La conferenza di Parigi e i trattati di pace
La conferenza di pace di Parigi del 1919 fu una riunione
internazionale, che vide i paesi usciti vincitori dalla prima guerra
mondiale, impegnati nel delineare una nuova situazione geopolitica
in Europa e stilare i trattati di pace con le Potenze Centrali
uscite sconfitte dalla guerra. La conferenza si aprì il 18
gennaio 1919 e durò fino al 21 gennaio 1920, con alcuni
intervalli.
Da questi trattati la cartina d'Europa uscì completamente
ridefinita in base al principio della autodeterminazione dei popoli,
concepito dal presidente degli Stati Uniti d'America Woodrow Wilson,
nel tentativo, in seguito rivelatosi fallace, di riorganizzare su
base etnica gli equilibri del continente europeo. Nel tentativo di
creare, sulle ceneri degli imperi multietnici di Austria-Ungheria e
Turchia, stati "etnicamente omogenei", vennero creati ex novo stati
quali la Cecoslovacchia, la Jugoslavia, destinati ad alimentare
nuove tensioni ed instabilità, oltre ad esodi e conflitti di
popoli e nazioni.
Antefatti
L'11 novembre 1918, giorno dell'armistizio tra Germania e le potenze
Alleate, l'Austria si ritrovò senza impero e la Germania
senza imperatore. Ma i problemi che le nazioni sconfitte dovettero
affrontare non si limitarono a questo; entrambi i paesi si trovarono
a dover combattere le forze rivoluzionarie a sinistra e il
militarismo a destra, rivitalizzare un'economia distrutta, tenere
alto il morale della nazione bollata dal marchio della sconfitta e
schiacciata dal peso oneroso della "colpa della guerra", che si
traduceva nel desiderio di recuperare i territori perduti e nella
ricerca di capri espiatori.
La mattina del 1º dicembre le prime truppe britanniche e
statunitensi varcarono la frontiera tedesca verso le città
sul Reno, mentre a Vienna le autorità locali inviarono a
Berna l'ex ambasciatore austro-ungarico a Londra, conte Mensdorff a
colloquio con sir Horace Rumbold per richiedere l'invio, da parte
dei paesi vincitori, di derrate alimentari nella capitale austriaca
in quanto il problema della fame diveniva ogni giorno più
grave.
Dalla frantumazione dei quattro imperi sconfitti emersero
rapidamente nuovi stati. Il 1º dicembre, nel giorno in cui le
truppe Alleate entrarono in Germania, a Belgrado venne proclamato il
Regno dei serbi, dei croati e degli sloveni, che racchiudeva molte
minoranze tra le quali 500.000 ungheresi e altrettanti tedeschi, e
decine di migliaia di romeni, albanesi, bulgari e italiani. Il 4
dicembre le truppe britanniche entrarono a Colonia dove istituirono
una zona di occupazione, e nove giorni dopo arrivò in Europa
il presidente americano Wilson in vista della conferenza di pace che
si sarebbe svolta a Parigi.
Il contesto storico
Il contesto storico in cui si svolsero le trattative era però
funestato dalle molte ombre del passato, dagli irrisolti problemi
delle frontiere, dalla sicurezza internazionale e dai frementi
nazionalismi non contenibili in un contesto che avrebbe dovuto
salvaguardare le minoranze e le identità nazionali. Le
rivendicazioni rimaste in sospeso dopo la catastrofe del 1870, la
carica punitiva contro la Germania e la sempre più pressante
paura di una "rivoluzione bolscevica" irrigidirono tutte le
delegazioni, soprattutto quella francese, desiderosa di relegare la
Germania in una posizione di non poterle più nuocere.
Protagonista con poca fortuna delle discussioni di Versailles fu il
presidente statunitense Woodrow Wilson, che con i suoi Quattordici
punti avrebbe dovuto ispirare i negoziatori dei trattati e dare la
risposta con cui l'Occidente avrebbe contrastato l'assolutismo e il
militarismo degli Imperi Centrali, e l'internazionalismo leninista.
Ma questi quattordici punti, in cui si rivendicava la
nazionalità e l'autodeterminazione dei popoli nello stabilire
le nuove frontiere, si trovarono a dover competere con le diverse
componenti nazionalistiche nei Balcani, con la necessità di
creare stati "cuscinetto" contro la Russia bolscevica, con le
rivendicazioni italiane sugli slavi e con le rivendicazioni e i
risentimenti che i francesi covavano nei confronti dei tedeschi fin
dall'epoca napoleonica. Lo stesso Wilson ben presto capì che
i suoi programmi non sarebbero stati seguiti dagli altri vincitori.
In un incontro con Raymond Poincaré il 14 dicembre 1918 a
Parigi, il presidente francese espose a Wilson, quasi con ultimativa
chiarezza, l'idea centrale della presenza e dell'azione della
delegazione francese alla Conferenza: «la Germania doveva
essere punita per tutto quanto aveva fatto con e durante la
guerra» mentre Wilson fino ad allora non aveva mai parlato di
"punizione" ma solo di preparare una situazione in cui la classe
dirigente tedesca, aristocratica, autocratica e militarista non
avrebbe potuto più nuocere a favore di una democratizzazione
della nazione. Una dura "punizione" avrebbe colpito - secondo Wilson
- non l'autocrazia, bensì proprio gli sviluppi democratici
che in quel momento il popolo tedesco stava faticosamente cercando.
Nonostante ciò Wilson conosceva la storia "giacobina" della
democrazia francese e nella sua risposta a Poincaré
appoggiò la necessità di condannare e rendere
«giusto castigo» alla Germania.
La delegazione tedesca
Il capo della delegazione tedesca a Parigi, il diplomatico Ulrich
von Brockdorff-Rantzau.
Dopo la fine della guerra, la maggioranza della popolazione tedesca
dava per scontato che si sarebbe arrivati ad una pace già
prima della fine del 1919 sulla base dei quattordici punti di
Wilson; i tedeschi si aspettavano quindi riguardo, nonostante poco
tempo prima avessero imposto durissime condizioni alla Russia.
Già nel novembre 1918 i tedeschi scoprirono tramite
informatori che gli alleati avrebbero fatto in modo che il peso e la
colpa del conflitto sarebbero stati attribuiti in toto alla
Germania, e ben presto intensificarono gli sforzi per negare o
almeno attenuare la responsabilità e quindi recuperare
prestigio internazionale.
Nonostante i dissidi fra gli alleati, l'appoggio statunitense alla
Germania e il pericolo bolscevico, il capo delegazione
Brockdorff-Rantzau non riuscì, nonostante diverse proteste, a
scongiurare che alla Germania fosse data l'intera
responsabilità della guerra e il pagamento degli indennizzi.
Con la tagliola del blocco navale britannico e l'autoaffondamento
della flotta tedesca a Scapa Flow, la Germania fu quindi "costretta"
alla firma del trattato, nonostante si fosse tastata anche l'ipotesi
di una ripresa dei combattimenti.
Si apre la conferenza
La conferenza di pace si aprì il 18 gennaio 1919 a Parigi,
nella sala dell'orologio del Quai d'Orsay sede del ministero degli
esteri francese, con un discorso del presidente francese Raymond
Poincaré. Presidente effettivo della conferenza venne
designato Georges Clemenceau, il quale dichiarò:
« [...] Non si tratta di pace territoriale o di pace
continentale, ma di pace dei popoli. [...] Tregua alle parole;
bisogna agire presto e bene»
(Georges Clemenceau)
Il consiglio dei dieci - formato da cinque capi di governo e cinque
ministri degli esteri delle maggiori potenze vincitrici: Stati
Uniti, Italia, Francia, Gran Bretagna e Giappone (per quanto
riguardava l'Oriente) - trattò le questioni più
importanti e le risoluzioni pratiche. Il nuovo assetto politico e
geografico dell'Europa fu discusso e definito dai quattro "grandi";
Thomas Woodrow Wilson il presidente degli Stati Uniti, Georges
Clemenceau il primo ministro francese, David Lloyd George il primo
ministro britannico e Vittorio Emanuele Orlando il presidente del
consiglio italiano. Rispettivamente coadiuvati dai rispettivi
ministri degli esteri, Robert Lansing, Stephen Pichon, Arthur James
Balfour e Sidney Sonnino. La Russia, che per tre anni
combatté a fianco delle potenze Alleate impegnando duramente
la Germania, il 15 dicembre 1917 fu costretta all'armistizio di
Brest-Litovsk seguito dalla pace il 3 marzo 1918. Un comunicato
ufficiale della Conferenza dichiarava che la sua rappresentanza non
era esclusa, ma che "le modalità saranno fissate dalla
Conferenza nel momento in cui esaminerà gli affari russi". I
paesi vinti, esclusi dai negoziati, furono ammessi solo nella fase
conclusiva, consegna e firma dei protocolli.
La conferenza apertasi il 18 gennaio fu un vero e proprio terreno di
scontro tra gli alleati, e un modo per imporre alla Germania le
peggiori condizioni di resa, e per rendere gli sconfitti più
"malleabili", la Francia insistette per mantenere il blocco navale
contro la Germania fino al momento in cui non fosse stato firmato il
trattato.
I danni di guerra
Il 25 gennaio la Conferenza di pace nominò una commissione
per la riparazione dei danni di guerra con il compito di esaminare
l'ammontare della somma che ciascuno degli stati sconfitti avrebbe
dovuto pagare per riparare i danni arrecati durante il conflitto. I
rappresentati di Gran Bretagna, Francia e Italia pensavano di poter
ottenere un risarcimento pari all'intero costo della guerra; da
ciò nacque la preoccupazione del delegato belga, secondo cui,
adottando questo sistema, il suo paese sarebbe stato sfavorito
nonostante fosse stato sconvolto per oltre quattro anni da una
guerra sulla quasi totalità del proprio territorio. Il Belgio
aveva infatti speso relativamente poco per combattere, mentre le sue
città e le sue campagne avevano sofferto i rigori e le
distruzioni di quattro anni di occupazione. La Gran Bretagna d'altro
canto rivendicava i costi e le perdite della guerra sottomarina
contro le sue flotte, e le incursioni aeree contro le sue
città.
Mentre era in corso il dibattito Lloyd George si levò dalla
discussione con tono moderato chiedendo di aspettare due anni prima
di procedere, in modo tale da decantare le passioni e aspettare che
i prezzi inflazionati dai costi della guerra fossero tornati quasi
alla normalità[14]. In ogni modo, né l'atteggiamento
più morbido nei confronti della somma da versare, né
la decisione di rateizzare il pagamento fino al 1º maggio 1961
- anche se un miliardo di sterline dovevano essere versate entro il
1º maggio 1921 - servirono a "consolare" i tedeschi. Era il
concetto stesso di "riparazione" a bruciare, perché imponeva
alla Germania di pagare non solo per la sconfitta sul campo, ma
anche perché ritenuta responsabile di aver provocato la
guerra[14]. E proprio per obbligare la Germania a firmare il
trattato, gli alleati si rifiutarono di togliere il blocco navale
fino a che la Germania non avesse firmato il trattato, assumendosi
di fatto tutta la responsabilità e la colpa della guerra.
La spartizione delle colonie
«La mappa del mondo [...] aveva più parti in rosso di
quante non ne avesse prima»
(A.J. Balfour, ministro degli Esteri britannico)
Un primo terreno di scontro tra gli alleati fu costituito dalle ex
colonie tedesche appena conquistate, che non sarebbero state
più restituite alla Germania. La soluzione adottata fu quella
di istituire un sistema di mandati che la Società delle
Nazioni avrebbe affidato alle potenze vincitrici. Tali mandati erano
soggetti a condizioni. Quelli di Africa e Pacifico, per esempio,
imponevano di impegnarsi nel commercio degli schiavi.
I territori turchi furono distribuiti con diversi mandati; la
Francia ebbe la Siria e il Libano, la Gran Bretagna ebbe la
Mesopotamia (l'attuale Iraq) e la Palestina, nella cui parte
occidentale si impegnò a creare un "focolare" per gli ebrei.
Il Sudafrica fu ricompensato per il suo sforzo bellico con un
mandato sull'Africa sudoccidentale tedesca. Il Camerun e il Togo
furono spartiti tra Gran Bretagna e Francia. Nel Pacifico, dove le
colonie tedesche erano passate già in altre mani nel 1914,
allo scoppio della guerra il Giappone ottenne un mandato sulle isole
Marianne, Caroline e Marshall, la Nuova Zelanda su Samoa e
l'Australia sulla Nuova Guinea Tedesca. Mentre Nauru, ricca di
fosfati e ambita da Australia, Nuova Zelanda e Gran Bretagna, fu
affidata - com'era prevedibile - all'Impero britannico.
Non pochi dei paesi vincitori rimasero scontenti. Il Belgio si vide
negare l'assegnazione dell'Africa Orientale Tedesca, che aveva
occupato e che avrebbe voluto conservare, ricevendo in cambio il
Ruanda-Urundi, un territorio senza sbocchi sul mare. Sugli stessi
territori mise gli occhi anche il Portogallo, ma siccome erano
ambiti anche dalla Gran Bretagna, dovette accontentarsi del
"triangolo di Kionga", nel Mozambico settentrionale. L'Italia chiese
mano libera per i commerci con l'Abissinia, ma poiché si
trattava di un'ex colonia tedesca tale richiesta fu respinta,
così come per l'Africa settentrionale e orientale, dato che
sarebbero potute esser soddisfatte solo a spese di Francia e Gran
Bretagna, la quale fece la parte del leone nella distribuzione delle
colonie.
Il memorandum di Fontainebleau
Lloyd George cominciò a dubitare delle dure condizioni che la
Francia e Clemenceau in particolare, insistevano ad applicare nei
confronti della Germania. Il 25 marzo, durante la Conferenza, Lloyd
George si recò a Fontainebleau convinto di chiarire a
sé stesso come secondo lui andasse trattata la Germania. In
un memorandum dichiarò che la sua preoccupazione era quella
di creare una pace perpetua, non una pace che durasse trent'anni.
Adottando misure punitive, forse si sarebbe ottenuta una pace
transitoria: «Il mantenimento della pace dipenderà dal
fatto che non sorgano costantemente motivi che spingano il
patriottismo, il senso di giustizia o di lealtà a chiedere di
raddrizzare i torti. [...] La nostra pace dovrebbe essere dettata da
giudici impegnati in un processo che non li tocca personalmente
nelle emozioni e negli interessi, e non già nello spirito
della vendetta selvaggia».
Lloyd George criticò quelle stesse clausole che proprio
allora andavano formulando, deprecando l'idea di mettere i tedeschi
sotto dominio altrui, sottolineando che i tedeschi erano
«orgogliosi, intelligenti e con grandi tradizioni», e
che non avrebbero sopportato di essere governati da «razze che
essi giudicavano inferiori, alcune delle quali, almeno per il
momento, meritavano quella definizione». Dichiarando poi di
non riuscire ad immaginare un motivo più fondato per una
guerra futura, dove la Germania, circondata da «innumerevoli
piccoli stati contenenti masse di tedeschi che chiedono a gran voce
il ricongiungimento alla terra natale», avrebbe certamente
sfruttato l'occasione per una guerra nell'Europa orientale.
Le argomentazioni caddero nel vuoto. Il giorno seguente quando venne
discusso il memorandum, Clemenceau osservò: «Se gli
inglesi sono tanto ansiosi di pacificare la Germania, che guardino
oltremare [...] e facciano concessioni coloniali, navali o
commerciali». Lloyd George, contrariato, rispose
all'affermazione di Clemenceau ribattendo: «Quello a cui la
Francia tiene davvero è che i tedeschi di Danzica siano
ceduti ai polacchi». Questi scambi di battute erano sintomo
delle crescenti divergenze tra Londra e Parigi.
Clemenceau d'altro canto era convinto che il trattato costituisse la
miglior occasione per garantirsi la protezione contro la Germania,
che aveva quasi il doppio della popolazione francese e a cui
bisognava far capire, con gesti di deliberata durezza, che non le
sarebbe convenuto covare sentimenti di vendetta. Il primo ministro
britannico riteneva questo comportamento più idoneo a
provocare un futuro conflitto, e al suo ritorno a Parigi si
batté inutilmente alla cessione alla Polonia dei territori a
prevalenza tedesca. Le sue proteste non riuscirono però a
piegare la volonta francese di privare la Germania di grosse fette
di territorio nazionale e quindi di popolazione. Il solo
mantenimento dell'unità tedesca scontentò i francesi,
che avrebbero voluto riprendere in qualche modo l'idea napoleonica
di uno Stato autonomo dei territori tedeschi sulla riva sinistra del
Reno, accontentandosi dell'occupazione di quei territori per
quindici anni.
La questione belga
L'invasione tedesca del Belgio avvenuta nel 1914, catapultò
il piccolo Stato industrializzato e ricco al centro dell'opinione
pubblica mondiale. Era stata violata la sua neutralità, un
tempo garantita dalla stessa Prussia, e la sua resistenza di fronte
ad un nemico decisamente più forte e preparato risultò
molto più grande di quanto ci si potesse aspettare. Grazie
alla tenace resistenza durante l'assedio di Liegi, che riuscì
ad ostacolare significativamente l'avanzata tedesca verso Parigi, il
mondo intero si schierò a favore del Belgio e del suo re
Alberto I, al cui fianco si unì subito la Gran Bretagna.
Anche in un secondo momento, quando le speranze di una guerra rapida
si infransero nelle trincee del fronte occidentale, gli alleati
continuavano ad avere bisogno di una "causa superiore" per
compattare l'opinione pubblica nello sforzo bellico
Le promesse che per quattro anni gli anglo-francesi fecero al
governo belga in esilio a Le Havre convinsero i governanti e il re
Alberto I che alla conclusione del conflitto il Belgio avrebbe avuto
quanto gli spettasse. La classe politica belga si presentò
quindi a Parigi con aspettative gonfiate ed esagerate, ma non
avevano capito che quattro anni di stragi, distruzioni, esaurimento
economico e debiti inimmaginabili a livello mondiale, avevano
cambiato le priorità economiche e geopolitiche delle potenze
alleate.
Fin dai primi giorni però la delegazione belga capì
che le promesse non avrebbero garantito una garanzia, il capo
delegazione Paul Hymans protestò veemente contro il metodo di
lavoro poco democratico che si stava consumando durante la
conferenza, dove i grandi cinque precludevano ogni intervento di
altre nazioni. Il 12 febbraio Hymans ottenne la creazione di una
commissione speciale per esaminare le frontiere del Belgio, e
nonostante non ottenne nulla nei confronti delle frontiere con i
Paesi Bassi dove le grandi potenze non ritennero il caso di fare
trasferimenti territoriali in uno Stato che rimase neutrale per
tutta la guerra, ricevette alcune concessioni al confine con la
Germania. Il territorio di Eupen fu concesso al Belgio nonostante le
proteste tedesche e della popolazione prevalentemente germanica
nella zona
Diversa fu la situazione per l'Africa, dove le rivendicazioni belghe
dei territori tedeschi dell'Africa orientale non furono accolte
dagli alleati, in quanto la Gran Bretagna ambiva al sogno di
un'Africa orientale tutta britannica, con una ferrovia che
collegasse Il Cairo con Città del Capo. Il Belgio così
ottenne solo il Ruanda-Urundi, un territorio senza sbocco sul
mare[24].
Una discussione ancor più animata avvenne per le riparazioni
di guerra. Anche in questo caso il Belgio era convinto di poter
avere un trattamento privilegiato, tenuto conto del modo in cui fu
sconvolto nelle devastazioni della guerra e dall'occupazione tedesca
che lasciò il paese con le infrastrutture distrutte, una
disoccupazione che toccava il milione di persone, e l'inflazione
più alta d'Europa, che portò nel 1920 un costo della
vita superiore del 470% al confronto con il 1914. Anche in questo
caso gli alleati non mantennero le solenni promesse, il pagamento
degli indennizzi si scontrava con le ambizioni anglo-francesi, che
capivano che le risorse tedesche non erano infinite. Ma per il
Belgio gli indennizzi tedeschi erano fondamentali per la sua ripresa
economica. Lloyd George, che vedeva con antipatia Hymans, non fu
disposto a fare nessuna concessione. Ad aprile il re Alberto I e il
primo ministro Léon Delacroix si recarono di persona a Parigi
per difendere di persona il punto di vista belga. Queste visite,
assieme all'atteggiamento benevolo degli Stati Uniti, contribuirono
a vincere le resistenze britanniche e francesi, ma il Belgio ottenne
gran parte delle riparazioni che chiedeva grazie alla minaccia di
Hymans di abbandonare la conferenza e non firmare il trattato, come
peraltro aveva già fatto l'Italia e minacciava di fare il
Giappone. Gli alleati non potevano permettersi anche il ritiro di un
paese simbolo come il Belgio.
La questione italiana
Con la fine della prima guerra mondiale, essendo l'Italia risultata
anch'essa vittoriosa nel conflitto, alla Conferenza di pace richiese
che venisse applicato alla lettera il patto di Londra, la cui
applicazione integrale avrebbe consentito all'Italia di ottenere
buona parte della Dalmazia con le isole adiacenti, aumentando le
richieste con la concessione anche della città di Fiume a
motivo della prevalenza numerica dell'etnia italiana nel capoluogo
quarnerino. I contrasti con Wilson furono netti; il presidente
statunitense non era disponibile ad applicare alla lettera il patto
di Londra e non era disponibile ad accettare le richieste di Roma a
spese degli slavi, perché «si spianerebbe la strada
all'influenza russa e allo sviluppo di un blocco navale dell'Europa
occidentale». La Francia inoltre non vedeva di buon occhio una
Dalmazia italiana poiché avrebbe consentito all'Italia di
controllare i traffici provenienti dal Danubio. Il risultato fu che
le potenze dell'Intesa alleate dell'Italia opposero un rifiuto e
ritrattarono parte di quanto promesso nel 1915.
Il neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (SHS) entrò in
fortissimo contrasto con l'Italia, reclamando non solo i territori
assegnati dal patto all'Italia (Trieste, Gorizia, Istria, Dalmazia
settentrionale), ma anche la Slavia veneta, appartenente al Regno
d'Italia fin dal 1866. Secondo la delegazione jugoslava, tutte
queste terre andavano assegnate al Regno SHS per motivi etnici e
politici. La città di Trieste, pur riconosciuta di
maggioranza italiana, doveva diventare jugoslava secondo il
principio per cui le città dovevano seguire le sorti
dell'entroterra circostante, a maggioranza slava. Lo stesso criterio
doveva essere seguito per la città di Fiume, la cui
maggioranza relativa di popolazione italiana era considerata in
realtà costituita in massima parte di slavi italianizzati.
L'irrendentismo nazionalista italiano, rafforzatosi nel corso della
guerra, si spostò su posizioni di aperta e radicale
contestazione dell'ordine costituito. Dopo l'abbandono della
conferenza da parte dei delegati italiani, il mito della "vittoria
mutilata" e le mire espansionistiche nell'Adriatico divennero i
punti di forza del movimento che raccolse le tensioni di una fascia
sociale eterogenea, della quale fecero parte gli Arditi, gli unici
capaci di dare una svolta coraggiosa all'atteggiamento del governo.
In molti ambienti si diffuse la convinzione, alimentata dai giornali
e da alcuni intellettuali, che gli oltre seicentomila morti della
guerra erano stati "traditi", mandati inutilmente al macello, e tre
anni di sofferenze erano servite solo a distruggere l'Impero
asburgico ai confini d'Italia per costruirne uno nuovo e ancora
più ostile ad essa.
Il governo italiano dal canto suo fu diviso sul da farsi: Vittorio
Emanuele Orlando era un sostenitore del riconoscimento delle
nazionalità in opposizione alla politica decisamente
imperialistica del Sonnino: il contrasto fra i due politici italiani
fu fatale; se Orlando, disposto a rinunciare alla Dalmazia,
richiedeva l'annessione di Fiume, Sonnino non intendeva cedere sulla
Dalmazia, cosicché l'Italia finì col richiedere
entrambi i territori, senza ottenere nessuno dei due. A seguito di
un appello diretto di Wilson al popolo italiano che scavalcò
il governo del paese, Vittorio Emanuele Orlando abbandonò per
protesta la conferenza di pace di Parigi. In mancanza del presidente
del consiglio italiano, le trattative però continuarono lo
stesso, tanto che la delegazione italiana ritornò sui suoi
passi.
Il 10 settembre 1919, il nuovo presidente del consiglio Francesco
Saverio Nitti sottoscrisse il trattato di Saint-Germain, che
definiva i confini italo-austriaci, ma non quelli orientali.
L'Austria cedette all'Italia l'Alto Adige, l'Istria, l'intera
Venezia Giulia fino alle Alpi Giulie col confine includente la
cittadina di Volosca e le isole del Carnaro, il porto di Valona in
Albania, l'isolotto di Saseno di fronte alle coste albanesi, e
diritto di chiedere aggiustamenti dei confini coloniali con i
possedimenti francesi e britannici in Africa.
Due giorni dopo - il 12 settembre 1919 - una forza volontaria
irregolare di nazionalisti ed ex-combattenti italiani, guidata dal
poeta D'Annunzio, occupò militarmente la città di
Fiume chiedendone l'annessione all'Italia. Solo la caduta del
governo Nitti per il quinto e ultimo governo Giolitti riesce a
sbloccare la situazione; Giolitti, con il Trattato di Rapallo del 12
novembre 1920, raggiunse un accordo con gli jugoslavi, dove Fiume
veniva riconosciuta città indipendente, anche se D'Annunzio e
le formazioni irregolari vennero costretti ad abbandonare la
città solo dopo un intervento di forza da parte delle forze
armate italiane (c.d. Natale di sangue della fine di dicembre del
1920).
Col Trattato di Rapallo, della parte della Dalmazia promessa col
patto di Londra all'Italia andarono la città di Zara, le
isole di Làgosta e Cazza e l'arcipelago di Pelagosa. Il resto
della regione fu assegnata al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.
La posizione verso la Russia bolscevica
Tra le nazioni riunite alla Conferenza non era presente -
com'è noto - la Russia bolscevica. Le nazioni vincitrici
ritenevano l'influenza bolscevica un «pericolo sociale e
politico» da isolare, ma che non sarebbe potuto essere
stroncato con un intervento militare, peraltro in corso dalla firma
del duro trattato di Brest-Litovsk. Francia, Gran Bretagna e Stati
Uniti non avevano forze sufficienti per un attacco in forze atto a
sostenere l'Armata Bianca che si opponeva all'Armata Rossa
bolscevica nella guerra civile che insanguinava l'ex impero zarista.
Il governo bolscevico dal proprio canto era disponibile a far fronte
ai debiti zaristi, a pagarne gli interessi in materie prime e a fare
concessioni territoriali e minerarie, per garantire la sopravvivenza
del neonato governo impegnato nella sanguinosa guerra civile. Tutto
ciò venne però recepito da Wilson e Lloyd George come
un insulto, come tentativo di comprare la benevolenza dei grandi
stati capitalisti.
Ma né i fautori della crociata antibolscevica, né i
governi occidentali volevano far digerire all'opinione pubblica dei
negoziati con la Russia dei soviet, così le proposte e le
concessioni bolsceviche caddero nel vuoto. Nessuno era disposto a
mandare truppe in Russia, nessuno era disposto ad accettare
trattative con il governo di Lenin, solo gli Stati Uniti colsero
l'occasione di guadagnare qualcosa dalla situazione in Russia,
così fu approvato il progetto di Herbert Hoover di estendere
alla Russia l'opera di assistenza alimentare già sperimentata
in Belgio. Una delle ultime decisioni prese durante la conferenza fu
proprio la fine del conflitto contro la Russia, che si stava
rivelando troppo costoso e troppo distante dalle necessità
degli stati europei, e il 18 novembre 1919 le ultime unità
statunitensi lasciarono Arcangelo e Vladivostok.
La Conferenza si conclude
Entro la fine del 1919 Germania, Austria e Bulgaria firmarono i
rispettivi trattati di pace, quest'ultima cedette il suo unico
sbocco sul mar Egeo - la Tracia - agli alleati che in seguito la
trasferirono alla Grecia. La Dobrugia fu ceduta alla Romania, mentre
la Jugoslavia ricevette le isole di Strumica e Tzaribrod e 50.000
tonnellate di carbone l'anno per cinque anni. In Ungheria i torbidi
medi di governo comunista di Béla Kun ritardarono la
stipulazione della pace, ma il 4 giugno 1920 l'ultimo nucleo
territoriale di quelli che un tempo furono gli imperi centrali
accettò il trattato di Trianon; la Cecoslovacchia
acquisì le ex regioni ungheresi della Rutenia e della
Slovacchia, la Romania acquisì la Transilvania e la regione
del Banato passò alla Jugoslavia, togliendo di fatto
qualsiasi sbocco al mare all'Ungheria, guidata per ironia
dall'ammiraglio dell'ex flotta austro-ungarica Miklós Horthy.
Il 19 novembre il governo statunitense respinse il trattato di
Versailles. Fu un duro colpo per coloro che avevano sperato
nell'alleato d'oltremare come un contributore nel far rispettare il
trattato, e che desse un aiuto economico all'Europa. L'intero
trattato era stato concepito partendo dall'assunto che gli Stati
Uniti avrebbero assunto un ruolo attivo, la Francia fu persuasa dal
creare uno Stato cuscinetto fra sé e la Germania in cambio
del sostegno armato degli Stati Uniti. L'intero trattato era stato
«deliberatamente e ingegnosamente costruito da Wilson in
persona, in modo tale che la collaborazione americana risultasse
essenziale». Il trattato di Versailles entrò in vigore
il 10 gennaio 1920, lasciando l'Europa abbandonata a sé
stessa. All'entrata in vigore del trattato corrispose l'istituzione
della Società delle Nazioni, la quale nasceva già
incrinata: la Russia non ne faceva parte e neppure la Germania,
mentre la Cina si sentiva offesa perché i giapponesi,
nonostante le proteste alleate, si erano annessi la provincia dello
Shantung, in precedenza in mano tedesca.
Tuttavia la Società delle Nazioni racchiudeva in sé le
speranze di milioni di persone che guardavano ad essa come un modo
di dirimere le dispute internazionali senza far ricorso alla forza.
Speranze contenute nei suoi 26 articoli, che prevedevano la
consultazione, e quindi all'azione collettiva, nel caso di
aggressione senza provocazione. Ma perfino nei nuovi stati nati
dalla volontà delle minoranze, nascevano le aspirazioni di
nuove minoranze i cui diritti venivano continuamente calpestati, e
alle quali la Società offriva più una speranza che un
vero e proprio appoggio. Le minoranze tedesche in Polonia e
Cecoslovacchia, le minoranze ungheresi in Romania e Cecoslovacchia,
la minoranza ucraina in Polonia, covavano risentimenti simili a
quelli che prima del 1914 avevano innescato la spirale della guerra.
I trattati di pace in dettaglio
Il trattato di Versailles del 28 giugno 1919 regolava le modifiche territoriali imposte alla Germania: restituzione
alla Francia dell'Alsazia e della Lorena, apposizione della Saar
sotto controllo internazionale fino ad un plebiscito da tenere nel
1935 con cessione della proprietà delle miniere di carbone
alla Francia, smilitarizzazione e occupazione della Renania per un
arco di tempo variabile dai cinque ai quindici anni, cessione dei
distretti di Eupen e Malmedy al Belgio, convocazione di un
plebiscito nello Schleswig per deciderne le sorti (la parte
settentrionale preferì stare sotto la Danimarca, quella
meridionale optò invece per la Germania), assegnazione della
Slesia settentrionale alla neonata Polonia, sottrazione della
città di Danzica (diventata una "città libera"
amministrata dalla Società delle Nazioni) e separazione della
Pomerania dalla Prussia orientale mediante la creazione di un
"corridoio" da cedere alla Polonia, che così guadagnava uno
sbocco sul mar Baltico. Inoltre, la Germania perse tutte le colonie
(affidate con la formula del "mandato" alle potenze vincitrici),
venne abolita la coscrizione obbligatoria, fu posto un limite di
100.000 unità all'esercito (privato inoltre dell'artiglieria
pesante e dell'aeronautica) mentre la flotta, che non poteva
più possedere sommergibili, era già stata internata
nel porto scozzese di Scapa Flow dove si era autoaffondata il 21
giugno. La condizione più gravosa fu comunque il pagamento
delle riparazioni di guerra, fissate in seguito all'enorme cifra di
132 miliardi di marchi oro, il cui principio era in contrasto con le
idee wilsoniane e il cui ammontare complessivo fu la causa di
numerose dispute durate fino agli anni trenta, nonché origine
del rifiuto del popolo tedesco, anche quello più disponibile
a rendersi conto della sconfitta, di accettare un trattato ingiusto
ed eccessivamente oneroso, tanto più che la delegazione
tedesca non poté partecipare alla sua stesura, ottenendo
solamente di poter mettere nero su bianco le sue obiezioni. In
Germania il trattato di Versailles fu subito osteggiato da una forte
spinta revisionistica.
Il trattato di Saint-Germain-en-Laye del settembre 1919 riguardava
l'Impero austro-ungarico, sostituito a novembre dalla Repubblica
dell'Austria tedesca, lo stesso mese in cui la Repubblica di Weimar
prendeva ufficialmente il posto dell'Impero tedesco. L'Austria perse
gran parte dei suoi territori e rimase circoscritta al solo
territorio abitato da popolazioni di lingua tedesca, che nel
complesso occupavano circa un quarto del vecchio impero. Il
Trentino-Alto Adige, Gorizia, Trieste e l'Istria andarono
all'Italia, la Boemia, la Moravia e la Slovacchia vennero fuse a
formare la Cecoslovacchia, la Bucovina passò alla Romania,
parte della Carinzia fu divisa fra l'Austria e il nuovo Regno dei
Serbi, Croati e Sloveni da un plebiscito, e anche il Burgenland fu
spartito con l'Ungheria, divenuta indipendente, sempre dietro ad un
plebiscito. L'esercito venne ridotto a 30.000 soldati e un articolo
del trattato, rafforzato da un altro articolo del trattato di
Versailles che esplicitava la stessa cosa, vietava l'annessione alla
Germania (Anschluss).
Il trattato di pace con la Bulgaria, ovvero il trattato di Neuilly,
venne firmato il 27 novembre 1919. Esso prevedeva la perdita della
Tracia occidentale, ceduta al Regno di Grecia, con il relativo
sbocco sul mar Egeo, la cessione di alcune province minori al Regno
dei Serbi, Croati e Sloveni e la restituzione della Dobrugia
Meridionale alla Romania. Dopo la fine della breve Repubblica
sovietica ungherese di Béla Kun, sconfitta dai romeni e dai
cecoslovacchi, le sorti dell'Ungheria vennero stabilite dal trattato
del Trianon (4 giugno 1920) che prevedeva la cessione del Banato
alla Romania (che ottenne anche parte della Transilvania) e al Regno
dei Serbi, Croati e Sloveni (a cui andò anche la Croazia e la
Slavonia). Una forte minoranza ungherese rimase nei confini
cecoslovacchi, nella Rutenia subcarpatica, mentre un altrettanto
forte minoranza tedesca abitava nei Sudeti.
Uno dei trattati più complessi e severi fu quello di
Sèvres firmato il 10 agosto 1920. Con esso l'Impero ottomano
perdeva tutti i territori esterni all'Anatolia settentrionale e alla
zona di Istanbul: Siria, Palestina, Transgiordania e Iraq vennero
affidati a Francia e Gran Bretagna che ne fecero dei "mandati"
affermando il loro potere con la forza (guerra franco-siriana);
Smirne, dal 1917 affidata all'Italia, passava ora per cinque anni
sotto l'amministrazione provvisoria della Grecia (in attesa di un
plebiscito), che acquistò anche la Tracia e quasi tutte le
Isole egee; l'Armenia diventò indipendente e il Kurdistan
ottenne un'ampia autonomia; i Dardanelli rimanevano sotto
l'autorità nominale del sultano Mehmet VI, ma la navigazione
venne posta sotto il controllo di una commissione internazionale,
che per garantire la libertà di navigazione aveva sotto
controllo anche delle strisce di territorio sia sulla costa europea
che su quella asiatica. L'intento della commissione era di chiudere
gli stretti ad ogni aiuto destinato ai rivoluzionari russi e aprirli
alle forze controrivoluzionarie. Ancora, Gran Bretagna, Francia e
Italia presero in gestione le finanze imperiali. È da dire
comunque che il trattato di Sèvres fu il primo ad essere
completamente messo in discussione. Prima ancora che fosse firmato
infatti, un gruppo di militari guidato da Mustafa Kemal
dichiarò di non voler accettare una sconfitta che non aveva
subito, ed iniziò una duplice guerra contro il sultano e gli
eserciti occidentali stanziati in Turchia, che rinunciarono a
combattere e si ritirarono. Nell'aprile 1920 venne indetta
un'assemblea nazionale ad Ankara che fece da preludio, dopo aver
sconfitto la Grecia, alla nascita della Repubblica nel 1923, che
nelle intenzioni di Kemal doveva essere laica e confinata nella
penisola anatolica, dove era dominata dalla popolazione turca. Il
nuovo Stato venne riconosciuto dalle potenze dell'Intesa il 24
luglio 1923 con il trattato di Losanna, che ridava alla Turchia la
piena indipendenza e il controllo delle coste attorno i Dardanelli,
dove la navigazione era regolata da una convenzione. Kemal era
già uscito dall'isolamento internazionale il 16 marzo 1921
firmando il primo trattato anticoloniale del dopoguerra, con i
rivoluzionari russi, che acquistarono parte dell'Armenia
istituendovi poi una repubblica socialista, ma nel 1923 la Turchia
non aveva più interesse a favorire l'Armata Rossa, preferendo
invece normalizzare i rapporti con le potenze occidentali che
avrebbero dominato il Mediterraneo orientale.
Il fallimento della politica di sicurezza
Le clausole con la Germania stipulate nella conferenza di Versailles
imponevano alla nazione sconfitta l'ammissione della propria
"colpevolezza"; ciò ebbe ripercussioni molto negative nella
percezione che la popolazione ebbe nei confronti di chi gli aveva
imposto il trattato e vi consolidò l'idea che la fine della
guerra fosse stata decisa dallo sfacelo e dalla rivoluzione sul
fronte interno. I nazionalisti e gli ex capi militari cercarono di
addossare la colpa ad altri, e presto i capri espiatori vennero
identificati nei politici della Repubblica di Weimar, nei comunisti,
e nell'"internazionale ebraica", tutti colpevoli di aver, sia
criticando la causa del nazionalismo tedesco, sia, semplicemente,
non mostrandosi sostenitori abbastanza entusiasti di quest'ultimo.
Ma non solo gli sconfitti rimasero delusi dalle conclusioni della
Conferenza, anche alcuni dei paesi vincitori videro negarsi
possedimenti territoriali e alcune clausole istituite con gli
Alleati per convincere le altre nazioni ad entrare in guerra a loro
fianco. Il Belgio vide negarsi i possedimenti in Africa e l'Italia
invece entrò in forte contrasto con Wilson e le altre potenze
Alleate che non gli consentirono di applicare quanto il patto di
Londra concordava.
Il problema della sicurezza europea
La Società delle Nazioni, l'organo con sede a Ginevra che
avrebbe dovuto riorganizzare le relazioni internazionali e risolvere
i conflitti tra gli stati in modo da evitare la guerra, in
realtà poggiava le gambe su uno statuto suggestivo ma
astratto, contraddetto dallo spirito punitivo di Versailles e i cui
principi non troveranno una concreta volontà politica
disposta ad applicarli. L'organizzazione, pensata da un presidente
statunitense, venne abbandonata prematuramente proprio dagli Stati
Uniti per volere del Congresso e del nuovo presidente repubblicano
Warren G. Harding, che preferirono portare avanti una politica
isolazionista concentrandosi solo nell'area dell'oceano Pacifico e
dell'America meridionale. L'assenza degli stati sconfitti, degli
Stati Uniti e dell'Unione Sovietica ridussero la Società
delle Nazioni in uno strumento in mano a Gran Bretagna e Francia.
Presente in Europa solo economicamente, l'assenza politica degli
Stati Uniti causò la mancanza in Europa di un forte garante
esterno capace di risolvere le controversie.
L'insuccesso dei tentativi francesi alla conferenza di Parigi di
ingabbiare la Germania in restrizioni tali da impedirle di nuocere
alla Francia per un ragionevole lasso di tempo condizionò
fortemente la politica francese del dopoguerra. I primi paesi a cui
si avvicinò la Francia furono gli stati con interessi
antirevisionistici: Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, Romania,
Cecoslovacchia (tutti e tre a formare la Piccola Intesa tra il 1920
e il 1921) e Polonia. In realtà, più che portare un
contributo effettivo alla sicurezza francese, erano questi paesi che
necessitavano dell'aiuto francese per non rimanere isolati e alla
mercé di attacchi sia esterni che interni. Quando nel gennaio
1922 il governo francese passò alla destra nazionalistica, il
primo ministro Raymond Poincaré decise di usare la forza, e
l'11 gennaio 1923 ordinò all'esercito di occupare la Ruhr e
le sue risorse minerarie per compensare le riparazioni di guerra che
la Germania non era riuscita a pagare. L'azione fu fortemente
criticata dalla Gran Bretagna, e Berlino adottò la linea
della "resistenza passiva" impedendo ai lavoratori di recarsi nelle
fabbriche della Ruhr.
Presto si giunse ad uno stallo completo che terminò solo con
l'arrivo al cancellierato tedesco, in agosto, di Gustav Stresemann.
Convinto che la situazione della Germania si sarebbe dovuta
normalizzare non grazie a colpi di mano, ma conquistando la fiducia
dei paesi vincitori, a settembre Stresemann revocò la
resistenza passiva. Un anno dopo Édouard Herriot divenne il
nuovo primo ministro francese, e si impegnò, assieme
all'omologo britannico, il laburista Ramsay MacDonald, a rafforzare
la Società delle Nazioni con il protocollo di Ginevra, che
tuttavia venne abbandonato dopo le dimissioni di MacDonald nel
novembre 1924 e l'elezione del conservatore Stanley Baldwin. La
Società delle Nazioni continuò ad essere priva di
effettivo potere. Il varo del piano Dawes avvenuto in quello stesso
1924, che trovò una soluzione alle riparazioni di guerra
tedesche e favorì un clima più sereno, permise a
Stresemann, nel febbraio 1925, di rendersi disposto a riconoscere il
confine renano e a restituire l'Alsazia-Lorena alla Francia, a patto
che le truppe di occupazione franco-belghe si fossero ritirate dalla
Ruhr, cosa che avvenne entro agosto. Il discorso di Stresemann fu
accettato col patto di Locarno del 16 ottobre, firmato tra Germania,
Francia, Gran Bretagna, Belgio e Italia che, di fatto, capovolse il
trattato di Versailles: da un'imposizione si passò
all'accettazione dello stato delle cose. La Francia si
assicurò quindi la sicurezza dell'area renana e i buoni
rapporti con la Germania (almeno finché Stresemann e Aristide
Briand rimasero in vita), ma non la sicurezza globale in Europa. Il
patto di Locarno infatti lasciò aperta la questione dei
confini orientali tedeschi, per cui la Francia dovette stipulare un
trattato di alleanza e mutua assistenza con la Polonia e la
Cecoslovacchia, mentre affidò all'Italia l'indipendenza
austriaca, per cui si era parlato di una possibile unione alla
Germania (Anschluss) già nel 1919.
La Rivoluzione d'ottobre riuscì ad attecchire, fuori dalla
Russia, solo in Ungheria, dove il regime di Béla Kun
resistette fino all'agosto 1919. Negli altri stati europei la
rivoluzione proletaria venne scongiurata o dalle risposte
riformistiche e parlamentari, o dalle dittature, e per i primi anni
venti l'Unione Sovietica era vista solamente come un problema
internazionale, concentrato soprattutto sui confini occidentali
dell'URSS e dai suoi rapporti con il Giappone e la Cina, ma non come
una minaccia per l'Europa, debilitata com'era dagli strascichi del
trattato di Brest-Litovsk (sconfessato alla conferenza di Parigi)
che l'avevano privata della Finlandia, degli Stati baltici e dei
territori in Polonia, tutti Stati tornati indipendenti. L'isolamento
sovietico continuò fino al trattato di Rapallo del 1922
siglato con la Germania, a cui seguì un rapido riconoscimento
dell'URSS da parte di tutti i paesi occidentali.
Fra i problemi legati alla sicurezza, il più complesso era
quello della Polonia, tornata indipendente inglobando Galizia,
Slesia e parti di Pomerania, Bielorussia e Ucraina con tutti i vari
gruppi etnici che abitavano queste regioni. La Polonia indipendente
era il simbolo del nuovo ordine internazionale europeo, ma i suoi
confini erano carichi di potenziali tensioni. Nel 1921 parte della
Slesia tornò alla Germania in seguito ad un plebiscito, ma i
confini orientali vennero normalizzati solo dopo una guerra contro
la Russia, esplosa dopo che il leader polacco Józef Piłsudski
aveva stretto dei rapporti di amicizia con il presidente ucraino
Simon Petljura. L'Armata Rossa sembrò avere la meglio,
giungendo fino quasi a Varsavia, ma gli aiuti francesi elargiti ai
polacchi permisero a questi di passare alla controffensiva e di
sconfiggere la Russia. La pace di Riga del marzo 1921 diede nuovi
territori della Bielorussia alla Polonia, che diventò
così una "Grande Polonia", fortemente nazionalista ma
geopoliticamente sovradimensionata, che poteva essere un solido
spartiacque tra Germania e URSS o la preda di quest'ultimi.
La prima crisi del colonialismo europeo
L'egemonia globale europea subì il più grande colpo in
ambito coloniale. Dalla fine del XIX secolo l'imperialismo fu
oggetto delle critiche del marxismo, mentre Lenin definì il
colonialismo come la «fase suprema» del capitalismo,
indicando nella lotta per l'indipendenza dei popoli il mezzo per
eliminare il sistema economico dominante.
L'imperialismo europeo di fine XIX secolo era non solo il frutto di
fenomeni culturali, ma rispondeva alla precisa necessità di
sostenere lo sviluppo dell'industrializzazione, bisognosa di materie
prime scarse o costose in Europa ma abbondanti in determinate aree
geografiche del mondo, raggiungibili e conquistabili con una potente
flotta e sfruttabili con un'adeguata marina mercantile. Dopo non
molti anni il contento tra le popolazioni colonizzate gettò i
semi della rivolta, già prima della Grande Guerra: agitazioni
nazionaliste in Cina, India e Turchia e delle popolazioni bianche
sotto il regime coloniale della Gran Bretagna (che nel 1907
concedette ai suoi Dominion un'indipendenza quasi totale, riformando
nel 1931 lo statuto del Commonwealth delle nazioni).
Gli accordi segreti stipulati durante la guerra per decidere il
futuro delle colonie tedesche o dei vasti possedimenti dell'Impero
ottomano si scontrarono con le idee del presidente statunitense
Wilson, che riuscì ad inserire nel patto istitutivo della
Società delle Nazioni un articolo, il numero 22, che
introduceva la formula dei "mandati" (divisi in tre tipi – A, B, C –
ognuno con una diversa misura d'intervento della potenza mandataria)
intesi come «una missione sacra di civiltà»;
inoltre alle comunità del Medio Oriente (mandati di tipo A)
venne riconosciuto uno sviluppo tale da permetterne l'indipendenza,
raggiungibile con l'aiuto della potenza mandataria che, per
autorizzarla, avrebbe dovuto tenere conto prima di tutto dei voti di
tali comunità. La Francia si aggiudicò gli attuali
Siria e Libano, mentre la Gran Bretagna ottenne la Palestina e
l'Iraq. I primi attuarono un forte e profondo colonialismo, che
lasciò tracce profonde che rimandarono l'indipendenza
praticamente al 1946, mentre i secondi demandarono il governo dei
territori alla dinastia hashemita che li aveva appoggiati durante la
guerra.
Anche in Africa settentrionale si fecero sentire i movimenti
nazionalisti. La Gran Bretagna fu costretta a rinunciare al
protettorato egiziano concedendo piena indipendenza al paese, seppur
con molte riserve circa i poteri del sovrano Fu'ad; in Libia le
forze italiane inviate per recuperare il controllo della Cirenaica,
della Tripolitania e del Fezzan furono duramente impegnate dalle
tribù locali, mentre in Algeria (Francia) e Marocco (Spagna)
i ribelli di Abd el-Krim posero per la prima volta il problema della
convivenza tra popolazione indigena e metropolitana. In India il
Congresso Nazionale Indiano (guidato da Gandhi e Nehru) e la Lega
musulmana di Ali Jinnah unirono le forze per combattere la potenza
dominante, cioè la Gran Bretagna.
La Grande depressione e il suo impatto internazionale
«Le banche avevano ritirato improvvisamente dal mercato
diciottomila milioni di dollari, cancellando le aperture di credito
e chiedendone la restituzione»
(Emile Moreau, Governatore della Banca di Francia, 8 febbraio del
1928)
La grande depressione, detta anche crisi del '29, grande crisi o
crollo di Wall Street, fu una grave crisi economica e finanziaria
che sconvolse l'economia mondiale alla fine degli anni venti, con
forti ripercussioni durante i primi anni del decennio successivo. La
depressione ebbe origine da contraddizioni simili a quelle che
avevano portato alla crisi economica del 1873-1895, mentre l'inizio
si ebbe negli Stati Uniti con la crisi del New York Stock Exchange
(la borsa di Wall Street) avvenuta il 24 ottobre del 1929
(giovedì nero), cui fece seguito il definitivo crollo (crack)
della borsa valori del 29 ottobre (martedì nero), dopo anni
di boom azionario.
La depressione ebbe effetti recessivi devastanti sia nei paesi
industrializzati, sia in quelli esportatori di materie prime con un
calo generalizzato della domanda e della produzione. Il commercio
internazionale diminuì considerevolmente e con esso i redditi
dei lavoratori, il reddito fiscale, i prezzi e i profitti. Le
maggiori città di tutto il mondo furono duramente colpite, in
special modo quelle che basavano la loro economia sull'industria
pesante. Il settore edilizio subì un brusco arresto in molti
paesi. Le aree agricole e rurali soffrirono considerevolmente in
conseguenza di un crollo dei prezzi fra il 40 e il 60%. Le zone
minerarie e forestali furono tra le più colpite, a causa
della forte diminuzione della domanda e delle ridotte alternative
d'impiego occupazionale.
Il contesto e la crisi negli USA
Dopo la Grande Guerra gli Stati Uniti conobbero un periodo di
prosperità e progresso socio-economico trainato soprattutto
dal settore automobilistico, che a sua volta fece da volano alla
crescita trascinando con sé altri settori connessi e non come
l'industria metallurgica, della gomma, il settore petrolifero, dei
trasporti ed edile. Sembrava quindi essersi innescato un circolo
virtuoso: l'alta produttività permetteva di mantenere
inalterati i salari e i prezzi dei prodotti sul mercato. Questo
favoriva quindi gli investimenti che permettevano a loro volta di
aumentare la produttività. Tuttavia agli investimenti e al
continuo aumento della produttività, non corrispose una
proporzionata crescita del potere d'acquisto. Nei primi anni dopo il
primo conflitto mondiale, lo sviluppo era stato infatti sostenuto
dai risparmi accumulati negli anni della guerra e dai bassi tassi
d'interesse.
Una seconda contraddizione interna all'economia statunitense era
rappresentata dal sistema finanziario. Non furono infatti posti
limiti alle attività speculative delle banche e della borsa
valori, dovute alla volontà da parte degli acquirenti di
detenere titoli, non tanto per ottenere dividendi e dunque profitti,
quanto solo per aumentare il proprio capitale. In sostanza dunque si
comperava per rivendere, senza preoccuparsi della qualità dei
titoli e all'aumento di domanda dei titoli si accompagnò
direttamente quella delle quotazioni. A tutto questo va aggiunta la
responsabilità dei rappresentanti delle holding che
detenevano portafogli d'azioni e che avevano quindi interesse che i
corsi dei titoli si alzassero e per spingere i risparmiatori
all'acquisto dei titoli effettuavano dichiarazioni troppo
ottimistiche. L'aumento del valore delle azioni industriali,
però, non corrispose a un effettivo aumento della produzione
e della vendita di beni tanto che, dopo essere cresciuto
artificiosamente per via della speculazione economica diffusasi a
tutti i livelli in quegli anni, questo scese rapidamente e costrinse
i possessori a una massiccia vendita, che provocò il noto
crollo della borsa.
La caduta della borsa colpì soprattutto quel ceto di media
borghesia che nel corso degli anni venti, oltre ad aver investito i
propri risparmi in borsa, aveva sostenuto la domanda di beni di
consumo durevole. La loro uscita dal mercato indeboliva, quindi,
proprio le industrie produttrici di beni di consumo durevole (come
quello dell'auto). Queste industrie cessarono di commissionare
materiali a quelle operanti negli stessi settori dell'indotto, le
quali dovettero ridurre il personale e i salari, provocando una
contrazione a valanga anche nei settori dei beni primari di consumo
(come quello agricolo).
La situazione era poi aggravata dalla stretta interconnessione che
legava il settore industriale a quello bancario. Infatti, nel
momento in cui la borsa crollò, si diffuse un'ondata di
panico devastante tra i piccoli risparmiatori i quali si
precipitarono nelle banche nel tentativo di salvare il proprio
denaro. Il ritiro del denaro dal mercato provocò quindi una
crisi di liquidità di ampie dimensioni e il fallimento di
molte banche che trascinarono nella crisi le industrie nelle quali
avevano investito. Molte di queste furono costrette a chiudere i
battenti o a ridimensionarsi e i licenziamenti, operati dalle
aziende in crisi, portarono a una elevata diminuzione delle domande
di lavoro, bloccando quasi completamente l'economia americana.
Una volta innescata la crisi, a causa dell'aumento della
disoccupazione e del parallelo calo dei consumi, questa assunse
dunque i connotati di una crisi di sovrapproduzione cioè
eccesso di offerta rispetto alla domanda con conseguente parallelo
calo/ridimensionamento della produzione, che di pari passo scese di
quasi il 50% tra il 1929 e il 1932.
La crisi fuori dagli USA
La spirale recessiva si propagò rapidamente fuori dagli USA
in primis a tutti quei paesi che avevano stretti rapporti finanziari
con gli Stati Uniti, a partire da quelli europei che si erano
affidati all'aiuto economico degli americani dopo la Prima guerra
mondiale, ovvero Gran Bretagna, Austria e Germania, dove il ritiro
dei prestiti americani fece saltare il complesso e delicato sistema
delle riparazioni di guerra, trascinando nella crisi anche Francia e
Italia.
In tutti questi paesi si assistette a un drastico calo della
produzione seguito da diminuzione dei prezzi, crolli in borsa,
fallimenti e chiusura di industrie e banche, aumento di disoccupati
(12 milioni negli USA, 6 in Germania, 3 in Gran Bretagna), il tutto
aggravato anche dall'introduzione di misure protezionistiche come
freno al libero scambio nel sistema economico globale.
Va notato che la crisi non colpì l'economia dell'URSS, la
quale in quegli anni aveva inaugurato il suo primo piano
quinquennale con l'obiettivo di creare una base industriale moderna.
Restarono inoltre immuni dalla crisi anche il Giappone - che
affrontò la crisi (inclusa la guerra) con misure
inflazionistiche - e i Paesi scandinavi che, in quanto esportatori
di particolari materie prime, non risentirono della riduzione della
domanda dei loro prodotti.
Nel 1931 la Gran Bretagna abbandonò il gold standard, imitata
subito dai paesi scandinavi. Nel 1934 sterlina e dollaro vennero
fortemente svalutati.
L'economista John Kenneth Galbraith ha individuato almeno cinque
fattori di debolezza nell'economia americana responsabili
dell'inizio della crisi:
Gli Stati svolsero così funzioni imprenditoriali (ricorrendo
alla spesa pubblica come elemento strutturale e centrale della
dinamica economica nazionale) e previdenziali (con l'attivazione di
misure legislative di sicurezza sociale). Questo tipo di interventi,
ad esempio il New Deal in USA e la fondazione dell'IRI in Italia,
furono sistemizzati e teorizzati successivamente da John Maynard
Keynes, da cui la definizione politiche keynesiane) .
In Germania, che subì in particolare il contraccolpo
più violento, la crisi provocò milioni di disoccupati
che andarono poi a formare la base di consenso che portò il
Partito nazista al potere nel 1933. Nel complesso, nonostante un
accenno di ripresa a partire dal 1933, la crisi non fu completamente
superata fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale.
Il Giappone si riprese continuando la sua politica di espansione
imperialista, occupando la Manciuria e instaurando lo stato
fantoccio del Manciukuò nel 1931, per poi riprendere
l'espansione in Cina occupando la città di Shanghai e altre
province. Iniziò così la guerra sino-giapponese, che
sarà uno dei fronti della seconda guerra mondiale. Per
approfondire, vedi Grande depressione.
Invece di sviluppare le proposte dei paneuropeisti ed esaminare i
cambiamenti che gli USA e il Giappone avevano introdotto nel mercato
globale e sul sistema coloniale, gli Stati europei si chiusero al
proprio interno, ciascuno cercando di risolvere i problemi con
provvedimenti economici e azioni politiche diverse. Questa mancanza
di coordinazione risultò evidente quando la crisi finanziaria
statunitense del 1929 espatriò in Europa.[38]
Nell'ottobre di quell'anno la borsa di Wall Street registrò
un'enorme caduta del prezzo dei titoli azionari (precedentemente
gonfiati all'eccesso dalle speculazioni), che continuò sino a
tutto novembre e oltre, risalendo ai livelli precedenti della crisi
solo nel 1936. La crisi, oltre a ripercuotersi sul sistema
finanziario, toccò anche l'ambito produttivo e le persone
occupate nel settore, che innalzarono notevolmente il livello della
disoccupazione (ad esempio, negli USA del 1932 i disoccupati erano
dodici milioni). Dato che dal 1923 la finanza statunitense aveva
importanti attività in Europa, aumentate con il piano Dawes
per il risanamento della Germania che aprì le porte al
capitale statunitense ai mercati europei, specialmente a quello
tedesco, la crisi del 1929 contagiò anche il Vecchio
Continente. La Germania subì un'impennata inflazionistica e
una crisi produttiva per fronteggiare le quali il cancelliere
Brüning dovette avviare una politica di restrizioni
finanziarie, spingendo però i socialisti all'opposizione e
radicalizzando il panorama politico, da cui irruppe il Partito
Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori di Adolf Hitler.
Brüning cercò di alleviare la crisi tentando un'unione
doganale con la Prima repubblica austriaca (Angleichung,
assimilazione), anch'essa in difficoltà, ma l'operazione
venne interpretata come un tentativo di Anschluss, vietato dai
trattati di Versailles e Saint-Germain-en-Laye, ed incontrò
l'opposizione franco-italiana che bloccò ogni ulteriore
sviluppo.
Il fallimento dell'Angleichung si ripercosse pesantemente sulla
situazione economica austriaca, già provata dalla riduzione
del vecchio mercato preferenziale austro-ungarico e con una
disoccupazione endemica. Nel 1931 la Creditanstalt, la maggiore
banca austriaca che controllava anche una serie di banche minori,
dovette fornire un bilancio delle sue finanze per ottenere un
credito da banche di vari paesi, ma risultò che le
passività erano superiori alle attività e venne
dichiarato il fallimento. Il credito venne allora concesso dalla
Società delle Nazioni, che da agosto cominciò a
versare scellini nelle casse austriache ponendo di fatto l'Austria
sotto uno stretto controllo italo-francese. Nel frattempo, tutti
quelli che ne ebbero la possibilità ritirarono i loro
capitali dal paese, generando un panico tale da innalzare la Grande
depressione a fenomeno globale.
Nell'estate 1931 tutto il sistema di pagamento dei debiti
interalleati e delle riparazioni di guerra venne sospeso; numerose
banche furono costrette a chiudere. Il 21 settembre il primo
ministro britannico MacDonald, visto il livello pericolosamente
basso delle riserve in oro e valuta della Banca d'Inghilterra,
decretò l'abbandono del sistema aureo (Gold standard). La
sterlina si svalutò e molti possessori di dollari furono
spinti a chiederne il cambio in oro, mettendo alla prova la Federal
Reserve. Il Regno Unito cercò sollievo con lo statuto di
Westminster che riformò il Commonwealth, mentre gli usa
avevano adottato già dal 1930, con lo Smoot-Hawley Tariff
Act, la strada del protezionismo che, in ogni caso, non
riuscì ad isolare completamente il paese dagli effetti
internazionali della crisi. I gravi problemi generati da questa
crisi vennero discussi nel giugno 1933 a Londra da esponenti dei
governi britannico, francese e statunitense, ma non venne raggiunto
nessun accordo su come superare le difficoltà, volendo
preferire ognuno l'interesse nazionale a quello di altri Stati.
Nello stesso anno il presidente statunitense Franklin Delano
Roosevelt pronunciò un discorso alla Società delle
Nazioni in cui, in pratica, dichiarava la fine dell'interesse
statunitense per l'economia europea, in attesa che l'Europa
rimettesse ordine al suo interno.
Effetti socio-economici
La prima guerra mondiale fu condotta in modo totalmente diverso
rispetto ai conflitti precedenti e produsse cambiamenti
socio-economici di lunga durata. Si calcola che complessivamente
furono 66 milioni gli uomini arruolati e spediti al fronte, che
lasciarono a casa famiglie e imprese con ripercussioni sulla vita
della società. La "guerra di massa" stravolse e
accelerò lo sviluppo delle comunicazioni e l'industria,
introdusse l'uso del mezzo aereo sia come macchina da guerra che
come mezzo di trasporto per persone e merci. L'ingente uso di
manodopera nelle catene di montaggio avvicinò i lavoratori
alle ideologie più estremizzate che favorirono sia il clima
rivoluzionario sia il timore delle classi più abbienti di
veder intaccati i propri guadagni, che li spinsero verso scelte
conservatrici o autoritarie: la guerra foraggiava sia il "socialismo
rivoluzionario", visto come speranza di rinnovamento sociale, sia il
"nazionalismo estremistico", sinonimo di avanzamento nazionale.
Le conferenze del disarmo
Tra gli articoli inseriti nello statuto della Società delle
Nazioni ve ne era anche uno, l'articolo 8, che affermava che tutte
le nazioni avrebbero dovuto ridurre i loro armamenti,
compatibilmente con la sicurezza nazionale, al livello più
basso possibile. Di fatto, quindi, il disarmo imposto alla Germania
veniva generalizzato.
Il trattato navale tra USA, Gran Bretagna, Giappone, Italia e
Francia scaturito dalla conferenza di Washington si preoccupò
di regolare gli armamenti in campo navale. Gran Bretagna e USA
acconsentirono ad avere delle flotte di uguali proporzioni
così come stabilirono Francia e Italia, superate però
dal Giappone che riuscì ad ottenere un tonnellaggio navale
maggiore. Nel 1927 il presidente statunitense Calvin Coolidge
riunì le parti per discutere della riduzione del naviglio
militare di stazza intermedia. Sul punto si scontrarono gli
interessi italiani e francesi, con il nuovo governo di Mussolini che
non volle accettare una parità di armamenti con la Francia
che, a sua volta, non era disposta a disarmare ulteriormente la
flotta, adducendo come motivazioni la nuova politica balcanica del
Duce e la necessità di mantenere operative due flotte (una
per l'Atlantico e una per il Mediterraneo). Queste posizioni
esclusero i due paesi dall'accordo raggiunto a Londra nel 1930 tra
USA, Gran Bretagna e Giappone (aumento del naviglia giapponese,
parità angloamericana anche in materia di incrociatori,
cacciatorpediniere e sommergibili). La situazione italo-francese si
sbloccò nel 1931 con il raggiungimento di un complicato
compromesso.
Quanto al disarmo generale, venne istituita un'apposita commissione
che lavorò dal 1926 al 1930, che al termine degli studi
convocò una conferenza a Ginevra, da tenersi il 2 febbraio
1932. Il governo francese di Pierre Laval propose la subordinazione
degli armamenti alla nascita di un sistema di garanzie collettive
facenti capo alla Società delle Nazioni, ma il progetto si
infranse contro l'opposizione del ministro degli esteri italiano
Dino Grandi, che avrebbe accettato una riduzione degli armamenti a
livelli identici per tutte le nazioni solamente se fosse stata
ristabilita la "cooperazione e la giustizia internazionale", con
riferimento al revisionismo balcanico che, tuttavia, la Francia non
era disposta ad appoggiare. Alla conferenza prese parola anche il
cancelliere tedesco Heinrich Brüning: dal momento che nessuno
Stato aveva tenuto fede al disarmo dichiarato nella Carta della
Società delle Nazioni, egli chiese la fine dei vincoli di
Versailles sugli armamenti tedeschi, fornendo in cambio garanzie
unilaterali quali la rinuncia ad avanzare, per un certo numero
d'anni, rivendicazioni territoriali. La conferenza tergiversò
a lungo, con le potenze occidentali divise, e diede una risposta
affermativa quando Hitler era già diventato cancelliere
(gennaio 1933). Il Führer non ritirò subito la
delegazione tedesca, chiedendo invece a maggio una messa in pratica
immediata del principio di parità dei diritti tedeschi in
materia di armamenti (Gleichberechtigung). Era una mossa puramente
provocatoria, impossibile da accogliere, e Hitler la sfruttò
il 14 ottobre per legittimare il ritiro della delegazione e l'uscita
della Germania dalla Società delle Nazioni.
Vedendo così le cose, il periodo tra le due guerre mondiali
costituirebbe una sorta di tregua, un'interruzione delle
ostilità tra il blocco austrotedesco da una parte ed il
blocco alleato Gran Bretagna-Francia-Russia-USA dall'altra. Come
previsto da Foch, la guerra riprenderà. La ripresa delle
ostilità avverrà in forma rinnovata, ma ricalcando
grosso modo gli stessi schieramenti. Dal punto di vista militare, si
riprenderanno più o meno gli stessi fronti di combattimento
(fronte francese, fronte in Europa dell'Est, fronte italiano). Il
maggiore tra i pochi cambi di schieramento sarà indubbiamente
quello dell'Italia (è stata alleata di Francia e Gran
Bretagna nella prima guerra mondiale, ma Mussolini la
riporterà dalla parte dei tedeschi nella seconda).
Tuttavia un periodo di oltre due decenni, vissuto in maniera
profondamente diversa tra i vari paesi e continenti, costituisce
un'entità molto complessa e ricca di eventi in parte in
contraddizione tra di loro. Fra i maggiori del periodo tra le due
guerre, si segnalano: