi principi. Dante e Petrarca inoltre
introdussero la locuzione Bel paese, come espressione poetica, per
indicare l'Italia:
«del bel paese là dove 'l sì sona,»
il bel paese/ Ch'Appennin parte e 'l mar circonda e l'Alpe
»
Sul piano politico, invece, a causa della mancanza di uno stato
unitario sul modello di quelli che stavano via via sorgendo nel
resto d'Europa, i piccoli stati italiani furono costretta a
supplire con l'intelligenza strategica dei suoi capi politici alla
superiorità di forze degli stati nazionali europei,
arrivando a concordare una alleanza la Lega Italica. Esemplare fu
in proposito il signore di Firenze Cosimo de' Medici (1389-1464),
non a caso soprannominato Pater Patriae, ovvero "Padre della
Patria", e considerato uno dei principali artefici del
Rinascimento fiorentino: la sua politica estera, infatti, mirante
al mantenimento di un costante e sottile equilibrio fra i vari
stati italiani, sarà profetica nell'individuare nella
concordia italiana l'elemento chiave per impedire agli stati
stranieri di intervenire nella penisola approfittando delle sue
divisioni.
L'importanza della strategia di Cosimo, proseguita dal suo
successore Lorenzo il Magnifico (1449-1492) nella sua continua
ricerca di un accordo tra gli stati italiani in grado di sopperire
alla loro mancanza di unità politica,[28] non venne
tuttavia compresa dagli altri prìncipi della penisola, ed
essa si concluse con la morte di Lorenzo nel 1492.
Da allora in Italia ebbe inizio un lungo periodo di dominazione
straniera, la quale, secondo gli storici risorgimentali, fu quindi
dovuta non a sterile arrendevolezza, bensì al ritardo del
processo politico di unificazione. Nella propaganda
risorgimentale, per via del romanzo omonimo di Massimo d'Azeglio,
è anzi rimasto celebre e ricordato come gesto di
patriottismo l'episodio della disfida di Barletta (1503), quando
tredici cavalieri italiani,alleati degli spagnoli per la conquista
del Regno di Napoli, capeggiati dal capitano di ventura Ettore
Fieramosca, sconfissero in duello altrettanti cavalieri francesi
che li avevano insultati accusandoli di viltà e codardia.
L'interesse per l'unità si spostò intanto
dall'ambito culturale a quello dell'analisi politica e, già
nel XVI secolo, Machiavelli e Guicciardini dibattevano il problema
della perdita dell'indipendenza politica della penisola, divenuta
nel frattempo un campo di battaglia fra Francia e Spagna e infine
caduta sotto la dominazione di quest'ultima. Pur con programmi
diversi, Machiavelli e Guicciardini, fautori rispettivamente di
uno Stato accentrato e di uno federale[33], concordavano sul fatto
che la perdita dell'individualità nazionale fosse avvenuta
a causa dell'individualismo e della mancanza di senso dello Stato
delle varie popolazioni italiane. Ecco quindi il compito del
Principe al quale Machiavelli lanciava la sua nota
«esortazione a pigliare l'Italia e liberarla dalle mani dei
barbari.»
All'inizio del secolo XVII Cesare Ripa con la sua opera
Iconologia, nella voce "Italia con le sue provincie. Et parti de
l'isole" rifacendosi ai testi classici diffonde l'immagine
classica dell'Italia turrita, con cornucopia e sovrastata da una
stella, "come rappresentata nelle Medaglie di Commodo, Tito et
Antonino" e conclude la descrizione dell'Italia con la frase
«Siede sopra il Globo (come dicemmo) per dimostrare come
l'Italia è Signora et Regina di tutto il Mondo, come hanno
dimostrato chiaro gli antichi Romani, et hora più che mai
il Sommo Pontefice maggiore et superiore a qual si voglia
Personaggio.»
Età napoleonica
Non fu che alla fine del XVIII secolo, con l'arrivo delle truppe
napoleoniche nella penisola, che cominciò a diffondersi
presso strati sempre più ampi di popolazione un sentimento
nazionale italiano[37], fino ad allora percepito soltanto da una
ristretta cerchia di intellettuali, aristocratici e borghesi
già esposti alle idee dell'Illuminismo, che aveva trovato
in Napoli il suo maggior centro di studio accademico.
Un'eredità ancora ben presente, a testimonianza
dell'influsso "francese", è data dalla origine del
tricolore italiano inizialmente adottato nelle piccole ed effimere
repubbliche create da Napoleone Bonaparte nell'Italia centro
settentrionale e, quindi divenuto bandiera nazionale italiana;
risale sempre a Napoleone la prima moneta con la parola "Italia":
si tratta del marengo d'oro da 20 franchi coniato nel 1801 dalla
Repubblica Subalpina per celebrare la vittoria alla vittoria
contro gli austriaci recante la dicitura: L'Italie
délivrée à Marengo (L'Italia liberata a
Marengo).
Questi nuovi sentimenti nazionalistici vennero anche diffusi dalle
nazioni che si fronteggiavano militarmente sul suolo italiano per
cercare l'appoggio delle popolazioni. Da Gradisca l'11 ottobre
1813 Eugenio di Beauharnais invitando gli italiani all'unione e al
combattimento contro le forze austriache affermava: "... ITALIA!
ITALIA! Questo sacro nome, che produsse nell'antichità
cotanti prodigj, sia oggidì il nostro grido di unione! ...
Il prode che combatte pei suoi focolari, per la sua famiglia, per
la sua gloria e per l'indipendenza del suo paese è sempre
invincibile ..."; a questo proclama rispondeva Il 10 dicembre 1813
Nugent, comandante delle forze austro britanniche, da Ravenna
rivolgendo a sua volta un proclama agli italiani, contenente
l'affermazione "... Avrete TUTTI a divenire una nazione
indipendente ..."
Lord Bentick, comandante dell'esercito britannico in Italia, dopo
essere sbarcato a Livorno, il 14 marzo 1814, a sua volta lanciava
un appello agli italiani, facendo un parallelo con la Spagna
appena resasi indipendente, che si concludeva: "... Congiunte
allora le forze nostre faran sì che l'Italia ciò
divenga ch'ella già fu ne' suoi migliori tempi, e
ciò che al presente è ancora la Spagna.".
Un più forte appello per una presa di coscienza politica
nazionale diffusa in tale periodo, si trova nel Proclama di
Rimini, anche se rimase disatteso, in cui Gioacchino Murat, il 30
marzo 1815, durante la guerra austro-napoletana, rivolse un
appello a tutti gli italiani "...Italiani, non state più in
forse, siate Italiani..." affinché si unissero per salvare
il regno posto sotto la sua sovranità, rappresentato come
unico garante della loro indipendenza nazionale contro l'occupante
straniero: " ... Italiani, la Provvidenza vi chiama infine ad
essere una nazione indipendente; dall'Alpi allo stretto di Scilla
odasi un grido solo: Indipendenza d'Italia! ...".
Sempre allo scopo di attirare le simpatie delle classi colte
italiane alla propria causa, il governo austriaco arrivo' nel
gennaio 1816 a favorire l'uscita a Milano di una rivista
intitolata Biblioteca Italiana, che sorti' l'effetto opposto e
indusse come reazione la nascita de Il Conciliatore.
Le idee e gli uomini
Lo sviluppo di una coscienza politica nazionale coincise,
soprattutto nella borghesia, con la diffusione delle idee
liberali, e dell'Illuminismo.
Nel 1765 sul n.2 de Il Caffè esce La patria degli Italiani,
di Gian Rinaldo Carli che si chiude con la frase «Un
italiano in Italia non è mai forestiero».
Nel 1782 quaranta scienziati italiani fondarono a Verona la
Società italiana, ritenendo, come scrisse il suo primo
presidente il matematico Antonio Maria Lorgna, che "lo svantaggio
dell’Italia è l’avere ella le sue forze disunite" per cui
si doveva "associare le cognizioni e l’opera di tanti illustri
Italiani separati" ricorrendo "a un principio motore degli uomini
sempre attivo, e talora operante con entusiasmo, l’amor della
Patria", Lorgna concludeva: "Cari Signori oltremontani, aspettino
un pochino e vedranno l’Italia sotto altro aspetto fra pochi anni.
Basta che siamo uniti".
Queste idee vennero quindi esaltate dalla Rivoluzione francese, ed
ebbero un'accelerazione improvvisa con la discesa in Italia di
Napoleone Bonaparte nella sua I campagna d'Italia, nel 1796.
Rovesciati i sovrani preesistenti, i francesi, deludendo le
speranze dei patrioti giacobini italiani, si erano stabilmente
insediati in buona parte dell'Italia settentrionale, creando
repubbliche su modello francese (le cosiddette repubbliche
sorelle), rivoluzionando la vita del tempo e portando idee nuove,
ma facendone anche ricadere il costo sulle popolazioni locali,
sino a generare episodi di rivolta come le cosiddette "Pasque
veronesi".
Il sorgere della coscienza nazionale non fu un processo unitario,
lineare o coerentemente definito; diversi programmi, aspettative
ed ideali, a volte anche incompatibili tra loro, confluirono in un
vero e proprio crogiuolo: vi erano in campo quelli
romantico-nazionalisti, repubblicani, protosocialisti,
anticlericali, liberali, monarchici filo Savoia o papalini, laici
e clericali, vi era l'ambizione espansionista di Casa Savoia verso
la Lombardia, vi era il bisogno di liberarsi dal dominio austriaco
nel Regno del Lombardo-Veneto, unitamente al generale desiderio di
migliorare la situazione socio-economica approfittando delle
opportunità offerte dalla rivoluzione
tecnico-industriale,[45] superando al contempo la frammentazione
della penisola laddove sussistevano Stati, in parte liberali, che
spinsero i vari rivoluzionari della penisola a elaborare e a
sviluppare un'idea di patria più ampia e ad auspicare la
nascita di uno Stato nazionale analogamente a quanto avvenuto in
altre realtà europee come Francia, Spagna e Gran Bretagna.
Francesco Lomonaco fu uno dei primi patrioti, se non il primo,[46]
a preconizzare la formazione di un'Italia unita sotto un unico
governo. Nel suo scritto Colpo d'occhio sull'Italia, contenuto nel
Rapporto al cittadino Carnot (1800), egli recitò:
«Perché vi sia in Europa bilancia politica è
d'uopo che l'Italia sia fusa in un solo governo [...] Gli
Italiani, avendo unico e proprio governo acquisteranno spirito di
nazionalità, avendo patria godranno della libertà e
di tutti i beni che ne derivano».[47]
Dopo Lomonaco, le personalità di spicco in questo processo
furono molte tra cui: Giuseppe Mazzini, figura eminente del
movimento liberale repubblicano italiano ed europeo; Giuseppe
Garibaldi, repubblicano e di simpatie socialiste, per molti un
eroico ed efficace combattente per la libertà in Europa ed
in Sud America; Camillo Benso conte di Cavour, statista in grado
di muoversi sulla scena europea per ottenere sostegni, anche
finanziari, all'espansione del Regno di Sardegna; Vittorio
Emanuele II di Savoia, abile a concretizzare il contesto
favorevole con la costituzione del Regno d'Italia.
Vi furono gli unitaristi repubblicani e federalisti radicali
contrari alla monarchia come Nicolò Tommaseo e Carlo
Cattaneo; vi furono cattolici come Vincenzo Gioberti, Antonio
Rosmini e Vincenzo d'Errico che auspicavano una confederazione di
stati italiani sotto la presidenza del Papa (neoguelfismo) o della
stessa dinastia sabauda; vi furono docenti ed economisti come
Giacinto Albini e Pietro Lacava, divulgatori di ideali mazziniani
soprattutto nel Meridione.
Trascorsa la fase delle società segrete, sviluppatasi
soprattutto tra il 1820 ed il 1831, durante i due decenni
successivi presero corpo le due correnti principali che promossero
con piena consapevolezza ed incisività politica il processo
risorgimentale, quella democratica e quella moderata.
Gli anni della restaurazione
Dopo la sconfitta definitiva di Napoleone il Congresso delle
potenze vincitrici riunitosi a Vienna decise di restaurare i
sovrani detronizzati in nome del principio di legittimità,
talora sacrificato per l'assetto dell'equilibrio di potere
(balance of power) tra le potenze europee. Per assicurare il
mantenimento dell'ordine, essendo la restaurazione avvenuta senza
considerare le volontà popolari e talora imponendo un nuovo
dominio diverso da quello pre-napoleonico, come nel caso
dell'annessione del Veneto all'Impero austro-ungarico, e
dell'unione del Regno di Sicilia a quello di Napoli nel Regno
delle due Sicilie, venne sviluppato il principio d'intervento e
della sovranità limitata degli stati. Dove la situazione
politica di uno stato mettesse in pericolo l'ordine negli altri
stati, si previde la creazione di uno strumento repressione
internazionale chiamato Santa Alleanza a cui avrebbero partecipato
forze armate delle potenze vincitrici. Il patto fu stipulato tra
l'Austria, la Prussia, la Russia; successivamente il 20 novembre
1815 la Gran Bretagna aderì a quella che fu chiamata la
Quadruplice Alleanza, che l'entrata della Francia di Luigi XVIII
nel 1818 trasformò nella Quintuplice Alleanza.
Il Congresso concordò inoltre incontri periodici (il
cosiddetto Concerto d’Europa), al fine di controllare lo stato
dell'ordine internazionale, appianare i contrasti e assicurare la
pace: uno strumento questo così efficace che fino alla
guerra di Crimea vennero evitati conflitti tra le potenze europee.
Dopo il Congresso di Vienna, l'influenza francese e rivoluzionaria
rimase nella vita politica italiana attraverso la circolazione
delle idee e la diffusione di gazzette letterarie; fiorirono
salotti borghesi che, sotto il pretesto letterario, crearono veri
e propri club di tipo anglosassone o giacobino, spesso di modello
iniziatico e massonico. Tali circoli si prestarono talvolta a
coprire alcune società segrete[52] che andavano formandosi,
come i Filadelfi e gli Adelfi, trasformatisi infine nei Sublimi
Maestri Perfetti di Filippo Buonarroti.
I moti carbonari
In questo panorama patriottico settario, la principale
associazione politica segreta fu quella della Carboneria,
originariamente nata a Napoli nel 1814 per opporsi alla politica
filonapoleonica di Gioacchino Murat; dopo la caduta di
quest'ultimo e l'insediamento o il ritorno sui troni in alcuni
stati della penisola italiana di sovrani illiberali tramite
l'intervento delle truppe austriache, la Carboneria si diffuse
nella penisola assumendo un carattere cospiratorio con lo scopo di
trasformare questi stati in stati costituzionali provocandovi moti
rivoluzionari.
1817
Il primo moto carbonaro venne tentato a Macerata, nello Stato
pontificio, nella notte tra il 24 e il 25 giugno 1817, ma la
polizia papalina, informata dei preparativi, soffocò
l'azione sul nascere. Tredici congiurati furono condannati a morte
e poi graziati da papa Pio VII.[53]
Nel luglio del medesimo anno le rimanenti truppe austriache,
ancora presenti a Napoli dopo aver riportato i Borboni sul trono,
completarono il loro ritiro dal Regno delle Due Sicilie e il
generale austriaco Laval Nugent von Westmeath divenne comandante
supremo dell'esercito delle Due Sicilie e Ministro della guerra
1820-1823
« Non fia loco ove sorgan barriere / Tra l’Italia e
l’Italia, mai più! / L’han giurato: altri forti a quel
giuro / Rispondean da fraterne contrade, »
(Alessandro Manzoni, Marzo 1821)
L'arresto di Silvio Pellico e Pietro Maroncelli (1820)
Nel porto spagnolo di Cadice il 1 gennaio 1820 gli ufficiali delle
forze militari che avrebbero dovuto reprimere la rivolta di
Simón Bolívar nell'America del sud rifiutarono di
imbarcarsi. Il loro pronunciamiento si estese a tutta la Spagna,
obbligando il re Ferdinando VII a concedere nuovamente il 10 marzo
dello stesso anno la Costituzione di Cadice del 1812.
Le notizie di questi avvenimenti accesero gli animi dei carbonari
italiani provocando i moti costituenti degli anni 1820-1821 che,
pur avendo tutti come finalità la progressiva
liberalizzazione dei regimi assolutistici, assunsero tuttavia
connotazioni diverse da Stato a Stato e da città a
città.
In Sicilia una rivolta separatista esplose il 15 luglio 1820 con
la formazione di un governo a Palermo che ripristinò la
Costituzione siciliana del 1812. I separatisti del governo
provvisorio inviarono una lettera al re dove dichiaravano che:
«Dal 1816 in poi, la Sicilia ebbe la sventura di essere
cancellata dal novero delle nazioni e di perdere ogni
costituzione. Noi domandiamo l'indipendenza della Sicilia e i voti
non sono solo di Palermo ma della Sicilia intera e la maggior
parte del popolo siciliano ha pronunziato il suo voto per
l'indipendenza». Il 7 novembre 1820 il Borbone inviò
un esercito agli ordini di Florestano Pepe (poi sostituito dal
generale Pietro Colletta) che riconquistò la Sicilia
attraverso lotte sanguinose e ristabilì la monarchia
assoluta risottomettendo la Sicilia a Napoli.
A Napoli i moti iniziati il 1 luglio del 1820 ad opera di due
giovani ufficiali, Michele Morelli (1790-1822) e Giuseppe Silvati
(1791-1822), culminarono con la presa della città: il
generale Guglielmo Pepe, comandante degli insorti, riuscì
ad imporre al re Ferdinando I la concessione della costituzione.
Per riportare l'ordine negli stati che si erano sollevati le
potenze europee della Quadruplice alleanza si riunirono nel
dicembre del 1820 al Congresso di Troppau. Ferdinando I convocato
nel successivo Congresso di Lubiana nel gennaio 1821 ebbe il
permesso di recarvisi dal governo rivoluzionario, dietro il
giuramento di difendere la costituzione di fronte al consesso
europeo. Il re tuttavia, sconfessando gli impegni presi alla
partenza da Napoli col parlamento napoletano, richiese
l'intervento militare degli Austriaci, che sconfissero l'esercito
napoletano, guidato da Pepe, nella battaglia di Antrodoco il 7
marzo 1821 e conquistarono Napoli il 23 marzo. La costituzione
venne annullata e trenta rivoluzionari furono condannati a morte
(tra cui Pepe, Morelli e Silvati).
A Palermo, nell'agosto 1821, vennero costituite venti "vendite"
carbonare, con la finalità di abbattere il governo e avere
la costituzione spagnola; il moto era guidato dal sacerdote
Bonaventura Calabrò, che organizzò una rivolta
prevista il 12 gennaio 1822, creando un nuovo vespro. Tuttavia il
susseguirsi delle riunioni insospettì la polizia borbonica,
che convinse un congiurato al doppio gioco. Nella notte dell'11
gennaio iniziarono i primi arresti e confessioni, un timido
tentativo di rivolta che avvenne l'indomani fu represso e i
congiurati imprigionati. Il 31 gennaio, nove dei congiurati, tra
cui due sacerdoti, furono condannati a morte e le loro teste,
rinchiuse in gabbie di ferro, rimasero appese a Porta San Giorgio
fino al 1846.
In Basilicata, tra i promotori dei moti carbonari vi furono il
medico Domenico Corrado e i fratelli Francesco e Giuseppe Venita,
in passato militari borbonici, che invano tentarono di sollevare
l'intera regione per la salvaguardia della Costituzione. Le loro
attività sovversive incitarono il governo borbonico ad
inviare un reggimento capeggiato dal generale austriaco Roth che,
dopo averli scovati a Calvello, li condannò a morte tramite
fucilazione assieme ad altri rivoluzionari mentre Corrado fu
condotto a Potenza dove venne passato per le armi; le condanne si
consumarono tra il marzo e l'aprile del 1822.
Mentre a Napoli i rivoltosi ebbero come unica finalità la
promulgazione della costituzione, a Torino l'insurrezione
scoppiata nel gennaio 1821 accolse tensioni e inquietudini
anti-austriache, già manifestatesi in quella città
con i moti studenteschi soffocati nel sangue dalla polizia
sabauda. Questi ultimi moti videro come protagonista alcuni degli
uomini simbolo del Risorgimento, tra i quali Santorre di
Santarosa.
Anche a Milano una componente patriottica e anti-austriaca
partecipò ai moti, fra i cui ispiratori va citato il
forlivese Piero Maroncelli, che però venne arrestato dalla
polizia austriaca. La scoperta di alcuni documenti compromettenti
permise così alle autorità di stroncare
l'insurrezione, alla quale avrebbe preso parte Federico
Confalonieri, rinchiuso, subito dopo il fallimento del moto, nella
Fortezza dello Spielberg, dove erano già custoditi da
alcuni mesi il Maroncelli e Silvio Pellico, a seguito del celebre
processo Maroncelli Pellico[59]. Le successive repressioni
spinsero all'esilio molti patrioti italiani, come Antonio Panizzi,
che proseguirono all'estero la loro azione, impegnandosi
propagandisticamente e stabilendo contatti con personalità
delle potenze straniere interessate a risolvere il problema
italiano.
Il periodo dei moti liberali si chiuse a fine settembre 1823, con
la resa di Cadice, dopo la battaglia del Trocadero, a cui
partecipò anche Carlo Alberto di Savoia, vinta dalle forze
francesi di Luigi XVIII, incaricato dalle potenze della Santa
Alleanza di ripristinare con la forza la monarchia assoluta in
Spagna.
1824-1847
In Romagna nel 1824, dopo l'uccisione del direttore di polizia
di Ravenna Domenico Matteucci, ad opera di una cospirazione
carbonara, il cardinale Agostino Rivarola venne inviato per
reprimerla. Rivarola, nominato "cardinal legato a latere", fece
condurre un'indagine che portò ad un processo e alla
sentenza del 31 agosto 1825, con la quale vennero condannate, a
varie pene, 514 persone appartenenti a tutti gli strati sociali.
Successivamente fu concessa la commutazione della pena ai sette
condannati alla pena capitale e la grazia per molti altri.
Nuove insurrezioni si ebbero nel Cilento nel 1828 per ottenere il
ripristino della Costituzione che nel 1820 era stata concessa nel
Regno delle Due Sicilie. Il tentativo dei rivoltosi si concluse
tragicamente con trentatré condanne a morte e il paesino di
Bosco raso al suolo a cannonate dal maresciallo Del Carretto[61],
e in Emilia-Romagna, tra il 1830 e il 1831, con la nascita di un
effimero Stato delle Province Unite Italiane, represso con
l'intervento delle truppe austriache.
Nel 1832 riprese la ribellione in Romagna, repressa dal cardinale
Albani che intervenne con forze sanfediste. Dopo un primo scontro
con le guardie civiche, il 20 e 21 gennaio, che si
caratterizzò con le "stragi di Cesena e Forlì",
altre battaglie vi furono il 24 gennaio a Faenza, il 25 a Forli.
La riunione delle forze papaline con le truppe austriache e quindi
il loro ingresso il 26 a Bologna concluse la rivolta. Per
bilanciare l'intervento austriaco a Bologna, i francesi il 26
febbraio occuparono Ancona dove rimasero per sei anni.
Nel 1832, fu pubblicata a Torino l'autobiografia di Silvio
Pellico, Le mie prigioni, con la descrizione delle dure condizioni
di vita dei prigionieri politici in regime di carcere duro nella
fortezza austriaca dello Spielberg: tra gli episodi più
commoventi per i lettori dell'epoca, l'amputazione di una gamba
del Maroncelli. Il libro ebbe una vasta risonanza, sia in Italia
che nei salotti europei, accentuando nei patrioti italiani i
sentimenti antiaustriaci. Nel 1849 Metternich commenterà
che quel libro aveva danneggiato l'Austria più di una
battaglia persa. Nell'anno successivo, 1833, venne pubblicato il
romanzo storico Ettore Fieramosca, o la disfida di Barletta di
Massimo D'Azeglio, che riprende un evento storico medioevale allo
scopo di risvegliare il patriottismo degli italiani. Nel 1834
avvenne il fallimento dell'invasione della Savoia per suscitare
una rivolta nel Regno sardo-piemontese, organizzata da Mazzini e
guidata sul campo da Ramorino.
Il 12 luglio 1837, in seguito a voci incontrollate sull'arrivo nel
porto di una nave contagiata dal colera si ebbe l'insurrezione di
Messina, seguita nel volgere di pochi giorni dalla insurrezione di
Catania e Siracusa richiedenti il ripristino della Costituzione
del 1812, questi moti siciliani furono repressi da Del Carretto, e
terminati con la fucilazione di numerosi patrioti. Il 23 del
medesimo mese insorse Penne in Abruzzo, sotto la guida di Domenico
de Caesaris, la rivolta fu repressa dal colonnello Tanfano e si
concluse con la fucilazione di otto rivoltosi. Tanfano sarà
ucciso quattro anni dopo, durante l'insurrezione antiborbonica
dell'Aquila dell 8 settembre 1841, terminata anch'essa con la
fucilazione di tre insorti.
Rivolte mazziniane
A partire dai primi anni trenta dell'Ottocento si impose come
figura di primo piano Giuseppe Mazzini (1805-1872) divenuto membro
della Carboneria nel 1830. La sua attività di ideologo e
organizzatore rivoluzionario lo costrinse a lasciare l'Italia nel
1831 per fuggire a Marsiglia, dove fondò la Giovine Italia,
un movimento che raccoglieva le spinte patriottiche per la
costituzione di uno Stato unitario e repubblicano, da inserire in
una più ampia prospettiva federale europea. Mazzini
rifiutava l'idea del settarismo carbonaro, per sostenere una
spinta rivoluzionaria dal basso, fondata sull'azione delle masse
popolari e sul coinvolgimento diretto delle popolazioni.
Condividendo il programma mazziniano Giuseppe Garibaldi
(1807-1882) prese parte ai falliti sommovimenti rivoluzionari in
Piemonte del 1834. Condannato a morte dal governo sabaudo e
costretto a fuggire in Sud America, partecipò ai moti
rivoluzionari in Brasile ed Uruguay.
Il Regno delle Due Sicilie, fino a quel momento non aveva seguito
questi sviluppi, era caratterizzato per una forte repressione
politica, culminata nel 1844 nel soffocamento dei moti tentati dai
giovani fratelli Attilio (1810–1844) ed Emilio Bandiera
(1819–1844), disertori della marina austriaca, fatti fucilare dal
re Ferdinando II per aver tentato un'improvvisata spedizione di
tipo mazziniano in Calabria.
Per la mancanza di coordinamento tra i congiurati, per l'assenza e
l'indifferenza delle masse, tutte le rivolte mazziniane fallirono.
I congressi scientifici prima del '48
Il regime "liberale" del Granducato di Toscana permise nel 1839 la
nascita della Società Italiana per il Progresso delle
Scienze a Pisa, dove verrà organizzato il "Primo congresso
degli scienziati italiani" (1839), a cui parteciparono studiosi
dai vari stati della penisola: la prima riunione pubblica di
uomini di scienza riuniti sotto il comune attributo di "italiani".
I congressi proseguirono a cadenza annuale, nei diversi stati:
Torino, Firenze, Padova, Lucca, Milano, Napoli (che fu il
più numeroso, con circa 1600 partecipanti), Genova ed
infine, nel 1847, Venezia; i moti insurrezionali dell'anno
successivo ed i conseguenti irrigidimenti dei regimi impedirono
successivi congressi fino al congresso di Firenze del 1861. Oltre
al loro contenuto scientifico, questi congressi permisero scambi
di idee e confronti nella nuova classe intellettuale italiana che
andava formandosi, ed erano anche visti come una
possibilità di discutere delle vicende italiane come la
liberalizzazione commerciale, la necessità di una lega
doganale, la costruzione di ferrovie, mascherando sotto questi
progetti di modernità economica e strutturale la
fondamentale esigenza di un'unificazione politica.
Il biennio delle riforme
Nel cosiddetto biennio delle riforme (1846-1848), a seguito del
fallimento dei moti rivoluzionari mazziniani, prendono vigore
progetti politici di liberali moderati, tra cui spiccano Massimo
d'Azeglio, Vincenzo Gioberti e Cesare Balbo con "le speranze
d'Italia" i quali, sentendo soprattutto la necessità di un
mercato unitario come premessa essenziale per un competitivo
sviluppo economico italiano, avanzano programmi riformisti per una
futura unità italiana nella forma accentrata o federativa.
Nasce così il movimento neoguelfo che riscuote un grande
successo presso l'opinione pubblica in coincidenza con l'elezione
il 16 giugno 1846 di papa Pio IX, ritenuto un "liberale", e il 17
luglio, in accordo con i desideri dei liberali, il nuovo pontefice
concesse una amnistia ai prigionieri, alimentando le speranze dei
sostenitori neoguelfi, e di molti patrioti italiani, di un
sostegno attivo del papa per l'ottenimento dell'indipendenza
nazionale.
Sotto la spinta di queste novità molti stati italiani
attuarono diverse riforme modernizzatrici: nel Granducato di
Toscana fu ampliata la libertà di stampa e si ebbe la
formazione di una guardia civica, nel Regno di Sardegna si ebbero
riforme in senso liberale dell'ordinamento giudiziario.
Nel 1847 Pio IX prese la decisione di proporre al regno piemontese
e al granducato di Toscana l'unione in una "Lega doganale" per
favorire la circolazione delle merci; l'iniziativa si fermò
dopo la firma di un accordo di intenti il 3 novembre 1847, nel
tentativo di coinvolgere il ducato di Modena; l'inizio delle
agitazioni del 1848 fece definitivamente tramontare il progetto.
Il 28 novembre 1847 re Carlo Alberto effettuò l'unione
politica e amministrativa di tutti i territori da lui governati,
trasformando il Regno di Sardegna in un unico stato, con un unico
parlamento e medesime leggi per tutti i sudditi dei diversi
territori.
Sempre nel 1847 il musicista Michele Novaro, sul testo del
patriota e poeta Goffredo Mameli, compose l'inno Il Canto degli
italiani, più noto come "Fratelli d'Italia" dalla prima
strofa, che in breve divenne popolare e suonato come inno dai
patrioti italiani, dopo un secolo diventerà l'inno
nazionale della Repubblica Italiana.
La "primavera dei popoli" e la Prima guerra d'indipendenza
«Pochi sanno che la grande fiammata rivoluzionaria del 1848
che investì l'Italia e l'Europa, e dalla quale ha inizio il
nostro Risorgimento nazionale, fu accesa proprio a Reggio il 2
settembre 1847.»
Gli anni 1847-1848, la cosiddetta "Primavera dei popoli", videro
lo sviluppo di vari movimenti rivoluzionari in tutta Europa;
sommosse scoppiarono il 23 febbraio in Francia, il 28 febbraio
nello Stato di Baden che iniziò la rivolta che velocemente
si estese a tutti gli stati tedeschi e il 13 marzo raggiunse
l'Austria, il 15 marzo insorse l'Ungheria, il 28 marzo la Polonia.
Una rivolta mazziniana organizzata da Domenico Romeo il 2
settembre 1847 scoppiò a Reggio Calabria dove
s'insediò un governo provvisorio che nel distretto di
Gerace aveva il comando militare. Anche questa insurrezione, per
la mancata partecipazione popolare e la frantumazione dei comandi
militari, si concluse con la repressione armata dell'esercito
borbonico e la fucilazione dei promotori.
Il 12 gennaio 1848 scoppiò una rivolta indipendentista in
Sicilia che, propagatasi a Napoli, costrinse il sovrano a
promulgare l'11 febbraio del 1848 una costituzione simile a quella
francese del 1830. Gli altri sovrani italiani dovettero seguire
rapidamente l'esempio di Ferdinando II: Leopoldo II di Toscana
concesse lo Statuto il 17 febbraio, quindi il 4 marzo Carlo
Alberto promulgò lo Statuto albertino e il 14 marzo fu la
volta dello Stato Pontificio. Il 1 aprile il parlamento siciliano,
riunito a Palermo decretò: "Che il Potere Esecutivo
dichiari a nome della Nazione agli altri Stati d'Italia, che la
Sicilia già libera ed indipendente intende a far parte
unione e federazione Italiana", e l'invio come dono di tre
bandiere nazionali a Roma, Piemonte e Toscana col motto: A [nome
dello Stato Italiano] Sicilia Indipendente ed Italiana. Il 13
aprile il parlamento siciliano completo' l'indipendenza siciliana
con una nuova delibera in cui decretava: "1) Ferdinando Borbone e
la sua dinastia sono per sempre decaduti dal Trono di Sicilia., 2.
La Sicilia si reggerà a Governo Costituzionale, e
chiamerà al Trono un principe Italiano dopochè
avrà riformato il suo Statuto".
Ferdinando II, pochi mesi dopo la concessione della costituzione a
Napoli, sciolse le camere ripristinando l'assolutismo (15 maggio).
Ciò provocò la ribellione dei liberali in diverse
zone del regno e a Napoli, in Via Toledo. La sommossa napoletana
fu repressa nel sangue, con le truppe mercenarie svizzere, con 500
morti tra i patrioti[71] tra i quali lo scrittore lucano Luigi La
Vista e il filosofo Angelo Santilli, morti rispettivamente a soli
22 e 25 anni.
In Italia il 1848 fu principalmente segnato dalla decisione da
parte del Regno di Sardegna di farsi promotore dell'unità
italiana, anticipando l'azione del movimento rivoluzionario e dei
mazziniani, temendone la spinta sovvertitrice e la
possibilità che questa assumesse il ruolo guida nel
processo di unificazione. Primo passo in tal senso fu la Prima
Guerra d'Indipendenza, anti austriaca, scoppiata a seguito della
rivolta vittoriosa antiaustriaca delle Cinque giornate di Milano
(1848). La guerra si svolse in tre fasi: una prima campagna
militare (dal 23 marzo al 9 agosto 1848) iniziata con l'appoggio
dallo Stato Pontificio e dal Regno delle due Sicilie. Questi
ultimi due stati si ritirarono ben presto dal conflitto, ma gran
parte dei loro soldati scelsero di rimanere e continuare a
combattere l'Austria con l'esercito piemontese assieme agli altri
volontari italiani tra i quali Giuseppe Garibaldi. Vi fu poi un
armistizio e una seconda campagna militare (dal 20 al 24 marzo
1849).
La guerra condotta e definitivamente persa da Carlo Alberto a
seguito della sconfitta nella battaglia di Custoza e nella
Battaglia di Novara, si concluse territorialmente con un
sostanziale ritorno allo statu quo ante e, a seguito
dell'abdicazione del padre, con la salita al trono di Vittorio
Emanuele II che, diversamente da quanto fecero gli altri
governanti italiani, non ritirò lo Statuto Albertino
concesso dal padre, così che il suo regno rimase l'unico
stato costituzionale nella penisola italiana ed anche l'unico a
conservare il tricolore come bandiera nazionale.
In occasione di questo conflitto con l'Austria assunsero notevole
importanza alcune esperienze repubblicane di durata temporanea e
senza un loro esito finale positivo. Dal febbraio 1849 al luglio
1849 si svolse la vicenda della Repubblica Romana, che vide Pio IX
fuggire dalla città e rifugiarsi nella fortezza di Gaeta
come ospite di Ferdinando II di Borbone, mentre il governo a Roma
veniva assunto dal triumvirato di Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi
e Carlo Armellini. La Repubblica Romana, che comprendeva tutte le
terre già pontificie, fu sciolta con gli interventi
militari degli austriaci che assediarono Ancona, entrandovi dopo
un duro assedio navale e terrestre il 21 giugno 1849, e dei
francesi che attaccarono Roma, cancellando la prospettiva di una
soluzione neoguelfa per l'unità della nazione.
Anche il Veneto insorse: a Venezia, con un'insurrezione iniziata
il 17 marzo 1848 nasceva la Repubblica di San Marco che ridava
temporaneamente la libertà alla città, nel Cadore
per circa due mesi una piccola armata di volontari, guidati da
Pietro Fortunato Calvi, sbarrò l'accesso alla regione alle
armate austriache. Venezia resistette ad un lungo assedio fino
alla sua capitolazione il 27 agosto 1849, dopo una dura lotta, a
seguito dell'intervento militare austriaco che ripristinava il
dominio sul Veneto.
Nei territori lombardi sottoposti al dominio austriaco,
scoppiarono anche piccole rivolte locali: dopo l'Armistizio di
Salasco nell'ottobre 1848 si ebbero moti mazziniani in Val
d'Intelvi, alla ripresa delle ostilità nel 1849 Como
insorse e dopo la definitiva sconfitta piemontese nel 1849 ci fu
l'episodio delle Dieci giornate di Brescia, che vide la
città resistere sino a fine marzo 1849, per dieci giorni,
alle truppe austriache, che, dopo la loro vittoria alla battaglia
di Novara, rioccuparono le campagne lombarde; al termine dei
combattimenti la città fu lasciata al saccheggio della
truppa austriaca.
La Toscana, proclamatasi repubblica toscana il 15 febbraio 1849,
con la guida del triumvirato Guerrazzi, Montanelli, Mazzoni venne
ricondotta sotto il granduca Ferdinando II a seguito
dell'invasione armata austriaca nel maggio 1849, che ebbe i
momenti più drammatici nell'assedio e sacco di Livorno.
Il Regno di Sicilia fu militarmente riconquistato dall'esercito
borbonico dopo la presa di Palermo il 14 maggio 1849 da parte di
Carlo Filangieri.
Tutti i moti europei legati al 1848, furono repressi, nel volgere
di due anni, secondo gli schemi della Restaurazione, tranne che in
Francia, dove la Seconda Repubblica francese si sostituì
alla monarchia di re Luigi Filippo Borbone d'Orléans con
Luigi Napoleone che, dopo quattro anni, diventerà Napoleone
III imperatore dei francesi. Gli eventi francesi provocarono la
fine degli equilibri politici esistenti in Europa dal Congresso di
Vienna, modificando le alleanze fra gli stati ed influiranno sulle
vicende italiane, spingendo persino alcuni esuli napoletani a
progettare l'insediamento sul trono di Napoli di Luciano Murat
secondogenito di Gioacchino Murat. Il cambio di politica di Pio
IX, il cui nome veniva invocato inizialmente dai patrioti italiani
lo rese inviso divenendo uno dei loro maggiori bersagli polemici,
e al contempo la difesa del papato, con l'azione militare delle
truppe inviate a Roma, permise alla Francia di Napoleone III di
ampliare la sua sfera d'influenza nella penisola in opposizione a
quella austriaca che si trovo' indebolita.
Molti patrioti finirono giustiziati, altri esiliati, una parte di
quest'ultimi trovo' asilo in Piemonte, Carlo Cattaneo si esilio' a
vita a Lugano, in Svizzera, nazione che proprio nel 1848 si era
data la Costituzione confederale e dove inizialmente si rifugio'
anche Mazzini che poi si mosse a Londra città che divenne
un importante centro dei fuoriusciti italiani, il toscano Giuseppe
Montanelli si rifugio' a Parigi, il presidente del governo
siciliano Ruggero Settimo andò in esilio a Malta e
Garibaldi, dopo un breve peregrinare, finì in America,
ospite per un certo tempo di Antonio Meucci.
Il "decennio di preparazione"
Le azioni mazziniane
Nei dieci anni successivi alla sconfitta (il cosiddetto "decennio
di preparazione") riprese inizialmente vigore il movimento
repubblicano mazziniano, favorito anche dal fallimento del
programma federalista neoguelfo; i mazziniani promossero una serie
di insurrezioni, tutte fallite.
Quelle che più impressionarono l'opinione pubblica italiana
ed europea furono l'esecuzione capitale dei martiri di Belfiore
(1852) a Mantova, esito cruento della repressione austriaca contro
le ribellioni avvenute negli anni precedenti nel Regno Lombardo
Veneto, e la disastrosa spedizione di Sapri (1857), nel Regno
delle Due Sicilie, condotta all'insegna del credo mazziniano per
il quale ciò che contava era più che il successo il
"dare l'esempio" e conclusasi con la morte di Carlo Pisacane e dei
suoi 23 compagni, massacrati dai contadini assieme ad altri
patrioti liberati all'inizio della spedizione dal carcere di
Ponza. Fortemente impressionò la borghesia italiana anche
la rivolta milanese del 6 febbraio 1853 che condotta con spirito
mazziniano, ossia confidando in una spontanea partecipazione
popolare e addirittura nell'ammutinamento dei soldati ungheresi
dell'esercito austriaco, fallì miseramente nel sangue.
Oltre che l'impreparazione e la superficiale organizzazione dei
rivoltosi, operai d'ispirazione politica socialista, furono
proprio i mazziniani, notoriamente in contrasto ideologico col
marxismo, a contribuire al fallimento non facendo loro pervenire
le armi promesse e mantenendosi passivi al momento dell'insorgere
della rivolta. Un pugno di uomini armati di pugnali e coltelli
andarono così consapevolmente incontro al disastro in nome
dei loro ideali patriottici e socialisti.
A Napoli nel 1856, dopo un fallito attentato al re Ferdinando II,
veniva condannato a morte il calabrese Agesilao Milano mentre in
Sicilia veniva repressa una sommossa organizzata da Francesco
Crispi e Francesco Bentivegna.
La crisi del movimento mazziniano favorisce nel 1857 la creazione
in Piemonte della Società nazionale italiana, ad opera
degli esuli Daniele Manin e Giuseppe La Farina e in probabile
accordo con Cavour, a supporto del movimento unitario che si stava
formando attorno al Piemonte, operando alla luce del sole nel
regno sabaudo e clandestinamente negli altri stati italiani.
La realpolitik cavouriana
Nel 1850 Camillo Benso conte di Cavour entra nel governo
piemontese: inizialmente come ministro per il commercio e
l'agricoltura, divenendo poi anche ministro delle finanze e della
Marina; infine è primo ministro il 4 novembre 1852, grazie
ad un accordo tra le forse di centro-destra e di centro-sinistra.
Fin dall'inizio come ministro del commercio intraprende un'azione
che punta a molteplici accordi con le nazioni europee, stringendo
accordi commerciali con Grecia, le città anseatiche,
l'Unione doganale tedesca, la Svizzera e i Paesi Bassi, ed
approfondisce i contatti con le potenze europee viaggiando
nell'estate del 1852 ed incontrando a Londra il Ministro degli
Esteri inglese Malmesbury, Palmerston, Clarendon, Disraeli,
Cobden, Lansdowne e Gladstone e a Parigi il presidente Luigi
Napoleone ed il ministro degli esteri francese. L'anno successivo
Ludwig von Rochau introducendo il concetto di realpolitik col suo
saggio Principles of Realpolitik ne porta come esempio l'azione di
Cavour che prepara le basi "per una grande originale operazione
nazionale".
Sotto Cavour si accentuano i contrasti con i conservatori
clericali e il Regno di Sardegna, arrivando ad un punto di non
ritorno con la scomunica papale comminata al Re Vittorio Emanuele
II, a Cavour e a tutti membri del governo e del parlamento a
seguito della Crisi Calabiana (1855) che si concluse con
l'approvazione della legge sui conventi.
La Seconda guerra d'indipendenza
Il biennio 1859-1860 costituì una nuova fase decisiva per
il processo d'unificazione, caratterizzato dall'alleanza tra la
Francia di Napoleone III e il Regno di Sardegna siglata con gli
accordi di Plombieres del 21 luglio 1858, che peraltro non
prevedevano la completa unità italiana estesa a tutta la
penisola.
Il 10 gennaio 1859 Vittorio Emanuele II, inaugurando i lavori del
Parlamento subalpino, pronunciò un famoso discorso della
Corona con l'affermazione: «Noi non siamo insensibili al
grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di
noi»; frase che esprimeva un'accusa di malgoverno austriaco
sugli italiani ai quali il re sabaudo si proponeva come loro
soccorritore e una velata ricerca del "casus belli": elemento
quest'ultimo necessario poiché, secondo gli accordi,
Napoleone III sarebbe entrato in guerra solo in seguito ad un
attacco austriaco al Piemonte.
Nel frattempo Garibaldi veniva autorizzato a condurre apertamente
una campagna di arruolamento di volontari nei Cacciatori delle
Alpi, una nuova formazione militare regolarmente incorporata
nell'esercito sardo. L'Austria colse nelle parole del sovrano
piemontese e nel riconoscimento ufficiale dei volontari agli
ordini del noto rivoluzionario mazziniano Garibaldi, che veniva
stanziato ai confini del Lombardo-Veneto, una provocazione e una
sfida. La possibilità però di una guerra all'Austria
con l'alleato francese sembrava ancora lontana dal realizzarsi per
l'opposizione dei cattolici francesi che vedevano in una guerra
vittoriosa del Piemonte una probabile successiva annessione dello
Stato pontificio, con la conseguente perdita del potere temporale
del papa. Per allontanare il rischio di una guerra agiva anche la
diplomazia inglese e prussiana che si adoperava per una conferenza
di pace: si sapeva infatti che gli accordi di Plombieres
prevedevano un insediamento della Francia nell'Italia centrale e
meridionale che avrebbe alterato i rapporti di forza in
Europa.[78]
Dopo mesi, durante i quali sembrava si potesse giungere a una
pacificazione, giunse l'ultimatum austriaco al Piemonte con
l'ingiunzione di disarmare l'esercito e il corpo dei volontari.
Cavour in risposta all'intimazione austriaca dichiarò di
voler resistere all'«aggressione» e a fine aprile
giunse la dichiarazione di guerra degli austriaci che attaccarono
il Piemonte attraversando il confine sul fiume Ticino (26 aprile).
Il 12 maggio 1859 l'alleato francese Napoleone III, sulle orme del
"grande zio", secondo gli accordi convenuti, entrò in
guerra al comando dell'Armée d'Italie. Seguirono nel
periodo maggio-giugno una serie di vittorie franco-piemontesi, ma
con un alto numero di perdite, mentre i Cacciatori delle Alpi al
comando di Garibaldi dopo aver preso Varese, Bergamo, Brescia
continuavano ad avanzare verso il Veneto.
Alle notizie della guerra all'Austria il 27 aprile 1859 i ducati
emiliani, le legazioni pontificie, e il Granducato di Toscana,
dopo l'abbandono del granduca Leopoldo, chiedevano ed ottenevano
l'invio di commissari sabaudi per l'annessione al Regno sardo.
Questi avvenimenti che sconvolgevano gli accordi di Plombieres
sulla spartizione degli stati italiani, il malcontento
dell'opinione pubblica francese per l'alto numero di morti nella
guerra in Italia, l'opposizione dei cattolici francesi che
vedevano realizzarsi i loro timori per la perdita dell'autonomia
papale, spinsero Napoleone III ad accettare di firmare un
armistizio (11 luglio 1859) con l'imperatore Francesco Giuseppe
d'Asburgo ("preliminari di pace di Villafranca") che concedeva ai
Piemontesi la sola Lombardia (eccetto Mantova e Peschiera del
"Quadrilatero") in cambio dell'abbandono delle terre già
occupate nel Veneto e della rinuncia a soddisfare le richieste di
annessioni.
Vittorio Emanuele accettò le condizioni di pace e
ritirò i commissari regi dalle città di Firenze,
Parma, Modena, Bologna dove però i governi provvisori si
opposero alla restaurazione ipotizzando anche una forza militare
comune di difesa, mentre le truppe papaline riprendevano
militarmente il controllo dell'Umbria ribellatasi.
Nel frattempo il quadro internazionale cambiava e l'Inghilterra si
mostrava favorevole ad una situazione italiana dove la Francia non
avrebbe avuto alcun peso mentre uno Stato unitario italiano poteva
costituire un valido punto d'equilibrio in Europa sia nei
confronti della Francia che dell'Austria.
Il ritiro unilaterale dei francesi rendeva nulli gli accordi di
Plombières, ma il prezzo stabilito da Napoleone III per
permettere l'annessione dell'Italia centrale fu il riportare in
vita le clausole del trattato segreto del 1859 - che prevedevano
la cessione della Savoia e il Nizzardo alla Francia, in cambio del
riconoscimento da parte di quest'ultima delle annessioni
dell'Emilia e della Toscana che, tramite i plebisciti dell'11 e 12
marzo 1860, entrarono a far parte del Regno di Sardegna. Il 12
marzo 1860 fu firmato con la Francia un altro trattato segreto in
tal senso.
La Spedizione dei Mille e la proclamazione del Regno d'Italia
Ulteriore passo verso l'unità fu la spedizione "dei
Mille" garibaldini in Sud Italia.[80], preceduta sull'isola da
piccoli moti rivoluzionari. Questa era formata da poco più
di un migliaio di volontari provenienti in massima parte dalle
regioni settentrionali e centrali della penisola, appartenenti sia
ai ceti medi che a quelli artigiani e operai; fu l'unica impresa
risorgimentale a godere, almeno nella sua fase iniziale, di un
deciso appoggio delle masse contadine siciliane, all'epoca in
rivolta contro il governo borbonico e fiduciose nelle promesse di
riscatto fatte loro da Garibaldi. «Il profondo malcontento
delle masse popolari delle campagne e delle città, sebbene
avesse le sue radici nella miseria e quindi nella struttura di
classe della società, si rivolgeva contro il governo prima
ancora che contro le classi dominanti».
Dopo la battaglia di Calatafimi, dove fu determinante per la
vittoria la partecipazione dei contadini siciliani, con la
partecipazione di 200 picciotti siciliani e circa 2.000 contadini
locali in aggiunta ai 1.089 volontari garibaldini, e la conquista
di Palermo, mentre le truppe regie si ritirano verso Messina,
secondo Del Carria "con la metà di giugno si spezza
definitivamente l'alleanza tra borghesi e contadini per dar luogo
all'alleanza tra borghesi isolani e borghesia continentale
rappresentata dai garibaldini e dai moderati"[83], significativa
in tal senso è la repressione ordinata a Nino Bixio, della
ribellione contadina avvenuta a Bronte e a rischio di estensione
in tutta la regione del catanese.
Mentre Garibaldi avanzava da sud, in agosto insorse la Basilicata
(la prima provincia a dichiararsi parte d'Italia nella zona
continentale del Regno delle Due Sicilie), arrivando ad avere un
governo provvisorio che rimase in carica fino all'ingresso di
Garibaldi a Napoli. Dopo Napoli, le truppe garibaldine si
scontrarono un'ultima volta con quelle borboniche nella Battaglia
del Volturno il 1º ottobre 1860. Con la vittoria di Garibaldi
l'Italia meridionale veniva definitivamente sottratta ai Borbone,
dinastia che in passato aveva dato a Napoli anche un grande
sovrano, ma che «…ormai rappresentava, nella vita
dell'Italia Meridionale, la peior pars…», cioè la
parte peggiore, come scrisse Benedetto Croce. Anche lo storico e
filosofo Ernest Renan, in viaggio nel Mezzogiorno d'Italia attorno
al 1850, al pari degli altri viaggiatori e osservatori stranieri
constatava l'«…affreuse tyrannie intellectuelle qui
règne sur cette partie de l'Italie…»
Le truppe di Vittorio Emanuele II intanto entravano nello Stato
della Chiesa scontrandosi il 18 settembre con l'esercito
pontificio nelle Marche, durante la Battaglia di Castelfidardo,
che sarebbe stato l'ultimo grande scontro armato prima
dell'unità italiana. Dopo aver ottenuto la vittoria, le
truppe piemontesi inseguirono quelle pontificie asserragliatesi ad
Ancona, che venne subito assediata. Quando i pontifici cedettero
anche là, fu possibile per il Piemonte annettere la
Legazione delle Marche e quella dell'Umbria, a seguito di un
plebiscito. Solo dopo esso si sarebbe potuto pensare alla
proclamazione del Regno d'Italia in quanto, attraverso le Marche e
l'Umbria, si sarebbero unite geograficamente le regioni del nord e
del centro (confluite nel Regno di Sardegna in seguito alla
seconda guerra d'indipendenza e alle conseguenti annessioni), con
le regioni meridionali (conquistate da Garibaldi).
Dopo alcuni tentennamenti e sotto la pressione di Cavour e
dell'imminente annessione di Marche ed Umbria alla monarchia
sabauda, Garibaldi, pur di idee repubblicane, non pose ostacoli
all'unione dell'ex Regno delle Due Sicilie al futuro Stato
unificato italiano, che già si profilava all'epoca sotto
l'egida di Casa Savoia. Tale unione fu formalizzata mediante il
referendum del 21 ottobre 1860.
Il 17 marzo 1861 il parlamento subalpino proclamò Vittorio
Emanuele II non re degli italiani ma «re d'Italia, per
grazia di Dio e volontà della nazione». Non "primo",
come re d'Italia, ma "secondo" come segno distintivo della
continuità della dinastia di casa Savoia[89]; tre mesi dopo
moriva Cavour che, nel suo primo discorso al Parlamento dopo la
proclamazione del Regno d'Italia, aveva suggerito la linea
politica di Libera Chiesa in libero Stato come soluzione al
problema della persistenza del potere temporale in Italia, che
impediva una soluzione pacifica affinché Roma, proclamata
capitale del Regno, ma di fatto ancora capitale dello Stato
pontificio, potesse effettivamente diventare la capitale del nuovo
Stato e che conseguentemente condizionava la partecipazione dei
cattolici, sensibili alle indicazioni di Pio IX, alla vita
politica nazionale.
Il nuovo regno mantenne lo Statuto albertino, la costituzione
concessa da Carlo Alberto nel 1848 e che rimarrà
ininterrottamente in vigore sino al 1946.
Terza guerra di indipendenza e Roma capitale
La terza guerra di indipendenza
Quando Vittorio Emanuele II divenne re d'Italia, il 17 marzo 1861,
il processo di unificazione nazionale non poteva considerarsi
definitivo poiché il Veneto, il Trentino e il Friuli
appartenevano ancora all'Austria e Roma, proclamata idealmente
capitale del Regno era ancora sede papale.
La situazione delle terre irredente (come si sarebbe detto alcuni
decenni più tardi) costituiva una fonte di tensione
costante per la politica interna italiana e chiave di volta della
sua politica estera. Le crescenti tensioni fra Austria e Prussia
per la supremazia in Germania (sfociate infine nel 1866 nella
guerra austro-prussiana) offrirono al neonato Regno d'Italia
l'opportunità di effettuare un consistente guadagno
territoriale e procedere sulla via dell'unificazione italiana.
L'8 aprile 1866 il Governo Italiano (guidato dal generale Alfonso
La Marmora) concluse una alleanza militare con la Prussia di Otto
von Bismarck, grazie anche alla mediazione della Francia di
Napoleone III. Si era creata, infatti, un'oggettiva convergenza
fra i due Stati che vedevano nell'Impero Austriaco l'ostacolo al
rafforzamento dell'unità nazionale italiana in funzione
antiaustriaca.
Secondo i piani prussiani, l'Italia avrebbe dovuto impegnare
l'Austria sul fronte meridionale. Nel contempo, forte della
superiorità navale, avrebbe portato una minaccia alle coste
dalmate, distogliendo ulteriori forze dal teatro di guerra
nell'Europa centrale.
Il 16 giugno 1866 la Prussia iniziò l'ostilità
contro alcuni principati tedeschi alleati dell'Austria. All'inizio
del conflitto, l'esercito italiano era diviso in due armate: la
prima, al comando di Alfonso La Marmora, stanziata in Lombardia ad
ovest del Mincio verso le fortezze del Quadrilatero; la seconda,
al comando del generale Enrico Cialdini, in Romagna, a sud del Po,
verso Mantova e Rovigo. Al comando della flotta fu designato il
vecchio ammiraglio Carlo Pellion di Persano.
Il capo di Stato Maggiore generale La Marmora mosse per primo,
incuneandosi fra Mantova e Peschiera, ove subì una
sconfitta a Custoza il 24 giugno. Cialdini, al contrario, per
tutta la prima parte della guerra non assunse alcuna posizione
offensiva e non assediò neppure la fortezza austriaca di
Borgoforte, a nord del Po. Custoza segnò un generale
arresto delle operazioni, con gli Italiani che si riorganizzavano
nel timore di un contrattacco austriaco. Gli Austriaci ne
approfittarono per compiere due piccole offensive e saccheggi in
Valtellina (operazioni in Valtellina) e in Val Camonica (battaglia
di Vezza d'Oglio).
Tuttavia, a seguito di alcune importanti vittorie prussiane sul
fronte tedesco, in particolare quella di Sadowa del 3 luglio 1866,
gli Austriaci decisero di far rientrare a Vienna uno dei tre corpi
d'armata schierati in Italia e diedero priorità alla difesa
del Trentino e dell'Isonzo. Nelle settimane che seguirono, a
Enrico Cialdini fu quindi affidato il grosso dell'esercito. Egli
seppe guidare l'avanzata italiana da Ferrara a Udine: passò
il Po e occupò Rovigo l'11 luglio, Padova il 12 luglio,
Treviso il 14 luglio, San Donà di Piave il 18 luglio,
Valdobbiadene e Oderzo il 20 luglio, Vicenza il 21 luglio, Udine
il 26 luglio.
Nel frattempo i volontari di Giuseppe Garibaldi si erano spinti
dal Bresciano in direzione della città di Trento aprendosi
la strada il 21 luglio durante la battaglia di Bezzecca, mentre
una seconda colonna italiana guidata da Giacomo Medici arrivava,
il 25 luglio, in vista delle mura di Trento.
Queste ultime vittorie italiane vennero tuttavia oscurate, nella
coscienza collettiva, dalla sconfitta della Marina a Lissa il 20
luglio.
L'esito generale della guerra fu determinato dalle importanti
vittorie prussiane sul fronte tedesco, in particolare quella di
Sadowa del 3 luglio 1866, ad opera del generale von Moltke. Il 9
agosto Garibaldi rispose all'ordine di ritirarsi dal Trentino, con
il celebre e celebrato «Obbedisco». La cessazione
delle ostilità venne sancita con l'Armistizio di Cormons,
il 12 agosto 1866, seguito il 3 ottobre 1866 dal trattato di
Vienna.
Secondo i termini del trattato di pace, l'Italia guadagnò
Mantova e l'intera antica terraferma veneta (che comprendeva
l'attuale Veneto e il Friuli occidentale). Rimanevano in mano
austriaca il Trentino, il Friuli orientale, la Venezia Giulia e la
Dalmazia. Le città di Trento e Trieste continuavano ad
essere sotto il governo di Vienna.
In considerazione della pessima condotta italiana in guerra, gli
austriaci ottennero di consegnare le province perdute alla
Francia, che ne avrebbe fatto dono al Regno d'Italia. Il 4
novembre 1866 i Savoia ebbero consegnata dagli Asburgo la Corona
Ferrea (simbolo della sovranità sull'Italia), già
usata dai re longobardi, dagli imperatori del Sacro Romano Impero
Germanico e dallo stesso Napoleone III. La corona tornò
così alla sua sede storica nel Duomo di Monza. L'annessione
al Regno d'Italia venne sancita da un plebiscito (a suffragio
universale maschile) svoltosi il 21 e 22 ottobre, anche se
già il 19 ottobre in una stanza dell'hotel Europa sul Canal
Grande il generale Leboeuf (plenipotenziario francese e "garante"
dello svolgimento della consultazione) firmò la cessione
del Veneto all'Italia. Prima ancora del plebiscito le terre venete
erano già state cedute ufficialmente al Regno d'Italia; "la
Gazzetta di Venezia" il giorno successivo ne aveva dato notizia,
in pochissime righe: "Questa mattina in una camera dell'albergo
Europa si è fatta la cessione del Veneto".[91] Il 7
novembre 1866, pochi giorni dopo la proclamazione ufficiale
dell'esito del plebiscito, Vittorio Emanuele II compì una
visita solenne a Venezia. Le salme dei fratelli Bandiera e di
Domenico Moro rientrarono il 18 giugno 1867, quella di Daniele
Manin il 22 marzo 1868.
Roma capitale
Seppure alla proclamazione del Regno d'Italia il 17 marzo 1861
fosse stata indicata Roma come "capitale morale" del nuovo Stato,
la città rimaneva la sede dello Stato Pontificio, per
quanto ridotto di dimensioni. La Romagna era infatti già
passata al Piemonte con i plebisciti seguiti alla Seconda Guerra
d'Indipendenza; similmente era accaduto per le Marche e l'Umbria,
in seguito alla Battaglia di Castelfidardo e al successivo
plebiscito: lo Stato della Chiesa era ormai ridotto al solo Lazio.
Il dominio temporale del papa rimaneva sotto la protezione delle
truppe francesi dislocate a Roma; Garibaldi per due volte
tentò di prendere Roma, venendo bloccato una volta
sull'Aspromonte dall'esercito italiano inviato da Urbano Rattazzi
e, in un secondo tentativo, sconfitto dai francesi nella battaglia
di Mentana senza che, questa volta, vi fosse un intervento diretto
del governo Menabrea che, in nome degli accordi con la Francia,
fece arrestare Garibaldi a Figline e da lì tradotto a La
Spezia da dove fu riportato a Caprera.
Solo dopo la sconfitta e cattura di Napoleone III a Sedan nella
guerra franco-prussiana avvenuta il 1º settembre 1870, venne
ritirato da Roma il contingente di truppe francesi a protezione
del pontefice; le truppe italiane con bersaglieri e carabinieri in
testa, pochi giorni dopo, il 20 settembre, entrarono dalla breccia
di Porta Pia nella capitale.
Papa Pio IX, che si considerava prigioniero del nuovo Stato
italiano, reagì scomunicando Vittorio Emanuele II,
ritenendo inoltre non opportuno (non expedit), e poi
esplicitamente proibendo che i cattolici partecipassero
attivamente alla vita politica italiana, da cui si autoesclusero
per circa mezzo secolo con gravi conseguenze per la futura storia
d'Italia.
Dopo il plebiscito del 2 ottobre 1870 che sancì
l'annessione di Roma al Regno d'Italia, nel giugno del 1871 la
capitale d'Italia, già trasferita - in ottemperanza alla
Convenzione di settembre (1864) - da Torino a Firenze, divenne
definitivamente Roma
Il 20 settembre venne quindi fissato come festa nazionale, simbolo
della conclusione, fino a quel momento, del periodo
risorgimentale. La festività venne abolita nel 1929, con i
Patti Lateranensi.
L'anno successivo Nizza tento' invano di ritornare italiana.
L'ideale conclusione e il completamento territoriale
Con Roma finalmente capitale inizio' anche un processo di
unificazione culturale del paese, a cui contribuirono le
pubblicazioni di alcuni libri destinati ad essere diffusi in tutta
la nazione: nel 1870 esce la prima Storia della letteratura
italiana scritta da Francesco de Sanctis, nel 1876 il Il Bel Paese
dell'abate e patriota Antonio Stoppani che descrive ai suoi
lettori gli aspetti fisici e umani semisconosciuti della penisola,
nel 1881 Carlo Collodi pubblica Pinocchio un romanzo di formazione
per ragazzi, nel 1886 esce altro romanzo Cuore di Edmondo De
Amicis sempre rivolto ai giovani e scritto per inculcar loro le
"virtù civili" e mantenere vivo il ricordo degli eventi
risorgimentali, e nel 1891 Pellegrino Artusi pubblica La Scienza
in cucina e l'Arte di mangiar bene, un testo che divenne popolare
in poco tempo, ancor oggi ristampato e che secondo alcuni critici
riusci' "a creare un codice di identificazione nazionale là
dove fallirono gli stilemi e i fonemi manzoniani».
Per approfondire, vedi le voci Quarta guerra di
indipendenza italiana, Fronte italiano (prima guerra mondiale) e
Prima guerra mondiale.
Dopo la fine della Grande Guerra una corrente storiografica
iniziò ad individuare nel conflitto mondiale la conclusione
del Risorgimento e dell'Unità d'Italia.
Tale visione fu condivisa da intellettuali nazionalisti e
irredentisti dell'epoca , ma anche da alcuni storici liberali, fra
cui Adolfo Omodeo, che fu «uno dei più accesi
sostenitori della visione della Grande guerra come continuazione e
compimento delle guerre di indipendenza e del
Risorgimento...», per via del ricongiungimento con le terre
irredente di Venezia Tridentina, Venezia Giulia, nonché la
città di Zara. Essi attribuirono quindi il nome di quarta
guerra di indipendenza alla Prima guerra mondial.
Successivamente la città di Fiume venne unita all'Italia
nel 1924, dopo il Trattato di Rapallo, in seguito alle breve
esperienza della Reggenza italiana del Carnaro, mentre per la
Dalmazia, esclusa Zara, le aspirazioni degli irredentisti non
furono mai raggiunte, escluso il breve periodo di esistenza del
Governatorato di Dalmazia durante la Seconda guerra mondiale.
I problemi dello stato unitario
Molti e gravi furono i problemi che il nuovo Stato dovette
affrontare.
Nord e Sud
Discordando con l'affermazione di Massimo D'Azeglio «Il
primo bisogno d'Italia è che si formino Italiani dotati
d'alti e forti caratteri. E pure troppo si va ogni giorno
più verso il polo opposto: pur troppo s'è fatta
l'Italia, ma non si fanno gl'Italiani», Cavour
realisticamente scriveva che non solo gli italiani ma neppure
l'Italia era "fatta": «Il mio compito è più
complesso e faticoso che in passato. Fare l'Italia, fondere
assieme gli elementi che la compongono, accordare Nord e Sud,
tutto questo presenta le stesse difficoltà di una guerra
con l'Austria e la lotta con Roma». Cavour ben sapeva come
si fosse giunti all'unificazione in soli due anni grazie all'aiuto
di circostanze favorevoli interne ed internazionali. Ora,
tuttavia, si trattava di sanare quella che alcuni avevano definito
una forzatura storica, un miracolo italiano
La nuova Italia aveva messo assieme popolazioni eterogenee per
storia, per lingue parlate, per tradizioni ed usanze religiose (la
sensibilità e gli usi legati al cattolicesimo erano
differenti nelle varie parti d'Italia). Luigi Carlo Farini,
inviato da Cavour, a Napoli in qualità di Luogotenente, il
27 ottobre 1860, gli descriveva la situazione in una lettera con
queste frasi: «Che barbarie! Altro che Italia! Questa
è Affrica. I beduini, a riscontro di questi caffoni, sono
fior di virtù civile [...] E la canaglia dà il sacco
alle case de' signori e taglia le teste, le orecchie a'
galantuomini, e se ne vanta, e scrive a Gaeta: i galantuomini
ammazzati son tanti e tanti; a me il premio. Anche le donne
caffone ammazzano; e peggio: legano i galantuomini [...] pe'
testicoli, e li tirano così per le strade; poi ne fanno
ziffe zaffe: orrori da non credersi».
Secondo lo storico britannico Christopher Duggan (1957), docente
di storia italiana nonché direttore del Centre for the
Advanced Study of Italian Society all’Università di
Reading, numerose figure di primo piano dell’epoca, tra cui molti
meridionali esiliati dai Borbone, contribuirono a costruire e ad
aggravare l’immagine del Meridione come terra barbara e incolta,
ripetendo un luogo comune estremamente falso, diffuso da parecchio
tempo prima dell'unificazione: che a sud di Roma iniziasse
l'Africa.[107]. La cattiva fama dei meridionali risale a una
frase, riportata dallo storico Giordano Bruno Guerri, di
Metternich, espressa dopo la rivolta napoletana del 1820:
«Un popolo mezzo barbaro, di una ignoranza assoluta, di una
superstizione senza limiti, focoso e passionale come gli africani,
un popolo che non sa né leggere né scrivere e che
risolve le cose con il pugnale».
Le condizioni del Regno
Le condizioni di tutta l'Italia si presentavano arretrate rispetto
agli stati industrializzati dell'Europa occidentale. La rete
ferroviaria nel 1861 consisteva in appena 2100 chilometri di
binari che in più erano stati progettati in modo di avere
uno scartamento tale da impedire, per ragioni militari, il
passaggio dei confini di uno Stato all'altro.
Molto alta la mortalità infantile, l'igiene precaria
causava ricorrenti epidemie di colera, diffusa la malaria e la
pellagra.
L'analfabetismo raggiungeva una percentuale nazionale del 75%, con
punte del 90% in alcune zone del paese.
L'isolamento diplomatico e le minacce austriache imponevano per la
difesa il rafforzamento dell'esercito e della marina.
La soluzione di questi problemi comportò un grande impegno
finanziario per il nuovo Stato che dovette introdurre nel 1868 la
tassa sul macinato, un'«imposta progressiva sulla
miseria», una vera e propria tassa sul pane, fino ad allora
sconosciuta nelle regioni del Centro e del Nord dove causò
la ribellione dei contadini emiliani. Quintino Sella, ministro
delle finanze del Regno d'Italia, che l'aveva con altri ideata,
divenne nell'opinione popolare «l'affamatore del
popolo».
L'abolizione delle dogane tra i vari stati comportò il
fallimento delle piccole attività artigianali
impossibilitate a reggere la concorrenza con la produzione
industriale del Nord.
Il brigantaggio
«A Napoli, noi abbiamo altresì cacciato il sovrano
per stabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci
vogliono e sembra che ciò non basti, per contenere il
Regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o
non briganti, niuno vuol saperne. Ma si dirà: e il
suffragio universale? Io non so nulla di suffragio, ma so che al
di qua del Tronto non sono necessari battaglioni e che al di
là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore e bisogna
cangiare atti e principi. Bisogna sapere dai Napoletani un'altra
volta per tutto se ci vogliono, sì o no. Capisco che gli
italiani hanno il diritto di fare la guerra a coloro che volessero
mantenere i tedeschi in Italia, ma agli italiani che, restando
italiani, non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il
diritto di dare archibugiate, salvo si concedesse ora, per
tagliare corto, che noi adottiamo il principio nel cui nome Bomba
(Ferdinando) bombardava Palermo, Messina ecc. Credo bene che in
generale non si pensa in questo modo, ma siccome io non intendo
rinunciare al diritto di ragionare, dico ciò che penso.
»
(Massimo D'Azeglio)
I dubbi espressi da D'Azeglio (briganti o non briganti) apparivano
superati dalla storiografia risorgimentale che riprese la
definizione di brigantaggio usata dallo stesso governo del Regno
d'Italia[115] per mascherare agli occhi degli stati europei le
gravi difficoltà politiche della avvenuta unificazione come
una manifestazione di semplice criminalità.
Ad esempio lo storico Francesco Saverio Sipari insisteva nel
considerare l'origine sociale del fenomeno, quando nel 1863
scrisse: «il brigantaggio non è che miseria, è
miseria estrema, disperata.».
Così anche Giustino Fortunato che non lo considerò
«un tentativo di restaurazione borbonica e di
autonomismo» ma «un movimento spontaneo, storicamente
rinnovantesi ad ogni agitazione, ad ogni cambiamento politico,
perché sostanzialmente di indole primitiva e selvaggia,
frutto del secolare abbrutimento di miseria e di ignoranza delle
nostre plebi rurali».
Lo stesso Benedetto Croce vede nel brigantaggio l'ultimo sostegno
di una monarchia, quella borbonica, che ancora una volta aveva
chiamato in suo aiuto «...o piuttosto a far le sue vendette,
le rozze plebi, e non trovando altri campioni che truci e osceni
briganti...».
Accanto alla miseria, alcuni invece identificarono nel
brigantaggio un fenomeno di resistenza al nuovo stato italiano. Il
deputato liberale Giuseppe Ferrari disse: «I reazionari
delle Due Sicilie si battono sotto un vessillo nazionale, voi
potete chiamarli briganti, ma i padri e gli Avoli di questi hanno
per ben due volte ristabiliti i Borboni sul trono di
Napoli.».
Alla fine gran parte degli storici hanno inquadrato tale fenomeno
come espressione di un disagio autentico, manifestatosi con le
forme di una vera e propria guerra civile (1861-1865).
In realtà il brigantaggio era nato e prosperava nel
Mezzogiorno ben prima dell'annessione al Regno d'Italia[120], ma
si era sviluppato ulteriormente negli anni sessanta dell'Ottocento
in seguito all'invio di un gran numero di reparti dell'esercito
(Ma ci vogliono e sembra che ciò non basti, per contenere
il Regno, sessanta battaglioni... in Massimo D'Azeglio, Op.cit.)
Che si trattasse di un fenomeno ben radicato è dimostrato
infine dal fatto che si ritenne necessario l'intervento
dell'esercito regio e l'emanazione di leggi speciali (la legge
Pica 1863), che applicavano la legge marziale nei territori del
Mezzogiorno italiano.
La ricerca storica più recente ha contribuito a mettere in
luce gli aspetti politici che motivarono la resistenza delle
popolazioni meridionali prima nei confronti dei Borbone[121], poi
del Regno d'Italia (con le conseguenti repressioni), superando
definitivamente il modello che ha tentato per decenni di liquidare
l'insorgenza meridionale come fenomeno esclusivamente banditesco.
La complessa problematica legata a tale resistenza non fu estranea
(insieme ad altre concause) alla nascita della Questione
meridionale.
Decentramento e accentramento
Cavour secondo i principi del liberalismo inglese era favorevole
al decentramento:
«Il prof. E. Amari [autonomista siciliano], dottissimo
giureconsulto come egli è, riconoscerà, io lo spero,
che noi siamo non meno di lui amanti della discentralizzazione,
che le nostre teorie sullo Stato non comportano la tirannia di una
capitale sulle province.» In tal senso egli aveva presentato
un progetto di legge con Farini e Minghetti il 13 marzo 1861 che
«consisteva nel riunire insieme in consorzi obbligatori e
permanenti quelle province che fossero più affine tra loro
per natura di luogo, per comunanza d'interessi, di leggi, di
abitudini.»[123] Il disegno di legge non poté essere
sottoposto alla Camera per la morte improvvisa di Cavour e quando
Minghetti presentò un analogo progetto di legge[124] dopo
un lungo dibattito fu bocciato. Il progetto federalista di
Minghetti prevedeva: «...un ordinamento che consenta di
conservare le tradizioni e i costumi delle popolazioni locali. Ad
ogni Grande Provincia [Regione] dovrà spettare il potere
legislativo e l'autonomia finanziaria per quanto riguarda i lavori
pubblici, l'istruzione, la sanità, le opere pie e
l'agricoltura. Le Grandi Province e i Comuni dovranno
ampliare...le rispettive basi elettorali estendendo il diritto di
voto a tutti...senza escludere gli analfabeti. I sindaci non
saranno più di nomina regia ma dovranno essere nominati dal
consiglio comunale regolarmente eletto. Allo Stato spetteranno
soltanto la politica estera, la difesa, i grandi servizi di
utilità nazionale (ferrovie, poste, telegrafi e porti),
nonché un'azione di vigilanza e controllo sull'operato
degli enti locali.»
La nuova classe politica successa alla morte di Cavour nutrendo
grandi timori che la recente unità fosse messa in pericolo
da sommovimenti interni preferì imboccare la strada
dell'accentramento autoritario estendendo a tutto il paese il
sistema comunale e provinciale del Regno di Sardegna. L'Italia
venne divisa in province sotto il controllo dei prefetti e i
consigli comunali elettivi furono soggetti a sindaci nominati dal
sovrano.
Come scrive Candeloro: «Fare una sola regione del
Mezzogiorno continentale sembrava pericoloso per l'unità,
ed era d'altra parte difficile dividerlo in regioni che avessero
una certa vitalità, poiché nel Mezzogiorno non erano
esistiti Stati regionali e di conseguenza, non vi erano allora,
oltre Napoli, delle città adatte ad essere centri
regionali.»
Interpretazioni storiografiche
L'assenza delle masse contadine e il contrasto
città-campagna
Un filone di critica storiografica, elaborando le analisi che fece
Antonio Gramsci nei suoi quaderni del carcere[127], che
partì dalle considerazioni del meridionalista Gaetano
Salvemini sulla non soluzione della questione contadina legata
alla non soluzione della questione meridionale[128], ha sviluppato
un'interpretazione che sostiene come nel Risorgimento italiano
fosse stata assai limitata la partecipazione della masse popolari,
soprattutto contadine, agli eventi che hanno caratterizzato
l'unità nazionale italiana e come il Risorgimento possa
essere considerato come una rivoluzione mancata.
«Quanto alla partecipazione contadina delle masse subalterne
alle vicende della unificazione essa continuò ad essere
assai modesta».
Lo storico Franco Della Peruta[130] constata come il problema
dell'assenza delle masse contadine al movimento risorgimentale si
ponesse sin dall'indomani dei moti del '48 alla coscienza degli
stessi contemporanei di quegli avvenimenti.
Fin dal 1849, contrariamente a quanto sosteneva Mazzini, che
cioè la questione sociale dovesse essere risolta solo dopo
aver affrontato il problema dell'unità nazionale, un
mazziniano, rimasto anonimo, scriveva sulla mazziniana "Italia del
popolo": «la politica di classe adottata dal governo
provvisorio milanese [...] causò la sopravvenuta freddezza
dei contadini di Lombardia verso la guerra nazionale».
Carlo Cattaneo, ricordando le Cinque giornate milanesi, scriveva:
«Si può rimproverare agli amici della libertà
[...] di non aver chiamato il popolo dei sobborghi e delle
campagne alla pratica delle armi».
Lo stesso Carlo Pisacane, fra i primi, assieme a Giuseppe Ferrari
a introdurre concetti socialisti nelle ideologie risorgimentali,
nel 1851 nell'Appendice alla "La guerra combattuta in Italia negli
anni 1848-49" ribadiva l'idea della necessità di una vasta
partecipazione contadina al progetto unitario e che si dovesse
«far comprendere ai contadini che è loro interesse
cambiare la vanga col fucile» ma questo non sarebbe mai
avvenuto poiché, come scrisse Giuseppe Ferrari lo stesso
anno, osservando i moti popolari europei, «non vale parlare
di Repubblica se il popolo sovrano muore di fame».,
L'indifferenza dei contadini, se non l'ostilità nei
confronti di tutto ciò che riguardava la città e i
"signori", risaliva come sosteneva Antonio Gramsci, ed in epoca
più recente gli storici Emilio Sereni e Giorgio Candeloro,
al periodo della formazione dei Comuni italiani quando, dopo aver
attirato i contadini in città ("l'aria delle città
rende liberi"), affrancandoli ed usandoli come operai per le
manifatture, sottoposero la campagna alla città con un
regime vincolistico dei prezzi dei prodotti agricoli.
Lo storico Girolamo Arnaldi osserva che nella seconda guerra
d'indipendenza (1859) " i soldati dell'esercito sardo, quasi
esclusivamente contadini e popolani... non erano ancora ben
persuasi che il Piemonte fosse in Italia, tant'è vero che
ai volontari provenienti dalle altre regioni d'Italia rivolgevano
la domanda: "Vieni dall'Italia?".
Lo stesso Cavour si scandalizzava che i volontari arruolati a
Torino provenienti dal Regno delle Due Sicilie fossero appena
poche decine, mentre tra i 1089 garibaldini partiti da Quarto si
contavano 86 volontari provenienti dal regno borbonico, pari
all'8% del totale dei volontari e a poco meno del 10% degli 894
volontari affluiti da regioni non appartenenti al regno sabaudo
preunitario.
Anzi, in buona parte, la classe contadina meridionale
entrerà nella storia proprio battendosi contro
l'unità ormai raggiunta: è il fenomeno del
brigantaggio postunitario che, secondo Isnenghi, "...può
considerarsi pressoché l'unica manifestazione reale, per
estensione geografica, partecipazione numerica e durata di
presenza attiva delle masse subalterne negli anni del
Risorgimento".
Più articolata l'analisi di Seton-Watson sulla
contrapposizione fra campagna e città: "Con l'eccezione
della Sicilia, dove una vasta rivolta di contadini precedette lo
sbarco di Garibaldi, poche furono le zone in cui i contadini
svolsero un ruolo positivo nell'unificazione del paese: le
campagne in generale rimasero passive o si mossero solo in difesa
del vecchio ordine. I governi, agli occhi dei contadini, sono un
male necessario, il nuovo governo italiano era particolarmente
odioso perché era stato imposto dai 'signori' e dalle
città, perché perseguitava la Chiesa, aumentava le
imposte ma, soprattutto perché era efficiente"
[...]
Critiche al processo di unificazione
«Chi l'ha costruita sono stati politicanti e studiosi del
Nord e del Sud, in nome dell'unità, del progresso, della
rivoluzione, del Re, del Duce. Non tutti insieme, si capisce,
né tutti con la medesima voce, ma un po' per volta, in
armonica disarmonia. Gente magari in buona fede, ma che ignorava i
fatti, quelli veri: oppure gente che voleva nascondere qualcosa,
per diversissime ragioni spesso contrastanti. La ragione, o meglio
il pretesto più comune e più facile era, anzi
è l'unità d'Italia, alibi necessario che ogni
sozzura copre con le sue grandi santissime ali. Il risultato? Oggi
più che mai l'Italia è divisa in due parti, una
tutta bianca, l'altra tutta nera. Di questo mito il tempo ha fatto
un baluardo così roccioso e inattaccabile che il
conformismo liberale, anche se a volte dubitoso ed erudito, non
osa neppure scalfirlo.»
(Carlo Alianello[165])
La critica storiografica al processo di unificazione italiana ha
avuto inizio nella seconda metà dell'Ottocento da parte di
coloro che avevano vissuto tale fenomeno. Fra questi si segnalano,
oltre alla posizione critica di Giuseppe Mazzini, che fu sempre
fautore di una soluzione repubblicana, lo storico e nobile
borbonico Giacinto de' Sivo, con il suo libro Storia delle Due
Sicilie 1847-1861; e Giuseppe Buttà e Ludovico Quandel
rispettivamente cappellano militare e capitano nell'esercito del
Regno delle Due Sicilie. La tesi centrale di questi autori,
è quella secondo cui gli avvenimenti del periodo 1860-61
non sarebbero riconducibili a tensioni di tipo ideale, o alla
volontà di unire l'Italia. Piuttosto, sarebbero l'esito di
un accordo tra le principali potenze europee (Inghilterra e
Francia) ed il Piemonte. Secondo tali autori, il Regno di Sardegna
avrebbe avuto finalità meramente economiche e di espansione
territoriale, ed avrebbe realizzato il disegno unitario attraverso
una complessa manovra diplomatico-militare, includente la
corruzione di alcuni alti quadri dell'esercito borbonico ed
accordi con mafia e camorra, di cui la spedizione dei Mille
sarebbe solo l'episodio maggiormente visibile.
Alla generazione successiva appartenne invece Gaetano Salvemini
che a sua volta influenzò i nuovi studiosi. Fra questi
ultimi vi fu, secondo Piero Gobetti, anche Antonio Gramsci.[167]
Salvemini, di orientamento socialista-riformista ma aperto al
liberalismo, vide nel Risorgimento un processo storico che ebbe il
merito di riscattare l'Italia dalla dominazione straniera e dai
vecchi regimi assolutistici. La riunificazione del Paese non era
avvenuta tuttavia su basi federali, come sarebbe stato auspicabile
bensì centraliste e fu opera di una minoranza borghese che
subito escluse le masse popolari dalla partecipazione alla vita
pubblica (mediante un sistema elettorale a suffragio ristretto),
mettendo in atto una politica economica e sociale che ne
causò l'impoverimento. Negli anni cinquanta e sessanta del
Novecento si sviluppò anche una storiografia critica di
matrice cattolica e un'altra di orientamento marxista.
Quest'ultima ebbe il suo riferimento principale nei Quaderni dal
Carcere di Antonio Gramsci, che, sebbene scritti negli anni trenta
del secolo passato, furono pubblicati soltanto fra il 1948 e il
1951. Il pensatore e politico sardo vide il Risorgimento come una
rivoluzione agraria mancata e l'unificazione come consolidamento
della supremazia delle classi dominanti italiane, di estrazione
prevalentemente borghese, sulle masse popolari. Anche per il
liberale Piero Gobetti il processo storico risorgimentale fu una
rivoluzione mancata, in quanto l'unificazione d'Italia avvenne
«...per opera del dispotismo...», anche se
«...fu gran ventura per un popolo...che si trovasse a
guidarlo Cavour, il Cattaneo della diplomazia che seppe evitare
l'isterilirsi della rivoluzione in una tirannide.». Da tale
rivoluzione rimasero esclusi gli starti sociali più bassi:
le classi medie «...avevano infatti conquistato il governo
senza instaurare rapporti di comunicazione con le altre
classi...».
Nel secondo dopoguerra alcuni esponenti del mondo accademico
italiano e straniero, nonché un certo numero di saggisti,
riprendendo alcune formulazioni di Gramsci e Salvemini (fra cui
quelle relative al Mezzogiorno come mercato semicoloniale),
interpretarono il processo di unificazione attuato nei confronti
degli stati preunitari come un'operazione militare di
colonizzazione, in particolar modo nei confronti del Regno delle
Due Sicilie, Stato pienamente indipendente al pari del Regno di
Sardegna. Tra gli esponenti di maggior rilievo del revisionismo
risorgimentale è possibile citare, oltre a
personalità del mondo accademico come Denis Mack Smith,
Christopher Duggan, Martin Clark, Eugenio Di Rienzo e Tommaso
Pedio il romanziere e sceneggiatore televisivo Carlo Alianello e i
saggisti Nicola Zitara, Gigi Di Fiore e Lorenzo Del Boca.
Secondo le tesi di questi revisionisti, il regno sardo, con
l'appoggio di potenze straniere come Francia e Gran Bretagna,
invase i regni della penisola senza dichiarazione di guerra; e i
moti insurrezionali non furono animati spontaneamente dal popolo
ma da agenti inviati dal regno sabaudo. Accuse sono state,
inoltre, rivolte dai revisionisti alla conduzione dei plebisciti,
che sono descritti come avvenuti in maniera illegale e sulla
spedizione dei Mille, che avrebbe raggiunto il suo obiettivo con
ingenti finanziamenti dall'Inghilterra e dalle logge massoniche,
oltre al supporto delle mafie e degli ufficiali borbonici
corrotti.
Alcuni sovrani dei regni preunitari, come Francesco V di Modena e
Francesco II di Borbone, lamentarono l'assenza di un legittimo
pretesto nelle annessioni condotte dal Regno di Sardegna. Nella
nascita del Regno d'Italia, i revisionisti individuano l'origine
di alcuni fenomeni delicati come il brigantaggio postunitario, la
questione meridionale e l'emigrazione. Il brigantaggio
postunitario, rivalutato dai controstorici come un movimento di
resistenza,[ fu represso dal regio governo con metodi brutali,
tanto da suscitare polemiche anche da parte di alcuni esponenti
della classe liberale (come Giuseppe Ferrari, Giovanni Nicotera e
Nino Bixio) e politici di diversi stati europei,[ compreso
Napoleone III, il quale dichiarò che "Les Bourbons n'ont
jamais fait autant" (i Borbone non hanno mai fatto tanto).
Particolarmente duro fu poi il trattamento riservato ai militari
al servizio del Regno delle Due Sicilie e dello Stato Pontificio,
che furono deportati in diverse roccaforti piemontesi, ad esempio
nel forte di Fenestrelle, dove la gran parte di loro morì
per la fame, gli stenti e le malattie.
Gli aderenti a questa interpretazione lamentano le scarse
attenzioni del governo italiano dell'epoca, soprattutto nei
confronti del meridione, una protesta che iniziò già
con la corrente meridionalista. Essi ritengono che la politica
poco attenta alle necessità delle masse sarebbe stata la
causa di una forte ondata migratoria, che interessò,
maggiormente, prima il settentrione (in particolare il Veneto) e
poi il meridione, in cui si sostiene il fenomeno fosse assente
durante il governo borbonico. Come le tesi sostenute dai
meridionalisti, la scuola revisionista vede nella fase
postunitaria una crisi irreversibile del sud, che sarebbe stato
penalizzato per favorire lo sviluppo economico e industriale del
nord. Secondo tale corrente di pensiero, il meridione subì
l'aumento e l'introduzione di nuove tasse, licenziamenti di
impiegati e operai, e la progressiva chiusura di alcune industrie.
Il "popolarismo" risorgimentale
Il popolo, che alcuni storici considerano assente dalla storia che
si faceva, era ben presente nella storia che si scriveva. Giornali
quotidiani, manifesti, volantini, non fanno che appellarsi al
popolo e a chiamarlo ad attivarsi e a condividere gli ideali
nazionali. Il popolo nelle aree più depresse della
penisola, ove il sistema scolastico non era sviluppato, nella
maggioranza non sa leggere e quando trova incollati sui muri i
proclami e gli appelli ha bisogno della mediazione degli
intellettuali.
Non si tratta poi semplicemente di ignoranza e analfabetismo che
fanno sì che la classe dirigente alla fine parli a se
stessa, ma anche il fatto che la circolazione delle idee è
ancora difficile nell'Italia preunitaria priva quasi di strutture
di comunicazione e dove le polizie sono state addestrate a
impedire che tra le masse e gli intellettuali si realizzi il
contagio politico.
Ed infine, ultimo grande ostacolo alla comunicazione tra
intellettuali e popolo, è la non coincidenza di codice tra
coloro che porgono il messaggio e quelli che lo ricevono:
«"Libertà! Indipendenza!", reclamano entusiasti gli
insorti e i volontari delle varie correnti risorgimentali.
"Polenta! Polenta!" ribattono cocciuti e sordi i contadini
descritti dal Nievo ne[l romanzo] Le confessioni d'un
italiano»
Il Risorgimento come moto nazional-popolare
« Dagli atri muscosi dai fori cadenti,
dai boschi, dall'arse fucine stridenti,
dai solchi bagnati di servo sudor,
un volgo disperso repente si desta;
intende l'orecchio, solleva la testa
percosso da novo crescente rumor. »
(Alessandro Manzoni, Adelchi)
« Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi
Perché non siam Popolo
Perché siam divisi »
(Goffredo Mameli, Canto degli Italiani)
Una storiografia sviluppatasi già all'indomani della
raggiunta unità d'Italia con gli storici N.Bianchi e
C.Tivaroni presenta il movimento risorgimentale come il risultato
realizzatosi quasi in modo provvidenziale tramite l'incontro tra i
democratici, il popolo, i moderati e i politici liberali, avvenuto
con la mediazione della monarchia sabauda.
All'indomani dell'unità nazionale la classe dirigente
presenta ciò che era accaduto come il risultato di una
spinta popolare e questo si vuole che sia insegnato nelle scuole
del Regno: cosicché varie generazioni di italiani hanno
imparato il Risorgimento come avrebbe dovuto essere invece che
com'è stato. Secondo Isnenghi si trattò del
tentativo, sentito come essenziale, di costruire a posteriori una
base storica comune a un popolo sino allora in parte assente. Gli
intellettuali cercavano un collegamento con le classi subalterne
tentando di persuaderle che l'unità italiana era stata il
frutto della volontà del popolo guidato dalle "elites"
risorgimentali e creando il mito di una coscienza nazionale
italiana esistita nei secoli passati e finalmente realizzatasi.
In contrasto con questa visione provvidenzialistica già
Oriani nel 1892 e Croce mettevano in rilievo come l'unità
d'Italia si fosse raggiunta con una conquista regia risultato di
un compromesso tra la monarchia sabauda, troppo debole per
unificare il paese da sola, e un movimento democratico,
altrettanto debole per poter fare una rivoluzione popolare,
cosicché l'Italia postunitaria difettava nelle sue
strutture democratiche e non avrebbe mai potuto assolvere al ruolo
che pretendeva di grande potenza europea.
Gli storici del periodo fascista come Gioacchino Volpe (1927)
ripresero invece la teoria postrisorgimentale che giudicava
positivamente la visione di un Risorgimento come risultato di una
guerra dinastica poiché questa era stata la necessaria
premessa dell'avvento del fascismo che, dopo la felice conclusione
della "quarta guerra d'indipendenza", ossia la prima guerra
mondiale, aveva realizzato i già delineati destini del
popolo italiano che il movimento fascista aveva fatto protagonista
di quella rivoluzione popolare prima fallita.
Omodeo (1926) riprese in parte la visione del Risorgimento come il
risultato di una positiva e feconda azione messa in atto da una
minoranza liberale che era stata però sopraffatta
dall'avvento del fascismo. Tesi condivisa in parte da Croce (1928)
che giudicava positivamente il periodo della politica liberale che
aveva portato all'unità nazionale e che aveva governato
saggiamente nel periodo postunitario fino a quando non si era
manifestata quella "malattia morale" del fascismo, destinata
comunque ad essere sanata dal liberalismo.