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Espressione con cui si definì, nel sec. XIX, il problema
dell'assetto politico dell'Oriente europeo (ossia della Penisola
Balcanica), già soggetto al dominio ottomano e travagliato in
quell'epoca da una grave crisi.
L'espansione ottomana lungo la valle del Danubio aveva raggiunto nel
sec. XVI l'Ungheria e si era fermata solo davanti a Vienna: l'ultimo
tentativo contro la capitale asburgica era fallito nel 1683. A
questo punto la spinta turca verso nord pareva esaurita; l'Austria
nel sec. XVIII si era fatta combattiva, se non aggressiva, mentre la
Russia, animata da mire imperialistiche, incominciava a premere
verso il Caucaso, la Crimea e i principati danubiani. Di fronte ai
due nemici, tra i quali la Russia si annunciava il più pericoloso,
la Turchia si era ridotta alla difensiva. Nel momento preciso (ca.
1781) in cui l'imperatore Giuseppe II decideva d'accordarsi con
Caterina II di Russia per un'eventuale spartizione dei territori
balcanici soggetti ai Turchi, si poteva dire nata la Questione
d'Oriente.
Un nuovo elemento s'aggiungeva pochi anni dopo: lo spirito
rivoluzionario e patriottico che dalla Francia dilagava nel resto
dell'Europa. Questo nazionalismo, alleandosi con gli interessi russi
(e in parte anche con quelli austriaci), apparve l'elemento decisivo
della Questione d'Oriente, quello cioè che in breve tempo avrebbe
segnato la fine del dominio ottomano in Europa.
In realtà, la Questione d'Oriente che, posta nei termini anzidetti,
poteva parere d'agevole e rapida soluzione, si complicò
continuamente nel corso del sec. XIX e ancora all'inizio del XX. Da
un lato, si ebbe l'intervento di altri Stati europei, privi di
ambizioni territoriali ma interessati alla questione in termini di
politica generale europea: la Francia e l'Inghilterra dapprima, poi
il Piemonte (sia pure per motivi contingenti), e infine le potenze
europee di più recente formazione, l'Italia e la Germania. Questi
Stati (se si eccettua il Regno d'Italia) non agirono tuttavia per
affrettare la risoluzione della crisi, bensì per ritardarla, ossia
per impedire che la Russia ne traesse vantaggio.
Un'altra complicazione nacque dalla lenta, ma non trascurabile,
evoluzione politica interna dell'Impero ottomano: evoluzione
interessante, ma che non bastò a raddrizzare le sorti di una
formazione statale così composita, dove le forze centrifughe erano
troppe e troppo intense. In ogni caso, la Questione d'Oriente non si
risolve nella storia della decadenza e del crollo dell'Impero
ottomano: quando, ai tempi delle due guerre balcaniche (1912-13), la
Turchia aveva ormai perduto quasi per intero i suoi domini europei,
la Questione d'Oriente sussisteva nelle lotte fra Paesi austrofili e
Paesi russofili, nella caotica situazione di una Macedonia dove i
diversi gruppi etnici si affrontavano in conflitti sanguinosi, nei
movimenti irredentistici che minacciavano da sud l'Impero
austro-ungarico, nell'attiva politica d'influenze svolta dalla
Russia zarista.
La Questione d'Oriente fu ancora una delle cause della I
guerra mondiale: alla fine di questa, scomparsi i tre imperi rivali
(ottomano, russo e austro-ungarico), l'Oriente europeo trovò un
assetto accettabile e la Questione d'Oriente lasciò il posto a nuovi
problemi.
Volendo passare in rassegna la serie degli eventi politici
legati alla Questione d'Oriente dopo gli accordi austro-russi del
1781 di cui s'è detto, si deve ricordare la guerra
austro-russo-turca degli anni 1788-92, sfavorevole alla Turchia, ma
terminata con trattati (con l'Austria a Svištov, 1791; con la Russia
a Iasi, 1792) che le davano respiro. Seguirono infatti oltre 20 anni
di relativa pace con la Russia nonostante un'insurrezione serba
(1804-17) che la Russia appoggiò e di cui i Turchi ebbero ragione a
fatica, e nonostante un conflitto tra le due potenze per i
principati danubiani. Con l'Austria, la normalizzazione dei rapporti
si prolungò addirittura per 87 anni (1791-1878).
Uscita vittoriosa dal lungo duello con la Francia napoleonica, la
Russia dopo il 1815 era pronta a sviluppare la sua politica
antiottomana: lo zar poteva giustificare la simpatia per gli
eventuali ribelli con quella clausola del Trattato di
Küciük-Qainargè (1774) che aveva concesso a Caterina II il diritto
di proteggere la Chiesa ortodossa e i suoi fedeli in tutto l'Impero
turco. L'appoggio russo ai Serbi indusse il sultano Maḥmū'd II a
patteggiare coi ribelli consentendo loro un'amministrazione autonoma
(1817) e riconoscendo infine un principato autonomo di Serbia
tributario della Turchia (1830). Lo zar Alessandro I incoraggiò poi
l'agitazione dei Greci contro il governo ottomano (1821-29); il
fratello Nicola I, suo successore, intervenne con maggior energia,
prima diplomaticamente, poi militarmente (1827) e costrinse il
sultano ad accettare l'indipendenza di una Grecia mutilata dei
territori settentrionali (Adrianopoli, 1829).
Un nuovo successo arrise alla Russia nel 1833 quando lo zar, dopo
aver aiutato il sultano minacciato da un vassallo ribelle, il pascià
d'Egitto Muḥammad ʽAlī, riuscì a imporre all'alleato il Trattato di
Unkiar-Skelessi, col quale gli Stretti vennero chiusi alle navi
d'ogni Paese, eccettuata la Russia. La Turchia aveva così accettato
una specie di protettorato russo, ma le altre potenze non vi
acconsentirono. Già da tempo l'Austria accusava lo zar di fomentare
il disordine nei Balcani e l'Inghilterra guardava con sospetto
all'avanzata russa nel Mediterraneo orientale. Ora entrambe,
prospettando allo zar il pericolo egiziano e la minaccia di una
Francia protettrice di Muḥammad ʽAlī, lo indussero a rinunciare ai
vantaggi conseguiti a Unkiar-Skelessi e a firmare a Londra (1841)
una nuova Convenzione degli Stretti, chiusi ormai alle navi da
guerra di tutte le potenze.
Nel 1853 lo zar Nicola, dopo aver appoggiato un moto ottomano in
Montenegro, pretese di farsi riconfermare l'antico protettorato su
tutti gli ortodossi dell'Impero ottomano: il sultano ʽAbd ül-Meǧīd,
garantitosi l'appoggio di Francia e Inghilterra, respinse la
richiesta. Ebbe inizio così una guerra di Crimea (1854-56) quando
intervennero le forze inglesi, francesi e sarde e il conflitto si
accentrò intorno a Sebastopoli. La Russia sconfitta dovette
accettare al Congresso di Parigi (1856) nuove remore al suo
programma: neutralizzazione non solo degli Stretti, ma di tutto il
Mar Nero e impegno a non agire contro l'integrità del dominio turco.
Pochi anni dopo (1859-62), i due principati danubiani si unirono a
formare la nuova Romania.
Seguirono anni di tregua, caratterizzata dalla crescente tensione
austro-russa e dal tentativo di svecchiamento delle strutture
politiche compiuto in Turchia da uomini e circoli progressisti. Dopo
il 1870 i Russi ritornarono in fase offensiva. L'insurrezione
antiottomana dell'Erzegovina e della Bulgaria e le spietate
repressioni turche scatenarono la guerra russo-turca del 1877-78,
favorita dai tentennamenti della politica britannica. Vincitrice, la
Russia ottenne col Trattato di Santo Stefano (1878) il completo
smembramento della Turchia europea ma, nel successivo Congresso di
Berlino (1878), Inghilterra, Austria e Germania coalizzate
costrinsero la Russia ad accontentarsi di molto meno: la Turchia
europea non fu annientata, bensì ridotta a misure modeste; Serbia,
Montenegro e Romania ottennero l'indipendenza completa mentre la
Bulgaria acquistava l'autonomia pur rimanendo vassalla del sultano;
la Bosnia e l'Erzegovina vennero affidate all'amministrazione
austriaca. La Turchia uscì dal Congresso con danni minori del
previsto, mentre la Russia, sotto la vigilanza non benevola
dell'Austria, dovette ridimensionare un'altra volta le sue
ambizioni.
Gli anni successivi videro la Penisola Balcanica agitata dai
disordini interni e dall'irrequietezza degli Stati vecchi e nuovi.
Se la Romania, retta saggiamente da Carlo di Hohenzollern,
germanofilo prudente, si costituì in regno (1881), anche la Bulgaria
completò la sua unità (1885), in attesa di giungere alla completa
indipendenza (1908) sotto la dinastia tedesca dei Coburgo. In Serbia
la monarchia austrofila degli Obrenović venne rovesciata (1903:
assassinio di re Alessandro) e le subentrò la famiglia rivale dei
Karađŏrđević, russofila. La Grecia, sotto la casa di Danimarca,
aspirava ad ingrandirsi a nord e tentò d'impadronirsi di Creta,
subendo una grave disfatta (1897).
Non meno burrascosa appariva la situazione della Turchia dove il
partito progressista dei Giovani Turchi conquistò il potere (1908).
Nello stesso anno l'Austria si annesse la Bosnia-Erzegovina
allarmando Russia e Serbia e rivelando le intenzioni
austro-germaniche sui Balcani; mentre l'Italia, nel quadro della
Triplice Alleanza, poneva ostacoli all'espansione dell'Austria
pretendendo d'essere consultata e “compensata” in caso di ulteriori
progressi di quella. Nel 1912 i ricorrenti disordini macedoni
indussero Serbia, Montenegro, Bulgaria e Grecia, sotto l'egida della
Russia, ad allearsi contro la Turchia, ormai succube della politica
germanica. La Turchia, sconfitta, perse quasi tutti i suoi territori
europei (Londra, maggio 1913). Ma la divisione delle spoglie causò
una nuova guerra: tutti gli Stati balcanici, comprese Romania e
Turchia, mossero contro la Bulgaria e le strapparono ogni sua
conquista (Bucarest, agosto 1913). Stremate dalla duplice guerra,
Bulgaria e Turchia cercarono salvezza nella protezione
austro-tedesca mentre la Serbia e il Montenegro accettarono
l'appoggio russo e la Romania attese gli eventi. Un nuovo Stato
balcanico sorse nel 1913, l'Albania, che apparve già un possibile
“pomo della discordia” tra Austria e Italia.
Alla vigilia dell'assassinio di Sarajevo (28 giugno 1914), la
Turchia poteva dirsi ormai eliminata dalla Penisola Balcanica ma i
nuovi Stati erano diventati preziose pedine nel gioco serrato delle
due Triplici e proprio dalla loro inquietudine venne l'avvio alla
conflagrazione del 1914.