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Il periodo tra le due Guerre mondiali


Conseguenze della prima guerra mondiale

Con la cessazione dei combattimenti e l'entrata in vigore dell'armistizio di Compiègne alle ore 11:00 dell'11 novembre 1918, l'Austria-Ungheria era ormai disgregata in due entità differenti. Sia l'Austria che la Germania erano senza imperatore, ma i problemi che le nazioni sconfitte avrebbero dovuto affrontare erano enormi: combattere le forze rivoluzionarie di sinistra e il militarismo di estrema destra e rivitalizzare l'economia distrutta. Anche per le nazioni vincitrici gli impegni della pace rappresentavano un peso gravoso: mantenere la promessa di una vita migliore fatta ai soldati che tornavano dai campi di battaglia e gestire le controversie territoriali dei nuovi stati sorti dalla caduta degli Imperi centrali non fu impresa affatto semplice, considerando poi le conseguenze che ogni decisione avrebbe potuto avere.

Fine dei grandi imperi e nuove identità nazionali

Dalle rovine dei quattro imperi sconfitti emersero diversi nuovi stati. Il 1° dicembre 1918, tre settimane dopo la fine delle ostilità, a Belgrado venne proclamato il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni che racchiudeva molte minoranze etniche tra cui tedeschi, bulgari, italiani e ungheresi. In teoria, secondo il piano di Wilson e secondo quanto previsto dalla neocostituita Società delle Nazioni, ciascuna di queste minoranze sarebbe stata meglio protetta di quanto non lo fosse stata sotto l'impero prima della guerra. Il 13 dicembre il presidente Wilson arrivò in Europa; ora la sua visione di una nuova Europa sarebbe stata messa alla prova al tavolo della conferenza di pace di Parigi, ed esaltato o offuscata dai suoi trattati.

I quattordici punti di Wilson

Nel 1914, mentre l'Europa era vicina alla prima guerra mondiale, il presidente degli Stati Uniti d'America Thomas Woodrow Wilson disse che «l'America apparirà in piena luce quando tutti sapranno che essa pone i diritti umani sopra ogni altro diritto e che la sua bandiera non è solo dell'America ma dell'Umanità». In tal modo Wilson recepiva le convinzioni e le idee dei movimenti pacifista, progressista e internazionalista statunitense e, sebbene nei casi pratici non esitò a favorire l'uso della forza, come durante la rivoluzione messicana, lontano dai confini statunitensi e in Europa si presentava come un "paladino della pace, delle soluzioni arbitrali per ogni conflitto, dell'opposizione alla diplomazia segreta, della predicazione per la nascita di una grande organizzazione internazionale capace di dare valore di norme di diritto internazionale ai principi dell'internazionalismo".[4] Nel gennaio 1917, quando ormai la guerra era scoppiata da anni, Wilson ribadì il suo pensiero di fronte al Senato, dichiarando che la pace doveva essere "basata sull'uguaglianza delle nazioni, sull'autogoverno dei popoli, sulla libertà dei mari, su una riduzione generalizzata degli armamenti" e senza vincitori, poiché una pace imposta ai vinti avrebbe comportato un'altra guerra.

Queste parole non si sarebbero mai tradotte in fatti concreti se gli Stati Uniti non fossero già stati la prima potenza economica mondiale e se non fossero entrati in guerra. Quando questo avvenne, tra il 6 e il 7 aprile 1917, la proposta wilsoniana dovette poi misurarsi, oltre che con le potenze impegnate nei combattimenti, anche con Lenin e la Rivoluzione d'ottobre, che predicavano sì un nuovo ordine internazionale, ma fondato sull'alleanza dei lavoratori invece che su intese fra governi. L'8 novembre il Congresso dei Soviet licenziò il «decreto per la pace» nel quale chiedeva ai popoli di tutti i paesi in guerra e ai rispettivi governi «l'immediata apertura di negoziati per una pace giusta e duratura», dal carattere essenzialmente eversivo dal momento che si rivolgeva prima di tutto ai popoli, come premessa per la rivoluzione proletaria. Esattamente due mesi dopo, l'8 gennaio 1918, Wilson rispose con quattordici punti dove riunì gli obiettivi di guerra statunitensi: fine della diplomazia segreta, libertà di navigazione e libero commercio, limitazione agli armamenti, avendo l'accortezza di far precedere questi quattordici punti con un preambolo in cui era scritto che gli Stati Uniti non entravano in guerra per interessi propri, quanto piuttosto per rendere più sicuro il mondo e le nazioni.

Wilson pretese dagli Alleati che la resa della Germania fosse basata sui quattordici punti. Stessa cosa per il punto di partenza dei negoziati di pace.

In un quadro globale nel quale gli Stati Uniti, protetti dalla vastità di due oceani e già all'epoca prima potenza economica mondiale, si delineavano come unica potenza rimasta di fatto immune dalla catastrofe della guerra, Wilson intendeva promuovere una "pace senza vincitori", poiché era convinto che una pace imposta con la forza ai vinti avrebbe contenuto in sé gli elementi di un'altra guerra.

Doveva trattarsi di una pace basata sull'eguaglianza delle nazioni, sull'autogoverno dei popoli, sulla libertà dei mari, su una riduzione generalizzata degli armamenti.

La diplomazia "segreta" doveva essere abbandonata. Gli accordi segreti tra potenze avevano infatti caratterizzato buona parte dei passaggi chiave della politica estera negli ultimi decenni; tale stato di cose - noto ai governi, ma ignoto alla pubblica opinione - era stato clamorosamente smascherato poco prima dai bolscevichi i quali, appena giunti al potere in Russia, avevano pubblicato i patti segreti intercorsi tra lo zar deposto e altre potenze dell'Intesa - tra i quali il "Patto di Londra" - nei quali era «prefigurato il futuro dell'Europa e del Medio Oriente con una stupefacente mancanza di riguardo per i desideri o addirittura per gli interessi delle popolazioni delle varie regioni».

Bisognava, infine, costituire una lega perpetua di tutte le nazioni pacifiche e indipendenti.

Il princìpio di nazionalità - popolarmente rivisitato con il nome di "autodeterminazione dei popoli" - fu la base per la costruzione dell'Europa democratica e degli Stati nazionali. Tali princìpi furono applicati soprattutto all'Europa orientale e al Medio oriente, per riempire il vuoto lasciato dal crollo simultaneo dei tre grandi imperi multi-etnici (quello Russo, quello Asburgico e quello Ottomano), in un processo che può essersi ritenuto concluso solo con la dissoluzione dell'ex Jugoslavia. Tuttavia, data la complessità etnica del continente, esso fu anche impropriamente utilizzato come pretesto per vere e proprie pulizie etniche e per la preparazione di nuove guerre, come la Seconda guerra mondiale e i conflitti che hanno insanguinato il Medio oriente, nel corso del XX secolo.

I 14 punti


La conferenza di Parigi e i trattati di pace

La conferenza di pace di Parigi del 1919 fu una riunione internazionale, che vide i paesi usciti vincitori dalla prima guerra mondiale, impegnati nel delineare una nuova situazione geopolitica in Europa e stilare i trattati di pace con le Potenze Centrali uscite sconfitte dalla guerra. La conferenza si aprì il 18 gennaio 1919 e durò fino al 21 gennaio 1920, con alcuni intervalli.

Da questi trattati la cartina d'Europa uscì completamente ridefinita in base al principio della autodeterminazione dei popoli, concepito dal presidente degli Stati Uniti d'America Woodrow Wilson, nel tentativo, in seguito rivelatosi fallace, di riorganizzare su base etnica gli equilibri del continente europeo. Nel tentativo di creare, sulle ceneri degli imperi multietnici di Austria-Ungheria e Turchia, stati "etnicamente omogenei", vennero creati ex novo stati quali la Cecoslovacchia, la Jugoslavia, destinati ad alimentare nuove tensioni ed instabilità, oltre ad esodi e conflitti di popoli e nazioni.

Antefatti

L'11 novembre 1918, giorno dell'armistizio tra Germania e le potenze Alleate, l'Austria si ritrovò senza impero e la Germania senza imperatore. Ma i problemi che le nazioni sconfitte dovettero affrontare non si limitarono a questo; entrambi i paesi si trovarono a dover combattere le forze rivoluzionarie a sinistra e il militarismo a destra, rivitalizzare un'economia distrutta, tenere alto il morale della nazione bollata dal marchio della sconfitta e schiacciata dal peso oneroso della "colpa della guerra", che si traduceva nel desiderio di recuperare i territori perduti e nella ricerca di capri espiatori.

La mattina del 1º dicembre le prime truppe britanniche e statunitensi varcarono la frontiera tedesca verso le città sul Reno, mentre a Vienna le autorità locali inviarono a Berna l'ex ambasciatore austro-ungarico a Londra, conte Mensdorff a colloquio con sir Horace Rumbold per richiedere l'invio, da parte dei paesi vincitori, di derrate alimentari nella capitale austriaca in quanto il problema della fame diveniva ogni giorno più grave.

Dalla frantumazione dei quattro imperi sconfitti emersero rapidamente nuovi stati. Il 1º dicembre, nel giorno in cui le truppe Alleate entrarono in Germania, a Belgrado venne proclamato il Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni, che racchiudeva molte minoranze tra le quali 500.000 ungheresi e altrettanti tedeschi, e decine di migliaia di romeni, albanesi, bulgari e italiani. Il 4 dicembre le truppe britanniche entrarono a Colonia dove istituirono una zona di occupazione, e nove giorni dopo arrivò in Europa il presidente americano Wilson in vista della conferenza di pace che si sarebbe svolta a Parigi.

Il contesto storico

Il contesto storico in cui si svolsero le trattative era però funestato dalle molte ombre del passato, dagli irrisolti problemi delle frontiere, dalla sicurezza internazionale e dai frementi nazionalismi non contenibili in un contesto che avrebbe dovuto salvaguardare le minoranze e le identità nazionali. Le rivendicazioni rimaste in sospeso dopo la catastrofe del 1870, la carica punitiva contro la Germania e la sempre più pressante paura di una "rivoluzione bolscevica" irrigidirono tutte le delegazioni, soprattutto quella francese, desiderosa di relegare la Germania in una posizione di non poterle più nuocere.

Protagonista con poca fortuna delle discussioni di Versailles fu il presidente statunitense Woodrow Wilson, che con i suoi Quattordici punti avrebbe dovuto ispirare i negoziatori dei trattati e dare la risposta con cui l'Occidente avrebbe contrastato l'assolutismo e il militarismo degli Imperi Centrali, e l'internazionalismo leninista. Ma questi quattordici punti, in cui si rivendicava la nazionalità e l'autodeterminazione dei popoli nello stabilire le nuove frontiere, si trovarono a dover competere con le diverse componenti nazionalistiche nei Balcani, con la necessità di creare stati "cuscinetto" contro la Russia bolscevica, con le rivendicazioni italiane sugli slavi e con le rivendicazioni e i risentimenti che i francesi covavano nei confronti dei tedeschi fin dall'epoca napoleonica. Lo stesso Wilson ben presto capì che i suoi programmi non sarebbero stati seguiti dagli altri vincitori. In un incontro con Raymond Poincaré il 14 dicembre 1918 a Parigi, il presidente francese espose a Wilson, quasi con ultimativa chiarezza, l'idea centrale della presenza e dell'azione della delegazione francese alla Conferenza: «la Germania doveva essere punita per tutto quanto aveva fatto con e durante la guerra» mentre Wilson fino ad allora non aveva mai parlato di "punizione" ma solo di preparare una situazione in cui la classe dirigente tedesca, aristocratica, autocratica e militarista non avrebbe potuto più nuocere a favore di una democratizzazione della nazione. Una dura "punizione" avrebbe colpito - secondo Wilson - non l'autocrazia, bensì proprio gli sviluppi democratici che in quel momento il popolo tedesco stava faticosamente cercando. Nonostante ciò Wilson conosceva la storia "giacobina" della democrazia francese e nella sua risposta a Poincaré appoggiò la necessità di condannare e rendere «giusto castigo» alla Germania.

La delegazione tedesca

Il capo della delegazione tedesca a Parigi, il diplomatico Ulrich von Brockdorff-Rantzau.
Dopo la fine della guerra, la maggioranza della popolazione tedesca dava per scontato che si sarebbe arrivati ad una pace già prima della fine del 1919 sulla base dei quattordici punti di Wilson; i tedeschi si aspettavano quindi riguardo, nonostante poco tempo prima avessero imposto durissime condizioni alla Russia. Già nel novembre 1918 i tedeschi scoprirono tramite informatori che gli alleati avrebbero fatto in modo che il peso e la colpa del conflitto sarebbero stati attribuiti in toto alla Germania, e ben presto intensificarono gli sforzi per negare o almeno attenuare la responsabilità e quindi recuperare prestigio internazionale.

Nonostante i dissidi fra gli alleati, l'appoggio statunitense alla Germania e il pericolo bolscevico, il capo delegazione Brockdorff-Rantzau non riuscì, nonostante diverse proteste, a scongiurare che alla Germania fosse data l'intera responsabilità della guerra e il pagamento degli indennizzi. Con la tagliola del blocco navale britannico e l'autoaffondamento della flotta tedesca a Scapa Flow, la Germania fu quindi "costretta" alla firma del trattato, nonostante si fosse tastata anche l'ipotesi di una ripresa dei combattimenti.

Si apre la conferenza

La conferenza di pace si aprì il 18 gennaio 1919 a Parigi, nella sala dell'orologio del Quai d'Orsay sede del ministero degli esteri francese, con un discorso del presidente francese Raymond Poincaré. Presidente effettivo della conferenza venne designato Georges Clemenceau, il quale dichiarò:

« [...] Non si tratta di pace territoriale o di pace continentale, ma di pace dei popoli. [...] Tregua alle parole; bisogna agire presto e bene»
(Georges Clemenceau)

Il consiglio dei dieci - formato da cinque capi di governo e cinque ministri degli esteri delle maggiori potenze vincitrici: Stati Uniti, Italia, Francia, Gran Bretagna e Giappone (per quanto riguardava l'Oriente) - trattò le questioni più importanti e le risoluzioni pratiche. Il nuovo assetto politico e geografico dell'Europa fu discusso e definito dai quattro "grandi"; Thomas Woodrow Wilson il presidente degli Stati Uniti, Georges Clemenceau il primo ministro francese, David Lloyd George il primo ministro britannico e Vittorio Emanuele Orlando il presidente del consiglio italiano. Rispettivamente coadiuvati dai rispettivi ministri degli esteri, Robert Lansing, Stephen Pichon, Arthur James Balfour e Sidney Sonnino. La Russia, che per tre anni combatté a fianco delle potenze Alleate impegnando duramente la Germania, il 15 dicembre 1917 fu costretta all'armistizio di Brest-Litovsk seguito dalla pace il 3 marzo 1918. Un comunicato ufficiale della Conferenza dichiarava che la sua rappresentanza non era esclusa, ma che "le modalità saranno fissate dalla Conferenza nel momento in cui esaminerà gli affari russi". I paesi vinti, esclusi dai negoziati, furono ammessi solo nella fase conclusiva, consegna e firma dei protocolli.

La conferenza apertasi il 18 gennaio fu un vero e proprio terreno di scontro tra gli alleati, e un modo per imporre alla Germania le peggiori condizioni di resa, e per rendere gli sconfitti più "malleabili", la Francia insistette per mantenere il blocco navale contro la Germania fino al momento in cui non fosse stato firmato il trattato.

I danni di guerra

Il 25 gennaio la Conferenza di pace nominò una commissione per la riparazione dei danni di guerra con il compito di esaminare l'ammontare della somma che ciascuno degli stati sconfitti avrebbe dovuto pagare per riparare i danni arrecati durante il conflitto. I rappresentati di Gran Bretagna, Francia e Italia pensavano di poter ottenere un risarcimento pari all'intero costo della guerra; da ciò nacque la preoccupazione del delegato belga, secondo cui, adottando questo sistema, il suo paese sarebbe stato sfavorito nonostante fosse stato sconvolto per oltre quattro anni da una guerra sulla quasi totalità del proprio territorio. Il Belgio aveva infatti speso relativamente poco per combattere, mentre le sue città e le sue campagne avevano sofferto i rigori e le distruzioni di quattro anni di occupazione. La Gran Bretagna d'altro canto rivendicava i costi e le perdite della guerra sottomarina contro le sue flotte, e le incursioni aeree contro le sue città.

Mentre era in corso il dibattito Lloyd George si levò dalla discussione con tono moderato chiedendo di aspettare due anni prima di procedere, in modo tale da decantare le passioni e aspettare che i prezzi inflazionati dai costi della guerra fossero tornati quasi alla normalità[14]. In ogni modo, né l'atteggiamento più morbido nei confronti della somma da versare, né la decisione di rateizzare il pagamento fino al 1º maggio 1961 - anche se un miliardo di sterline dovevano essere versate entro il 1º maggio 1921 - servirono a "consolare" i tedeschi. Era il concetto stesso di "riparazione" a bruciare, perché imponeva alla Germania di pagare non solo per la sconfitta sul campo, ma anche perché ritenuta responsabile di aver provocato la guerra[14]. E proprio per obbligare la Germania a firmare il trattato, gli alleati si rifiutarono di togliere il blocco navale fino a che la Germania non avesse firmato il trattato, assumendosi di fatto tutta la responsabilità e la colpa della guerra.

La spartizione delle colonie

«La mappa del mondo [...] aveva più parti in rosso di quante non ne avesse prima»
(A.J. Balfour, ministro degli Esteri britannico)


Un primo terreno di scontro tra gli alleati fu costituito dalle ex colonie tedesche appena conquistate, che non sarebbero state più restituite alla Germania. La soluzione adottata fu quella di istituire un sistema di mandati che la Società delle Nazioni avrebbe affidato alle potenze vincitrici. Tali mandati erano soggetti a condizioni. Quelli di Africa e Pacifico, per esempio, imponevano di impegnarsi nel commercio degli schiavi.

I territori turchi furono distribuiti con diversi mandati; la Francia ebbe la Siria e il Libano, la Gran Bretagna ebbe la Mesopotamia (l'attuale Iraq) e la Palestina, nella cui parte occidentale si impegnò a creare un "focolare" per gli ebrei. Il Sudafrica fu ricompensato per il suo sforzo bellico con un mandato sull'Africa sudoccidentale tedesca. Il Camerun e il Togo furono spartiti tra Gran Bretagna e Francia. Nel Pacifico, dove le colonie tedesche erano passate già in altre mani nel 1914, allo scoppio della guerra il Giappone ottenne un mandato sulle isole Marianne, Caroline e Marshall, la Nuova Zelanda su Samoa e l'Australia sulla Nuova Guinea Tedesca. Mentre Nauru, ricca di fosfati e ambita da Australia, Nuova Zelanda e Gran Bretagna, fu affidata - com'era prevedibile - all'Impero britannico.

Non pochi dei paesi vincitori rimasero scontenti. Il Belgio si vide negare l'assegnazione dell'Africa Orientale Tedesca, che aveva occupato e che avrebbe voluto conservare, ricevendo in cambio il Ruanda-Urundi, un territorio senza sbocchi sul mare. Sugli stessi territori mise gli occhi anche il Portogallo, ma siccome erano ambiti anche dalla Gran Bretagna, dovette accontentarsi del "triangolo di Kionga", nel Mozambico settentrionale. L'Italia chiese mano libera per i commerci con l'Abissinia, ma poiché si trattava di un'ex colonia tedesca tale richiesta fu respinta, così come per l'Africa settentrionale e orientale, dato che sarebbero potute esser soddisfatte solo a spese di Francia e Gran Bretagna, la quale fece la parte del leone nella distribuzione delle colonie.

Il memorandum di Fontainebleau

Lloyd George cominciò a dubitare delle dure condizioni che la Francia e Clemenceau in particolare, insistevano ad applicare nei confronti della Germania. Il 25 marzo, durante la Conferenza, Lloyd George si recò a Fontainebleau convinto di chiarire a sé stesso come secondo lui andasse trattata la Germania. In un memorandum dichiarò che la sua preoccupazione era quella di creare una pace perpetua, non una pace che durasse trent'anni. Adottando misure punitive, forse si sarebbe ottenuta una pace transitoria: «Il mantenimento della pace dipenderà dal fatto che non sorgano costantemente motivi che spingano il patriottismo, il senso di giustizia o di lealtà a chiedere di raddrizzare i torti. [...] La nostra pace dovrebbe essere dettata da giudici impegnati in un processo che non li tocca personalmente nelle emozioni e negli interessi, e non già nello spirito della vendetta selvaggia».

Lloyd George criticò quelle stesse clausole che proprio allora andavano formulando, deprecando l'idea di mettere i tedeschi sotto dominio altrui, sottolineando che i tedeschi erano «orgogliosi, intelligenti e con grandi tradizioni», e che non avrebbero sopportato di essere governati da «razze che essi giudicavano inferiori, alcune delle quali, almeno per il momento, meritavano quella definizione». Dichiarando poi di non riuscire ad immaginare un motivo più fondato per una guerra futura, dove la Germania, circondata da «innumerevoli piccoli stati contenenti masse di tedeschi che chiedono a gran voce il ricongiungimento alla terra natale», avrebbe certamente sfruttato l'occasione per una guerra nell'Europa orientale.

Le argomentazioni caddero nel vuoto. Il giorno seguente quando venne discusso il memorandum, Clemenceau osservò: «Se gli inglesi sono tanto ansiosi di pacificare la Germania, che guardino oltremare [...] e facciano concessioni coloniali, navali o commerciali». Lloyd George, contrariato, rispose all'affermazione di Clemenceau ribattendo: «Quello a cui la Francia tiene davvero è che i tedeschi di Danzica siano ceduti ai polacchi». Questi scambi di battute erano sintomo delle crescenti divergenze tra Londra e Parigi.

Clemenceau d'altro canto era convinto che il trattato costituisse la miglior occasione per garantirsi la protezione contro la Germania, che aveva quasi il doppio della popolazione francese e a cui bisognava far capire, con gesti di deliberata durezza, che non le sarebbe convenuto covare sentimenti di vendetta. Il primo ministro britannico riteneva questo comportamento più idoneo a provocare un futuro conflitto, e al suo ritorno a Parigi si batté inutilmente alla cessione alla Polonia dei territori a prevalenza tedesca. Le sue proteste non riuscirono però a piegare la volonta francese di privare la Germania di grosse fette di territorio nazionale e quindi di popolazione. Il solo mantenimento dell'unità tedesca scontentò i francesi, che avrebbero voluto riprendere in qualche modo l'idea napoleonica di uno Stato autonomo dei territori tedeschi sulla riva sinistra del Reno, accontentandosi dell'occupazione di quei territori per quindici anni.

La questione belga

L'invasione tedesca del Belgio avvenuta nel 1914, catapultò il piccolo Stato industrializzato e ricco al centro dell'opinione pubblica mondiale. Era stata violata la sua neutralità, un tempo garantita dalla stessa Prussia, e la sua resistenza di fronte ad un nemico decisamente più forte e preparato risultò molto più grande di quanto ci si potesse aspettare. Grazie alla tenace resistenza durante l'assedio di Liegi, che riuscì ad ostacolare significativamente l'avanzata tedesca verso Parigi, il mondo intero si schierò a favore del Belgio e del suo re Alberto I, al cui fianco si unì subito la Gran Bretagna. Anche in un secondo momento, quando le speranze di una guerra rapida si infransero nelle trincee del fronte occidentale, gli alleati continuavano ad avere bisogno di una "causa superiore" per compattare l'opinione pubblica nello sforzo bellico

Le promesse che per quattro anni gli anglo-francesi fecero al governo belga in esilio a Le Havre convinsero i governanti e il re Alberto I che alla conclusione del conflitto il Belgio avrebbe avuto quanto gli spettasse. La classe politica belga si presentò quindi a Parigi con aspettative gonfiate ed esagerate, ma non avevano capito che quattro anni di stragi, distruzioni, esaurimento economico e debiti inimmaginabili a livello mondiale, avevano cambiato le priorità economiche e geopolitiche delle potenze alleate.

Fin dai primi giorni però la delegazione belga capì che le promesse non avrebbero garantito una garanzia, il capo delegazione Paul Hymans protestò veemente contro il metodo di lavoro poco democratico che si stava consumando durante la conferenza, dove i grandi cinque precludevano ogni intervento di altre nazioni. Il 12 febbraio Hymans ottenne la creazione di una commissione speciale per esaminare le frontiere del Belgio, e nonostante non ottenne nulla nei confronti delle frontiere con i Paesi Bassi dove le grandi potenze non ritennero il caso di fare trasferimenti territoriali in uno Stato che rimase neutrale per tutta la guerra, ricevette alcune concessioni al confine con la Germania. Il territorio di Eupen fu concesso al Belgio nonostante le proteste tedesche e della popolazione prevalentemente germanica nella zona

Diversa fu la situazione per l'Africa, dove le rivendicazioni belghe dei territori tedeschi dell'Africa orientale non furono accolte dagli alleati, in quanto la Gran Bretagna ambiva al sogno di un'Africa orientale tutta britannica, con una ferrovia che collegasse Il Cairo con Città del Capo. Il Belgio così ottenne solo il Ruanda-Urundi, un territorio senza sbocco sul mare[24].

Una discussione ancor più animata avvenne per le riparazioni di guerra. Anche in questo caso il Belgio era convinto di poter avere un trattamento privilegiato, tenuto conto del modo in cui fu sconvolto nelle devastazioni della guerra e dall'occupazione tedesca che lasciò il paese con le infrastrutture distrutte, una disoccupazione che toccava il milione di persone, e l'inflazione più alta d'Europa, che portò nel 1920 un costo della vita superiore del 470% al confronto con il 1914. Anche in questo caso gli alleati non mantennero le solenni promesse, il pagamento degli indennizzi si scontrava con le ambizioni anglo-francesi, che capivano che le risorse tedesche non erano infinite. Ma per il Belgio gli indennizzi tedeschi erano fondamentali per la sua ripresa economica. Lloyd George, che vedeva con antipatia Hymans, non fu disposto a fare nessuna concessione. Ad aprile il re Alberto I e il primo ministro Léon Delacroix si recarono di persona a Parigi per difendere di persona il punto di vista belga. Queste visite, assieme all'atteggiamento benevolo degli Stati Uniti, contribuirono a vincere le resistenze britanniche e francesi, ma il Belgio ottenne gran parte delle riparazioni che chiedeva grazie alla minaccia di Hymans di abbandonare la conferenza e non firmare il trattato, come peraltro aveva già fatto l'Italia e minacciava di fare il Giappone. Gli alleati non potevano permettersi anche il ritiro di un paese simbolo come il Belgio.

La questione italiana

Con la fine della prima guerra mondiale, essendo l'Italia risultata anch'essa vittoriosa nel conflitto, alla Conferenza di pace richiese che venisse applicato alla lettera il patto di Londra, la cui applicazione integrale avrebbe consentito all'Italia di ottenere buona parte della Dalmazia con le isole adiacenti, aumentando le richieste con la concessione anche della città di Fiume a motivo della prevalenza numerica dell'etnia italiana nel capoluogo quarnerino. I contrasti con Wilson furono netti; il presidente statunitense non era disponibile ad applicare alla lettera il patto di Londra e non era disponibile ad accettare le richieste di Roma a spese degli slavi, perché «si spianerebbe la strada all'influenza russa e allo sviluppo di un blocco navale dell'Europa occidentale». La Francia inoltre non vedeva di buon occhio una Dalmazia italiana poiché avrebbe consentito all'Italia di controllare i traffici provenienti dal Danubio. Il risultato fu che le potenze dell'Intesa alleate dell'Italia opposero un rifiuto e ritrattarono parte di quanto promesso nel 1915.

Il neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (SHS) entrò in fortissimo contrasto con l'Italia, reclamando non solo i territori assegnati dal patto all'Italia (Trieste, Gorizia, Istria, Dalmazia settentrionale), ma anche la Slavia veneta, appartenente al Regno d'Italia fin dal 1866. Secondo la delegazione jugoslava, tutte queste terre andavano assegnate al Regno SHS per motivi etnici e politici. La città di Trieste, pur riconosciuta di maggioranza italiana, doveva diventare jugoslava secondo il principio per cui le città dovevano seguire le sorti dell'entroterra circostante, a maggioranza slava. Lo stesso criterio doveva essere seguito per la città di Fiume, la cui maggioranza relativa di popolazione italiana era considerata in realtà costituita in massima parte di slavi italianizzati. L'irrendentismo nazionalista italiano, rafforzatosi nel corso della guerra, si spostò su posizioni di aperta e radicale contestazione dell'ordine costituito. Dopo l'abbandono della conferenza da parte dei delegati italiani, il mito della "vittoria mutilata" e le mire espansionistiche nell'Adriatico divennero i punti di forza del movimento che raccolse le tensioni di una fascia sociale eterogenea, della quale fecero parte gli Arditi, gli unici capaci di dare una svolta coraggiosa all'atteggiamento del governo. In molti ambienti si diffuse la convinzione, alimentata dai giornali e da alcuni intellettuali, che gli oltre seicentomila morti della guerra erano stati "traditi", mandati inutilmente al macello, e tre anni di sofferenze erano servite solo a distruggere l'Impero asburgico ai confini d'Italia per costruirne uno nuovo e ancora più ostile ad essa.

Il governo italiano dal canto suo fu diviso sul da farsi: Vittorio Emanuele Orlando era un sostenitore del riconoscimento delle nazionalità in opposizione alla politica decisamente imperialistica del Sonnino: il contrasto fra i due politici italiani fu fatale; se Orlando, disposto a rinunciare alla Dalmazia, richiedeva l'annessione di Fiume, Sonnino non intendeva cedere sulla Dalmazia, cosicché l'Italia finì col richiedere entrambi i territori, senza ottenere nessuno dei due. A seguito di un appello diretto di Wilson al popolo italiano che scavalcò il governo del paese, Vittorio Emanuele Orlando abbandonò per protesta la conferenza di pace di Parigi. In mancanza del presidente del consiglio italiano, le trattative però continuarono lo stesso, tanto che la delegazione italiana ritornò sui suoi passi.

Il 10 settembre 1919, il nuovo presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti sottoscrisse il trattato di Saint-Germain, che definiva i confini italo-austriaci, ma non quelli orientali. L'Austria cedette all'Italia l'Alto Adige, l'Istria, l'intera Venezia Giulia fino alle Alpi Giulie col confine includente la cittadina di Volosca e le isole del Carnaro, il porto di Valona in Albania, l'isolotto di Saseno di fronte alle coste albanesi, e diritto di chiedere aggiustamenti dei confini coloniali con i possedimenti francesi e britannici in Africa.

Due giorni dopo - il 12 settembre 1919 - una forza volontaria irregolare di nazionalisti ed ex-combattenti italiani, guidata dal poeta D'Annunzio, occupò militarmente la città di Fiume chiedendone l'annessione all'Italia. Solo la caduta del governo Nitti per il quinto e ultimo governo Giolitti riesce a sbloccare la situazione; Giolitti, con il Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, raggiunse un accordo con gli jugoslavi, dove Fiume veniva riconosciuta città indipendente, anche se D'Annunzio e le formazioni irregolari vennero costretti ad abbandonare la città solo dopo un intervento di forza da parte delle forze armate italiane (c.d. Natale di sangue della fine di dicembre del 1920).

Col Trattato di Rapallo, della parte della Dalmazia promessa col patto di Londra all'Italia andarono la città di Zara, le isole di Làgosta e Cazza e l'arcipelago di Pelagosa. Il resto della regione fu assegnata al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.

La posizione verso la Russia bolscevica

Tra le nazioni riunite alla Conferenza non era presente - com'è noto - la Russia bolscevica. Le nazioni vincitrici ritenevano l'influenza bolscevica un «pericolo sociale e politico» da isolare, ma che non sarebbe potuto essere stroncato con un intervento militare, peraltro in corso dalla firma del duro trattato di Brest-Litovsk. Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti non avevano forze sufficienti per un attacco in forze atto a sostenere l'Armata Bianca che si opponeva all'Armata Rossa bolscevica nella guerra civile che insanguinava l'ex impero zarista. Il governo bolscevico dal proprio canto era disponibile a far fronte ai debiti zaristi, a pagarne gli interessi in materie prime e a fare concessioni territoriali e minerarie, per garantire la sopravvivenza del neonato governo impegnato nella sanguinosa guerra civile. Tutto ciò venne però recepito da Wilson e Lloyd George come un insulto, come tentativo di comprare la benevolenza dei grandi stati capitalisti.

Ma né i fautori della crociata antibolscevica, né i governi occidentali volevano far digerire all'opinione pubblica dei negoziati con la Russia dei soviet, così le proposte e le concessioni bolsceviche caddero nel vuoto. Nessuno era disposto a mandare truppe in Russia, nessuno era disposto ad accettare trattative con il governo di Lenin, solo gli Stati Uniti colsero l'occasione di guadagnare qualcosa dalla situazione in Russia, così fu approvato il progetto di Herbert Hoover di estendere alla Russia l'opera di assistenza alimentare già sperimentata in Belgio. Una delle ultime decisioni prese durante la conferenza fu proprio la fine del conflitto contro la Russia, che si stava rivelando troppo costoso e troppo distante dalle necessità degli stati europei, e il 18 novembre 1919 le ultime unità statunitensi lasciarono Arcangelo e Vladivostok.

La Conferenza si conclude

Entro la fine del 1919 Germania, Austria e Bulgaria firmarono i rispettivi trattati di pace, quest'ultima cedette il suo unico sbocco sul mar Egeo - la Tracia - agli alleati che in seguito la trasferirono alla Grecia. La Dobrugia fu ceduta alla Romania, mentre la Jugoslavia ricevette le isole di Strumica e Tzaribrod e 50.000 tonnellate di carbone l'anno per cinque anni. In Ungheria i torbidi medi di governo comunista di Béla Kun ritardarono la stipulazione della pace, ma il 4 giugno 1920 l'ultimo nucleo territoriale di quelli che un tempo furono gli imperi centrali accettò il trattato di Trianon; la Cecoslovacchia acquisì le ex regioni ungheresi della Rutenia e della Slovacchia, la Romania acquisì la Transilvania e la regione del Banato passò alla Jugoslavia, togliendo di fatto qualsiasi sbocco al mare all'Ungheria, guidata per ironia dall'ammiraglio dell'ex flotta austro-ungarica Miklós Horthy.

Il 19 novembre il governo statunitense respinse il trattato di Versailles. Fu un duro colpo per coloro che avevano sperato nell'alleato d'oltremare come un contributore nel far rispettare il trattato, e che desse un aiuto economico all'Europa. L'intero trattato era stato concepito partendo dall'assunto che gli Stati Uniti avrebbero assunto un ruolo attivo, la Francia fu persuasa dal creare uno Stato cuscinetto fra sé e la Germania in cambio del sostegno armato degli Stati Uniti. L'intero trattato era stato «deliberatamente e ingegnosamente costruito da Wilson in persona, in modo tale che la collaborazione americana risultasse essenziale». Il trattato di Versailles entrò in vigore il 10 gennaio 1920, lasciando l'Europa abbandonata a sé stessa. All'entrata in vigore del trattato corrispose l'istituzione della Società delle Nazioni, la quale nasceva già incrinata: la Russia non ne faceva parte e neppure la Germania, mentre la Cina si sentiva offesa perché i giapponesi, nonostante le proteste alleate, si erano annessi la provincia dello Shantung, in precedenza in mano tedesca.

Tuttavia la Società delle Nazioni racchiudeva in sé le speranze di milioni di persone che guardavano ad essa come un modo di dirimere le dispute internazionali senza far ricorso alla forza. Speranze contenute nei suoi 26 articoli, che prevedevano la consultazione, e quindi all'azione collettiva, nel caso di aggressione senza provocazione. Ma perfino nei nuovi stati nati dalla volontà delle minoranze, nascevano le aspirazioni di nuove minoranze i cui diritti venivano continuamente calpestati, e alle quali la Società offriva più una speranza che un vero e proprio appoggio. Le minoranze tedesche in Polonia e Cecoslovacchia, le minoranze ungheresi in Romania e Cecoslovacchia, la minoranza ucraina in Polonia, covavano risentimenti simili a quelli che prima del 1914 avevano innescato la spirale della guerra.

I trattati di pace in dettaglio

Il trattato di Versailles del 28 giugno 1919 regolava le modifiche territoriali imposte alla Germania: restituzione alla Francia dell'Alsazia e della Lorena, apposizione della Saar sotto controllo internazionale fino ad un plebiscito da tenere nel 1935 con cessione della proprietà delle miniere di carbone alla Francia, smilitarizzazione e occupazione della Renania per un arco di tempo variabile dai cinque ai quindici anni, cessione dei distretti di Eupen e Malmedy al Belgio, convocazione di un plebiscito nello Schleswig per deciderne le sorti (la parte settentrionale preferì stare sotto la Danimarca, quella meridionale optò invece per la Germania), assegnazione della Slesia settentrionale alla neonata Polonia, sottrazione della città di Danzica (diventata una "città libera" amministrata dalla Società delle Nazioni) e separazione della Pomerania dalla Prussia orientale mediante la creazione di un "corridoio" da cedere alla Polonia, che così guadagnava uno sbocco sul mar Baltico. Inoltre, la Germania perse tutte le colonie (affidate con la formula del "mandato" alle potenze vincitrici), venne abolita la coscrizione obbligatoria, fu posto un limite di 100.000 unità all'esercito (privato inoltre dell'artiglieria pesante e dell'aeronautica) mentre la flotta, che non poteva più possedere sommergibili, era già stata internata nel porto scozzese di Scapa Flow dove si era autoaffondata il 21 giugno. La condizione più gravosa fu comunque il pagamento delle riparazioni di guerra, fissate in seguito all'enorme cifra di 132 miliardi di marchi oro, il cui principio era in contrasto con le idee wilsoniane e il cui ammontare complessivo fu la causa di numerose dispute durate fino agli anni trenta, nonché origine del rifiuto del popolo tedesco, anche quello più disponibile a rendersi conto della sconfitta, di accettare un trattato ingiusto ed eccessivamente oneroso, tanto più che la delegazione tedesca non poté partecipare alla sua stesura, ottenendo solamente di poter mettere nero su bianco le sue obiezioni. In Germania il trattato di Versailles fu subito osteggiato da una forte spinta revisionistica.

Il trattato di Saint-Germain-en-Laye del settembre 1919 riguardava l'Impero austro-ungarico, sostituito a novembre dalla Repubblica dell'Austria tedesca, lo stesso mese in cui la Repubblica di Weimar prendeva ufficialmente il posto dell'Impero tedesco. L'Austria perse gran parte dei suoi territori e rimase circoscritta al solo territorio abitato da popolazioni di lingua tedesca, che nel complesso occupavano circa un quarto del vecchio impero. Il Trentino-Alto Adige, Gorizia, Trieste e l'Istria andarono all'Italia, la Boemia, la Moravia e la Slovacchia vennero fuse a formare la Cecoslovacchia, la Bucovina passò alla Romania, parte della Carinzia fu divisa fra l'Austria e il nuovo Regno dei Serbi, Croati e Sloveni da un plebiscito, e anche il Burgenland fu spartito con l'Ungheria, divenuta indipendente, sempre dietro ad un plebiscito. L'esercito venne ridotto a 30.000 soldati e un articolo del trattato, rafforzato da un altro articolo del trattato di Versailles che esplicitava la stessa cosa, vietava l'annessione alla Germania (Anschluss).

Il trattato di pace con la Bulgaria, ovvero il trattato di Neuilly, venne firmato il 27 novembre 1919. Esso prevedeva la perdita della Tracia occidentale, ceduta al Regno di Grecia, con il relativo sbocco sul mar Egeo, la cessione di alcune province minori al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni e la restituzione della Dobrugia Meridionale alla Romania. Dopo la fine della breve Repubblica sovietica ungherese di Béla Kun, sconfitta dai romeni e dai cecoslovacchi, le sorti dell'Ungheria vennero stabilite dal trattato del Trianon (4 giugno 1920) che prevedeva la cessione del Banato alla Romania (che ottenne anche parte della Transilvania) e al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (a cui andò anche la Croazia e la Slavonia). Una forte minoranza ungherese rimase nei confini cecoslovacchi, nella Rutenia subcarpatica, mentre un altrettanto forte minoranza tedesca abitava nei Sudeti.

Uno dei trattati più complessi e severi fu quello di Sèvres firmato il 10 agosto 1920. Con esso l'Impero ottomano perdeva tutti i territori esterni all'Anatolia settentrionale e alla zona di Istanbul: Siria, Palestina, Transgiordania e Iraq vennero affidati a Francia e Gran Bretagna che ne fecero dei "mandati" affermando il loro potere con la forza (guerra franco-siriana); Smirne, dal 1917 affidata all'Italia, passava ora per cinque anni sotto l'amministrazione provvisoria della Grecia (in attesa di un plebiscito), che acquistò anche la Tracia e quasi tutte le Isole egee; l'Armenia diventò indipendente e il Kurdistan ottenne un'ampia autonomia; i Dardanelli rimanevano sotto l'autorità nominale del sultano Mehmet VI, ma la navigazione venne posta sotto il controllo di una commissione internazionale, che per garantire la libertà di navigazione aveva sotto controllo anche delle strisce di territorio sia sulla costa europea che su quella asiatica. L'intento della commissione era di chiudere gli stretti ad ogni aiuto destinato ai rivoluzionari russi e aprirli alle forze controrivoluzionarie. Ancora, Gran Bretagna, Francia e Italia presero in gestione le finanze imperiali. È da dire comunque che il trattato di Sèvres fu il primo ad essere completamente messo in discussione. Prima ancora che fosse firmato infatti, un gruppo di militari guidato da Mustafa Kemal dichiarò di non voler accettare una sconfitta che non aveva subito, ed iniziò una duplice guerra contro il sultano e gli eserciti occidentali stanziati in Turchia, che rinunciarono a combattere e si ritirarono. Nell'aprile 1920 venne indetta un'assemblea nazionale ad Ankara che fece da preludio, dopo aver sconfitto la Grecia, alla nascita della Repubblica nel 1923, che nelle intenzioni di Kemal doveva essere laica e confinata nella penisola anatolica, dove era dominata dalla popolazione turca. Il nuovo Stato venne riconosciuto dalle potenze dell'Intesa il 24 luglio 1923 con il trattato di Losanna, che ridava alla Turchia la piena indipendenza e il controllo delle coste attorno i Dardanelli, dove la navigazione era regolata da una convenzione. Kemal era già uscito dall'isolamento internazionale il 16 marzo 1921 firmando il primo trattato anticoloniale del dopoguerra, con i rivoluzionari russi, che acquistarono parte dell'Armenia istituendovi poi una repubblica socialista, ma nel 1923 la Turchia non aveva più interesse a favorire l'Armata Rossa, preferendo invece normalizzare i rapporti con le potenze occidentali che avrebbero dominato il Mediterraneo orientale.

Il fallimento della politica di sicurezza

Le clausole con la Germania stipulate nella conferenza di Versailles imponevano alla nazione sconfitta l'ammissione della propria "colpevolezza"; ciò ebbe ripercussioni molto negative nella percezione che la popolazione ebbe nei confronti di chi gli aveva imposto il trattato e vi consolidò l'idea che la fine della guerra fosse stata decisa dallo sfacelo e dalla rivoluzione sul fronte interno. I nazionalisti e gli ex capi militari cercarono di addossare la colpa ad altri, e presto i capri espiatori vennero identificati nei politici della Repubblica di Weimar, nei comunisti, e nell'"internazionale ebraica", tutti colpevoli di aver, sia criticando la causa del nazionalismo tedesco, sia, semplicemente, non mostrandosi sostenitori abbastanza entusiasti di quest'ultimo.

Ma non solo gli sconfitti rimasero delusi dalle conclusioni della Conferenza, anche alcuni dei paesi vincitori videro negarsi possedimenti territoriali e alcune clausole istituite con gli Alleati per convincere le altre nazioni ad entrare in guerra a loro fianco. Il Belgio vide negarsi i possedimenti in Africa e l'Italia invece entrò in forte contrasto con Wilson e le altre potenze Alleate che non gli consentirono di applicare quanto il patto di Londra concordava.

Il problema della sicurezza europea

La Società delle Nazioni, l'organo con sede a Ginevra che avrebbe dovuto riorganizzare le relazioni internazionali e risolvere i conflitti tra gli stati in modo da evitare la guerra, in realtà poggiava le gambe su uno statuto suggestivo ma astratto, contraddetto dallo spirito punitivo di Versailles e i cui principi non troveranno una concreta volontà politica disposta ad applicarli. L'organizzazione, pensata da un presidente statunitense, venne abbandonata prematuramente proprio dagli Stati Uniti per volere del Congresso e del nuovo presidente repubblicano Warren G. Harding, che preferirono portare avanti una politica isolazionista concentrandosi solo nell'area dell'oceano Pacifico e dell'America meridionale. L'assenza degli stati sconfitti, degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica ridussero la Società delle Nazioni in uno strumento in mano a Gran Bretagna e Francia. Presente in Europa solo economicamente, l'assenza politica degli Stati Uniti causò la mancanza in Europa di un forte garante esterno capace di risolvere le controversie.

L'insuccesso dei tentativi francesi alla conferenza di Parigi di ingabbiare la Germania in restrizioni tali da impedirle di nuocere alla Francia per un ragionevole lasso di tempo condizionò fortemente la politica francese del dopoguerra. I primi paesi a cui si avvicinò la Francia furono gli stati con interessi antirevisionistici: Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, Romania, Cecoslovacchia (tutti e tre a formare la Piccola Intesa tra il 1920 e il 1921) e Polonia. In realtà, più che portare un contributo effettivo alla sicurezza francese, erano questi paesi che necessitavano dell'aiuto francese per non rimanere isolati e alla mercé di attacchi sia esterni che interni. Quando nel gennaio 1922 il governo francese passò alla destra nazionalistica, il primo ministro Raymond Poincaré decise di usare la forza, e l'11 gennaio 1923 ordinò all'esercito di occupare la Ruhr e le sue risorse minerarie per compensare le riparazioni di guerra che la Germania non era riuscita a pagare. L'azione fu fortemente criticata dalla Gran Bretagna, e Berlino adottò la linea della "resistenza passiva" impedendo ai lavoratori di recarsi nelle fabbriche della Ruhr.

Presto si giunse ad uno stallo completo che terminò solo con l'arrivo al cancellierato tedesco, in agosto, di Gustav Stresemann. Convinto che la situazione della Germania si sarebbe dovuta normalizzare non grazie a colpi di mano, ma conquistando la fiducia dei paesi vincitori, a settembre Stresemann revocò la resistenza passiva. Un anno dopo Édouard Herriot divenne il nuovo primo ministro francese, e si impegnò, assieme all'omologo britannico, il laburista Ramsay MacDonald, a rafforzare la Società delle Nazioni con il protocollo di Ginevra, che tuttavia venne abbandonato dopo le dimissioni di MacDonald nel novembre 1924 e l'elezione del conservatore Stanley Baldwin. La Società delle Nazioni continuò ad essere priva di effettivo potere. Il varo del piano Dawes avvenuto in quello stesso 1924, che trovò una soluzione alle riparazioni di guerra tedesche e favorì un clima più sereno, permise a Stresemann, nel febbraio 1925, di rendersi disposto a riconoscere il confine renano e a restituire l'Alsazia-Lorena alla Francia, a patto che le truppe di occupazione franco-belghe si fossero ritirate dalla Ruhr, cosa che avvenne entro agosto. Il discorso di Stresemann fu accettato col patto di Locarno del 16 ottobre, firmato tra Germania, Francia, Gran Bretagna, Belgio e Italia che, di fatto, capovolse il trattato di Versailles: da un'imposizione si passò all'accettazione dello stato delle cose. La Francia si assicurò quindi la sicurezza dell'area renana e i buoni rapporti con la Germania (almeno finché Stresemann e Aristide Briand rimasero in vita), ma non la sicurezza globale in Europa. Il patto di Locarno infatti lasciò aperta la questione dei confini orientali tedeschi, per cui la Francia dovette stipulare un trattato di alleanza e mutua assistenza con la Polonia e la Cecoslovacchia, mentre affidò all'Italia l'indipendenza austriaca, per cui si era parlato di una possibile unione alla Germania (Anschluss) già nel 1919.

La Rivoluzione d'ottobre riuscì ad attecchire, fuori dalla Russia, solo in Ungheria, dove il regime di Béla Kun resistette fino all'agosto 1919. Negli altri stati europei la rivoluzione proletaria venne scongiurata o dalle risposte riformistiche e parlamentari, o dalle dittature, e per i primi anni venti l'Unione Sovietica era vista solamente come un problema internazionale, concentrato soprattutto sui confini occidentali dell'URSS e dai suoi rapporti con il Giappone e la Cina, ma non come una minaccia per l'Europa, debilitata com'era dagli strascichi del trattato di Brest-Litovsk (sconfessato alla conferenza di Parigi) che l'avevano privata della Finlandia, degli Stati baltici e dei territori in Polonia, tutti Stati tornati indipendenti. L'isolamento sovietico continuò fino al trattato di Rapallo del 1922 siglato con la Germania, a cui seguì un rapido riconoscimento dell'URSS da parte di tutti i paesi occidentali.

Fra i problemi legati alla sicurezza, il più complesso era quello della Polonia, tornata indipendente inglobando Galizia, Slesia e parti di Pomerania, Bielorussia e Ucraina con tutti i vari gruppi etnici che abitavano queste regioni. La Polonia indipendente era il simbolo del nuovo ordine internazionale europeo, ma i suoi confini erano carichi di potenziali tensioni. Nel 1921 parte della Slesia tornò alla Germania in seguito ad un plebiscito, ma i confini orientali vennero normalizzati solo dopo una guerra contro la Russia, esplosa dopo che il leader polacco Józef Piłsudski aveva stretto dei rapporti di amicizia con il presidente ucraino Simon Petljura. L'Armata Rossa sembrò avere la meglio, giungendo fino quasi a Varsavia, ma gli aiuti francesi elargiti ai polacchi permisero a questi di passare alla controffensiva e di sconfiggere la Russia. La pace di Riga del marzo 1921 diede nuovi territori della Bielorussia alla Polonia, che diventò così una "Grande Polonia", fortemente nazionalista ma geopoliticamente sovradimensionata, che poteva essere un solido spartiacque tra Germania e URSS o la preda di quest'ultimi.

La prima crisi del colonialismo europeo

L'egemonia globale europea subì il più grande colpo in ambito coloniale. Dalla fine del XIX secolo l'imperialismo fu oggetto delle critiche del marxismo, mentre Lenin definì il colonialismo come la «fase suprema» del capitalismo, indicando nella lotta per l'indipendenza dei popoli il mezzo per eliminare il sistema economico dominante.

L'imperialismo europeo di fine XIX secolo era non solo il frutto di fenomeni culturali, ma rispondeva alla precisa necessità di sostenere lo sviluppo dell'industrializzazione, bisognosa di materie prime scarse o costose in Europa ma abbondanti in determinate aree geografiche del mondo, raggiungibili e conquistabili con una potente flotta e sfruttabili con un'adeguata marina mercantile. Dopo non molti anni il contento tra le popolazioni colonizzate gettò i semi della rivolta, già prima della Grande Guerra: agitazioni nazionaliste in Cina, India e Turchia e delle popolazioni bianche sotto il regime coloniale della Gran Bretagna (che nel 1907 concedette ai suoi Dominion un'indipendenza quasi totale, riformando nel 1931 lo statuto del Commonwealth delle nazioni).

Gli accordi segreti stipulati durante la guerra per decidere il futuro delle colonie tedesche o dei vasti possedimenti dell'Impero ottomano si scontrarono con le idee del presidente statunitense Wilson, che riuscì ad inserire nel patto istitutivo della Società delle Nazioni un articolo, il numero 22, che introduceva la formula dei "mandati" (divisi in tre tipi – A, B, C – ognuno con una diversa misura d'intervento della potenza mandataria) intesi come «una missione sacra di civiltà»; inoltre alle comunità del Medio Oriente (mandati di tipo A) venne riconosciuto uno sviluppo tale da permetterne l'indipendenza, raggiungibile con l'aiuto della potenza mandataria che, per autorizzarla, avrebbe dovuto tenere conto prima di tutto dei voti di tali comunità. La Francia si aggiudicò gli attuali Siria e Libano, mentre la Gran Bretagna ottenne la Palestina e l'Iraq. I primi attuarono un forte e profondo colonialismo, che lasciò tracce profonde che rimandarono l'indipendenza praticamente al 1946, mentre i secondi demandarono il governo dei territori alla dinastia hashemita che li aveva appoggiati durante la guerra.

Anche in Africa settentrionale si fecero sentire i movimenti nazionalisti. La Gran Bretagna fu costretta a rinunciare al protettorato egiziano concedendo piena indipendenza al paese, seppur con molte riserve circa i poteri del sovrano Fu'ad; in Libia le forze italiane inviate per recuperare il controllo della Cirenaica, della Tripolitania e del Fezzan furono duramente impegnate dalle tribù locali, mentre in Algeria (Francia) e Marocco (Spagna) i ribelli di Abd el-Krim posero per la prima volta il problema della convivenza tra popolazione indigena e metropolitana. In India il Congresso Nazionale Indiano (guidato da Gandhi e Nehru) e la Lega musulmana di Ali Jinnah unirono le forze per combattere la potenza dominante, cioè la Gran Bretagna.

La Grande depressione e il suo impatto internazionale

«Le banche avevano ritirato improvvisamente dal mercato diciottomila milioni di dollari, cancellando le aperture di credito e chiedendone la restituzione»
(Emile Moreau, Governatore della Banca di Francia, 8 febbraio del 1928)

La grande depressione, detta anche crisi del '29, grande crisi o crollo di Wall Street, fu una grave crisi economica e finanziaria che sconvolse l'economia mondiale alla fine degli anni venti, con forti ripercussioni durante i primi anni del decennio successivo. La depressione ebbe origine da contraddizioni simili a quelle che avevano portato alla crisi economica del 1873-1895, mentre l'inizio si ebbe negli Stati Uniti con la crisi del New York Stock Exchange (la borsa di Wall Street) avvenuta il 24 ottobre del 1929 (giovedì nero), cui fece seguito il definitivo crollo (crack) della borsa valori del 29 ottobre (martedì nero), dopo anni di boom azionario.

La depressione ebbe effetti recessivi devastanti sia nei paesi industrializzati, sia in quelli esportatori di materie prime con un calo generalizzato della domanda e della produzione. Il commercio internazionale diminuì considerevolmente e con esso i redditi dei lavoratori, il reddito fiscale, i prezzi e i profitti. Le maggiori città di tutto il mondo furono duramente colpite, in special modo quelle che basavano la loro economia sull'industria pesante. Il settore edilizio subì un brusco arresto in molti paesi. Le aree agricole e rurali soffrirono considerevolmente in conseguenza di un crollo dei prezzi fra il 40 e il 60%. Le zone minerarie e forestali furono tra le più colpite, a causa della forte diminuzione della domanda e delle ridotte alternative d'impiego occupazionale.

Il contesto e la crisi negli USA

Dopo la Grande Guerra gli Stati Uniti conobbero un periodo di prosperità e progresso socio-economico trainato soprattutto dal settore automobilistico, che a sua volta fece da volano alla crescita trascinando con sé altri settori connessi e non come l'industria metallurgica, della gomma, il settore petrolifero, dei trasporti ed edile. Sembrava quindi essersi innescato un circolo virtuoso: l'alta produttività permetteva di mantenere inalterati i salari e i prezzi dei prodotti sul mercato. Questo favoriva quindi gli investimenti che permettevano a loro volta di aumentare la produttività. Tuttavia agli investimenti e al continuo aumento della produttività, non corrispose una proporzionata crescita del potere d'acquisto. Nei primi anni dopo il primo conflitto mondiale, lo sviluppo era stato infatti sostenuto dai risparmi accumulati negli anni della guerra e dai bassi tassi d'interesse.

Una seconda contraddizione interna all'economia statunitense era rappresentata dal sistema finanziario. Non furono infatti posti limiti alle attività speculative delle banche e della borsa valori, dovute alla volontà da parte degli acquirenti di detenere titoli, non tanto per ottenere dividendi e dunque profitti, quanto solo per aumentare il proprio capitale. In sostanza dunque si comperava per rivendere, senza preoccuparsi della qualità dei titoli e all'aumento di domanda dei titoli si accompagnò direttamente quella delle quotazioni. A tutto questo va aggiunta la responsabilità dei rappresentanti delle holding che detenevano portafogli d'azioni e che avevano quindi interesse che i corsi dei titoli si alzassero e per spingere i risparmiatori all'acquisto dei titoli effettuavano dichiarazioni troppo ottimistiche. L'aumento del valore delle azioni industriali, però, non corrispose a un effettivo aumento della produzione e della vendita di beni tanto che, dopo essere cresciuto artificiosamente per via della speculazione economica diffusasi a tutti i livelli in quegli anni, questo scese rapidamente e costrinse i possessori a una massiccia vendita, che provocò il noto crollo della borsa.

La caduta della borsa colpì soprattutto quel ceto di media borghesia che nel corso degli anni venti, oltre ad aver investito i propri risparmi in borsa, aveva sostenuto la domanda di beni di consumo durevole. La loro uscita dal mercato indeboliva, quindi, proprio le industrie produttrici di beni di consumo durevole (come quello dell'auto). Queste industrie cessarono di commissionare materiali a quelle operanti negli stessi settori dell'indotto, le quali dovettero ridurre il personale e i salari, provocando una contrazione a valanga anche nei settori dei beni primari di consumo (come quello agricolo).

La situazione era poi aggravata dalla stretta interconnessione che legava il settore industriale a quello bancario. Infatti, nel momento in cui la borsa crollò, si diffuse un'ondata di panico devastante tra i piccoli risparmiatori i quali si precipitarono nelle banche nel tentativo di salvare il proprio denaro. Il ritiro del denaro dal mercato provocò quindi una crisi di liquidità di ampie dimensioni e il fallimento di molte banche che trascinarono nella crisi le industrie nelle quali avevano investito. Molte di queste furono costrette a chiudere i battenti o a ridimensionarsi e i licenziamenti, operati dalle aziende in crisi, portarono a una elevata diminuzione delle domande di lavoro, bloccando quasi completamente l'economia americana.

Una volta innescata la crisi, a causa dell'aumento della disoccupazione e del parallelo calo dei consumi, questa assunse dunque i connotati di una crisi di sovrapproduzione cioè eccesso di offerta rispetto alla domanda con conseguente parallelo calo/ridimensionamento della produzione, che di pari passo scese di quasi il 50% tra il 1929 e il 1932.

La crisi fuori dagli USA

La spirale recessiva si propagò rapidamente fuori dagli USA in primis a tutti quei paesi che avevano stretti rapporti finanziari con gli Stati Uniti, a partire da quelli europei che si erano affidati all'aiuto economico degli americani dopo la Prima guerra mondiale, ovvero Gran Bretagna, Austria e Germania, dove il ritiro dei prestiti americani fece saltare il complesso e delicato sistema delle riparazioni di guerra, trascinando nella crisi anche Francia e Italia.

In tutti questi paesi si assistette a un drastico calo della produzione seguito da diminuzione dei prezzi, crolli in borsa, fallimenti e chiusura di industrie e banche, aumento di disoccupati (12 milioni negli USA, 6 in Germania, 3 in Gran Bretagna), il tutto aggravato anche dall'introduzione di misure protezionistiche come freno al libero scambio nel sistema economico globale.

Va notato che la crisi non colpì l'economia dell'URSS, la quale in quegli anni aveva inaugurato il suo primo piano quinquennale con l'obiettivo di creare una base industriale moderna. Restarono inoltre immuni dalla crisi anche il Giappone - che affrontò la crisi (inclusa la guerra) con misure inflazionistiche - e i Paesi scandinavi che, in quanto esportatori di particolari materie prime, non risentirono della riduzione della domanda dei loro prodotti.

Nel 1931 la Gran Bretagna abbandonò il gold standard, imitata subito dai paesi scandinavi. Nel 1934 sterlina e dollaro vennero fortemente svalutati.

L'economista John Kenneth Galbraith ha individuato almeno cinque fattori di debolezza nell'economia americana responsabili dell'inizio della crisi:

Le cause della recessione internazionale

Sul fronte internazionale, una prima causa di fragilità del sistema economico internazionale è insita nell'eredità dei debiti di guerra. Alla fine del conflitto infatti Gran Bretagna, Francia e Italia si erano ritrovate debitrici con gli Stati Uniti per somme ingenti, che costringevano tutte e tre a una politica di esportazioni molto aggressiva per procurarsi la valuta necessaria a pagare i debiti. Si era quindi fatta strada l'idea di adottare lo stesso espediente dell'indomani della guerra franco-prussiana, quando le riparazioni di guerra imposte alla Francia avevano permesso non solo di coprire il costo della guerra ma anche di consentire la ripresa economica. Perciò fu deciso di addebitare i costi bellici alla Germania.

L'industria tedesca, pur avendo un grande potenziale, era uscita dalla guerra stremata. Da allora gli stessi paesi vincitori, soprattutto gli Stati Uniti, si erano resi conto della necessità di sostenere l'economia tedesca con ingenti finanziamenti. Questi finanziamenti avevano creato un curioso triangolo in cui la Germania usava gran parte di queste risorse per pagare i debiti a Gran Bretagna e Francia, e queste a loro volta usavano i capitali per pagare i propri debiti. Dunque questo sistema sarebbe sopravvissuto fin quando gli U.S.A. fossero stati in grado di esportare capitali in Germania.

Un secondo elemento di fragilità del sistema economico internazionale era costituito dall'assenza di un Paese guida credibile, con la volontà e un'influenza tale da correggere eventuali crisi economiche globali. Dopo la Grande guerra il primato sarebbe dovuto passare in mano agli Stati Uniti, i quali, pur avendo un apparato industriale di gran lunga superiore a quello degli altri paesi, tuttavia non si impadronirono dello status internazionale che gli sarebbe spettato a causa di una politica isolazionista (status che rimase in mano alla Gran Bretagna). L'assenza di un'appropriata guida economico-finanziaria si rifletteva in modo drammatico sul sistema internazionale: nella conferenza di Genova del 1922 venne definito un sistema misto, noto come gold exchange standard, che da una parte garantiva respiro all'economia britannica, dall'altro affidava alla sua finanza un ruolo di regolatore dell'economia internazionale che non era in grado di assumere.

Il sistema economico globale

Tuttavia la causa principale che portò il crollo finanziario a diventare una depressione economica di enormi dimensioni ovvero quasi globale fu la chiusura delle economie nazionali e coloniali tramite misure protezionistiche con forte freno al libero commercio. Così come nella Grande depressione del 1873-95, furono infatti i dazi doganali a deprimere l'economia: alcuni stati producevano beni in surplus che però altri stati non acquistavano, poiché venivano resi troppo costosi dai dazi all'importazione imposti per favorire i produttori interni. Di conseguenza quando in un paese produttore un dato bene raggiunge livelli di saturazione, il prezzo scende tanto che non è più conveniente produrre quel bene, a meno di trovare nuovi mercati che possano assorbire parte delle merci. In definitiva quindi in assenza di nuovi mercati la produzione, pur mantenendo un potenziale valore, si ferma.

Ad esempio nella crisi degli anni 1873-95 il grano era il bene ideale: negli Stati Uniti vi era una sovrapproduzione di grano dovuta all'ampiezza degli spazi coltivati estensivamente e alla bassa densità di popolazione. I progressi tecnologici consentivano di trasportare il grano su distanze sempre più lunghe, cosicché gli USA iniziarono a esportare grano in Europa, che lo acquistava a prezzo più basso rispetto a quello locale. Questo danneggiava i proprietari terrieri europei, i quali imposero ai governi i dazi per bloccare le importazioni dall'America. Ciò produsse le seguenti conseguenze:
In definitiva:
Come si vede questo circolo vizioso nuoce a tutti fuorché a una ristretta minoranza, ma in una visione più ampia nuoce anche a essa nella crisi economica generale. Lo stesso circolo vizioso che causò la crisi del 1873-95 è la causa principale di quella del 1929, ma con modalità differenti.

La crisi del 1873-95 aveva trovato sbocco con il colonialismo, grazie al quale si erano aperti nuovi mercati nei quali si poteva dirigere il commercio, sebbene ogni colonia commerciasse quasi esclusivamente con la propria nazione, essendo preclusi gli altri commerci tramite dazi che creavano sistemi commerciali isolati gli uni con gli altri. Quella che fu la soluzione alla crisi del 1873-95 portò a quella del 1929, e questo perché a un certo punto anche i mercati coloniali arrivarono al punto di saturazione (e in questo contesto come mercati coloniali si riconosce come tale anche il Sudamerica nei confronti degli Stati Uniti) e l'isolamento dei sistemi commerciali, imposto dai dazi, rese impossibile la diversificazione delle produzioni.

Quindi a causa di questo blocco del commercio si ritornò alla situazione del 1873-95, nella quale le industrie non trovavano sbocchi commerciali per le proprie merci o i prezzi erano tanto bassi da dover abbandonare la produzione, e al contempo i prezzi delle merci da comprare diventavano troppo alti. Con il crescere delle tensioni economiche, i dazi doganali furono l'arma con cui fu combattuta una guerra commerciale tra nazioni, guerra che da commerciale era divenuta militare negli anni 1914-18 e il cui risultato aveva ridato "ossigeno" all'economia globale per qualche anno in più, fino al 1929 appunto. Senza la Prima guerra mondiale la crisi del 1929 sarebbe arrivata molto prima. Se qualche anno prima lo scoppio delle ostilità aveva scongiurato l'imminente crisi (che rappresenta un grosso stimolo all'economia per la massiccia mobilitazione di risorse da parte dei governi), nel 1929 le condizioni internazionali non erano tali da scatenare una guerra. Ma una volta iniziata la Grande depressione, la soluzione venne spasmodicamente ricercata, fino a raggiungerla, nella seconda guerra mondiale, che aprì i mercati coloniali a tutte le nazioni in vista della futura e auspicata indipendenza delle colonie.

Soluzioni intermedie furono adottate durante gli anni Trenta; gli USA diedero l'esempio concedendo l'indipendenza o l'autonomia alle loro colonie (vari staterelli centroamericani e caraibici) , l'Inghilterra fece lo stesso col Trattato di Westminster, ma furono tutte soluzioni effimere.

La tesi "austriaca"

La Scuola austriaca ha elaborato una teoria in merito alle cause della Grande Depressione che si discosta nettamente dalla visione comune, almeno per ciò che concorre alla crisi iniziale interna statunitense.

L'economista appartenente a tale scuola che più di tutti ha trattato questo argomento è stato lo statunitense Murray N. Rothbard, che, nella pubblicazione La Grande Depressione datata 1963, ha esposto la sua teoria per cui la crisi del '29 sarebbe stata causata non dall'eccessivo libero mercato, come sostenuto da molti, bensì al contrario dall'eccessivo interventismo statale nell'economia americana a partire dagli anni dieci con il presidente Woodrow Wilson.

La causa principale secondo Rothbard sarebbe stata la politica monetaria tenuta dalla Federal Reserve a partire dalla sua creazione, nel 1913 (sebbene la Federal Reserve sia, come molte altre banche centrali, un organismo indipendente dal governo). La continua espansione del credito ottenuta attraverso tassi tenuti artificialmente bassi e il successivo inevitabile rialzo dei tassi avrebbe causato una reazione a catena che ha portato poi al famoso giovedì nero.

In sintesi, secondo la Scuola austriaca le cause della crisi del '29 furono la politica inflazionistica (permessa anche dall'abbandono del sistema aureo classico) della Federal Reserve iniziata negli anni Dieci (ossia all'inizio della Prima guerra mondiale) combinata con un eccessivo peso dello Stato culminato poi nel New Deal roosveltiano, che secondo gli austriaci non fu altro che la continuazione dell'interventismo del suo predecessore, Herbert Hoover.

Conseguenze politiche ed economiche

Il fallimento dei tentativi iniziali di trovare soluzioni comuni sul piano internazionale alla crisi spinse da una parte tutti i paesi a introdurre misure protezionistiche e a creare "aree economiche chiuse" (maggiore esempio fu il sistema di "tariffe preferenziali" fra gli Stati del Commonwealth britannico deciso nel 1931); dall'altra i governi furono indotti a sperimentare su vastissima scala forme di partecipazione diretta dello Stato alla vita economica nazionale.
Effetti della Grande depressione negli Usa e nel Mondo:


Gli Stati svolsero così funzioni imprenditoriali (ricorrendo alla spesa pubblica come elemento strutturale e centrale della dinamica economica nazionale) e previdenziali (con l'attivazione di misure legislative di sicurezza sociale). Questo tipo di interventi, ad esempio il New Deal in USA e la fondazione dell'IRI in Italia, furono sistemizzati e teorizzati successivamente da John Maynard Keynes, da cui la definizione politiche keynesiane) .

In Germania, che subì in particolare il contraccolpo più violento, la crisi provocò milioni di disoccupati che andarono poi a formare la base di consenso che portò il Partito nazista al potere nel 1933. Nel complesso, nonostante un accenno di ripresa a partire dal 1933, la crisi non fu completamente superata fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale.

Il Giappone si riprese continuando la sua politica di espansione imperialista, occupando la Manciuria e instaurando lo stato fantoccio del Manciukuò nel 1931, per poi riprendere l'espansione in Cina occupando la città di Shanghai e altre province. Iniziò così la guerra sino-giapponese, che sarà uno dei fronti della seconda guerra mondiale.  Per approfondire, vedi Grande depressione.

Invece di sviluppare le proposte dei paneuropeisti ed esaminare i cambiamenti che gli USA e il Giappone avevano introdotto nel mercato globale e sul sistema coloniale, gli Stati europei si chiusero al proprio interno, ciascuno cercando di risolvere i problemi con provvedimenti economici e azioni politiche diverse. Questa mancanza di coordinazione risultò evidente quando la crisi finanziaria statunitense del 1929 espatriò in Europa.[38]

Nell'ottobre di quell'anno la borsa di Wall Street registrò un'enorme caduta del prezzo dei titoli azionari (precedentemente gonfiati all'eccesso dalle speculazioni), che continuò sino a tutto novembre e oltre, risalendo ai livelli precedenti della crisi solo nel 1936. La crisi, oltre a ripercuotersi sul sistema finanziario, toccò anche l'ambito produttivo e le persone occupate nel settore, che innalzarono notevolmente il livello della disoccupazione (ad esempio, negli USA del 1932 i disoccupati erano dodici milioni). Dato che dal 1923 la finanza statunitense aveva importanti attività in Europa, aumentate con il piano Dawes per il risanamento della Germania che aprì le porte al capitale statunitense ai mercati europei, specialmente a quello tedesco, la crisi del 1929 contagiò anche il Vecchio Continente. La Germania subì un'impennata inflazionistica e una crisi produttiva per fronteggiare le quali il cancelliere Brüning dovette avviare una politica di restrizioni finanziarie, spingendo però i socialisti all'opposizione e radicalizzando il panorama politico, da cui irruppe il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori di Adolf Hitler. Brüning cercò di alleviare la crisi tentando un'unione doganale con la Prima repubblica austriaca (Angleichung, assimilazione), anch'essa in difficoltà, ma l'operazione venne interpretata come un tentativo di Anschluss, vietato dai trattati di Versailles e Saint-Germain-en-Laye, ed incontrò l'opposizione franco-italiana che bloccò ogni ulteriore sviluppo.

Il fallimento dell'Angleichung si ripercosse pesantemente sulla situazione economica austriaca, già provata dalla riduzione del vecchio mercato preferenziale austro-ungarico e con una disoccupazione endemica. Nel 1931 la Creditanstalt, la maggiore banca austriaca che controllava anche una serie di banche minori, dovette fornire un bilancio delle sue finanze per ottenere un credito da banche di vari paesi, ma risultò che le passività erano superiori alle attività e venne dichiarato il fallimento. Il credito venne allora concesso dalla Società delle Nazioni, che da agosto cominciò a versare scellini nelle casse austriache ponendo di fatto l'Austria sotto uno stretto controllo italo-francese. Nel frattempo, tutti quelli che ne ebbero la possibilità ritirarono i loro capitali dal paese, generando un panico tale da innalzare la Grande depressione a fenomeno globale.

Nell'estate 1931 tutto il sistema di pagamento dei debiti interalleati e delle riparazioni di guerra venne sospeso; numerose banche furono costrette a chiudere. Il 21 settembre il primo ministro britannico MacDonald, visto il livello pericolosamente basso delle riserve in oro e valuta della Banca d'Inghilterra, decretò l'abbandono del sistema aureo (Gold standard). La sterlina si svalutò e molti possessori di dollari furono spinti a chiederne il cambio in oro, mettendo alla prova la Federal Reserve. Il Regno Unito cercò sollievo con lo statuto di Westminster che riformò il Commonwealth, mentre gli usa avevano adottato già dal 1930, con lo Smoot-Hawley Tariff Act, la strada del protezionismo che, in ogni caso, non riuscì ad isolare completamente il paese dagli effetti internazionali della crisi. I gravi problemi generati da questa crisi vennero discussi nel giugno 1933 a Londra da esponenti dei governi britannico, francese e statunitense, ma non venne raggiunto nessun accordo su come superare le difficoltà, volendo preferire ognuno l'interesse nazionale a quello di altri Stati. Nello stesso anno il presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt pronunciò un discorso alla Società delle Nazioni in cui, in pratica, dichiarava la fine dell'interesse statunitense per l'economia europea, in attesa che l'Europa rimettesse ordine al suo interno.

Effetti socio-economici

La prima guerra mondiale fu condotta in modo totalmente diverso rispetto ai conflitti precedenti e produsse cambiamenti socio-economici di lunga durata. Si calcola che complessivamente furono 66 milioni gli uomini arruolati e spediti al fronte, che lasciarono a casa famiglie e imprese con ripercussioni sulla vita della società. La "guerra di massa" stravolse e accelerò lo sviluppo delle comunicazioni e l'industria, introdusse l'uso del mezzo aereo sia come macchina da guerra che come mezzo di trasporto per persone e merci. L'ingente uso di manodopera nelle catene di montaggio avvicinò i lavoratori alle ideologie più estremizzate che favorirono sia il clima rivoluzionario sia il timore delle classi più abbienti di veder intaccati i propri guadagni, che li spinsero verso scelte conservatrici o autoritarie: la guerra foraggiava sia il "socialismo rivoluzionario", visto come speranza di rinnovamento sociale, sia il "nazionalismo estremistico", sinonimo di avanzamento nazionale.

Le conferenze del disarmo

Tra gli articoli inseriti nello statuto della Società delle Nazioni ve ne era anche uno, l'articolo 8, che affermava che tutte le nazioni avrebbero dovuto ridurre i loro armamenti, compatibilmente con la sicurezza nazionale, al livello più basso possibile. Di fatto, quindi, il disarmo imposto alla Germania veniva generalizzato.

Il trattato navale tra USA, Gran Bretagna, Giappone, Italia e Francia scaturito dalla conferenza di Washington si preoccupò di regolare gli armamenti in campo navale. Gran Bretagna e USA acconsentirono ad avere delle flotte di uguali proporzioni così come stabilirono Francia e Italia, superate però dal Giappone che riuscì ad ottenere un tonnellaggio navale maggiore. Nel 1927 il presidente statunitense Calvin Coolidge riunì le parti per discutere della riduzione del naviglio militare di stazza intermedia. Sul punto si scontrarono gli interessi italiani e francesi, con il nuovo governo di Mussolini che non volle accettare una parità di armamenti con la Francia che, a sua volta, non era disposta a disarmare ulteriormente la flotta, adducendo come motivazioni la nuova politica balcanica del Duce e la necessità di mantenere operative due flotte (una per l'Atlantico e una per il Mediterraneo). Queste posizioni esclusero i due paesi dall'accordo raggiunto a Londra nel 1930 tra USA, Gran Bretagna e Giappone (aumento del naviglia giapponese, parità angloamericana anche in materia di incrociatori, cacciatorpediniere e sommergibili). La situazione italo-francese si sbloccò nel 1931 con il raggiungimento di un complicato compromesso.

Quanto al disarmo generale, venne istituita un'apposita commissione che lavorò dal 1926 al 1930, che al termine degli studi convocò una conferenza a Ginevra, da tenersi il 2 febbraio 1932. Il governo francese di Pierre Laval propose la subordinazione degli armamenti alla nascita di un sistema di garanzie collettive facenti capo alla Società delle Nazioni, ma il progetto si infranse contro l'opposizione del ministro degli esteri italiano Dino Grandi, che avrebbe accettato una riduzione degli armamenti a livelli identici per tutte le nazioni solamente se fosse stata ristabilita la "cooperazione e la giustizia internazionale", con riferimento al revisionismo balcanico che, tuttavia, la Francia non era disposta ad appoggiare. Alla conferenza prese parola anche il cancelliere tedesco Heinrich Brüning: dal momento che nessuno Stato aveva tenuto fede al disarmo dichiarato nella Carta della Società delle Nazioni, egli chiese la fine dei vincoli di Versailles sugli armamenti tedeschi, fornendo in cambio garanzie unilaterali quali la rinuncia ad avanzare, per un certo numero d'anni, rivendicazioni territoriali. La conferenza tergiversò a lungo, con le potenze occidentali divise, e diede una risposta affermativa quando Hitler era già diventato cancelliere (gennaio 1933). Il Führer non ritirò subito la delegazione tedesca, chiedendo invece a maggio una messa in pratica immediata del principio di parità dei diritti tedeschi in materia di armamenti (Gleichberechtigung). Era una mossa puramente provocatoria, impossibile da accogliere, e Hitler la sfruttò il 14 ottobre per legittimare il ritiro della delegazione e l'uscita della Germania dalla Società delle Nazioni.

Periodo interbellico


L'espressione periodo interbellico indica nella storia occidentale il ventennio di pace trascorso tra il 1918, fine della prima guerra mondiale ed il 1939, inizio della seconda guerra mondiale.

Il Trattato di Versailles, che avrebbe dovuto siglare la pace tra le nazioni dopo la prima guerra, è fondamentalmente fallito (vedi ad esempio revisionismo dei trattati di pace ) e non risolve le gravi tensioni internazionali:

«Questa non è una pace, è un armistizio per vent'anni.»
(Ferdinand Foch, ufficiale francese al comando degli Alleati nella prima guerra mondiale, 1920.)

Vedendo così le cose, il periodo tra le due guerre mondiali costituirebbe una sorta di tregua, un'interruzione delle ostilità tra il blocco austrotedesco da una parte ed il blocco alleato Gran Bretagna-Francia-Russia-USA dall'altra. Come previsto da Foch, la guerra riprenderà. La ripresa delle ostilità avverrà in forma rinnovata, ma ricalcando grosso modo gli stessi schieramenti. Dal punto di vista militare, si riprenderanno più o meno gli stessi fronti di combattimento (fronte francese, fronte in Europa dell'Est, fronte italiano). Il maggiore tra i pochi cambi di schieramento sarà indubbiamente quello dell'Italia (è stata alleata di Francia e Gran Bretagna nella prima guerra mondiale, ma Mussolini la riporterà dalla parte dei tedeschi nella seconda).

Tuttavia un periodo di oltre due decenni, vissuto in maniera profondamente diversa tra i vari paesi e continenti, costituisce un'entità molto complessa e ricca di eventi in parte in contraddizione tra di loro. Fra i maggiori del periodo tra le due guerre, si segnalano:

Il periodo tra le due guerre volge al tramonto con gli sforzi diplomatici - da parte delle democrazie sopravvissute - di frenare l'espansionismo della Germania, (vedi voce appeasement). Dato l'indiscutibile fallimento di questi sforzi, il periodo tra le due guerre termina nel settembre del 1939 con l'invasione della Polonia da parte dei tedeschi e l'immediata dichiarazione di guerra da parte di Francia e Gran Bretagna.


Il dopoguerra in Austria

In Austria durante il dopoguerra, dopo la loro sconfitta, un'assemblea costituente proclamò la repubblica con una costituzione democratica. Il popolo si divise nel Partito socialdemocratico e il Partito cristiano-sociale. All'inizio i due partiti ebbero un ruolo di alleanza, ma dopo ebbero un rapporto pieno di conflitti.

Il dopoguerra in Francia

Anche la Francia dovette affrontare la crisi nel dopoguerra. Essa infatti diede avvio ad un processo di crescita economica che sarebbe durato per tutti gli anni venti. In questo periodo la Francia si modernizzò usando anche le tecniche organizzative del Taylorismo e la produzione di serie. La Francia incontrò anche una crisi nel governo a causa della fragile coalizione fra conservatori e radicali che resero precaria la situazione politica. Alla metà degli anni trenta le forze democratiche e di sinistra si allearono, che tramite il patto di unità d'azione politica e sindacale puntava a mettere fine alle divisioni del movimento socialista. Le sinistre presentandosi unite in un fronte popolare vinsero le elezioni politiche del 1936. Così andò al governo Lèon Blum. Il governo Blum nacque con un programma riformista e antifascista. A causa della classe imprenditoriale che si sentì minacciata e i contrasti all'interno del governo, il governo Blum si concluse. In Francia ritornarono instabili governi di coalizione.

Il dopoguerra in Germania

In Germania la sconfitta fu drammatica e il paese si divise: in Baviera venne proclamata una repubblica democratica e gli altri stati del Reich manifestarono volontà di autonomia. Gli alti ufficiali fecero pressione sull'imperatore Guglielmo II per farlo abdicare. Dopo la fuga del Kaiser a Berlino si proclamò la repubblica. Fu costituito un governo provvisorio. I socialisti erano divisi in tre gruppi: Partito socialdemocratico, che era contro la rivoluzione; Socialisti indipendenti, che proponevano riforme economiche; gli Spartachisti (o Lega di Spartaco), che erano all'estrema sinistra e volevano la rivoluzione socialista. Il 30 dicembre 1918 gli spartachisti fondarono il Partito Comunista tedesco. L'economia tedesca faticava a riprendersi reso più difficile dalle condizioni di pace imposte dai vincitori. La situazione tedesca si stabilizzò momentaneamente nel 1924 grazie all'aiuto economico degli Stati Uniti. Negli anni 1925-1930 sembrava che la Germania si stabilizzasse grazie a un "compromesso" fra la socialdemocrazia, l'esercito e i grandi gruppi capitalistici.

Quando nel 1929 ci fu la crisi economica internazionale inizia l'ascesa al potere di Hitler. Nel 1920 Hitler aderì al Partito di estrema destra Partito Nazionalsocialista tedesco dei lavoratori. Quando Hitler conquistò la guida del Partito e tentò un colpo di stato in Baviera nel 1923, ma venne arrestato. Nel 1933 dopo che la NSDAP da circa tre anni otteneva rilevanti percentuali elettorali, Hitler prese il potere. Con il suo partito cercò di attirare tutti gli strati della società. Hitler riuscì a conquistare la classe dirigente della repubblica di Weimar proponendosi come l'uomo che avrebbe potuto stabilizzare il governo. Hitler fece diventare il capro espiatorio gli ebrei riguardo alla crisi, qualificandoli come razza inferiore. Nel frattempo la repubblica di Weimer diventava sempre meno governabile. Intanto Hitler migliorava i rapporti con le élite economiche e militari, così che quando il militare Franz von Papen ottenne il governo cercò di portarci anche Hitler. Dato che il paese era diventato praticamente ingovernabile von Papen convinse Hindenburg ad affidare a Hitler la carica di cancelliere. E così fece. Salito al potere Hitler impiegò solo sei mesi per costruire uno stato totalitario. Il 20 marzo 1933 venne costruito il primo campo di concentramento a Dachau per i prigionieri politici. Nell'agosto 1934, quando morì Hindenburg, Hitler prese anche la carica di capo dello stato. Hitler così disponeva di un potere assoluto in ogni settore. Le SS e la Gestapo erano gli strumenti repressivi del nazismo contro ogni possibile oppositore. Attraverso le corporazioni Hitler controllava tutti gli aspetti della vita lavorativa e produttiva. Infine divenne l'obiettivo principale la preparazione del paese alla guerra secondo il piano economico quadriennale.

Il dopoguerra in Gran Bretagna

La Gran Bretagna usciva dalla Prima Guerra Mondiale senza il predominio economico e politico, che era andato agli Stati Uniti. Inoltre la Gran Bretagna incontrò difficoltà nelle esportazioni e aumentò la disoccupazione. Si incontrò un crescita dei sindacati e della sinistra. Negli anni venti troviamo il declino dei liberali e l'ascesa dei conservatori e dei laburisti. Per affrontare la crisi, la Gran Bretagna introdusse dazi per difendere la produzione industriale nazionale, concesse finanziamenti alle industrie e regolamentò la quantità e i prezzi nell'agricoltura.

Il dopoguerra in Italia

In Italia il dopoguerra evidenziò la fragilità delle istituzioni liberali italiane che causò una crisi di sistema, la quale portò all'instaurazione di una dittatura. Le difficoltà economiche scaricarono il loro peso sulle fasce sociali più deboli. Così iniziò il Biennio rosso del 1919-1920 fatto di durissime lotte sociali e sindacali; ci furono inoltre scioperi per aumenti salariali, tumulti contro il carovita e l'occupazione delle terre incolte da parte dei contadini poveri nel meridione. Dopo queste lotte i lavoratori ottennero aumenti salariali nelle fabbriche, riduzione della giornata lavorativa a otto ore, i braccianti nelle campagne padane e pugliesi ebbero aumenti di paga e l'imponibile di manodopera, infine al sud il governo redistribuì le terre incolte occupate. Non fu solo il proletariato agricolo e industriale a soffrire le conseguenze della guerra, ma anche i ceti medi, che faticavano a reinserirsi nella vita civile e lamentavano di non ottenere un riconoscimento sociale proporzionato.

La vittoria mutilata

    Per approfondire, vedi Vittoria mutilata.
Un altro reinserimento fu la Vittoria mutilata per cui l'Italia al termine della guerra non aveva ottenuto come stabilito dal Patto di Londra l'Istria, la Dalmazia e la città di Fiume. Giolitti poi firmerà il Trattato di Rapallo, che faceva ottenere all'Italia l'Istria, alla Iugoslavia la Dalmazia mentre Fiume andava a formare uno stato libero autonomo.

I cambiamenti politici

Nel 1919 nacque il primo partito politico italiano di ispirazione cattolica il Partito Popolare Italiano. Le elezioni del novembre 1919 segnarono una svolta decisiva nel dopoguerra perché furono le prime a svolgersi con il sistema proporzionale, dove i seggi in parlamento vengono attribuiti in proporzione ai voti ottenuti da ciascun partito. Con la vittoria del partito socialista le masse popolari godevano, per la prima volta, di una rappresentanza sociale e politica. Nel 1920 gli operai metallurgici di Milano, Torino e Genova, in risposta alla chiusura degli stabilimenti, occuparono le principali fabbriche. Questa lotta si concluse con un accordo tra imprenditori e sindacato, che prevedeva aumenti salariali e partecipazione dei lavoratori al controllo delle aziende.

Il fascismo

    Per approfondire, vedi Fascismo.
A causa del clima teso del dopoguerra il fascismo ebbe una rapida ascesa. Il movimento dei fasci di combattimento venne fondato nel marzo 1919 a Milano da Benito Mussolini. I fasci nacquero come "antipartito", con un programma repubblicano e anticlericale. Il movimento fascista non ebbe all'inizio grande successo. Iniziarono allora le spedizioni delle squadre d'azione fasciste contro esponenti e sedi del movimento socialista. La violenza squadrista non incontrò ostacoli da parte delle forze dell'ordine e della magistratura. Nel 1921 Mussolini trasformò il vecchio movimento nel Partito Nazionale Fascista. Il nuovo programma era di tipo conservatore e nazionalista. Mentre il fascismo si consolidava, il socialismo si indeboliva a causa delle divisioni al suo interno. Una prima successione si ebbe al Congresso di Livorno nel 1921 con la nascita del Partito Comunista d'Italia. Una seconda scissione nel 1922 riguardò la nascita del Partito Socialista Unitario con a capo Giacomo Matteotti. Inoltre maturarono divergenze anche nel Partito Popolare. Così la Marcia su Roma e la formazione del primo governo Mussolini segnarono il crollo delle istituzioni liberali e democratiche. Il periodo tra 1922 e 1925 viene considerato una fase di transizione verso il vero e proprio regime fascista. Il fascismo in questo periodo costituì: il Gran Consiglio del Fascismo, la Milizia Volontaria per la sicurezza nazionale e la Confederazione nazionale delle corporazioni sindacali. Nel 1923 Mussolini per rafforzare la maggioranza di governo e per togliere spazio alle opposizioni fece approvare una nuova legge elettorale maggioritaria. Grazie a questa nuova legge elettorale il partito fascista vinse le elezioni. Nel 1924 Matteotti, che denunciò i brogli e le violenze elettorali, venne rapito e ucciso. Il Delitto Matteotti scosse l'opinione pubblica e il fascismo sembrò vacillare, ma gradatamente Mussolini riprese la situazione e il 3 gennaio 1925 si assunse la responsabilità politica del delitto di Matteotti.

Progetti del regime fascista

Il progetto politico di Mussolini mirò alla fascistizzazione dello stato e della società civile. A questo scopo nacquero le Leggi fascistissime del 1925-1926. Con questi provvedimenti abolirono la libertà democratica e impedivano ogni manifestazione di dissenso. Mussolini trasformò il partito fascista in una struttura burocratica e gerarchica. Sul piano di lavoro il fascismo ammetteva solo i contratti di lavoro stipulati dai sindacati fascisti impedendo l'azione sindacale ai socialisti, ai comunisti e ai cattolici. Negli anni trenta, il fascismo aveva assunto le caratteristiche di un regime totalitario. Un punto fondamentale fu il controllo dell'informazione. Inoltre divenne obbligatoria per i dipendenti pubblici l'iscrizione al partito. Il partito controllava diverse organizzazioni di massa come, l'Opera Nazionale Balilla, i Giovani Fascisti, Gruppi Universitari Fascisti e l'Opera Nazionale del dopolavoro. L'11 febbraio 1929 la Santa Sede e il governo italiano sottoscrissero i Patti Lateranensi, dove la chiesa riconosceva la sovranità dello stato italiano e lo stato riconosceva la sovranità pontificia sulla Città del Vaticano. La politica economica del fascismo attraversò diverse fasi; il primo periodo (1922-1925) fu una politica liberista e provocò uno sviluppo economico. Nel secondo periodo (1925-1930) incominciarono difficoltà economiche. Nel terzo periodo (durante gli anni trenta) per cercare di vincere la crisi economica nacque l'Istituto per la ricostruzione industriale, che acquisì le proprietà delle maggiori banche. Ci furono anche degli interventi nell'agricoltura come la battaglia del grano e la bonifica integrale. Sul piano coloniale il regime fascista era basato sul fortificare i possedimenti italiani in Africa. Mussolini decise di conquistar l'Etiopia per motivi di prestigio internazionale, di carattere economico e di politica interna. Il fascismo comunque è ritenuto un totalitarismo "imperfetto" perché rimasero attivi centri di potere come la Corona e la Chiesa Cattolica e non si realizzò l'identificazione fra "italiano" e "fascista".

Il dopoguerra in Ungheria

In Ungheria nel dopoguerra c'era una tendenza rivoluzionaria e comunista. Infatti socialdemocratici e comunisti si allearono per creare un regime socialista. La diffusione in tutta Europa non si realizzò a causa delle sconfitte in Germania e in Italia. La repubblica ungherese crollò quando vennero invasi dalle truppe rumene che instaureranno un regime autoritario.

Il dopoguerra in Unione Sovietica

L'Unione Sovietica riemerse dalla guerra civile in condizioni di arretratezza più gravi di quelle dell'età zarista. Si aprì una grave frattura tra il governo comunista e la popolazione, si aggiunse anche l'isolamento internazionale dell'Unione Sovietica. Allora fu avviata la NEP, nuova politica economica, la quale reintroduceva elementi di profitto individuale e di libertà economica per risollevare la produzione interna. Nel 1922 Stalin fu nominato segretario generale. Dopo Stalin riuscì a emarginare Trockij che era il principale rivale. Trockij sosteneva la teoria della rivoluzione permanente, mentre Stalin sosteneva la teoria del socialismo in un solo paese.

Al governo Stalin veniva visto come una garanzia del loro ruolo e prestigio nell'organizzazione perché assunse una posizione tra la destra di Bucharin e la sinistra di Trockij. Nel 1927 Stalin modificò la sua linea a causa della crisi nella raccolta del grano; così ritornarono le requisizioni di cereali e dopo qualche anno decise di procedere alla collettivizzazione forzata delle terre. Trovando l'opposizione dei contadini Stalin fece unificare milioni di aziende contadine in fattorie cooperative o di proprietà dello stato. Stalin oltre alla collettivizzazione dell'agricoltura volle intraprendere anche l'industrializzazione accelerata. Il Partito si venne a identificarsi con lo stato, infatti il partito costituiva la principale istituzione della società e possedeva tutti i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Il potere assoluto conquistato da Stalin tolse ogni significato politico al partito che lo trasformò in una specie di macchina burocratica di gestione del potere. Nel 1935 non ci fu più nessuna possibilità di dissenso e di dibattito. Ci furono così processi politici e la detenzione nei gulag per gli individui ritenuti più pericolosi. A tutto questo si aggiunse anche la persecuzione religiosa.

Il dopoguerra in Asia

Dopoguerra in India

Nel dopoguerra in India ispirarono ai valori tradizionali della religione e della cultura induista, inoltre contestava una eccessiva modernizzazione indotta dalla modernizzazione occidentale. Il governo britannico decise allora di concedere degli spazi nell'amministrazione, ma comunque ci teneva a tenere il controllo reale dell'India, per questo alternò momenti di repressione e di moderate concessioni. Questo divenne più difficile quando arrivò Gandhi, a capo del partito del congresso. Gandhi voleva l'indipendenza dell'India. Essendo contrario alla violenza Gandhi predicava nell'opporsi alle ingiustizie in modo non violento. Nonostante per questo motivo fu arrestato Gandhi ottenne sempre più popolarità facendo anche leva sul sentimento religioso e sulla tradizione dell'induismo.

Dopoguerra in Giappone

Il Giappone ottenne vantaggi dalla prima guerra mondiale, infatti favorì i monopoli industriali e commerciali. Il sistema nipponico era una monarchia costituzionale che di fronte alle tensioni sociali dovette assumere caratteri sempre più autoritari fino alla pena di morte per i reati di pensiero. Alla fine degli anni venti la crisi colpì anche il Giappone. In questo periodo il governo iniziò una politica espansionistica in cui il Giappone cercava la liberazione di tutta l'Asia dal dominio occidentale. Questo obiettivo iniziò con l'aggressione alla Cina.

Dopoguerra in Cina

La Cina era divisa in due parti: la parte meridionale dove dominava il Guomindang che era un partito nazionalista, progressista e democratico fondato da Sun Yat Sen nel 1912, e nella parte settentrionale c'erano i "signori della guerra". Il Guomindang cercò di riunificare il paese. Nacque nel 1921 il partito comunista cinese guidato da Mao Zedong. Andando al potere Chiang Kai-Shek si ruppe irreparabilmente l'unità d'azione fra i nazionalisti e i comunisti perché Chiang diede battaglia ai comunisti anche con campagne di annientamento. Mao acquisì prestigio con la Lunga Marcia dell'Armata Rossa del 1934, cercando di aggirare l'accerchiamento nazionalista.

Nazionalisti e comunisti si riuniranno nel 1936 per contrastare l'invasione giapponese creando il Fronte Comune

Dopoguerra negli USA e nel mondo

America latina

Per l'America latina la prima guerra mondiale comportò la sostituzione del predominio economico statunitense a quello britannico. Negli anni venti nella società latino americana si formeranno una borghesia imprenditoriale nazionale, una classe operaia e un ceto medio urbano dove si diffusero esigenze di indipendenza politica ed economica. La crisi degli anni trenta per l'America Latina comportò il rallentamento dei commerci internazionali mettendo in difficoltà le economie esportatrici che determinarono conflitti sociali e instabilità politica. A causa di questa situazione si crearono regimi populisti autoritari che si ispiravano ai fascismi europei. Un esempio è il regime instaurato in Brasile nel 1930.