Risorgimento

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Con Risorgimento la storiografia si riferisce al periodo della storia d'Italia durante il quale la nazione italiana conseguì la propria unità nazionale, riunendo in un solo Stato – il Regno d'Italia – gli stati preunitari.

Il termine, che designa anche il movimento culturale, politico e sociale che promosse l'unificazione, richiama l'ideale romantico e nazionalista di una resurrezione d'Italia attraverso il raggiungimento di un'identità unitaria che si era iniziata a delineare durante la dominazione romana, la cui specificità «...valse a imprimere sull'Italia un tratto oggettivo di esperienza unitaria...». Tale processo identitario si arrestò definitivamente nella seconda metà del VI secolo.

Sebbene non vi sia consenso unanime tra gli storici, la maggior parte di essi tende a stabilire l'inizio del Risorgimento, come movimento, subito dopo la fine del dominio Napoleonico e il Congresso di Vienna nel 1815, e il suo compimento fondamentale con l'annessione dello Stato Pontificio e lo spostamento della capitale a Roma nel febbraio 1871.

Tuttavia, gran parte della storiografia italiana ha esteso il compimento del processo di unità nazionale sino agli inizi del XX secolo, con l'annessione delle cosiddette terre irredente, a seguito della prima guerra mondiale, creando quindi il concetto di quarta guerra di indipendenza. Anche la Resistenza italiana (1943-1945) è stata talvolta ricollegata idealmente al Risorgimento.

Sin dalla nascita del Regno d'Italia, sono state mosse critiche al processo di unificazione, le quali hanno dato origine ad una storiografia revisionista, di varia ispirazione culturale ed ideale, che contesta in diverso modo la rappresentazione offerta dalla storiografia più diffusa circa i processi politici e militari che condussero all'unità d'Italia, tanto da influenzare, in taluni casi, l'origine di movimenti autonomisti e separatisti, meridionali e settentrionali.

Indice
1 Estensione cronologica del fenomeno
2 Premesse storiche
2.1 Impero romano e Medioevo
2.2 Rinascenze e Rinascimento
2.3 Età napoleonica
3 Le idee e gli uomini
4 Gli anni della restaurazione
4.1 I moti carbonari
4.1.1 1817
4.1.2 1820-1823
4.1.3 1824-1847
4.2 Rivolte mazziniane
4.3 I congressi scientifici prima del '48
5 Il biennio delle riforme
6 La "primavera dei popoli" e la Prima guerra d'indipendenza
7 Il "decennio di preparazione"
7.1 Le azioni mazziniane
7.2 La realpolitik cavouriana
8 La Seconda guerra d'indipendenza
9 La Spedizione dei Mille e la proclamazione del Regno d'Italia
10 Terza guerra di indipendenza e Roma capitale
10.1 La terza guerra di indipendenza
10.2 Roma capitale
11 L'ideale conclusione e il completamento territoriale
12 I problemi dello stato unitario
12.1 Nord e Sud
12.2 Le condizioni del Regno
12.3 Il brigantaggio
12.4 Decentramento e accentramento
13 Interpretazioni storiografiche
13.1 L'assenza delle masse contadine e il contrasto città-campagna
13.2 Le cinque giornate di Milano (18 - 22 marzo 1848)
13.3 Da guerra federalista a guerra regio-sabauda
13.4 La spedizione dei Mille
13.5 Critiche al processo di unificazione
13.6 Il "popolarismo" risorgimentale
13.6.1 Il Risorgimento come moto nazional-popolare

Estensione cronologica del fenomeno

La definizione dei limiti cronologici del Risorgimento risente evidentemente dell'interpretazione storiografica riguardo a tale periodo e perciò non esiste accordo unanime fra gli storici sulla sua determinazione temporale, formale ed ideale.

Esiste inoltre un collegamento tra un "Risorgimento letterario" e uno politico: fin dalla fine del XVIII secolo si scrisse di Risorgimento italiano in senso esclusivamente culturale.

La prima estensione dell'ideale letterario a fatto politico e sociale della rinascita dell'Italia si ebbe con Vittorio Alfieri (1749-1803), non a caso definito da Walter Maturi il «primo intellettuale uomo libero del Risorgimento», vero e proprio storico dell'età risorgimentale, che diede inizio a quel filone letterario e politico risorgimentale che si sviluppò nei primi decenni del XIX secolo.

Come fenomeno politico, il Risorgimento viene compreso da taluni storici fra il proclama di Rimini (1815) e la breccia di Porta Pia da parte dell'esercito italiano (20 settembre 1870), da altri, fra i primi moti costituzionali del 1820-1821 e la proclamazione del Regno d'Italia (1861) o il termine della terza guerra d'indipendenza (1866).[6]

Altri ancora, in senso lato, vedono la sua nascita fra l'età riformista della seconda metà del XVIII secolo e l'età napoleonica (1796-1815), a partire dalla prima campagna d'Italia[8].

La sua conclusione, parimenti, viene talvolta estesa, come detto, fino al riscatto delle terre irredente dell'Italia nord-orientale (Trentino e Venezia Giulia) a seguito della prima guerra mondiale. Infine, le forze politiche che diedero vita alla Costituzione della Repubblica Italiana ed una parte della storiografia hanno individuato nella Resistenza all'occupazione nazi-fascista, tra il 1943 ed il 1945, un "secondo" Risorgimento.

Premesse storiche

Il Risorgimento italiano trae origine idealmente da diverse tradizioni storiche.

Impero romano e Medioevo

Durante l'età augustea l'Italia fu organizzata in un sistema amministrativo distinto da quello tipico della province divenendo la parte privilegiata dell'impero: i suoi abitanti liberi erano cittadini romani, esentati dalla tassazione diretta, eccetto la nuova tassa sulle eredità creata per finanziare i bisogni militari. L'Italia fu dotata di una fitta rete stradale e di numerose strutture pubbliche (evergetismo augusteo). I privilegi accordati da Roma all'Italia, tanto da farne una sorta di metropoli rispetto alle altre province dell'impero, affondavano le loro radici nella più antica politica d'espansione romana, che facendo leva sul comune substrato culturale e linguistico caratterizzante molti popoli italici (Latini, Osci, Falisci, Umbri ecc.) ed i Veneti, assimilava poi nella stessa koiné anche gli altri popoli della regione italiana (Liguri, Celti, ecc.).

Con la caduta dell'Impero romano d'Occidente, l'unità territoriale della penisola non venne meno né col regno degli Ostrogoti, il primo di tante occasioni mancate nel Medioevo per far nascere anche in Italia una coscienza nazionale come viceversa avvenne in altri paesi europei, né dopo l'intervento diretto dell'imperatore d'Oriente Giustiniano I e la successiva guerra gotica (535-553); questa unità si ruppe con l'invasione longobarda e la conseguente spartizione della penisola.

I Longobardi inizialmente tesero a rimanere separati dalle popolazioni soggette sia sotto il profilo politico che militare, ma col tempo finirono sempre più per fondersi con la componente latina e tentarono, sull'esempio romano e ostrogoto, di riunificare la penisola per dare una base nazionale al loro regno.Tale tentativo fallì per l'intervento dei Franchi richiamati da papa Adriano I, secondo un copione tipico destinato a ripetersi nei secoli a venire, che vede il papa cercare il più possibile di impedire la nascita di una potenza nemica sul suolo italico in grado di compromettere la sua autonomia.

Prima della conquista franca infatti, il Regnum Langobardorum si identificava con la massima parte dell'Italia peninsulare e continentale e gli stessi re longobardi, dal VII secolo, non si consideravano più solo re dei longobardi, ma dei due popoli (longobardi e italici di lingua latina) posti sotto la propria sovranità nei territori non bizantini e dell'Italia tutta (Dei rex totius Italiae). I vincitori si erano pertanto gradualmente romanizzati, abbracciando la cultura dei vinti grazie anche all'accettazione del latino come unica lingua scritta dello Stato e come strumento di comunicazione privilegiato a livello giuridico e amministrativo. Durante il periodo longobardo, a seguito della Donazione di Sutri si formò il primo nucleo dello Stato Pontificio: il Patrimonium Sancti Petri, primo nucleo territoriale su cui si estenderà il potere temporale della Chiesa, fino al 1870.

I Franchi, a partire dalla seconda metà dell'VIII secolo, tentarono di ricostituire l'Impero con Carlo Magno: tale organismo prese corpo definitivamente un secolo e mezzo più tardi, con un sovrano germanico, Ottone I di Sassonia. Il Regno d'Italia era legato a questo grande organismo statuale da vincoli di vassallaggio, dai quali vanamente cercò di sottrarsi. I più celebri fra tali tentativi furono quello di Berengario del Friuli (850-924), e poi di Arduino d'Ivrea (955-1015), personaggi considerati dalla storiografia nazionalista come antesignani dei patrioti risorgimentali. Arduino, attorno all'anno 1000, sostenuto dalla nobiltà laica del nord Italia, condusse alcune campagne militari per liberare l'Italia dalla tutela germanica.

Nei primi secoli dopo il Mille, lo stesso desiderio di autonomia e libertà portò a un notevole sviluppo delle Repubbliche marinare (Amalfi, Genova, Pisa e Venezia), e poi dei liberi Comuni di popolo, favorendo quella rinascita dell'economia e insieme delle arti che approderà al Rinascimento, e che fu anticipata dal risveglio religioso che si ebbe nel Duecento con le figure di Gioacchino da Fiore e Francesco d'Assisi.

Se durante l'alto Medioevo il sentimento nazionale italiano si mantenne ancora piuttosto in ombra, partecipando alla contesa tra le due potenze di allora, il Papato e l'Impero, con i quali si schierarono rispettivamente Guelfi e Ghibellini, esso cominciò così lentamente a emergere, alimentandosi soprattutto del ricordo dell'antica grandezza di Roma, e trovando nell'identità religiosa rappresentata dalla Chiesa, idealmente erede delle istituzioni romane, un senso di comune appartenenza. La vittoria nella battaglia di Legnano ad opera della Lega Lombarda contro l'imperatore Federico Barbarossa (1176), e la rivolta dei Vespri Siciliani contro il tentativo del re di Francia di assoggettare la Sicilia (1282), saranno assunte in particolare dalla retorica romantica ottocentesca come i simboli del primo risveglio di una coscienza di patria.

Mentre però da un lato la formazione dei comuni e delle signorie portò al fallimento di una composizione politica unitaria, per il prevalere di interessi locali in un'Italia suddivisa in piccoli stati, spesso in lotta fra di loro, d'altro lato, secondo taluni autori, fu proprio questo il periodo in cui si formò l'Italia come nazione, «...forse...la più precoce delle nazioni europee...», e in cui, secondo alcuni storici, si produsse ad opera di Federico II il primo serio tentativo di unificazione peninsulare. Tale tentativo, secondo altre correnti storiografiche, fu invece espressione della volontà di una politica espansionistica di assoggettamento ad opera del sovrano svevo-italiano, tesa a favorire l'instaurarsi di signorie ghibelline a lui amiche, sottraendo l'Italia dall'influenza papale e sottomettendola per intero all'impero germanico.

Rinascenze e Rinascimento

Durante le rinascenze culturali del XIII e XIV secolo, che avrebbero condotto al fiorire del Rinascimento, si dimostrò ben vivo il ricordo della passata grandezza dell'Italia come centro del potere e della cultura dell'impero romano e come centro del mondo, e il Paese fu ispirazione ed oggetto di studio per poeti e letterati, cantando lodi all'Italia antica - già vista come continuum culturale se non nazionale - e deprecandone la contemporanea situazione.

Un sentimento di comune appartenenza nazionale sembrò maturare presso gli intellettuali del tempo mentre il volgare latino locale veniva elevato al rango di lingua letteraria, primo ideale elemento di una coscienza collettiva di popolo. Anche grazie a tali letterati e intellettuali, fra cui emersero le figure universali di Dante, Petrarca e Boccaccio, che ebbero scambi culturali senza tener conto dei confini regionali e locali, la lingua italiana dotta si sviluppò rapidamente, evolvendosi e diffondendosi nei secoli successivi anche nelle più difficili temperie politiche, pur rimanendo per molti secoli lingua veicolare solo per le classi più colte e dominanti, venendo progressivamente ed indistintamente adottata come lingua scritta in ogni regione italofona, prescindendo dalla nazionalità dei suoi principi. Dante e Petrarca inoltre introdussero la locuzione Bel paese, come espressione poetica, per indicare l'Italia:
«del bel paese là dove 'l sì sona,»
 il bel paese/ Ch'Appennin parte e 'l mar circonda e l'Alpe »

Sul piano politico, invece, a causa della mancanza di uno stato unitario sul modello di quelli che stavano via via sorgendo nel resto d'Europa, i piccoli stati italiani furono costretta a supplire con l'intelligenza strategica dei suoi capi politici alla superiorità di forze degli stati nazionali europei, arrivando a concordare una alleanza la Lega Italica. Esemplare fu in proposito il signore di Firenze Cosimo de' Medici (1389-1464), non a caso soprannominato Pater Patriae, ovvero "Padre della Patria", e considerato uno dei principali artefici del Rinascimento fiorentino: la sua politica estera, infatti, mirante al mantenimento di un costante e sottile equilibrio fra i vari stati italiani, sarà profetica nell'individuare nella concordia italiana l'elemento chiave per impedire agli stati stranieri di intervenire nella penisola approfittando delle sue divisioni.

L'importanza della strategia di Cosimo, proseguita dal suo successore Lorenzo il Magnifico (1449-1492) nella sua continua ricerca di un accordo tra gli stati italiani in grado di sopperire alla loro mancanza di unità politica,[28] non venne tuttavia compresa dagli altri prìncipi della penisola, ed essa si concluse con la morte di Lorenzo nel 1492.

Da allora in Italia ebbe inizio un lungo periodo di dominazione straniera, la quale, secondo gli storici risorgimentali, fu quindi dovuta non a sterile arrendevolezza, bensì al ritardo del processo politico di unificazione. Nella propaganda risorgimentale, per via del romanzo omonimo di Massimo d'Azeglio, è anzi rimasto celebre e ricordato come gesto di patriottismo l'episodio della disfida di Barletta (1503), quando tredici cavalieri italiani,alleati degli spagnoli per la conquista del Regno di Napoli, capeggiati dal capitano di ventura Ettore Fieramosca, sconfissero in duello altrettanti cavalieri francesi che li avevano insultati accusandoli di viltà e codardia.

L'interesse per l'unità si spostò intanto dall'ambito culturale a quello dell'analisi politica e, già nel XVI secolo, Machiavelli e Guicciardini dibattevano il problema della perdita dell'indipendenza politica della penisola, divenuta nel frattempo un campo di battaglia fra Francia e Spagna e infine caduta sotto la dominazione di quest'ultima. Pur con programmi diversi, Machiavelli e Guicciardini, fautori rispettivamente di uno Stato accentrato e di uno federale[33], concordavano sul fatto che la perdita dell'individualità nazionale fosse avvenuta a causa dell'individualismo e della mancanza di senso dello Stato delle varie popolazioni italiane. Ecco quindi il compito del Principe al quale Machiavelli lanciava la sua nota
«esortazione a pigliare l'Italia e liberarla dalle mani dei barbari.»

All'inizio del secolo XVII Cesare Ripa con la sua opera Iconologia, nella voce "Italia con le sue provincie. Et parti de l'isole" rifacendosi ai testi classici diffonde l'immagine classica dell'Italia turrita, con cornucopia e sovrastata da una stella, "come rappresentata nelle Medaglie di Commodo, Tito et Antonino" e conclude la descrizione dell'Italia con la frase «Siede sopra il Globo (come dicemmo) per dimostrare come l'Italia è Signora et Regina di tutto il Mondo, come hanno dimostrato chiaro gli antichi Romani, et hora più che mai il Sommo Pontefice maggiore et superiore a qual si voglia Personaggio.»

Età napoleonica

Non fu che alla fine del XVIII secolo, con l'arrivo delle truppe napoleoniche nella penisola, che cominciò a diffondersi presso strati sempre più ampi di popolazione un sentimento nazionale italiano[37], fino ad allora percepito soltanto da una ristretta cerchia di intellettuali, aristocratici e borghesi già esposti alle idee dell'Illuminismo, che aveva trovato in Napoli il suo maggior centro di studio accademico. Un'eredità ancora ben presente, a testimonianza dell'influsso "francese", è data dalla origine del tricolore italiano inizialmente adottato nelle piccole ed effimere repubbliche create da Napoleone Bonaparte nell'Italia centro settentrionale e, quindi divenuto bandiera nazionale italiana; risale sempre a Napoleone la prima moneta con la parola "Italia": si tratta del marengo d'oro da 20 franchi coniato nel 1801 dalla Repubblica Subalpina per celebrare la vittoria alla vittoria contro gli austriaci recante la dicitura: L'Italie délivrée à Marengo (L'Italia liberata a Marengo).

Questi nuovi sentimenti nazionalistici vennero anche diffusi dalle nazioni che si fronteggiavano militarmente sul suolo italiano per cercare l'appoggio delle popolazioni. Da Gradisca l'11 ottobre 1813 Eugenio di Beauharnais invitando gli italiani all'unione e al combattimento contro le forze austriache affermava: "... ITALIA! ITALIA! Questo sacro nome, che produsse nell'antichità cotanti prodigj, sia oggidì il nostro grido di unione! ... Il prode che combatte pei suoi focolari, per la sua famiglia, per la sua gloria e per l'indipendenza del suo paese è sempre invincibile ..."; a questo proclama rispondeva Il 10 dicembre 1813 Nugent, comandante delle forze austro britanniche, da Ravenna rivolgendo a sua volta un proclama agli italiani, contenente l'affermazione "... Avrete TUTTI a divenire una nazione indipendente ..."

Lord Bentick, comandante dell'esercito britannico in Italia, dopo essere sbarcato a Livorno, il 14 marzo 1814, a sua volta lanciava un appello agli italiani, facendo un parallelo con la Spagna appena resasi indipendente, che si concludeva: "... Congiunte allora le forze nostre faran sì che l'Italia ciò divenga ch'ella già fu ne' suoi migliori tempi, e ciò che al presente è ancora la Spagna.".

Un più forte appello per una presa di coscienza politica nazionale diffusa in tale periodo, si trova nel Proclama di Rimini, anche se rimase disatteso, in cui Gioacchino Murat, il 30 marzo 1815, durante la guerra austro-napoletana, rivolse un appello a tutti gli italiani "...Italiani, non state più in forse, siate Italiani..." affinché si unissero per salvare il regno posto sotto la sua sovranità, rappresentato come unico garante della loro indipendenza nazionale contro l'occupante straniero: " ... Italiani, la Provvidenza vi chiama infine ad essere una nazione indipendente; dall'Alpi allo stretto di Scilla odasi un grido solo: Indipendenza d'Italia! ...".

Sempre allo scopo di attirare le simpatie delle classi colte italiane alla propria causa, il governo austriaco arrivo' nel gennaio 1816 a favorire l'uscita a Milano di una rivista intitolata Biblioteca Italiana, che sorti' l'effetto opposto e indusse come reazione la nascita de Il Conciliatore.

Le idee e gli uomini

Lo sviluppo di una coscienza politica nazionale coincise, soprattutto nella borghesia, con la diffusione delle idee liberali, e dell'Illuminismo.

Nel 1765 sul n.2 de Il Caffè esce La patria degli Italiani, di Gian Rinaldo Carli che si chiude con la frase «Un italiano in Italia non è mai forestiero».

Nel 1782 quaranta scienziati italiani fondarono a Verona la Società italiana, ritenendo, come scrisse il suo primo presidente il matematico Antonio Maria Lorgna, che "lo svantaggio dell’Italia è l’avere ella le sue forze disunite" per cui si doveva "associare le cognizioni e l’opera di tanti illustri Italiani separati" ricorrendo "a un principio motore degli uomini sempre attivo, e talora operante con entusiasmo, l’amor della Patria", Lorgna concludeva: "Cari Signori oltremontani, aspettino un pochino e vedranno l’Italia sotto altro aspetto fra pochi anni. Basta che siamo uniti".

Queste idee vennero quindi esaltate dalla Rivoluzione francese, ed ebbero un'accelerazione improvvisa con la discesa in Italia di Napoleone Bonaparte nella sua I campagna d'Italia, nel 1796. Rovesciati i sovrani preesistenti, i francesi, deludendo le speranze dei patrioti giacobini italiani, si erano stabilmente insediati in buona parte dell'Italia settentrionale, creando repubbliche su modello francese (le cosiddette repubbliche sorelle), rivoluzionando la vita del tempo e portando idee nuove, ma facendone anche ricadere il costo sulle popolazioni locali, sino a generare episodi di rivolta come le cosiddette "Pasque veronesi".

Il sorgere della coscienza nazionale non fu un processo unitario, lineare o coerentemente definito; diversi programmi, aspettative ed ideali, a volte anche incompatibili tra loro, confluirono in un vero e proprio crogiuolo: vi erano in campo quelli romantico-nazionalisti, repubblicani, protosocialisti, anticlericali, liberali, monarchici filo Savoia o papalini, laici e clericali, vi era l'ambizione espansionista di Casa Savoia verso la Lombardia, vi era il bisogno di liberarsi dal dominio austriaco nel Regno del Lombardo-Veneto, unitamente al generale desiderio di migliorare la situazione socio-economica approfittando delle opportunità offerte dalla rivoluzione tecnico-industriale,[45] superando al contempo la frammentazione della penisola laddove sussistevano Stati, in parte liberali, che spinsero i vari rivoluzionari della penisola a elaborare e a sviluppare un'idea di patria più ampia e ad auspicare la nascita di uno Stato nazionale analogamente a quanto avvenuto in altre realtà europee come Francia, Spagna e Gran Bretagna.

Francesco Lomonaco fu uno dei primi patrioti, se non il primo,[46] a preconizzare la formazione di un'Italia unita sotto un unico governo. Nel suo scritto Colpo d'occhio sull'Italia, contenuto nel Rapporto al cittadino Carnot (1800), egli recitò: «Perché vi sia in Europa bilancia politica è d'uopo che l'Italia sia fusa in un solo governo [...] Gli Italiani, avendo unico e proprio governo acquisteranno spirito di nazionalità, avendo patria godranno della libertà e di tutti i beni che ne derivano».[47]

Dopo Lomonaco, le personalità di spicco in questo processo furono molte tra cui: Giuseppe Mazzini, figura eminente del movimento liberale repubblicano italiano ed europeo; Giuseppe Garibaldi, repubblicano e di simpatie socialiste, per molti un eroico ed efficace combattente per la libertà in Europa ed in Sud America; Camillo Benso conte di Cavour, statista in grado di muoversi sulla scena europea per ottenere sostegni, anche finanziari, all'espansione del Regno di Sardegna; Vittorio Emanuele II di Savoia, abile a concretizzare il contesto favorevole con la costituzione del Regno d'Italia.

Vi furono gli unitaristi repubblicani e federalisti radicali contrari alla monarchia come Nicolò Tommaseo e Carlo Cattaneo; vi furono cattolici come Vincenzo Gioberti, Antonio Rosmini e Vincenzo d'Errico che auspicavano una confederazione di stati italiani sotto la presidenza del Papa (neoguelfismo) o della stessa dinastia sabauda; vi furono docenti ed economisti come Giacinto Albini e Pietro Lacava, divulgatori di ideali mazziniani soprattutto nel Meridione.

Trascorsa la fase delle società segrete, sviluppatasi soprattutto tra il 1820 ed il 1831, durante i due decenni successivi presero corpo le due correnti principali che promossero con piena consapevolezza ed incisività politica il processo risorgimentale, quella democratica e quella moderata.

Gli anni della restaurazione

Dopo la sconfitta definitiva di Napoleone il Congresso delle potenze vincitrici riunitosi a Vienna decise di restaurare i sovrani detronizzati in nome del principio di legittimità, talora sacrificato per l'assetto dell'equilibrio di potere (balance of power) tra le potenze europee. Per assicurare il mantenimento dell'ordine, essendo la restaurazione avvenuta senza considerare le volontà popolari e talora imponendo un nuovo dominio diverso da quello pre-napoleonico, come nel caso dell'annessione del Veneto all'Impero austro-ungarico, e dell'unione del Regno di Sicilia a quello di Napoli nel Regno delle due Sicilie, venne sviluppato il principio d'intervento e della sovranità limitata degli stati. Dove la situazione politica di uno stato mettesse in pericolo l'ordine negli altri stati, si previde la creazione di uno strumento repressione internazionale chiamato Santa Alleanza a cui avrebbero partecipato forze armate delle potenze vincitrici. Il patto fu stipulato tra l'Austria, la Prussia, la Russia; successivamente il 20 novembre 1815 la Gran Bretagna aderì a quella che fu chiamata la Quadruplice Alleanza, che l'entrata della Francia di Luigi XVIII nel 1818 trasformò nella Quintuplice Alleanza.

Il Congresso concordò inoltre incontri periodici (il cosiddetto Concerto d’Europa), al fine di controllare lo stato dell'ordine internazionale, appianare i contrasti e assicurare la pace: uno strumento questo così efficace che fino alla guerra di Crimea vennero evitati conflitti tra le potenze europee.

Dopo il Congresso di Vienna, l'influenza francese e rivoluzionaria rimase nella vita politica italiana attraverso la circolazione delle idee e la diffusione di gazzette letterarie; fiorirono salotti borghesi che, sotto il pretesto letterario, crearono veri e propri club di tipo anglosassone o giacobino, spesso di modello iniziatico e massonico. Tali circoli si prestarono talvolta a coprire alcune società segrete[52] che andavano formandosi, come i Filadelfi e gli Adelfi, trasformatisi infine nei Sublimi Maestri Perfetti di Filippo Buonarroti.

I moti carbonari

In questo panorama patriottico settario, la principale associazione politica segreta fu quella della Carboneria, originariamente nata a Napoli nel 1814 per opporsi alla politica filonapoleonica di Gioacchino Murat; dopo la caduta di quest'ultimo e l'insediamento o il ritorno sui troni in alcuni stati della penisola italiana di sovrani illiberali tramite l'intervento delle truppe austriache, la Carboneria si diffuse nella penisola assumendo un carattere cospiratorio con lo scopo di trasformare questi stati in stati costituzionali provocandovi moti rivoluzionari.

1817

Il primo moto carbonaro venne tentato a Macerata, nello Stato pontificio, nella notte tra il 24 e il 25 giugno 1817, ma la polizia papalina, informata dei preparativi, soffocò l'azione sul nascere. Tredici congiurati furono condannati a morte e poi graziati da papa Pio VII.[53]

Nel luglio del medesimo anno le rimanenti truppe austriache, ancora presenti a Napoli dopo aver riportato i Borboni sul trono, completarono il loro ritiro dal Regno delle Due Sicilie e il generale austriaco Laval Nugent von Westmeath divenne comandante supremo dell'esercito delle Due Sicilie e Ministro della guerra

1820-1823

« Non fia loco ove sorgan barriere / Tra l’Italia e l’Italia, mai più! / L’han giurato: altri forti a quel giuro / Rispondean da fraterne contrade, »
(Alessandro Manzoni, Marzo 1821)

L'arresto di Silvio Pellico e Pietro Maroncelli (1820)
Nel porto spagnolo di Cadice il 1 gennaio 1820 gli ufficiali delle forze militari che avrebbero dovuto reprimere la rivolta di Simón Bolívar nell'America del sud rifiutarono di imbarcarsi. Il loro pronunciamiento si estese a tutta la Spagna, obbligando il re Ferdinando VII a concedere nuovamente il 10 marzo dello stesso anno la Costituzione di Cadice del 1812.

Le notizie di questi avvenimenti accesero gli animi dei carbonari italiani provocando i moti costituenti degli anni 1820-1821 che, pur avendo tutti come finalità la progressiva liberalizzazione dei regimi assolutistici, assunsero tuttavia connotazioni diverse da Stato a Stato e da città a città.

In Sicilia una rivolta separatista esplose il 15 luglio 1820 con la formazione di un governo a Palermo che ripristinò la Costituzione siciliana del 1812. I separatisti del governo provvisorio inviarono una lettera al re dove dichiaravano che: «Dal 1816 in poi, la Sicilia ebbe la sventura di essere cancellata dal novero delle nazioni e di perdere ogni costituzione. Noi domandiamo l'indipendenza della Sicilia e i voti non sono solo di Palermo ma della Sicilia intera e la maggior parte del popolo siciliano ha pronunziato il suo voto per l'indipendenza». Il 7 novembre 1820 il Borbone inviò un esercito agli ordini di Florestano Pepe (poi sostituito dal generale Pietro Colletta) che riconquistò la Sicilia attraverso lotte sanguinose e ristabilì la monarchia assoluta risottomettendo la Sicilia a Napoli.

A Napoli i moti iniziati il 1 luglio del 1820 ad opera di due giovani ufficiali, Michele Morelli (1790-1822) e Giuseppe Silvati (1791-1822), culminarono con la presa della città: il generale Guglielmo Pepe, comandante degli insorti, riuscì ad imporre al re Ferdinando I la concessione della costituzione.

Per riportare l'ordine negli stati che si erano sollevati le potenze europee della Quadruplice alleanza si riunirono nel dicembre del 1820 al Congresso di Troppau. Ferdinando I convocato nel successivo Congresso di Lubiana nel gennaio 1821 ebbe il permesso di recarvisi dal governo rivoluzionario, dietro il giuramento di difendere la costituzione di fronte al consesso europeo. Il re tuttavia, sconfessando gli impegni presi alla partenza da Napoli col parlamento napoletano, richiese l'intervento militare degli Austriaci, che sconfissero l'esercito napoletano, guidato da Pepe, nella battaglia di Antrodoco il 7 marzo 1821 e conquistarono Napoli il 23 marzo. La costituzione venne annullata e trenta rivoluzionari furono condannati a morte (tra cui Pepe, Morelli e Silvati).

A Palermo, nell'agosto 1821, vennero costituite venti "vendite" carbonare, con la finalità di abbattere il governo e avere la costituzione spagnola; il moto era guidato dal sacerdote Bonaventura Calabrò, che organizzò una rivolta prevista il 12 gennaio 1822, creando un nuovo vespro. Tuttavia il susseguirsi delle riunioni insospettì la polizia borbonica, che convinse un congiurato al doppio gioco. Nella notte dell'11 gennaio iniziarono i primi arresti e confessioni, un timido tentativo di rivolta che avvenne l'indomani fu represso e i congiurati imprigionati. Il 31 gennaio, nove dei congiurati, tra cui due sacerdoti, furono condannati a morte e le loro teste, rinchiuse in gabbie di ferro, rimasero appese a Porta San Giorgio fino al 1846.

In Basilicata, tra i promotori dei moti carbonari vi furono il medico Domenico Corrado e i fratelli Francesco e Giuseppe Venita, in passato militari borbonici, che invano tentarono di sollevare l'intera regione per la salvaguardia della Costituzione. Le loro attività sovversive incitarono il governo borbonico ad inviare un reggimento capeggiato dal generale austriaco Roth che, dopo averli scovati a Calvello, li condannò a morte tramite fucilazione assieme ad altri rivoluzionari mentre Corrado fu condotto a Potenza dove venne passato per le armi; le condanne si consumarono tra il marzo e l'aprile del 1822.

Mentre a Napoli i rivoltosi ebbero come unica finalità la promulgazione della costituzione, a Torino l'insurrezione scoppiata nel gennaio 1821 accolse tensioni e inquietudini anti-austriache, già manifestatesi in quella città con i moti studenteschi soffocati nel sangue dalla polizia sabauda. Questi ultimi moti videro come protagonista alcuni degli uomini simbolo del Risorgimento, tra i quali Santorre di Santarosa.

Anche a Milano una componente patriottica e anti-austriaca partecipò ai moti, fra i cui ispiratori va citato il forlivese Piero Maroncelli, che però venne arrestato dalla polizia austriaca. La scoperta di alcuni documenti compromettenti permise così alle autorità di stroncare l'insurrezione, alla quale avrebbe preso parte Federico Confalonieri, rinchiuso, subito dopo il fallimento del moto, nella Fortezza dello Spielberg, dove erano già custoditi da alcuni mesi il Maroncelli e Silvio Pellico, a seguito del celebre processo Maroncelli Pellico[59]. Le successive repressioni spinsero all'esilio molti patrioti italiani, come Antonio Panizzi, che proseguirono all'estero la loro azione, impegnandosi propagandisticamente e stabilendo contatti con personalità delle potenze straniere interessate a risolvere il problema italiano.

Il periodo dei moti liberali si chiuse a fine settembre 1823, con la resa di Cadice, dopo la battaglia del Trocadero, a cui partecipò anche Carlo Alberto di Savoia, vinta dalle forze francesi di Luigi XVIII, incaricato dalle potenze della Santa Alleanza di ripristinare con la forza la monarchia assoluta in Spagna.

1824-1847

In Romagna nel 1824, dopo l'uccisione del direttore di polizia di Ravenna Domenico Matteucci, ad opera di una cospirazione carbonara, il cardinale Agostino Rivarola venne inviato per reprimerla. Rivarola, nominato "cardinal legato a latere", fece condurre un'indagine che portò ad un processo e alla sentenza del 31 agosto 1825, con la quale vennero condannate, a varie pene, 514 persone appartenenti a tutti gli strati sociali. Successivamente fu concessa la commutazione della pena ai sette condannati alla pena capitale e la grazia per molti altri.

Nuove insurrezioni si ebbero nel Cilento nel 1828 per ottenere il ripristino della Costituzione che nel 1820 era stata concessa nel Regno delle Due Sicilie. Il tentativo dei rivoltosi si concluse tragicamente con trentatré condanne a morte e il paesino di Bosco raso al suolo a cannonate dal maresciallo Del Carretto[61], e in Emilia-Romagna, tra il 1830 e il 1831, con la nascita di un effimero Stato delle Province Unite Italiane, represso con l'intervento delle truppe austriache.

Nel 1832 riprese la ribellione in Romagna, repressa dal cardinale Albani che intervenne con forze sanfediste. Dopo un primo scontro con le guardie civiche, il 20 e 21 gennaio, che si caratterizzò con le "stragi di Cesena e Forlì", altre battaglie vi furono il 24 gennaio a Faenza, il 25 a Forli. La riunione delle forze papaline con le truppe austriache e quindi il loro ingresso il 26 a Bologna concluse la rivolta. Per bilanciare l'intervento austriaco a Bologna, i francesi il 26 febbraio occuparono Ancona dove rimasero per sei anni.

Nel 1832, fu pubblicata a Torino l'autobiografia di Silvio Pellico, Le mie prigioni, con la descrizione delle dure condizioni di vita dei prigionieri politici in regime di carcere duro nella fortezza austriaca dello Spielberg: tra gli episodi più commoventi per i lettori dell'epoca, l'amputazione di una gamba del Maroncelli. Il libro ebbe una vasta risonanza, sia in Italia che nei salotti europei, accentuando nei patrioti italiani i sentimenti antiaustriaci. Nel 1849 Metternich commenterà che quel libro aveva danneggiato l'Austria più di una battaglia persa. Nell'anno successivo, 1833, venne pubblicato il romanzo storico Ettore Fieramosca, o la disfida di Barletta di Massimo D'Azeglio, che riprende un evento storico medioevale allo scopo di risvegliare il patriottismo degli italiani. Nel 1834 avvenne il fallimento dell'invasione della Savoia per suscitare una rivolta nel Regno sardo-piemontese, organizzata da Mazzini e guidata sul campo da Ramorino.

Il 12 luglio 1837, in seguito a voci incontrollate sull'arrivo nel porto di una nave contagiata dal colera si ebbe l'insurrezione di Messina, seguita nel volgere di pochi giorni dalla insurrezione di Catania e Siracusa richiedenti il ripristino della Costituzione del 1812, questi moti siciliani furono repressi da Del Carretto, e terminati con la fucilazione di numerosi patrioti. Il 23 del medesimo mese insorse Penne in Abruzzo, sotto la guida di Domenico de Caesaris, la rivolta fu repressa dal colonnello Tanfano e si concluse con la fucilazione di otto rivoltosi. Tanfano sarà ucciso quattro anni dopo, durante l'insurrezione antiborbonica dell'Aquila dell 8 settembre 1841, terminata anch'essa con la fucilazione di tre insorti.

Rivolte mazziniane

A partire dai primi anni trenta dell'Ottocento si impose come figura di primo piano Giuseppe Mazzini (1805-1872) divenuto membro della Carboneria nel 1830. La sua attività di ideologo e organizzatore rivoluzionario lo costrinse a lasciare l'Italia nel 1831 per fuggire a Marsiglia, dove fondò la Giovine Italia, un movimento che raccoglieva le spinte patriottiche per la costituzione di uno Stato unitario e repubblicano, da inserire in una più ampia prospettiva federale europea. Mazzini rifiutava l'idea del settarismo carbonaro, per sostenere una spinta rivoluzionaria dal basso, fondata sull'azione delle masse popolari e sul coinvolgimento diretto delle popolazioni.

Condividendo il programma mazziniano Giuseppe Garibaldi (1807-1882) prese parte ai falliti sommovimenti rivoluzionari in Piemonte del 1834. Condannato a morte dal governo sabaudo e costretto a fuggire in Sud America, partecipò ai moti rivoluzionari in Brasile ed Uruguay.

Il Regno delle Due Sicilie, fino a quel momento non aveva seguito questi sviluppi, era caratterizzato per una forte repressione politica, culminata nel 1844 nel soffocamento dei moti tentati dai giovani fratelli Attilio (1810–1844) ed Emilio Bandiera (1819–1844), disertori della marina austriaca, fatti fucilare dal re Ferdinando II per aver tentato un'improvvisata spedizione di tipo mazziniano in Calabria.

Per la mancanza di coordinamento tra i congiurati, per l'assenza e l'indifferenza delle masse, tutte le rivolte mazziniane fallirono.

I congressi scientifici prima del '48

Il regime "liberale" del Granducato di Toscana permise nel 1839 la nascita della Società Italiana per il Progresso delle Scienze a Pisa, dove verrà organizzato il "Primo congresso degli scienziati italiani" (1839), a cui parteciparono studiosi dai vari stati della penisola: la prima riunione pubblica di uomini di scienza riuniti sotto il comune attributo di "italiani". I congressi proseguirono a cadenza annuale, nei diversi stati: Torino, Firenze, Padova, Lucca, Milano, Napoli (che fu il più numeroso, con circa 1600 partecipanti), Genova ed infine, nel 1847, Venezia; i moti insurrezionali dell'anno successivo ed i conseguenti irrigidimenti dei regimi impedirono successivi congressi fino al congresso di Firenze del 1861. Oltre al loro contenuto scientifico, questi congressi permisero scambi di idee e confronti nella nuova classe intellettuale italiana che andava formandosi, ed erano anche visti come una possibilità di discutere delle vicende italiane come la liberalizzazione commerciale, la necessità di una lega doganale, la costruzione di ferrovie, mascherando sotto questi progetti di modernità economica e strutturale la fondamentale esigenza di un'unificazione politica.

Il biennio delle riforme

Nel cosiddetto biennio delle riforme (1846-1848), a seguito del fallimento dei moti rivoluzionari mazziniani, prendono vigore progetti politici di liberali moderati, tra cui spiccano Massimo d'Azeglio, Vincenzo Gioberti e Cesare Balbo con "le speranze d'Italia" i quali, sentendo soprattutto la necessità di un mercato unitario come premessa essenziale per un competitivo sviluppo economico italiano, avanzano programmi riformisti per una futura unità italiana nella forma accentrata o federativa. Nasce così il movimento neoguelfo che riscuote un grande successo presso l'opinione pubblica in coincidenza con l'elezione il 16 giugno 1846 di papa Pio IX, ritenuto un "liberale", e il 17 luglio, in accordo con i desideri dei liberali, il nuovo pontefice concesse una amnistia ai prigionieri, alimentando le speranze dei sostenitori neoguelfi, e di molti patrioti italiani, di un sostegno attivo del papa per l'ottenimento dell'indipendenza nazionale.

Sotto la spinta di queste novità molti stati italiani attuarono diverse riforme modernizzatrici: nel Granducato di Toscana fu ampliata la libertà di stampa e si ebbe la formazione di una guardia civica, nel Regno di Sardegna si ebbero riforme in senso liberale dell'ordinamento giudiziario.

Nel 1847 Pio IX prese la decisione di proporre al regno piemontese e al granducato di Toscana l'unione in una "Lega doganale" per favorire la circolazione delle merci; l'iniziativa si fermò dopo la firma di un accordo di intenti il 3 novembre 1847, nel tentativo di coinvolgere il ducato di Modena; l'inizio delle agitazioni del 1848 fece definitivamente tramontare il progetto.

Il 28 novembre 1847 re Carlo Alberto effettuò l'unione politica e amministrativa di tutti i territori da lui governati, trasformando il Regno di Sardegna in un unico stato, con un unico parlamento e medesime leggi per tutti i sudditi dei diversi territori.

Sempre nel 1847 il musicista Michele Novaro, sul testo del patriota e poeta Goffredo Mameli, compose l'inno Il Canto degli italiani, più noto come "Fratelli d'Italia" dalla prima strofa, che in breve divenne popolare e suonato come inno dai patrioti italiani, dopo un secolo diventerà l'inno nazionale della Repubblica Italiana.

La "primavera dei popoli" e la Prima guerra d'indipendenza

«Pochi sanno che la grande fiammata rivoluzionaria del 1848 che investì l'Italia e l'Europa, e dalla quale ha inizio il nostro Risorgimento nazionale, fu accesa proprio a Reggio il 2 settembre 1847.»

Gli anni 1847-1848, la cosiddetta "Primavera dei popoli", videro lo sviluppo di vari movimenti rivoluzionari in tutta Europa; sommosse scoppiarono il 23 febbraio in Francia, il 28 febbraio nello Stato di Baden che iniziò la rivolta che velocemente si estese a tutti gli stati tedeschi e il 13 marzo raggiunse l'Austria, il 15 marzo insorse l'Ungheria, il 28 marzo la Polonia.

Una rivolta mazziniana organizzata da Domenico Romeo il 2 settembre 1847 scoppiò a Reggio Calabria dove s'insediò un governo provvisorio che nel distretto di Gerace aveva il comando militare. Anche questa insurrezione, per la mancata partecipazione popolare e la frantumazione dei comandi militari, si concluse con la repressione armata dell'esercito borbonico e la fucilazione dei promotori.

Il 12 gennaio 1848 scoppiò una rivolta indipendentista in Sicilia che, propagatasi a Napoli, costrinse il sovrano a promulgare l'11 febbraio del 1848 una costituzione simile a quella francese del 1830. Gli altri sovrani italiani dovettero seguire rapidamente l'esempio di Ferdinando II: Leopoldo II di Toscana concesse lo Statuto il 17 febbraio, quindi il 4 marzo Carlo Alberto promulgò lo Statuto albertino e il 14 marzo fu la volta dello Stato Pontificio. Il 1 aprile il parlamento siciliano, riunito a Palermo decretò: "Che il Potere Esecutivo dichiari a nome della Nazione agli altri Stati d'Italia, che la Sicilia già libera ed indipendente intende a far parte unione e federazione Italiana", e l'invio come dono di tre bandiere nazionali a Roma, Piemonte e Toscana col motto: A [nome dello Stato Italiano] Sicilia Indipendente ed Italiana. Il 13 aprile il parlamento siciliano completo' l'indipendenza siciliana con una nuova delibera in cui decretava: "1) Ferdinando Borbone e la sua dinastia sono per sempre decaduti dal Trono di Sicilia., 2. La Sicilia si reggerà a Governo Costituzionale, e chiamerà al Trono un principe Italiano dopochè avrà riformato il suo Statuto".

Ferdinando II, pochi mesi dopo la concessione della costituzione a Napoli, sciolse le camere ripristinando l'assolutismo (15 maggio). Ciò provocò la ribellione dei liberali in diverse zone del regno e a Napoli, in Via Toledo. La sommossa napoletana fu repressa nel sangue, con le truppe mercenarie svizzere, con 500 morti tra i patrioti[71] tra i quali lo scrittore lucano Luigi La Vista e il filosofo Angelo Santilli, morti rispettivamente a soli 22 e 25 anni.

In Italia il 1848 fu principalmente segnato dalla decisione da parte del Regno di Sardegna di farsi promotore dell'unità italiana, anticipando l'azione del movimento rivoluzionario e dei mazziniani, temendone la spinta sovvertitrice e la possibilità che questa assumesse il ruolo guida nel processo di unificazione. Primo passo in tal senso fu la Prima Guerra d'Indipendenza, anti austriaca, scoppiata a seguito della rivolta vittoriosa antiaustriaca delle Cinque giornate di Milano (1848). La guerra si svolse in tre fasi: una prima campagna militare (dal 23 marzo al 9 agosto 1848) iniziata con l'appoggio dallo Stato Pontificio e dal Regno delle due Sicilie. Questi ultimi due stati si ritirarono ben presto dal conflitto, ma gran parte dei loro soldati scelsero di rimanere e continuare a combattere l'Austria con l'esercito piemontese assieme agli altri volontari italiani tra i quali Giuseppe Garibaldi. Vi fu poi un armistizio e una seconda campagna militare (dal 20 al 24 marzo 1849).

La guerra condotta e definitivamente persa da Carlo Alberto a seguito della sconfitta nella battaglia di Custoza e nella Battaglia di Novara, si concluse territorialmente con un sostanziale ritorno allo statu quo ante e, a seguito dell'abdicazione del padre, con la salita al trono di Vittorio Emanuele II che, diversamente da quanto fecero gli altri governanti italiani, non ritirò lo Statuto Albertino concesso dal padre, così che il suo regno rimase l'unico stato costituzionale nella penisola italiana ed anche l'unico a conservare il tricolore come bandiera nazionale.

In occasione di questo conflitto con l'Austria assunsero notevole importanza alcune esperienze repubblicane di durata temporanea e senza un loro esito finale positivo. Dal febbraio 1849 al luglio 1849 si svolse la vicenda della Repubblica Romana, che vide Pio IX fuggire dalla città e rifugiarsi nella fortezza di Gaeta come ospite di Ferdinando II di Borbone, mentre il governo a Roma veniva assunto dal triumvirato di Giuseppe Mazzini, Aurelio Saffi e Carlo Armellini. La Repubblica Romana, che comprendeva tutte le terre già pontificie, fu sciolta con gli interventi militari degli austriaci che assediarono Ancona, entrandovi dopo un duro assedio navale e terrestre il 21 giugno 1849, e dei francesi che attaccarono Roma, cancellando la prospettiva di una soluzione neoguelfa per l'unità della nazione.

Anche il Veneto insorse: a Venezia, con un'insurrezione iniziata il 17 marzo 1848 nasceva la Repubblica di San Marco che ridava temporaneamente la libertà alla città, nel Cadore per circa due mesi una piccola armata di volontari, guidati da Pietro Fortunato Calvi, sbarrò l'accesso alla regione alle armate austriache. Venezia resistette ad un lungo assedio fino alla sua capitolazione il 27 agosto 1849, dopo una dura lotta, a seguito dell'intervento militare austriaco che ripristinava il dominio sul Veneto.

Nei territori lombardi sottoposti al dominio austriaco, scoppiarono anche piccole rivolte locali: dopo l'Armistizio di Salasco nell'ottobre 1848 si ebbero moti mazziniani in Val d'Intelvi, alla ripresa delle ostilità nel 1849 Como insorse e dopo la definitiva sconfitta piemontese nel 1849 ci fu l'episodio delle Dieci giornate di Brescia, che vide la città resistere sino a fine marzo 1849, per dieci giorni, alle truppe austriache, che, dopo la loro vittoria alla battaglia di Novara, rioccuparono le campagne lombarde; al termine dei combattimenti la città fu lasciata al saccheggio della truppa austriaca.

La Toscana, proclamatasi repubblica toscana il 15 febbraio 1849, con la guida del triumvirato Guerrazzi, Montanelli, Mazzoni venne ricondotta sotto il granduca Ferdinando II a seguito dell'invasione armata austriaca nel maggio 1849, che ebbe i momenti più drammatici nell'assedio e sacco di Livorno.

Il Regno di Sicilia fu militarmente riconquistato dall'esercito borbonico dopo la presa di Palermo il 14 maggio 1849 da parte di Carlo Filangieri.

Tutti i moti europei legati al 1848, furono repressi, nel volgere di due anni, secondo gli schemi della Restaurazione, tranne che in Francia, dove la Seconda Repubblica francese si sostituì alla monarchia di re Luigi Filippo Borbone d'Orléans con Luigi Napoleone che, dopo quattro anni, diventerà Napoleone III imperatore dei francesi. Gli eventi francesi provocarono la fine degli equilibri politici esistenti in Europa dal Congresso di Vienna, modificando le alleanze fra gli stati ed influiranno sulle vicende italiane, spingendo persino alcuni esuli napoletani a progettare l'insediamento sul trono di Napoli di Luciano Murat secondogenito di Gioacchino Murat. Il cambio di politica di Pio IX, il cui nome veniva invocato inizialmente dai patrioti italiani lo rese inviso divenendo uno dei loro maggiori bersagli polemici, e al contempo la difesa del papato, con l'azione militare delle truppe inviate a Roma, permise alla Francia di Napoleone III di ampliare la sua sfera d'influenza nella penisola in opposizione a quella austriaca che si trovo' indebolita.

Molti patrioti finirono giustiziati, altri esiliati, una parte di quest'ultimi trovo' asilo in Piemonte, Carlo Cattaneo si esilio' a vita a Lugano, in Svizzera, nazione che proprio nel 1848 si era data la Costituzione confederale e dove inizialmente si rifugio' anche Mazzini che poi si mosse a Londra città che divenne un importante centro dei fuoriusciti italiani, il toscano Giuseppe Montanelli si rifugio' a Parigi, il presidente del governo siciliano Ruggero Settimo andò in esilio a Malta e Garibaldi, dopo un breve peregrinare, finì in America, ospite per un certo tempo di Antonio Meucci.

Il "decennio di preparazione"

Le azioni mazziniane

Nei dieci anni successivi alla sconfitta (il cosiddetto "decennio di preparazione") riprese inizialmente vigore il movimento repubblicano mazziniano, favorito anche dal fallimento del programma federalista neoguelfo; i mazziniani promossero una serie di insurrezioni, tutte fallite.

Quelle che più impressionarono l'opinione pubblica italiana ed europea furono l'esecuzione capitale dei martiri di Belfiore (1852) a Mantova, esito cruento della repressione austriaca contro le ribellioni avvenute negli anni precedenti nel Regno Lombardo Veneto, e la disastrosa spedizione di Sapri (1857), nel Regno delle Due Sicilie, condotta all'insegna del credo mazziniano per il quale ciò che contava era più che il successo il "dare l'esempio" e conclusasi con la morte di Carlo Pisacane e dei suoi 23 compagni, massacrati dai contadini assieme ad altri patrioti liberati all'inizio della spedizione dal carcere di Ponza. Fortemente impressionò la borghesia italiana anche la rivolta milanese del 6 febbraio 1853 che condotta con spirito mazziniano, ossia confidando in una spontanea partecipazione popolare e addirittura nell'ammutinamento dei soldati ungheresi dell'esercito austriaco, fallì miseramente nel sangue. Oltre che l'impreparazione e la superficiale organizzazione dei rivoltosi, operai d'ispirazione politica socialista, furono proprio i mazziniani, notoriamente in contrasto ideologico col marxismo, a contribuire al fallimento non facendo loro pervenire le armi promesse e mantenendosi passivi al momento dell'insorgere della rivolta. Un pugno di uomini armati di pugnali e coltelli andarono così consapevolmente incontro al disastro in nome dei loro ideali patriottici e socialisti.

A Napoli nel 1856, dopo un fallito attentato al re Ferdinando II, veniva condannato a morte il calabrese Agesilao Milano mentre in Sicilia veniva repressa una sommossa organizzata da Francesco Crispi e Francesco Bentivegna.

La crisi del movimento mazziniano favorisce nel 1857 la creazione in Piemonte della Società nazionale italiana, ad opera degli esuli Daniele Manin e Giuseppe La Farina e in probabile accordo con Cavour, a supporto del movimento unitario che si stava formando attorno al Piemonte, operando alla luce del sole nel regno sabaudo e clandestinamente negli altri stati italiani.

La realpolitik cavouriana

Nel 1850 Camillo Benso conte di Cavour entra nel governo piemontese: inizialmente come ministro per il commercio e l'agricoltura, divenendo poi anche ministro delle finanze e della Marina; infine è primo ministro il 4 novembre 1852, grazie ad un accordo tra le forse di centro-destra e di centro-sinistra. Fin dall'inizio come ministro del commercio intraprende un'azione che punta a molteplici accordi con le nazioni europee, stringendo accordi commerciali con Grecia, le città anseatiche, l'Unione doganale tedesca, la Svizzera e i Paesi Bassi, ed approfondisce i contatti con le potenze europee viaggiando nell'estate del 1852 ed incontrando a Londra il Ministro degli Esteri inglese Malmesbury, Palmerston, Clarendon, Disraeli, Cobden, Lansdowne e Gladstone e a Parigi il presidente Luigi Napoleone ed il ministro degli esteri francese. L'anno successivo Ludwig von Rochau introducendo il concetto di realpolitik col suo saggio Principles of Realpolitik ne porta come esempio l'azione di Cavour che prepara le basi "per una grande originale operazione nazionale".

Sotto Cavour si accentuano i contrasti con i conservatori clericali e il Regno di Sardegna, arrivando ad un punto di non ritorno con la scomunica papale comminata al Re Vittorio Emanuele II, a Cavour e a tutti membri del governo e del parlamento a seguito della Crisi Calabiana (1855) che si concluse con l'approvazione della legge sui conventi.

La Seconda guerra d'indipendenza

Il biennio 1859-1860 costituì una nuova fase decisiva per il processo d'unificazione, caratterizzato dall'alleanza tra la Francia di Napoleone III e il Regno di Sardegna siglata con gli accordi di Plombieres del 21 luglio 1858, che peraltro non prevedevano la completa unità italiana estesa a tutta la penisola.

Il 10 gennaio 1859 Vittorio Emanuele II, inaugurando i lavori del Parlamento subalpino, pronunciò un famoso discorso della Corona con l'affermazione: «Noi non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi»; frase che esprimeva un'accusa di malgoverno austriaco sugli italiani ai quali il re sabaudo si proponeva come loro soccorritore e una velata ricerca del "casus belli": elemento quest'ultimo necessario poiché, secondo gli accordi, Napoleone III sarebbe entrato in guerra solo in seguito ad un attacco austriaco al Piemonte.

Nel frattempo Garibaldi veniva autorizzato a condurre apertamente una campagna di arruolamento di volontari nei Cacciatori delle Alpi, una nuova formazione militare regolarmente incorporata nell'esercito sardo. L'Austria colse nelle parole del sovrano piemontese e nel riconoscimento ufficiale dei volontari agli ordini del noto rivoluzionario mazziniano Garibaldi, che veniva stanziato ai confini del Lombardo-Veneto, una provocazione e una sfida. La possibilità però di una guerra all'Austria con l'alleato francese sembrava ancora lontana dal realizzarsi per l'opposizione dei cattolici francesi che vedevano in una guerra vittoriosa del Piemonte una probabile successiva annessione dello Stato pontificio, con la conseguente perdita del potere temporale del papa. Per allontanare il rischio di una guerra agiva anche la diplomazia inglese e prussiana che si adoperava per una conferenza di pace: si sapeva infatti che gli accordi di Plombieres prevedevano un insediamento della Francia nell'Italia centrale e meridionale che avrebbe alterato i rapporti di forza in Europa.[78]

Dopo mesi, durante i quali sembrava si potesse giungere a una pacificazione, giunse l'ultimatum austriaco al Piemonte con l'ingiunzione di disarmare l'esercito e il corpo dei volontari. Cavour in risposta all'intimazione austriaca dichiarò di voler resistere all'«aggressione» e a fine aprile giunse la dichiarazione di guerra degli austriaci che attaccarono il Piemonte attraversando il confine sul fiume Ticino (26 aprile).

Il 12 maggio 1859 l'alleato francese Napoleone III, sulle orme del "grande zio", secondo gli accordi convenuti, entrò in guerra al comando dell'Armée d'Italie. Seguirono nel periodo maggio-giugno una serie di vittorie franco-piemontesi, ma con un alto numero di perdite, mentre i Cacciatori delle Alpi al comando di Garibaldi dopo aver preso Varese, Bergamo, Brescia continuavano ad avanzare verso il Veneto.

Alle notizie della guerra all'Austria il 27 aprile 1859 i ducati emiliani, le legazioni pontificie, e il Granducato di Toscana, dopo l'abbandono del granduca Leopoldo, chiedevano ed ottenevano l'invio di commissari sabaudi per l'annessione al Regno sardo.

Questi avvenimenti che sconvolgevano gli accordi di Plombieres sulla spartizione degli stati italiani, il malcontento dell'opinione pubblica francese per l'alto numero di morti nella guerra in Italia, l'opposizione dei cattolici francesi che vedevano realizzarsi i loro timori per la perdita dell'autonomia papale, spinsero Napoleone III ad accettare di firmare un armistizio (11 luglio 1859) con l'imperatore Francesco Giuseppe d'Asburgo ("preliminari di pace di Villafranca") che concedeva ai Piemontesi la sola Lombardia (eccetto Mantova e Peschiera del "Quadrilatero") in cambio dell'abbandono delle terre già occupate nel Veneto e della rinuncia a soddisfare le richieste di annessioni.

Vittorio Emanuele accettò le condizioni di pace e ritirò i commissari regi dalle città di Firenze, Parma, Modena, Bologna dove però i governi provvisori si opposero alla restaurazione ipotizzando anche una forza militare comune di difesa, mentre le truppe papaline riprendevano militarmente il controllo dell'Umbria ribellatasi.

Nel frattempo il quadro internazionale cambiava e l'Inghilterra si mostrava favorevole ad una situazione italiana dove la Francia non avrebbe avuto alcun peso mentre uno Stato unitario italiano poteva costituire un valido punto d'equilibrio in Europa sia nei confronti della Francia che dell'Austria.

Il ritiro unilaterale dei francesi rendeva nulli gli accordi di Plombières, ma il prezzo stabilito da Napoleone III per permettere l'annessione dell'Italia centrale fu il riportare in vita le clausole del trattato segreto del 1859 - che prevedevano la cessione della Savoia e il Nizzardo alla Francia, in cambio del riconoscimento da parte di quest'ultima delle annessioni dell'Emilia e della Toscana che, tramite i plebisciti dell'11 e 12 marzo 1860, entrarono a far parte del Regno di Sardegna. Il 12 marzo 1860 fu firmato con la Francia un altro trattato segreto in tal senso.

La Spedizione dei Mille e la proclamazione del Regno d'Italia

Ulteriore passo verso l'unità fu la spedizione "dei Mille" garibaldini in Sud Italia.[80], preceduta sull'isola da piccoli moti rivoluzionari. Questa era formata da poco più di un migliaio di volontari provenienti in massima parte dalle regioni settentrionali e centrali della penisola, appartenenti sia ai ceti medi che a quelli artigiani e operai; fu l'unica impresa risorgimentale a godere, almeno nella sua fase iniziale, di un deciso appoggio delle masse contadine siciliane, all'epoca in rivolta contro il governo borbonico e fiduciose nelle promesse di riscatto fatte loro da Garibaldi. «Il profondo malcontento delle masse popolari delle campagne e delle città, sebbene avesse le sue radici nella miseria e quindi nella struttura di classe della società, si rivolgeva contro il governo prima ancora che contro le classi dominanti».

Dopo la battaglia di Calatafimi, dove fu determinante per la vittoria la partecipazione dei contadini siciliani, con la partecipazione di 200 picciotti siciliani e circa 2.000 contadini locali in aggiunta ai 1.089 volontari garibaldini, e la conquista di Palermo, mentre le truppe regie si ritirano verso Messina, secondo Del Carria "con la metà di giugno si spezza definitivamente l'alleanza tra borghesi e contadini per dar luogo all'alleanza tra borghesi isolani e borghesia continentale rappresentata dai garibaldini e dai moderati"[83], significativa in tal senso è la repressione ordinata a Nino Bixio, della ribellione contadina avvenuta a Bronte e a rischio di estensione in tutta la regione del catanese.

Mentre Garibaldi avanzava da sud, in agosto insorse la Basilicata (la prima provincia a dichiararsi parte d'Italia nella zona continentale del Regno delle Due Sicilie), arrivando ad avere un governo provvisorio che rimase in carica fino all'ingresso di Garibaldi a Napoli. Dopo Napoli, le truppe garibaldine si scontrarono un'ultima volta con quelle borboniche nella Battaglia del Volturno il 1º ottobre 1860. Con la vittoria di Garibaldi l'Italia meridionale veniva definitivamente sottratta ai Borbone, dinastia che in passato aveva dato a Napoli anche un grande sovrano, ma che «…ormai rappresentava, nella vita dell'Italia Meridionale, la peior pars…», cioè la parte peggiore, come scrisse Benedetto Croce. Anche lo storico e filosofo Ernest Renan, in viaggio nel Mezzogiorno d'Italia attorno al 1850, al pari degli altri viaggiatori e osservatori stranieri constatava l'«…affreuse tyrannie intellectuelle qui règne sur cette partie de l'Italie…»

Le truppe di Vittorio Emanuele II intanto entravano nello Stato della Chiesa scontrandosi il 18 settembre con l'esercito pontificio nelle Marche, durante la Battaglia di Castelfidardo, che sarebbe stato l'ultimo grande scontro armato prima dell'unità italiana. Dopo aver ottenuto la vittoria, le truppe piemontesi inseguirono quelle pontificie asserragliatesi ad Ancona, che venne subito assediata. Quando i pontifici cedettero anche là, fu possibile per il Piemonte annettere la Legazione delle Marche e quella dell'Umbria, a seguito di un plebiscito. Solo dopo esso si sarebbe potuto pensare alla proclamazione del Regno d'Italia in quanto, attraverso le Marche e l'Umbria, si sarebbero unite geograficamente le regioni del nord e del centro (confluite nel Regno di Sardegna in seguito alla seconda guerra d'indipendenza e alle conseguenti annessioni), con le regioni meridionali (conquistate da Garibaldi).

Dopo alcuni tentennamenti e sotto la pressione di Cavour e dell'imminente annessione di Marche ed Umbria alla monarchia sabauda, Garibaldi, pur di idee repubblicane, non pose ostacoli all'unione dell'ex Regno delle Due Sicilie al futuro Stato unificato italiano, che già si profilava all'epoca sotto l'egida di Casa Savoia. Tale unione fu formalizzata mediante il referendum del 21 ottobre 1860.

Il 17 marzo 1861 il parlamento subalpino proclamò Vittorio Emanuele II non re degli italiani ma «re d'Italia, per grazia di Dio e volontà della nazione». Non "primo", come re d'Italia, ma "secondo" come segno distintivo della continuità della dinastia di casa Savoia[89]; tre mesi dopo moriva Cavour che, nel suo primo discorso al Parlamento dopo la proclamazione del Regno d'Italia, aveva suggerito la linea politica di Libera Chiesa in libero Stato come soluzione al problema della persistenza del potere temporale in Italia, che impediva una soluzione pacifica affinché Roma, proclamata capitale del Regno, ma di fatto ancora capitale dello Stato pontificio, potesse effettivamente diventare la capitale del nuovo Stato e che conseguentemente condizionava la partecipazione dei cattolici, sensibili alle indicazioni di Pio IX, alla vita politica nazionale.

Il nuovo regno mantenne lo Statuto albertino, la costituzione concessa da Carlo Alberto nel 1848 e che rimarrà ininterrottamente in vigore sino al 1946.

Terza guerra di indipendenza e Roma capitale

La terza guerra di indipendenza

Quando Vittorio Emanuele II divenne re d'Italia, il 17 marzo 1861, il processo di unificazione nazionale non poteva considerarsi definitivo poiché il Veneto, il Trentino e il Friuli appartenevano ancora all'Austria e Roma, proclamata idealmente capitale del Regno era ancora sede papale.

La situazione delle terre irredente (come si sarebbe detto alcuni decenni più tardi) costituiva una fonte di tensione costante per la politica interna italiana e chiave di volta della sua politica estera. Le crescenti tensioni fra Austria e Prussia per la supremazia in Germania (sfociate infine nel 1866 nella guerra austro-prussiana) offrirono al neonato Regno d'Italia l'opportunità di effettuare un consistente guadagno territoriale e procedere sulla via dell'unificazione italiana.

L'8 aprile 1866 il Governo Italiano (guidato dal generale Alfonso La Marmora) concluse una alleanza militare con la Prussia di Otto von Bismarck, grazie anche alla mediazione della Francia di Napoleone III. Si era creata, infatti, un'oggettiva convergenza fra i due Stati che vedevano nell'Impero Austriaco l'ostacolo al rafforzamento dell'unità nazionale italiana in funzione antiaustriaca.

Secondo i piani prussiani, l'Italia avrebbe dovuto impegnare l'Austria sul fronte meridionale. Nel contempo, forte della superiorità navale, avrebbe portato una minaccia alle coste dalmate, distogliendo ulteriori forze dal teatro di guerra nell'Europa centrale.

Il 16 giugno 1866 la Prussia iniziò l'ostilità contro alcuni principati tedeschi alleati dell'Austria. All'inizio del conflitto, l'esercito italiano era diviso in due armate: la prima, al comando di Alfonso La Marmora, stanziata in Lombardia ad ovest del Mincio verso le fortezze del Quadrilatero; la seconda, al comando del generale Enrico Cialdini, in Romagna, a sud del Po, verso Mantova e Rovigo. Al comando della flotta fu designato il vecchio ammiraglio Carlo Pellion di Persano.

Il capo di Stato Maggiore generale La Marmora mosse per primo, incuneandosi fra Mantova e Peschiera, ove subì una sconfitta a Custoza il 24 giugno. Cialdini, al contrario, per tutta la prima parte della guerra non assunse alcuna posizione offensiva e non assediò neppure la fortezza austriaca di Borgoforte, a nord del Po. Custoza segnò un generale arresto delle operazioni, con gli Italiani che si riorganizzavano nel timore di un contrattacco austriaco. Gli Austriaci ne approfittarono per compiere due piccole offensive e saccheggi in Valtellina (operazioni in Valtellina) e in Val Camonica (battaglia di Vezza d'Oglio).

Tuttavia, a seguito di alcune importanti vittorie prussiane sul fronte tedesco, in particolare quella di Sadowa del 3 luglio 1866, gli Austriaci decisero di far rientrare a Vienna uno dei tre corpi d'armata schierati in Italia e diedero priorità alla difesa del Trentino e dell'Isonzo. Nelle settimane che seguirono, a Enrico Cialdini fu quindi affidato il grosso dell'esercito. Egli seppe guidare l'avanzata italiana da Ferrara a Udine: passò il Po e occupò Rovigo l'11 luglio, Padova il 12 luglio, Treviso il 14 luglio, San Donà di Piave il 18 luglio, Valdobbiadene e Oderzo il 20 luglio, Vicenza il 21 luglio, Udine il 26 luglio.

Nel frattempo i volontari di Giuseppe Garibaldi si erano spinti dal Bresciano in direzione della città di Trento aprendosi la strada il 21 luglio durante la battaglia di Bezzecca, mentre una seconda colonna italiana guidata da Giacomo Medici arrivava, il 25 luglio, in vista delle mura di Trento.

Queste ultime vittorie italiane vennero tuttavia oscurate, nella coscienza collettiva, dalla sconfitta della Marina a Lissa il 20 luglio.

L'esito generale della guerra fu determinato dalle importanti vittorie prussiane sul fronte tedesco, in particolare quella di Sadowa del 3 luglio 1866, ad opera del generale von Moltke. Il 9 agosto Garibaldi rispose all'ordine di ritirarsi dal Trentino, con il celebre e celebrato «Obbedisco». La cessazione delle ostilità venne sancita con l'Armistizio di Cormons, il 12 agosto 1866, seguito il 3 ottobre 1866 dal trattato di Vienna.

Secondo i termini del trattato di pace, l'Italia guadagnò Mantova e l'intera antica terraferma veneta (che comprendeva l'attuale Veneto e il Friuli occidentale). Rimanevano in mano austriaca il Trentino, il Friuli orientale, la Venezia Giulia e la Dalmazia. Le città di Trento e Trieste continuavano ad essere sotto il governo di Vienna.

In considerazione della pessima condotta italiana in guerra, gli austriaci ottennero di consegnare le province perdute alla Francia, che ne avrebbe fatto dono al Regno d'Italia. Il 4 novembre 1866 i Savoia ebbero consegnata dagli Asburgo la Corona Ferrea (simbolo della sovranità sull'Italia), già usata dai re longobardi, dagli imperatori del Sacro Romano Impero Germanico e dallo stesso Napoleone III. La corona tornò così alla sua sede storica nel Duomo di Monza. L'annessione al Regno d'Italia venne sancita da un plebiscito (a suffragio universale maschile) svoltosi il 21 e 22 ottobre, anche se già il 19 ottobre in una stanza dell'hotel Europa sul Canal Grande il generale Leboeuf (plenipotenziario francese e "garante" dello svolgimento della consultazione) firmò la cessione del Veneto all'Italia. Prima ancora del plebiscito le terre venete erano già state cedute ufficialmente al Regno d'Italia; "la Gazzetta di Venezia" il giorno successivo ne aveva dato notizia, in pochissime righe: "Questa mattina in una camera dell'albergo Europa si è fatta la cessione del Veneto".[91] Il 7 novembre 1866, pochi giorni dopo la proclamazione ufficiale dell'esito del plebiscito, Vittorio Emanuele II compì una visita solenne a Venezia. Le salme dei fratelli Bandiera e di Domenico Moro rientrarono il 18 giugno 1867, quella di Daniele Manin il 22 marzo 1868.

Roma capitale

Seppure alla proclamazione del Regno d'Italia il 17 marzo 1861 fosse stata indicata Roma come "capitale morale" del nuovo Stato, la città rimaneva la sede dello Stato Pontificio, per quanto ridotto di dimensioni. La Romagna era infatti già passata al Piemonte con i plebisciti seguiti alla Seconda Guerra d'Indipendenza; similmente era accaduto per le Marche e l'Umbria, in seguito alla Battaglia di Castelfidardo e al successivo plebiscito: lo Stato della Chiesa era ormai ridotto al solo Lazio. Il dominio temporale del papa rimaneva sotto la protezione delle truppe francesi dislocate a Roma; Garibaldi per due volte tentò di prendere Roma, venendo bloccato una volta sull'Aspromonte dall'esercito italiano inviato da Urbano Rattazzi e, in un secondo tentativo, sconfitto dai francesi nella battaglia di Mentana senza che, questa volta, vi fosse un intervento diretto del governo Menabrea che, in nome degli accordi con la Francia, fece arrestare Garibaldi a Figline e da lì tradotto a La Spezia da dove fu riportato a Caprera.

Solo dopo la sconfitta e cattura di Napoleone III a Sedan nella guerra franco-prussiana avvenuta il 1º settembre 1870, venne ritirato da Roma il contingente di truppe francesi a protezione del pontefice; le truppe italiane con bersaglieri e carabinieri in testa, pochi giorni dopo, il 20 settembre, entrarono dalla breccia di Porta Pia nella capitale.

Papa Pio IX, che si considerava prigioniero del nuovo Stato italiano, reagì scomunicando Vittorio Emanuele II, ritenendo inoltre non opportuno (non expedit), e poi esplicitamente proibendo che i cattolici partecipassero attivamente alla vita politica italiana, da cui si autoesclusero per circa mezzo secolo con gravi conseguenze per la futura storia d'Italia.

Dopo il plebiscito del 2 ottobre 1870 che sancì l'annessione di Roma al Regno d'Italia, nel giugno del 1871 la capitale d'Italia, già trasferita - in ottemperanza alla Convenzione di settembre (1864) - da Torino a Firenze, divenne definitivamente Roma

Il 20 settembre venne quindi fissato come festa nazionale, simbolo della conclusione, fino a quel momento, del periodo risorgimentale. La festività venne abolita nel 1929, con i Patti Lateranensi.

L'anno successivo Nizza tento' invano di ritornare italiana.

L'ideale conclusione e il completamento territoriale

Con Roma finalmente capitale inizio' anche un processo di unificazione culturale del paese, a cui contribuirono le pubblicazioni di alcuni libri destinati ad essere diffusi in tutta la nazione: nel 1870 esce la prima Storia della letteratura italiana scritta da Francesco de Sanctis, nel 1876 il Il Bel Paese dell'abate e patriota Antonio Stoppani che descrive ai suoi lettori gli aspetti fisici e umani semisconosciuti della penisola, nel 1881 Carlo Collodi pubblica Pinocchio un romanzo di formazione per ragazzi, nel 1886 esce altro romanzo Cuore di Edmondo De Amicis sempre rivolto ai giovani e scritto per inculcar loro le "virtù civili" e mantenere vivo il ricordo degli eventi risorgimentali, e nel 1891 Pellegrino Artusi pubblica La Scienza in cucina e l'Arte di mangiar bene, un testo che divenne popolare in poco tempo, ancor oggi ristampato e che secondo alcuni critici riusci' "a creare un codice di identificazione nazionale là dove fallirono gli stilemi e i fonemi manzoniani».

    Per approfondire, vedi le voci Quarta guerra di indipendenza italiana, Fronte italiano (prima guerra mondiale) e Prima guerra mondiale.

Dopo la fine della Grande Guerra una corrente storiografica iniziò ad individuare nel conflitto mondiale la conclusione del Risorgimento e dell'Unità d'Italia.

Tale visione fu condivisa da intellettuali nazionalisti e irredentisti dell'epoca , ma anche da alcuni storici liberali, fra cui Adolfo Omodeo, che fu «uno dei più accesi sostenitori della visione della Grande guerra come continuazione e compimento delle guerre di indipendenza e del Risorgimento...», per via del ricongiungimento con le terre irredente di Venezia Tridentina, Venezia Giulia, nonché la città di Zara. Essi attribuirono quindi il nome di quarta guerra di indipendenza alla Prima guerra mondial.

Successivamente la città di Fiume venne unita all'Italia nel 1924, dopo il Trattato di Rapallo, in seguito alle breve esperienza della Reggenza italiana del Carnaro, mentre per la Dalmazia, esclusa Zara, le aspirazioni degli irredentisti non furono mai raggiunte, escluso il breve periodo di esistenza del Governatorato di Dalmazia durante la Seconda guerra mondiale.

I problemi dello stato unitario

Molti e gravi furono i problemi che il nuovo Stato dovette affrontare.

Nord e Sud

Discordando con l'affermazione di Massimo D'Azeglio «Il primo bisogno d'Italia è che si formino Italiani dotati d'alti e forti caratteri. E pure troppo si va ogni giorno più verso il polo opposto: pur troppo s'è fatta l'Italia, ma non si fanno gl'Italiani», Cavour realisticamente scriveva che non solo gli italiani ma neppure l'Italia era "fatta": «Il mio compito è più complesso e faticoso che in passato. Fare l'Italia, fondere assieme gli elementi che la compongono, accordare Nord e Sud, tutto questo presenta le stesse difficoltà di una guerra con l'Austria e la lotta con Roma». Cavour ben sapeva come si fosse giunti all'unificazione in soli due anni grazie all'aiuto di circostanze favorevoli interne ed internazionali. Ora, tuttavia, si trattava di sanare quella che alcuni avevano definito una forzatura storica, un miracolo italiano

La nuova Italia aveva messo assieme popolazioni eterogenee per storia, per lingue parlate, per tradizioni ed usanze religiose (la sensibilità e gli usi legati al cattolicesimo erano differenti nelle varie parti d'Italia). Luigi Carlo Farini, inviato da Cavour, a Napoli in qualità di Luogotenente, il 27 ottobre 1860, gli descriveva la situazione in una lettera con queste frasi: «Che barbarie! Altro che Italia! Questa è Affrica. I beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile [...] E la canaglia dà il sacco alle case de' signori e taglia le teste, le orecchie a' galantuomini, e se ne vanta, e scrive a Gaeta: i galantuomini ammazzati son tanti e tanti; a me il premio. Anche le donne caffone ammazzano; e peggio: legano i galantuomini [...] pe' testicoli, e li tirano così per le strade; poi ne fanno ziffe zaffe: orrori da non credersi».

Secondo lo storico britannico Christopher Duggan (1957), docente di storia italiana nonché direttore del Centre for the Advanced Study of Italian Society all’Università di Reading, numerose figure di primo piano dell’epoca, tra cui molti meridionali esiliati dai Borbone, contribuirono a costruire e ad aggravare l’immagine del Meridione come terra barbara e incolta, ripetendo un luogo comune estremamente falso, diffuso da parecchio tempo prima dell'unificazione: che a sud di Roma iniziasse l'Africa.[107]. La cattiva fama dei meridionali risale a una frase, riportata dallo storico Giordano Bruno Guerri, di Metternich, espressa dopo la rivolta napoletana del 1820: «Un popolo mezzo barbaro, di una ignoranza assoluta, di una superstizione senza limiti, focoso e passionale come gli africani, un popolo che non sa né leggere né scrivere e che risolve le cose con il pugnale».

Le condizioni del Regno

Le condizioni di tutta l'Italia si presentavano arretrate rispetto agli stati industrializzati dell'Europa occidentale. La rete ferroviaria nel 1861 consisteva in appena 2100 chilometri di binari che in più erano stati progettati in modo di avere uno scartamento tale da impedire, per ragioni militari, il passaggio dei confini di uno Stato all'altro.

Molto alta la mortalità infantile, l'igiene precaria causava ricorrenti epidemie di colera, diffusa la malaria e la pellagra.

L'analfabetismo raggiungeva una percentuale nazionale del 75%, con punte del 90% in alcune zone del paese.

L'isolamento diplomatico e le minacce austriache imponevano per la difesa il rafforzamento dell'esercito e della marina.

La soluzione di questi problemi comportò un grande impegno finanziario per il nuovo Stato che dovette introdurre nel 1868 la tassa sul macinato, un'«imposta progressiva sulla miseria», una vera e propria tassa sul pane, fino ad allora sconosciuta nelle regioni del Centro e del Nord dove causò la ribellione dei contadini emiliani. Quintino Sella, ministro delle finanze del Regno d'Italia, che l'aveva con altri ideata, divenne nell'opinione popolare «l'affamatore del popolo».

L'abolizione delle dogane tra i vari stati comportò il fallimento delle piccole attività artigianali impossibilitate a reggere la concorrenza con la produzione industriale del Nord.

Il brigantaggio

«A Napoli, noi abbiamo altresì cacciato il sovrano per stabilire un governo fondato sul consenso universale. Ma ci vogliono e sembra che ciò non basti, per contenere il Regno, sessanta battaglioni; ed è notorio che, briganti o non briganti, niuno vuol saperne. Ma si dirà: e il suffragio universale? Io non so nulla di suffragio, ma so che al di qua del Tronto non sono necessari battaglioni e che al di là sono necessari. Dunque vi fu qualche errore e bisogna cangiare atti e principi. Bisogna sapere dai Napoletani un'altra volta per tutto se ci vogliono, sì o no. Capisco che gli italiani hanno il diritto di fare la guerra a coloro che volessero mantenere i tedeschi in Italia, ma agli italiani che, restando italiani, non volessero unirsi a noi, credo che non abbiamo il diritto di dare archibugiate, salvo si concedesse ora, per tagliare corto, che noi adottiamo il principio nel cui nome Bomba (Ferdinando) bombardava Palermo, Messina ecc. Credo bene che in generale non si pensa in questo modo, ma siccome io non intendo rinunciare al diritto di ragionare, dico ciò che penso. »
(Massimo D'Azeglio)

I dubbi espressi da D'Azeglio (briganti o non briganti) apparivano superati dalla storiografia risorgimentale che riprese la definizione di brigantaggio usata dallo stesso governo del Regno d'Italia[115] per mascherare agli occhi degli stati europei le gravi difficoltà politiche della avvenuta unificazione come una manifestazione di semplice criminalità.

Ad esempio lo storico Francesco Saverio Sipari insisteva nel considerare l'origine sociale del fenomeno, quando nel 1863 scrisse: «il brigantaggio non è che miseria, è miseria estrema, disperata.».

Così anche Giustino Fortunato che non lo considerò «un tentativo di restaurazione borbonica e di autonomismo» ma «un movimento spontaneo, storicamente rinnovantesi ad ogni agitazione, ad ogni cambiamento politico, perché sostanzialmente di indole primitiva e selvaggia, frutto del secolare abbrutimento di miseria e di ignoranza delle nostre plebi rurali».

Lo stesso Benedetto Croce vede nel brigantaggio l'ultimo sostegno di una monarchia, quella borbonica, che ancora una volta aveva chiamato in suo aiuto «...o piuttosto a far le sue vendette, le rozze plebi, e non trovando altri campioni che truci e osceni briganti...».

Accanto alla miseria, alcuni invece identificarono nel brigantaggio un fenomeno di resistenza al nuovo stato italiano. Il deputato liberale Giuseppe Ferrari disse: «I reazionari delle Due Sicilie si battono sotto un vessillo nazionale, voi potete chiamarli briganti, ma i padri e gli Avoli di questi hanno per ben due volte ristabiliti i Borboni sul trono di Napoli.».

Alla fine gran parte degli storici hanno inquadrato tale fenomeno come espressione di un disagio autentico, manifestatosi con le forme di una vera e propria guerra civile (1861-1865).

In realtà il brigantaggio era nato e prosperava nel Mezzogiorno ben prima dell'annessione al Regno d'Italia[120], ma si era sviluppato ulteriormente negli anni sessanta dell'Ottocento in seguito all'invio di un gran numero di reparti dell'esercito (Ma ci vogliono e sembra che ciò non basti, per contenere il Regno, sessanta battaglioni... in Massimo D'Azeglio, Op.cit.)

Che si trattasse di un fenomeno ben radicato è dimostrato infine dal fatto che si ritenne necessario l'intervento dell'esercito regio e l'emanazione di leggi speciali (la legge Pica 1863), che applicavano la legge marziale nei territori del Mezzogiorno italiano.

La ricerca storica più recente ha contribuito a mettere in luce gli aspetti politici che motivarono la resistenza delle popolazioni meridionali prima nei confronti dei Borbone[121], poi del Regno d'Italia (con le conseguenti repressioni), superando definitivamente il modello che ha tentato per decenni di liquidare l'insorgenza meridionale come fenomeno esclusivamente banditesco.

La complessa problematica legata a tale resistenza non fu estranea (insieme ad altre concause) alla nascita della Questione meridionale.

Decentramento e accentramento

Cavour secondo i principi del liberalismo inglese era favorevole al decentramento:

«Il prof. E. Amari [autonomista siciliano], dottissimo giureconsulto come egli è, riconoscerà, io lo spero, che noi siamo non meno di lui amanti della discentralizzazione, che le nostre teorie sullo Stato non comportano la tirannia di una capitale sulle province.» In tal senso egli aveva presentato un progetto di legge con Farini e Minghetti il 13 marzo 1861 che «consisteva nel riunire insieme in consorzi obbligatori e permanenti quelle province che fossero più affine tra loro per natura di luogo, per comunanza d'interessi, di leggi, di abitudini.»[123] Il disegno di legge non poté essere sottoposto alla Camera per la morte improvvisa di Cavour e quando Minghetti presentò un analogo progetto di legge[124] dopo un lungo dibattito fu bocciato. Il progetto federalista di Minghetti prevedeva: «...un ordinamento che consenta di conservare le tradizioni e i costumi delle popolazioni locali. Ad ogni Grande Provincia [Regione] dovrà spettare il potere legislativo e l'autonomia finanziaria per quanto riguarda i lavori pubblici, l'istruzione, la sanità, le opere pie e l'agricoltura. Le Grandi Province e i Comuni dovranno ampliare...le rispettive basi elettorali estendendo il diritto di voto a tutti...senza escludere gli analfabeti. I sindaci non saranno più di nomina regia ma dovranno essere nominati dal consiglio comunale regolarmente eletto. Allo Stato spetteranno soltanto la politica estera, la difesa, i grandi servizi di utilità nazionale (ferrovie, poste, telegrafi e porti), nonché un'azione di vigilanza e controllo sull'operato degli enti locali.»

La nuova classe politica successa alla morte di Cavour nutrendo grandi timori che la recente unità fosse messa in pericolo da sommovimenti interni preferì imboccare la strada dell'accentramento autoritario estendendo a tutto il paese il sistema comunale e provinciale del Regno di Sardegna. L'Italia venne divisa in province sotto il controllo dei prefetti e i consigli comunali elettivi furono soggetti a sindaci nominati dal sovrano.

Come scrive Candeloro: «Fare una sola regione del Mezzogiorno continentale sembrava pericoloso per l'unità, ed era d'altra parte difficile dividerlo in regioni che avessero una certa vitalità, poiché nel Mezzogiorno non erano esistiti Stati regionali e di conseguenza, non vi erano allora, oltre Napoli, delle città adatte ad essere centri regionali.»

Interpretazioni storiografiche

L'assenza delle masse contadine e il contrasto città-campagna

Un filone di critica storiografica, elaborando le analisi che fece Antonio Gramsci nei suoi quaderni del carcere[127], che partì dalle considerazioni del meridionalista Gaetano Salvemini sulla non soluzione della questione contadina legata alla non soluzione della questione meridionale[128], ha sviluppato un'interpretazione che sostiene come nel Risorgimento italiano fosse stata assai limitata la partecipazione della masse popolari, soprattutto contadine, agli eventi che hanno caratterizzato l'unità nazionale italiana e come il Risorgimento possa essere considerato come una rivoluzione mancata.

«Quanto alla partecipazione contadina delle masse subalterne alle vicende della unificazione essa continuò ad essere assai modesta».

Lo storico Franco Della Peruta[130] constata come il problema dell'assenza delle masse contadine al movimento risorgimentale si ponesse sin dall'indomani dei moti del '48 alla coscienza degli stessi contemporanei di quegli avvenimenti.

Fin dal 1849, contrariamente a quanto sosteneva Mazzini, che cioè la questione sociale dovesse essere risolta solo dopo aver affrontato il problema dell'unità nazionale, un mazziniano, rimasto anonimo, scriveva sulla mazziniana "Italia del popolo": «la politica di classe adottata dal governo provvisorio milanese [...] causò la sopravvenuta freddezza dei contadini di Lombardia verso la guerra nazionale».

Carlo Cattaneo, ricordando le Cinque giornate milanesi, scriveva: «Si può rimproverare agli amici della libertà [...] di non aver chiamato il popolo dei sobborghi e delle campagne alla pratica delle armi».

Lo stesso Carlo Pisacane, fra i primi, assieme a Giuseppe Ferrari a introdurre concetti socialisti nelle ideologie risorgimentali, nel 1851 nell'Appendice alla "La guerra combattuta in Italia negli anni 1848-49" ribadiva l'idea della necessità di una vasta partecipazione contadina al progetto unitario e che si dovesse «far comprendere ai contadini che è loro interesse cambiare la vanga col fucile» ma questo non sarebbe mai avvenuto poiché, come scrisse Giuseppe Ferrari lo stesso anno, osservando i moti popolari europei, «non vale parlare di Repubblica se il popolo sovrano muore di fame».,

L'indifferenza dei contadini, se non l'ostilità nei confronti di tutto ciò che riguardava la città e i "signori", risaliva come sosteneva Antonio Gramsci, ed in epoca più recente gli storici Emilio Sereni e Giorgio Candeloro, al periodo della formazione dei Comuni italiani quando, dopo aver attirato i contadini in città ("l'aria delle città rende liberi"), affrancandoli ed usandoli come operai per le manifatture, sottoposero la campagna alla città con un regime vincolistico dei prezzi dei prodotti agricoli.

Lo storico Girolamo Arnaldi osserva che nella seconda guerra d'indipendenza (1859) " i soldati dell'esercito sardo, quasi esclusivamente contadini e popolani... non erano ancora ben persuasi che il Piemonte fosse in Italia, tant'è vero che ai volontari provenienti dalle altre regioni d'Italia rivolgevano la domanda: "Vieni dall'Italia?".

Lo stesso Cavour si scandalizzava che i volontari arruolati a Torino provenienti dal Regno delle Due Sicilie fossero appena poche decine, mentre tra i 1089 garibaldini partiti da Quarto si contavano 86 volontari provenienti dal regno borbonico, pari all'8% del totale dei volontari e a poco meno del 10% degli 894 volontari affluiti da regioni non appartenenti al regno sabaudo preunitario.

Anzi, in buona parte, la classe contadina meridionale entrerà nella storia proprio battendosi contro l'unità ormai raggiunta: è il fenomeno del brigantaggio postunitario che, secondo Isnenghi, "...può considerarsi pressoché l'unica manifestazione reale, per estensione geografica, partecipazione numerica e durata di presenza attiva delle masse subalterne negli anni del Risorgimento".

Più articolata l'analisi di Seton-Watson sulla contrapposizione fra campagna e città: "Con l'eccezione della Sicilia, dove una vasta rivolta di contadini precedette lo sbarco di Garibaldi, poche furono le zone in cui i contadini svolsero un ruolo positivo nell'unificazione del paese: le campagne in generale rimasero passive o si mossero solo in difesa del vecchio ordine. I governi, agli occhi dei contadini, sono un male necessario, il nuovo governo italiano era particolarmente odioso perché era stato imposto dai 'signori' e dalle città, perché perseguitava la Chiesa, aumentava le imposte ma, soprattutto perché era efficiente"

[...]

Critiche al processo di unificazione

«Chi l'ha costruita sono stati politicanti e studiosi del Nord e del Sud, in nome dell'unità, del progresso, della rivoluzione, del Re, del Duce. Non tutti insieme, si capisce, né tutti con la medesima voce, ma un po' per volta, in armonica disarmonia. Gente magari in buona fede, ma che ignorava i fatti, quelli veri: oppure gente che voleva nascondere qualcosa, per diversissime ragioni spesso contrastanti. La ragione, o meglio il pretesto più comune e più facile era, anzi è l'unità d'Italia, alibi necessario che ogni sozzura copre con le sue grandi santissime ali. Il risultato? Oggi più che mai l'Italia è divisa in due parti, una tutta bianca, l'altra tutta nera. Di questo mito il tempo ha fatto un baluardo così roccioso e inattaccabile che il conformismo liberale, anche se a volte dubitoso ed erudito, non osa neppure scalfirlo.»
(Carlo Alianello[165])

La critica storiografica al processo di unificazione italiana ha avuto inizio nella seconda metà dell'Ottocento da parte di coloro che avevano vissuto tale fenomeno. Fra questi si segnalano, oltre alla posizione critica di Giuseppe Mazzini, che fu sempre fautore di una soluzione repubblicana, lo storico e nobile borbonico Giacinto de' Sivo, con il suo libro Storia delle Due Sicilie 1847-1861; e Giuseppe Buttà e Ludovico Quandel rispettivamente cappellano militare e capitano nell'esercito del Regno delle Due Sicilie. La tesi centrale di questi autori, è quella secondo cui gli avvenimenti del periodo 1860-61 non sarebbero riconducibili a tensioni di tipo ideale, o alla volontà di unire l'Italia. Piuttosto, sarebbero l'esito di un accordo tra le principali potenze europee (Inghilterra e Francia) ed il Piemonte. Secondo tali autori, il Regno di Sardegna avrebbe avuto finalità meramente economiche e di espansione territoriale, ed avrebbe realizzato il disegno unitario attraverso una complessa manovra diplomatico-militare, includente la corruzione di alcuni alti quadri dell'esercito borbonico ed accordi con mafia e camorra, di cui la spedizione dei Mille sarebbe solo l'episodio maggiormente visibile.

Alla generazione successiva appartenne invece Gaetano Salvemini che a sua volta influenzò i nuovi studiosi. Fra questi ultimi vi fu, secondo Piero Gobetti, anche Antonio Gramsci.[167] Salvemini, di orientamento socialista-riformista ma aperto al liberalismo, vide nel Risorgimento un processo storico che ebbe il merito di riscattare l'Italia dalla dominazione straniera e dai vecchi regimi assolutistici. La riunificazione del Paese non era avvenuta tuttavia su basi federali, come sarebbe stato auspicabile bensì centraliste e fu opera di una minoranza borghese che subito escluse le masse popolari dalla partecipazione alla vita pubblica (mediante un sistema elettorale a suffragio ristretto), mettendo in atto una politica economica e sociale che ne causò l'impoverimento. Negli anni cinquanta e sessanta del Novecento si sviluppò anche una storiografia critica di matrice cattolica e un'altra di orientamento marxista. Quest'ultima ebbe il suo riferimento principale nei Quaderni dal Carcere di Antonio Gramsci, che, sebbene scritti negli anni trenta del secolo passato, furono pubblicati soltanto fra il 1948 e il 1951. Il pensatore e politico sardo vide il Risorgimento come una rivoluzione agraria mancata e l'unificazione come consolidamento della supremazia delle classi dominanti italiane, di estrazione prevalentemente borghese, sulle masse popolari. Anche per il liberale Piero Gobetti il processo storico risorgimentale fu una rivoluzione mancata, in quanto l'unificazione d'Italia avvenne «...per opera del dispotismo...», anche se «...fu gran ventura per un popolo...che si trovasse a guidarlo Cavour, il Cattaneo della diplomazia che seppe evitare l'isterilirsi della rivoluzione in una tirannide.». Da tale rivoluzione rimasero esclusi gli starti sociali più bassi: le classi medie «...avevano infatti conquistato il governo senza instaurare rapporti di comunicazione con le altre classi...».

Nel secondo dopoguerra alcuni esponenti del mondo accademico italiano e straniero, nonché un certo numero di saggisti, riprendendo alcune formulazioni di Gramsci e Salvemini (fra cui quelle relative al Mezzogiorno come mercato semicoloniale), interpretarono il processo di unificazione attuato nei confronti degli stati preunitari come un'operazione militare di colonizzazione, in particolar modo nei confronti del Regno delle Due Sicilie, Stato pienamente indipendente al pari del Regno di Sardegna. Tra gli esponenti di maggior rilievo del revisionismo risorgimentale è possibile citare, oltre a personalità del mondo accademico come Denis Mack Smith, Christopher Duggan, Martin Clark, Eugenio Di Rienzo e Tommaso Pedio il romanziere e sceneggiatore televisivo Carlo Alianello e i saggisti Nicola Zitara, Gigi Di Fiore e Lorenzo Del Boca.

Secondo le tesi di questi revisionisti, il regno sardo, con l'appoggio di potenze straniere come Francia e Gran Bretagna, invase i regni della penisola senza dichiarazione di guerra; e i moti insurrezionali non furono animati spontaneamente dal popolo ma da agenti inviati dal regno sabaudo. Accuse sono state, inoltre, rivolte dai revisionisti alla conduzione dei plebisciti, che sono descritti come avvenuti in maniera illegale e sulla spedizione dei Mille, che avrebbe raggiunto il suo obiettivo con ingenti finanziamenti dall'Inghilterra e dalle logge massoniche, oltre al supporto delle mafie e degli ufficiali borbonici corrotti.

Alcuni sovrani dei regni preunitari, come Francesco V di Modena e Francesco II di Borbone, lamentarono l'assenza di un legittimo pretesto nelle annessioni condotte dal Regno di Sardegna. Nella nascita del Regno d'Italia, i revisionisti individuano l'origine di alcuni fenomeni delicati come il brigantaggio postunitario, la questione meridionale e l'emigrazione. Il brigantaggio postunitario, rivalutato dai controstorici come un movimento di resistenza,[ fu represso dal regio governo con metodi brutali, tanto da suscitare polemiche anche da parte di alcuni esponenti della classe liberale (come Giuseppe Ferrari, Giovanni Nicotera e Nino Bixio) e politici di diversi stati europei,[ compreso Napoleone III, il quale dichiarò che "Les Bourbons n'ont jamais fait autant" (i Borbone non hanno mai fatto tanto).

Particolarmente duro fu poi il trattamento riservato ai militari al servizio del Regno delle Due Sicilie e dello Stato Pontificio, che furono deportati in diverse roccaforti piemontesi, ad esempio nel forte di Fenestrelle, dove la gran parte di loro morì per la fame, gli stenti e le malattie.

Gli aderenti a questa interpretazione lamentano le scarse attenzioni del governo italiano dell'epoca, soprattutto nei confronti del meridione, una protesta che iniziò già con la corrente meridionalista. Essi ritengono che la politica poco attenta alle necessità delle masse sarebbe stata la causa di una forte ondata migratoria, che interessò, maggiormente, prima il settentrione (in particolare il Veneto) e poi il meridione, in cui si sostiene il fenomeno fosse assente durante il governo borbonico. Come le tesi sostenute dai meridionalisti, la scuola revisionista vede nella fase postunitaria una crisi irreversibile del sud, che sarebbe stato penalizzato per favorire lo sviluppo economico e industriale del nord. Secondo tale corrente di pensiero, il meridione subì l'aumento e l'introduzione di nuove tasse, licenziamenti di impiegati e operai, e la progressiva chiusura di alcune industrie.

Il "popolarismo" risorgimentale

Il popolo, che alcuni storici considerano assente dalla storia che si faceva, era ben presente nella storia che si scriveva. Giornali quotidiani, manifesti, volantini, non fanno che appellarsi al popolo e a chiamarlo ad attivarsi e a condividere gli ideali nazionali. Il popolo nelle aree più depresse della penisola, ove il sistema scolastico non era sviluppato, nella maggioranza non sa leggere e quando trova incollati sui muri i proclami e gli appelli ha bisogno della mediazione degli intellettuali.

Non si tratta poi semplicemente di ignoranza e analfabetismo che fanno sì che la classe dirigente alla fine parli a se stessa, ma anche il fatto che la circolazione delle idee è ancora difficile nell'Italia preunitaria priva quasi di strutture di comunicazione e dove le polizie sono state addestrate a impedire che tra le masse e gli intellettuali si realizzi il contagio politico.

Ed infine, ultimo grande ostacolo alla comunicazione tra intellettuali e popolo, è la non coincidenza di codice tra coloro che porgono il messaggio e quelli che lo ricevono:

«"Libertà! Indipendenza!", reclamano entusiasti gli insorti e i volontari delle varie correnti risorgimentali. "Polenta! Polenta!" ribattono cocciuti e sordi i contadini descritti dal Nievo ne[l romanzo] Le confessioni d'un italiano»
Il Risorgimento come moto nazional-popolare

« Dagli atri muscosi dai fori cadenti,
dai boschi, dall'arse fucine stridenti,
dai solchi bagnati di servo sudor,
un volgo disperso repente si desta;
intende l'orecchio, solleva la testa
percosso da novo crescente rumor. »
(Alessandro Manzoni, Adelchi)
« Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi
Perché non siam Popolo
Perché siam divisi »
(Goffredo Mameli, Canto degli Italiani)
Una storiografia sviluppatasi già all'indomani della raggiunta unità d'Italia con gli storici N.Bianchi e C.Tivaroni presenta il movimento risorgimentale come il risultato realizzatosi quasi in modo provvidenziale tramite l'incontro tra i democratici, il popolo, i moderati e i politici liberali, avvenuto con la mediazione della monarchia sabauda.

All'indomani dell'unità nazionale la classe dirigente presenta ciò che era accaduto come il risultato di una spinta popolare e questo si vuole che sia insegnato nelle scuole del Regno: cosicché varie generazioni di italiani hanno imparato il Risorgimento come avrebbe dovuto essere invece che com'è stato. Secondo Isnenghi si trattò del tentativo, sentito come essenziale, di costruire a posteriori una base storica comune a un popolo sino allora in parte assente. Gli intellettuali cercavano un collegamento con le classi subalterne tentando di persuaderle che l'unità italiana era stata il frutto della volontà del popolo guidato dalle "elites" risorgimentali e creando il mito di una coscienza nazionale italiana esistita nei secoli passati e finalmente realizzatasi.

In contrasto con questa visione provvidenzialistica già Oriani nel 1892 e Croce mettevano in rilievo come l'unità d'Italia si fosse raggiunta con una conquista regia risultato di un compromesso tra la monarchia sabauda, troppo debole per unificare il paese da sola, e un movimento democratico, altrettanto debole per poter fare una rivoluzione popolare, cosicché l'Italia postunitaria difettava nelle sue strutture democratiche e non avrebbe mai potuto assolvere al ruolo che pretendeva di grande potenza europea.

Gli storici del periodo fascista come Gioacchino Volpe (1927) ripresero invece la teoria postrisorgimentale che giudicava positivamente la visione di un Risorgimento come risultato di una guerra dinastica poiché questa era stata la necessaria premessa dell'avvento del fascismo che, dopo la felice conclusione della "quarta guerra d'indipendenza", ossia la prima guerra mondiale, aveva realizzato i già delineati destini del popolo italiano che il movimento fascista aveva fatto protagonista di quella rivoluzione popolare prima fallita.

Omodeo (1926) riprese in parte la visione del Risorgimento come il risultato di una positiva e feconda azione messa in atto da una minoranza liberale che era stata però sopraffatta dall'avvento del fascismo. Tesi condivisa in parte da Croce (1928) che giudicava positivamente il periodo della politica liberale che aveva portato all'unità nazionale e che aveva governato saggiamente nel periodo postunitario fino a quando non si era manifestata quella "malattia morale" del fascismo, destinata comunque ad essere sanata dal liberalismo.