Prima guerra mondiale



Data
28 luglio 1914 - 11 novembre 1918
Luogo
Europa, Africa, Medio Oriente, isole del Pacifico, Oceano Atlantico e Indiano
Casus belli
Attentato di Sarajevo
Esito
Vittoria degli stati Alleati
Modifiche territoriali
Crollo degli imperi tedesco, austro-ungarico, ottomano e russo
    •     Nascita di diversi stati in Europa e Medio Oriente conseguente alla spartizione dell'Austria-Ungheria e dell'Impero ottomano
    •     Spartizione delle colonie tedesche e delle regioni ottomane tra le potenze vincitrici
    •     Creazione della Società delle Nazioni.

Schieramenti

Nazioni Alleate:
 Regno di Serbia
 Impero russo (fino al 1917)
 Terza Repubblica francese
 Belgio
 Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda
 Regno del Montenegro (fino al 1916)
 Impero giapponese
 Regno d'Italia (dal 1915)
 Portogallo (dal 1916)
 Regno di Romania (dal 1916)
 Stati Uniti (dal 1917)
 Regno di Grecia (dal 1917) ed altri

Imperi centrali:
 Impero austro-ungarico
 Impero tedesco
bandiera Impero Ottomano
 Emirato di Jebel Shammar
 Regno di Bulgaria (dal 1915)
 Azerbaigian (dal 1918)


 La prima guerra mondiale è il nome dato al grande conflitto che coinvolse quasi tutte le grandi potenze mondiali, e molte di quelle minori, tra l'estate del 1914 e la fine del 1918. Chiamata inizialmente dai contemporanei "guerra europea", con il coinvolgimento successivo delle nazioni del Commonwealth, degli Stati Uniti d'America e di altre nazioni extraeuropee, prese presto il nome di "guerra mondiale" o "grande guerra", per via delle caratteristiche di guerra totale che essa assunse: fu infatti il più grande conflitto armato mai combattuto fino al 1939 cioè fino allo scoppio della seconda guerra mondiale1.
La prima guerra mondiale cominciò il 28 luglio 1914 con la dichiarazione di guerra dell'Austria alla Serbia in seguito all'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando il 28 giugno 1914 per concludersi oltre quattro anni dopo, l'11 novembre 1918. Il conflitto coinvolse le maggiori potenze mondiali di allora, divise in due blocchi contrapposti; gli Imperi centrali (Germania, Austria-Ungheria, Impero ottomano e Bulgaria) contro le potenze Alleate rappresentate principalmente da Francia, Gran Bretagna, Impero russo e Italia. Oltre 70 milioni di uomini furono mobilitati in tutto il mondo (60 milioni solo in Europa), in quello che divenne in breve tempo il più vasto conflitto della storia, che causò oltre 9 milioni di vittime tra i soldati e circa 7 milioni di vittime civili dovute non solo agli effetti diretti delle operazioni di guerra, ma anche alla carestia e alle malattie concomitanti2.
Militarmente il conflitto si aprì con l'invasione austro-ungarica della Serbia, e parallelamente, con una rapida avanzata dell'esercito tedesco in Belgio, Lussemburgo e nel nord della Francia, dove giunse a 40 chilometri da Parigi. In poche settimane il gioco di alleanze formatosi negli ultimi decenni dell'Ottocento tra gli stati comportò l'entrata nel conflitto delle maggiori potenze europee e delle rispettive colonie. In pochi anni la guerra raggiunse una scala mondiale, con la partecipazione di molte altre nazioni, fra cui l'Impero ottomano, l'Italia, la Romania, gli Stati Uniti e la Grecia, aprendo così altri fronti di combattimento.
Con la sconfitta tedesca sulla Marna nel settembre 1914 le speranze degli invasori di una guerra breve e vittoriosa svanirono a favore di una logorante guerra di trincea, che si replicò su tutti i fronti del conflitto dove nessuno dei contendenti riuscì a soggiogare le armate nemiche. Determinante per l'esito finale del conflitto mondiale fu l'ingresso degli Stati Uniti d'America e di diverse altre nazioni che, pur non entrando militarmente a pieno regime nel conflitto, grazie agli aiuti economici dispensati agli Alleati, si schierarono contro gli Imperi Centrali facendo pendere definitivamente l'ago della bilancia.
La guerra si concluse definitivamente l'11 novembre 1918, quando la Germania, ultima degli Imperi centrali a deporre le armi, firmò l'armistizio con le forze nemiche. Alla fine del conflitto, i maggiori imperi esistenti al mondo - Impero tedesco, austro-ungarico, ottomano e russo - cessarono di esistere, e da questi nacquero diversi stati che ridisegnarono completamente la geografia dell'Europa.

Origini della guerra
 
Lo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914 segnò la fine di un lungo periodo di pace nella storia europea, iniziato nel 1815 con la sconfitta definitiva della Francia napoleonica. La pace europea dell'inizio del XX secolo tuttavia non aveva basi solide: nel corso dei decenni del XIX secolo in Europa vi furono diversi conflitti a carattere limitato34, che minarono e inasprirono i rapporti diplomatici tra le potenze europee e i relativi giochi di alleanze. Per individuare però le cause fondamentali del conflitto bisogna risalire innanzitutto al ruolo preponderante della Prussia nella creazione del Reich, alle concezioni politiche di Otto von Bismarck, alle tendenze filosofiche prevalenti in Germania e alla sua situazione economica; un insieme di fattori eterogenei che concorsero a trasformare il desiderio della Germania di assicurarsi sbocchi commerciali nel mondo.
Dovremmo quindi analizzare i problemi etnici interni all'Austria-Ungheria e alle ambizioni indipendentiste dei popoli di cui si formava, il timore che la Russia generava oltre frontiera soprattutto nei tedeschi, la paura che tormentava la Francia fin dal 1870 di una nuova aggressione che aveva lasciato un'eredità di animosità tra la Francia e la Germania5, e infine dovremmo tener conto dell'evoluzione diplomatica della Gran Bretagna da una politica di isolamento ad una politica di attiva presenza in Europa6.
Sotto la guida politica del suo primo cancelliere Bismarck, la Germania assicurò una forte presenza in Europa tramite l'alleanza con l'Impero austro-ungarico e l'Italia e un'intesa diplomatica con la Russia. L'ascesa al trono nel 1888 dell'imperatore Guglielmo II, portò sul trono tedesco un giovane governante determinato a dirigere da sé la politica, nonostante i suoi dirompenti giudizi diplomatici. Dopo le elezioni del 1890, nelle quali i partiti del centro e della sinistra ottennero un grosso successo, a causa della disaffezione nei confronti del Cancelliere che aveva guidato il Reich per gran parte della sua carriera, Guglielmo II fece in modo di ottenere le dimissioni di Bismarck7. Gran parte del lavoro dell'ex cancelliere venne disfatto negli anni seguenti, quando Guglielmo II mancò di rinnovare il trattato di controassicurazione con la Russia, permettendo invece alla Francia repubblicana l'opportunità di concludere nel 1894 un'alleanza con la Russia8.
Altro passaggio fondamentale nel percorso verso la guerra mondiale fu la corsa al riarmo navale. Il Kaiser riteneva che solo la creazione di una importante marina militare avrebbe reso la Germania una potenza mondiale. Nel 1897 fu nominato alla guida della marina imperiale l'ammiraglio Alfred von Tirpitz, e la Germania iniziò una politica di riarmo che risultò una vera e propria sfida aperta al secolare predominio navale britannico9, che favorì l'accordo anglo-francese, l'Entente cordiale del 1904 e l'accordo anglo-russo, che chiudeva un secolo di rivalità fra le due potenze nello scacchiere asiatico. La Gran Bretagna tentò inoltre di rafforzare la propria posizione in altre direzioni, alleandosi con il Giappone nel 1902, e nonostante la proposta di Joseph Chamberlain di un trattato fra Gran Bretagna, Germania e Giappone per avvantaggiarsi congiuntamente nel Pacifico, la Germania continuò nella sua politica bellicosa attirandosi motivi di attrito con le potenze europee10. Da quel momento in poi le grandi potenze europee furono di fatto, anche se non ufficialmente, divise in due gruppi rivali. Negli anni seguenti la Germania, la cui politica aggressiva e poco diplomatica aveva dato il via a una coalizione avversaria, intensificò i rapporti con l'Austria-Ungheria e l'Italia11.
La nuova divisione in blocchi dell'Europa non era una riedizione del vecchio equilibrio di potenza, ma una semplice barriera tra potenze, una barriera satura di esplosivo. I diversi paesi si affrettarono ad aumentare i loro armamenti, che, nel timore di una deflagrazione improvvisa, vennero messi a completa disposizione dei militari12. Il Regno Unito aveva dato il via libera alle pretese della Francia sul Marocco, in cambio del riconoscimento dei propri diritti sull'Egitto, tuttavia questo accordo fra le due principali potenze coloniali violava la precedente convenzione di Madrid del 1880, firmata anche dalla Germania. Ne derivò la crisi di Tangeri del 1905 dove il Kaiser ribadì il ruolo fondamentale della Germania nella politica extra-europea13.
Ma la prima vera scintilla scoccò nei Balcani nel 1908. Della rivoluzione in Turchia approfittarono la Bulgaria per liberarsi dalla sovranità turca e l'Austria per annettersi le provincie della Bosnia e dell'Erzegovina che già amministrava dal 1879. L'Austria e la Russia si accordarono a cambio dell'apertura alla Russia dei Dardanelli, ma l'Italia considerò tale azione un affronto e la Serbia una minaccia. In Russia poi la perentoria richiesta tedesca di riconoscere la legittimità dell'annessione sotto pena di un attacco austro-tedesco facilitò la mossa austriaca ma creò non pochi dissapori tra la Russia e le potenze centrali14.
Altro motivo di attrito fu la crisi di Agadir, dove per indurre la Francia a fare concessioni in Africa, nel giugno 1911 i tedeschi inviarono una cannoniera nel porto di Agadir. Il Cancelliere dello Scacchiere David Lloyd George ammonì la Germania ad astenersi da simili minacce alla pace, e dichiarò la Gran Bretagna pronta a supportare la Francia. Ciò spense la scintilla, ma acuì il risentimento dell'opinione pubblica tedesca che favorì un ulteriore ampliamento della marina da guerra. Ciò nonostante, il successivo accordo sul Marocco allentò i motivi di frizione, ma proprio in quel momento sulla scena europea venne gettata un'altra manciata di polvere da sparo, anche stavolta nei Balcani15. La debolezza della Turchia, palesata dall'occupazione italiana di Tripoli, incoraggiò Bulgaria, Serbia e Grecia a rivendicare l'egemonia della Macedonia come primo passo verso l'estromissione della Turchia dall'Europa. I turchi furono rapidamente sconfitti. La quota di bottino assegnata alla Serbia fu l'Albania settentrionale, ma l'Austria, che già temeva ambizioni serbe, mobilitò le sue truppe, e la sua minaccia alla Serbia trovò la naturale risposta in analoghe misure della Russia. Fortunatamente la Germania si schierò con Gran Bretagna e Francia per scongiurare pericolosi sviluppi. Quando la crisi cessò, la Serbia fu il paese che ne uscì meglio e la Bulgaria fu il paese uscito più malconcio; questo non piacque all'Austria che nell'estate del 1913 propose di attaccare immediatamente la Serbia. La Germania esercitò un freno ai propositi austriaci, ma allo stesso tempo estese il proprio controllo nell'esercito turco, facendo svanire nei russi la speranza di mettere le mani nei Dardanelli16.
Negli ultimi anni in tutti i paesi europei si moltiplicarono gli incitamenti alla guerra, discorsi e articoli bellicosi, dicerie, incidenti di frontiera, e la Francia promulgò una legge (detta "dei tre anni") che, per sopperire all'inferiorità numerica rispetto all'esercito tedesco, allungava di un anno la ferma militare, fino ad allora della durata di due anni: ciò aggravò i rapporti con la Germania. La scintilla fatale fu l'Attentato di Sarajevo, il 28 giugno 1914, la cui vittima, Francesco Ferdinando erede al trono d'Austria-Ungheria, fu forse l'unico austriaco autorevole che fosse amico dei nazionalisti serbi, perché sognava un impero unito da un legame federativo e non dall'oppressione17.

La crisi di luglio

Per approfondire, vedi attentato di Sarajevo e crisi di luglio.

Il 28 giugno 1914, giorno di solenni celebrazioni e festa nazionale serba, l'Arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia, recatisi a Sarajevo in visita ufficiale, furono colpiti a morte da alcuni colpi di pistola sparati dal nazionalista diciannovenne serbo Gavrilo Princip. Da questo avvenimento scaturì una drammatica crisi diplomatica che precedette e segnò l'inizio della guerra in Europa18.
Nei giorni che seguirono, la Germania, convinta di poter localizzare il conflitto, pressò l'alleato austro-ungarico affinché aggredisse al più presto la Serbia. Solo la Gran Bretagna avanzò una proposta di conferenza internazionale che non ebbe seguito, mentre le altre nazioni europee si preparavano lentamente al conflitto. Quasi un mese dopo l'assassinio di Francesco Ferdinando, l'Austria-Ungheria inviò un duro ultimatum alla Serbia, il quale venne rifiutato. Di conseguenza, il 28 luglio 1914, l'Austria-Ungheria dichiarò guerra al Regno di Serbia determinando l'irrimediabile acuirsi della crisi e la progressiva mobilitazione delle potenze europee per il gioco delle alleanze tra i vari stati.
L'Italia, il Portogallo, la Grecia, la Bulgaria, la Romania e l'Impero Ottomano inizialmente rimasero neutrali, ai bordi del campo di battaglia, ma pronti a entrarvi appena avessero intravisto qualche vantaggio. Alla mezzanotte del 4 agosto erano cinque gli imperi che ormai erano entrati in guerra (Austria-Ungheria, Germania, Russia, Gran Bretagna e Francia)19, ogni potenza era convinta di aver ragione degli avversari in pochi mesi. Molti ritenevano che la guerra sarebbe finita a Natale del 1914, o tuttalpiù a Pasqua del 191520. Il conflitto che si era aperto con la crisi di luglio sarebbe terminato invece nel novembre del 1918, dopo aver provocato sedici milioni di morti tra militari e civili21.

La guerra

«Tornerete nelle vostre case prima che siano cadute le foglie dagli alberi»
(Frase rivolta da Guglielmo II alle truppe tedesche in partenza per il fronte nella prima settimana di agosto 191422)

«Vasilij Fëdorovič (Guglielmo II) ha commesso un sbaglio; non ce la farà assolutamente»
(Affermazione del ministro della Giustizia russo allo scoppio della guerra23)

Le prime fasi della guerra (1914)

Per approfondire, vedi piano Schlieffen e piano XVII.

 Dopo la rottura delle relazioni diplomatiche fra Austria-Ungheria e Regno di Serbia, il governo tedesco, in conseguenza della mobilitazione generale russa, il 31 luglio dichiarò guerra alla Russia e alla Francia, e mobilitò le proprie truppe in oriente ed occidente. Se la Francia avesse riunito tutto il suo potenziale bellico e dichiarato guerra proprio mentre le armate tedesche avanzavano ad oriente, la Germania avrebbe corso il rischio di trovarsi in serie difficoltà. In ottemperanza al piano Schlieffen, la strategia tedesca mirava a sconfiggere con una "guerra lampo" la Francia e, confidando nella lenta e pesante macchina bellica russa, rivolgere poi tutte le proprie forze ad oriente24.
Il piano, ideato dal generale Alfred von Schlieffen e completato nel 1905, prevedeva che la Francia fosse attaccata da nord attraverso il Belgio e i Paesi Bassi, così da evitare la lunga linea fortificata alla frontiera francese e consentire all'esercito tedesco di calare su Parigi con un'unica grande offensiva. Schlieffen anche dopo essersi ritirato dall'esercito continuò a lavorare al piano, che aveva sottoposto ad un'ultima revisione nel dicembre 1912, poco prima di morire. Il generale von Moltke, suo successore come capo di Stato maggiore dell'esercito, poco prima dello scoppio del conflitto accorciò il tratto di fronte su cui effettuare l'offensiva escludendone i Paesi Bassi. Secondo il piano, Parigi sarebbe stata occupata, e la Francia soggiogata nel giro di sei settimane, mentre dieci divisioni avrebbero tenuto in scacco i russi ad oriente confidando nella lentezza della mobilitazione delle armate dello zar25, fino al momento in cui la Germania avrebbe potuto rivolgere tutte le proprie forze contro la Russia26.

L'invasione di Belgio e Francia

Per approfondire, vedi fronte occidentale (prima guerra mondiale).

A nord il Lussemburgo fu occupato dai tedeschi senza opposizione il 2 agosto, e più a nord, alla frontiera con il Belgio, i tedeschi avanzavano a gran velocità dando corpo all'invasione. La Gran Bretagna non aveva truppe sul continente europeo, e il suo corpo di spedizione al comando di Sir John French, doveva ancora essere radunato, armato e inviato al fronte al di là della Manica. In ottemperanza al piano XVII, il 14 agosto le truppe francesi sconfinarono in Alsazia e Lorena convinte di riscattare le umiliazioni del passato27.
Quel giorno le forze tedesche iniziarono la battaglia di Liegi andando all'assalto del primo vero ostacolo sul loro cammino: il campo fortificato di Liegi con la sua guarnigione di 35.000 soldati. L'attacco durò più del previsto e solo il 7 agosto la fortezza centrale capitolò28. Il 12 agosto l'Austria-Ungheria invase la Serbia, mentre sul fronte occidentale continuavano furiosi i combattimenti sul confine franco-tedesco e soprattutto in Belgio. Dopo la caduta di Liegi la maggioranza dell'esercito belga si mise in ritirata verso ovest, mentre il 25 più a nord i tedeschi bombardarono Anversa con uno Zeppelin, durante le fasi preliminari dell'assedio della città che durò fino al 28 settembre e comportò enormi devastazioni29. Lo stesso 12 agosto le avanguardie del corpo di spedizione britannico attraversarono la Manica scortate da 19 navi da guerra. In dieci giorni furono sbarcati 120.000 uomini senza che una sola vita o una sola nave andassero perdute, non avendo la Kaiserliche Marine mai ostacolato le operazioni30.
Fanteria francese mentre si appresta a combattere il nemico in avanzata sulla Marna.
 Il 20 agosto le truppe tedesche entrarono a Bruxelles. All'estremità meridionale del fronte i francesi, penetrati in Alsazia e vicini alla città di Mulhouse, giunsero a sedici chilometri dal Reno, ma non sarebbero mai andati oltre. Più a nord i francesi penetrati in Lorena furono sconfitti a Morhange e iniziarono a ritirarsi verso Nancy. La città, nonostante la pressione tedesca, resse l'urto grazie ai sacrifici della 2ª armata francese guidata da Édouard de Castelnau31.
Il 22 agosto iniziò l'avanzata tedesca lungo tutto il fronte; la 5ª armata francese fu cacciata da Charleroi, e cominciò furiosa la battaglia di Mons, battesimo del fuoco per il corpo di spedizione britannico, che resistette con inaspettata tenacia32. I tedeschi riuscirono comunque a rompere la resistenza delle forze di French e il 23 iniziarono ad avanzare; quello stesso giorno sia i francesi da Charleroi che i belgi da Namur cedettero alla pressione nemica e iniziarono a ripiegare. Il 2 settembre il governo francese si rifugiò a Bordeaux33 e le truppe anglo-francesi, avendo appreso che i tedeschi non avrebbero attaccato Parigi puntando verso sud, ma si sarebbero diretti verso sud-ovest contro i britannici, si attestarono sulla Marna, facendone saltare tutti i ponti34. Il giorno dopo l'esercito tedesco era a soli 40 km da Parigi35. In questa situazione di panico generale – un milione di parigini aveva abbandonato la città36 - il generale Gallieni, governatore militare di Parigi approntava le difese, avendo a disposizione una nuova armata appena costituita da schierare nel sistema di trincee e fortificazioni che attorniavano la capitale37. Tuttavia il 12 settembre, i francesi, con l'aiuto della British Expeditionary Force, bloccarono l'avanzata nemica ad est di Parigi durante la prima battaglia della Marna. Gli ultimi giorni di questa battaglia decisiva segnarono la fine della guerra di movimento ad occidente a favore di una logorante guerra di trincea lungo solide postazioni38.

Il fronte orientale

Per approfondire, vedi fronte orientale (prima guerra mondiale).

 Gli scontri iniziali a est erano stati contrassegnati più da rapidi mutamenti di fortuna che da vantaggi decisivi per una delle due parti. Il comando austriaco aveva impiegato parte delle sue forze nel vano tentativo di mettere fuori combattimento le forze serbe, e inoltre il suo piano per un'offensiva iniziale diretta a tagliar alla radice la "striscia" polacca era stato paralizzato dal cattivo funzionamento della parte tedesca della tenaglia. Anzi era la Germania, che schierava la sola 8ª armata con il compito di difendere la Prussia Orientale, a rischiare di essere sopraffatta dalle truppe di Nicola II che mobilitò anzitempo la 1ª e la 2ª armata contro la Prussia, nel tentativo di allentare la pressione tedesca in Francia nei primissimi mesi del conflitto39. Dopo una prima serie di sconfitte, il comandante tedesco Maximilian von Prittwitz venne sostituito dal generale in pensione Paul von Hindenburg che nominò suo capo di stato maggiore Erich Ludendorff. I due annientarono a Tannenberg i Russi, che a loro volta non si fecero sorprendere dalle armate austro-ungariche in Polonia, a cui dovettero correre in soccorso i tedeschi che con la neonata 9ª armata iniziarono il contrattacco in direzione Varsavia40.
Il granduca Nicola costituì un'enorme potenziale composto da sette armate, che impegnarono duramente gli Imperi centrali, i quali sfruttando il migliore sistema ferroviario a loro disposizione riuscirono ad arrestare il "rullo compressore" russo e a contrattaccare sulla Vistola, dove due armate russe furono separate dalla penetrazione di Ludendorff, che riuscì a far ripiegare la 1ª armata russa a Varsavia, mentre la 2ª fu quasi accerchiata come capitò a Samsonov a Tannenberg41. Nuove forze provenienti da occidente permisero, il 15 dicembre 1914, a Ludendorff di respingere i russi fino alla linea dei fiumi Bzura e Ravka davanti a Varsavia, ma la diminuzione delle provviste e delle munizioni indussero Nicola a ritirare ulteriormente le truppe sulle linee trincerate lungo i fiumi Nida e Dunajec, lasciando al nemico l'estremità della striscia polacca. Anche a est come a ovest le ostilità erano giunte ad un punto morto, con le forze contrapposte attestate su solide linee trincerate; ma da questa parte l'inadeguatezza delle industrie russe non permetteva loro di sopperire alla guerra allo stesso modo di quelle delle forze alleate occidentali42.

Le invasioni della Serbia

Per approfondire, vedi campagna di Serbia.

Benché fosse tecnicamente il luogo dove la guerra aveva preso avvio, il fronte serbo fu relegato ben presto a teatro secondario di un conflitto divenuto ormai mondiale. Con il grosso delle sue forze concentrato in Galizia contro i russi, l'Austria-Ungheria diede avvio all'invasione del territorio serbo il 12 agosto 1914: guidate dal generale Radomir Putnik e supportate anche dalle forze del Regno del Montenegro, le truppe serbe opposero una ostinata resistenza, infliggendo agli austroungarici una sconfitta nella battaglia del Cer (16-19 agosto) ed obbligandoli a ritirarsi oltre frontiera43. Dopo una controffensiva serba al confine con la Bosnia, sfociata nell'inconcludente battaglia della Drina (6 settembre - 4 ottobre 1914), gli austroungarici del generale Oskar Potiorek lanciarono una nuova invasione il 5 novembre, riuscendo ad occupare la capitale Belgrado: Putnik fece arretrare lentamente le sue forze fino al fiume Kolubara, dove inflisse una disastrosa sconfitta alle truppe di Potiorek obbligandole ancora una volta alla ritirata; il 15 dicembre 1914 i serbi ripresero Belgrado, riportando la linea del fronte ai confini prebellici44.
Le offensive austroungariche erano costate all'Impero la perdita di 227.000 uomini tra morti, feriti e dispersi, oltre ad un ampio bottino di armi e munizioni di vitale importanza per il mal equipaggiato esercito serbo; nonostante la vittoria la Serbia ebbe 170.000 caduti durante la campagna, perdite enormi per il suo piccolo esercito ulteriormente aggravate dallo scoppio di una violenta epidemia di tifo (che fece 150.000 vittime tra i civili) e dalla grave carenza di generi alimentari45.

L'impero ottomano

Per approfondire, vedi teatro del Medio Oriente della prima guerra mondiale.

Nel 1914 l'Impero ottomano era ormai in solidi rapporti con la Germania, che da tempo investiva capitali nello sviluppo economico dell'Impero e curava l'addestramento delle sue forze armate46. L'influente ministro della guerra Ismail Enver era un filo-tedesco, ma il governo ottomano era ancora diviso sulla scelta di unirsi agli Imperi centrali, nonostante la firma il 1º agosto 1914 di un trattato segreto di natura militare ed economica con la Germania; il sequestro, all'inizio della guerra, da parte dei britannici di due navi da battaglia ottomane in costruzione nei cantieri inglesi provocò forte indignazione a Istanbul, ed i tedeschi ne approfittarono cedendo agli ottomani i due incrociatori Goeben e Breslau sfuggiti alla caccia nemica nel Mediterraneo47. Il 29 ottobre 1914 le due navi, ora battenti bandiera turca, bombardarono e posarono mine davanti ai porti russi sul Mar Nero, e gli Alleati replicarono con una dichiarazione di guerra: il 1º novembre navi britanniche attaccarono un posamine turco nel porto di Smirne e il giorno seguente un incrociatore leggero bombardò il porto di Aqaba sul Mar Rosso, mentre il 3 novembre vennero presi di mira i forti sui Dardanelli48.
L'entrata in guerra dell'Impero ottomano aprì nuovi scenari di conflitto in teatri molto distanti l'uno dall'altro: nel Caucaso la Russia si ritrovò a sostenere un difficile secondo fronte di conflitto in un territorio impervio, mentre la presenza ottomana in Mesopotamia e Palestina minacciava due cardini dell'impero coloniale britannico, la raffineria petrolifera persiana di Abadan (vitale per i rifornimenti di carburante della Royal Navy) ed il canale di Suez; fin dall'inizio però le attenzioni britanniche si rivolsero verso il forzamento dello stretto dei Dardanelli, al fine di portare la guerra direttamente nella capitale ottomana49.

Il forzamento dei Dardanelli

Per approfondire, vedi campagna dei Dardanelli.
 
Sul fronte orientale, nel 1915 le armate russe erano in grossa difficoltà, sospinte dalle forze ottomane al di là dei confini che la Russia aveva tracciato a spese dei turchi nel 1878. Il granduca Nicola si appellò allora alla Gran Bretagna perché compisse un'azione di disturbo contro la Turchia, costringendola a richiamare a est parte delle sue truppe. I britannici su suggerimento di lord Kitchener e con il fortissimo appoggio di Churchill allora Primo Lord dell'Ammiragliato, proposero di attaccare dal mare i forti turchi nei Dardanelli50. L'attacco doveva essere la spallata decisiva all'Impero Ottomano, la cui marina non poteva contrastare in alcun modo quella Alleata, e l'opinione inglese dominante era quella di una campagna breve e violenta che avrebbe portato le truppe di terra a Istanbul. Aprire lo stretto avrebbe portato probabilmente alla resa turca e sicuramente alla possibilità da parte russa di esportare il suo grano. L'unico vero rischio, peraltro ampiamente sottovalutato dagli Alleati, erano i campi minati turchi, dei quali sottovalutavano la estensione e la capacità avversaria di metterne rapidamente in opera di nuovi. Anche gli armamenti dei forti, sebbene antiquati, si sarebbero dimostrati pericolosi per gli attaccanti. Quella che doveva essere una campagna lampo si trasformò in una guerra di posizione con elevatissime perdite umane e che fece emergere in campo turco un importante leader come Mustafà Kemal, all'epoca generale dell'esercito.

Il fronte del Caucaso

Per approfondire, vedi campagna del Caucaso.

Le operazioni sul fronte del Caucaso iniziarono fin dai primi giorni di guerra, a dispetto del terreno impervio e del rigido clima invernale: dopo aver facilmente respinto un'offensiva russa in direzione di Köprüköy tra il 2 ed il 16 novembre 1914, le forze della 3ª armata ottomana, guidate dallo stesso ministro della guerra Ismail Enver, lanciarono un massiccio attacco oltre il confine russo in direzione di Kars; la sconfitta patita ad opera dei russi nella seguente battaglia di Sarıkamış (22 dicembre 1914 - 17 gennaio 1915) si trasformò in una disfatta per gli ottomani quando la 3ª Armata cercò di ritirarsi attraverso le montagne innevate, perdendo 90.000 uomini su un totale di 130.00051.
Alle prese con l'impegnativa situazione del fronte orientale, i russi non furono immediatamente in grado di sfruttare la vittoria e fino a marzo il fronte caucasico rimase stazionario, con solo poche schermaglie tra le due parti; alla ricerca di un capro espiatorio per la disfatta invernale, gli ottomani accusarono la minoranza armena che viveva nelle regioni di confine di connivenza con i russi, ed a partire dal febbraio del 1915 furono avviate deportazioni e massacri ai suoi danni52. Gli attacchi degli ottomani provocarono ben presto un'aperta rivolta, ed il 19 aprile 1915 i "fedayyin" armeni si impossessarono dell'importante città di Van, resistendo poi all'assedio da parte delle forze ottomane; approfittando dell'occasione i russi lanciarono una massiccia offensiva nel settore orientale del fronte, liberando Van dall'assedio il 17 maggio ma venendo infine bloccati agli ottomani nel corso della battaglia di Malazgirt (10-26 luglio 1915). La controffensiva ottomana portò alla rioccupazione di Van (evacuata dal grosso della popolazione armena) e degli altri territori perduti entro la fine di agosto, e la linea del fronte tornò alla situazione di partenza per la fine dell'anno, con entrambe le forze impegnate a riorganizzarsi53.
All'inizio del gennaio 1916 i russi lanciarono una massiccia offensiva nel settore occidentale del fronte, cogliendo completamente di sorpresa la 3ª armata ottomana che non si aspettava un attacco in pieno inverno: la vittoria russa nella battaglia di Köprüköy (10-19 gennaio 1916) obbligò gli ottomani ad abbandonare la strategica fortezza di Erzurum ed a ritirarsi verso ovest dopo aver subito pesanti perdite54. Appoggiate anche da sbarchi di truppe lungo la costa del Mar Nero, le truppe russe dilagarono nell'Anatolia orientale prendendo l'importante porto di Trebisonda il 15 aprile e spingendosi nell'interno fino alle città di Muş ed Erzincan, dove ottennero una nuova vittoria sugli ottomani tra il 2 ed il 25 luglio 1916; lo sfondamento fu contenuto solo con l'arrivo al fronte della 2ª armata ottomana del generale Mustafa Kemal, composta da truppe richiamate dal settore di Gallipoli, che il 25 agosto riuscì ad infliggere ai russi una sconfitta nella battaglia di Bitlis55.
Il grosso dei combattimenti cessò alla fine di settembre del 1916, con entrambe le parti alle prese con i disagi causati da un inverno particolarmente duro; la situazione non subì grandi mutamenti nel corso del 1917, con i russi immobilizzati dai disordini in corso in patria e gli ottomani concentrati sul fronte del Medio Oriente contro i britannici56; l'armistizio di Erzincan del 5 dicembre 1917 ed il ritiro della Russia dal conflitto posero infine termine alle operazioni nel Caucaso.

La guerra in Medio Oriente

Per approfondire, vedi teatro del Medio Oriente della prima guerra mondiale.

Il 6 novembre 1914 truppe anglo-indiane sbarcarono nella penisola di Al-Faw, oggi in Iraq, dando avvio alla campagna della Mesopotamia; la spedizione era stata voluta per allontanare qualsiasi minaccia ottomana ai possedimenti britannici nella regione del Golfo Persico, e ben presto ottenne diversi risultati: il 21 novembre le forze britanniche presero l'importante porto di Bàssora, spingendosi ai primi di dicembre fino a Al-Qurna, il luogo dove il Tigri e l'Eufrate confluivano in un unico fiume, dove sconfissero una forza ottomana57. L'occupazione di una solida testa di ponte a Bassora rendeva praticamente inutile continuare la campagna: la minaccia turca al Golfo Persico era sventata, e la Mesopotamia era troppo lontana dalle regioni chiave dell'Impero perché fosse vantaggiosa una sua completa occupazione; tuttavia la debole resistenza offerta dagli ottomani, ulteriormente confermata dal completo fallimento di una loro controffensiva in direzione di Bassora a metà aprile 1915, spinse l'alto comando britannico a continuare l'azione, convinto di poter ottenere altri facili successi58.
Truppe cammellate ottomane a Be'er Sheva, nel sud della Palestina, nel 1915
Nel settembre del 1915 un contingente anglo-indiano sotto il generale Charles Vere Ferrers Townshend risalì il Tigri fino a prendere l'importante città di al-Kut; benché le linee di rifornimento fossero molto estese, l'alto comando spinse Townshend a proseguire l'avanzata verso la vicina Baghdad, un obiettivo molto più ambito, ma tra il 22 ed il 25 novembre le unità britanniche subirono un arresto nella battaglia di Ctesifonte ad opera delle rafforzate truppe ottomane59. Townshend si ritirò sulla base di Kut, dove ben presto rimase tagliato fuori ed assediato; quattro distinti tentativi di soccorrere la guarnigione fallirono miseramente, e dopo cinque mesi di assedio le forze anglo-indiane, ormai alla fame, capitolarono il 29 aprile 1916, lasciando 12.000 prigionieri nelle mani dei turchi60.
Più a ovest un nuovo fronte fu aperto nel sud della Palestina: l'Egitto era ufficialmente un vassallo ottomano, sebbene ormai fosse politicamente controllato dal Regno Unito fin dal 1880, ed allo scoppio delle ostilità era stato rapidamente occupato da una forza di spedizione britannica, australiana e neozelandese; il canale di Suez rappresentava un punto vitale per gli Alleati, ed i tedeschi fecero pressione sugli ottomani perché progettassero una sua occupazione61. L'offensiva di Suez iniziò il 28 gennaio 1915 ma dopo una settimana di scontri le forze ottomane furono respinte, anche per via della difficoltà a mantenere i collegamenti logistici attraverso l'inospitale Penisola del Sinai62; le forze Alleate si mantennero rigorosamente sulla difensiva fin verso la metà del 1916, quando le continue incursioni ottomane su piccola scala contro il canale convinsero il comandante britannico Archibald Murray a passare all'offensiva: avanzando metodicamente e costruendo strada facendo una ferrovia ed un acquedotto, le forze britanniche si spinsero attraverso la costa settentrionale del Sinai e sconfissero gli ottomani nella battaglia di Romani (3–5 agosto 1916), respingendoli definitivamente oltre la frontiera con la Palestina.

La guerra in Africa

Per approfondire, vedi teatro africano della prima guerra mondiale.

Giunta piuttosto in ritardo alla corsa per la spartizione dell'Africa, nel 1914 la Germania disponeva di un numero limitato di possedimenti nel continente: isolati dalla madrepatria dal blocco navale degli Alleati e circondati dai territori dei più ampi imperi coloniali britannico e francese, il loro destino era praticamente segnato fin dall'inizio delle ostilità63. La piccola colonia del Togoland (l'odierno Togo) fu rapidamente occupata dalle forze anglo-francesi già entro la fine dell'agosto del 1914, mentre più impegnativa fu la lotta nel vicino Camerun Tedesco: la capitale Buéa fu occupata da truppe coloniali francesi e belghe il 27 settembre 1914, ma favorite dal terreno impervio e dalle piogge tropicali le ultime guarnigioni tedesche non furono costrette a capitolare prima del febbraio del 1916. La guarnigione dell'Africa Tedesca del Sud-Ovest (l'odierna Namibia) dovette sostenere un'invasione da parte delle truppe sudafricane e, benché appoggiata dall'insurrezione di alcuni ribelli boeri contro le autorità britanniche, fu infine costretta alla resa nel luglio del 191564.
Molto più lunga fu la lotta nell'Africa Orientale Tedesca (l'odierna Tanzania): al comando di un miscuglio di coloni tedeschi e truppe arruolate tra gli indigeni locali (Schutztruppe), il colonnello Paul Emil von Lettow-Vorbeck intraprese una serie di azioni di guerriglia ed attacchi mordi-e-fuggi ai danni delle colonie confinanti (il Kenya britannico, il Congo Belga e il Mozambico portoghese), infliggendo agli Alleati diverse sconfitte65. Fu necessario mettere in campo una vasta forza (arrivata a contare, tra soldati e personale ausiliario, quasi 400.000 uomini) per avere ragione delle elusive truppe di Vorbeck ed occupare la colonia: gli ultimi guerriglieri tedeschi, ancora capitanati dal loro comandante, si arresero solo il 26 novembre 1918, dopo essere stati informati dell'avvenuta capitolazione della Germania 15 giorni prima66.
L'entrata in guerra dell'Impero ottomano provocò insurrezioni da parte delle popolazioni musulmane del Nordafrica contro le autorità coloniali europee: i francesi dovettero sostenere una lunga guerra contro le tribù berbere degli Zayani del Marocco, come pure una rivolta tra i Tuareg del nord del Niger; nella Libia orientale i guerriglieri della confraternita dei Senussi misero in seria difficoltà le guarnigioni italiane, confinandole in pratica al controllo dei soli centri costieri principali, e conducendo anche una serie di attacchi contro le postazioni britanniche in Egitto ma venendo infine respinti67.

Il dominio dei mari

Il 29 luglio 1914 la flotta britannica, senza dichiarare la mobilitazione, salpò dalla base di Portland verso la base di guerra a Scapa Flow nelle isole Orcadi che controllavano il passaggio tra la parte settentrionale della Gran Bretagna e la Norvegia. All'inizio delle ostilità la Germania, consapevole dell'inferiorità nei confronti della Grand Fleet britannica, mantenne un atteggiamento attendista, decidendo di evitare uno scontro diretto finché i loro posamine e i loro sommergibili non avessero indebolito la marina da guerra britannica e diminuito i commerci con le colonie68. La geografia della costa nord della Germania favoriva questo tipo di strategia, le coste frastagliate, gli estuari e la protezione assicurata dalle isole - quali Helgoland - costituivano uno scudo molto potente per le basi di Wilhelmshaven, Bremerhaven e Cuxhaven e allo stesso tempo offriva una eccellente base per rapide incursioni nel mare del Nord69. Durante il primo anno di guerra la Gran Bretagna si preoccupò quindi di pattugliare il mare del Nord e permettere il trasferimento della forza di spedizione attraverso la Manica; l'unica azione di rilievo fu l'incursione nella baia di Helgoland dove l'ammiraglio Beatty affondò parecchi incrociatori leggeri tedeschi, confermando ai tedeschi la necessità di continuare una tattica difensiva ma allo stesso tempo accelerando l'attività dei sommergibili e dei posamine70.
La guerra nel Mar Mediterraneo si aprì con un errore destinato ad avere forti conseguenze politiche da parte delle forze Alleate. In quelle acque navigavano due delle navi da guerra più veloci della Kaiserliche Marine, l'incrociatore da battaglia Goeben e l'incrociatore leggero Breslau; ricevuto l'ordine da Berlino di puntare verso Costantinopoli, furono inseguite dalla Royal Navy che però si fece sfuggire l'occasione. Il ministro della Guerra turco, consapevole che acconsentire il passaggio nei Dardanelli alle navi tedesche avrebbe rappresentato un atto ostile nei confronti della Gran Bretagna e avrebbe sospinto la Turchia nell'orbita della Germania, diede il suo assenso all'entrata nello stretto alle due navi tedesche. Per non pregiudicare la neutralità della Turchia, le due navi vennero cedute con un finto atto di vendita alla Turchia, ma a ciò non seguirono atti ostili e le due navi furono ancorate al porto di Costantinopoli71.
Negli oceani invece la caccia alle unità tedesche fu l'obiettivo principale per le flotte Alleate. La Germania non ebbe il tempo per far uscire le proprie navi da guerra per ostacolare il traffico commerciale degli Alleati, così allo scoppio della guerra i pochi incrociatori all'estero costituirono la spina nel fianco della marina britannica; non era facile conciliare l'esigenza di concentrare le forze nel mare del Nord in vista di un attacco a sorpresa della Germania con la necessità di pattugliare e difendere le rotte marittime dall'India e dai Dominions72. Con la distruzione dell'Emden avvenuta il 9 novembre, l'oceano Indiano fu libero dalla minaccia, ma questo successo fu neutralizzato da una grave sconfitta nel Pacifico, nella battaglia di Coronel, dove la divisione incrociatori dell'ammiraglio Cradock fu battuta dagli incrociatori corazzati dell'ammiraglio Maximilian von Spee, lo Scharnhorst e lo Gneisenau73. Questo scacco fu prontamente riscattato dall'ammiraglio Doveton Sturdee che alla guida degli incrociatori Inflexible, Invincible e Australia, scendendo dalle isole Fiji, l'8 dicembre 1914 prese alle spalle von Spee nei pressi delle Isole Falkland e ne affondò l'intera divisione tranne il Dresden, distruggendo l'ultimo strumento della potenza navale tedesca negli oceani74.
Da quel momento in poi la Gran Bretagna e i suoi alleati poterono contare sulla sicurezza delle vie di comunicazione oceaniche per i loro traffici di rifornimenti e truppe, ma poiché le rotte oceaniche devono per forza avere un capolinea sulla terra ferma, la logica mossa tedesca fu quella di incrementare lo sviluppo dell'arma sottomarina che rese gradualmente meno effettiva questa sicurezza75.

Il Giappone ed il teatro del Pacifico

Per approfondire, vedi teatro dell'Asia e del Pacifico della prima guerra mondiale.
 
Da tempo alleato del Regno Unito, il 23 agosto 1914 il Giappone dichiarò guerra alla Germania, segnando il destino degli sparpagliati possedimenti tedeschi situati nell'area del Pacifico: ai primi di ottobre una squadra navale giapponese salpò alla volta della Micronesia, dove i tedeschi disponevano di una serie di piccole basi, occupando entro la fine del mese le isole Caroline, le Marshall e le Marianne praticamente senza combattere; il 31 ottobre una forza di spedizione nipponica, rinforzata poi anche da un contingente britannico proveniente da Tientsin, pose l'assedio al porto fortificato di Tsingtao, possedimento tedesco in Cina fin dal 1898, obbligando la guarnigione a capitolare il 7 novembre 191476. Il resto delle colonie tedesche fu occupato dai dominion australi del Regno Unito: il 30 agosto 1914 una forza neozelandese occupò senza spargimenti di sangue le Samoa, mentre la Nuova Guinea Tedesca fu occupata dagli australiani nel settembre seguente dopo una breve campagna contro la piccola guarnigione del possedimento; l'ultimo avamposto tedesco, Nauru, cadde in mano australiana il 14 novembre 1914.
La neutralizzazione delle colonie tedesche non esaurì la partecipazione giapponese al conflitto: nel 1917, su richiesta degli Alleati, la Marina imperiale giapponese inviò una squadra di cacciatorpediniere nel Mar Mediterraneo per contribuire alla lotta contro gli attacchi dei sommergibili tedeschi diretti contro il traffico mercantile77. Il Giappone non fu la sola nazione asiatica a partecipare al conflitto: dopo un fallito tentativo di colpo di Stato sostenuto dalla Germania, la Cina dichiarò guerra agli Imperi centrali nel luglio del 1917, anche se ciò non comportò alcun coinvolgimento militare; il Siam dichiarò guerra alla Germania il 22 luglio 1917 ed inviò un piccolo contingente ad aggregarsi alle truppe britanniche in Francia nel 1918, ottenendo così alcune concessioni dalle potenze europee durante le trattative di pace finali78.

Il conflitto si allarga (1915)
 
I fronti dove si combatteva e quelli dove ci si aspettava di farlo erano ormai numerosi. Tutti i belligeranti iniziarono a impiegare ogni risorsa a disposizione, e allo stesso tempo affiorarono le prime voci di opposizione alla guerra in Gran Bretagna, in Germania dove il 1º aprile ebbe luogo una manifestazione organizzata da Rosa Luxemburg, in Francia e Russia79. L'Italia, pur restando neutrale, ricercava le migliori garanzie territoriali in cambio del proprio intervento. L'8 aprile 1915 offrirono di allearsi con le potenze centrali in cambio del Trentino, le isole della Dalmazia, Gorizia, Gradisca e il "primato" sull'Albania. Una settimana dopo l'Austria-Ungheria rifiutò le condizioni, e l'Italia fece richieste ancora più gravose con le potenze dell'Intesa, che si dissero disposte ad intavolare delle trattative80.
Intanto sul fronte del Caucaso, l'avanzata russa provocò il risentimento dei turchi contro la popolazione armena, rea di aver favorito le truppe dello zar. L'8 aprile iniziarono i rastrellamenti e le fucilazioni; iniziò così una vera e propria pulizia etnica. Massacri e deportazioni divennero sistematici, gli appelli ad intervenire alle potenze Alleate come al governo di Berlino furono inutili81.

Lo stallo e la ricerca di una via d'uscita

In seguito all'arretramento tedesco successivo alla Marna, le forze contrapposte tentarono di aggirarsi reciprocamente sul fianco nella cosiddetta "corsa al mare", e in breve estesero il proprio sistema trincerato dal canale della Manica alla frontiera con la Svizzera. I tedeschi puntarono decisi verso le coste e i relativi porti del Belgio e della Francia, i britannici mandarono rinforzi della Royal Naval Division a Ostenda mentre il 3 ottobre i tedeschi, proseguendo la loro avanzata verso il mare del Nord, occuparono Ypres e l'11 iniziarono l'assedio di Lilla82. Falliti tutti i tentativi di aggiramento i due schieramenti iniziarono a rafforzare e fortificare le proprie posizioni scavando trincee, camminamenti, rifugi e casematte. Dal mare del Nord alle Alpi, fra uno schieramento e l'altro, si estendeva la terra di nessuno, una fascia di terreno martoriata dalle granate e continuamente contesa da entrambi gli schieramenti rappresenterà fino agli ultimi attacchi Alleati del 1918 la prerogativa del conflitto83.
Il primo dei numerosi tentativi che gli eserciti contrapposti provarono per uscire da questo stallo, avvenne il 22 aprile 1915, quanto i tedeschi utilizzarono per la prima volta e su vasta scala le armi chimiche, durante il secondo attacco al saliente di Ypres, sperando in tal modo di riprendere quella guerra manovrata che erano stati addestrati a combattere84. Iniziò così anche la "guerra dei gas" che costò 78.198 vittime fra gli Alleati mettendone fuori combattimento per un periodo più o meno lungo almeno 908.645, mentre, le stesse forze Alleate, nonostante avessero impiegato nel corso della guerra la stessa quantità di gas dei tedeschi, inflissero ai nemici circa 12.000 perdite e 288.000 intossicati, a dimostrazione della maggiore efficacia nelle tattiche d'impiego tedesche85.
Tra i mesi di gennaio e febbraio la Germania intensificò la guerra sottomarina dichiarando legittimo attaccare tutte le navi, incluse quelle neutrali, adibite al trasporto di viveri o rifornimenti alle potenze dell'Intesa, giustificando il fatto sostenendo che si trattava di una "rappresaglia" contro il blocco britannico (ossia la massiccia posa di mine nel mare del Nord a novembre 1914) che affamava il suo popolo86. Nel frattempo tutti gli eserciti si adoperavano per aumentare le proprie capacità aeree. In Polonia i russi bombardavano ininterrottamente le stazioni ferroviarie tedesche, senza però riuscire a rallentarne l'avanzata. Il 12 febbraio il Kaiser ordinò di condurre una guerra aerea contro l'Inghilterra con l'uso degli Zeppelin, e nello stesso periodo iniziò una pratica che caratterizzò la guerra di trincea per tutto il conflitto sia sul fronte occidentale che in seguito sul fronte italiano; la guerra di mine. Il 17 febbraio i britannici arruolarono alcuni minatori che iniziarono gli studi e le modalità per creare le condizioni per portare la guerra sotto le postazioni nemiche87.

L'Italia entra in guerra

Per approfondire, vedi fronte italiano (prima guerra mondiale).
 
Dopo l'attentato di Sarajevo, Austria-Ungheria e Germania decisero di tenere all'oscuro delle loro decisioni l'Italia. Ciò in considerazione del fatto che l'articolo 7 della Triplice alleanza avrebbe previsto, in caso di attacco dell'Austria-Ungheria alla Serbia, compensi per l'Italia88. Il 24 luglio, Antonino di San Giuliano, ministro degli esteri italiano, prese visione dei particolari dell'ultimatum e protestò con l'ambasciatore tedesco a Roma, dichiarando che se fosse scoppiata la guerra austro-serba sarebbe derivata da un premeditato atto aggressivo di Vienna89. La decisione ufficiale e definitiva della neutralità italiana fu presa nel Consiglio dei ministri del 2 agosto 1914 e fu diramata il 3 mattina90.
La neutralità ottenne inizialmente consenso unanime; tuttavia il brusco arresto dell'offensiva tedesca sulla Marna instillò i primi dubbi sulla invincibilità tedesca. Macule interventiste andarono formandosi nell'autunno 1914 fino a raggiungere una consistenza non trascurabile appena un anno dopo. Gli interventisti additavano la diminuzione della statura politica incombente sull'Italia se fosse rimasta spettatrice passiva. I vincitori non avrebbero dimenticato né perdonato, e se i vincitori fossero stati gli Imperi centrali, si sarebbero anche vendicati della nazione che accusavano traditrice di un'alleanza trentennale91. Alla fine del 1914 il ministro degli Esteri Sidney Sonnino iniziò le trattative con entrambe le parti per scucire i maggiori compensi possibili, e il 26 aprile 1915 concluse le trattative segrete con l'Intesa mediante la firma del patto di Londra con il quale l'Italia si impegnava ad entrare in guerra entro un mese92. Il 3 maggio successivo fu rotta la Triplice Alleanza e fu avviata la mobilitazione, e il 23 maggio fu dichiarata guerra all'Austria-Ungheria, ma non alla Germania, con cui Antonio Salandra sperava di non guastare del tutto i rapporti93.
Il piano strategico dell'esercito italiano, sotto il comando del generale Luigi Cadorna, Capo di Stato Maggiore italiano, prevedeva di intraprendere un'azione offensiva/difensiva per contenere gli austro-ungarici nel loro saliente incentrato sulla città di Trento e sul fiume Adige, che si incunea nell'Italia settentrionale lungo il lago di Garda, nella regione tra Brescia e Verona; concentrando invece lo sforzo offensivo verso est, dove gli italiani potevano contare a loro volta su un saliente che si proiettava verso l'Austria-Ungheria, poco a ovest del fiume Isonzo94. L'obiettivo a breve termine dell'Alto Comando italiano era costituito dalla conquista della città di Gorizia, situata poco più a nord di Trieste, mentre quello a lungo termine, ben più ambizioso e di difficile attuazione, se non addirittura visionario, prevedeva di avanzare verso Vienna passando per Trieste95. Sul fronte italiano furono ammassati circa mezzo milione di uomini, a cui in un primo tempo gli austriaci seppero contrapporre soltanto 80.000 soldati, in parte inquadrati in milizie territoriali male armate e poco addestrate.

Il crollo della Serbia

Il fronte serbo rimase sostanzialmente stazionario per gran parte del 1915, finché gli eventi non piegarono improvvisamente a favore degli Imperi centrali. Il 6 settembre 1915 lo zar Ferdinando I di Bulgaria portò il suo paese nel campo degli Imperi centrali sottoscrivendo un trattato di alleanza con la Germania: i bulgari avevano da tempo mire espansionistiche sui territori della Macedonia occupati da serbi e greci, ed erano desiderosi di vendicare le sconfitte subite ad opera di questi durante la precedente seconda guerra balcanica96. Dopo gli insuccessi del 1914 le forze austroungariche sul fronte serbo erano ora passate sotto il comando del generale tedesco August von Mackensen, e l'11ª Armata tedesca fu ritirata dal fronte orientale per appoggiare il nuovo tentativo di invasione; la situazione della Serbia era aggravata anche dal fatto che gli Alleati non riuscivano a fornirle adeguati aiuti: nel tentativo di stabilire un collegamento diretto, il 5 ottobre 1915 truppe anglo-francesi sbarcarono a Salonicco in Grecia, paese formalmente neutrale ma lacerato dai dissidi tra la fazione pro-Germania (rappresentata dal re Costantino I) e quella pro-Alleati (capitanata dal primo ministro Eleftherios Venizelos)97.
Il 6 ottobre 1915 von Mackensen diede avvio all'invasione e le forze austro-tedesche attraversarono la Sava penetrando nel nord della Serbia, mentre l'11 ottobre successivo le truppe bulgare si misero in moto attaccando da est: i serbi opposero una dura resistenza nelle regioni montuose dell'interno ma si ritrovarono in forte inferiorità numerica e vennero progressivamente respinti verso sud-ovest; il 22 ottobre i bulgari presero il nodo ferroviario di Kumanovo, tagliando la via di ritirata serba verso sud e bloccando le truppe francesi che risalivano da Salonicco verso nord, poi sconfitte ed obbligate alla ritirata nella successiva battaglia di Krivolak (17 ottobre - 21 novembre)98. Le truppe serbe cercarono di arrestare l'avanzata degli Imperi centrali nella regione del Kosovo ma furono nuovamente battute, ed il 25 novembre 1915 il generale Putnik diede ordine alle sue truppe di ripiegare oltre in confine con l'Albania, nella speranza di evacuare ciò che rimaneva dell'esercito serbo dai porti sul mare Adriatico: dopo aver perso migliaia di uomini a causa degli stenti e degli attacchi degli irregolari albanesi, i 150.000 superstiti dell'esercito serbo raggiunsero il mare e furono evacuati da navi Alleate a Corfù da dove, dopo essere stati riorganizzati e riequipaggiati, furono poi destinati al nuovo fronte davanti Salonicco99.

Si combatte su tutti i fronti (1916)

Da un punto di vista strategico, durante il 1915, le armate tedesche erano rimaste sulla difensiva in occidente. Anche se i battaglioni, i reggimenti e talora anche le divisioni si impegnavano in attacchi con obiettivi limitati, in una più vasta concezione delle cose la Germania si accontentava di tenere il terreno conquistato in Francia e Belgio mentre concentrava le proprie attenzioni ad oriente dove inviò il grosso delle truppe. Questa strategia si sarebbe capovolta nel 1916 quando le potenze centrali avrebbero mantenuto la difensiva ad oriente e cercato di far uscire la Francia dalla guerra100.
Lo stesso giorno in cui venne sferrato l'attacco al Montenegro, da Gallipoli le ultime truppe britanniche lasciarono capo Helles101. Sollevati dalla pressione nemica a Gallipoli i turchi trasferirono in Mesopotamia 36.000 uomini dove la pressione russa del generale Judenič, costrinse i turchi ad arretrare fino ad Erzurum a metà febbraio. Le truppe zariste fecero 5000 prigionieri turchi entrando nella città, e continuarono ad incalzare i turchi verso ovest. Erano vittorie in terre remote, ma almeno per il momento riuscirono a sollevare il morale delle truppe russe102.
A febbraio 1916 erano allo studio due piani, uno tedesco ed uno anglo-francese che miravano entrambi alla vittoria sul fronte occidentale: quello tedesco, già in fase di progettazione, mirava alla vittoria di logoramento tramite un attacco massiccio e intenso di logoramento alla piazzaforte di Verdun, e quello anglo-francese atto a sfondare in estate le linee nemiche sulla Somme pianificato per distruggere le difese tedesche con una vera e propria "guerra d'attrito"103. I britannici avrebbero tentando di vincere la resistenza tedesca con il peso della propria industria bellica sotto forma di un incessante tiro di artiglieria seguito da un massiccio attacco di fanteria che creasse le condizioni e aprisse ampi varchi per una rapida avanzata in profondità della cavalleria e, forse, per la vittoria definitiva104.

Da Verdun alla Somme

Per approfondire, vedi battaglia di Verdun e battaglia della Somme.

I tedeschi andarono all'assalto di Verdun il 21 febbraio 1916 con un bombardamento violento e preciso che martellò per nove ore le linee francesi, distruggendo trinceramenti e linee telefoniche, e impedendo l'arrivo di qualsiasi rinforzo. Cessato l'intenso fuoco d'artiglieria, 140.000 soldati tedeschi attaccarono verso le difese francesi105, occupando il numero più alto possibile di posizioni nemiche, in vista del massiccio attacco del giorno successivo. In alcuni casi le pattuglie riuscirono perfino a fare prigionieri mentre i ricognitori aerei riportarono di una distruzione di vaste proporzioni nelle linee nemiche106. L'attacco tedesco non sortì gli effetti sperati, nonostante ciò il 25 febbraio cadde uno dei simboli di Verdun, fort Douaumont, e Joffre acconsentì alla scelta del suo secondo, il generale Édouard de Castelnau, di inviare immediatamente a Verdun la 2ª armata comandata da Philippe Pétain. De Castelnau ordinò a Pétain di difendere fino alla morte le due rive della Mosa, accettando in pieno la sfida di Falkenhayn che in questo modo poté eseguire in pieno il suo piano di "dissanguamento graduale" dell'esercito francese107.
Malgrado l'iniziale impeto, l'attacco tedesco tra la fine di febbraio e l'inizio di marzo rallentò per via del riassetto che Pétain dette alle linee del fronte. Venne deciso di condurre una vasta azione anche sulla riva sinistra della Mosa per alleggerire la riva destra. E proprio sulla riva sinistra, vi era un'altura che aveva una notevole visuale in ogni direzione, il Mort-Homme, la sua conquista avrebbe consentito di dominare anche la successiva altura verso Verdun, il Bois Bourrus108.
Nei successivi tre mesi le avanzate da entrambe le parti furono minime al costo di perdite gravissime; in maggio i tedeschi si prepararono ad un nuovo assalto che comprendeva l'attacco alle future basi di partenza per l'assalto finale a Verdun, ossia la piazzaforte di Thiaumont, l'altura di Fleury, il forte di Souville e il forte di Vaux, ossia l'estremità nord-est della linea francese109. Il 7 giugno cadde fort Vaux, ma quest'ultimo tentativo tedesco di conquistare Verdun fallì con perdite elevate, e da lì a pochi giorni Erich von Falkenhayn dovette fronteggiare l'imponente offensiva anglo-francese sulla Somme110.
Alle 7:30 del 1º luglio, dopo una settimana di bombardamento preliminare, le truppe anglo-francesi uscirono dalle trincee sulla Somme attaccando su un fronte di 40 chilometri. Il 12 luglio, per conseguenza dei combattimenti in Francia e dell'offensiva Brusilov ad oriente, Falkenhayn interruppe le operazioni offensive a Verdun e trasferì da quel settore alla Somme due divisioni e sessanta pezzi d'artiglieria pesante. Sebbene i combattimenti vi sarebbero continuati sino a dicembre, sarebbero stati i francesi a dettare il corso della battaglia sulle rive della Mosa e lo stato maggiore tedesco avrebbe perso ogni velleità sul fronte di Verdun111.
Nelle prime due settimane di luglio la battaglia della Somme fu condotta con una serie di azioni su scala ridotta preparatorie per una spallata di maggiore rilievo, ma per l'inizio di agosto, Haig accettò l'idea che la possibilità di effettuare uno sfondamento era del tutto tramontata; i tedeschi «avevano posto rimedio in grande misura alla disorganizzazione» di luglio. Il 29 agosto il capo di stato maggiore tedesco, Erich von Falkenhayn, fu sostituito da Paul von Hindenburg ed Erich Ludendorff, che immediatamente introdussero una nuova dottrina difensiva. Il 23 settembre i tedeschi iniziarono la costruzione della linea Hindenburg. Impegnati in due teatri di scontro, i tedeschi oramai risentivano pesantemente della tattica logorante e caparbia dei britannici sulla Somme e dei contrattacchi di Robert Georges Nivelle a Verdun112.
Fra il 15 luglio e il 14 settembre, l'inizio della battaglia successiva, la 4ª armata britannica sulla Somme condusse circa 90 attacchi della forza da un battaglione in su, di cui solo quattro per tutti i nove chilometri del proprio fronte. Perdette 82.000 uomini, per un'avanzata di meno di un chilometro: un risultato anche peggiore di quello del 1º luglio113. Il 15 settembre i britannici si lanciarono nella battaglia di Flers-Courcelette, dove ci fu il debutto operativo del carro armato114. Douglas Haig continuava intanto a sollecitare una pressione «senza soste», e grazie ad una serie di altri piccoli successi alleati nella prima settimana di ottobre i tedeschi ripiegarono su nuove linee difensive più arretrate. Ma i tedeschi avevano dimostrato una forte resistenza, e i limitati successi portati dagli alleati non erano tali da alimentare speranze di uno sfondamento115. Il 18 novembre con un ultimo attacco alle trincee verso Grandcourt, che si risolse con un successo limitato, Haig avrebbe «rafforzato la posizione dei rappresentanti britannici» nell'imminente conferenza militare alleata di Chantilly, e l'offensiva della Somme poté così essere sospesa116.
Nel complesso il guadagno territoriale alleato fu di circa 110 chilometri quadrati e 51 villaggi riconquistati; i tedeschi erano arretrati di circa 7/8 chilometri con notevolissime perdite di uomini e materiali. Da un punto di vista puramente tattico si trattò quindi di una sconfitta tedesca, ma il guadagno alleato fu molto esiguo di fronte all'enorme dispendio di uomini e materiali117. Il mediocre risultato tattico e strategico conseguito sulla Somme costò il siluramento del generale Joseph Joffre, sostituito dal "vincitore" di Verdun Robert Nivelle. Le stragi di Verdun e della Somme comunque non cambiarono le strategie inconcludenti dello stato maggiore francese, che avrebbe ripetuto i medesimi errori l'anno seguente portando il proprio esercito a ribellarsi contro i propri superiori in quella serie di ammutinamenti di massa che caratterizzarono il 1917 dell'esercito francese118.

Combattimenti sull'Isonzo

Per approfondire, vedi Strafexpedition e Fronte italiano (prima guerra mondiale)


Il 15 maggio ebbe inizio la Strafexpedition ("spedizione punitiva"), durante la quale l'esercito italiano venne attaccato tra la valle dell'Adige e la Valsugana. Nei venti giorni successivi, gli austroungarici conquistarono una posizione dopo l'altra, minacciando di tagliare fuori le truppe italiane sull'Isonzo. Utilizzando le divisioni di riserva, il generale Cadorna riuscì a fermare gli austriaci e riprendere alcune delle posizioni perse, rischiando però che un'ulteriore offensiva nemica sull'Isonzo potesse far perdere ai suoi uomini le poche conquiste ottenute finora sul fronte friulano119.
Non riuscendo a muovere gli austriaci dal Trentino, Cadorna decise di concentrarsi nuovamente sull'Isonzo. Il 6 agosto le truppe italiane passano all'offensiva, dal Sabotino al mare, raggiungendo e superando l'Isonzo, conquistando Gorizia e costringendo parte della 5ª armata austro-ungarica a ripiegare di alcuni chilometri sul Carso. I nemici però avevano ceduto terreno per posizionarsi su una nuova linea difensiva già pronta, contro la quale si infransero i nuovi assalti italiani.120 A settembre e ottobre, ebbero inizio altre due battaglie, la settima (14-16 settembre) e l'ottava (10-12 ottobre) battaglia dell'Isonzo, che causarono un ingente numero di vittime e portarono a scarse conquiste territoriali. Errori, condizioni meteo avverse e scarsità di materiali impedirono agli italiani di sfondare le linee e raggiungere Trieste121. Il comando italiano, già dopo l'ottava offensiva, voleva dare il via ad un nuovo attacco prima che tutto il fronte fosse bloccato dalla cattiva stagione in arrivo. L'attacco ebbe inizio solo il 31 ottobre; la linea da attaccare in questa operazione era quella passante per Colle Grande-Pecinca-bosco Malo, e possibilmente la linea Dosso Faiti-Castagnevizza-Sella delle Trincee. Il 2 novembre Cadorna decise di sospendere l'attacco per mancanza di rifornimenti anche se gli scontri ripresero comunque il giorno seguente. Nel complesso si avanzò solo di qualche chilometro e le perdite sofferte ammontarono a 39 000 soldati per gli italiani e 33 000 per gli austroungarici.122

L'offensiva Brusilov

 Dopo che a maggio gli austriaci sferrarono una massiccia offensiva contro le posizioni italiane in Trentino, anche l'Italia si appellò allo zar per diminuire la pressione sul proprio settore. I comandi russi sapevano che non era possibile sferrare nuovi attacchi per assistere gli italiani, data la situazione di truppe e materiali, che andavano radunati e preparati per una prossima decisiva offensiva da compiersi durante la stagione estiva123. Solamente il generale Brusilov reagì positivamente alla richiesta, e poiché stava organizzando di attaccare in luglio anticipò l'azione a giugno per cercare di allentare la pressione sull'Italia, costringendo gli austriaci a trasferire truppe da ovest ad est. Il 4 giugno l'offensiva iniziò con un potente tiro d'artiglieria, condotto da 1938 pezzi su un fronte di circa 350 km, dalle paludi di Pryp'jat' fino alla Bucovina124. In pochi giorni i russi sfondarono in vari punti, in otto giorni vennero catturati 2992 ufficiali austriaci e 190.000 soldati, 216 cannoni pesanti, 645 mitragliatrici e 196 obici. Un terzo delle truppe austriache che avevano contrastato l'avanzata erano state fatte prigioniere. Cinque giorni dopo i russi erano a Czernowitz, la città più orientale dell'Austria-Ungheria125.
Alla fine di luglio la città di Brody, alla frontiera galiziana, cadde in mano ai russi, che nelle due settimane precedenti avevano catturato altri 40.000 austriaci; ma anche le perdite russe furono pesanti, e nell'ultima settimana di luglio Hindenburg e Ludendorff assunsero la difesa dell'ampio settore austriaco126. Ai primi di settembre Brusilov raggiunse le pendici dei Carpazi, ma lì si arrestò per le evidenti difficoltà geografiche, e soprattutto l'arrivo di nuove truppe tedesche da Verdun arrestò la ritirata austriaca e inflisse gravi perdite ai russi. L'offensiva volse al termine, e anche se non fece uscire di scena gli austro-ungarici, questa raggiuse l'obiettivo principale di distogliere importanti forze tedesche dal settore di Verdun e soprattutto di costringere gli austro-ungarici a levare truppe dal settore italiano. Il potenziale russo calò vistosamente, mentre i problemi interni e le carenze di materiali stavano falcidiando le forze russe che dalla fine dell'offensiva di Brusilov non furono più capaci di sferrare offensive contro gli Imperi centrali127.

La campagna di Romania

L'opportunità di scendere in campo con gli Alleati, l'amicizia che legava Nicolae Filipescu e Take Ionescu alle potenze occidentali e il desiderio di liberare i fratelli della Transilvania oppressi dalla dominazione austro-ungarica, ben più dura di quella che dovettero subire i francesi in Alsazia e Lorena, convinsero l'opinione pubblica romena che l'entrata in guerra avrebbe portato notevoli vantaggi. Tutto ciò unito ai successi dell'avanzata di Brusilov incoraggiarono la Romania a compiere il passo decisivo, che l'avrebbe portata nell'abisso. Qualche possibilità in più la Romania l'avrebbe avuta se fosse scesa in campo prima, quando la Serbia era ancora una forza attiva e la Russia una potenza degna di questo nome. I due anni in più di preparazione avevano raddoppiato il numero di soldati, ma in realtà ne diminuirono l'efficienza; mentre i suoi avversari avevano sviluppato potenza di fuoco ed equipaggiamento, l'isolamento della Romania e l'incapacità dei suoi vertici militari avevano impedito la trasformazione di un esercito composto da uomini armati di baionetta in una forza moderna128.
L'avanzata romena si risolse con una enorme sconfitta; la lentezza delle divisioni che attraversarono i Carpazi consentì a Falkenhayn (da poco sostituito al comando supremo da Hindenburg e Ludendorff) di ingrossare le file austro-ungariche con l'invio di divisioni tedesche e bulgare. Questo permise a Ludendorff di arginare i romeni sui Carpazi mentre Mackensen li attaccava da sud-ovest, e il 23 novembre li aggirava superando il Danubio. Nonostante la reazione romena, la forza congiunta di Falkenhayn e Mackensen si dimostrò insostenibile per un esercito obsoleto e mal guidato. Il 6 dicembre gli austro-tedeschi entrarono a Bucarest continuando l'inseguimento di un esercito ormai in rotta129. La maggior parte della Romania, con i suoi sterminati campi di grano e i giacimenti petroliferi, era ormai in mano nemica, l'esercito romeno ridotto all'impotenza e gli alleati occidentali subirono un rovescio ben più grande di tutti i vantaggi che avevano sperato di acquisire con l'entrata in guerra della Romania130.

Stallo nei Balcani

Eliminata la Serbia le forze austroungariche invasero il Montenegro ai primi di gennaio del 1916, e nonostante la sconfitta patita nella battaglia di Mojkovac (6-7 gennaio 1916) obbligarono la piccola nazione a capitolare entro la fine del mese131. Lanciate all'inseguimento dell'armata serba in ritirata, le forze degli Imperi centrali penetrarono anche in Albania, paese in preda all'anarchia dopo che una rivolta popolare nel settembre del 1914 aveva portato alla dissoluzione del governo centrale132: le truppe austro-bulgare occuparono il nord ed il centro del paese entro la fine dell'aprile 1916, ma un corpo di spedizione italiano fu in grado di prendere il controllo delle regioni meridionali, nel tentativo di mantenere il possesso dello strategico porto di Valona133. Davanti Salonicco la situazione si era ormai stabilizzata in una lunga guerra di posizione: dopo il fallimento patito nella prima battaglia di Doiran (9-18 agosto 1916), l'armata alleata (comprendente truppe francesi, britanniche, serbe, italiane e russe) dovette subire un'offensiva bulgaro-tedesca lungo il fiume Strimone tra il 17 ed il 27 agosto, riuscendo a contenerla; passate al contrattacco a metà settembre, le forze alleate presero Monastir, nel sud della Serbia, il 19 novembre seguente, guadagnando un po' di terreno ma senza riuscire a spezzare il fronte bulgaro134.

Gli eventi del 1917
 
Il 1917 iniziò per gli Imperi centrali in modo molto favorevole. In ottobre gli austriaci sfondarono sul fronte italiano arrivando alle porte di Venezia e i tedeschi si apprestavano a trasferire 42 divisioni, più di mezzo milione di uomini, dal fronte orientale a quello occidentale, dato che i russi avevano deposto le armi il 1º dicembre, quando una commissione bolscevica lasciò Pietrogrado per attraversare le linee tedesche a Dvinsk diretta verso la fortezza di Brest-Litovsk dove una delegazione di tedeschi, austriaci, bulgari e turchi li attendeva per intavolare le trattative di pace135.
Sul fronte occidentale la battaglia della Somme terminò con uno smacco per la Gran Bretagna, e dopo le tre fallimentari offensive Alleate di aprile ad Arras, sul crinale di Vimy e sull'Aisne, in Francia iniziò un periodo di problemi interni alle file dell'esercito con ammutinamenti di massa e frequenti episodi di diserzione. Ad occidente, nonostante i tedeschi cedettero terreno attestandosi sulla Linea Hindenburg, nella primavera del 1917 iniziò a serpeggiare un forte risentimento verso la guerra in seno a molti eserciti, soprattutto quello francese, reduce da oltre due anni di una guerra sanguinosa, che vedeva moltiplicarsi il numero dei disertori. I disordini furono di tale portata che fecero capire all'alto comando francese che i soldati non erano più disposti a sopportare i tormenti di una nuova offensiva: avrebbero tenuto la posizione, ma non sarebbero usciti dalle trincee. Tutto il peso dell'offensiva ricadeva quindi sulle spalle delle forze britanniche, che si sarebbero di lì a poco trovate a sostenere il peso della ripresa dei combattimenti in Francia e nelle Fiandre136.

La Russia in subbuglio

Per approfondire, vedi rivoluzione d'ottobre.
 
Le enormi perdite della Russia, dovute ai difetti del suo apparato bellico, che pur tuttavia aveva evitato molti sacrifici agli Alleati, avevano minato alle fondamenta la resistenza morale e fisica del suo esercito, e al fronte molti ufficiali russi non riuscivano più a mantenere la disciplina137. Su tutto il fronte i bolscevichi incitavano gli uomini a rifiutarsi di combattere e a partecipare ai comitati dei soldati per sostenere e diffondere le idee rivoluzionarie. Dal fronte le agitazioni si trasmisero alle città e alla capitale. A Pietrogrado il 3 marzo 1917 scoppiò un violento sciopero negli stabilimenti Putilov, la principale fabbrica di armamenti e munizioni per l'esercito. L'8 marzo gli operai in sciopero erano circa 90.000, il 10 marzo a Pietrogrado fu proclamata la legge marziale, e lo stesso giorno il potere della Duma fu messo in discussione dal Soviet cittadino del principe menscevico Cereteli. Il 12, a Pietrogrado 17.000 soldati si unirono alla folla che protestava contro lo zar, alle 11 del mattino fu dato alle fiamme il tribunale sulla prospettiva Litejnyj e le stazioni di polizia: era cominciata la prima rivoluzione russa138.

Le offensive britanniche

Per tutto maggio i britannici continuarono gli attacchi: in sei settimane di combattimenti i tedeschi arretrarono dai tre agli otto chilometri su un fronte lungo trentacinque. A metà maggio le truppe al comando di Haig avevano compiuto un'avanzata più consistente di quando, due anni e mezzo prima, era cominciata la guerra di trincea: in poco più di un mese avevano conquistato un centinaio di chilometri quadrati di terreno, catturando oltre 20.000 prigionieri e 252 cannoni pesanti. Il carro armato era ormai diventato parte integrante degli attacchi della fanteria britannica. Il 14 maggio, a Magonza, anche i tedeschi sperimentarono il carro armato, due giorni prima che terminasse la battaglia di Arras139.

Il governo britannico desiderava un successo spettacolare per neutralizzare lo scoramento a seguito del fallimento di Nivelle e dello sfacelo in Russia. In Mesopotamia le operazioni si erano praticamente fermate dopo la resa di Kut, con i britannici intenti a migliorare la loro situazione logistica e gli ottomani troppo deboli per scacciarli dalla regione; il nuovo comandante britannico, generale Frederick Stanley Maude, iniziò la sua offensiva il 13 dicembre 1916, risalendo il corso del Tigri con il supporto di una flottiglia di cannoniere fluviali140. Il 23 febbraio 1917 i britannici sconfissero gli ottomani nella seconda battaglia di Kut, obbligandoli alla ritirata: incoraggiato dal successo l'alto comando britannico autorizzò Maude a continuare l'avanzata, e l'11 marzo seguente i britannici presero Baghdad, sgombrata dagli ottomani141. L'azione britannica proseguì poi verso nord in direzione di Samarra (caduta il 23 aprile), concludendosi alla fine di settembre nei pressi di Ramadi dove gli ottomani subirono una nuova sconfitta; il fronte entrò poi in un lungo periodo di stasi, con entrambi i contendenti concentrati sulla campagna di Palestina142.
La vittoria britannica nella battaglia di Rafa il 9 gennaio 1917 aveva definitivamente allontanato la minaccia ottomana alla penisola del Sinai, e i comandanti Alleati iniziarono quindi a progettare l'invasione della Palestina. Dopo una lunga preparazione logistica le forze del generale Archibald Murray iniziarono l'offensiva ai primi di marzo del 1917, subendo però una sconfitta nella prima battaglia di Gaza (26 marzo); un secondo tentativo di sfondare la linea difensiva ottomana davanti alla città, anche con il contributo di gas tossici e qualche carro armato, fallì nuovamente il 19 aprile seguente con gravi perdite per i britannici143. Nel giugno del 1917 Murray fu rimpiazzato dal generale Edmund Allenby, mentre sul fronte opposto Erich von Falkenhayn giunse nel teatro con un piccolo contingente di specialisti tedeschi per rinforzare lo schieramento ottomano. Dopo lunghi preparativi, l'offensiva britannica iniziò alla fine di ottobre del 1917: una prima vittoria nella battaglia di Beersheba (31 ottobre) consentì ai britannici di aggirare la linea difensiva ottomana, poi crollata dopo la sconfitta nella terza battaglia di Gaza (31 ottobre - 7 novembre)144; nonostante il clima invernale ed i contrattacchi ottomani, Allenby proseguì l'avanzata ed il 9 dicembre i reparti britannici occuparono Gerusalemme, un importante obiettivo simbolico, prima di arrestarsi per il peggiorare delle condizioni meteo145.

La Russia esce dal conflitto

Per approfondire, vedi trattato di Brest-Litovsk.
 
Lo zar fu costretto ad abdicare il 15 marzo 1917 e il governo provvisorio di tendenze moderate si mise alla guida del paese, ma senza successo. A maggio gli succedette un altro governo di tendenze più socialiste capeggiato da Kerensky che nonostante le sempre maggiori richieste di pace non ritirò le truppe dal fronte. Dopo la partenza di Hindenburg e Ludendorff, il comando del fronte orientale passò a Hoffmann, che, unendo strategia militare e politica, paralizzò le forze russe, rendendo disponibili truppe tedesche sul fronte occidentale e in minima parte sul fronte italiano146.
La scintilla scoppiò il 7 novembre quando dopo poco le 22 l'incrociatore Aurora, alla fonda nella Neva annunciò che avrebbe fatto fuoco sul palazzo d'Inverno, e sparò alcuni colpi a salve per dimostrare che non scherzava. All'una di notte il palazzo era occupato dai bolscevichi, Lenin fu eletto presidente del consiglio dei commissari del popolo e governava la capitale russa147. Il loquace governo di Kerensky fu spazzato via, i bolscevichi imposero al popolo russo un regime comunista e in dicembre conclusero l'armistizio con la Germania148. Le trattative di pace furono complicate, a Lenin serviva tranquillità lungo il fronte per fronteggiare le minacce interne, e allo stesso tempo gli Imperi centrali reclamavano condizioni di resa durissime. I tedeschi si rendevano conto che l'integrità territoriale della Russia si stava velocemente disgregando, così si permisero di richiedere condizioni ancor più dure dopo che il 21 febbraio i bolscevichi accettarono le prime richieste. Il 24 febbraio dopo una tempestosa discussione il comitato centrale accettò senza condizioni le richieste dei tedeschi149.

La guerra sottomarina indiscriminata
 
Sebbene nel dicembre 1916 gli imperi centrali fossero riusciti ad impadronirsi di un importante canale di approvvigionamento con l'occupazione della Romania e l'acquisizione del controllo della regione danubiana, il nulla di fatto con cui si era conclusa la battaglia dello Jutland aveva lasciato agli inglesi il dominio dei mari, permettendo loro di mantenere il blocco navale ai danni della Germania. Il gioco del blocco marittimo britannico era ormai diventato un problema ineludibile, ma d'altro canto i vertici militari erano confidenti che, una volta annientato il blocco, avrebbero potuto risolvere la partita sul fronte occidentale nel giro di pochi mesi; i vertici tedeschi si risolsero per estendere la guerra sottomarina, anche se ciò comportava inevitabilmente la prospettiva del coinvolgimento americano. Il primo febbraio 1917 la Germania formalizzò la cosiddetta guerra sottomarina indiscriminata: da quel momento in avanti ogni nave diretta ai porti dell'Intesa sarebbe stata considerata un bersaglio legittimo; pochi giorni dopo gli Stati Uniti ruppero le relazioni diplomatiche con la Germania150.

Gli Stati Uniti entrano in guerra
 
Nonostante le provocazioni susseguitesi incessantemente per due anni, a partire dall'incidente del Lusitania, il presidente Woodrow Wilson si attenne alla sua politica di neutralità. La decisione tedesca della campagna sottomarina indiscriminata fornì una prova sufficiente dell'infondatezza delle speranze di pace di Wilson, e quando a ciò seguì il deliberato affondamento di navi statunitensi e il tentativo di istigare il Messico ad attaccare gli Stati Uniti151, il presidente Wilson ruppe gli indugi152. Il 4 aprile 1917 presidente Wilson presentò al Congresso la proposta di entrare in guerra; il 6 aprile gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Germania. Nessuno dubitava che l'impatto delle truppe statunitensi in Europa fosse potenzialmente enorme; gli Stati Uniti avrebbero addestrato circa un milione di soldati, che a poco a poco sarebbero saliti a tre milioni. Ma l'operazione avrebbe richiesto tempo; ci sarebbe voluto almeno un anno, o forse più, prima che l'immensa macchina del reclutamento, dell'addestramento, del trasporto al di là dell'Atlantico e del rifornimento in Francia potesse funzionare a pieno regime153.
In quell'aprile le prospettive per gli Imperi centrali si fecero buie: gli Stati Uniti si apprestavano a diventare belligeranti attivi, la Russia nonostante i disordini interni all'esercito non si era ancora ritirata dalla guerra, le potenze Alleate erano ormai superiori per numero di soldati e risorse. Germania e Austria-Ungheria potevano contare sul solo vantaggio - che comunque nessuno avrebbe potuto privargli - delle numerose linee di comunicazione interne; armate, città, fabbriche, reti ferroviarie, stradali e fluviali si diramavano in modo complesso all'interno dei due paesi e risultavano inattaccabili per gli Alleati, mentre le linee di comunicazioni tra Gran Bretagna e Francia con gli Stati Uniti erano continuamente minacciate dagli U-Boot154.

Disfatta italiana nella battaglia di Caporetto

Per approfondire, vedi battaglia di Caporetto.

 Con la linea di fronte austro-ungarica intorno a Gorizia a rischio di collasso a seguito dell'undicesima battaglia dell'Isonzo, i tedeschi decisero di intervenire in aiuto dei loro alleati in modo da alleggerire la pressione italiana. Hindenburg e Ludendorff, comandanti supremi dell'esercito tedesco, si accordarono con Arthur Arz von Straussenburg per l'organizzazione dell'offensiva combinata155. Alle 2:00 in punto del 24 ottobre 1917 le artiglierie austro-germaniche iniziarono a colpire le posizioni italiane dal monte Rombon all'alta Bainsizza alternando lanci di gas a granate convenzionali, colpendo in particolare tra Plezzo e l'Isonzo156.
Subito dopo la fanteria austro-tedesca sfondò le linee italiane sia sulle montagne sia nella valle dell'Isonzo, dove una divisione germanica raggiunse fin dal pomeriggio del 24 ottobre la città di Caporetto; quindi gli austro-tedeschi avanzarono per 150 km in direzione sud-ovest raggiungendo Udine in soli quattro giorni, mentre l'esercito italiano ripiegava disordinatamente con fenomeni di disgregazione e collasso tra le truppe. Cadorna, venuto a sapere della caduta di Cornino il 2 novembre e di Codroipo il 4, ordinò all'intero esercito di ripiegare sul fiume Piave, sul quale nel frattempo si erano fatti significativi passi avanti nell'impostazione di una linea difensiva grazie agli episodi di resistenza sul Tagliamento. La disfatta di Caporetto provocò il crollo del fronte italiano sull'Isonzo con la conseguente ritirata delle armate schierate dall'Adriatico fino alla Valsugana, oltre alle perdite umane e di materiale; in due settimane andarono perduti 350.000 soldati fra morti, feriti, dispersi e prigionieri, ed altri 400.000 si sbandarono verso l'interno del paese157.

La svolta (1918)
 
Nonostante fossero sempre state superiori in termini numerici alle potenze centrali, le forze dell'Intesa, a causa dello spreco di forze e del collasso della Russia, all'inizio del 1918 videro ribaltarsi la situazione: avrebbero dovuto passare parecchi mesi prima che le forze statunitensi facessero pendere nuovamente l'ago della bilancia a loro favore. Alla conferenza di Rapallo di novembre, fu decisa la costituzione di un consiglio supremo di guerra dove i maggiori esponenti dei governi alleati sarebbero stati affiancati da rappresentanti militari158. Di fatto questi ultimi non avevano però il potere esecutivo in quanto i capi di stato maggiore erano subordinati al potere politico e agli interessi economici. Nel frattempo i tedeschi iniziarono a trasferire decine di divisioni da oriente ad occidente, e alla fine di gennaio le divisioni tedesche divennero 177, con altre 30 in arrivo, mentre il potenziale alleato indebolito dalle enormi perdite nel pantano di Passchendaele, scese a 172 divisioni, formate ognuna da nove, invece che dai soliti dodici, battaglioni159.
Erich Ludendorff cogliendo il momento favorevole e cercando di anticipare l'arrivo in forze delle truppe statunitensi, ripose le speranze di vittoria in una nuova fulminea e imponente offensiva ad occidente. Per poter utilizzare tutte le truppe disponibili riuscì ad estorcere una pace definitiva con il governo bolscevico e analoga pace impose alla Romania; inoltre per assicurare per quanto possibile una base economica alla sua offensiva fece occupare gli immensi campi di grano dell'Ucraina, incontrando solo una misera resistenze da truppe cecoslovacche prigioniere dei russi160.

L'ultimo grande assalto tedesco

Per approfondire, vedi offensiva di primavera.

Dal gennaio 1918 truppe statunitensi sbarcavano settimanalmente in Francia: dopo quarantadue mesi e mezzo dall'inizio della guerra la presenza delle truppe di Pershing sul campo di battaglia era un dato di fatto. Il 23 febbraio per la prima volta le truppe statunitensi presero parte ad un'azione a Chevregny insieme ai francesi, con due ufficiali e 24 soldati. Mentre le truppe tedesche dilagavano ad oriente il 21 marzo Ludendorff lanciò una grande offensiva che, in caso di successo, avrebbe consentito alla Germania di vincere la guerra161.
Le conquiste fatte dai tedeschi durante l'offensiva furono impressionanti per gli standard del fronte occidentale: 90.000 prigionieri catturati, 1.300 cannoni presi, 212.000 soldati nemici morti o feriti e l'intera quinta armata britannica messa fuori combattimento. Le perdite tra i tedeschi furono comunque alte (239.000 tra ufficiali e soldati); alcune divisioni furono ridotte alla metà dei loro effettivi, molte compagnie poterono contare solo 40 o 50 uomini162. Ad inizio agosto lo slancio tedesco su tutto il fronte cessò, mentre quasi un milione di soldati americani erano giunti in Francia a dar manforte agli Alleati. Le truppe tedesche erano ad un soffio dalla vittoria, ma esauste e dissanguate dalle enormi perdite smisero di avanzare, anzi, cominciarono lentamente a indietreggiare, in una lenta ritirata che terminò solo l'11 novembre 1918163.

L'offensiva austro-ungarica

Per approfondire, vedi battaglia del solstizio.
 
Gli austro-tedeschi chiusero il 1917 sul fronte italiano con le offensive sul Piave, sull'Altipiano di Asiago e sul monte Grappa; la ritirata sul fronte del Grappa-Piave però consentì all'esercito italiano, ora in mano ad Armando Diaz, di concentrare le sue forze su di un fronte più breve e soprattutto, con un mutato atteggiamento tattico, più orgoglioso e determinato. Gli austro-ungarici fermarono gli attacchi in attesa della primavera del 1918, preparando un'offensiva che li avrebbe dovuti portare a penetrare nella pianura veneta. La fine della guerra contro la Russia fece sì che la maggior parte dell'esercito impiegato sul fronte orientale potesse spostarsi a ovest.
L'offensiva austro-ungarica arrivò il 15 giugno: l'esercito dell'Impero attaccò con 66 divisioni nella cosiddetta battaglia del solstizio, che vide gli italiani resistere all'assalto e infliggere al nemico pesantissime perdite. Gli austro-ungarici, per i quali la battaglia del solstizio era l'ultima possibilità per dare una svolta al conflitto e ribaltarne le sorti, persero le loro speranze164.

Le controffensive Alleate

Per approfondire, vedi offensiva dei cento giorni e battaglia di Vittorio Veneto.
 
In luglio il comandante supremo Alleato Ferdinand Foch diede inizio alla prevista controffensiva sulla Marna prodottasi in seguito agli attacchi tedeschi. In agosto il saliente era stato sgomberato, e grazie allo slancio e alla presenza ormai massiccia delle truppe fresche di Pershing gli Alleati continuarono le controffensive. L'8 agosto partì la seconda offensiva, lanciata due giorni dopo la precedente. L'attacco interessò truppe franco-britanniche, e vide l'impiego di 600 carri e 800 aerei; ebbe successo, tanto che Ludendorff definì l'8 agosto come "il giorno nero dell'esercito tedesco"165. L'assalto fu il primo di quelli che Foch chiamava "attacchi di liberazione" contro la nuova linea tedesca, che proseguirono il 15 agosto con un nuovo contrattacco sulla Somme, mentre a Parigi si riuniva il neocostituito Consiglio Interalleato per gli approvvigionamenti, che gettò i piani per la continuazione della guerra almeno fino al 1919166. Su tutto il fronte gli Alleati continuavano ad avanzare cacciando i tedeschi da Compiègne, Antheuil-Portes, Lassigny, sulla Somme conquistarono Thiepval e bosco Mametz mentre il 27 le truppe tedesche iniziarono ad evacuare le Fiandre abbandonando i territori conquistati quattro mesi prima. Ludendorff aveva optato per una strategia difensiva cercando in tutti i modi di tenere la Linea Hindenburg, ma ormai il morale delle truppe tedesche era a terra. A fine agosto i tedeschi lasciarono l'Aisne sotto i colpi del generale Mangin, ad inizio settembre i canadesi iniziarono i primi assalti alla Hindenburg e il 3 settembre Foch diede l'ordine perentorio di attaccare senza sosta per tutta la lunghezza del fronte occidentale. L'11 agosto gli statunitensi attaccarono Saint-Mihiel che venne conquistata il 13, liberando un saliente in mano nemica da quattro anni167. Il 25 settembre iniziò poi l'offensiva della Mosa-Argonne a cui parteciparono dieci divisioni americane; le due operazioni insieme valsero la conquista di oltre 500 chilometri quadrati di territorio168.
Sul fronte italiano l'impero asburgico era ormai a un passo dal baratro, assillato dall'impossibilità di continuare a sostenere lo sforzo bellico sul piano economico e soprattutto su quello morale, data l'incapacità della monarchia di farsi garante dell'integrità dello stato multinazionale asburgico, e con i popoli dell'impero asburgico sull'orlo della rivoluzione. L'Italia anticipò ad ottobre l'offensiva prevista per il 1919, impedendo la prosecuzione dell'offensiva169. Da Vittorio Veneto il 23 ottobre partì l'omonima offensiva in condizioni climatiche pessime. Gli italiani avanzarono rapidamente in Veneto, Friuli e Cadore e il 29 ottobre l'Austria-Ungheria si arrese. Il 3 novembre, a Villa Giusti, presso Padova l'esercito dell'Impero firmò l'armistizio; i soldati italiani entrarono a Trento mentre i bersaglieri sbarcarono a Trieste, chiamati dal locale comitato di salute pubblica, che però aveva richiesto lo sbarco di truppe dell'Intesa170.

Il collasso degli Imperi centrali
 
Il collasso degli imperi centrali si concluse con il 4 novembre 1918, quando l'impero austro-ungarico, la Germania, la Bulgaria e la Turchia offrirono l'armistizio a Wilson assieme alle loro note diplomatiche171.

La Bulgaria fuori dal conflitto
 
Nei Balcani il 1917 si era chiuso con un'ulteriore situazione di stallo: un'offensiva lanciata tra aprile e maggio dal comandante dell'armata alleata di Salonicco, il francese Maurice Paul Emmanuel Sarrail, si era conclusa con due sconfitte nella seconda battaglia di Doiran e nella battaglia del Crna, obbligando il generale a sospendere le operazioni lungo tutto il fronte; gli Alleati ottennero invece un successo sul piano diplomatico quando il 29 giugno 1917 la Grecia dichiarò guerra agli Imperi centrali, dopo che il filo-tedesco re Costantino I era stato costretto ad abdicare172. Entrambe le parti avevano poco interesse a portare avanti grosse operazioni su questo teatro: l'attenzione degli Alleati era diretta principalmente al fronte occidentale, e la Bulgaria era riluttante a continuare la guerra, avendo già occupato tutti i territori cui era interessata e dovendo sopportare una profonda crisi economica ed agricola interna che lasciò intere regioni praticamente alla fame173.
A metà del 1918 il nuovo comandante delle forze alleate, il francese Louis Franchet d'Espèrey, preparò i piani per una risolutiva offensiva lungo tutto il fronte macedone, convinto che la Bulgaria fosse ormai al collasso174. Dopo lunghi preparativi l'offensiva scattò il 14 settembre 1918: mentre i reparti britannici e greci attaccavano verso est ottenendo un successo nella terza battaglia di Doiran (18-19 settembre), le truppe francesi, serbe e italiane sfondarono il fronte bulgaro ad ovest dopo la decisiva vittoria nella battaglia di Dobro Pole (15 settembre)175. La ritirata provocò il collasso dell'esercito bulgaro, mentre il paese era scosso da tumulti e manifestazioni contro la guerra: il 29 settembre, mentre le forze francesi entravano a Skopje, la Bulgaria accettò l'offerta di un armistizio avanzata dagli Alleati, uscendo ufficialmente dal conflitto il 30 settembre seguente; mentre le forze britanniche proseguivano la marcia verso est in Tracia alla volta di Istanbul, i franco-serbi mossero verso nord raggiungendo il Danubio il 19 ottobre e liberando Belgrado dall'occupazione austroungarica il 1º novembre, giusto due giorni prima che anche l'Austria-Ungheria si arrendesse176.

La resa dell'Impero ottomano

Nel teatro del Medio Oriente le forze dell'Impero ottomano stavano ormai cedendo su tutti i fronti. Nella penisola araba, le litigiose tribù locali avevano infine trovato una certa guida unitaria sotto lo sharif Al-Husayn ibn Ali, insorgendo contro la dominazione ottomana; rifornite di armi e munizioni dagli Alleati, e raggiunte da una missione di addestratori britannici capitanati dal colonnello Thomas Edward Lawrence (poi passato alla storia come "Lawrence d'Arabia"), le forze arabe iniziarono una massiccia campagna di guerriglia contro gli ottomani, prima interrompendo la ferrovia dell'Hegiaz e poi catturando l'importante porto di Aqaba sul Mar Rosso177. Gli irregolari arabi di Lawrence si spinsero poi verso nord per appoggiare gli sforzi finali dei britannici in Palestina.
La situazione sul fronte palestinese era rimasta sostanzialmente statica per gran parte del 1918, con l'attenzione degli Alleati concentrata sul fronte occidentale; l'offensiva finale poté iniziare solo il 19 settembre 1918: mentre gli irregolari arabi mettevano in atto azioni diversive ad est per attirare l'attenzione degli ottomani, le forze britanniche del generale Allenby attaccarono da ovest lungo la zona costiera, potendo contare su una netta superiorità numerica, una migliore situazione logistica ed un assoluto dominio del cielo178. Le forze Alleate ottennero una decisiva vittoria nella battaglia di Megiddo (19 settembre – 31 ottobre 1918) con una perfetta azione combinata179: la fanteria sfondò il fronte ed aprì un varco per la cavalleria che, appoggiata da unità di autoblindo ed attacchi dei bombardieri, inseguì con decisione il nemico impedendogli di attestarsi su nuove posizioni; la ritirata ottomana si trasformò in rotta e le forze Alleate dilagarono verso nord, penetrando in Siria ed occupando Damasco (2 ottobre) ed Aleppo (25 ottobre).
In Mesopotamia, ormai un fronte secondario, le preponderanti forze britanniche iniziarono la loro offensiva sul finire di settembre, dilagando nella zona di Mossul - Kirkuk ed ottenendo infine una vittoria decisiva nella battaglia di Sharqat (23 – 30 ottobre 1918)180. Ormai in ritirata su tutti i fronti e con il proprio esercito ridotto ad un sesto della forza originaria, all'Impero ottomano non restò altro che trattare la propria resa: il 30 ottobre 1918 i rappresentati dell'Impero siglarono l'armistizio di Mudros, ed il 13 novembre seguente una forza d'occupazione Alleata si installò ad Istanbul.

Il collasso dell'Austria-Ungheria
 
Il 28 ottobre l'Austria-Ungheria chiese agli Alleati l'armistizio: l'impero che aveva aperto le ostilità contro la Serbia nel 1914 era giunto alla fine del suo percorso politico e militare. Quello stesso giorno gli italiani catturarono 3000 austriaci sul Piave. In serata l'esercito asburgico ricevette l'ordine di ritirarsi181. L'impero era al collasso, oramai i diversi movimenti indipendentisti stavano facendo di tutto per sfruttare la situazione. A Praga la richiesta di armistizio provocò una decisa reazione dei cechi; il Consiglio nazionale cecoslovacco si riunì a palazzo Gregor, dove si era costituito tre mesi prima, e assunse le funzioni di un vero e proprio governo, impartendo agli ufficiali austriaci nel castello di Hradčany l'ordine di trasferire i poteri, assumendo il controllo della città e proclamando l'indipendenza dello stato ceco. Quella sera le truppe austriache nel castello deposero le armi; senza confini, senza riconoscimento internazionale e senza l'approvazione di Vienna era nata un'entità nazionale ceca182. Sempre quello stesso giorno, il Parlamento croato dichiarò che da quel momento, Croazia e Dalmazia avrebbero fatto parte di uno "Stato nazionale sovrano di sloveni, croati e serbi". Analoghe dichiarazioni pronunciate a Laibach (Lubiana) e Sarajevo, legavano queste regioni all'emergente Stato slavo meridionale della Jugoslavia183.
Il 30 ottobre vennero fatti prigionieri più di 33.000 soldati austriaci, mentre a Vienna, il governo austro-ungarico continuava ad adoperarsi per giungere all'armistizio con gli Alleati184. Il 1º novembre Sarajevo si dichiarò parte dello "Stato sovrano degli slavi meridionali". A Vienna e a Budapest era ormai scoppiata la rivoluzione; il giorno precedente il conte Tisza fu ucciso dalle guardie rosse nella capitale ungherese185. Il 3 novembre l'Austria firmò l'armistizio che sarebbe entrato in vigore il giorno successivo, mentre a Vienna continuava la rivoluzione rossa. Lo stesso giorno gli italiani entrarono a Trento e la Regia Marina sbarcò a Trieste, mentre sul fronte occidentale gli Alleati accolsero la richiesta formale di armistizio sul fronte francese avanzata dal governo tedesco186.

La fine ad occidente

Per approfondire, vedi armistizio di Compiègne.

«La guerra è finita, certo in modo completamente diverso da quanto avevamo pensato»
(Affermazione fatta da Guglielmo II al suo seguito negli ultimi giorni della guerra187)
 
La Germania aveva visto il proprio potenziale umano gravemente compromesso da quattro anni di guerra, trovandosi d'altronde in gravi difficoltà dal punto di vista economico e sociale. Il 1º ottobre i britannici si apprestavano a superare la Hindenburg lungo il canale di St. Quentin e gli statunitensi a sfondare nelle Argonne; Ludendorff si recò direttamente dal Kaiser per chiedergli di avanzare immediatamente una proposta di pace, dando grossa parte della colpa alle «idee spartachiste e socialiste che avvelenavano l'esercito tedesco»188. Le battaglie infuriavano ancora quando il 2 ottobre la prima rivoluzione tedesca scoppiò. Il 4 ottobre il principe Maximilian di Baden telegrafò a Washington per richiedere l'armistizio189. La Germania pur essendo nello scompiglio non era precipitata nell'anarchia né aveva deciso di arrendersi: l'8 ottobre Wilson respinse la proposta, e l'11 i tedeschi iniziarono a ritirarsi su tutto il fronte senza però rinunciare a combattere190.
Ludendorff confidava nel continuare la lotta nella speranza che un'efficace difesa della frontiera tedesca potesse alla lunga smorzare la determinazione degli Alleati. Ma la situazione era oramai sfuggita di mano; il 3 novembre l'alleato austriaco capitolò rendendo vulnerabile il fronte sud-orientale della Germania, la rivoluzione dilagava, alimentata dalla riluttanza del Kaiser ad abdicare. La sola via d'uscita poteva essere raggiunta con un accordo con i rivoluzionari, così il 9 novembre il principe Max lasciò il posto a Ebert, rispondendo implicitamente alle richieste del popolo ed esplicitamente a Woodrow Wilson, di far cadere i capi che avevano portato la Germania alla rovina a favore della Repubblica191.
L'offensiva dei cento giorni diede il colpo finale, e dopo questa serie di sconfitte le truppe tedesche iniziarono ad arrendersi in numero sempre crescente. Quando finalmente gli Alleati ruppero il fronte tedesco, la monarchia imperiale tedesca giunse al collasso, e i due comandanti dell'esercito, Hindenburg e Ludendorff, dopo aver tentato invano di convincere il Kaiser a combattere ad oltranza, si fecero da parte192. Di fronte alla rivoluzione interna e alla minaccia delle forze Alleate ormai in vista del confine tedesco, i delegati tedeschi che si recarono a Compiègne già il 7 novembre, non ebbero altra scelta che quella di accettare le drastiche condizioni armistiziali imposte dagli Alleati. L'armistizio entrò in vigore alle ore 11:00 dell'11 novembre 1918, la guerra era finalmente finita193.

Conseguenze

Per approfondire, vedi conseguenze della prima guerra mondiale.
 
Con la fine del conflitto, non solo le nazioni sconfitte, ma anche quelle vincitrici si trovarono davanti una situazione disastrosa. I quattro imperi vinti si dissolsero in nuovi Stati e il presidente degli Stati Uniti Wilson si prese la responsabilità di organizzare un nuovo sistema globale, fondato sulla risoluzione delle controversie per vie pacifiche e sull'autodeterminazione dei popoli. In un discorso che tenne davanti al Senato degli Stati Uniti l'8 gennaio 1919 riassunse i suoi propositi in quattordici punti, sui quali vigeva il pensiero che dovesse esserci una «pace senza vincitori», poiché a suo parere una pace imposta avrebbe contenuto il germe di un nuovo conflitto194.
Il 18 gennaio 1919 iniziò la conferenza di Parigi che vide i quattro paesi vincitori impegnati nel delineare il nuovo "profilo europeo". In base al principio di autodeterminazione dei popoli sorsero direttamente dalle ceneri degli antichi imperi nuovi Stati indipendenti (quali la Cecoslovacchia e il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni), che si trascinarono dietro nuove tensioni a causa dei loro confini e dell'eterogeneità della loro popolazione. In realtà il trattato di Versailles ebbe anche numerose ripercussioni negative. La Germania, costretta ad ammettere la propria colpevolezza, cominciò a convincersi che la loro disfatta fosse stata dovuta a dei contrasti interni. I nazionalisti puntarono il dito contro i fautori della Repubblica di Weimar, i comunisti e la comunità ebraica, accusandoli di non aver creduto o almeno sostenuto il governo precedente. Ma lo scontento non si diffuse solo tra i vinti, ma anche tra i vincitori, come il Belgio, che si ritrovò negati i possedimenti in Africa, o l'Italia, che invece vide sfumare le possibilità accordate durante il Patto di Londra195.
L'Unione Sovietica, non più in guerra dal 1917, ebbe delle difficoltà nel far aderire gli stati confinanti (l'unico che riuscirono ad annettere fu l'Ungheria, che aveva comunque resistito sino all'agosto del 1919). Inoltre minacciava la sicurezza interna la Polonia, tornata indipendente, che voleva mantenere i propri confini. Sempre nel 1919 scoppiò la guerra sovietico-polacca che terminò con la pace di Riga. In seguito al trattato di Rapallo del 1922, l'Unione Sovietica venne ufficialmente riconosciuta.
Durante gli anni successivi alla guerra si presentò anche la prima crisi del colonialismo europeo. Alcuni stati, sotto il giogo delle grandi potenze da lungo tempo, cominciarono a rivendicare la propria indipendenza, causando non pochi problemi, specialmente riguardo al commercio di materie prime, agli stati europei. Ancora una volta Wilson assunse il ruolo di mediatore e inaugurò una missione di civilizzazione volta a migliorare le nazioni più arretrate, in modo da concedere loro l'indipendenza, non prima di averle affidate alla guida di potenze quali la Francia o la Gran Bretagna. Questi movimenti nazionalistici riguardarono in particolar modo paesi dell'Oriente e del Medio Oriente (come la Cina, l'India, l'Iraq e il Libano), ma anche africani (quali l'Egitto o la Cirenaica)196. La guerra ebbe effetti anche sul piano socio-economico di tutti i paesi. In particolare, i paesi europei mancarono di spirito collaborativo e preferirono reggersi unicamente sulle loro forze e possibilità. Però questa decisione individualista facilitò la diffusione della crisi economica seguente alla caduta della borsa di Wall Street (1929) in Europa, facendo aumentare il livello di disoccupazione e povertà197. La vita sociale, in particolar modo, aveva subito enormi danni: basti pensare che erano stati inviati al fronte 66 milioni di uomini, dei quali i superstiti, al loro ritorno, trovarono condizioni disastrose198.

Crimini di guerra

Il diritto internazionale umanitario e la convenzione dell'Aia del 1907 furono ripetutamente violate durante il conflitto, e solo la ridotta estensione delle regioni occupate da una potenza avversaria pose un freno alle stragi222. I dettami di Carl von Clausewitz, che consigliava una certa pressione sulle popolazioni invase affinché il governo nemico fosse portato ad arrendersi, vennero applicati dall'esercito tedesco quando questo irruppe nel Belgio e nella Francia settentrionale nel primo anno di guerra. Il 22 agosto 1914 il generale Karl von Bülow ammonì gli abitanti di Liegi di non ribellarsi per evitare di subire la stessa sorte dei 110 rivoltosi fucilati ad Andenne, che venne anche data alle fiamme.
Casi simili con parecchie centinaia di civili uccisi, presto identificati dalla propaganda franco-belga come lo "stupro del Belgio", si verificarono in altre località belghe come Sambreville, Seilles, Dinant e Lovanio, oltre che nei distretti francesi nord-orientali. I soldati tedeschi, terrorizzati dai franchi tiratori che già li avevano infastiditi durante la guerra franco-prussiana del 1870, e animati da presunte storie di loro commilitoni accoltellati alle spalle o torturati mentre erano feriti e inermi, si ostinarono a combattere con ferocia ogni atto da loro giudicato "illegale". In quasi un mese, vale a dire il tempo che durò l'avanzata in Belgio, i soldati del Reich fecero oltre cinquemila vittime tra i civili. A differenza della seconda guerra mondiale in cui le stragi vennero commesse da appositi reparti, in questo caso i massacri vennero compiuti da unità qualsiasi sparpagliate in tutto l'esercito imperiale223.
Alle città invase venne spiegato che la Germania non era in grado di fornire adeguate scorte alimentari per via del blocco navale attuato dall'Intesa, e le popolazioni vennero salvate solo dai cibi statunitensi distribuiti dalla Commissione di soccorso guidata dal futuro presidente Herbert Hoover, che si occupò anche dell'oltre mezzo milione di uomini rimasti disoccupati dopo lo spostamento delle fabbriche belghe in Germania, dove vennero inviati anche oltre 60.000 lavoratori coatti e alcune decine di migliaia di loro colleghi volontari. Altri uomini, donne e ragazzi vennero obbligati ai lavori agricoli nelle vicinanze del luogo di coscrizione.224 Per dividere ulteriormente la popolazione, i tedeschi fecero leva sugli antichi dissapori tra i fiamminghi ed i valloni, arrivando fino a riconoscere il Governo provvisorio delle Fiandre guidato dal fiammingo August Borms225.
Crimini di guerra vennero compiuti anche dalla marina tedesca. Rispetto alla seconda guerra mondiale, nell'ambito della quale il processo di Norimberga verificò un solo caso di violazione delle leggi umanitarie da parte di un U-Boot, nei mari dove venne combattuta la prima guerra mondiale vi furono frequenti mitragliamenti di naufraghi e siluramenti di navi ospedale226.

Genocidio armeno

Genocidi etnici

 La prima guerra mondiale ebbe anche dei suoi genocidi. Il più noto è quello armeno, perpetrato dai turchi nel biennio 1915-1916. Essendo l'esercito turco impegnato nel Caucaso contro i russi, le autorità turche decisero di deportare le poco fedeli popolazioni armene che vivevano alle sue spalle in Mesopotamia e Siria, ma centinaia di migliaia di armeni morirono durante le marce per fame, malattia o sfinimento. Dopo la cessazione delle ostilità da parte dell'Impero ottomano, Mustafa Kemal sterminò altre decine di migliaia di armeni per rendere più compatto il ceppo razziale turco227.
Benché vi fossero meno occasioni per infierire sulle popolazioni nemiche, crimini di guerra furono compiuti anche dalle potenze dell'Intesa. Gli abitanti che abitavano le terre lungo l'Isonzo occupate dagli italiani nel 1915 manifestarono in più di un'occasione i loro sentimenti ostili all'Italia. A Dresenza venne compiuto un attentato, peraltro fallito, contro il generale Donato Etna, e per rappresaglia gli italiani uccisero alcuni abitanti. A Villesse, dopo un attacco della popolazione contro i bersaglieri, vennero fucilati più di cento civili. Da queste terre furono deportati nell'Italia meridionale circa 70.000 abitanti, e lo stesso fece l'Austria-Ungheria con i civili di sentimenti italiani, rumeni o serbi. La Russia invece obbligò le popolazioni tedesche del Volga a trasferirsi in Siberia228.

Impero ottomano

Tra il 1914 e il 1920 fu intrapresa dall'Impero ottomano un'azione di sterminio di massa nei confronti dei cristiani della Chiesa assira d'Oriente, della Chiesa ortodossa siriaca, della Chiesa cattolica sira e della Chiesa cattolica caldea durante il governo dei Giovani Turchi: questa operazione passerà alla storia come "genocidio assiro". Sulla vetta di una montagna, il Ras-el Hadjar, centinaia di ragazzi tra i sei e quindici anni vennero sgozzati brutalmente e poi buttati dal precipizio. Questo fu solo uno dei tanti episodi che seguirono e che continuarono a prendere di mira i cristiani assiro-caldeo-siriaci. Nell'aprile del 1915 la stessa sorte toccò agli abitanti del villaggio di Tel Mozilt e di altri 30 paesi in particolare della provincia di Van. Nel marzo 1918 fu infine assassinato il patriarca Mar Shimun XXI Benyami, che era allora la somma autorità religiosa in Assiria. Si valuta che i morti non siano stati meno di 275.000. Nonostante i numeri enormi questo genocidio non ha mai fatto tantissimo scalpore e infatti se ne è discusso per la prima volta al Parlamento europeo solo il 26 marzo 2007229.
Ben più noto è il cosiddetto genocidio greco che, iniziato nel 1914, si è prolungato sino al 1924. La persecuzione è stata subita da una popolazione greca originaria del Ponto, perciò detta, i greci del Ponto. La ragione anche in questo caso è religiosa, infatti, essendo una delle poche minoranze cristiane in Medio Oriente, soffrirono un terribile massacro da parte degli ottomani che passerà alla storia come genocidio greco. In realtà il termine è stato oggetto di controversie tra la Turchia e la Grecia. Alla Grecia, che ha dichiarato nel 1994 il 19 maggio giornata commemorativa, si sono associati, nel riconoscerlo come genocidio, vari stati americani. Le vittime, non solo di morte violenta, ma anche per le conseguenze, dunque malattia e fame, nel giro di sette anni arrivarono a circa 350.000230.

Impero Russo

 Circa 200.000 tedeschi che vivevano in Volinia e circa 600.000 ebrei furono deportati dalle autorità russe231. Nel 1916, fu inoltre emesso un ordine di espulsione per circa 650.000 tedeschi del Volga a est, ma la rivoluzione russa ne impedì l'attuazione232. Molti pogrom accompagnarono la rivoluzione del 1917 e la conseguente guerra civile russa: tra i 60.000 e i 200.000 civili ebrei vennero uccisi atrocemente in tutto l'Impero russo233.

L'esperienza dei soldati

Guerra e ammutinamento
 
Nel 1917, dopo quasi tre anni di scontri sanguinosi con risultati modesti, iniziò a serpeggiare nelle file di molti eserciti un deciso malcontento, esploso tra gli uomini dell'esercito francese il 27 maggio 1917, quando 30 000 soldati francesi ammutinarono, lasciando la prima linea lungo lo Chemin des Dames e portandosi nelle retrovie, rifiutandosi di obbedire agli ordini. Questo ammutinamento non fu un evento raro: il fenomeno si estese a circa metà dell'esercito francese, circa 50 divisioni234. Il 1º giugno a Missy-aux-Bois un reggimento di fanteria francese si impadronì della città e nominò un "governo pacifista"; per una settimana regnò il caos in tutto il settore francese del fronte mentre gli ammutinati si rifiutavano di tornare a combattere. Le autorità militari agirono tempestivamente, e sotto il pugno di ferro di Pétain cominciarono gli arresti di massa e si insediarono le corti marziali. I tribunali francesi giudicarono colpevoli di ammutinamento 23.395 soldati, di questi, più di 400 furono condannati a morte, 50 fucilati e gli altri inviati ai lavori forzati nelle colonie penali. Contemporaneamente Pétain introdusse miglioramenti, concedendo alle truppe periodi di riposo più lunghi, congedi più frequenti e rancio migliore; dopo sei settimane gli ammutinamenti erano cessati235.
Sui campi di battaglia viveva uno stridente contrasto: sul fronte occidentale come su quello orientale, alla ferocia dei combattimenti si contrapponevano diserzioni di massa, ammutinamenti e fraternizzazione. A Pietrogrado il governo provvisorio faceva da contrappeso alla volontà dei Soviet favorevoli all'immediata cessazione di ogni ostilità. Ai primi di aprile del 1917 truppe russe fraternizzarono con i tedeschi, ma un'unità di artiglieria fedele al governo sparò sui ribelli, il cui leader, il tenente Haust, arrestò due ufficiali che avevano dato l'ordine di aprire il fuoco. Il 24 aprile i marinai di Kronštadt si schierarono con i bolscevichi, proclamando che non avrebbero rispettato gli ordini del governo; a questo si associarono gli scioperi nell'industria che ridussero la produzione di carbone di un quarto rispetto al 1916236. Il comandante in capo russo Michail Vasil'evič Alekseev riferì al ministro della guerra che «l'esercito si sta sistematicamente sgretolando»; ai primi di maggio il numero dei disertori in seno all'esercito russo sfiorava i due milioni; nello stesso mese l'intera 120ª divisione russa si rifiutò di raggiungere le trincee, disertando in massa237.
Per tutta l'estate nelle file russe gli episodi di diserzione andavano aumentando, i primi di settembre ci furono anche degli scontri tra soldati britannici e la polizia militare del campo di Étaples, dove i convalescenti soldati britannici era costretti a marce forzate e un duro riaddestramento alla guerra coi gas. Ciò causò malcontento, ma dopo alcuni scontri, il 12 settembre il breve ammutinamento britannico fu risolto. Pochi giorni dopo, a La Courtine - sud di Parigi - una brigata russa schierata ad occidente issò la bandiera bolscevica e si rifiutò di andare in trincea238. Di lì a poco tempo, le sempre più numerose diserzioni tra le file russe riflettevano l'avanzata della rivoluzione; il 3 novembre le truppe russe del fronte baltico gettarono le armi e fraternizzarono col nemico tedesco, il 7 novembre 18 bolscevichi circondarono il palazzo d'Inverno e in poco tempo il governo provvisorio fu spazzato via a favore di un governo bolscevico che come primo atto avviò le trattative di pace con gli Imperi centrali239.

Prigionia
 
I prigionieri di guerra vissero generalmente in condizioni pietose. Nell'agosto 1915 i comandi austro-ungarici vennero raggiunti da un ordine che li obbligava a trattare i prigionieri italiani, appartenenti ad una nazione traditrice, più duramente dei prigionieri russi o serbi, considerati avversari "leali". Dei 600.000 italiani finiti in mano austro-ungarica, ne morirono durante la prigionia almeno 120.000, di cui circa il 65% per tubercolosi, cachessia o inedia. Sovente i prigionieri italiani vennero mandati al fronte a scavare trincee240.
L'Impero tedesco occupò i prigionieri "occidentali" nell'industria di guerra, elargendo piccole paghe e un trattamento discreto. Russi e rumeni continuarono invece a soffrire la fame nei campi di prigionia, e forse non più della metà di essi sopravvissero alla guerra241. All'inizio del 1916 la Russia aveva sotto controllo 100.000 prigionieri tedeschi e 900.000 austro-ungarici. Questi non furono sottoposti a particolari vessazioni, ma il freddo e privazioni varie ne avevano già uccisi, alla fine dell'anno, 70.000242.
Corrispondenza dal fronte
 Tra i documenti che ci sono giunti a ricordo della prima guerra mondiale, abbiamo una buona serie di missive che testimoniano la terribile situazione sofferta non solo dai militari, ma anche dai civili dell'epoca. I mittenti sono il più delle volte soldati semplici che tentano in ogni modo di tenersi in contatto con la famiglia. Quindi il momento della consegna della posta era sempre atteso con ansia e gioia ed era forse uno dei pochi pensieri che sollevava il morale dei soldati. La scrittura utilizzata è spesso di difficile comprensione, poiché in dialetto o di scrittura incerta (spesso dovuta alle condizioni improbe): gli errori di punteggiatura e ortografia erano inevitabili243.
Inviare e ricevere lettere era sempre difficile per varie ragioni. Innanzitutto bisogna tenere da conto la difficoltà di procurarsi carta, penna, inchiostro e francobollo. A causa della scarsità di mezzi di cui disponevano, molti soldati non avevano la possibilità di dare notizie ai propri cari. Ma non era l'unico problema: l'ostacolo più grande era sicuramente rappresentato dalla censura. Spesso inconsapevolmente, i soldati erano a conoscenza d'informazioni che minacciavano la sicurezza nazionale, e la censura, per evitare la loro divulgazione, interveniva aprendo i documenti, controllando il contenuto e, se ritenuto innocuo, richiudendo le buste con le cosiddette "fascette di censura", che recavano la scritta "Verificato per censura". Spesso le lettere venivano fatte passare ma con delle modifiche, come cancellazioni con l'inchiostro di china. Vietato era inviare cartoline rappresentanti paesaggi (che potevano rivelare la propria posizione) o utilizzare sistemi criptati di comunicazione quali la stenografia o il codice Morse. Sottostava ad ancora più rigidi controlli la posta dei prigionieri di guerra, che veniva controllata più volte sia dalla censura nemica, che da quella del proprio stato244.

Supporto e opposizione alla guerra

Il ruolo degli intellettuali e della stampa
 
A partire dal 10 agosto 1914, con Louis Gillet, futuro occupante di un seggio della Académie française, che "invocava che la Francia diradasse una volta per sempre le nebbie di germanesimo che l'avevano avvolta e che insozzavano il mondo con una patina di volgarità"249, il mondo intellettuale francese che visse durante la prima guerra mondiale fu pressoché unanime (solo lo scrittore Romain Rolland si discostò dai suoi illustri colleghi) nell'incitare alla guerra contro il nemico e a combattere per la civiltà e la vittoria finale, contro un nemico inferiore di razza (Edmond Perrier, al tempo direttore del Museo nazionale di storia naturale di Francia, affermò che «Il cranio del principe di Bismarck richiama quelli degli uomini fossili di La Chapelle-aux-Saints»250) che andava contrastato accorrendo ad arruolarsi (così come invitavano a fare i Nobel per la letteratura Maurice Maeterlinck e Anatole France). Gli scienziati e le scoperte tedesche vennero screditate dal fisico Pierre Duhem, dallo zoologo Louis-Félix Henneguy e dal matematico Émile Picard251. Henri Bergson affermò che la guerra alla Germania equivaleva a combattere la barbarie; Frédéric Masson, uno studioso di Napoleone, propose di abolire la musica di Richard Wagner per evitare la contaminazione della cultura francese, mentre Action française auspicò la rimozione del tedesco dalle lingue studiate nelle scuole; più di tutti spiccò la figura di Maurice Barrès, acceso nazionalista che arringò il popolo francese scrivendo che Guglielmo II praticava il culto di Odino e depositando presso il Parlamento un progetto di legge che istituiva una festa nazionale dedicata a Giovanna d'Arco. Vi fu anche chi asserì che la lettera "K" dovesse essere cancellata dai dizionari perché troppo tedesca e Beethoven non venne più suonato252.
Anche i tedeschi, almeno fino al 1915, usarono toni simili. Wilhelm Wundt sostenne che la guerra della Germania contro la Russia era una guerra di civiltà. Nell'ottobre 1914 novantatré tra umanisti, scienziati ed intellettuali tedeschi difesero l'operato dello stato maggiore dell'esercito pubblicando un appello rivolto «alle nazioni civili»253. Un mese dopo Thomas Mann scrisse un articolo in cui identificava il militarismo tedesco nella "Kultur", ossia l'organizzazione spirituale del mondo, sostenendo che la pace era un elemento che corrompeva la civiltà, a meno che non fosse stata raggiunta dopo la vittoria della Germania in Europa. Ernst Haeckel invocò sia la sconfitta della Russia che della Gran Bretagna, ed Ernst Lissauer fu premiato per aver composto una "Canzone di odio contro l'Inghilterra" ("Hassgesang gegen England"). Ancora, il Nobel per la chimica Wilhelm Ostwald si disse convinto che la Germania avesse tutte le qualità per meritarsi il predominio in Europa254.
Dal 1915 i chierici tedeschi, visti i lutti di guerra e influenzati dal gran numero di intellettuali ebrei presenti tra le loro fila, si accostarono ad una maggiore pacatezza, mentre in Francia il nazionalismo intellettuale continuò per tutta la durata della guerra255. Questo è verificabile anche guardando alla stampa dei due paesi: in Germania i giornali pubblicarono i comunicati dell'agenzia Havas nonché i bollettini di guerra francesi, che venivano pubblicati anche ne "La Gazette des Ardennes", unico giornale autorizzato di lingua francese nella zona occupata dai tedeschi. Il clima, poi, era in generale più rispettoso: le opere di Molière non vennero mai vietate e il Frankfurter Zeitung, ad esempio, rese gli onori al compositore francese Claude Debussy, morto nel marzo 1918, dedicandogli due colonne di giornale. La stampa francese era invece colma di roboanti quanto esagerati racconti di prima linea, pubblicava solo i comunicati tedeschi favorevoli alla Francia e, soprattutto, era limitata da una forte censura che calò d'intensità solo con la nomina di Clemenceau alla presidenza del consiglio (novembre 1917)256. Più libera era invece la stampa britannica, che tuttavia non ebbe il permesso di uscire fuori dalla nazione257.

La propaganda e la censura
 
Uno degli aspetti rilevanti della Grande Guerra fu il sistematico impiego della propaganda (e della censura) da parte di tutte le autorità civili, militari e perfino religiose di ogni nazione belligerante, al fine di giustificare di fronte all'opinione pubblica e rendere accettabili ai combattenti scelte di ordine politico, economico, sociale e militare eticamente discutibili. Propaganda e censura furono istituzionalizzate quasi ovunque, creando appositi uffici che si occupassero di controllare le informazioni circolanti e di crearne di nuove secondo gli schemi prefissati dai Governi e dagli Stati Maggiori.
In Italia l'attività di propaganda a favore dell'intervento, prima, e della guerra dopo il 24 maggio 1915 si diffuse pervasivamente attraverso la costituzione sistematica - presto controllata attraverso decreti ministeriali (dei ministeri degli Interni e della Guerra) e circolari Prefettizie - di innumerevoli Comitati nazionali e locali; questi ultimi, promossi dai maggiorenti del posto o dallo stesso Sindaco, presero vita praticamente in ogni Comune, raccogliendo l'adesione delle Pro-loco, delle Associazioni, delle Società Cooperative, dei Circoli, delle Congregazioni ed orientandone l'attività verso iniziative diverse, come l'organizzazione di iniziative e manifestazioni per la raccolta di fondi destinati alle famiglie dei richiamati, l'intrattenimento dei soldati in licenza, la produzione o la raccolta di generi alimentari e di abbigliamento (specialmente indumenti di lana) destinati ai combattenti, l'assistenza ai convalescenti, l'onoranza ai caduti - le cui salme iniziavano a tornare dalle zone di guerra, e molte altre.
Soprattutto nei primi mesi fu fervida in ogni luogo l'organizzazione di intrattenimenti come concerti, recite, giochi di società, feste e altro, con il corredo di cortei, palchi, discorsi pubblici, ecc.; spesso gli intrattenimenti facevano uso di materiali omologati, generalmente banali e di qualità artistica relativa, presi sia dal repertorio più o meno classico (monologhi, romanze, commedie, arie classiche, inni, cori) variamente arrangiato ad uso popolare in marcette, farse, scenette comiche e canzonette, sia da un repertorio che si andava via via formando raccogliendo nuova iconografia e nuovi stereotipi legati all'avvenimento in corso: esempi ne furono l'Inno Interventista di Italo Compagni o il Soldato Belga morente di Palmabella258.
Erano queste iniziative che, se da un lato erano tese al nobile fine di alleviare le sofferenze dei combattenti e delle rispettive famiglie, dall'altro acceleravano il progressivo distacco tra chi la guerra la vedeva da lontano e chi la viveva sulla propria pelle. Quando costoro tornavano a casa, in licenza o in convalescenza per qualche malattia o ferita più o meno grave, vedendo questi spettacoli non potevano che trovarli insopportabili.

La pace e la memoria

 In tutta Europa, su ogni campo di battaglia, in ogni città e paese in lutto, sorsero monumenti; alcuni piccoli, alcuni grandi e altri - pochi - come a Vimy, sulla Somme e a Douaumont, immensi259. Parallelamente si alternavano in tutti i campi di battaglia cerimonie e commemorazioni; nell'autunno del 1920 il capo della Commissione imperiale per le tombe di guerra britannica scelse cinque spoglie tra i caduti senza nome sul fronte occidentale, di questi cinque venne affidato al tenente colonnello Henry Williams il compito di sceglierne uno da inumare a Londra per consentire a centinaia di migliaia di parenti e amici di avere un luogo dove ricordare e pregare per i propri cari dispersi in battaglia. La salma fu scortata per tutto il nord della Francia, poi il feretro salpò per la Gran Bretagna a bordo del cacciatorpediniere Verdun, e l'11 novembre 1920 ebbe luogo a Londra la solenne cerimonia funebre del Milite Ignoto260.
Una dopo l'altra le tombe del Milite Ignoto vennero inaugurate in tutti i paesi partecipanti al conflitto appena concluso. I tedeschi ne eressero uno a Tannenberg nel 1927 e uno al Neue Wache di Berlino nel 1931, a Parigi venne posizionata la tomba del Milite Ignoto alla base dell'Arco di Trionfo261, in Italia venne affidata a Maria Bergamas, la madre del volontario irredento Antonio Bergamas disperso in combattimento, la scelta di una salma tra undici bare di soldati non identificati caduti in vari fronti di battaglia. La bara prescelta fu deposta in un carro ferroviario che sfilò in tutta Italia fino a Roma dove il 4 novembre 1921 fu prima deposta nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, per poi essere traslata negli anni trenta al Vittoriano262.
Su tutti i campi di battaglia nacquero cimiteri di guerra gestiti dalle commissioni di guerra dei diversi paesi, che diventarono meta di pellegrinaggio per chi era alla ricerca di un proprio caro o per commemorare un camerata. Non passò anno senza che si celebrasse qualche toccante cerimonia o si inaugurasse un monumento263 Queste cerimonie ebbero uno stop durante il secondo conflitto mondiale, quando molti dei campi di battaglia della prima guerra mondiale vennero occupati dai tedeschi, ma dopo la fine del conflitto ripresero e ogni anno si ripetono in tutti i paesi coinvolti nel conflitto.

Bibliografia
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    •    Ennio Di Nolfo, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici – La politica internazionale dal XX secolo ad oggi, 5ª edizione, Roma-Bari, Laterza, 2011. ISBN 978-88-420-8495-2
    •    Franco Favre, La Marina nella Grande Guerra, 2008, Udine, Gaspari. ISBN 978-88-7541-135-0
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    •    Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, 2009, Milano, Mondadori [1994]. ISBN 978-88-04-48470-7
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    •    Mario Silvestri, La decadenza dell'Europa occidentale, Milano, BUR, 2002, Vol. I: 1890-1933 – Dalla Belle Époque all'avvento del nazismo. ISBN 88-17-11751-X
    •    David Stevenson, La grande guerra - una storia globale, Rizzoli, 2004. ISBN 88-17-00437-5
    •    Hew Strachan, La prima guerra mondiale, una storia illustrata, 2009, Milano, Mondandori. ISBN 978-88-04-59282-2
    •    Barbara W. Tuchman, I cannoni d'agosto, 1999, Milano, Bompiani. ISBN 88-452-3712-5
    •    Sergio Valzania, Jutland, Mondadori, 2004. ISBN 88-04-51246-6
    •    Mario Vianelli; Giovanni Cenacchi, Teatri di guerra sulle Dolomiti, 1915-1917: guida ai campi di battaglia, 2006, Milano, Mondadori. ISBN 88-04-55565-3
    •    H. P. Willmott, La prima guerra mondiale, Mondadori, 2006.
    •    J. M. Winter (a cura di), Il mondo in guerra - Prima guerra mondiale, Selezione dal Reader's Digest, 1996.
Voci correlate
    •    Cronologia della prima guerra mondiale
    •    Schieramenti e armamenti nella prima guerra mondiale
    •    Personalità della prima guerra mondiale
    •    Film sulla prima guerra mondiale
Altri progetti
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Collegamenti esterni
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    •     (FR)   La stampa durante la prima guerra mondiale
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    •     (EN)   art-ww1.com, l'arte nella prima guerra mondiale, raccolta curata dall'UNESCO di opere artistiche riguardanti la prima guerra mondiale.
    •     (EN)   World War I document archive, imponente raccolta di fonti primarie sulla prima guerra mondiale.
    •     (EN)   britishpathe.com ampia raccolta di filmati della prima guerra mondiale.

 
Attentato di Sarajevo

Per attentato di Sarajevo si intende l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d'Austria-Ungheria, e sua moglie Sofia durante una visita ufficiale nella attuale capitale bosniaca per mano dello studente serbo Gavrilo Princip, membro della Mlada Bosna (Giovane Bosnia), un gruppo politico che mirava all'unificazione di tutti gli "jugoslavi" (Slavi del sud)1.

 Il 28 giugno 1914, nel giorno di San Vito noto anche come Vidovdan, giorno di solenni celebrazioni e festa nazionale serba2, l'Arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia, furono colpiti a morte da alcuni colpi di pistola sparati dal diciannovenne Gavrilo Princip.
Il gesto fu utilizzato dal governo di Vienna come il casus belli che diede formalmente inizio alla prima guerra mondiale. Dopo appena un mese dall'uccisione dei due, il 28 luglio l'Austria-Ungheria dichiarò guerra alla Serbia3, il conflitto che era alle porte sarebbe stato senza precedenti nella storia e avrebbe richiesto la mobilitazione di oltre 70 milioni di uomini e la morte di oltre 9 milioni di soldati e almeno 5 milioni di civili4; la prima guerra mondiale era formalmente iniziata.
Antefatti
 In base a Trattato di Berlino del 1878, l'Austria-Ungheria ricevette il mandato di amministrare le province ottomane della Bosnia ed Erzegovina, mentre l'Impero Ottomano ne manteneva la sovranità ufficiale. Questo accordo portò a una serie di dispute territoriali e politiche che nel corso di diversi decenni coinvolsero Russia, Austria, Bosnia e Serbia, finché, nel 1908, l'Impero Austro-Ungarico procedette alla definitiva annessione della Bosnia Erzegovina. Le rivendicazioni panserbe spinsero un gruppo politico estremista, la Mano Nera, a progettare ed eseguire l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d'Asburgo.
 Alla fine di giugno del 1914, Ferdinando visitò la Bosnia per poter osservare delle manovre militari e partecipare all'inaugurazione di un museo a Sarajevo. Il 28 giugno era il quattordicesimo anniversario del giuramento morganatico con cui Francesco Ferdinando ottenne dall'imperatore Francesco Giuseppe il permesso di sposare la sua amata, Sofia Chotek (slava di nascita e di rango molto inferiore all'arciduca), in cambio del giuramento che i figli nati da questa unione non sarebbero mai saliti al trono. Sofia Chotek era lieta di accompagnare il marito in Bosnia e di celebrare l'anniversario lontano dalla corte di Vienna, dove veniva trattata con sufficienza.
Francesco Ferdinando era considerato un sostenitore del trialismo, in base al quale l'Austria-Ungheria sarebbe stata riorganizzata riunendo le terre slave dell'Impero Austro-Ungarico sotto una terza corona. Un regno slavo avrebbe potuto fungere da baluardo contro l'irredentismo serbo e Francesco Ferdinando venne quindi percepito come una minaccia da questi stessi irredentisti. Princip dichiarò alla corte che impedire le progettate riforme di Francesco Ferdinando fu una delle sue motivazioni.
Il 28 giugno, giorno dell'uccisione, corrisponde al 15 giugno del calendario giuliano, festa di San Vito. In Serbia, viene chiamato Vidovdan e vi si commemora la battaglia della Piana dei merli del 1389 contro gli ottomani, durante la quale il sultano venne assassinato nella sua tenda da un serbo; è un'occasione per le cerimonie patriottiche serbe.

L'assassinio

 I sette giovani cospiratori erano inesperti con le armi, e fu solo grazie a una straordinaria sequenza di eventi che ebbero successo. Attorno alle 10:00 Francesco Ferdinando, sua moglie e i loro accompagnatori, partirono dal campo militare di Filipovic, dove avevano effettuato una rapida rivista delle truppe. La colonna era composta da sette automobili:
      1.       Nella prima: l'ispettore capo di Sarajevo e tre altri agenti di polizia.
      2.       Nella seconda: Il sindaco di Sarajevo, Fehim Efendi Curcic; il commissario di polizia di Sarajevo, dottor Edmund Gerde.
      3.       Nella terza: Francesco Ferdinando; sua moglie Sofia; il governatore generale di Bosnia Oskar Potiorek; la guardia del corpo di Francesco Ferdinando, il tenente colonnello conte Franz von Harrach.
      4.       Nella quarta: il capo della cancelleria militare di Francesco Ferdinando, barone Carl von Rumerskirch; la damigella di Sofia, contessa Wilma Lanyus von Wellenberg; l'aiutante capo di Potiorek, tenente colonnello Erich Edler von Merizzi; il tenente colonnello conte Alexander Boos-Waldeck.
      5.       Nella quinta: Adolf Egger, direttore dello stabilimento Fiat di Vienna; il maggiore Paul Höger; il colonnello Karl Bardolff; e il dottor Ferdinand Fischer.
      6.       Nella sesta: il barone Andreas von Morsey; il capitano Pilz; altri membri dello staff di Francesco Ferdinando e ufficiali bosniaci.
      7.       Nella settima: il maggiore Erich Ritter von Hüttenbrenner; il conte Josef zu Erbach-Fürstenau; il tenente Robert Grein.
Alle 10:15 il corteo passò davanti al primo membro del gruppo, Mehmed Mehmedbašić. Costui si era piazzato a una finestra di un piano alto, ma in seguito sostenne che non riuscì ad avere il bersaglio libero e decise di non sparare per non mandare all'aria la missione allertando le autorità. Il secondo membro, Nedeljko Čabrinović, lanciò una bomba (o un candelotto di dinamite, secondo alcuni resoconti) contro l'auto di Francesco Ferdinando, ma la mancò.
L'esplosione distrusse l'auto che stava immediatamente dietro, ferendo gravemente i suoi occupanti, un poliziotto e diverse persone che stavano nella folla. Čabrinović inghiottì la sua pillola di cianuro e si gettò nelle basse acque del fiume Miljacka. Il corteo accelerò in direzione del municipio, e sulla scena scoppiò il caos.
La polizia trascinò Čabrinović fuori dal fiume, ed egli venne picchiato duramente dalla folla prima di venire preso in custodia. La sua pillola di cianuro era vecchia o con un dosaggio troppo debole e non funzionò. Il fiume era profondo solo 10 centimetri e non riuscì ad affogarvisi. Alcuni degli altri assassini, o perché presunsero che Francesco Ferdinando era stato ucciso, o perché persero i nervi, abbandonarono la scena.
Arrivando al municipio per un ricevimento programmato, Francesco Ferdinando mostrò comprensibili segni di stress, interrompendo un discorso di benvenuto preparato dal sindaco Curcic per protestare: "Veniamo qui e la gente ci tira addosso delle bombe". L'arciduca si calmò e il resto del ricevimento fu teso ma senza incidenti. Funzionari e membri del seguito dell'arciduca discussero su come guardarsi da un altro tentativo di uccisione senza giungere a una conclusione coerente.
Un suggerimento perché le truppe di stanza fuori dalla città venissero schierate lungo le strade, sembra venne respinto perché i soldati non si erano portati le loro uniformi da parata alle manovre. La sicurezza venne quindi lasciata alla piccola forza di polizia di Sarajevo. L'unica ovvia misura presa fu che uno degli aiutanti militari di Francesco Ferdinando prendesse una posizione protettiva sulla predella sinistra della sua autovettura. Ciò è confermato dalle fotografie della scena fuori dal municipio.
I cospiratori restanti erano stati ostruiti dalla folla densa, e sembrò che il piano per l'assassinio fosse fallito. Comunque, dopo il ricevimento al municipio, Francesco Ferdinando decise di recarsi all'ospedale per visitare i feriti dalla bomba di Čabrinović.
Nel frattempo, Gavrilo Princip era andato in un vicino negozio di alimentari, o perché aveva rinunciato o perché riteneva che l'attacco con la bomba avesse avuto successo. Uscendo vide l'auto aperta di Francesco Ferdinando tornare indietro dopo aver sbagliato a svoltare, nei pressi del Ponte Latino.
 L'autista, Franz Urban, non era stato avvisato del cambio di programma e aveva proseguito lungo il percorso che avrebbe portato l'arciduca e il suo seguito direttamente fuori dalla città.
Avanzando verso il lato destro della vettura, Princip esplose due colpi della sua pistola semiautomatica, una Browning FN Modello 1910 calibro 7,65×17 mm di fabbricazione belga. Il primo proiettile trapassò la fiancata del veicolo e colpì Sofia all'addome, mentre il secondo colpì Francesco Ferdinando al collo, dove non era protetto dal giubbetto antiproiettile che indossava. Princip sostenne in seguito che la sua intenzione era di uccidere il governatore generale Potiorek, e non Sofia.
Entrambe le vittime rimasero sedute dritte sull'auto, ma morirono mentre venivano portate alla residenza del governatore per i soccorsi. Le ultime parole di Francesco Ferdinando dopo essere stato colpito vennero riportate da von Harrach come le seguenti "Sofia cara, non morire! Resta in vita per i nostri figli!" ("Sopherl! Sopherl! Sterbe nicht! Bleibe am Leben für unsere Kinder!")
Princip cercò di togliersi la vita, prima ingerendo cianuro, e quindi con la sua pistola, ma vomitò il veleno apparentemente inefficace, e la pistola gli venne strappata di mano dai passanti prima che avesse la possibilità di esplodere un altro colpo.
Delle rivolte anti-serbe scoppiarono a Sarajevo nelle ore successive all'assassinio, fino a quando non venne ristabilito militarmente l'ordine.

Conseguenze
 
L'assassinio dell'erede al trono dell'Impero Austro-Ungarico e della moglie produsse un grande shock in tutta Europa, e inizialmente ci fu molta simpatia per la posizione austriaca. Il governo di Vienna vide in ciò la possibilità di sistemare una volta e per tutte la percepita minaccia proveniente dalla Serbia.
Dopo aver condotto un'indagine sul crimine, verificato che la Germania avrebbe onorato la sua alleanza militare, e persuaso lo scettico conte ungherese Tiza, l'Austria-Ungheria inviò una lettera formale al governo serbo. La lettera ricordava alla Serbia il suo impegno a rispettare la decisione delle grandi potenze circa la Bosnia-Erzegovina, e a mantenere rapporti di buon vicinato con l'Austria-Ungheria. La lettera conteneva anche richieste specifiche che miravano a distruggere il finanziamento e il funzionamento delle organizzazioni terroristiche che presumibilmente avevano portato all'oltraggio di Sarajevo.
La Gräf & Stift Bois De Boulogne double phaeton del 1911 sulla quale viaggiava l'arciduca Francesco Ferdinando. Il foro lasciato dal proiettile che uccise Sofia è visibile sopra la ruota posteriore.
Questa lettera divenne nota come Ultimatum di luglio (v. Crisi di luglio), e l'Austria-Ungheria dichiarò che se la Serbia non avesse accettato tutte le richieste entro 48 ore, avrebbe ritirato il suo ambasciatore a Belgrado. Dopo aver ricevuto un telegramma di sostegno dalla Russia, la Serbia mobilitò il suo esercito e rispose alla lettera accettando i punti 8 e 10 nella loro interezza, e accettando parzialmente, rispondendo diplomaticamente o disingenuamente, o rigettando educatamente, parti del preambolo, i punti dall'1 al 7 e il punto 9. I difetti della risposta serba vennero pubblicati dall'Austria-Ungheria e possono essere visti a pagina 364 de "Origins of the War", Vol. 2 di Albertini, con le lamentele austriache poste a fianco delle risposte serbe. L'Austria-Ungheria rispose rompendo le relazioni diplomatiche.
Dei riservisti serbi che venivano trasportati lungo il Danubio su dei vaporetti, in modo apparentemente accidentale finirono nella parte Austro-Ungarica del fiume a Temes-Kubin, e i soldati Austro-Ungarici spararono in aria come avvertimento. Questo incidente venne gonfiato a dismisura e l'Austria-Ungheria dichiarò quindi guerra e mobilitò il suo esercito il 28 luglio 1914. In base al Trattato Segreto del 1892, Russia e Francia erano obbligate a mobilitare i propri eserciti se qualsiasi nazione della Triplice Alleanza si fosse mobilizzata e ben presto tutte le grandi potenze, con l'eccezione dell'Italia, avevano scelto la propria parte ed erano entrate in guerra.
I cospiratori che erano sotto i venti anni di età al momento dell'assassinio vennero condannati alla prigione, invece che alla pena capitale. Tre di essi (Danilo Ilić, Mihaijlo Jovanović e Veljko Čubrilović) vennero impiccati. Čabrinović e Princip morirono di tubercolosi in carcere. Alcune figure minori vennero prosciolte.
È possibile sostenere che questo episodio mise in moto gran parte dei principali eventi del XX secolo, con dei riverberi che si addentrano nel XXI. Il Trattato di Versailles alla fine della prima guerra mondiale, viene generalmente collegato alla salita al potere di Adolf Hitler e alla seconda guerra mondiale. Esso portò anche al successo della Rivoluzione russa che porterà poi alla Guerra Fredda. Questa a sua volta, diede origine a molti importanti sviluppi politici del XX secolo, come la caduta degli imperi coloniali e l'ascesa degli USA e dell'URSS allo status di superpotenze.
A ogni modo, se l'assassinio non fosse avvenuto, è probabile che una guerra generale europea si sarebbe comunque avuta, innescata da un altro evento in un momento diverso. Le alleanze delineate in precedenza e l'esistenza di vasti e complessi piani di mobilitazione che era quasi impossibile fermare una volta avviati, resero la guerra su vasta scala sempre più probabile fin dagli inizi del XX secolo.
All'indomani dell'attentato il giornalista Edouard Helsey andò a intervistare l'ambasciatore francese a Vienna, Crozier. «Deploro questo sanguinoso avvenimento - affermò il diplomatico, - ma so che il fatto assicurerà la pace in Europa per più di mezzo secolo».

Bibliografia
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    •     W.A. Dolph Owings, The Sarajevo Trial, Documentary Publications, Chapel Hill N.C., 1984
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    •     Wolf Sören Treusch,  Erzherzog Franz Ferdinand und seine Gemahlin werden in Sarajevo ermordet, DLF, Berlin,

Crisi di luglio


Data
28 giugno - 4 agosto 1914
Luogo
Europa


    •     28 giugno: nell'attentato di Sarajevo muore l'erede al trono d'Austria-Ungheria Francesco Ferdinando.

    •     6 luglio: l'Austria-Ungheria ottiene dalla Germania l'assenso ad attaccare la Serbia.

    •     14 luglio: il generale austro-ungarico Conrad dichiara che l'Austria-Ungheria non è pronta ad attaccare immediatamente la Serbia.

    •     23 luglio: l'Austria-Ungheria consegna l'ultimatum alla Serbia.

    •     25 luglio: la Serbia rifiuta alcune clausole dell'ultimatum e mobilita (ore 15.00) l'esercito.

    •     25 luglio: ore 21.23, l'Austria-Ungheria mobilita parte dell'esercito contro la Serbia

    •     28 luglio: l'Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia.

    •     29 luglio: la Russia mobilita parte dell'esercito contro l'Austria-Ungheria.

    •     30 luglio: ore 17.00, la Russia mobilita completamente l'esercito.

    •     31 luglio: ore 13.00, l'Austria-Ungheria mobilita l'esercito. La Germania consegna l'ultimatum alla Francia e alla Russia. Il Belgio mobilita alle ore 19.00.

    •     1º agosto: la Francia mobilita l'esercito a partire dalla ore 16.00. La Germania mobilita alle ore 17.00 e dichiara guerra alla Russia.

    •     3 agosto: la Germania dichiara guerra alla Francia. L'Italia proclama la sua neutralità.

    •     4 agosto: dopo l'invasione tedesca del Belgio, la Gran Bretagna dichiara guerra alla Germania.

 La crisi di luglio fu la grave crisi politica e diplomatica che precedette e segnò l'inizio della prima guerra mondiale. Scaturì dall'assassinio dell'erede al trono d'Austria-Ungheria Francesco Ferdinando avvenuto il 28 giugno del 1914. Dell'attentato il governo di Vienna ritenne responsabili alcuni militari e funzionari della Serbia.
Nei giorni che seguirono, la Germania, convinta di poter localizzare il conflitto, pressò l'alleato austro-ungarico affinché aggredisse al più presto la Serbia. Solo la Gran Bretagna avanzò una proposta di conferenza internazionale che non ebbe seguito, mentre le altre nazioni europee si preparavano lentamente al conflitto. Quasi un mese dopo l'assassinio di Francesco Ferdinando, l'Austria-Ungheria inviò un duro ultimatum alla Serbia che venne rifiutato. Di conseguenza, il 28 luglio 1914, l'Austria-Ungheria dichiarò guerra al Regno di Serbia determinando l'irrimediabile acuirsi della crisi e la progressiva mobilitazione delle potenze europee per il gioco delle alleanze tra i vari stati.
La Russia, in nome dell'amicizia etnica con la Serbia, iniziò la mobilitazione del proprio esercito. Allarmata dalla mobilitazione della Russia, la Germania le dichiarò guerra il 1º agosto 1914 e, seguendo lo schema strategico-operativo del piano Schlieffen, due giorni dopo dichiarò guerra anche alla Francia. La crisi terminò con la dichiarazione di guerra della Gran Bretagna alla Germania che aveva invaso il Belgio (4 agosto) e con la consapevolezza che la diplomazia aveva ormai lasciato il posto alle armi.

Antefatti e contesto storico

Nel 1878, dopo molti secoli di dominazione, i turchi erano stati cacciati dalla Bosnia e l'Austria ne aveva assunto l'amministrazione grazie al trattato di Berlino. Nel 1908, a seguito di un cambio di rotta della sua politica estera, l'Austria ne proclamò anche l'annessione mortificando le ambizioni nazionaliste serbe3. Tale annessione provocò la cosiddetta "crisi bosniaca" durante la quale Austria e Germania da un lato e Russia e Serbia dall'altro si fronteggiarono pericolosamente sulla validità o meno dell'azione di Vienna. La grave tensione, dopo la minaccia tedesca di arrivare alla guerra, si sciolse con il riconoscimento russo dell'annessione austriaca, e con l'impegno della Serbia a tenere un atteggiamento amichevole con l'Austria.
A seguito della crisi bosniaca e delle alleanze precedentemente stipulate, nel 1914 l'Europa era divisa in due blocchi politici. Il primo, al centro del continente, era costituito dalla Germania e dall'Austria strettamente alleate tra loro e unite all'Italia dal debole legame della Triplice alleanza. Il secondo era invece formato dalla Russia, che era legata sia alla Serbia da un rapporto di amicizia basato sulla comune etnia slava, sia alla Francia dalla Duplice intesa stipulata nel 1894. La Gran Bretagna, ufficialmente libera da vincoli di alleanza, a seguito del riarmo tedesco aveva eliminato ogni motivo di attrito con la Russia (Accordo per l'Asia del 1907) e con la Francia (Entente cordiale del 1904) e poteva, quindi, considerarsi appartenente al secondo blocco. Di conseguenza, gli imperi di Austria e Germania erano quasi interamente circondati da nazioni potenzialmente ostili: la Serbia a sud-est, la Russia a est, la Francia a ovest e la Gran Bretagna a nord-ovest.

Giovane Bosnia e Mano Nera

Effetto dell'annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina del 1908 fu la nascita e il consolidamento di alcuni movimenti politici slavi rivoluzionari fra cui la "Giovane Bosnia", un'organizzazione serba formata principalmente da intellettuali fra i quali militava Gavrilo Princip, nato in Bosnia. Quando questi, diciannovenne, nel marzo del 1914, seppe che l'erede al trono d'Austria-Ungheria Francesco Ferdinando si sarebbe recato in visita in Bosnia, concepì l'idea di assassinarlo. Princip coinvolse nel complotto alcuni amici ed ottenne un importante aiuto da parte del maggiore dell'esercito serbo Voijslav Tankošić personaggio di spicco dell'organizzazione "Mano Nera". Questo movimento, nato nel 1911, rispondeva al nome ufficiale di "Unione o Morte" (in serbo Ujedinjenje ili smrte) e aveva come scopo la fusione fra la Serbia e la Bosnia4.
La Mano Nera era presente in modo considerevole nelle forze armate serbe e la sua figura dominante, Dragutin Dimitrijević, nel 1903 aveva fatto assassinare il re Alessandro I accusato di una politica troppo filo-austriaca. Dimitrijević era impegnato in un aspro conflitto con il Primo ministro Nikola Pašić nazionalista come lui, ma più prudente. Pašić, con molta probabilità, venne a sapere che dei rivoluzionari armati in Serbia avevano passato il confine con la Bosnia. Egli, tuttavia, negò sempre di avere avuto conoscenza del reale obiettivo dell'azione5.

L'attentato di Sarajevo - 28 giugno

Domenica 28 giugno 1914, il bosniaco Gavrilo Princip riuscì ad assassinare a Sarajevo l'erede al trono d'Austria-Ungheria, l'arciduca Francesco Ferdinando e la sua consorte Sofia di Hohenberg, venendo immediatamente arrestato.
Le reazioni in Europa furono abbastanza tiepide nella maggior parte dei casi. Il presidente francese Raymond Poincaré, raggiunto dalla notizia, non rinunciò alle corse di cavalli alle quali stava assistendo. In Austria, a causa delle idee anti-ungheresi dell'arciduca, la notizia provocò addirittura sollievo in alcuni ambienti. A Londra, i mercati azionari aprirono al ribasso per poi recuperare alla constatazione che le altre borse europee tenevano bene. L'ambasciatore britannico a Roma riferì che la stampa italiana aveva ufficialmente condannato il crimine ma «la gente ha considerato quasi provvidenziale l'eliminazione del compianto arciduca»6. Tuttavia l'indignazione per l'accaduto e i timori di una cospirazione serba ispirarono violente manifestazioni anti-serbe a Vienna e Brno. Da Budapest il console generale britannico riferì:
« Un'ondata di odio cieco contro la Serbia e tutto ciò che è serbo si è abbattuta sul paese7. »
Nei giorni successivi la tensione andò aumentando: il ministro degli esteri austriaco Leopold Berchtold e il capo di stato maggiore Conrad von Hötzendorf videro nell'attentato l'occasione per ridimensionare il potere della Serbia. Non avevano ancora ben chiaro se annetterla tutta o in parte, oppure sconfiggerla con le armi ed esigere, anziché territori, un forte indennizzo8. Francesco Giuseppe era invece titubante: temeva che l'attacco austriaco avrebbe coinvolto altre potenze, in particolare la Russia, la quale si sarebbe sentita costretta, in nome del panslavismo, ad accorrere in aiuto della Serbia9. Altrettanto esitante era il Primo ministro ungherese István Tisza sul quale, Il 1º luglio, Conrad annotò:
« Tisza è contrario alla guerra con la Serbia; è preoccupato, teme che la Russia ci attacchi e la Germania ci pianti in asso10 »
Invece l'imperatore di Germania Guglielmo II, amico dell'arciduca, ebbe una reazione inizialmente bellicosa. Egli aveva infatti immaginato di guidare alla morte dell'anziano Francesco Giuseppe le sorti dell'Europa con l'erede di quest'ultimo, Francesco Ferdinando11. Il Kaiser che era ritornato a Berlino da Kiel, dove aveva ricevuto la notizia dell'assassinio mentre era impegnato in una regata velica, scrisse a margine di un telegramma inviatogli il 30 giugno:
« Bisogna sistemare una volta per tutte i serbi, e subito!12 »

L'"assegno in bianco" della Germania - 5/6 luglio

Le relazioni tra Vienna e Belgrado erano molto tese da anni, specie dopo le guerre balcaniche. Inoltre, l'errata convinzione che Francia e Russia avrebbero esitato ad entrare in guerra per la Serbia, condusse parte dei vertici di Germania e Austria-Ungheria a considerare seriamente, ai primi di luglio, la possibilità di punire e umiliare subito Belgrado.
Il 5 luglio 1914, l'inviato del ministro degli esteri austriaco Leopold Berchtold, conte Alexander Hoyos, incontrò a Berlino il sottosegretario agli esteri tedesco Arthur Zimmermann. In questa occasione Hoyos parlò espressamente di guerra, di eliminare la Serbia dalla carta geografica e di dividerne le spoglie fra i paesi confinanti. Le sue tesi furono accolte con molta attenzione13.
Nel frattempo, a Potsdam, l'ambasciatore austriaco a Berlino, Ladislaus von Szögyény-Marich consegnò a Guglielmo II dei documenti ricevuti da Hoyos. Si trattava di due atti: un memoriale del Primo ministro d'Ungheria István Tisza, scritto prima del 28 giugno dal contenuto moderato, ma al quale Berchtold aveva aggiunto un poscritto molto aggressivo nei confronti della Serbia; e una dura lettera autografa di Francesco Giuseppe che, rivolgendosi direttamente a Guglielmo II, auspicava l'eliminazione della Serbia «come fattore politico dai Balcani»14.
Durante la fase iniziale di quest'ultimo incontro, Guglielmo non si sbilanciò, ma dopo colazione, su insistenza dell'ambasciatore austriaco a prendere posizione, dichiarò che non si doveva differire un'azione contro la Serbia, che la Russia sarebbe stata ostile e che, anche se si fosse arrivati ad una guerra fra Austria e Russia, la Germania si sarebbe schierata al fianco dell'alleato. Aggiunse, tuttavia, che la Russia non era pronta ad una guerra ed avrebbe esitato molto prima di ricorrere alle armi. Per questo bisognava agire subito15.
Il giorno dopo, il 6 luglio, questa di Guglielmo risultò anche la versione ufficiale della Germania: l'Austria doveva battere rapidamente la Serbia in modo da mettere l'Europa di fronte al fatto compiuto16. Fu il cosiddetto "assegno in bianco" che la Germania staccò all'Austria.

Le resistenze di Tisza a Vienna
 Ottenuto il consenso e anzi l'incitamento della Germania ad attaccare la Serbia, il 7 luglio si riunirono gli otto membri del gabinetto di guerra austro-ungarico per esaminare l'offerta di aiuto avanzata dal Kaiser Guglielmo II. Berchtold, che presiedeva la riunione, propose di attaccare immediatamente la Serbia, senza neppure dichiarare guerra17.
Fra i componenti dell'esecutivo, l'orientamento prevalente era favorevole ad un intervento militare ed a un ridimensionamento territoriale della Serbia, che sarebbe stata posta sotto controllo dell'Austria. L'unico a protestare fu István Tisza che il giorno successivo inviò una lettera all'imperatore precisando che un intervento contro la Serbia avrebbe provocato una guerra mondiale e che avrebbe spinto non solo la Russia, ma anche la Romania a schierarsi contro l'Austria18. Secondo Tisza, Vienna avrebbe dovuto invece preparare un elenco di richieste accettabili che, se non fossero state soddisfatte dalla Serbia, avrebbero portato ad un ultimatum. Tisza aveva potere di veto e si mantenne sulla sua posizione per una settimana. Poi, nel timore che la Germania avrebbe potuto abbandonare l'Austria, accettò l'idea intermedia di un ultimatum subito19.

Sfuma l'effetto sorpresa: l'ottimismo britannico - 9/23 luglio

Mentre questi erano gli avvenimenti che si consumavano a Vienna, a Londra Sir Arthur Nicolson, consigliere del ministro degli esteri Edward Grey, il 9 luglio inviò una comunicazione all'ambasciatore britannico a Vienna Maurice de Bunsen (1852-1932) nella quale dubitava di un eventuale intervento austriaco. Fuori dall'Austria-Ungheria, poiché alla Serbia non era stato consegnato ancora un ultimatum, la sensazione dell'imminenza di una crisi si stava infatti attenuando. Invece, il desiderio dell'Austria di infliggere una punizione alla Serbia era ancora forte ed era sorretto dalla fiducia che la Germania avrebbe appoggiato un'azione di rappresaglia21.
L'Austria-Ungheria, tuttavia, continuò a non poter agire, nonostante il ministro István Tisza non fosse quasi più un ostacolo e le gerarchie militari tedesche fossero pronte alla guerra22. Il capo di Stato Maggiore austriaco Franz Conrad von Hötzendorf il 14 luglio si dichiarò infatti contrario ad un'azione militare prima del 25 (data di scadenza di un congedo generale che era stato concesso per provvedere al raccolto agricolo). Né un annullamento del congedo risultava fattibile, dato che avrebbe smascherato le intenzioni di Vienna23. Era comunque ormai troppo tardi per lanciare un attacco austriaco a sorpresa e la diplomazia tedesca si mosse affinché si potesse localizzare il futuro conflitto. Il 19 luglio, il ministro degli esteri di Berlino, Gottlieb von Jagow, fece pubblicare sul giornale Norddeutsche Allgemeine Zeitung una sua nota in cui ammoniva che
« La composizione della disparità di vedute che potrebbero sorgere fra Austria-Ungheria e Serbia deve restare una faccenda di carattere locale. »
 Tre giorni dopo, dichiarazioni ufficiali sulla posizione della Germania in merito furono inviate a Russia, Gran Bretagna e Francia24. Le condizioni dell'ultimatum vennero definite a Vienna lo stesso 19 luglio; tutti i presenti alla seduta del Consiglio dei ministri austriaco, compreso il generale Conrad, erano consapevoli che la Serbia avrebbe respinto le condizioni e che il passo successivo sarebbe stato un attacco militare. Conrad era il più convinto assertore della guerra, da cui si aspettava conquiste territoriali alla frontiera con la Bosnia25.
In Francia, intanto, il Presidente della Repubblica Poincaré e il suo Presidente del Consiglio René Viviani erano partiti per un viaggio in Russia. I capi delle due potenze alleate si sarebbero trovati quindi insieme il 21 e agevolati nel concertare una risposta alle eventuali mosse dell'Austria. Per non fornire questo vantaggio, ottenute le informazioni sul ritorno a Parigi della delegazione francese, Berchtold programmò di presentare l'ultimatum alla Serbia il 23 luglio, con scadenza il 25 luglio2627.
Il 21 luglio Francesco Giuseppe diede il proprio assenso alle condizioni dell'ultimatum, e il giorno seguente il ministro degli esteri russo, Sergej Dmitrievič Sazonov, cominciò a mettere in guardia l'Austria dal prendere misure drastiche, anche se il monito non accennava a ritorsioni militari28.
Più ottimista, il 23 luglio, David Lloyd George che annunciò alla Camera dei Comuni che non ci sarebbero stati problemi tra le nazioni a regolare le difficoltà attraverso «qualche sana e ben congegnata forma di arbitrato». Le relazioni con la Germania erano le migliori degli ultimi anni, osservò29.

L'ultimatum austriaco alla Serbia - 23 luglio
 
Ottenuto anche il consenso di Francesco Giuseppe, nel pomeriggio del 23 luglio 1914, l'ambasciatore austriaco a Belgrado, il barone Wladimir Giesl Freiherr von Gieslingen, consegnò al governo serbo l'ultimatum dell'Austria e rimase in attesa della risposta che doveva arrivare non oltre le 18:00 del 25 luglio.

Il testo
 Dopo una lunga premessa nella quale l'Austria accusò la Serbia di aver disatteso la dichiarazione d'intenti rivolta alle grandi potenze alla fine della crisi bosniaca, il governo di Vienna intimò a quello di Belgrado di far pubblicare sulla "Rivista ufficiale" serba del 26 luglio una nuova dichiarazione, di cui riportava il testo. Essa impegnava la Serbia a condannare la propaganda anti-austriaca, riconosceva la complicità di funzionari e ufficiali serbi nell'attentato di Sarajevo e impegnava Belgrado a perseguire per il futuro con il massimo rigore tali macchinazioni.
Il governo serbo si doveva impegnare inoltre:
« 1. A sopprimere qualsiasi pubblicazione che inciti all'odio e al disprezzo nei confronti della monarchia austro-ungarica […];
 2. A sciogliere immediatamente la società denominata Narodna Odbrana e confiscarne tutti i mezzi di propaganda, nonché a procedere in ugual modo contro altre società e loro branche in Serbia coinvolte in attività di propaganda contro la monarchia austro-ungarica [...];
 3. A eliminare senza ulteriore indugio dalla pubblica istruzione del proprio paese [...] qualunque cosa induca o potrebbe indurre a fomentare la propaganda contro l'Austria-Ungheria;
 4. A espellere dall'apparato militare e dalla pubblica amministrazione tutti gli ufficiali e i funzionari colpevoli di propaganda contro la monarchia austro-ungarica i cui nomi e le cui azioni il governo austro-ungarico si riserva il diritto di comunicare al Regio governo [serbo];
 5. Ad accettare la collaborazione in Serbia di rappresentanti del governo austro-ungarico per la soppressione del movimento sovversivo diretto contro l'integrità territoriale della monarchia [austro-ungarica];
 6. Ad adottare misure giudiziarie contro i complici del complotto del 28 giugno che si trovano sul territorio serbo; delegati del governo austro-ungarico prenderanno parte all'indagine a ciò attinente;
 7. A provvedere con la massima urgenza all'arresto del maggiore Voijslav Tankošić e di un funzionario serbo a nome Milan Ciganović, che i risultati delle indagini dimostrano coinvolti nella cospirazione;
 8. A prevenire con misure efficaci la cooperazione delle autorità serbe al traffico illecito di armi ed esplosivi oltre frontiera, a licenziare e punire severamente i funzionari dell'ufficio doganale di Schabatz e Loznica, rei di avere assistito i preparatori del crimine di Sarajevo agevolandone il passaggio oltre frontiera;
 9. A fornire all'Imperial regio governo [austro-ungarico] spiegazioni in merito alle ingiustificate espressioni di alti ufficiali serbi […] i quali [...] non hanno esitato sin dal crimine del 28 giugno a esprimersi pubblicamente in termini ostili nei confronti del governo austro-ungarico; e infine;
 10. A notificare senza indugio all'Imperial regio governo [austro-ungarico] l'adozione delle misure previste nei precedenti punti30. »
Il governo austriaco attendeva la risposta del governo serbo entro le ore 6 pomeridiane di sabato 25 luglio. Il testo lasciava, come si vede, ampio margine d'azione all'Austria-Ungheria, benché tutto facesse pensare, in caso di inadempienza serba, alle estreme conseguenze.

Le reazioni all'ultimatum austriaco - 23/27 luglio

Quando il testo dell'ultimatum si diffuse, fra i governi d'Europa si ebbero varie reazioni. A Londra il ministro degli esteri Edward Grey dopo aver letto l'ultimatum austriaco lo definì
« il documento più duro che uno Stato abbia mai indirizzato ad un altro Stato31. »
 e ingenuamente chiese il sostegno tedesco per un rinvio dei termini proponendo che Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia facessero da mediatori della crisi. Azione analoga fu intrapresa dal ministro degli esteri russo Sergej Dmitrievič Sazonov il cui ambasciatore a Vienna ricevette, il 24 luglio, l'assicurazione da Berchtold che l'Austria-Ungheria non si proponeva «alcuna acquisizione territoriale»32.
Come i governi di Vienna e Berlino avevano calcolato, la Francia non poté reagire adeguatamente all'ultimatum. Il presidente Poincaré e il Primo ministro nonché ministro degli esteri René Viviani erano infatti ancora in navigazione nel viaggio di ritorno da San Pietroburgo33.
Il reggente di Serbia Alessandro Karađorđević (figlio di re Pietro I di Serbia che aveva abbandonato il potere per motivi di salute) si presentò a tarda sera del 23 luglio all'ambasciata russa a Belgrado «ad esprimere la sua disperazione per l'ultimatum, al quale egli non vede possibilità di aderire interamente per uno Stato che abbia un minimo di dignità»34.
Il ministro Sazonov, d'accordo affinché la Serbia non cedesse in tutto ma non ancora pronto alla guerra, la mattina del 24 dopo la riunione del Consiglio dei ministri, telegrafò al suo ambasciatore a Belgrado:
« [...] Varrà forse meglio che, in caso di un'invasione austriaca, i serbi non tentino di opporre resistenza, ma ripieghino, lasciando che il nemico occupi il suo territorio, e rivolgano un appello alle potenze [...]35. »
Berchtold richiamato dalla Germania
 In previsione del precipitare degli eventi, Berchtold fece comunicare la sera del 24 luglio al ministro degli esteri britannico Edward Grey che la nota austriaca non costituiva un ultimatum vero e proprio e che in caso di insoddisfazione dell'Austria-Ungheria alla risposta serba, non ci sarebbe stata che la rottura delle relazioni diplomatiche e l'inizio dei preparativi militari36.
Lo stesso giorno fu preparato anche un messaggio per San Pietroburgo (inviato il 25 luglio con un corriere) in cui il governo austriaco spiegava come non fosse spinto da motivi egoistici:
« [...] Se la lotta con la Serbia ci è imposta, non sarà per noi una lotta in vista di annessioni territoriali, ma esclusivamente un mezzo di legittima difesa e di conservazione37. »
 Venuta a conoscenza delle intenzioni dilatorie di Berchtold, la Germania si mosse e richiamò l'ambasciatore austriaco Szögyény-Marich a Berlino. Questi, tornato a Vienna, il 25 riferì a Berchtold che ad un rifiuto dell'ultimatum della Serbia la Germania si aspettava l'immediata dichiarazione di guerra dell'Austria e l'inizio delle operazioni militari, poiché ad ogni ritardo dell'inizio delle ostilità si ravvisava il grave pericolo di ingerenza di altre potenze38.
La risposta serba
La pagina della risposta ufficiale serba in cui il governo di Belgrado trattava i punti 2), 3) e 4) dell'ultimatum austriaco.
Il Primo ministro serbo Nikola Pašić e i suoi colleghi lavorarono giorno e notte, indecisi tra l'accettazione passiva dell'ultimatum e la tentazione di aggiungere condizioni o riserve che potessero consentire di sfuggire alle richieste di Vienna. Il documento finale, che a causa di un guasto alla macchina da scrivere fu ricopiato a mano, sembrò più simile ad una brutta copia che ad una risposta diplomatica ufficiale39.
Nessuna riserva fu fatta da Belgrado ai punti 8) e 10); i punti 1), 2) e 3) vennero parzialmente accettati; ma le risposte date ai punti 4), 5) e 9) erano concepite di modo da eludere le domande dell'ultimatum. Quanto al punto 7) i serbi risposero che non era stato possibile procedere all'arresto di Milan Ciganović, che invece era stato fatto allontanare proprio dalle autorità serbe. Negativa, infine, la risposta al punto 6), la partecipazione cioè del governo austro-ungarico alle investigazioni sull'attentato del 28 giugno. Tale richiesta, oltre ad essere lesiva della sovranità della Serbia, presentava il pericolo che si facesse piena luce sull'attività della Mano Nera e dei suoi temuti dirigenti40.
Alle ore 15 del 25 luglio la Serbia mobilitò l'esercito e tre ore dopo41, alle 18 meno due minuti (quindi a due minuti dalla scadenza dell'ultimatum), il Primo ministro Pašić consegnò la risposta serba all'ambasciatore austriaco, von Gieslingen, dicendo:
« Abbiamo accettato parte delle domande... Per il resto ci rimettiamo alla lealtà ed alla cavalleria del generale austriaco42. »
 Gieslingen era infatti un generale che, come tale, obbediva alle istruzioni ricevute. Egli lesse da solo e in fretta il documento e, constatato che non rispondeva alle esigenze fissate da Berchtold, firmò la nota già preparata per l'evenienza e la fece recapitare a Pašić. Nella nota si diceva che, essendo spirato il termine delle richieste consegnate al governo serbo e non avendo ricevuto una risposta soddisfacente, egli abbandonava Belgrado quella sera stessa con tutto il personale della legazione43.
Quello stesso 25 luglio, al diffondersi della notizia della rottura delle trattative fra Austria e Serbia, a San Pietroburgo lo Stato Maggiore russo avviò il "periodo di preparazione alla guerra" (primo passo per la mobilitazione) e a Parigi il governo francese richiamò segretamente in servizio i propri generali. Più distesa l'atmosfera a Londra44.
L'Austria non era quindi ancora in guerra con la Serbia e, secondo il capo di stato maggiore Conrad, non sarebbe stata in grado di procedere ad una vera e propria invasione prima di qualche settimana. La Russia era ancora più indietro nei preparativi e il 27 luglio lo zar Nicola II, se da un lato sottolineò che il paese non poteva restare indifferente al destino della Serbia, dall'altra propose di aprire negoziati con Vienna, ma gli austriaci respinsero la proposta45.
La proposta britannica di una conferenza
 Nonostante la crisi internazionale, domenica 26 luglio, il ministro degli esteri britannico Edward Grey trascorreva il week-end in campagna. A Londra, il sottosegretario Sir Arthur Nicolson telegrafò al ministro per suggerirgli di proporre alle potenze una conferenza durante la quale Austria, Serbia e Russia non avrebbero dovuto intraprendere operazioni militari46.
Grey si affrettò a telegrafare la sua adesione all'idea di Nicolson alla quale fu data esecuzione alle 15 dello stesso 26 luglio con un telegramma diretto agli ambasciatori inglesi presso le grandi potenze e la Serbia. Nel telegramma si proponeva una conferenza a Londra tra i rappresentanti di Parigi, Roma e Berlino, con Grey per la Gran Bretagna, allo scopo di «trovare il modo di impedire complicazioni»47. Il giorno dopo, tuttavia, il Ministero della Guerra britannico diede istruzioni al generale Smith-Dorrien di presidiare «tutti i punti vulnerabili» nel sud del paese48.
Le risposte alla proposta inglese furono piuttosto fredde: il Cancelliere tedesco Theobald von Bethmann-Hollweg temendo una sconfitta diplomatica non volle aderire. La Germania non sarebbe riuscita ad ottenere quello che desiderava, e cioè l'assenso ad un attacco alla Serbia che riabilitasse il prestigio austriaco. L'Italia aderì invece alla proposta, mentre la Francia tentennò fra il compiacere l'ambasciatore tedesco e l'agire direttamente sulla Russia una volta stabilita l'intenzione dell'Austria-Ungheria a non effettuare annessioni. San Pietroburgo prese tempo, date le speranze di Sazonov di venire direttamente con l'Austria ad un'intesa amichevole. In buona sostanza la proposta di Grey fallì ma allarmò la Germania per la piega moderata che poteva prendere la crisi49.

La Germania preme per la guerra

 Dopo la rottura delle relazioni diplomatiche fra Austria-Ungheria e Regno di Serbia, il governo tedesco, coerentemente con quanto stabilito il giorno prima, il 26 luglio reclamò d'urgenza all'Austria «la dichiarazione di guerra e l'inizio delle operazioni militari»50. Ciò allo scopo di scongiurare pressioni in senso contrario: bisognava cioè evitare che la crisi venisse risolta prima che le forze austriache fossero riuscite a occupare Belgrado51.
Il timore del ministro degli esteri tedesco Jagow era che, con lusinghe o con minacce, le altre potenze sarebbero potute intervenire e imporre una soluzione pacifica a Vienna. Ancora sollecitato, il ministro austriaco Berchtold fece pressione sul capo di stato maggiore Conrad che sostenne di non essere pronto, e alla domanda su quando avrebbe potuto dichiarare guerra alla Serbia, Conrad rispose: «Solo quando avremo fatto abbastanza progressi da poter iniziare le operazioni immediatamente: all'incirca il 12 agosto». Berchtold rispose che la situazione diplomatica non avrebbe retto tanto a lungo, e Conrad replicò che sarebbe stato necessario aspettare almeno fino al 4 o al 5 agosto. «Ciò è impossibile!» esclamò il ministro52.

L'Austria dichiara guerra alla Serbia - 28 luglio

 Nonostante il parere negativo del capo di stato maggiore Conrad, il governo austriaco il 28 luglio ordinò la mobilitazione parziale, esclusivamente diretta contro la Serbia; mentre l'imperatore di Germania Guglielmo II, in contrasto con quanto stabilito dal suo governo, si dichiarò disposto a fare da mediatore fra Austria e Serbia dichiarando che non c'era più alcun motivo, dopo la risposta di Belgrado all'ultimatum di Vienna, di far scoppiare una guerra. Guglielmo II aveva infatti definito la replica serba una «capitolazione oltremodo umiliante». Secondo il Kaiser, occorreva però, per costringere la Serbia a rispettare le promesse contenute nella risposta all'ultimatum, che l'Austria occupasse temporaneamente Belgrado (al di là del confine) e nulla più. Tali istruzioni del Kaiser al suo ministro degli esteri Jagow non influirono però sulla condotta dei diplomatici tedeschi a Vienna53.
Risoluto ormai ad entrare in guerra al più presto, il governo austriaco si trovò nella necessità di chiedere l'autorizzazione a Francesco Giuseppe. In un'istanza di Leopold Berchtold all'imperatore del 27 luglio, si osservò che la risposta serba, per quanto inutile nella sostanza, era stata redatta in modo conciliante e poteva suggerire all'Europa tentativi di soluzione pacifica se non si creava subito una situazione netta. Nel documento si fingeva anche la circostanza che truppe serbe da piroscafi sul Danubio avevano sparato su truppe austro-ungariche, ed occorreva dare all'esercito quella libertà d'azione che avrebbe avuto solo in caso di guerra5455.
Francesco Giuseppe accolse l'istanza di Berchtold e alle ore 12 del 28 luglio un telegramma con la dichiarazione di guerra partì per Belgrado, l'Austria dichiarò ufficialmente guerra alla Serbia, confidando nell'appoggio tedesco nel caso in cui il conflitto si fosse esteso. Era iniziata la prima guerra mondiale, ma non molti se ne resero conto56.
Lo Zar mobilita: si innesca la reazione a catena - 29/30 luglio
Il ministro degli esteri russo Sazonov sostenne la necessità della mobilitazione generale.
Appresa la sera del 28 luglio la dichiarazione di guerra dell'Austria-Ungheria alla Serbia, il ministro degli esteri russo Sergej Dmitrievič Sazonov comunicò alla sua ambasciata a Berlino che il giorno dopo il governo dello Zar avrebbe ordinato la mobilitazione nei distretti di Odessa, Kiev, Mosca e Kazan', cioè contro l'Austria57.
Così, mentre l'artiglieria austriaca teneva sotto tiro le fortificazioni serbe lungo la frontiera pronta ad aprire il fuoco in qualsiasi momento, la mattina del 29 luglio, la Russia chiamò alle armi una parte della sua enorme riserva di uomini: lo zar Nicola II non dichiarò guerra all'Austria, ma si limitò a ordinare una mobilitazione parziale di quasi sei milioni di uomini58.
Lo stesso giorno l'ambasciatore tedesco a San Pietroburgo, Friedrich Pourtalès, richiamò "molto seriamente" l'attenzione di Sazonov sul fatto che la continuazione delle misure di mobilitazione russa avrebbe obbligato la Germania alla mobilitazione e che in questo caso sarebbe stato quasi impossibile impedire la guerra europea59.
Contemporaneamente, a Potsdam, si teneva una riunione fra Guglielmo II e alcuni suoi alti ufficiali e funzionari. Ancora ignari della mobilitazione parziale russa, essi discussero sulla situazione e il Kaiser rifiutò una proposta del Cancelliere Bethmann di offrire forti limitazioni della flotta tedesca in cambio della promessa di neutralità della Gran Bretagna. Rientrato nel suo ufficio, piuttosto avvilito, Bethmann trovò anche la notizia della mobilitazione russa60.
Ad aggravare la posizione del Cancelliere, la stessa sera del 29, giunse a Berlino un telegramma dell'ambasciatore tedesco a Londra, Karl Max von Lichnowsky. Costui informava che il ministro Edward Grey aveva affermato che se la Francia fosse stata coinvolta nella guerra, la Gran Bretagna non sarebbe rimasta neutrale61.
A questo punto il Cancelliere si rese conto che il gioco stava diventando troppo pericoloso e, coerentemente con il volere di Guglielmo II, telegrafò al suo ambasciatore in Austria nella notte fra il 29 e il 30 ordinandogli, praticamente, un dietro front:
« Noi siamo pronti ad adempiere ai nostri obblighi di alleanza, ma dobbiamo rifiutare di lasciarci trascinare da Vienna, con leggerezza e senza che i nostri consigli siano ascoltati, in una conflagrazione generale62. »

L'indecisione di Nicola II

Lo zar Nicola II di Russia, convinto dai suoi generali, diede l'ordine di mobilitazione generale il 30 luglio.
La mobilitazione generale russa, il cui ordine lo zar Nicola II aveva firmato assieme a quello della mobilitazione parziale il 29 luglio, non era ancora operativa, ma si attivò allorquando si diffuse la notizia a San Pietroburgo del bombardamento austriaco di Belgrado effettuato lo stesso giorno dai pontoni sul Danubio. L'opinione pubblica russa era furente contro l'Austria; lo Zar spaventato da un conflitto con la Germania, si appellò direttamente al Kaiser telegrafandogli: «[...] ti prego in nome della nostra antica amicizia, di fare il possibile per impedire ai vostri alleati [austriaci] di oltrepassare il limite». Il telegramma si incrociò con un altro telegramma inviato dal Kaiser allo Zar: «[...] sto esercitando tutta la mia influenza per indurre gli austriaci a trattare immediatamente per arrivare ad un'intesa soddisfacente con voi»63.
Nel tardo pomeriggio del 29 luglio, confortato dal telegramma del Kaiser, Nicola II inviò ai capi di stato maggiore l'ordine di evitare la mobilitazione generale e di dare corso soltanto a quella parziale. Successivamente lo Zar ricevette un altro telegramma di Guglielmo II che invitava la Russia a restare "spettatrice del conflitto austro-serbo" e nel quale si offriva come mediatore fra Russia e Austria64.
Ciò convinse lo Zar che alle 21:30 diede ordine di sospendere la mobilitazione parziale65, ma il capo di stato maggiore Januškevič lo avvertì che ormai era troppo tardi per fare marcia indietro; il meccanismo era già in moto in tutto l'impero66.
Dal canto suo Guglielmo II non riuscì a dissuadere il proprio stato maggiore dal rispondere alla mobilitazione parziale della Russia con misura analoga e grazie ad un avvicinamento delle posizioni di militari e civili avvenuto tra il pomeriggio e la sera del 30 verso i mezzi estremi, la Germania si avviava a proclamare lo "stato di pericolo di guerra"6768.
Il 30, a San Pietroburgo, allorché giunse voce che la Germania era in pre-mobilitazione, lo Zar ricevette pesanti pressioni dal ministro della Guerra Vladimir Aleksandrovič Suchomlinov e dal ministro Sazonov affinché firmasse l'ordine di mobilitazione generale69. Nicola II esitò, fin quando, convintosi della minaccia di un imminente attacco tedesco si decise e ordinò al ministro degli esteri:
« Voi avete ragione. Non ci resta altro da fare che prepararci contro un'aggressione. Trasmettete al capo di Stato Maggiore generale i miei ordini di mobilitazione. »
 Alle ore 16 del 30 luglio lo Zar firmò l'ordine di mobilitazione generale, da attivarsi per il giorno dopo, 31 luglio70.
L'opinione pubblica russa era favorevole alla totale solidarietà verso gli slavi della Serbia, e le speranze russe - ammesso che ve ne fossero ancora - di servirsi della mobilitazione non per muovere guerra, ma come deterrente si dimostrarono illusorie71.

La mobilitazione generale austriaca - 30/31 luglio

La mattina del 30 luglio Guglielmo II ebbe la notizia della mobilitazione parziale russa. Risentito con lo Zar, al quale nei giorni precedenti aveva inviato messaggi di collaborazione, annotò: «Allora devo mobilitare anch'io!». Tale atteggiamento bellicoso influì sul capo di stato maggiore tedesco Helmuth Johann Ludwig von Moltke72 che travalicò le intenzioni del Kaiser e quelle del Cancelliere.
Moltke, infatti, in assoluto contrasto con il messaggio di Bethmann della notte tra il 29 e il 30, inviò, fra il pomeriggio e la notte del 30 al suo omologo austriaco Conrad due telegrammi, il secondo dei quali riassumeva il primo: «Tener fermo contro la mobilitazione russa. L'Austria-Ungheria deve essere preservata. Quindi mobilitare subito contro la Russia. La Germania mobiliterà. Costringere con compensi l'Italia al suo dovere di alleata»73.
Quando la mattina del 31 luglio Berchtold lesse i due telegrammi di Moltke, confrontandoli con quello del giorno prima di Bethmann, esclamò:
« Questa è bella! Chi comanda: von Moltke o Bethmann? »
 E rivolto agli altri ministri riuniti per decidere sulla minaccia della mobilitazione russa:
« Vi avevo pregato di venir qui perché avevo l'impressione che la Germania retrocedesse. Ma ora dalla fonte militare più competente ho una dichiarazione assolutamente tranquillizzante74. »
Agli occhi del ministro austriaco, dunque, Moltke contava ora più di chiunque altro in Germania e si poteva quindi procedere per la mobilitazione generale, per la quale fu deciso di sottoporre subito l'ordine a Francesco Giuseppe. Questi firmò l'atto che pervenne al Ministero della Guerra alle 12:23 del 31 luglio 191475.

La Germania in guerra

Il cancelliere Bethmann-Hollweg si schierò a favore della guerra europea solo di fronte alla mobilitazione generale russa.
Il piano Schlieffen portò la Germania alla guerra prevedendo, in caso di mobilitazione contro la Russia, un attacco alla Francia.
La notizia della mobilitazione generale russa fece il gioco del capo di stato maggiore tedesco Moltke e vinse ogni possibile esitazione di Bethmann-Hollweg e di Guglielmo II. La sequenza degli eventi che si sarebbero succeduti era prestabilita dai piani tedeschi: proclamazione dello "stato di pericolo di guerra"; ultimatum alla Russia che sarebbe stato quasi sicuramente respinto; mobilitazione e guerra76.
Bethmann comunicò il 31 luglio a Londra, San Pietroburgo, Parigi e Roma che in Germania era stato proclamato lo "stato di pericolo di guerra" e aggiunse che la mobilitazione tedesca sarebbe seguita solo se la Russia non avesse revocato la sua. Ma all'ambasciatore a Vienna Heinrich von Tschirschky telegrafò:
« Dopo la mobilitazione generale russa noi abbiamo proclamato lo "stato di pericolo di guerra"; probabilmente la mobilitazione [tedesca] seguirà entro quarantott'ore. Essa significherà inevitabilmente la guerra. Noi attendiamo dall'Austria una partecipazione attiva immediata alla guerra contro la Russia77. »
A Berlino, lo stesso 31 luglio, uno dei maggiori industriali tedeschi, Walther Rathenau pubblicò un articolo sul "Berliner Tageblatt" protestando contro la cieca lealtà della Germania verso l'Austria:
« senza lo scudo di una simile lealtà, l'Austria non si sarebbe azzardata a compiere i passi che ha compiuto78. »
A questo punto la situazione comportava per i tedeschi una guerra sia con la Russia che con la Francia. La Germania, infatti, doveva tenere conto dell'alleanza franco-russa stipulata nel 1894. Se in virtù di questa alleanza la Francia avesse riunito tutto il suo potenziale bellico e avesse dichiarato guerra alla Germania mentre le armate tedesche avanzavano in Russia, la Germania avrebbe corso il rischio di trovarsi in difficoltà, se non addirittura sconfitta ad ovest. Per scongiurare questa eventualità nel 1904 l'allora capo di stato maggiore tedesco Alfred von Schlieffen ideò il piano omonimo atto a sconfiggere la Francia con una rapida guerra attraverso il Belgio per poi rivolgere tutte le forze contro la Russia, nel frattempo impegnata nella lenta e macchinosa mobilitazione. La Germania avrebbe così evitato una logorante e pericolosa guerra su due fronti79.

L'ultimatum tedesco alla Russia
 
Il telegramma per l'ambasciatore tedesco a San Pietroburgo, Pourtalès, contenente l'ultimatum alla Russia partì da Berlino alle 15:30 del 31 luglio. Esso, redatto da Bethmann in persona, era così concepito:
« Malgrado i negoziati ancora in corso e sebbene [...] non avessimo presa alcuna misura di mobilitazione, la Russia ha mobilitato tutto il suo esercito e la sua flotta; ha dunque mobilitato anche contro di noi. Queste misure russe ci hanno costretti, per garantire la sicurezza dell'Impero [tedesco], a dichiarare lo "stato di pericolo di guerra", che non significa ancora la mobilitazione. Ma la mobilitazione deve seguire se entro dodici ore la Russia non sospende ogni misura di guerra contro di noi e contro l'Austria-Ungheria, e non ci fa una dichiarazione precisa in questo senso. La prego di comunicare ciò immediatamente a Sazonof e di telegrafare l'ora della comunicazione. So che Sverbejef ha telegrafato ieri a [San] Pietroburgo che noi avevamo già mobilitato, ma non è vero, nemmeno all'ora attuale80. »
Il telegramma di Bethmann arrivò a San Pietroburgo solo alle 21:30 e, intorno alla mezzanotte, l'ambasciatore tedesco Pourtalès si recò dal ministro Sazonov per consegnargli l'ultimatum della Germania. Sazonov replicò dicendo che ragioni tecniche impedivano di revocare la mobilitazione ma, aggiunse, che ciò non implicava la guerra e i negoziati potevano continuare. Chiese poi a Pourtalès se la mobilitazione tedesca avrebbe, invece, portato inevitabilmente alla guerra, al che l'ambasciatore rispose: «ci troveremmo a due dita dalla guerra»81.
Questa affermazione, che lasciava anche un minimo di speranza di pace dopo l'ordine di mobilitazione tedesca, illuse Sazonov di avere ancora un piccolo margine di manovra; ciò non era vero, dato che le procedure della mobilitazione tedesca prevedevano, una volta avviate, necessariamente la guerra. Probabilmente neanche Pourtalès si rese conto che il documento che aveva appena consegnato a Sazonov era un ultimatum vero e proprio82.
Il motivo per cui Bethmann non chiarì nell'ultimatum alla Russia che la mobilitazione tedesca avrebbe portato alla guerra è spiegabile con il desiderio dello stato maggiore tedesco di non allarmare troppo i russi, dal momento che ciò avrebbe accelerato i loro preparativi militari83.

L'ultimatum tedesco alla Francia
 
Contemporaneamente al telegramma per San Pietroburgo, da Berlino partì anche quello per l'ambasciatore tedesco a Parigi Wilhelm von Schoen. Il testo era pressoché simile a quello per l'ambasciatore in Russia ma si rivelava più incisivo e chiaro quando precisava:
« [...] La mobilitazione significa inevitabilmente la guerra. La prego di chiedere al governo francese se in una guerra tra la Germania e la Russia esso rimarrà neutrale. [...] La risposta a quest'ultima domanda ci deve essere nota qui domani alle 4 pomeridiane84. »
L'ambasciatore tedesco Schoen si presentò al Ministero degli esteri francese verso le 19 dello stesso 31 luglio e, consegnato l'ultimatum con cui la Francia doveva stabilire la sua eventuale, improbabilissima, neutralità, ne rendeva conto a Berlino in un telegramma che partì la sera. Schoen riferì che il Presidente del consiglio René Viviani gli aveva detto di
« non avere notizia alcuna di una mobilitazione russa »
 e, sulla questione della neutralità, di poter rispondere all'invito tedesco per le 13 del giorno dopo85.

La Germania dichiara guerra alla Russia - 1º agosto

Alle 12:52 del 1º agosto, e cioè dopo 52 minuti dalla scadenza dell'ultimatum alla Russia, fu telegrafato da Berlino all'ambasciatore a San Pietroburgo Pourtalès il testo della dichiarazione di guerra. Il documento doveva essere consegnato, in caso di risposta non soddisfacente, alle 17 ora dell'Europa centrale86.
Alle 16, a Berlino, visto il silenzio del governo russo, il ministro della Guerra Erich von Falkenhayn sollecitò il cancelliere Bethmann a recarsi con lui dall'Imperatore per la firma dell'ordine di mobilitazione generale. Alle 17 il Kaiser firmò l'ordine, dopo di che Falkenhayn esclamò: «Dio benedica Vostra Maestà e le sue armi. Dio protegga la nostra Patria»87.
Alle 19 di quello stesso 1º agosto, a San Pietroburgo, l'ambasciatore tedesco Pourtalès si recò dal ministro Sergej Dmitrievič Sazonov per avere notizie. Recava con sé la dichiarazione di guerra che gli era pervenuta solo alle 17:45 e che aveva dovuto anche decifrare. Incontrato Sazonov, gli domandò se il governo russo fosse pronto a dare una risposta soddisfacente all'ultimatum. Il ministro degli esteri rispose negativamente. Pourtalès allora gli ripeté la domanda rilevando le gravi conseguenze che sarebbero derivate dal non tener conto dell'ingiunzione tedesca. Sazonov rispose come prima. Allora, l'ambasciatore, traendo di tasca un foglio piegato, ripeté per la terza volta con voce tremante la domanda. Sazonov disse che non aveva nulla da aggiungere. Profondamente sconvolto Pourtalès disse con visibile sforzo:
« In questo caso sono incaricato dal mio governo di rimettervi la nota seguente »
 e con mano esitante tese la dichiarazione di guerra al ministro russo.
Dopo di che l'ambasciatore perse ogni dominio di sé e, avvicinandosi ad una finestra, scoppiò in lacrime. Ricorda Sazonov nelle sue memorie:
« Malgrado la mia emozione, che riuscii a padroneggiare, mi sentii preso da una profonda pietà per lui, e ci abbracciammo prima che egli con passo malfermo abbandonasse il mio ufficio88. »
Equivoci sulla neutralità inglese e francese
Il kaiser Guglielmo II di Germania ebbe durante la crisi un comportamento contraddittorio.
A Parigi, lo stesso 1º agosto, l'ambasciatore tedesco Schoen si recò da Viviani per conoscere la decisione riguardo all'ultimatum tedesco sull'eventuale neutralità francese, consegnato la sera prima. Disorientando il diplomatico tedesco, Viviani rispose: «La Francia si ispirerà ai suoi interessi» né il presidente del Consiglio francese si esprimerà più chiaramente dopo.
Nel pomeriggio, su pressante richiesta del capo di stato maggiore francese Joseph Joffre e su disposizione del Consiglio dei ministri, alle 15:55, i telegrammi predisposti per l'occasione vennero consegnati e spediti in tutta la Francia. Essi recavano l'ordine: «Il primo giorno di mobilitazione è domenica 2 agosto»89.
A Berlino, ancora il 1º agosto, appena emanato l'ordine di mobilitazione generale tedesca, un messaggio da Londra (giunto poco più di un'ora prima) dell'ambasciatore tedesco Karl Max von Lichnowsky illuse la Germania che, se non avesse attaccato la Francia, questa non si sarebbe mossa a difendere la Russia. Né la Gran Bretagna sarebbe entrata in guerra. Guglielmo e i suoi collaboratori erano euforici, la Germania avrebbe combattuto solo contro la Russia. Moltke, invece, si trovò in difficoltà,  perché i piani militari tedeschi prevedevano solo una guerra con entrambe le potenze. Anzi, il Piano Schlieffen, come abbiamo visto, prevedeva innanzi tutto un attacco alla Francia9091.
Quando arrivò la smentita da re Giorgio V del Regno Unito, che nessuno assicurava la neutralità inglese, né tanto meno quella francese, Moltke, sentito Guglielmo II, dette l'ordine di invadere il Lussemburgo92.
Il 2 agosto l'intera marina britannica venne mobilitata e la Gran Bretagna fornì anche rassicurazioni segrete alla Francia: se la flotta tedesca fosse entrata nel Mare del Nord o nella Manica per attaccare navi francesi, la flotta inglese avrebbe fornito «tutto l'appoggio possibile»93.
Ma i piani bellici tedeschi non puntavano ad una vittoria navale nel Mare del Nord o nella Manica, bensì ad una rapida marcia attraverso il Belgio. E per raggiungere questo obiettivo alle 19 del 2 agosto la Germania inviò un ultimatum al governo di Bruxelles, concedendogli dodici ore di tempo per acconsentire al transito alle truppe tedesche. I belgi rifiutarono: «se il governo belga accettasse le richieste che gli sono state consegnate» fecero sapere a Berlino da Bruxelles «sacrificherebbe l'onore della nazione e tradirebbe i propri impegni in Europa»94.
Il riferimento del comunicato belga era al trattato dei XVIII articoli del 26 giugno 1831 che imponeva al Belgio la "perpetua neutralità" garantita dalle grandi potenze. L'impegno alla neutralità belga fu poi confermato il 14 ottobre con il trattato dei XXIV articoli che fu ratificato il 19 aprile 1839. Il 2 agosto 1914 quel trattato era ancora in vigore95.

La Germania dichiara guerra alla Francia - 3 agosto

Nonostante gli Stati Maggiori di Germania e Francia non desiderassero sconfinamenti o incidenti alla frontiera comune, è accertato che l'ordine di astenersi da ogni atto ostile sia stato rispettato, fra il 1º e il 3 agosto, più nelle linee francesi che in quelle opposte e che i tedeschi, desiderosi di considerarsi aggrediti dalla Francia, si spesero in proteste più esagerate e infondate di quelle francesi. Tanto che per due anni il popolo tedesco credette che, in quei giorni, aerei francesi avessero lanciato bombe su Norimberga. Moltke propose e ottenne che a questo episodio (poi ampiamente smentito) si accennasse nella dichiarazione di guerra96.
Una volta in guerra con la Russia, i tempi richiesti dal piano Schlieffen erano strettissimi. Tuttavia non si tralasciarono le formalità e, per non invogliare la Gran Bretagna a scendere in campo a fianco della Francia, la Germania, trascorso il termine in cui la Francia poteva dichiarare la sua neutralità, procedette con una regolare dichiarazione di guerra in cui si denunciavano presunti sconfinamenti francesi in territorio tedesco97.
Di fronte alla mobilitazione francese del giorno prima, il 3 agosto l'ambasciatore di Berlino a Parigi, Schoen, a cui era stato ordinato di consegnare la dichiarazione di guerra per le 18, si mosse in automobile verso le 18:15. Prima uno, poi un secondo esagitato si lanciarono sulla vettura apostrofando il diplomatico tedesco violentemente. Tre agenti francesi accorsero in aiuto di Schoen che, così, arrivò illeso al Quai d'Orsay, il palazzo del Ministero degli esteri francese98.

L'incontro fra Schoen e Viviani
 
L'ambasciatore tedesco Schoen, tratta di tasca la dichiarazione preparata in forma di lettera, ne diede lettura al Presidente del consiglio e ministro degli esteri, René Viviani. Essa diceva:
« Le autorità [...] tedesche hanno constatato un certo numero di atti di vera ostilità compiuti da aviatori militari francesi in territorio tedesco. Parecchi di essi hanno manifestatamente violato la sovranità del Belgio sorvolando il territorio di questo paese. Uno ha tentato di colpire costruzioni presso Wesel [...] un altro ha lanciato bombe sulle linee ferroviarie presso Karlsruhe e Norimberga. Sono incaricato ed ho l'onore di far sapere a Vostra Eccellenza che, di fronte a queste aggressioni99, l'Impero tedesco si considera in stato di guerra con la Francia per colpa di questa potenza. [...] Vogliate gradire, signor Presidente del consiglio, l'espressione della mia altissima considerazione100. »
Viviani, ascoltata in silenzio la lettura e ritirata la dichiarazione di guerra, protestò sostenendo che, mentre la Francia aveva tenuto le sue truppe a dieci chilometri dal confine (disposizione però revocata nel pomeriggio del 2 agosto), pattuglie tedesche erano entrate in Francia ad uccidere soldati francesi. Schoen rispose di non saperne nulla. Non avendo i due uomini altro da dirsi, Viviani accompagnò fino all'automobile l'ambasciatore che, fatto un saluto profondo, partì101102.

La Gran Bretagna in guerra

Il 1º agosto, a Londra, autorizzato dal suo governo, il ministro degli esteri Edward Grey ammonì l'ambasciatore tedesco Lichnowsky che una violazione della neutralità del Belgio avrebbe portato, molto probabilmente, la Gran Bretagna ad intervenire nel conflitto103. Ciononostante, il giorno dopo, il 2 agosto, il Belgio ricevette l'ultimatum da parte della Germania la quale, per l'attuazione del piano Schlieffen, necessitava di attraversare il territorio belga per attaccare la Francia.
Appreso il rifiuto del Belgio a rimanere neutrale di fronte all'avanzata tedesca, Grey alle 14 del 4 agosto inviò al suo ambasciatore a Berlino Edward Goschen (1827-1924) un telegramma da inoltrare alla Germania. Era un ultimatum: constatato il rifiuto belga all'ultimatum tedesco nonché lo sconfinamento di truppe tedesche a Gemmenich (frazione del comune di Plombières), la Germania doveva far pervenire entro la mezzanotte (23 ora di Londra) l'assicurazione al rispetto della neutralità del Belgio. Proseguiva Grey rivolto al suo ambasciatore:
« Ciò non avvenendo, Voi chiederete i vostri passaporti, e direte che il governo di Sua Maestà [britannica] si sente costretto a prendere tutte le misure in suo potere per sostenere la neutralità del Belgio e l'osservanza di un trattato di cui la Germania è parte non meno di quanto lo siamo noi104. »
La Germania tuttavia non aveva scelta: il suo piano globale di guerra era già in atto. Il 3 agosto durante una seduta del gabinetto prussiano a Berlino, Bethmann-Hollweg anticipò ai colleghi che l'entrata in guerra della Gran Bretagna era inevitabile. Ma la fiducia che l'alto comando tedesco riponeva nel proprio esercito era assoluta, tanto che lo stesso giorno, prima ancora che la Germania invadesse il Belgio, le truppe tedesche superarono la frontiera e occuparono tre città della Polonia russa105.

Un "pezzo di carta"
 
Quando verso le 19 dello stesso 4 agosto, l'ambasciatore inglese Goschen si recò dal ministro degli esteri tedesco Jagow per presentargli l'ultimatum, questi gli disse di non poter rispondere se non come ad un loro precedente colloquio sullo stesso tema: «no». Ma che a prescindere dalla risposta, le truppe tedesche erano già in Belgio. L'ambasciatore chiese allora i passaporti e passò a prendere congedo dal Cancelliere Bethmann-Hollweg106.
Questi gli tenne un infervorato discorso e, riferito al trattato che assicurava la neutralità del Belgio dal 1839, gli disse che la Gran Bretagna aveva preso una decisione terribile solo per la parola "neutralità", solo per un "pezzo di carta" per il quale si accingeva ad attaccare una nazione consanguinea che desiderava esserle amica. Bethmann disse a Goschen che era come colpire alle spalle chi lottava per la sua vita contro due aggressori e che rigettava sull'Inghilterra la responsabilità dei terribili eventi cui si poteva andare incontro107.
Goschen difese la validità della scelta britannica ma poi ebbe un crollo psicologico e scoppiò in lacrime. Prima di congedarsi completamente da Bethmann, gli chiese il permesso di trattenersi qualche minuto nella sua anticamera per non farsi vedere in quello stato dal personale della Cancelleria108.

La dichiarazione di guerra alla Germania - 4 agosto

Come abbiamo visto, sette ore prima della scadenza dell'ultimatum inglese, le truppe tedesche avevano già oltrepassato la frontiera belga109. Alle ore 23:05 dello stesso 4 agosto, trascorsi i termini dell'ultimatum, un giovane funzionario del Foreign Office consegnò all'ambasciatore tedesco a Londra, Lichnowsky, che era già andato a letto, la stesura definitiva della dichiarazione di guerra della Gran Bretagna alla Germania, a firma di Grey:
« [...] Ho l'onore di informare l'Eccellenza Vostra che, in conformità ai termini di notificazione fatta oggi al governo tedesco, il governo di Sua Maestà [britannica] considera che dalle 11 p.m. di oggi esiste stato di guerra fra i due paesi. Ho l'onore di accludere i passaporti per Vostra Eccellenza, per la sua famiglia e per il personale110. »
 Diffusasi la notizia, davanti all'ambasciata britannica a Berlino si radunò immediatamente una gran folla, che cominciò a tirare sassi contro i vetri dell'edificio e lanciare insulti. La mattina seguente un emissario del Kaiser, che era venuto a porgere le scuse per gli incidenti, non seppe resistere alla tentazione di far osservare all'ambasciatore inglese Goschen che le proteste erano la spia «di quanto sia il risentimento che l'Inghilterra ha suscitato tra la popolazione schierandosi contro la Germania, dimenticando che noi abbiamo combattuto fianco a fianco a Waterloo». Goschen e i suoi collaboratori si prepararono a lasciare Berlino111.
Sir Edward Grey, che aveva tentato di evitare che l'Austria-Ungheria invadesse la Serbia ma, insieme al suo governo, si era rifiutato di dare garanzie formali alla Francia, si schierò ora a favore della guerra contro la Germania rifacendosi a considerazioni molto più ampie che non la semplice violazione della neutralità belga. All'ambasciatore statunitense a Londra disse:
« Il nocciolo della questione è che la Germania, se vincerà, egemonizzerà la Francia, e l'indipendenza del Belgio, dell'Olanda, della Danimarca, e forse della Norvegia e della Svezia, sarà ridotta ad un'ombra. La loro esistenza come nazioni sovrane diventerà pura finzione, tutti i loro porti saranno a disposizione della Germania, la quale dominerà l'Europa occidentale. [...] In una situazione del genere avremmo finito di esistere come grande potenza112. »

L'Italia durante la crisi

Dopo l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914, Austria-Ungheria e Germania decisero di tenere all'oscuro delle loro decisioni l'Italia. Ciò in considerazione del fatto che l'articolo 7 della Triplice alleanza avrebbe previsto, in caso di attacco dell'Austria-Ungheria alla Serbia, compensi per l'Italia.
Il 3 luglio, Berchtold, infatti, stabilì che si dovesse tacere al marchese Antonino di San Giuliano, ministro degli esteri italiano, circa le bellicose intenzioni dell'Austria-Ungheria. San Giuliano, infatti, avrebbe immediatamente sollevato la questione dei compensi per l'Italia113114.
Il ministro degli esteri tedesco Jagow, d'altronde, riconobbe in una lettera al suo ambasciatore a Vienna Tschirschky, del 15 luglio, che l'Italia aveva diritto sia a rimanere neutrale di fronte ad una guerra austro-serba, sia ad essere ricompensata qualora l'Austria-Ungheria avesse acquisito territori nei Balcani anche solo temporaneamente115.
Berchtold, invece, guardava con sufficienza all'Italia, che per lui era in una situazione militare e politica così precaria, a causa degli strascichi della guerra di Libia, da non essere pronta per un intervento attivo. Tuttavia, il ministro austriaco considerò eccessivo tenere completamente all'oscuro l'alleata e il 22 luglio, il giorno prima della consegna dell'ultimatum alla Serbia, Berchtold fece in modo che il suo ambasciatore a Roma, Kajetan Mérey, incontrasse San Giuliano. Quest'ultimo fu così informato che una guerra austro-serba era imminente, ma non gli furono comunicate le pesanti condizioni poste a Belgrado. San Giuliano rispose che l'unica preoccupazione dell'Italia concerneva le questioni territoriali e che nel caso l'Austria-Ungheria avesse turbato l'equilibrio in Adriatico, avrebbe dovuto compensare l'Italia116.
Qualche giorno dopo il suo atteggiamento cambiò. Il 24 luglio, infatti, San Giuliano prese visione dei particolari dell'ultimatum e protestò violentemente con l'ambasciatore tedesco a Roma, Hans von Flotow, presente anche il presidente del Consiglio Antonio Salandra, dichiarando che se fosse scoppiata la guerra austro-serba sarebbe derivata da un premeditato atto aggressivo di Vienna. L'Italia pertanto secondo il ministro non aveva l'obbligo, dato il carattere difensivo della Triplice alleanza, di aiutare l'Austria, anche nel caso in cui la Serbia fosse stata soccorsa dalla Russia. Dopo la sfuriata di San Giuliano, però, Flotow fece capire che, qualora l'Italia avesse assunto un atteggiamento benevolo verso Vienna, dalla vicenda avrebbe potuto ottenere compensi territoriali117.

In difesa della pace
Il ministro degli esteri tedesco Gottlieb von Jagow riconobbe il diritto dell'Italia alla neutralità.
A tale riguardo il momento dovette apparire favorevole se Jagow, intorno al 26 luglio, comunicò all'ambasciatore italiano a Berlino Riccardo Bollati il Trentino come compenso118. San Giuliano, però, ritenne che una promessa della Germania su compensi austriaci non valeva molto, soprattutto persistendo l'atteggiamento di chiusura dell'Austria-Ungheria. Egli si persuase quasi subito che l'Italia non avrebbe potuto ricavare il tornaconto sperato e, poiché temeva per il suo paese una guerra continentale, si adoperò per fermare la catastrofe119.
Le manovre attuate dalla diplomazia italiana e da San Giuliano furono molteplici e di vario tipo. Nella prima metà di luglio l'Italia consigliò alla Serbia di sciogliere le associazioni panserbe e di prepararsi ad accettare le condizioni di un eventuale ultimatum dell'Austria. Il presidente del Consiglio serbo, Pašić, rispose il 20 che non avrebbe sciolto le associazioni panserbe. Sempre nella prima metà del mese, San Giuliano, informato dal suo ambasciatore a San Pietroburgo che la Russia non avrebbe consentito una sconfitta della Serbia, ne diffuse la notizia a Berlino e Vienna dove però Berchtold rispose, intorno al 20 luglio, che non credeva alle voci di una Russia pronta ad intervenire e che se anche lo fosse stata, l'Austria-Ungheria era pronta a fronteggiarla120.
Negli stessi giorni l'Italia aderì alla proposta di conferenza di pace di Grey, benché solo in via di principio, per non fare cosa sgradita alla Germania; ancora il 27 luglio San Giuliano fece un estremo tentativo con l'ambasciatore russo a Roma affinché sensibilizzasse la Serbia ad accettare le richieste austriache per poi non eseguire ciò che avrebbe accettato121.
Quello stesso 27 luglio, Jagow, nuovamente preoccupato per le sorti della Triplice alleanza, scrisse ancora al suo ambasciatore a Vienna, Tschirschky, che si imponeva urgentemente una discussione fra Berchtold e l'ambasciatore italiano a Vienna, Giuseppe Avarna, circa l'articolo 7 e i compensi per l'Italia. Stava infatti svanendo in Germania l'illusione che la Russia non sarebbe intervenuta nell'imminente conflitto austro-serbo122.
La dichiarazione di neutralità
 Con la dichiarazione di guerra dell'Austria-Ungheria alla Serbia del 28 luglio 1914, per l'Italia si pose il problema di decidere o meno sulla neutralità contemplata dal trattato della Triplice, il quale all'articolo 4 prevedeva che in caso una delle potenze firmatarie avesse attaccato un paese terzo, le altre due alleate avevano il diritto di rimanere neutrali.
Il 27 luglio, il ministro della Guerra Domenico Grandi fece sapere a Salandra che l'esercito italiano era del tutto impreparato ad una guerra su vasta scala, mentre due giorni dopo San Giuliano dava già per scontato l'intervento della Gran Bretagna a fianco della Francia. Gli indizi che determinarono in lui questa convinzione, primo fra tutti i risultati del colloquio con l'ambasciatore britannico James Rennell Rodd del 28 luglio, portarono il ministro degli esteri alla determinazione di non far scendere l'Italia in guerra a fianco dell'Austria e della Germania. Per San Giuliano, infatti, la potenza navale anglo-francese avrebbe posto le città costiere della penisola in serio pericolo e tagliato le comunicazioni con le colonie, che così sarebbero state perdute123.
L'occasione per cominciare a diffondere all'estero la decisione della neutralità si presentò a San Giuliano il 31 luglio 1914, quando ne fece partecipe il Consiglio dei ministri. In questa occasione il ministro degli esteri spiegò che la Triplice alleanza non andava sconfessata, ma che bisognava rimanere neutrali in considerazione sia dell'avversione del popolo per una guerra a fianco dell'Austria, sia del quasi certo intervento della Gran Bretagna a favore dell'alleanza franco-russa, sia delle precarie condizioni dell'esercito124.
Solo a questo punto Berchtold, il 1º agosto, dichiarò di accettare l'interpretazione data dall'Italia e dalla Germania all'articolo 7 del trattato della Triplice, ma ancora senza parlare chiaramente di compensi125.
Sorpresi dalla decisione della neutralità, l'ambasciatore a Berlino Bollati e quello a Vienna Avarna protestarono chiedendo di far entrare in guerra l'Italia al fianco degli alleati. San Giuliano rispose loro il 2 agosto con le argomentazioni di cui sopra, ma anche con la considerazione che l'Italia non avrebbe avuto alcun vero vantaggio in caso di vittoria, in quanto l'ambasciatore austriaco Mérey aveva sempre escluso che eventuali compensi avrebbero potuto comprendere «le province italiane dell'Austria»126.
La decisione ufficiale e definitiva della neutralità italiana fu presa nel Consiglio dei ministri del 2 agosto 1914 e fu diramata il 3 mattina. Diceva:
« Trovandosi alcune potenze d'Europa in istato di guerra ed essendo l'Italia in istato di pace con tutte le parti belligeranti, il governo del Re, i cittadini e le autorità del Regno hanno l'obbligo di osservare i doveri della neutralità secondo le leggi vigenti e secondo i princìpi del diritto internazionale. [...]127 »
La situazione in Europa
 Il giorno della dichiarazione di guerra dell'Austria-Ungheria alla Serbia, il 28 luglio, l'Impero ottomano offrì un accordo segreto di alleanza alla Germania. Lo stesso giorno, il Cancelliere Bethmann rispose con una proposta che garantiva alla Turchia i suoi confini contro la Russia e che, durante la guerra, lasciava il comando delle forze armate ottomane ai tedeschi. L'alleanza, inoltre, prevedeva l'intervento turco al fianco della Germania se la Russia fosse intervenuta nel conflitto. La Turchia indugiò ma, dopo un'accelerata delle trattative, in vista di utilizzare l'Impero ottomano come base destabilizzante per quello britannico, il 2 agosto fu conclusa l'alleanza e gli incrociatori tedeschi Goeben e Breslau salparono per il Bosforo128.
L'Italia, il Portogallo, la Grecia, la Bulgaria, la Romania e la Turchia inizialmente rimasero neutrali, ai bordi del campo di battaglia, ma pronti a entrarvi appena avessero intravisto qualche vantaggio. Altre nazioni d'Europa si tennero fermamente e stabilmente fuori dal conflitto. L'Olanda, la Svizzera, la Spagna, la Danimarca, la Norvegia e la Svezia non ebbero parte alcuna nello scoppio del conflitto, né vi si fecero trascinare come belligeranti, anche se per alcune di esse la guerra sarebbe diventata una fonte lucrosa di traffici e di profitti129. Alla mezzanotte del 4 agosto erano cinque gli imperi che ormai erano entrati in guerra (Austria-Ungheria, Germania, Russia, Gran Bretagna e Francia)130, ogni potenza era convinta di aver ragione degli avversari in pochi mesi. Molti ritenevano che la guerra sarebbe finita a Natale del 1914, o tuttalpiù a Pasqua del 1915131. Il conflitto che si era aperto con la crisi di luglio terminò invece nel novembre del 1918, dopo aver provocato sedici milioni di morti tra militari e civili132.

Bibliografia
In italiano:
    •    Luigi Albertini, Le origini della guerra del 1914 (3 volumi - vol. I: "Le relazioni europee dal Congresso di Berlino all'attentato di Sarajevo", vol. II: "La crisi del luglio 1914. Dall'attentato di Sarajevo alla mobilitazione generale dell'Austria-Ungheria.", vol. III: "L'epilogo della crisi del luglio 1914. Le dichiarazioni di guerra e di neutralità."), Milano, Fratelli Bocca, 1942-1943. (ISBN non esistente)
    •    Giampaolo Ferraioli, Politica e diplomazia in Italia tra XIX e XX secolo. Vita di Antonino di San Giuliano (1852-1914), Catanzaro, Rubettino, 2007. ISBN 88-498-1697-6
    •    Fritz Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Torino, Einaudi [1961], 1965. ISBN 88-06-18176-9
    •    David Fromkin, L'ultima estate dell'Europa, Milano, Garzanti [2004], 2005. ISBN 88-11-69388-8
    •    Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, Milano, Mondadori [1994], 2009. ISBN 88-04-48470-7
    •    Luciano Magrini, Il dramma di Seraievo. Origini e responsabilità della guerra europea, Milano, 1929. (ISBN non esistente)
    •    Mihály Károlyi, Memorie di un patriota, Milano, Feltrinelli, 1958. (ISBN non esistente)

In inglese:
    •    Michael Balfour: The Kaiser and His Times, W. W. Norton & Company, UK 1986, ISBN 978-0-393-00661-2
    •    Theobald von Bethmann-Hollweg: Reflections on the World War, Thornton Butterworth Ltd., London, 1920 (ISBN non esistente)
    •    Francis Anthony Boyle: Foundations of World Order: The Legalist Approach to International Relations (1898-1922), Duke University Press, USA, 1999, ISBN 978-0-8223-2364-8
    •    Vladimir Dedijer: The Road to Sarajevo, Simon and Schuster, New York, 1966 (ISBN non esistente)

Approfondimenti

Piano Schlieffen

 Il Piano Schlieffen prese il nome dal suo autore, capo di Stato Maggiore Alfred Graf von Schlieffen; era il piano strategico dello Stato Maggiore tedesco concepito nel 1905 in previsione di una guerra su due fronti (ad est contro la Russia e ad ovest contro la Francia e la Gran Bretagna), guerra che la Germania temeva di dover prima o poi affrontare in seguito all'alleanza tra Francia e Russia ed all'accordo stipulato con la Entente Cordiale tra Francia e Gran Bretagna.

Le premesse

Le grandi manovre dell'esercito tedesco del 1900: in primo piano l'arciduca d'Austria Francesco Ferdinando e il Kaiser Guglielmo II, in secondo piano all'estrema destra il capo di stato maggiore, generale Alfred von Schlieffen.
  Il piano iniziale (poi modificato nel 1911) prevedeva una rapida mobilitazione dell'esercito tedesco, che, senza tenere conto della neutralità di Olanda e Belgio, doveva di sorpresa dilagare attraverso di essi con la sua potente ala destra in direzione sud-ovest attraverso le Fiandre verso Parigi, colpendo la Francia in un settore completamente sguarnito. Contemporaneamente l'esercito tedesco avrebbe mantenuto un atteggiamento difensivo con il centro e l'ala sinistra nei settori di confine tra Francia e Germania, in Lorena, nei Vosgi e nella Mosella; ciò allo scopo di attirare all'attacco l'esercito francese, la cui dottrina operativa prevedeva l'offensiva contro il secolare nemico tedesco.
 Dopo aver ottenuto la rapida sconfitta della Francia (erano previsti per questo fine soli 39 giorni di operazioni), Schlieffen prevedeva di spostare velocemente le truppe, tramite le proprie efficienti linee ferroviarie, sul fronte orientale, fidando sui lunghi tempi di mobilitazione dell'arretrato esercito russo.
L'obiettivo strategico ultimo del Piano non era la capitale francese, né la conquista territoriale, bensì l'aggiramento e l'intrappolamento in un'immensa sacca della grande maggioranza dell'esercito francese schierato a ridosso della frontiera franco-tedesca; in pratica un ripetersi, sia pure su un fronte diverso e più esteso, degli avvenimenti che avevano portato alla sconfitta della Francia nella guerra franco-prussiana del 1870.

Le modifiche del 1911
 
Dopo il ritiro di Schlieffen nel 1906, divenne capo di Stato Maggiore Helmuth von Moltke. Costui considerava troppo rischiosi alcuni aspetti del piano del suo predecessore, anche in considerazione del fatto che l'esercito russo avrebbe comunque potuto mobilitare una parte delle sue truppe in tempi brevi e, soprattutto, che l'impostazione dell'esercito francese negli ultimi anni si era fatta sempre più offensiva con l'adozione nel 1911 del Piano XVII; ciò avrebbe comportato la rischiosa possibilità che un attacco francese riuscisse a dilagare in Germania in assenza di sufficienti forze difensive tedesche sul confine.
Von Moltke decise pertanto nello stesso anno di porre alcune modifiche al Piano. Stabilì così di sottrarre alcune divisioni all'ala destra, quella attaccante, per utilizzarle nel rafforzamento della difesa in Alsazia-Lorena e del presidio sul confine russo. Tuttavia, essendosi ridotto il numero di divisioni per l'attacco, dal piano venne eliminata l'invasione dell'Olanda, e rimase solo l'invasione del Belgio; ciò aveva diverse conseguenze negative: l'effetto di accorciare il braccio della tenaglia che doveva stringere l'esercito francese da nord, il creare un "collo di bottiglia" attraverso il Belgio, il non poter sfruttare anche le ferrovie olandesi per le esigenze di rifornimento.
Ciononostante, all'attacco principale erano state dedicate ben cinque delle sei armate tedesche dislocate sul fronte occidentale.

Il Piano in azione, e il suo fallimento
 
Alcuni dei difetti che portarono al fallimento del Piano non sono a posteriori addebitabili al solo von Moltke, bensì erano connaturati al piano stesso, che sottovalutava in generale gli avversari, dal piccolo Belgio alla grande Russia. Sono stati indicati quattro motivi principali di fallimento:
    •     la resistenza belga - Sebbene l'esercito belga fosse solo un decimo di quello tedesco, riuscì a ritardarne l'avanzata fino alla seconda metà di agosto. Anche dopo la distruzione del loro esercito, i civili belgi continuarono a rallentare il nemico con azioni di sabotaggio, fuoco di cecchini, e non collaborando con l'invasore. I tedeschi adottarono una dura politica repressiva, fucilando dieci civili per ogni soldato tedesco ucciso da non militari.
    •     la presenza e l'efficienza del Corpo di spedizione britannico - Dopo la guerra si apprese che molti generali e politici tedeschi non credevano che la Gran Bretagna sarebbe entrata in guerra a fianco della Francia; le truppe britanniche furono in grado, seppure presenti sul teatro solo dalla fine di agosto 1914, di resistere alla 1ª Armata tedesca di von Kluck abbastanza a lungo da indurre il generale tedesco a deviare verso sudest su Compiègne invece che puntare oltre Parigi; la 1ª Armata tedesca scoprì il suo fianco alla 6ª Armata francese da poco costituita a Parigi come presidio della capitale, e si rese possibile il "Miracolo della Marna".
    •     la velocità di mobilitazione russa - I russi attaccarono ad oriente prima del previsto, senza avere del tutto ultimato la mobilitazione. Non costituirono con ciò un grande pericolo per la Germania, tuttavia costrinsero a distogliere altre truppe dal fronte occidentale, là dove ogni indebolimento dell'importantissima ala destra era problematico ai fini del Piano.
    •     il sistema ferroviario francese - Grazie alla resistenza belga e agli aiuti britannici, i francesi ebbero più tempo a disposizione per trasferire truppe verso il fronte, in particolare in Lorena e in difesa di Parigi. I tedeschi sottostimarono grandemente le capacità francesi di svolgere operazioni di riposizionamento dei propri soldati in tempo utile.

Il Piano Schlieffen trovò la sua fatale conclusione alla Prima battaglia della Marna nel settembre 1914, cui seguirono gli inizi della guerra di trincea a scapito della guerra di movimento, e ciò che più i tedeschi temevano: una guerra su due fronti.

Giudizi storici
 
Più di uno storico sostiene che il Piano fosse di sapore ottocentesco, ormai improponibile per l'epoca, per i recenti progressi degli armamenti e dei trasporti della "guerra industriale"; Basil Liddell Hart lo definì «di audacia napoleonica», ma affermò che «Il Piano sarà nuovamente fattibile solo nella generazione successiva, quando l'arma aerea potrà paralizzare i difensori sulle loro posizioni, e le forze meccanizzate saranno sufficientemente veloci e con ampia autonomia. Ma al tempo in cui fu concepito, il Piano Schlieffen aveva pochissime probabilità di riuscita.»
Inoltre alcuni storici, tra cui David Fromkin, hanno recentemente argomentato che quello che è noto come Piano Schlieffen potrebbe non essere stato un vero e proprio piano strategico, ma solo un ipotetico memorandum steso nel 1905 e brevemente integrato nel 1906. Schlieffen potrebbe non averlo concepito per la messa in pratica ma come mero esercizio dottrinario. L'ipotesi di Fromkin si basa sul fatto che, fra le carte di Schlieffen recuperate dopo la guerra, non si trova traccia che il memorandum sia mai stato perfezionato in un programma operativo, ad esempio con l'indicazione di quali unità destinare ad una determinata area di offensiva. Lo studioso arriva ad attribuire molta parte della genesi del piano a Moltke stesso, che avrebbe visto il memorandum e lo avrebbe ritenuto un piano operativo ed avrebbe provveduto a renderlo veramente tale.

Influenza del piano durante la seconda guerra mondiale
 
Durante il secondo conflitto mondiale, nel 1940, i generali dell'OKW tedesco, dopo aver inizialmente pianificato una riedizione meno ambiziosa del Piano Schlieffen, adottarono in seguito, grazie anche alle proposte presentate dal generale Erich von Manstein, un piano (Fall Gelb) che in pratica rovesciava completamente l'originaria manovra della Prima guerra mondiale: questa volta l'attacco principale sarebbe stato sferrato nelle Ardenne e si sarebbe diretto verso le coste della Manica, tagliando fuori le forze alleate penetrate in Belgio. Il piano ebbe pieno successo e le forze tedesche penetrarono nei confini francesi aggirando le fortificazioni lungo il confine del Reno (la famosa Linea Maginot) e accerchiarono nelle Fiandre gran parte delle forze anglo-francesi. Con il successivo Fall Rot arrivarono a Parigi il 14 giugno, ottenendo così una vittoria totale contro quello che era fino ad allora ritenuto il più potente esercito di terra del continente e assicurandosi il controllo del paese per 4 anni.
Con la riapertura del fronte occidentale nel 1944 grazie allo sbarco in Normandia, gli alti comandi americani decisero ugualmente, dopo la liberazione di Parigi, di attaccare il Reich passando per le Fiandre invece che per l'Alsazia, onde evitare le fortificazioni della Linea Sigfrido. Tuttavia, nei primi mesi del 1945 lanciarono un attacco anche contro queste postazioni, riuscendo a sfondare soprattutto a causa dello sfinimento bellico patito dalla Germania negli ultimi mesi del conflitto.

Bibliografia
    •     Gian Enrico Rusconi Rischio 1914 - come si decide una guerra - Il Mulino, 2004 ISBN 88-15-01514-0
    •     Gerhard Ritter The Schlieffen plan, Critique of a Myth, foreword by Basil H. Liddell Hart, London, O. Wolff, 1958
    •     Robert Foley Alfred von Schlieffen's Military Writings London: Frank Cass, 2003
    •     Terence Zuber Inventing the Schlieffen Plan, OUP, 2002 ISBN 0-19-925016-2
    •     Gunther E. Rothenberg "Moltke, Schlieffen, and the Doctrine of Strategic Envelopment." in Makers of Modern Strategy Ed. Peter Paret. Princeton, Princeton UP, 1986
    •     David Fromkin Europe's Last Summer: Who Started the Great War in 1914? New York: Vintage Books, 2004 ISBN 0-375-72575-X
    •     Annika Mombauer Helmuth von Moltke and the Origins of the First World War, Cambridge: Cambridge University Press, 2005
    •     Nicola Zotti  I piani militari tedeschi 1871-1891, su Warfare.it
Voci correlate
    •    Prima guerra mondiale
    •    Prima battaglia della Marna
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Piano XVII

Piano XVII era la denominazione convenzionale non ufficiale del piano strategico di operazioni adottato dallo Stato maggiore francese nel 1913, da attuarsi in caso di una guerra tra Francia e Germania, che venne messo parzialmente in pratica all'inizio della Prima guerra mondiale.
Il Piano XVII sottovalutava le possibilità operative dell'esercito tedesco e non corrispondeva alle necessità strategiche concrete che si presentarono nell'agosto 1914; in pochi giorni dovette essere abbandonato e l'esercito francese, duramente sconfitto nella battaglia delle frontiere dovette iniziare una lunga ritirata verso Parigi e la Marna.  
Evoluzione della pianificazione strategica dello stato maggiore francese
 In seguito alla sconfitta subita durante la guerra franco-prussiana del 1870-71, la classe politica e militare francese dovette riconoscere il profondo cambiamento prodottosi nell'equilibrio europeo con la perdita del predominio continentale della Francia e l'inquietante crescita della nuova potenza predominante costituita dalla Germania imperiale. Inoltre con la perdita dell'Alsazia-Lorena la situazione strategica francese sul confine franco-tedesco era divenuta chiaramente sfavorevole. Elemento centrale della politica militare dell'esercito francese divenne dal 1891 la stretta alleanza (Duplice Intesa) con l'Impero russo che avrebbe potuto controbilanciare la superiorità numerica tedesca e minacciare la Germania con un possibile attacco su due fronti da est e da ovest1.

 La pianificazione operativa studiata e adottata dall'esercito francese fino ai primi anni del Novecento rimase nonostante l'alleanza con il potente Impero russo, sostanzialmente difensiva;  nel 1898, lo Stato Maggiore francese adottò il cosiddetto Piano XIV che prevedeva lo schieramento sul confine franco-tedesco di cinque armate concentrate tra Saint-Dizier e Epinal in una formazione a diamante (bataillon carré) di tipo napoleonico, adatta a condurre, secondo le teorie del generale Henri Bonnal, una guerra di tipo difensivo-controffensivo2.
Nel 1903 il vice-presidente del Conseil supérieur de la guerre e comandante in capo designato, generale Joseph Brugère fece approvare il Piano XV sempre di carattere difensivo3. Concentrando tutta la loro attenzione sul confine alsaziano-lorense, tatticamente facilmente difendibile grazie alle sue munite fortificazioni, gli strateghi francesi erano apparentemente convinti che la Germania non avrebbe osato progettare un invasione del Belgio per entrare in Francia attraverso le pianure del nord per timore di un coinvolgimento nel conflitto della Gran Bretagna, che col trattato di Londra del 1839 si era impegnata a garantire la neutralità del piccolo Stato4. Anche il Piano XV quindi prevedeva di schierare cinque armate tra Verdun e Epinal; una armata sarebbe stata posizionata in avanti a Nancy mentre le altre, schierate sui due fianchi sarebbero intervenute in modo flessibile sulla base dei movimenti dei tedeschi5.
In realtà fin dal 1904 il Deuxième Bureau, il servizio segreto dell'esercito, era venuto a conoscenza delle linee fondamentali del piano di guerra adottato dallo stato maggiore nemico, grazie alle sensazionali rivelazioni della spia tedesca Le Vengeur, un ufficiale dell'esercito germanico di cui non si è mai riusciti a scoprire l'identità che durante una serie di rocamboleschi incontri con emissari francesi, presentò, dietro il pagamento di una forte somma di denaro, un'importante documentazione che svelava la prima versione del cosiddetto Piano Schlieffen6. In questo modo clamoroso i generali quindi appresero che i tedeschi progettavano di violare la neutralità del Belgio e che intendevano organizzare una gigantesca manovra avvolgente per marciare direttamente su Parigi, aggirando sul fianco sinistro l'intero esercito francese7.
Sembra che le rivelazioni di Le Vengeur non furono ritenute completamente attendibili nè dal generale Jean Marie Pendezec, capo di stato maggiore dell'esercito, nè dal generale Brugère che tuttavia alla fine del 1905 fece studiare una variante al Piano XV che prevedeva la costituzione di una armata da riserva da trasportare a nord in caso di effettiva violazione tedesca della neutralità belga8. Un ulteriore variante del Piano XV (Piano XV bis) venne studiata nel maggio 1907 che prevedeva, oltre ad un raggruppamento principale di tre armate in Lorena, un'armata schierata in copertura a nord-est di Saint-Dizier con due corpi d'armata e due divisioni di cavalleria9. Tuttavia negli anni seguenti i documenti di Le Vengeur vennero trascurati; il generale Jean Jules Brun, successore del generale Pendezec, non escluse un impostura anche se le rivelazioni della spia tedesca sembravano confermate dallo sviluppo delle costruzioni di linee ferroviarie strategiche intorno ad Aquisgrana che avrebbero potuto essere essenziali per concentrare le forze tedesche sul confine belga10.

 Sulla base di queste valutazioni e considerando anche che le teorie strategiche preferite storicamente dai generali tedeschi si basavano su vaste manovre aggiranti, nel 1909 il generale Henri de Lacroix, in quel momento comandante in capo designato dell'esercito francese, aveva progettato e fatto approvare dal Conseil supérieur de la guerre il cosiddetto Piano XVI. Il generale Lacroix riteneva che i tedeschi avrebbero evitato di attaccare frontalmente il sistema fortificato della Lorena e avrebbero invece diretto le loro offensive principali attraverso le Ardenne per sbucare con due masse separate a Verdun e a Sedan. Il comandante in capo stabiliva quindi nel Piano XVI che la massa principale dell'esercito sarebbe stata schierata tra Verdun e l'Alsazia, e che notevoli forze di riserva sarebbero state tenute indietro, a Châlons-sur-Marne, da dove sarebbero potuto intervenire, dopo aver riconosciuto l'effettiva direzione dell'attacco principale tedesco, sia a Verdun che a Epinal o a Sedan11.
Nel 1911 il successore del generale de Lacroix nell'incarico di vice-presidente del Conseil supérieur e comandante in capo designato, il generale Victor Constant Michel,  propose un piano di schieramento radicalmente nuovo, basato su valutazioni strategiche corrette e fondato su modifiche strutturali dell'organizzazione dell'esercito francese12. Il generale Michel temeva un'offensiva tedesca attraverso il Belgio con forze imponenti che avrebbe potuto mettere in pericolo il nord-est francese. Egli quindi  proponeva di estendere lo schieramento francese verso ovest fino alla costa della Manica e di manovrare offensivamente verso Anversa, Bruxelles e Namur in caso di invasione tedesca del Belgio. Per disporre delle forze necessarie a mettere in atto un piano così ambizioso, il generale proponeva di modificare la struttura dell'esercito inserendo in prima linea anche le truppe di riserva aggregando ad ogni reggimento regolare un reggimento di riserva13. Questo piano, presentato dal generale Michel al Conseil supérieur de la guerre nel luglio 1911 venne però nettamente respinto; il Ministro della Guerra Adolphe Messimy lo definì "una follia", il generale Michel venne criticato per il suo pessimismo, la sua indecisione e la sua presunta mancanza di spirito offensivo. Durante la riunione del Consiglio nessuno dei presenti, tra cui i generali Joseph Gallieni, Paul Marie Pau e Auguste Dubail, appoggiarono le proposte del generale Michel; ci fu chi definì il generale, "pazzo". Il generale Michel venne destituito14.
Il Ministro della Guerra Messimy aveva ridicolizzato le concezioni strategiche del generale Michel ed inoltre aveva progettato una riorganizzazione generale dell'alto comando concentrando in una stessa persona l'incarico di capo di stato maggiore dell'esercito e quello di vice-presidente del Conseil e comandante in capo designato in caso di guerra. Messimy aveva inizialmente pensato di affidare questo nuovo comando al generale Gallieni o al generale Pau; alla fine invece assegnò l'incarico al generale Joseph Joffre, ufficiale di solida fedeltà alla Terza Repubblica, proveniente dal genio, taciturno e riservato, ma tenace e risoluto che avrebbe preso con grande determinazione le redini del comando a partire dalla sua nomina il 28 luglio 1914 e avrebbe rapidamente modificato in modo sostanziale la pianificazione strategica francese15.

Contenuti del piano XVII
 
La nuova strategia francese di cui si fece promotore il generale Joffre si fondava sull'offensiva e derivava direttamente delle nuove teorie belliche proposte dai giovani ufficiali della scuola di guerra di cui uno degli esponenti principali era il generale Ferdinand Foch. La cosiddetta strategia dell'offensiva ad oltranza considerava fondamentale prendere l'iniziativa in guerra e sfruttare le caratteristiche positive del soldato francese che, naturalmente portato all'attacco e dotato di slancio (elan) e coraggio (cran) superiore ai soldati degli eventuali nemici, avrebbe avuto la meglio in grandi battaglie offensive in campo aperto. Il generale Foch e i suoi seguaci esaltavano anche l'importanza della "forza di volontà" (mistique della volontà) in guerra e della determinazione a vincere. Secondo il generale Foch, che tuttavia prendeva in cosiderazione anche la suretè, la sicurezza, e il discernimento tattico, solo l'offensiva avrebbe potuto garantire la vittoria; l'esercito francese doveva attaccare e marciare su Berlino passando per Magonza16.

 Il generale Joseph Joffre aderiva alle concezioni aggressive del generale Foch e dei cosiddetti "giovani turchi" della scuola di guerra ed egli quindi decise, con la stretta collaborazione del suo sostituto, generale Édouard de Castelnau, ufficiale molto capace ed esperto del lavoro di stato maggiore, di studiare un nuovo piano di operazioni più audace e aggressivo17. Il nuovo comandante in capo designato riteneva necessario riconsiderare globalmente le scelte politico-strategiche della Francia in previsione di una guerra ed elaborare un nuovo piano di schieramento; egli criticava le proposte del generale Michel in primo luogo perche a suo parere distendevano su una linea troppo estesa l'esercito e rischiavano di indebolire pericolosamente il centro e l'ala destra. Il generale Joffre prendeva in considerazione la possibilità di una ampia manovra aggirante tedesca attraverso il Belgio, apparentemente confermata dalle notizie raccolte, da valutazioni strategiche e dalle caratteristiche della rete ferroviaria della Germania occidentale, ma egli non escludeva la possibilità che si trattasse di una manovra di inganno del nemico diretta a provocare il trasferimento di una parte dell'esercito francese verso ovest con il conseguente indebolimento delle truppe francesi schierate ad est da dove passava la via più diretta e più breve per un invasione della Francia18.


 In realtà il generale Joffre, non escludendo una manovra tedesca attraverso il Belgio, considerava l'eventualità che le truppe francesi entrassero a loro volta nel paese confinante e chiese chiarimenti ai politici responsabili sulla possibilità di superare il confine franco-belga per contrastare l'avanzata nemica. Il governo affermò subito che ogni iniziativa francese in Belgio sarebbe dovuta essere presa solo dopo la violazione del territorio neutrale da parte della Germania. Il 9 gennaio e il 21 febbraio 1912 si tennero due importanti riunioni a Parigi con la presenza del generale Joffre; il comandante in capo venne autorizzato ad entrare in Belgio dopo l'eventuale violazione tedesca della neutralità. L'affermazione del generale Henry Hughes Wilson, vice-capo di stato maggiore britannico, il 27 novembre 1912, che la Gran Bretagna considerava negativamente la violazione preventiva della neutralità belga da parte francese, contribuirono a convincere il generale Joffre che era necessario rinunciare "ad ogni idea di manovra a priori attraverso il Belgio"19.
Il 18 aprile 1913 il generale Joffre propose finalmente il suo nuovo piano che venne approvato dal Consiglio Superiore della guerra il 2 maggio. Ulteriori elaborazioni dello stato maggiore continuarono anche nei mesi seguenti fino al 28 marzo 1914, mentre i dettagli tecnici vennero definitivamente completati il 15 aprile 1914. Denominato ufficialmente Plan de renseignements, il cosiddetto Piano XVII non indicava con assoluta precisione i movimenti strategici previsti ma si limitava a delineare le aree di schieramento delle armate in caso di guerra contro la Germania20. Il generale Joffre preferì non divulgare apertamente tutti i dettagli strategici dei suoi piani reali e nè i politici nè i comandanti designati delle armate vennero compiutamente informati sulle operazioni offensive previste21. In particolare il generale mantenne il riserbo sulle sue intenzioni riguardo l'eventuale entrata in Belgio22.
Il generale Joffre intendeva prendere l'iniziativa e non attendere i movimenti dell'avversario; cinque armate sarebbero state messe in campo mentre in un documento segreto allegato al piano XVII erano illustrati i dettagli del previsto intervento di un corpo di spedizione britannico sul fianco sinistro dell'esercito francese, a ovest di Mézières. In linea generale il progetto del generale Joffre prevedeva che la 1ª e la 2ª Armata, concentrate sull'ala destra dello schieramento, avrebbero attaccato in Lorena verso Sarrebourg e Saarbrücken; più a nord la 3ª Armata sarebbe passata all'offensiva verso Metz e Thionville. All'ala sinistra il piano prevedeva il raggruppamemto della 5ª Armata che avrebbe potuto penetrare in Lussemburgo oppure, "alla prima notizia della violazione del territorio belga da parte della Germania", sarebbe entrata in Belgio23.
Questo piano di schieramento e operazioni era basato su una grave sottovalutazione della forza e del numero delle formazioni che la Germania sarebbe stata in grado di mettere in campo; apparentemente il generale Joffre, pur considerando fortemente probabile una violazione tedesca della neutralità belga, non comprese le proporzioni gigantesche di questo movimento aggirante del nemico. Non ritenendo possibile che lo stato maggiore tedesco avrebbe corso il rischio di impiegare in prima linea fin dall'inizio della guerra le sue unità di seconda linea formate da riservisti, l'alto comando francese ipotizzava che avrebbe avuto di fronte circa venti corpi d'armata tedeschi, di cui solo 12-15 sarebbero stati impiegati in Belgio e Lussemburgo. In realtà nell'agosto 1914 l'alto comando tedesco avrebbe concentrato 36 corpi d'armata sul fronte occidentale e avrebbe effettuato la grande avanzata attraverso il Belgio con 27 corpi d'armata24.
Il generale Joffre aveva piena fiducia nei suoi piani; egli continuò mantenere il segreto riguardo i dettagli delle operazioni anche dopo l'inizio della guerra europea. il governo non venne informato dello sviluppo dei combattimenti e ancora il 3 agosto 1914, durante una riunione finale con i suoi generali comandanti di armata, si mantenne estremamente riservato e espresse la sua convinzione che per vincere più dei piani fossero importanti la fiducia e la determinazione dei capi e delle truppe. Il 4 agosto 1914 il comandante in capo trasferì il Gran Quartier Gènèral a Vitry-le-François da dove intendeva dirigere l'esecuzione del Piano XVII25.

Fallimento del piano XVII

Durante i primi giorni d'agosto 1914 il generale Joffre concentrò la sua attenzione e la sua attività soprattutto nelle operazioni di mobilitazione e concentramento dell'esercito e nell'analisi delle informazioni disponibili per interpretare le intenzioni dei tedeschi e comprendere il loro piano d'operazioni. Egli ritenne prematuro fino all'8 agosto svelare i suoi piani; quel giorno il generale Joffre, ritenendo di aver compreso, dopo le notizie giunte sull'invasione tedesca del Belgio e i primi attacchi a Liegi, la manovra messa in atto dal nemico, decise di diramare  la "Istruzione Generale n. 1" in cui finalmente, partendo dalle posizioni stabilite nel Piano XVII, venivano assegnati precisi incarichi operativi ad ogni armata26. Il piano d'operazioni definitivo che il generale Joffre avrebbe cercato di mettere in atto nel mese di agosto prevedeva che i francesi sferrassero due grandi attacchi: in Lorena, la 1ª Armata del generale Auguste Dubail e la 2ª Armata del generale Édouard de Castelnau sarebbero avanzate verso Sarrebourg, Saarbrucken, Strasburgo, riconquistando i territori annessi nel 1870 e agganciando grandi forze tedesche; il secondo colpo, ancora più importante, sarebbe stato portato attraverso le Ardenne belghe a nord della linea Metz-Thionville dalla 3ª Armata del generale Pierre Ruffey e della 4ª Armata del generale Fernand de Langle de Cary. La riserva sarebbe stata costituita dalla 5ª Armata del generale Charles Lanrezac che sarebbe stata raggruppata a Rethel e Mézières in attesa di conoscere gli sviluppi della manovra tedesca attraverso il Belgio centrale27.  
Il generale Joffre era pienamente fiducioso; egli riteneva che i suoi piani fossero corretti e che le disposizioni previste avrebbero consentito di schierare opportunamente le sue armate ottenendo la superiorità numerica e tattica nei punti decisivi e raggiungendo al vittoria e la "distruzione" dell'esercito tedesco. Il comandate in capo e il vice-capo di stato maggiore, generale Henri Berthelot, non furono affatto impressionati dalle notizie sulla potenza dell'ala destra tedesca in avanzata in Belgio né dai timori espressi dal comandante della 5ª Armata, generale Lanrezac. Al contrario essi ritennero che i tedeschi, avendo rafforzato la loro ala destra, fossero molto più deboli al centro nelle Ardenne dove contavano di sferrare l'attacco decisivo, spezzando in due tronconi il fronte nemico28.  

 Nonostante le ottimistiche valutazioni del generale Joffre e dei suoi principali collaboratori, il Piano XVII nella sua applicazione concreta sul campo rivelò entro la terza settimana di agosto le sue gravi carenze e si concluse cun un completo fallimento nella cosiddetta battaglia delle frontiere. Le truppe tedesche penetrate in Belgio a nord e a sud della Mosa erano molto più numerose del previsto e la loro minacciosa avanzata costrinse il generale Joffre a far intervenire sulla Sambre la 5ª Armata del generale Lanrezac e il Corpo di spedizione britannico che tuttavia non furono in grado di fermare la marcia tedesca e, sconfitti nella battaglia di Charleroi e nella battaglia di Mons, dovettero ripiegare verso sud. Inoltre, a differenza di quel che riteneva il generale Joffre, le truppe tedesche schierate al centro non erano affatto deboli e al contrario furono in grado di affrontare e battere duramente le armate dei generali Ruffey e Langle de Cary che in teoria avrebbero dovuto sferrare l'attacco decisivo nelle Ardenne. Il 24 agosto sia nelle Ardenne che in Belgio le armate francesi e il corpo di spedizione britannico erano in piena ritirata dopo aver subito una serie di sanguinose sconfitte. Fin dal 20 agosto era fallita anche l'altra offensiva francese in Lorena; dopo alcuni successi iniziali i generali Castelnau e Dubail erano stati contrattaccati e sconfitti, i francesi dovettero ritirarsi  oltre il confine29.
Il 25 agosto il generale Joffre dovette riconoscere il fallimento dei suoi piani e la necessità di organizzare una ritirata generale, modificare lo schieramento delle armate e studiare un nuovo progetto di operazioni per fermare l'invasione. Egli tuttavia non ammise l'errata concezione del Piano XVII né il fallimento delle tattiche eccessivamente offensive delle truppe francesi che erano costate perdite rovinose di fronte alla potenza di fuoco dei tedeschi30. Egli invece continuò a ritenere che i suoi piani erano adeguati e che avevano permesso di schierare le armate in posizioni favorevoli; egli accusò del fallimento soprattutto la scarsa energia di alcuni dei generali in comando e anche l'insufficiente elan offensivo dimostrato da una parte delle truppe che in realtà invece erano state sconfitte in parte proprio per la loro incauta aggressività. Il generale Joffre procedette, mentre dirigeva la ritirata, a sostituire numerosi generali, tra cui i generali comandanti d'armata Ruffey e Lanrezac, da lui ritenuti poco determinati e ottimisti e diramò nuove disposizioni tattiche per migliorare la collaborazione tra artiglieria e fanteria31.  
Nonostante il fallimento del Piano XVII e la necessità di improvvisare un nuovo progetto operativo, il generale Joffre, dimostrando tenacia, ottimismo e determinazione, sarebbe riuscito in settembre 1914 a fermare l'invasione e vincere la decisiva prima battaglia della Marna, grazie anche agli errori strategici e tattici degli alti comandi tedeschi che non sarebbero stati in grado di concludere vittoriosamente la loro brillante offensiva secondo le indicazioni del Piano Schlieffen.

Fronte occidentale (1914-1918)


Data
4 agosto 1914 - 11 novembre 1918
Luogo
Belgio, Francia nordorientale e confine franco-tedesco.
Esito
Vittoria degli Stati dell'Intesa, collasso dell'Impero tedesco e proclamazione della Repubblica di Weimar in Germania. Spartizione dei territori dell'Impero in base alla conferenza di pace di Parigi
Modifiche territoriali
Cambiamenti nel confine franco-tedesco e riannessione dell'Alsazia e Lorena alla Francia.

Il fronte occidentale fu il teatro, nel 1914, dell'inizio delle operazioni della prima guerra mondiale, quando l'esercito tedesco invase dapprima il Lussemburgo ed il Belgio, occupando poco dopo importanti zone minerarie ed industriali della Francia nordorientale. L'invasione tedesca, inizialmente rapida ed apparentemente inarrestabile, venne fermata con la prima battaglia della Marna; le due parti in conflitto si attestarono allora lungo un'irregolare linea fortificata che si stendeva senza interruzioni dalle spiagge del mare del Nord sino alla frontiera svizzera, linea che rimase essenzialmente invariata per la maggior parte della lunga guerra di posizione che ne derivò.
Fra il 1915 e il 1918 su questo fronte ebbe luogo una serie di importanti offensive e controffensive, intendendo ambedue le parti rompere lo stallo e sfondare le linee nemiche, ricominciando così la guerra di movimento. Tuttavia, la preponderanza dei mezzi di difesa quali trinceramenti, nidi di mitragliatrici e filo spinato, rispetto alle obsolete tattiche offensive, causò invariabilmente gravi perdite alla parte attaccante. In quest'ottica, il fronte occidentale vide nel corso del conflitto l'introduzione di nuove tecnologie militari, tra cui le armi chimiche ed i carri armati, ma fu solo con l'adozione di tattiche di combattimento più moderne che verso la fine del conflitto si instaurò un certo grado di mobilità.
Nonostante la sua natura statica, questo teatro di guerra si dimostrò decisivo per l'andamento generale del conflitto, dato l'enorme logorio di uomini e mezzi a cui furono costrette le due parti in lotta. L'avanzata finale delle armate alleate nel 1918, dopo un estremo tentativo tedesco di sfondamento, persuase il governo di Guglielmo II di Germania dell'ineluttabile sconfitta, e lo costrinse all'armistizio.

Premesse

I motivi dell'attacco tedesco hanno radici profonde, da ricercare nella riorganizzazione politica e militare di Francia e Germania, a seguito della guerra franco-prussiana del 1870, e della Gran Bretagna.

La situazione in Francia
 
La Francia uscì pesantemente sconfitta dalla guerra contro la Prussia. Nonostante nel luglio del 1870, durante la prima fase della guerra, le forze di Napoleone III avessero subito alcune sconfitte apparentemente non decisive, da quel momento in poi l'esercito francese iniziò a ritirarsi e non riuscì più a riprendersi: errori strategici, disorganizzazione e demoralizzazione portarono i francesi ad asserragliarsi prima a Metz, dove metà dell'esercito comandato dal generale François Bazaine venne circondato, e dove si arrese dopo due mesi di inerzia, e poi a Sedan, in cui l'altra metà dell'esercito, comandato da Patrice de Mac-Mahon, venne intrappolata e costretta alla resa definitiva. Fu una vera e propria catastrofe per l'esercito francese. Quattro mesi dopo il re di Prussia si proclamò Kaiser nella Galleria degli Specchi della Reggia di Versailles, nel palazzo su cui si fregiava la scritta Á toutes les Gloires de la France davanti ad un dipinto raffigurante i francesi in atto di umiliare i tedeschi9.
La Francia si ritrovò con un esercito in sfacelo ed una nazione demoralizzata e finanziariamente in serie difficoltà, mentre il Paese era dilaniato da una sanguinosa guerra civile. L'Alsazia e la Lorena, centri industriali nevralgici per l'Europa e per la Francia, vennero ceduti al Reich tedesco, che impose il pagamento di 200 milioni di sterline per danni di guerra. Nel settembre 1873 gli ultimi soldati prussiani lasciavano il suolo della Francia, ma l'orgoglio nazionale francese e una nuova ventata di fiducia nell'esercito davano slancio ad una nazione ansiosa di rivincita verso il secolare nemico tedesco: fu il cosiddetto "sentimento di revanscismo", destinato ad orientare in senso aggressivo la politica francese dell'ultimo scorcio di secolo10.
Calca di persone pronte alla mobilitazione generale all'esterno della stazione parigina di Gare de l'Est, 2 agosto 1914.
I nuovi confini interponevano tra la Germania e Parigi appena 300 km, senza più alcuna vera barriera naturale come - in precedenza - il Reno e i Vosgi; perciò la Francia, dopo essersi ripresa economicamente e militarmente, iniziò la costruzione lungo la propria frontiera orientale di un forte sistema difensivo. Per non ricadere nella trappola di Metz, invece di fortificare le città si decise la costruzione di due linee continue di forti: venne realizzato così il sistema Séré de Rivières, ideato dall'omonimo generale Raymond Séré de Rivières, che consisteva in una lunga linea fortificata che aveva il "nodo principale" nelle fortezze attorno a Verdun.
Quindici anni dopo Sedan, l'esercito francese aveva riguadagnato la propria potenza difensiva e offensiva, e nel giro di pochi anni la perdita dell'Alsazia e della Lorena venne in parte dimenticata in virtù delle numerose conquiste coloniali. La Francia visse a cavallo tra il XIX e il XX secolo un periodo di prosperità economica e di fervore culturale che fece affievolire i bellicosi sentimenti revanscisti11. Ma con l'Affaire Dreyfus, che per un decennio polarizzò le passioni dell'intero Paese, sui vertici dell'esercito cadde la disistima dell'intera nazione. All'interno dell'esercito si crearono pregiudizi anticlericali per via della posizione antidreyfusarda degli ambienti conservatori e cattolici, e i militari dichiaratamente cattolici si trovarono in svantaggio nella carriera12. All'Affaire Dreyfus seguirono quindi provvedimenti politici indirizzati ad una netta suddivisione tra Stato e Chiesa, cui seguì la più intensa campagna antimilitarista che la Francia avesse conosciuto dal 1870; la fiducia della nazione nell'esercito toccò il suo punto più basso13.
Dopo la crisi di Agadir del 1911, in Francia e Germania ripresero forza le correnti nazionalistiche e aggressive: nel 1913 venne ripristinata la ferma di tre anni abolita dopo il caso Dreyfus, e un convinto revanscista originario della Lorena, già Primo Ministro e ministro degli esteri, Raymond Poincaré, fu eletto presidente della Repubblica francese.
Nel Paese crebbe il desiderio di rivincita, e nell'esercito il morale non fu mai così alto, la guerra era ormai alle porte e tutto il popolo francese sembrava apprestarvisi1415. L'esercito ritrovò vigore e sostegno nella nazione, il sistema Séré de Rivières venne completato, ma con l'ardore nazionalistico si rovesciarono anche le concezioni strategiche che avevano portato alla costruzione di un apparato difensivo16: il timore di essere costretti, in caso di conflitto ad una nuova disastrosa ritirata, la tradizionale estraneità dell'esercito francese fin dal periodo rivoluzionario e napoleonico alle tattiche difensive, e la ritrovata autostima, fecero crescere nelle file degli ufficiali francesi l'aggressiva teoria dell'"offensiva ad oltranza", ben illustrata dall'allora tenente colonnello Louis de Grandmaison, sostenitore del fermo principio secondo cui:
« se il nemico osava prendere l'iniziativa anche per un solo istante, ogni pollice di terreno doveva essere difeso fino alla morte e, se perduto, riconquistato con un contrattacco immediato anche se inopportuno17. »
Così vennero fissate le tattiche militari francesi impiegate ostinatamente durante tutta la Grande Guerra, tattiche che costarono alla Francia un prezzo enorme di vite umane. Nonostante i continui fallimenti del biennio 1914-1915, i comandanti francesi, da Foch a Joffre, fecero affidamento su questa teoria, ritenendo inizialmente superflue anche armi di cui l'esercito tedesco dell'epoca faceva già ampio uso, come il supporto dell'artiglieria pesante alla fanteria, e l'uso manovrato delle mitragliatrici. Viceversa, in nome della "volontà di conquista" teorizzata da de Grandmaison, la Francia tentava di assicurarsi la vittoria coll'impiego di truppe motivate lanciate in impetuosi attacchi alla baionetta, "svolti col massimo ardore possibile"18.
Tale filosofia, basata sull'aggressione incurante della difesa, e soprattutto incurante delle intenzioni del nemico, fu instillata negli ufficiali e nei soldati in modo massiccio, tanto che allo scoppio della guerra l'esercito francese possedeva solo un numero limitato di armi campali di grosso calibro, in quanto ritenute adatte solo ad operazioni di difesa e quindi inutili nelle teorie di de Grandmaison19.

La situazione in Germania

«Una generazione che ha preso una bastonatura è sempre seguita da una che la dà20 »
(Otto von Bismarck)

 La Germania continuava a guardare con una certa preoccupazione alle iniziative e ai movimenti militari dei francesi, il cui desiderio di rivincita non fu mai definitivamente sopito, e lo stesso cancelliere tedesco Bismarck più di una volta pensò ad una guerra preventiva. Nel frattempo anche la Germania viveva un periodo di splendore economico e sociale: un incremento demografico superiore a quello francese e l'annessione di due importanti regioni industriali come l'Alsazia e la Lorena, l'avevano resa in pochi anni una potenza industriale in grande espansione21.
Alla fine del secolo due nuovi fattori imposero una completa revisione della strategia militare dello Stato maggiore generale tedesco: la costruzione del sistema di fortificazioni "Séré de Rivières", in grado di ostacolare un attacco portato lungo le tradizionali direttrici d'invasione, e il costituirsi di un'alleanza tra Francia e Russia (1891-1894), che avrebbe costretto la Germania ad una guerra su due fronti. Questi fattori aguzzarono l'ingegno di una delle più grandi menti militari tedesche, il capo di Stato maggiore Alfred von Schlieffen, il quale, con l'omonimo piano, progettò di sconfiggere la Francia con una "guerra lampo", da scatenare e concludere mentre nel vasto ed arretrato Impero russo erano ancora in corso le operazioni di mobilitazione22.
Nonostante l'esercito tedesco del 1914 fosse notevolmente cresciuto in mezzi ed effettivi rispetto al 187023, non aveva granché modernizzato la propria organizzazione interna, specie riguardo alla selezione degli ufficiali: se in Francia erano la politica e la religione a determinare le promozioni, il sistema classista vigente in Germania poteva ostacolare le carriere di validi ufficiali di origine borghese come Erich Ludendorff, a favore di personalità meno brillanti come von Moltke il giovane. All'inizio del 1879 Bismarck decise di stipulare un'alleanza difensiva e conservatrice con l'Impero austro-ungarico. Ma l'attività diplomatica di Bismarck non si limitò a questo; cercò innanzitutto un riavvicinamento politico con la Francia in modo tale da emarginare la Gran Bretagna: la relativa libertà di azione così acquisita permise in pochissimi anni alla Germania di formare un proprio consistente impero coloniale in Africa24.
Nel 1890, però, Guglielmo II di Germania strappò le redini del governo a Bismarck, redasse un proprio programma di riforme sociali e cominciò a ingerirsi negli affari del Marocco, pur con idee poco chiare. Dopo la crisi di Agadir la Germania accelerò le operazioni di riarmo, già intraprese dal cancelliere Bismarck a fine Ottocento, riarmo che permise all'esercito tedesco di presentarsi nel 1914 con una dotazione materiale decisamente migliore rispetto al nemico francese, ma guidato da generali non sempre in grado di comandare oltre un milione e mezzo di uomini25.

La situazione in Gran Bretagna

Il primo decennio del Novecento vide il proliferare di antagonismi e risentimenti fra nazioni, e in Gran Bretagna scrittori e giornalisti, ammiragli e deputati, manifestavano il timore che la Germania acquisisse la superiorità sui mari, un timore che crebbe alla notizia dell'imminente ampliamento del canale di Kiel, attraverso il quale le navi tedesche avrebbero potuto spostarsi in modo più rapido e sicuro nel mar Baltico e nel mare del Nord. La stampa popolare alimentò l'ostilità verso la Germania con ripetuti appelli al governo perché introducesse la leva obbligatoria, onde scongiurare il pericolo che il Paese, in caso di guerra, potesse contare solo su un piccolo esercito di professionisti26.
Nel 1904 Francia e Gran Bretagna stipularono la Entente Cordiale (Cordiale Intesa) per comporre le dispute su Egitto e Marocco, e dal 1906 diedero vita a consultazioni bilaterali su questioni militari. Questo sistema di accordi era sfociato nella cosiddetta "Triplice Intesa", che comprendeva anche la Russia alleata con la Francia fin dal 1892, e che fece nascere negli Imperi centrali la paura dell'accerchiamento2728.
 Nel 1907 la Gran Bretagna firmò un accordo con la Russia che proponeva di dirimere tra i due Paesi le antiche dispute per i territori della Persia e dell'Afghanistan; il trattato parve alla Germania come un'ulteriore prova di un disegno di accerchiamento. Nel 1911 Gran Bretagna e Francia si mossero di concerto per impedire alla Germania di insediarsi nel porto di Agadir, con i britannici che minacciarono di aprire le ostilità se le navi tedesche non avessero preso il largo; la mossa funzionò ma il rancore che sedimentò nell'animo dei tedeschi fu enorme29.
Tuttavia tra Gran Bretagna e Germania il vero grande motivo di frizione era il desiderio del Kaiser di rivaleggiare con gli inglesi sul piano della potenza navale: i tedeschi aumentarono il numero di marinai e di navi tanto che l'allora ministro della Marina britannico Winston Churchill propose che i due Paesi si accordassero per una tregua nel riarmo navale, offerta prontamente rifiutata dal Kaiser; conseguenza immediata fu il rafforzarsi della flotta russa nel Baltico, che poteva contare su stanziamenti britannici30. Nonostante il gelo anglo-tedesco, la guerra sembrava ancora lontana, tanto che il 13 agosto 1913 Gran Bretagna e Germania si accordarono segretamente sulla creazione di sfere di influenza nei possedimenti portoghesi in Africa e sullo sfruttamento della ferrovia di Baghdad in modo da condividerne i vantaggi31.
Ma nell'estate del 1914 la situazione diplomatica precipitò inaspettatamente. Nel giugno 1914, durante la "settimana velica di Kiel", una kermesse per festeggiare l'apertura del canale a cui partecipò una squadra di navi da guerra britanniche, il Kaiser, che a bordo del suo yacht Meteora V indossava per l'occasione l'uniforme da ammiraglio della flotta inglese, fu informato dell'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando e abbandonò in tutta fretta i festeggiamenti per tornare a Potsdam. Poco più di un mese e mezzo dopo i tedeschi invasero il neutrale Belgio, atto che spinse la Gran Bretagna ad entrare in guerra, e in poco tempo due Paesi legati da parentele dinastiche e da diversi trattati economici impegnarono la quasi totalità delle proprie energie con l'obiettivo di distruggersi a vicenda32.

Si aprono le ostilità

Dopo la rottura delle relazioni diplomatiche fra Austria-Ungheria e Regno di Serbia, il governo tedesco, in conseguenza alla mobilitazione generale russa, il 31 luglio dichiarò guerra alla Russia e alla Francia, e mobilitò le proprie truppe in oriente ed occidente. Se la Francia avesse riunito tutto il suo potenziale bellico e dichiarato guerra proprio mentre le armate tedesche avanzavano ad oriente, la Germania avrebbe corso il rischio di trovarsi in serie difficoltà. In ottemperanza al piano Schlieffen, la strategia tedesca mirava a sconfiggere con una "guerra lampo" la Francia e, confidando nella lenta e pesante macchina bellica russa, rivolgere poi tutte le proprie forze ad oriente33.
Il piano, ideato dal generale Alfred von Schlieffen e completato nel 1905, prevedeva che la Francia fosse attaccata da nord attraverso il Belgio e i Paesi Bassi, così da evitare la lunga linea fortificata alla frontiera francese e consentire all'esercito tedesco di calare su Parigi con un'unica grande offensiva. Schlieffen anche dopo essersi ritirato dall'esercito continuò a lavorare al piano, che aveva sottoposto ad un'ultima revisione nel dicembre 1912, poco prima di morire. Il generale von Moltke, suo successore come capo di Stato maggiore dell'esercito, poco prima dello scoppio del conflitto accorciò il tratto di fronte su cui effettuare l'offensiva escludendone i Paesi Bassi. Secondo il piano, Parigi sarebbe stata occupata, e la Francia soggiogata, nel giro di sei settimane; la Germania avrebbe potuto allora rivolgere tutte le proprie forze contro la Russia34.
La Gran Bretagna non era vincolata alla Francia da nessun trattato di alleanza ma solo dall'Entente cordiale35; con il Belgio invece esisteva, ratificato nel 1839 da varie potenze europee, il trattato dei XXIV articoli che ne garantiva la neutralità e la protezione in caso di attacco36, e in virtù di questo il 31 luglio 1914 il governo di Londra chiese a Francia e Germania di rispettare la neutralità del piccolo Stato. La Francia si impegnò a farlo, la Germania tacque37.
Il 2 agosto, per la prima volta dal 1871, alcune pattuglie tedesche attraversarono la frontiera francese dando luogo a sporadici scontri. A Joncherey, vicino al confine svizzero-tedesco, venne ucciso il caporale Andrè Peugeot: la prima vittima di una guerra che sarebbe costata alla Francia oltre un milione di morti. Seguendo i piani, alle 19 del 2 agosto la Germania inviò un ultimatum al Belgio, concedendo dodici ore di tempo per acconsentire al passaggio delle truppe tedesche; i belgi rifiutarono. Il giorno seguente la Germania dichiarò guerra alla Francia, e in ottemperanza al piano Schlieffen le truppe tedesche si apprestarono a varcare il confine belga38.
La Gran Bretagna, in base al trattato del 1839, inviò un ultimatum alla Germania, destinato a scadere alle 23 del 4 agosto. La Germania non aveva scelta: il piano globale di guerra su due fronti era già in atto, e sette ore prima della scadenza dell'ultimatum britannico le truppe tedesche oltrepassarono la frontiera belga; di conseguenza alle 23 la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania39.

L'invasione del Belgio e della Francia

 La mattina del 4 agosto alcuni milioni di soldati, che costituivano le avanguardie dei rispettivi eserciti, si radunarono nelle caserme oppure si misero in marcia. A est le truppe russe inviate al confine con la Prussia Orientale avanzarono in direzione di Berlino; alla frontiera con l'Alsazia-Lorena le truppe francesi, seguendo il piano XVII40, sconfinarono in Germania convinte di riscattare le umiliazioni del passato; il Lussemburgo fu occupato senza opposizione il 2 agosto, e più a nord, alla frontiera con il Belgio, i tedeschi avanzavano a gran velocità dando corpo all'invasione. La Gran Bretagna non aveva truppe sul continente europeo, e il suo corpo di spedizione al comando di Sir John French, doveva ancora essere radunato, armato e inviato al fronte al di là della Manica41.
Quel giorno le forze tedesche iniziarono la battaglia di Liegi andando all'assalto del primo vero ostacolo sul loro cammino: il campo fortificato di Liegi con la sua guarnigione di 35.000 soldati. L'attacco durò più del previsto e solo il 7 agosto la fortezza centrale capitolò, ma non così gli altri dodici forti: alcuni resistettero per molti giorni prima che i tedeschi potessero proseguire l'avanzata secondo i piani42.

 Il 12 agosto l'Austria-Ungheria invase la Serbia, mentre sul fronte occidentale continuavano furiosi i combattimenti sul confine franco-tedesco e soprattutto in Belgio. Dopo la caduta di Liegi la maggioranza dell'esercito belga si mise in ritirata verso ovest, mentre il 25 più a nord i tedeschi bombardarono Anversa con uno Zeppelin, durante le fasi preliminari dell'assedio della città che durò fino al 28 settembre e comportò enormi devastazioni43. L'esercito tedesco oltrepassò Anversa, ma la piazzaforte rimase una spina nel fianco fino alla fine di settembre. Più a sud intanto, dopo Liegi, dal 17 al 23 agosto seguì un altro assedio diretto alla fortezza di Namur, seconda in grandezza solo a Liegi, che cadde in mano tedesca il 24 agosto44. Lo stesso 12 agosto le avanguardie del corpo di spedizione britannico attraversarono la Manica scortate da 19 navi da guerra. In dieci giorni furono sbarcati 120.000 uomini senza che una sola vita o una sola nave andassero perdute, non avendo la Kaiserliche Marine mai ostacolato le operazioni45.
Il 20 agosto, mentre i forti di Namur subivano l'assedio, le truppe tedesche entrarono a Bruxelles. All'estremità meridionale del fronte i francesi, penetrati in Alsazia e vicini alla città di Mulhouse, giunsero a sedici chilometri dal Reno, ma non sarebbero mai andati oltre. Più a nord i francesi penetrati in Lorena furono sconfitti a Morhange e iniziarono a ritirarsi verso Nancy. La città, nonostante la pressione tedesca, resse l'urto grazie ai sacrifici della 2ª armata francese guidata da Édouard de Castelnau46.
All'alba del 22 agosto su un'ampia fascia centrale del territorio belga, due armate tedesche, una al comando di Alexander von Kluck e l'altra al comando di Karl von Bülow, erano stabilmente schierate, e a metà del percorso che le divideva dai porti di Ostenda e Dunkerque. A questa avanzata si opponevano tre eserciti: i belgi attestati a Namur, i francesi a Charleroi, e i britannici a Mons (questi ultimi arrivati nello stesso momento in cui la 1ª armata di von Kluck puntava a sud verso la frontiera francese).

 Lo stesso giorno iniziò l'avanzata tedesca lungo tutto il fronte; la 5ª armata francese fu cacciata da Charleroi, e cominciò furiosa la battaglia di Mons, battesimo del fuoco per il corpo di spedizione britannico, che resistette con inaspettata tenacia47. I tedeschi riuscirono comunque a rompere la resistenza delle forze di French e il 23 iniziarono ad avanzare; quello stesso giorno sia i francesi da Charleroi che i belgi da Namur cedettero alla pressione nemica e iniziarono a ripiegare. L'avanzata tedesca era irresistibile; il 30 agosto le forze anglo-francesi erano state respinte oltre l'Aisne e continuavano a ritirarsi verso la Marna. Il 2 settembre il governo francese si rifugiò a Bordeaux e le truppe anglo-francesi, avendo appreso che i tedeschi non avrebbero attaccato Parigi puntando verso sud, ma si sarebbero diretti verso sud-ovest contro i britannici48, si attestarono sulla Marna, facendone saltare tutti i ponti49.

Il "miracolo della Marna"

 Il 3 settembre l'esercito tedesco giunse a 40 chilometri da Parigi50, ma inseguendo gli anglo-francesi in ritirata, gli invasori persero l'occasione di espugnare la capitale, e si lasciarono trascinare a est di Parigi e a sud della Marna dove gli Alleati si preparavano ad ingaggiare battaglia. La battaglia della Marna iniziò il 5 settembre e i tedeschi ormai esausti e indeboliti furono sopraffatti dai contrattacchi anglo-francesi e il 13 respinti oltre l'Aisne, ritirandosi di quasi 100 chilometri dall'inizio della battaglia51.
Le ferrovie che servivano i territori conquistati non erano all'altezza del compito di trasportare le ingenti quantità di rifornimenti indispensabili all'avanzata delle armate tedesche; né potevano sollevare il soldato dalla fatica di marciare 50 o 60 km al giorno. I rifornimenti che raggiungevano i posti di smistamento ferroviario tendevano a rimanervi bloccati, e nonostante l'apertura di nuove strade i veicoli a disposizione non riuscivano a soddisfare le esigenze di cinque armate. Dal punto di vista operativo, ogni giorno che passava portava il fronte sempre più vicino a Parigi: quest'area ospitava invece una fitta rete di ferrovie che dava ai francesi la possibilità di muovere le proprie truppe molto rapidamente. Durante la battaglia, la comparsa di truppe anglo-francesi in punti imprevisti costrinse lo stato maggiore tedesco ad autorizzare una ritirata generale52. La battaglia della Marna, durata quattro giorni, decretò la fine del piano Schlieffen e cancellò per sempre la possibilità di una rapida vittoria tedesca sul fronte occidentale. I contendenti cercarono allora di riprendere la guerra di manovra, ma uno spostamento del fronte verso sud era sconsigliato (la neutralità della Svizzera lo impediva): l'unico spazio disponibile era quindi a nord53.
Durante le fasi finali della "corsa al mare" gli Alleati ricorsero ad allagamenti di ampi territori per impedire l'avanzata delle truppe tedesche. In questa foto, territori allagati nei pressi di Ramskappelle.

La "corsa al mare"

In seguito all'arretramento tedesco le forze contrapposte tentarono di aggirarsi reciprocamente sul fianco nella cosiddetta corsa al mare, e in breve estesero il proprio sistema trincerato dal canale della Manica alla frontiera con la Svizzera54. La corsa al mare costituì la seconda fase decisiva della guerra ad occidente, in quanto dopo la caduta definitiva di Anversa, i tedeschi puntarono decisi verso le coste e i relativi porti del Belgio e della Francia. I britannici mandarono rinforzi della Royal Naval Division a Ostenda mentre il 3 ottobre i tedeschi, proseguendo la loro avanzata verso il mare del Nord, occuparono Ypres e l'11 iniziarono l'assedio di Lilla55.
Nella corsa al mare furono però gli anglo-francesi ad avvicinarsi per primi alla meta; il 14 i britannici occuparono Bailleul cacciando i tedeschi, il 15 questi occuparono il porto di Ostenda e il 18 i britannici riconquistarono Armentiéres e Ypres costringendo i tedeschi ad arretrare fino a Menin56. Da quel momento i due eserciti fecero continui tentativi di aggiramento che portarono il fronte fino a Nieuwpoort, sul mare del Nord. Dopo due cruente battaglie, a Ypres e a Nieuwpoort, con cui i tedeschi tentarono senza successo di aprirsi la strada verso il mare, la guerra di manovra finì definitivamente e iniziò quella guerra di trincea che avrebbe caratterizzato tutto il conflitto fino alla sua conclusione nel 191857.

Inizia la guerra di trincea

 I due schieramenti iniziarono a rafforzare e fortificare le proprie posizioni scavando trincee, camminamenti, rifugi e casematte. Dal mare del Nord alle Alpi, fra uno schieramento e l'altro, si estendeva la terra di nessuno, martoriata dalle granate e continuamente contesa58. I soldati combattevano in trincee distanti tra loro dai 200 ai 1000 m in un terreno martoriato dalle esplosioni, costellato di cadaveri insepolti e reso un pantano dalle piogge, dalla neve e dal continuo lavorio delle granate. I combattimenti continuarono anche dopo la conclusione della battaglia di Ypres senza che nessuno dei due contendenti si avvantaggiasse, e con l'inverno la situazione peggiorò; le trincee si riempirono, a causa delle piogge torrenziali, di acqua gelida, e la vita dei combattenti divenne - se possibile - ancora più infernale, in un susseguirsi di incursioni e piccoli attacchi lungo tutto il fronte59.
Solo in occasione del primo Natale di guerra sui campi di battaglia si intravvide un ricordo della vita "normale", e alla vigilia, dopo cinque mesi di aspri combattimenti, le armi tacquero lungo tutto il fronte, quando i combattenti dei due schieramenti concordarono - senza l'assenso degli alti comandi - una tregua di tre giorni in cui seppellire i morti e festeggiare insieme il Natale: fu la cosiddetta "tregua di Natale", uno spiraglio di umanità che non si poté più ripetere durante tutta la guerra60.
La situazione di stallo a occidente non impediva né le incursioni aeree britanniche nella terra di nessuno né i continui scambi di colpi delle artiglierie. Il 10 marzo, come parte di un'offensiva maggiore nella regione dell'Artois, l'esercito britannico attaccò a Neuve Chapelle nel tentativo di prendere il crinale di Aubers. L'assalto fu condotto da quattro divisioni lungo un fronte di tre chilometri, preceduto da un bombardamento concentrato durato 35 minuti. Inizialmente i progressi furono rapidi, e il villaggio fu catturato in quattro ore, tuttavia l'attacco rallentò per problemi logistici e di comunicazione, mentre i tedeschi riuscirono ad inviare delle riserve e contrattaccarono vanificando il tentativo. Poiché i britannici avevano utilizzato un terzo delle proprie scorte totali di proiettili d'artiglieria, sir John French attribuì il fallimento alla mancanza di munizioni6162.

La guerra dei gas
Mitraglieri britannici fanno fuoco con una mitragliatrice Vickers muniti di maschera antigas. Somme, luglio 1916.
Nella terza settimana dell'aprile 1915 cominciò una nuova fase, che, secondo i tedeschi, avrebbe dovuto farli uscire dallo stallo e condurli alla vittoria: il 22 aprile per la prima volta dall'inizio della guerra impiegarono su vasta scala le armi chimiche, nel secondo attacco al saliente di Ypres, sperando in tal modo di riprendere quella guerra manovrata che erano stati addestrati a combattere63.
I tedeschi aprirono dalle 4000 alle 5700 bombole, contenenti in tutto 168 tonnellate di cloro, contro le truppe coloniali francesi stanziate sulla cima Pilckem6465. La nube giallo-verde asfissiò i difensori della prima linea, e nelle retrovie causò il panico provocando una breccia nella linea Alleata. Tuttavia i tedeschi non erano preparati ad un tale successo, e non avevano approntato riserve sufficienti per approfittarne. Questo primo attacco fu di natura sperimentale, non tattica; giacché inizialmente i tedeschi non avevano preso nemmeno in considerazione di entrare a Ypres, ebbero grosse difficoltà a coordinare l'avanzata delle truppe e il lancio dei gas: se il vento non era a favore, avanzare era rischioso per la possibilità che i soldati si trovassero nella stessa nube destinata al nemico66. Dopo che con lanci di gas avevano fatto arretrare i britannici fino alle porte di Ypres, il 1º maggio i tedeschi erano sicuri di poter vincere ad occidente. Nonostante i ripetuti bombardamenti e attacchi, i tedeschi non riuscirono però a superare lo stallo e il 25 le operazioni cessarono67.
Dopo questo attacco anche gli Alleati cominciarono a sviluppare la nuova arma senza tuttavia riuscire ad eguagliare i nemici nello sviluppo degli aggressivi né nelle tecniche d'impiego, che, inizialmente piuttosto approssimative, vennero nel corso del tempo perfezionate con l'introduzione delle granate caricate a gas, che consentivano di colpire con maggiore precisione una determinata zona di fronte. Per tutto il conflitto i tedeschi riuscirono comunque a mantenere una netta superiorità tattica nell'uso di tale arma. Lo schema di bombardamento chimico tedesco nel 1917 vedeva l'impiego iniziale di agenti starnutatori o irritanti, che rendevano difficile ai difensori indossare e mantenere la maschera antigas; seguiva poi una salva di granate al fosgene, con effetti asfissianti e inabilitatori, quindi veniva sparato un terzo tipo di granate cariche di gas mostarda, raramente letale, ma che grazie alla sua persistenza sul terreno rendeva difficile ai difensori il contrattacco e anche la sola permanenza nelle proprie trincee. Oltre a ciò si alternavano proiettili convenzionali con proiettili a gas, per ingannare i difensori circa la natura dell'attacco, e si poteva scegliere il mix di gas in relazione all'impiego, difensivo od offensivo che fosse68.
Al termine del conflitto si stimò che il gas tossico avesse mietuto in totale 78.198 vittime fra gli Alleati mettendone fuori combattimento per un periodo più o meno lungo almeno 908.645, mentre gli Alleati, nonostante avessero impiegato nel corso della guerra la stessa quantità di gas dei tedeschi69, inflissero ai tedeschi 12.000 perdite e 288.000 intossicati, a dimostrazione della maggiore efficacia nelle tattiche d'impiego tedesche nei confronti dei nemici70.

Le prime offensive alleate

 Il 9 maggio sul fronte occidentale le truppe francesi attaccarono le posizioni tedesche sul crinale di Vimy; fu il primo tentativo congiunto anglo-francese di fare breccia nelle fortificatissime trincee nemiche. Dopo un bombardamento di cinque ore i francesi uscirono dalle trincee e dopo aver percorso un migliaio di metri si trovarono davanti ai reticolati tedeschi ancora intatti; sotto il fuoco delle mitragliatrici tentarono di aprirsi un varco con le cesoie e i pochi superstiti si trovarono davanti ad un nuovo reticolato; alla fine raggiunsero le trincee abbandonate dai tedeschi che erano arretrati sulle seconde linee, trovandosi quindi sotto il fuoco delle proprie artiglierie71. Quello stesso giorno i britannici attaccarono per conquistare il crinale di Aubers, che non erano riusciti a conquistare due mesi prima con l'offensiva di Neuve-Chapelle; dopo un abbozzato bombardamento di preparazione, indiani e inglesi uscirono dalle trincee solo per essere massacrati dalle mitragliatrici tedesche rimaste intatte. Mentre iniziavano a sbarcare sul continente i volontari del generale Horatio Kitchener, ad Aubers le truppe di Douglas Haig venivano sterminate dalle mitragliatrici tedesche in una serie di attacchi frontali che causarono solo nel primo giorno 458 morti tra gli ufficiali e 11.161 tra i soldati72.
Il fallito fuoco di sbarramento d'artiglieria ad Aubers e l'impossibilità di lanciare altri attacchi per mancanza di munizioni suscitarono le ire di French, il quale lamentava la penuria di rifornimenti; l'offensiva cessò e dopo il fallimento dei tedeschi a Ypres, lo stallo al fronte diventò totale. Per tutto il maggio 1915 migliaia di francesi morirono nell'Artois cercando di aprirsi un varco nelle trincee tedesche; al 18 giugno il bilancio era di circa 18.000 soldati francesi morti o feriti e la battaglia venne interrotta. La guerra ad occidente era costituita ormai soltanto da colpi di mano nelle trincee nemiche, da bombardamenti intermittenti e da assalti occasionali73.
Sul fronte occidentale passarono quattro mesi e mezzo tra la battaglia di Aubers e le nuove offensive alleate, che nelle intenzioni avrebbero dovuto ridurre le difficoltà militari della Russia a oriente; quattro mesi di "tregua" in cui però non mancarono mai i bombardamenti e i tiri dei cecchini74. Nel settembre 1915 gli Alleati lanciarono alcune grandi offensive: i francesi nella regione della Champagne e i britannici a Loos. I francesi avevano impiegato l'estate nei preparativi per quest'azione, mentre i britannici assumevano il controllo di porzioni maggiori del fronte per liberare truppe francesi. Il bombardamento preliminare d'artiglieria, accuratamente diretto per mezzo di fotografie aeree, iniziò il 22 settembre, mentre l'assalto principale avvenne il 25 settembre e, almeno inizialmente, fece buoni progressi nonostante le artiglierie non avessero eliminato del tutto gli sbarramenti di filo spinato e nidi di mitragliatrici75.
Sempre il 25 settembre i britannici diedero inizio alla loro offensiva a Loos, che aveva lo scopo di supportare l'iniziativa maggiore in atto nella Champagne. L'attacco fu preceduto da un bombardamento di quattro giorni con 250.000 granate e, per la prima volta da parte degli inglesi, dal lancio di 5.243 cilindri di gas al cloro, che provocarono la morte immediata di 600 tedeschi. L'attacco interessò due corpi d'armata nel suo teatro principale, ed altri due che effettuarono attacchi diversivi a Ypres. I britannici ebbero gravi perdite durante l'attacco, specialmente a causa dei continui attacchi frontali che cozzavano contro il fuoco delle mitragliatrici tedesche76 conseguendo solo limitati guadagni di terreno al costo di centinaia di vite77.
Per i francesi l'offensiva della Champagne fu un successo: quando si concluse, Joseph Joffre annunciò che erano stati catturati 25.000 soldati nemici e 150 cannoni pesanti. Per i britannici Loos fu invece una sconfitta che provocò grande scoramento; dei quasi 10.000 attaccanti, 385 ufficiali e 7861 soldati erano stati uccisi o feriti. Il 19 dicembre il generale Sir Douglas Haig fu nominato comandante supremo delle forze britanniche in Francia sostituendo John French. Il 1915 si avviava al termine e le condizioni sul fronte occidentale diventavano sempre più atroci; per tutto il mese di novembre continuò a piovere con tale intensità che l'acqua arrivava in molte trincee fino alle ginocchia, i casi di "piede da trincea" si moltiplicavano fino a diventare un vero e proprio flagello che durante l'inverno fece più feriti che le pallottole. La "tregua" avvenuta spontaneamente nel Natale 1914 non si ripeté nel 1915; tra le file alleate vennero diramati ordini molto severi affinché non si ripetessero i casi di "fraternizzazione", e per tutto il giorno di Natale furono sparate migliaia di granate verso le postazioni tedesche per impedire ai soldati di uscire e ripetere quanto accaduto l'anno prima78. La vigilia di Natale, nei pressi di Wulvergem i tedeschi innalzarono sul parapetto della prima linea un albero illuminato dalle candeline.
«Per qualche istante le fiammelle ondeggiarono incerte nell'oscurità, finché un ufficiale inglese non ordinò di sparare a volontà e l'albero fu distrutto.79 »

Duelli d'artiglieria e guerra d'attrito

 Da un punto di vista strategico, durante il 1915, le armate tedesche erano rimaste sulla difensiva in occidente. Anche se i battaglioni, i reggimenti e talora anche le divisioni si impegnassero in attacchi con obiettivi limitati, in una più vasta concezione delle cose la Germania si accontentava di tenere il terreno conquistato in Francia e Belgio mentre concentrava le proprie attenzioni ad oriente dove inviò il grosso delle truppe. Questa strategia si sarebbe capovolta nel 1916 quando le potenze centrali avrebbero mantenuto la difensiva ad oriente e cercato di far uscire la Francia dalla guerra80.
Contrariamente ai generali anglo-francesi, che utilizzavano l'artiglieria per aprirsi un varco tra le linee nemiche e quindi riprendere le manovre a livello operativo, il capo di Stato maggiore tedesco Erich von Falkenhayn81, intendeva usare l'artiglieria come arma strategica che lo avrebbe liberato dal bisogno di condurre la guerra a livello operativo. I suoi cannoni avrebbero dovuto colpire ciò che egli riteneva il punto debole dell'alleanza anglo-francese: la riluttanza dei soldati francesi a morire per quelli che Falkenhayn e la propaganda tedesca considerava gli interessi della Gran Bretagna. Egli intendeva usare l'artiglieria per uccidere quanti più soldati francesi possibile, spingendo così la Francia a rinunciare all'alleanza con la Gran Bretagna e a cercare una pace separata82. Per fare ciò Falkenhayn aveva bisogno della "collaborazione" dei francesi, e doveva trovare un luogo al quale la fanteria francese non avrebbe rinunciato facilmente, una calamita che avrebbe attirato i francesi nel raggio d'azione della sua artiglieria83. Il luogo prescelto fu la fortezza di Verdun, considerata inattaccabile dai comandi francesi, che videro le fortezze intorno alla città resistere efficacemente all'assedio dell'armata del Kronprinz durante l'attacco sulla Marna di due anni prima. In quella occasione Verdun si ammantò di una veste ancor più "eroica" di quella che già possedeva84.
A febbraio 1916 negli uffici degli Stati maggiori erano allo studio due piani: quello tedesco, di logoramento contro Verdun, e quello anglo-francese atto a sfondare in estate le linee nemiche sulla Somme pianificato per distruggere le difese tedesche con una vera e propria "guerra d'attrito". I britannici avrebbero tentando di vincere la resistenza tedesca con il peso della propria industria bellica sotto forma di un incessante tiro di artiglieria seguito da un massiccio attacco di fanteria che creasse le condizioni e aprisse ampi varchi per una rapida avanzata in profondità della cavalleria e, forse, per la vittoria definitiva8586.

Da Verdun alla Somme

Per Falkenhayn la scelta dell'obiettivo da attaccare era tra Belfort e Verdun; la decisione cadde infine sulla seconda opzione, soprattutto perché l'armata che avrebbe condotto l'attacco sarebbe stata la 5ª armata comandata dal figlio del Kaiser, il Kronprinz Guglielmo, ed una sua eventuale vittoria avrebbe avuto utili risvolti propagandistici soprattutto per il fronte interno87.
Il massimo sforzo dei tedeschi fu assorbito dall'artiglieria: tutto il loro piano infatti si basava sull'utilizzo massiccio di quest'arma. In linea di massima, il piano strategico prevedeva l'utilizzo dei cannoni pesanti che avrebbero avuto il compito di scavare un profondo vuoto nelle linee francesi che la fanteria tedesca avrebbe poi gradualmente occupato; sarebbero poi stati distrutti anche i flussi di rifornimento francesi grazie ad un costante e violento fuoco di sbarramento verso le retrovie, così da impedire eventuali contrattacchi organizzati. Questo eccezionale assembramento fu tale che su un fronte di appena 14 km, vennero dispiegati circa 1.220 pezzi d'artiglieria, ossia uno ogni 12 metri circa88.
Il 21 febbraio i tedeschi iniziarono l'assalto dopo un massiccio bombardamento durato otto ore, dopodiché i comandi non si attendevano molta resistenza avanzando verso Verdun e i suoi forti89. Il primo giorno di battaglia non sortì per i tedeschi l'effetto sperato. I francesi resistettero stoicamente e pur cedendo in vari punti non erano stati "spazzati via" come invece le prime ricognizioni aeree tedesche erroneamente riportarono. Neanche la comparsa dei lanciafiamme sul campo di battaglia servì per stanare i fanti francesi dalle loro posizioni90. Nonostante la conquista di Fort Douaumont il 25 febbraio, e malgrado l'iniziale impeto, l'attacco tedesco tra la fine di febbraio e l'inizio di marzo lentamente si impantanò, anche per via del riassetto che Philippe Pétain91 dette alle linee del fronte, dove affluirono numerosi pezzi d'artiglieria e migliaia di uomini, mentre i tedeschi si trovarono a dover avanzare su un terreno fangoso e sconvolto dai loro stessi bombardamenti, che non consentiva di far avanzare i pesanti cannoni come la tattica prevedeva92.
I tedeschi rivolsero quindi i propri sforzi a nord sulla Mort-Homme, una bassa collina dietro cui i francesi avevano piazzato un efficiente apparato di artiglieria. Dopo alcuni dei più intensi combattimenti della campagna, la collina venne presa dai tedeschi alla fine di maggio. Col passaggio del comando francese di Verdun, da Philippe Pétain, orientato sulla difensiva, a Robert Georges Nivelle, più portato per l'attacco, i francesi tentarono di riprendere Fort Douaumont il 22 maggio ma furono facilmente respinti. I tedeschi intanto catturarono Fort Vaux il 7 giugno e, con l'aiuto del gas fosgene, a luglio tentarono l'assalto all'ultimo caposaldo di Verdun, Fort Souville.
In primavera i comandanti alleati erano preoccupati circa la capacità della Francia; a causa dell'ingente quantità di uomini perduti a Verdun, i francesi videro via via scemare la propria capacità di sostenere un ruolo anche sulla Somme: i piani originali dell'attacco sulla Somme vennero perciò modificati per lasciare ai britannici l'impegno maggiore. Questo avrebbe alleviato la pressione sui francesi impegnati a Verdun93. Il 1º luglio, dopo una settimana di incessanti bombardamenti contro le linee tedesche, quindici divisioni britanniche e sei divisioni francesi uscirono a passo d'uomo dalle trincee dirette sulle linee tedesche, che i generali inglesi credevano distrutte dal bombardamento preliminare e sguarnite degli occupanti. Così non fu; i tedeschi invece, ben protetti in rifugi sotterranei (Stollen), al termine del bombardamento uscirono dalle loro postazioni e si trovarono davanti file compatte di fanti britannici, appesantiti da zaini di oltre 30 kg, che vennero spazzati via dalle mitragliatrici nemiche94. Quel 1º luglio fu probabilmente il giorno più sanguinoso di tutta la prima guerra mondiale e la più grande disfatta dell'esercito britannico della storia; in quel solo giorno si contarono circa 51.470 perdite tra le forze del generale Haig, tra i quali 21.382 tra morti e dispersi. Uno degli obiettivi fissati per il primo giorno da Haig, Beaumont-Hamel, cadde solo il 13 novembre, dopo cinque mesi di incessanti combattimenti95.
Per tutto luglio e agosto i britannici conseguirono una serie di limitate avanzate, ma le armate anglo-francesi conducevano una guerra di logoramento più che di movimento; era una guerra di boschi, macchie, vallate, gole e villaggi presi e perduti, ripresi e di nuovo perduti96. La battaglia vide per la prima volta l'uso dei carri armati sul campo di battaglia per uscire dall'impasse del fronte sulla Somme; gli Alleati prepararono per il 15 settembre un attacco con 13 divisioni britanniche e quattro corpi d'armata francesi supportati da quarantanove carri armati. L'azione fece inizialmente grandi progressi, con un'avanzata di circa quattro chilometri, ma i carri ebbero un ruolo limitato per l'inaffidabilità meccanica: al loro esordio valse soprattutto l'effetto psicologico sulla fanteria nemica impaurita da questi mostri metallici97.
La fase finale della battaglia ebbe luogo in ottobre e inizio novembre, nuovamente con guadagni limitati in cambio di pesanti perdite. Alla fine dei conti, la battaglia della Somme consentì una penetrazione nel fronte nemico di circa dieci chilometri, e riconsegnò cinquantuno villaggi ai legittimi proprietari. Da un punto di vista puramente tattico, nonostante la sconfitta tedesca, per gli Alleati il guadagno in termini di territorio fu quindi molto esiguo rispetto al prezzo pagato; furono circa 620.000 le perdite complessive alleate e 450.000 quelle tra i tedeschi9899.
Sul piano strategico la battaglia fu invece un successo per gli Alleati, in quanto Falkenhayn fu costretto a spostare truppe da Verdun: tra luglio e agosto i tedeschi impiegarono trentacinque nuove divisioni contro i britannici sulla Somme, consentendo ai francesi guidati da Robert Nivelle di riprendere l'iniziativa sulle rive della Mosa e quindi obbligare i tedeschi a porre fine all'offensiva di Verdun100. Il 14 luglio infatti giunse l'ordine per i tedeschi di fermare qualunque offensiva a Verdun; la "limitata offensiva" di Falkenhayn era già costata quasi 250.000 uomini all'esercito tedesco, ossia il doppio degli effettivi delle nove divisioni concesse al Kronprinz nell'offensiva iniziale di febbraio. Il 28 agosto Falkenhayn fu sostituito come comandante dell'esercito dal duo Hindenburg - Ludendorff, che ordinò immediatamente la cessazione di ogni attacco, in attesa delle inevitabili controffensive francesi.
A Verdun il 3 novembre i francesi ripresero Fort Vaux, e il 18 sulla Somme le linee britanniche, avanzate di circa dieci chilometri in cinque mesi, ne distavano ancora cinque da Bapaume, che era l'obiettivo iniziale. Il numero complessivo delle perdite in entrambi gli schieramenti raggiunse la spaventosa cifra di circa 960.459 soldati morti; questo significa che mediamente morivano ogni giorno oltre 6.600 soldati, oltre 277 l'ora, quasi 5 al minuto101.

La guerra aerea

 Dall'offensiva della Somme dell'estate del 1916, a quella tedesca del 1918, la Germania si mantenne sulla difensiva lungo il fronte occidentale. Di pari passo con la strategia terrestre, l'aviazione tedesca (Luftstreitkräfte) pose in atto tattiche di combattimento aereo anch'esse difensive, atte ad interdire al nemico lo spazio aereo dietro le proprie linee. Poiché nello spazio aereo del fronte occidentale le forze alleate vantavano una superiorità numerica nel rapporto di 2:1, l'aviazione tedesca ovviò all'inconveniente concentrando i propri mezzi in unità più numerose. Nel 1916 le formazioni aeree furono riorganizzate in squadriglie di 10-12 velivoli. Lo scopo era quello di concentrare i mezzi in un particolare settore, in modo tale da conseguire una superiorità aerea locale102. L'esperimento si rivelò un successo e nel giugno 1917 l'aviazione creò il Primo Gruppo Caccia (Jagdgeschwader 1) formato dalla 4ª, 6ª, 10ª e 11ª squadriglia sotto il comando del "Barone Rosso" Manfred von Richthofen103.
La mobilità dei gruppi caccia consentiva all'aviazione tedesca di dislocarsi e concentrarsi in corrispondenza di ogni nuova minaccia; nell'aprile 1917 fu quindi in grado di affrontare i piloti alleati in appoggio all'offensiva di Arras; in quel mese i tedeschi abbatterono 151 velivoli perdendone 66; nel marzo 1918, nell'azione di appoggio all'offensiva di Ludendorff, l'aviazione tedesca riuscì a conquistare la superiorità numerica nello spazio aereo sovrastante il fronte, concentrando in tutta segretezza 730 aeroplani da opporre ai 579 britannici104. Nonostante le potenze Alleate avessero prodotto 138.685 aerei di fronte ai 53.222 degli Imperi centrali, la superiorità tattica d'impiego e le migliori tecnologie fecero sì che l'aviazione tedesca costituisse un avversario temibile fino alla conclusione del conflitto. Sin dal 1917 i tedeschi progettarono aerei destinati ad attacchi a obiettivi terrestri105, mentre gli Alleati non progettarono mai velivoli specifici per tali compiti, continuando invece a usare i caccia106.
Nel 1918 l'aviazione imperiale tedesca aveva raggiunto forza ed efficienza tali da poter essere impiegata con successo in missioni di supporto tattico alle operazioni di terra, missioni che compì con notevole efficacia fino alla conclusione del conflitto; gli Alleati, con un'elevata capacità industriale, potevano però godere di una superiorità di mezzi che si traduceva in un più intenso impiego operativo107.

L'Impero britannico prende l'iniziativa

 Mentre la battaglia della Somme si avviava al termine, sui due fronti si tracciavano già i piani per una nuova offensiva nel 1917. A partire dal 1º febbraio 1917, il Kaiser Guglielmo II ordinò la guerra sottomarina indiscriminata per convincere la Gran Bretagna a sedersi nel tavolo delle trattative e cercare una pace, mentre sul fronte occidentale i mesi di dicembre e gennaio assunsero l'aspetto di una lotta incessante con tre protagonisti assoluti: le granate, i cecchini e il fango. Intanto i rapporti diplomatici tra Germania e Stati Uniti d'America andavano deteriorandosi velocemente a causa del naviglio statunitense e di Paesi neutrali affondato dagli U-Boot. Il 3 febbraio, mentre l'entrata in guerra degli Stati Uniti si faceva sempre più probabile, il primo contingente portoghese sbarcò in Francia e venne inviato direttamente in prima linea108.
Il giorno dopo il Kaiser ordinò alle truppe dislocate sul fronte occidentale il ritiro sulla Linea Hindenburg, recentemente fortificata, allo scopo di ridurre la lunghezza del fronte di una quarantina di chilometri e liberare così tredici divisioni, che si andarono ad aggiungere a quelle di riserva. Prima di ritirarsi i tedeschi fecero terra bruciata: demolirono le case, incendiarono le fattorie, distrussero i frutteti, minarono i pochi edifici rimasti in piedi e cancellarono le strade, non lasciandosi alle spalle altro che rovine. La Germania si preparava ad affrontare la potenza statunitense; il timore di un'entrata in guerra degli Stati Uniti perseguitava l'alto comando tedesco, ma ad est i tumulti della rivoluzione e la possibile uscita dal conflitto della Russia lasciavano ancora buone speranze alla Germania109. Il 6 aprile gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Germania; l'impatto delle truppe statunitensi sarebbe stato potenzialmente enorme: gli Stati Uniti avrebbero addestrato almeno un milione di uomini che sarebbero saliti a tre milioni. Ma l'operazione avrebbe richiesto molto tempo: ci sarebbe voluto almeno un anno perché l'enorme macchina potesse funzionare a pieno regime110.

Le offensive di Arras e dell'Aisne

Il 9 aprile, lunedì di Pasqua, le forze anglo-canadesi sferrarono simultaneamente le offensive di Arras e del crinale di Vimy. Gli attacchi furono preceduti da cinque giorni di scontri aerei, nel corso dei quali l'aviazione britannica cercò di ottenere il controllo dei cieli per poter svolgere al meglio l'opera di osservazione. Le prime fasi della battaglia furono favorevoli agli Alleati, che sfondarono la Linea Hindenburg anche grazie alla nuova tattica d'artiglieria, la cosiddetta "barriera di fuoco", in base alla quale l'artiglieria spostava gli obiettivi sistematicamente in avanti mentre la fanteria interveniva subito dopo il tiro, quando i difensori erano ancora frastornati dai bombardamenti111. Nonostante questo la terza linea tedesca, assai meglio munita di quelle più avanzate, resistette a tutti gli attacchi; i carri armati britannici che avrebbero dovuto precedere la fanteria rimasero indietro bloccati dalle avarie e intrappolati nel fango, mentre i cannoni trainati dai cavalli non riuscivano a procedere nel terreno sconvolto. Nonostante la speranza di una facile vittoria, al quarto giorno di combattimenti gli attaccanti erano allo stremo. I canadesi riuscirono a conquistare il crinale, ma il 15 aprile, in seguito alle crescenti perdite, Haig sospese l'attacco; col metro in uso sul fronte occidentale poteva considerarsi una vittoria: gli anglo-canadesi avevano infatti aperto una breccia larga sei chilometri nella prima linea tedesca che ne misurava sedici112.
Nell'inverno 1916-17 la tattica aerea tedesca venne migliorata, fu aperta una scuola per piloti da caccia a Valenciennes, e vennero introdotti aerei migliori con mitragliatrici binate113. Il risultato furono perdite quasi disastrose per la forza aerea alleata, particolarmente per i britannici, che soffrivano per aerei antiquati, scarso addestramento e tattiche rudimentali. Durante l'attacco ad Arras i britannici persero 316 equipaggi, contro 114 dei tedeschi, in quello che per i Royal Flying Corps fu l'"aprile di sangue"114.

 Il 16 aprile i francesi, con venti divisioni dispiegate su un fronte di quaranta chilometri, attaccarono a loro volta i tedeschi attestati sul fiume Aisne. L'offensiva, ideata dal generale Nivelle da cui prese il nome, fu un disastro, benché per la prima volta i francesi impiegassero i carri armati. Nivelle aveva previsto un'avanzata di dieci chilometri; dovette fermarsi dopo 600 metri. Aveva previsto circa 15.000 morti, furono quasi 100.000. Dei 128 carri armati entrati in azione, 32 furono messi fuori uso il primo giorno, dei 200 aerei che avrebbero dovuto alzarsi in volo, ne furono disponibili all'inizio dell'attacco solo 131, che ebbero la peggio contro i caccia tedeschi. Non un solo dettaglio andò come previsto: l'attacco al forte di Nogent-L'Abbesse, uno dei forti intorno a Reims dal quale i tedeschi bombardavano sistematicamente la città, fallì miseramente, e due villaggi che si trovavano nella zona dei combattimenti, Nauroy e Moronvillers, furono rasi al suolo. I combattimenti continuarono, il generale Charles Mangin aprì una breccia di sei chilometri nelle linee tedesche, ma il 20 aprile la battaglia venne interrotta, ammettendo lo stesso Nivelle che era impossibile sfondare le linee nemiche. I tedeschi detenevano la supremazia aerea, e il 21 aprile il barone Manfred von Richthofen celebrò la sua ottantesima vittoria115.
Per tutto maggio i britannici continuarono gli attacchi: in sei settimane di combattimenti i tedeschi arretrarono dai tre agli otto chilometri su un fronte lungo trentacinque, sparando oltre sei milioni di granate. A metà maggio le truppe al comando di Haig avevano compiuto un'avanzata più consistente di quando, due anni e mezzo prima, era cominciata la guerra di trincea: in poco più di un mese avevano conquistato un centinaio di chilometri quadrati di terreno, catturando oltre 20.000 prigionieri e 252 cannoni pesanti. Il carro armato era ormai diventato parte integrante degli attacchi della fanteria britannica. Il 14 maggio, a Magonza, anche i tedeschi sperimentarono il carro armato, due giorni prima che terminasse la battaglia di Arras116.

Il morale della Francia
 
Nella primavera del 1917 iniziò a serpeggiare un forte risentimento verso la guerra in seno a molti eserciti, soprattutto quello francese, reduce da oltre due anni di una guerra sanguinosa, che vedeva moltiplicarsi il numero dei disertori. Il 26 maggio arrivarono sul territorio francese i primi 1308 soldati statunitensi, ma l'arrivo delle prime truppe d'oltre oceano coincise col momento più drammatico nel settore francese: le diserzioni sempre più numerose si erano trasformate il 27 maggio in un vero e proprio ammutinamento. Ben 30.000 soldati di prima linea avevano abbandonato le trincee e gli accantonamenti sullo Chemin des Dames, portandosi nelle retrovie. I disordini proseguirono: il 1º giugno a Missy-aux-Bois un reggimento di fanteria francese si impadronì della città e nominò un "governo" pacifista; per una settimana regnò il caos in tutto il settore francese del fronte mentre gli ammutinati si rifiutavano di tornare a combattere. Le autorità militari agirono tempestivamente, e sotto il pugno di ferro di Pétain cominciarono gli arresti di massa e si insediarono le corti marziali. I tribunali francesi giudicarono colpevoli di ammutinamento 23.395 soldati, di questi, più di 400 furono condannati a morte, 50 fucilati e gli altri inviati ai lavori forzati nelle colonie penali. Contemporaneamente Pétain introdusse miglioramenti, concedendo alle truppe periodi di riposo più lunghi, congedi più frequenti e rancio migliore; dopo sei settimane gli ammutinamenti erano cessati117.
I disordini furono di tale portata che fecero capire all'alto comando francese che i soldati non erano più disposti a sopportare i tormenti di una nuova offensiva: avrebbero tenuto la posizione, ma non sarebbero usciti dalle trincee. Tutto il peso dell'offensiva ricadeva quindi sulle spalle delle forze britanniche, che si sarebbero di lì a poco trovate a sostenere il peso della ripresa dei combattimenti in Francia e nelle Fiandre118.

Le offensive britanniche


«La forza e la resistenza del popolo tedesco sono ormai logore da indurre a ritenerne possibile il crollo entro quest'anno»
(Sir Douglas Haig, 5 giugno 1917119)

 Il 7 giugno i britannici lanciarono la loro seconda offensiva in due mesi lungo il crinale di Messines-Wytschaete. L'attacco fu preceduto nelle prime ore del mattino da una spaventosa esplosione, percepita fino alla città di Lille occupata dai tedeschi a venticinque chilometri di distanza120; le squadre di minatori britannici avevano scavato sotto le linee nemiche diciannove mine dal potenziale esplosivo di 500 tonnellate. A Messines l'effetto delle esplosioni fu devastante, si ritiene che furono uccisi all'istante oltre 10.000 tedeschi, migliaia rimasero storditi e 7354 furono presi prigionieri. Alle esplosioni seguì un massiccio bombardamento con 2266 pezzi d'artiglieria, per riprendere il terreno perso nella prima battaglia di Ypres del 1914, che tuttavia non furono sufficienti per scacciare i tedeschi; l'offensiva si arrestò per il terreno fangoso, ed entrambe le parti soffrirono perdite consistenti121.
Ad una settimana di distanza dallo scoppio delle mine e dalla ritirata dei tedeschi attestatisi poco più a est, il fronte ripiombò nello stallo, ma la volontà di continuare a combattere non venne meno nonostante gli orrori della guerra di trincea122, nonostante il caos in Russia, nonostante gli ammutinamenti francesi123.
Intanto l'8 giugno il generale John Pershing, comandante delle truppe statunitensi in Europa sbarcò a Liverpool con il suo Stato maggiore, il 26 giugno arrivò in Francia il primo grosso contingente statunitense forte di 140.000 uomini, ma il loro arrivo non modificò la situazione nei piani di battaglia: quei soldati dovevano ancora essere addestrati e attendere quindi i rinforzi che avrebbero cominciato ad arrivare solo tre mesi dopo124.
Un'offensiva sul fronte occidentale fu fortemente caldeggiata da Haig, e nonostante l'impiego delle truppe statunitensi fosse ancora lontano, il 31 luglio i britannici avrebbero nuovamente attaccato sul saliente di Ypres e come primo obiettivo venne prefissato il villaggio di Passchendaele. Le truppe britanniche inizialmente avanzarono con successo nonostante le ingenti perdite, e nei primi tre giorni di battaglia furono catturati oltre 5000 tedeschi per un'avanzata che variava dai due ai quattro chilometri. Nel frattempo sul fronte orientale le forze russe sconvolte dalle avvisaglie della rivoluzione, si ritiravano inesorabilmente sotto i colpi delle truppe tedesche e austro-ungariche125.
I veterani canadesi di Vimy e di quota 70 si unirono alle provate truppe dell'ANZAC e alle forze britanniche e presero il villaggio di Passchendaele il giorno 30 nonostante la pioggia battente che aveva trasformato il terreno in una palude. L'offensiva venne ripresa con vigore il 10 agosto, ma dopo quattro giorni i violenti acquazzoni bloccarono le operazioni. Gli attacchi continuarono per tutto agosto e tutto settembre ma i tedeschi iniziarono una serie di contrattacchi ad inizio di ottobre che consentirono loro di prendere oltre 20.000 prigionieri126. Haig preparò un'ennesima offensiva per il 9 ottobre che però fu nuovamente interrotta dalle piogge, i campi si trasformarono in pantani, e il 13 Haig sospese l'attacco che avrebbe dovuto portare le truppe britanniche a Passchendaele. Dopo la terza battaglia di Ypres, gli Alleati erano tuttavia più ottimisti che dopo la Somme, avendo conquistato una maggiore porzione di territorio con minori perdite127, mentre per i tedeschi l'offensiva fu un duro colpo; perdite assai elevate e morale a terra, morti e feriti furono circa 400.000, quasi il doppio dei britannici, in quello che il generale Hermann von Kuhl definì:
« [...] il più grande martirio della prima guerra mondiale [in cui] nessuna divisione riusciva a resistere più di una settimana in quell'inferno128. »

Cambrai

 Il 23 ottobre sull'Aisne i francesi lanciarono un attacco circoscritto alle posizioni tedesche sullo Chemin des Dames; l'assalto venne preceduto da sei giorni di bombardamento a cui seguì l'attacco di otto divisioni e ottanta carri armati francesi che riuscirono ad avanzare per tre chilometri e mezzo facendo 10.000 prigionieri e strappando ai tedeschi un importante punto di osservazione a Laffaux. I tedeschi si ritirarono quasi senza combattere attestandosi tre chilometri e mezzo più in basso; il loro impegno in quel momento era soprattutto rivolto sul fronte italiano, dove le forze austro-tedesche stavano sfondando a Caporetto129. Il 26 ottobre Haig tentò ancora di sfondare a Passchendaele, il 30 i canadesi entrarono finalmente nel villaggio nonostante gravissime perdite, ma ne furono ricacciati subito dopo. Intanto sul fronte orientale la guerra cedeva rapidamente il passo alla rivoluzione: ad inizio novembre il potenziale bellico della Russia, che fino a quel momento era stata il braccio orientale dell'Intesa, non esisteva più. Con la Russia immobilizzata, gli Alleati si prodigarono per mantenere la spinta offensiva sugli altri fronti mentre sul fronte italiano stava dilagando il panico130.
Il 10 novembre la battaglia di Passchendaele terminò; dal 31 luglio gli Alleati erano avanzati di sette chilometri pagando il prezzo di 62.000 morti e 164.000 feriti, mentre tra le file tedesche i morti furono 83.000 e i feriti 250.000 con 26.000 prigionieri. Dal momento che le forze russe non esistevano più e gli italiani erano stati ricacciati sul Piave, il peso delle offensive passò del tutto sulle spalle anglo-francesi.
L'inaffidabilità dei cingoli fu uno dei maggiori problemi che afflissero i carri armati britannici durante l'offensiva di Cambrai.
 Il 20 novembre, per la prima volta nella storia militare, il peso principale dell'attacco ricadde sui carri armati lanciati verso la città di Cambrai e i territori alle sue spalle. Durante la battaglia di Cambrai (la terza grande offensiva del 1917), i britannici attaccarono con 324 carri, di cui un terzo tenuto come riserva, e dodici divisioni, contro due divisioni tedesche. I carri demolirono i reticolati e nel giro di qualche ora sfondarono le linee nemiche su tutta la lunghezza del fronte131. Nonostante l'impeto iniziale, i carri che furono fermati dall'artiglieria tedesca e dai guasti meccanici nei salienti di Flesquières e Mesnières, a neppure metà strada da Cambrai, raggiunsero il numero di trentanove132. Il 23 gli Alleati furono bloccati al bosco Bourlon: l'effetto sorpresa dei carri stava svanendo e le perdite iniziavano a salire, a fine novembre iniziò a cadere la prima neve e alla guerra coi carri subentrò la guerra all'arma bianca fino al 27 novembre quando i britannici furono costretti a sospendere l'attacco. Cambrai sarebbe rimasta distante e irraggiungibile. Il 30 novembre i tedeschi contrattaccarono avanzando per circa cinque chilometri, con un attacco congiunto di armi chimiche e aerei nel ruolo di supporto ravvicinato alle truppe di terra. La battaglia di Cambrai, che inizialmente sembrò volgere favorevolmente agli Alleati, si risolse in due settimane con un fallimento. Le potenze alleate erano in difficoltà su tutti i fronti, la Russia iniziò i contatti per un trattato di pace e 44 divisioni tedesche furono spostate da oriente ad occidente, in Italia gli austriaci erano nei pressi di Venezia e sul fronte occidentale l'offensiva di Cambrai non mutò la situazione, vigendo ancora una situazione di stallo133.
Il 1917 si avviava verso la conclusione e le prospettive di pace in Europa apparivano molto lontane; il cessate il fuoco sul fronte orientale non fu altro che il preludio per la Russia di una sanguinosa guerra civile. A Costantinopoli nel 1917 morirono di stenti circa 10.000 persone, nell'Impero austro-ungarico la fame provocò tumulti a Vienna e Budapest, in Germania in quello stesso anno più di 250.000 civili morirono di fame in conseguenza del blocco britannico.134.

Le offensive finali

Erich Ludendorff, che insieme a Paul von Hindenburg era il comandante supremo dell'esercito tedesco dopo la cacciata di Falkenhayn seguente il fallimento di Verdun, concluse che la sola opportunità di vittoria per la Germania consistesse in un attacco decisivo sul fronte occidentale in primavera, ossia prima che il potenziale americano diventasse significativo. Il 3 marzo 1918 fu firmato il trattato di Brest-Litovsk, e la Russia si ritirò dalla guerra. Questo rese disponibili 44 divisioni tedesche del fronte orientale per uno spostamento ad ovest, portando il vantaggio tedesco a 192 divisioni contro 173 alleate. Le forze tedesche erano poi addestrate alle nuove tattiche d'assalto già impiegate con successo sul fronte orientale135. Ludendorff decise un attacco contro le forze britanniche, considerate tatticamente inferiori alle francesi e sfavorite nel rapporto di forze; anche la conformazione del territorio era favorevole ai tedeschi, che contavano di aggirarle ai fianchi e tagliarne la ritirata, trasformando una vittoria tattica (lo sfondamento e l'accerchiamento) in una vittoria strategica (la distruzione delle forze britanniche). L'idea di Ludendorff si basava su una massiccia offensiva finalizzata a separare i francesi dai britannici, per sospingere questi ultimi in direzione dei porti sulla Manica. L'attacco avrebbe combinato le nuove tattiche delle truppe d'assalto con l'uso di aerei da attacco al suolo, e uno sbarramento d'artiglieria accuratamente pianificato comprendente pure l'uso di gas136.

L'offensiva tedesca di primavera

 Dal gennaio 1918 truppe statunitensi sbarcavano settimanalmente in Francia, dopo quarantadue mesi e mezzo dall'inizio della guerra la presenza delle truppe di Pershing sul campo di battaglia era un dato di fatto. Il 23 febbraio per la prima volta le truppe statunitensi presero parte ad un'azione a Chevregny insieme ai francesi, con due ufficiali e 24 soldati.
Mentre le truppe tedesche dilagavano ad oriente il 21 marzo Ludendorff lanciò una grande offensiva che, in caso di successo, avrebbe consentito alla Germania di vincere la guerra137. L'"operazione Michael"138 fu la prima delle offensive tedesche; quasi riuscì a separare i due eserciti alleati, con un'avanzata di circa 65 chilometri nei primi otto giorni, portando le linee del fronte verso ovest di più di 100 chilometri, con Parigi entro il raggio dell'artiglieria per la prima volta dal 1914. Le conquiste fatte dai tedeschi durante l'offensiva furono impressionanti per gli standard del fronte occidentale: 90.000 prigionieri catturati, 1.300 cannoni presi, 212.000 soldati nemici morti o feriti e un'intera armata britannica (la quinta) messa fuori combattimento. Le perdite tra i tedeschi furono comunque alte (239.000 tra ufficiali e soldati); alcune divisioni furono ridotte alla metà dei loro effettivi, molte compagnie poterono contare solo 40 o 50 uomini139. L'offensiva riuscì a sfondare il sistema difensivo inglese, ma furono necessari tre giorni invece che uno, e ciò permise ai britannici di far affluire le riserve e vanificare ogni significativo sfruttamento. La fiducia di Ludendorff non si spense, e all'operazione Michael seguirono altri tre attacchi. Il 27 maggio alle prime luci dell'alba, 4.000 pezzi d'artiglieria tedesca aprirono il fuoco sul fronte dell'Aisne, cominciò così la terza battaglia dell'Aisne; il 29 i tedeschi entrarono a Soissons e il 30 maggio arrivarono sulla Marna a 60 km da Parigi. Il 3 giugno attraversarono la Marna pronte ad attaccare Chateau-Thierry difesa dalle truppe statunitensi140. Il 7 giugno i tedeschi attaccarono fra Montdidier e Compiègne con un bombardamento di potenza inaudita: furono sparati 750.000 proiettili all'iprite, al fosgene e alla difenilcloroarsina, per un totale di 15.000 tonnellate di gas; alle 4.30 del mattino entrò in azione la fanteria che avanzò per più di 8 chilometri facendo 8.000 prigionieri141. L'ultima offensiva tedesca scattò il 14 luglio, ma ad inizio agosto lo slancio tedesco su tutto il fronte cessò, mentre quasi un milione di soldati americani erano giunti in Francia a dar manforte agli Alleati. Le truppe tedesche erano ad un soffio dalla vittoria, ma esauste e dissanguate dalle enormi perdite smisero di avanzare, anzi, cominciarono lentamente a indietreggiare, in una lenta ritirata che terminò solo l'11 novembre 1918142.

I raid navali britannici

Verso la fine della guerra la Royal Navy si pose il problema di interdire le azioni delle unità leggere e degli U-Boot della Kaiserliche Marine che partivano dai porti del Belgio occupato. Benché i successi contro gli U-Boot della marina britannica si moltiplicassero, questi venivano prodotti ad una velocità pari a quella con cui venivano distrutti e colpivano le rotte di rifornimento britanniche attraverso la Manica rappresentando una continua minaccia alle vie di rifornimento della British Expeditionary Force impegnata sul continente. Per l'estate era poi previsto l'arrivo di numerose truppe americane con i relativi rifornimenti per cui occorreva chiudere "uno dei covi da cui i sommergibili nemici minacciavano le comunicazioni con gli Alleati"143.
Gli attacchi vennero sferrati nella tarda primavera del 1918. Il primo raid di Ostenda (parte dell'operazione ZO) venne compiuto dalla Royal Navy con l'obiettivo di bloccare l'accesso al porto omonimo, che veniva largamente utilizzato dalla Kaiserliche Marine come base per gli U-Boot e il naviglio leggero. Il vicino porto di Bruges fu oggetto di un contemporaneo attacco.
Il 23 aprile tre vecchi incrociatori britannici accompagnati da una consistente forza navale d'appoggio, furono affondati nel braccio di mare antistante la base dei sottomarini. Il molo fortificato che proteggeva il porto venne cannoneggiato e molte delle sue strutture demolite; il viadotto che lo collegava alla ferrovia fu fatto saltare. Una delle navi, la HMS Thetis, affondò prima del necessario dopo l'urto contro un'ostruzione lasciando alle altre due il compito di bloccare il canale; la Iphigenia e la Intrepid affondarono come previsto nel punto più stretto, ma il blocco durò solo pochi giorni in quanto i tedeschi rimossero due moletti collocati su un lato del canale, liberando così un varco per gli U-Boot con l'alta marea; in tre settimane i tedeschi riuscirono ad approntare una deviazione e i sottomarini ripresero indisturbati a pattugliare il mare del Nord e dintorni. L'incursione fu un fallimento e costò ai britannici 200 morti e 400 feriti. L'opinione pubblica britannica si entusiasmò per il raid a Zeebrugge, viceversa si interessò meno all'attacco al canale di Ostenda, che pure conduceva alla base dei sottomarini di Bruges144.
Tre settimane dopo il fallimento, venne lanciato un secondo attacco che ebbe maggior successo, con l'affondamento di una nave all'imbocco del canale, senza riuscire però a chiudere completamente il passaggio. A ideare l'operazione era stato il vice-ammiraglio Roger Keyes; sebbene presentata da John Jellicoe nel 1917, non venne appoggiata dall'Ammiragliato britannico fino alla presentazione di un progetto dettagliato. Nuovi piani per attaccare la zona durante l'estate del 1918 non vennero messi in atto e le basi tedesche in zona rimasero una minaccia costante fino alla fine del conflitto, quando la città venne liberata dalle forze di terra francesi e britanniche145.

Il contrattacco alleato

Già in luglio Ferdinand Foch diede inizio alla prevista controffensiva sulla Marna prodottasi in seguito agli attacchi tedeschi. In agosto il saliente era stato sgomberato, e grazie allo slancio e alla presenza ormai massiccia delle truppe fresche di Pershing gli Alleati continuarono le controffensive. L'8 agosto partì la seconda offensiva, lanciata due giorni dopo la precedente. L'attacco interessò truppe franco-britanniche, e vide l'impiego di 600 carri e 800 aerei; ebbe successo, tanto che Ludendorff definì l'8 agosto come "il giorno nero dell'esercito tedesco"146. L'assalto fu il primo di quelli che Foch chiamava "attacchi di liberazione" contro la nuova linea tedesca, che proseguirono il 15 agosto con un nuovo contrattacco sulla Somme, mentre a Parigi si riuniva il neocostituito Consiglio Interalleato per gli approvvigionamenti, che gettò i piani per la continuazione della guerra almeno fino al 1919147. Su tutto il fronte gli Alleati continuavano ad avanzare cacciando i tedeschi da Compiègne, Antheuil-Portes, Lassigny, sulla Somme conquistarono Thiepval e bosco Mametz mentre il 27 le truppe tedesche iniziarono ad evacuare le Fiandre abbandonando i territori conquistati quattro mesi prima. Ludendorff aveva optato per una strategia difensiva cercando in tutti i modi di tenere la Linea Hindenburg, ma ormai il morale delle truppe tedesche era a terra. A fine agosto i tedeschi lasciarono l'Aisne sotto i colpi del generale Mangin, ad inizio settembre i canadesi iniziarono i primi assalti alla Hindenburg e il 3 settembre Foch diede l'ordine perentorio di attaccare senza sosta per tutta la lunghezza del fronte occidentale. L'11 agosto gli statunitensi attaccarono Saint-Mihiel che venne conquistata il 13, liberando un saliente in mano nemica da quattro anni148. Il 25 settembre iniziò poi la battaglia della Mosa-Argonne a cui parteciparono dieci divisioni americane; le due operazioni insieme valsero la conquista di oltre 500 chilometri quadrati di territorio149.
La Germania aveva visto il proprio potenziale umano gravemente compromesso da quattro anni di guerra trovandosi poi in gravi difficoltà dal punto di vista economico e sociale. Il 1º ottobre i britannici si apprestavano a superare la Hindenburg lungo il canale di St. Quentin e gli statunitensi a sfondare nelle Argonne; Ludendorff si recò direttamente dal Kaiser per chiedergli di avanzare immediatamente una proposta di pace, dando grossa parte della colpa alle «idee spartachiste e socialiste che avvelenavano l'esercito tedesco»150. Le battaglie infuriavano ancora quando il 2 ottobre la prima rivoluzione tedesca scoppiò. Il 4 ottobre il principe Max von Baden telegrafò a Washington per richiedere l'armistizio151. La Germania pur essendo nello scompiglio non era precipitata nell'anarchia né aveva deciso di arrendersi: l'8 ottobre Wilson respinse la proposta, e l'11 i tedeschi iniziarono a ritirarsi su tutto il fronte senza però rinunciare a combattere152. L'offensiva dei cento giorni diede il colpo finale, e dopo questa serie di sconfitte le truppe tedesche iniziarono ad arrendersi in numero sempre crescente. Quando finalmente gli Alleati ruppero il fronte tedesco, la monarchia imperiale tedesca giunse al collasso, e i due comandanti dell'esercito, Hindenburg e Ludendorff, dopo aver tentato invano di convincere il Kaiser a combattere ad oltranza, si fecero da parte153.

La resa delle forze tedesche

 Il 30 ottobre l'Impero ottomano firmò l'armistizio di Mudros con gli Alleati, il 3 novembre l'Austria-Ungheria firmò l'armistizio di Villa Giusti con l'Italia; solo sul fronte occidentale si continuava a combattere. Gli Alleati avanzavano inesorabilmente raggiungendo il confine belga mentre il Kaiser lasciò Berlino per Spa, dove si stava discutendo una sua eventuale abdicazione a favore del giovane figlio; la maggioranza dei partiti politici del Reichstag era favorevole all'ipotesi: il Kaiser avrebbe dovuto farsi da parte per la sopravvivenza della dinastia. L'imperatore si indignò, e con il pieno appoggio di Hindenburg si rifiutò di lasciare il trono154. Gli statunitensi il 6 novembre raggiunsero i dintorni di Sedan e i canadesi entrarono in Belgio, mentre Groener, tornato da Spa dopo quattro giorni passati al fronte, comunicò personalmente al Kaiser la necessità di firmare l'armistizio entro il 9 novembre: la flotta tedesca si era ammutinata, la rivoluzione appariva imminente mentre le truppe si rifiutavano di sparare sui rivoluzionari. La mattina del 7 novembre i delegati tedeschi si riunirono a Spa e furono condotti oltre le linee del fronte verso la foresta di Compiègne in territorio francese. Intanto a Berlino la maggioranza socialista del parlamento chiese l'abdicazione del Kaiser; al rifiuto di questi, i deputati si dimisero in blocco e indissero uno sciopero generale in tutto il paese; neppure la richiesta telefonica di von Baden fece cambiare idea all'imperatore155. La sera dell'8 novembre l'ammiraglio Paul von Hintze comunicò al Kaiser che la sua Marina non avrebbe più obbedito ai suoi ordini. La mattina del giorno dopo i delegati arrivarono a Compiègne. La Germania era al collasso: i rivoluzionari avevano in mano i principali nodi ferroviari e la città di Aquisgrana, molti soldati avevano abbracciato la rivoluzione, e la superiorità militare alleata stava schiacciando le truppe al fronte. Il 10 novembre, mentre i canadesi entravano a Mons156, il governo tedesco accettò le condizioni di resa, alle 5.30 del mattino dell'11 novembre venne firmato l'armistizio che sarebbe entrato in vigore alle ore 11157. I combattimenti continuarono per tutta la mattina dell'11 novembre fino a che le lancette degli orologi non segnarono le ore 11:
« Ci fu un attimo di silenzio e di attesa, poi si udì uno strano mormorio, che gli osservatori in posizione molto arretrata rispetto al fronte paragonarono al soffio di una leggera brezza. Erano gli uomini che esultavano dal Vosgi fino al mare158. »
 La guerra era finita, un tripudio di festeggiamenti coinvolse le capitali delle potenze vincitrici, ma in Francia Pershing era irritato perché il suo consiglio di costringere i tedeschi alla resa sul campo non era stato ascoltato:
« Suppongo che la nostra campagna sia conclusa, ma quale enorme differenza avrebbe fatto qualche giorno ancora di guerra. [...] la mia paura è che la Germania non abbia capito di averle prese. Se ci avessero dato un'altra settimana, glielo avremmo fatto capire. »
 I tedeschi, con le truppe ancora in armi, le trincee piene di uomini, le artiglierie in posizione, il suolo francese e belga occupato, si sentirono traditi da coloro che avevano firmato l'armistizio consegnando la vittoria agli Alleati sul tavolo dei negoziati. Quel giorno il generale Karl von Einem, comandante della 3ª armata, disse alle sue truppe:
«Il fuoco è cessato. Non sconfitti...voi concludete la guerra in territorio nemico159.»

Conseguenze

 La disfatta aveva portato in Germania il crollo delle istituzioni imperiali, la proclamazione della repubblica e la costituzione di un governo la cui autorità non era riconosciuta nemmeno nelle strade di Berlino. Anche l'esercito cadde nello sconforto, le unità delle retrovie avevano contribuito al rovesciamento della monarchia, mentre le armate impiegate al fronte venivano condotte in patria e smobilitate160. Tra il 1º e il 4 dicembre le truppe britanniche, statunitensi e francesi varcarono la frontiera tedesca e oltrepassarono il Reno occupando rispettivamente Colonia, Coblenza e Magonza, città che mal si assoggettavano alla presenza degli occupanti, i quali secondo una convinzione sempre più diffusa, non avevano sconfitto la Germania sul campo, ma si erano assicurati l'armistizio per l'incapacità dei governanti tedeschi di scongiurare la rivoluzione e il repubblicanesimo161. Fin dai primi giorni di pace l'infamante marchio della sconfitta e la gravità della situazione economica costituirono uno stimolo per le forze della rivoluzione e del fanatismo in Germania, Austria e Ungheria.
« Mai invero nella storia del mondo [...] un popolo ha dovuto confrontarsi con condizioni di armistizio tanto terribili e ha dovuto prendere atto della sua totale sconfitta, benché nessuno dei suoi avversari abbia ancora messo piede sul suo suolo [...] l'uomo della strada non riesce a capire che cosa sia accaduto così all'improvviso, e si sente completamente disorientato. »
 Queste le parole con cui Arthur Ruppin, sionista tedesco, scriveva sul suo diario il 7 dicembre 1918162. Intanto, mentre i prigionieri di entrambi gli schieramenti tornavano nei rispettivi Paesi e a Berlino Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg venivano uccisi da forze paramilitari di estrema destra, il 18 gennaio si aprì la conferenza di pace di Parigi, in una data che suonava offensiva ai tedeschi, poiché si trattava dello stesso giorno in cui era stato solennemente proclamato l'impero quarantanove anni prima.
« La Germania accetta la responsabilità propria e dei suoi alleati di aver provocato tutte le perdite e i danni che gli Alleati, i governi associati e le loro nazioni hanno dovuto subire a causa di una guerra che è stata loro imposta dall'aggressione della Germania e dei suoi alleati. »
 Questa fu una delle clausole del trattato. Mai una frase avrebbe avuto ripercussioni così negative e violente. Proprio la clausola della "colpevolezza" per come fu percepita dalla Germania ed enfatizzata dai suoi politici, sarebbe divenuta il bersaglio dell'ex caporale Adolf Hitler. Nella popolazione nacque il mito secondo cui l'esercito non fosse stato sconfitto, ma abbandonato dal governo e tradito dai nemici interni, la Dolchstoßlegende; ciò in seguito sarebbe stato sfruttato dalla propaganda nazista per giustificare almeno in parte l'abbattimento della Repubblica di Weimar163.
Al discorso di apertura della conferenza di Versailles, il capo della delegazione tedesca, conte Ulrich von Brockdorff-Rantzau si rifiutò di firmare la clausola dell'ammissione di colpevolezza, puntando il dito sul blocco navale ancora in vigore che stava mietendo migliaia di vittime nella popolazione. Gli Alleati risposero che il blocco sarebbe continuato fino a che non fosse stato ratificato il trattato. La bozza finale fu ricevuta dalla delegazione tedesca il 7 maggio 1919, il 29 la stessa delegazione presentò un memorandum di protesta contro le proposte avanzate dagli Alleati, in cui accettarono di disarmare in anticipo ma a patto che la riduzione degli armamenti fosse di dimensioni analoghe a quella degli Alleati; accettarono di rinunciare alla sovranità in Alsazia e Lorena, ma proponevano si tenesse un plebiscito; accettarono entro certi limiti di pagare i danni di guerra ma rifiutarono di assumersene la colpa. La risposta degli Alleati fu perentoria, la guerra era un ricordo ancora troppo vivo: «non possono ora sfuggire alle conseguenze delle loro azioni» fu la risposta di Lloyd George. Il 22 giugno a Versailles i delegati acconsentirono alla firma del trattato, tranne che per la clausola della dichiarazione di "colpevolezza", e mentre i rappresentanti alleati si stavano preparando a discutere questo nuovo gesto di sfida, arrivò la notizia dell'autoaffondamento della flotta tedesca a Scapa Flow164. Fu immediatamente deciso non solo di rifiutare qualsiasi modifica al trattato, ma di concedere ai tedeschi solo ventiquattr'ore di tempo per sottoscriverlo165. Per non diventare oggetto di riprovazione generale il governo tedesco si dimise, ma Friedrich Ebert rifiutò le dimissioni e chiese a Hindenburg se la Germania avrebbe potuto difendersi nel caso di una recrudescenza delle ostilità; per tutta risposta Hindenburg uscì dalla stanza, e solo quattro ore prima della scadenza il governo autorizzò la firma del trattato. Il 28 giugno il trattato fu siglato: i termini della pace dettati dalle potenze vincitrici erano umilianti e avrebbero cancellato la Germania come potenza militare ed economica. Il trattato di Versailles riportò alla Francia la provincia di confine dell'Alsazia-Lorena, importante per i giacimenti di carbone nella Ruhr, limitò severamente il numero di effettivi dell'esercito a 100.000 unità e vietò la ricostituzione di una forza aerea e di una marina militare. La riva occidentale del Reno sarebbe stata demilitarizzata, e il canale di Kiel aperto al traffico internazionale.
Quattro imperi erano caduti nel 1918, e con essi, i loro sovrani. Il Kaiser andò in esilio nei Paesi Bassi, ma in Germania la violenza non diminuì. La nazione sconfitta divenne vittima di coloro che cercavano una soluzione militarista ai suoi problemi; la Repubblica di Weimar sopravvisse per un certo periodo ai diversi attentati alla sua esistenza: Kapp a Berlino nel marzo 1920, Hitler a Monaco nel 1923. Nelle file degli anonimi sostenitori di Hitler, nel giorno del tentato putsch, fu notata l'imbarazzante presenza di un famoso eroe di guerra, il generale Ludendorff. La Repubblica riaffermò la propria autorità, come peraltro riuscì a fare in tutto il decennio successivo, il governo di Weimar riuscì a trattare una riduzione delle riparazioni di guerra, e nel 1925 a Locarno la Germania fu ammessa a far parte del sistema di sicurezza europeo. Ma nel 1933 l'ascesa di Hitler spazzò via per molto tempo quella stabilità che poteva segnare il definitivo ritorno della Germania nel consesso delle nazioni europee166.

Bibliografia

In italiano:
    •    Luigi Albertini, Le origini della guerra del 1914 (3 volumi - vol. I: "Le relazioni europee dal Congresso di Berlino all'attentato di Sarajevo", vol. II: "La crisi del luglio 1914. Dall'attentato di Sarajevo alla mobilitazione generale dell'Austria-Ungheria.", vol. III: "L'epilogo della crisi del luglio 1914. Le dichiarazioni di guerra e di neutralità."), Milano, Fratelli Bocca, 1942-1943. (ISBN non esistente)
    •    James Corum, Le origini del Blitzkrieg, Hans von Seeckt e la riforma militare tedesca 1919-1933, Gorizia, Libreria editrice goriziana, 2004. ISBN 88-86928-62-9
    •    Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, 2009, Milano, Arnoldo Mondandori [1994]. ISBN 978-88-04-48470-7
    •    Alessandro Gualtieri, La battaglia della Somme - l'artiglieria conquista la fanteria occupa, 2010, Parma, Mattioli 1885. ISBN 978-88-6261-153-4
    •    Bruce I. Gundmundsson, Sturmtruppen - origini e tattiche, 2005 (in italiano), Gorizia, Libreria Editrice Goriziana [1989]. ISBN 88-8692-890-4
    •    Alistair Horne, Il prezzo della Gloria, Verdun 1916, 2003, Milano, BUR [1962], pp. 376. ISBN 978-88-17-10759-4
    •    Michael Jürgs, La piccola pace nella Grande Guerra, 2003, Milano, Il Saggiatore. ISBN 978-88-565-0234-3
    •    Paul K. Davis, Le 100 battaglie che hanno cambiato la storia, 2006, Roma, Newton Compton [1999]. ISBN 978-88-8289-853-3
    •    Ian Ousby, Verdun, 2002 (in italiano), Milano, Rizzoli [2002], pp. 405. ISBN 978-88-17-86998-0

In inglese:
    •    John F.C. Fuller, The Conduct of War, 1789–1961: A study of the impact of the French, Industrial and Russian revolutions on war and its conduct, New York, Da Capo Press, 1992. ISBN 0-306-80467-0
    •    Thomas E. Griess, The Great War, Avery Publishing Group, 1986. ISBN 0-89529-312-9
    •    William R. Griffiths, Thomas E. Griess (a cura di), The Great War, Wayne, NJ, Avery Publishing Group, 1986. ISBN 0-89529-312-9
    •    Michael J. Lyons, World War I: A Short History, Prentice Hall, 2000. ISBN 0-13-020551-6
    •    Samuel L.A. Marshall, The American Heritage History of World War I, American Heritage, Oxford University Press, 1964. ISBN 0-517-38555-4
    •    Stephen Snelling, The Naval VC's, Sutton Publishing, 2002. ISBN 0-7509-1395-9

Nella letteratura
    •    Ernst Jünger, In Stahlgewittern - Nelle tempeste d'acciaio, 1995, Parma, Guanda [1920].
    •    Ernst Jünger, Das Wäldchen 125 - Boschetto 125, una cronaca delle battaglie in trincea nel 1918, 1999, Parma, Guanda [1925].
    •    Erich Maria Remarque, Im Western nichts Neues - Niente di nuovo sul fronte occidentale, 2009, Milano, Oscar Mondadori [1929]. ISBN 978-88-04-49296-2

Filmografia
 Sugli avvenimenti che caratterizzarono il fronte occidentale è stata prodotta una corposa filmografia. In seguito sono elencati in ordine cronologico alcuni film significativi:
    •    Cuori del mondo (Hearts of the World), film di David Wark Griffith del 1918.
    •    All'ovest niente di nuovo, film del 1930 diretto da Lewis Milestone tratto dal libro di Remarque.
    •    La grande illusione (La Grande illusion), un film del 1937 diretto da Jean Renoir.
    •    Orizzonti di gloria (Paths of Glory), film del 1957 diretto da Stanley Kubrick.
    •    Per il re e per la patria (King and Country), film del 1964 diretto da Joseph Losey.
    •    Niente di nuovo sul fronte occidentale, film del 1979 diretto da Delbert Mann anch'esso tratto dall'omonimo romanzo.
    •    Il battaglione perduto (The lost battalion), film del 2001 diretto da Russell Mulcahy ispirato alle vicende del 77º battaglione statunitense impegnato nella battaglia della Mosa-Argonne.
    •    Joyeux Noël - Una verità dimenticata dalla storia, film del 2005 diretto da Christian Carion ispirato agli avvenimenti sul fronte occidentale conosciuti come la "Tregua di Natale".


Fronte orientale (1914-1918)


Data
17 agosto 1914 - 3 marzo 1918
Luogo
Europa centrale e orientale
Esito
Vittoria degli Imperi centrali
    •    Collasso dell'Impero russo
    •    Rivoluzione d'ottobre
    •    Trattato di Brest-Litovsk
    •    Trattato di Bucarest

Il fronte orientale, aperto nell'agosto 1914 con l'invasione russa della Prussia orientale, fu uno dei principali teatri di guerra della prima guerra mondiale. Su questo fronte si scontrarono Germania e Austria-Ungheria da una parte, a cui si affiancò la Bulgaria nel 1916, e l'Impero russo dall'altra, a cui si unì per poco tempo la Romania.
Contrariamente a quanto accadde sul fronte occidentale, a oriente la guerra di manovra non finì mai completamente, la guerra di posizione si alternava alle manovre a livello operativo. Questo fu dovuto anche dalla conformazione geografica del territorio di combattimento: le foreste della Lituania e le vaste pianure e acquitrini della Polonia, Ucraina e Russia, si rivelarono troppo ampie per poter essere saturate di uomini e armi1. Nell'inverno 1916-17 le divisioni tedesche tenevano settori larghi 20-30 chilometri, mentre nelle Fiandre, la stessa porzione di territorio poteva essere riempita con ben otto divisioni. Ambedue i comandanti degli schieramenti si resero conto di non avere le risorse necessarie a difendere i loro settori nello stesso modo dei loro omologhi ad occidente, per cui la tattica dell'ordine aperto e lo sfruttamento degli ampi territori permisero ad entrambe le parti operazioni manovrate molto distanti dalle limitate avanzate ad occidente2.
Nonostante la superiorità nelle tattiche e negli armamenti delle potenze centrali, la Russia, avvantaggiata dal suo enorme potenziale umano, non fu mai completamente sconfitta sul campo. La sconfitta della Russia avvenne solamente a seguito delle rivolte interne scaturite dal malcontento generalizzato della popolazione, che scaturirono in una rivoluzione che destituì lo zar Nicola II e mise al potere un governo provvisorio, sostituito a seguito della rivoluzione d'ottobre, da una repubblica socialista sovietica, che il 3 marzo 1918 firmò il trattato di Brest-Litovsk con le potenze centrali e di fatto fece uscire la Russia dal conflitto.

Premesse

 Se ad occidente le scintille che avrebbero scatenato la guerra risiedevano nella volontà tedesca di competere con la Gran Bretagna sul mare e nelle colonie, e dal rancore reciproco tra Germania e Francia, ad oriente le cause scatenanti erano legate alle ambizioni di Austria-Ungheria e Russia di estendere i propri territori nei Balcani e nelle ambizioni tedesche nel Medio Oriente. La Russia dello zar Nicola II coltivava forti ambizioni nella penisola balcanica, e si ergeva paladina di uno Stato slavo, la Serbia, che lottava incessantemente per ampliare i propri confini verso il mare.
D'altra parte non perdeva d'occhio nemmeno le minoranze slave, ucraine, rutene e polacche sotto il dominio austriaco, che vedevano la Russia come la propria protettrice. L'impero di Francesco Giuseppe dal canto suo cercava di mantenere intatta la sua mastodontica struttura, cercando di appoggiare le esigenze delle svariate minoranze etniche al suo interno. Nel 1867, per soddisfare le richieste di tedeschi e magiari, Francesco Giuseppe era stato proclamato imperatore d'Austria e re d'Ungheria. Nella parte austriaca della monarchia duale, era stato ideato un sistema parlamentare che venisse incontro alle diverse minoranze, con la presenza di rappresentanti in sede legislativa. Tuttavia, benché non desiderassero turbare lo status quo, anche gli Asburgo aspiravano a domare l'unico elemento disturbatore a sud, la Serbia, la cui espansione sembrava inarrestabile3.
I sistemi di alleanze europee venutisi a creare nel tardo Ottocento, erano specchio dei timori dei singoli stati. I due Imperi centrali, Germania e Austria-Ungheria, erano legati da vincoli formali analoghi a quelli che intercorrevano tra Russia e Francia fin dal 1892, le due nazioni con cui la Gran Bretagna aveva stretto un'alleanza per dirimere i contrasti, e che fece nascere negli Imperi centrali la paura di un accerchiamento4.

I rapporti con la Germania

 Dopo la guerra franco-prussiana del 1870 Bismarck tentò in ogni modo di isolare la Francia nello scacchiere europeo. Il suo primo sforzo fu quello di mettere d'accordo Austria e Russia attraverso un legame comune con la Germania, cercando allo stesso tempo di assicurare un assetto pacifico nei Balcani per evitare tensioni5. Le implicazioni della guerra russo-turca del 1877 lo indussero a stipulare un'alleanza difensiva con l'Austria-Ungheria nel 1879, e nonostante le implicazione negative che ciò avrebbe potuto avere con la Russia, nel 1881 Bismarck riuscì in un exploit diplomatico a creare l'"alleanza dei tre imperatori" unendo formalmente Russia, Germania e Austria, che si impegnava ad agire di comune accordo nei Balcani. Nel 1882 l'alleanza tra Austria e Germania fu ampliata con l'ingresso dell'Italia, mossa fatta per evitare una "pugnalata alle spalle" nel caso di guerra austro-russa6.  
Ma l'ascesa al trono di Guglielmo II minò immediatamente questo delicato sistema di alleanze creato da Bismarck. Il trattato di controassicurazione russo-tedesco del 1887 fu annullato e lo zar nel 1891 concluse un accordo con la Francia. Ma la mossa più provocatoria di Guglielmo fu l'intento del kaiser di assicurarsi il ruolo di "santo patrono" della Turchia, cosa che incrinò definitivamente i rapporti con la Russia che aveva su Costantinopoli grandi ambizioni7. Quest'ultima non fece altro che assicurarsi rapporti d'amicizia con i nemici della Germania, accrescendo la paura di accerchiamento dell'impero di Guglielmo II, che tentò in ogni modo un riavvicinamento con lo zar, che non avvenne. La nuova divisione in blocchi dell'Europa, non era un equilibrio stabile, bensì una semplice barriera satura di esplosivo. La paura di un conflitto indusse tutti i paesi a dare sempre maggior potere ai vertici militari che potevano utilizzare a loro discrezione gli armamenti che le stesse nazioni si affrettavano ad accrescere8. La prime scintille scoccarono nei Balcani nel 1908 e nel 1913 e coinvolsero indirettamente Russia, Austria e Germania, ognuna con pretese sui paesi balcanici.

La crisi bosniaca

 Regolate tutte le questioni della guerra russo-turca con il congresso di Berlino, nel 1908 la Bosnia ed Erzegovina fu ceduta all’amministrazione dell’Austria-Ungheria che, occupando la provincia ottomana, veniva così ripagata per non aver contrastato l’offensiva militare russa. Formalmente però la Bosnia-Erzegovina rimaneva dell’Impero Ottomano e la Serbia poteva ancora sperare di unire il suo territorio a quello bosniaco. Per i serbi, infatti, la Bosnia-Erzegovina rappresentava una provincia nazionale9. Ma la Serbia, che da decenni aveva conquistato l'indipendenza, lottava per uno sbocco al mare Adriatico, precluso però dall'Austria proprio con l'annessione della Bosnia-Erzegovina, annessione che peraltro avrebbe garantito all'Austria una base di partenza per attaccare la Serbia10. Serbia, Montenegro e Turchia erano fortemente contrari all'annessione ma, se Costantinopoli fu convinta con concessioni a riconoscela, la Serbia non mollava la presa spalleggiata dalla Russia ansiosa di creare disordine nell'impero asburgico11.  
Solo la minaccia di un intervento tedesco contro la Russia fece desistere la Russia che il 24 marzo 1909 riconobbe la legittimità dell'annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina12. Il 31 marzo sotto la minaccia di una mobilitazione austriaca, anche la Serbia si impegnò a mutare il corso della sua politica verso l’Austria13, Il 7 aprile raggiunto anche l’accordo col Montenegro (che grazie a Italia e Gran Bretagna ottenne alcuni vantaggi di sovranità sulla costa), il ministro degli esteri austriaco von Aehrenthal chiese alle potenze di riconoscere formalmente la soppressione dell’articolo 25 del trattato di Berlino, che appunto stabiliva la sola e semplice amministrazione austriaca della Bosnia. Riconoscimento che ottenne fra il 7 ed il 19 aprile14.
Ma la miccia non si era spenta. A San Pietroburgo, Aleksei Stepanovič Čomjakov, il presidente della Duma, assicurò l’ambasciatore serbo che in quel momento non era possibile intervenire, ma che in futuro la Russia avrebbe considerato ogni violenza fatta alla Serbia come l’inizio di un incendio europeo15. In una lettera a von Bülow del 22 giugno 1909, l’ambasciatore tedesco a Belgrado scrisse riferendosi al popolo serbo: «Il piccolo gruppo delle persone veramente colte o semicolte [...] non vuole rassegnarsi, per la sua boria nazionale offesa, ad accettare il fatto dell’annessione. Si starà, perciò, come il cacciatore alla posta, per cogliere l’istante giusto per sparare un colpo a segno». L’ambasciatore non sospettava, certo, di quale colpo molto concreto si sarebbe trattato il 28 giugno 191416.

La questione balcanica

 La vittoria serba sulla Turchia nel 1912 rappresentò uno smacco per la Germania. Il successo militare del piccolo Stato slavo metteva in repentaglio non solo il predominio austriaco nei Balcani, ma anche l'ambizione della Germania di potenza egemone in Turchia, mentre la cessione di territori ottomani alla Serbia fu vista con soddisfazione dalla Russia17. A conclusione della seconda guerra balcanica, la difesa delle esigenze tedesche nei confronti degli slavi fu inizialmente assunta non tanto dalla Germania, ma dall'alleata Austria-Ungheria. Fu a seguito di pressioni austriache che la Turchia concesse la creazione dell'Albania in modo tale da privare alla Serbia altri possibili territori per arrivare al mare. Cosa che nel contempo fece la Grecia, che negò l'accesso al mar Egeo annettendo la Tracia a spese della Turchia18.  
Ma la sete di territori coinvolgeva molti stati europei: l'Italia nel 1912 occupò la Libia a seguito di un conflitto armato e la Bulgaria conquistò uno sbocco nell'Egeo, entrambe a spese della Turchia. La Serbia durante la seconda guerra balcanica occupò l'Albania conquistando temporaneamente il suo accesso al mare Adriatico; per questo il 18 ottobre 1913 l'Austria inviò un ultimatum a Belgrado intimando l'evacuazione dell'Albania entro otto giorni: i Serbi chinarono il capo. Ma il seme della guerra era ormai ben piantato, la Germania non fece nulla per impedire all'Austria un'azione di forza, come nulla fece la Russia per impedire la possibilità di un conflitto19.
La Germania esercitò sempre un'azione di freno consigliando moderazione tra Austria e Russia, ma nello stesso tempo ampliando la sua egemonia in Turchia. Questo non piacque affatto alla Russia, che vide svanire il suo sogno di mettere mano nei Dardanelli, sogno che i suoi ministri credevano ora solo possibile con un conflitto generalizzato. Obiettivo russo era ora quello di estendere la sua influenza nei Balcani, scossa da recenti avvenimenti20. Tentò quindi di conquistarsi le simpatie della Romania, cosa che preoccupò l'Austria ove le diverse etnie interne provocavano già pericolose tensioni. I governanti austriaci erano convinti che scatenare una guerra oltre i confini fosse la migliore soluzione per reprimere il malcontento dei serbi e croati nei territori annessi e dei romeni in Transilvania. Intendeva quindi usare duramente la forza contro quel serbatoio di tutte le forze di opposizione interne, la Serbia amica della Russia21.  
La scintilla che incendiò irrimediabilmente la miccia fu l'attentato di Sarajevo. Domenica 28 giugno 1914, il bosniaco Gavrilo Princip riuscì ad assassinare a Sarajevo l'erede al trono d'Austria-Ungheria, l'arciduca Francesco Ferdinando e la sua consorte Sofia di Hohenberg, venendo immediatamente arrestato. Ne derivò una crisi diplomatica che nel giro di un mese, a causa del delicato sistema di alleanze europee, portò allo scoppio della prima guerra mondiale.
Il 28 luglio 1914 l'Austria-Ungheria fece la prima mossa del combattimento, dichiarando guerra alla Serbia. Così, mentre l'artiglieria austriaca teneva sotto tiro le fortificazioni serbe lungo la frontiera pronta ad aprire il fuoco in qualsiasi momento, la mattina del 29 luglio la Russia chiamò alle armi una parte della sua enorme riserva di uomini: lo zar Nicola II non dichiarò guerra all'Austria, ma si limitò a ordinare una mobilitazione parziale di quasi sei milioni di uomini22. Anche la Germania, il 1º agosto, dichiarò guerra alla Russia in conseguenza della mobilitazione generale di quest'ultima. Il 4 agosto le truppe russe iniziarono a marciare verso la frontiera tedesca, ma per alcuni giorni il fronte non fu oggetto di grossi movimenti e scontri.

Uno scontro tra imperi
 
Il 20 agosto, concedendo udienza al leader ceco Karel Kramár, lo zar affermò che la Russia, dopo aver sconfitto l'Austria, avrebbe visto con favore:  
« la corona di San Venceslao risplendere libera e indipendente nel fulgore della corona dei Romanov"23. »
In lotta non erano soltanto due eserciti, ma anche due sistemi imperiali. A Vienna la prospettiva di una vittoria contro la Russia suscitava mire espansionistiche, tanto che il 12 agosto, giorno in cui la Gran Bretagna dichiarò guerra all'Austria, il governo austriaco discusse la possibilità di annettere all'impero le provincie russe della Polonia inclusa Varsavia. A tale scopo il 16 agosto le autorità austriache autorizzarono il leader polacco Józef Piłsudski a fondare a Cracovia, in territorio austriaco, un comitato supremo nazionale in attesa del giorno in cui polacchi e austriaci avrebbero marciato fianco a fianco per le vie di Varsavia. Il primo contributo di Piłsudski all'Austria fu la formazione di una legione polacca composta da 10.000 uomini contro le armate russe24.  
Questi soldati polacchi speravano che la vittoria austriaca sulla Russia avrebbe favorito la rinascita di una Polonia indipendente. Lo stesso fecero i russi verso la popolazione polacca sotto i suoi domini, e venne costituita anche in questo caso una legione polacca, la Pulawy, che avrebbe combattuto come un'entità distinta all'interno delle'esercito zarista. Paradossalmente i polacchi combatterono contro altri polacchi con le stesse motivazioni, ma in schieramenti diversi25. Il 19 agosto la Russia pubblicò due manifesti: con il primo prometteva a guerra conclusa, una Polonia libera per religione, lingua e governo; con il secondo incitava tutti i popoli soggetti all'Austria-Ungheria a sollevarsi e proclamarsi indipendenti26.

Piani contrapposti

 Sul fronte russo i piani operativi all'inizio del conflitto erano molto meno elaborati e più fluidi di quanto pianificato sul fronte occidentale, anche se poi, l'alternarsi degli avvenimenti sottopose a grossi cambiamenti anche il fronte orientale. La condizione più prevedibile del fronte fu la conformazione geografica, mentre la meno prevedibile fu l'inaspettato ritmo di concentrazione e mobilitazione delle forze zariste27. La Polonia russa era una lunga striscia di terra che partendo dalla Russia si proiettava ad ovest fiancheggiata su tre lati da territori tedeschi e austriaci: sul lato settentrionale la Prussia orientale affacciata sul mar Baltico; sul lato meridionale la provincia austriaca della Galizia, con a su i Carpazi che sbarravano l'accesso alla pianura ungherese; a ovest infine, il territorio tedesco della Slesia28.
Poiché le provincie austriache e tedesche al confine con la Russia erano dotate di una fitta rete ferroviaria, mentre la Polonia e la stessa Russia avevano un sistema di comunicazioni piuttosto scarso, in quanto a capacità di concentrazione e movimento, le armate austro-tedesche avrebbero potuto fronteggiare i russi in una situazione di notevole vantaggio. Ma a parti invertite, un'offensiva degli Imperi centrali in Polonia e Russia avrebbe fatto perdere questo vantaggio agli attaccanti. La strategia più vantaggiosa era dunque quella di attirare i russi in una regione che si prestasse per sferrare un potente colpo d'incontro anziché quella di assumere direttamente l'offensiva. Unico inconveniente di questa strategia è che in questo modo veniva concesso alla Russia il tempo di mettere in moto la sua immensa macchina da guerra29.
Ad ambedue i paesi conveniva che il problema era tenere sotto scacco i russi fino a quando i tedeschi non avessero distrutto le forze francesi ad occidente; ultimata questa parte della campagna, i tedeschi avrebbero potuto spostare le proprie forze a est e affiancarle a quelle austro-ungariche per sferrare il colpo decisivo contro i russi. Ma verteva una divergenza sui metodi. I tedeschi preoccupati di concludere rapidamente le operazioni in Francia, desideravano lasciare a est appena il minimo indispensabile di forze, mentre gli austriaci, influenzati dal capo di stato maggiore Conrad von Hötzendorf, erano impazienti di scardinare la macchina bellica russa con una violenta offensiva. Poiché tale strategia consentiva comunque di tenere impegnati i russi in attesa della fine delle operazioni in Francia, von Moltke finì con l'accettarla30.
Il piano di Conrad prevedeva un'offensiva a nord-est contro la Polonia sferrata da due armate, protette da altre due sulla destra, ancora più a est. Secondo il piano, simultaneamente all'offensiva austriaca i tedeschi avrebbero dovuto attaccare dalla Prussia orientale verso sud-est. Convergendo, i due eserciti avrebbero isolato le forze russe avanzate nella striscia polacca, ma Conrad non riuscì a convincere von Moltke ad assegnare per questo sforzo offensivo forze sufficienti31. Anche i russi furono influenzati dalla volontà degli Alleati; per motivi sia militari che etnici, il comando russo desiderava concentrare le proprie forze inizialmente contro l'Austria-Ungheria, approfittando del momento di cui la Germania impegnata a occidente non avrebbe potuto aiutare in modo deciso l'alleato.
Quindi dopo aver sconfitto l'Austria e mobilitato tutti i potenziali effettivi, la Russia si sarebbe rivolta contro la stessa Germania. La Francia però, ansiosa di contenere la pressione tedesca ad ovest, sollecitò i russi di sferrare anche un'offensiva simultanea contro la Germania, spingendoli così in una offensiva a cui non erano preparati né numericamente né sotto l'aspetto organizzativo32. La Russia preparò quindi la propria strategia che prevedeva un attacco con due armate a sud, contro l'Austria-Ungheria, mentre a nord, altre due armate avrebbero invaso la Prussia orientale aggredendo le esigue forze tedesche. La Russia, la cui proverbiale lentezza organizzativa avrebbe consigliato una strategia cauta, stava per rompere gli indugi lanciandosi in un'operazione che sarebbe stata congeniale ad un esercito dotato di grande mobilità e con un'efficiente organizzazione, il quale non era l'esercito russo33.

Operazioni navali


 Uscita pesantemente decimata dagli eventi della guerra russo giapponese del 1904-05, la marina imperiale russa si trovava ancora in fase di ricostruzione al momento dell'entrata in guerra, con molte delle unità di più recente concezione (come le prime corazzate tipo dreadnought russe, le quattro della classe Gangut) ancora in fase di costruzione; in aggiunta le navi russe risultavano suddivise tra due teatri principali senza possibilità di supportarsi a vicenda: nel mar Baltico la squadra navale russa era ampiamente surclassata, sia quantitativamente che qualitativamente, dalla Hochseeflotte tedesca, mentre la Flotta del Mar Nero di base a Sebastopoli poteva affrontare un confronto più equilibrato contro la marina ottomana.

Mar Baltico

 Nel Baltico entrambi i contendenti decisero di adottare una strategia prevalentemente difensiva34: la Germania puntava ad impiegare il grosso della sua flotta nella lotta contro il Regno Unito nel Mare del Nord, e poteva dislocare solo un numero ridotto di unità nel bacino; i russi invece decisero di attenersi alla strategia della flotta in potenza, chiudendosi a difesa delle proprie basi navali, ed in particolare dei golfi di Riga e di Finlandia, tramite ampi sbarramenti di mine e postazioni di artiglieria costiera. La prima fase del conflitto fu caratterizzata, da entrambe le parti, solo da rapide incursioni di squadre di incrociatori contro le coste nemiche: durante una di queste azioni, il 26 agosto 1914 i russi misero a segno un importante successo strategico, impossessandosi dei libri codice contenenti le chiavi di cifratura delle comunicazioni radio della flotta tedesca, rinvenuti sul relitto dell'incrociatore SMS Magdeburg finito arenato sulle coste estoni35.
Dopo altre azioni minori, il primo confronto diretto tra le due flotte si ebbe tra l'8 ed il 19 agosto 1915: una squadra da battaglia tedesca fu inviata ad appoggiare una flottiglia di dragamine intenti ad aprire varchi nelle difese del Golfo di Riga, finendo per scontrarsi con le batterie costiere russe sostenute dalla corazzata Slava; le navi tedesche si ritirarono dopo due falliti tentivi di aprirsi un varco nelle difese nemiche, riportando però pochi danni36. La situazione rimase statica per molti mesi, con le corazzate russe frequentemente impegnate in appoggio ai propri reparti terrestri davanti Riga; il Baltico fu teatro anche di una limitata campagna sottomarina da parte delle forze alleate: se i pochi battelli russi potevano operare solo sotto forti restrizioni per evitare di provocare la Svezia (neutrale ma decisamente filo-tedesca), una flottiglia di sommergibili britannici riuscì ad eludere la sorveglianza nemica dello Skagerrak e ad operare da basi russe, infliggendo danni al commercio navale tedesco nel bacino37.
Lo scoppio della rivoluzione di febbraio del 1917 portò gravi danni al morale ed alla coesione degli equipaggi russi38; approfittando dell'occasione, nell'ottobre seguente la flotta tedesca lanciò una massiccia operazione navale per forzare le difese russe del Golfo di Riga: mentre contingenti da sbarco prendevano possesso delle isole di Saaremaa ed Hiiumaa (operazione Albion), dragamine tedeschi aprirono rotte sicure per le proprie corazzate, che nella successiva battaglia dello stretto di Muhu furono in grado di espellere dal golfo le restanti unità russe. Con la caduta di Riga tutte le forze navali russe furono ritirate nel Golfo di Finlandia, cessando in pratica di operare fino alla conclusione delle ostilità39.

Mar Nero

 Il confronto di forze era più equilibrato nel Mar Nero: se la squadra russa era superiore in numero alla flotta ottomana, dotata di poche unità veramente efficienti, gli Imperi Centrali avevano il loro punto di forza nell'incrociatore da battaglia tedesco SMS Goeben, singolarmente più forte di qualsiasi altra unità navale nemica presente nel bacino40. Le operazioni iniziarono la mattina del 29 ottobre 1914, quando le unità turco-tedesche attaccarono le principali basi navali russe nel bacino: nonostante la sorpresa, tuttavia, i danni inflitti furono modesti e già quello stesso pomeriggio la squadra delle corazzate russe compì una crociera dimostrativa davanti al Bosforo. I primi mesi di guerra furono spesi da entrambe le parti per stendere campi minati e portare attacchi ai rispettivi porti principali; il 18 novembre 1914, mentre rientrava da una missione di bombardamento, la squadra di corazzate russe incappò nella Goeben al largo di Capo Sayrch, e dopo un confuso scambio di colpi nella nebbia l'incrociatore ruppe il contatto e si ritirò. Lo scontro spinse tedeschi ed ottomani ad impiegare con parsimonia l'unità, il loro unico punto di forza sull'avversario, e ciò finì inevitabilmente per concedere l'iniziativa ai russi41.
Tra la fine di marzo ed i primi di aprile del 1915 le corazzate russe compirono frequenti azioni davanti al Bosforo, bombardando la capitale Istanbul anche come forma di appoggio alla campagna dei Dardanelli intrapresa in contemporanea dai franco-britannici; le navi russe furono inoltre molto attive nel supportare le proprie truppe impiegate sul fronte del Caucaso, sia attaccando le rotte di rifornimento ottomane sia compiendo bombardamenti delle trincee nemiche42. Ai primi di marzo del 1916 la flotta russa condusse una serie di operazioni anfibie lungo la costa settentrionale dell'Anatolia, dando un notevole contributo alle vittorie riportate nell'offensiva di Erzurum e nella battaglia di Trebisonda43; queste azioni furono scarsamente disturbate dalle navi degli Imperi Centrali, ormai in condizione di netta inferiorità dopo l'entrata in servizio delle nuove dreadnought russe della classe Imperatritsa Mariya: la Goeben e gli altri incrociatori turco-tedeschi compirono ancora uscite in mare, ma ogni volta che incappavano nelle corazzate russe rompevano il contatto e si ritiravano.
Lo scoppio della rivoluzione di febbraio nel 1917 trovò la flotta russa praticamente padrona del bacino: come nel Baltico, anche nel Mar Nero gli eventi della rivoluzione provocarono un crollo del morale e della disciplina degli equipaggi, compromettendone le capacità belliche44. La firma del trattato di Brest-Litovsk pose fine alle ostilità: la base di Sebastopoli fu occupata dalle forze tedesche che riuscirono ad impossessarsi di una parte della flotta russa, anche se il pessimo stato di conservazione delle navi non permise loro di impiegarle operativamente; nei mesi successivi le vicende delle superstiti unità della Flotta del Mar Nero si fusero poi con quelli della più ampia guerra civile russa.

Si aprono le ostilità

 Il 14 agosto le forze tedesche erano già ad 80 chilometri da Varsavia all'inseguimento dei russi in ritirata, ma lo zar Nicola credeva ancora di poter vincere la guerra, e di vincerla rapidamente; le truppe zariste furono fatte avanzare a tutta velocità direttamente su Vienna e Berlino45. Il 17 due armate russe, una comandata dal generale Rennenkampf e l'altra dal generale Samsonov, cominciarono ad avanzare nella Prussia orientale. A contrastarle trovarono il 1º corpo d'armata tedesco comandanto dal generale François, che si scontrò a Stallupönen con Samsonov, facendo 3000 prigionieri prima di ritirarsi su posizioni meglio difendibili46. In ossequio ai piani e alle richieste degli Alleati, le armate zariste attaccarono improvvisamente sia in Prussia orientale che in direzione Vienna, cercando di sorprendere gli imperi nemici nell'intento di raggiungere una rapida vittoria.

L'invasione della Prussia

Il 19 agosto Rennenkampf si scontrò a Gumbinnen col grosso dell'8 armata di Prittwitz, due giorni dopo lo stesso comandante tedesco fu informato che la 2 armata russa agli ordini di Samsonov aveva attraversato, alle sue spalle, la frontiera meridionale della Prussia orientale, ed era fronteggiata da sole tre divisioni47. Il comandante in capo delle forze tedesche in Prussia orientale, generale Maximilian von Prittwitz, preso dal panico comunicò a François della necessità di ritirarsi fino alla Vistola, lasciando così sguarnita l'intera Prussia orientale, dubitando anche di poter resistere sulla linea della Vistola48. Per scongiurare la possibilità di essere incalzati durante la ritirata, il colonnello Max Hoffmann sottolineò che era necessario sferrare un'offensiva vittoriosa prima di poter ripiegare senza essere continuamente minacciati dalle preponderanti forze russe.
Hoffmann voleva che Prittwitz impiegasse le sue truppe contro una delle due armate russe, ma al comandante tedesco era ormai venuta meno la volontà di combattere e il 22 agosto fu destituito, e fu allora che von Moltke richiamò il sessantasettenne generale Paul von Hindenburg, ormai in pensione, e gli affidò le armate orientali, assegnandogli come stato maggiore il vincitore di Liegi, generale Erich Ludendorff49. Questa fu la prova che i tedeschi sbagliarono i loro calcoli: la macchina bellica russa fu tutt'altro che lenta e bisognava combattere con la massima intensità anche a oriente prima di poter riportare una decisiva vittoria tattica ad occidente. Giunto ad oriente Ludendorff capì che Hoffmann aveva già impostato le basi per una vittoria, ma le due armate russe erano ormai penetrate in profondità nella provincia, minacciandone la capitale Königsberg50.

Il contrattacco tedesco

 Il 26 agosto le truppe zariste entrarono a Rastenburg e il giorno seguente iniziarono i combattimenti intorno ai laghi Masuri, nei pressi dei villaggi di Frögenau e di Tannenberg. Ludendorff ebbe un cedimento, tanto che propose di far ritirare François e di sospendere i piani di accerchiamento delle truppe di Samsonov ideati da Hoffmann51. Hindenburg decise comunque di continuare il piano avviato dal colonnello Hoffmann e i combattimenti continuarono.
La mattina del 28 agosto Ludendorff ordinò a François di arrestare l'avanzata e inviare le sue truppe a rinforzo in un settore indebolito del fronte, ma questi disobbedì agli ordini continuando ad incalzare i russi. Fu proprio per questa disobbedienza che consentì a Ludendorff di ottenere nei giorni seguenti una vittoria schiacciante. Il 30 l'armata di Samsonov era ormai sconfitta, decine di migliaia di soldati russi erano in rotta; dopo 28 giorni di grandi sconvolgimenti la Prussia orientale tornava interamente nelle mani della Germania52. I russi lasciarono oltre 30.000 morti sul campo, tra di loro lo stesso generale Samsonov; dopo aver lasciato Neidenburg per seguire da vicino le operazioni, Samsonov finì per essere travolto dal caos della ritirata: incapace di fare qualsiasi cosa, il 28, a cavallo, si diresse verso sud smarrendosi nelle foreste; scesa l'oscurità si ritirò in disparte e senza che nessuno degli uomini si accorse della sua mancanza, piuttosto che sopravvivere al disastro si uccise con un colpo alla testa53.
Nel frattempo i tedeschi catturarono circa 125.000 prigionieri, 500 cannoni e diverse migliaia di cavalli. Ludendorff, su suggerimento di Hoffmann, vergò il dispaccio al Kaiser datandolo invece che da Frögenau, da Tannenberg, il luogo dove cinque secoli prima i cavalieri teutonici erano stati massacrati da soverchianti forze slave e lituane54.  Ma l'effetto Tannenberg fu sminuito dal fatto che sul fronte meridionale, in Galizia, la bilancia cominciava a pendere a sfavore delle potenze centrali.  La battaglia, che passò alla storia con il nome di battaglia di Tannenberg, fu definita dal generale e storico Edmund Ironside come:
« La più grave delle sconfitte subite da tutti i contendenti durante la guerra55. »
 La battaglia di Tannenberg non fu una seconda Canne ben pianificata, come molti hanno sostenuto. L'obiettivo iniziale della battaglia era quello di arrestare l'invasione e non circondare l'esercito russo. L'idea di un duplice accerchiamento fu concepita solo in un secondo tempo e fu realizzabile dalla persistente passività di Rennenkampf56.

L'attacco alla Galizia

 Nei settori a sud-est del fronte, gli austriaci non ebbero altrettanto successo, anche perché furono costretti ad affrontare forze preponderanti. L'offensiva della 1ª e della 4ª armata austriache in Polonia aveva in un primo tempo realizzato qualche progresso, ma questo esiguo vantaggio fu ben presto completamente annullato dalla 3ª e dall'8ª armata russe che attaccarono il fianco destro austriaco coperto dalle deboli 2ª e 3ª armata57. Il 18 agosto quando penetrò nella Galizia austriaca, il generale russo Aleksej Brusilov aveva al comando trentacinque divisioni di fanteria, che impegnarono subito molto duramente le truppe di Francesco Giuseppe, già peraltro duramente impegnate in Serbia58. Mentre i tedeschi venivano fermati dai francesi sulla Marna abbandonando così ogni velleità di una rapida vittoria, gli austriaci si battevano per non essere ricacciati dai russi oltre la frontiera della Galizia. Il 10, mentre i francesi iniziarono ad inseguire i tedeschi che ripiegavano dalla Marna, a Kraśnik, nella Polonia russa, a un passo dal confine, i russi sconfissero gli austriaci penetrati in forze nel loro territorio. Più a sud, un'altra offensiva russa nella Galizia austriaca, Conrad fu costretto a far ritirare le proprie truppe quasi fino alle porte di Cracovia, allora in territorio austro-ungarico59. Così scrisse il 13 settembre il filosofo Ludwig Wittgenstein, volontario inquadrato nelle file austro-ungariche spedite sul fronte orientale:
«Oggi, alle prime ore del mattino, abbiamo abbandonato la nave con tutto il carico [...] i russi ci stanno alle calcagna. Ho assistito a scene atroci. Non chiudo occhio da trenta ore, sono debolissimo e non c'è da sperare in nessun aiuto esterno»
(dal diario di Ludwig Wittgenstein60.)
Mentre gli austriaci erano in grosse difficoltà, i tedeschi dopo Tannenberg continuarono lentamente ad avanzare nelle provincie polacche annesse alla Russia dal 1700, grazie al contributo strategico di Hoffmann e dall'azione coordinata di Hindenburg e Ludendorff. Mano a mano che i tedeschi penetravano in Polonia, i russi schiacciavano gli austriaci in Galizia. In Polonia la popolazione locale iniziò a perseguitare e infierire contro i residenti ebrei che pure vivevano in quelle zone da secoli: botteghe, case, sinagoghe vennero saccheggiate, e quasi ogni giorno venivano impiccati o linciati ebrei accusati di patteggiare per i tedeschi; che 250.000 ebrei prestassero servizio per l'esercito russo non bastava a vincere i pregiudizi. Migliaia di ebrei furono costretti ad abbandonare le proprie case e rifugiarsi all'interno del territorio russo, lontano dal fanatismo che imperiava nelle zone di guerra61.
Quanto stava accadendo costrinse i tedeschi ad accorrere in aiuto dell'alleato; il grosso delle forze dislocate in Prussia orientale fu raggruppato in una nuova 9ª armata e spedito nell'angolo sud-occidentale della Polonia, da dove, in collegamento con una nuova offensiva austriaca, cominciò ad avanzare verso Varsavia. Ma i russi stavano ormai mobilitando il loro enorme potenziale umano, e raggruppando le loro forze sferrarono un violento contrattacco che respinse il tentativo austro-tedesco, accingendosi ad invadere la Slesia in forze62.

Rapidi capovolgimenti di fronte

L'attacco della 9ª armata russa al fianco destro delle forze russe, in quella che verrà ricordata come la battaglia di Łódź.
 Il granduca Nicola costituì un'enorme falange di sette armate - tre schierate nel mezzo e due per parte a proteggere i fianchi. Un'altra armata, la 10ª, aveva invaso l'estremità più a est della Prussia orientale e stava impegnando le deboli forze tedesche schierate in quel settore. Gli Alleati speravano che il "rullo compressore" russo iniziasse la sua poderosa avanzata. In Prussia Hindenburg, Ludendorff e Hoffmann misero a punto un piano basato sul sistema di linee ferroviarie che avrebbero consentito alle forze tedesche di spostarsi rapidamente lungo il fronte. Ritirandosi davanti ai russi, la 9ª armata riuscì inoltre a rallentare l'avanzata nemica distruggendo sistematicamente le già scarse linee di comunicazione esistenti in Polonia63.
Raggiunta la propria frontiera con largo anticipo sui russi, l'11 novembre, con il fianco sinistro protetto dalla Vistola la 9ª armata sferrò un poderoso attacco verso sud-est contro il punto di congiunzione tra la 1ª e la 2ª armata russa che proteggevano il fianco destro delle forze russe. Dopo aver separato le due armate, Ludendorff spinse il cuneo a fondo costringendo la prima armata a ripiegare su Varsavia e riuscendo quasi ad infliggere una seconda Tannenberg alla 2ª armata. Essa venne praticamente circondata nei pressi di Łódź64 prima che la 5ª armata giunse a suo soccorso, e i tedeschi rischiarono di subire la stessa sorte che avrebbe dovuto infliggere ai russi, ma riuscirono ad aprirsi un varco e ricongiungersi col grosso delle forze tedesche65.  
Nel giro di una settimana altri quattro corpi d'armata tedeschi arrivarono da occidente, dove l'attacco di Ypres si concluse con un fallimento; anche se aveva ormai perso l'occasione per sfruttare il successo, Ludendorff riuscì ad utilizzare le nuove forze per ricacciare ancora più indietro i russi, i quali furono costretti a ripiegare sulla linea dei fiumi Bzura e Ravka, davanti a Varsavia. Gli insuccessi subiti e la mancanza di rifornimenti e scorte indussero lo zar Nicola a sospendere i combattimenti ancora in corso nei pressi di Cracovia, e a ripiegare su linee trincerate invernali predisposte lungo i fiumi Nida e Dunajec, lasciando in mano nemica la "striscia" polacca. Entrambi gli schieramenti ad est giunsero ad un punto morto, con le forze attestate in solide linee trincerate66. Sul fronte meridionale i russi penetrarono in breve tempo nella Slesia austriaca e per la seconda volta in Ungheria.
Il 26 novembre Conrad propose di istituire la legge marziale in Boemia, Moravia e Slesia, alle minoranze etniche dell'impero, per prevenire insurrezioni che approfittassero della debolezza dell'impero austriaco, ma la proposta fu respinta da Francesco Giuseppe67. Con un contrattacco a Limanowa gli austriaci ricacciarono indietro i russi dai Carpazi e dalla città di Bartfeld, in Ungheria, allontanando le minacce che volevano la Polonia austriaca sull'orlo di cedere. Con l'inverno alle porte e le temperatura in rapida discesa il fronte si immobilizzò sulle queste posizioni. Il 1º dicembre in Russia vennero mobilitati gli studenti, che se da una parte ingrossavano le file dell'esercito, dall'altra spalancava le porte dell'esercito agli agitatori bolscevichi che si annidavano tra gli stessi studenti68.

Il secondo anno di guerra

 A oriente come ad occidente il problema principale fu quello di trovare una soluzione allo stallo del fronte, e i tedeschi furono i primi a cercare di escogitare una soluzione. Il 31 gennaio i tedeschi sperimentarono a Bolimów il gas lacrimogeno, ma l'effetto andò a vuoto per l'effetto neutralizzante del freddo69.  Sul fronte orientale i combattimenti continuavano con dimensioni gigantesche. Il 22 febbraio quando i tedeschi espugnarono Przasnysz fecero prigionieri 10.000 russi, per poi lasciarne oltre 5.000 appena tre giorni dopo quando la città fu riconquistata dai russi70.
Il 22 aprile sferrarono ad Ypres una nuova offensiva ad occidente con l'impiego della nuova arma chimica. Questo primo attacco fu di natura sperimentale, non tattica; giacché inizialmente i tedeschi non avevano preso nemmeno in considerazione di entrare a Ypres, le riserve di granate a gas erano troppo limitate per sfruttare il successo71. Gli Alleati, di tutta risposta contrattaccarono frettolosamente; i francesi tra Lens e Arras e i britannici sul crinale di Aubers. Le controffensive alleate si infransero penosamente contro le difese tedesche e ciò convinse Falkenhayn che il fronte avrebbe potuto tranquillamente reggere mentre ad ovest venivano messi in opera i piani di attacco contro la Polonia russa72.

Le offensive tedesche

 Lo scopo di Falkenhayn era quello di alleggerire la pressione sul fronte austriaco e allo stesso tempo ridurre le capacità offensive della Russia. Per fare questo, Conrad propose, e Falkenhayn accettò, un piano per sfondare al centro dello schieramento russo nel settore del fiume Dunajec, tra l'alto corso della Vistola e i Carpazi, punto in cui erano presenti pochi ostacoli naturali. L'operazione fu affidata ad August von Mackensen, il cui capo di stato maggiore e "cervello guida" era Hans von Seeckt, l'uomo che dopo la guerra avrebbe ricostruito l'esercito tedesco73. Al comando dell'11ª armata tedesca e alla 4ª armata austro-ungarica, il duo Mackensen-Seeckt preparò il piano di sfondamento contro i russi a Gorlice, in Galizia, che si risolse nella più grande vittoria tedesca della guerra74.  
Lungo un fronte di 40 chilometri presidiato da sei divisioni russe, i tedeschi concentrarono in gran segreto quattordici divisioni e 1.500 pezzi d'artiglieria; dopo un breve ma intenso cannoneggiamento, il 2 maggio 1915 l'11ª armata aprì una breccia nella linea russa. Anziché piegare di lato e avvolgere sui fianchi i russi, l'armata continuò ad avanzare in profondità nelle retrovie nemiche. In dodici giorni le truppe attaccanti si spinsero avanti di quasi 130 chilometri, sfondando la nuova linea difensiva sul fiume San. Non più tardi del 22 giugno la Russia aveva perduto l'intera Galizia e 400.000 uomini finiti in gran parte prigionieri75, mentre i tedeschi avanzarono fino a Przemysl e Lemberg riuscendo a spezzare il fronte russo in due tronconi76. Ma le enormi risorse umane disponibili in Russia permisero in breve tempo di rimpiazzare le 400.000 perdite, per cui Falkenhayn cedette alle richieste di von Seeckt di continuare l'offensiva, seppur con obiettivi limitati, ma impose un cambiamento di rotta.  
Invece di continuare verso est, von Mackensen dovette dirigere le sue truppe verso nord risalendo l'ampio territorio tra il Bug e la Vistola ove era schierato il grosso delle truppe russe. Congiuntamente a questa manovra, Hindenburg ricevette l'ordine di attaccare dalla Prussia orientale verso sud-est, oltre il Narew, in direzione del Bug circondando Varsavia77. Ludendorff respinse il piano perché temeva che la manovra avrebbe sì schiacciato le ali dell'esercito russo, ma non avrebbe chiuso la direttrice di ritirata delle forze russe; propose quindi una manovra a tenaglia di più larghe vedute, in direzione Vilna e Minsk per intrappolare, aggirando, l'esercito russo. Falkenhayn la respinse temendo che richiedesse una maggior quantità di truppe e un maggior impegno. I risultati dettero ragione a Ludendorff; il granduca riuscì a districare le sue truppe dal saliente di Varsavia prima che la tenaglia tedesca potesse chiudersi78.

La Bulgaria in guerra

 Il 5 agosto i germanici erano entrati a Varsavia, sottratta alla Russia per la prima volta dal 1815. Fu un grande successo per gli Imperi centrali che ora puntavano alla Finlandia. Cominciò quindi, in modo clandestino, il reclutamento di circa 2000 finnici da schierare contro le truppe russe, e nonostante il pressante controllo delle forze di polizia russe, nove mesi dopo i finlandesi entrarono in azione sul fronte orientale.79. Il 17 agosto cadde Kovno; in quel momento i prigionieri di guerra russi nei campi tedeschi erano 726.694: altri 699.254 erano in mano austriaca, per un totale di 1 milione, 425 mila e 848 prigionieri.
Le condizioni all'interno dei campi erano spesso estremamente penose, nella primavera e nell'estate 1915 il tifo flagellava i campi di Gardelegen e di Wittenberg. Ma i disagi si moltiplicavano anche nella popolazione che iniziò un lento esodo che mise in difficoltà ai mezzi diretti al fronte, costretti a fermarsi e compiere azioni di retroguardia solo per frapporre un pò di spazio tra loro e quella massa di uomini80. A metà agosto i tedeschi avevano fatto 750.000 prigionieri e occupato l'intera Polonia, così Falkenhayn decise di sospendere le operazioni su vasta scala sul fronte orientale.  
Concordata l'entrata in guerra della Bulgaria, il comandante supremo dell'esercito tedesco decise che era ora di appoggiare l'attacco congiunto austro-bulgaro contro la Serbia e allo stesso tempo trasferire nuove truppe ad occidente per contenere la prevista offensiva francese di settembre nello Champagne, giustificata anche dalle continue disfatte dei russi, cui si aggiunse il 20 agosto la resa di 90.000 uomini della fortezza di Novogeorgievsk81. Mackensen fu inviato in Serbia e Ludendorff ebbe il consenso ad attuare l'operazione verso Vilna, ma senza ulteriori appoggi che non siano state le truppe già a sua disposizione82.

La grande ritirata dell'esercito russo

 Ludendorff iniziò la sua offensiva il 9 settembre, quando i due grandi cunei formati dall'armata dall'8ª armata di Otto von Below (subentrato a François) e della 10ª armata di Hermann von Eichhorn, si aprirono un varco nelle linee russe, l'una a est verso Dvinsk e l'altra a sud-est verso Vilna. I russi furono ricacciati indietro fino ai pressi di Minsk, ma l'esiguità delle forze tedesche contrapposta al sempre maggiore concentramento russo, imposero a Ludendorff di sospendere l'offensiva. Il successo dell'operazione dimostrò la grossa possibilità di vittoria di un attacco sferrato in forze alla Russia, annientandone la potenza militare con un minore impiego di truppe. Ma la cauta strategia di Falkenhayn si sarebbe dimostrata azzardata, ritardando di due anni l'uscita di scena della Russia, che al contrario si sarebbe potuta liquidare con un maggior impegno consentendo quindi di concentrare le truppe ad occidente ben prima di quando effettivamente avvenne83.
Alla fine di settembre, dopo una lunga serie di attacchi tedeschi atti ad accerchiare ed isolare i russi in ritirata, questa ritirata di arrestò definitivamente lungo una linea dritta che correva da Riga sul Baltico, a Czernowitz sulla frontiera con la Romania. Le forze russe aveva pagato un prezzo rovinoso, mentre gli Alleati fecero ben poco per ripagare il sacrificio che la Russia fece nel 1914 durante le prime fasi della guerra84. Parallelamente alla ritirata dei soldati, anche la popolazione civile scappava dalle zone di guerra il che moltiplicava il caos e le difficoltà nelle retrovie. Migliaia e migliaia di rifugiati si dirigevano ad est per necessità e paura visto che la tattica della terra bruciata messa in atto dalle truppe russe in ritirata, oltre che danneggiare i tedeschi, colpiva anche la popolazione russa e polacca85.

La situazione interna alla Russia

 A seguito della lunga ritirata, in Russia lo scontento dell'esercito assumeva le forme più svariate. Il 24 settembre 500 riservisti attaccarono la polizia alla stazione ferroviaria di Pietrogrado per protesta contro la sospensione dell'attività della Duma. Altre manifestazioni avvennero in luoghi molto distanti dal fronte; a Rostov sul Don, e ad Astraham si furono le prime manifestazioni contro la guerra. Cinque giorni dopo a Orša ci fu una sollevazione di 2500 soldati convalescenti, persino i feriti si levavano contro la guerra, alla quale, una volta guariti sarebbero stati spediti86. A Helsinki marinai russi della corazzata Gangut e dell'incrociatore Rurik protestarono contro la pessima qualità del cibo e la severità degli ufficiali; ne vennero arrestati 50.
Il ministro delle finanze russo Petr Bark si precipitò in Francia alla ricerca di crediti per sostenere il conflitto e per paura di un'uscita russa dal conflitto a causa dei problemi economici, Raymond Poincaré accettò cospicui prestiti. La Russia continuò così a combattere e i suoi debiti ad aumentare87. Ma la Russia necessitava anche di materie prime e prodotti finiti, così fece richieste a Giappone, Gran Bretagna e Stati Uniti. Molti dei materiali in arrivo per la Russia sbarcavano ad Arcangelo nel Mar Bianco e le difficoltà in questo caso consistevano nel far arrivare i rifornimenti da quella remota località, fino a Pietrogrado. Altro porto in cui affluivano i rifornimenti Alleati era Murmansk, anche in questo caso le difficoltà di collegare il porto a Pietrogrado furono moltissime, e gli operai impegnati ad ampliare i collegamenti ferroviari disertavano sempre più spesso. Si decise quindi di impiegare i prigionieri di guerra tedeschi e austriaci; 15.000 furono inviati ai lavori nella ferrovia, ma ci volle oltre un anno per completare la linea, che alla fine dei conti migliorò di poco i collegamenti88.
Il 18 settembre in tedeschi entrarono a Vilnius nella Lituania russa, facendo 22.000 prigionieri, due settimane dopo il quartier generale tedesco si spostò a Kovno da dove nel 1812 Napoleone osservò le proprie truppe attraversare il Niemen dirette verso Mosca. Il trasferimento di Ludendorff a Kovno fu dettato anche dal rancore contro la Russia, la quale aveva escluso la Germania dai paesi baltici. Il suo progetto prevedeva che alla fine del conflitto la Lituania e la Curlandia fossero governate da un principato tedesco e vi insediassero coloni tedeschi. La germanizzazione dei territori conquistati venne avviata subito; polacchi, lettoni e lituani furono sottoposti alla legge marziale mentre i cittadini di oregine tedesca furono nettamente favoriti. Fu vietata l'attività politica e i comizi, i giornali furono censurati, i tribunali presieduti da giudici tedeschi e gli organi amministrativi furono messi sotto controllo dell'esercito89.

Il terzo anno di guerra

«La distruzione della macchina bellica russa è fuori questione»
(Conrad von Hötzendorf90)

Come nell'anno precedente l'inverno bloccò le operazione nel fronte orientale, limitate a piccole azioni di pattugliamento e scontri occasionali. Gli Imperi centrali controllavano il territorio conquistavano ma i problemi nacquero, più che al fronte, all'interno degli stessi paesi occupanti. L'Austria-Ungheria assunse nei confronti delle minoranze al suo interno un atteggiamento autoritario; a gennaio il tedesco fu proclamata lingua ufficiale della Boemia. Nelle strade di Praga la polizia metteva mano al manganello ogni qual volta sentiva parlare ceco. Ma a Vienna i militari erano ben consapevoli dei grossi problemi che la guerra creava, soprattutto perché l'esercito russo nonostante i rovesci subiti, continuava a battersi con tenacia nei Carpazi91.
Sollevati dalla conclusione delle operazioni degli Alleati a Gallipoli, i turchi trasferirono contro i britannici in Mesopotamia 36.000 soldati. Ma sul fronte del Caucaso il comandante russo Nikolaj Nikolaevič Judenič, nonostante il freddo intenso che provocò sintomi di assideramento a circa 2000 uomini, costrinse i turchi ad arretrare fino a Erzurum. Le truppe zariste fecero 5000 prigionieri, continuando ad incalzare i turchi verso ovest. Erano vittorie in terre remote, ma servirono ai russi a risollevare il morale92. Alla fine di febbraio del 1916, ad occidente, Falkenhayn iniziò la sua offensiva a Verdun con l'intenzione di dissanguare l'esercito francese, egli intendeva usare l'artiglieria per uccidere quanti più soldati francesi possibile, spingendo così la Francia a rinunciare all'alleanza con la Gran Bretagna e a cercare una pace separata93.
Subito i comandi francesi fecero pressioni alla Russia di sferrare un attacco di alleggerimento per dirottare forze tedesche a est.  I russi quindi attaccarono presso il lago Naroch ma dovettero ritirarsi perdendo all'incirca 12.000 uomini congelati. Il 14 aprile terminò la battaglia e il generale Brusilov presentò il piano di una grande offensiva da sferrare in maggio: cominciò a studiare i dettagli mentre i britannici si preparavano per la campagna di luglio sulla Somme94. Se le truppe fossero davvero in grado di lanciare una nuova grande offensiva è una questione ancora aperta; il 10 aprile, giorno della Pasqua ortodossa, sul fronte austriaco si erano verificati episodi di tregua spontanea e in quel giorno di solenni celebrazioni i soldati di quattro reggimenti russi avevano attraversato le linee austriache per fraternizzare con il nemico. Gli austriaci ne fecero prigionieri oltre un centinaio, e il 18 aprile Brusilov si vide costretto a emettere ordini durissimi contro le fraternizzazioni95.

L'offensiva di Brusilov

 A maggio gli austriaci sferrarono una massiccia offensiva contro le posizioni italiane in Trentino, e anche l'Italia si appellò allo zar per diminuire la pressione sul proprio settore. I comandi russi sapevano che non era possibile sferrare nuovi attacchi per assistere gli italiani, data la situazione di truppe e materiali, che andavano radunati e preparati per una prossima decisiva offensiva da compiersi durante la stagione estiva96. Solamente il generale Brusilov reagì positivamente alla richiesta, Brusilov stava organizzando di attaccare in luglio, ma poiché sul fronte italiano si combatteva aspramente, anticipò l'azione a giugno per cercare di allentare la pressione sull'Italia, costringendo agli austriaci di trasferire truppe da ovest ad est. Il generale Aleksej Evert, comandante del gruppo d'armate ovest, era invece favorevole ad una strategia difensiva, in opposizione alla strategia di Brusilov, ma lo zar appoggiò i piani del nuovo arrivato, e vennero delineati gli obbiettivi dell'offensiva, le città di Leopoli e Kovel' perse l'anno precedente97.
L'offensiva iniziò con un potente tiro d'artiglieria, condotto da 1938 pezzi su un fronte di circa 350 km, dalle paludi di Pripjat' fino alla Bucovina; poche ore di bombardamento bastarono per mandare in nel caos le difese austriache98. Il 12 giugno Brusilov annuciò che in otto giorni aveva catturato 2992 ufficiali austriaci e 190.000 soldati, 216 cannoni pesanti, 645 mitragliatrici e 196 obici. Un terzo delle truppe austriache che avevano contrastato l'avanzata erano state fatte prigioniere. Cinque giorni dopo i russi erano a Czernowitz, la città più orientale dell'Austria-Ungheria99. La veloce avanzata russa però allungò le linee di rifornimento, costringendo il rallentamento delle truppe in avanzata, e solo l'intervento dello zar costrinse gli altri generali ad inviare rinforzi a Brusilov. Ma il sistema ferroviario russo, in pessime condizioni, rallentò i rinforzi e la possibilità di impiegare notevoli forze d'artiglieria e nuove truppe. Alla fine di luglio la città di Brody, alla frontiera della Galizia, cadde in mano dei russi, che nelle due settimane precedenti avevano catturato altri 40.000 austriaci. Ma anche le perdite russe non erano lievi, e nell'ultima settimana di luglio Hindenburg e Ludendorff assunsero la difesa dell'ampio settore austriaco.
Vennero formati battaglioni misti austro-tedeschi e vennero richiesti rinforzi perfino ai turchi100. Ai primi di settembre Brusilov raggiunse le pendici dei Carpazi, ma lì si arrestò per le evidenti difficoltà geografiche, e soprattutto l'arrivo di nuove truppe tedesche da Verdun arrestò la ritirata austriaca e inflisse gravi perdite ai russi. L'offensiva volgeva al termine, questa raggiuse l'obiettivo principale di distogliere importanti forze tedesche dal settore di Verdun e soprattutto di costringere gli austro-ungarici a levare truppe dal settore italiano, ma il potenziale russo calò vistosamente. Problemi interni e carenze di materiali stavano falcidiando le forze russe che dalla fine dell'offensiva di Brusilov, non furono più capaci di sferrare offensive contro gli Imperi centrali101.

La Romania entra in guerra

 La Romania entrò in guerra il 27 agosto 1916, e la caduta di Bucarest il 6 dicembre dello stesso anno segnò virtualmente la fine del suo sforzo bellico e dell'ingiustificato ottimismo che aveva salutato la sua entrata in guerra a fianco delle forze Alleate102. L'opportunità di scendere in campo con gli Alleati, l'amicizia che Nicolae Filipescu e Take Ionescu alle potenze occidentali e il desiderio di liberare i fratelli della Transilvania oppressi dalla dominazione austro-ungarica, ben più dura di quella che dovettero subire i francesi in Alsazia e Lorena, convinsero l'opinione pubblica romena che l'entrata in guerra avrebbe portato notevoli vantaggi.
Tutto ciò unito ai successi dell'avanzata di Brusilov incoraggiarono la Romania a compiere il passo decisivo, che l'avrebbe portata nell'abisso. Qualche possibilità in più la Romania l'avrebbe avuto se fosse scesa in campo prima, quando la Serbia era ancora una forza attiva e la Russia una potenza degna di questo nome. I due anni in più di preparazione avevano raddoppiato il numero di soldati, ma in realtà ne diminuirono l'efficienza; mentre i suoi avversari avevano sviluppato potenza di fuoco ed equipaggiamento, l'isolamento della Romania e l'incapacità dei suoi vertici militari avevano impedito la trasformazione di un esercito composto da uomini armati di baionetta in una forza moderna103. Le forze romene allo scoppio delle ostilità avanzarono ad ovest, che in teoria, avrebbe consentito una stretta collaborazione con le forze russe avanzate in Bucovina.
La lentezza delle operazioni però precluse ogni possibilità di vittoria o quanto meno di disfatta; l'avanzata romena ebbe inizio nella notte tra il 27 e il 28 agosto, quando dodici divisioni si misero in marcia verso i passi dei Carpazi, con l'intenzione di fare perno sulla sinistra e poi, conquistata la pianura ungherese, far convergere l'ala destra dello schieramento ad ovest104. Ma l'avanzata romena si risolse con una enorme sconfitta; le lente divisioni che attraversarono i Carpazi, consentirono a Falkenhayn (da poco sostituito al comando supremo da Hindenburg e Ludendorff) di ingrossare le file austro-ungariche con l'invio di divisioni tedesche e bulgare. Questo permise a Ludendorff di arginare i romeni sui Carpazi mentre Mackensen li attaccava da sud-ovest, e il 23 novembre li aggirava superando il Danubio. Nonostante la reazione romena, la forza congiunta di Falkenhayn e Mackensen si dimostrò insostenibile per un esercito obsoleto e mal guidato. Il 6 dicembre gli austro-tedeschi entrarono a Bucarest continuando l'inseguimento di un esercito ormai in rotta105. La maggior parte della Romania, con i suoi sterminati campi di grano e i giacimenti petroliferi, era ormai in mano nemica, l'esercito romeno ridotto all'impotenza e gli alleati occidentali subirono un rovescio ben più grande di tutti i vantaggi che avevano sperato di acquisire con l'entrata in guerra della Romania106.

Il ruolo della marina
 
La piccola marina militare rumena era organizzata su una flottiglia navale ed una fluviale: la prima allineava il piccolo incrociatore protetto Elisabeta, quattro vecchie cannoniere, tre torpediniere ed un pugno di mercantili armati, ma svolse prevalentemente compiti di difesa costiera senza essere coinvolta in scontri particolari107. Molto più attiva fu la seconda, potendo schierare sul corso del Danubio quattro moderni monitori fluviali ed otto torpediniere: le navi rumene furono attive nel supportare le unità terrestri nei loro scontri contro le forze degli Imperi Centrali, distinguendosi nella difesa di Tutrakan e mettendo in sicurezza il fianco delle truppe russo-rumene schierate in Dobrugia. In ogni caso il supporto navale ebbe un'influenza minima sull'andamento delle operazioni belliche108.

Stravolgimenti a oriente
 
A partire dal 1º febbraio 1917, il kaiser Guglielmo II ordinò la guerra sottomarina indiscriminata per convincere la Gran Bretagna a sedersi nel tavolo delle trattative e cercare una pace. Intanto i rapporti diplomatici tra Germania e Stati Uniti d'America andavano deteriorandosi velocemente a causa del naviglio statunitense e di Paesi neutrali affondato dagli U-Boot, e il 6 aprile il presidente Woodrow Wilson dichiarò guerra alla Germania109.
L'esercito francese era in subbuglio, diserzioni di massa, ammutinamenti e frequenti proteste contro i comandi, rei di una strategia che non teneva conto delle enormi perdite, fecero vacillare l'assetto dell'esercito al fronte. Joseph Joffre, tuttavia, dichiarò che l'esercito francese era ancora in grado di sopportare ancora una grande battaglia, ma che in seguito il suo sforzo sarebbe diminuito progressivamente a causa della mancanza di uomini110. Il peso della guerra cadde quindi sulle spalle dei britannici, i quali avrebbero dovuto aspettare almeno un anno per usufruire concretamente dell'appoggio statunitense. Ma i problemi per l'Intesa non finirono qui; la temporanea panne della macchina bellica francese fu accompagnato anche dal crollo prima parziale e poi totale della Russia, che neppure l'entrata in guerra degli Stati Uniti poté compensare per molti mesi, e dallo sfondamento austro-tedesco in Italia, che quasi fece uscire di scena l'esercito di Luigi Cadorna111.

Rivoluzione in Russia

 Le enormi perdite della Russia, dovute ai difetti del suo apparato bellico ma che comunque avevano evitato molti sacrifici agli Alleati, aveva minato alle fondamenta la resistenza morale e fisica del suo esercito112. Al fronte molti ufficiali russi non riuscivano più a mantenere la disciplina. Il 17 febbraio diversi squadroni di cavalleria di prima linea ricevettero munizioni e l'ordine di portarsi nelle retrovie senza ricevere ragguagli sull'obiettivo. Uno dei cavalleggeri, Georgij Žukov ricordò:
«Ben presto tutto fu chiaro. Da dietro l'angolo di una via sbucarono i manifestanti con le bandiere rosse. [...] Un "cavalleggero alto" tenne un discorso agli uomini in cui affermò che il popolo russo vuole farla finita con la carneficina di questa guerra imperialista; vuole la pace, la terra e la libertà. [...] Non ci fu bisogno di ordini, i soldati gridarono e applaudirono mischiandosi ai dimostranti»
(Georgij Žukov113)
Su tutto il fronte i bolscevichi incitavano gli uomini a rifiutarsi di combattere e a partecipare ai comitati dei soldati per sostenere e diffondere le idee rivoluzionarie. Dal fronte le agitazioni si trasmisero alle città e alla capitale. A Pietrogrado il 3 marzo scoppiò un violento sciopero negli stabilimenti Putilov, la principale fabbrica di armamenti e munizioni per l'esercito. L'8 marzo gli operai in sciopero erano circa 90.000, il 10 marzo a Pietrogrado fu proclamata la legge marziale, e lo stesso giorno il potere della Duma fu messo in discussione dal Soviet cittadino del principe menscevico Cereteli. Il 12, a Pietrogrado 17.000 soldati si unirono alla folla che protestava contro lo zar, alle 11 del mattino fu dato alle fiamme il tribunale sulla prospettiva Litejnyj e le stazioni di polizia, era cominciata la prima rivoluzione russa114.
Lo zar fu costretto ad abdicare il 15 marzo 1917 e il governo provvisorio di tendenze moderate si mise alla guida del paese, ma senza successo. A maggio gli succedette un altro governo di tendenze più socialiste capeggiato da Kerensky che nonostante le sempre maggiori richieste di pace non ritirò le truppe dal fronte, anzi, con Brusilov succeduto a Alexeiev quale comandante supremo, le forze russe conseguirono successi iniziali contro gli austriaci a Stanislau ma dovettero arrestarsi non appena la resistenza nemica si irrigidì e crollarono subito sotto i contrattacchi nemici115.
All'inizio di agosto i russi furono cacciati dalla Galizia e dalla Bucovina, e soltanto considerazioni politiche impedirono agli austro-tedeschi di penetrare in Russia. Dopo la partenza di Hindenburg e Ludendorff, il comando del fronte orientale passò a Hoffmann, che, contemperando strategia militare e politica, paralizzò le forze russe rendendo disponibili truppe tedesche sul fronte occidentale e in minima parte sul fronte italiano. In settembre i tedeschi colsero un'occasione propizia per sperimentare nuovi metodi di bombardamento d'artiglieria; con un attacco a sorpresa guidato da Oskar von Hutier, i tedeschi conquistarono Riga senza quasi incontrare resistenza116.  
Il 3 novembre arrivò a Pietrogrado la notizia che le truppe russe sul Baltico avevano gettato le armi e fraternizzato con i tedeschi; i soldati non obbedivano più al governo di Kerensky. La scintilla scoppiò il 7 novembre quando poco dopo le 22 l'incrociatore Aurora, alla fonda nella Neva annunciò che avrebbe fatto fuoco sul palazzo d'Inverno, e sparò alcuni colpi a salve per dimostrare che non scherzava. All'una di notte il palazzo era occupato dai bolscevichi, Lenin fu eletto presidente del consiglio dei commissari del popolo e governava la capitale russa117. Il loquace governo di Kerensky fu spazzato via, i bolscevichi imposero al popolo russo un regime comunista e in dicembre conclusero un armistizio con la Germania118.

La pace di Brest-Litovsk

 Gli Imperi centrali erano euforici. In Italia gli austriaci si trovavano nelle vicinanze di Venezia e i tedeschi si apprestavano a trasferire 42 divisioni, più di mezzo milione di uomini, dal fronte orientale a quello occidentale. I russi avevano deposto le armi e il 1º dicembre una commissione bolscevica lasciò Pietrogrado per attraversare le linee tedesche a Dvinsk diretta verso la fortezza di Brest-Litovsk dove una delegazione di tedeschi, austriaci, bulgari e turchi li attendeva per intavolare le trattative di pace119.
Il 15 dicembre i negoziatori di Brest-Litovsk annunciarono la fine dei combattimenti su tutto il fronte orientale, la Russia non era più una potenza belligerante. Il 22 iniziarono quindi i negoziati per un trattato di pace, ma le truppe russe non avevano finito di combattere, ora si dovevano scontrare con le forze indipendentiste dei vari paesi sotto il dominio russo e contro le forze lealiste, i cosiddetti "Bianchi", era iniziata la guerra civile120. Le trattative di pace furono complicate, a Lenin serviva tranquillità lungo il fronte per fronteggiare le minacce interne, e allo stesso tempo gli Imperi centrali reclamavano condizioni di resa durissime. I tedeschi si rendevano conto che l'integrità territoriale della Russia si stava velocemente disgregando, così si permisero di richiedere condizioni ancor più dure dopo che il 21 febbraio i bolscevichi accettarono le prime richieste. Il 24 febbraio dopo una tempestosa discussione il comitato centrale accettò senza condizioni le richieste dei tedeschi121.

La Russia esce dal conflitto
 
Nel frattempo che il trattato si delineava, le truppe tedesche iniziarono ad avanzare ad est occupando Borisov, Dorpat e Narva sul Baltico, il 2 marzo l'esercito tedesco entrò a Kiev, mentre più a nord parevano decisi ad entrare a Pietrogrado. In due settimane, senza quasi incontrare resistenza, i tedeschi catturarono 63.000 soldati russi, 2600 pezzi d'artiglieria e 5000 mitragliatrici, armi molto utili per la campagna ad occidente122. Il trattato di pace venne firmato alle 17 del 3 marzo, i russi rinunciarono a tutte le pretese sulle provincie baltiche, sulla Polonia, la Russia Bianca, la Finlandia, la Bessarabia, l'Ucraina e il Caucaso. Persero così un terzo della popolazione dell'anteguerra, un terzo delle terre arabili e nove decimi delle miniere di carbone. Inoltre cedettero tutte le basi del Baltico eccetto Kronštadt, le navi da guerra del Mar Nero di stanza a Odessa e a Nikolajev dovevano essere disarmate, e 630.000 prigionieri austriaci furono liberati123.
La guerra ad oriente era finita, la Russia non era più in guerra; il conflitto su due fronti, fin dal 1914 incubo per la Germania e l'Austria-Ungheria, non esisteva più. La Germania trasferì così tutto il potenziale a occidente, compreso tutto l'armamentario conquistato durante l'avanzata in Russia precedente la firma del trattato, avanzata con lo scopo di mettere pressione al governo bolscevico e indurlo a firmare. Il 21 marzo Ludendorff sferrò una grande offensiva ad occidente che, in caso di successo, avrebbe consentito alla Germania di vincere la guerra124. Ludendorff sferrò una serie di tre offensive per cercare di spezzare la resistenza Alleata. L'ultima offensiva tedesca scattò il 14 luglio, ma ad inizio agosto lo slancio tedesco su tutto il fronte cessò, mentre quasi un milione di soldati statunitensi erano giunti in Francia a dar manforte agli Alleati. Le truppe tedesche erano ad un soffio dalla vittoria, ma esauste e dissanguate dalle enormi perdite smisero di avanzare, anzi, cominciarono lentamente a indietreggiare, in una lenta ritirata che terminò solo l'11 novembre 1918125

Conseguenze

 A oriente gli Imperi centrali raccoglievano i frutti delle loro vittorie. Il 7 maggio i romeni firmarono il trattato di Bucarest che assicurava alla Germania il controllo militare della foce del Danubio e dava alla Bulgaria i territori costieri che gli furono tolti nella guerra balcanica del 1913. Cinque giorni dopo Guglielmo II e Carlo I si accordarono per lo sfruttamento economico dei territori dell'attuale Ucraina; la Germania ora controllava due delle regioni più ricche della Russia prebellica, l'Ucraina e gli stati baltici, aveva aiutato i finlandesi a cacciare i bolscevichi e costituì il proprio protettorato nella neonata Repubblica georgiana indipendente126. La Russia, devastata e sconvolta dalla guerra e dalla rivoluzione, si stava nuovamente trasformando in un campo di battaglia.
La Germania si ergeva quale bastione per il contenimento delle forze bolsceviche in Europa, mentre nei porti di Vladivostok, Murmansk, Pečenga e Arcangelo gli Alleati iniziarono a sbarcare truppe per proteggere i depositi di materiale bellico inviato all'esercito russo, per paura cadessero in mano ai bolscevichi, e nello stesso tempo addestrare, armare e appoggiare le forze controrivoluzionarie127. Nel maggio 1918 i tedeschi occuparono Tbilisi, il 29 giugno la legione ceca arruolata nelle file degli Alleati128 occupò il porto russo di Vladivostok, rovesciando il locale governo bolscevico, che divenne protettorato Alleato. Anche i giapponesi diedero manforte agli Alleati inviando 12.000 uomini a Vladivostok. Se la Germania dominava la parte occidentale della Russia ora gli Alleati si stavano facendo largo a est della Russia e in Siberia129. I cechi dilagarono, il 25 luglio superarono il Volga ed entrarono a Ekaterinburg, dove il 16 luglio fu giustiziata la famiglia reale russa. Il 5 agosto 6500 francesi sbarcarono a Vladivostok mentre i cechi conquistarono Kazan' e i tedeschi erano ormai i padroni delle coste russe sul Mar Nero e sul mar Caspio, in mezzo i bolscevichi a combattere per conservare il loro potere. In quel mese le lotte per il potere raggiunsero l'apice, a Mosca, Lenin fu ferito e alcuni suoi collaboratori uccisi da alcuni socialisti che intendevano riprendere la guerra contro la Germania130.
Il 16 agosto anche gli statunitensi sbarcarono a Vladivostok, mentre i britannici sbarcarono a Baku, in Persia, in un aperto atto di sfida ai tedeschi e ai bolscevichi del Caucaso. Se volevano riavere Baku, i bolscevichi dovevano inviare in Germania un terzo di tutta la produzione petrolifera, in cambio la Germania avrebbe impedito un attacco da parte della Finlandia. Ad inizio settembre fu siglato l'accordo e il 22 agosto fu firmato un supplemento alla pace di Brest-Litovsk in cui la Germania si impegnava a combattere gli Alleati in Russia settentrionale in cambio del controllo di tutto il naviglio della Marina rossa e le infrastrutture portuali del Mar Nero131. A settembre però ci fu una svolta: a occidente i tedeschi non erano più in grado di reggere l'urto degli Alleati, ora spalleggiati fortemente dalle truppe statunitensi; gli austro-ungarici, fallita l'ultima offensiva in Italia, iniziarono i primi contatti per una pace separata mentre la Bulgaria stava ora cedendo nei Balcani e il 30 settembre fu il primo degli Imperi centrali a cedere definitivamente132.
Tra settembre e ottobre anche i tedeschi iniziarono a cedere inesorabilmente ad occidente e nel fronte interno. Il 2 ottobre ci fu la prima rivoluzione in Germania, il 7 la Polonia si proclamò indipendente così come il 14 ottobre fece la Cecoslovacchia; l'Impero asburgico si stava disgregando, e il 28 ottobre chiese un armistizio agli Alleati. Intanto il 29 settembre la Bulgaria usciva dal conflitto firmando l'armistizio di Salonicco, il 30 ottobre l'Impero ottomano firmò l'armistizio di Mudros con gli Alleati e il 3 novembre l'Austria-Ungheria firmò l'armistizio di Villa Giusti con l'Italia: ormai i nemici dell'ex Impero russo erano tutte fuori combattimento e il neonato governo di Lenin iniziò una lenta riconquista dei territori persi durante la guerra133. Intanto l'intervento multinazionale contro la Russia bolscevica continuava; vennero forniti uomini, munizioni, fucili, ma una delle ultime decisioni della conferenza di Pace di Parigi fu quella di non continuare la campagna in Russia, così il 18 novembre 1919 le ultime unità statunitensi lasciarono Vladivostok134.

Bibliografia
    •    Luigi Albertini, Le origini della guerra del 1914 (3 volumi - vol. I: "Le relazioni europee dal Congresso di Berlino all'attentato di Sarajevo", vol. II: "La crisi del luglio 1914. Dall'attentato di Sarajevo alla mobilitazione generale dell'Austria-Ungheria.", vol. III: "L'epilogo della crisi del luglio 1914. Le dichiarazioni di guerra e di neutralità."), Milano, Fratelli Bocca, 1942-1943. (ISBN non esistente)
    •    James Corum, Le origini del Blitzkrieg, Hans von Seeckt e la riforma militare tedesca 1919-1933, Gorizia, Libreria editrice goriziana, 2004. ISBN 88-86928-62-9
    •    Bruce I. Gundmundsson, Sturmtruppen - origini e tattiche, 2005, Gorizia, Libreria Editrice Goriziana [1989]. ISBN 88-86928-90-4
    •    Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, 2009, Milano, Mondandori [1994]. ISBN 978-88-04-48470-7
    •    Arthur J. May, La monarchia asburgica 1867-1914, 1991, Bologna, il Mulino [1961]. ISBN 88-15-03313-0
    •    Benigno Roberto Mauriello, La Marina russa durante la Grande Guerra, Genova, Italian University Press, 2009. ISBN 978-88-8258-103-9
    •    Basil H. Liddell Hart, La prima guerra mondiale, 2006, Milano, BUR [1968]. ISBN 88-17-12550-4


Campagna di Serbia

La Campagna di Serbia fu l'insieme di operazioni austro-tedesche, iniziate a fine luglio 1914 quando l'Austria-Ungheria invase la nazione balcanica nei primi giorni della prima guerra mondiale. la campagna durò fino alla fine del 1915, quando gli alleati, accorsero in aiuto dell'alleato serbo affrontando il nemico su un fronte che andava dal Danubio fino al sud della Macedonia, e risaliva verso nord, coinvolgendo le forze di quasi tutte le nazioni partecipanti alla guerra.
 L'esercito serbo durante questa campagna perse la maggior parte dei suoi effettivi, come pure forti, furono le perdite tra la popolazione civile, che ammontarono a circa 1.100.000 perdite sia tra le file dell'esercito che tra la popolazione.
Questa cifra rappresentava oltre il 27% della popolazione complessiva, secondo il governo jugoslavo in una indagine del 1924, la Serbia perse 265.164 soldati, ossia il 25%, di tutti gli uomini mobilitati, a confronto della Francia che seppur con ben altre cifre, perse il 16,8%, oppure della Germania che perse il 15,4% degli uomini mobilitati. Al termine i resti dell'esercito serbo fu sgomberato da navi dell'Intesa attraverso i porti del Montenegro prima a Corfù e da qui in Libia.

Battaglie principali
    •    Battaglia di Kolubara,
    •    Battaglia della Cer,
    •    Battaglia del Kosovo (1915)


Teatro del Medio Oriente della prima guerra mondiale



Data
2 novembre 1914 – 29 ottobre 1918
Luogo
Territori ottomani nel Caucaso ed in Medio Oriente, l'Anatolia, la Persia ed i territori russi nel Caucaso

Il teatro di guerra del Medio Oriente durante la prima guerra mondiale (2 novembre 1914 - 29 ottobre 1918) rappresenta l'insieme delle campagne militari combattute dall'Impero Ottomano alleato alle Potenze Centrali contro l'Impero Russo e l'Impero Britannico. Accanto a queste tre potenze principali ebbero un ruolo importante in questo teatro gli irregolari arabi che parteciparono alla Rivolta Araba e le truppe volontarie armene, che inizialmente diedero vita alla Resistenza armena contro gli ottomani e poi divennero le forze armate della nuova Repubblica Democratica di Armenia. In questo teatro di guerra, il più esteso geograficamente fra tutti i teatri della prima guerra mondiale, vengono distinte cinque campagne militari principali:
    •    Campagna del Sinai e della Palestina
    •    Campagna della Mesopotamia
    •    Campagna del Caucaso
    •    Campagna di Persia
    •    Campagna dei Dardanelli

Sono state combattute altre tre campagne considerate minori:
    •    Campagna della Rivolta araba
    •    Campagna del Nord Africa
    •    Campagna di Yemen e del Sud Arabia

Fanno parte di questo teatro di operazioni anche la Campagna di Arabia e la Campagna di Aden. Caratteristica ricorrente nelle varie campagne della regione del Medio Oriente fu la asimmetria fra le diverse forze in conflitto. Non esiste una data unica che indica la fine delle operazioni nel teatro: fra russi ed ottomani la guerra terminò con l'Armistizio di Erzincan (5 dicembre 1917) a cui fece seguito il Trattato di Brest-Litovsk (3 marzo 1918); la Conferenza di pace di Trebisonda (14 marzo - 5 aprile 1918) ed il Trattato di Batumi (4 giugno 1918) conclusero il conflitto fra ottomani ed armeni; mentre la fine della guerra con gli Alleati Occidentali fu l'Armistizio di Mudros (30 ottobre 1918), a cui fece seguito il Trattato di Sèvres (10 agosto 1920).
Obiettivi

Impero ottomano

 L'Impero Ottomano si unì alle Potenze Centrali nell'ottobre - novembre 1914 dopo la firma del trattato segreto con la Germania1 firmato il 2 agosto 1914, trattato che metteva in pericolo i territori del Caucaso russo e le comunicazioni attraverso il canale di Suez fra la Gran Bretagna, i domini imperiali in India e gli altri territori nel lontano oriente dell'Impero Britannico. Sul fronte del Caucaso il principale obiettivo dell'Impero Ottomano era la riconquista dei territori dell'Anatolia Orientale persi durante la guerra russo-turca del 1877-78, pertanto obiettivi militari immediati erano Artvin, Ardahan, la città fortificata di Kars ed il porto di Batumi in GeorgiaWikipedia:Uso delle fonti
Un significativo successo delle operazioni militari degli ottomani nella regione del Caucaso avrebbe obbligato i russi a difendere questo "fronte secondario" con unità militari già dispiegate sul fronte europeo2, pertanto una efficace campagna turca sul Caucaso era vista con gran favore dai consiglieri miliari tedeschi. Altro fattore economico-strategico di grande importanza, soprattutto per i tedeschi, era la possibilità di avere libero accesso alle enormi risorse di idrocarburi nell'area del mar Caspio3. I tedeschi avevano costituito allo scoppio della guerra la Nachrichtenstelle für den Orient, un ufficio di intelligence per l'oriente che aveva come compito lo spionaggio e missioni di sabotaggio in Persia ed Afghanistan, allo scopo di indebolire l'intesa fra russi e britannici del 1907, un obiettivo che interessava anche
l'Impero Ottomano.
Il ministro della guerra ottomano Enver Pascià prevedeva che, se ai russi fosse stato impedito di occupare le città chiave della Persia, per gli ottomani ci sarebbe stata via libera verso l'Azerbaijan, l'Asia Centrale e l'India. Una volta che tutte queste nazioni fossero state rimosse dalla sfera di influenza occidentale, il cosiddetto progetto pan-Turaniano di Enver prevedeva che si sarebbe creata un'area di cooperazione fra questi nuovi stati nazionalistici e l'impero ottomano.
Il progetto di Enver, a suo modo un anti-imperialista, entrava in contrasto diretto con le complesse dinamiche dell'imperialismo occidentale in Asia, che non si erano ancora assestate dopo anni di conflitto. Enver riteneva che le potenze coloniali non avrebbero avuto le risorse per portare avanti una lunga guerra mondiale ed allo stesso tempo mantenere il controllo diretto su vasti territori lontani dalla madrepatria. La visione di Enver si dimostrò in larga parte esatta, anche se i risultati reali ottenuti dai diversi movimenti di indipendenza nazionali durante la prima guerra mondiale e nel primo dopoguerra non furono pari alle attese.Wikipedia:Uso delle fonti Anche dopo la fine della guerra e la spartizione dell'Impero Ottomano Enver continuò a perseguire i suoi obiettivi e morì in combattimento il 4 agosto del 1922 lontano dalla Turchia, presso Baldzhuan nel Turkestan, durante uno scontro contro un battaglione armeno dell'Armata Rossa bolscevica comandato da Hagop Melkumian.
Impero britannico
 La britannica Anglo-Iranian Oil Company aveva acquisito in esclusiva i diritti di sfruttamento dei giacimenti petroliferi nell'Impero persiano4. Questi giacimenti erano considerati di fondamentale importanza strategica, visto che nel 1914, prima dello scoppio del conflitto mondiale, il governo britannico aveva raggiunto un accordo con la Anglo-Iranian Oil Company per la fornitura di carburante alla Royal Navy, pertanto era necessario impedire agli ottomani di occupare i campi petroliferi5

Impero russo
 
Per la Russia il fronte del Caucaso rappresentava un fronte secondario rispetto all'importanza del fronte orientale. La Russia aveva conquistato nel 1877 la città fortezza di Kars durante la guerra russo-turca e temeva una campagna degli ottomani sul Caucaso che puntasse alla riconquista di Kars e del porto di Batumi. Nel marzo 1915, durante un incontro con l'ambasciatore britannico George Buchanan e con l'ambasciatore francese Maurice Paléologue, il ministro degli esteri russo Sergej Sazonov, dichiarò che un durevole accordo per il dopo-guerra avrebbe dovuto contemplare il passaggio ai russi di Costantinopoli, dello stretto del Bosforo e dei Dardanelli, del mar di Marmara, della Tracia meridionale fino alla linea Enos-Midia e di parte della regione costiera turca sul mar Nero fra il Bosforo, il fiume Sakarya ed un punto da determinarsi vicino alla Baia di Izmit6. Il piano del governo zarista prevedeva inoltre la sostituzione della popolazione musulmana dell'Anatolia settentrionale e di Istanbul con i più affidabili coloni cosacchi7.

Armenia

Allo scoppio della prima guerra mondiale all'interno dell'Impero Ottomano viveva una grande comunità armena, diffusa su gran parte del territorio, ma concentrata soprattutto nella regione di confine con la Russia. Fra i numerosi popoli che abitavano la regione del Caucaso, il popolo armeno fu quello che ebbe certamente il ruolo più attivo durante la Grande Guerra.
Il movimento di liberazione nazionale dell'Armenia aveva come obiettivo finale la costituzione di una repubblica in Armenia. Il principale partito politico degli armeni, la Federazione Rivoluzionaria Armena (nota anche con il nome di Dashnak), raggiunse questo obiettivo quando venne riconosciuta a livello internazionale la Repubblica Democratica di Armenia nel maggio 1918, dopo il collasso dell'Impero Russo e i caotici eventi seguiti alla rivoluzione.
Inoltre, fin già dal 1915, fu costituita dai russi l'Amministrazione dell'Armenia occidentale, che divenne poi la Repubblica dell'Armenia Montanara; anche la Dittatura Centrocaspiana fu costituita nel 1918 con un contributo degli armeni.

Schieramenti militari
Impero Ottomano e Potenze Centrali

Dopo la Rivoluzione dei Giovani Turchi e l'avvio della Seconda era costituzionale (in lingua turca İkinci Meşrûtiyet Devri) il 3 luglio 1908, prese il via anche una grande riforma militare. I quartier generali dell'esercito furono modernizzati. L'impero ottomano fu impegnato nella guerra italo-turca (1911-12) e nelle guerre balcaniche (1912-13), che obbligarono altre azioni di riorganizzazione dell'esercito, appena pochi anni prima dello scoppio della guerra mondiale. Ogni quartier generale di armata prevedeva un capo di stato maggiore, una sezione operativa, una sezione di intelligence, una sezione logistica ed una sezione dedicata al personale. Inoltre, seguendo una consolidata tradizione dell'esercito ottomano, anche i dipartimenti di supporto per i rifornimenti, la sanità ed i servizi veterinari erano inclusi nell'organizzazione delle armate.
Nel 1914, prima che l'impero entrasse in guerra, le quattro armate ottomane erano suddivise in corpi e divisioni, essendo ciascuna divisione composta da reggimenti di fanteria ed un reggimento di artiglieria. Prima della guerra le maggiori unità militari erano:
    •    la Prima Armata con 15 divisioni
    •    la Seconda Armata con 4 divisioni, una divisione indipendente di fanteria, con 3 reggimenti ed una brigata di artiglieria
    •    la Terza Armata con 9 divisioni, 4 reggimenti indipendenti di fanteria e 4 reggimenti indipendenti di cavalleria (unità tribali)
    •    la Quarta Armata con 4 divisioni
Nell'agosto 1914, delle 36 divisioni di fanteria in organico, ben 14 erano di nuova formazione; in breve tempo 8 delle nuove divisioni furono ridispiegate. Durante la guerra mondiale, furono organizzate altre armate: nel 1915 la Quinta e la Sesta Armata, nel 1917 la Settima e l'Ottava Armata, nel 1918 la Kuva-i İnzibatiye (Forze dell'Ordine) e l'Esercito islamico del Caucaso, costituito da un solo corpo.
Dopo quattro anni di guerra, nel 1918, le armate ottomane erano talmente logorate che lo Stato Maggiore fu costretto ad utilizzare la definizione Gruppo d'armate per indicare una nuova organizzazione delle unità: furono formati così il Gruppo di Armate Orientale e il Gruppo di Armate Yıldırım (Gruppo di Armate "Folgore"). Comunque, sebbene il numero di armate fosse aumentato nei quattro anni di guerra, il flusso di risorse in termini di uomini e mezzi costituì un continuo e grave problema, pertanto gli effettivi di un gruppo d'armate del 1918 non erano in numero maggiore a quelli delle armate del 1914.
Nell'ultimo anno di guerra l'esercito ottomano era ancora sufficientemente organizzato ed in grado di condurre operazioni militari in modo efficace.
Gran parte del materiale bellico degli ottomani fu fornito dai tedeschi e dagli austro-ungarici, che si occupavano anche della manutenzione. La Germania fornì anche un gran numero di consiglieri militari. Una forza formata da truppe specializzate - l'Asia Korps - fu inviata nell'impero nel 1917; l'anno seguente l'Asia Korps fu rinforzato e comprendeva 2 reggimenti. La Germania organizzò all'inizio del 1918 anche una seconda formazione militare, la forza di spedizione tedesca in Caucaso, la cui zona di operazioni era l'ex Transcaucasia russa. Primi obiettivi della forza di spedizione erano mettere in sicurezza le forniture di petrolio per la Germania e mantenere nella sfera di influenza tedesca la nuova Repubblica Democratica di Georgia. Tali azioni portarono Impero Ottomano e Germania vicine al conflitto, con scambi di accuse durante gli ultimi mesi di guerra.

Potenze dell'Intesa
Impero russo
 
Al momento dello scoppio della guerra, sul confine del Caucaso la Russia aveva schierato l'Armata del Caucaso, tuttavia circa metà degli effettivi furono quasi subito ridispiegati sul fronte orientale dopo le disfatte subite contro i tedeschi nelle battaglie di Tannenberg e dei Laghi Masuri, lasciando così una forza di circa 60.000 uomini nel teatro meridionale.

Armenia
 
Nell'estate del 1914 furono organizzate delle unità di volontari armeni per affiancare in combattimento le unità regolari dell'esercito russo, in questo modo furono subito disponibili nella guerra contro gli ottomani circa 20.000 volontari, arruolati anche nelle città ottomane occupate dai russi8. I volontari armeni aumentarono durante il corso della guerra, tanto che Boghos Nubar dichiarò alla conferenza di pace di Parigi che tra le loro file si contavano 150.000 uomini9.
Impero britannico
Fin dal 1914 alcune unità militari della British Indian Army erano dislocate nella zona d'influenza britannica della Persia meridionale. Queste unità avevano acquisito una notevole esperienza nel confrontarsi con le forze tribali che si opponevano agli occupanti stranieri. Successivamente i britannici costituirono la Mediterranean Expeditionary Force (MEF), la British Dardanelles Army, la Egyptian Expeditionary Force (AEF), ed infine nel 1917 la Dunsterforce sotto il comando di Lionel Dunsterville, una unità che raggruppava circa 1.000 australiani, britannici, canadesi e neozelandesi supportati da autoblindo, che avevano il compito di opporsi alle forze ottomane sul Caucaso.
Nel 1916 una Rivolta Araba cominciò nella regione di Hijaz. Circa 5.000 soldati regolari (in gran parte ex prigionieri di guerra di origine araba) si unirono alle forze dei ribelli. Parteciparono anche unità tribali irregolari guidate dall'emiro Faysal e da consiglieri militari britannici, il più noto dei quali fu T. E. Lawrence.

Francia

La Francia inviò in questo teatro la legione franco-armena, unità aggregata alla Legione straniera. Il ministro degli esteri Aristide Briand si era impegnato a mandare truppe secondo le clausole dell'accordo Sykes-Picot, ancora mantenuto segreto10. Boghos Nubar, leader dell'Assemblea Nazionale Armena, ebbe un incontro con Sir Mark Sykes e Georges Picot dopo la firma dell'Accordo Franco-Armeno del 1916. In seguito il generale britannico Edmund Allenby, comandante dell'Egyptian Expeditionary Force, ampliò l'accordo originale.Wikipedia:Uso delle fonti
La legione armena combatté in Palestina ed in Siria. A molti dei volontari arruolati nella Legione straniera che riuscirono a sopravvivere ai primi anni di guerra fu consentito di passare nei ranghi dei rispettivi eserciti nazionali.Wikipedia:Uso delle fonti
Durante tutto il periodo di conflitto il Movimento di liberazione nazionale dell'Armenia ebbe il controllo sui fedayyin armeni (in lingua armena Ֆէտայի), noti anche come milizia armena. Nel 1917 il Dashnak organizzò il Corpo Armeno sotto il comando del generale Tovmas Nazarbekian. Questa unità militare in seguito alla proclamazione nel 1918 della Repubblica Democratica di Armenia, divenne la forza armata del nuovo Stato armeno, mentre Nazarbekian divenne il primo comandante in capo dell'esercito.

Reclutamento ottomano

Il 12 maggio 1914 entrò in vigore una nuova legge per il reclutamento nelle forze armate dell'impero ottomano, legge che abbassava il limite di età per il reclutamento da 20 a 18 anni ed aboliva il sistema della riserva o redif. La durata del servizio militare era fissata a due anni per la fanteria, 3 anni per altre specialità dell'esercito e 5 anni per la marina militare.
Durante la guerra il disposto della legge rimase largamente sulla carta: tradizionalmente l'arruolamento nelle forze armate ottomane si basava sui volontari provenienti dalla popolazione musulmana dei territori dell'impero. Inoltre anche numerosi gruppi di persone provenienti da altri settori della società ottomana si arruolarono come volontari durante la guerra.
Furono formate anche unità militari composte da turchi del Caucaso e della Rumelia, che presero parte alle campagne in Mesopotamia e Palestina. I volontari non erano solo turchi: si arruolarono anche volontari arabi e beduini che parteciparono alle campagne contro i britannici in Mesopotamia e per la conquista del Canale di Suez.
Queste forze di volontari non fornirono un contributo sostanziale alla guerra, inoltre erano ritenute inaffidabili rispetto alle forze dell'esercito regolare, in quanto non erano truppe addestrate bene al combattimento ed erano motivate solo dalla speranza di guadagno. Nel momento in cui la guerra divenne ancor più dura il sistema dei volontari cessò sostanzialmente di esistere.

Reclutamento armeno

Prima della guerra la Russia aveva organizzato un sistema di arruolamento di volontari che sarebbe stato impiegato per la Campagna del Caucaso. Nell'estate del 1914 le unità di volontari armeni erano state reclutate ed inquadrate all'interno delle forze armate russe; dato che i cittadini armeni di nazionalità russa erano stati mobilitati ed inviati sul fronte orientale europeo, queste unità di volontari erano formate esclusivamente da armeni di cittadinanza non russa oppure non soggetti al servizio militare obbligatorio.
Ai distaccamenti armeni viene attribuito un ruolo importante nei successi militari ottenuti dai russi sul Caucaso nei primi due anni di guerra: gli armeni conoscevano le regioni dove si combatteva, le strade ed i passi montani, erano abituati alle condizioni climatiche e soprattutto avevano grandi motivazioni e speranze che li spingevano al combattimento11.
Le unità di volontari armeni erano piccole, molto rapide sul terreno e perfettamente adeguate alle tattiche di guerriglia messe in pratica contro gli ottomani12, furono di grande aiuto nel ruolo di avanguardia e avanscoperta per le unità regolari russe e presero parte a numerosi combattimenti13.

Forze asimmetriche

Nel vastissimo teatro militare del Medio Oriente parteciparono alle diverse campagne non solo le unità degli eserciti regolari, ma anche truppe irregolari, unità tribali, guerriglieri ed insorti: per questa ragione il conflitto appartiene anche alla categoria nota adesso come guerra asimmetrica.
Contrariamente a ciò che si ritiene, l'idea di una insurrezione delle diverse popolazioni arabe all'interno dell'Impero Ottomano non fu di T. E. Lawrence o dell'esercito britannico, ma provenne dall'Arab Bureau del Foreign Office britannico. Questa idea si concretizzò nella insurrezione nota col nome di Rivolta Araba.
L'Arab Bureau del Cairo riteneva che dal punto di vista strategico sarebbe stata di grande efficacia una campagna di supporto alle tribù e alle popolazioni separatiste all'interno dell'Impero Ottomano. La campagna, condotta e finanziata dalle potenze straniere, avrebbe obbligato il governo ottomano a destinare notevoli risorse allo scopo di sedare le ribellioni. Le previsioni dell'Arab Bureau si rivelarono corrette: per le iniziative di contrasto alle ribellioni gli ottomani furono costretti a destinare una quantità ingente di risorse, quantità ben superiore a ciò che spesero gli alleati in supporto ai ribelli.
Sul fronte avversario la Germania aveva creato il Nachrichtenstelle für den Orient (Ufficio di Intelligence per l'Oriente) fin dall'inizio della guerra. Questa organizzazione aveva il compito di promuovere e sostenere i movimenti nazionalisti, sovversivi e le insurrezioni all'interno dell'India britannica (il Raj britannico), in Persia ed in Egitto. Le operazioni di intelligence tedesco in Persia, che avevano lo scopo di creare disordini e ribellioni nell'area del golfo Persico, furono guidate da Wilhelm Wassmuss14, un diplomatico tedesco noto anche come il "Lawrence d'Arabia tedesco" o "Wassmuss di Persia".

La zona delle operazioni

La Campagna di Persia fu combattuta nell'Azerbaigian persiano e nella Persia occidentale (le province dell'Azerbaigian orientale, dell'Azerbaigian occidentale e di Ardabil), comprese le città di Tabriz, Urmia, Ardabil, Maragheh, Marand, Mahabad e Khoy. La Campagna di Gallipoli si svolse interamente nel territorio della penisola di Gallipoli. La Campagna di Mesopotamia coinvolse le terre bagnate dai fiumi Eufrate e Tigri, incluse le città di Bassora, Kut e Baghdad. Il problema principale di quest'area di operazioni fu lo spostamento di uomini e rifornimenti attraverso le paludi della Mesopotamia ed i deserti che circondano la zona del conflitto.
La Campagna del Sinai e della Palestina ebbe luogo nella Penisola del Sinai, in Palestina, ed in Siria, dal canale di Suez fino al confine meridionale dell'odierna Turchia.
Le forze dell'Impero Ottomano furono impegnate soprattutto nella difesa dei territori dell'impero, tuttavia circa 90.000 uomini furono inviati sul fronte orientale nel 1916, per partecipare alle operazioni in Romania durante la campagna dei Balcani.
Le Potenze Centrali avevano richiesto agli ottomani di inviare delle truppe in supporto alle operazioni militari contro l'esercito russo sul fronte orientale. In seguito si ritenne che questa decisione fosse stata un errore, dato che queste forze sarebbero state maggiormente utili nella protezione del territorio ottomano quando era in corso la massiccia offensiva di Erzurum. La decisione di inviare un contingente ottomano sul fronte orientale fu presa da Enver. Inizialmente Erich von Falkenhayn, capo di stato maggiore tedesco, aveva rifiutato questo aiuto, mentre il suo successore, Paul von Hindenburg, accettò l'offerta anche se non pienamente convinto.Wikipedia:Uso delle fonti
La decisione di mandare dei rinforzi ottomani fu presa dopo l'offensiva Brusilov, quando le Potenze Centrali si ritrovarono a corto di uomini sul fronte orientale. All'inizio del 1916 Enver inviò il XV Corpo in Galizia, il VI Corpo in Romania, ed il XX Corpo ed il 177º reggimento di fanteria in Macedonia. Fonti turche riportano che per queste operazioni furono inviati rispettivamente 117.000 e 130.000 uomini, dei quali circa 8.000 morirono in combattimento, mentre altri 22.000 furono feriti.Wikipedia:Uso delle fonti

Zone di supporto

Gli ottomani speravano di riuscire a ridurre l'impegno dei britannici nel teatro del Medio oriente attraverso la campagna del Nord Africa del vicino teatro africano. Essi avevano mantenuto una presenza militare in Nord Africa sin dai tempi della guerra italo-turca del 1911-12. Enver supportava le azioni di resistenza in Libia al regime coloniale italiano anche per le affinità religiose fra turchi e popolazione libica.
La nascita del nuovo nazionalismo libico fu alimentato da questa resistenza agli italiani. L'influenza dei Senussi era maggiore in Cirenaica, dove questi erano riusciti a liberare la regione dalle agitazioni e dall'anarchia concedendo alle locali popolazioni tribali unità di intenti.Wikipedia:Uso delle fonti All'inizio del 1915 l'Italia ed Impero Ottomano non erano in guerra.
Sul teatro libico combatterono in supporto dei senussi circa 500 militari ottomani fra soldati ed ufficiali, mentre la milizia dei senussi schierava fra 15.000 e 30.000 uomini, secondo fonti turche ed italiane. Allo scoppio della guerra la milizia senussi era una forza ben addestrata sotto la guida di ufficiali ottomani del servizio segreto Teşkilat-ı Mahsusa. Quando l'Italia dichiarò guerra alle Potenze Centrali il 24 maggio 1915, la guerra fra italiani e senussi divenne parte del conflitto mondiale e lo Stato Maggiore ottomano mandò consiglieri ed armi ad Ahmad al-Sharif, l'uomo che guidava la ribellione dei senussi col titolo di Amir-al-Muminin.Wikipedia:Uso delle fonti
Gli agenti tedeschi e ottomani inoltre incoraggiavano le ribellioni contro gli alleati in Libia e Marocco (che era stato annesso alla Francia nel 1912), e queste regioni non erano in pieno controllo alleato quando la guerra cominciò in Europa. Armi leggere furono consegnate agli insorti utilizzando gli U-Boot partiti dalle coste della Germania o dell'Austria-Ungheria, oppure attraverso paesi neutrali come la Spagna. I senussi ottennero un certo successo nel Sahara, respingendo gli italiani da Fezzan e bloccando britannici e francesi nelle regioni di frontiera di Egitto e Algeria. Al termine della prima guerra mondiale la Libia era ufficialmente fuori dal controllo ottomano, tuttavia militari ottomani rimasero nella regione fino ai primi mesi del 1919. Le rivolte dei berberi in Marocco e Libia proseguirono anche dopo la fine della guerra, fino a quando furono definitivamente sedate (in Libia) alla fine degli anni venti da Rodolfo Graziani, che era al comando delle forze italiane incaricate di pacificare i senussi. Durante questa "pacificazione" morirono decine di migliaia di prigionieri libici.

Cronologia
Preludio

 Nel luglio 1914 la situazione politico-diplomatica ottomana cambiò in modo drastico a seguito degli eventi in Europa. L'impero ottomano concluse un accordo segreto con la Germania il 2 agosto 1914, accordo al quale fece seguito un altro trattato con la Bulgaria.
Il ministero della guerra ottomano sviluppò due principali piani militari. Bronsart von Schellendorf, membro della missione militare tedesca presso l'impero, che era stato nominato assistente capo dello stato maggiore ottomano, il 6 settembre 1914 mise a punto un piano strategico che prevedeva un attacco verso l'Egitto da parte della Quarta Armata ed in Anatolia Orientale un attacco contro i russi da parte della Terza Armata. Nell'alta gerarchia militare ottomana c'era opposizione al piano di Schellendorf. L'opinione più diffusa era che Schellendorf pianificava una condotta militare che avrebbe portato benefici alla Germania, piuttosto che tenere conto delle effettive condizioni dell'Impero Ottomano. Hafız Hakkı Pascià presentò un piano alternativo che era più aggressivo e concentrato sulla Russia. Il piano era basato sullo spostamento di forze via mare verso la costa orientale del mar Nero, dove queste avrebbero condotto un'offensiva contro i russi. Il piano di Hakkı fu accantonato dato che l'esercito ottomano mancava di risorse, pertanto fu adottato lo schema di Schellendorf, con il risultato che le operazioni militari ottomane furono combattute in territorio ottomano, portando con sé le inevitabili conseguenze sulle popolazioni civili ottomane. Anche il piano di Schellendorf mancava delle risorse necessarie per condurlo in modo efficace, ma il generale tedesco organizzò in modo adeguato la struttura di comando e controllo dell'esercito e schierò le armate secondo lo schema del piano. L'azione di Schellendorf produsse anche un migliore piano di mobilizzazione per il reclutamento delle truppe e la loro preparazione per la guerra.
Lo studio dei documenti storici conservati presso l'archivio del ministero della guerra ottomano ha permesso di recuperare i piani di guerra abbozzati da Schellendorf e datati 7 ottobre 1914. Questi abbozzi includevano un supporto ottomano all'esercito bulgaro, una operazione segreta contro la Romania, delle operazioni di sbarco di truppe ottomane a Odessa ed in Crimea con il supporto della Marina Tedesca.
 Uno degli aspetti dell'influenza tedesca sulle operazioni militari ottomane fu che durante la campagna di Palestina, la maggior parte dei ruoli di comando nello stato maggiore del gruppo di armate Yıldırım fu assegnata a ufficiali tedeschi. Anche la corrispondenza fra i quartier generali era condotta in tedesco. Questa situazione terminò con la disfatta finale in Palestina e l'incarico assegnato a Mustafa Kemal di comandare ciò che restava del gruppo di armate Yıldırım.
Durante il luglio 1914 ci furono negoziati fra il Comitato per l'Unione ed il Progresss (CUP), un'organizzazione politica turca, e gli esponenti armeni riuniti al Congresso armeno di Erzurum. La conclusione pubblica del congresso fu "di portare avanti in modo pacifico le richieste armene mediante mezzi legittimi"15. Il CUP invece ritenne che questo congresso avesse deciso per l'insurrezione degli armeni con l'aiuto dei russi1617.
Il 29 ottobre 1914 ci fu il primo scontro militare fra ottomani ed alleati, quando due navi da guerra tedesche, l'incrociatore da battaglia Goeben e l'incrociatore leggero Breslau, che erano stati inseguite dalla Mediterranean Fleet e si erano rifugiate in acque territoriali ottomane, passarono sotto controllo degli ottomani e bombardarono Odessa, porto russo sul mar Nero.
1914
Novembre

In novembre il Primo Lord dell'Ammiragliato Winston Churchill propose un suo piano per un attacco navale alla capitale dell'impero ottomano, piano basato in parte su un poco preciso rapporto preparato dal tenente T. E. Lawrence contenente informazioni relative allo stato delle forze ottomane. L'idea era che la Royal Navy aveva a disposizione un gran numero di navi da guerra obsolete che avrebbero però potuto dimostrarsi utili in questo attacco, se supportate da un minimo numero di forze terrestri destinate ai compiti di occupazione. Le navi da guerra avrebbero dovuto essere pronte per il febbraio 1916.
Nel frattempo all'interno della Quarta Armata Ottomana si stava organizzando una forza di 20.000 uomini agli ordini del ministro della marina Djemal Pascià con l'obiettivo di conquistare il canale di Suez. L'attacco verso Suez era stato suggerito dal ministro della guerra Enver Pascià per venite incontro alle richieste dell'alleato tedesco. Il capo di stato maggiore della Quarta Armata era il colonnello bavarese Kress von Kressenstein che pianificò l'attacco e organizzò i rifornimenti attraverso il deserto per le unità che avrebbero condotto l'attacco.
Il primo novembre, in anticipo di un giorno rispetto alla dichiarazione di guerra dei russi18, ebbe inizio l'offensiva Bergmann, il primo evento bellico della Campagna del Caucaso. Le unità russe attraversarono la frontiera con l'obiettivo di conquistare Doğubeyazıt e Köprüköy19. Sul settore destro il I Corpo russo mosse da Sarıkamış in direzione di Köprüköy. Sul settore sinistro il IV Corpo russo mosse da Erevan verso l'altopiano Pasinler.
L'offensiva dei russi si concluse senza risultati significativi. Sul fronte opposto il comandante della Terza Armata Ottomana Hasan Izzet non era favorevole a una offensiva da condursi durante il terribile inverno della regione del Caucaso. La sua linea d'azione - di rimanere sulla difensiva e passare al contrattacco solo quando si fosse presentata la giusta occasione - fu messa da parte dal ministro della guerra Enver.
Intanto sul fronte mesopotamico il 6 novembre 1914 una forza navale britannica aprì il fuoco sul vecchio forte di Al Faw. Al bombardamento seguì lo sbarco di Faw della Forza di Spedizione Indiana D (IEF D), che comprendeva la sesta divisione indiana (Poona) guidata dal tenente generale Arthur Arnold Barrett, con Sir Percy Cox come ufficiale politico. La difesa di Al Faw era affidata a un piccolo contingente di soldati ottomani, formato da 350 uomini con 4 cannoni. Il 22 novembre i britannici conquistarono la città di Bassora dopo aver sconfitto una forza composta da 2.900 coscritti di nazionalità araba, una forza che faceva parte del Comando di Area dell'Irak agli ordini di Suphi Pasha. Suphi Pasha ed altri 1.200 uomini furono presi prigionieri. Il quartier generale dell'armata principale ottomana in questo teatro, sotto il comando di Khalil Pasha, era a circa 440 km di distanza nei pressi di Baghdad. Dopo la sconfitta gli ottomani non provarono a riconquistare Bassora.
Il 7 novembre cominciò la controffensiva della Terza Armata sul Caucaso, che impegnò l'XI Corpo e divisioni di cavalleria supportate dal reggimento tribale curdo. Entro il 12 novembre il IX Corpo di Ahmet Fevzi Pascià rinforzato dall'XI Corpo sul fianco sinistro e supportato dalla cavalleria costrinse i russi a cedere terreno. I russi ebbero successo sul settore meridionale dell'offensiva, dove i volontari armeni si dimostrarono efficaci e conquistarono Karaköse e Doğubeyazıt20. Alla fine di novembre i russi controllavano un saliente di 25 km in territorio ottomano sull'asse Erzurum-Sarıkamış.
Dicembre
Dicembre 1914: Il primo battaglione armeno, sotto il comando di Andranik, in marcia fra i distretti di Salmast e Urmia in Persia21
 In dicembre, nel momento più critico della battaglia di Sarikamis, il generale Myšlaevskij ordinò il ripiegamento delle forze russe impegnate nella campagna di Persia per essere impiegate a contrastare l'offensiva di Enver. Solo una brigata russa sotto il comando del generale armeno Nazarbekov ed un battaglione di volontari armeni rimase in posizione fra Salmast ed Urmia.
Mentre gli ottomani preparavano le operazioni militari in Persia, un piccolo contingente di truppe russe attraversava la frontiera persiana. Un'azione russa fra Van e le montagne sul confine persiano fu respinta dalla divisione della gendarmeria di Van, una piccola formazione paramilitare comandata dal maggiore Ferid, che respinse il nemico verso la Persia. Il 14 dicembre la gendarmeria di Van occupava la città di Kotur, mentre in seguito l'unità mosse verso Hoy, allo scopo di aprire la strada alla V Forza di Spedizione di Kazım Bey ed alla I Forza di Spedizione di Halil Bey, che erano in procinto di avanzare su Tabriz dal punto di partenza stabilito a Kotur. Tuttavia gli effetti della battaglia di Sarikamıs ridussero in modo drastico gli effettivi degli ottomani e queste due forze di spedizione divennero indispensabili altrove.

Il 22 dicembre la Terza Armata Ottomana ricevette l'ordine di avanzare sulla città di Kars, capitale del Caucaso russo. Enver prese direttamente il comando della Terza Armata e mise in esecuzione il piano militare da lui preparato in collaborazione con lo Stato Maggiore della missione militare tedesca, un piano ambizioso che avrebbe invece portato alla disastrosa battaglia di Sarikamis. Temendo i possibili effetti catastrofici sul fronte russo della veloce e imponente avanzata della Terza Armata, il governatore del Caucaso Voroncov decise la ritirata dell'armata del Caucaso verso Kars. Il comandante dell'armata, il generale Judenic, preferì ignorare gli ordini del governatore.
1915
Gennaio - Marzo
 Il 2 gennaio Süleyman Askeri Bey assunse il comando ottomano dell'area dell'attuale Iraq. Enver Pascià aveva compreso che era un errore sottovalutare l'importanza della campagna di Mesopotamia, tuttavia l'esercito ottomano non aveva risorse disponibili da trasferire in questa regione, nell'imminenza dell'attacco alleato su Gallipoli. Süleyman Askeri Bey inviò dei messaggi ai notabili arabi della Mesopotamia per convincerli a dare il loro supporto nella guerra contro i britannici. Il 3 gennaio le forze ottomane occuparono Kurna per provare a riconquistare la città di Bàssora. Tuttavia la situazione a Kurna si fece insostenibile per gli ottomani, sottoposti al fuoco dei vascelli della Royal Navy sul fiume Eufrate mentre truppe britanniche muovevano per attraversare il Tigri, minacciando di tagliare la linea fra Kut e Qurna. Avendo valutato di non essere in grado di superare l'imponente sistema difensivo britannico attorno Bàssora, gli ottomani abbandonarono le posizioni a Kurna, dove furono anche presi prigionieri dai britannici un migliaio di soldati.
Sul Caucaso il 6 gennaio il quartier generale della Terza Armata si trovò sotto il fuoco nemico. Hafız Hakkı Pasha ordinò la ritirata generale dopo la disfatta nella battaglia di Sarikamis, tuttavia solo il 10% degli effettivi dell'armata fu in grado di ritornare sulle posizioni iniziali. Il ministro Enver lasciò il comando dell'armata. Durante tutto il periodo dell'offensiva invernale ottomana, reparti armeni svolsero azioni di disturbo contro le operazioni degli ottomani, cosicché "il ritardo conseguente [delle truppe ottomane] consentì all'Armata del Caucaso di concentrare forze sufficienti attorno a Sarıkamış"22.
I britannici ed i francesi chiesero alla Russia un impegno maggiore per allentare la pressione tedesca sul fronte occidentale, ma alla Russia occorreva tempo per organizzare le sue forze sul fronte orientale. L'arrivo di nuove e più moderne unità navali russe stava cambiando il rapporto di forze per il predominio sul mar Nero; mentre la battaglia di Gallipoli allontanava un gran numero di forze ottomane dal fronte russo e dagli altri fronti23, anche se nel marzo 1915 due divisioni della Prima e della Seconda Armata Ottomana venivano inviate come rinforzo alla Terza.
In febbraio il generale Judenič fu posto al comando dell'Armata del Caucaso, in sostituzione del generale Myšlaevskij. Il 12 febbraio il nuovo comandante della Terza Armata Ottomana, Hafız Hakkı, moriva di tifo e veniva sostituito dal Brigadier generale Mahmut Kamil Pascià. Kamil si impegnò a rimettere in efficienza la Terza Armata, dopo la disfatta di Sarıkamış. Sul settore meridionale intanto l'impero ottomano puntava alla conquista del canale di Suez attraverso la prima offensiva di Suez, ed al tempo stesso dava il suo supporto al recentemente deposto Abbas II d'Egitto, ma i britannici bloccarono entrambi i tentativi.

La campagna di Gallipoli

All'inizio del 1915 si apriva per l'impero ottomano un nuovo fronte di guerra. Il 19 febbraio una flotta anglo-francese, che includeva la moderna nave da battaglia HMS Queen Elizabeth, iniziava il bombardamento delle postazioni fortificate ottomane sullo stretto dei Dardanelli. L'ammiraglio Sackville Carden inviò il 4 marzo un dispaccio al primo lord del mare Winston Churchill che annunciava l'arrivo della flotta alleata a Costantinopoli entro due settimane24.
Il 18 marzo fu lanciato il primo grande attacco che aveva come obiettivo il forzamento degli stretti turchi. La flotta alleata, che comprendeva 18 navi da battaglia ed un gran numero di incrociatori e cacciatorpediniere, aprì il fuoco sul punto più stretto dei Dardanelli, dove lo stretto è largo appena un miglio. La nave da battaglia pre-dreadnought francese Bouvet esplose dopo aver urtato una mina, e, dopo essersi capovolta, si inabissò con tutto l'equipaggio. I dragamine, i cui equipaggi erano formati da civili, erano sotto il costante fuoco delle batterie ottomane e furono costretti a ritirarsi, lasciando non bonificata dalle mine quell'area di mare. La nave da battaglia HMS Irresistible e l'incrociatore da battaglia HMS Inflexible furono pesantemente danneggiati dalle mine, benché nella confusione della battaglia si pensò anche a un siluramento. La nave da battaglia HMS Ocean, inviata in soccorso della Irresistible, fu anch'essa danneggiata dalle mine ed alla fine entrambe le navi affondarono. Anche le navi da battaglia francesi Suffren e Gaulois furono pesantemente danneggiate. Queste perdite convinsero gli alleati a rinunciare al tentativo di forzare gli stretti attraverso l'impiego esclusivo della potenza navale.

Aprile - Giugno
 A seguito dei successi inattesi in Mesopotamia, il comando britannico riconsiderò il suo piano in favore di un atteggiamento più aggressivo. Nell'aprile 1915 fu inviato il generale John Nixon come nuovo comandante. Egli ordinò al maggiore generale Charles Townshend di avanzare verso Kut o anche verso Baghdad se fosse stato possibile.

Campagna dei Dardanelli


La campagna dei Dardanelli (19 febbraio 1915 - 9 gennaio 1916), detta anche campagna o battaglia di Gallipoli, fu il primo esempio di invasione dal mare dei tempi moderni, e può essere considerata uno dei più clamorosi insuccessi della Triplice Intesa durante la prima guerra mondiale. Fortemente voluta e caldeggiata dal giovane Primo Lord dell'Ammiragliato dell'epoca, Winston Churchill, presentò subito una lunga serie di difficoltà logistiche e organizzative, e venne condotta con eccessiva superficialità. Le oltre 150.000 perdite in vite umane, tra anglo-francesi, australiani, neozelandesi e turchi, vennero sacrificate per quello che militarmente fu un "nulla di fatto". Va inserita nel contesto iniziale della prima guerra mondiale, quando ancora le tattiche e la psicologia dei vertici restavano legati alla classica guerra di movimento e alla "politica delle cannoniere", mentre invece i nuovi armamenti la rendevano una guerra di posizione, insostenibile quindi per un invasore dal mare.

Necessità di agire e richieste della Russia
 
Le incredibilmente pesanti sconfitte subite dall'impero russo ad opera dei tedeschi in Prussia Orientale, a Tannenberg e sui Laghi Masuri, unita all'offensiva turca sul fronte del Caucaso e alla cronica penuria di munizionamento per le forze armate, avevano reso piuttosto critica per l'Intesa la situazione del fronte orientale alla fine del 1914.
Il granduca Nicola, comandante in capo dell'esercito russo, fece all'inizio dell'anno dei passi presso l'ambasciatore britannico perché venisse effettuata una "dimostrazione" di forza contro l'Impero ottomano. Il consiglio di guerra britannico, riunitosi il 13 gennaio, diede ordine all'Ammiragliato di organizzare uno sbarco in forze sulla penisola di Gallipoli, che dominava lo stretto dei Dardanelli, da attuarsi nel mese successivo.  Lo Stretto costituiva – attraverso il Mar di Marmara e il Mar Nero – lo sbocco dei russi nel Mediterraneo: di lì passava la metà del traffico commerciale, e i nove decimi delle esportazioni russe di grano.
Il controllo dei Dardanelli era dunque il rubinetto per i rifornimenti dell'alleato russo. Inoltre, la Turchia aveva due sole fabbriche di munizioni, sulla costa presso Costantinopoli, che sarebbero state a tiro dei cannoni di una flotta che avesse forzato lo stretto.
Il piano messo a punto prevedeva degli sbarchi lungo lo stretto per l'occupazione dei forti turchi, dopo però che importanti forze navali avessero forzato lo stretto stesso e messo sotto tiro Costantinopoli con i grossi calibri. A quel punto sarebbero intervenute altre unità francesi, britanniche e russe destinate a occupare la città e il Bosforo. Questo piano, messo a punto in mancanza di forze sufficienti per una vera e propria invasione in massa (si stimava fossero necessari almeno 100.000 uomini) era viziato dalla estrema difficoltà di un forzamento navale dei Dardanelli.
Per quanto la Turchia non disponesse di una apprezzabile forza navale, lo stretto era abbastanza angusto da rendere pericolosissimi i pochi campi minati che gli ottomani avevano posato, senza contare i forti a guardia degli stretti che erano in una posizione di vantaggio, benché dotati di armamenti antiquati.
Sul campo quindi si presentava una situazione analoga a quella a cui si erano trovati i contendenti della passata guerra russo-giapponese del 1905: in quel caso le mine marine avevano affondato molte navi di entrambi i contendenti, le artiglierie navali erano state del tutto insufficienti ai giapponesi per vincere, mentre l'artiglieria fissa russa aveva causato enormi perdite. Un ulteriore fattore di debolezza per gli alleati era dato dalla lungaggine dei preparativi da parte delle forze dell'Intesa, neppure troppo segreti: fatto che mise in allarme gli Ottomani.

Contromisure turche
 Sulla base delle informazioni trapelate e dai movimenti alleati sull'isola di Lemnos, i comandi turchi poterono prendere qualche contromisura. Vennero spostati sul versante europeo, a rinforzare la 7ª e la 9ª Divisione sei battaglioni di gendarmeria. Altre divisioni vennero mobilitate per essere ritirate dal fronte russo. Vennero inoltre posati nove nuovi campi minati, esaurendo praticamente la disponibilità di ordigni; infine vennero schierate su entrambe le sponde dello stretto delle nuove batterie mobili.

Cominciano le operazioni

 Il 19 febbraio dodici corazzate pre-Dreadnought (9 britanniche e 3 francesi) al comando del vice ammiraglio Carden attaccarono le postazioni fortificate turche con un pesante bombardamento, durato otto ore. Il 25 dello stesso mese le navi da guerra alleate tornarono all'attacco e danneggiarono alcune fortificazioni, riducendo al silenzio alcune batterie fisse. Le batterie mobili turche invece furono abilmente gestite e riuscirono a intralciare seriamente i tentativi di sbarco e il dragaggio degli sbarramenti minati all'imboccatura dello stretto. Il 18 marzo dieci corazzate (sei britanniche e quattro francesi) forzarono lo stretto raggiungendo il mar di Marmara, ma incapparono in uno sbarramento minato e si dovettero ritirare con perdite pesanti (affondarono due corazzate britanniche e una francese). A questo punto apparve chiaro che il forzamento dello stretto con le sole navi da guerra era pressoché impossibile; venne pertanto deciso lo sbarco nell'area della penisola di Gallipoli.

Frettolosa preparazione e sbarco
 
Il corpo di spedizione fu affidato al comando del generale Sir Ian Hamilton, uno scozzese di 62 anni che aveva prestato servizio in India e nella guerra boera. Complessivamente vennero messe ai suoi ordini cinque divisioni, di cui una francese, e due del Corpo d'armata ANZAC (Australian New Zeland Army Corps), per un totale di circa 78.000 uomini inquadrati nella Mediterranean Expeditionary Force.
Lo sbarco denunciò subito le incapacità organizzative: confusione logistica, indecisioni operative, collegamenti inefficaci e scarsa segretezza nei preparativi. Halmiton scelse sei punti per lo sbarco dei suoi uomini, più due azioni diversive.
I turchi dal canto loro affidarono al generale Otto Liman von Sanders, il sessantenne ufficiale tedesco che aveva il comando a Gallipoli, il comando delle forze disposte a difesa. Il generale von Sanders organizzò le sue truppe in tre grandi scaglioni, per prevenire gli sbarchi da ogni lato della penisola. Ormai aveva a disposizione una intera armata, la Quinta, con le divisioni 5ª e 65ª schierate sull'istmo di Bulair, sulla costa asiatica la 35ª e la 115ª, al centro della penisola la 195ª e infine la 95ª all'estremo sud della stessa.
Lo sbarco cominciò fra la notte del 24 e le prime ore del 25 aprile, con oltre duecento navi alleate in mare. I soldati australiani e neozelandesi dell'Australian & New Zealand Army Corps (Anzac) scoprirono immediatamente che l'area dell'Ari Burnu non aveva spiagge di facile accesso ma solo scogliere e burroni impraticabili. Oggi è chiaro che l'intera operazione fu decisa proprio lì: il genio militare di Mustafa Kemal comprese che il possesso di Monte Chunuk Bair e del crinale Sari Bair era determinante per il controllo dell'intera penisola. Ignorando gli ordini superiori, Mustafa Kemal portò tutte le truppe possibili sul Chunuk Bair e sul crinale e tenne le posizioni: gli inglesi, nonostante i loro sforzi, non sarebbero mai più riusciti ad avanzare.
Entro il pomeriggio del 25 aprile, nonostante gli errori commessi, circa 20.000 uomini della divisione australiana e di una brigata neozelandese erano sbarcati in un settore abbastanza ampio, e disponevano già dell'artiglieria divisionale. Il 26 mattina, gli inglesi erano riusciti a portare a terra circa 30 000 uomini. Queste forze subirono un contrattacco violento da parte di un reggimento della 95ª Divisione turca, comandato personalmente da Mustafa Kemal, e di altri reparti. Il combattimento durissimo costrinse gli invasori a ripiegare, trincerandosi a difesa della testa di ponte. Il 29 aprile le parti concordarono una tregua umanitaria per raccogliere le migliaia di morti e feriti giacenti sul terreno. La 295ª Divisione britannica sbarcò su cinque spiagge in maniera piuttosto caotica, favorendo la reazione dei difensori. Presso capo Helles oltre la metà dei soldati che dovevano sbarcare furono uccisi o feriti da un micidiale fuoco di mitragliatrici che investì il trasporto River Clyde. Anche le truppe sbarcate dall'incrociatore corazzato Euryalus subirono perdite pesantissime, nonostante il violento fuoco di preparazione dell'incrociatore stesso. Alcuni barconi riuscirono a sbarcare soldati per la forza di circa una compagnia, che riuscirono ad arrampicarsi sugli scogli e neutralizzarono le mitragliatrici turche, permettendo ai superstiti di sbarcare.
Su altre spiagge, in codice chiamate X, Y e S, gli sbarchi avvennero con meno difficoltà, protetti sulla "X" dal fuoco dell'incrociatore da battaglia Inflexible . Dalla "Y" i Royal Marines sbarcati subirono nella notte un così forte contrattacco che furono costretti al reimbarco. Sulla costa asiatica un reggimento francese si impadronì dei resti del forte di Kum Kalè, distrutto dai cannoni delle corazzate in febbraio. Il 26 aprile, esaurito il compito diversivo, si reimbarcò senza danni.

Le operazioni terrestri
 
Le truppe dell'ANZAC si mossero per conquistare l'altura di Chunuk Bair, dominante lo stretto. Fino al 4 maggio i violenti combattimenti costarono ai turchi perdite molto pesanti, ma gli alleati non ottennero alcun risultato e furono costretti ancora una volta a trincerarsi a difesa. Il 28 aprile, dopo un pesante bombardamento navale, le truppe sbarcate a sud avanzarono verso l'altura di Achi Baba, altra posizione dominante a circa 10 km da capo Helles. Le prime difese turche vennero sopraffatte, ma l'intervento dell'11ª Divisione ottomana al completo costrinse gli alleati a ritirarsi sulle posizioni di partenza. Ulteriori tentativi di sfondare ottennero scarso successo nei giorni successivi. Con il rinforzo di tre nuove divisioni affluite sulle teste di ponte il generale Hamilton sferrò un nuovo attacco. Dal 6 all'8 maggio, con la preparazione di artiglieria effettuata dalle navi da battaglia, i francesi attaccarono l'ala sinistra dello schieramento ottomano, ma senza risultati apprezzabili (anzi, i turchi riconquistarono alcune posizioni perdute). Il 19 maggio scattò una poderosa controffensiva ottomana, comandata personalmente dal generale von Sanders e diretta a ricacciare in mare le truppe dell'ANZAC. Le difese ben predisposte da australiani e neozelandesi fiaccarono il tentativo. Il 24 maggio vi fu una nuova tregua per lo sgombero delle migliaia di morti e feriti. Nel corso del mese di maggio le forze navali alleate subirono perdite che consentirono all'artiglieria turca di battere l'ala destra alleata direttamente dalla costa asiatica. Il 4 giugno, muovendo dalle postazioni di Capo Helles, 30 000 inglesi tentarono (terza battaglia nel settore) l'assalto a Krithia, difesa da 28 000 turchi. Assalto lanciato in pieno giorno, contro le trincee: nuovo fallimento, a parte la conquista di alcuni trinceramenti turchi le forze alleate non riuscirono a fare progressi verso l'interno, al prezzo di 4.000 morti. Devastanti anche le perdite turche.  Agli insuccessi alleati si venne a sommare l'ormai precaria condizione di salute e di spirito delle forze sbarcate in aprile. Hamilton chiese quindi nuovi rinforzi, che entro fine luglio furono completati in cinque nuove divisioni in aggiunta alle sette già presenti sulle teste di ponte. Anche le forze ottomane si rinforzarono di conseguenza, fino a schierare nello stesso periodo ben 15 divisioni.
Per il resto è una sequela di assalti tentati con scarso successo: due volte a Krithia, per tentare di impossessarsi dell'altopiano di Achi Baba, dove l'8 maggio gli inglesi avevano conquistato poco più di 600 metri, a prezzo di 6.500 morti. I turchi contrattaccarono, insistentemente, nella zona di Anzac, con coraggio e determinazione. Il 19 maggio, per esempio, 30 000 uomini assaltarono ripetutamente il centro delle postazioni australiane. I turchi persero 10 000 uomini, contro i 100 morti e i 500 feriti dell'Anzac. Gli australiani – scanzonati, indisciplinati ma testardi e coraggiosi – costruirono lì la loro fama di grandi soldati. E, mano a mano che passavano i giorni, cominciarono a riconoscere nel soldato turco un avversario degno di loro: fino a dichiarare pubblicamente che "Johnny Turk" o "Abdul" non era un selvaggio primitivo, come diceva la propaganda alleata, ma "un bravo e corretto combattente".
Giugno e luglio passarono in trincea, mentre la dissenteria aggiungeva le sue vittime a quelle dei cecchini e degli assalti locali, ostinati ed inutili. Tra sete, caldo, odore di morte – un po' ovunque c'erano cadaveri in putrefazione – e tormento delle mosche, le truppe conservano intatto un alto morale: da entrambe le parti, questa snervante battaglia cominciava ad assumere i toni dell'epopea.

Le operazioni navali

L'ammiraglio Sackville Carden, che dall'inizio del conflitto comandava una divisione di incrociatori da battaglia e relativa scorta nel Mediterraneo orientale, venne incaricato di studiare una grande operazione per forzare gli stretti che collegano il Mediterraneo al Mar Nero. L'idea di costringere la Sublime Porta alla resa, semplicemente con la minaccia di distruggere la capitale a cannonate, era un'idea allettante se rafforzata oltretutto dalla inconsistenza della marina avversaria. Il tentativo dell'ammiraglio tedesco Wilhelm Souchon di "raddrizzare" la miserevole flotta ottomana era ben lontano dal poter pensare di contrastare, anche indirettamente, la potenza navale britannica. L'ammiraglio Carden, per conto suo, stimò fattibile l'impresa con l'impiego in forze di navi da battaglia, in grado di colpire le postazioni difensive turche (in parte antichi forti) senza il rischio di essere colpiti. Il problema maggiore era costituito dallo stretto braccio di mare (40 miglia marine circa) che introduceva al mar di Marmara; per quanto gli alleati fossero bene informati sugli sbarramenti minati posati dai turchi il rischio esisteva sempre. Ma si trattava, a giudizio del comandante britannico, di un rischio calcolato a patto di utilizzare «forze adeguate». La Gran Bretagna, che disponeva della prima flotta da guerra al mondo, aveva a disposizione un gran numero di vecchie unità destinate col tempo ad essere disarmate e ormai di seconda linea, in gran parte corazzate pre-Dreadnought. L'Ammiragliato concentrò nel Mediterraneo orientale un gran numero di queste navi, giudicate più che adeguate all'operazione, e relativamente "spendibili". Su richiesta di Carden venne schierata anche, sotto mille vincoli di sicurezza, una delle più potenti unità della Royal Navy, la super corazzata Queen Elizabeth. A questa si aggiungeva anche l'incrociatore da battaglia Inflexible. Anche la Marine Nationale, che lasciò agli inglesi il comando delle operazioni, imitò l'esempio britannico mettendo a disposizione navi che ormai erano di seconda linea.

    •    19 febbraio: otto navi da battaglia britanniche (oltre alla Queen Elizabeth e alla Inflexible, le sei vecchie corazzate Albion, Vengeance, Cornwallis, Irresistible, Triumph e Agamemnon) e quattro francesi (le vecchie Suffren, Bouvet, Charlemagne e Gaulois) intrapresero senza danno un violento bombardamento "di ammorbidimento" sulle postazioni difensive turche all'imboccatura degli stretti.
    •    25 febbraio: bombardamenti per coprire gli sbarchi di alcune compagnie, volti a eliminare i cannoni costieri. In questo frangente gli alleati constatarono l'abbandono da parte dei turchi dei forti all'imboccatura dello stretto, ormai troppo danneggiati. La reazione ottomana arrivò a colpire la corazzata Agamemnon, che tuttavia non riportò gravi danni.
    •    18 marzo: scattò una operazione in grande stile per completare il dragaggio dello stretto fino al mare di Marmara, colpendo le installazioni turche rilevate. Il comando passò da Carden, ufficialmente indisponibile per malattia, al suo secondo ammiraglio John de Robeck. La prima fase vide le navi da battaglia britanniche più moderne aprire il fuoco da grande distanza, seguite da due pre-Dreadnought e rilevate poi dai vascelli francesi. Dopo il loro intervento sarebbe stata la volta del grosso delle navi britanniche. Nella manovra di accostata la Bouvet (già colpita diverse volte dai cannoni turchi) urtò una mina e si capovolse affondando in 58 secondi. Anche l'incrociatore da battaglia Inflexible venne gravemente danneggiato da una mina, così come la Irresistible, che affondò in seguito ai danni riportati, seguita dalla Ocean, vittima anch'essa di una mina mentre le prestava soccorso. A queste unità si doveva aggiungere anche la francese Gaulois, fatta incagliare a Tenedo per evitarne l'affondamento.
    •    
Le perdite subite, dolorose ma non certo in grado di intaccare la potenza navale alleata e la possibilità di intervenire ancora in maniera massiccia, suscitarono invece una reazione di eccesso di prudenza da parte del comandante in mare, che "passò la palla" alle forze di terra. Ciò nondimeno Churchill in persona fece pressioni per trasferire altre vecchie navi di linea in Egeo. La prudenza della Royal Navy  aumentò a dismisura col ritiro delle unità più moderne e con la perdita, in due settimane, di altre tre navi di linea in maggio (Majestic e Triumph, colate a picco dall'U-21 del comandante Otto Hersing, e la Goliath affondata dai siluri del cacciatorpediniere turco Muvenet, anch'esso al comando di un ufficiale tedesco). Da quel momento le forze navali si limitarono ad appoggiare gli ulteriori sbarchi di truppe (Suvla, 8 agosto) impiegando principalmente piccole cannoniere e siluranti, meno esposte al tiro nemico.

Ultimo colpo di coda e fallimento definitivo
 
All'inizio di agosto, gli inglesi decisero di riprendere l'iniziativa. Dopo aver rinforzato gli effettivi, il 6 agosto attaccarono contemporaneamente sul fronte di Capo Helles e nella zona Anzac, per la conquista di Sari Bair. Lo scopo era quello di coprire un nuovo sbarco, nella baia di Suvla. A Sari Bair e sul Monte Chunuk, gli australiani furono ad un passo dallo sfondamento: ma il 9 agosto, Kemal lanciò una controffensiva, perse 5.000 uomini e riprese le posizioni. Tra il 6 e il 10 agosto, l'Anzac aveva perso 12 000 uomini. A Suvla, intanto, 1.500 turchi al comando del maggiore bavarese Wilmer erano riusciti a bloccare sulla spiaggia 25 000 uomini del generale Sir Frederick Stopford, più contento di essere sceso a riva che determinato a spingersi oltre.
Sempre tra il 6 e il 10 agosto, von Sanders riuscì a rinforzare Wilmer, mentre Stopford si preoccupava di fortificare le spiagge. Risultato: le colline che dominavano la baia di Suvla rimasero saldamente in mano turca e i generali inglesi, indecisi e distratti, avevano perso la loro ultima occasione. Si tornò alla terribile vita di trincea. Con le truppe fresche appena giunte, Hamilton decise di sferrare un nuovo risolutivo attacco, corroborato da un nuovo sbarco nella baia di Suvla diretto a tagliare in due la penisola e impedire l'intervento in forze dei difensori, oltre all'occupazione delle alture. L'operazione prevedeva anche un attacco diversivo da sud (capo Helles) per distrarre gli eventuali rinforzi turchi.

Ritirata

 La situazione divenne estremamente drammatica in autunno, con l'inizio di un maltempo persistente. In ottobre, il comandante in capo Hamilton chiese altre forze per condurre una battaglia che finora aveva distrutto uomini e risorse senza alcun vantaggio. Il governo britannico decise per lo sganciamento da una campagna ormai chiaramente fallita, e sostituì Hamilton con il generale Charles Monro, il quale organizzò abilmente, dopo una rapida ricognizione della situazione, le operazioni di sganciamento e reimbarco.
La ritirata fu la sola cosa che i britannici fecero con vero successo. Tra il 18 e il 19 settembre, a scaglioni e con accorta copertura, 80 000 uomini e tutto il materiale furono evacuati dalla zona Anzac e dalla baia di Suvla, al prezzo di due soli feriti. Il 9 gennaio 1916, i 19 000 soldati dalla Zona di capo Helles – sempre di notte, sempre in silenzio, sempre con il massimo ordine – abbandonarono Gallipoli senza alcuna perdita. Entro il 20 dicembre la maggior parte dell'equipaggiamento pesante e delle truppe fu evacuato. Gli ultimi 35.000 uomini vennero reimbarcati fra l'8 e il 9 gennaio 1916.

Conclusioni

 Gli alleati lasciarono sul terreno 25.000 britannici, 10.000 francesi, 7.300 australiani, 2.400 neozelandesi e 1.700 indiani. Tra morti e feriti, le perdite complessive assommarono a 250.000 uomini: la metà del mezzo milione di soldati inviato a Gallipoli. I turchi ebbero quasi 100.000 morti e oltre 150.000 feriti. Il comando inglese fu debole, quasi distratto – Hamilton non si presentò mai al fronte, comandava da una nave al largo – oltre che incerto sugli obiettivi tattici e impreparato alle necessità logistiche. L'esercito turco fu ben guidato da von Sanders e da Mustafa Kemal Atatürk, sempre in trincea e spesso esposti in prima persona ai pericoli della battaglia.
La defezione della marina britannica dalla prima grande operazione anfibia dell'era moderna costò alla Gran Bretagna un numero spropositato di uomini, fatto ancora più grave data la penuria, in quel momento, di truppe terrestri. In effetti la Royal Army arrivò a impegnare sulle teste di ponte degli stretti quasi un quarto dei suoi effettivi, comprendenti per la prima volta anche truppe dei Paesi coloniali (Canadesi, Australiani, Sudafricani e altri). Le forze francesi agirono in sintonia con gli alleati ma dopo le perdite di marzo non si esposero più di tanto, considerando fra l'altro quello turco un settore di assoluto secondo piano rispetto alla mortale battaglia che l'Armée combatteva in casa. Da questo vero e proprio disastro, dovuto anche alla resistenza a oltranza delle forze ottomane, una volta tanto ben organizzate e ben guidate, il prestigio che la Royal Navy voleva difendere a ogni costo evitando perdite sopportabili (in quel momento erano in servizio ben 25 pre-Dreadnought più altre 9 di riserva) venne macchiato dal sacrificio delle truppe a terra. La disfatta costò quasi la carriera all'allora Primo Lord dell'Ammiragliato (ministro della Marina Militare) Winston Churchill, fra i sostenitori del piano. Dall'altra parte, fu anche l'occasione che mise in gran risalto le capacità di Mustafa Kemal: il trentaquattrenne ufficiale si guadagnò ampiamente il titolo di "Salvatore di Gallipoli".
La Grande Guerra era già abbastanza moderna per pensare a strategie mondiali, utilizzare strumenti tecnici sofisticati, coinvolgere masse di uomini. Ma non ancora abbastanza scientifica per abbandonare la logica degli assalti frontali, con fiumane di fanti mandati inutilmente allo sbaraglio, ondata dopo ondata, contro trincee fortificate. Soprattutto gli alleati erano comandati da alti ufficiali indecisi, incerti, senza fantasia ed ostinati all'assalto alla baionetta. Il numero fa potenza, si pensava ancora. Gallipoli dimostrò il contrario, ma sul momento furono davvero in pochi a capirlo.
Fu, anche, una inutile e devastante carneficina, raccontata nel film "Gli anni spezzati" del regista australiano Peter Weir.

Campagna del Caucaso


La campagna del Caucaso comprende l'insieme degli eventi accaduti sul fronte del Caucaso durante la prima guerra mondiale, eventi che coinvolsero in primo luogo dapprima l'Impero Ottomano e l'Impero Russo, e poi, dopo la dissoluzione dell'impero russo nel 1917, anche la Repubblica Democratica di Armenia, la Dittatura centrocaspiana e l'Impero britannico. La campagna del Caucaso può essere considerata sia come una parte del teatro di guerra del Medio Oriente sia, in alternativa, come parte del fronte del Caucaso. Lo svolgimento della campagna interessò un'area molto vasta che si estendeva dalla catena del Caucaso all'Anatolia Orientale, un'area che comprendeva anche Trebisonda, Bitlis, Muş e Van. Accanto al conflitto principale, combattuto su terra, vi furono anche attacchi della Marina Russa nella regione del Mar Nero dell'Impero Ottomano.
Durante il 1915 ed il 1916 i russi avanzarono in profondità nel territorio ottomano, ma le offensive russe sul Caucaso terminarono a causa degli eventi legati alla Rivoluzione russa, cominciata il 3 febbraio 1917, visto che i reparti dell'Armata Russa del Caucaso abbandonarono le posizioni sul fronte. Le truppe ottomane, pesantemente logorate da oltre due anni di guerra, inizialmente non furono in grado di approfittare del vuoto lasciato dai russi.
La fine dell'Impero Russo portò con sé la nascita di nuove entità politiche indipendenti nei territori della ex Transcaucasia Russa, dapprima il Comitato Speciale per la Transcaucasia e poi la Repubblica Federale Democratica Transcaucasica, che ebbe breve vita e si divise in tre repubbliche democratiche indipendenti (Armenia, Georgia e Azerbaigian).
Il conflitto con gli ottomani non era tuttavia terminato, pertanto, al fine di contrastare la probabile controffensiva del nemico, furono create dalle unità militari appartenenti agli stati di nuova formazione, unità che comprendevano anche gli irregolari ed i volontari armeni, veterani della campagna del Caucaso. Durante il 1918 dal caos politico-militare che stava sconvolgendo la Russia sorsero anche altri stati indipendenti, fra cui la Dittatura centrocaspiana e la Repubblica dell'Armenia montanara.
Inoltre cambiarono le alleanze sul campo di battaglia e giunsero nella regione forze militari schierate dalle grandi potenze i cui interessi strategici passavano per il Caucaso, per esempio la Dunsterforce britannica.
Non esiste una data unica per la fine della campagna: il conflitto fra l'Impero Ottomano e l'Impero Russo, si concluse con il trattato di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918, mentre lo scontro fra l'Impero Ottomano e la Repubblica Democratica di Armenia terminò con il trattato di Batumi del 4 giugno 1918. Anche le altre repubbliche indipendenti firmarono dei trattati di pace con gli ottomani.
Le forze turche rimasero impegnate nella guerra contro la Dittatura centrocaspiana, la Repubblica dell'Armenia montanara e la Dunsterforce britannica fino alla firma dell'armistizio di Mudros del 30 ottobre 1918.

Contesto politico-economico
Impero Ottomano e Germania
 
L'Impero Ottomano si unì alle Potenze Centrali nell'ottobre - novembre 1914 dopo la firma del trattato segreto con la Germania3. Sul fronte del Caucaso il principale obiettivo dell'Impero Ottomano era la riconquista dei territori dell'Anatolia Orientale persi durante la guerra russo-turca del 1877-78, pertanto obiettivi militari immediati erano Artvin, Ardahan, la città fortificata di Kars ed il porto di Batumi in GeorgiaWikipedia:Uso delle fonti.
Ismail Enver, uno dei Tre Pascià e ministro della guerra dell'Impero Ottomano
 Un successo degli ottomani avrebbe comportato lo spostamento in questa regione di un numero significativo di forze russe operanti sul fronte polacco e galiziano4, pertanto una efficace campagna turca sul Caucaso era vista con gran favore dai consiglieri militari tedeschi. A tale scopo, fin dallo scoppio delle ostilità, i tedeschi fornirono le risorse necessarie per rinforzare la Terza Armata Ottomana, schierata sul fronte del Caucaso, in modo tale che si potesse mettere in pratica questa "strategia di distrazione"5. Il ministro della guerra Enver Pascià sperava inoltre che un immediato successo degli ottomani avrebbe dapprima aperto la strada verso Tbilisi e poi sarebbe stato da innesco per la rivolta dei popoli musulmani del Caucaso6. Altro fattore strategico di grande importanza, soprattutto per i tedeschi, era la possibilità di avere libero accesso alle enormi risorse di idrocarburi nell'area del mar Caspio7

Impero Russo

 La Russia aveva conquistato nel 1877 la città fortezza8 di Kars durante la guerra russo-turca e temeva una campagna degli ottomani sul Caucaso che puntasse alla riconquista di Kars e del porto di Batumi. Il 4 marzo 1915, durante un incontro con l'ambasciatore britannico George Buchanan e con l'ambasciatore francese Maurice Paléologue, il ministro degli esteri russo Sergej Sazonov, dichiarò che un durevole accordo per il dopo-guerra avrebbe dovuto contemplare il passaggio ai russi di Costantinopoli, dello stretto del Bosforo e dei Dardanelli, del mar di Marmara, della Tracia meridionale fino alla linea Enos-Midia e di parte della regione costiera turca sul mar Nero fra il Bosforo, il fiume Sakarya ed un punto da determinarsi vicino alla Baia di Izmit9. Il piano del governo zarista prevedeva inoltre la sostituzione della popolazione musulmana dell'Anatolia settentrionale e di Istanbul con i più affidabili coloni cosacchi10
Armenia

 Allo scoppio della prima guerra mondiale all'interno dell'Impero Ottomano viveva una grande comunità armena, diffusa su gran parte del territorio, ma concentrata soprattutto nella regione di confine con la Russia. Fra i numerosi popoli che abitavano la regione del Caucaso, il popolo armeno fu quello che ebbe certamente il ruolo più attivo durante la grande guerra. Fin già dal 1915, nei territori ottomani conquistati dai russi e abitati da una popolazione in maggioranza armena, come forma di governo provvisorio fu costituita l'Amministrazione dell'Armenia occidentale.
Il movimento di liberazione nazionale dell'Armenia aveva come obiettivo finale la costituzione di una repubblica in Armenia. La Federazione Rivoluzionaria Armena, storico partito politico armeno, raggiunse l'obiettivo quando venne riconosciuta a livello internazionale la nuova Repubblica Democratica di Armenia nel maggio 1918, dopo il collasso dell'Impero Russo e i caotici eventi seguiti alla rivoluzione.
Fra gli altri stati formatisi nella regione alla fine del conflitto vi furono la Dittatura Centrocaspiana, costituita nel 1918 anche con la partecipazione degli armeni, e la Repubblica dell'Armenia montanara (giugno-ottobre 1918), guidata dal generale Andranik Toros Ozanian.

Impero Britannico
 
Alla fine della guerra i britannici si trovarono a cooperare con i rivoluzionari russi per impedire il piano di Enver per una Transcaucasia indipendente. Per quanto riguarda il fattore economico, la sfera di attività esclusiva della Anglo-Persian Oil Company si trovava sulla direttrice delle ambizioni ottomane, dato che la compagnia possedeva il diritto esclusivo di sfruttamento dei giacimenti petroliferi dell'Impero Persiano, tranne le province dell'Azerbaigian, di Ghilan, di Mazendaran, di Asdrabad e di Khorasan11. Nel 1914, prima dell'inizio della guerra, il governo britannico aveva firmato un contratto con la compagnia per il rifornimento di carburante delle navi della Royal Navy12.

Gli schieramenti militari
 
All'inizio della guerra gli ottomani avevano una sola armata, la Terza, schierata nella regione del Caucaso, pertanto il numero di truppe effettivamente disponibili al combattimento in quest'area può essere stimato fra 100.000 e 190.000, anche se il livello di equipaggiamento era in larga parte poco adatto. Nel 1916 lo stato maggiore ottomano decise il ridispiegamento di un'altra armata, la Seconda, sul fronte del Caucaso. L'efficienza della struttura di comando e controllo delle forze armate ottomane era notevolmente inferiore rispetto allo standard degli alleati13
Fin da prima dello scoppio della guerra la Russia schierava sul confine con l'impero ottomano l'Armata del Caucaso, forte di circa 100.000 uomini sotto il comando del governatore generale e viceré del Caucaso Illarion Voroncov-Daškov e del generale Nikolaj Judenič, capo di stato maggiore. Tuttavia, subito dopo l'inizio della campagna del Caucaso, i russi furono costretti a spostare circa la metà delle forze sul fronte prussiano, a causa delle pesanti sconfitte subite contro i tedeschi nella battaglia di Tannenberg e nella battaglia dei laghi Masuri, lasciando così un solo Corpo d'armata (circa 60.000 uomini) a fronteggiare gli ottomani. L'Armata russa del Caucaso si dissolse nel 1917, quando tutti i reggimenti regolari russi disertarono e abbandonarono il fronte a seguito dell'inizio della rivoluzione russa.
Fin dall'estate del 1914 erano state create delle unità di volontari armeni a supporto delle forze regolari russe. Visto che i coscritti russi di nazionalità armena erano già stati arruolati e mandati sul fronte europeo, queste nuove unità furono formate esclusivamente da armeni non di cittadinanza russa o non obbligati a servire nell'esercito. Inizialmente queste unità comprendevano circa 20.000 soldati, tuttavia nel corso della guerra il loro numero aumentò; i volontari erano organizzati in diverse unità che affiancavano l'armata del Caucaso come distaccamenti. Nel 1916 il generale Judenič decise di inquadrare queste unità all'interno dell'armata, oppure, quando ciò non era possibile, di scioglierle.Wikipedia:Uso delle fonti
Un'altra organizzazione militari che partecipò al conflitto furono i fedayyin armeni (in lingua armena Ֆէտայի), controllati dal Movimento di liberazione nazionale armeno. I fedayyin erano forze composte da civili e coordinate da famosi leader quali Murad di Sebastia (in armeno Սեբաստացի Մուրատ); il termine utilizzato per distinguere queste forze era milizia armena, irregolari armeni, oppure distaccamenti di guerriglia partigiana. Boghos Nubar, il presidente dell'Assemblea Nazionale Armena dichiarò alla Conferenza di Parigi del 1919 che queste forze avevano affiancato le principali unità regolari armene. Sulla linea Van-Erzincan (in territorio ottomano) la resistenza armena si basava su queste forze.Wikipedia:Uso delle fonti
Dopo la dissoluzione dell'Impero Russo, nel dicembre 1917, il Dashnak, uno dei partiti appartenenti al Movimento di liberazione nazionale armeno che aveva aderito anche al Congresso degli armeni orientali, organizzò una nuova forza militare sotto il comando del generale Tovmas Nazarbekian, già appartenente all'armata russa, e la supervisione del commissario civile Drastamat Kanayan. Sul campo di battaglia, il territorio fra Van ed Erzincan, furono schierate tre divisioni poste sotto il comando di Movses Silikyan, Adrianic e Mikhail Areshian; al colonnello Korganian fu assegnata un'altra unità regolare. Dopo la proclamazione della Repubblica Democratica di Armenia (28 maggio 1918) Nazarbekian divenne il comandante in capo dello stato armeno.
Anche milizie curde parteciparono alla campagna del Caucaso, alcune a fianco degli ottomani, altre invece combatterono per i russi.
Per quanto riguarda la partecipazione militare sul teatro del Caucaso di truppe dell'impero britannico, a Lionel Dunsterville fu assegnato nel 1917 il comando di una forza di spedizione alleata formata da circa 1000 veterani (australiani, britannici, canadesi e neozelandesi) supportati da autoblindo.

La campagna
Preludio

 Nel corso del mese di luglio del 1914, vi furono negoziati fra il Comitato per l'Unione ed il Progresso (CUP) e i rappresentanti degli armeni durante il Congresso Armeno di Erzurum. La conclusione pubblica del congresso fu di "portare avanti in modo pacifico e con mezzi legittimi le aspirazioni degli armeni"14. Il CUP considerò il risultato del congresso come un via libera alla insurrezione. Lo storico Erikson ritiene che dopo questo incontro il CUP si convinse di un forte legame fra armeni e russi con piani dettagliati finalizzati alla secessione del territorio armeno dall'impero ottomano.
1914
Inizio delle ostilità

Il primo giorno di novembre cominciò l'offensiva Bergmann, mentre la dichiarazione di guerra ufficiale dei russi giunse il 2 novembreWikipedia:Uso delle fonti. I russi attraversarono il confine con l'obiettivo di conquistare Doğubeyazıt e Köprüköy15. L'insieme di forze assegnate all'operazione era composto da 25 battaglioni di fanteria, 37 unità di cavalleria e 120 pezzi di artiglieria ed era diviso in due ali. Sull'ala destra il I Corpo Russo mosse da Sarıkamış in direzione di Köprüköy, che fu raggiunta il 4 novembre. Sull'ala sinistra il IV Corpo Russo mosse da Erevan verso l'altopiano Pasinler.Wikipedia:Uso delle fonti
Il 7 novembre la Terza Armata Ottomana cominciò la controffensiva, alla quale parteciparono il IX Corpo e tutte le unità di cavalleria supportate dai reggimenti tribali curdi. La cavalleria non riuscì ad eseguire l'aggiramento, mentre i curdi si dimostrarono poco affidabili. Dopo il ripiegamento della 18ª e della 30ª divisione i russi guadagnarono territorio. Gli Ottomani furono in grado di mantenere le loro posizioni a Köprüköy. Il 12 novembre, il IX Corpo, che era sotto il comando di Ahmet Fevzi Pascià, si mosse in supporto del XI Corpo sul suo fianco sinistro, e la Terza Armata iniziò a respingere i russi. Dopo l'offensiva Azap (17-20 novembre) il 3º reggimento riuscì ad entrare a Köprüköy.Wikipedia:Uso delle fonti L'unica area di successo per i russi fu sul settore meridionale dell'offensiva, dove i volontari armeni si dimostrarono una forza efficace e conquistarono Karaköse e Doğubeyazıt16. Doğubeyazıt si trovava nella parte settentrionale della provincia di Van. Alla fine di novembre il fronte si stabilizzò con i russi che controllavano un saliente di 25 km nel territorio turco lungo l'asse Erzurum-Sarıkamış. Le perdite ottomane furono elevate : 9.000 morti, 3.000 prigionieri e 2.800 disertori.

L'offensiva invernale di Enver

 Il 22 dicembre gli ottomani presero l'iniziativa per una grande offensiva su tutto il fronte, offensiva che si sarebbe conclusa con la battaglia di Sarıkamış. Secondo il piano ideato dal ministro della guerra Enver Pascià, la manovra aggirante condotta sul lato nord da due corpi (il IX ed il X) avrebbe consentito di tagliare le linee delle unità russe impegnate dall'attacco del XI Corpo. In seguito all'iniziale successo dell'operazione nemica il governatore Voroncov era favorevole ad un ripiegamento dell'Armata del Caucaso verso Kars, tuttavia il generale Judenič ignorò questa richiesta e si adoperò per organizzare la difesa di Sarıkamış.Wikipedia:Uso delle fonti Il 1 gennaio 1915 la Stanke Bey, uno dei reparti della Terza Armata entrò ad Ardahan.
Il parere degli ufficiali tedeschi appartenenti alla Missione Militare era contrario ad una operazione offensiva di queste proporzioni durante il periodo invernale17, dato che l'esercito tedesco avrebbe potuto fornire un supporto più efficace durante la primavera e l'estate.
Enver Pascià prese direttamente il comando della Terza Armata e guidò le truppe durante la campagna contro i russi. Il risultato finale fu una terribile disfatta per le truppe ottomane: solo il 10% degli uomini che parteciparono all'offensiva ritornarono sulle posizioni iniziali, ed anche Enver rinunciò per il resto della guerra al comando diretto sul campo di battaglia.
Le unità di volontari armeni svolsero un ruolo non secondario nella vittoria ottenuta dai russi, dato che condussero numerose e continuate azioni di disturbo dei movimenti nemici, e "il ritardo [delle truppe ottomane] permise all'Armata del Caucaso di concentrare un numero sufficiente di forze attorno Sarıkamış"18. Enver, dopo essere ritornato a Costantinopoli, addossò la colpa della disfatta agli armeni-ottomani che vivevano nella regione in quanto attivamente impegnati in azioni a favore della Russia19.

La Stanke Bey
 
Il 25 dicembre 1914, al termine della battaglia di Ardahan, la divisione Stanke Bey del tenente colonnello tedesco August Stange conquistò la città di Ardahan mettendo in pericolo la linea Sarıkamış-Kars vitale per le forze russe; a causa degli sviluppi sul settore principale dell'offensiva Enver modificò il piano originale in modo che la Stanke Bey desse maggiore supporto alle unità impegnate nell'attacco a Sarıkamış20.
La Stanke Bey lasciò le sue posizioni il 18 gennaio 1915 e il primo marzo ritornò sulle posizioni iniziali, dopo essere riuscita a resistere alle forze russe per due mesi, nonostante l'inferiorità numerica.
1915

Dopo Sarıkamış

In febbraio il generale Judenič fu encomiato per la vittoria e promosso comandante di tutte le truppe russe nel CaucasoWikipedia:Uso delle fonti. Il 12 febbraio Hafız Hakkı, comandante della Terza Armata morì di tifo e fu sostituito dal brigadier generale Mahmut Kamil Pascià. Compito di Kamil era rimettere l'armata in condizioni di combattere. Lo stato maggiore ottomano temeva la possibilità di una grande avanzata russa in territorio turco dopo la disastrosa battaglia di Sarıkamış. Gli Alleati (britannici e francesi) avevano richiesto alla Russia di contribuire a ridurre la pressione tedesca sul fronte occidentale. Dal canto suo la Russia richiese gli Alleati di preparare un attacco navale in modo da alleggerire la pressione sul Caucaso.Wikipedia:Uso delle fonti Le operazioni navali nel mar Nero diedero l'opportunità di rinforzare le forze russe. Inoltre la Campagna dei Dardanelli, che aveva come obiettivo la conquista di Istanbul, servì come manovra diversiva in supporto ai russi impegnati nel fronte del Caucaso21.
Nel marzo 1915 la Terza Armata, quasi completamente annientata dall'offensiva invernale, ricevette rinforzi dalla Prima e dalla Seconda Armata, anche se questi ammontavano in totale all'incirca ad una divisione, infatti lo sforzo per la battaglia di Gallipoli richiedeva quasi tutte le risorse ottomane. Sul fronte del Caucaso nel mese di marzo la situazione strategica rimaneva stabile: i russi occupavano le città turche di Eleşkirt, Ağrı e Doğubeyazıt nella parte sud; ci furono solo piccoli scontri e gli ottomani non avevano abbastanza forze per mettere al riparo la regione dell'Anatolia orientale da un eventuale attacco russo.
Marzo 1915, la resistenza di Van: truppe armene occupano una linea di difesa nella città fortificata di Van

La resistenza di Van

 Il 20 aprile cominciò la resistenza di Van, dove in quel periodo si trovavano 30.000 residenti e 15.000 rifugiati. I difensori armeni della città di Van erano circa 1.500 uomini, scarsamente armati, dato che disponevano solo di 300 fucili, 1.000 pistole ed altre armi antiche. Il conflitto con gli ottomani proseguì fino a che il generale Judenič decise di andare in soccorso. L'offensiva di Judenič cominciò il 6 maggio secondo due direzioni principali: un'ala dell'attacco prese la direzione del lago di Van, mentre una brigata di cosacchi della regione Trans-Baikal comandata dal generale Trukhin, affiancata da unità di volontari armeni puntò su Van22.
Il 21 maggio il generale Judenič arrivò a Van, ricevette le chiavi della città e della cittadella, confermò in carica il governo provvisorio armeno, con Aram Manougian come governatore. Le unità di irregolari armeni (i fedayyin) lasciarono il controllo militare della città ai russi. Una volta che Van era stata messa in sicurezza, i combattimenti per il resto dell'estate si spostarono più ad ovest23.

Il leader della resistenza armena Murad di Sebastia

Il 27 maggio 1915, durante l'offensiva russa, il parlamento ottomano approvò la legge Tehcir ed il ministro degli interni Talat Pascià oedinò la deportazione forzata di tutti gli armeni dalla regione di Van verso il sud (la Siria e la regione di Mossul). Talat Pascià, attraverso la circolare del 24 aprile 1915 (data ricordata dagli armeni come la domenica rossa), affermava che gli armeni della regione del Caucaso si erano organizzati sotto il comando dei russi e si erano ribellati contro il legittimo governo ottomano, come dimostrato dal loro comportamento a Van. La circolare dava il via libera ad una serie di arresti contro 270 leader della comunità armena a Costantinopoli, mentre i ribelli armeni della regione di Van venivano risparmiati in quanto si trovavano al di là delle linee russe.

L'offensiva estiva dei russi

Il 6 maggio, essendo le condizioni meteo diventate più miti, i russi cominciarono l'avanzata nel settore nord attraverso la valle di Tortum in direzione di Erzurum. Due divisioni ottomane, la 29ª e la 30ª provarono a respingere questa manovra. Il X corpo intanto andava al contrattacco delle forze russe.Wikipedia:Uso delle fonti Nel settore meridionale del fronte le forze turche invece non ottennero lo stesso successo. Malazgirt fu conquistata l'11 maggio, il 17 maggio i russi occuparono Van e continuarono a spingere indietro le unità turche. Le linee di rifornimento dei turchi erano continuamente a rischio, visto che le rivolte degli armeni causavano numerosi problemi dietro la linea del fronte. La regione montagnosa a sud del lago di Van poteva essere occupata dai russi senza difficoltà: i turchi dovevano difendere una linea di oltre 600 km con solo 50.000 uomini e 130 pezzi di artiglieria, mentre i numeri del nemico erano di gran lunga superiori.
Sul piano militare il 13 giugno i russi si trovavano di nuovo sulla loro linea di partenza. Ritenendo che gli ottomani fossero sempre in condizioni di inferiorità, Judenič decise per una nuova offensiva, assegnata al IV Corpo del Caucaso, che era stato appena formato24.
L'offensiva estiva si iniziò il 19 giugno, questa volta nella regione a nord-est del lago di Van, dove i russi, comandati da Oganovski, attaccarono sulle alture ad ovest di Malazgirt. I russi avevano sottostimato le forze militari turche nella zona, in grado di lanciare una massiccia controffensiva.
Le unità russe mossero da Malazgirt verso Muş, però non erano a conoscenza del fatto che anche il IX Corpo turco, affiancato dalla 17ª e dalla 18ª divisione stava muovendo verso il settore di Muş. Sebbene dovessero affrontare condizioni estremamente difficili, i turchi stavano portando a termine una operazione di riorganizzazione molto efficiente: furono create due Forze di Spedizione, la 1ª e la 5ª, che furono schierate a sud delle posizioni degli attaccanti russi, inoltre fu organizzato il "Gruppo dell'Ala Destra" posto sotto il comando del brigadier generale Abdülkerim Pascià. Questo Gruppo era indipendente dalla Terza Armata e Abdülkerim Pascià riportava direttamente ad Ismail Enver. Il nuovo schieramento dei turchi consentiva loro di affrontare gli attacchi dei russi e reagire con maggiore prontezza.

Il granduca Nikolaj

 Il 24 settembre il granduca Nikolaj Romanov assunse il ruolo di comandante in capo di tutte le forze russe nel Caucaso in sostituzione del generale Voroncov-Daškov; in realtà il granduca era stato appena rimosso dall'incarico di comandante supremo di tutte le forze armate russe e assegnato a questo "fronte secondario". Sul campo il ruolo di comandante dell'Armata Russa del Caucaso rimaneva sempre al generale Judenič. Il fronte rimase tranquillo da ottobre fino alla fine dell'anno. Judenič impiegò questo tempo per rioganizzare le forze russe: all'inizio del 1916 l'Armata del Caucaso contava circa 200.000 effettivi e 380 pezzi di artiglieria.
Nel campo avversario la situazione era molto differente, dato che lo Stato Maggiore ottomano non era riuscito a compensare le perdite subite nel corso dell'anno, mentre la campagna di Gallipoli assorbiva gran parte delle risorse e dei rinforzi. I tre corpi della Terza Armata Ottomana, il IX, il X e l'XI, non ricevettero rinforzi, mentre le due forze di spedizione, la 1ª e la 5ª, furono ridispiegate sul fronte della Mesopotamia. Il ministro Enver, dopo non essere riuscito l'anno precedente ad ottenere i risultati sperati con l'offensiva invernale, considerando più a rischio gli altri fronti aveva deciso che il Caucaso era un settore di importanza secondaria.
All'inizio del 1916 gli ottomani potevano contare su 126.000 uomini, ma i combattenti effettivi erano solo 50.000; gli armamenti ammontavano a 74.057 fucili, 77 mitragliatrici e 180 pezzi di artiglieria. Pertanto la forza ottomana era grande solo sulla carta non sul terreno e l'alto comando dava erroneamente per scontato che i russi non avrebbero attaccato ancora.
1916

La grande offensiva invernale

 All'inizio di gennaio del nuovo anno le truppe comandate dal generale Judenič lasciarono a sorpresa i loro quartieri invernali per muovere verso la fortezza ottomana di Erzurum. Furono assegnati all'offensiva il I Corpo del Caucaso ed il II Corpo del Turkistan, che si sarebbero mossi sull'asse Kars-Erzurum, proprio dove le difese ottomane dovevano essere più forti25. La Terza Armata ottomana era sempre composta da tre Corpi (il IX, il X e l'XI) a ranghi ridotti, pertanto era in forte svantaggio numerico rispetto ai russi26.
L'inverno non è la stagione adatta per una campagna militare nella regione del Caucaso: l'anno precedente le temperature, le condizioni atmosferiche e lo stato delle vie di comunicazione contribuirono al disastro che annientò la Terza Armata guidata da Ismail Enver. Lanciando a sua volta una offensiva invernale, Judenič riteneva di poter cogliere impreparate le difese ottomane. L'effetto sorpresa consentì infatti ai russi durante la battaglia di Koprukoy (10-18 gennaio 1916) di distruggere una divisione ottomana che si trovava nei suoi quartieri invernali. Inoltre le perdite complessive subite dagli ottomani avevano ridotto gli effettivi della Terza Armata in quel settore del fronte a soli 50.000 uomini27.
Dopo una settimana di combattimenti gli ottomani si ritirarono verso la fortezza di Erzurum, ritenuta inespugnabile, la seconda fortezza in ordine di importanza nell'impero ottomano dopo quella di Adrianopoli28. Sulla base anche di questo erroneo convincimento l'alto comando ottomano non mandò i rinforzi attesi in supporto della Terza Armata, già decimata dalla battaglia di Koprukoy. L'11 febbraio i russi attaccarono le linee ottomane a difesa di Erzurum, impiegando 250 pezzi di artiglieria per costringere alla resa la fortezza2930.
Il 16 febbraio Mahmut Kamil diede ordine ai reparti della Terza Armata di ritirarsi da Erzurum, visto il vantaggio numerico (3 a 1) che le forze di Judenič avevano rispetto agli ottomani. L'assalto ad Erzurum, che era stata sede del quartier generale della terza Armata, era costato agli ottomani la perdita di 25.000 soldati, 327 pezzi di artiglieria e rifornimenti in gran quantità31.

Kemal sul Caucaso
 
Vista la situazione sul campo quasi totalmente compromessa, l'alto comando ottomano cominciò a rendersi conto del pericolo di una sconfitta totale nel settore del Caucaso e decise pertanto a marzo di schierare la Seconda Armata sul fianco destro - ossia a sud - della Terza Armata. A capo della nuova armata era posto Ahmet İzzet Pascià32. La Seconda Armata era formata da 4 corpi: il II Corpo, il III Corpo, il IV Corpo ed il XVI Corpo, quest'ultimo sotto il comando del brillante generale Mustafa Kemal.
Ad aprile l'Armata del Caucaso proseguiva l'offensiva, puntando da Erzurum in due direzioni: più a nord sul settore del mar Nero, i russi conquistavano la città di Trebisonda il 16 aprile, mentre altre unità avanzavano a sud verso Muş e Bitlis. L'antica Trebisonda, Trabzon per i turchi, era l'unico grande porto a disposizione degli ottomani, che si ritrovavano pertanto in condizioni di grave svantaggio, non potendo contare su una rete efficiente di comunicazioni stradali e ferroviarie33. L'unica buona notizia per la Terza Armata era l'arrivo come rinforzo del V Corpo, formato da reparti di veterani che avevano combattuto nella vittoriosa campagna dei Dardanelli34 contro gli alleati occidentali.
L'offensiva russa a sud costrinse la Seconda Armata a ripiegare verso l'interno dell'Anatolia, mentre i russi conquistavano dopo due battaglie sia Muş sia Bitlis (2 marzo - 24 agosto). Bitlis era l'ultima piazzaforte ottomana che potesse impedire ai russi di invadere l'Anatolia centrale e la Mesopotamia.
Nel settore nord Judenič, in risposta ai tentativi ottomani di riconquistare Trebisonda, supportato dai volontari armeni di Murad di Sebastia, ingaggiò il nemico nella battaglia di Erzincan (2-25 luglio), che portò alla conquista russa di quell'importante centro di comunicazione. Ad agosto il XVI Corpo di Kemal riconquistò Muş e Bitlis. Ismail Enver assegnò alla Seconda Armata e ad al XVI Corpo di Mustafa Kemal il compito di organizzare le operazioni ottomane nella zona di Muş e Bitlis, appena conquistate dai russi. Ahmet İzzet Pascià lanciò la controffensiva sul settore meridionale il 2 agosto, e i combattimenti attorno al lago di Van proseguirono per il resto dell'estate. Kemal riuscì a riconquistare Muş e Bitlis il 15 agosto. Essendo la Terza Armata a nord non più in grado di creare problemi, Judenič poté spostare uomini e risorse per contrastare la controffensiva di Ahmet İzzet35.
La Seconda Armata, oltre a dover affrontare sul campo parte dell'Armata del Caucaso, comandata dal generale Tovmas Nazarbekian, ed i volontari armeni controllati da Andranik Toros Ozanian, doveva confrontarsi anche con la ribellione della popolazione armena. Il successo iniziale di Kemal non portò ad una vittoria decisiva; la Seconda Armata ebbe grandi difficoltà dal punto di vista logistico e per i rifornimenti. Il 26 settembre l'offensiva di Ahmet İzzet era conclusa, Muş e Bitli erano state riconquistate dai russi e gli ottomani avevano perso circa 30.000 soldati fra morti e feriti, a fronte di un'avanzata ridotta sul campo36. L'offensiva della Seconda Armata non aveva ottenuto i risultati attesi: i russi avevano preso le opportune contromisure rafforzando le proprie linee, ed entro la metà di agosto erano in grado di rispondere con una controffensiva.
Dal punto di vista strategico la marina russa continuava a dominare sul mar Nero. Gli ottomani impiegarono il resto dell'anno 1916 per portare a termine le necessarie modificha alla struttura operativa ed organizzativa sul fronte del Caucaso, mentre, per loro fortuna, i russi rimasero inattivi per tutto il periodo. L'inverno 1916-17 fu molto duro, fatto che rese i combattimenti impossibili.

1917
Cambiamenti in Russia

 La situazione militare non cambiò durante la primavera del 1917, ma i piani russi per una nuova offensiva non furono messi in pratica. La Russia infatti si trovava coinvolta in una grave agitazione politica e sociale che influenzava anche i ranghi dell'esercito. In seguito alla rivoluzione del febbraio 1917, si fermarono le operazioni militari russe e le unità militari iniziarono a ritirarsi dalle posizioni sul fronte.
Il malcontento provocato dalla guerra era diffuso sia nel popolo russo sia fra i soldati; l'esercito russo iniziò lentamente a disintegrarsi fino al punto che alla fine del 1917 non c'era più alcuna forza militare russa nel Caucaso. Gli ottomani non erano in grado di approfittare della situazione, vista il pessimo stato delle loro unità. Enver spostò 5 divisioni da questo settore verso la Palestina e la Mesopotamia per contrastare la pressione dei britannici.
Il 9 marzo 1917, secondo le direttive del Governo Provvisorio, l'amministrazione civile russa del Caucaso venne trasformata con la fondazione del Comitato Speciale per la Transcaucasia, presieduto dal membro della Duma di Stato V. A. Kharlamov che sostituiva il viceré nominato dallo zar, il granduca Nikolaj il giovane. Il nuovo governo inoltre decise il trasferimento nell'Asia Centrale del generale Judenič, che un mese dopo rassegnò le dimissioni dall'esercito.
Sviluppi in Transcaucasia
 Durante l'estate l'Amministrazione per l'Armenia occidentale riteneva indispensabile una conferenza che decidesse misure di emergenza e adottasse un piano per formare entro il mese di dicembre una milizia di 25.000 uomini sotto il comando di Andranik. La divisione armena di Andranik era formata da 3 brigate: la I era formata dai reggimenti di Erzincan e di Erzurum, la II era composta dai reggimenti di Khnus e di Alashkert, la III brigata comprendeva il reggimento di Van ed il reggimento a cavallo di Zeytoun. Il commissario civile Hakob Zavriev promosse Adrianik a maggiore generale.
Nel novembre 1917 fu creato a Tbilisi il primo governo della Transcaucasia indipendente, quando il Commissariato della Transcaucasia o Sejm37 della Transcaucasia prima affiancò e poi sostituì il Comitato per la Transcaucasia, in seguito alla presa del potere dei bolscevichi a San Pietroburgo. Il Commissariato era guidato dal menscevico georgiano Nikolaj Chkheidze.
Nello stesso periodo ad Erevan i leader dell'Armenia Orientale costituivano il Corpo dell'esercito armeno, al cui comando veniva posto il generale Nazarbekov. Il Corpo armeno era suddiviso in due divisioni:
    •     la prima divisione, comandata dal generale Christophor Araratov e formata da:
    •     I reggimento (Erzurum ed Erzincan)
    •     II reggimento (Khnus)
    •     III reggimento (Erevan)
    •     IV reggimento (Erzincan ed Erevan)
    •    
    •     la seconda divisione, comandata dal colonnello Movses Silikyan e formata da:
    •     V reggimento (Van)
    •     VI reggimento (Erevan)
    •     VII reggimento (Alexandropol)
    •     VIII reggimento (Alexandropol)
    •    

Il capo di stato maggiore del Corpo armeno era il generale Vickinski; ognuna delle due divisioni era suddivisa in quattro reggimenti, oltre ai reggimenti di truppe regolari vi era un reggimento di deposito. La forza totale del Corpo armeno era di 32.000 uomini. A parte le truppe regolari, erano stati armati anche i civili in grado di combattere: fu formata una milizia di civili che comprendeva fra 40.000 e 50.000 uomini. L'armamento delle truppe proveniva dall'arsenale russo; un certo numero di ausiliari, addetti ai servizi medici e di supporto e le unità di guarnigione completavano la struttura di questa nuova forza armata.
Il 5 dicembre 1917 ottomani e russi firmarono l'armistizio di Erzincan (l'accordo di cessate il fuoco di Erzincan), che segnò la fine del conflitto fra la Russia e l'Impero ottomano38.
Tra la data dell'armistizio ed il 7 febbraio 1918 i reggimenti del Corpo armeno furono rapidamente ridispiegati sul fronte.
Questa mobilitazione creò una sorta di grande stupore fra i soldati russi che abbandonavano la prima linea per fare ritorno a casa, visto che i loro ex compagni d'arme invece si stavano muovendo verso la linea del fronte.

1918
La riconquista ottomana

 Il 1º gennaio 1918 gli unionisti turchi Ittihad si mossero per ottenere l'amicizia dei bolscevichi. Nel momento in cui l'armata russa era scomparsa, i vasti territori del sud della Russia erano rimasti senza protezione militare. Le divisioni di Nazarbekian entro la fine di gennaio erano andate ad occupare i principali nodi strategici fra Erevan, Van ed Erzincan.
Vehib Pascià si confrontava con il Congresso degli Armeni Orientali. In febbraio Tovmas Nazarbekian era il comandante del fronte del Caucaso mentre Andranik Toros Ozanian prese il comando delle forze armene all'interno dell'Impero Ottomano.
Nonostante la mobilitazione, le forze armene nel Caucaso ammontavano a poche migliaia di uomini e circa 200 ufficiali. L'offensiva della Terza Armata cominciò il 5 febbraio 1918, le forze ottomane avanzarono verso est attraverso il fronte fra Tirebolu e Bitlis. I territori persi contro i russi furono ripresi agli armeni. Numerose città furono liberate in pochi giorni: Kelkit (7 febbraio), Erzincan (13 febbraio), Bayburt (19 febbraio) e Tercan (22 febbraio). Il fondamentale snodo strategico di Trebisonda sul mar Nero fu ripreso il 25 febbraio, consentendo così di far arrivare rapidamente altri rinforzi via mare. Gli armeni provarono a resistere per tenere la città di Erzurum, ma il I Corpo Turco del Caucaso la conquistò il 12 marzo. Malazgirt, Hınıs, Oltu, Köprüköy e Tortum caddero nelle mani dei turchi entro le due settimane seguenti.

Il trattato di Brest-Litovsk

 Il 3 marzo il gran visir Talat Pascià firmò con la nuova repubblica sovietica russa il trattato di Brest-Litovsk, con il quale la Russia bolscevica cedeva agli ottomani anche ex territori russi comprendenti le città di Batumi, Kars e Ardahan, vale a dire i territori che erano stati annessi alla Russia dopo la guerra russo-turca del 1877-78. Il trattato inoltre prevedeva l'istituzione dello stato indipendente della Transcaucasia e, come clausola segreta, l'obbligo per i russi di smobilitare le forze militari armene39. Il 14 marzo 1918 cominciò la conferenza di pace di Trebisonda, alla quale parteciparono inviati dell'Impero Ottomano ed una delegazione della dieta della Transcaucasia (Sejm della Transcaucasia). Enver Pascià offrì la rinuncia ottomana a tutte le pretese nel Caucaso in cambio del riconoscimento della riacquisizione delle province dell'Anatolia Orientale, come previsto dal Trattato di Brest-Litovsk40.
Il 5 aprile 1918 il capo della delegazione della Transcaucasia Akaki Chkhenkeli accettò il trattato di Brest-Litovsk come base per i negoziati ed informò le autorità governative sulla necessità di accettare tale posizione41. Il sentimento prevalente a Tbilisi era ben diverso, visto che i georgiani si consideravano in stato di guerra con l'Impero Ottomano42. L'11 maggio si iniziò una nuova conferenza di pace a Batumi43; durante la conferenza gli ottomani allargarono le loro richieste, che includevano adesso anche Tbilisi, Alessandropoli ed Echmiadzin, in previsione della costruzione di una linea ferroviaria fra Kars e Julfa verso Baku. I membri georgiani ed armeni della delegazione della Transcaucasia iniziarono a temporeggiare, ma il 21 maggio l'armata ottomana si rimise in movimento. Il conflitto riprese e furono combattute tre nuove battaglie: la battaglia di Sardarapat (21-29 maggio), la battaglia di Kara Killisse (24-28 maggio) e la battaglia di Bash Abaran (21-24 maggio).
La conferenza di pace fra ottomani e i governi della Transcaucasia con la mediazione tedesca si chiudeva senza risultati il 24 maggio. Sebbene gli armeni fossero riusciti a sconfiggere il nemico nella battaglia di Sardarapat, gli ottomani vinsero nella seguente battaglia e dispersero l'armata armena.
Il 26 maggio la Georgia abbandonava la federazione della Transcaucasia e proclamava una repubblica indipendente, secondo le direttive della missione tedesca guidata da Friedrich Freiherr Kress von Kressenstein e Friedrich Werner von der Schulenburg. Alla proclamazione della Repubblica Democratica di Georgia seguì la firma del trattato di Poti il 28 maggio. Dichiararono la propria indipendenza anche la Repubblica Democratica dell'Azerbaigian e la Repubblica Democratica di Armenia, costretta a firmare il trattato di Batumi il 4 giugno.
Il generale Andranik riuscì a far fuggire la popolazione armena di Van dall'Impero Ottomano verso l'Armenia Orientale. Le sue truppe combatterono fra le montagne del Karabakh e Zangezur, dove era stata fondata la Repubblica dell'Armenia montanara.
Nonostante la firma del trattato di Batumi non tutti gli armeni si rassegnarono alle annessioni dei turchi: nella regione del Karabakh gli armeni comandati da Andranik Toros Ozanian resistettero alla Terza Armata durante l'estate del 1918 e fondarono la Repubblica dell'Armenia montanara44.

Lo scontro con i tedeschi
 
A giugno l'arrivo di truppe tedesche in Georgia diede il via ad una crescente rivalità fra ottomani e tedeschi per la corsa alle risorse della regione, in modo particolare i pozzi di petrolio di Baku45. Fin dall'inizio di giugno, l'armata ottomana comandata da Vehip Pasha aveva rinnovato la sua offensiva lungo la strada principale per Tbilisi, confrontandosi con una forza congiunta tedesco-georgiana. Il 10 giugno la Terza Armata aveva attaccato e preso molti prigionieri, provocando l'immediata reazione del governo tedesco che aveva minacciato di ritirare le proprie truppe ed il proprio supporto agli ottomani. Il governo ottomano fu costretto a cedere alle pressioni dei tedeschi e decise di sospendere l'avanzata in Georgia, riorientando la propria offensiva militare verso l'Azerbaigian e l'Iran46.
La missione militare tedesca partì per Constanţa, portando con sé una delegazione georgiana composta da Chkhenkeli, Zurab Avalishvili e Niko Nikoladze, che erano stati incaricati dal governo della Georgia di portare avanti i negoziati per in trattato conclusivo da firmarsi a Berlino. La disfatta militare subita dai tedeschi nel novembre 1918 rese comunque inutili questi negoziati.

La visione strategica di Enver Pascià si fece molto più ambiziosa e l'obiettivo non era la semplice riconquista dei territori persi 40 anni prima. A marzo Enver aveva ordinato la creazione di una nuova forza militare, chiamata l'Armata dell'Islam. In realtà questa forza non aveva neanche la dimensione di un Corpo, comprendendo fra 14.000 e 25.000 uomini, tutti musulmani e di lingua turca.

La fine della campagna

 Nel mese di luglio Enver ordinò all'Armata dell'Islam di muovere verso le regioni controllate dalla Dittatura Centrocaspiana, con l'obiettivo di prendere Baku sul mar Caspio. Questa nuova offensiva era contrastata dai tedeschi, in quanto tutta la Russia meridionale era considerata dalla Germania zona di conquista esclusiva. L'Armata dell'Islam marciò verso la Repubblica Democratica dell'Azerbaigian e quindi su Baku. Nel settembre del 1918, dopo una vittoriosa battaglia l'Armata obbligò la Dunsterforce britannica ad abbandonare la città.
In ottobre il nuovo obiettivo delle truppe ottomane era il generale armeno Andranik, che aveva stabilito la sua area di resistenza fra le montagne del Karabakh e Zangzeur. Un distaccamento di 5000 soldati della Terza Armata ingaggiò in combattimento le milizie di Andranik a Shishi47.
Lo scontro fu duro, però non risultò decisivo. La milizia armena di Andranik riuscì a decimare una unità ottomana che stava provando ad avanzare verso il fiume Varanda. Il conflitto fra armeni e ottomani proseguì fino all'armistizio di Mudros del 30 ottobre 1918, la fine ufficiale della campagna del Caucaso. Dopo l'armistizio le forze ottomane iniziarono a ripiegare mentre gli armeni di Andranik misero sotto controllo la regione del Nagorno-Karabakh48. L'armistizio inoltre diede al generale Andranik la possibilità di stabilire una base per una successiva espansione verso oriente e di creare un corridoio in direzione di Nakhichevan49.
L'impero ottomano arrivava alla fine della prima guerra mondiale dopo aver perso la campagna di Persia, la campagna del Sinai e della Palestina e la campagna di Mesopotamia, tuttavia sul Caucaso aveva ottenuto un grande successo, riconquistando dalla Russia tutti i territori che aveva perso nell'Anatolia Orientale.

Conseguenze


L'Impero Ottomano era stato sconfitto dagli alleati, però i nuovi confini sul Caucaso non erano stati stabiliti. Due anni dopo l'armistizio, il 10 agosto 1920 fu firmato a Sèvres il trattato di pace fra Alleati, Potenze Associate ed Impero Ottomano.

Dispute territoriali


 L'armistizio non portò una immediata pace nel Caucaso: subito dopo la fine del conflitto principale cominciò la guerra georgiano-armena del 1918, un'altra guerra coinvolse Armenia e Azerbaigian, mentre sull'altro fronte era in corso la guerra d'indipendenza turca, condotta dal Movimento Nazionale Turco guidato da Mustafa Kemal.
I confini politici della nuova Armenia previsti dal trattato di Sèvres del 1920
 Al termine della guerra con gli armeni (24 settembre - 2 dicembre 1920), il trattato di Alessandropoli consentì ai turchi di acquisire gran parte dei territori armeni a cui avevano rinunciato col trattato di Sèvres.

Sovietizzazione del Caucaso

 Il 27 aprile 1920 il governo della Repubblica Democratica dell'Azerbaigian fu informato che forze sovietiche, dopo aver sconfitto le truppe bianche di Anton Denikin, stavano per attraversare il confine settentrionale ed invadere il paese. Ad ovest gli armeni stavano ancora occupando ampie zone dell'Azerbaigian, mentre ad est i comunisti azeri erano in rivolta contro il governo.
La Repubblica Azera si arrese ai sovietici, però molti ufficiali e truppe della milizia azera provarono a resistere all'avanzata delle forze sovietiche, e ci volle tempo prima che i sovietici stabilizzassero la nuova Repubblica Socialista Sovietica Azera.
Il governo della Repubblica Democratica di Armenia si arrese ai sovietici il 4 dicembre 1920. Il 5 dicembre il Comitato Rivoluzionario Armeno (Revkom), formato in larga parte di armeni provenienti dalla repubblica sovietica azera, entrò nella capitale Erevan. Il 6 dicembre anche la polizia segreta di Feliks Dzeržinskij, la Ceka, si installò in città chiudendo ufficialmente la storia della Repubblica Democratica di Armenia50. Fu proclamata Repubblica Socialista Sovietica Armena, guidata da Aleksandr Miasnikyan.
Il 25 febbraio 1921, a pochi giorni dall'inizio dell'invasione del paese, le truppe sovietiche entravano a Tbilisi, capitale della Georgia. Il 23 ottobre, con la firma del trattato di Kars che faceva seguito al precedente trattato di Mosca del marzo 192151, cessavano le ostilità. Il trattato di Kars, ratificato a Erevan l'11 settembre 192252, era un trattato fra la Grande Assemblea Nazionale della Turchia - che avrebbe proclamato la repubblica di Turchia nel 1923 - ed i rappresentanti della Russia bolscevica, dell'Armenia sovietica, dell'Azerbaigian sovietico e della Georgia sovietica. Tutte le 4 repubbliche sovietiche erano entrate a far parte dell'Unione Sovietica con la firma del trattato di unione del 21 dicembre 19215354.


Teatro africano della prima guerra mondiale


Data
3 agosto 1914 - 23 novembre 1918
Luogo
Camerun, Togo, Namibia, Tanzania, Zambia, Mozambico

Il teatro africano della prima guerra mondiale è costituito da una serie di campagne, geograficamente separate, che avevano l’obiettivo di conquistare le colonie dell’Impero tedesco. In particolare, le azioni militari riguardarono Togo (ex Togoland), Camerun (Kamerun), la moderna Namibia (Africa Tedesca del Sud-Ovest) e la vasta regione dell’Africa Orientale Tedesca (corrispondente alle attuali Tanzania, Burundi e Ruanda). Le colonie tedesche vennero occupate dalle potenze dell’intesa entro i primi due anni di guerra, con l’eccezione dell’Africa Orientale, che resistette fino al novembre 1918.
 Altre limitate azioni ebbero luogo in Africa Settentrionale (in Egitto, contro l’Impero Ottomano, ed in Libia e Marocco contro i Senussi).

Situazione
 
Il Regno Unito, con la sua potenza navale, aveva il potere e le risorse per intraprendere una conquista delle colonie tedesche in Africa. La Germania, infatti, era l’ultima arrivata nella “corsa all’Africa”, e molte delle colonie erano di recente acquisizione e non ben difese. Inoltre, queste erano praticamente circondate dai possedimenti coloniali delle altre potenze, ovvero Francia, Impero Britannico, Belgio e, successivamente, Portogallo. Le colonie tedesche, inoltre, erano praticamente impossibilitate a ricevere rifornimenti dalla madrepatria.
Africa Occidentale

 In Africa Occidentale, la Germania aveva le due colonie del Togoland e del Kamerun.
 Il Togoland era scarsamente difeso, e la sua guarnigione era composta principalmente da una forza di polizia locale. La conquista fu effettuata da inglesi e francesi, e richiese una ventina di giorni (dal 6 al 25 agosto 1914). L’operazione, tuttavia, permise la navigazione in sicurezza del basso fiume Volta, e consentì alle potenze dell’intesa di appropriarsi della più potente stazione di comunicazione radio dell’epoca, a Kamina1.
 La completa conquista della colonia del Kamerun richiese invece un paio d’anni. La guarnigione tedesca, composta da 4.000 soldati (1.000 nazionali e 3.000 di colore), dovette affrontare una forza di invasione di 13.000 uomini, costituita da inglesi, francesi e belgi. Le operazioni iniziarono il 5 settembre, ed alla metà del 1915 tutte le principali città erano state conquistate. Alcuni soldati riuscirono a fuggire nella Guinea Spagnola. La guarnigione a difesa dell’ultimo forte tedesco sul territorio del Kamerun si arrese nel febbraio 19162.
 Con la vittoriosa conclusione di queste due operazioni, le potenze dell’Intesa riuscirono ad impadronirsi di ben quattro potenti stazioni radio (tra cui quella già citata di Kamina) e di attrezzate installazioni portuali.

Africa del Sud-Ovest

 La colonia dell’Africa del Sud-Ovest Tedesca era un arido territorio vasto ed arido, in massima parte costituito dal deserto della Namibia. La maggioranza della popolazione tedesca risiedeva presso la capitale Windhuk, situata a circa 320 chilometri dalla costa. I tedeschi, complessivamente, potevano contare su circa 3.000 soldati regolari e 7.000 coloni adulti. Inoltre, la Germania aveva relazioni molto amichevoli con i Boeri in Sud Africa, che avevano combattuto una guerra contro l’Impero Britannico dodici anni prima.
 Gli inglesi inizialmente, per questa operazione, iniziarono a formare ed equipaggiare delle unità costituite, appunto, da Boeri. Tuttavia, tale iniziativa trasformò in una vera e propria rivolta di questi ultimi verso l’Impero: ben 12.000 boeri, infatti, diedero vita alla cosiddetta Ribellione Maritz, che fu repressa nel sangue entro la fine del 1914.
 Le operazioni militari contro le forze tedesche iniziarono nel settembre 1914, ma un primo tentativo di invasione, da sud, venne bloccato nella battaglia di Sandfontein. Gli anglo-boeri ripresero l’iniziativa nel marzo 1915, quando ben 67.000 uomini divisi in quattro colonne varcarono la frontiera ed invasero la colonia tedesca. La capitale cadde il 12 maggio, ed il 9 luglio le ultime forze germaniche si arresero.

Africa Orientale

 Nell’Africa Orientale Tedesca gli inglesi non furono in grado di sottomettere completamente i difensori della colonia, nonostante quattro anni di combattimenti e decine di migliaia di caduti (il 99% dei quali a causa di malattie). Il comandante tedesco, colonnello (poi maggior generale) Paul Emil von Lettow-Vorbeck, combatté una campagna di guerriglia che durò, in pratica, tutta la guerra, anche se il suo impatto complessivo sugli eventi bellici fu minimo.
La resa di Lettow-Vorbeck, in un dipinto di artista anonimo africano
 La tattica tedesca consistette principalmente in attacchi improvvisi e rapide imboscate, anche se non mancarono le battaglie di una certa intensità (come quelle di Tanga e Jassin, le cui alte perdite indussero il comandante tedesco a puntare sulla guerriglia). Nonostante tutti gli sforzi, gli inglesi non riuscirono mai a catturare Lettow-Vorbeck ed i suoi uomini, che si muovevano di continuo e catturavano i rifornimenti militari inglesi e portoghesi.
 Nel 1916, il compito di annientare Lettow-Vorbeck ed i suoi uomini venne affidato all’esperto comandante boero Jan Smuts, ai cui ordini fu posta una consistente forza armata. Smuts ottenne buoni successi, in particolare catturando la linea ferroviaria e parecchi territori a nord della stessa, mentre le truppe belghe, provenienti dal Congo, occuparono la parte orientale della colonia, incluso il Ruanda-Urundi e la capitale Tabora. Tuttavia, non si riuscì a sconfiggere l’armata tedesca, che rimase attiva. Nel novembre 1917, i tedeschi sconfinarono nell’Africa Orientale Portoghese, rientrarono poi in Africa Orientale Tedesca e si rifugiarono infine nella Rhodesia Settentrionale. Qui, il 14 novembre 1918, Lettow-Vorbeck, dopo aver ricevuto un telegramma che comunicava la fine delle ostilità, accettò un cessate il fuoco e si arrese formalmente il 23 dello stesso mese.
 La sua armata non venne mai sconfitta in battaglia, ed al suo ritorno in patria venne trattato come un eroe.

Africa settentrionale

 Le operazioni militari in Nordafrica furono piuttosto limitate. Infatti, nel 1915, le truppe ottomane, con l’aiuto di istruttori militari tedeschi e dell’appena deposto Chedivè Abbas Hilmi II, tentarono di impadronirsi del canale di Suez. Tuttavia, gli inglesi riuscirono a respingere le truppe turche, ed a penetrare successivamente in Medio Oriente.
 Un’altra operazione, sempre condotta dagli ottomani, riguardò l’infiltrazione di agenti in Libia ed in Marocco, in modo da fomentare le ribellioni contro i rispettivi colonizzatori (nello specifico, si trattava di Italia e Francia). In particolare, i Senussi ottennero buoni successi nel Sahara, riuscendo a cacciare gli italiani dal Fezzan e tenendo impegnate in Africa truppe inglesi e francesi.
 Le rivolte berbere proseguirono anche dopo la fine delle ostilità, e furono domate solo negli anni venti-trenta. Da citare inoltre l'effimera partecipazione del Regno del Darfur come alleato dell'Impero Ottomano; il paese fu immediatamente occupato dai britannici del Sudan.

Il dopoguerra
 
La Grande Guerra segnò la fine del colonialismo tedesco. I suoi possedimenti, infatti, vennero divisi tra Gran Bretagna e Francia. In particolare:
    •     Kamerun e Togoland: divisi tra Gran Bretagna e Francia;
    •     Africa Orientale Tedesca: Tanganika alla Gran Bretagna, con il Ruanda-Urundi al Belgio;
    •     Africa del Sud-Ovest Tedesca: mandato al Sudafrica.

Quasi tutte le ex colonie tedesche diventarono indipendenti a partire dal 1960, con l’eccezione dell’Africa del Sud-Ovest (oggi Namibia), nel 1990.
Bibliografia
    •     Hew Strachan, The First World War: To Arms. Oxford University Press, 2001, ISBN 0-19-926191-1 ( Versione on-line su Google Books)


Teatro dell'Asia e del Pacifico della prima guerra mondiale


Data
3 agosto 1914 - 1917
Luogo
Cina, Arcipelago di Bismarck, Isole Caroline, Sporadi equatoriali, Nuova Guinea Tedesca, Samoa Tedesche, Guam, Isole Marianne, Isole Marshall, Tahiti

Il Teatro dell'Asia e del Pacifico della prima guerra mondiale fu la relativamente poco sanguinosa conquista dei possedimenti coloniali dell'Impero Tedesco nell'Oceano Pacifico ed in Cina. L'azione militare sicuramente più significativa fu la conquista, effettuata principalmente dalle truppe dell'Impero Giapponese, della piazzaforte tedesca di Tsingtao (oggi in Cina). Tuttavia, ulteriori piccole azioni di combattimento ebbero luogo a Bita Paka e Toma, in Nuova Guinea. Tutti gli altri possedimenti austroungarici e tedeschi in Asia e nel Pacifico caddero senza spargimento di sangue.

Assedio di Tsingtao

Tsingtao era la più significativa base tedesca della zona. Le sue difese consistevano in circa 3.600 uomini, inclusi marine, truppe coloniali cinesi e marinai austroungarici. In appoggio ai difensori, vi erano un piccolo numero di navi da guerra della Kaiserliche Marine e della k.u.k. Kriegsmarine. I giapponesi inviarono una potente flotta, con un esercito di circa 23.000 soldati. Ulteriori 1.500 furono inviati dall'Impero Britannico.
Il bombardamento alla fortezza iniziò il 31 ottobre 1914, e l'assalto delle fanterie ebbe luogo la notte del 6 novembre. La guarnigione si arrese il giorno successivo. Gli austro-tedeschi ebbero 199 morti e 504 feriti, mentre le perdite degli attaccanti furono di 248 morti e 1.335 feriti (oltre ad ulteriori 271 giapponesi, che persero la vita nell'affondamento dell'incrociatore Takachiho ad opera della torpediniera tedesca S-90).

Le colonie del Pacifico
 
I possedimenti coloniali tedeschi nell'area del pacifico erano costituiti da una miriade di piccole isole, distanti tra loro e scarsamente presidiate. La difesa di questi possedimenti era in pratica affidata alle navi dello Squadrone tedesco dell'Asia Orientale, ma allo scoppio della guerra il suo comandante, ammiraglio Maximilian von Spee, decise di riportare in patria le sue navi, lasciando così le colonie tedesche senza protezione.
Il 30 agosto 1914 1.400 soldati neozelandesi, scortati da incrociatori australiani e francesi, sbarcarono nella colonia tedesca delle Samoa, occupandola senza spargimenti di sangue. L'11 settembre 1914 500 soldati australiani sbarcarono sull'isola di Neu Pommern (oggi Nuova Britannia), parte della colonia della Nuova Guinea Tedesca, scontrandosi con circa 300 tra poliziotti e soldati nativi arruolati dai tedeschi presso la località di Bita Paka. Il 17 settembre le rimanenti forze tedesche si arresero, e l'intera colonia venne occupata dagli australiani.
In ottobre, la I Squadra giapponese dei Mari del Sud salpò alla volta della Micronesia, dove i tedeschi possedevano numerose isole e atolli. Il 7 ottobre i giapponesi conquistarono Yap ed entro la fine del mese si assicurarono, praticamente senza combattere, anche il resto dell'arcipelago delle isole Caroline, oltre alle isole Marshall e alle isole Marianne. L'ultima colonia tedesca del pacifico, l'isola di Nauru, si arrese agli australiani il 14 novembre 1914.
Il tenente Hermann Detzner fu l'ultimo militare dell'Impero tedesco ad arrendersi al termine della prima guerra mondiale. Detzner era a capo di una spedizione scientifica inviata all'inizio del 1914 nelle giungle inesplorate dell'interno della Nuova Guinea, per verificare la corrispondenza dei confini della colonia tedesca; privo di contatti radio, rimase all'oscuro dello scoppio della guerra fino a che, ritornato sulla costa, non scoprì che la colonia era stata invasa dagli australiani. Rifiutandosi di arrendersi, Detzner si rifugiò nell'interno dell'isola con un piccolo gruppo di soldati nativi, compiendo nei successivi quattro anni qualche scorreria ai danni dei villaggi più interni e sfuggendo alle pattuglie australiane anche grazie all'aiuto di un gruppo di missionari tedeschi. Fu proprio da questi missionari che Detzner venne a conoscenza dell'armistizio firmato dalla Germania l'11 novembre 1918; il 9 dicembre 1918, a 28 giorni dalla fine delle ostilità, Detzner si arrese agli australiani.

Altre azioni
 
Una nave corsara tedesca, la SMS Cormoran, era ancorata a Guam quando gli Stati Uniti dichiararono guerra. L'unità venne affondata e l'equipaggio catturato (con l'eccezione di nove uomini, che perirono nell'affondamento). Questi divennero tra i primi prigionieri di guerra tedeschi catturati dagli statunitensi nel conflitto, insieme agli equipaggi della SS Kronprinz Wilhelm e della SS Prinz Eitel Friedrich.
Intorno al 1917, i giapponesi inviarono alcuni incrociatori leggeri e cacciatorpediniere nel Mar Mediterraneo, in appoggio alle flotte alleate contro l'Impero Ottomano e l'Austria-Ungheria. Nel mese di giugno, un cacciatorpediniere nipponico fu seriamente danneggiato dal siluro lanciato dal sommergibile austriaco U-27.
L'SMS Emden fu lasciato dall'ammiraglio Maximilian von Spee, ed iniziò una guerra contro il traffico mercantile nemico. Riuscì a distruggere ben 30 mercantili, prima di essere a sua volta affondata dalla HMAS Sydney nella Battaglia di Cocos. Un gruppo di marinai, sotto il comando di Hellmuth von Mücke, riuscì a fuggire attraverso la penisola arabica (allora parte dell'Impero Ottomano, alleato tedesco).
L'SMS Seeadler, windjammer e nave corsara, sotto il comando di Felix von Luckner, condusse una serie di attacchi di successo a navi mercantili alleate nell'Atlantico e nel Pacifico, prima di fare naufragio nella Polinesia Francese, nel 1917.
Il governo tedesco venne inoltre accusato di essere dietro il colpo di Stato in Cina, che aveva lo scopo di eliminare la fazione favorevole agli Alleati. Dopo il fallimento del colpo di Stato, nel luglio 1917, Duan Qirui sfruttò l'incidente per dichiarare guerra all'Impero Tedesco. Un'ipotesi molto più grave, in questo ambito, fu il presunto finanziamento del Movimento di Protezione Costituzionale, che geograficamente divise la Cina in due parti, dando vita al periodo dei signori della guerra.

L'intervento thailandese
 Il governo thailandese inviò 1.284 soldati presso il fronte europeo nel 1918, in modo da assistere gli alleati nelle ultime fasi della guerra. Combattendo insieme ad unità britanniche e statunitensi, ebbero 19 morti. Inoltre, 95 thailandesi furono accettati presso le scuole di aviazione francesi, e presero anche parte ad alcuni degli ultimi combattimenti della guerra.
La partecipazione alla prima guerra mondiale potrebbe aver aiutato la Thailandia ad essere accettata come membro fondatore della Società delle Nazioni nel 1920. Un'altra motivazione per la guerra in Thailandia fu il sistema dei diritti di extraterritorialità accordati a tedeschi, americani, britannici e francesi nel Paese. Questi privilegi, imposti durante il periodo coloniale, furono gradualmente revocati nel dopoguerra. In particolare, gli Stati Uniti vi rinunciarono nel 1920, seguiti da Regno Unito e Francia nel 19251

Bibliografia
    •     Falls, Cyril The Great War (1960) pgs. 98–99.
    •     Keegan, John World War One (1998) pgs. 205–206.


Fronte italiano (1915-1918)

Data
24 maggio 1915 - 4 novembre 1918
Luogo
Alpi e Prealpi orientali, pianura veneta

Fronte italiano (in tedesco Italienfront o Gebirgskrieg, "guerra di montagna") è il nome dato all'insieme delle operazioni belliche combattute tra il Regio Esercito italiano e i suoi Alleati contro le armate di Austria-Ungheria e Germania durante la prima guerra mondiale.
Queste operazioni si svolsero nell'Italia nord orientale, lungo le frontiere alpine, e lungo il fronte del fiume Isonzo a partire dal 23 maggio 1915, giorno di dichiarazione di guerra italiana all'Austria-Ungheria. Questo conflitto, conosciuto in Italia anche con il nome di "guerra italo-austriaca"1, o "quarta guerra di indipendenza"2, vide l'Italia impegnata a fianco alle forze della Triplice Intesa contro gli Imperi Centrali e in particolare contro l'Austria-Ungheria, dalla quale avrebbe potuto acquisire il Welschtirol (l'attuale Trentino), Trieste e altri territori quali il Sud Tirolo, l'Istria e la Dalmazia.
Nonostante l'Italia intendesse sfruttare l'effetto sorpresa per condurre una veloce offensiva, volta ad occupare le principali città austriache, il conflitto si trasformò ben presto in una sanguinosa guerra di posizione, simile a quella che si stava combattendo sul fronte occidentale.

Premesse
 
Le cause che portarono ai combattimenti sul fronte italiano sono da ricercare nel secolo precedente, a partire dalla definitiva sconfitta di Napoleone nel 1815, e dagli sconvolgimenti territoriali che questa comportò. Con il congresso di Vienna gran parte dell'Italia nord orientale cadde sotto il dominio e l'influenza austriaca, e nonostante le sommosse del 1848, le forze fedeli all'imperatore d'Austria mantennero il controllo sui territori italiani3.
Con la fine della guerra di Crimea combattuta vittoriosamente dall'Impero ottomano, Francia, Gran Bretagna e Regno di Sardegna contro l'Impero russo, si riunì nella capitale francese il congresso di Parigi nel quale il Presidente del consiglio del Regno di Sardegna Cavour ottenne che per la prima volta in una sede internazionale si ponesse la questione italiana. All'unità d'Italia Napoleone III fu sentimentalmente favorevole, come le era - senza sentimento - anche la Gran Bretagna, poiché un'Italia unita avrebbe potuto contrastare la potenza francese. In un tumultuoso precipitare degli eventi, nel 1861 nacque il Regno d'Italia, proprio mentre nasceva la Germania unita sotto l'Impero degli Hohenzollern, ed emergevano nuove potenze quali Stati Uniti d'America e Giappone. Il predominio mondiale della triade anglo-franco-russa nel 1870 poteva dirsi concluso, ma non erano concluse le pretese delle potenze europee in Africa4.
Gran Bretagna, Francia e più timidamente anche la Germania, si assicurano ampie conquiste in Africa, mentre l'Italia in modo incauto cerca anch'essa il suo "spazio vitale" nel corno d'Africa anziché cercare in casa propria dove lo troverebbe nel centro-sud miserabile e arretrato5. Partì così la campagna d'Eritrea in un clima di ottimismo che venne stroncato durante la battaglia di Adua dove all'alba del 1º marzo 1896 i 15.000 soldati del generale Oreste Baratieri, vennero travolti dagli oltre 100.000 guerrieri di Menelik II6. Le politiche aggressive degli stati europei si sfogano in vari conflitti localizzati riguardanti le colonie, ma andava comunque crescendo l'inquietudine di un conflitto generalizzato che avrebbe coinvolto le maggiori potenze in uno scontro all'ultimo sangue.
Inizia così la corsa alle alleanze; nel 1882 Otto von Bismarck allarga l'alleanza fra Germania e gli Asburgo, all'Italia, nel tentativo di spegnere nei francesi ogni velleità di rivincita per la sconfitta patita nel 1870. L'alleanza fu pensata anche in senso anti russo, sbarrando allo zar ogni possibilità di aprirsi nel Mediterraneo. Ciò comportò un'alleanza tra Francia e Russia nel 1893 alla quale si aggiunse dodici anni dopo la Gran Bretagna7. Una nuova tornata di conflitti locali fu innescata nel 1911 dall'Italia con l'impresa libica che porterà l'Impero Ottomano a lasciare la presa in Libia e nelle terre balcaniche, scoprendo così l'Impero austro-ungarico nei Balcani, regione in cui stava sempre più delineando l'irredentismo slavo appoggiato dalla Russia con ambizioni di destabilizzare l'Impero asburgico. Scoppiarono quindi le guerre balcaniche del 1912 e 1913 faticosamente placate dall'intervento austriaco8. Fu proprio questo fervore nazionalistico che il 28 giugno 1914 sfociò nell'attentato di Sarajevo, e alla successiva crisi diplomaticache portò allo scoppio del conflitto che insanguinò l'Europa per i quattro anni successivi9.

La situazione del Regio Esercito

 Nel periodo tra l'estate del 1910 e l'agosto del 1914, l'ordinamento Spingardi, che prevedeva l'ampliamento dei reggimenti alpini, delle unità di artiglieria e cavalleria, non ebbe però i risultati di rilievo sperati a causa delle spese della guerra di Libia e degli avvenimenti del 1914. Allo scoppio del conflitto rimanevano da costituire ancora una quindicina di reggimenti di fanteria, cinque reggimenti di artiglieria dei trentasei previsti, e due reggimenti di artiglieria pesante. E se queste carenze non erano particolarmente gravi, la situazione si faceva preoccupante esaminando la disponibilità di uomini e mezzi in prospettiva di una guerra europea. Gli uomini disponibili nel biennio 1914-1915 erano circa 275.000 con 14.000 ufficiali, e a questa carenza seguirono delle misure per risolvere il problema quantitativo, andando necessariamente a scapito della qualità10.
Altra fonte di preoccupazione era la consistenza delle dotazioni di armi e materiali, intaccate in maniera considerevole per far fronte alle esigenze in Libia. Se i fucili e i moschetti Carcano-Mannlincher mod. 1891 erano sufficienti per armare l'esercito regolare, lasciando i vecchi Vetterli-Vitali Mod. 1870/87 alla Milizia Territoriale, più critica era la situazione delle artiglierie, in particolare di quelle di medio e grosso calibro, in relazione non solo al numero di bocche da fuoco, ma anche delle scorte di munizioni e ai quadrupedi necessari alle batterie. Infine si era ben lontani dal numero di mitragliatrici richiesto per poter assegnare una sezione di due armi a ciascun battaglione di fanteria di linea, di granatieri, di bersaglieri e di alpini11.
Con una circolare del 14 dicembre 1914, il Comando del Corpo di Stato Maggiore ordinò la creazione di 51 reggimenti di fanteria, ma se per quanto riguarda gli uomini sarebbe stato possibile raggiungere in tempi relativamente brevi gli organici previsti, ben più difficile sarebbe stato rimediare alla mancanza di mitragliatrici. Con le 618 armi tipo Maxim-Vickers mod. 1911 disponibili al momento dell'entrata in guerra, fu possibile allestire solo 309 sezioni delle 612 previste, e solo nel 1916 con l'acquisto di mitragliatrici dalla Francia e con la produzione su larga scala della Fiat-Revelli mod. 1914, la fanteria ebbe in dotazione armi automatiche a sufficienza12.
Parallelamente anche la critica situazione delle artiglierie, in attesa che la mobilitazione industriale desse i suoi frutti, sarebbe stata migliorata con l'utilizzo temporaneo di tutti i materiali disponibili anche se antiquati e con provvedimenti atti a requisire i pezzi dalle batterie costiere e dalle opere fortificate lontane dalla zona delle operazioni13. A fine agosto 1914, l'evoluzione politica suggerì di anticipare i tempi, avvicinando le truppe ai confini mettendo in movimento unità di fanteria ancora in fase di approntamento. Il 4 maggio 1915 furono completati i provvedimenti necessari per portare l'esercito in ordine di battaglia a quattro armate, quattordici corpi d'armata e trentacinque divisioni, portando la forza in armi a 1.339.000 uomini14.

Il piano strategico italiano

 Il piano strategico dell'esercito italiano, sotto il comando del generale Luigi Cadorna, Capo di Stato Maggiore italiano, prevedeva di intraprendere un'azione offensiva/difensiva per contenere gli austro-ungarici nel loro saliente incentrato sulla città di Trento e sul fiume Adige, che si incuneava nell'Italia settentrionale lungo il lago di Garda, nella regione di Brescia e Verona; concentrando invece lo sforzo offensivo verso est, dove gli italiani potevano contare a loro volta su un saliente che si proiettava verso l'Austria-Ungheria, poco a ovest del fiume Isonzo. L'obiettivo a breve termine dell'Alto Comando italiano era costituito dalla conquista della città di Gorizia, situata poco più a nord di Trieste, mentre quello a lungo termine, ben più ambizioso e di difficile attuazione, se non addirittura "visionario" prevedeva di avanzare verso Vienna passando per Trieste15.
Nei disegni del generale Cadorna, la guerra contro un nemico già indebolito dalle carneficine del fronte orientale si sarebbe dovuta concludere in breve con l'esercito italiano vittorioso in marcia su Vienna. Sul fronte italiano furono ammassati circa mezzo milione di uomini, a cui in un primo tempo gli austriaci seppero contrapporre soltanto 80.000 soldati, in parte inquadrati in milizie territoriali male armate e poco addestrate16. Il fiume Isonzo avrebbe costituito quindi il fronte principale, quello che una volta sfondato avrebbe dovuto condurre a Trieste prima e a Vienna poi. Cadorna sognava manovre colossali di tipo napoleonico, con enormi attacchi lungo tutta la linea per dare letteralmente delle "spallate" al sistema nemico e arretrarlo portandolo al crollo17.
Mentre sul fronte dolomitico gli italiani, fortemente carenti di artiglierie e mitragliatrici destinate soprattutto ad est, avrebbero dovuto attaccare lungo due principali direttrici strategiche; fra le Dolomiti di Sesto e attraverso il col di Lana. Queste azioni avrebbero portato ad uno sfondamento in profondità sufficiente per raggiungere la val Pusteria con la sua importante ferrovia e il fondovalle che portava da un lato verso il Brennero e dall'altro nel cuore dell'Austria. Nella parte meridionale del fronte dolomitico, invece, la priorità era l'occupazione della val di Fassa, da dove si sarebbero potute raggiungere Bolzano attraverso il passo Costalunga, oppure addirittura Trento seguendo la valle dell'Avisio. Oltre a questi settori dove si puntava a penetrazioni strategiche, gli italiani attaccarono anche nel cuore del massiccio dolomitico, su creste, lungo canaloni e persino sulle cime, spesso in condizioni svantaggiose dato che gli austriaci occupavano quasi sempre postazioni più elevate, in azioni che ebbero notevoli effetti sul morale delle truppe ma che non mutarono in alcun modo l'andamento bellico del conflitto18.

La situazione dell'esercito austro-ungarico

 La situazione dell'imperiale e regio esercito austro-ungarico allo scoppio del conflitto con l'Italia era molto complicata. La struttura stessa dell'esercito e il mosaico di istituzioni e diverse nazionalità che lo componevano rendevano le forze armate asburgiche una struttura molto complicata. Il nucleo centrale dell'esercito era costituito dall'imperial e regio esercito, ovvero il kaiserlicht und königliche Armee (k.u.k), c'erano poi i due eserciti nazionali, previsti dal compromesso risalente al lontano 1867, l'esercito ungherese Honvéd e quello austriaco Landwehr, il primo era sotto il controllo di Budapest, capitale del regno d'Ungheria, l'altro sotto diretto controllo di Vienna. Vi erano poi una moltitudine di milizie territoriali e altri corpi derivati da antiche istituzioni locali, composti principalmente da uomini provenienti dagli stessi territori e dalla stessa lingua madre1920.
Quando nel maggio 1915, con tutte le annate abili al servizio già sul fronte orientale, fu ordinata una mobilitazione generale che consentì di radunare quarantasette battaglioni di ragazzi tra i 15 e i 19 anni, che il governo richiamava periodicamente per le esercitazioni premilitari, e uomini di età compresa tra i 45 e i 70 anni, subito inviati di rincalzo alle poche truppe regolari21. La maggior parte delle truppe regolari venne schierata sul fronte dell'Isonzo dove gli italiani avrebbero attaccato in forze, ma questa forza poté contare a non più di tre divisioni per un totale di ventiquattro battaglioni ed un centinaio di cannoni, dato che Falkenhayn si rifiutò in un primo tempo di inviare le sette divisioni richieste da Conrad22, mentre il fronte tirolese venne presidiato prevalentemente dalla gendarmeria tirolese e dagli Standschützen, milizie ausiliari organizzate da secoli nei tradizionali circoli di tiro al bersaglio.
Queste truppe avrebbero dovuto fungere da rincalzo, ma per la carenza di truppe regolari, gli Standschützen furono spesso incaricati di presidiare punti pericolosi del fronte, dove rimasero coinvolti in violenti combattimenti23. Sempre sul fronte alpino vennero schierati anche i Landesschützen e i Kaiserjäger, corpi formati da personale tirolese e in seguito anche austriaco e boemo, che però allo scoppio delle ostilità erano prevalentemente schierati sul fronte orientale. In questo settore del fronte accorsero in aiuto i tedeschi che il 26 maggio 1915 inviarono un nutrito contingente del Deutsche Alpenkorps che diede un grosso aiuto agli austro-ungarici su tutto il fronte alpino fino al 15 ottobre, data in cui vennero ritirati dal fronte italiano24. Il comando supremo delle forze asburgiche schierate contro gli italiani era nelle mani dell'arciduca Eugenio, mentre a est il settore dell'Isonzo ricadeva sotto la responsabilità del generale Svetozar Boroevic von Bojna, che aveva ai suoi ordini una forza di circa 100.000 uomini25.
Forte Corno in un'immagine del 1915 circa.

Le contromisure austriache

 Gli austriaci predisposero fin da fine Ottocento diverse postazioni difensive al confine con l'Italia nell'eventualità di una guerra. Il fronte del Tirolo era suddiviso in cinque sezioni dette "Rayon", due delle quali comprendevano le Dolomiti, ma fin dall'inizio delle ostilità, la linea del fronte non corrispose a quella del confine politico, giudicato indifendibile dal comando supremo austriaco con le scarse forze disponibili in quel momento26.
Per contenere l'avanzata italiana, che si riteneva sarebbe stata rapida e decisiva, fu necessario accorciare il fronte eliminandone per quanto possibile la sinuosità, attestandosi in difesa di zone più favorevoli e attorno alle fortificazioni già esistenti nei passaggi obbligati. Questo significava lasciare agli avversari ampie porzioni di territorio. Gli italiani conquistarono così, senza combattimenti, la conca d'Ampezzo, il comune di colle Santa Lucia e il basso Livinallongo, terre ladine i cui uomini erano arruolati nell'esercito imperiale austro-ungarico. Gli austriaci iniziarono la guerra sulla difensiva e vi rimasero per tutta la durata del conflitto; le uniche azioni offensive non ebbero lo scopo di sfondamento, ma la conquista di posizioni più favorevoli27.

L'Italia entra in guerra

 Dopo l’attentato di Sarajevo, Austria-Ungheria e Germania decisero di tenere all'oscuro delle loro decisioni l'Italia. Ciò in considerazione del fatto che l'articolo 7 della Triplice alleanza avrebbe previsto, in caso di attacco dell'Austria-Ungheria alla Serbia, compensi per l'Italia28. Il 24 luglio, Antonino di San Giuliano, ministro degli esteri italiano, prese visione dei particolari dell'ultimatum e protestò violentemente con l'ambasciatore tedesco a Roma, dichiarando che se fosse scoppiata la guerra austro-serba sarebbe derivata da un premeditato atto aggressivo di Vienna. L'Italia pertanto secondo il ministro non aveva l'obbligo, dato il carattere difensivo della Triplice alleanza, di aiutare l'Austria, anche nel caso in cui la Serbia fosse stata soccorsa dalla Russia29.
La decisione ufficiale e definitiva della neutralità italiana fu presa nel Consiglio dei ministri del 2 agosto 1914 e fu diramata il 3 mattina. Diceva:
« Trovandosi alcune potenze d'Europa in istato di guerra ed essendo l'Italia in istato di pace con tutte le parti belligeranti, il governo del Re, i cittadini e le autorità del Regno hanno l'obbligo di osservare i doveri della neutralità secondo le leggi vigenti e secondo i princìpi del diritto internazionale. [...]30 »
La neutralità ottenne inizialmente consenso unanime, tuttavia, il brusco arresto dell'offensiva tedesca sulla Marna inserì i primi dubbi sulla invincibilità tedesca. Macule interventiste andarono formandosi nell'autunno 1914 fino a raggiungere una consistenza non trascurabile appena un anno dopo. Gli interventisti additavano la diminuzione della statura politica incombente sull'Italia se fosse rimasta spettatrice passiva. I vincitori non avrebbero dimenticato né perdonato, e se i vincitori fossero stati gli Imperi Centrali, si sarebbero anche vendicati della nazione che accusavano traditrice di un'alleanza trentennale31.
Secondo gli interventisti, questa guerra avrebbe vendicato tutte le sconfitte e le umiliazioni del passato, da Adua, da Custoza e Lissa fino a Federico Barbarossa, Alarico e Brenno; e avrebbe permesso di completare l'unità d'Italia con l'annessione delle terre irredente; terre che tra l'altro, l'Intesa avrebbe assicurato all'Italia se si fosse schierata al suo fianco32. Alla fine del 1914 il ministro degli Esteri Sidney Sonnino iniziò le trattative con entrambe le parti per scucire i maggiori compensi possibili, e il 26 aprile 1915 concluse le trattative segrete con l'Intesa mediante la firma del patto di Londra con il quale l'Italia si impegnava ad entrare in guerra entro un mese33. Il 3 maggio successivo fu denunciata la Triplice Alleanza e fu avviata la mobilitazione, e il 23 maggio fu dichiarata guerra all'Austria-Ungheria, ma non alla Germania con cui Salandra sperava di non guastarsi del tutto34.
Tradita l'alleanza con gli Imperi Centrali, la reazione dell'Imperatore Francesco Giuseppe non si fece attendere:
« Il Re d'Italia mi ha dichiarato guerra.
 [...] Dopo un'alleanza durata più di trent'anni, durante i quali l'Italia poté incrementare l'espansione verso nuovi territori e veder diventare floride le sue condizioni, siamo stati da essa abbandonati in quest'ora di pericolo ad affrontare da soli i nostri nemici. [...]
 Le importanti memorie di Novara, Mortaro e Lissa, che costituirono l'orgoglio della mia giovinezza, lo spirito di Radetzky, dell'Arciduca Albrecht e di Tegetthoff che è vivo tra le mie forze di terra e di mare, garantiranno la nostra vittoria anche a sud; difenderemo i confini della Monarchia.
 Saluto le mie esperte truppe, avezze alla vittoria. Faccio affidamento su di esse e sulle loro guide. Faccio affidamento sul mio popolo il cui incomparabile spirito di sacrificio merita il mio plauso. Prego l'Onnipotente di benedire la nostra bandiera e farci omaggio della Sua graziosa protezione nella nostra giusta causa. »
(Documento datato 23 maggio 1915 con il quale l'Imperatore rispose alla dichiarazione di guerra italiana35)

Il fronte isontino

 Durante i primi anni di guerra fu sul fronte dell’Isonzo che si combatterono le battaglie più dure e cruente. Questo fronte, ben meno esteso di quello alpino, assunse fin dall'inizio grande importanza strategica nei piani italiani. Questi riversarono sulle rive del fiume Isonzo la maggior parte delle risorse nel tentativo di sfondare le difese austro-ungariche, cercando di aprirsi la strada verso il cuore dell'Austria grazie all'urto della 2ª armata del generale Pietro Frugoni e della 3ª armata del duca d'Aosta. Dalla conca di Plezzo al monte Sabotino, che domina le basse colline davanti a Gorizia, l’Isonzo scorre tra due ripidi versanti montani, costituendo un ostacolo quasi invalicabile. Così, le linee trincerate dei due eserciti dovettero adattarsi all’orografia e alle caratteristiche del campo di battaglia36.
Gli austro-ungarici, abbandonata la vallata di Caporetto, fronteggiano i reparti italiani su una linea quasi ovunque dominante che andava dal monte Rombon, passava per il campo trincerato di Tolmino per poi collegare il ripido versante destro del fiume con quello sinistro, in corrispondenza con le trincee del monte Sabotino. Dal Sabotino le trincee austro-ungariche difendevano la città di Gorizia, fino ad oltrepassare nuovamente l’Isonzo per innestarsi alle quattro cime del massiccio del San Michele e proseguire infine fino al mare lungo il primo ciglione carsico, passando per località rese famose dalla guerra; San Martino del Carso, monte Sei Busi, Doberdò, monti Debeli e Cosich37.
Invasa già all’inizio del conflitto l’ampia area pedecarsica e occupate Gradisca e Monfalcone, le truppe italiane si attestarono a poca distanza dalle posizioni austro-ungariche. Da una parte e dall’altra del fronte, l’ampio e complesso sistema logistico dei due eserciti occupava molto in profondità il territorio, sequestrando vie di comunicazione, campi e boschi, città e paesi, impiantando comandi, presidi militari, magazzini, depositi, ospedali e cannoni. Da tutte e due le parti del fronte, venne evacuata la maggioranza dei civili dalle città e dai paesi a ridosso della linea del fronte. Dalla parte austriaca, l’esodo riguardò in particolare Gorizia, l’Istria e le aree del Carso e del Collio, i cui abitanti vennero sfollati all’interno dell’Impero, in grandi campi profughi. Nei territori occupati dall’esercito italiano vennero internati per precauzione molti parroci e autorità austriache, mentre le popolazioni dei paesi prossimi alla zona delle operazioni vennero trasferite in varie località del Regno e in varie città e sperduti paesi dell’Italia meridionale38.

Il fronte alpino

Il fronte di montagna impegnerà per quasi tutta la durata del conflitto i soldati in una "guerra verticale" combattuta tra le cime delle montagne. In questa foto alcuni alpini in cordata.
Le truppe austro-ungariche si trovarono per tutto il periodo dei combattimenti in montagna in una posizione sopraelevata e di vantaggio nei confronti del nemico. In questa foto fanti austriaci armati con una Schwarzlose sul fronte alpino.
 Nel maggio 1915 la frontiera tra Italia e l'impero austro-ungarico correva lungo la linea stabilita nel 1866, al termine della guerra che permise all'Italia, seppur sconfitta militarmente, di annettere il Veneto. Era un confine prevalentemente montuoso, che nella sua parte occidentale corrispondeva quasi ovunque con l'attuale limite amministrativo della regione Trentino-Alto Adige. Il punto più basso, appena 65 m.s.l.m., era in corrispondenza del Lago di Garda presso Riva. A ovest di questa linea si sfioravano i 4000 m di quota nel massiccio dell'Ortles, mentre a est le quote erano più basse; la Marmolada raggiunge la ragguardevole quota di 3342 m, ma - oltre la zona degli altopiani e la lunga catena del Lagorai - la particolare morfologia delle Dolomiti priva di lunghe creste continue, imponeva al confine un andamento assai irregolare e con forti e frequenti dislivelli39
Proseguendo verso est, il confine correva lungo la catena delle Alpi Carniche per poi incontrare le Dolomiti al Passo di Monte Croce di Comelico, e quindi innalzarsi subito in grandi montagne: Croda Rossa di Sesto, Cima Undici, monte Popera, Croda dei Toni fino a toccare le Tre Cime di Lavaredo, dove il confine si abbassava, attraversava la val Rimbon e con un giro contorto lasciava in territorio italiano gran parte di Monte Piana. Sceso a Carbonin, il confine risaliva fino alla cima di Monte Cristallo per poi ridiscendere nella valle dell'Ansiei, lasciando il Passo Tre Croci all'Austria, e attraverso le creste del Sorapis raggiungeva il fondovalle di Ampezzo, a sud di Cortina40.
Attraverso il Becco di Mezdì e la Croda del Lago, il confine, attraverso il passo Giau, puntava decisamente verso sud fino ad arrivare ai piedi della Marmolada per poi proseguire verso il passo San Pellegrino e lungo la catena del Lagorai - ormai fuori dall'ambiente dolomitico - fino ad arrivare alla sopracitata valle dell'Adige passando per il monte Ortigara, l'altopiano dei Sette Comuni e il Pasubio. Il confine quindi toccava la punta nord del lago di Garda da cui riprendeva la sua corsa verso nord lungo l'odierno confine amministrativo, toccando il monte Adamello, il passo del Tonale e proseguendo fino al massiccio dell'Ortles-Cevedale al confine con la Svizzera41.
Il terreno roccioso e verticale, le avversità climatiche e le quote, determinarono decisamente il modo di condurre le azioni e di programmare le strategie in entrambi gli eserciti. Fin dall'inizio del conflitto i contendenti furono impegnati in una sfida per occupare le posizioni sopraelevate, in una sorta di "gioco" che in breve li portò fino alle cime delle montagne. Camminamenti oggi impegnativi col bel tempo ed equipaggiamento leggero erano normalmente percorsi di notte, con carichi pesantissimi e in ogni condizione climatica. Venti fortissimi, temporali che infuriavano in quota, fulmini, le bassissime temperature invernali, le scariche di pietre e le valanghe, mietevano centinaia di vittime tra i soldati, spesso ignorati e non conteggiati tra i caduti in guerra42.   
Migliaia di soldati dovettero abituarsi a condizioni molto rigide e ad un ambiente difficile. In inverno la neve alta impediva i movimenti lasciando interi presidi completamente isolati, lasciando i soldati nella morsa del freddo e della fame, che li portava ad uscire dalle baracche per raggiungere la base più vicina, traversando ripidi pendii dove spesso trovavano la morte. In base ad alcune stime, si valuta che sul fronte alpino, per entrambi gli schieramenti, circa due terzi dei morti furono vittime degli elementi, e solo un terzo vittime di azioni militari dirette43. Tra le opere belliche di rilievo che servivano come via sicura per il raggiungimento delle vette, è da citare la Strada delle 52 gallerie sul Pasubio.

Si aprono le ostilità
 
All'alba del 24 maggio 1915 le prime avanguardie del Regio Esercito avanzarono verso il confine, varcando quasi ovunque il confine con l’ex alleato e occupando le prime postazioni al fronte. All’inizio, la mobilitazione italiana avvenne con lentezza, a causa della difficoltà di muovere contemporaneamente più di mezzo milione di uomini con armi e servizi44. Vennero sparate le prime salve di cannone contro le postazioni austro-ungariche asserragliate a Cervignano del Friuli che, poche ore più tardi, divenne la prima città conquistata. All'alba dello stesso giorno la flotta austro-ungarica bombardò la stazione ferroviaria di Manfredonia, la città di Ancona, Senigallia, Potenza Picena e Rimini senza causare in nessuna occasione gravi danni, mentre la flotta italiana ebbe successo solo nel bombardamento di Porto Bruno e nell'occupazione di Pelagosa45.
Lo stesso 24 maggio cadde il primo soldato italiano, Riccardo di Giusto. Nei primi giorni di guerra Cadorna progettò un attacco su tutta la linea del fronte, attestando il Regio Esercito sulla riva destra dell’Isonzo. Altri obiettivi importanti oltre l’Isonzo, come Tolmino e il Monte Nero, non furono raggiunti per la mancanza della necessaria copertura di artiglieria46.

Le prime operazioni di terra

 La prima mossa dell'Italia fu un'offensiva mirata a conquistare la città di Gorizia, di là del fiume Isonzo. A partire dalla fine di giugno del 1915, sul Carso si susseguirono violenti combattimenti in cui la prima linea austro-ungarica cedette sotto i colpi dell'artiglieria italiana nei pressi di quota 89 di Redipuglia e sopra Sagrado durante la prima battaglia dell’Isonzo. Nel corso della seconda offensiva estiva, gli attacchi italiani costrinsero gli austro-ungarici ad arretrare le loro trincee di alcune centinaia di metri sull'altipiano di Doberdò e davanti al villaggio di San Martino del Carso, mentre nel settore del San Michele cadde un importante costone trincerato (quote 140 e 170) dal quale i reparti italiani erano in grado di minacciare da vicino le cime del monte.
Davanti a Gorizia, tra Podgora e il monte Sabotino, gli attacchi italiani non ebbero alcun esito, e anche lungo il medio e alto Isonzo, la linea difensiva austriaca rimase pressoché inalterata47. Ancora una volta il Comando Supremo insistette con gli attacchi frontali e la scarsa coordinazione dell'artiglieria con i piani di attacco della fanteria. Da sottolineare che alle batterie italiane iniziavano a scarseggiare le munizioni e questo indusse Cadorna a sospendere gli attacchi48.
L'autunno successivo Cadorna ordinò nuovi attacchi alle postazioni nemiche, che dal canto loro, sfruttarono il momento di stasi operativa per fortificare e consolidare le postazioni. Nonostante gli sforzi della 2ª e 3ª armata, impiegate in forze sul Carso davanti a Gorizia e sul Monte Nero, le due nuove "spallate" pianificate dal generale Cadorna non sortirono gli effetti sperati. Gli italiani riuscirono a conquistare e successivamente perdere il villaggio distrutto di Oslavia, a portare avanti seppur di poco la linea delle trincee davanti a Doberdò, a occupare la posizione austriaca "delle frasche" davanti a San Martino e a spingersi a ridosso delle cime del San Michele, ancora saldamente in mano ai reparti ungheresi; ma le linee nemiche resistevano ancora bene e queste due offensive autunnali non riuscirono a sfondare la linea del fronte.
Alla fine del 1915 lungo l’Isonzo l’esercito italiano registrò circa 235 000 perdite (tra morti, feriti e ammalati, prigionieri e dispersi), mentre gli austriaci, pur difendendosi quasi esclusivamente, subirono oltre 150 000 perdite49. Gli austro-ungarici iniziavano a preoccuparsi dell'assotigliamento degli effettivi ma il sistema difensivo reggeva bene l'urto dei fanti italiani che ancora una volta vedevano vanificati i loro sforzi. Nessuno degli obiettivi del comando supremo era stato raggiunto ed ormai la stagione avanzata consigliava la sospensione delle operazioni in grande stile anche perché, considerate le perdite, entrambi gli schieramenti non potevano permettersi di continuare una lotta all'ultimo uomo50.

Le operazioni alpine

 Parallelamente alle offensive portate nei primi mesi di guerra dalla 2ª e 3ª armata sul fronte isontino, tenente generale Luigi Nava, al comando della 4ª armata italiana, il 3 maggio diede l'ordine di avanzata generale lungo tutto il fronte. Quest'ordine diede il via ad una serie di piccole offensive in vari punti del fronte dolomitico svoltesi tra fine maggio ed inizio giugno. L'8 giugno gli italiani attaccarono nell'alto Cadore, sul Col di Lana, nel tentativo di tagliare una delle principali vie di rifornimento austriache al settore Trentino attraverso la Val Pusteria. Questo teatro di operazioni fu secondario rispetto alla spinta ad est, tuttavia ebbe il merito di bloccare, in seguito, contingenti austro-ungarici: la zona di operazioni si avvicinava infatti più di ogni altro settore del fronte a vie di comunicazione strategiche per l'approvvigionamento del fronte tirolese e trentino51.
Tra il 15 e il 16 giugno partì la prima offensiva verso il Lagazuoi e le zone limitrofe, in un attacco teso a catturare il Sasso di Stria, sulla cui cima era stato installato un osservatorio di artiglieria austriaco52. Poco più a nord, tra giugno e luglio, gli italiani lanciarono i primi attacchi sulle Tofane e verso la val Travenazes dove di fronte ad una avanzata iniziale, il 22 luglio furono ricacciati su posizioni sfavorevoli dopo il contrattacco austriaco53. Dopo aver occupato Cortina e passo Tre Croci il 28 maggio, gli italiani si trovarono dinnanzi a tre ostacoli che gli impedivano di entrare a Dobbiaco e in val Pusteria; il Son Pauses, il Monte Cristallo e il Monte Piana. Gli italiani in giugno attaccarono tutti e tre i capisaldi, ma senza ottenere il alcun caso risultati di rilievo. Entrambi gli schieramenti furono invece costretti a trincerarsi su posizioni che, in pratica, non sarebbero mai cambiate fino al 1917.
Più a est, altri settori furono testimoni dei primi scontri tra italiani e austro-ungarici, il 25 maggio viene bombardato dagli italiani il rifugio Tre Cime alla base delle Tre Cime di Lavaredo54, anche se il primo vero attacco italiano si avrà solo in agosto; l'8 giugno la a 96ª compagnia del Pieve di Cadore e la 268ª compagnia del Val Piave occupano il passo Fiscalino55, mentre tra luglio e agosto gli italiani occupano la cima di monte Popera, la cresta Zsigmondy, e Cima Undici in quanto non erano presidiate dagli austriaci56, mentre più a est per tutta l'estate si susseguirono i tentativi italiani di sfondamento del passo Monte Croce di Comelico che ben presto però si trasformarono in una guerra di posizione che durò fino al 1917.
Ad ovest del settore alpino dalla fine di maggio del 1915 all’inizio di novembre del 1917, il possesso del massiccio della Marmolada costituì un elemento strategico particolarmente importante perché controllava la strada alla val di Fassa e alla val Badia, e quindi al Tirolo che divenne subito uno dei punti più caldi del fronte alpino occidentale57.
Postazione austriaca a Torre Toblin- Toblinger Knoten, estate 1916/17
 Altro settore considerato molto importante dagli italiano era il passo del Tonale, su cui già prima della guerra furono costruiti alcuni settori fortificati in previsione di una guerra tipicamente difensiva. Le disposizioni del Comando Supremo stabilivano infatti che sul fronte Trentino fossero effettuate, ove necessario, solo piccole azioni offensive al fine di occupare posizioni più facilmente difendibili, che consentissero alle truppe italiane di attestarsi in luoghi più facilmente accessibili e rifornibili58.
Allo scoppio delle ostilità, i comandi militari italiani si resero conto che la presenza degli austriaci sulle creste dei Monticelli e del Castellaccio-Lagoscuro, rappresentava una seria minaccia per la prima linea sul Tonale. Venne così decisa un’azione per scacciarli da tali posizioni. La prima operazione di guerra sui ghiacciai fu affidata al battaglione alpini "Morbegno", ed ebbe luogo il 9 giugno 1915 per concludersi con una tremenda sconfitta: gli alpini, nel tentativo di occupare la Conca Presena e cogliere gli austriaci di sorpresa, effettuarono una vera e propria impresa alpinistica risalendo la Val Narcanello, il ghiacciaio del Pisgana e attraversando la parte alta di Conca Mandrone. Giunti al Passo Maroccaro e iniziata la discesa in Conca Presena, furono avvistati dagli osservatori austriaci e sottoposti, sul candore del ghiacciaio, al preciso tiro della fanteria imperiale che, pur essendo in numero assai inferiore, seppe contrastare l’attacco in modo assai abile e li costrinse alla ritirata, lasciando sul campo 52 morti59.
Un mese dopo, il 5 luglio, gli austriaci attaccarono a loro volta il presidio italiano attaccando sulle rive del Lago di Campo in alta Val Daone. L’agguato, perfettamente riuscito, evidenziò l'impreparazione tattica italiana, e stimolati dal successo ottenuto, il 15 luglio, gli austriaci tentano un improvviso attacco al Rifugio Garibaldi attraverso la Vedretta del Mandrone. Il piano fallì per l’abilità dei difensori, ma mise nuovamente in risalto la vulnerabilità del sistema difensivo italiano, che per questo motivo venne rafforzato. Per quanto riguarda l'ala destra del fronte del Tonale, le azioni italiane più significative del 1915 si svolsero in agosto con diverse direttrici ma portarono solo alla conquista del Torrione d’Albiolo60.
Tutte queste offensive però non portarono a nessuno sfondamento, tanto che, come sull'Isonzo, anche la guerra di montagna divenne una guerra di trincea simile a quella che si stava svolgendo sul fronte occidentale: l'unica differenza consisteva nel fatto che, mentre sul fronte occidentale le trincee erano scavate nel fango, sul fronte italiano erano scavate nelle rocce e nei ghiacciai delle Alpi, fino ed oltre i 3.000 metri di altitudine.

La cooperazione con la Regia Marina

 La iniziale neutralità italiana influì non tanto sulla Regia Marina ma soprattutto sui piani difensivi dei suoi alleati. Con la flotta tedesca impegnata nel Mare del Nord, la flotta austriaca si trovò improvvisamente sola contro le forze navali dell'Intesa, rispetto alle quali, considerando anche solo la flotta francese, era decisamente inferiore. Così l'Austria decise di richiudersi all'interno dei suoi porti, cercando di mantenere il quanto più possibile intatta la flotta e tenerla pronta contro un possibile scontro con l'Italia. Il fronte marittimo si contrasse così entro la fascia costiera orientale dell'Adriatico fino allo sbocco del canale d'Otranto61.
Il primo provvedimento a livello operativo allo scoppio del conflitto fu la ridislocazione della flotta nel porto di Taranto ove assunse la denominazione di "Armata Navale" che il 26 agosto 1914, fu posta al comando di S.A.R. il Duca degli Abruzzi, a cui seguirono i primi studi per eventuali operazioni contro l'Austria. Altra decisione fu quella, in caso di conflitto, di occupare territorialmente una parte della costa nemica per assicurare il sostegno del fianco destro della 3ª armata, di creare un blocco all'imbocco del canale d'Otranto per impedire alle navi austriache di uscire dall'Adriatico, di minare le principali linee di comunicazione nemiche e cercare di assicurare il dominio nell'Alto Adriatico anche per sostenere le operazioni del Regio Esercito sull'Isonzo62. In quest'ottica, il 24 maggio, siluranti e sommergibili vennero utilizzati per tener sgombro il golfo di Trieste e proteggere l'avanzata della 3ª armata, che con cavalleria e bersaglieri aveva subito conquistato Aquileia e Belvedere ed era entrata nella città di Grado lasciata abbandonata dalle truppe austro-ungariche. La difesa della zona fu affidata alla Regia Marina che inviò il pontone armato Robusto armato con tre cannoni da 120 mm63.
Fu subito evidente la necessità di uno stretto coordinamento tra esercito e marina e il sottocapo di stato maggiore, C. Amm. Lorenzo Cusani fu inviato presso il comando supremo dell'esercito per mantenere i contatti tra le due forze armate. Alle forze navali fu richiesto di supportare l'ala destra della 3ª armata, e nell'ambito di questa richiesta, il 29 maggio, una squadriglia di sette cacciatorpediniere della classe Soldato bombardò lo stabilimento chimico Adria-Werke di Monfalcone dove si producevano gas asfissianti. Il 5 giugno, mentre l'esercito si apprestava a passare l'Isonzo, la marina ne assicurò la copertura dell'avanzata con cinque caccia e alcune torpediniere posizionate vicino la foce del fiume, mentre tre caccia e alcuni sommergibili pattugliavano il golfo64.
Un'ulteriore richiesta di supporto a sostegno delle operazioni a terra avvenne durante la conquista di Monfalcone prevista per il giorno 9 giugno, a cui parteciparono tre pontoni armati con cannoni da 152. Conquistata la città, la difesa del porto fu affidata alla marina, che inviò le prime batterie galleggianti che dal 16 iniziarono a battere la zona del Carso. Nei mesi successivi le artiglierie della marina furono più volte chiamate a svolgere operazioni coordinate. La batteria Amalfi e quelle del basso Isonzo, sia su pontoni che fisse, effettuarono diverse azioni di fuoco contro l'ala sinistra dell'armata austro-ungarica, battendo le postazioni del Carso, quelle di Monte San Michele, Duino, Medeazza e Flondar. La marina collaborò costantemente durante le operazioni di terra che si susseguirono fino al 2 dicembre 1915, data in cui si concluse la quarta battaglia dell'Isonzo e l'avanzata italiana si arrestò65.

Il secondo anno di guerra

 Il 1916 sorge per l'Intesa sotto auspici non favorevoli, eccetto il progressivo potenziamento dell'esercito britannico, che a metà dell'anno supera i due milioni di uomini, tutti ancora volontari66. La durata della guerra sembrava allungarsi oltre ogni previsione, e parallelamente anche l'esercito italiano iniziò un'opera di riordinamento e potenziamento sulla base di un programma concordato tra il Governo e il capo di stato maggiore, presentato in maggio da Cadorna67. In novembre vennero approntate 12 nuove brigate di fanteria e la formazione di una nuova quarta compagnia per i battaglioni che ne avevano soltanto tre, inoltre in ogni battaglione venne inquadrato un reparto zappatori di 88 uomini tratti dalle compagnie. Le stesse misure vennero adottate per i bersaglieri, mentre per quanto riguarda gli alpini, venne completato il processo di formazione dei 26 battaglioni di Milizia Mobile portando il totale del corpo a 78 battaglioni con 213 compagnie. Altre 4 brigate di fanteria vennero formate tra aprile e maggio attingendo da quanto rimaneva della classe 1896 e gli esonerati sottoposti a nuova visita dal 1892 al 1894, e ancora tra marzo e giugno riunendo alcuni battaglioni provenienti dalla Libia68.
Dal punto di vista delle operazioni in Italia, l'anno 1916 fu segnato dall'offensiva austro-ungarica di maggio in Trentino, dalla sesta battaglia dell'Isonzo in agosto, con la conquista di Gorizia, e dalle tre cosiddette "spallate" carsiche in autunno69. Il 21 febbraio i tedeschi attaccarono la piazzaforte di Verdun mentre il capo di stato maggiore austro-ungarico, Conrad von Hötzendorf invece alleggerì i contingenti schieranti lungo il fronte russo, dove non sospetta sorprese, per concentrare una grossa forza d'urto nelle montagne del Trentino volte verso la pianura vicentina. L'enorme difficoltà di accumulare e manovrare mezzi adeguati in regione tanto aspra è controbilanciata dalla posta in gioco: lo sbocco delle divisioni austriache nella pianura veneta e l'accerchiamento dell'esercito italiano schierato nel Friuli70.

La Strafexpedition

 Il 15 maggio, appena il tempo lo permise, scattò la Strafexpedition, "spedizione punitiva". La 11ª armata austro-ungarica passò all'attacco fra la val d'Adige e la Valsugana, spalleggiata dalla 3ª armata, destinata allo sfruttamento del successo. Se l'offensiva non fu una sorpresa per Cadorna, lo fu per l'opinione pubblica; improvvisamente l'Italia scoprì, dopo un anno di sole offensive e senza che nessuno l'avesse messa in guardia, di trovarsi in grave pericolo. Per i successivi venti giorni formidabili posizioni montane caddero una dopo l'altra, mentre il governo Salandra sentì ventilare dal generalissimo Cadorna la possibilità che l'esercito dell'Isonzo avrebbe dovuto ripiegare di tutta fretta, abbandonando il Veneto per non cadere nella completa distruzione71.
L’intera massa di uomini dislocati a difesa del fronte, nonostante una strenua resistenza, dovette necessariamente iniziare la ritirata; Cadorna iniziò quindi a richiamare le divisioni di riserva costituendo una 5ª armata che riuscì a frenare, e quindi arrestare concretamente, l’offensiva sugli Altopiani. Per costituire questa nuova arma d’offesa, Cadorna corse un notevole rischio: dovette infatti alleggerire le truppe dislocate sull’Isonzo, rischiando che un’offensiva nemica contingente gli strappasse di mano anche le poche e sudatissime conquiste di quel fronte. L’Austria-Ungheria si rese subito conto della minaccia e, dopo un ultimo tentativo di offesa ai danni delle difese del Lemerle e del Magnaboschi, cessò l’offensiva, con relativo importante arretramento delle linee raggiunte72.
Si concluse così la prima grande battaglia difensiva dell’Italia, definitivamente "maturata" per la "guerra di materiali", che l’avrebbe vista impegnare ingenti quantitativi di uomini, mezzi e risorse fino al termine del conflitto. Purtroppo durante questa sanguinosa e frenetica battaglia, il fatto di aver perduto terreno (la massima penetrazione austriaca si misurò su più di 20 chilometri in profondità verso la pianura vicentina), fatto peraltro intrinseco delle battaglie di materiali, fece scarsamente apprezzare la reale vittoria difensiva italiana73.
Solo il 3 giugno il bollettino italiano poté annunciare quella che era solo una mezza verità:
« L'incessante azione offensiva nel Trentino è stata dalle nostre truppe nettamente arrestata lungo tutta la fronte d'attacco74 »
 Il contraccolpo del rischio a malapena sventato fu la caduta di Salandra e l'istituzione di un governo di "unione nazionale" presieduto dall'ottuagenario Paolo Boselli75.

Le successive battaglie dell'Isonzo

Nella seconda metà del 1916 gli anglo-franco-italiani ripresero le loro logoranti offensive dalle quali li aveva distratti l'iniziativa nemica. Da luglio a novembre divamparono furiosi i combattimenti sulla Somme, mentre a fine agosto Erich von Falkenhayn viene liquidato e spedito sul fronte orientale a riscattarsi, sostituito a occidente dal duo Ludendorff - Hindenburg. In Italia Cadorna, respinta la Strafexpedition, tenta invano di recuperare il terreno perduto in Trentino. Dopo una breve ritirata gli austro-ungarici si trincerarono su posizioni formidabili, da cui gli attacchi italiani, nonostante sanguinose perdite, non riesco a sloggiarli.
Il comandante dell'esercito italiano decise quindi di dirigere i suoi sforzi verso una nuova offensiva lungo l'Isonzo. Il 6 agosto le truppe italiane passano all'offensiva dal Sabotino al mare, raggiungono e superano l'Isonzo, conquistano Gorizia deserta e costringono l'ala meridionale della 5ª armata austro-ungarica, comandata dal feldmaresciallo Boroević, a ripiegare di alcuni chilometri sul Carso. Ma non è una travolgente vittoria, non l'agognato sfondamento; i nemici hanno ceduto terreno per arroccarsi su una nuova linea già preparata contro la quale si infrangono, fra metà agosto e inizio dicembre, i nuovi assalti italiani76.
Da settembre iniziò quindi una nuova serie di tre "spallate" sempre sul fronte dell'Isonzo per aumentare la superficie conquistata nell’area tra Gorizia e il mare. Le prime due battaglie hanno breve durata, la settima battaglia dell'Isonzo (14-16 settembre) le conquiste italiane sono praticamente nulle ma costarono comunque un gran numero di vittime, mentre l'ottava battaglia (10-12 ottobre) si esaurì il terzo giorno al costo di 24.500 perdite per gli italiani e 40.500 per gli austriaci. Le truppe imperiali dovettero però operare un arretramento di diverse centinaia di metri per rendere la nuova linea più corta quindi meglio difendibile, tale linea andava dal Monte Santo verso il mare passando per le colline dell'Hermada, che diverrà tristemente nota per i sanguinosissimi scontri che vedranno il colle terreno di lotta in quanto ultimo baluardo a difesa di Trieste. Purtroppo per gli italiani però, errori, condizioni meteo avverse, scarsità di materiali, furono fattori impedirono lo sfondamento nel settore che sembrava a portata di mano77.
L’autunno particolarmente cattivo sul piano meteorologico lasciava pochi dubbi su come sarebbe stato l’inverno, e i comandi italiani già dopo l’ottava offensiva volevano scatenare un nuovo attacco contro le difese carsiche prima che tutto fosse bloccato dalla cattiva stagione. L'attacco ebbe inizio solo il 31 ottobre, la linea da attaccare in questa operazione era quella passante per Colle Grande-Pecinca-Bosco Malo, e possibilmente la linea Dosso Faiti-Castagnevizza-Sella delle Trincee.

 Verso Castagnevizza l'esercito riuscì a ottenere qualche risultato di rilievo, ma a sud l’Hermada si confermava un osso duro, riuscendo a resistere a tutti gli attacchi. Il 2 Cadorna decise di sospendere l’attacco per mancanza di rifornimenti anche se gli scontri ripresero comunque il 3, mentre il 4, in conseguenza ad un arretramento degli austriaci che assunsero posizioni meglio difendibili, le truppe italiane presero le trincee del monte Faiti. Nel complesso si avanzò solo di qualche chilometro, le perdite sofferte ammontarono a 39.000 soldati tra morti, feriti e dispersi per gli italiani e 33.000 per gli imperiali78.
Intanto, mentre sul fronte si contavano le perdite di uomini e materiali e ci si preparava ad affrontare l'inverno, a Vienna il 21 novembre morì il vecchio Imperatore Francesco Giuseppe a cui successe il nipote Carlo I, che oltre ad un trono in disfacimento, ereditò una guerra che non ebbe voluto. Fa proposte di pace a Francia e Gran Bretagna che cadono nel vuoto, fornendo però il pretesto per declinare a queste ultime le responsabilità sul protrarsi della guerra79. Nell'inverno 1916-1917 e la primavera successiva, in un periodo in cui le illusioni di una guerra breve erano ormai svanite. Per tutto l'inverno, sul fronte dell'Isonzo tra il Carso e Monfalcone la situazione rimase stazionaria, mentre sulle Alpi, il settore del III corpo d'armata comprendente la zona tra lo Stelvio e il lago di Garda, fu caratterizzato da piccole offensive atte a conquistare alcune vette strategicamente importanti, tra cui quella di monte Cavento che fu attaccato ad inizio inverno. La Strefexpedition però causò la stasi nelle operazioni per la conquista del monte, che ripresero a maggio 1917 con la "battaglia dei Ghiacci" che consentì alla 242ª compagnia del battaglione alpino "Val Baltea" la conquista della vetta80.

La guerra di mine

 In alta montagna i soldati di entrambi gli schieramenti erano spesso impegnati in piccoli scontri tra pattuglie nel tentativo di conquistare trincee lungo le creste e le cime delle montagne. La scarsità di uomini, i limitati terreni di scontro e le limitazioni climatiche, che consentivano attacchi solo in determinati periodi, fecero sì che la guerra sul fronte alpino trovasse diverse applicazioni e nuovi metodi strategici. Nella fattispecie, si escogitò uno speciale utilizzo delle mine: genieri, minatori e soldati scavavano gallerie sotterranee nella roccia per raggiungere le linee nemiche al di sotto delle quali veniva creato un grande pozzo riempito di esplosivo. Quando la mina veniva fatta brillare la postazione nemica saltava in aria insieme alla cima della montagna consentendo, almeno in teoria, agli attaccanti di occupare facilmente la posizione81.
Tra i fronti dove si praticò questo tipo di guerra si contano il Col di Lana, il monte Cimone, il Pasubio e il Lagazuoi, benché tentativi in questo senso furono fatti anche su altri fronti come al Monte Piana o sul Castelletto. Nel 1916, proprio il Cimone fu teatro di questo tipo di strategia. Il monte, dopo la Strafexpedition, era caduto in mano austriaca, ma il suo ruolo strategico richiedeva una reazione italiana; nell’ultima settimana di luglio fu protratto per 18 ore un pesantissimo bombardamento su vetta e contrafforti del Cimone, al termine del quale furono mandati all’attacco i migliori reparti di alpini e finanzieri. Sebbene inizialmente fermati, dopo un cruentissimo scontro gli italiani ripresero la cima82.
Cominciarono quindi, senza risultati significativi, i contrattacchi austriaci. I comandi austro-ungarici decidono allora di costruire un tunnel sotterraneo per piazzare una mina e far saltare in aria le postazioni italiane. Gli italiani scavano pertanto una contromina da diversi punti di partenza e nella notte tra 17 e 18 settembre la fanno brillare provocando il crollo dei cunicoli austriaci. Tuttavia il lavoro degli austriaci ricomincia ancor più determinato83. Il 23 settembre due mesi dopo la conquista italiana della vetta, la mina austriaca di 8.700 chili di Dinamon, 4.500 di dinamite e 1.000 di polvere nera era pronta. Alle 5.45 la carica venne fatta brillare: l’esplosione fu devastante, due gigantesche colonne di fumo si alzarono dalla vetta proiettando in aria tonnellate di detriti e centinaia di uomini. La postazione italiana scomparve84. Altra guerra di mine si svolse sul Pasubio nel Dente Italiano e Dente Austriaco.

Il terzo anno di guerra

 L'inizio del 1917 a differenza dell'anno prima, si presentava oscuro per gli Imperi Centrali. Le loro risorse si assottigliavano mentre la Russia si era ricomposta e gli eserciti britannico e italiano erano ancora in lenta ma inesorabile crescita. La Germania, nel tentativo di tagliare i rifornimenti all'Intesa, che succhiava risorse da tutto il mondo, non poté far altro che dichiarare la guerra sottomarina indiscriminata di fronte alla sempre crescente capacità bellica, anche a costo della rottura con gli Stati Uniti. Ma ecco che mentre gli Alleati si preparavano ad un attacco concentrico da scatenare nella primavera del 1917, il 15 marzo lo zar abdicò gettando la Russia in una crisi politica dalle enormi conseguenze, e il 6 aprile gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Germania. Il 1917 fu quindi caratterizzato da una crisi politica di carattere mondiale. Nonostante il fronte orientale fosse immobile, gli Imperi Centrali spostarono le loro forze dal fronte (140 divisioni in totale) solo con il trattato di Brest-Litovsk firmato il 5 dicembre.
Con la Russia fuori gioco, gli Imperi centrali poterono schierare ad occidente il grosso delle loro forze.85. Gli anglo-franco-italiani proseguirono tuttavia il loro piano; l'8 aprile i britannici attaccarono ad Arras, il 17 i francesi attaccarono sullo Chemin-des-Dames, mentre il 12 maggio Cadorna scatenò la decima battaglia dell'Isonzo, che consentirà al generale Luigi Capello di affermarsi sull'orlo occidentale dell'altipiano della Bainsizza86.

Dalla decima all'undicesima battaglia dell'Isonzo

 In seguito ai modesti guadagni ottenuti nella decima battaglia dell'Isonzo, gli italiani diressero due attacchi contro le linee austriache a nord e a est di Gorizia. L'avanzata a est venne bloccata senza troppa difficoltà, ma le forze italiane sotto il comando di Capello riuscirono a rompere le linee nemiche e a penetrare nell'altopiano di Bainsizza. L’avanzamento, strategicamente inutile, è pagato con un immane tributo di sangue sia dagli attaccanti che dai difensori. Eppure l’attacco mette in crisi l’esercito imperiale, un altro piccolo sforzo e il collasso sarebbe stato inevitabile, l’esercito italiano però dissanguato dall’offensiva, non riuscì a spingersi oltre.
Dopo l'undicesima battaglia dell'Isonzo, gli austriaci, stremati, ricevettero l'ausilio delle divisioni tedesche arrivate dal fronte russo in seguito al fallimento dell'offensiva del generale russo Aleksandr Kerenskij. I tedeschi introdussero l'utilizzo di tattiche di infiltrazione oltre le linee nemiche e aiutarono gli austriaci a preparare una nuova offensiva. Nel frattempo, le truppe italiane erano decimate dalle diserzioni e il morale era basso: i soldati erano costretti a vivere in condizioni disumane e a ingaggiare sanguinosi combattimenti che portavano ben pochi risultati87.

La battaglia dell'Ortigara

 L'offensiva austriaca sferrata in Trentino aveva permesso all'esercito avversario di attestarsi su una linea che infletteva sensibilmente verso il centro dell'Altopiano dei Sette Comuni. La controffensiva italiana del 16 giugno aveva però costretto gli austriaci a un parziale ripiegamento, ma questi si erano stabiliti su una linea che dal margine della Valsugana per l'Ortigara, monte Campigoletti, monte Chiesa, monte Corno correva verso sud sino alla Val d'Assa, assicurandosi tutti gli sbocchi più diretti alla pianura vicentina e garantendo una enorme testa di ponte verso l'altopiano minacciando alle spalle le armate italiane del Cadore della Carnia e dell'Isonzo88.
Dopo la conquista di Gorizia, l'alto comando emanò le direttive per un'offensiva denominata "azione K", che, impiegando il XVIII, XX e XXII corpo d'armata, avrebbero dovuto concentrare il massimo sforzo sul monte Ortigara e monte Campigoletti, staccare l'avversario dall'orlo settentrionale dell'altopiano e arrivare alla linea cima Portule-bocchetta di Portule. L'attacco principale sull'Ortigara sarebbe stato svolto dai battaglioni alpini della 52ª divisione al comando del generale Luca Montuori. Il 10 giugno l'azione ebbe inizio con una preparazione di artiglieria dalle 5:15 del mattino fino alle 15:00, ma già dalle 11:00 la nebbia iniziò a circondare il monte, rendendo il tiro poco efficace. Alle 15 il tiro si allungò e la fanteria iniziò ad avanzare; le mitragliatrici aprirono immediatamente il fuoco e le artiglierie iniziarono a battere le pendici dell'Ortigara senza bisogno di aggiustare il tiro in quanto il tiro di sbarramento era già stato predisposto89. Uno dopo l'altro 18 battaglioni alpini furono mandati all'attacco, ma il tiro di sbarramento fece sì che le truppe si trovarono ammassate, risultando un ostacolo per le ondate successive.
Al calar della sera, la notte e la pioggia, unita al costante fuoco nemico, fermarono lo slancio degli alpini, che non potevano essere riforniti dai portatori in quanto anch'essi erano costantemente fermati dal fuoco nemico. Il giorno successivo nonostante il maltempo e lo scoramento, gli alpini furono nuovamente lanciati all'attacco, ma stavolta non della cima, ma di numerose postazioni tutt'attorno in modo da ampliare il terreno occupato. Fu la scelta peggiore, gli alpini cozzarono nuovamente contro le mitragliatrici piazzate e contro i reticolati intatti. Il 12 l'offensiva venne temporaneamente sospesa per poi ricominciare alle 6 del 19 giugno; otto battaglioni partirono all'attacco dell'Ortigara e in meno di un'ora la cima venne conquistata dal battaglione alpino "Monte Stelvio". Al successo degli alpini non corrispose però un successo per le altre divisioni impegante sull'Altopiano, e ciò non consentì di rinforzare le posizioni che furono facilmente travolte dalla controffensiva austriaca del 25 giugno. Non cogliendo la tragicità della situazione e lo scompiglio tra le linee, i comandi ordinarono un contrattacco invece di un ripiegamento, in una serie di ordini e contrordini che causarono il caos nelle linee italiane90. In questa tragica battaglia gli alpini diedero un altissimo tributo di sangue, furono 16.305 le perdite tra gli alpini durante l'assalto all'Ortigara, che divenne in seguito una delle montagne simbolo per lo spirito e il sacrificio di questi soldati91.

La disfatta di Caporetto

 Con la linea di fronte austro-ungarica intorno a Gorizia a rischio di collasso a seguito dell'undicesima battaglia dell'Isonzo, i tedeschi decisero di intervenire in aiuto dei loro alleati in modo da alleggerire la pressione italiana. Paul von Hindenburg ed Erich Ludendorff, comandanti supremi dell'esercito tedesco, si accordarono con Arthur Arz von Straussenburg per l'organizzazione dell'offensiva combinata. Cadorna aveva ricevuto rapporti dalla ricognizione aerea che indicavano movimento di truppe tedesche dirette in zona alto Isonzo. Anziché continuare con le offensive egli decise di passare ad una linea difensiva nell'attesa degli eventi92. Il generale tedesco Konrad Krafft von Dellmensingen fu inviato al fronte per un sopralluogo, che durò dal 2 al 6 settembre 1917. Terminate le varie verifiche e dopo aver vagliato le probabilità di vittoria, Dellmensingen tornò in Germania per approvare l'invio degli aiuti, sicuro anche che la Francia, dopo il fallimento della seconda battaglia dell'Aisne ad aprile, non avrebbe attaccato93.
Visti gli esiti dell'ultima offensiva italiana, austro-ungarici e tedeschi decisero di contrattaccare. Alle 2:00 in punto del 24 ottobre 1917 le artiglierie austro-germaniche iniziarono a colpire le posizioni italiane dal monte Rombon all'alta Bainsizza alternando lanci di gas a granate convenzionali, colpendo in particolare tra Plezzo e l'Isonzo94. Quello stesso giorno gli austro-ungarici e i tedeschi sfondarono il fronte dell'Isonzo a nord convergendo su Caporetto e accerchiarono la 2ª armata italiana, in particolare il IV ed il XXVII corpo d'armata, comandato dal generale Pietro Badoglio. Durante il primo giorno di battaglia gli italiani persero all'incirca, tra morti e feriti, 40.000 soldati e altrettanti si ritrovarono intrappolati sul monte Nero, mentre i loro avversari dai 6/7.00095.
Da lì gli austriaci avanzarono per 150 km in direzione sud-ovest raggiungendo Udine in soli quattro giorni, con l'esercito italiano in preda ad una ritirata caotica, caratterizzata da diserzioni e fughe. Cadorna, venuto a sapere della caduta di Cornino il 2 novembre e di Codroipo il 4, ordinò all'intero esercito di ripiegare sul fiume Piave, sul quale nel frattempo si erano fatti significativi passi avanti nell'impostazione di una linea difensiva grazie agli episodi di resistenza sul Tagliamento. A questo punto von Below aveva fretta, sia per il timore di ritornare ad una guerra di posizione, sia perché era cosciente che i francesi e gli inglesi avrebbero inviato aiuti militari. I suoi generali sfruttarono tutte le occasioni possibili per accerchiare le truppe italiane in ritirata: a Longarone il 9 novembre furono catturati 10.000 uomini e 94 cannoni appartenenti alla 4ª Armata del generale Mario Nicolis di Robilant, e in un'altra occasione la 33ª e 63ª Divisione italiana consegnarono, dopo aver tentato di uscire dall'accerchiamento, 20.000 uomini. In pianura però gli austro-tedeschi non ebbero analogo successo e molte unità italiane si riorganizzarono per raggiungere il Piave, l'ultima delle quali vi si posizionò il 12 novembre. Dall'inizio delle operazioni il 24 ottobre all'8 novembre i bollettini di guerra tedeschi avevano contato un bottino di 250.000 prigionieri e 2.300 cannoni96.
La disfatta di Caporetto provocò il crollo del fronte italiano sull'Isonzo con la conseguente ritirata delle armate schierate dall'Adriatico fino alla Valsugana, oltre alle perdite umane e di materiale; in due settimane andarono perduti 350.000 soldati fra morti, feriti, dispersi e prigionieri, ed altri 400.000 si sbandarono verso l'interno del paese97.
Armando Diaz, nuovo capo di Stato Maggiore del Regio Esercito a partire dall'8 novembre 1917

Cadorna viene sostituito, l'esercito si riorganizza

 Dopo che la ritirata si stabilizzò definitivamente sulla linea del monte Grappa e del Piave, il 9 novembre il generale Cadorna lasciò il comando dell'esercito nelle mani di Armando Diaz, per volere del nuovo presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando, che per addolcire la pillola, nominò Cadorna rappresentante italiano presso il neocostituito Consiglio militare interalleato a Versailles. Il generale inizialmente rifiutò la carica, e solo l'insistenza di Orlando e del generale Alfieri, gli fecero accettare l'ufficio a Versailles98.
Le divisioni francesi inviate in aiuto aumentarono a sei e quelle inglesi a cinque entro l'8 dicembre 1917 e, sebbene non entrarono subito in azione, funsero da riserva permettendo al Regio Esercito di distogliere le proprie truppe da questo compito. I tedeschi, assolto il proprio obiettivo di aiutare gli austriaci, trasferirono metà dei propri cannoni e tre divisioni nuovamente ad occidente nei primi di dicembre, mentre la ritirata sul fronte del Grappa-Piave consentì all'esercito italiano, ora in mano a Diaz, di concentrare le sue forze su un fronte più breve e soprattutto, con un mutato atteggiamento tattico, più orgoglioso e determinato. Il primo segno di riscossa avvenne per merito della 4ª armata del generale Mario Nicolis di Robilant, che, stanziata sul Cadore, si era ritirata il 31 ottobre con l'ordine di organizzare la difesa del monte Grappa e di realizzare la saldatura tra le truppe dell'Altopiano di Asiago e quelle schierate lungo il fiume Piave.
La nuova posizione da difendere a tutti i costi era di vitale importanza per l'intero esercito, dato che una sua caduta avrebbe trascinato con sé l'intero fronte, e gli uomini di Robilant riuscirono a mantenere la posizione99. Gli austro-ungarici fermarono gli attacchi in attesa della primavera successiva dove avrebbero preparato un'offensiva che li avrebbe dovuti portare a penetrare nella pianura veneta, anche se piccole schermaglie si protrassero fino al 23 dicembre. La fine della guerra contro la Russia, consentì poi alla maggior parte dell'esercito impiegato sul fronte orientale di spostarsi sul fronte italiano100.

L'ampliamento della forza aerea

 Quando allo scoppio del conflitto l'Italia si dichiarò neutrale, ebbe subito inizio un intenso programma di addestramento e riorganizzazione dei reparti aerei, che vennero inquadrati nel Corpo Aeronautico Militare (CAM), anche se, proprio a causa della sua tardiva entrata in guerra, l'aeronautica non poté beneficiare fin dall'inizio dei progressi tecnici in campo aviatorio che invece avevano interessato gli altri paesi. Le 15 squadriglie divise in tre gruppi che componevano la CAM vennero distribuite tra la 2ª e la 3ª armata e a difesa della città di Pordenone, mentre la sezione idrovolanti in seno alla marina, fu schierata lungo la costa adriatica. Alla data della terza battaglia dell'Isonzo però, la forza aerea subì dei grossi cambiamenti. La crescente necessità di velivoli per ricognizione e bombardamento portò un incremento della forza complessiva del CAM, che arrivò a contare 35 squadriglie dotate dei più moderni aerei di progettazione italiana e francese101.
Più o meno verso la fine del 1917 il CAM subì un'ulteriore riorganizzazione dotandosi di una struttura di comando semplificata, che rifletteva le accresciute dimensioni e l'importanza assunte dal servizio aereo. Adesso ciascuna delle armate italiane possedeva un proprio reparto di volo, mentre il comando supremo disponeva di una unità aerea autonoma incaricata di effettuare missioni di ricognizione a lungo raggio e di bombardamento dalla regione di Udine a supporto delle operazioni di terra sul fronte dell'Isonzo. In termini generali, il CAM, nei primi mesi del 1917, giunse a schierare 62 squadriglie, dodici delle quali erano ora incaricate di compiti da caccia ed equipaggiate con monoposto Nieuport costruiti su licenza dalla Macchi. La forza aerea intervenne in appoggio alle operazioni sull'Isonzo e la Bainsizza, mentre i bombardieri Caproni,attaccarono più volte l'arsenale di Pola in agosto e la base navale di Cattaro in ottobre.
Al momento della battaglia di Caporetto erano stati organizzate altre 15 squadriglie caccia, che, nonostante la disfatta che costrinse i reparti dell'aviazione a ripiegare e abbandonare molti mezzi e materiali, crebbero ancora di numero nel corso del conflitto, tanto che al momento dell'armistizio la forza caccia italiana era di 75 squadriglie in tutto (delle quali facevano parte tre squadriglie francesi e quattro britanniche)102103. Al termine del conflitto, la forza aerea del CAM era in costante aumento, i reparti aerei in prima linea potevano contare su 1.758 velivoli, e mentre nel 1915 l'industria bellica italiana sfornò solo 382 aerei e 606 motori aeronautici, nel 1918 i velivoli prodotti furono 6.488 mentre i motori ben 14.840104.

L'ultimo anno di guerra

 Nel novembre 1917, le truppe francesi e britanniche cominciarono ad affluire sul fronte italiano in maniera consistente. Nella primavera del 1918, la Germania ritirò le proprie truppe per utilizzarle nell'imminente offensiva di primavera sul fronte occidentale. I comandi austriaci cominciarono allora a cercare un modo per porre fine alla guerra in Italia. Con l’avvicinarsi dell’estate del 1918, la situazione degli imperi centrali, sul piano dei rifornimenti, sia alimentari che di materie prime, si faceva sempre più complicata. I rifornimenti americani, almeno sul fronte occidentale, iniziavano ad avere un peso effettivo sul bilancio della guerra, urgeva eliminare un fronte al più presto105.

L'attacco austro-ungarico

 L'esercito italiano sentì istantaneamente il mutamento delle condizioni di combattimento, della riorganizzazione e del morale elevato derivante dalla caparbia resistenza sul Piave. Passò l'inverno, venne la primavera, e il 15 giugno partì l'offensiva austro-ungarica con circa 678 battaglioni e 6800 pezzi d'artiglieria, a cui gli italiani si opposero con 725 battaglioni e 7500 pezzi d'artiglieria106. Il generale Conrad voleva che l’attacco principale si sviluppasse sul Grappa, Boroevic, comandante delle armate del Piave, riteneva che l’attacco principale doveva avere come direttrice principale le Grave di Papadopoli. L'Arciduca Giuseppe Augusto d'Asburgo-Lorena decise di accontentare entrambi conducendo un attacco su due direttive e quindi diluendo le forze lungo tutto il fronte107.
L'offensiva iniziò con un attacco diversivo presso il passo del Tonale, che fu facilmente respinto dagli italiani. Gli obiettivi dell'offensiva erano stati rivelati agli italiani da alcuni disertori austriaci, permettendo ai difensori di spostare due armate direttamente nelle zone prestabilite dal nemico. Gli attacchi sull'altra direttiva, condotti dal generale croato von Bojna, ottennero qualche successo nelle prime fasi finché le linee di rifornimento austriache non furono bombardate e non arrivarono i rinforzi austriaci108.
Dall'Astico al mare la battaglia divampò furiosamente tra il 15 e il 25 giugno 1918. Bloccata fin dal primo giorno sugli Altipiani e sul Grappa, la spinta austro-ungarica fu contenuta anche sul Piave, la massa umana degli attaccanti fu però talmente enorme che questi riuscirono a sbarcare in più punti oltre il Piave, conquistando numerosi capisaldi sul Grappa, dove però, i contrattacchi immediati e violentissimi ben presto eliminarono. Già alla fine del primo giorno i comandi austriaci si resero conto che l'attacco era fallito e nonostante sulle varie teste di ponte si continuasse a insistere nella speranza di un cedimento della linea italiana, questo non avverrà mai. Gli ultimi strascichi della battaglia si trascineranno inutilmente fino al 26 con un nulla di fatto per gli imperi centrali che date le enormi perdite subite, perdono definitivamente l’iniziativa109.
Dopo sei mesi di rinforzo e riorganizzazione, l'esercito italiano fu capace di resistere all'attacco, ma Diaz non sfruttò l'occasione di contrattaccare. Il generale, temendo che la controffensiva non avrebbe avuto l'effetto sperato, volle aspettare i rinforzi statunitensi, che però Pershing gli negò. L'esercito italiano rimase quindi sulla difensiva. Anche perché le perdite italiane, come quelle austro-ungariche, furono elevatissime; 87.000 uomini, di cui 43.000 prigionieri, furono le perdite per le forze italiane, mentre 117.000, di cui 24.000 prigionieri, le perdite tra le file nemiche110. Determinante per le forze italiane fu l'apporto dell'aviazione soprattutto nelle azioni d'appoggio tattico, di bombardamento e d'interdizione. Nel corso delle operazioni, il 19 giugno fu abbattuto sul Montello l'asso della caccia italiana Francesco Baracca che aveva raccolto ben 34 vittorie. La conquista della supremazia aerea da parte italiana venne confermata dalla pacifica incursione di 7 biplani monomotori SVA sulla capitale austriaca il 9 agosto 1918, dove la formazione italiana guidata dal Gabriele D'Annunzio, lanciò migliaia di manifesti tricolori111.

L'offensiva dell'esercito italiano

Il fronte italiano nel 1918 e la battaglia di Vittorio Veneto.

 Superato l'urto di giugno, il comando supremo cominciò a pianificare l'offensiva "qualsiasi" sotto le incalzanti richieste di Orlando e Sonnino oltre che degli comandi alleati. Alle 10 del mattino del 19 ottobre il generale Gaetano Giardino ricevette l'ordine di attaccare ad oltranza a partire dal 24 ottobre. Preparazione, mutamento dello schieramenrto delle artiglierie, arrivo di nuove batterie, aggiustamento dei tiri; tutto doveva essere compresso in quei cinque giorni. Alla 4ª armata di Giardino venne affidato l'importante compito di dividere la massa austriaca del Trentino da quella del Piave, mentre l'8ª la 10ª e la 12ª armata avrebbero attaccato lungo il fiume112.
Armando Diaz progettò l'offensiva seguendo le innovazioni introdotte dai generali tedeschi ad occidente e che nell'ottobre 1917 rischiò di eliminare l'Italia stessa dal conflitto. Diaz elaborò un piano di attacco massiccio su un unico punto invece che su tutta la linea, nel tentativo di sfondare le linee e tagliare le vie di collegamento con le retrovie. La scelta ricadde sulla cittadina di Vittorio Veneto, considerata un probabile punto di rottura, la cui fragilità era costituita dal fatto che in questa città si trovava la congiunzione tra la 5ª e la 6ª armata austro-ungarica113. L’azione diversiva che avrebbe impegnato la 6ª armata austro-ungarica nella zona degli altipiani, fu scatenata alle prime ore del mattino del 14 dalla 4ª armata di Giardino, precedendo di parecchie ore l'attacco principale in modo da spostare quante più truppe nemiche ad ovest. Non appena le notizie avessero confermato lo spostamento di truppe avversarie, avrebbe avuto inizio la manovra centrale dell'8ª armata verso Vittorio Veneto, mentre la 10ª e la 12ª armata sarebbero avanzate per proteggerne i fianchi e impedire eventuali tentativi nemici di tagliare il saliente114.
L'offensiva durante il primo giorno, come per i tre giorni successivi, non ebbe successo. In alcuni punti le minime avanzate italiane subirono il contrattacco nemico che riuscì a riconquistare le posizioni perse. Il 28 ottobre il comando supremo italiano prescrisse la prosecuzione degli attacchi a tempo indeterminato, finché l'attacco sul Piave non fosse uscito dalla fase di stallo. L'Austria-Ungheria era ormai ridotta ad una scorza dentro la quale tutto marciva, ma questa scorza era durissima; la resistenza del suo esercito sul Grappa e sul Piave continuava infatti inflessibile. Poi l'esercito austro-ungarico iniziò ad abbandonare le posizioni, si dissolse, sparì. Iniziò quindi un'accanito inseguimento da parte delle forze italiane. La crisi interna dell'impero si era ormai ripercossa sul fronte, anche se l'esercito resistette fino all'ultimo. La battaglia di Vittorio Veneto non fu un capolavoro tattico o strategico, ma il dissolvimento dell'impero contribuì fortemente al concludersi definitivo della guerra su tutti i fronti. La Germania non avrebbe potuto resistere da sola ad oltranza115.

Il collasso dell'impero

 Il 28 ottobre l'Austria-Ungheria chiese agli Alleati l'armistizio. L'impero che con tanta baldanza aveva aperto le ostilità contro la Serbia nel 1914 era giunto alla fine del suo percorso politico e militare. Quello stesso giorno gli italiani catturarono 3000 austriaci sul Piave. In serata l'esercito asburgico ricevette l'ordine di ritirarsi116. L'impero era al collasso, oramai i diversi movimenti indipendentisti stavano facendo di tutto per sfruttare la situazione. A Praga la richiesta di armistizio provocò una decisa reazione dei cechi; il Consiglio nazionale cecoslovacco si riunì a palazzo Gregor, dove si era costituito tre mesi prima, e assunse le funzioni di un vero e proprio governo, impartendo l'ordine agli ufficiali austriaci nel castello di Hradčany l'ordine di trasferire i poteri, assumendo il controllo della città e proclamando l'indipendenza dello stato ceco.
Quella sera le truppe austriache nel castello deposero le armi; senza confini, senza riconoscimento internazionale e senza l'approvazione di Vienna, era nata un'entità nazionale ceca117. Sempre quello stesso giorno, il Parlamento croato dichiarò che da quel momento, Croazia e Dalmazia avrebbero fatto parte di uno "Stato nazionale sovrano di sloveni, croati e serbi". Analoghe dichiarazioni pronunciate a Laibach e Sarajevo, legavano queste regioni all'emergente Stato slavo meridionale della Jugoslavia118. Il 29 ottobre le truppe autriache si ritirarono dal Piave al Tagliamento; le lunghe colonne di uomini, rifornimenti e artiglierie in ritirata, furono bersagliate da oltre 600 aerei italiani, francesi e britannici. Fu un bombardamento feroce, e gli uomini in ritirata non avevano modo di difendersi.
« Lungo la strada c'erano rottami di veicoli, cavalli morti, cadaveri di uomini sulla strada e nei campi dove erano fuggiti per sfuggire alle mitragliatrici e alle bombe degli aerei [...] »
(Bernard Garside, 19enne ufficiale inglese119)
 Quello stesso giorno il Consiglio nazionale slovacco si associò in una nuova entità, insistendo sul diritto della regione slovacca alla "libera autodeterminazione". Il 30 ottobre vennero fatti prigionieri più di 33.000 soldati austriaci, mentre a Vienna, il governo austro-ungarico continuava ad adoperarsi per giungere all'armistizio con gli Alleati120. Nel frattempo il porto austriaco di Fiume, che due giorni prima era stato dichiarato parte dello stato slavo meridionale, proclamò la propria indipendenza chiedendo di unirsi all'Italia. A Budapest il conte Károlyi formò il governo ungherese, e su consenso di Carlo I, rescisse i legami che fin dal 1867 avevano tenuto insieme l'Austria e l'Ungheria e intavolò trattative tra l'Ungheria e le forze francesi in Serbia. Quello stesso 30 ottobre Carlo consegnò la flotta austriaca agli slavi meridionali e la flottiglia del Danubio all'Ungheria. Quella sera una delegazione austriaca per l'armistizio arrivò in Italia, a Villa Giusti nei pressi di Padova121. Il 1º novembre Sarajevo si dichiarò parte dello "Stato sovrano degli slavi meridionali". A Vienna e a Budapest era ormai scoppiata la rivoluzione; il giorno precedente il conte Tisza fu ucciso dalle guardie rosse nella capitale ungherese122.

L'armistizio

Il 3 novembre l'Austria firmò l'armistizio che sarebbe entrato in vigore il giorno successivo, mentre a Vienna continuava la rivoluzione rossa. Lo stesso giorno gli italiani entrarono a Trento e la Regia Marina sbarcò a Trieste, mentre sul fronte occidentale gli Alleati accolsero la richiesta formale di armistizio sul fronte francese avanzata dal governo tedesco123. Alle ore 15:00 del 4 novembre sul fronte italiano le armi cessarono di sparare; quella notte, ricordò l'ufficiale d'artiglieria inglese Hugh Dalton:
« [...] il cielo era illuminato dalla luce dei falò e dagli spari di razzi colorati. [...] Dietro di noi, in direzione di Treviso, si sentiva un lontano ritocco di campane, e canti ed esplosioni di gioia ovunque. Era un momento di perfezione e compimento124. »
 Era il 4 novembre 1918 e il comandante in capo dell’esercito d’Italia, Maresciallo Armando Diaz, dava notizia all'intero paese della conclusione del conflitto, firmando l'ultimo bollettino di guerra che sarebbe passato alla storia come il "bollettino della Vittoria", che concludeva con queste parole:
« [...] i resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo, risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano disceso con orgogliosa sicurezza »
 Il giorno seguente venivano occupate Rovigno, Parenzo, Zara, Lissa e Fiume, quest'ultima, pur non prevista tra i territori nei quali sarebbero state inviate forze italiane come previsto da alcune clausole dell'armistizio, venne occupata in seguito agli eventi del 30 ottobre, quando il Consiglio nazionale, insediatosi nel municipio dopo la fuga degli ungheresi, aveva proclamato l'unione della città all'Italia. L'esercito italiano forzò la linea del patto di Londra dirigendosi verso Lubiana, ma fu fermato poco oltre Postumia dalle truppe serbe.

Conseguenze

 All'indomani dell'armistizio, i problemi militari erano numerosi e andavano dal consolidamento di una nuova linea di confine alla riorganizzazione dei servizi territoriali e delle unità combattenti, all'assistenza alle popolazioni delle terre liberate e occupate, alla raccolta del bottino di guerra, al riordino degli ex prigionieri che affluivano dai disciolti campi austriaci. Accanto a tutto ciò andava condotta la smobilitazione reclamata a gran voce dal paese125. Il problema maggiore nell'immediato dopoguerra per l'esercito fu comunque la riorganizzazione dell'apparato militare, che necessitava di un ammodernamento. Se Caporetto fu essenzialmente una sconfitta dovuta all'imprevidenza e alle sottovalutazioni dell'alto comando, numerosi furono gli episodi che rivelarono inadeguatezze nella conduzione delle operazioni e scarsa adattabilità alle esigenze moderne. L'Ortigara aveva offerto in questo senso un chiaro esempio di ostinato rifiuto nell'azione in profondità e l'insistenza sull'offensiva ad ampio fronte. Si poneva quindi la necessità di snellimento dei reparti in vista di una maggiore autonomia, manovrabilità e potere decisionale, così come avevano fatto le forze austriache e tedesche vittoriose a Caporetto126.
Alla conferenza di pace di Parigi, l'Italia richiese che venisse applicato alla lettera il patto di Londra, aumentando le richieste con la concessione anche della città di Fiume in virtù della prevalenza numerica dell'etnia italiana nel capoluogo quarnerino, e dei fatti di fine ottobre. La città però, in base al patto, veniva espressamente assegnata quale principale sbocco marittimo di un eventuale futuro stato croato o ungherese. Gli Alleati negarono fin dall'inizio questa possibilità, e l'Italia dal canto suo fu divisa sul da farsi. Mentre Vittorio Emanuele Orlando abbandonò per protesta la conferenza di pace di Parigi, il nuovo presidente del consiglio italiano Francesco Saverio Nitti ribadì nuovamente le richieste italiane, ma nel contempo iniziò delle trattative dirette col nuovo Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.
Il 10 settembre 1919, Nitti, sottoscrisse il trattato di Saint-Germain, che definiva i confini italo-austriaci, ma non quelli orientali. L'Austria cedette all'Italia il Trentino/Alto Adige, l'Istria, l'intera Venezia Giulia fino alle Alpi Giulie col confine includente la cittadina di Volosca e le isole del Carnaro, la Dalmazia settentrionale nei suoi confini amministrativi fino al porto di Sebenico incluso, con tutte le isole prospicienti, il porto di Valona in Albania, l'isolotto di Saseno di fronte alle coste albanesi, e diritto di chiedere aggiustamenti dei confini coloniali con i possedimenti francesi e britannici in Africa127.
La Jugoslavia reclamava i territori assegnati dal patto all'Italia, che a sua volta mirava anche ad occupare Fiume. L'irrendentismo nazionalista, rafforzatosi nel corso della guerra, andò su posizioni di aperta e radicale contestazione dell'ordine costituito. Dopo l'abbandono della conferenza da parte dei delegati italiani, il mito della "vittoria mutilata" e le mire espansionistiche nell'Adriatico divennero i punti di forza del movimento che raccolse le tensioni di una fascia sociale eterogenea, della quale fecero parte gli Arditi, gli unici capaci di dare una svolta coraggiosa all'atteggiamento del governo128. In molti ambienti si diffuse la convinzione, alimentata dai giornali e da alcuni intellettuali, che gli oltre seicentomila morti della guerra erano stati "traditi", mandati inutilmente al macello, e tre anni di sofferenze erano servite solo a distruggere l'Impero asburgico ai confini d'Italia per costruirne uno nuovo e ancora più ostile ad essa.
Il 12 settembre 1919, una forza volontaria irregolare di nazionalisti ed ex-combattenti italiani, guidata dal poeta D'Annunzio, occupò militarmente la città di Fiume chiedendone l'annessione all'Italia. Solo la caduta del governo Nitti per il secondo governo Giolitti, riesce a sbloccare la situazione; Giolitti raggiunse un accordo con gli jugoslavi, dove Fiume veniva riconosciuta città indipendente, anche se D'Annunzio e le formazioni irregolari vennero costretti ad abbandonare la città solo dopo un intervento di forza129.

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Nella letteratura
 Le opere letterarie riguardanti il fronte italiano sono moltissime, qui di seguito sono elencati in ordine alfabetico alcuni tra gli scritti più famosi:
    •    Addio alle armi (A Farewell to Arms), è un romanzo ambientato in vari luoghi del fronte veneto e del nord-Italia e basato sulla trasposizione delle esperienze personali dello scrittore Ernest Hemingway, che nel 1918 prestò servizio volontario come autista di ambulanze della Croce Rossa americana (A.R.C.) nelle retrovie del Pasubio (Schio - Val Leogra) e degli Altipiani, prima di trasferirsi sul Piave, dove venne ferito mentre prestava soccorso in prima linea.
    •    Un anno sull'Altipiano, è un libro di memorie di Emilio Lussu che racconta la sua esperienza sull'Altopiano di Asiago nel 1917.
    •    Cola, o ritratto di un italiano, di Mario Puccini, è un romanzo che racconta il dramma della guerra dal punto di vista di un fante contadino.
    •    La guerra di Joseph, è un libro scritto da Enrico Camanni, che racconta le vicende militari sul fronte delle Tofane dagli occhi di due combattenti, Ugo Vallepiana e Joseph Gaspard.
    •    La rivolta dei santi maledetti, di Curzio Malaparte, è un saggio che racconta le vicende e gli errori degli alti comandi italiani durante la rotta di Caporetto.
    •    Le scarpe al sole. Cronache di gaie e tristi avventure di alpini, di muli e di vino ricostruzione dell'allora capitano Paolo Monelli della vita degli Alpini al fronte.
    •    Trincee. Confidenze di un fante, la storia autobiografica di Carlo Salsa, fante impegnato sul Carso.
    •    Uragano, romanzo di Gino Rocca che parla dell'esperienza dello stesso autore in guerra

Filmografia
 Qui di seguito in ordine cronologico, alcuni dei titoli più significativi:
    •    Montagne in fiamme (Berge in Flammen) (1931), diretto da Luis Trenker e Karl Hartl, narra la storia del Kaiserjäger Florian Dimai, guida alpina sudtirolese impegnata contro le truppe italiane.
    •    Addio alle armi (1932), diretto da Frank Borzage, tratto dal romanzo omonimo di Hemingway, a cui seguirà nel 1957 un omonimo film diretto da John Huston e Charles Vidor.
    •    La grande guerra (1959), diretto da Mario Monicelli e interpretato da Alberto Sordi e Vittorio Gassman; è considerato uno dei capolavori della storia del cinema.
    •    Uomini contro (1970), diretto da Francesco Rosi e liberamente ispirato al romanzo di Emilio Lussu "Un anno sull'Altipiano".


Patto di Londra

 Il Patto di Londra (o Trattato di Londra) del 26 aprile 1915 fu un trattato segreto stipulato dal governo italiano con i rappresentanti della Triplice Intesa in cui l'Italia si impegnò a scendere in guerra contro gli Imperi Centrali nella prima guerra mondiale in cambio di cospicui compensi territoriali.

Il Trattato segreto

Il patto restò segreto sino alla sua inattesa pubblicazione, alla fine del 1917, da parte dei bolscevichi, appena giunti al potere in seguito alla Rivoluzione russa. Il governo rivoluzionario, infatti, diede immediata e massima pubblicità ai patti diplomatici segreti rinvenuti negli archivi zaristi, e tra essi il "Patto di Londra". La pubblicazione ebbe vasta risonanza internazionale e causò grave imbarazzo alle potenze firmatarie, suscitando inquietudine presso l'opinione pubblica mondiale e ponendo in scacco il metodo della "diplomazia segreta", seguito da decenni dalle potenze europee. L'emergere del Patto di Londra diede il via ad una modifica degli orientamenti politici internazionali che influì notevolmente sulla sua non completa implementazione a guerra finita. La risoluta opposizione alla diplomazia segreta, e la sua denuncia quale metodo inaccettabile nelle relazioni internazionali, fu uno dei principali motivi ispiratori della stesura, da parte del presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson, dei suoi celebri Quattordici punti e, non a caso, il presidente statunitense si oppose risolutamente alla completa realizzazione delle rivendicazioni territoriali italiane basate sul Patto di Londra - per altro mai firmato dagli Stati Uniti - non riconoscendo ad esso, come ad accordi similari con altri paesi, alcuna validità1.
La non completa realizzazione del Patto causò grave malcontento ed agitazione in Italia, facendo sorgere il mito della "Vittoria mutilata", strumento politico che contribuì in modo decisivo alla crisi del governo liberale e alla nascita ed avvento del fascismo.
Essendo il Patto segreto un atto deciso da governo, re e gerarchie militari all'insaputa del parlamento, alcuni storici hanno ritenuto questo evento come l´atto finale del periodo di governo liberale e l´inizio di fatto di un'epoca di governi autoritari illiberali culminata con l'ascesa al potere di Benito Mussolini. Questa tesi non è tuttavia condivisa dalla maggioranza degli storici italiani e, in particolare, dai più autorevoli fra loro.
Premesse
 Allo scoppio del primo conflitto mondiale l'Italia era legata alla Germania e all'Austria-Ungheria dalla Triplice Alleanza: un patto militare difensivo stretto nel 1882 e via via rinnovato, che si contrapponeva al sistema di alleanze anglo-franco-russo della Triplice Intesa.
Nonostante i legami diplomatici, molte rimanevano le differenze tra l'Italia e gli imperi centrali: mentre questi ultimi erano nazioni militarmente e politicamente influenti, avanzate dal punto di vista economico, l'Italia era uno stato sostanzialmente non ancora unificato, in gran parte povero e arretrato, che faticava a trovare l'anelato riconoscimento tra le principali potenze europee.
Nei confronti dell'Austria-Ungheria vi era poi un contenzioso latente, relativo all'irredentismo di molti settori dell'opinione pubblica e anche di parte del Parlamento: espressioni che, spinte da un numero sempre maggiore di patrioti e interventisti, il governo faticava a controllare.
Fu così che, quando l'Austria e la Germania dichiararono guerra alla Serbia innescando la prima guerra mondiale, l'Italia rimase al di fuori del conflitto basandosi sulla natura difensiva della Triplice Alleanza che non impegnava gli stati membri nel caso di una iniziativa aggressiva. Nei successivi mesi della neutralità italiana, stante il sostanziale equilibrio delle forze schierate in campo, divenne chiaro che l'Italia poteva giocare un ruolo importante se non decisivo sull'esito del conflitto e perciò il governo intavolò una serie di trattative con i partner della Triplice Alleanza, nonché segretamente con i membri dell'Intesa, per stabilire i compensi per l'intervento italiano nella guerra o per il mantenimento del suo stato di non belligeranza.
Fu subito chiaro che l'Intesa poteva promettere all'Italia ben più di quello che volevano offrire gli Imperi Centrali, dato che gli incrementi territoriali ai quali l'Italia era interessata riguardavano soprattutto l'Austria-Ungheria, e che questo impero era restio a fare concessioni a proprie spese.

La firma del trattato

 Il trattato di Londra fu stipulato nella capitale britannica il 26 aprile 1915 e firmato dal marchese Guglielmo Imperiali, ambasciatore a Londra in rappresentanza del governo italiano, Sir Edward Grey per il Regno Unito, Jules Cambon per la Francia e dal conte Alexander Benckendorff per l'Impero russo.
Il trattato fu firmato in tutta segretezza per incarico del governo Salandra senza che il Parlamento, in maggioranza neutralista, ne fosse informato, e tale rimase finché i bolscevichi, giunti al potere in Russia dopo la Rivoluzione d'Ottobre, lo pubblicarono sul quotidiano Izvestija insieme ad altri documenti diplomatici segreti allo scopo di denunciare le trame della politica estera zarista.

Le condizioni

 Il patto prevedeva che l'Italia entrasse in guerra al fianco dell'Intesa entro un mese, ed in cambio avrebbe ottenuto, in caso di vittoria, il Trentino, il Tirolo meridionale, la Venezia Giulia, l'intera penisola istriana con l'esclusione di Fiume, una parte della Dalmazia, numerose isole dell'Adriatico, Valona e Saseno in Albania e il bacino carbonifero di Adalia in Turchia, oltre alla conferma della sovranità su Libia e Dodecaneso.
Gli artt. 1-3: le clausole militari
 I primi tre articoli del Patto di Londra ne evidenziano la natura di patto militare. Venne infatti stabilito che gli Stati Maggiori Generali di Francia, Regno Unito, Italia e Russia avrebbero concluso "immediatamente" una convenzione militare per fissare da un lato il minimo delle forze armate che la Russia avrebbe dovuto impiegare sul fronte austriaco (per alleggerire il fronte italiano) e regolare in futuro la questione degli armistizi.
Dal canto suo l'Italia si obbligava, all'art. 2, "ad impiegare la totalità delle sue risorse a condurre la guerra in comune con la Francia, la Gran Bretagna e la Russia contro tutti i loro nemici" - ossia a dichiarare guerra all'Austria-Ungheria. L'articolo successivo garantiva il "concorso attivo e permanente" all'Italia da parte delle marine militari francese e inglese fino alla fine della guerra o alla distruzione totale della marina austro-ungarica, rimandando l'ulteriore definizione ad una convenzione navale a tre che le potenze avrebbero dovuto siglare in seguito.
Il confine italo-austriaco nel 1914
 Nelle disposizioni finali del trattato (art. 16), con specifico riferimento ai primi tre articoli, l'Italia si impegnava infine ad entrare in guerra al più tardi entro un mese dalla firma dello stesso.

L'articolo 4: il confine in Trentino e Venezia Giulia

 Il Trattato di Londra, all'art. 4, affrontando il tema dei compensi territoriali italiani, stabiliva che l'Italia avrebbe ottenuto nel trattato di pace "il Trentino, il Tirolo cisalpino con la sua frontiera geografica e naturale, il Brennero,2 la città di Trieste e i suoi dintorni, la contea di Gorizia e Gradisca, l'intera Istria fino al Quarnero, compresa Volosca, e le isole istriane di Cherso e Lussin, nonché le piccole isole di Plauno, Unie, Canidole, Palazzuoli, San Pietro dei Nembi, Asinello e Gruica coi loro vicini isolotti."
La frontiera (precisata peraltro in modo poco chiaro) avrebbe seguito la linea di displuvio alpina dal passo dello Stelvio fino alle Alpi Giulie. Qui in particolare avrebbe seguito lo spartiacque per il passo del Predil, il Monte Mangart, il Tricorno e i colli Podberdò, Podlansco e Idria. Da qui la linea di confine sarebbe stata tracciata verso sudest verso il Monte Nevoso fino ad includere Castua, Mattuglie e Volosca nel territorio italiano.
In questo modo l'Italia si sarebbe assicurata, entro un confine naturale facilmente difendibile, tutto l'attuale Trentino-Alto Adige (inclusi gli attuali comuni di Cortina d'Ampezzo, Colle Santa Lucia e Livinallongo), la Venezia Giulia (ossia l'intero Litorale Austriaco con parti della Carniola) e l'Istria; per quanto riguarda le città si trattava di Trento, Bolzano, Gorizia, Trieste e Pola. Salvo lievissime deroghe al principio del confine lungo lo spartiacque alpino (a favore dell'Italia nella conca di Dobbiaco e nella Val Canale, a suo sfavore per il paese di Castua in Istria e presso il lago di Circonio) l'art. 4 del Trattato di Londra fu rispettato integralmente al momento della firma dei trattati di pace.
Non era invece inclusa la città di Fiume, "corpus separatum" della Corona Ungherese, e tale esclusione fu fonte di aspre critiche nell'immediato dopoguerra. La rinuncia a questa città - che pure era per maggioranza italiana - si basava sull'assunzione che, in seguito al conflitto, l'Austria-Ungheria avrebbe continuato la propria esistenza e che pertanto era necessario lasciarle uno sbocco sul mare per evitare che tentasse di riprendersi Trieste e Pola.

L'articolo 5: il confine in Dalmazia

L’art. 5 del Patto di Londra stabiliva che l’Italia avrebbe ricevuto la Dalmazia nei confini amministrativi austro-ungarici, a partire dal confine settentrionale presso Lissarizza e Tribagno (non includendo quindi Carlopago) fino ad un limite meridionale costituito da una linea che, partendo da Capo San Niccolò (o Punta Planca, poco a sud di Rogosnizza) e seguendo lo spartiacque verso est, avrebbe lasciato in territorio italiano "tutte le valli e i corsi d’acqua discendenti verso Sebenico, come la Cicola, la Cherca, la Butisnica e i loro affluenti". Si trattava in sostanza della Dalmazia settentrionale con le città di Zara, Sebenico e Tenin.
L’Italia avrebbe anche ricevuto "tutte le isole situate al nord e all’ovest della Dalmazia da Premuda, Selve, Ulbo, Scherda, Maon, Pago e Puntadura al nord fino a Meleda al sud, comprendendovi le isole di Sant'Andrea, Busi, Lissa, Lesina, Torcola, Curzola, Cazza e Lagosta, così come gli scogli ed isolotti circostanti e Pelagosa, ad eccezione solamente delle isole di Zirona Grande e Piccola, Bua, Solta e Brazza". Si trattava in buona sostanza delle isole dalmate settentrionali (escluse Veglia e Arbe) e delle isole curzolane; queste ultime in particolare si trovavano di fronte alla costa della Dalmazia non destinata all'Italia.
Lo stesso articolo aggiungeva anche delle disposizioni riguardo alla neutralizzazione della costa: in primo luogo la striscia immediatamente a sud del nuovo confine italiano in Dalmazia, da Capo San Niccolò fino alla parte meridionale della penisola (a metà strada verso Traù); in secondo luogo, tutte le isole non attribuite all’Italia; e infine tutto il tratto costiero meridionale della Dalmazia da Ragusavecchia esclusa fino al fiume Voiussa in Albania. Quest’ultima disposizione faceva salvi i diritti del Montenegro lungo le proprie coste attuali, ma allo stesso tempo ribadiva le restrizioni concernenti il porto di Antivari, che lo stesso regno balcanico aveva accettato nel 1909. Rimaneva quindi fortificabile la costa croata settentrionale, con la base navale di Buccari e la città di Fiume.
Il Patto di Londra osservato dal punto di vista delle rivendicazioni serbe
 Nell’alto Adriatico il tratto di costa dalla baia di Volosca fino alla frontiera settentrionale della Dalmazia (quindi incluse le città di Fiume, Novi e Carlopago con le prospicienti isole di Veglia, Pervicchio, Gregorio, Goli ed Arbe) avrebbe costituito il residuo sbocco a mare dello stato austroungarico, dati a una Croazia semindipendente ancora soggetta all'Ungheria oppure direttamente soggetta all'Impero. Mentre nel basso Adriatico tutta la costa da Punta Planca fino al fiume Drin (comprendente le città di Spalato, Ragusa e le isole non appartenenti all’Italia sarebbe stata assegnata alla Serbia. In ogni caso il porto di Durazzo sarebbe stato assegnato ad uno stato albanese indipendente (ma, come si vedrà, sotto protettorato italiano).

Gli artt. 6-7: il riassetto dell'Albania
 
A seguire, negli artt. 6 e 7, veniva stabilito il destino dei territori albanesi, nonostante si trattasse formalmente di uno stato sovrano nato tre anni prima su parte dei territori persi dall'Impero ottomano a seguito delle guerre balcaniche.
L'Italia avrebbe ricevuto la piena sovranità su Valona, sull'isola di Saseno e su "un territorio sufficientemente esteso per assicurare la difesa di questi punti" (dalla Voiussa a nord e all'est, approssimativamente, fino alla frontiera settentrionale del distretto di Chimara al sud). La parte centrale dell'Albania sarebbe invece stata riservata per la costituzione di un piccolo Stato autonomo neutralizzato e sotto protettorato italiano.
Per il resto l'Italia si impegnò ad accettare una futura spartizione dell'Albania settentrionale e meridionale fra il Montenegro, la Serbia e la Grecia secondo il disegno delle altre potenze (Francia, Gran Bretagna e Russia), così come una frontiera comune greco-serba nella porzione orientale dell'Albania, ad ovest del lago di Ocrida. La costa a sud del territorio italiano di Valona fino a capo Stilos sarebbe stata infine neutralizzata.

Gli artt. 8-10 e 12: la spartizione dell'Impero Ottomano
 
Se le disposizioni sull'Albania già presupponevano un drastico ridimensionamento dei territori ottomani in Europa, le clausole successive davano quasi per scontato uno smembramento dell'impero turco alla fine del conflitto: negli artt. 8 e 10, rispettivamente, veniva innanzitutto stabilita la sovranità italiana sulle isole del Dodecaneso e sulla Libia, occupate dal 1912, mentre per quanto riguardava i paesi arabi l'Italia aderiva alla dichiarazione delle Potenze volta a stabilire un "potere musulmano indipendente" per l'Arabia e i luoghi santi dell'Islam (art. 12).
Per il resto, le clausole erano estremamente vaghe e sostanzialmente non vincolanti: all'Italia veniva riconosciuto "in via generale" l'interesse al mantenimento dell'equilibrio nel Mediterraneo e promessa, in caso di divisione totale o parziale della Turchia asiatica, una "equa parte nella regione mediterranea vicina alla provincia di Adalia", in cui l'Italia aveva già acquisito diritti ed interessi tramite una convenzione italo-britannica. Per la zona che "eventualmente" sarebbe stata attribuita all'Italia, il Patto di Londra specificava che sarebbe stata "delimitata, al momento opportuno, tenendo conto degli interessi esistenti della Francia e della Gran Bretagna".
Anche nel caso in cui l'integrità territoriale dell'Impero Ottomano fosse stata mantenuta, il patto faceva comunque salvi i diritti di occupazione dell'Italia nella regione mediterranea vicina alla provincia di Adalia qualora le rimanenti Potenze avessero occupato il resto della Turchia asiatica durante la guerra.

L'articolo 13: le ricompense coloniali
 
A chiudere le concessioni a favore dell'Italia del Patto di Londra, l'art. 13 proclamava che per il caso in cui la Francia e la Gran Bretagna avessero aumentato i loro domini coloniali d'Africa a spese della Germania, le stesse riconoscevano "in linea di principio" che l'Italia avrebbe potuto reclamare "alcune eque compensazioni, in particolare nella sistemazione a suo favore delle questioni concernenti le frontiere delle colonie italiane dell'Eritrea, della Somalia e della Libia e delle colonie vicine della Francia e della Gran Bretagna".
Si trattava in ultima analisi di una norma che lasciava subito poco spazio alle ambizioni coloniali italiane: i cospicui possedimenti tedeschi in Africa sarebbero stati spartiti esclusivamente tra francesi e inglesi, mentre l'Italia si sarebbe dovuta accontentare di lievi correzioni di confine o di graziose concessioni di parti di colonie vicine, il tutto a discrezionalità delle Potenze dell'Intesa. Ai trattati di pace la norma fu applicata nella maniera più restrittiva e difatti l'Italia non ottenne nessuna ricompensa coloniale sino al compromesso dell'Oltregiuba nel 1924 e del Triangolo settentrionale del Sudan Britannico a sud della Libia Italiana ceduto nel 1926 oltre ad alcune piccole correzioni di confine tra l'Egitto britannico e la Libia italiana.

Conseguenze istituzionali
 
L'azione del governo all'insaputa del Parlamento andava contro la consolidata prassi parlamentare che si era affermata fin dai tempi di Cavour.
Per evitare la crisi istituzionale, considerando anche la posizione favorevole alla guerra del Re Vittorio Emanuele III, la Camera approvò, col voto contrario dei soli socialisti, la concessione dei pieni poteri al governo, che la sera del 23 maggio dichiarava guerra all'Impero Austro-Ungarico. Tuttavia, l'esistenza stessa del trattato non fu comunicata, e questo rimase segreto fino alla sua pubblicazione da parte del governo bolscevico.
Il presidente statunitense Woodrow Wilson fu uno strenuo oppositore del Trattato di Londra
 Il giorno seguente alla concessione dei pieni poteri al governo da parte del Parlamento italiano, ebbero inizio le operazioni militari.

L'epilogo
 
Con la fine della I guerra mondiale ed essendo l'Italia risultata vittoriosa nel conflitto, alla conferenza di pace di Parigi richiese che venisse applicato alla lettera il patto (memorandum) di Londra, aumentando le richieste con la concessione anche della città di Fiume a motivo della prevalenza numerica dell'etnia italiana nel capoluogo quarnerino. Così non fu a causa del parere contrario del presidente Wilson, che non avendo sottoscritto il patto non si considerava ad esso obbligato. La Francia inoltre non vedeva di buon occhio una Dalmazia italiana poiché avrebbe consentito all'Italia di controllare i traffici provenienti dal Danubio. Il risultato fu che le potenze dell'Intesa alleate dell'Italia opposero un rifiuto e ritrattarono parte di quanto promesso nel 1915. L'Italia dal canto suo fu divisa sul da farsi, e Vittorio Emanuele Orlando abbandonò per protesta la conferenza di pace di Parigi. Le potenze vincitrici furono così libere di proseguire la conferenza di pace senza la presenza italiana. Il nuovo presidente del consiglio italiano Francesco Saverio Nitti ribadì nuovamente le richieste italiane, ma nel contempo iniziò delle trattative dirette col nuovo Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, che sfociarono nel Trattato di Rapallo del 12 novembre 19203: della parte della Dalmazia promessa col patto di Londra, all'Italia andarono la città di Zara, l'isola di Làgosta e l'arcipelago di Pelagosa (più vicino alla penisola italiana che alla costa dalmata). Il resto della regione fu assegnata al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.

Campagna dei Balcani (prima guerra mondiale)


Data
3 agosto 1914 - agosto 1918
Luogo
Serbia, Bulgaria, Romania

La campagna balcanica della prima guerra mondiale fu combattuta tra gli Imperi Centrali (Bulgaria, Austria-Ungheria, Impero Tedesco ed Impero ottomano) e gli Alleati (Regno di Serbia, Francia, Impero Russo, Gran Bretagna, Regno di Montenegro, Regno di Grecia, Regno di Romania e Regno d’Italia) tra l’agosto 1914 e l’agosto 1918. Può essere considerata l’insieme di più campagne.

Campagna di Serbia


 A fine luglio 1914 l'Austria-Ungheria invase con scarso successo il regno di Serbia ma nel corso dei mesi successivi la resistenza serba fu vinta grazie anche all'aiuto di truppe tedesche e bulgare1. Le ultime operazioni terminarono nel novembre del 1915.

Campagna di Romania


 In seguito all'entrata in guerra della Romania a fianco delle potenze dell'Intesa il 18 agosto 19162 le forze rumene avanzarono nella Transilvania ungherese3, venendo però entro breve arrestate dalle truppe austro-ungariche, le quali iniziarono una controffensiva. Contemporaneamente soldati bulgari, tedeschi e turchi penetrano nel territorio rumeno da sud. Le forze rumene, sostenute dall'esercito zarista, furono costrette a evacuare il sud e l'ovest del paese, per riorganizzarsi in Moldavia. In seguito l'esercito rumeno partecipò alla grande offensiva Kerenskij che risoltasi in un insuccesso indebolì ulteriormente il governo rumeno, il quale, mancato il sostegno russo con la rivoluzione d'ottobre, fu costretto ad arrendersi. La Romania firmò con le potenze centrali il trattato di Bucarest il 7 maggio 19184, per poi dichiarare nuovamente guerra a queste il 10 novembre, un giorno prima della fine della guerra.

Campagna di Bulgaria


 La promessa tedesca di ristabilire i confini della pace di Santo Stefano convinsero la Bulgaria a dichiarare guerra alla Serbia il 15 ottobre 1915. Regno Unito, Francia e Italia dichiararono in risposta guerra alla Bulgaria. Inizialmente la Bulgaria, con l'appoggio di Germania, Austria-Ungheria e dell'Impero Ottomano, conseguì alcune vittorie contro Serbia e Romania, occupando la maggior parte della Serbia meridionale, avanzando nella Macedonia greca, e strappando la Dobrugia ai romeni. Però nel settembre 1918 serbi, inglesi, francesi, italiani e greci spezzarono il fronte macedone5e lo zar Ferdinando fu costretto a chiedere la pace6.

Fronte macedone


 Cercando di portare aiuto alla Serbia truppe inglesi, francesi, russe e italiane sbarcarono in Grecia7, dove stabilirono una linea del fronte che andava dalla costa adriatica albanese fino al fiume Strimone. Il fronte macedone rimase abbastanza stabile, nonostante alcune azioni locali, fino alla grande offensiva dell'Intesa nel settembre del 1918, cui seguì la capitolazione della Bulgaria e la liberazione della Serbia.


Battaglia di Verdun


Data
21 febbraio – 19 dicembre 1916
Luogo
Verdun-sur-Meuse, Francia

La battaglia di Verdun (in francese Bataille de Verdun, IPA: [ba'taj də vɛʁ'dœ̃]; in tedesco Schlacht um Verdun, IPA: ['ʃlaxt ˀʊm vɛɐ'dœŋ]) o operazione Gericht (giudizio) fu l'unica, grande offensiva tedesca avvenuta tra la prima battaglia della Marna del 1914 e l'ultima offensiva del generale Ludendorff nella primavera del 1918.9
Fu una delle più violente e sanguinose battaglie di tutto il fronte occidentale della prima guerra mondiale;10 ebbe inizio il 21 febbraio 1916 e terminò nel dicembre dello stesso anno, vedendo contrapposti l'esercito tedesco, guidato dal capo di Stato Maggiore, generale Erich von Falkenhayn,11 e l'esercito francese, guidato dal comandante supremo Joseph Joffre12 sostituito al termine del 1916 con il generale Robert Nivelle.
Verdun costituì un punto di svolta cruciale della guerra in quanto segnò il momento in cui il peso principale delle operazioni nel fronte occidentale passarono dalla Francia all'Impero britannico, fece svanire le ancora concrete possibilità della Germania di vincere la guerra e influenzò in parte l'entrata in guerra degli Stati Uniti nel conflitto.13
Questa spaventosa battaglia divenne una sacra leggenda nazionale in Francia, sinonimo di forza, eroismo e sofferenza, i cui effetti e ricordi perdurano ancora oggi; fu la più lunga battaglia di ogni tempo, coinvolse quasi i tre quarti delle armate francesi, e benché nella storia, e nella stessa prima guerra mondiale, ci siano state battaglie anche più cruente, Verdun detiene, forse, il non invidiabile primato di campo di battaglia con la maggior densità di morti per metro quadro.14
Il fatto d'armi che più si avvicina a Verdun avvenne durante la seconda guerra mondiale e fu la battaglia di Stalingrado, spesso considerata una "Verdun russa",15 ma mentre a Stalingrado l'esercito tedesco tentò la conquista di una città strategicamente importante, a Verdun lo scopo dell'offensiva di Falkenhayn fu quello di "dissanguare goccia a goccia" l'esercito francese.16 Nei piani del capo di Stato Maggiore tedesco, l'importanza morale e propagandistica di un attacco a Verdun avrebbe fatto in modo che tutto lo sforzo francese si riversasse nella difesa di un caposaldo ritenuto di primaria importanza per la Francia. Lo scopo era quello di convogliare il maggior numero di truppe nemiche in un solo settore, per poi colpirlo con la massima potenza possibile con il violento impiego di artiglieria, in modo da dissanguarlo lentamente infliggendogli il maggior numero di perdite possibile.

Premesse

 Le cause dell'attacco tedesco ad una delle più formidabili fortezze d'Europa, e della successiva strenua resistenza francese, hanno però delle radici più profonde, da ricercare nei fatti accaduti durante la seconda metà del secolo precedente, dalla guerra franco-prussiana del 1870 alla riorganizzazione politica e militare di Francia e Germania.
Nel luglio 1870 le forze di Napoleone III subirono alcune sconfitte iniziali non decisive, ma da quel momento in poi l'esercito francese iniziò a ritirarsi e non riuscì più a riprendersi.17 I tedeschi non dettero tregua all'esercito francese che venne costretto a ripiegare prima a Metz, dove una sua metà comandata dal generale François Bazaine venne circondata e si arrese dopo due mesi di inerzia, e poi a Sedan, in cui l'altra metà dell'esercito, comandata da Patrice de Mac-Mahon, venne intrappolata e costretta alla resa definitiva. Fu una vera e propria catastrofe per l'esercito francese che da secoli si considerava la sola vera razza di guerrieri d'Europa.18 Quattro mesi dopo il re di Prussia si proclamò Kaiser nella galleria degli Specchi della reggia di Versailles, nel palazzo su cui campeggiava la scritta À toutes les Gloires de la France davanti ad un dipinto che raffigura i francesi in atto di umiliare i tedeschi.19
La Francia si ritrovò con un esercito in sfacelo e una nazione demoralizzata e finanziariamente in serie difficoltà; l'Alsazia e la Lorena, centri industriali tra i più importanti dell'Europa e della Francia, vennero ceduti al Reich tedesco, ma l'orgoglio francese diede presto nuovo slancio al paese, ansioso di revanscismo verso l'odiato nemico tedesco.
Quindici anni dopo Sedan, l'esercito francese aveva riguadagnato la sua potenza difensiva e offensiva e la Francia, dopo essersi ripresa economicamente e militarmente, iniziò la costruzione lungo la frontiera est di un forte sistema difensivo. Per non ricadere nella trappola di Metz, invece di fortificare le città venne decisa la costruzione di due linee continue di forti. Venne realizzato così il famoso sistema Séré de Rivières, ideato dall'omonimo generale, che consisteva in una lunga linea fortificata che aveva il "nodo principale" proprio nelle fortezze di Verdun.20
Benché l'esercito tedesco del 1914 fosse molto più potente a confronto di quello del 1870,21 il sistema di fortificazioni "Séré de Rivières" avrebbe provocato lunghi e duri combattimenti in caso di attacco lungo le tradizionali vie di invasione, e l'alleanza tra Francia e Russia rendeva inevitabile per la Germania il rischio di affrontare una guerra su due fronti;22 entrambi furono fattori che influenzarono il conte Alfred von Schlieffen nell'ideare l'omonimo piano che prevedeva di schiacciare la Francia con una "guerra lampo" mentre in Russia erano ancora in corso le operazioni di mobilitazione.
La paura francese di rimanere, in caso di nuovo conflitto, impantanati in una nuova disastrosa ritirata, fece crescere nelle file degli ufficiali francesi la stima nella teoria dell'"attacco ad oltranza", elaborata dal colonnello Louis de Grandmaison, in base alla quale:
« se il nemico osava prendere l'iniziativa anche per un solo istante, ogni pollice di terreno doveva essere difeso fino alla morte e, se perduto riconquistato con un contrattacco immediato anche se inopportuno.23 »
I comandi francesi da Foch a Joffre fecero pieno affidamento su questa teoria, ritenendo inizialmente inutili e superflue anche le armi di cui l'esercito tedesco dell'epoca faceva già ampio uso, come l'artiglieria pesante a supporto della fanteria e l'uso manovrato delle mitragliatrici.24
Dal canto suo il generale Erich von Falkenhayn, conoscendo l'importanza vitale di Verdun per la nazione francese e appunto le tecniche offensive dell'esercito nemico, prevedendo che la piazzaforte sarebbe stata difesa tenacemente fino all'ultimo, elaborò un piano basato sul dissanguamento graduale, tramite il massiccio impiego di artiglieria, dell'esercito francese, che sarebbe stato decimato giorno dopo giorno per la difesa della "mistica Verdun". Tutto ciò accadde e fu applicato sanguinosamente per quasi dieci mesi, in cui la piazzaforte divenne il teatro di una gigantesca battaglia di logoramento che coinvolse entrambi i contendenti.25
Quando i tedeschi iniziarono l'assalto il 21 febbraio, erano passati solo due mesi dal giorno in cui il generale Falkenhayn era riuscito a convincere il Kaiser Guglielmo II che lo Stato Maggiore francese, essendo determinato a difendere ad ogni costo la storica cittadella posta sulla strada che da est conduceva a Parigi, "si sarebbe visto costretto a impiegare in quell'azione fino all'ultimo uomo" piuttosto che rinunciare alla fortezza e attestarsi su un'altra linea difensiva.26

La piazzaforte di Verdun

 La città di Verdun, nota già ai tempi di Roma con il nome di Virodunum, era un importante campo fortificato organizzato per sbarrare il passo alle popolazioni germaniche. Nell'843 il trattato di Verdun divise l'Europa in tre parti e segnò la nascita della Germania come nazione; per i teutonici prima e per i tedeschi poi, Verdun rappresentò un simbolo quasi mistico e benché la cittadina in base al trattato fosse in territorio francese, nel 923 cadde sotto il dominio teutonico fino alla liberazione per mano di Enrico II nel 1552.27 Cento anni dopo, fu trasformata da Sébastien de Vauban in una imponente fortezza destinata ad essere regolarmente assediata nei secoli successivi. La città fu duramente attaccata durante la guerra dei Trent'anni, poi bombardata dai cannoni prussiani nel 1792, e successivamente nel 1870 quando fu l'ultima delle fortezze francesi a cadere durante la guerra franco-prussiana.28
Nel 1916 Verdun era una cittadina tranquilla, considerata inattaccabile dai comandi francesi, che videro le fortezze intorno alla città resistere efficacemente all'assedio dell'armata del Kronprinz durante l'attacco sulla Marna del 1914. In quella occasione Verdun si ammantò di una veste ancor più "eroica" e importante di quello che già era. Da ogni lato Verdun era circondata da ripide colline lambite dalla Mosa, presidiate da numerosi forti29 che avrebbero impedito, grazie ad un efficace tiro incrociato, qualunque avanzata nemica.
Inoltre, dalla fine dei primi scontri nel settore, Verdun fu munita di una serie di profonde trincee protettive, lunghe dai 4 ai 5 km; tecnicamente la città era il punto più forte dell'intero fronte francese,30 ma in pratica si sarebbe rivelato uno dei più deboli. Questo perché la piazzaforte fu privata quasi completamente dei suoi pezzi d'artiglieria, che furono tolti per essere adoperati al fronte, in quanto dopo aver verificato la grave carenza di bocche da fuoco nelle offensive del 1915, i francesi decisero di attingere anche alle artiglierie collocate nei forti di Verdun.31 Questa decisione fu peraltro assecondata dalla teoria di Louis de Grandmaison, il quale disse che "il posto del soldato francese è in campo aperto e, se assolutamente necessario, in trincea, ma non certamente nascosto sotto un blocco di cemento".32
In questo modo il sistema difensivo più potente venne privato delle sue armi, ma successivamente anche dei suoi uomini. Questi furono mandati su altri fronti, lasciando praticamente sguarnito il caposaldo di Verdun, dove conseguentemente non fu possibile eseguire il giusto completamento del sistema trincerato a difesa del settore che, al momento dell'attacco tedesco, era privo di trincee di collegamento, reticolati e collegamenti telefonici sotterranei. Tutte necessità vitali per reggere ad un attacco nemico.
« Tremo ogni giorno. Non potrei resistere a un attacco; l'ho detto al Grand Quartier Général, ma non mi hanno nemmeno ascoltato »
 Queste le parole del generale Herr davanti al disinteresse dell'alto comando francese guidato dal generale Joffre, che di fronte all'evidente minaccia tedesca e nonostante i palesi movimenti nemici dall'altra parte del fronte, continuò a non preoccuparsi del pericolo imminente. Nonostante le ricognizioni del Service Aéronautique francese che attestavano il concentramento di artiglierie dietro le linee nemiche.3334
Questa era la condizione critica in cui si presentava il settore francese alla vigilia dell'attacco che i tedeschi avrebbero attuato a fine febbraio, mirando a conquistare uno dei simboli più importanti della Francia.

Operazione Gericht

« La Francia è stata indebolita fin quasi all'estremo limite della sopportazione [...] le armate russe non sono state completamente distrutte, ma la loro capacità offensiva è stata così duramente fiaccata che la Russia non potrà mai risollevarsi fino alla sua antica potenza[...]35 »
(Erich von Falkenhayn)

Pochi giorni prima del Natale 1915, Falkenhayn si recò dal Kaiser per proporgli un'offensiva rivolta contro la Francia. Il capo di Stato maggiore dell'esercito tedesco convinse l'imperatore ad attaccare il nemico per "finirlo" costringendolo ad arrendersi e in questo modo rivolgere tutta l'attenzione verso la Gran Bretagna. Un attacco alla Francia, spiegò Falkenhayn, «permetterebbe al nostro esercito, con mezzi limitati, di impegnare duramente l'esercito francese nella difesa di Verdun costringendolo a impiegare nella difesa fino all'ultimo uomo disponibile. In questo modo le forze francesi si dissangueranno, non potendosi più ritirare anche se volessero, e senza tener conto delle nostre eventuali avanzate, il nostro impegno in un fronte ristretto sarebbe minimo».36
Per Falkenhayn la scelta dell'obiettivo da attaccare era tra Belfort e Verdun; la scelta cadde sulla seconda opzione, soprattutto perché l'armata che avrebbe condotto l'attacco sarebbe stata la 5ª comandata dal figlio del Kaiser, il Kronprinz Guglielmo, ed una sua eventuale vittoria avrebbe avuto degli utili risvolti propagandistici soprattutto nel fronte interno.
« Il giorno dopo il ritorno di Falkenhayn, vigilia di Natale, cominciò a giungere una valanga di telegrammi, mascherati sotto il nome convenzionale di Gericht, che significa tribunale o giudizio, oppure, più raramente, luogo di esecuzione.37 »

Le fasi preparatorie
 
Il primo dei corpi d'armata predisposti per l'attacco a Verdun fu trasportato da Valenciennes, in grande segretezza, il 27 dicembre; esattamente un mese dopo, il 27 gennaio (data scelta per ragioni di buon auspicio in quanto compleanno del Kaiser), furono emanati gli ultimi ordini e fu stabilita la data dell'attacco (il 12 febbraio).38
Vennero costruite in breve tempo dieci nuove linee ferroviarie a scartamento ridotto e circa 24 nuove stazioni per portare tonnellate di rifornimenti di ogni genere,39 oltre a sette linee di raccordo per portare nella foresta di Spincourt il munizionamento dei cannoni pesanti in essa nascosti.
 Il massimo sforzo dei tedeschi era però assorbito dall'artiglieria: tutto il loro piano infatti si basava su un utilizzo massiccio di quest'arma. In linea di massima, il piano strategico prevedeva l'utilizzo dei cannoni pesanti che avrebbero avuto il compito di scavare un profondo vuoto nelle linee francesi che la fanteria tedesca avrebbe poi gradualmente occupato; sarebbero poi stati distrutti anche i flussi di rifornimento francesi grazie ad un costante e violento fuoco di sbarramento verso le retrovie, così da impedire eventuali contrattacchi organizzati. I settori francesi sarebbero stati martellati continuamente da 306 pezzi d'artiglieria campale, 542 pezzi d'artiglieria pesante, 152 lanciamine40 e vari altri pezzi di piccolo e medio calibro sistemati sui fianchi. Questo assembramento eccezionale fu tale che su un fronte di appena 14 km, vennero dispiegati circa 1.220 pezzi d'artiglieria, ossia uno ogni 12 metri circa.
Era la più grande concentrazione di artiglieria mai vista fino ad allora. I pezzi affluivano da ogni parte e ad ogni ora; tra questi vi erano inoltre ben 13 mortai da 420 mm, le famose "grandi Berta" (o "Gamma") capaci di sparare un proiettile da oltre una tonnellata, 2 cannoni da marina a canna lunga da 380 mm, di lunghissima portata e al sicuro dall'eventuale reazione francese, 17 mortai austriaci da 305 mm (o "cannoni Beta") e un'enormità di pezzi da 210 mm e 150 mm a tiro rapido che divennero la quotidianità con cui si confrontarono per quasi un anno i difensori francesi. In ordine potenza poi vennero impiegati pezzi da 130 mm, cannoni da campagna da 77 mm che erogavano un efficace fuoco di sbarramento sugli attaccanti, e una nuova e micidiale arma, il lanciafiamme, che venne impiegato per la prima volta proprio a Verdun.
La meticolosità tedesca non si fermò qui. Ogni cannone era stato accuratamente posizionato con un compito assegnato ben preciso; le colline adiacenti di Romagne e Morimont garantivano un nascondiglio ideale per i grandi pezzi "Gamma" e "Beta" che avrebbero martellato la città e i suoi forti. I pezzi navali da 380 mm dovevano devastare la città di Verdun sparandovi ognuno 40 colpi al giorno e interrompendo le vie di comunicazione a grande distanza grazie alla loro portata.41 I 210 mm42 dovevano danneggiare gravemente la prima linea francese e quando questa fosse stata conquistata, avrebbero dovuto allungare il tiro per creare uno sbarramento nelle zone intermedie, supportando così gli attaccanti per un tempo sufficiente a rinforzare le posizioni e attestarsi saldamente nelle trincee conquistate.
A questo punto le artiglierie più piccole sarebbero avanzate sulla nuova linea, protette dai cannoni pesanti, e da lì avrebbero continuato la loro opera distruttrice verso le linee francesi non ancora conquistate, mentre i pezzi da 150 mm a lunga gittata avrebbero continuato a battere d'infilata le vie d'accesso che conducevano al fronte per impedire qualsiasi contrattacco immediato.
« Nessuna zona deve essere risparmiata dai bombardamenti [...] nessuna tregua alle zone di rifornimento; il nemico non deve sentirsi al riparo in nessun luogo!43 »
 Questi erano gli ordini dati agli artiglieri tedeschi,44 e per rendere possibile l'attuazione di questi ordini, per sei giorni furono stipate munizioni per un totale di 2 500 000 proiettili, per il cui trasporto erano occorsi 1 300 treni e un enorme sforzo logistico.45
Il 1º febbraio Falkenhayn venne informato che tutti gli oltre 1 220 cannoni erano finalmente in posizione e vennero scavate le piazzole per ospitare gli obici pesanti nella prima linea tedesca in previsione della conquista delle prime linee francesi. Inoltre "truppe speciali" erano pronte per collegare telefonicamente le posizioni avanzate e segnalare con grossi palloni rossi la posizione della fanteria per indirizzare in tempo reale il tiro di sbarramento tedesco.46

La "segretezza" di Falkenhayn

 Oltre alla consueta meticolosità, i tedeschi diedero grande importanza alla segretezza, incarnata nel migliore dei modi dal feldmaresciallo Erich von Falkenhayn che, durante i preparativi per l'assedio di Verdun, assunse un ruolo fondamentale. Il resto dell'esercito venne praticamente tenuto all'oscuro dell'operazione Gericht fino all'ultimo; lo stesso colonnello Max Bauer consulente di Falkenhayn nella preparazione dell'artiglieria, ricevette i piani definitivi molto più tardi del previsto, in modo tale che non potesse più modificarli. All'estremo sud del fronte, il generale Hans Emil Alexander Gaede continuò inconsapevole i preparativi per un attacco a Belfort, che Falkenhayn in realtà non ebbe mai intenzione di effettuare, ma che avrebbe dovuto ingannare gli anglo-francesi sul vero obiettivo del comando tedesco.47
Decine di bombardamenti diversivi furono programmati in vari punti del fronte, e persino alle infermiere che arrivavano per allestire i nuovi ospedali da campo nelle retrovie di Verdun, venne detto che erano lì per curare "malattie interne". Questa "segretezza" ebbe però il suo rovescio della medaglia, lo stesso Kronprinz Guglielmo e persino l'alleato austriaco vennero lasciati quasi all'oscuro delle reali intenzioni di Falkenhayn, solo lui e il Kaiser sapevano che l'offensiva di Verdun non era diretta all'occupazione della città bensì al brutale piano di "dissanguamento" dell'esercito francese che secondo le previsioni avrebbe avuto effetti tattici e psicologici decisivi. Il comandante dell'esercito tedesco in pratica ingannò il Kronprinz assicurandogli i rinforzi che gli sarebbero serviti per una conquista di Verdun, ma che in realtà tenne a debita distanza dal fronte. Questo atteggiamento fu un errore che ebbe serie ripercussioni in occasione dell'attacco a Fort Douaumont, condotto con un numero di soldati insufficienti, che precluse il possibile sfondamento del fronte francese da parte dell'Armata del Kronprinz che al momento decisivo si trovò a corto di uomini. Persino Konstantin von Knobelsdorf, asserì più tardi, che se avesse saputo le reali intenzioni di Falkenhayn non lo avrebbe mai appoggiato; ma intanto i preparativi continuarono, ormai la macchina era in moto.48
Per i preparativi vennero poi chiamati pittori a colorare teli mimetici per nascondere gli enormi pezzi di artiglieria dalle ricognizioni aeree francesi, vennero scavate buche per nascondere le munizioni, e venne ordinato che prima dell'attacco solo i pezzi già individuati dagli aerei francesi avrebbero potuto rispondere ad eventuali tiri nemici. Ma l'arma in più dei tedeschi non fu né un pezzo d'artiglieria né una nuova tattica, bensì un complesso sistema di tunnel sotterranei scavati lungo tutta la zona dell'attacco chiamati "Stollen", che permisero alle truppe tedesche di sfruttare al meglio l'effetto sorpresa.49 Nelle offensive alleate del 1915, il massiccio assembramento di truppe nelle trincee di prima linea veniva individuato facilmente dal nemico, che reagiva con l'artiglieria causando pesanti perdite ancor prima che il nemico uscisse dalle trincee, in questo senso i tedeschi elaborarono questo nuovo sistema di strutture di "prima linea" proprio per ovviare a questo problema.
I tedeschi realizzarono un complesso di centinaia di profonde gallerie collegate tra loro scavate nel terreno, invulnerabili ai colpi d'artiglieria, da cui, al momento dell'attacco, sarebbero sbucati fuori migliaia di soldati senza che il nemico, fino all'ultimo, ne cogliesse la presenza. A Verdun inoltre, per la prima volta venne impiegata massicciamente dai tedeschi anche la nuova arma aerea: la Luftstreitkräfte radunò 168 aeroplani, 14 palloni frenati e 4 Zeppelin, una notevole forza per il tempo, che avrebbe dovuto difendere i palloni di segnalazione per l'artiglieria dall'attacco degli aerei francesi nonché impedire a questi di individuare i preparativi. Si sarebbe dovuto creare un vero e proprio "sbarramento aereo" sui cieli sopra Verdun.50

La situazione francese

 Nel campo francese invece la situazione era molto pericolosa; Verdun era praticamente sguarnita di artiglierie51 e nonostante le lamentele dei comandanti di zona il Gran Quartier General (GQG) di Joseph Joffre rimase per lungo tempo cieco davanti al pericolo. Il tenente colonnello Émile Driant, ex deputato e comandante di due battaglioni di chasseurs à pied nel bosco di Caures,52 sembrò invece rendersi conto insieme al generale Herr, dell'imminente minaccia, infatti scrisse a proposito al suo amico Paul Deschanel presidente della Camera:
« Stiamo facendo il possibile giorno e notte per rendere il nostro fronte inviolabile, ma vi è una cosa sulla quale non possiamo fare niente, la mancanza di braccia!. Ed è su questo che io la prego di richiamare l'attenzione del ministro (della Guerra N.d.T). Se la nostra prima linea venisse sfondata, la nostra seconda linea sarebbe inadeguata perché non riusciamo a rinforzarla per mancanza di operai, e aggiungo io, di filo spinato!53 »
In seguito Deschanel passò un riassunto dei suoi punti al ministro della guerra Galliéni che a sua volta scrisse a Joffre esprimendo la sua preoccupazione per aver sentito parlare di difetti in vari punti del fronte francese, tra cui Verdun. Joffre rassicurò genericamente Galliéni sullo stato delle difese francesi ma andò su tutte le furie solo pensando che qualche ufficiale avesse scavalcato le gerarchie militari ignorando il suo stato maggiore e rivolgendosi direttamente ai politici.54
Nonostante ciò, Joffre fino all'ultimo sembrò ignorare il pericolo, forse ingannato dal servizio di spionaggio francese che fu di scarso aiuto in quanto efficacemente contrastato dal controspionaggio tedesco. Nonostante l'aiuto degli inglesi (peraltro poco efficace) anche dal settore di Verdun le informazioni uscivano lentamente, venivano utilizzate poche pattuglie e i posti di ascolto erano poco efficienti. Inoltre, il brutto tempo persistente non permise ricognizioni aeree fino al 17 gennaio, ma anche successivamente, pur disponendo di documentazione fotografica, solo il 22 gennaio venne inviato un esperto in grado di decifrare le poche fotografie scattate, che riuscì solamente a rilevare la direttrice principale dell'attacco, ma non le postazioni principali delle artiglierie. Nonostante gli sforzi francesi, al momento dell'attacco furono individuate solo 70 piazzole di artiglieria, per cui i francesi non si resero conto fino all'ultimo della consistenza del raggruppamento nemico, anche questo fu uno dei motivi che convinsero Joffre e il suo GQG che un attacco tedesco non era imminente.55
Lo spionaggio francese dal canto suo, cominciò a segnalare con sempre maggiore insistenza movimenti nemici; il 12 gennaio venne riferito che l'artiglieria tedesca aveva iniziato a prendere posizione, il 14 arrivarono notizie su nuovi ospedali da campo e il 15 vennero riferiti importanti movimenti di truppe nelle retrovie. Nonostante tutto ciò il GQG era sempre convinto che la Germania56 fosse decisa ad attaccare massicciamente la Russia, e che al massimo un attacco alla Francia si sarebbe avuto nell'Artois o nello Champagne; solo il 12 febbraio arrivarono due divisioni di rinforzo a Verdun, il giorno stesso in cui i cannoni del Kronprinz avrebbero dovuto cominciare la loro opera distruttrice.57

Lo scontro di Verdun
L'attesa

«Ma il Dio delle stagioni d'un tratto si mise in testa di sconvolgere tutti i nostri piani»
(Kronprinz Guglielmo58)

Queste le parole del Kronprinz nelle sue memorie di guerra, che rappresentano in modo semplice e diretto la causa principale del perché l'attacco previsto per il 12 febbraio, fu rinviato a data da destinarsi. Le condizioni atmosferiche avverse condizionarono pesantemente i preparativi tedeschi; all'alba del giorno prestabilito, la neve cadde molto fitta e rese impossibile agli artiglieri avere una visuale ottimale, così il comandante della 5ª Armata tedesca decise di rinviare l'attacco di 24 ore, la battaglia non poteva essere iniziata se i cannoni non potevano svolgere i loro compiti con una visuale ottimale. Ma ventiquattr'ore dopo il tempo non migliorò, e neppure nei giorni a seguire, e mentre i tedeschi da una parte lottavano contro l'acqua gelida che riempiva i loro Stollen, i francesi attendevano ansiosi l'attacco nemico.59
L'attesa durò oltre una settimana, in cui i nervi di entrambe le parti dettero evidenti segni di cedimento,60 ma il giorno 20, gli uomini di entrambi gli schieramenti si svegliarono e videro per la prima volta una bella giornata di sole. Approfittando di questo, per alzare il morale alle proprie stanche truppe, l'artiglieria francese fece un'ora di fuoco senza nessuna velleità, solamente per farsi sentire. La notte del 20 febbraio però i movimenti tedeschi si intensificarono, la prima linea francese poté sentire gli ultimi treni carichi di munizioni scaricare la loro merce nei pressi del bosco di Spincourt, e aldilà della terra di nessuno poterono sentire il canto dei soldati tedeschi.61

Le prime fasi dell'offensiva tedesca

La mattina del 21 febbraio alle 8:12, in un bosco vicino a Loison, i serventi di uno dei cannoni da marina Krupp, per la prima volta dopo tanti giorni ricevettero l'atteso ordine del principe ereditario Guglielmo62: un primo proiettile da 380 mm venne sparato verso la città di Verdun, demolendo parte del palazzo vescovile. Altri colpi da 380 iniziarono a colpire inesorabili, centrando la stazione ferroviaria e i ponti fuori città: l'operazione Gericht era cominciata.63
Un bombardamento violento e preciso martellò per ore le linee francesi, distruggendo trinceramenti e linee telefoniche, e impedendo l'arrivo di qualsiasi rinforzo. Nel primo pomeriggio il bombardamento tedesco raggiunse la massima intensità,64 alte colonne di fumo si alzarono dalle linee francesi, appena un'ora dopo partì l'attacco terrestre da parte della fanteria tedesca. Gli uomini della 5ª armata tedesca, comandata dal Kronprinz Guglielmo di Prussia, avanzarono a gruppi sparsi nell'intento di aprire le prime brecce tra le trincee francesi, occupando il numero più alto possibile di posizioni nemiche, in vista del massiccio attacco del giorno successivo. In alcuni casi le pattuglie riuscirono perfino a fare prigionieri mentre i ricognitori aerei riportarono di una distruzione di vaste proporzioni nelle linee nemiche.65
Il primo giorno di battaglia non sortì per i tedeschi l'effetto sperato. I francesi resistettero stoicamente, anche se cedettero in vari punti non erano stati "spazzati via" come invece le prime ricognizioni tedesche erroneamente riportarono. Neanche la comparsa dei lanciafiamme sul campo di battaglia servì per stanare i fanti francesi dalle loro posizioni. Per il 22 febbraio lo Stato maggiore di Knobelsdorf non pose limiti all'avanzata tedesca che si sarebbe svolta con le stesse modalità del giorno precedente, bombardamento al mattino e attaccando la fanteria nel pomeriggio.66
Intorno alle 16:00 i tedeschi, appoggiati dall'artiglieria, conquistarono Haumont-près-Samogneux, creando il primo cuneo dentro le difese nemiche, ma il vero successo fu la conquista del Bois de Caures (bosco di Caures) dove incontrarono solo due battaglioni decimati di chasseurs a pied francesi comandanti da Émile Driant. I tedeschi avevano trovato il tallone d'Achille delle forze francesi, e nonostante gli uomini di Driant resistettero con caparbietà per alcune ore, la disparità di forze era troppo grande e vennero sopraffatti. Nella strenua difesa del settore Driant perse la vita.67
I vuoti dell'artiglieria francese risultarono evidenti e la controparte tedesca continuò a martellarle sistematicamente, intanto l'allarme nelle retrovie francesi crebbe di ora in ora. I tedeschi dopo aver conquistato Haumont e il Bois des Caures, ora pressavano con più insistenza cercando di aggirare da nord Verdun, passando per Samogneux. I tedeschi, come da tattica, impedirono con un violento sbarramento di fuoco l'arrivo di rinforzi a Samogneux, ma a facilitare le cose ci pensarono gli stessi francesi. Una precipitosa notizia che dava per occupata già alla sera del 22 la cittadina, mise in allarme il generale francese Herr che ordinò un intenso tiro d'artiglieria verso Samogneux per riconquistarne le posizioni, che sfortunatamente erano ancora saldamente in mano ai soldati francesi, che in questo modo vennero decimati dalla propria artiglieria.68 I tedeschi approfittando dell'errore e alle 3:00 del mattino occuparono la cittadina.69
I tedeschi con questa conquista rafforzarono il cuneo creato nelle difese francesi, la diga era stata infranta, la 37ª divisione africana messa a tamponare la falla fu decisamente poco efficace,70 e i tedeschi riuscirono ancora ad avanzare in direzione di Fort Douaumont.71
La situazione tra le linee francesi era pessima, il freddo imperversava e i ricoveri e le trincee erano state spazzate vie, le truppe erano demoralizzate e decimate, le linee di comunicazione distrutte,72 le strade interrotte e le ferrovie divelte mentre il servizio ambulanze impiegava in media 10 ore per percorrere 30 km. La situazione era quindi favorevole ai tedeschi, che però non si accorsero subito della situazione e non colsero l'opportunità di un possibile e decisivo sfondamento, anche se di lì a poco avrebbero effettuato una delle più fortunate conquiste dell'intera campagna.73
« Verdun dev'essere tenuta a qualsiasi prezzo, "Ils ne passeront pas!" (non passeranno!) è la parola d'ordine, Verdun diventa il simbolo della Francia, del suo onore e della follia della guerra.74 »

Fort Douaumont

Uno dei simboli di Verdun era rappresentato da Fort Douaumont che con il suo gemello Fort Vaux era parte integrante di un sistema difensivo costituito da 19 forti e innumerevoli posizioni fortificate di dimensioni più contenute dislocate sulla sponda orientale della Mosa. I forti erano disposti in cerchi concentrici che marcavano la successione delle linee di difesa il cui centro, nonché ultimo baluardo difensivo, era Verdun stessa. Ideato all'indomani della guerra franco-prussiana, questo sistema difensivo fu progressivamente riammodernato per adeguarlo alle esigenze della guerra moderna.75
Il forte era uno dei più potenti del mondo e il più famoso baluardo di Verdun, si ergeva imponente sulla cima più alta degli Hauts de Meuse protetto in ogni sua parte dal tiro dei suoi cannoni,76 costruito a pianta poligonale era un vero e proprio baluardo di cemento e filo spinato circondato da un fossato profondo 7 metri.77
Tuttavia agli occhi dei generali francesi la guerra moderna aveva dimostrato come il concetto di fortezza fosse diventato ormai obsoleto, lo avevano reso evidente i tedeschi con la conquista dei forti belgi di Liegi e Namur. Si decise quindi che gli uomini e le armi alloggiati a Douaumont avrebbero avuto un utilizzo più proficuo in servizio attivo e si procedette dunque alla smobilitazione di parte dei pezzi di artiglieria del forte e di praticamente tutta la guarnigione che allo scoppio della guerra contava 500 uomini ma che al momento della battaglia ne avrebbe contati solo 56. I vertici militari francesi non avevano però tenuto conto del fatto che Liegi fu conquistata a caro prezzo dai tedeschi e che Douaumont era rimasto praticamente intatto dopo i tentativi di conquista avvenuti nel 1914.78
Le difese del forte risultarono quindi notevolmente indebolite dalla nuova politica difensiva dei generali francesi; le condizioni di debolezza del forte e la consapevolezza di dover fare qualcosa al riguardo si persero nel passaggio del comando dal 30º al 20º corpo. Fu una disattenzione inevitabile per generali che erano ancora abituati a considerare i forti come completamente autonomi e che quindi lasciarono i pochi uomini all'interno del forte senza rinforzi, rifornimenti, informazioni né ordini.79
Il 25 febbraio, dopo soli quattro giorni di battaglia, Fort Douaumont venne preso di mira dal 24º reggimento del Brandeburgo e dal 12º reggimento granatieri. Il consueto bombardamento di annientamento iniziò alle 9:00 del mattino del 25 febbraio, e quando partì l'attacco della fanteria, in meno di 25 minuti il 2º battaglione del 24º reggimento raggiunse l'obiettivo avanzando di 1200 m facendo 200 prigionieri e sbaragliando le poche truppe nemiche rimaste in zona. Uno dei simboli francesi, cadde nel giro di un pomeriggio.80
Come detto il forte era presidiato da soli 56 uomini comandati dal sergente maggiore Chenot che per la maggior parte si erano rifugiati nei sotterranei per sfuggire alla furia dei bombardamenti mentre solo Chenot e pochi altri erano rimasti nella torretta del cannone da 155 mm a sparare qualche colpo.81 Quando le avanguardie tedesche raggiunsero il forte, furono sorprese dal totale silenzio delle armi dei difensori e si avventurarono nella struttura più per curiosità che per un ordine diretto.82 I primi ad arrivare furono gli artieri del sergente Kunze che, superato il fossato, riuscirono ad entrare da una finestrella; esplorando i corridoi interni riuscirono a mettersi in contatto con le squadre del tenente Radtke, del capitano Haupt e del tenente von Brandis8384 che nel frattempo avevano seguito Kunze all'interno, così facendo riuscirono a circondare i francesi che sorpresi si arresero senza sparare un colpo.85
« Il successo maggiore che lo sforzo tedesco avesse raggiunto sul fronte occidentale »
 Così scrisse un corrispondente di guerra sul fronte di Verdun, dove il più considerevole sfondamento dopo la Marna fu propagandato e acclamato in tutta Germania. Persino il Kaiser espresse il suo compiacimento per l'impresa al quartier generale del Kronprinz. Con la conquista del forte i tedeschi poterono ora contare su una posizione favorevole che gli permise di dominare il campo di battaglia nella sua interezza nonché di un rifugio dove organizzare postazioni per i feriti, ammassare le truppe e immagazzinare provviste armi e munizioni.86
Dall'altra parte, il governo francese cercò in ogni modo di far accettare la sconfitta all'opinione pubblica, drammatizzando le perdite tedesche fino quasi all'assurdo, e dichiarando che ai tedeschi era stato concesso di occupare una rovina ormai inutile dopo decine di attacchi falliti. Ma la realtà era ben diversa. I francesi per la loro inadeguatezza non furono in grado di riconquistare il forte, i velleitari e sprezzanti assalti alla "de Grandmaison" non ebbero alcun effetto, i rifornimenti erano assenti e il morale a livelli bassissimi. Ciò aiutò la diffusione di panico ed a episodi di diserzioni sempre più frequenti, molto spesso repressi con la forza. Gli abitanti di Verdun si riversarono per le strade per fuggire e cominciarono a imperversare i saccheggi, e al fronte le cose andavano di male in peggio.87

Pétain prende il comando

 Le notizie della perdita di Fort Douaumont arrivarono velocemente anche al quartier generale francese, e come prima cosa Joffre acconsentì alla scelta del suo secondo, il generale Edouard De Castelnau, di inviare immediatamente a Verdun la 2ª armata fino ad allora lasciata in riserva, comandata da Philippe Pétain. Inoltre il Capo di Stato Maggiore De Castelnau, ottenne i pieni poteri per la piazza di Verdun e vi si recò immediatamente per controllare di persona la situazione ormai disperata.88
De Castelnau ordinò subito a Pétain di difendere fino alla morte le due rive della Mosa, accettando in pieno la sfida di Falkenhayn che in questo modo poté eseguire in pieno il suo piano di "dissanguamento graduale" dell'esercito francese, ormai deciso a resistere ad ogni costo per difendere la mistica Verdun.8990
Pétain fu un generale in un certo senso più "umano" e capace dei vari Joseph Joffre e Douglas Haig, mentre i due sembravano rimanere impassibili di fronte alle smisurate perdite umane, Pétain al contrario aveva molto a cuore la sorte dei suoi soldati91 e riteneva inutili quelle immediate controffensive tanto esaltate dalla dottrina di De Grandmaison. Philippe Pétain pensava invece che un attacco si sarebbe dovuto svolgere gradualmente, con obiettivi limitati e con la sicurezza di iniziare con una forza d'attacco superiore a quella del nemico, che avrebbe garantito il successo dell'attacco; al contrario, fino ad allora, e anche per il resto della guerra, gli alleati continuarono a concepire la vittoria come un enorme, unico sfondamento congiunto su tutto il fronte,92 sacrificando in questo modo centinaia di migliaia di soldati.
« se Pétain ordina un attacco ci dev'essere qualche possibilità di riuscita, e non vi sarebbe stato un insensato sacrificio di vite umane secondo le abitudini di quegli ambiziosissimi generali, intenti solo ad ottenere ricompense dalla conquista a qualsiasi prezzo di alcuni metri di trincee nemiche93 »
Pétain giunto a Verdun si accorse subito che la situazione non era così disperata. Come prima cosa cancellò l'ordine di riconquista immediata di Douaumont, che in fondo era solo una fortezza di forte valore simbolico più che tattico, altri rinforzi erano inoltre in arrivo, così venne deciso di organizzare successivamente un contrattacco con mezzi migliori e più possibilità di riuscita. Il futuro maresciallo di Francia diede inoltre un grandissimo impulso nell'affrontare il problema delle comunicazioni e dei rifornimenti: in questo frangente nacque il mito della Voie Sacrée, unica arteria che conduceva a Verdun che sarebbe diventata la vitale via di rifornimento durante tutta la battaglia e uno dei simboli della stessa94, dove a giugno, durante la punta massima della battaglia, vennero impiegati 12.000 veicoli al giorno con il ritmo di uno ogni 14 secondi95

Il Mort-Homme

 Malgrado l'iniziale impeto, l'attacco tedesco tra la fine di febbraio e l'inizio di marzo si era lentamente impantanato anche per via del riassetto che Pétain dette alle linee del fronte, dove vennero portati numerosi pezzi d'artiglieria e migliaia di uomini, mentre i tedeschi si trovarono a dover avanzare in un terreno fangoso e sconvolto dai loro bombardamenti, che non consentiva di far avanzare i pesanti cannoni come la loro tattica prevedeva. Ora l'intensità del fuoco tedesco era minore, e i francesi riuscirono a resistere con grande efficacia, causando ingenti perdite agli attaccanti, che non riuscirono più a sfruttare il vantaggio di potenza di fuoco che avevano all'inizio. Falkenhayn fin dall'inizio dell'offensiva negò gli immediati rinforzi al Kronprinz, nonostante in quel momento le forze francesi fossero vicine al collasso decisivo. L'indecisione cronica del capo di Stato Maggiore precluse al comandante della 5ª armata altre forze utili allo sfondamento; l'erede al trono tergiversò aspettando i rinforzi perdendo così la più grande occasione di sfondare le linee francesi, in quel momento nel caos più totale. Sfruttando l'indecisione nemica, le linee francesi si rinforzarono rendendo la battaglia in tutto e per tutto simile alle sanguinose offensive di logoramento che caratterizzarono il fronte occidentale.96
Ora, in occasione del rinnovato attacco deciso da Falkenhayn, i tedeschi portarono a Verdun ingenti forze, ben lontane dalle "limitate risorse" con cui Falkenhayn intendeva condurre inizialmente l'azione, e ben superiori a quelle che a febbraio sarebbero servite per uno sfondamento decisivo. Venne deciso di condurre una vasta azione anche sulla riva sinistra della Mosa per alleggerire la riva destra ormai teatro di violenti scontri. E proprio sulla riva sinistra, vi era un'altura allungata e scoperta, perpendicolare al fiume che aveva una notevole visuale in ogni direzione, il Mort-Homme. La sua conquista avrebbe eliminato le batterie francesi riparate dietro di questo, e consentito di dominare anche la successiva altura verso Verdun, il Bois Bourrus.97
Nonostante i febbrili preparativi francesi per affrontare l'attacco, questo ebbe inizialmente facili successi, la 77. brigata tedesca superò la Mosa, fino a conquistare i villaggi di Regnéville-sur-Meuse, Forges-sur-Meuse e l'altura "Quota 265" sulla Cote de l'Oie. D'altro canto il primo attacco al Mort-Homme fu fermato praticamente alla partenza da un intenso sbarramento di artiglieria francese, e una prima conquista da parte tedesca del Bois de Corbeaux (un bosco sul lato di nord-est del Mort-Homme da cui avrebbero portato i successivi attacchi) venne annullata dal contrattacco francese che si rimpossessò del bosco. Il 14 marzo un primo attacco venne condotto dai tedeschi verso il Mort-Homme, la battaglia durò per alcuni giorni, ma sistematicamente come per i successivi due mesi ondate di fanti tedeschi avanzarono in un terreno dilaniato dai loro bombardamenti preliminari per poi essere massacrati dalla risposta dell'artiglieria francese. Le perdite crebbero vertiginosamente da ambo le parti, alla fine di marzo il totale delle perdite tedesche era di 81 607 uomini contro le 89 000 francesi.98
Il villaggio di Maucourt-sur-Orne dopo l'azione tedesca del 5 aprile.
Più i combattimenti infuriarono, più i tedeschi si trovarono in svantaggio. I boschi dove nascondere l'artiglieria e dove utilizzare la tattica dell'infiltrazione stavano scomparendo a causa dei massicci bombardamenti che subivano e i lanciafiamme non sortivano più l'effetto pauroso degli inizi. Anzi, i serventi dei Flammenwerfer divennero ambiti bersagli, in quanto una pallottola poteva far esplodere i serbatoi di petrolio che alimentavano le armi e in questo modo uccidere oltre che il servente anche tutti i soldati che stavano nelle vicinanze. Per di più su un'altura gemella a destra del Mort-Homme, "Quota 304", i francesi sistemarono artiglieria e mitragliatrici, in modo tale da prendere sul fianco le avanzate tedesche e riuscendo ad immobilizzare qualunque avanzata nemica. I tedeschi decisero quindi di smettere i tentativi verso la Mort-Homme finché non si fossero impossessati di Quota 304. Il 20 marzo l'attacco dell'11ª divisione bavarese ebbe un insperato successo conquistando alcune posizioni ai piedi delle due alture con limitate perdite, e catturando 2 825 francesi della 29ª divisione.99
I tedeschi continuarono ad avanzare, il 31 marzo cadde Malancourt, il 5 aprile Maucourt-sur-Orne e l'8 Béthincourt, mentre il 9 venne decisa una grossa offensiva lungo l'intero fronte di Verdun, su ambedue le rive della Mosa, "facendo cioè quello che avrebbero dovuto fare il 21 febbraio". Fu lo sforzo maggiore dal primo giorno dell'offensiva a febbraio, vennero impiegati 17 treni carichi di munizioni e decine di migliaia di uomini. Ma tutto ciò non fu sufficiente, seppur con piccoli cedimenti il fronte francese resistette, da quel giorno però fu un continuo susseguirsi di sanguinosi attacchi e contrattacchi, che resero la collina un vero e proprio tappeto di cadaveri. Il 3 maggio i tedeschi prepararono un nuovo e forse decisivo attacco, vennero posizionati oltre 500 pezzi d'artiglieria su un fronte di meno di 2 km che martellarono le linee francesi per oltre due giorni, causando tra le file francesi terribili perdite. Dopo tre giorni di combattimenti i tedeschi occuparono Quota 304. Da lì, alla fine di maggio conquistarono tutto il Mort-Homme e il villaggio di Cumières-le-Mort-Homme, ora il margine di ritirata dei francesi era esiguo e tutte le forze tedesche in occidente potevano essere lanciate contro gli uomini di Pétain sulla riva destra della Mosa.100

L'onore francese

Nonostante le avanzate tedesche sulla riva sinistra, sulla riva destra della Mosa le cose non andavano altrettanto bene per l'esercito del Kaiser. Nei successivi tre mesi le avanzate da entrambe le parti furono minime al costo di perdite gravissime. Nella riva destra appunto, i combattimenti si svolsero per tutto il periodo in una piccola zona, chiamata il "quadrilatero della morte" a sud di Fort Douaumont, dove i soldati cadevano a migliaia per un tira e molla da entrambe le parti che non superò mai i 1.000 m di avanzata. Nonostante i primi segni di tensione tra i comandi tedeschi, l'offensiva non venne fermata sulla base di considerazioni che facevano credere di poter sopportare altre grandi offensive, che al contrario i francesi a corto di uomini, non avrebbero potuto reggere.101
Ma le cose erano ben diverse, l'esperimento del "dissanguamento totale" funzionava, ma coinvolgeva anche le truppe tedesche. Al primo maggio infatti le perdite erano rispettivamente di 126.000 uomini per i tedeschi contro i 133.000 francesi. Tra le file dei primi serpeggiava però il timore di un'offensiva inglese di "alleggerimento", così Falkenhayn decise per una energica offensiva della 5ª Armata verso il Forte di Souville che sarebbe dovuta proseguire con attacchi sulla riva destra, nonostante questa decisione incontrasse i pareri negativi del generale Bruno von Mudra che non considerava utile un'altra offensiva. Anche il Kronprinz sosteneva che oramai l'operazione Gericht era fallita,102 come concordava anche buona parte dello Stato Maggiore della 5ª Armata, ma non il capo di Stato Maggiore, generale von Knobelsdorf che mise al posto di von Mudra al comando del III Corpo d'armata il generale Ewald von Lochow, il quale sostenne insieme a Falkenhayn la continuazione dell'azione sulla destra del fronte per tentare un ennesimo sfondamento in direzione Verdun.103
Dopo tre mesi e mezzo di violenta battaglia, Verdun aveva ormai assunto un valore simbolico per entrambe le parti. Una cittadina oramai praticamente disabitata e semi distrutta dai bombardamenti era divenuta una questione d'onore più che strategica per la Francia. L' Honneur de la France appunto, obbligava le forze francesi a mantenere a qualunque costo la cittadella e allo stesso tempo impegnava ogni sforzo tedesco nella conquista di quell'angolo di Francia che ormai rappresentava un vero e proprio crocevia per il destino di entrambe le nazioni coinvolte.
« Come in una tenzone individuale e leggendaria a Verdun era la virilità di due popoli ad essere in gioco, nessuno dei due contendenti voleva né poteva cedere, spinti da un impeto incontrollato che andava al di là della volontà umana e che continuava implacabilmente a richiedere un enorme prezzo di vite umane.104 »
Nonostante tutto proseguirono i preparativi per il nuovo attacco tedesco, i francesi dal canto loro erano però in una situazione critica: fortemente indeboliti sulla riva destra e sopraffatti a sinistra, dove venivano martellati dall'artiglieria piazzata sulla Mort-Homme e su Quota 304.105

La "Coppa di Maggio"

 I preparativi per un nuovo assalto, che portava il nome convenzionale di "coppa di maggio", proseguirono con grande rapidità, il peso dell'attacco fu simile a quello del 21 febbraio, ma su un fronte di 5 km, che comprendeva l'attacco alle future basi di partenza per l'assalto finale a Verdun, ossia la piazzaforte di Thiaumont, l'altura di Fleury il Forte di Souville, ma soprattutto il Forte di Vaux, ossia il bastione a cui era ancorata l'estremità nord-est della linea francese.106
Malgrado gli sforzi di Pétain, i tedeschi conservavano ancora una sensibile superiorità di artiglieria, con 2200 pezzi contro 1777, e la stampa tedesca ancora una volta si pronunciava:
« Ci stiamo proponendo seriamente di prendere Verdun...107 »

Fort Vaux

 Il forte di Vaux era già stato precedentemente preso d'assalto dai tedeschi, ma il loro impegno si profuse invece verso la conquista di Fort Moulainville (gemello di Fort Douaumont), che venne assediato dalle "grandi Berta" che vi causarono enormi danni ed enormi perdite. Per non subire grosse perdite, le guarnigioni francesi avevano imparato a ripararsi nelle trincee al di fuori del forte durante il giorno, per poi ritornare nelle posizioni la notte. Inoltre anche i tedeschi avevano i loro problemi: l'utilizzo costante dell'artiglieria aveva danneggiato le canne degli enormi pezzi da 420mm che erano diventati molto imprecisi, e a volte erano esplosi durante gli spari. In vista dell'attacco quindi, i tedeschi poterono impiegare "solo" 4 Berta invece delle 13 impiegate a febbraio, che vennero concentrate sui due forti di Souville e Vaux.108
Il 1º giugno partì l'attacco alle trincee difensive del forte di Vaux, che furono sopraffatte interamente il giorno dopo, mentre un terribile fuoco di sbarramento tedesco pioveva sul forte. All'alba del 2 giugno il fuoco di sbarramento cessò di colpo, e la 50ª Divisione comandata dal maggiore generale Weber Pasha109 iniziò immediatamente l'attacco verso il forte. Appena i soldati tedeschi arrivarono nel fossato del forte, una pioggia di proiettili si riversò su di loro, nonostante questo, alle 5:00 del mattino uno dei più importanti capisaldi del forte cadde in mano tedesca, e dopo ore di duri combattimenti nel pomeriggio ormai le strutture esterne del forte erano in mano tedesca. I combattimenti si spostarono quindi all'interno, tra le buie gallerie del forte, dove i francesi si erano barricati e dove entrambi gli schieramenti combattevano tra angusti corridoi, in una battaglia illuminata solamente dalle granate che a causa degli spazi ristretti, causavano ferite orribili.110
Il 4 giugno, Robert Nivelle ordinò un immediato contrattacco contro gli occupanti di Fort Vaux, ma senza esito; intanto i genieri tedeschi portarono all'interno del forte sei lanciafiamme, ma la strenua resistenza francese non cessò nonostante l'utilizzo di queste terribili armi e nonostante la mancanza d'acqua nei serbatoi del forte. In aiuto dei francesi intervenne però la batteria da 155 mm del forte di Souville, che colpì duramente i tedeschi, i quali, dopo il quarto giorno di assedio iniziarono a perdere le speranze, anche in nome delle pesanti perdite subite dall'inizio dell'attacco. Ma il 7 giugno i francesi, oramai senz'acqua e praticamente lasciati isolati dal resto dell'esercito, non riuscirono più a resistere e consegnarono la chiave di bronzo del forte al tenente Werner Müller, capo dei mitraglieri tedeschi.111

Falkenhayn viene sostituito

 Per i tedeschi, non rimaneva altro che conquistare l'ultimo caposaldo, il forte di Souville, per spalancare la strada verso Verdun e quindi penetrare con decisione in direzione di Parigi. Il capo di Stato Maggiore Konstantin von Knobelsdorf riuscì a raccogliere oltre 30.000 uomini per l'attacco conclusivo che avrebbe permesso di entrare nella cittadina entro la fine di giugno. A questo attaccò partecipò anche il Corpo d'armata alpino del generale Konrad Krafft von Dellmensingen, di cui facevano parte il tenente Franz von Epp e l'oberleutnant Friedrich Paulus.
L'attacco iniziale fu micidiale, i tedeschi per l'occasione utilizzarono un nuovo gas che le maschere francesi non riuscivano a filtrare, il fosgene, che intossicò all'istante quasi 1600 soldati e permise ai tedeschi di avanzare per quasi 2 chilometri prima di essere fermati dalla reazione francese. L'effetto dei gas durò meno del previsto, e le batterie francesi riuscirono presto a tornare in funzione, inoltre le batterie ai lati del fronte non furono intaccate dal lancio di gas per cui non subirono alcun danno, permettendo alle truppe francesi di fermare l'avanzata tedesca.
L'ultimo tentativo tedesco di conquistare Verdun fallì con perdite elevate e da lì a pochi giorni Erich von Falkenhayn dovette fronteggiare l'imponente offensiva anglo-francese sulla Somme.
Il 10 luglio i tedeschi tentarono un nuovo attacco con tre divisioni su un fronte di pochi chilometri, con l'utilizzo del fosgene, ma la pioggia si mise a cadere lo stesso giorno, rendendo il terreno un vero e proprio pantano aiutando i francesi a fermare anche quest'ultimo attacco nemico, e addirittura a ricacciare i tedeschi sulla linea di partenza.
La "limitata offensiva" di Falkenhayn era già costata quasi 250.000 uomini all'esercito tedesco, ossia il doppio degli effettivi delle nove divisioni concesse al Kronprinz nell'offensiva iniziale di febbraio. Nonostante poi il 14 luglio fu dato l'ordine di fermare qualunque offensiva tedesca a Verdun, la carneficina non si fermò in quanto i francesi non erano sicuri che quella sarebbe stata l'ultima offensiva tedesca, e i tedeschi erano ormai inchiodati nella difesa di posizioni avanzate, che se abbandonate avrebbero avuto un peso psicologico enorme tra le truppe del Kaiser.
Il Kronprinz a questo punto si recò dal padre Guglielmo II per convincerlo a sostituire il suo capo di Stato maggiore von Knobelsdorf, che ancora considerava la possibilità di un ennesimo assalto teso a sfondare il settore, e il comandante in capo Falkenhayn. Il primo fu mandato sul fronte orientale, mentre Falkenhayn fu sostituito da comandante dell'esercito il 28 agosto dal duo Paul von Hindenburg ed Erich Ludendorff, che ordinarono immediatamente la cessazione di ogni attacco, in attesa delle inevitabili controffensive francesi.

Le controffensive francesi

 Tra aprile e settembre le truppe francesi avevano tentato diverse volte di respingere i tedeschi ma praticamente ogni tentativo era stato vanificato dalla disorganizzazione degli attacchi che vennero effettuati da un numero insufficiente di uomini e senza un appoggio adeguato dell'artiglieria. Il generale Charles Mangin, che aveva fama di non farsi scrupolo delle perdite subite dalle sue divisioni,112 ordinò diversi attacchi a Fort Douaumont che si risolsero in un bagno di sangue per i francesi. L'artiglieria, specialmente i mortai da 370 mm che tanto piacevano a Mangin, si era difatti rivelata del tutto inadeguata a penetrare le mura di calcestruzzo del forte113 così come la coordinazione tra i vari reparti che parteciparono agli attacchi; nonostante ciò durante questi attacchi alcuni gruppi di soldati riuscirono a raggiungere il tetto del forte ma furono di fatto tutti uccisi o fatti prigionieri.114115
Ad ottobre l'andamento della battaglia sarebbe però drasticamente cambiato. I francesi cominciarono a preparare una serie di offensive su larga scala che poterono contare sullo sforzo dei tre grandi protagonisti della battaglia, il trio composto da Robert Nivelle, Philippe Pétain e dal già citato Charles Mangin, che per la prima volta da febbraio avrebbero organizzato un'offensiva degna di tale nome, aspettando prima di tutto di avere la superiorità nell'artiglieria e negli uomini. L'attacco principale avrebbe avuto come primo obiettivo la riconquista di Fort Douaumont, con in tutto otto divisioni,116 e oltre 650 cannoni pesanti, con a disposizione circa 15 000 tonnellate di proiettili. Il 19 ottobre partì quindi un poderoso bombardamento preliminare francese che per tre giorni sconvolse le linee tedesche, avvalendosi fino a mezzogiorno del 23 di giganteschi pezzi da 400 mm della Schneider-Creusot che martellarono Douaumont fino ad allora "lasciato in pace", devastandone le casematte e le strutture, portando i tedeschi ad evacuare il forte riuscendo là dove i mortai da 370 mm avevano fallito.117
Intanto con un ingegnoso trucco messo in atto da Nivelle118 le batterie tedesche subirono moltissimi danni; al mattino del 24 ottobre, si stima che le artiglierie francesi avessero sparato quasi 250.000 colpi.119
Il mattino del 24 ottobre sotto una pesante nebbia incominciò l'attacco francese accompagnato dallo squillo acuto delle trombe reggimentali, proprio per questa nebbia le poche batterie tedesche rimaste non poterono aprire il fuoco, Fleury e l'Ouvrage de Thiaumont caddero in pochi minuti, e avanzarono con una tale rapidità da cogliere le truppe nemiche del tutto impreparate. Douaumont fu riconquistato in giornata, e i soldati francesi furono impressionati dalle devastazioni che lo stesso forte subì dai loro cannoni da 400 mm, e verso mezzogiorno iniziò la lunga fila di prigionieri diretti al Forte di Souville. Il 2 novembre cadde anche il forte di Vaux, sotto l'attacco della 2ª Armata francese, e il 15 dicembre partì il secondo e sanguinoso ultimo attacco francese che il Kronprinz descrisse con queste semplici parole:
« questo giorno nero. »
L'esercito francese avanzò di circa 3 km oltre un Douaumont devastato, riconquistarono anche parecchie delle posizioni perdute in febbraio120 ottenendo senza ombra di dubbio la "più brillante vittoria dopo la Marna", impiegando pochi giorni per conquistare le posizioni che il Kronprinz catturò in quasi quattro mesi e mezzo.121
Fondamentale fu l'utilizzo dello "sbarramento mobile" ad ondate successive messo in atto da Nivelle, che si dimostrò un autentico successo, e causò per la prima volta durante la battaglia di Verdun, più perdite tra i tedeschi122 che tra i francesi. La Francia celebrò la sua El Alamein della prima guerra mondiale,123 e celebrò il suo eroe, il generale Nivelle, mentre colui che aveva preparato la resistenza francese durante i momenti più difficili, Pétain, fu eclissato, e stessa sorte toccò all'ormai dimenticato Joseph Joffre.124

Le cause della mancata vittoria tedesca

 L'esperimento di "dissanguamento totale" messo in atto da Falkenhayn, che per essere raggiunto costò la possibilità di vittoria alla 5ª Armata del Kronprinz in febbraio, fu costellato da diversi errori tattici soprattutto attribuibili alla cronica indecisione del comandante in capo dell'esercito. Il mancato assalto simultaneo ad entrambe le rive della Mosa e la mancata concessione di truppe di riserva nel momento cruciale dell'attacco, tra febbraio e marzo, impedirono alle preponderanti forze tedesche di sfondare le linee francesi. Queste resistettero e riuscirono a rinforzarsi, rendendo il fronte di Verdun una logorante tenzone tra due eserciti determinati a svolgere il loro compito. L'indecisione e l'indole verso la "segretezza", caratteristiche di Falkenhayn, misero in difficoltà i vari comandanti tedeschi impegnati nei combattimenti a Verdun, ma anche i comandanti alleati; infatti altro grave errore, spesso sottovalutato, fu quello di non informare l'alleato austriaco, il feldmaresciallo Conrad von Hötzendorf, dell'intenzione di attaccare Verdun.125126
Una delle cause concomitanti nella sconfitta degli Imperi centrali durante la Grande Guerra, fu appunto la mancanza di coordinazione e comunicazione tra gli eserciti alleati, decisamente più scarsa del seppur difficile rapporto che per esempio avevano dall'altro lato prima Joffre e poi Foch con l'esercito inglese. Gli Imperi centrali non seppero sfruttare al meglio il loro unico grande vantaggio, la rete ferroviaria e stradale che collegava capillarmente i due imperi, che se opportunamente sfruttata avrebbe consentito comunicazioni rapide e celeri movimenti di truppe verso tutti i fronti di battaglia. Le continue richieste di aiuto austriache sul fronte orientale distolsero parecchie truppe tedesche ad occidente, e ciò non fece altro che incrinare i rapporti tra i due imperi, i cui comandanti in capo già citati vedevano lo svolgimento della guerra in due modi completamente opposti.127128
Questa concomitanza di fattori, e la reciproca "antipatia"  tra Falkenhayn e von Hötzendorf, si rifletté fortemente anche durante i combattimenti di Verdun, a causa delle avventate mosse tattiche che l'alleato austriaco compì in Italia all'insaputa dei tedeschi.129

Brusilov

 Quando von Hötzendorf venne a sapere dell'offensiva tedesca a febbraio, con una segretezza degna dello stesso Falkenhayn, cominciò a preparare un'offensiva contro gli italiani senza avvisare l'alleato tedesco e impiegando cinque delle migliori sue divisioni prelevate da oriente.130 Gli italiani subirono gravi perdite ad Asiago, ma in un mese riuscirono a fermare l'avanzata nemica, mentre proprio ad oriente uno dei peggiori disastri dell'intera guerra stava per colpire gli austriaci.131
In risposta alla disperata richiesta di Poincaré di un'offensiva di alleggerimento, lo zar Nicola II ordinò al generale Brusilov di attaccare le linee austriache in Galizia, proprio nella zona da cui von Hötzendorf ritirò le divisioni destinate all'attacco in Italia.132 Il 4 giugno il generale Brusilov attaccò con 40 divisioni e il fronte austro-ungarico crollò di schianto, gettato nel caos dalle numerosissime cariche dei cosacchi. Ben 400.000 uomini furono presi prigionieri dai russi.133
L'8 giugno, il giorno in cui venne sferrata a Verdun la nuova offensiva tedesca, von Hötzendorf si recò a Berlino da Falkenhayn, per chiedere l'aiuto tedesco.134 Falkenhayn, intuendo il fallimento del suo piano strategico, fu costretto a togliere frettolosamente tre divisioni dal fronte francese da inviare in Galizia a supporto dell'alleato austriaco in difficoltà per via dell'offensiva russa. Per questo motivo al principe ereditario fu ordinato di fermare temporaneamente l'offensiva a Verdun, anche in vista dell'approssimarsi dell'offensiva inglese ad occidente. Ma il pericolo ad oriente cominciò presto ad apparire meno minaccioso, e le batterie britanniche non avevano ancora cominciato il loro fuoco, così Falkenhayn e Knobelsdorf fissarono per il giorno 23 giugno la ripresa dello sforzo verso il forte di Souville. Sfortunatamente per i tedeschi, la tempestiva offensiva russa permise ai francesi di prendere tempo per ricomporsi, permettendo a Nivelle e Pétain di rinforzare le difese sul fronte di Verdun e difendersi così dal nuovo attacco, che non ebbe successo.135

La Somme

« l'esercito francese avrebbe potuto cessare di esistere! »
 Queste furono le parole con cui Douglas Haig ricordò il commento agitato di Joffre quando il 26 maggio questi si recò da lui per fargli pressione affinché accelerasse i preparativi di attacco che l'esercito alleato avrebbe dovuto iniziare nella seconda metà dell'agosto 1916, quando una imponente offensiva forte di 65 divisioni, si sarebbe dovuta sferrare sulla Somme.136
Il comandante supremo francese era ormai preoccupato sulla capacità di resistenza del suo esercito sotto l'incessante martellamento dell'artiglieria tedesca che non dava pace ai francesi di stanza a Verdun. Le sue perplessità preoccuparono seriamente anche l'alleato inglese, che decise così di anticipare l'offensiva.137 Il 24 giugno il massiccio bombardamento di preparazione inglese iniziò il suo lavoro di demolizione delle trincee tedesche, terminando addirittura sette giorni dopo nel momento in cui migliaia di soldati inglesi uscirono dalle trincee a passo di marcia, sotto 30 kg di zaino, per essere sistematicamente falciati dalle mitragliatrici tedesche sorprendentemente rimaste intatte.138
Nonostante l'insuccesso alleato sulla Somme, questo poderoso attacco distolse un notevole numero di truppe sia tedesche che francesi dal fronte di Verdun, contribuendo così ad alleggerire notevolmente la pressione sul fronte aperto da Falkenhayn, e permettendo ai francesi di attestarsi saldamente riorganizzando uomini e rifornimenti a Verdun, e consentendogli di fermare l'attacco tedesco del 23 giugno verso Souville, partito proprio alla fine del precedente attacco di alleggerimento russo in Galizia.139 Queste concause avverse all'esercito tedesco, frutto di incapacità dell'alto comando e mancata coordinazione con l'alleato austro-ungarico, permisero agli alleati una serie di offensive di alleggerimento del fronte di Verdun, che in questo modo resse all'incessante pressione tedesca, precludendo in questo modo l'ultima possibilità di vittoria in occidente all'Impero tedesco.

Le conseguenze di Verdun

 La battaglia di Verdun verso la fine di dicembre 1916, era tecnicamente terminata. Anche se questo campo di battaglia porterà ancora sporadiche perdite fino alla fine della guerra, l'effetto più immediato fu la caduta del potentissimo Joseph Joffre, che già da giugno non godè più della fiducia del parlamento a causa dell'ecatombe che Verdun costò alla Francia.
Con il pesante insuccesso della Somme, il 27 dicembre Joffre fu liquidato con la nomina di maresciallo di Francia, titolo che portò l'oscuramento quasi totale del generale. Al suo posto al GQG fu nominato Robert Nivelle, grande adulatore dei politici, molto più estroverso di Pétain, e ideatore delle vittoriose controffensive francesi di ottobre, che l'altro possibile aspirante comandante supremo, Ferdinand Foch, non aveva ottenuto sulla Somme.140
Il nuovo capo Nivelle iniziò subito i preparativi per una "decisiva" offensiva a primavera, sullo Chemin des Dames, che nonostante i preparativi e il grande dispiegamento di energie umane e materiali, si trasformò in un ennesimo disastro per la Francia. La seconda battaglia dell'Aisne preparata da Nivelle, in pochi giorni fece registrare circa 120 000 perdite tra le file anglo-francesi, causando un significativo ed ennesimo impoverimento nelle risorse umane nell'esercito francese e facendo cadere nell'oblio il sopravvalutato generale. Il fallimento dell'Aisne fu poi la miccia che fece esplodere il periodo di ammutinamenti che sconvolse l'armata francese nel 1917, dove in pochi giorni, le divisioni destinate all'offensiva di Nivelle fecero registre oltre 20.000 diserzioni immediate, che arrivarono durante l'anno al numero di 54 divisioni "ammutinate". Dal giorno della catastrofica offensiva di Nivelle141 e dai successivi ammutinamenti, si capì che la guerra non si sarebbe potuta vincere senza l'aiuto americano, con tutte le conseguenze che ne derivarono. Nuovamente i politici francesi si rivolsero all'unico uomo capace di ristabilire l'ordine, Philippe Pétain. Questi fece diminuire decisamente le contromisure repressive dei comandanti francesi e si dedicò a migliorare drasticamente le condizioni dell'esercito, partendo anche dai bisogni più semplici che fino a quel momento furono trascurati dai comandi francesi.142
Il segno che la battaglia di Verdun lasciò sull'esercito fu indelebile, i sette-decimi degli effettivi dell'esercito francese passarono per il fronte di Verdun;143 la Francia zoppicò per tutto il 1917, portando a termine solo piccole e limitate offensive (tra cui la riconquista del Mort-Homme) e passando simbolicamente il peso dell'attacco sul fronte occidentale agli inglesi prima e agli americani poi, mettendo il proprio sulla difensiva.144
D'altra parte le incapacità dell'esercito francese non furono poche, la sconfitta del 1870 bruciava ancora nei ricordi dei comandi, e ciò si tramutò nella totale indisposizione nel perdere neppure un metro di terreno per ragioni tattiche. La Francia invece avrebbe potuto limitare notevolmente le proprie perdite abbandonando quelle fortezze fino ad allora tanto trascurate da Joffre, per attestarsi su posizioni più favorevoli e lasciando ai tedeschi la città di Verdun. Ma il senso dell'onore e la paura delle conseguenze nell'opinione pubblica prevalse. Allo stesso tempo nulla fu fatto per trovare alternative tattiche e strategiche adeguate, la Francia accettò in pieno la sanguinosa sfida lanciata dai tedeschi e l'intervento di Pétain riuscì solo ad alleviare le condizioni dell'esercito.145
Parallelamente i comandi tedeschi in più occasioni ebbero tra le mani la possibilità di prendere definitivamente Verdun. A maggio la conquista della città si sarebbe potuta ottenere, si sarebbe potuto avere un collasso di tutto il paese con un attacco deciso e coordinato che avrebbe finalmente terminato le sofferenze di entrambi gli eserciti, senza prolungare l'inferno in cui dovettero combattere. Ma anche i comandi tedeschi, dall'indeciso Falkenhayn, al temerario Knobelsdorf, all'inascoltato Kronprinz, non seppero programmare una tattica comune decisa ad uno sfondamento risolutivo. Considerando poi che le perdite tedesche furono così gravi che in nessun modo si sarebbero potute trovare le riserve necessarie per un colpo finale negli mesi seguenti, specialmente considerando l'attacco alleato sulla Somme che assorbì notevoli forze tedesche per molti mesi.146 I critici militari tedeschi sono più o meno unanimi nel considerare Falkenhayn come la causa principale dell'insuccesso, a causa della sua incapacità di concentrare l'attacco in un solo punto, preferendo "attacchi limitati" assecondando fino all'ultimo la sua tecnica del "logorio dovuto all'attrito", oltre per la sua perenne indeterminatezza nelle decisioni fondamentali dopo aver deciso comunque di buttarsi nell'operazione Verdun.147 Anche se alcuni storici tedeschi difensori di Falkenhayn sostengono che l'atteggiamento di Joffre andò a favore della Germania, in quanto l'impegno a Verdun tolse ventisei divisioni francesi dal fronte della Somme, semplificando non di poco l'impegno tedesco.148
Nessuna delle due parti "vinse" a Verdun, fu una battaglia non decisiva di una guerra che alla fin dei conti non ebbe un chiaro vincitore sul campo.149 Alla sua conclusione ciò che i tedeschi avevano conquistato dopo dieci mesi di scontri e un terzo di milione di perdite, non era altro che un'estensione di territorio un po' più larga dei parchi reali di Londra. Verdun lasciò un segno incancellabile anche nell'esercito tedesco, la fiducia nei capi fu scossa alle fondamenta, il morale non si ristabilì mai del tutto, e anche in patria si manifestò un'evidente stanchezza nei confronti della guerra.150

Da Verdun alla Maginot

 Le conseguenze di questa sanguinosa battaglia non si esaurirono con la fine della stessa. Verdun più di qualsiasi altro evento, contribuì fortemente nelle tattiche militari francesi durante la caduta della Francia nel 1940. Se da una parte Verdun fu teatro per una evoluzione dell'arte della guerra, con l'introduzione dei lanciafiamme e del fosgene, con l'utilizzo delle nuove concezioni di "forza aerea", "tecnica di infiltrazione"151 e "sbarramento mobile ad ondate successive",152 fu anche l'occasione in cui studiosi militari, soprattutto francesi, analizzarono la resistenza offerta dalle fortificazioni moderne nei confronti dei nuovi enormi calibri. E fu il maresciallo di Francia Pétain (che ora godeva di maggior prestigio nel suo paese), che già dal 1922 richiese la creazione di una linea difensiva che proteggesse permanentemente la Francia non più sullo stile del sistema Séré de Rivières, ma su una nuova concezione di linea continua formata da centinaia di cupole retrattili armate di cannoni e collegate tra di loro con passaggi sotterranei ad una tale profondità da essere immuni a qualsiasi tipo di proiettile.153
Non fu una coincidenza che l'uomo politico che alla fine appoggiò e dette il suo nome alla linea fu un ex-sergente che fu ferito seriamente a Verdun, il ministro André Maginot,154 e che il Capo di Stato Maggiore francese sotto il quale venne realizzata la Linea Maginot, fu un certo Marie-Eugène Debeney, anch'egli combattente sulla Mort-Homme. Molti dei personaggi politici francesi che dovettero prepararsi alla seconda guerra mondiale, furono testimoni e partecipi dell'immane massacro di Verdun; il presidente francese Albert Lebrun maggiore di artiglieria, il presidente René Coty, soldato di prima classe, il presidente Charles De Gaulle, capitano di fanteria, l'ammiraglio François Darlan e i marescialli Pétain e de Lattre furono tutti chiamati alla difesa di Verdun. Questi furono anche gli uomini politici che dovettero guidare la Francia prima, durante e dopo il secondo conflitto mondiale e che tentarono in ogni modo di non ripetere gli errori e i sacrifici che i giovani francesi erano stati chiamati a compiere a Verdun.155
Mentre i francesi si prodigavano a difendere il confine nazionale, anche i tedeschi dovettero fare i conti con le conseguenze di Verdun. Seppur la sanguinosa battaglia non segnò così profondamente i tedeschi come accadde per i francesi,156 ebbe comunque una grande influenza sui futuri capi della Wehrmacht, molti dei quali avevano preso parte ai logoranti combattimenti di Verdun. Generali come von Manstein, Paulus, Guderian, von Brauchitsch e Keitel,157 ben memori degli immani massacri per la conquista di fortificazioni fisse, impararono più di ogni altro esercito la lezione che Verdun aveva impartito, e per non ricadere più in un'altra guerra d'attrito, misero in pratica ciò che avevano imparato e che il generale Hans von Seeckt teorizzò.158
La Reichskriegsflagge sventola su Verdun, giugno 1940.
L'esercito tedesco fu il primo a sviluppare una tattica completamente svincolata dall'eventuale sfondamento di posizioni fisse e fortemente protette, puntando invece sulla velocità di avanzata e lo sfondamento in settori ben precisi, con lo scopo di aggirare e quindi accerchiare il nemico per costringerlo alla resa. Questa tattica fu applicata con successo in Polonia e in Francia poco più di vent'anni dopo, dove la Blitzkrieg mise in ginocchio il vecchio nemico francese in pochi giorni159. Questo derivò anche dal fatto che gli stessi tedeschi analizzarono le fortificazioni di Douaumont e Vaux da un altro punto di vista, non come capisaldi indistruttibili su cui imperniare le proprie difese, ma come "calamite" per le artiglierie da cui far fuggire i propri soldati. Ventiquattro anni dopo misero in pratica le soluzioni trovate per aggirare l'imponente linea difensiva francese. Le divisioni corazzate di Guderian e Manstein nel 1940 aggirarono le linee della Maginot e in poco tempo si trovarono nuovamente di fronte alla Mort-Homme e a Quota 304, questa volta però non furono di nuovo luoghi di enormi massacri, ma rappresentarono due colline dalle quali i panzer di un comandante di battaglione partirono alla conquista dei vecchi baluardi Douaumont e Vaux, che caddero nel giro di un'ora.160
In meno di un mese la svastica sventolava su Verdun, e costò ai tedeschi meno di 200 morti, ancora una volta Pétain fu chiamato in causa, ma in questo caso come "curatore fallimentare" di una sconfitta imminente, poco dopo infatti, il 22 giugno, fu siglato un immediato armistizio con l'invasore tedesco, che come in una "rivincita" aspettata più di vent'anni, entrò in parata sotto l'Arco di Trionfo a Parigi.161

Il ricordo

 A causa della durata della battaglia, e quindi dei numerosi avvicendamenti di truppe, è difficile stabilire quanti soldati abbiano combattuto a Verdun,162 ma più preciso è il conto delle perdite in entrambi gli schieramenti; si stima che circa tra il 21 febbraio e il 15 luglio i francesi persero oltre 275.000 soldati e 6.563 ufficiali, circa 70.000 erano morti e 65.400 furono i prigionieri (120.000 perdite si ebbero solo negli ultimi due mesi), mentre per i tedeschi, la "limitata offensiva" costò circa 250.000 uomini.163
Successivamente, quando Hinbemburg e Ludendorff presero il comando e ordinarono la cessazione di ogni attacco, le perdite tedesche ammontarono a 281.333 uomini e quelle francesi a 315.000 circa.164
Le cifre francesi indicano invece che le perdite sul campo di battaglia di Verdun per entrambi gli schieramenti furono di circa 420.000 morti e 800.000 avvelenati dai gas o feriti. A sostenere queste cifre furono i circa 150.000 cadaveri, o parti di essi, non identificati e deposti nell'ossario di Douaumont. Ancora oggi vengono scoperti resti di soldati caduti, e se le cifre fossero veramente queste, per un confronto vale la pena di ricordare che le perdite totali dell'Impero britannico durante tutta la seconda guerra mondiale furono 1.246.025, di cui 353.652 morti e 90.844 dispersi.165
Approssimativamente si è calcolato che l'artiglieria tedesca abbia sparato all'incirca 22.000.000 di colpi, mentre quella francese circa 15.000.000,166 mentre su un totale di 96 divisioni sul fronte occidentale, i francesi ne inviarono ben 70 a Verdun, mentre i tedeschi 46 e mezzo.167
Centinaia di migliaia furono i giovani che patirono sofferenze indicibili nelle trincee di Verdun, migliaia di veterani sia francesi sia tedeschi si recarono per molti anni a commemorare i loro compagni nei luoghi in cui un tempo combatterono in condizioni terribili, tra feriti senza cure che agonizzavano, portaordini che non tornavano, soccorsi e razioni che non arrivavano e cadaveri seppelliti e disseppelliti dall'incessante bombardamento dell'artiglieria.168 Fu appunto l'artiglieria, con i suoi infiniti bombardamenti, che caratterizzò la battaglia sul fronte di Verdun per quasi un anno, instaurando nei combattenti una specie di "perdita di volontà", una insensibilità alla sofferenza e alla morte, che se da una parte gli corrose l'animo, dall'altro lato gli permise di sopportare indicibili sofferenze.169
Moltissimi dei veterani, che ventitré anni dopo vissero e furono partecipi anche al secondo conflitto mondiale, rimasero così profondamente scossi dalla battaglia di Verdun, da portarsi dietro quel ricordo per tutta la vita. Caso emblematico fu quello del generale Karl-Heinrich von Stülpnagel, governatore militare tedesco a Parigi e tra i maggiori cospiratori nell'attentato del 20 luglio 1944 contro Hitler. Questi mentre rientrava in Germania per il processo a suo carico, chiese di potersi fermare a Verdun nei pressi della tristemente famosa Mort-Homme, dove nel 1916 aveva comandato un battaglione, e dove nel 1944 tentò il suicidio. Proprio nel luogo dove migliaia di suoi commilitoni persero la vita durante i terribili assalti volti alla conquista di quella collina distrutta dal furore della guerra, il generale rivolse la sua pistola d'ordinanza alla testa. Sfortunatamente il generale riuscì solo ad accecarsi, e condotto comunque in Germania venne poi strangolato dalla Gestapo.170
I pellegrinaggi e le commemorazioni legate a Verdun proseguirono per tutto il primo dopoguerra, l'ossario di Douaumont e la Voie Sacrée divennero quasi dei luoghi di culto per giovani e meno giovani, ma tutto il campo di battaglia rimase per lungo tempo pieno dei segni della battaglia. I pesanti reticolati dei forti furono usati nelle fattorie, gli elmetti tedeschi furono messi in testa agli spaventapasseri, i numerosi villaggi devastati rimasero abbandonati o addirittura sparirono dalle cartine geografiche. I boschi della riva destra furono nuovamente ricoperti di alberi, che crebbero di qualità scadente, nel 1930 le pendici del Mort-Homme furono ricoperte di alberi piantati dopo che ogni tentativo di coltivazione era fallito.171
Voragini innaturali più o meno profonde sono ancora individuabili lungo tutto il campo di battaglia e quella che prima veniva chiamata Quota 304 oggi è segnata sulle cartine geografiche con l'altezza di 297 m, dato che i violenti bombardamenti che accompagnavano i tentativi di conquista, "limarono" di ben 7 metri l'altezza della collina.172 Ancora oggi, vagando per i campi, con un po' di fortuna si possono trovare gli avanzi della battaglia: elmetti, borracce, fucili rotti e schegge di ogni tipo, a testimonianza della violenza della battaglia e del sacrificio di migliaia di soldati.173

Bibliografia

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    •    Paul K. Davis, Le 100 battaglie che hanno cambiato la storia, 2006, Roma, Newton Compton [1999].
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In tedesco:
    •     Kurt Fischer, Stephan Klink: Spurensuche bei Verdun. Bernard & Graefe, Bonn 2000. ISBN 3-7637-6203-5
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    •     Markus Klauer: Die Höhe Toter Mann – während der Kämpfe um Verdun in den Jahren 1916/17. Remscheid 2001. ISBN 3-9807648-0-X
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    •     Jacques-Henri Lefebvre: Die Hölle von Verdun. Nach den Berichten von Frontkämpfern, Fleury-devant-Douaumont 1983.
    •     Matti Münch: Verdun – Mythos und Alltag einer Schlacht. Meidenbauer Martin, München 2006. ISBN 3-89975-578-2
    •     Horst Rohde, Robert Ostrovsky: Verdun – Militärgeschichtlicher Reiseführer. Mittler & Sohn, Hamburg 2001. ISBN 3-8132-0748-X
    •     Alexander Schwencke: Die Tragödie von Verdun. Teil 1–3. Reichsarchiv – Schlachten des Weltkrieges. Stalling, Oldenburg 1927–29.
    •     Hermann Thimmermann: Verdun – Souville. München 1936.
    •     Josef Magnus Wehner: Sieben vor Verdun - Ein Kriegsroman. Albert Langen-Georg Müller Verlag, München 1930.
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In francese:
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    •    Grant R.G., Battle:A Visual Journey through 5,000 years of Combat, 2005, DK Publishing.
    •     Christina Holstein, Walking Verdun. Pen and Sword Books Ltd, 2009, ISBN 978-1-84415-867-6


Battaglia della Somme


Data
1º luglio - 18 novembre 1916
Luogo
Somme, Piccardia, Francia

 La battaglia della Somme (in francese Bataille de la Somme, in inglese Battle of the Somme, in tedesco Schlacht an der Somme) fu un'imponente serie di offensive lanciate dagli anglo-francesi sul fronte occidentale della prima guerra mondiale a partire dal 1º luglio 1916, nel tentativo di sfondare le linee tedesche nel settore lungo circa sessanta chilometri tra Lassigny a nord ed Hébuterne a sud, settore tagliato in due dal fiume Somme, nella Francia settentrionale.
L'offensiva si svolse con un massiccio attacco di fanteria che avrebbe dovuto creare, secondo i piani alleati, le condizioni favorevoli per una rapida avanzata della cavalleria e, forse, per la vittoria definitiva3. La battaglia, voluta fortemente dalla Francia per alleggerire l'enorme e insostenibile pressione tedesca a Verdun, dimostrò allo stesso tempo la caparbietà e l'impreparazione tattica e strategica con cui lo Stato Maggiore britannico affrontò la prima grande offensiva delle forze alleate4.
Solo nel primo giorno di avanzata, la British Expeditionary Force (BEF) subì oltre cinquantanovemila perdite e ventimila caduti56: nonostante una settimana di bombardamento di preparazione e lo scoppio di dieci enormi mine poco prima dell'inizio dell'avanzata anglo-francese, i tedeschi ressero molto bene l'attacco protetti nei loro rifugi sotterranei ("stollen"), e quando ne uscirono si trovarono davanti un'enorme massa di uomini che avanzavano lentamente nella terra di nessuno a passo di marcia, prestandosi quindi ad essere un facile bersaglio78.
Con l'autunno la pioggia trasformò il campo di battaglia e le trincee in un immenso pantano che rese impossibile ogni ulteriore velleità bellica; il 19 novembre si spense l'ultima fase della battaglia, e nemmeno l'apparizione sul campo di battaglia dei primi esemplari di carro armato, nel settembre 1916, provocò una svolta a favore degli anglo-francesi. Da un punto strettamente tattico si poté parlare di limitato successo alleato - l'esercito del Kaiser Guglielmo dovette arretrare di alcuni chilometri - ma il guadagno territoriale irrilevante e l'elevatissimo numero di perdite decretarono il fallimento strategico complessivo dell'operazione: con 620 000 perdite tra gli Alleati e circa 450 000 tra le file tedesche, la Somme si dimostrò una delle più grandi e sanguinose battaglie della prima guerra mondiale9.

Premesse
 
Nel 1915 gli alleati anglo-francesi dovettero registrare sconfitte sia nella campagna di Gallipoli che nell'avanzata in Mesopotamia, e ciò provocò grande amarezza soprattutto nel Regno Unito: alla conferenza di Chantilly, apertasi il 4 dicembre 1915, il governo Asquith decise di non intraprendere più campagne in regioni remote - almeno fino a quando la rivolta araba non rappresentò parte della strategia bellica alleata in medio oriente - e di ritirare le truppe dai Balcani, ma la pressione di Italia, Russia e Serbia convinse però i britannici a rivedere quest'ultima decisione, e il 5 dicembre gli alleati si riunirono nuovamente per tracciare i piani che avrebbero dovuto condurre alla vittoria sul fronte occidentale nel 191610.
Il capo di stato maggiore dell'esercito francese, il generalissimo Joseph Joffre, convinse i britannici a lanciare nell'estate successiva un'offensiva congiunta anglo-francese a nord e a sud del fiume Somme, lungo un fronte di circa 60 chilometri: in questo modo si sarebbero superati e ripetuti quelli che Joffre definì i «brillanti successi» del 1915 nell'Artois e nello Champagne11. Opinione degli esperti militari alleati fu quella che i tedeschi stavano ormai esaurendo le riserve; schierando le "armate di Kitchener" sul fronte, impiegando un numero di bocche da fuoco tali da effettuare un bombardamento preliminare di dimensioni inaudite fino ad allora e con abbondanza di munizioni per sostenere un'avanzata, la battaglia, secondo Joffre, sarebbe stata quella decisiva12.
Il 19 dicembre Sir Douglas Haig fu nominato comandante in capo delle forze britanniche in Francia al posto di Sir John French13; mentre gli anglo-francesi mettevano a punto il piano per l'attacco sulla Somme, i tedeschi il 21 febbraio iniziarono l'assalto a Verdun, che concentrò per quasi un anno le maggiori risorse francesi e tedesche sul fronte occidentale.
Joffre mirava ad un'offensiva combinata, praticamente contemporanea ad un'offensiva russa a est, che coinvolgesse i francesi su un fronte di 40 chilometri compreso tra Lassigny e la Somme mentre i britannici avrebbero dovuto attaccare con circa 25 divisioni su un fronte di 22 chilometri tra la Somme e Hébuterne14. Nonostante l'unanimità sul piano, Joffre e Haig divergevano sulla necessità di un attacco diversivo: Joffre insisteva per un attacco britannico a nord della Somme congiuntamente ad un attacco franco-belga tra Ypres e il mare, allo scopo di distogliere le forze di riserva del nemico agevolando la massiccia offensiva sulla Somme; il generale Haig al contrario avrebbe preferito un unico, grande colpo sferrato con tutte le forze disponibili15. Queste indecisioni consentirono ai tedeschi di continuare l'attacco a Verdun, che con il passare dei mesi finì col minare in modo grave le risorse umane e di materiali dell'esercito francese, riducendone fortemente il ruolo che avrebbe dovuto avere sulla Somme16; l'incompletezza delle forze britanniche e la sempre più dispendiosa difesa francese di Verdun obbligò i comandanti alleati a cambiare le priorità: il fronte d'attacco francese finì col ridursi da 40 a 13 chilometri e le loro forze da 40 a 16 divisioni, delle quali solo 5 avrebbero attaccato il 1º luglio, mentre i britannici furono costretti a impiegare più truppe e maggiori quantità di materiali17.

L'esercito di Kitchener

Nel 1914 la British Expeditionary Force (BEF), al comando di John French, si oppose tenacemente all'avanzata tedesca attraverso il Belgio e la Francia; questa forza era costituita unicamente da militari di carriera, molti di loro veterani delle guerre coloniali in Sudan e delle guerre boere, ma ben presto il costante attrito della campagna francese ed il numero crescente di perdite impedì alla BEF di continuare un conflitto divenuto ormai di proporzioni mondiali.
Uno dei veterani dell'esercito professionista britannico, Sir Horatio Kitchener, occupava allora la carica di ministro della Guerra in patria18, e grazie alla sua influenza riuscì ben presto a far partire una imponente campagna di arruolamento che nelle prime sei settimane dallo scoppio del conflitto portò ad ingrossare le file dell'esercito di 478.893 giovani, tutti volontari. Molti di questi volontari furono inquadrati in Pals Battalions ("battaglioni di amici"), costituiti interamente da individui provenienti dalla stessa città o che svolgevano un mestiere analogo19; in un solo mese furono creati oltre 50 battaglioni di quella che verrà denominata l'"armata di Kitchener", che lentamente iniziò a prepararsi per la guerra20.
L'attacco che si scatenò il 1º luglio richiese il massimo sforzo britannico di quell'anno sul fronte occidentale, oltre alle rimanenti energie francesi logorate a Verdun. Quel giorno fu anche il banco di prova delle armate di Lord Kitchener21, il quale per ironia della sorte non poté assistere al battesimo del fuoco dei suoi Pals Battalions: la nave che lo trasportava in Russia dall'alleato zar Nicola II era stata affondata nel maggio dello stesso anno22. Questo banco di prova comunque non sortì gli effetti sperati, la notevole impreparazione e la mancanza di esperienza bellica provocò enormi perdite e sconfitte tattiche, ma la macchina dell'offensiva britannica era ormai in moto, e milioni di giovani volontari britannici, che a fine guerra divennero oltre 3 milioni, si stavano preparando alla battaglia23.

Gli obiettivi

Con la carneficina di Verdun ancora in atto, i britannici capirono quindi che avrebbero dovuto assumersi quasi tutto l'onere della campagna ad occidente, e Haig fu in parte costretto a porre obiettivi limitati, e non illimitati come per l'offensiva a Loos e dello Champagne; il generale preparò un piano alternativo di sfondamento a nord di Ypres se sulla Somme fosse stato un insuccesso, ma non considerò l'opzione di un più probabile successo parziale24.
L'esercito britannico sperava di sfondare tra Maricourt e Serre, quindi assicurarsi il controllo delle alture tra Bapaume e Ginchy, mentre i francesi si sarebbero impadroniti di quelle intorno a Sailly e Rancourt; infine piegare a sinistra e aggirare il fianco tedesco fino ad Arras, in modo da allargare la breccia ed iniziare l'avanzata verso Cambrai e Douai25. L'attacco tra Maricourt e Serre venne affidato alle 18 divisioni della Quarta armata del generale Henry Rawlinson, mentre due divisioni al comando del generale Edmund Allenby avrebbero dovuto effettuare un attacco collaterale a Gommecourt; a sud i francesi, con solo 5 divisioni, avrebbero attaccato in direzione di Peronne: l'asse di avanzata era concentrata sulla strada romana che da Albert raggiungeva Bapaume, 19 chilometri a nord-est. Oltre a queste forze, nella zona della battaglia fu dislocato un corpo d'armata forte di tre divisioni e il comando di un'armata di riserva - agli ordini di Hubert Gough - a diretta disposizione del comandante in capo26.

La preparazione all'attacco

Oltre all'enorme massa di fanti, i comandi alleati allestirono una grande concentrazione di artiglieria, la maggiore mai vista fino ad allora27: oltre 3.000 cannoni e obici, uno ogni 20 metri di fronte, spararono circa 1 milione 732.873 granate, anche se buona parte di queste non fece altro che martoriare un terreno già devastato di crateri, danneggiando meno del previsto i rifugi scavati in profondità. Molte di queste granate erano difettose28 e rimasero inesplose, ma anche così, e benché molti dei proiettili sparati fossero colpi di piccolo calibro, spesso shrapnel da otto chilogrammi del tutto inefficaci contro le difese nemiche29, l'effetto che il bombardamento ebbe sul morale dei difensori fu notevole30. Il piano d'attacco britannico prevedeva anche lo scavo sotto le linee tedesche di dieci gallerie di mina che nei mesi precedenti furono imbottite di Ammonal, un potente esplosivo; le tre gallerie più grandi contenevano circa 20 tonnellate ognuna di esplosivo, e sarebbero state fatte brillare contemporaneamente pochi minuti prima dell'attacco. Questi ingenti preparativi d'altra parte fecero svanire del tutto l'effetto sorpresa: i tedeschi non tardarono a capire che un possente attacco li avrebbe presto colpiti, e dunque si adoperarono a rafforzare le postazioni, che inoltre erano costruite lungo crinali e colline che assicurarono loro il vantaggio di essere quasi sempre in posizione sovrastante rispetto al nemico; altro vantaggio a favore dei tedeschi fu la rete ferroviaria francese catturata durante l'avanzata iniziale che permetteva rapidi e continui spostamenti di truppe e materiali, mentre gli anglo-francesi dovettero ripiegare su cavalli, muli e uomini31.
A favore degli alleati ci fu però una momentanea supremazia aerea acquisita sui campi della Somme: il Royal Flying Corps aveva guadagnato tale primato schierando 10 squadroni e circa 180 aerei contro una forza tedesca di 129 aerei. I britannici misero in atto una vigorosa politica offensiva che permise di effettuare osservazioni di artiglieria con aerei e palloni frenati, impedendo nel contempo ai tedeschi di fare lo stesso; tuttavia le ricognizioni britanniche che sottolinearono l'inefficacia del bombardamento preparatorio furono del tutto ignorate dal comando supremo32.
Le già poche possibilità di passare inosservati di fronte a un nemico in posizione sopraelevata furono ulteriormente ridotte dal fatto che l'arte di dissimulare i preparativi e mimetizzare gli appostamenti non era ancora stata assimilata dai comandi alleati: la costruzione di baraccamenti e lo spostamento di uomini e materiali fornirono ai tedeschi i primi indizi dell'imminente assalto, al punto che Erich von Falkenhayn, l'allora comandante supremo dell'esercito tedesco, pensò di prendere in contropiede l'offensiva britannica attaccando per primo, sebbene poi la mancanza di uomini lo fece desistere; ciononostante lo stesso comando tedesco si convinse che i preparativi nemici erano troppo vistosi per essere veri, e continuò a pensare che quella fosse solo una mossa preliminare e che il vero attacco si sarebbe svolto più a nord. Sulla base di questa convinzione, solo il 5 luglio i comandi si convinsero che quello della Somme sarebbe stato il vero campo di battaglia scelto da Haig33.
A Verdun i francesi impegnarono la maggior parte delle loro risorse, e dopo oltre quattro mesi di sanguinosi scontri, il 24 giugno il primo ministro francese in persona, Aristide Briand, si recò da Haig chiedendogli di anticipare l'attacco sulla Somme in modo da obbligare i nemici a spostare parte delle forze da Verdun34. Haig rispose che i piani non potevano essere modificati, ma che l'artiglieria sarebbe potuta entrare subito in azione, continuando il fuoco per cinque giorni, fino all'attacco previsto per il 29 giugno. Fu così che ebbe inizio il più lungo bombardamento di artiglieria di tutta la storia della guerra moderna35.
Inizia lo scontro sulla Somme
 La data dell'attacco fu rinviata al 1º luglio a causa di un momentaneo peggioramento delle condizioni atmosferiche; questo rinvio, richiesto dai francesi, comportò non soltanto la dispersione delle munizioni per un periodo più lungo e quindi una perdita di intensità, ma anche un grande sforzo per gli attaccanti, che, dopo essere stati "caricati" per l'imminente azione, dovettero aspettare per 48 ore in anguste trincee allagate, tormentati dal fragore della loro stessa artiglieria36.

Ordine di battaglia

Alle ore 7:00 del 1º luglio il bombardamento giunse al culmine, in poco più di un'ora sulle postazioni tedesche piovvero circa 250 000 granate, 3 500 al minuto. Il bombardamento fu così intenso che se ne sentì l'eco fino a Hampstead Heath, a nord di Londra. Alle 7:20, fu fatta esplodere la mina sotto il caposaldo del crinale Hawthorn, alle 7:28, furono fatte detonare le rimanenti mine37.
Alle 7:30 le truppe anglo-francesi uscirono dalle trincee attaccando su un fronte di 40 chilometri. I fanti britannici erano gravati da un equipaggiamento molto pesante; fiduciosi di trovarsi dinnanzi a un nemico decimato dai bombardamenti, i capi britannici caricarono gli uomini con l'equipaggiamento necessario per consolidare le posizioni che avrebbero facilmente conquistato, risvoltando le trincee, piazzando filo spinato e stabilendo le vie di comunicazione. In tutto, comprendendo lo zaino e l'equipaggiamento ordinario, ogni fante si dovette sobbarcare circa 30 chilogrammi di peso38. Tutto ciò unito al fatto che la fanteria britannica fu addestrata a marciare compatta e parallela verso il nemico ad ondate distanti un centinaio di metri l'una dall'altra, provocò la vera e propria mattanza che caratterizzò il primo giorno di battaglia sulla Somme, dove l'attacco invece di avanzare, in alcuni punti finì col rifluire indietro394041.

Il primo giorno
 
All'ora zero i fischietti dei comandanti suonarono all'unisono e le fanterie britanniche lasciarono trincee, ridotte, ripari e linee avanzate, iniziando l'avanzata sulla terra di nessuno. L'artiglieria spostò il proprio tiro verso le linee avversarie più in profondità, secondo le tabelle prestabilite42.
« La mano del tempo si arrestò sul segno della mezz'ora, e da tutta la vecchia linea inglese vennero grida e colpi di fischietto. Gli uomini della prima ondata montarono sui parapetti, nel tumulto, nel buio, e in presenza della morte; e avendo a che fare con tutte queste piacevoli cose, avanzarono attraverso la terra di nessuno per dare inizio alla battaglia della Somme. »
(John Masefield43.)
Usciti dalle trincee gli uomini caddero a migliaia, disseminando di cadaveri la terra di nessuno prima ancora di raggiungere le trincee di prima linea tedesche. I loro nemici erano soldati esperti e abili; mentre le granate britanniche spazzavano via le trincee in superficie, essi trovarono riparo nei ricoveri sotterranei, e quando il bombardamento cessò trovarono facili ripari proprio nei crateri che le granate avevano creato. In pochi minuti i tedeschi si trovarono di fronte a formazioni compatte, con uomini che procedevano spalla a spalla avanzando in linea retta, diventando un facile bersaglio per le mitragliatrici tedesche, che riversarono una grandinata di piombo sulle fitte ondate degli attaccanti44. Molti battaglioni furono ridotti a un centinaio di uomini, e solo quando le ondate furono infrante dal fuoco nemico, l'avanzata divenne possibile. Solo allora infatti, i pochi superstiti non ancora sopraffatti dalla paura si riunirono in piccoli gruppi spontanei che riuscirono a guadagnare terreno con assalti e strisciando da una buca all'altra, cogliendo di sorpresa le mitragliatrici nemiche e spingendosi in profondità senza subire gravi perdite. Ma in molti luoghi si lasciarono alle spalle nidi di mitragliatrici che imposero un pesante pedaggio alle truppe che sopraggiunsero di rinforzo45.
Soldati del dominion di Terranova caduti durante il 1º luglio 1916 in una foto successiva agli scontri.
Bombardamento britannico delle trincee tedesche nei pressi di Beaumont Hamel poco prima dell'attacco del 1º luglio.
Tra Maricourt e Fricourt, sebbene con grosse perdite, il XIII corpo britannico (30ª e 18ª divisione) raggiunse i suoi obiettivi occupando Montauban. Sulla sua sinistra il XV corpo riuscì parzialmente a svolgere il proprio compito, isolando il bastione formato dal villaggio e dal bosco di Fricourt. Su di un fianco la 7ª divisione occupò Mametz, e sull'altro la 21ª penetrò per quasi un chilometro nelle linee tedesche conquistando definitivamente Fricourt il giorno dopo. A nord della strada Albert-Bapaume l'avanzata fu un fallimento quasi completo, la 21ª divisione segnò il limite dell'avanzata britannica, il resto del fronte che si estendeva a nord naufragò completamente e i britannici subirono perdite gravissime, più alte che in qualsiasi altro giorno di guerra46. In pochi punti gli attaccanti penetrarono nelle prime linee tedesche, o anche più in profondità, ma invariabilmente il loro numero era troppo ridotto per fronteggiare i contrattacchi tedeschi. Quando il fuoco d'infilata tedesco si abbatteva sulla terra di nessuno, fu impossibile per i rinforzi portarsi avanti, e per gli elementi avanzati ritirarsi. La 36ª divisione "Ulster", per esempio, nell'attacco a Thiepval, raggiunse addirittura Grandcourt, ma le truppe d'appoggio non riuscirono ad andare avanti e il contingente avanzato si ritrovò isolato. Al sopraggiungere della sera solo pochi tratti di trincee si trovarono ancora in mano britannica, la marea di attaccanti finì in molti casi per rifluire indietro47.
Le comunicazioni erano del tutto inadeguate e i comandanti completamente ignari degli sviluppi della battaglia. Alcune pattuglie della 29ª divisione britannica riuscirono nel proprio compito e raggiunsero Beaumont-Hamel e Serre, e ciò fece sì che la brigata di riserva fosse fatta avanzare in supporto. Il Royal Newfoundland Regiment non fu in grado di raggiungere le trincee avanzate, così si mosse dalla seconda linea: venne in gran parte spazzato via prima di passare la prima linea, ed ebbe il 92% delle perdite48.
I progressi britannici lungo la strada Albert-Bapaume furono nel complesso un fallimento: nonostante l'esplosione di due mine, una a Ovillers-la-Boisselle, tutti i battaglioni della 34ª divisione, che partirono da più di un chilometro dalla prima linea tedesca, in piena vista delle mitragliatrici nemiche, furono del tutto spazzati via prima ancora di raggiungere la propria trincea avanzata; un pugno di mitragliatrici tedesche lasciarono sul campo circa 6.000 uomini49. In più la manovra a tenaglia di Allenby nell'attacco di Gommencourt fallì completamente: la mancanza di protezione al fianco destro (che Haig precluse ad Allenby nonostante le richieste insistenti) lasciarono la 46ª divisione "North Midlands" e la 56ª "London" completamente allo scoperto dopo una difficoltosa e sanguinosa avanzata iniziale; i tedeschi non dovettero nemmeno prendere la mira, a fine giornata la 56ª perse 4.314 uomini e la 46ª 2.45550.
Nel settore meridionale della strada, le divisioni britanniche e francesi ebbero maggior successo. Qui la difesa tedesca era relativamente debole, e l'artiglieria francese superiore in numero ed esperienza a quella britannica fu molto efficace. Dalla città di Montauban al fiume Somme, tutti gli obiettivi del primo giorno furono raggiunti. A sud della Somme le divisioni francesi raggiunsero tutti i loro obiettivi fissati subendo solo lievi perdite: il loro successo fu dovuto all'impiego di tattiche più flessibili e alla maggiore concentrazione di artiglieria, oltre al fatto che in quella zona d'attacco fu una sorpresa tattica per i tedeschi, i quali avevano previsto un'offensiva solo nel settore britannico51.
Nel complesso, tuttavia, il primo giorno di battaglia fu un fallimento. I britannici patirono 19.240 morti, 35.493 feriti, 2.152 dispersi e 585 prigionieri per un totale di 57.470 perdite. Le perdite iniziali furono specialmente elevate tra gli ufficiali, che ancora vestivano in maniera differente dalla truppa, e le cui uniformi i tedeschi erano stati addestrati ad individuare. Un conteggio preciso delle perdite tedesche per il 1º luglio è difficile da effettuare, poiché le unità tedesche ne facevano rapporto solo ogni dieci giorni. Si presume che i tedeschi ebbero 8.000 perdite nel settore britannico, di cui 2.200 prigionieri. Il divario fra le perdite delle due parti fu massimo a Ovillers, dove l'8ª divisione britannica ebbe 5.121 perdite, mentre i difensori tedeschi del 180º reggimento solo 280, un rapporto di 18 a 152.

L'effetto sulle forze tedesche

Sotto un aspetto significativo i primi giorni sulla Somme furono un successo strategico per gli alleati: il 12 luglio, per conseguenza dei combattimenti sulla Somme e dell'offensiva di Brusilov ad oriente, Falkenhayn interruppe l'attacco a Verdun e trasferì da quel settore alla Somme due divisioni e sessanta pezzi d'artiglieria pesante; sebbene i combattimenti vi sarebbero continuati sino a dicembre, sarebbero stati i francesi a dettare il corso della battaglia sulle rive della Mosa e lo stato maggiore tedesco avrebbe perso ogni velleità sul fronte di Verdun. Sulla Somme, la 2ª armata di Fritz von Below non sarebbe riuscita da sola ad opporsi alla pressione continuata di francesi e britannici: ogni divisione tedesca del settore si trovava sotto l'attacco di tre-quattro divisioni alleate53. Il 2 luglio sette divisioni tedesche erano in marcia verso la Somme come rinforzi, e altre sette si aggiunsero nel corso della settimana; fra luglio e agosto i tedeschi riversarono 35 nuove divisioni sul settore britannico e altre sette sul settore francese. La pressione combinata a Verdun e sulla Somme fece sì che l'Alto Comando tedesco in agosto disponesse solamente di una divisione in riserva54.
I britannici avevano sperato di impedire questo afflusso di rinforzi tedeschi sulla Somme da altri settori del fronte. Per fare ciò venne intrapresa su tutto il fronte una serie di attacchi dimostrativi col fine di immobilizzare le divisioni tedesche; la maggiore e più tristemente famosa di queste azioni fu la battaglia di Fromelles, 19-20 luglio, di fronte alla cresta d'Aubers nell'Artois: al prezzo di 7.080 perdite fra gli australiani e i britannici, non fu catturata nessuna porzione di terreno né si riuscì a fermare lo spostamento delle divisioni tedesche dall'Artois alla Somme55.
Da parte francese il bilancio si può dire decisamente più positivo: in dieci giorni la 6ª armata francese, su un fronte di circa venti chilometri, era avanzata con una profondità che raggiungeva in certi punti quasi dieci chilometri; era completamente in possesso dell'altopiano di Flaucourt, principale obiettivo e principale difesa di Péronne; aveva fatto 12.000 prigionieri, quasi senza perdite, catturato 85 cannoni, 100 mitragliatrici, 26 lanciamine e grandi quantità di materiali56.

La battaglia prosegue

Nella serata del 1º luglio, il comandante della 4ª armata britannica, il generale Rawlinson, emise ordini intesi a riprendere l'attacco il prima possibile. La confusione e le comunicazioni difficoltose lungo l'estesa catena di comando fecero sì che ci volessero alcuni giorni prima che i comandanti britannici si rendessero conto della gravità del disastro. Haig diede l'incarico al tenente generale Hubert Gough di prendere il settore nord con le sue divisioni di riserva, mentre la 4ª armata si sarebbe occupata del settore sud. Gough si rese conto del fallimento nel suo settore e impedì l'immediata ripresa dell'offensiva; le operazioni non sarebbero ripartite prima del 3 luglio57.
Nelle prime due settimane di luglio la battaglia della Somme fu condotta con una serie di azioni su scala ridotta, scoordinate fra loro, chiaramente preparatorie per una spallata di maggiore rilievo. Fra il 3 e il 13 di quel mese, la 4ª armata di Rawlinson condusse 46 azioni che portarono alla perdita di 25.000 uomini e nessun progresso significativo; questo dimostrò una differenza fra Haig e la sua controparte francese e questo divenne motivo di attrito. Il proposito di Haig era quello di mantenere una continua pressione sul nemico, mentre Joffre e Foch preferivano conservare le proprie forze in preparazione di una singola, pesante offensiva58. I britannici non erano poi consapevoli delle opportunità esistenti a sud della strada Albert-Bapaume, dove erano stati conseguiti successi parziali. Il 3 luglio una pattuglia di ricognizione della 18ª divisione penetrò per più di tre chilometri in territorio tedesco senza incontrare alcuna posizione difensiva stabile59. Le posizioni tedesche vacillarono nel settore meridionale di Montauban-La Boisselle, ma gli attacchi erano deboli e discontinui, l'opportunità si perse e i tedeschi godettero di tempo a sufficienza per riorganizzarsi. Le postazioni dominanti di Pozières e Ginchy, sulle quali correva la seconda linea, furono riorganizzate e gli attacchi britannici divennero inefficaci60.

L'attacco a Bazentin

Prigionieri tedeschi aiutano alcuni feriti britannici a dirigersi verso le retrovie dopo l'assalto a Bazentin, 19 luglio 1916.
D'altra parte se i britannici avessero aspettato di portarsi abbastanza a ridosso della seconda linea tedesca per sferrare un attacco decisivo, probabilmente si sarebbero ritrovati dinnanzi una barriera di fuoco come quella affrontata il 1º luglio61.
Rawlinson elaborò un piano per sfondare le linee tedesche su un fronte di sei chilometri fra il bosco di Delville sulla destra e quello di Bazentin-le-Petit sulla sinistra: le truppe britanniche avrebbero attaccato all'alba, avvicinandosi alle linee nemiche col favore della notte, precedute da un violentissimo bombardamento di pochi minuti. Dopo diverse diatribe con l'alto comando che preferiva un attacco più limitato, venne concesso a Rawlinson di effettuare l'attacco il 14 luglio con il XIII sulla destra e il XV corpo sulla sinistra, mentre i tedeschi disponevano di soli sei battaglioni oltre alla 7ª divisione di riserva a Bapaume62. L'attacco, conosciuto come battaglia di Bazentin, fu diretto a catturare la seconda linea tedesca che correva lungo la cresta delle colline da Pozières, sulla strada Albert-Bapaume, in direzione sudest, verso i villaggi di Guillemont e Ginchy. Obiettivi erano i villaggi di Bazentin-le-Petit, Bazentin-le-Grand e Longueval, adiacente al Bosco d'Elville. Oltre questa linea, sull'opposto versante, si trovava Bosco Alto (High Wood)63.
Esiste un considerevole contrasto fra la preparazione e l'esecuzione di questo attacco e di quello del 1º luglio. L'attacco al crinale di Bazentin venne condotto da quattro divisioni su un fronte di meno di sei chilometri; le truppe uscirono prima dell'alba, alle 3.25, dopo un bombardamento d'artiglieria di soli cinque minuti; l'artiglieria effettuò un fuoco di sbarramento mobile, e le ondate d'assalto avanzarono poco dietro di esso64. A mezza mattinata, la prima fase dell'attacco aveva avuto successo, con quasi tutti gli obiettivi raggiunti e, come il 1º luglio, si creò una breccia nello schieramento tedesco. Tuttavia, proprio come il 1º luglio, i britannici non furono in grado di sfruttarla: il loro tentativo in tal senso diede luogo alla più famosa azione di cavalleria della battaglia della Somme, quando il 7º Dragoni della Guardia e il 2º cavalleria del Deccan tentarono di catturare Bosco Alto; la cavalleria tenne il bosco per tutta la notte, ma dovette ritirarsi il giorno successivo65.
I britannici si aggrapparono a Bosco Alto ed avrebbero continuato a combattere per esso, come per il Bosco d'Elville, vicino a Longueval, per molti giorni. Comunque, nonostante il favorevole avvio dell'attacco del 14 luglio, non cambiarono il proprio modo di condurre le battaglie di trincea: nella notte fra il 22 e il 23 luglio, Rawlinson lanciò un attacco con sei divisioni sul fronte della 4ª armata, attacco che fallì completamente. I tedeschi invece avevano imparato: cominciarono ad abbandonare il sistema difensivo basato sulle trincee continue per affidarsi ad un sistema flessibile di difesa in profondità, con un complesso di capisaldi difficile da annientare da parte dell'artiglieria66.
Il 19 luglio, le forze tedesche furono riorganizzate con von Below al comando della 1ª armata, responsabile del settore nord, e il generale Max von Gallwitz al comando della 2ª armata che presidiava il settore meridionale; inoltre von Gallwitz fu nominato comandante di gruppo d'armate, responsabile di entrambe le armate tedesche sulla Somme. Per gli alleati, dopo i modesti successi del 14 luglio, seguirono diverse scaramucce e i britannici decisero di spostare tutti gli sforzi verso il crinale di Pozières, mentre i francesi martellavano costantemente Péronne67.

Pozières e fattoria Mouquet

Nelle prime settimane di luglio non ci furono progressi significativi nel settore nord. Ovillers, appena a nord della strada Albert-Bapaume, non fu occupata fino al 16 luglio. La sua conquista, e il caposaldo che i britannici avevano stabilito nella seconda linea tedesca il 14 luglio, significavano la possibilità di prendere di fianco le difese tedesche settentrionali: la chiave per farlo era il villaggio di Pozières che si trovava sulla cresta della strada che da Albert conduceva a Bapaume; dietro il villaggio, verso est, correvano le trincee della seconda linea tedesca. La 4ª Armata fece tre tentativi di impadronirsi del villaggio fra il 14 e il 17 luglio prima che Haig togliesse all'armata comandata da Rawlinson la responsabilità del fianco nord. La cattura di Pozières divenne compito dell'armata di riserva di Gough, con l'impiego di tre divisioni australiane del I corpo d'armata dell'ANZAC6869.
Gough voleva che la 1ª divisione australiana attaccasse immediatamente, ma il comandante della divisione, il britannico maggior generale Harold Walker, rifiutò di mandare i suoi uomini all'attacco senza un'adeguata pianificazione. L'attacco fu quindi programmato per la notte del 23 luglio, in coincidenza con quello della 4ª armata. Lanciato poco dopo la mezzanotte, l'attacco su Pozières fu un successo, in grande misura grazie all'insistenza di Walker sulla pianificazione e a uno schiacciante bombardamento di supporto. I tedeschi, riconoscendo la grande importanza del villaggio nel proprio sistema difensivo, lanciarono tre infruttuosi contrattacchi prima di iniziare un prolungato e metodico bombardamento della località. L'ultimo tentativo tedesco di riprendere Pozières avvenne prima dell'alba del 7 agosto, seguendo un bombardamento particolarmente pesante: i tedeschi sopraffecero le difese avanzate australiane e ne nacque una mischia furibonda, da cui però emersero vittoriosi gli australiani70.
Gough progettò di dirigersi a nord lungo il crinale verso la fattoria Mouquet, il che permetteva di insidiare il bastione tedesco di Thiepval alle spalle; tuttavia più gli australiani avanzavano, più si approfondiva il saliente così creato, cosicché l'artiglieria tedesca poteva concentrare su di essi il proprio fuoco da tre lati. L'8 agosto gli australiani iniziarono a spingersi a nord lungo il crinale col II corpo d'armata britannico avanzando da Ovillers sulla sinistra. Per il 10 agosto venne stabilita una linea poco a sud della fattoria, che i tedeschi avevano trasformato in una fortezza, con profonde buche e gallerie di collegamento con ridotte distanti. Gli australiani tentarono più volte di prendere la fattoria fra il 12 agosto e il 3 settembre, avvicinandosi sempre più alla meta, ma il presidio tedesco tenne duro. Gli australiani furono rilevati dal Corpo d'armata canadese, che occupò per breve periodo la fattoria il 16 settembre, il giorno successivo all'offensiva principale britannica; finalmente il 27 settembre il presidio tedesco si arrese. Nei combattimenti di Pozières e della fattoria Mouquet, le tre divisioni australiane persero oltre 23.000 uomini; se si includono le perdite durante l'attacco diversivo a Fromelles del 19 luglio, l'Australia in sei settimane perse in Francia più uomini che negli otto mesi della campagna dei Dardanelli71.

Battaglia d'attrito: agosto e settembre

Per l'inizio di agosto, Haig accettò l'idea che la possibilità di effettuare uno sfondamento era del tutto tramontata: i tedeschi «avevano posto rimedio in grande misura alla disorganizzazione» di luglio. Per le successive sei settimane, i britannici avrebbero intrapreso una serie di azioni su scala ridotta in preparazione della spallata principale. Il 29 agosto il capo di stato maggiore tedesco, Erich von Falkenhayn, fu sostituito dal generale Paul von Hindenburg, col generale Erich Ludendorff come vice, ma di fatto col ruolo di vero comandante delle operazioni. L'effetto immediato di questo cambiamento fu l'introduzione di una nuova dottrina difensiva: il 23 settembre i tedeschi iniziarono la costruzione della "Siegfried Stellung", chiamata Linea Hindenburg dai britannici. Impegnati in due teatri di scontro, i tedeschi oramai risentivano pesantemente della tattica logorante e caparbia dei britannici sulla Somme e dei contrattacchi di Robert Nivelle a Verdun72. Il punto di contatto tra francesi e britannici si trovava a sudovest del Bosco d'Elville, oltre i villaggi di Guillemont e Ginchy. Il primo tentativo britannico di prendere Guillemont l'8 agosto fu un fiasco; il 18 agosto iniziò un tentativo più in grande stile, con l'impiego di tre corpi d'armata britannici e altrettanti francesi, ma solo il 3 settembre Guillemont cadde. L'attenzione quindi si spostò su Ginchy, catturata dalla 16ª divisione irlandese il 9 settembre. Anche i francesi fecero progressi, e quando cadde Ginchy i due eserciti si unirono vicino Combles73.
Una trincea ed un rifugio tedesco distrutti, vicino Guillemont.
I britannici avevano ora un fronte quasi rettilineo, dalla fattoria Mouquet a nordovest all'abitato di Combles a sudest dominato dal bosco di Leuze in mano britannica, che costituiva una comoda posizione di partenza per un altro attacco su vasta scala. Qui i due eserciti alleati si congiungevano, ma i francesi avevano appena esteso verso meridione il fronte, travolgendo cinque chilometri della prima linea tedesca nei pressi di Chaulnes e catturando 7.000 prigionieri74. Questa fase interlocutoria della battaglia era stata costosa per la 4ª armata, pur senza offensive di rilievo. Fra il 15 luglio e il 14 settembre, l'inizio della battaglia successiva, la 4ª armata condusse circa 90 attacchi della forza di un battaglione in su, di cui solo quattro per tutti i nove chilometri del proprio fronte; perdette 82.000 uomini, per un'avanzata di meno di un chilometro: un risultato anche peggiore di quello del 1º luglio75.

La fase finale

Nonostante la sua professata fede per la guerra d'attrito, Haig era ormai ridotto a puntare tutto su uno sfondamento decisivo. L'attacco doveva fare perno a sinistra, nel settore dell'armata di Gough: l'obiettivo primario del colpo principale, sferrato da Rawlinson, doveva essere lo sfondamento di quella che in origine era stata l'ultima linea tedesca tra Morval e Le Sars, in concomitanza con un attacco francese verso sud tra Combles e la Somme, isolando in tal modo Combles. Se l'offensiva si fosse sviluppata in modo così positivo da giustificare un altro attacco, i britannici avrebbero poi dovuto estendere il loro assalto verso nord in modo da espugnare Courcelette e Martinpuich76. L'attacco aveva una caratteristica molto particolare: per la prima volta nella storia sarebbero stati impiegati i carri armati, veicoli corazzati capaci di muoversi attraverso i campi progettati come antidoto alle mitragliatrici nemiche e ai reticolati. Il comando britannico decise di impiegare i carri disponibili per rinverdire le ormai scarne speranze di successo, sebbene solo 60 dei 150 carri costruiti erano in Francia in quel momento e soltanto 49 vennero impiegati; gli insufficienti e affrettati preparativi, nonché i difetti meccanici di quel primo modello ridussero ulteriormente il numero totale dei mezzi corazzati, cosicché solo 32 giunsero in linea pronti per l'attacco77.
L'attacco fu lanciato all'alba del 15 settembre sfociando nella battaglia di Flers-Courcelette, dove i britannici si mossero nuovamente verso Bosco Alto, la fattoria Moquet, Courcelette e Flers78. Al centro il XV corpo realizzò rapidi e notevoli progressi, tanto che alle 10 la sua divisione di sinistra era già al di là di Flers, ma sulla sua destra il XIV corpo subì ingenti perdite e fu fermato molto prima di poter raggiungere Morval e Lesboeufs; neppure il III corpo sulla sinistra raggiunse gli obiettivi prestabiliti, anche se la sua 47ª divisione riuscì finalmente ad impadronirsi del contesissimo Bosco Alto. Fu anche la prima azione importante sul fronte occidentale per la divisione neozelandese, al tempo parte del XV corpo d'armata britannico, la quale catturò parte della linea di collegamento ad ovest di Flers. Sul fianco sinistro, la 2ª divisione canadese catturò il villaggio di Courcelette dopo un furioso combattimento, anche con un certo aiuto dai carri.
Il piano per prendere il bosco prevedeva di utilizzare i carri a supporto della fanteria della 47ª divisione britannica, ma il bosco era un paesaggio intransitabile di tronchi spezzati e buche di granata, e un solo carro riuscì a percorrere un certo tratto; i difensori tedeschi furono costretti ad abbandonare la posizione quando i britannici, progredendo sui fianchi, minacciarono di accerchiarli79. All'estrema sinistra la progettata estensione dell'attacco venne attuata secondo previsioni, e Martinpuich e Courcelette caddero in mano alleata. La giornata si concluse - salvo che sul settore destro - con la conquista del crinale dominante che aveva favorito per molto tempo i tedeschi; al mancato settore destro si pose riparo il 25 settembre, quando un altro grande attacco anglo-francese costrinse i tedeschi ad evacuare Combles80, mentre Guedencourt, Lesboeufs e Morval furono conquistate. In quell'occasione i carri rimasero in riserva81. Il giorno dopo, con l'appoggio di 13 carri armati82 anche Thiepval cadde nelle mani di Gough83.
La battaglia viene principalmente ricordata oggi per il debutto operativo del carro armato. I britannici nutrivano grosse speranze sul fatto che quest'arma avrebbe superato il punto morto dato dalle trincee. I primi carri non erano certo armi per la guerra di movimento, visto che con una velocità fuori strada di poco più di 3 km/h erano facilmente superati dalla fanteria in marcia, ma erano stati concepiti per la guerra di trincea: non temevano gli ostacoli di filo spinato ed erano impenetrabili (almeno nei primi tempi) al fuoco dei fucili e delle mitragliatrici, sebbene fossero assai vulnerabili al fuoco d'artiglieria. Erano anche notoriamente inaffidabili: dei 49 carri disponibili il 15 settembre, solo 32 furono schierati, e di questi solo 21 ce la fecero ad entrare in azione. I guasti meccanici erano comuni, e molti rimasero impantanati o incastrati nelle buche di granata e nelle trincee del tormentato campo di battaglia84.

Gli ultimi attacchi

 Douglas Haig continuava intanto a sollecitare una pressione «senza soste», e grazie ad una serie di altri piccoli successi alleati nella prima settimana di ottobre85 i tedeschi ripiegarono sull'ultima linea difensiva da loro allestita, che partendo da Sally-Saillisel, sulla destra, toccava Le Transloy e passava infine dinnanzi a Bapaume; i tedeschi stavano preparando nuove linee difensive più arretrate, ma nessuna fu portata a termine. D'altra parte i tedeschi avevano dimostrato una forte resistenza, e i limitati successi portati dagli alleati non erano tali da alimentare speranze di uno sfondamento86.
«La pioggia fu torrenziale e il campo di battaglia si trasformò in un mare di fango. Alcuni uomini morirono per la fatica nel portare i messaggi da un punto all'altro»
(Generale Edmonds87)
Il prematuro arrivo delle piogge autunnali contribuì a rendere il terreno un pantano in cui uomini e mezzi faticavano a muoversi; in queste condizioni gli attacchi erano destinati a fallire, e anche quando una trincea nemica veniva conquistata, il lavoro di consolidamento era talmente difficile da annullare il successo conseguito88. Il 12 ottobre a Guédencourt entrarono in azione i soldati di un battaglione del reggimento di Terranova. I britannici sperimentarono la cosiddetta "barriera di fuoco" o "barràge": gli uomini avanzavano preceduti da un fuoco di artiglieria che aveva lo scopo di eliminare i reticolati e stordire i difensori. Fra gli attaccanti, uno su dieci - se non di più - morì perché avanzò troppo presto o perché il tiro risulto troppo corto89.
Foto notturna del campo di battaglia di Thiepval con i bengala che illuminano il settore.
Il cuneo lentamente scavato tra l'est dell'Ancre e la Somme aveva trasformato la linea difensiva tedesca originaria a nord dell'Ancre in un saliente assai pronuciato. Da qualche tempo Gough si preparava ad attaccarlo, e infine il 13 novembre, grazie ad un temporaneo miglioramento atmosferico, sette divisioni attaccarono Beaumont-Hamel e Beaucourt-sur-Ancre90. Le mosse iniziali furono quasi una copia del 1º luglio, anche per la detonazione di una mina sotto la ridotta della cresta Hawthorn, ad ovest di Beaumont-Hamel. La 31ª divisione aveva attaccato il 1º luglio le posizioni sul fiume Serre, e quattro mesi e mezzo dopo era nuovamente chiamata allo stesso compito; i risultati furono simili. A sud del Serre i britannici, con l'esperienza acquisita a caro prezzo, riuscirono a catturare la maggioranza dei propri obiettivi: la 51ª divisione delle Highland prese Beaumont-Hamel mentre alla destra la 63ª divisione Royal Naval catturò Beaucourt91. Haig era soddisfatto del risultato, ma Gough premeva per uno sforzo finale, che fu effettuato il 18 novembre con un attacco alle trincee "Monaco" e "Francoforte", e una puntata verso Grandcourt: novanta uomini del 16º battaglione Highland Light Infantry rimasero isolati nella trincea Francoforte dove resistettero fino al 21 novembre quando i 45 sopravvissuti, 30 dei quali feriti, si arresero92. Quel successo per Haig avrebbe «rafforzato la posizione dei rappresentanti britannici» nell'imminente conferenza militare alleata di Chantilly. L'offensiva della Somme poté così essere sospesa93.

Conclusione

Intanto sui due fronti si progettavano già le offensive per il 1917 e si resero pubblici i bilanci della campagna appena conclusa. Il 1º novembre gli anglo-francesi annunciarono che dal 1º luglio avevano catturato 72.901 tedeschi, 303 pezzi d'artiglieria, 215 mortai e quasi un migliaio di mitragliatrici. Su l'uno e sull'altro fronte si calcolarono anche le perdite, che raggiunsero cifre mai raggiunte in precedenza: i morti britannici sulla Somme nei quattro mesi trascorsi dal 1º luglio furono 95.675, quelli francesi 50.729 per un totale di 146.404 uomini. Le perdite tedesche furono ancora più numerose: 164.055 con oltre 70.000 prigionieri94.
La battaglia si chiuse in un'atmosfera di delusione e disappunto, dopo aver comportato per le forze britanniche perdite così ingenti da far passare in secondo piano le conquiste territoriali e le perdite nemiche; queste ultime furono in larga misura dovute all'atteggiamento rigido e intransigente dei comandanti tedeschi, specialmente di von Below, il comandante della 1ª armata, il quale emise ordini in cui affermava che ogni ufficiale colpevole di aver ceduto anche un solo centimetro di terreno sarebbe stato deferito alla corte marziale, e che ogni metro perso avrebbe dovuto essere riconquistato con un contrattacco. Questo provocò cedimenti del morale dei tedeschi, finché il 30 agosto von Below fu costretto a revocare i suoi stessi ordini, conformandosi a quelli del duo Ludendorff-Hindenburg95.
Nonostante le perdite della Somme e di Verdun, sul fronte occidentale erano ancora schierate 127 divisioni tedesche a cui si contrapponevano 106 divisioni francesi, 56 britanniche, 6 belghe e una russa, per un totale di 169 divisioni. La British Expeditionary Force che ad agosto 1914 contava circa 160.000 uomini in tutto, alla fine del 1916 ne contava 1 milione 591.745, inclusi 125.517 uomini dell'ANZAC e 104.538 canadesi96.

Effetti tattici e strategici

« Somme. L'intera storia del mondo non può contenere una parola più spaventosa97. »
(Friedrich Steinbrecher)

Non è facile identificare il reale vincitore della battaglia della Somme; le conquiste territoriali degli attaccanti non andarono al di là di otto chilometri nel loro punto di massima penetrazione, ma questo dato contrapposto alle circa 620.000 perdite anglo-francesi annulla di fatto una vittoria tattica sulla Somme. In una visione a lungo termine però, dello scontro beneficiò più l'Intesa che l'esercito tedesco: la miscela di guerra di materiali di cui erano capaci le forze alleate e la resistenza ad oltranza di stampo teutonico avrebbe indebolito la Germania, le cui perdite divennero non solo pesanti, ma insostituibili98.
A sfavore della Germania inoltre, a partire dalla Somme il Regno Unito iniziò a guadagnare influenza nella coalizione, e riconoscendo la crescente minaccia britannica il 31 gennaio 1917 la Germania adottò la politica della guerra sottomarina indiscriminata, nel tentativo di privare di rifornimenti la nazione insulare, un atto che avrebbe come conseguenza ultima trascinato in guerra gli Stati Uniti99; e mentre gli alleati avrebbero potuto contare sulle truppe statunitensi, la Germania dopo le carneficine di Verdun e della Somme non fu più in grado di rimpinguare le proprie fila, riducendo la propria strategia alla sola difesa. I comandanti Hindenburg e Ludendorff ritennero che l'esercito non potesse sopportare continue battaglie d'attrito come la Somme: il 24 febbraio 1917 l'esercito tedesco effettuò una ritirata strategica dalla Somme alle fortificazioni della linea Hindenburg, accorciando la linea del fronte100.
Sul piano tecnico la battaglia scatenata dagli anglo-francesi costituì un successo strategico per gli alleati. In seguito all'offensiva Falkenhayn fu costretto a spostare due divisioni e 60 pezzi d'artiglieria pesante da Verdun alla Somme; la nuova pressione su questo fronte costrinse ogni divisione tedesca ad affrontare tre o quattro divisioni alleate. Tra luglio e agosto lo stato maggiore tedesco dovette impiegare 35 nuove divisioni contro l'ala inglese e altre sette contro quella francese, potendo contare su una sola divisione di riserva101. Nel complesso il guadagno territoriale alleato fu di circa 110 chilometri quadrati e 51 villaggi riconquistati; i tedeschi erano arretrati di circa 7-8 chilometri con notevolissime perdite di uomini e materiali. Da un punto di vista puramente tattico si trattò quindi di una sconfitta tedesca, ma il guadagno alleato fu molto esiguo di fronte all'enorme dispendio di uomini e materiali102.
All'inizio del 1916 l'esercito britannico era una massa di volontari senza esperienza bellica, e la Somme fu il primo vero test di questa "armata di Kitchener": è brutale ma realistico affermare che molti dei soldati britannici uccisi sulla Somme mancavano di esperienza, e quindi la loro perdita aveva poco valore dal punto di vista militare; tuttavia essi erano stati i primi ad offrirsi volontari, mentre per la Germania, che era in guerra da quasi due anni, ogni perdita minava l'esperienza e l'efficienza dell'esercito. La Somme condusse direttamente a nuovi importanti sviluppi nell'organizzazione e nelle tattiche della fanteria alleata: esaminando le ragioni dietro sconfitte e successi del primo giorno di battaglia, i britannici e i contingenti del Commonwealth introdussero il concetto di plotone, seguendo i passi degli eserciti francese e tedesco, che già si stavano indirizzando verso l'impiego di unità tattiche più piccole. Al tempo della Somme i comandanti superiori britannici insistevano che la compagnia (120 uomini) dovesse essere la più piccola unità di manovra; meno di un anno dopo lo sarebbe stata la sezione, di 10 uomini103.
Per quanto riguarda la Francia, il mediocre risultato tattico e strategico conseguito sulla Somme costò il siluramento del generale Joseph Joffre, sostituito dal "vincitore" di Verdun Robert Nivelle. Le stragi di Verdun e della Somme comunque non cambiarono le strategie inconcludenti dello stato maggiore francese, che avrebbe ripetuto i medesimi errori l'anno seguente portando il proprio esercito a ribellarsi contro i propri superiori in quella serie di ammutinamenti di massa che caratterizzarono il 1917 dell'esercito francese104.

Perdite
 
La stima originale alleata delle perdite sulla Somme, stesa alla conferenza di Chantilly del 15 novembre, era di 485.000 per britannici e francesi, contro 630.000 tedeschi105: queste cifre vennero usate per sostenere che la Somme era stata una battaglia di attrito favorevole agli alleati. Tuttavia a quel tempo ci fu un notevole scetticismo riguardo alla precisione dei conteggi: quando dopo la guerra fu compilato un resoconto finale, si raggiunse la cifra di 419.654 britannici e 204.253 francesi fra morti, feriti e prigionieri; un totale di 623.907 uomini, di cui 146.431 erano morti o dispersi106.
Il curatore della storia ufficiale da parte britannica, Sir James Edmonds, quantificò le perdite tedesche in 680.000, ma questa cifra è stata successivamente smentita. Un rapporto statistico dell'Ufficio della guerra britannico concluse che le perdite tedesche sul settore britannico potessero essere più basse di circa 180.000 unità durante la battaglia. Oggigiorno viene accettata per il totale delle perdite tedesche sulla Somme una cifra tra 465.000 e 600.000. Nel compilare la biografia del generale Rawlinson, il maggior generale Sir Frederick Maurice fu supportato dal Reichsarchiv con un totale di 164.055 tedeschi morti o dispersi107.
Le perdite per divisione (unità forte di circa 10.000 soldati) sul settore britannico fino al 19 novembre furono in media 8.026: 6.329 per le quattro divisioni canadesi, 7.408 per la neozelandese, 8.133 per le 43 divisioni britanniche e 8.960 per le tre divisioni australiane. Ogni giorno i britannici persero 2.943 uomini, più che durante la terza battaglia di Ypres ma numero non così elevato come nei due mesi della battaglia di Arras  del 1917 (4.076 al giorno) o come durante l'offensiva dei cento giorni nel 1918 (3.685 al giorno). Con un semplice calcolo si capisce meglio l'entità della tragedia: dividendo il numero di vittime per il numero di centimetri conquistati si ottiene circa 1,5, ovvero 150 soldati per conquistare un metro di terreno; in pratica per conquistare meno di un centimetro di terreno era necessaria la morte di un soldato.

Bibliografia
In italiano:
    •    Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, 2009, Milano, Arnoldo Mondandori [1994]. ISBN 978-88-04-48470-7
    •    Alessandro Gualtieri, La battaglia della Somme - l'artiglieria conquista la fanteria occupa, 2010, Parma, Mattioli 1885. ISBN 978-88-6261-153-4
    •    Basil H. Liddell Hart, La prima guerra mondiale, 2006, Milano, BUR [1968]. ISBN 88-1712-550-4
    •    John Keegan, Il volto della battaglia - Azincourt, Waterloo, la Somme, 2010, Milano, Il Saggiatore Tascabili [1976]. ISBN 978-88-565-0165-0

In inglese:
    •    Peter Liddle, The 1916 Battle of the Somme, 1992, Pen & Sword. ISBN 1-84022-240-9
    •    Lyn MacDonald, Somme 1916, 1983, Londra, Penguin Books. ISBN 0-14-017867-8
    •    Robin Neillands, The Great War Generals on the Western Front 1914–1918, Magpie Books, 2004. ISBN 1-84119-863-3
    •    Gary Sheffield, The Somme, 2007, Cassell. ISBN 0-304-36649-8


Offensiva Brusilov


Data
4 giugno - 20 settembre 1916
Luogo
Galizia, Volinia

L'Offensiva Brusilov (in russo: Брусиловский прорыв) fu la più grande offensiva condotta dall'Impero russo durante la prima guerra mondiale e considerata la più grande vittoria della Triplice Intesa1 durante tutta la guerra.
Lo scontro iniziò il 4 giugno quando lo Zar Nicola II ordinò al generale Aleksej Brusilov di attaccare le forze degli Imperi Centrali su un fronte di oltre 500 km che andava dalle paludi Pripet, sulla frontiera polacca, all'estremità dello schieramento austriaco2
Contesto storico
 Allo scoppio della prima guerra mondiale, il 4 agosto 1914, gli alti comandi tedeschi confidarono che l'estrema lentezza nella mobilitazione dell'esercito russo, che sarebbe durata settimane, se non mesi, avrebbe permesso loro di conquistare Parigi e poi rivolgere tutte le forze contro la Russia in tempo utile per non impantanarsi in una guerra su due fronti3. Ma, sorprendentemente, l'esercito russo sferrò la sua prima offensiva verso la Prussia orientale appena due settimane dopo l'inizio del conflitto. L'attacco mise in difficoltà il generale Maximilian von Prittwitz, comandante tedesco della zona, ma la scarsa organizzazione dell'offensiva ne impedì il pieno successo. Von Prittwitz venne subito sostituito dai generali Paul von Hindenburg ed Erich Ludendorff, che organizzarono un immediato contrattacco; con il risultato del doppio accerchiamento dei russi a Tannenberg che costò ai russi 125.000 tra morti, feriti e prigionieri4. Dopo altre due settimane i russi furono nuovamente disastrosamente battuti nella Battaglia dei Laghi Masuri, e verso la fine di agosto la Russia dovette vedersela anche contro l'alleata della Germania, l'Austria-Ungheria che sferrò un attacco in Galizia (la parte occidentale dell'odierna Ucraina)5. Ma gli austriaci dopo alcuni iniziali successi vennero ricacciati indietro e salvati solo dall'intervento della Germania, che pur operando in inferiorità di uomini e materiali, condusse un'incisiva campagna contro la Russia per tutta la durata della guerra.
La Germania seppe sfruttare al meglio le linee ferroviarie in suo possesso per spostare efficacemente le truppe lungo tutto il fronte, riuscendo alla fine del 1914 a conquistare gran parte della Polonia russa6. I russi riuscirono a ottenere delle vittorie contro gli austriaci, ma i tedeschi nella primavera del nuovo anno sferrarono ulteriori offensive che permisero loro di occupare alcune zone degli Stati baltici e di conqusitare l'intera Polonia. Alla fine dell'agosto 1915 lo Zar Nicola II assunse direttamente il comando delle forze russe, e quell'anno si concluse con le forze avversarie attestate su una linea che andava da Riga, sul mar Baltico, fino ai Carpazi, sulla frontiera tra Russia e Romania7.

Premesse

Alla fine di febbraio del 1916, sul fronte occidentale, il comandante dello Stato Maggiore tedesco, Erich von Falkenhayn iniziò la sua offensiva a Verdun con l'intenzione di dissanguare l'esercito francese, e subito i comandi francesi fecero pressioni alla Russia di sferrare un attacco di "alleggerimento" per dirottare forze tedesche. I russi attaccarono presso il lago Naroch ma ottennero solamente il risultato di subire 100.000 perdite tra le proprie fila, senza intaccare sensibilmente le forze avversarie. A maggio, poi, gli austriaci sferrarono una massiccia offensiva contro le posizioni italiane in Trentino, e anche l'Italia si appellò allo Zar per diminuire la pressione sul proprio fronte8.
I comandi russi sapevano che non era possibile sferrare nuovi attacchi per assistere gli italiani, data la situazione di truppe e materiali, che andavano radunati e preparati per una prossima decisiva offensiva da compiersi durante la stagione estiva9. Solamente il nuovo incaricato del fronte sud-occidentale, il generale Aleksej Brusilov, reagì positivamente alla richiesta. Brusilov decise di attaccare in luglio, ma poiché sul fronte italiano si combatteva aspramente, anticipò l'azione a giugno per cercare di allentare la pressione sull'Italia, costringendo gli austriaci a trasferire truppe da ovest ad est10. Il generale Aleksej Evert, comandante del gruppo d'armate ovest, era invece favorevole ad una strategia difensiva, in opposizione alla strategia di Brusilov, ma lo Zar appoggiò i piani del nuovo arrivato, e vennero delineati gli obbiettivi dell'offensiva, le città di Leopoli e Kovel', perse l'anno precedente.

La battaglia

  L'offensiva iniziò con un potente tiro d'artiglieria, condotto da 1938 pezzi su un fronte di circa 350 km, dalle paludi di Pripjat' fino alla Bucovina; questa carenza di artiglieria fu dovuta al risentimento degli altri generali russi che mal vedevano l'offensiva di Brusilov e che non inviarono rinforzi e materiali. Ma questa carenza di pezzi d'artiglieria, in un'analisi a posteriori, si rivelò un vantaggio, dato che come succedeva in occidente, i massicci tiri di medi e grossi calibri non facevano altro che creare un terreno pieno di buche che rallentavano gli attaccanti, e favorivano i difensori.
Questo a Brusilov accadde in maniera minore, e qualche ora di violento bombardamento bastò a mandare nel caos le prime linee austro-ungariche, che non si aspettavano un attacco,11 e aprire oltre 50 varchi tra i reticolati. Con un'avanzata velocissima, coperta dall'intenso fumo prodotto dalle granate su tutto il campo di battaglia, i russi catturarono il primo giorno  quasi 26.000 austriaci, e il secondo giorno, occuparono la città di Luc'k, rimasta praticamente sguarnita dalla fuga dei 200.000 difensori.
Truppe russe
In appena due giorni, l'attacco russo ebbe un grande successo, la IV e la VII Armata austriaca cedettero, e le forze russe sfondarono su un fronte di un centinaio di km a sud di Pripjat e avanzarono di circa 40 km. A nord delle paludi invece la resistenza degli austriaci fu tenace, ma vennero lo stesso respinti fino al Dnjestr, e le forze russe arrivarono a minacciare Czernowitz, capoluogo della Bukovina.
Il successo delle operazioni, oltre che dal limitato uso delle artiglierie che non aveva permesso agli austriaci di ritirare le truppe e organizzarsi, fu dovuto all'uso di reparti specializzati d'attacco, che, suddivisi in piccoli e numerosi gruppi, si infiltravano tra le linee nemiche e colpivano diversi obbiettivi agendo in modo molto più efficace delle ondate di fanteria. Ma questo grande successo non favorì l'offensiva, i generali russi a Nord delle paludi, forse per gelosia,12 non attaccarono sul resto del fronte, consentendo alle forze tedesche di spostare ingenti truppe a Sud per dar manforte agli austriaci. La veloce avanzata russa però allungò le linee di rifornimento, costringendo il rallentamento delle truppe in avanzata, e solo l'intervento dello Zar costrinse gli altri generali ad inviare rinforzi a Brusilov. Ma il sistema viario russo, in pessime condizioni, rallentò anche i rinforzi, e la possibilità di impiegare notevoli forze d'artiglieria e nuove truppe, portò Brusilov a ritornare alle vecchie tattiche. Alla fine di luglio, la città di Brody, città di frontiera della Galizia, cadde in mano dei russi, che nelle due settimane precedenti catturarono altri 40.000 austriaci. Ma anche le perdite russe non erano lievi, e nell'ultima settimana di luglio, Hindenburg e Ludendorff assunsero la difesa dell'ampio settore austriaco, vennero formati battaglioni misti austro-tedeschi e vennero richiesti rinforzi perfino ai turchi13.
Le tecniche di infiltrazione, ben presto furono nuovamente sostituite dalle classiche azioni di bombardamento, e dalle ondate di uomini, facendo ritornare la guerra nella stasi del trinceramento e al conseguente spreco di vite. Ai primi di settembre Brusilov raggiunse comunque le pendici dei Carpazi, ma lì si arrestò per le evidenti difficoltà geografiche, e soprattutto l'arrivo di nuove truppe tedesche da Verdun arrestò la ritirata austriaca e inflisse gravi perdite ai russi.
 Il 22 agosto Brusilov e la sua armata vennero attaccati lungo un settore di 20km da due divisioni turche che l'anno precedente avevano combattuto a Gallipoli, ma la ritirata austriaca non si fermò14.
Esito
 Il 20 settembre l'attacco di Brusilov si estinse.  Questi raggiunse l'obiettivo principale di distogliere importanti forze tedesche dal settore di Verdun e soprattutto di costringere gli austro-ungarici a levare truppe dal settore del Trentino nel pieno dell'offensivia della Battaglia degli Altipiani (meglio nota in Italia come Strafexpedition). Inoltre gravi perdite furono inflitte agli austro-ungarici con quasi 1.500.000 di soldati austriaci messi fuori combattimento, tra cui oltre 400.000 prigionieri. L'offensiva convinse la Romania ad entrare in guerra a fianco dell'Intesa. Ma le perdite furono notevoli per entrambi gli schieramenti, oltre 500.00015 in quella che si potrebbe considerare una delle battaglie più sanguinose della storia16.

Conseguenze
 
L'offensiva di Brusilov fu l'ultimo e il più alto momento dello sforzo russo nel primo conflitto mondiale. Da lì in poi l'esercito russo non riuscì più ad essere altrettanto efficace, ed anzi la sua forza combattiva declinò celermente, spinta dai problemi interni e dalle diserzioni sempre più massicce a causa del vento rivoluzionario che già si annidava tra le file dell'esercito. Quando Brusilov decise di attaccare, la Russia aveva perso dal 1914 ben 5 milioni di uomini, l'esercito aveva ormai perso fiducia e la rivolta serpeggiava nelle trincee. La rivoluzione russa scoppiò nell'ottobre 1917, e anche se l'Offensiva Brusilov non ne fu direttamente responsabile, le sue vittime furono la goccia che fece traboccare il vaso.
L'operazione fu caratterizzata da un notevole miglioramento nelle tecniche di attacco russe in un primo frangente, ma l'arrivo delle artiglierie fece tornare Brusilov alle vecchie idee di bombardamenti a tappeto antecedenti a grossi attacchi di fanteria.
 Per ironia della sorte, furono i tedeschi ad apprendere e sviluppare questa tecnica detta di infiltrazione con squadre d'assalto, usandola su tutti i fronti, con risultati sempre migliori. Nel 1918 i tedeschi, seppur dissanguati, demotivati e affamati dal blocco navale, con l'aiuto di queste nuove tecniche (che al contrario gli altri eserciti tardavano colpevolmente ad applicare) durante le Offensive di primavera furono molto vicini a vincere la guerra.
D'altro canto l'entrata in guerra della Romania sul fronte orientale, non diede alcun aiuto all'Intesa; anzi, una serie di insensati attacchi indebolirono un esercito già antiquato e poveramente dotato e diedero l'opportunità alla forze bulgare di attaccare da sud, travolgendolo all'inizio del 1917, tanto che l'intero paese fu occupato, eccetto una piccola striscia a ridosso del confine russo, mantenuta solo grazie all'aiuto russo.

Bibliografia
    •     Paul K.Davis, Le 100 battaglie che hanno cambiato la storia, Newton Compton Editore, Roma, 2006
    •    Martin Gilbert, La grande storia della Prima guerra mondiale, Oscar storia, Milano, 2009
    •     (RU)  B. P. Utkin Brusilovskij proryv, 2001
    •     (EN)  B.H. Liddell Hart, The Real War: 1914-18 (1930), pp. 224-227.


Campagna di Romania (1916-1918)


Data
agosto 1916 - dicembre 1917, novembre 1918
Luogo
Romania

La campagna di Romania è stata una campagna del fronte dei Balcani durante la prima guerra mondiale, che vide a confronto il Regno di Romania e l'Impero Russo da un lato, e le Potenze centrali dall'altro.

Premesse
 
Il Regno di Romania era dominato dai sovrani della dinastia Hohenzollern fin dal 1866. Il re di Romania, Carlo I di Hohenzollern, aveva siglato un trattato segreto con la Triplice Alleanza nel 1883 che prevedeva che la Romania entrasse in guerra solo nel caso in cui l'Impero austro-ungarico fosse stato attaccato. Sebbene Carlo volesse entrare nel primo conflitto mondiale come alleato delle Potenze centrali, l'opinione pubblica ed i partiti politici romeni erano a favore dell'alleanza con la Triplice Intesa. La Romania rimase neutrale allo scoppio delle ostilità, sostenendo che l'Austria-Ungheria avesse iniziato il conflitto, e che di conseguenza la Romania non avesse alcun obbligo formale ad intervenire.
Allo scopo di entrare in guerra a fianco degli Alleati, il regno di Romania chiese il riconoscimento dei propri diritti sul territorio della Transilvania, dominato dall'Austria-Ungheria fin dal XVII secolo, sebbene i romeni fossero la maggioranza della popolazione. Il problema principale incontrato durante i negoziati fu evitare di trovarsi a combattere su due fronti: uno in Dobrugia contro il regno di Bulgaria ed uno in Transilvania, e di ottenere il riconoscimento scritto delle conquiste territoriali effettuate durante il conflitto. A questo scopo, era necessario ottenere le seguenti garanzie: una clausola che evitasse la possibilità di pace separata, status uguale agli altri alleati alla conferenza di pace, assistenza da parte russa contro la Bulgaria, un'offensiva Alleata contro quest'ultima, e l'invio regolare di rifornimenti da parte Alleata.
Il patto militare sottoscritto statuì che la Francia ed il Regno Unito avrebbero iniziato un'offensiva contro la Bulgaria e l'Impero ottomano entro agosto, che la Russia avrebbe inviato truppe in Dobrugia e che l'esercito romeno non sarebbe stato subordinato a quello russo. Gli Alleati avrebbero infine inviato 300 tonnellate di rifornimenti al giorno. Durante la guerra, la maggior parte di queste clausole non furono rispettate.6
Gli Alleati accettarono i termini dell'accordo alla fine dell'estate del 1916 con il trattato di Bucarest; secondo alcune fonti, se la Romania fosse entrata in guerra prima dell'offensiva Brusilov, la Russia non sarebbe stata sconfitta.7 Secondo alcuni storici militari americani, la Russia differì l'approvazione delle richieste romene perché preoccupata dalla possibile rivendicazione della Bessarabia, territorio a maggioranza romena e sotto il controllo russo.8
Nel 1915 il tenente colonnello Christopher Thomson, un ufficiale fluente in francese, fu inviato a Bucarest in qualità di addetto militare inglese, con il compito di assistere Horatio Herbert Kitchener nel tentativo di portare la Romania in guerra. Tuttavia, una volta sul posto, Thomson maturò rapidamente il convincimento che una Romania male armata ed impegnata su due fronti contro Austria-Ungheria e Bulgaria sarebbe stata un impedimento, più che un vantaggio per gli Alleati. Tale opinione fu tuttavia accantonata da parte di Whitehall, e quindi egli firmò un accordo militare con la Romania il 13 agosto 1916. Entro la fine del 1916 egli dovette alleviare le conseguenze delle disfatte romene, e si occupò della distruzione dei pozzi petroliferi romeni, in modo che non potessero essere sfruttati dai tedeschi.9

L'entrata in guerra
 
Il governo romeno firmò un trattato con gli Alleati il 17 agosto 1916 e dichiarò guerra alle Potenze Centrali dieci giorni dopo. L'esercito romeno era costituito da un numero piuttosto elevato di effettivi, oltre 500.000 uomini distribuiti in 23 Divisioni. Tuttavia, gli ufficiali avevano un insufficiente addestramento e le truppe erano scarsamente equipaggiate; più della metà degli effettivi avevano seguito solo un addestramento basico. Nel frattempo, il capo di Stato Maggiore tedesco, generale Erich von Falkenhayn aveva correttamente assunto che la Romania avrebbe preso le parti degli Alleati ed aveva approntato dei piani per affrontarla. Grazie alla rapida conquista del Regno di Serbia, alle inefficaci operazioni Alleate nei confronti del Regno di Grecia, ed avendo interessi territoriali in Dobrugia, l'esercito bulgaro e quello ottomano avevano tutto l'interesse ad affrontare i romeni.
L'alto comando tedesco era seriamente preoccupato riguardo alla probabile entrata della Romania nel conflitto. Paul von Hindenburg scrisse:
« È certo che ad uno stato piccolo come la Romania non è stato mai dato prima un ruolo così importante, e così decisivo per le sorti del mondo in un momento così favorevole. Due grandi potenze come Germania ed Austria non sono mai state tanto dipendenti dalle risorse militari di un paese che ha appena un ventesimo della popolazione di uno dei due. A giudicare dalla situazione militare, ci si doveva aspettare che la Romania dovesse solo farsi avanti per decidere la guerra in favore di quelle potenze che per anni hanno cercato di sopraffarci. Così tutto sembrava dovesse dipendere dal fatto che la Romania fosse pronta a far uso del proprio vantaggio momentaneo.10 »

Le azioni di guerra

L'invasione dell'Austria-Ungheria da parte della Romania, Agosto 1916
 
La notte del 27 agosto, tre armate romene (Prima, Seconda ed Armata del Nord), si dispiegarono secondo i piani (l'ipotesi "Z"), attraversarono i Carpazi ed entrarono in Transilvania. Inizialmente gli attaccanti incontrarono la sola opposizione della 1ª Armata austro-ungarica, la quale fu spinta all'indietro verso l'Ungheria. In un periodo di tempo relativamente breve, le città di Braşov, Făgăraş e Miercurea Ciuc furono catturate e venne raggiunta la periferia di Sibiu. Nelle aree abitate da romeni, le truppe attaccanti furono caldamente accolte dalla popolazione, che fornì loro aiuti considerevoli sotto forma di rifornimenti, rifugio e orientamento. Comunque, la rapida avanzata romena allarmò le Potenze Centrali, e cospicue forze tedesche cominciarono a giungere sul posto. Gli austro-ungarici inviarono a loro volta quattro divisioni a rinforzo delle proprie linee, ed entro la metà di settembre l'offensiva fu arrestata. I russi inviarono tre proprie divisioni in appoggio alle operazioni nella Romania settentrionale, ma scarsi rifornimenti.
Mentre l'esercito romeno avanzava in Transilvania, il generale August von Mackensen lanciò il primo contrattacco, guidando una forza multinazionale composta dalla 3ª Armata bulgara, una brigata tedesca e due divisioni del VI Corpo d'armata ottomano, che giunsero in Dobrugia dopo l'inizio dei primi scontri.11 Questa forza attaccò a nord della Bulgaria a partire dal 1º settembre, mantenendosi sul lato sud del Danubio e dirigendosi verso Costanza. La guarnigione romena di Turtucaia, accerchiata da truppe bulgare e da una colonna di truppe tedesche, si arrese il 6 settembre (vedi: Battaglia di Turtucaia). La 3ª Armata romena eseguì ulteriori tentativi di resistere all'avanzata nemica a Silistra, Bazargic, Amzacea e Topraisar, ma dovette ritirarsi sotto la pressione di superiori forze nemiche. Il successo di Mackensen fu favorito dal fatto che gli Alleati non poterono assolvere agli obblighi assunti con la convenzione militare, in virtù della quale avrebbero dovuto allestire un'offensiva sul fronte macedone, e che i russi schierarono un numero insufficiente di truppe sul fronte romeno meridionale.
Il 15 settembre, il Consiglio di Guerra romeno decise di sospendere l'offensiva in Transilvania e di dedicarsi invece alla distruzione dell'armata di Mackensen. Il piano (la cosiddetta offensiva Flămânda) era di attaccare le retrovie delle Potenze Centrali attraversando il Danubio a Flămânda, mentre le forze romene e russe poste sul fronte avrebbero dovuto lanciare un'offensiva in direzione sud verso Cobadin e Kurtbunar. Il 1º ottobre, due divisioni romene attraversarono il Danubio a Flămânda e crearono una testa di ponte larga 14 chilometri e profonda 4. Lo stesso giorno, le divisioni romene e russe attaccarono sul fronte della Dobrugia, ma con poco successo. Tale fallimento, insieme ad una forte tempesta nella notte tra il 1 ed il 2 ottobre, la quale danneggiò fortemente il ponte di barche, persuase il generale Alexandru Averescu a cancellare l'intera operazione. Questa decisione avrebbe avuto serie conseguenza sul prosieguo della campagna.
I rinforzi russi, comandati dal generale Andrej Zajončkovskij riuscirono a fermare l'armata di Mackensen prima che questa potesse tagliare la linea ferroviaria che collegava Costanza con Bucarest. I combattimenti furono furiosi, e videro attacchi e contrattacchi da ambo le parti fino al 23 settembre.

La controffensiva delle Potenze Centrali (settembre–dicembre 1916)

 Il comando generale passò a Falkenhayn (recentemente rimosso dall'incarico di capo di Stato Maggiore tedesco) che iniziò il proprio contrattacco il 18 settembre. Il primo attacco fu portato contro la 1ª Armata romena nei pressi della città di Haţeg, e fermò l'avanzata dell'intero schieramento avversario. Otto giorni dopo, due divisioni di truppe da montagna riuscirono quasi a tagliare fuori una colonna romena che avanzava nei pressi di Nagyszeben (l'odierna Sibiu). Sconfitti i romeni si ritirarono sulle montagne e le truppe tedesche catturarono il passo di Turnu Roşu. Il 4 ottobre, la 2ª Armata romena attaccò gli austro-ungarici a Brassó (l'odierna Braşov) ma fu respinta e costretta alla ritirata dal successivo contrattacco avversario. La 4ª Armata romena, operante nel nord del paese, si ritirò senza subire pressioni eccessive da parte degli austro-ungarici, e di conseguenza tutte le truppe romene rientrarono nei propri confini entro il 25 ottobre.

Il contrattacco delle Potenze Centrali, settembre-ottobre 1916

Tornato sulla costa, il generale Mackensen lanciò una nuova offensiva il 20 ottobre, dopo un mese di accurati preparativi, e le sue truppe sconfissero lo schieramento russo-romeno comandato da Zajončkovskij. Romeni e russi furono costretti a ritirarsi nei pressi di Costanza (occupata dalle Potenze Centrali il 22 ottobre). Dopo la caduta di Cernavodă, la difesa della parte di Dobrugia ancora non occupata fu demandata ai soli russi, che furono gradualmente respinti verso le paludi del delta del Danubio. L'esercito russo era demoralizzato e quasi privo di rifornimenti. Mackensen si sentì libero di ritirare in segreto metà delle sue forze verso la città bulgara di Svištov la quale gli consentiva di mantenere d'occhio il guado del Danubio.
Le forze di Erich von Falkenhayn effettuarono diversi attacchi di prova contro i passi di montagna tenuti dall'esercito rumeno per verificare se vi fossero punti deboli nelle difese avversarie. Dopo diverse settimane, egli concentrò le sue truppe migliori (i reparti d'élite Alpen Korps) a sud per effettuare un attacco contro il passo Vulcan, cosa che avvenne il 10 novembre. All'attacco partecipò anche il futuro Maresciallo di Campo Erwin Rommel, allora un giovane tenente. L'11 novembre, Rommel guidò una compagnia da montagna del Württemberg alla conquista del Monte Lescului. L'offensiva spinse all'indietro i difensori romeni, che lasciarono le montagne e si ritirarono in pianura entro il 26 novembre. Le montagne erano già coperte di neve, e presto le operazioni sarebbero state rese impossibili dall'arrivo dell'inverno. Ulteriori avanzate in altri settori montagnosi, effettuate da parti della 9ª Armata di Falkenhayn ridussero allo stremo l'esercito rumeno, la cui situazione in termini di rifornimenti stava diventando critica.
Il 23 novembre, le truppe migliori di Mackensen attraversarono il Danubio in due punti nei pressi di Svishtov. Questo attacco colse i romeni di sorpresa, e le forze di Mackensen poterono avanzare rapidamente verso Bucarest, incontrando debole resistenza. L'attacco di Mackensen minacciava di tagliare fuori metà dell'esercito romeno per cui il comandante supremo, generale Prezan) tentò un disperato contrattacco ai danni delle truppe di Mackensen. Il piano era ardito, prevedendo l'uso di tutte le riserve dell'esercito romeno, ma aveva bisogno della cooperazione delle divisioni russe per contenere l'offensiva di Mackensen mentre le riserve romene si incuneavano nella breccia tra Mackensen e Falkenhayn. Comunque, l'esercito russo non aderì al piano e non supportò l'attacco.
Il 1º dicembre, l'esercito romeno lanciò la propria offensiva. Mackensen fu abile nel manovrare le proprie forze per affrontare l'improvviso attacco, e le truppe di Falkenhayn contrattaccarono punto su punto. Entro tre giorni, l'attacco romeno era stato vanificato, causando una ritirata generale. La corte ed il governo romeno ripararono a Iaşi. Bucarest fu conquistata il 6 dicembre dalla cavalleria di Falkenhayn. Solo le piogge insistenti e le strade impraticabili salvarono i resti dell'esercito romeno; più di 150.000 soldati furono catturati dai tedeschi.
I russi furono costretti ad inviare diverse divisioni sul confine per prevenire l'invasione della Russia meridionale. L'esercito austro-ungarico, dopo diversi scontri, si attestò sulle proprie posizioni entro la metà di gennaio 1917. L'esercito romeno combatteva ancora, ma metà della Romania era sotto l'occupazione tedesca.
Le perdite romene assommarono a circa 250.000 (prigionieri inclusi), mentre quelle tedesche, austriache, bulgare ed ottomane si aggirarono intorno ai 60.000 uomini.

La campagna del 1917

I combattimenti continuarono nel 1917, quando la Romania nordorientale rimase indipendente a causa della cosiddetta strategia a triangolo, secondo la quale la 4ª Armata (sfuggita alla distruzione grazie alle condizioni meteo di cui sopra), rimase sulle montagne della Moldavia a protezione di Iaşi nei confronti delle ripetute offensive tedesche. Furono effettuati numerosi tentativi per ricostruire l'esercito romeno fortemente indebolito. Ferdinando I di Romania ed il governo romeno insisterono per effettuarli in Moldavia e non in Ucraina, come suggerito dai russi. Francia e Regno Unito offrirono un supporto significativo: 150.000 fucili, 2.000 mitragliatrici, 1.300.000 granate e 355 pezzi di artiglieria arrivarono da occidente, ed una missione militare francese, forte di 1.600 uomini e comandata dal generale Henri Mathias Berthelot, soprannominato "taica Bertălău"12 dai romeni, supervisionò il processo ed aiutò a riaddestrare le truppe romene. Entro la tarda primavera, gli effettivi dell'esercito romeno salirono a 400.000 uomini, organizzati in 15 divisioni di fanteria e 2 di cavalleria, a loro volta suddivise in due armate e 5 corpi d'armata. L'aviazione romena fu organizzata in 12 squadriglie. La presenza russa sul fronte romeno ammontava a 1.000.000 di uomini.13
Nel maggio 1917, le forze russo-romene passarono all'attacco per supportare l'offensiva Kerenskij. La performance dell'esercito romeno migliorò fortemente in questo periodo. Dopo essere riusciti a spezzare il fronte austro-ungarico durante la Battaglia di Mărăşti, russi e romeni dovettero arrestare la propria avanzata a causa dell'esito disastroso dell'offensiva Kerenskij. Mackensen a questo punto lanciò un contrattacco a Mărăşeşti, e nello stesso tempo le forze tedesche furono sconfitte ad Oituz. Tutte insieme, queste operazioni rappresentarono un importante successo per la Romania, dato che i territori non occupati rimasero liberi.
Quando i bolscevichi conquistarono il potere in Russia e firmarono il trattato di Brest-Litovsk, la Romania rimase isolata e circondata dalle Potenze Centrali e non ebbe altra scelta che negoziare un armistizio, che fu firmato il 9 dicembre 1917 a Focşani.

Conseguenze

Trattato di Bucarest
Il 7 maggio 1918, ed alla luce della corrente situazione politico-militare, la Romania fu costretta a concludere il Trattato di Bucarest con le Potenze Centrali.
I tedeschi riuscirono a riparare i giacimenti petroliferi intorno a Ploieşti ed entro la fine della guerra estrassero un milione di tonnellate di petrolio. Inoltre, requisirono due milioni di tonnellate di grano ai contadini romeni. Queste risorse furono vitali nel mantenere la Germania in guerra fino alla fine del 1918.14

La Romania rientra in guerra, novembre 1918
 
Dopo la vittoriosa offensiva sul fronte di Salonicco, che mise la Bulgaria fuori dal conflitto, la Romania rientrò in guerra il 10 novembre 1918, il giorno prima della cessazione delle ostilità sul fronte occidentale.
Il 28 novembre 1918, i rappresentanti romeni della Bukovina votarono l'annessione al regno di Romania, atto seguito dalla proclamazione dell'unione della Transilvania alla Romania, avvenuta il 1º dicembre 1918 ad Alba Iulia. I rappresentanti dei Sassoni della Transilvania approvarono l'atto il 15 dicembre durante un'assemblea tenutasi a Mediaş.
Il trattato di Versailles riconobbe la validità di queste proclamazioni nell'ambito del diritto all'autodeterminazione dei popoli (vedi i quattordici punti di Woodrow Wilson). L'articolo 259 del medesimo trattato prevedeva tra l'altro che la Germania rinunciasse a tutti i benefici acquisiti attraverso il trattato di Bucarest del 1918.15
Il controllo romeno della Transilvania, dove abitavano circa 1.662.000 ungheresi, fu molto mal digerito dalla neonata Ungheria indipendente. Per questo motivo, nel 1919 fu combattuta la guerra Ungaro-Romena tra la Repubblica sovietica ungherese ed il Regno di Romania. Quest'ultimo fu appoggiato dagli eserciti serbo e cecoslovacco, la qual cosa consentì l'assalto all'Ungheria da tutti i lati, e terminò con una parziale occupazione del suo territorio. L'ammiraglio Horthy fu successivamente nominato reggente d'Ungheria dai romeni.

Analisi militare della campagna

La controffensiva del 1916 fu un'impresa di rilievo da parte dell'esercito tedesco e dei generali Falkenhayn e Mackensen.16 Sebbene l'esercito romeno abbia conseguito diverse vittorie tattiche durante quell'anno, esse non furono sufficienti ad arrestare l'avanzata delle Potenze Centrali. Le truppe tedesche, in particolare, erano meglio addestrate ed equipaggiate, il che diede loro un vantaggio decisivo in combattimento. Nonostante ciò i tedeschi rappresentarono solo il 22% delle forze delle Potenze Centrali, mentre quelle austro-ungariche erano il 46% e quelle bulgaro-ottomane il 32%.17
Alcune fonti sostengono che, la Romania entrò in guerra al momento sbagliato, dato che un'eventuale entrata a fianco degli Alleati nel 1914 o 1915 avrebbe scongiurato la conquista della Serbia. Le stesse fonti sostengono che un'entrata nel 1916 avrebbe permesso il successo dell'offensiva Brusilov, ed individuano nella mutua sfiducia tra Russia e Romania, nonché nella scarsa performance delle truppe russe in Dobrugia le cause della sconfitta.
Vincent Esposito sostiene che l'alto comando romeno fece una serie di gravi errori strategici ed operativi:
Militarmente, la strategia romena non avrebbe potuto essere peggiore. Scegliendo la Transilvania come obiettivo iniziale, si trascurò la presenza dell'esercito bulgaro alle proprie spalle. Quando l'avanzata sulle montagne fallì, l'alto comando rifiutò di economizzare le forze su quel fronte per creare una riserva mobile da opporre alle successive offensive di Falkenhayn. Infine, i romeni non concentrarono in alcun luogo le proprie forze, perdendo in potenza di combattimento.18
Il fallimento sul fronte romeno da parte dell'Intesa fu anche il risultato di numerosi fattori al di là del controllo romeno. Il fallimento dell'offensiva di Salonicco non consentì alla Romania di raggiungere gli obiettivi di "sicurezza garantita" nei confronti della Bulgaria.19 Questo risultò essere un decisivo punto debole nei confronti della capacità romena di portare un'efficace offensiva in Transilvania, dato che si rese necessario dirottare una parte delle truppe sul fronte della Dobrugia.20 Inoltre, i 200.000 soldati russi inizialmente previsti come rinforzi non si materializzarono mai.21


Rivoluzione d'ottobre


Data
7-8 novembre 1917
Luogo
 Repubblica russa

Con rivoluzione d'ottobre si intende la sollevazione rivoluzionaria per opera dei bolscevichi contro il governo provvisorio della Repubblica Russa guidato dal menscevico Kerenskij.
Dopo il tentativo controrivoluzionario di Kornilov, sventato dall'azione degli operai di PietrogradoWikipedia:Uso delle fonti e dalle unità militari della guarnigione della città, i bolscevichi si convincono che bisogna stringere i tempi per realizzare il passaggio del potere dal governo provvisorio, nato dalle giornate di febbraio ed emanazione della proprietà terriera e della borghesia industrialeWikipedia:Uso delle fonti, ai soviet, rappresentanti le masse operaie e contadineWikipedia:Uso delle fonti. Nel settembre 1917 la diffusione dei soviet nella Russia è disomogenea e comunque le due componenti, operaia e contadinaWikipedia:Uso delle fonti, rimangono ancora separate. Nei soviet degli operai e soldati (che provengono per la stragrande maggioranza dalle campagne) che si vanno formando nelle città i bolscevichi vedono aumentare costantemente la loro influenza mentre i soviet contadini sono saldamente nelle mani dei socialrivoluzionari.
Il 15 settembre 1917 Lenin, ancora nascosto a Helsinki in Finlandia dopo il fallito tentativo rivoluzionario di luglio, scrive al Comitato Centrale del partito affinché venga iniziata la preparazione del passaggio dei poteri ai soviet. Lenin rientra in segreto a Pietrogrado il 10 ottobre, grazie all'intervento dei servizi segreti dell'Impero tedesco che lo appoggiano in previsione di una uscita della Russia dalla guerra, e vince le ultime resistenze interne al proprio partito sull'insurrezione. Solo Zinov'ev e Kamenev ritengono azzardata la mossa e consigliano di aspettare l'apertura dell'Assemblea Costituente, apertura che il governo di Kerenskij ha fissato, dopo numerosi rinvii, al 28 novembre. Lenin è convinto che il momento sia propizio non solo per la Russia ma anche per le altre nazioni europee che, sempre secondo il dirigente bolscevico, la guerra sta spingendo in una fase pre-rivoluzionaria. Il 12 ottobre viene creato il Comitato militare rivoluzionario con sede nell'Istituto Smol'nyj, che ha il compito di dirigere l'insurrezione; a presiederlo viene chiamato Trotsky. Il Comitato può contare, a Pietrogrado, su circa dodicimila Guardie Rosse, trentamila soldati della guarnigione e sugli equipaggi delle navi della flotta del BalticoWikipedia:Uso delle fonti. Il governo provvisorio dispone, in città, di settecento allievi ufficiali e di un battaglione femminile.Wikipedia:Uso delle fonti

La rivoluzione d'Ottobre

 L'insurrezione prende il via la sera del 6 novembre (24 ottobre del calendario giuliano in uso al tempo nell'impero russo): la sera vengono occupate prima tutte le tipografie; la notte del giorno dopo 7 novembre (25 ottobre) i punti più importanti di Pietrogrado: poste, telegrafi, stazioni ferroviarie, banche, ministeri. Il governo provvisorio praticamente cessa di esistere senza alcuna resistenza. Kerenskij fugge verso il fronte e gli altri ministri si rinchiudono nel Palazzo d'Inverno, che verrà attaccato alle 21.45 e definitivamente conquistato alle 2 del mattino dopo (8 novembre/26 ottobre).
La sera del 7 novembre (25 ottobre del calendario giuliano) si riunisce il Secondo Congresso dei Soviet, ed è a questo organo che i bolscevichi consegnano il potere appena conquistatoWikipedia:Uso delle fonti. Quella notte la discussione prosegue senza sosta ed alle due del mattino dell'8 novembre, mentre si arrendono le ultime sacche di resistenza nel Palazzo d'Inverno, viene decretato il passaggio del potere ai soviet. Come primo atto il congresso rivolge a operai soldati e contadini un proclama in cui afferma che il governo sovietico, in via di creazione, avrebbe offerto ai tedeschi la pace immediata ed avrebbe consegnato la terra ai contadini
Nei giorni che seguono, mentre la rivoluzione si diffonde e si scontra con i primi tentativi di resistenzaWikipedia:Uso delle fonti, viene organizzato il primo governo sovietico che prende il nome di Soviet dei commissari del popoloWikipedia:Uso delle fonti, o Sovnarkom. Alla presidenza va Lenin, Trotsky agli Esteri, gli altri incarichi vanno ad altri membri del partito bolscevico, tra cui Stalin al quale viene affidata la commissione per le questioni delle nazionalità. Il 15 novembre (2 novembre del calendario giuliano) il governo sovietico subisce un rimpasto in seguito all'ingresso dei socialrivoluzionari di sinistra, con Kolegaev che diviene commissario del popolo per l'Agricoltura.
Una delle più dettagliate e avvincenti cronache dei giorni della Rivoluzione d'Ottobre è contenuta nell'opera I dieci giorni che sconvolsero il mondo, opera del giornalista americano John Reed.

Il resto della Russia

A Mosca la rivoluzione inizia il 26 ottobre (calendario giuliano: 8 novembre del calendario gregoriano) e gli scontri si concludono solo il 2 novembre con la resa del Cremlino.Wikipedia:Uso delle fonti Nel frattempo Kerensky ha raggiunto il comando dell'esercito, la Stavka, e da lì cerca di organizzare una controffensiva. Tutto quello che riesce a riunire sono circa ventimila cosacchi che affida al generale Krasnov.Wikipedia:Uso delle fonti Una parte di questi si sbanda o si unisce alle truppe del governo sovieticoWikipedia:Uso delle fonti; il resto viene sconfitto a Pulkovo dalle Guardie RosseWikipedia:Uso delle fonti. Kerensky, a questo punto, fugge in Inghilterra.Wikipedia:Uso delle fonti Nel resto della Russia la rivoluzione si diffonde in modo non uniforme ma a seconda dei rapporti di forza locali.Wikipedia:Uso delle fonti I bolscevichi non hanno potuto definire un piano concertato per la rivoluzione in tutto il resto del paese e si affidano, almeno in parte, allo spontaneismo, convinti che l'esempio di Pietrogrado, e poi di Mosca, faccia da motore.

Bibliografia
    •    Ettore Cinnella,  La Tragedia della Rivoluzione Russa (Storia Universale, Corriere della Sera).
    •    David Mandel,  The Petrograd workers and the Fall of the Old Regime, London, 1990.
    •    John Reed, I dieci giorni che sconvolsero il mondo, Edizioni Clandestine, 2011 [1919].
    •    Lev Trotsky, Dalla Rivoluzione d'Ottobre al trattato di pace di Brest-Litowsk, Milano, Avanti!, 1919.

Trattato di Brest-Litovsk

Trattato di Brest-Litovsk


 Il trattato di Brest-Litovsk fu un trattato di pace stipulato tra la Russia e gli Imperi centrali il 3 marzo 1918 in Bielorussia, presso la città di Brėst (un tempo conosciuta come "Brest-Litovsk").
Esso sancì la vittoria degli Imperi centrali sul Fronte orientale, e l'uscita della Russia dalla Prima guerra mondiale. Anche se la fine della guerra portò a esiti diversi rispetto a quanto previsto dal trattato, esso fu, seppur non intenzionalmente, di fondamentale importanza nel determinare l'indipendenza di Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia.

La pace "giusta e democratica"
 
Uno dei primi atti del nuovo governo nato nelle giornate della rivoluzione d'ottobre fu la proposta rivolta a tutti i belligeranti di un immediato armistizio generale per giungere entro breve tempo ad una conferenza per una pace "giusta e democratica".
 Tutte le iniziative che il governo bolscevico prende riguardo alla guerra subito dopo la rivoluzione per essere comprese devono essere inquadrate nella convinzione, di Lenin e di quasi tutti gli altri dirigenti, che la rivoluzione mondiale (o almeno europea) è ormai imminente.
Comunque nessuno degli altri belligeranti, tranne la Germania, dà segno di aver ricevuto la proposta russa e quindi il nuovo governo procede in modo autonomo e nel dicembre del 1917 concorda con la Germania un armistizio e l'apertura di trattative di pace. La Germania da parte sua ha tutto l'interesse a trarre dalla situazione russa tutti i vantaggi possibili. Le richieste che sono avanzate durante le trattative sono sempre a svantaggio della Russia anche utilizzando il concetto di "autodeterminazione dei popoli" che fa parte dei primi pronunciamenti del governo dei Commissari del Popolo.

La situazione al fronte
 
Per comprendere appieno i fatti che seguono è necessario avere almeno una visione complessiva dello stato dell'esercito russo nel 1917. Al momento della rivoluzione d'ottobre la Russia ha sotto le armi quasi dieci milioni di uomini, nella stragrande maggioranza di provenienza contadina, di cui circa sei milioni distribuiti sui vari fronti. Si tratta di un esercito in via di dissoluzione dove le diserzioni sono un fenomeno quotidiano. I soldati, insieme agli operai dell'industria bellica, sono uno dei pilastri della rivoluzione che hanno appoggiato proprio in nome della pace e della speranza di poter ricevere, al ritorno a casa, quella terra che è sempre stato il sogno dei contadini russi.
L'importanza del fronte orientale è andata diminuendo per tutto il 1917 permettendo agli Imperi Centrali di distoglierne truppe da inviare in rinforzo ad altri fronti di maggior rilevanza (l'offensiva austriaca sul fronte italiano dell'autunno 1917 è una diretta conseguenza di ciò). Una delle prime decisioni del nuovo governo russo riguardo all'esercito è l'abolizione di tutti i gradi e l'elezione dei comandanti da parte dei soldati in modo da togliere potere alla "casta" degli ufficiali, tutti di estrazione nobile o borghese e quindi potenzialmente nemici della rivoluzione proletaria.

Le condizioni per la pace

 Le condizioni che la Germania pone per la pace sono molto pesanti e per nulla "democratiche", con grosse perdite territoriali, sia per cessione diretta alla Germania sia per concessione dell'indipendenza, come nel caso dell'Ucraina, dove la Rada (controllata dai latifondisti) aveva stipulato un accordo di pace separato. Da parte russa le trattative sono condotte inizialmente da Trotzky che sfrutta tutta la sua capacità di eloquenza nel tentativo di non cedere alle richieste della Germania.
La crisi arriva il 27 gennaio 1918 (calendario giuliano) quando la Germania pone il diktat sulla firma della pace. Tra i bolscevichi le posizioni sono diverse e contrastanti: la sinistra, appoggiata anche dai socialisti-rivoluzionari di sinistra propone di non accettare e di portare ad oltranza la guerra rivoluzionaria facendo appello alle masse dei paesi occidentali affinché aderendo anch'esse alla rivoluzione pongano fine all'aggressione imperialista; questa tesi ha in Nikolai Bucharin il maggior sostenitore.
Anche Lev Trotsky è contrario alla pace alle condizioni del diktat ma vede una via d'uscita nel rifiuto unilaterale di combattere da parte della Russia. Secondo questa visione i generali tedeschi sarebbero stati impossibilitati a continuare la guerra a causa dell'opposizione interna. Solo Lenin ritiene che la pace vada firmata ad ogni costo.
Le condizioni per la Russia sono durissime: oltre a dover pagare una cospicua indennità di guerra (circa sei milioni di marchi), perde la Polonia Orientale, la Lituania, la Curlandia, la Livonia, l'Estonia, la Finlandia, l'Ucraina e la Transcaucasia; complessivamente la pace di Brest-Litovsk strappa alla Russia 56 milioni di abitanti (pari al 32% della sua popolazione) e la priva di un terzo delle sue strade ferrate, del 73% dei minerali ferrosi, dell'89% della produzione di carbone1 e di 5.000 fabbriche.

La pace di Brest-Litovsk

 Il 28 gennaio (10 febbraio) è proprio Trotsky ad annunciare la decisione russa di non combattere più e di smobilitare l'esercito. In risposta a ciò il 18 febbraio (calendario gregoriano - dal 1º febbraio giuliano la Russia adotta il calendario gregoriano) l'esercito tedesco riprende l'avanzata sfondando le sguarnite linee russe.
Malgrado eroici tentativi di difesa da parte di reparti di volontari appena costituiti la situazione è disperata e Lenin ottiene, dietro minaccia di dimissioni, l'autorizzazione dal Comitato Centrale del Partito Bolscevico a firmare la pace, nonostante le nuove condizioni siano ancora più gravose delle precedenti: cessione di Estonia e Lettonia oltre a tutti i territori occupati dalle truppe tedesche, riparazioni economiche e cessioni all'Impero Ottomano nella Transcaucasia, la pace viene firmata a Brest-Litovsk nel marzo 1918.

Conseguenze della pace


 La storiografia sovietica ha definito quella firmata a Brest-Litovsk una "pace imperialista", poiché nega uno dei principi enunciati coi decreti dell'ottobre, quello sull'autodeterminazione dei popoli. In effetti, ferme restando le ingerenze tedesche a livello locale, è una pace che vede la fine dell'impero russo e delle spinte imperialistiche che i soviet avevano ereditato. Con il trattato ha inizio il processo di affrancamento dei vari popoli oppressi dall'imperialismo russo.Wikipedia:Uso delle fonti
L'Ucraina è occupata dall'esercito tedesco che installa un governo fantoccio con la funzione di coprire il prelievo di materie prime e grano necessari per lo sforzo bellico tedesco ad occidente. In Finlandia, che aveva ottenuto l'indipendenza dall'ottobre 1917 i tedeschi inviano truppe in appoggio ad una controrivoluzione che rovescia il governo socialdemocratico. Anche in Lituania ed Estonia ai governi dei soviet ne vengono sostituiti altri appoggiati direttamente dall'esercito tedesco. La Bessarabia viene annessa alla Romania mentre l'Impero Ottomano occupa porzioni di territorio nella regione transcaucasica (Ardahan, Kars, Batumi).
In ogni caso, il trattato di Versailles cancellerà Brest-Litovsk, e richiamerà in patria le truppe tedesche che si trovano nei nuovi stati nati dalla fine dell'impero russo, lasciando queste nazioni nel caos della guerra civile russa.

Bibliografia
    •    Ennio  Di Nolfo,  Storia delle Relazioni Internazionali, Bari, Laterza, 2000. ISBN 88-420-6001-1


Battaglia di Caporetto


Data
24 ottobre - 12 novembre 1917
Luogo
Valle del fiume Isonzo nei pressi di Caporetto, oggi in Slovenia

 La battaglia di Caporetto, o dodicesima battaglia dell'Isonzo, (in tedesco Schlacht von Karfreit, o zwölfte Isonzoschlacht) venne combattuta durante la prima guerra mondiale tra il Regio Esercito italiano e le forze austro-ungariche e tedesche.
Lo scontro, che iniziò alle ore 2:00 del 24 ottobre 1917, rappresenta la più grave disfatta nella storia dell'esercito italiano7, tanto che, non solo nella lingua italiana, ancora oggi il termine Caporetto viene utilizzato come sinonimo di sconfitta disastrosa.
Con la crisi della Russia dovuta alla rivoluzione, Austria-Ungheria e Germania poterono trasferire consistenti truppe dal fronte orientale a quelli occidentale e italiano. Forti di questi rinforzi, gli austro-ungarici, con l'apporto di reparti d'élite tedeschi, sfondarono le linee tenute dalle truppe italiane che, impreparate ad una guerra difensiva e duramente provate dalle precedenti undici battaglie dell'Isonzo, non ressero all'urto e dovettero ritirarsi fino al fiume Piave.
La sconfitta portò alla sostituzione del generale Luigi Cadorna, che aveva imputato l'esito infausto della battaglia alla viltà dei suoi soldati, con Armando Diaz. Le unità italiane si riorganizzarono abbastanza velocemente e fermarono le truppe austro-ungariche e tedesche nella successiva prima battaglia del Piave riuscendo a difendere ad oltranza la nuova linea difensiva.

Situazione generale

 Le prime quattro offensive scatenate da Luigi Cadorna, comandante supremo del Regio Esercito italiano, sull'Isonzo durante la seconda metà del 1915, non portarono nessun cambiamento sostanziale del fronte, ma solo la morte di numerosi soldati di entrambi gli schieramenti, con gli italiani respinti ad ogni tentativo di sfondare le linee nemiche. Così come sul fronte occidentale, quindi, anche in Italia si riconfermò la caratteristica fondamentale della prima guerra mondiale: la guerra di trincea.
Nel 1916 il capo di Stato Maggiore austro-ungarico Franz Conrad von Hötzendorf ritirò parte dei suoi uomini dal fronte orientale, ritenuto solido e relativamente tranquillo, per impiegarli il 15 maggio nella cosiddetta Strafexpedition (spedizione punitiva) contro gli italiani, ma l'attacco non riuscì completamente e quindi vi fu il ritorno ad una situazione di stallo. Cadorna era deciso però a riprendersi i territori del Trentino e così, nella seconda metà del 1916, il Regio Esercito tentò di nuovo di sloggiare i nemici dalle zone interessate, ma gli insuccessi portano il comandante italiano a volgere nuovamente la sua attenzione all'Isonzo, dove i suoi uomini riuscirono a prendere Gorizia costringendo gli austro-ungarici a ripiegare nelle linee di difesa arretrate, da dove respinsero tutti i successivi assalti degli avversari.
Nel maggio 1917 Cadorna riprese l'iniziativa ordinando il via della decima battaglia dell'Isonzo, ma ancora una volta i risultati ottenuti furono minimi in confronto alle vite umane perse per conseguirli. Alla fine di luglio venne convocata a Parigi una conferenza Alleata dove fu richiesto all'Italia di eseguire altre due nuove offensive, il prima possibile, per alleggerire la pressione sul fronte occidentale, ma Cadorna ne garantì solo una8 (undicesima battaglia dell'Isonzo), che finì in un nulla di fatto.
Tutte queste battaglie, come già detto, costarono ad entrambi gli avversari ingenti perdite umane, ma per gli austro-ungarici la situazione era più grave, essendo i loro effettivi circa il 40% in meno di quelli italiani. Per loro fu quindi necessario chiedere la collaborazione dei tedeschi, che risposero inviando al fronte alcune unità di eccellenza e degli ottimi comandanti come il generale Otto von Below ed il suo capo di Stato Maggiore Konrad Krafft von Dellmensingen.

Terreno

I luoghi più significativi dove venne combattuta la battaglia di Caporetto furono l'omonima conca, le valli del Natisone e il massiccio del monte Colovrat.
La posizione di Caporetto (Kobarid in sloveno) è particolarmente strategica dato che si trova all'incrocio tra il corso dell'Isonzo e la valle che porta verso la pianura friulana. Durante la Grande Guerra quindi la città funzionò da collegamento tra l'interno del paese e la complessa organizzazione del IV Corpo d'armata, la grande unità del Regio Esercito dispiegata tra la vallata e le montagne sovrastanti. I paesi centrali rispetto ai settori in cui era divisa l'ampia zona di combattimento del corpo d'armata ospitavano i comandi di divisione (Dresenza Picco, Smasti, Saga) con tutti i servizi aggregati dell'artiglieria, del genio militare e della sanità, mentre quelli a pochi chilometri dalla prima linea alloggiavano i comandi di brigata, le riserve e le truppe a riposo9.
Collocate nella parte più orientale della regione Friuli-Venezia Giulia, le valli del Natisone collegano Cividale del Friuli alla valle dell'Isonzo in Slovenia. Sono costituite dalla valle del Natisone propriamente detta e da quelle percorse dai suoi affluenti, l'Alberone, il Cosizza e l'Erbezzo. A nord sono dominate dal monte Matajur, o monte Re, alto 1.641 m10.
La catena del Colovrat (Kolovrat in sloveno) è una lunga catena montuosa caratterizzata da una serie di alture costituite dal monte Podclabuz (Na Gradu-Klabuk) (1.114 m), dal monte Piatto (1.138 m) e dal monte Nagnoj a quota 1.192, coincidente con la linea di confine attuale fra Italia e Slovenia. Tale sistema di monti si eleva sopra la valle tra Caporetto e Tolmino (Tolmin in sloveno) e nel maggio 1915 costituì uno dei punti di partenza delle truppe italiane verso i territori dell'Impero austro-ungarico11.

Forze in campo

L'andamento del conflitto per l'Impero tedesco spinse Erich Ludendorff, abile generale del Deutsches Heer, consigliato anche dal colonnello Fritz von Loßberg, a rivalutare le tattiche difensive e offensive da insegnare ai soldati impiegati al fronte. Riguardo alle seconde, che più interessano lo scenario della disfatta di Caporetto, vennero istituite ed addestrate le cosiddette Sturmpatrouilen, squadre d'assalto formate da 11 uomini (sette fucilieri, due portamunizioni e due addetti alle mitragliatrici) che dovevano muoversi con missione di contrattacco12; così facendo si affidava l'iniziativa al livello di comando più basso, accollando alte responsabilità ai sottufficiali.
Già i francesi nel 1915 avevano sviluppato un concetto simile prevedendo di impiegare groupes de tirailleurs, armati di bombe a mano, mortai e fucili mitragliatori, contro postazioni di mitragliatrici nemiche, avanzando in formazione allargata e sfruttando ogni elemento del terreno a proprio vantaggio, ma non ci furono prove pratiche e così i tedeschi, venuti a conoscenza di queste idee, svilupparono le loro dottrine descritte sopra e le introdussero nel 1917.
I vertici militari tedeschi capirono inoltre che la vita in trincea era fisicamente e psicologicamente distruttiva per il soldato, così si adoperarono per ridurre al minimo la permanenza in prima linea delle truppe: un battaglione stava in linea mediamente 2 giorni su 1213.
Di tutti questi studi e innovazioni la Germania tenne sempre al corrente l'Impero austro-ungarico, che non tardò a metterli efficacemente in pratica nella battaglia di Flondar, nella battaglia del Monte Ortigara e nell'undicesima battaglia dell'Isonzo, avvalendosi soprattutto della "difesa elastica", altra novità dei loro alleati mutuata da un'idea, rimasta tale, francese, consistente in tre linee di difesa: la prima era occupata da poche forze, la seconda era invece ben presidiata e fortificata, mentre la terza era destinata alle riserve e alle truppe da lanciare in un eventuale rapido contrattacco14.
L'impreparazione del Regio Esercito
 Sotto il comando di Cadorna, dal maggio 1915 all'ottobre 1917, il Regio Esercito si era notevolmente potenziato passando da un milione a due milioni di uomini. Allo stesso tempo, era più che triplicata l'artiglieria, il numero delle mitragliatrici era aumentato e anche l'aviazione aveva beneficiato di un significativo incremento15. Tutto questo però non fu seguito da un valido addestramento o dall'elaborazione di nuove dottrine militari.
Alle innovazioni tedesche, l'Italia contrapponeva il classico schema offensivo basato su una potente azione delle artiglierie seguita dall'attacco dei fanti. Riguardo alla difesa invece, il Comando Supremo aveva emanato poche direttive nel corso della guerra, riguardanti più che altro l'uso dell'artiglieria. Anche il Regio Esercito era disposto su tre linee di difesa ma, a differenza dei loro nemici, i soldati erano ammassati in prima linea, mentre le altre due erano scarsamente presidiate, dato che si riponevano le speranze di spezzare l'attacco dell'avversario nell'artiglieria.
La differenza con la "difesa elastica" tedesca sta nel fatto che questi accettavano il ripiegamento di qualche chilometro per preparare meglio il contrattacco da lanciare nel momento in cui, non più protetti dalle bocche da fuoco, i reparti nemici entravano in crisi sotto il tiro avverso. Un altro elemento caratteristico dell'esercito italiano era la sua eccessiva burocratizzazione: mentre gli ordini tedeschi passavano solo attraverso i comandi di divisione e di battaglione, in Italia si doveva passare per il corpo d'armata, la divisione, la brigata, il reggimento e, infine, per il battaglione.
Qualcosa comunque, anche se tardi e in misura limitata, venne fatta. Il 29 luglio 1917 infatti furono creati a Manzano gli Arditi per ordine del generale Capello, che pose il reparto alle dipendenze del colonnello Giovanni Bassi. Questo provvedimento incise comunque in misura minima nella battaglia di Caporetto, sia per il ridotto numero di Arditi, sia perché il reparto era vocato prevalentemente all'azione offensiva, con poca esperienza, come del resto l'intero esercito, in ambito difensivo.

Ordini di battaglia

Germania e Impero austro-ungarico

Per quanto riguarda la 14ª Armata e le divisioni tedesche che vi militavano, tre (la 1ª, la 50ª e la 55ª) già si trovavano nella zona delle operazioni, mentre la 3ª Edelweiss e la 22ª Schützen vennero fatte arrivare dal Trentino; queste unità, assieme all'Alpenkorps, erano già avvezze alla guerra in montagna in quanto avevano combattuto nei Vosgi, in Macedonia e nei Carpazi. La 12ª slesiana e la 26ª dovettero invece essere addestrate a combattere nel nuovo tipo di terreno, mentre la 4ª, la 5ª, la 13ª, la 33ª, la 117ª e la 200ª provenivano dal fronte orientale16.
A guardare solo gli elementi che entrarono in azione il 24 ottobre (escluse le riserve e la divisione Jäger, che per molti giorni non partecipò ai combattimenti), la forza complessiva degli austro-ungarici-tedeschi era di 353.000 uomini, 2.147 cannoni e 371 bombarde17.

Italia

Sul fronte dell'Isonzo Cadorna aveva a sud (destra) la 3ª Armata comandata dal duca d'Aosta costituita da quattro corpi d'armata, e a nord (sinistra) la 2ª Armata, comandata dal generale Luigi Capello e costituita da ben otto corpi d'armata. Lo sfondamento avvenne sul fianco sinistro della 2ª Armata tra Tolmino e Plezzo. Tale parte di fronte era presidiata a sud tra Tolmino e l'alta valle dello Judrio, dalla 19ª Divisione del maggior generale Giovanni Villani18, dalla brigata Puglie e dal X Gruppo alpini del XXVII Corpo d'armata di Pietro Badoglio19, mentre a nord da Gabria fino a Plezzo dal IV Corpo d'armata del tenente generale Alberto Cavaciocchi20. Incuneato tra i due corpi d'armata ed in posizione più arretrata era stato disposto molto frettolosamente anche il debole VII Corpo d'armata comandato dal maggior generale Luigi Bongiovanni21.
Se si prendono in considerazione i soli reparti interessati dall'offensiva di von Below e di Kosak, si trattava di 257.400 uomini appoggiati da 997 cannoni e 345 bombarde22.

Svolgimento della battaglia

Le fasi preparatorie

Quando gli austro-ungarici chiesero aiuto, il capo di Stato Maggiore tedesco, Paul von Hindenburg, e il suo vice Erich Ludendorff, acconsentirono ad inviare al fronte italiano il generale Konrad Krafft von Dellmensingen per un sopralluogo, che durò dal 2 al 6 settembre 1917. Terminate le varie verifiche e dopo aver vagliato le probabilità di vittoria, Dellmensingen tornò in Germania per approvare l'invio degli aiuti, sicuro anche che la Francia, dopo il fallimento della seconda battaglia dell'Aisne ad aprile, non avrebbe attaccato23.
Mappa dell'avanzata austro-ungarico-tedesca in seguito alla ritirata italiana
Già l'11 settembre Otto von Below fu posto a capo della nuova 14ª Armata e fu nominato suo capo di Stato Maggiore lo stesso Dellmensingen. Venne chiarita con l'alleato austriaco la strategia da adottare: un primo sfondamento sarebbe dovuto avvenire a Plezzo, con direzione Saga e Caporetto, per conquistare monte Stol e puntare verso l'alto Tagliamento; contemporaneamente da Tolmino si sarebbe dovuto risalire l'Isonzo fino a Caporetto, per imboccare la valle del Natisone fino a Cividale del Friuli; un altro attacco frontale sarebbe partito invece contro il massiccio dello Iessa per impossessarsi successivamente di tutta la catena del Colovrat, da cui era possibile dominare la valle dello Judrio, accerchiando l'altopiano della Bainsizza e spingendosi fino al monte Corada24. Gli spostamenti di truppa dovevano essere effettuati con la massima segretezza e l'inizio delle operazioni era previsto per il 22 ottobre, ma alcuni ritardi di approvvigionamento posticiparono la data alle 2:00 del 24.
Nel frattempo, il 18 settembre, Cadorna venne a sapere che il generale russo Kornilov aveva fallito nel suo intento di ribaltare il governo Kerenskij, favorevole ad un'uscita del suo paese dalla guerra, e quindi, prevedendo uno spostamento di forze austriache e tedesche verso altri fronti, ordinò tassativamente alla 2ª e alla 3ª Armata di stabilire posizioni difensive. Il giorno dopo il duca d'Aosta (capo della 3ª Armata) inoltrò l'ordine ai suoi uomini, ma specificò di prepararsi al contrattacco se questo si fosse reso necessario per prevenire le mosse del nemico, imitato in questo da Capello (al vertice della 2ª Armata) il quale però, a differenza di lui, non fece arretrare in misura ragionevole le artiglierie. Nel frattempo la salute di quest'ultimo, precaria già da tempo, peggiorò, e così il 4 ottobre il generale si ritirò in convalescenza a Padova, lasciando al suo posto Luca Montuori, senza emanare alcuna istruzione25. Cadorna si rese conto dell'errore di Capello solamente il 18 ottobre, e il giorno seguente lo ricevette a Udine ribadendogli di eseguire il suo ordine con più decisione e velocità, mentre nel frattempo inviò due ufficiali presso Cavaciocchi e Badoglio per un aggiornamento della situazione e per verificare la necessità di inviare rinforzi, ma entrambi i comandanti risposero che non ve ne era bisogno, data la loro fiducia di mantenere le posizioni.
L'Ufficio I (il servizio di intelligence italiana del periodo) intanto monitorava l'accrescersi degli eserciti avversari, e ne teneva informato costantemente Cadorna, anche se non riuscì a stabilire con certezza il luogo dell'offensiva, ipotizzando però che sarebbe partita tra Plezzo e Tolmino, e così effettivamente fu. Il 20 ottobre un tenente boemo si presentò al comando del IV Corpo d'armata con informazioni dettagliate sul piano d'attacco di von Below, che per lui sarebbe iniziato, forse, sei giorni dopo. Il 21 ottobre due disertori rumeni informarono gli italiani che i loro ex camerati avrebbero attaccato presto prima a Caporetto e poi a Cividale del Friuli, specificando anche la preparazione di artiglieria che avrebbe preceduto l'attacco26, ma i comandi italiani non gli credettero. Il giorno successivo Cavaciocchi emanò disposizioni per demolire i ponti sull'Isonzo facendo inoltre spostare il comando a Bergogna; venne bombardato il comando della 2ª Armata a Cormons, che si trasferì, dovendo ricollegare da zero tutte le linee telefoniche, a Cividale del Friuli, e lo stesso fece Badoglio stabilendosi a Cosi, da dove iniziò a trasmettere ordini alle sue divisioni. Non è a conoscenza però che i tedeschi hanno di nuovo individuato la sua posizione grazie alle intercettazioni telefoniche, e hanno puntato, senza sparare, i cannoni sulle nuove coordinate.
Il 23 ottobre Capello riprese il controllo della 2ª Armata mentre continuarono ad essere avvistate truppe nemiche in lontananza. Alle 13:00 venne intercettata una comunicazione tedesca in cui si fissava l'avvio dell'offensiva per le ore 2:00 del giorno dopo, così alle 14:00 Cadorna, Capello, Badoglio, Bongiovanni, Cavaciocchi e Caviglia (XXIV Corpo d'armata) si riunirono per chiarire la situazione, ma l'atmosfera fu positiva in quanto il brutto tempo fece sperare in un rinvio dell'attacco nemico.

Lo sfondamento delle linee italiane

Alle 2:00 in punto del 24 ottobre 1917 le artiglierie austro-germaniche iniziarono a colpire le posizioni italiane dal monte Rombon all'alta Bainsizza alternando lanci di gas a granate convenzionali, colpendo in particolare tra Plezzo e l'Isonzo con un gas sconosciuto che decimò i soldati dell'87º Reggimento lì dislocati27. Alle 6:00 il tiro cessò dopo aver causato danni modesti, e riprese mezz'ora dopo stavolta contrastato dai cannoni del IV Corpo d'armata, mentre quelli del XXVII, a causa dell'interruzione dei collegamenti dovuta allo spezzarsi dei cavi elettrici sotto il tiro delle granate (nessuna linea telefonica era stata interrata o protetta in alcun modo, e alcune posizioni non erano neanche collegate28) risultò caotico, impreciso e frammentario. Nel frattempo i fanti di von Below, protetti dalla nebbia, si avvicinarono notevolmente alle posizioni italiane, e alle 8:00, senza neanche aspettare la fine dei bombardamenti, andarono all'assalto delle trincee italiane, salvo sul Passo della Moistrocca e sul monte Vrata dove, a causa della bufera di neve che vi imperversava, l'attacco venne rimandato di un'ora e mezza.
Metà della 3ª Edelweiss si scontrò con gli alpini del gruppo Rombon che la respinsero, mentre l'altra metà, assieme alla 22ª Schützen, riuscì a superare gli ostacoli nel punto dove era stato lanciato il gas sconosciuto, ma vennero fermate dopo circa 5 km dall'estrema linea difensiva italiana posta a protezione di Saga, dove stazionava la 50ª Divisione del generale Giovanni Arrighi. Alle 18:00 questi, per non vedersi tagliata la via della ritirata, evacuò Saga ripiegando sulla linea monte Guarda - monte Prvi Hum - monte Stol, lasciando sguarnito anche il ponte di Tarnova da dove avrebbero potuto ritirarsi le truppe che verranno accerchiate sul monte Nero. Di tutto questo Arrighi informerà Cavaciocchi solo alle 22:00. Nella mattina intanto non ebbero successo la 55ª e la 50ª Divisione austro-ungarica, arrestate fra l'Isonzo e il monte Sleme.
 Non riuscirono invece a tenere le posizioni la 46ª Divisione italiana e la brigata Alessandria poste all'immediata sinistra della 50ª Divisione austro-ungarica, e ne approfittò un battaglione bosniaco che subito diresse per Gabria.
L'avanzatata decisiva che provocò il crollo delle difese italiane fu effettuata dalla 12ª divisione slesiana del generale Arnold Lequis che progredì in poche ore lungo la valle dell'Isonzo praticamente senza essere vista dalle posizione italiane in quota sulle montagne, sbaragliando durante la marcia lungo le due sponde del fiume una serie di reparti italiani colti completamente di sorpresa. L'avanzata dei tedeschi ebbe inizio a San Daniele del Carso, dove cinque battaglioni della 12ª slesiana ebbero facilmente la meglio sui reparti italiani scossi dal bombardamento, e subito iniziò la loro progressione in profondità: alle 10:30 si trovavano a Idresca d'Isonzo dove incontrarono un'inaspettata ma debole resistenza, cinque ore dopo fu raggiunta Caporetto, alle 18:00 Staro Selo e alle 22:30 Robič e Creda29.
Nel frattempo, più a sud, l'Alpenkorps diventò padrone alle 17:30 del monte Podclabuz/Na Gradu-Klabuk30, mentre del massiccio dello Jeza si occupò la 200ª Divisione, che conquistò la vetta alle 18:00 dopo aspri scontri con gli italiani, terminati del tutto solo a mezzanotte. I tre battaglioni del X Gruppo alpini, aiutati anche dal tiro efficace dell'artiglieria italiana, resistettero fino alle 16:00 agli undici battaglioni della 1ª Divisione austro-ungarica, ma alla fine dovettero arrendersi e cedere il monte Krad Vhr. Nell'alta Bainsizza, dove fu combattuta una guerra con i metodi "antiquati" (cioè non applicando le novità tattiche introdotte dai tedeschi), il Gruppo Kosak non ottenne alcun risultato, e la situazione andò quasi subito in stallo.
Durante il primo giorno di battaglia gli italiani persero all'incirca, tra morti e feriti, 40.000 soldati e altrettanti si ritrovarono intrappolati sul monte Nero, mentre i loro avversari 6.000 o 7.00031. Nella mattina del 25 ottobre Alfred Krauß lanciò l'attacco contro la 50ª Divisione ritiratasi il giorno precedente attorno al monte Stol. Esauste e con poche munizioni, le truppe italiane iniziarono a cedere alle 12:30 asserragliandosi sullo Stol, e qui il generale Arrighi ordinò loro di ritirarsi, ma improvvisamente giunse la notizia dalla 34ª Divisione di Luigi Basso che il comando del IV Corpo d'armata aveva vietato ogni forma di ripiegamento da lui non espressamente autorizzato.
I fanti della 50ª ritornarono quindi sui loro passi ma nel frattempo la 22ª Schützen aveva preso possesso della cima dello Stol, da dove respinsero ogni attacco dei fanti italiani, che ricevettero l'ordine definitivo di ritirata da Cavaciocchi alle ore 21:00. Tra Caporetto e Tolmino nel frattempo la brigata "Arno", arrivata in zona tre giorni prima, stava difendendo il monte Colovrat e le creste circostanti quando contro di loro mosse il battaglione da montagna del Württemberg, assegnato di rinforzo all'Alpenkorps; il tenente Erwin Rommel guidava uno dei tre distaccamenti in cui era stato diviso il suo battaglione. Insieme a 500 uomini, il futuro feldmaresciallo iniziò a scalare le pendici del Colovrat catturando in silenzio centinaia di italiani presi alla sprovvista, mentre per errore la Arno, anziché contro il monte Piatto, venne lanciata verso il Na Gradu-Klabuk, già dal giorno prima saldamente in mano all'Alpenkorps che dovette sostenere gli assalti italiani fino a sera. Tornando a Rommel, i suoi uomini conquistarono senza troppe fatiche il monte Nagnoj, dove presero posizione i cannoni tedeschi che inizieranno a prendere di mira il monte Cucco di Luico, aggirato da Rommel per non perdere tempo e preso nel pomeriggio da truppe dell'Alpenkorps congiunte ad elementi della 26ª Divisione tedesca32.
Prigionieri italiani a Cividale
Una volta distrutta la brigata Arno, Rommel puntò contro il Matajur dove stazionava la brigata "Salerno" del generale Zoppi, inquadrata nella 62ª Divisione del generale Giuseppe Viora, rimasto ferito e quindi sostituito proprio da Zoppi, che lasciò il suo posto al colonnello Antonicelli. All'alba del 26 ottobre ad Antonicelli giunse l'ordine da un tenente di abbandonare la posizione entro la mattina del 27. Sorpreso per una ritirata ordinata ben un giorno prima, il nuovo capo della Salerno chiese informazioni al portaordini il quale disse che probabilmente si trattava di un errore del comando di divisione, ma Antonicelli volle essere sicuro e obbligò il tenente a ritornare con l'ordine corretto, ma quando questo arrivò a destinazione Rommel nel frattempo aveva circondato il Matajur33. Dopo duri scontri, la Salerno si arrese e Rommel chiuse la giornata dopo aver avuto solo sei morti e trenta feriti a fronte dei 9.150 soldati e 81 cannoni italiani catturati34.

Dall'Isonzo al Tagliamento

 A questo punto Otto von Below, anziché arrestare la sua offensiva, la prolungò in direzione del fiume Torre, Cividale del Friuli, Udine e la Carnia. Contrariamente alle previsioni del generale tedesco però, l'esercito italiano, anche se in preda al caos, non era in completo sfacelo, e oppose in alcuni punti una valida resistenza; inoltre la situazione delle artiglierie si era parzialmente livellata tra i due schieramenti, in quanto gli italiani le avevano perse nei primi giorni dell'offensiva, e gli austro-tedeschi non riuscirono a farle stare al passo della rapida avanzata delle loro fanterie. A detta del Generale Caviglia, alla guida del XXIV Corpo d'armata, il successo di quel disordinato ma cruciale ripiegamento oltre l'Isonzo era nelle mani di alcune unità chiamate dalla riserva ad arginare la caduta. Così nelle sue memorie del 26 e del 27 ottobre:
« La situazione più pericolosa è quella della destra del XXIV Corpo (Brigata Venezia) a cavallo dell'Isonzo: dalla sua resistenza dipende la sicurezza di tutti i Corpi d'armata, più a Sud. La sera del 27, ritirai dalla sinistra dell'Isonzo sul Planina, tutta la Brigata Venezia, perché già il II corpo, che essa proteggeva, era tutto passato sulla destra dell'Isonzo. In presenza dei due reggimenti abbracciai il loro Comandante Raffaello Reghini […]36 »
Cadorna, sin dalla mattina del 25 ottobre, passò al vaglio l'idea di ordinare una ritirata generale, e ne discusse nel pomeriggio stesso con Montuori, succeduto definitivamente a Capello a causa dei continui malori di quest'ultimo. Avendo constatato l'impossibilità di riprendere l'iniziativa, i due alti ufficiali diramarono l'ordine di ritirata nella serata, ma dopo poco tempo Cadorna ebbe un ripensamento e propose a Montuori di tentare una resistenza sulla linea monte Kuk - monte Vodice - Sella di Dol - monte Santo - Salcano. Il nuovo capo della 2ª Armata fu in totale disaccordo con il suo superiore ma Cadorna pochi minuti dopo la mezzanotte fece sapere alle truppe di disporsi sulla difensiva nelle posizioni da lui indicate. La maggioranza delle postazioni comunque non tennero e già il 27 ottobre il comandante supremo del Regio Esercito diede disposizioni alla 2ª e 3ª Armata di riparare dietro il Tagliamento, mentre alla 4ª Armata, in linea sul Cadore, disse di spostarsi sulla linea di difesa ad oltranza del Piave. Senza troppi ostacoli davanti, i tedeschi occuparono Cividale del Friuli il 27 ottobre e Udine il giorno dopo (abbandonata in favore di Treviso da Cadorna) marciando su un ponte che non era stato fatto saltare dai genieri italiani37, e misero in serio pericolo da nord-ovest la 3ª Armata, che era rimasta troppo a Oriente. I tedeschi comunque si accorsero qualche ora troppo tardi della possibilità di accerchiamento, e così, grazie anche all'inaspettata resistenza di alcune unità italiane, il duca d'Aosta e le sue truppe riuscirono a mettersi in salvo.
In generale la ritirata avvenne in una situazione caotica, caratterizzata da diserzioni e fughe che sfoceranno in alcune fucilazioni, mista ad episodi di valore e disciplina durante i quali molti ufficiali inferiori, rimasti isolati dai comandi, acquisirono notevole esperienza di un nuovo modo di fare la guerra, ora più rapida. Un episodio tragico per i soldati italiani si verificò nei ponti vicino a Casarsa della Delizia il 30 ottobre, quando soldati tedeschi della 200ª Divisione piombarono sulle colonne di mezzi e uomini che intasavano le strade facendo 60.000 prigionieri e catturando 300 cannoni38. Più difficile fu invece infrangere le posizioni italiane, sempre il 30 ottobre, a Mortegliano, Pozzuolo del Friuli, Basiliano e alla frazione di Galleriano (in quest'ultima località per l'inaspettata resistenza durata un giorno e mezzo della Brigata Venezia del colonnello Raffaello Reghini3940), che consentirono il ripiegamento in corso.
L'ultimo episodio di resistenza italiana sul Tagliamento iniziò, anch'esso, il 30 ottobre presso il comune di Ragogna: gli austro-ungarici, temporaneamente bloccati dal fuoco avversario, non riuscirono ad impadronirsi dell'importante ponte di Pinzano al Tagliamento, ma si riscattarono il 3 novembre quando attraversarono il ponte di Cornino (una frazione di Forgaria nel Friuli) poco più a nord, rimasto solamente danneggiato, e non distrutto del tutto, dalle cariche esplosive dei genieri italiani.

La situazione politica italiana

Vittorio Emanuele Orlando, nominato Presidente del consiglio dei ministri in seguito agli avvenimento di Caporetto
Mentre avveniva tutto questo, a Roma il 30 ottobre si formò il Governo Orlando (dal nome del nuovo Presidente del consiglio dei ministri, nonché Ministro dell'interno, Vittorio Emanuele Orlando) per ordine del re Vittorio Emanuele III. Lasciato al suo posto Sidney Sonnino (Ministro degli Esteri), Orlando sostituì invece il Ministro della Guerra Gaetano Giardino con Vittorio Alfieri. La sera stessa il nuovo Primo ministro telegrafò a Cadorna per esprimergli il suo appoggio, ma in realtà, fin dal 28 ottobre, egli aveva discusso con il Re e con Giardino di una sua possibile rimozione dall'incarico a favore di Armando Diaz, allora capo del XXIII Corpo d'armata della 3ª Armata41.
All'oscuro di tutto questo, Cadorna nella mattina del 30 ottobre ricevette a Treviso il generale francese Ferdinand Foch per metterlo al corrente degli avvenimenti, e lo stesso fece il giorno seguente con il capo di Stato Maggiore Imperiale inglese William Robertson. I due generali Alleati partirono qualche giorno dopo per partecipare alla conferenza di Rapallo insieme al premier inglese David Lloyd George, il Primo ministro francese Paul Painlevé, Sonnino, Orlando e il sottocapo di Stato Maggiore italiano Carlo Porro (al posto di Cadorna). L'argomento di discussione era l'invio di consistenti aiuti al Regio Esercito per far fronte alla minaccia austro-tedesca, ma i capi Alleati furono prudenti e concessero solo sei divisioni42.
Il 6 novembre si tenne una nuova riunione durante la quale venne chiesto al generale Porro quante divisioni avessero impiegato i tedeschi nelle operazioni, e questo rispose, attenendosi a quanto impartito da Cadorna, indicando in circa una ventina il loro numero43. Vista l'incredula reazione dei capi Alleati (i cui servizi d'informazione stimavano correttamente che i tedeschi avevano impiegato solo sette divisioni44), e sfruttando la decisione di riunirsi nuovamente a Versailles, Orlando capì che era venuto il momento di sostituire Cadorna, e lo fece in maniera "diplomaticamente" abile: mentre Diaz lo avrebbe sostituito, lui sarebbe dovuto andare a presiedere tale conferenza, cosicché non sarebbe uscito del tutto dalla scena politico-militare del suo Paese45.

La ritirata del Regio Esercito fino al fiume Piave

Una delle prime trincee scavate nell'argine destro del Piave nell'ottobre - novembre 1917
Cadorna, venuto a sapere della caduta di Cornino il 2 novembre e di Codroipo il 4, ordinò all'intero esercito di ripiegare sul fiume Piave, sul quale nel frattempo si erano fatti significativi passi avanti nell'impostazione di una linea difensiva proprio grazie agli episodi di resistenza sul Tagliamento.
A questo punto von Below aveva fretta, sia per il timore di ritornare ad una guerra di posizione, sia perché era cosciente che i francesi e gli inglesi avrebbero inviato aiuti militari. I suoi generali sfruttarono tutte le occasioni possibili per accerchiare le truppe italiane in ritirata: a Longarone il 9 novembre furono catturati 10.000 uomini e 94 cannoni appartenenti alla 4ª Armata del generale Mario Nicolis di Robilant, e in un'altra occasione la 33ª e 63ª Divisione italiana consegnarono, dopo aver tentato di uscire dall'accerchiamento, 20.000 uomini.
In pianura però gli austro-tedeschi non ebbero analogo successo e molte unità italiane si riorganizzarono per raggiungere il Piave, l'ultima delle quali vi si posizionò il 12 novembre. Dall'inizio delle operazioni il 24 ottobre all'8 novembre i bollettini di guerra tedeschi avevano contato un bottino di 250.000 prigionieri e 2.300 cannoni46.

Le cause della sconfitta italiana

 Le cause della disfatta italiana a Caporetto sono già desumibili dal testo, ma in questo paragrafo si fa un breve riassunto, integrato da un altrettanto sommario accenno ai fatti, con l'intento di focalizzare l'attenzione sui due motivi principali che portarono il Regio Esercito a ritirarsi fino al Piave: l'inettitudine dei vertici militari e il mancato uso dell'artiglieria.

Gli errori degli alti ufficiali

Al di là delle responsabilità di singole piccole e medie unità, le colpe maggiori di ordine strategico e tattico non possono che essere attribuite in ordine al comando supremo (Cadorna), al comando d'armata interessato (Capello), ed ai tre comandanti dei corpi d'armata coinvolti (Cavaciocchi, Badoglio e Bongiovanni).
Sul piano generale, Cadorna ha la colpa di non aver sviluppato una dottrina militare meglio aderente alle necessità della guerra di posizione, con una propensione all'evitare le riunioni congiunte con i comandi d'armata47. Sul piano riguardante la battaglia di Caporetto invece, egli aveva disposto con un ordine del 18 settembre, a seguito di informazioni più o meno attendibili sulle intenzioni nemiche e sul fallito colpo di stato in Russia di Kornilov, che le sue armate sull'Isonzo si apprestassero in una disposizione difensiva nelle migliori condizioni possibili.
Luigi Capello, avendo una visione più offensiva, credeva che in caso d'attacco occorresse lanciare subito un'energica controffensiva, non solo a fini tattici, come raccomandava Cadorna, ma anche a fini strategici. Eseguì quindi solo parzialmente ed in ritardo gli arretramenti del grosso delle truppe e delle artiglierie pesanti sulla destra dell'Isonzo, richiesti dal suo superiore48. Bisogna però osservare che tutte le disposizioni date da Capello furono trasmesse, per conoscenza, anche al comando supremo e che Cadorna non ebbe nulla da obiettare. A questo si aggiunge il fatto che Capello, già costretto a letto da una nefrite agli inizi di ottobre, nei giorni antecedenti l'attacco nemico dovette ricoverarsi in ospedale, lasciando il comando interinale della 2ª Armata al generale Luca Montuori, riprendendolo solo alle 22:30 del 22 ottobre. Il cambio al comando generò confusione in particolare lungo la linea di congiunzione tra il XXVII ed il IV Corpo d'armata, i cui reparti furono continuamente spostati. Lo stesso Cadorna si allontanò per 15 giorni, poco convinto che il nemico avrebbe effettivamente sviluppato un'offensiva di vasta portata, rientrando al comando generale di Udine solo il 19 ottobre, dove si trovava ancora nella sera del 24, convinto che l'azione nemica a Tolmino fosse solo un diversivo per sviare l'attenzione dalla vera offensiva che sarebbe partita più a sud, complice anche il caos e la mancanza di collegamenti che regnava al fronte49.
Cavaciocchi, comandante del IV Corpo d'armata, non godeva della stima di Cadorna per le sue scarse qualità di comandante, e non era molto presente tra i suoi uomini; giudicò le sue linee forti e migliorate, ma sarebbero state sfondate in tre ore, complice anche il fatto che durante la notte i soldati di von Below strisciarono vicino alle sue posizioni senza essere visti50. Egli ammassò le sue truppe attorno al monte Nero anche a battaglia in corso, trovandosi all'improvviso senza riserve. Cavaciocchi cadde in questo errore anche "grazie" ai comandanti delle sue divisioni: Farisoglio (43ª Divisione) credette di essere attaccato da un numero di forze enormemente superiore a quello reale51; Amadei (a capo della 46ª Divisione), nonostante disponesse di truppe sufficienti, alle 10:00 chiese rinforzi che intasarono i ponti di Caporetto e Idresca d'Isonzo, per poi ordinare la ritirata quattro ore dopo; anche il generale al comando della 50ª Divisione, Arrighi, fece richiesta per ricevere rinforzi, ma poco dopo fece "dietrofront" giudicando di riuscire a gestire la situazione con le truppe disponibili. In seguito, raggiunto da voci riguardanti uno sfondamento austriaco vicino alle sue posizioni, per evitare di essere accerchiato fece ritirare i suoi uomini dietro la stretta di Saga, perdendo gran parte delle artiglierie e abbandonando anche Tarnova.
Colonna di rifornimenti tedesca a Santa Lucia d'Isonzo
Il XXVII Corpo d'armata era invece guidato da Badoglio, anche lui sicurissimo della preparazione delle sue truppe. Fu proprio da lui che partì l'errore tattico più sconcertante compiuto sul suo fianco sinistro, ovvero sulla riva destra dell'Isonzo, tra la testa di ponte austriaca davanti a Tolmino e Caporetto: questa linea, lunga pochi chilometri, costituiva il confine tra la zona di competenza del suo reparto e quello di Cavaciocchi (riva sinistra) e, nonostante tutte le informazioni indicassero proprio in questa linea la direttrice dell'attacco nemico, la riva destra fu lasciata praticamente sguarnita con piccoli reparti a presidiarla mentre il grosso della 19ª Divisione e della brigata "Napoli" era arroccato sui monti sovrastanti. Probabilmente in una giornata di tempo sereno (con buona visibilità) la posizione in quota avrebbe consentito alla 19ª Divisione di dominare tutta la riva destra rendendo il corridoio impercorribile ma, al contrario, il 24 in presenza di nebbia fitta e pioggia, le truppe italiane non si accorsero minimamente del passaggio dei tedeschi a fondovalle che catturarono senza combattere le scarsissime unità italiane lì presenti52. In quota comunque, la 19ª Divisione resistette tenacemente per un giorno bloccando varie volte gli attacchi delle truppe nemiche, ma alla fine fu costretta ad arrendersi, e il suo comandante, generale Villani, si suicidò53.
Bongiovanni, capo del VII Corpo d'armata posto alle spalle del IV e del XXVII e anche lui fiducioso di tener testa al nemico, avrebbe dovuto sorreggere le difese avanzate, presidiare in seconda linea il Colovrat e il Matajur, e condurre controffensive al momento più opportuno54. Nei fatti però lo sfondamento a nord del IV Corpo d'armata, e l'arrivo da sud dei tedeschi a Caporetto, rese nulla la sua efficacia.

Uso improprio dell'artiglieria

L'artiglieria italiana, sebbene numerosa e ben rifornita55, non aveva ricevuto un addestramento sufficiente, e nessuna differenza si faceva sul suo uso offensivo e difensivo, infatti si chiedeva semplicemente di disporre i cannoni il più avanti possibile per aumentarne la gittata utile. Cadorna comunque, quando il 18 settembre 1917 ordinò ai suoi generali di predisporre le linee di difesa, disse anche di arretrare in posizioni sicure le artiglierie, ma il 10 ottobre cambiò idea e ordinò a Capello di lasciare i piccoli calibri nelle trincee e i medi sulla Bainsizza, alterando di fatto in misura irrilevante lo schieramento complessivo. È da aggiungere anche che molti artiglieri non erano provvisti di fucili, e non si era pensato a delle fanterie da porre a protezione delle batterie di cannoni56.
L'attacco delle formazioni nemiche cominciò intorno alle ore 8:00 con uno sfondamento immediato sull'ala sinistra del XXVII Corpo d'armata, occupato dalla 19ª Divisione, e sull'ala destra del IV Corpo d'armata tra Tolmino e Caporetto. Le artiglierie italiane del XXVII Corpo d'armata non risposero, per ordine esplicito, al tiro di preparazione nemico. Poi, alle 6:00, quando iniziò il tiro di distruzione, la risposta fu del tutto inefficace. La debole e intempestiva risposta delle artiglierie italiane sul fronte del XXVII Corpo d'armata è una delle ragioni accertate dello sfondamento, ma il motivo per cui ciò avvenne è tutt'oggi fonte di disquisizioni. Tra le cause ipotizzate, vi sono:
    •     Ignoranza dei comandi italiani sull'uso difensivo delle artiglierie, in particolare nella fase di risposta al fuoco nemico. L'avere ordinato più o meno esplicitamente di non rispondere al tiro avversario (ore 2:00 - 6:00 del 24 ottobre) fu un grave errore anche se a parziale discapito dei protagonisti è utile osservare che fino ad allora questa era la regola di utilizzo delle artiglierie nell'esercito italiano. Secondo le direttive di Cadorna le artiglierie medie e pesanti avrebbero dovuto effettuare un tiro efficace sulle batterie nemiche e sui punti di raccolta delle fanterie dall'inizio del bombardamento nemico. Capello interpretò, in sintonia o meno con il volere di Cadorna, per "inizio del tiro nemico" l'inizio del tiro di distruzione, quello cioè che iniziò alle ore 6:00;

    •     Le condizioni meteo avverse (nebbia, pioggia battente al mattino del 24 a valle e nevicate in quota) impedirono alle prime ed alle seconde linee italiane di scorgere in tempo l'avanzata delle fanterie nemiche e di conseguenza di ordinare il tiro controffensivo con i piccoli e medi calibri, mortai e bombarde divisionali. Bisogna osservare che i tedeschi agirono esplicitamente con l'intento di fare meno rumore possibile ed in effetti la maggior parte dei soldati italiani di prima linea vennero catturati senza sparare. Le testimonianze dei comandanti di batteria divisionali riportano che il tiro automatico di sbarramento (senza ordine esplicito) non fu effettuato in quanto non si udirono scariche di fucilerie o mitraglia dalle prime linee, che in effetti cedettero immediatamente quasi senza combattere;
    •     Il tiro di preparazione, ma più ancora quello di distruzione (ore 6:00) nemico fece saltare i collegamenti telefonici tra i reparti combattenti ed i comandi. Lo stesso Badoglio riferì che fino a quell'ora erano ancora in funzione alcune linee telefoniche, mentre alle 8:00 era completamente isolato nel suo comando. Nel contempo le pessime condizioni meteo impedirono l'uso dei segnali ottici ed acustici per la comunicazione. Fu necessario ricorrere in extremis alle staffette, con tutti i ritardi implicati. Per risolvere questi problemi, il nemico comunicò più efficacemente mediante razzi luminosi57. Badoglio aveva disposto alle sue artiglierie che l'inizio del tiro controffensivo sarebbe dovuto iniziare solo dietro suo ordine esplicito, ma al momento giusto, causa mancanza totale di comunicazioni, non fu in grado di darlo58. Tra l'altro Badoglio, individuato dalle artiglierie nemiche, spostò varie volte il suo comando trasmettendo ogni volta la sua nuova posizione, e così gli operatori tedeschi addetti alle intercettazioni telefoniche furono in grado di passare sempre le giuste coordinate da colpire all'artiglieria, che impedì così al capo del XXVII Corpo d'armata italiano di prendere stabilmente contatto con i suoi uomini59.

Conseguenze

 Una tragedia nella tragedia fu quella dei profughi civili, la cui vicenda è stata di recente studiata (anche se solo con fonte di parte italiana60). Durante la ritirata, oltre un milione di persone delle provincie di Udine, Treviso, Belluno, Venezia e Vicenza furono costrette ad abbandonare le loro case riversandosi nelle strade che conducevano alla pianura padana61, spaventati dalla propaganda ufficiale che gridava ai "turchi alle porte". Nonostante ciò il trasferimento di questa gente non fu programmato e aiutato62 (anzi, i comandi militari imposero di dare priorità alle truppe e ai mezzi militari, con requisizioni di mezzi civili e divieto di uso delle strade principali). Molti perirono durante la fuga, ad esempio a causa della piena dei fiumi che si trovarono ad attraversare lungo strade secondarie, e solo 270.000 riuscirono a porsi in salvo63; gli altri ne furono impediti o dalla distruzione dei ponti o dal fatto che vennero semplicemente intercettati dagli austro-tedeschi.
Ci furono atti di vandalismo e la devastazione aumentò anche a causa dei saccheggi perpetrati dai soldati di von Below, ma qualche civile seppe reagire e si organizzò in bande armate con lo scopo di sabotare e disturbare le truppe d'occupazione, dando vita così alle prime formazioni partigiane italiane64. I profughi vennero sistemati un po' in tutta Italia in maniera inadatta, causando loro notevoli disagi. Essendo sussidiati venivano accusati di essere un peso e di rubare il lavoro ai locali. Particolarmente difficile fu la situazione di chi venne inviato al sud65. Ci furono molti casi di tensione per la mancata assegnazione di case a questi profughi, costretti a vivere in condizioni sanitarie e ambientali estreme.

L'arrivo degli aiuti Alleati e la riorganizzazione del Regio Esercito

Una volta assorbito lo shock conseguente alla ritirata da Caporetto, gli ambienti politici e militari italiani si adoperarono per riprendere in mano e stabilizzare la situazione, aiutati anche dagli anglo-francesi. Il generale Alfredo Dallolio, Ministro delle Armi e Munizioni, comunicò di essere in grado di rimpiazzare tutte le munizioni perse entro il 14 novembre, e per dicembre sarebbero stati pronti anche 500 cannoni, a cui se ne aggiungeranno 800 Alleati66. Il cambiamento più importante avvenne al vertice del Regio Esercito: Cadorna infatti ricevette l'avviso di esonero l'8 novembre, e il suo posto fu preso da Armando Diaz, assistito da Gaetano Giardino e Badoglio (le cui colpe di Caporetto non erano ancora state notate) in qualità di sottocapi di Stato Maggiore.
Le divisioni francesi inviate in aiuto aumentarono a sei e quelle inglesi a cinque entro l'8 dicembre 1917 e, sebbene non siano entrate subito in azione, funsero da riserva permettendo al Regio Esercito di distogliere le proprie truppe da questo compito.
I tedeschi, assolto il proprio obiettivo di aiutare gli austriaci, trasferirono metà dei propri cannoni, la 5ª, 12ª e 26ª Divisione al fronte occidentale nei primi di dicembre, mentre gli italiani si rinforzavano giorno dopo giorno.
Il primo segno di riscossa avvenne per merito della 4ª Armata del generale Mario Nicolis di Robilant, che, stanziata sul Cadore, si era ritirata il 31 ottobre con l'ordine di organizzare la difesa del monte Grappa e di realizzare la saldatura tra le truppe dell'Altopiano di Asiago e quelle schierate lungo il fiume Piave. La nuova posizione da difendere a tutti i costi era di vitale importanza per l'intero esercito, dato che una sua caduta avrebbe trascinato con sé l'intero fronte67, e gli uomini di Robilant riuscirono a mantenere la posizione.

Bibliografia
Testi di riferimento
 La bibliografia sull'argomento è vastissima, i titoli che seguono sono quindi solo una piccola incompleta parte della bibliografia.
    •    Roberto Bencivenga, La sorpresa strategica di Caporetto, Udine, Gaspari Editore, 1997. ISBN 978-88-86338-20-2
    •      Luigi Capello, Caporetto, perché?, Torino, Giulio Einaudi, 1967. (ISBN non esistente)
    •    Alberto Cavaciocchi, Un anno al comando del IV Corpo d'armata, Udine, Gaspari Editore, 2006. ISBN 978-88-7541-051-3
    •    Pier Paolo Cervone, Enrico Caviglia, l'anti Badoglio, Mursia, 1992. (ISBN non esistente)
    •     Daniele Ceschin, Gli esuli di Caporetto, Laterza, 2006. ISBN 978-88-420-7859-3
    •    Giuseppe Del Bianco, La Guerra e il Friuli (4 voll.), Udine, Tipografia D. Del Bianco e Figlio, 1937. (ISBN non esistente)
    •    Francesco Fadini, Caporetto dalla parte del vincitore, Mursia, 1992. (ISBN non esistente)
    •    Angelo Gatti, Caporetto, Il Mulino, 2007. ISBN 978-88-15-11857-8
    •     Attilio Izzo, Guerra chimica e difesa antigas, Milano, Hoepli, 1935. (ISBN non esistente)
    •    Marco Mantini, Da Tolmino a Caporetto lungo i percorsi della Grande Guerra tra Italia e Slovenia, Udine, Gaspari Editore, 2006. ISBN 978-88-7541-062-9
    •    Marco Mantini, Paolo Gaspari e Paolo Pozzato, Generali nella nebbia, Udine, Gaspari Editore, 2007. ISBN 978-88-7541-103-9
    •    Daniele, Marco Mantini e Silvio Stok, I tracciati delle trincee sul fronte dell'Isonzo. Vol. II: Le valli del Natisone e dello Judrio, Udine, Gaspari Editore, 2007. ISBN 978-88-420-7859-3
    •    Ministero della Difesa-Stato Maggiore dell'Esercito, Ufficio Storico, L'esercito Italiano nella Grande Guerra, Vol. IV, Tomi 3, 3bis, 3Ter, Roma, 1967. (ISBN non esistente)
    •     Camillo Pavan, In fuga dai Tedeschi: l'invasione del 1917 nel racconto dei testimoni, Treviso, Pavan, 2004. ISBN 978-88-900509-1-6
    •    Piero Pieri e Giorgio Rochat, Badoglio, UTET, 1974. (ISBN non esistente)
    •    Mario Silvestri, Caporetto, una battaglia e un enigma, Bergamo, Bur, 2006. ISBN 88-17-10711-5
    •    Fritz Weber, Dal Monte Nero a Caporetto, Mursia, 2006. ISBN 978-88-425-3684-0

Testi letterari
 La battaglia di Caporetto è anche protagonista di diversi testi letterari, a carattere narrativo o più spesso memoriale:
    •    Addio alle armi: tra i romanzi più celebri di Ernest Hemingway, parzialmente basato sulle esperienze dello scrittore come volontario della Croce Rossa, è stato creduto a lungo che fosse basato, almeno in parte, sulla ritirata di Caporetto, anche se in realtà lo scrittore statunitense arrivò in Italia solo nel 1918, e apprese della battaglia dai racconti dei superstiti;
    •    La ritirata del Friuli: scritto nel 1920 da Ardengo Soffici, ai tempi ufficiale di collegamento, descrive lo sbando delle truppe italiane;
    •    Taccuini 1916-1922: resoconto drammatico sviluppato da Filippo Tommaso Marinetti;
    •    Giornale di guerra e di prigionia: raccolta dei diari (tra cui il Diario di Caporetto) che Carlo Emilio Gadda, volontario degli alpini durante il primo conflitto mondiale, tenne tra il 24 agosto 1915 e il 31 dicembre 1919.
    •    La rivolta dei santi maledetti: di Curzio Malaparte, questo libro del 1921 prende spunto proprio dalla rotta di Caporetto.
    •    Questa storia: romanzo di Alessandro Baricco che racconta la storia di un certo Ultimo Parri, appassionato di automobili vissuto a cavallo della prima guerra mondiale, che tra le altre avventure prende parte anche alla battaglia di Caporetto.


Offensiva di primavera

Data
21 marzo - 5 agosto 1918
Luogo
Nord della Francia, Fiandre, Belgio

Nella storiografia della prima guerra mondiale l'offensiva di primavera, conosciuta anche come Kaiserschlacht (in italiano "battaglia per l'Imperatore"), furono una serie di attacchi predisposti dall'esercito tedesco svoltisi durante la primavera del 1918, gli ultimi da parte delle forze militari tedesche sul fronte occidentale.
Per le potenze dell'Intesa si trattò di una completa sorpresa, dal momento che i comandi alleati erano convinti che le forze tedesche fossero ormai prossime al crollo. Se inizialmente la rinnovata iniziativa dell'esercito tedesco provocò il panico negli alti comandi alleati, dopo tre mesi le avanzate tedesche giunsero ad esaurimento pregiudicando una possibile vittoria tedesca e permettendo agli alleati di organizzarsi per la successiva, decisiva controffensiva.
Il comando supremo tedesco, guidato dal feldmaresciallo Paul von Hindenburg e dal suo principale collaboratore, generale Erich Ludendorff, esaurì quindi con questa serie di costose offensive, le residue forze dell'esercito, pregiudicando ogni possibilità di vittoria e intaccando anche la capacità di resistenza sul fronte occidentale. Entro pochi mesi la Germania sarebbe stata costretta ad ammettere la sconfitta, sancita dall'armistizio di Compiègne dell'11 novembre 1918.

Premesse e obiettivi strategici
 
Tre anni di guerra avevano reso molto precaria la posizione dell'Impero Germanico. Se a est la Rivoluzione d'ottobre aveva provocato l'uscita dalla guerra della Russia, a ovest non si vedeva la fine della guerra di trincea. Nei primi anni di guerra la strategia tedesca era orientata alla guerra d'attrito: poiché, nelle condizioni della guerra di trincea non pareva possibile un'azione risolutiva, il capo di stato maggiore Falkenhayn tentò di ottenere la vittoria attaccando le posizioni più esposte del nemico, per costringerlo in questo modo ad un tale impiego di uomini e materiali da ridurne e annullarne, in prospettiva, la capacità bellica. L'esempio più eclatante di questa strategia fu la battaglia di Verdun.
Il limite di questa strategia era che essa era basata maggiormente sull'incapacità di comprendere le novità introdotte dalla tecnica nella guerra moderna che su una precisa percezione dei rapporti di forza: gli Imperi centrali erano inferiori, per popolazione e capacità industriale, rispetto alle potenze dell'Intesa (e il blocco navale britannico rendeva ancora più acuta questa inferiorità). Per questo, in una competizione basata sulle risorse umane ed industriali, la Germania avrebbe inevitabilmente avuto la peggio.
Falkenhayn venne destituito nel 1916, senza che però si producesse una sostanziale mutazione del paradigma strategico. I successivi due anni trascorsero vedendo sul fronte occidentale la Germania in difesa, con occasionali riprese offensive. Contemporaneamente la marina imperiale, dando il via alla guerra sottomarina indiscriminata, tentò di tagliare i rifornimenti di Francia e Inghilterra da parte del loro principale fornitore di armamenti, gli Stati Uniti.Wikipedia:Uso delle fonti
Ma fu proprio la guerra sottomarina a spingere gli Stati Uniti ad unirsi alla lotta contro gli Imperi Centrali, nell'aprile 1917. Da quel momento, anche per lo Stato maggiore tedesco, era chiaro che, quando gli Stati Uniti avessero spiegato tutto il loro potenziale bellico, la Germania era condannata alla sconfitta. Nel novembre 1917 si cominciarono a sviluppare i piani per un'offensiva finale delle forze tedesche sul fronte occidentale. Obiettivo dell'offensiva era la conquista di Parigi e delle coste della Manica, per tagliar fuori da ogni rifornimento le forze anglo-francesi impegnate sul continente. In seguito, sulla base di una situazione strategica così favorevole, sarebbe stato possibile cominciare trattative di pace da una posizione di grande vantaggio. Si trattava di un piano per nulla irrealistico, nonostante la Germania si trovasse in una situazione di grave carenza di uomini e materiali: la Russia, con il trattato di Brest-Litovsk si era ritirata dalla guerra: gran parte dei contingenti impegnati sul fronte orientale potevano ora essere trasferiti in occidente. Ma per gli stati maggiori tedeschi era anche chiaro che queste offensive erano l'ultima possibilità per la Germania di ottenere un esito non catastrofico del conflitto cominciato nel 1914.

Innovazioni tattiche

 Nello stesso tempo lo stato maggiore tedesco portò a compimento un mutamento del paradigma tattico, abbandonando la tattica sino ad allora seguita, basata su di un lungo bombardamento preparatorio, seguito da un massiccio attacco della fanteria su di un fronte molto lungo. Facendo tesoro delle esperienze fatte nella Battaglia di Riga e in quella di Cambrai, già prima che il bombardamento avesse inizio, piccole unità d'élite (Sturm- o Stosstruppen) dovevano penetrare il fronte delle trincee. Il bombardamento stesso doveva essere di minore durata, ma di maggiore intensità, e concentrato su di un ristretto segmento del fronte. Dopo il bombardamento, la fanteria doveva intervenire per sgomberare le residue resistenze, e, immediatamente, proseguire in profondità nelle linee nemiche. Eventuali focolai di resistenza che non si lasciassero rapidamente sopraffare venivano semplicemente aggirati. La coordinazione dei movimenti delle truppe era decisa dal fronte più che dagli ordini dello stato maggiore. In questo quadro la capacità di sfruttare il fattore sorpresa e l'iniziativa dei singoli comandanti a livello di compagnia avevano un'importanza decisiva. Si trattava in effetti di innovazioni tattiche che anticipavano la Blitzkrieg della seconda guerra mondiale.

Svolgimento

 Nell'inverno 1917-'18 era stato ristabilito l'equilibrio delle forze sul fronte occidentale, dove, dall'autunno 1914, le forze anglo-francesi avevano goduto di un vantaggio numerico. Con il trasferimento delle truppe non più impegnate sul fronte orientale, ora, sul fronte occidentale, un milione di tedeschi fronteggiava 900.000 tra francesi ed inglesi. Per lo stato maggiore tedesco era il momento di dare il via alla fase offensiva.

Operazione Michael

 La prima delle cinque offensive previste fu chiamata Operazione Michael. Ebbe inizio il 21 marzo 1918, e vi presero parte tre armate tedesche, per un totale di 42 divisioni. L'obiettivo era lo sfondamento del fronte nel punto di congiunzione tra le forze francesi (a sud) e quelle inglesi (a nord), nel tratto di fronte tra Bapaume e Saint Simon, al fine di creare un cuneo tra i due contingenti, sospingendo poi i britannici verso il mare. Già il primo giorno furono sfondate tutte le linee difensive alleate, e le truppe tedesche riuscirono complessivamente ad avanzare di 65 chilometri lungo un fronte di circa 80. L'attacco iniziò con un bombardamento d'artiglieria abbastanza breve ma estremamente violento. Prima che i difensori britannici, storditi, riuscissero a reagire, gruppi speciali d'assalto tedeschi uscirono dalla nebbia e dal fumo per attaccare o accerchiare i punti strategici delle linee di combattimento. Presi di sorpresa, schiacciati e sommersi, i difensori arretrarono su tutto il fronte, più di 160.000 britannici furono messi fuori combattimento.
Nella loro travolgente avanzata le truppe tedesche incontrarono maggiori resistenze nel settore inglese che in quello francese.
 Ma lo sfondamento non riuscì, perché Erich Ludendorff, che non subiva troppa opposizione sulla sua sinistra, continuò a concentrare le sue riserve davanti ad Arras, dove la resistenza britannica divenne sempre più forte ed efficace. Malgrado gli appelli disperati di Haig, Foch rifiutò d'impegnare le sue riserve limitate. Haig dovette far affluire d'urgenza rinforzi dal Regno Unito e il Quartier generale britannico dovette ritirare divisioni da altri teatri d'operazione.
Nonostante i successi iniziali, dopo pochi giorni l'impeto offensivo tedesco si era esaurito, e a partire dal 27 marzo, quando i francesi cominciarono ad impegnare la loro riserva strategica nei pressi di Amiens, non vi furono più, per i tedeschi, sostanziali guadagni territoriali. Fu solo il 28 marzo che Ludendorff capì improvvisamente quali fossero le possibilità che si presentavano sulla Somme per effettuare un'avanzata rapida e decisiva in direzione di Parigi; ma era allora troppo tardi.
Due giorni prima gli Alleati s'erano accordati per affidare al generale Foch il comando unico sul fronte occidentale. Uno dei suoi primi atti di comando fu d'impiegare una parte delle sue magre riserve per chiudere la pericolosa breccia sulla Somme. All'inizio d'aprile, l'Offensiva Michael era bloccata nella regione di Montdidier. L'avanzata tedesca non aveva, in definitiva, raggiunto alcun risultato strategicamente determinante, e anzi, aveva allungato il fronte e creato un saliente esposto alle controffensive alleate.

Battaglia del Lys

 Già l'offensiva successiva (Operazione Georgette) (9-29 aprile), nel settore del fronte nei pressi di Ypres, che aveva come obiettivo l'avanzata nel settore della Manica, si dimostrò molto meno efficace, soprattutto perché i britannici si ritirarono prontamente. L'afflusso di rinforzi francesi contribuì a bloccare l'avanzata tedesca una volta raggiunto il fiume Lys e ad evitare la perdita di Ypres, anche se vanificò tutti i vantaggi territoriali conseguiti, a carissimo prezzo, nella Terza battaglia di Ypres. Dal 27 maggio al 4 giugno, in contemporanea con l'offensiva sulla Marna, ebbe luogo una seconda offensiva (operazione Hagen), che però venne subito sospesa senza ottenere risultati di rilievo.

Offensiva sull'Aisne

La terza offensiva (Operazione Blücher-Yorck, 27 maggio - 4 giugno), rivolta contro le forze francesi schierate a sud del saliente che era venuto a formasi con l'offensiva di marzo, si svolse nel settore dell'Aisne, ed conseguì importanti risultati, per motivi opposti a quelli del fallimento di Ypres: il comandante francese della 6. armata, Jacques Charles René Duchesne, aveva concentrato le proprie riserve nelle vicinanze del fronte, esponendole al rischio dell'aggiramento da parte delle avanguardie tedesche in rapida avanzata, secondo i nuovi dettami tattici.
Ludendorff concentrò 42 divisioni sotto il comando di von Boehn, comandante della 7ª Armata tedesca, che teneva il fronte fra Pontoise e Berry-au-Bac. L'ala sinistra della 7ª Armata si prolungava con quattro divisioni della 1ª Armata tedesca (von Below) che occupavano il settore di Berry-au-Bac fino a Reims. Tutte esse presero parte all'attacco.
Il 27 maggio, l'offensiva tedesca si sviluppò presso l'Aisne, a partire dallo Chemin des Dames, in cui l'anno prima i francesi erano stati respinti in un attacco mortale. La preparazione d'artiglieria cominciò con tiri di proiettili caricati a iprite, poi divenne misto (esplosivo-gas), ma con più del 50% di proiettili tossici. Dopo il 5 giugno, i tedeschi schierarono altre cinque divisioni, portando il totale a 47 divisioni, corrispondenti a circa 60 divisioni francesi. L'offensiva si fermò peraltro dieci giorni dopo per sfinimento degli attaccanti che però erano avanzati per 45 chilometri, avevano preso Château-Thierry ed erano ormai a 70 chilometri da Parigi. Era assolutamente necessario però cercare di rettificare le proprie linee, conquistando terreno fra i due importanti salienti presso Arras e Reims, e un altro più piccolo lungo la Lys. I soldati tedeschi finalizzarono innanzi tutto i loro sforzi sulle due zone che circondavano Compiègne, attaccando i due fianchi il 9 giugno. Ma la loro offensiva era abbastanza mal organizzata e dovettero essi stessi subire attacchi al gas mostarda, in modo che le truppe francesi, ben assecondati dalla 2ª Divisione di fanteria statunitense a Bois-Belleau ed a Vaux, poterono resistere.
Nel corso di questa offensiva i tedeschi impiegarono il Parisgeschütz (cannone di Parigi) per bombardare la capitale francese. Non ottennero risultati significativi dal punto di vista militare, ma i bombardamenti diffusero il panico nella popolazione civile. Morirono 256 civili e 620 vennero feriti.

Battaglia di Montdidier-Noyon
 
Il generale Ludendorff cercò poi di ampliare l'Operazione Blücher-Yorck con l'Operazione Gneisenau, con l'intenzione di accerchiare gli alleati sfondando ai lati della città di Compiegne, cercando allo stesso tempo di distrarre le truppe Alleate dal saliente di Amiens. I francesi grazie ad informazioni provenienti da prigionieri tedeschi riuscirono ad affrontare nel migliore dei modi la tattica d'attacco con truppe speciali, che riuscivano grazie all'estensione geografica del loro attacco a ampliare il tiro delle artiglierie nemiche rendendolo meno efficace; e la loro tattica di difesa elastica che attenuava i tiri preparatori nemici.
Tuttavia, l'avanzata tedesca (comprendente 21 divisioni) lungo il fiume Matz è impressionante, nonostante la feroce resistenza francese e americana. Nei dintorni di Compiègne, però l'11 giugno un improvviso contrattacco francese con 4 divisioni e 150 carri armati comandati dal generale Charles Mangin colse di sorpresa i tedeschi e fermò la loro avanzata. L'Operazione Gneisenau fu sospesa il giorno successivo, con perdite pesantissime circa 35.000 soldati fuori combattimento per gli Alleati e 30.000 per i tedeschi.

Friedensturm, l'ultimo attacco tedesco

 Spinti dalla volontà di dare la spallata definitiva e attirati, come nel 1914, da Parigi, che essi minacciano tanto dalla vallata dell'Oise a nord, dalle valli dell'Ourcq e della Marna a est, i tedeschi decisero una nuova offensiva, ancor più formidabile. Fu il Friedensturm, ossia la "Battaglia per la pace".
Il generale Ludendorff progettò, con un attacco frontale, di separare gli eserciti alleati del nord da quelli dell'est, aggirando da una parte, Verdun attraverso Sainte-Menehould e la valle dell'Aisne superiore, e d'altra parte Reims e la Montagna di Reims attraverso la valle della Marna. La battaglia ebbe inizio il 15 luglio, con l'attacco di 30 divisioni tedesche alla prima, alla terza ed alla sesta armata francese, nei pressi della città di Reims. Ad est l'attacco venne fermato già il primo giorno, mentre ad ovest l'esercito germanico riuscì ad avanzare di una dozzina di chilometri prima di essere bloccato da quello francese, con il supporto di truppe americane, britanniche ed italiane.
Durante tutta la giornata del 15 luglio, malgrado le spesse cortine di fumogeni che li nascondevano, gli aeroplani alleati individuarono i ponti gettati sulla Marna e li bombardarono da bassa quota, distruggendone numerosi e precipitando truppe e convogli nel fiume. Quindi attaccarono con le mitragliatrici i soldati che avevano raggiunto la sponda sud. Trenta passerelle meno vulnerabili furono gettate ma, malgrado un leggero vantaggio tattico acquisito a SE di Reims e sulla Marna, l'offensiva di Ludendorff fallì completamente nella regione della Champagne. Rinunciando ad aggirare Reims da est, il comandante tedesco cercò di oltrepassare la montagna di Reims de sud. Gli serviva a tutti costi un successo.

La contro-offensiva alleata del 18 luglio

 Al momento stesso in cui le divisioni tedesche si ammassarono sul fianco est della sacca, l'equivalente di ventuno divisioni alleate, fra cui alcune italiane, si affrettarono in direzione del fianco ovest, a partire dalla foresta di Villers-Cotterêts.
In due giorni il numero dei prigionieri presi oltrepassò 17.000 uomini e 360 cannoni. Sorpresi, i tedeschi impegnarono quattro divisioni di rinforzo al centro. Verso le ore 18, ripresero Vierzy, ma senza riuscire a tenerla. Gli Alleati giunsero a meno di quindici chilometri dalla stazione di Fère-en-Tardenois: l'unica ferrovia era sotto il fuoco dell'artiglieria. Il 20, i tedeschi prelevarono divisioni dalle armate vicine e impegnarono la 5ª Divisione della Guardia contro l'armata di Degoutte, due divisioni ed elementi ritirati dalla Marna, contro l'armata di Mangin. Malgrado questi sforzi il 28 la stazione fu presa dagli Alleati e il 7 agosto tutto il terreno fu riconquistato. I carri armati dimostrarono tutta la loro efficacia in questa occasione.
Il generale tedesco, tentò una manovra pericolosa, dettata tanto dalla temerarietà quanto dall'ignoranza delle risorse francesi che egli credeva esaurite: si accanì in direzione di Epernay. Ludendorff gettò avanti le sue masse di soldati senza riflettere, tentando di raggiungere il proprio scopo con la sola forza bruta. Per cinque volte, in cinque posti differenti, attaccò massicciamente, ma nell'insieme fu respinto; nella valle dell'Ardre dovette egli stesso difendersi da contro-offensive nemiche.
Ma già il 18 luglio un contrattacco di 24 divisioni francesi appoggiate da 8 divisioni americane e 350 carri armati riportò le linee tedesche sulle posizioni di partenza, eliminando il saliente che si era creato.

I motivi del mancato successo tedesco

Errori strategici
 
La decisione di Ludendorff di rafforzare i contingenti che incontravano la resistenza più decisa causò un impiego non ottimale delle forze disponibili. L'esperienza della seconda guerra mondiale ha mostrato che per ottenere il massimo effetto offensivo devono essere rafforzate le formazioni che hanno ottenuto il successo maggiore (nel senso di maggior penetrazione entro le linee nemiche). Vi furono inoltre errori nella gestione delle riserve, in quanto ricevettero rinforzi solo le truppe di prima linea, e, nel corso dell'offensiva, non vi fu ricambio né rotazione delle unità impiegate. Ciò condusse ad un progressivo e rapido esaurimento delle forze impegnate.
Si riconobbe l'efficacia tattica delle truppe d'élite, ma non si riuscì a sfruttare i risvolti strategici di questa novità. Vi era un errore concettuale nella pianificazione dell'offensiva, sbilanciata sul problema dello sfondamento del fronte. Il comando supremo germanico aveva sì progettato le azioni con grande metodicità, ma solo fino a ciò che riteneva essere il proprio obiettivo, ovvero lo sfondamento del fronte alleato. Non vennero elaborati piani particolareggiati per sfruttare le brecce aperte, e tanto meno per una manovra d'accerchiamento, Il risultato fu che alle notevolissime conquiste territoriali, ottenute a carissimo prezzo in termini di uomini e di risorse, non corrispondevano vantaggi strategici decisivi. Ed anzi, si erano venuti a creare due grandi salienti difficili da difendere, e la linea del fronte si era notevolmente allungata: nuovi problemi per l'esercito tedesco, che lottava contro la carenza di uomini e mezzi.
Indecisioni tattiche

Il cannone di Parigi
 
Se vi fu una rivoluzione nell'impiego della fanteria, questa fu accompagnata solo in parte da un'analoga rivoluzione nell'impiego dell'artiglieria. Il bombardamento preparatorio divenne più breve, ma la procedura d'ingaggio era la stessa dell'inizio della guerra. Mentre nella fanteria anche i più piccoli movimenti di truppa erano seguiti da ufficiali sulla linea del fuoco, i cannoni dell'esercito entravano in azione secondo un piano rigidamente predeterminato. Per questo poteva accadere che il fuoco di copertura si allontasse troppo dalla fanteria che doveva proteggere, se quest'ultima avanzava con troppa lentezza. Per questo l'efficacia degli attacchi venne ridotta proprio nei punti dove già essa procedeva con minore rapidità.
Problemi logistici
 L'esercito tedesco soffrì, nell'ultimo anno di guerra, enormi problemi di rifornimento. I soldati erano denutriti, l'armamento scadente. La propaganda diffusa dall'alto comando sosteneva che le forze dell'Intesa soffrissero delle stesse mancanze, in conseguenza della guerra sottomarina indiscriminata. Quando le unità tedesche in avanzata si accorsero del contrario, preferirono darsi al saccheggio dei rifornitissimi magazzini del nemico che al combattimento, diminuendo ulteriormente lo slancio offensivo, come ben documentato nel libro Niente di nuovo sul fronte occidentale.

Conseguenze
 
Il fallimento delle offensive di primavera rese evidente a tutti la sconfitta della Germania. Il morale delle truppe tedesche crollò, anche se non vi furono conseguenze nella disciplina delle truppe. L'entità delle perdite subite sottrasse al comando supremo tedesco la possibilità di riprendere l'iniziativa. Ebbe luogo allora il tentativo, da parte dei militari germanici, di addossare ai civili le responsabilità della sconfitta. Ludendorff intimò alle autorità politiche dell'impero germanico di trattare un armistizio con le potenze dell'Intesa.
Le offensive di primavera costarono agli Alleati circa 420.000 tra morti, feriti, dispersi e prigionieri, mentre le perdite tedesche ammontarono a circa 500.000 uomini. La Germania aveva impiegato, in un ultimo tentativo di battere gli alleati, le sue ultime riserve di uomini e materiali, e da questo momento l'iniziativa rimase alle forze alleate sino alla resa della Germania. L'esercito tedesco era battuto ma non vinto, e condusse un'efficace campagna difensiva per i restanti mesi della guerra, riuscendo a evitare il crollo del fronte, nonostante l'offensiva dei cento giorni, sino all'11 novembre 1918, quando entrò in vigore l'armistizio di Compiègne.
Sul versante alleato, lo shock provocato dall'operazione Michael aveva condotto all'istituzione di un comando unificato sotto la guida del maresciallo Foch, con effetti molto positivi sul coordinamento delle iniziative belliche. Una conseguenza a lungo termine fu che le offensive di primavera contribuirono enormemente al sorgere della leggenda della pugnalata alla schiena, secondo la quale l'esercito tedesco non era stato battuto sul campo, e che le responsabilità della sconfitta tedesca andassero ricercate nelle colpe dei politici, dei disfattisti e delle forze ostili alla Germania (tra le quali gli ebrei). Questa visione distorta degli avvenimenti dell'ultimo anno di guerra contribuì non poco a creare in Germania un terreno favorevole all'avvento del nazismo.
Parallelamente, durante la seconda guerra mondiale la posizione alleata di non accettare altro che una resa incondizionata da parte del terzo Reich si spiega proprio alla luce dell'esperienza degli ultimi mesi della prima guerra mondiale: questa volta, la disfatta delle armate tedesche doveva essere assolutamente evidente.

Bibliografia
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    •     Janusz Piekalkiewicz: Der Erste Weltkrieg, Econ Verlag, Düsseldorf, Vienna, New York, 1988. ISBN 3-430-17481-3
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    •     Randal Gray: Kaiserschlacht 1918. The Final German Offensive, Oxford 1991.
    •     John Keegan: Der Erste Weltkrieg. Eine europäische Tragödie, Rowohlt-Taschenbuch-Verlag, Reinbek bei Hamburg 2001. ISBN 3-499-61194-5
    •     Martin Kitchen: The German Offensives of 1918, Gloucestershire 2001.
    •     Charles Messenger: Blitzkrieg. Eine Strategie macht Geschichte, Bechtermüntz Verlag, Augusta 2002. ISBN 3-8289-0366-5
    •     Michael Stedman: The German Spring Offensive, Leo Cooper, London 2001. ISBN 0-85052-787-2
    •     Martin Müller: Vernichtungsgedanke und Koalitionskriegführung. Das Deutsche Reich und Österreich-Ungarn in der Offensive 1917/1918, Graz 2003.
    •     David T. Zabecki: The German 1918 Offensives. A Case Study in the Operational Level of War, Londra 2006. ISBN 0-415-35600-8
    •     (EN)  Greenwood, Paul The Second Battle of the Marne 1918 Shrewsbury: Airlife 1998
Collegamenti esterni
    •     (FR)   Guida Michelin 1919 al campo di battaglia

 
Battaglia del solstizio

Data
15 - 22 giugno 1918
Luogo
Regione alpina orientale

La Battaglia del solstizio fu combattuta nel giugno 1918 dal Regio Esercito Italiano da una parte e dall'Imperial Regio esercito dall'altra. Fu l'ultima grande offensiva sferrata dagli austriaci nel corso della prima guerra mondiale e si spense davanti alla valorosa resistenza dei soldati italiani. Il nome "battaglia del solstizio" fu ideato dal poeta Gabriele D'Annunzio, lo stesso che poco dopo, il 9 agosto 1918, con 11 aeroplani Ansaldo sorvolerà Vienna gettando dal cielo migliaia di manifestini, inneggianti alla vittoria italiana.

La tentata offensiva austro-ungarica
 
Nel 1918 gli austriaci pianificarono una massiccia offensiva sul fronte italiano, da sferrare all'inizio dell'estate, in giugno.  
A causa delle loro gravi difficoltà di approvvigionamento, volevano infatti raggiungere la fertile pianura padana, sino al Po, e soprattutto, in un momento di grave difficoltà interna dell'Impero per il protrarsi della guerra, gli Austro-ungarici intendevano dare al conflitto una svolta decisiva, che permettesse un completo sfondamento del fronte italiano, come era già avvenuto con l'offensiva di Caporetto, e consentisse quindi di liberare forze da concentrare in un secondo momento sul fronte franco-tedesco.  
L'offensiva fu preparata quindi con grande cura e larghezza di mezzi dagli austriaci che vi impegnarono ben 66 divisioni, ed erano talmente sicuri del successo, che avevano persino preparato in anticipo i timbri ad inchiostro da usare nelle zone italiane da occupare.

La risposta italiana
 
Gli italiani conoscevano in anticipo i piani del nemico, comprese la data e l'ora dell'attacco, tanto che nella zona del Monte Grappa e dell'Altopiano dei Sette Comuni i colpi di cannone delle artiglierie italiane anticiparono l'attacco degli austriaci, lasciandoli disorientati. Le artiglierie del Regio Esercito, appena dopo la mezzanotte, per quasi cinque ore spararono decine di migliaia di proiettili di grosso calibro, tanto che gli alpini che salivano a piedi sul Monte Grappa videro l'intero fronte illuminato a giorno sino al mare Adriatico. Ai primi contrattacchi italiani sul Monte Grappa, molti soldati austriaci abbandonarono i fucili e scapparono, tanto che i gendarmi riuscirono a bloccare i fuggitivi solamente nella piana di Villach.

La battaglia
 
La mattina del 15 giugno 1918, gli austriaci arrivando da Pieve di Soligo-Falzè di Piave, riuscirono a conquistare il Montello e il paese di Nervesa. La loro avanzata continuò successivamente sino a Bavaria (sulla direttiva per Arcade), ma furono fermati dalla possente controffensiva italiana, supportata dall'artiglieria francese, mentre le truppe francesi erano stazionate ad Arcade, pronte ad intervenire, in caso di bisogno. Il Servizio Aeronautico italiano mitragliava il nemico volando a bassa quota per rallentare l'avanzata. Colpito da un cecchino austriaco moriva il magg. Francesco Baracca, asso dell'aviazione italiana.In realtà la morte del pilota avvenne per mano di un aviatore austriaco, ma a causa dell'inesperienza e delle nuvole presenti in zona l'aviatore che volava su un altro aereo in pattuglia con Baracca il fatto rimase pressoché sconosciuto (o forse fu volutamente nascosto) agli italiani per decine di anni hanno così creduto all'abbattimento per vile fucilata, addirittura circolò la voce che costretto all'atterraggio preferì suicidarsi , solo recentemente sono stati resi pubblici i registri dell'aviazione asburgica che proverebbero l'abbattimento.
Le passerelle gettate sul Piave dagli austriaci il 15 giugno 1918 vennero bombardate incessantemente dall'alto e ciò comportò un rallentamento nelle forniture di armi e viveri. Ciò costrinse gli austriaci sulla difensiva e dopo una settimana di combattimenti, in cui gli italiani cominciavano ad avere il sopravvento, i nemici decisero di ritirarsi oltre il Piave, da dove erano inizialmente partiti. Centinaia di soldati morirono affogati di notte, nel tentativo di riattraversare il fiume in piena.  Nelle ore successive alla ritirata austriaca, il re Vittorio Emanuele III visitava Nervesa liberata e completamente distrutta dai colpi di artiglieria. Ingenti i danni alle antiche ville sul Montello e al patrimonio artistico della zona. Stessa cosa per Spresiano: completamente distrutta. Gli austro-ungarici nella loro avanzata arrivarono sino al cimitero di Spresiano, ma l'artiglieria italiana che sparava da Visnadello e i contrattacchi della fanteria italiana riuscirono a bloccarli.
Le truppe austro-ungariche attraversarono il Piave anche in altre zone. Conquistarono pure le Grave di Papadopoli ma si dovettero successivamente ritirare. A Ponte di Piave percorsero la direttrice ferroviaria Portogruaro-Treviso, dopo alcune settimane di lotta, nella zona di Fagarè, vennero ricacciate dagli arditi italiani. Passarono il Piave anche a Candelù, da Salgareda raggiunsero Zenson e Fossalta, ma la loro offensiva si spense in pochi giorni.
Il 19 giugno 1918 nella frazione di San Pietro Novello presso Monastier di Treviso il VII Lancieri di Milano comandato dal generale conte Gino Augusti, contiene e respinge l'avanzata delle truppe austro-ungariche infiltrate oltre le linee del Piave infliggendo loro una sconfitta decisiva nell'economia della Battaglia del Solstizio. L'operazione militare passerà alla storia come la "Carica di San Pietro Novello": il reggimento di Cavalleria pur in inferiorità di uomini e mezzi riuscì nell'impresa, combattendo anche appiedato in un corpo a corpo alla baionetta. 1
La mattina dell'attacco, sino dalle ore 4.00, dal suo posto di osservazione posto in cima ad un campanile di Oderzo, il comandante delle truppe austriache, il feldmaresciallo Boroevic, osservava l'effetto dei proiettili oltre Piave. Le prime granate lacrimogene ed asfissianti ottenevano pochi risultati, grazie alle maschere a gas "inglesi" usate dagli italiani. Durante la Battaglia del Solstizio gli Austriaci spararono 200mila granate lacrimogene ed asfissianti. Sul fronte del Piave, quasi 6.000 cannoni austriaci sparavano sino a S.Biagio di Callalta e Lancenigo. Diversi proiettili da 750 kg di peso, sparati da un cannone su rotaia, nascosto a Gorgo al Monticano, arrivarono fino a 30 km di distanza, colpendo Treviso. Dall'altra parte del fronte, i contadini portavano secchi d'acqua agli artiglieri italiani per raffreddare le bocche da fuoco dei cannoni, che martellavano incessantemente le avanguardie del nemico e le passerelle poste sul fiume, per traghettare materiali e truppe. Il bombardamento delle passerelle fu determinante, in quanto agli austriaci vennero a mancare i rifornimenti, tanto da rendere difficile la loro permanenza oltre Piave.
Nel frattempo gli italiani, alla foce del fiume, avevano allagato il territorio di Caposile, per impedire agli austriaci ogni tentativo di avanzata. Dal fiume Sile i cannoni di grosso calibro della Marina Italiana, caricati su chiatte, che si spostavano in continuazione per non essere individuati, tenevano occupato il nemico da San Donà di Piave a Cavazuccherina (Jesolo).
Il punto di massima avanzata degli austriaci, convinti di arrivare presto a Treviso, fu a Fagarè, sulla provinciale Oderzo-Treviso.  Gli Arditi o truppe d'assalto, forti della fama che li accompagnava, ricacciarono gli austriaci sulla riva del Piave da cui erano venuti. Non facevano prigionieri e andavano all'attacco con il pugnale tra i denti, tanto che la loro presenza terrorizzava il nemico. La testa di ponte di Fagarè sulla direttiva Ponte di Piave-Treviso fu l'ultimo lembo sulla destra del Piave a cadere in mano italiana.

Conseguenze della vittoria italiana
 
La tentata offensiva austriaca si tramutò quindi in una pesantissima disfatta: tra morti, feriti e prigionieri gli austro-ungarici persero quasi 150.000 uomini. La battaglia fu tuttavia violentissima e anche le perdite italiane ammontarono a circa 90.000 uomini.  
Il generale croato Borojevic, comandante delle truppe austriache del settore e fautore dell'offensiva, capì che ormai l'Italia aveva superato la disfatta di Caporetto. Infatti, non solo si esauriva la spinta militare dell'Austria, ma apparivano anche i primi segnali di scontento tra la popolazione civile austriaca, per la scarsità di cibo. Gli "Alleati dell'Intesa" avevano isolato per mare gli Imperi Centrali e la penuria di risorse si faceva sentire.  
In tale situazione la battaglia del Solstizio era l'ultima possibilità per gli austriaci di volgere a proprio favore le sorti della guerra, ma il suo fallimento, con un bilancio così pesante e nelle disastrose condizioni socio-economiche in cui versava l'Impero, significò in pratica l'inizio della fine. Dalla battaglia del Solstizio, infatti, trascorsero solo quattro mesi prima della vittoria finale dell'Italia a Vittorio Veneto.

Bibliografia
    •    Pierluigi Romeo di Colloredo, La Battaglia del Solstizio - Giugno 1918, Associazione Italia, 2008

 

Offensiva dei cento giorni

Data
8 agosto - 11 novembre 1918
Luogo
da Amiens, Francia, verso Mons Belgio

L'offensiva dei cento giorni fu l'offensiva finale della prima guerra mondiale condotta dagli Alleati contro le forze degli Imperi Centrali stanziate lungo il fronte occidentale. In francese viene talvolta chiamata Les cent jours du Canada ("i cento giorni del Canada"), per sottolineare l'importante ruolo che ebbero le forze canadesi sotto il comando della 1a Armata britannica.
Condotta dall'8 agosto 1918 all'11 novembre 1918, l'offensiva ebbe un ruolo determinante nell'accelerare la demoralizzazione delle forze tedesche che portò alla fine della Guerra.

Antefatti
 
L'operazione Friedensturm (luglio 1918) fu l'ultima delle offensive di primavera con le quale lo Stato Maggiore tedesco sperava di ottenere una vittoria decisiva sull'Intesa. I tedeschi avevano ottenuto qualche vantaggio territoriale sulla Marna, ma non erano riusciti a sfondare. Quando l'offensiva si arrestò, il maresciallo di Francia Ferdinand Foch ordinò una controffensiva (a volte chiamata seconda battaglia della Marna), in seguito alla quale i tedeschi furono costretti ad abbandonare posizioni per loro indifendibili e a ritornare sulle posizioni di partenza. Le offensive di primavera avevano lasciato l'esercito tedesco estremamente indebolito sia in termini di uomini che di materiali. Agli inizi di agosto la gran parte delle divisioni schierate sul fronte occidentale era solo parzialmente idonea al combattimento.
Foch era del parere che fosse giunta l'ora che gli alleati riprendessero l'iniziativa. Il contingente statunitense erano finalmente presente in forze in Francia, rafforzando l'esercito francese5. Il comandante in capo dell'AEF, John Pershing intendeva ritagliare per le proprie forze un ruolo indipendente. Nello stesso tempo il contingente britannico era stato rafforzato dall'arrivo di truppe reduci dalle campagne del Medio Oriente e dal fronte italiano6.
Foch approvò pertanto il piano di Douglas Haig, comandante delle forze britanniche, che prevedeva un attacco sulla Somme, ad est di Amiens7. Si trattava di una scelta azzeccata per diverse ragioni: la Piccardia era un territorio idoneo all'impiego di carri armati, ed inoltre la zona era presidiata da truppe tedesche inesperte.

Battaglie

Amiens

 La battaglia di Amiens ebbe inizio l'8 agosto 1918, con un attacco di 10 divisioni alleate (francesi, britanniche, canadesi e australiane) e l'impiego di oltre 500 carri armati8. I preparativi dell'offensiva erano stati tenuti nascosti, e per questo i tedeschi vennero colti completamente di sorpresa910. Il corpo di spedizione australiano e quello canadese riuscirono a sfondare le linee tedesche, mentre i carri armati attaccavano le posizioni tedesche, seminando panico e confusione. Alla fine della giornata si era creato un varco di 24 chilometri nelle linee tedesche a sud della Somme11. Gli alleati avevano catturato 17000 prigionieri e 330 cannoni. Il totale delle perdite tedesche assommò a 30000 uomini (tra morti, feriti e prigionieri), a fronte di 6500 perdite alleate. Erich Ludendorff, di fronte alle dimensioni della sconfitta, parlò del giorno più nero per l'esercito tedesco12.
L'avanzata proseguì per tre giorni, ma senza i risultati spettacolari13 durante questi tre giorni, gli alleati avanzarono di 19 km, molti dei quali il primo giorno, come risultato di un parziale rafforzamento tedesco dell'8 agosto14. Il 10 agosto i tedeschi cominciarono a ritirarsi dal saliente che avevano occupato durante l'operazione Michael, per trincerarsi dietro la linea Hindenburg15.

Somme

Il 15 agosto Foch aveva chiesto a Haig di proseguire l'offensiva di Amiens. Ma nel frattempo i tedeschi avevano spostato riserve nella zona, e i progressi delle truppe alleate diventavano sempre più difficoltosi. Haig quindi rifiutò, e decise di lanciare una nuova offensiva nel settore della Somme, offensiva che iniziò il 21 agosto16.
1º settembre 1918, Péronne. Truppe australiane con mitragliatrice durante i combattimenti in città.
L'offensiva, portata avanti dalla terza armata britannica, fu un successo, e spinse indietro i tedeschi di più di 55 chilometri. La città di Albert cadde il 22 agosto17, e il 29 agosto18 i britannici ripresero l'offensiva avanzando di altri 12 chilometri, e conquistando Bapaume il 29 agosto. Quando l'artiglieria pesante venne riportata a ridosso delle nuove linee, la quarta armata britannica lanciò un nuovo attacco, e nella notte del 31 agosto truppe australiane traversarono la Somme, sfondando le linee tedesche a Mont St. Quentin e Péronne. Il 2 settembre, anche in questo settore del fronte, i tedeschi erano tornati sulle posizioni dalle quali avevano lanciato le loro offensive primaverili.

Sfondamento della linea Hindenburg

 Foch ora pensava ad una grande offensiva, una serie di attacchi alle linee tedesche, su diversi assi d'avanzata convergenti su Liegi.
La difesa tedesca era imperniata sulla linea Hindenburg19, una linea fortificata che si estendeva da Cerny sull'Aisne sino ad Arras. Prima affrontarla, vennero ridotti i due salienti ad est e ovest di essa: quello di St. Mihiel - con un'offensiva iniziata il 12 settembre, e quello di Épehy, attaccato il 18 dello stesso mese.
Il primo attacco della grande offensiva venne lanciata dal corpo di spedizione americano, nella zona della Mosa-Argonne. Due giorni più tardi ebbe inizio una seconda offensiva a nord, nei pressi di Ypres. Ambedue procedettero speditamente nei primi giorni, ma vennero poi rallentate per motivi logistici, in particolare nel settore affidato agli americani20.
Negli stessi giorni truppe canadesi in forze al corpo di spedizione britannico avevano intaccato la linea Hindenburg nelle vicinanze di Cambrai. Quindi il 30 settembre Haig lanciò l'attacco principale alla linea Hindenburg, guidato dalle divisioni 27 e 30 del corpo di spedizione americano, aggregate al corpo di spedizione australiano. Gli americani conquistarono il canale sotterraneo lungo 7 chilometri nei pressi di Bellincourt, ma subirono poi intensi contrattacchi, e dovettero essere soccorse dagli australiani21.
Due giorni più tardi una divisione britannica effettuò con successo un attacco anfibio lungo il canale all'estremità meridionale del canale, per ampliare la breccia. Il 5 ottobre la quarta armata britannica era riuscita a sfondare la linea Hindenburg in tutta la sua profondità
Il collasso delle difese tedesche costrinse l'alto comando ad ammettere che la guerra era perduta. L'evidente crollo del morale tedesco convinse diversi comandanti e leader politici alleati che era possibile terminare la guerra nel 1918, mentre in precedenza tutti gli sforzi erano rivolti a raccogliere le forze per un attacco decisivo previsto per i primi mesi del 1919.
Ritirata tedesca
 In ottobre le forze tedesche furono costrette a cedere parte dei territori occupati nel 1914, ma la ritirata non si trasformò in rotta. Le perdite alleate rimasero molto elevate, e i combattimenti perdurarono sino alle 11 e 11 dell'11 novembre, quando, dopo 51 mesi di combattimenti, finalmente le armi tacquero. In quel momento l'esercito tedesco occupava ancora parte della Champagne e gran parte del Belgio22.

Bibliografia
    •    Norm Christie, For King & Empire, The Canadians at Amiens, August 1918. CEF Books, 1999, ISBN 978-1-896979-20-5
    •    Norm Christie,  For King & Empire, The Canadians at Arras, August — September 1918. CEF Books, 1997, ISBN 978-1-896979-43-4
    •    Norm Christie, For King & Empire, The Canadians at Cambrai and the Canal du Nord, September — October 1918, CEF Books, 1997, ISBN 978-1-896979-18-2
    •    Daniel G. Dancocks, Spearhead to Victory – Canada and the Great War. Hurtig Publishers, 1987, ISBN 978-0-88830-310-3
    •    John Frederick Bligh Livesay, 1875–1944. Canada's hundred days: with the Canadian corps from Amiens to Mons, Aug. 8 – Nov. 11, 1918, 1919, ISBN 978-0-665-73263-8
    •    Orgill Douglas, Armoured onslaught: 8th August 1918. 1972 ISBN 978-0-345-02608-8
    •    Shane B. Schreiber,  Shock Army of the British Empire – The Canadian Corps in the Last 100 Days of the Great War, Vanwell Publishing, 2004, ISBN 978-1-55125-096-0
    •    Bean, C.E.W. Official Histories – First World War, Volume VI – The Australian Imperial Force in France during the Allied Offensive. Angus and Robertson Ltd (1942)

Battaglia di Vittorio Veneto

Data
24 ottobre-4 novembre 1918
Luogo
Fiume Piave e Massiccio del Grappa,

La battaglia di Vittorio Veneto fu l'ultimo scontro armato tra Italia e Impero austro-ungarico nel corso della Prima guerra mondiale; si combatté tra il 24 ottobre e il 4 novembre 1918 nella zona tra il fiume Piave, il Massiccio del Grappa, il Trentino e il Friuli e seguì di pochi mesi la fallita offensiva austriaca del giugno 1918 che non era riuscita ad infrangere la resistenza italiana sul Piave e sul Grappa e si era conclusa con un grave indebolimento della forze e della capacità di combattimento dell'Esercito imperiale e regio.
L'attacco decisivo italiano, fortemente sollecitato dagli alleati che erano già passati all'offensiva generale sul fronte occidentale, ebbe inizio solo il 24 ottobre 1918 mentre l'Impero austro-ungarico dava già segno di disfacimento a causa delle crescenti tensioni politico-sociali tra le numerose nazionalità presenti nello stato asburgico, e mentre erano in corso tentativi di negoziati per una sospensione delle ostilità.
La battaglia di Vittorio Veneto fu caratterizzata da una fase iniziale duramente combattuta durante la quale l'esercito austro-ungarico fu ancora in grado di opporre valida resistenza sia sul Piave che nel settore del Monte Grappa, a cui seguì un improvviso e irreversibile crollo della difesa, con la progressiva disgregazione dei reparti e defezioni tra le minoranze nazionali, che favorirono la rapida avanzata finale dell'esercito italiano fino a Trento e Trieste.
Il 4 novembre 1918 venne concluso l'armistizio di Villa Giusti che sanzionò la fine dell'Impero austro-ungarico e la vittoria dell'Italia nella Grande Guerra.

Il Fronte italiano

Ideazione e pianificazione dell'offensiva italiana 

Il 24 giugno 1918 la battaglia del Solstizio si era conclusa con un significativo successo dell'esercito italiano che era riuscito a respingere l'ultima grande offensiva generale dell'esercito austro-ungarico (operazioni "Lawine", "Radetzky" e "Albrecht") sia nel settore del Piave che nel settore del Monte Grappa; nelle settimane successive con una serie di contrattacchi locali erano state riconquistate anche le piccole teste di ponte costituite sul fiume dal nemico. La grande battaglia aveva segnato una svolta decisiva della guerra sul fronte italiano; l'esercito austro-ungarico aveva subito pesanti perdite, 118.000 morti, feriti e dispersi, superiori a quelle italiane, 85.600 morti, feriti e dispersi, senza raggiungere risultati decisivi ed al contrario subendo una grave indebolimento della sua forza materiale e della sua coesione morale8.
Nonostante l'importante vittoria difensiva, il generale Armando Diaz, capo di Stato maggiore del Regio Esercito dal 9 novembre 1917 dopo la destituzione del generale Luigi Cadorna in conseguenza del disastro di Caporetto, rimaneva prudente e non molto ottimista sulla possibilità di sferrare in tempi brevi una grande controffensiva. Sollecitato il 12 giugno e il 27 giugno dal generale Ferdinand Foch, comandante supremo alleato, a passare risolutamente all'attacco, il generale Diaz aveva evidenziato nella lettere del 21 giugno e del 6 luglio come l'esercito austro-ungarico, pur battuto, aveva ancora mostrato disciplina e capacità combattiva; egli inoltre lamentava carenze di materiali e di complementi che rendevano consigliabile evitare attacchi prematuri; il generale infine richiedeva il concorso delle truppe statunitensi, in fase di massiccio afflusso in Europa, anche sul fronte italiano9.
Il 24 luglio il generale Foch stilò un memorandum generale in cui proponeva di passare finalmente all'offensiva generale sul fronte occidentale sfruttando l'indebolimento dell'esercito tedesco e il continuo arrivo, al ritmo di 250.000 soldati al mese, dei contingenti degli Stati Uniti; pochi giorni dopo il generale John Pershing, comandante in capo dell'American Expeditionary Force, manifestò la sua contrarietà a disperdere le sue truppe su altri fronti e si oppose alle richieste italiane di concorso di truppe americane sul fronte del Piave. Mentre iniziavano le continue offensive anglo-franco-americane, l'inattività dell'esercito italiano sollevò le perplessità e le critiche degli alleati, e il generale Diaz alla fine di agosto si recò in Francia per incontrare il generale Foch, esporre la situazione sul fronte italiano e richiedere nuovamente la partecipazione di reparti statunitensi10.
Durante la permanenza del generale Diaz in Francia, il generale Foch ribadì la sua opposizione ad inviare in quel momento grandi contingenti statunitensi in Italia; egli si dimostrò ottimista e affermò di ritenere possibile entro la fine dell'anno ricacciare i tedeschi oltre il Reno. Il comandante in capo alleato promise invece l'invio nella primavera del 1919 di 400.000 soldati americani sul fronte italiano. In realtà la situazione globale della guerra alla metà di settembre ed i segni di cedimento degli Imperi Centrali sul fronte occidentale e sul fronte balcanico sembravano prospettare la possibilità di un crollo dei nemici già entro il 1918; di conseguenza si correva il rischio per l'Italia che il conflitto finisse con la vittoriosa avanzata alleata sugli altri fronti, prima ancora che l'esercito italiano fosse finalmente passato all'attacco, e con gli austro-ungarici ancora in possesso del Friuli e del Veneto11.

 Queste considerazione spinsero quindi lo stato maggiore italiano ad elaborare i primi progetti offensivi; Il 25 settembre il colonnello Ugo Cavallero, capo ufficio operazioni del Comando Supremo, diramò uno "Studio di una operazione offensiva attraverso il Piave" che illustrava una serie di possibili piani ed escludeva attacchi nell'inadatto territorio dell'altopiano dei Sette Comuni. Il documento prevedeva la possibilità di dover sferrare in breve tempo un'offensiva di fronte all'imminente crollo del nemico; in questo caso l'attacco avrebbe dovuto essere rapidamente allestito, immediatamente efficace e cogliere di sorpresa gli austro-ungarici. Il colonnello Cavallero proponeva un'offensiva in pianura, nel settore del Piave, con direttrice strategica verso Vittorio Veneto. Il fronte d'attacco sarebbe stato esteso su circa venti chilometri e si prevedeva di impegnare ventiquattro divisioni e mezza oltre a tre divisioni britanniche12.
Il 26 settembre il generale Enrico Caviglia comandante dell'8ª Armata, venne convocato al quartier generale e messo a conoscenza della memoria operativa redatta dal colonnello Cavallero; il generale rilevò che mentre il colonnello Cavallero e il generale Pietro Badoglio, sottocapo di Stato maggiore generale, apparivano chiaramente favorevoli a passare all'offensiva, il generale Diaz era molto meno deciso e manteneva dubbi e incertezze. Il generale Caviglia espresse critiche al progetto e consigliò di apportare alcune modifiche operative: egli proponeva di ampliare il fronte d'attacco verso nord fino a Vidor e di organizzare, alcuni giorni prima dell'inizio dell'offensiva principale, anche un assalto diversivo nel settore del Monte Grappa. Le idee del generale Caviglia vennero discusse e approvate in un colloquio con il colonnello Cavallero e i generali Badoglio e Scipione Scipioni; quindi il piano venne presentato al generale Diaz che sembrò d'accordo13.
Nel frattempo la situazione generale del conflitto mondiale stava evolvendo sempre più rapidamente a favore degli Alleati; il 26 settembre sul fronte occidentale era ripresa l'avanzata anglo-franco-americana e il 4 ottobre gli Imperi Centrali presentarono le prime richieste di armistizio14. Il Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando era seriamente preoccupato che la guerra finisse improvvisamente senza una chiara vittoria italiana; si temevano profonde ripercussioni diplomatiche e la rimessa in discussione delle clausole del Patto di Londra del 191515. Il 3 ottobre Orlando si era recato a Parigi ed aveva assicurato il generale Foch che in tempi brevi l'esercito italiano sarebbe passato all'attacco, ma il comandante supremo alleato sembrò poco interessato alla notizia e fiducioso di poter raggiungere la vittoria sugli Imperi Centrali senza il concorso italiano16. Orlando era sempre più impaziente; il 15 ottobre inviò al generale Diaz un esasperato telegramma in cui affermava di "preferire all'inazione la sconfitta"17; si ventilò la possibilità della sostituzione del capo di Stato maggiore generale con il generale Gaetano Giardino18. In precedenza, il 1º ottobre, si era già verificato un burrascoso scontro tra Orlando e il generale Diaz sulla necessità di attaccare al più presto anche per ragioni politiche19.

 Il 13 ottobre finalmente il generale Diaz convocò al quartier generale di Abano Terme i comandanti delle armate per illustrare il piano di operazioni dell'offensiva preparato il giorno precedente che riprendeva in gran parte il progetto del colonnello Cavallero integrato con alcune delle proposte del generale Caviglia. Secondo questo piano l'attacco decisivo sarebbe stato effettuato sul Piave tra il Montello e le Grave di Papadopoli dall'8ª Armata del generale Caviglia, supportata sui fianchi da due nuove armate molto più piccole: la 10ª Armata affidata al generale britannico Frederick Cavan, e la 12ª Armata comandata dal generale francese Jean César Graziani. Dopo aver superato il fiume, le forze del generale Caviglia avrebbero puntato su Vittorio Veneto, bloccando le vie di comunicazione delle armate austriache schierate sul basso Piave, mentre la 12ª Armata sarebbe avanzata a nord di Valdobbiadene e verso Feltre. La 4ª Armata del generale Giardino doveva tenersi pronta ad attaccare nel settore del Monte Grappa in direzione di Primolano e Arten; infine la 6ª Armata del generale Luca Montuori avrebbe protetto l'altopiano dei Sette Comuni20.
La decisione del comando supremo di costituire le due nuove armate, formate da cinque divisioni italiane, due britanniche e una francese, e di affidarne il comando a due generali stranieri, fu critica da alcuni alti ufficiali tra cui i generali Giardino e Caviglia, e sembra che sia stata motivata soprattutto da ragioni di opportunità politico-diplomatica per riguardo nei confronti degli alleati occidentali. In realtà dal punto di vista strategico la costituzione delle due piccole armate era inutile mentre l'assegnazione dei comandi ai due generali stranieri si dimostrò un errore che avrebbe favorito l'enfatizzazione propagandistica da parte anglo-francese di un presunto ruolo decisivo degli alleati anche nella battaglia di Vittorio Veneto21.
Negli ultimi giorni prima dell'offensiva il piano di operazioni venne ancora modificato dal comando supremo; il 18 ottobre il generale Diaz comunicò ai generali Giardino, Caviglia, Montuori e Graziani che era necessario, in attesa che le condizioni del Piave permettessero l'attacco principale nel settore del fiume, organizzare e sferrare al piu presto un attacco nell'area del Massiccio del Grappa in direzione Primolano-Feltre per agganciare il nemico e distogliere parte delle sue forze dagli altri settori. A questo scopo il generale Giardino, che avrebbe diretto l'attacco con la 4ª e la 12ª Armata, venne sollecitato a completare i preparativi entro il 23 ottobre; si temeva che un armistizio generale fosse imminente e quindi era assolutamente necessario attaccare subito. Dopo un incontro tra i generali Giardino e Diaz il 21 ottobre, venne stabilito che l'offensiva avrebbe avuto inizio il 24 ottobre con l'attacco nel settore del Monte Grappa a cui sarebbe seguito entro dodici ore l'assalto principale sul Piave22.
L'ordine d'operazioni definitivo venne comunicato il 21 ottobre e confermava che l'offensiva sarebbe iniziata con un'azione della 4ª e 12ª Armata nel settore Brenta-Piave per impegnare le forze austriache schierate nel Trentino, mentre l'attacco più importante sul medio Piave sarebbe stato sferrato "entro le prime ore notturne del medesimo giorno" dalla 8ª Armata, 10ª Armata e una parte della 12ª Armata; la 6ª Armata avrebbe collaborato con una manovra verso Cismon. I generali Caviglia e Giardino mossero alcune critiche al piano finale; il primo ritenne che fosse necessaria una maggiore distanza di tempo tra i due attacchi per poter attirare le riserve austriache nel settore del Brenta, mentre il generale Giardino nelle sue memorie ha lamentato l'insufficiente tempo concessogli per i preparativi e ha messo in dubbio l'efficacia tattica dell'assalto nel settore del Monte Grappa; di fatto il piano di operazioni avrebbe costretto la 4ª Armata a sferrare costosi attacchi frontali, simili alle inutili battaglie dell'Isonzo, subendo pesanti perdite23.

La situazione dell'esercito austro-ungarico

 La sconfitta dell'Austria-Ungheria nella battaglia del Solstizio ebbe importanza sull'esito complessivo della guerra mondiale; nelle sue memorie di guerra il generale tedesco Erich Ludendorff ha affermato che la Germania risentì fortemente del fallimento dell'offensiva sul Piave. Egli scrisse che "per la prima volta avemmo la sensazione della nostra sconfitta" e che la disfatta dell'alleato sul fronte italiano che preludeva al crollo dell'Impero asburgico, influì sul morale e sulla determinazione anche dell'esercito tedesco impegnato ad organizzare gli ultimi tentativi di offensiva sul fronte occidentale24. Nell'Impero austro-ungarico la sconfitta provocò un irreversibile caduta della fiducia delle truppe e i primi segni di allentamento delle coesione politico-militare; lo stesso imperatore Carlo I, recatosi il 21 giugno a Bolzano ad esaminare la situazione con il generale Franz Conrad, poté rilevare le deplorevoli condizioni morali e materiali dei suoi soldati, delusi e scoraggiati dopo il fallimento e scarsamente riforniti di vettovagliamento ed equipaggiamento25.
La situazione degli Imperi Centrali stava diventando critica su tutti i fronti; alla fine del mese di giugno l'Alto comando tedesco promise di fornire 2.000 vagoni di farina per il vettovagliamento delle truppe imperiali in Italia ma richiese l'invio di sei divisioni austro-ungariche sul fronte occidentale. Il 27 giugno il generale Arthur Arz von Straussenburg, capo di Stato maggiore generale, diede il suo consenso e le prime due divisioni partirono per la Francia; egli in questa circostanza apparve ancora fiducioso e scrisse di una nuova offensiva sul fronte italiano nel mese di settembre possibilmente con il concorso di truppe tedesche. In realtà le condizioni politico-militari dell'Impero si stavano deteriorando; segni di scarsa coesione si manifestarono durante lunghi dibattiti polemici nel parlamento ungherese e in quello austriaco; forti critiche vennero rivolte ai vertici militari e il 13 luglio il generale Conrad, ritenuto tra i responsabili del fallimento dell'ultima offensiva in Italia, venne rimosso dal comando del "gruppo d'armate del Tirolo" e sostituito dall'arciduca Giuseppe26.
Durante i mesi estivi tra gli alti ufficiali dei quartier generali austro-ungarici si alternarono timori di prossime offensive italiane con la pianificazione di una serie di progetti di attacchi a carattere locale. Il Comando Supremo riteneva possibile un attacco nemico in agosto e allertò il generale Svetozar Boroevic, comandante del gruppo d'armate sul Piave, di potenziare le sue linee difensive; contemporaneamente venne studiata anche un'offensiva tra il Brenta e il Montello; venne costituito un "gruppo Belluno", al comando del generale Ferdinand von Goglia, per organizzare le forze assegnate a questo attacco previsto entro la fine del 1918. Il generale Boroevic era molto meno ottimista; egli lamentava le grandi difficoltà di vettovagliamento, lo scadimento del morale e della disciplina delle truppe e riteneva prioritario potenziare le difese per respingere un'offensiva nemica sulla direttrice Vittorio Veneto-Belluno. All'inizio di settembre il generale Arz von Straussenburg condivise queste valutazioni e quindi i progetti di attacco vennero accantonati e l'attività venne concentrata soprattutto sul consolidamento delle posizioni difensive27.

 Il 14 settembre ebbe inizio l'offensiva alleata sul fronte macedone che entro i primi giorni di ottobre avrebbe costretto alla capitolazione la Bulgaria; il 27 settembre l'imperatore Carlo riunì a Vienna un Consiglio della Corona, con la presenza del generale Arz von Straussenburg, in cui vennero discusse le conseguenze dell'imminente crollo bulgaro e in cui il capo di Stato maggiore generale disse esplicitamente che era assolutamente necessario finire la guerra entro l'anno 191828. Il ministro degli Esteri Stephan Burián fu incaricato di fare pressioni sulla Germania; in realtà anche l'alleato tedesco era in grave difficoltà. Il generale Ludendorff aveva già sollecitato l'invio di una richiesta di armistizio agli alleati e il 4 ottobre Guglielmo II, dopo aver ottenuto il consenso dell'Austria-Ungheria e dell'Impero ottomano, inviò la richiesta di armistizio al presidente statunitense Woodrow Wilson. Il generale Arz von Strauessenburg, sulla base di queste decisioni politiche, cercò di conservare la coesione dell'esercito nonostante la diffusione di voci sulla pace imminente, ma contemporaneamente iniziò a pianificare l'evacuazione del Veneto e installò a Trento una commissione d'armistizio guidata dal generale Viktor Weber von Webenau29.
Mentre cresceva la protesta nazionalistica e l'aspirazione all'indipendenza delle popolazioni ceche, slovacche, polacche, slave e ucraine dell'Impero, e si accresceva anche il dissidio tra l'Austria e l'Ungheria, il 14 ottobre al Comando Supremo di Baden venne nuovamente discussa l'opportunità di iniziare lo sgombero del Veneto30. Alcuni alti ufficiali espressero il timore di un crollo dell'esercito durante la ritirata sotto la pressione degli italiani, e si paventò la possibilità di defezioni in massa delle truppe che avrebbero potuto diventare preda di spinte rivoluzionarie estremistiche. Si studiarono tuttavia progetti per iniziare l'evacuazione dei depositi e dei materiali ammassati dietro il fronte e il 17 ottobre vennero messi in movimento i primi trasporti, suscitando turbolenza tra i reparti di retrovia. Le voci di ritirata provocarono grande tensione tra gli ufficiali e i soldati e favorirono la disgregazione di alcune unità non di lingua tedesca31.
Le ultime settimane prima dell'inizio dell'offensiva italiana furono drammatiche per l'Impero austro-ungarico: il proclama di Carlo I del 16 ottobre che prevedeva la ristrutturazione dello stato in senso federale venne accolto con scetticismo e sfiducia dai politici e dalle popolazioni dell'Impero; il presidente Wilson la sera del 20 ottobre comunicò espressamente che la pace avrebbe dovuto fondarsi sull'autodeterminazione dei popoli dell'Austria-Ungheria. Nel Consiglio della Corona del 21 ottobre il generale Arz von Straussenburg riferì che la situazione militare era pessima e che era assolutamente necessario concludere la pace "ad ogni costo"32.

Le forze contrapposte

Il Regio Esercito

 Il 24 ottobre 1918, giorno dell'inizio dell'offensiva finale dell'esercito italiano nella Grande Guerra, il generale Diaz schierava dal Passo dello Stelvio al mare un complesso di forze costituito da 57 divisioni di fanteria e 4 divisioni di cavalleria, assegnate al comando di otto armate di prima linea ed una armata di riserva33.
 Sul fianco sinistro, tra il passo dello Stelvio e la riva occidentale del Lago di Garda, si trovava la 7ª Armata del generale Giulio Tassoni formata da due corpi d'armata, seguivano la 1ª Armata del generale Guglielmo Pecori Giraldi, schierata dalla sponda occidentale del Lago di Garda alla Val d'Astico con tre corpi d'armata, e la 6ª Armata del generale Luca Montuori che occupava l'altopiano dei Sette Comuni fino alla riva sinistra del Brenta con altri tre corpi d'armata. Il settore del Massiccio del Grappa fino alla cima Palon, era affidato alla 4ª Armata del generale Gaetano Giardino che disponeva di tre corpi d'armata, rafforzati da quattro gruppi d'assalto e un reggimento di cavalleria; dal Monte Tomba fino ai ponti di Vidor sul Piave si trovava la 12ª Armata guidata dal generale francese Jean César Graziani; questa formazione era costituita da un corpo d'armata italiano e dal 12º corpo d'armata francese con una divisione e due reggimenti francesi34.
Lungo il corso del Piave, dal ponte di Vidor a Ponte della Priula, si trovava l'8ª Armata del generale Enrico Caviglia che, costituita da quattro corpi d'armata e dal corpo d'assalto del generale Francesco Saverio Grazioli, era la formazione più numerosa e potente dell'esercito; sulla sua destra era schierata sul fiume, da Ponte della Priula fino a Ponte di Piave, la 10ª Armata, guidata dal generale britannico Frederick Cavan, formata da un corpo d'armata italiano e dalle due divisioni inglesi del 14º corpo d'armata britannico del generale James Babington. Infine l'ultimo tratto del fronte, da Ponte di Piave fino al mare, era affidato alla 3ª Armata del Duca d'Aosta con due corpi d'armata rinforzati da due reparti d'assalto e tre reggimenti di cavalleria; a questa armata era stato assegnato anche il 332º reggimento fanteria statunitense. Il generale Diaz aveva inoltre a disposizione in riserva la 9ª Armata del generale Paolo Morrone con altri due corpi d'armata e il corpo di cavalleria; in questa armata era inquadrata anche la 6ª Divisione cecoslovacca35, reclutata tra ex prigionieri dell'esercito austro-ungarico di origine ceca36.
L'esercito schierato per l'ultima battaglia era formato in totale da circa 700 battaglioni di fanteria, tra cui otto battaglioni di ciclisti e 31 reparti d'assalto, mentre la cavalleria era costituita da quattro divisioni, nove reggimenti, altri gruppi di squadroni e formazioni di autoblindo37. L'artiglieria italiana aveva subito perdite enormi nel corso della battaglia di Caporetto, ma a distanza di un anno, grazie agli sforzi dell'industria bellica, aveva ricostituito e modernizzato le sue forze raggiungendo una notevole efficienza38. L'artiglieria venne soprattutto concentrata nelle armate destinate a sferrare l'offensiva; quindi la 7ª e la 1ª Armata, che avrebbero dovuto svolgere solo compiti minori, disponevano di un numero molto ridotto di batterie, mentre la 6ª Armata che avrebbe dovuto sostenere sul fianco le forze d'attacco principale ricevette 1.057 cannoni e 215 bombarde.
 Nelle sue memorie il generale Giardino afferma polemicamente che la sua armata venne solo all'ultimo momento incaricata di passare all'attacco sul Monte Grappa e che fino al 19 ottobre era ancora in fase di riorganizzazione, le erano appena state assegnate nuove batterie che erano in corso di schieramento. In totale disponeva di 1.385 cannoni, compresi i pezzi del I corpo d'armata della 12ª Armata sulla destra, ma l'organizzazione del fuoco non era soddisfacente e l'artiglieria austro-ungarica in questo settore era meglio preparata e disponeva di ottimi campi di tiro sulle direzioni d'attacco39. La massa principale dell'artiglieria italiana era stata raggruppata tra Pederobba e le Grave di Papadopoli, la 8ª e 10ª Armata e l'ala destra della 12ª Armata disponevano in totale di 3.570 cannoni, tra cui 1.300 pezzi di medio e grosso calibro nell'area del Montello, e circa 600 bombarde; a ovest di Nervesa si trovavano alcuni cannoni da 381 mm di cui era previsto l'impiego contro il posto di comando austriaco di Vittorio Veneto. Nel complesso erano disponibili 7.750 cannoni, di cui 250 britannici e 200 francesi40; altre fonti riportano cifre più elevate, fino a quasi 10.000 cannoni41.
L'alto comando italiano era quindi riuscito a concentrare nel settore del Piave tra Vidor e le Grave di Papadopoli, una grande forza offensiva in grado di raggiungere gli obiettivi strategici previsti e molto superiore alle forze austro-ungariche presenti nel settore. La 8ª, 10ª e 12ª Armata raggruppavano infatti oltre venti divisioni e 4.100 cannoni e bombarde, mentre la 6ª Armata austriaca che difendeva il fiume, disponeva di sole nove divisioni e 835 cannoni42. La situazione era molto diversa nel settore del Monte Grappa dove il generale Giardino schierava undici divisioni e 1.385 cannoni contro le undici divisioni e 1.460 cannoni del "Gruppo Belluno" austriaco. In queste condizioni l'attacco della 4ª Armata contro forze numerose e tenaci in un terreno impervio si presentava molto difficile; il generale Giardino deplorò ripetutamente il sacrificio richiesto ai suoi soldati costretti ad un attacco frontale43.
Alla vigilia dell'offensiva finale le condizioni dell'esercito italiane apparivano buone; il morale delle truppe era elevato e si era diffusa la convinzione di una prossima vittoria. La situazione materiale era soddisfacente e i soldati disponevano finalmente di vettovagliamento ed equipaggiamento abbondante e di ottima qualità. Dal punto di vista tattico l'addestramento era migliorato e i reparti avevano iniziato da alcuni mesi esercitazioni per sviluppare le tattiche della guerra di movimento; secondo il generale Caviglia, particolarmente efficienti erano i reparti d'assalto; grande cura era stata inoltre dedicata ai reparti di pontieri, indispensabili per effettuare con successo il difficile passagio del Piave44.

L'Esercito Imperiale e Regio

 L'esercito austro-ungarico schierato sul fronte italiano era minato dalla sfiducia, dalle sofferenze materiali e dalla discordia nazionalistica ma rimaneva ancora un complesso di forze numeroso, tenace e solidamente inquadrato; suddiviso nei due raggruppammenti del Tirolo e del Piave, allineava quattro armate e il cosiddetto "Gruppo Belluno".
Il "Gruppo d'armate del Tirolo" era comandato dall'arciduca Giuseppe dopo la destituzione del generale Conrad e schierava dal Passo dello Stelvio fino al fiume Astico la 10ª Armata del generale Alexander von Krobatin con quattro corpi d'armata, varie forze di riserva e 1.230 cannoni, mentre la 11ª Armata del generale Viktor von Scheuchenstuel disponeva, dall'Astico al fiume Brenta, di tre corpi d'armata, tre divisioni di riserva e 1.120 cannoni; il gruppo d'armate teneva inoltre in seconda linea la 3ª Divisione da montagna Edelweiss e la 74ª Divisione fanteria45. Il cosiddetto "Gruppo d'armate Boroevic" era guidato dal capace ed esperto generale Svetozar Boroevic e difendeva il settore del fronte austro-ungarico compreso tra la riva sinistra del Brenta e il mare e quindi copriva tutta la linea del Piave. Il "Gruppo Belluno" del generale Ferdinand von Goglia era schierato dal Brenta a Fener con tre corpi d'armata e 1.460 cannoni e disponeva anche di una riserva costituita da altre tre divisioni; la 6ª Armata del generale Alois von Schönburg-Hartenstein era schierata nel settore piu critico da est di Fener alla Grave di Papadopoli con due corpi d'armata, tre divisioni di riserva e 835 cannoni. Infine dalle Grave di Papadopoli fino al mare il fronte era assegnato alla 5ª Armata (denominata anche Isonzoarmee) che era al comando del generale Wenzel von Wurm e schierava cinque corpi d'armata, due divisioni di riserva e 1.500 cannoni; il generale Boroevic aveva ancora a disposizione la 44ª Divisione Schützen46.
Le forze complessive ammontavano a 50 divisioni di fanteria e sei divisioni di cavalleria con 609 battaglioni di fanteria, 20 battaglioni Schützen o Kaiserjäger, 62 reggimenti di cavalleria appiedati e 56 squadroni a cavallo; in totale erano disponibili circa 6.800 cannoni47. Dietro la linea difensiva principale l'alto comando austro-ungarico aveva organizzato due posizioni difensive d'emergenza: la Kaiserstellung sul fiume Monticano e la Königstellung sul fiume Livenza; inoltre la zona del Massiccio del Grappa era fortemente presidiata e fortificata48.
La condizione delle truppe austro-ungariche a partire dall'inizio di ottobre era divenuta sempre più critica. A causa delle carenze di materiali e vettovagliamento, i soldati erano insufficientemente alimentati e mediocremente equipaggiati; permaneva il cameratismo all'interno dei reparti ma i soldati erano sottoposti ad una grande tensione e mostravano segni di demoralizzazione e di esaurimento. Soprattutto si stava allentando la coesione tra le varie nazionalità presenti all'interno dell'esercito imperiale e regio; i reparti ungheresi richiedevano insistentemente di essere rimpatriati. L'alto comando austro-ungarico era consapevole di un'imminente offensiva generale italiana sia sul Piave che sul Grappa; tra gli ufficiali prevaleva l'ansia e la preoccupazione, "solo un miracolo...poteva salvare la situazione"49.
Fritz Weber, all'epoca tenente d'artiglieria presso Eraclea, riguardo all'ottobre del 1918 scrive:
« Le costruzioni sono misere: case di legno piene di sabbia umida. Non abbiamo né cemento né ferro, e anche il legname solido scarseggia. Le opere di sbarramento cadono a pezzi. [...] Disciplina? Da tempo è andata a farsi benedire. Chi crede ancora al potere dei superiori, se questo potere non è neppure in grado di procacciare alla truppa affamata un po' di carne? Ognuno ormai combatte isolatamente la sua lotta contro la fame e la spossatezza. Che cosa mai tiene ancora unita questa gente? Senso di fedeltà, di cameratismo e di paura. Paura di rimaner soli e di scomparire come isolati, paura della grande piana brulicante di gendarmi e in mezzo alla quale, senza tessera alimentare, si è perduti come nel deserto. »
(Fritz Weber, Tappe della disfatta, pp. 287-290)

La battaglia

24 ottobre

 L'ordine di operazioni definitivo diramato a tutte le armate italiane il 22 ottobre aveva stabilito che per prima la 4ª Armata del generale Giardino avrebbe sferrato l'attacco nel settore del Grappa iniziando il fuoco d'artiglieria alle ore 03.00 del 24 ottobre con due ore di anticipo rispetto al resto delle forze. Il compito della 4ª Armata appariva difficile; il giorno precedente il generale Giardino aveva sottolineato di nuovo con il Comando Supremo le carenze del suo sistema d'artiglieria e la solidità delle schieramento nemico; il morale dei suoi soldati era buono ma gli austro-ungarici erano pronti e si attendevano l'attacco50.
Mentre alle prime ore del 24 ottobre la 6ª Armata iniziava un tiro di controbatteria ed effettuava alcuni attacchi diversivi, alle ore 05.00 l'artiglieria della 4ª Armata iniziò, dopo il tiro preparatorio delle ore 03.00, il fuoco in massa contro le linee difensive, pur intralciata in parte dalle sfavorevoli condizioni climatiche caratterizzate da nebbia e pioggia. Alle ore 07.15 passarono all'attacco i reparti del IX corpo d'armata del generale Emilio De Bono, nonostante che alle ore 03.30 i cannoni austriaci avessero effettuato un pericoloso tiro di contropreparazione. La 17ª e la 18ª Divisione avevano il difficile compito di assaltare e conquistare il Monte Asolone e ottennero qualche successo iniziale; in particolare la brigata Bari occupò alcune posizioni, ma, a causa dei tiri d'infilata dei cannoni, del fuoco delle mitragliatrici e di efficaci contrattacchi delle truppe austro-ungariche ammassate in solide fortificazioni in caverna, gli italiani nel corso della giornata dovettero ripiegare abbandonando le posizioni raggiunte51.
In precedenza, alle ore 06.00, era iniziato l'attacco del VI corpo d'armata del generale Stefano Lombardi contro il Monte Pertica e il Monte Prassolan; la 15ª Divisione fece entrare in azione le brigate Pesaro e Cremona ma anche questi assalti non raggiunsero gli obiettivi. Due tentativi della brigata Pesaro di occupare il Monte Pertica furono respinti entro le ore 14.00 dai contrattacchi austriaci dopo che alcuni reparti avevano raggiunto la cima, mentre la brigata Cremona avanzò inizialmente grazie all'azione di reparti di Arditi verso il Monte Prassolan, ma le avanguardie italiane furono isolate dal fuoco dell'artiglieria nemica, contrattaccate e ricacciate indietro; la brigata Cremona subì quasi 1.000 perdite52. Il terzo attacco della 4ª Armata venne sferrato dal XXX corpo d'armata del generale Carlo Montanari con reparti della 47ª, 80ª e 50ª Divisione contro i Monti Solaroli, il Monte Spinoncia e il Monte Valderòa.
Fanteria italiana in trincea pronta all'assalto.
 La brigata Bologna occupò alcune quote dopo duri scontri, mentre la brigata Lombardia attaccò gli impervi Monti Solaroli senza molto successo; maggiori risultati raggiunse la brigata Aosta che dopo essere avanzata nell'oscurità fino ai piedi del Monte Valderòa, riuscì al secondo tentativo alle ore 12.30 a conquistare quella montagna ma gli austro-ungarici riepiegarono con ordine sulle posizioni del Monte Fontanel; vennero respinti invece gli attacchi della brigata Udine contro il Monte Spinoncia. Infine, sulla destra della 4ª Armata, la 24ª e 74ª divisione del I corpo d'armata del generale Donato Etna, appartenente alla 12ª Armata del generale francese Graziani, fecero avanzare verso Alano di Piave le brigate Re e Trapani che però ben presto furono contrattaccate e respinte53.
Alle ore 15.00 il generale Giardino fece sospendere gli attacchi; egli era consapevole che "l'attacco generale era fallito" e che quindi si prospettava una cruenta battaglia di logoramento; la sua armata aveva già perso oltre 3.000 uomini. Le truppe austro-ungariche del "Gruppo Belluno" avevano dimostrato ancora una volta tenacia e abilità in difesa, anche se due reggimenti ungheresi avevano rifiutato di entrare in linea sugli altipiani. Alle ore 18.30 il Comando Supremo comunicò al generale Giardino che, nonostante le difficoltà, l'offensiva sul Grappa doveva continuare; infatti a causa delle condizioni del Piave, in piena per le forti piogge, l'attraversamento e l'attacco principale erano stati rinviati e quindi la 4ª Armata doveva continuare i suo costosi attacchi per impegnare il nemico54.
Il piano originario del Comando Supremo aveva previsto che al calar della sera del 24 ottobre l'8ª, la 10ª e la 12ª Armata avrebbero dovuto iniziare il passaggio in forze del Piave e la costruzione di numerosi ponti; ma fin dal 20 ottobre il fiume era in mezza piena e la pioggia continuava. Nel corso della giornata la piena crebbe ancora e la velocità della corrente rese impossibile il passaggio delle avanguardie e la costruzione dei ponti, le operazioni dovettero essere momentaneamente sospese in attesa di un miglioramento delle condizioni del fiume55. Una manovra effettuata su iniziativa del generale britannico Cavan, comandante della 10ª Armata, raggiunse invece un importante successo; il generale decise, dopo aver ottenuto il consenso dell'alto comando italiano, di occupare subito l'isola delle Grave di Papadopoli e l'isola Maggiore situate in mezzo al corso del Piave. Tre compagnie di pontieri italiani riuscirono a trasportare due battaglioni britannici del 14º corpo d'armata del generale Babington sull'isola delle Grave di Papadopoli; i britannici occuparono una parte dell'isola e furono gettati quattro ponti di collegamento con la riva destra. Si concluse con un fallimento invece l'attacco della brigata Foggia all'isola Maggiore; dopo aver raggiunto un isolotto vicino i soldati rimasero fermi tutto il giorno sotto il fuoco nemico e nella notte dovettero evacuare56.

25 ottobre

 Secondo gli ordini ricevuti il generale Giardino riprese gli attacchi sul massiccio del Grappa; nella giornata del 25 ottobre, caratterizzata da cielo sereno al mattino e nebbia nel pomeriggio, i tre corpi della 4ª Armata avrebbero concentrare i loro assalti per conquistare gli obiettivi più importanti costituiti dall'Asolone, il Col della Berretta, il Pertica e i Solaroli.
Mitraglieri italiani sul monte Grappa.
 Il IX corpo attaccò alle ore 08.30 dopo trenta minuti di violento fuoco di preparazione; la 18ª Divisione sferrò un assalto su quattro colonne contro il monte Asolone e il Col della Berretta e la seconda colonna, guidata dal 9º reparto d'assalto, riuscì a superare le difese nemiche, conquistò alcune quote e avanzò verso il Col della Berretta che venne brillantemente raggiunto da reparti di arditi e gruppi del 139º reggimento fanteria. Alle ore 09.00 tuttavia i soldati della 4ª Divisione austro-ungarica, appartenente al XXVI corpo del "Gruppo Belluno", contrattaccarono, mentre gli italiani giunti sul colle erano isolati dal fuoco di sbarramento. Alle ore 11.00 infine gli arditi abbandonarono le posizioni sul Col della Berretta e anche i reparti della terza colonna, arrivati sull'Asolone, si ritirarono dopo aver subito forti perdite57. Il VI corpo invece riuscì ad occupare il Monte Pertica; dopo aver iniziato l'attacco alle ore 09.00, la brigata Pesaro, rafforzata dal 18° reparti d'assalto, raggiunse la cima e, nonostante fosse stata violentemente contrattaccata da reparti della 48ª Divisione fanteria austro-ungarica, riuscì a mantenere il possesso del monte. Vennero completamente respinti gli attacchi della brigata Cremona; il VI corpo perse oltre 1.500 soldati in questa giornata di combattimenti58.
Il XXX corpo attaccò al mattino con la 47ª Divisione che non ottenne alcun risultato e venne fermata dall'intervento delle riserve della 13ª Divisione Schützen; nel primo pomeriggio, nella nebbia, i Monti Solaroli vennero nuovamente assaltati dalla brigata Lombardia, e dal raggruppamento del generale Roberto Bencivenga con la brigata Aosta e sei battaglioni Alpini. L'artiglieria austriaca effettuò un efficace e potente tiro di contropreparazione e la 17ª Divisione, schierata sui monti, respinse tutti gli assalti che continuarono fino alla sera; gli italiani subirono altre 1.300 perdite59. Nonostante le crescenti perdite, la mancanza di risultati e la sorprendente potenza dell'artiglieria austro-ungarica, il generale Giardino alle ore 16.00 comunicò che anche il giorno 26 ottobre la 4ª Armata avrebbe continuato i suoi logoranti attacchi; egli intendeva intensificare il fuoco d'artiglieria e contava di poter agganciare l'avversario e attrarre le sue riserve nel settore del Grappa. Dalle informazioni raccolte dai prigionieri, sembrava che gli austriaci fossero indeboliti e con il morale basso; il generale Giardino sperava ancora "di poterne venire a capo"60.
Nel frattempo anche il 25 ottobre a causa della piena del Piave, le armate italiane destinate ad effettuare il passaggio del fiume e sferrare l'attacco decisivo, furono costrette a rimanere ferme e inattive in attesa dell'abbassamento del livello delle acque; tensione e preoccupazione era diffusa tra i soldati e negli alti comandi. Nella notte del 26 ottobre invece buone notizie arrivarono dall'isola delle Grave di Papadopoli, dove i britannici della 10ª Armata sopraffecero il battaglione austriaco presente e occuparano saldamente tutto l'isolotto; attraverso nuove passerelle costruite sul Piave vennero trasportati sull'isola altri reparti britannici e italiani61.
Anche il secondo giorno di battaglia si concludeva con modesti risultati per gli italiani; erano state conquistate le posizioni del Monte Pertica e del Monte Valderòa e le truppe austro-ungariche erano state duramente impegnate, costringendo il generale von Goglia, comandante del "Gruppo Belluno", a richiedere rinforzi per consolidare le difese, ma nel complesso l'alto comando dell'esercito imperiale e regio poteva valutare con soddisfazione l'andamento dei combattimenti. Le truppe avevano opposto tenace resistenza, il morale dei reparti appariva più solido e anche le altre armate non ancora attaccate ritenevano di potere resistere62.

26 ottobre

 Al mattino del 26 ottobre la 4ª Armata fece affluire altri reparti e riprese per il terzo giorno consecutivo i suoi attacchi contro i caposaldi nemici nel Massiccio del Grappa; si svolsero ancora una volta scontri molto violenti e accaniti senza che gli italiani raggiungessero obiettivi decisivi. I ripetuti assalti del IX corpo d'armata furono tutti respinti nonostante i continui interventi dell'artiglieria per cercare di distruggere i reticolati e le postazioni austro-ungariche; alle ore 13 terminò con un insuccesso un attacco della 17ª Divisione fanteria. Il nuovo attacco contro il Monte Asolone venne sferrato dalle brigate fresche Forlì e Siena della 21ª Divisione ma anche le difese nel frattempo erano state rinforzate con l'intervento della 28ª Divisione austro-ungarica e di reparti della 60ª Divisione e della divisione Edelweiss. I reparti d'assalto italiani riuscirono a raggiungere la sommità del monte e a proseguire lungo la dorsale ma ancora una volta l'artiglieria austro-ungarica bersagliò le avanguardie italiane isolandole dalle retrovie; quindi il contrattacco ebbe successo e gli attaccanti ripersero le posizioni conquistate. Alle ore 16 il generale De Bono fece un ultimo tentativo preceduto dal tiro di tutti i cannoni disponibili ma entro un'ora anche questo attacco venne respinto soprattutto dal fuoco dei cannoni austriaci63.
Fallirono anche tutti gli assalti sferrati dal VI corpo d'armata per cercare di ampiare l'occupazione del Monte Pertica verso il Col della Martina e Osteria del Forcelletto; durante la giornata i reparti della 22ª Divisione subirono forti perdite sotto il fuoco dell'artiglieria nemica e non raggiunsero alcun risultato. Il XXX corpo, dopo la conquista il 25 ottobre del Monte Valderòa, intendeva attaccare e occupare con la brigata Bologna il Col del Cuc, i Solaroli e il Monte Spinoncia, mentre il gruppo del generale Bencivenga doveva assaltare il Monte Fontanel. Inizialmente questi reparti raggiunsero risultati incoraggianti e la brigata Bologna conquistò il Col del Cuc, ma le truppe austro-ungariche opposero di nuovo forte resistenza sostenuti dal fuoco dell'artiglieria che inflisse forti perdite agli attaccanti. L'attacco ai Solaroli ebbe inzio alle ore 15.00 e i combattimenti si prolungarono fino alle 19.00; alcuni reparti di alpini e di arditi conquistarono temporaneamente alcune posizioni, ma nel complesso i difensori mantennero il possesso di tutte le quote dominanti. Violenti scontri si estesero lungo tutta la dorsale con attacchi e contrattacchi, entrambe le parti dimostrarono coraggio e tenacia; i soldati delle brigate Lombardia e Aosta e numerosi battaglioni alpini rinnovarono i sanguinosi assalti subendo perdite elevatissime senza riuscire a conquistare le montagne di fronte all'accanita difesa delle truppe austro-ungariche64.
Postazioni italiane sul Piave.
 Al termine dei combattimenti del 26 ottobre quindi il generale Giardino dovette ammettere che tre giorni di cruente battaglie non avevano consentito di raggiunge alcun risultato tattico decisivo; le truppe erano stanche e molto logorate dopo i ripetuti assalti frontali costati pesanti perdite, non erano disponibili forze fresche, mentre le truppe austro-ungariche avevano dimostrato una sorprendente coesione e grande combattività. Il generale Giardino richiese al Comando Supremo di poter interrompere gli attacchi sul massiccio del Grappa ed impiegare la giornata del 27 ottobre per far riposare le truppe e riorganizzare lo schieramento; il generale Diaz si recò nel pomeriggio al posto di comando della 4ª Armata e alle ore 18.00 autorizzò l'interruzione dell'offensiva e ordinò di rafforzare le posizioni in attesa degli sviluppi delle operazioni sulla linea del Piave65.
In questo settore del fronte la piena del fiume iniziò finalmente a diminuire nella serata e quindi il generale Caviglia diede ordine di cominciare nella notte le operazioni di traghettamento e la costruzione dei ponti per effettuare il passaggio in forze del Piave; il generale Diaz venne informato di questa decisione e si recò sul posto dando il suo pieno consenso e dando prova di ottimismo e fiducia. Nel frattempo le truppe italo-britanniche che avevano occupato nei giorni precedenti l'isola delle Grave di Papadopoli il 26 ottobre erano riuscite a consolidare le loro posizioni e avevano respinto alcuni contrattacchi; fu quindi possibile dall'isola iniziare a gettare, sotto la copertura della nebbia serale, i ponti verso la riva sinistra del Piave66. Alle ore 21.00 tra Pederobba e le Grave di Papadopoli, iniziarono le operazioni per traghettare i reparti d'assalto oltre il fiume che continuava a scorrere vorticosamente. Inizialmente non ci fu reazione da parte dei difensori dato che gli austro-ungarici avevano organizzato la linea di resistenza due chilometri più indietro, ma la piena del Piave continuò ad ostacolare le manovre degli attaccanti67.
L'alto comando austriaco continuò a valutare con un certo ottimismo la situazione; nel settore del Grappa la 4ª Armata italiana aveva subito oltre 15.000 perdite in tre giorni, e il "Gruppo Belluno" pur avendo mobilitato tutte le sue riserve, non aveva avuto bisogno di aiuti da altri settori per respingere gli attacchi. Il generale Wurm, comandante della 5ª Armata, inoltre riteneva che l'attacco all'isola delle Grave di Papadopoli fosse solo una manovra diversiva di scarsa importanza. Nel corso della giornata tuttavia il comando della 6ª Armata rilevò i primi segni di un attacco nel suo settore del Piave; venne inoltre segnalata la presenza delle temute truppe britanniche sull'isola. Mentre le truppe austro-ungariche in prima linea si battevano con grande tenacia, continuava la lenta disgregazione di parti dell'esercito; l'arciduca Giuseppe avvertì da Bolzano che si stavano estendendo gli ammutinamenti tra le unità ungheresi; egli riteneva indispensabile concludere un armistizio e rimpatriare subito le divisioni magiare per evitare defezioni. L'arciduca Giuseppe partì per Vienna per sostenere le sue idee e lasciò il comando del "Gruppo d'armate del Tirolo" al generale Krobatin; nonostante le proteste dei generali Boroevic e Arz von Straussenburg, il consiglio dei ministri di Budapest decise il rimpatrio delle unità ungheresi68.

27 ottobre

Contrattacchi austro-ungarici sul Grappa

 Le truppe austro-ungariche nel settore del Massiccio del Grappa erano ancora in piena efficienza e il comando del "Gruppo Belluno" era deciso, dopo tre giorni di dura ma efficace difesa, a passare al contrattacco per riconquistare le posizioni perdute. Alle ore 05.00, con un tempo nuovamente grigio e piovoso, i cannoni austriaci aprirono il fuoco indirezione del Monte Pertica occupato dai resti dell'esausta brigata Pesaro; il raggruppamento del generale Ferdinand Kosak, costituito da elementi della 48ª e 55ª Divisione, tra cui il famoso 7º reggimento carinziano, attaccarono alle ore 7.00 e riuscirono ad avanzare e riconquistare la montagna anche se il fuoco dell'artiglieria italiana impedì di rafforzare subito la posizione. Gli italiani contraccarono e fino a ore 12.00 continuarono combattimenti dall'esito alterno e violenti bombardamenti d'artiglieria; gli austriaci sferrarono almeno otto attacchi69; infine al quinto assalto il 41º reggimento italiano riuscì a riconquistare il Monte Pertica, e reparti delle brigate Firenze e Roma giunsero sul posto di rinforzo70.
Raggiunse invece il successo l'attacco a sorpresa contro il Monte Valderòa sferrato alle ore 03.00 del mattino da due reggimenti della 17ª e 55ª Divisione austro-ungarica; preceduta dal fuoco dell'artiglieria iniziato alle ore 01.45 e favorita dall'oscurità e dalla nebbia, la fanteria austriaca e bosniaca superò la resistenza di deboli reparti della brigata Aosta e del battaglione alpino Pieve di Cadore e raggiunse la vetta della montagna. Minacciate da un attacco di fianco, le truppe italiane dovettero abbandonare le posizioni e si stabilirono sui versanti orientali; una serie di contrattacchi tardivi e improvvisati furono respinti, gran parte del Monte Valderòa ritornò in possesso degli austro-ungarici71.
Il generale Giardino era seriamente preoccupato; le notizie dal settore del Piave erano scarse e i francesi dalla zona della 12ª Armata segnalavano di aver potuto gettare un solo ponte. Il comandante della 4ª Armata si recò sulla linea del fronte per esortare i suoi subordinati a resistere ad ogni costo sulle posizioni raggiunte senza contare su rinforzi. Alle ore 13.45 il Comando Supremo, apparentemente senza tenere in considerazione la difficile situazione, ordinò la ripresa degli attacchi sul Grappa per il 28 ottobre, ma il generale Giardino protestò e riuscì a convincere il generale Diaz a rinviare la nuova offensiva al 29 ottobre. Il generale Giardino era cosapevole che sul Grappa l'avanzata sarebbe stata lenta e sanguinosa; il nemico appariva ancora tenace e combattivo, disciplinato e con il morale alto, non si avevano notizie di ammutinamenti o defezioni tra i reparti di prima linea del "Gruppo Belluno"72.

Attraversamento del Piave
 
Le operazioni di attraversamento del Piave, iniziate nella notte ed ostacolate dal tempo e dalla corrente impetuosa del fiume, furono molto difficili e non ottennero gli ambiziosi obiettivi previsti. La 12ª Armata del generale francese Graziani riuscì con molta difficoltà a gettare un ponte ad est di Pederobba che tuttavia venne subito individuato dagli austriaci e bersagliato dall'artiglieria. Alle ore 03.00 attraversarono il fiume un reggimento francese e due battaglioni alpini, ma alle ore 06.00 il ponte venne colpito dal fuoco dei cannoni ed dalle ore 09.00, quasi demolito, divenne inutilizzabile. Di conseguenza i reparti italo-francesi passati sulla riva sinistra che avrebbero dovuto avanzare verso Valdobbiadene, furono contrattaccati e rimasero bloccati nella loro piccola testa di ponte73.
 L'8ª Armata del generale Enrico Caviglia incaricata di sferrare l'attacco decisivo, aveva progettato una complessa operazione di passaggio del fiume che prevedeva di gettare otto ponti tra Vidor e Nervesa; inoltre era stata prevista anche la costruzione di undici passerelle tra Onigo e Ponte della Priula. Nella giornata del 27 ottobre gli avvenimenti ebbero un andamento drammatico con alcuni limitati successi e numerosi fallimenti che sembrarono mettere in pericolo l'esito complessivo dell'operazione. Non fu possibile, a causa della corrente e del fuoco nemico, gettare il primo ponte a Vidor e le tre passerelle dovettero essere interrotte dopo le gravi perdite subite dai reparti di pontieri74. Sotto la pioggia e il pesante fuoco dei cannoni austriaci, riuscì invece la costruzione del ponte a Fontana del Buoro, sul Montello. Alla presenza del generale Caviglia, reparti di arditi a bordo di barconi raggiunsero la sponda sinistra di sorpresa; sul ponte subito costruito transitarono una divisione d'assalto, le brigate Cuneo e Mantova, un reggimento della brigata Messina e un gruppo di artiglieria da montagna. Gli attraversamenti avvennero nell'oscurità della notte dalle ore 01.30 e con un tempo in peggioramento; ben presto la situazione divenne difficile: i reparti nella testa di ponte furono sottoposti all'intenso fuoco dell'artiglieria austro-ungarica che cercava di distruggere il ponte, mentre i riflettori scandagliavano le posizioni italiane75.
Si concluse invece con un fallimento la prevista costruzione del terzo ponte a est del secondo, mentre il quarto ponte, gettato vicino intorno a mezzanotte con grande difficoltà da una compagnia di pontieri, permise inizialmente il passaggio di elementi delle brigate Pisa e Piemonte, ma alle ore 09.30 venne distrutto dal fuoco dei cannoni austriaci. Disastroso fu il tentativo di gettare il quinto ponte a Falzè; a causa della aspra resistenza dei difensori e del violento fuoco dell'artiglieria nemica, le imbarcazioni dei reparti d'assalto furono affondate e oltre 200 arditi annegarono. Infine fallirono anche gli attraversamenti sul settimo ponte a Nervesa, ostacolati dalla corrente impetuosa e dalla conformazione delle sponde; il ponte venne distrutto mentre era ancora in costruzione isolando 150 arditi che furono decimati e dovettero tornare sulla riva destra. Terminò con un insuccesso anche il tentativo di gettare l'ottavo ponte più a valle76.
Attraverso i ponti secondo e quarto quindi erano riusciti a stabilirsi sulla riva sinistra principalmente i reparti del XX corpo d'armata del generale Giuseppe Vaccari; erano all'interno della testa di ponte elementi delle brigate Pisa, Piemonte, Mantova, oltre alla 1ª Divisione d'assalto e ad alcuni reggimenti delle brigate Cuneo e Messina. Il quartier generale del XX corpo assunse il comando delle operazioni sulla sinistra del Piave cercando di mantenere i collegamenti con il XXVII e l'VIII corpo d'armata rimasti sulla riva destra. Sfruttando la sorpresa e il cedimento della 11ª Divisione ungherese schierata nel settore, gli italiani poterono consolidare le loro posizioni e al primo mattino ampliare la testa di ponte muovendo tre reparti d'assalto che raggiunsero e conquistarono la "linea dei villaggi", Mosnigo, Moriago e Sernaglia. Gli arditi continuarono ad avanzare in direzione di Pieve di Soligo, Collalto e Falzè ma vennero contrattaccati da reparti austro-ungarici di riserva; alle ore 14.00 dovettero ripiegare e nella notte rientrarono a Sernaglia dopo aver catturato 3.200 prigionieri. Al termine della giornata la testa di ponte del XX corpo d'armata era ormai sensibilmente rafforzata; circa 29 battaglioni si trovavano già sulla riva sinistra appoggiati dalla potente artiglieria situata sul Montello77.

 A partire dalle ore 12.30 del 27 ottobre ebbe inizio anche l'operazione di attraversamento del Piave da parte della 10ª Armata del generale britannico Cavan; precedute dal fuoco dell'artiglieria italiana e dall'intervento anche dei cannoni delle batterie britanniche, il 14º corpo d'armata inglese del generale Babington e l'XI corpo italiano del generale Paolini poterono passare, partendo dal villaggio di Salettuol sulla riva destra, prima sulle isole delle Grave di Papadopoli già conquistate in precedenza e quindi raggiunsero la riva sinistra. Nonostante la violenza della corrente e problemi tecnici, le truppe anglo-italiane riuscirono facilmente a prendere piede oltre il Piave, la resistenza nemica inizialmente fu debole. Subito dopo iniziò l'attacco contro la linea principale; la 7ª Divisione britannica procedette in direzione di Borgo Malanotte contrastata da una divisione austro-ungarica, mentre più a sud la brigata Foggia e un reggimento bersaglieri marciarono con difficoltà, a causa del terreno paludoso e della resistenza nemica, fino a Roncadelle e Stabiuzzo. Le operazioni terminarono con successo; venne costituita una solida testa di ponte e vennero catturate alcune migliaia di prigionieri e circa quaranta cannoni78.
L'evoluzione favorevole alle Grave di Papadopoli convinse il generale Caviglia a modificare i suoi piani. Nonostante le notizie negative provenienti dalla maggior parte dei punti di attraversamento, il comandante dell'8ª Armata appariva risoluto e deciso a perseverare; egli fin dalle ore 07.00 aveva rassicurato i suoi sottoposti e ordinato di adottare il piano di emergenza già preparato in precedenza. Il XVIII corpo d'armata del generale Luigi Basso avrebbe attraversato il fiume alle Grave di Papadopoli utilizzando i ponti della 10ª Armata e quindi, marciando lungo la riva sinistra verso Nervesa e i ponti della Priula, avrebbe sbloccato la situazione favorendo il passaggio dell'VIII corpo che era sempre fermo a sud del fiume. Il generale Caviglia aveva già inviato ordini ai comandi dell'XVIII corpo e della 10ª Armata79.
Il comando della 6ª Armata austriaca attaccata lungo il Piave non sembrò molto preoccupato per la costituzione delle due teste di ponte nemiche; esso nel corso della giornata continuò a considerare favorevolmente la situazione; alcuni reparti prevalemente ungheresi avevano mostrato segni di cedimento ma nel complesso l'armata rimaneva in efficienza ed erano attese tre divisioni di rinforzo per contrattaccare ed eliminare la testa di ponte di Sernaglia, mentre altre quattro divisioni avrebbero dovuto attaccare le forze italo-britanniche della 10ª Armata. Il generale Boroevic, responsabile del gruppo d'armate schierato sul Piave, era sempre più preoccupato per le defezioni tra le truppe ungheresi e slave e richiese l'uso della forza per reprimere gli ammutinamenti ma sperava ancora in un esito non sfavorevole della battaglia difensiva80.
Nel frattempo a Vienna l'imperatore Carlo aveva preso finalmente decisioni irreversibili; dopo aver comunicato con una lettera le sue intenzioni a Guglielmo II e nonostante la contrarietà del generale Arz von Straussenburg, egli decise di richiedere al presidente Woodrow Wilson un armistizio immediato e una pace separata. Una nota diretta al presidente statunitense venne consegnata al governo svedese, l'Austria-Ungheria riconosceva il diritto all'indipendenza cecoslovacca e jugoslava, rompeva l'alleanza con la Germania e richiedeva la fine dei combattimenti su tutti i fronti81.

28 ottobre

 Nel settore del massiccio del Grappa gli austro-ungarici sferrarono alcuni attacchi: un tentativo verso il Col del Cuc venne respinto dal tiro dei cannoni italiani, mentre un assalto in forze effettuato da reparti della 50ª Divisione nel settore del Monte Valderòa per eliminare i sueperstiti della brigata Aosta e di due battaglioni alpini ancora presenti sui versanti della montagna, venne contenuto e fu possibile da parte del comando italiano sostituire i reparti più logorati inserendo altri reparti alpini. Il generale Giardino ricevette conferma alle ore 16.30 dal Comando Supremo che il 29 ottobre la 4ª Armata avrebbe dovuto riprendere gli attacchi; l'avversario apparentemente non dava segno di cedimento, tuttavia il comandante dell'armata riteneva che l'offensiva potesse riuscire grazie al rafforzamento dell'artiglieria; l'attacco inoltre rimaneva importante per impegnare il nemico e favorire l'azione principale sul Piave82.

Mappa delle operazioni.

Nella testa di ponte di Pederobba della 12ª Armata del generale francese Graziani, le truppe sulla riva sinistra erano rimaste isolate; prima dell'alba i pontieri costruirono un ponte di barche e rimisero in funzione il ponte principale; in questo modo passarono il fiume un reggimento francese e un battaglione alpino. Alle ore 09.15 tuttavia i cannoni austriaci danneggiarono di nuovo i ponti e la testa di ponte fu di nuovo isolata. Nonostante queste difficoltà, i reparti sulla riva sinistra passarono all'attacco: i francesi avanzarono a sinistra in direzione della conca di Alano di Piave, mentre sulla destra gli alpini pur incontrando una tenace resistenza austriaca, fecero notevoli progressi e raggiunsero al termine della giornata Valdobbiadene83.
Nella testa di ponte principale dell'8ª Armata la situazione delle truppe del XXII corpo era ancora critica a causa soprattutto delle condizioni del fiume in piena, e della mancanza di attraversamenti stabili. L'artiglieria austro-ungarica bombardava tutte le posizioni italiane e soprattutto il corso del Piave rendendo estremamente difficoltoso il lavoro dei pontieri; le comunicazioni con la testa di ponte di Sernaglia si effettuavano per mezzo di nuotatori e aeroplani che lanciavano sacchi di munizioni e vettovaglie. I tentativi di ricostruire il primo ponte a Vidor e il secondo a Fontana del Buoro erano falliti nella notte mentre il quarto ponte a Casa Biadene era stato parzialmente riaperto e aveva permesso di trasferire sulla riva sinistra, passando a piedi su strette passerelle e in parte a guado, reparti della 60ª Divisione e un battaglione della brigata Messina. Alle ore 07.30 anche questo precario ponte venne colpito e distrutto dal fuoco dei cannoni austriaci; i ponti di Nervesa e della Priula erano sempre fuori uso e quindi l'VIII corpo d'armata era sempre bloccato a sud del fiume84.
Nonostante queste difficoltà, il generale Vaccari, comandante del XXII corpo, dimostrò decisione e fiducia; durante una riunione alle ore 10.30 con i suoi generali, esortò non solo a difendere tenacemente la testa di ponte ma a passare all'attacco; erano infatti state segnalate dall'aviazione colonne nemiche in movimento verso nord e la resistenza austriaca dava segni di indebolimento. Le truppe delle brigate Piemonte e Porto Maurizio riuscirono ad avanzare dalla testa di ponte e raggiunsero senza molta difficoltà Falzè e Chiesola85. Alle ore 14.00 il generale Caviglia, consapevole che la battaglia era giunta al momento più importante e che il nemico era vicino al crollo, diramò un ordine del giorno alle sue truppe in cui rimarcava che entro 24 ore la battaglia sarebbe stata decisa e che la storia d'Italia "forse per un secolo" sarebbe dipesa dalla tenacia delle truppe nelle prossime giornate86. Era quindi necessario ricostruire nella notte tutti i ponti; le truppe dovevano passare all'attacco con il massimo spirito offensivo per il "raggiungimento degli obiettivi prefissi"87.
Mentre le truppe austro-ungariche in prima linea si battevano validamente e con successo da quattro giorni, stavano continuamente aumentando i segni di disgregazione soprattutto nei reparti di retrovia che, meglio informati sugli avvenimenti internanzionali e sulle voci di armistizio, erano vicini al collasso. Anche se il generale Giardino ha scritto nelle sue memorie che in quei giorni egli di fronte alla accanita e valorosa difesa delle truppe austro-ungariche non aveva avvertito i prodromi delle defezione e della sedizione, fin dalla notte del 27 ottobre si erano verificate ribellioni e rifiuti del combattimento di unità di seconda schiera assegnate al fronte del Grappa per contrattaccare: undici reggimenti su cinquantuno non obbedirono88. Al mattino del 28 ottobre la situazione divenne molto precaria sulla linea del Piave, il generale Boroevic considerò la possibilità di evacuare subito il Veneto, mentre quattro divisioni rifiutarono di entrare in azione. In queste condizioni fu impossibile contrattaccare e contenere le teste di ponte nemiche. Due divisioni austro-ungariche, esauste, ripiegarono dal settore di Sernaglia fino alla linea Bigolino-Colbertaldo-Farra di Soligo dove avrebbero dovuto essere rinforzate dalla 34ª Divisione che tuttavia in parte si era già disgregata; alcuni reparti si ammutinarono89.

 Dalle ore 07.00 la manovra ordinata dal generale Caviglia alle Grave di Papadopoli era in pieno svolgimento; attraverso i ponti della 10ª Armata di Salettuol e Palazzon, dalle ore 12.00 attraversarono il Piave le unità del XVIII corpo d'armata del generale Basso. Passarono per prime le brigate Como, Bisagno e Sassari che raggiunsero la riva sinistra e nel pomeriggio avanzavano decisamente verso nord-ovest per intercettare la strada Treviso-Udine90. Le brigate Como e Bisagno occuparono alcuni villaggi e si avvicinarono a Susegana, nei pressi dei ponti della Priula dove era rimasto bloccato l'VIII corpo d'armata91, furono catturati molti prigionieri. Il generale Caviglia in serata poté comunicare al re Vittorio Emanuele III che la manovra laterale del XVIII corpo aveva raggiunto il suo obiettivo, sbloccando la precaria situazione dell'VIII corpo, passato al comando del generale Grazioli dopo la destituzione del generale Asclepio Gandolfo.
Raggiunse decisivi successi anche la 10ª Armata del generale britannico Cavan che, avanzando sulla destra del XVIII corpo d'armata, superò la resistenza del XVI corpo austriaco del generale Kralicek appartenente alla 5ª Armata; i britannici occuparono Tezze di Piave e, in collegamento con la brigata Como, si avvicinarono alla linea del fiume Monticano (Kaiserstellung) dove riferirono che il nemico era ancora numeroso e combattivo. La situazione degli austro-ungarici si aggravò nel pomeriggio: la 5ª Armata era in ritirata verso il fiume Monticano, mentre l'ala sinistra della 6ª Armata, attaccata dal XVIII corpo italiano, dovette a sua volta abbandonare le posizioni. In serata il generale Schönburg-Hartenstein, comandante della 6ª Armata, assegnò al generale von Nöhring tre divisioni di rinforzo per contrattaccare gli italo-britannici, ma gran parte di queste forze di riserva defezionarono e solo otto battaglioni rimasero disponibili; anche la linea del Monticano era in pericolo e il XVI corpo austriaco si stava ritirando in rotta dietro il fiume92.
Durante la giornata più volte il generale Boroevic comunicò al Comando supremo austro-ungarico l'aggravarsi della situazione; egli riteneva che "se il nemico continua a guadagnare terreno" la situazione poteva diventare "oltremodo pericolosa". Il comandante delle difese sul Piave considerava la possibilità di abbandonare il Veneto e chiedeva indicazioni da parte dell'alto comando; egli riteneva importante preservare almeno un parte dell'esercito per mantenere l'ordine in patria e difendere la monarchia asburgica. Nel frattempo gli ammutinamenti si stavano estendendo alle truppe nel Trentino ed anche alla marina austro-ungarica; alle ore 15.45 l'imperatore Carlo ordinò al generale Weber von Webenau a Trento di concludere al più presto l'armistizio accettando qualsiasi condizione esclusa una eventuale richiesta di libero passaggio attraverso i territori dell'Impero da parte delle truppe nemiche per attaccare la Germania da sud. Il generale Arz von Straussenburg avvertì il generale Boroevic della missione affidata al generale Weber, sollecitandolo a "combattere fino alla prossima settimana" per ottenere condizioni più favorevoli di armistizio93.

29 Ottobre
 
 Il generale Giardino diede inizio, secondo le direttive impartite dal Comando Supremo di Abano, ad un nuovo giorno di attacchi nel settore del Grappa; alle ore 09.00, con un tempo in miglioramento, il IX corpo d'armata sferrò l'assalto al monte Asolone e al Col della Berretta con in testa i reparti di arditi del maggiore Giovanni Messe. Vennero raggiunti alcuni successi iniziali ma ancora una volta gli austro-ungarici concentrarono le loro forze e contrattaccarono; entro le ore 11.00 gli italiani erano ritornati sulle posizioni di partenza; gli arditi subirono perdite e il maggiore Messe fu ferito. L'attaccò del VI corpo d'armata non raggiunse alcun risultato, l'artiglieria austriaca intervenne con efficacia e i reparti italiani sul Monte Pertica dovettero anche respingere un assalto nemico. Alle ore 18.00 il Comando Supremo, di fronte alla tenace resistenza, dovette ordinare di nuovo di sospendere gli attacchi il 30 ottobre, in attesa degli sviluppi della situazione sul Piave94.
Soldati italiani in movimento nel settore del fiume Piave.
 In effetti sulla destra della 4ª Armata la 12ª Armata del generale francese Graziani stava facendo buoni progressi e minacciava di aggirare da est le difese del massiccio del Grappa. Le brigate Re e Trapani del I corpo d'armata avanzarono verso la conca di Alano di Piave e il villaggio di Favari, mentre sulla sinistra del Piave, la 23ª Divisione francese occupò Segusino e la 52ª Divisione alpina marciò con successo lungo i ripidi pendii del Monte Cesen; due divisioni austro-ungariche erano state sconfitte e ripiegavano in direzione di Follina95.
La situazione stava evolvendo in modo sempre più favorevole agli italiani soprattutto nel settore del Piave; nella notte la corrente del fiume era diminuita e l'artiglieria austro-ungarica, messa in pericolo dall'avanzata laterale delle colonne del XVIII corpo, aveva molto ridotto la sua attività. In queste condizioni i reparti pontieri poterono attivare due nuovi attraversamenti a Fontana del Buoro e a valle dei ponti della Priula mentre venne potenziato il ponte di Salettuol utilizzato dalle truppe britanniche. L'intera 8ª Armata del generale Caviglia passò quindi sulla riva sinistra del Piave, e il XXII corpo poté iniziare l'avanzata in profondità senza incontrare molta resistenza; vennero occupate Pieve di Soligo, Solighetto e Refrontolo. Anche l'VIII corpo, passato al comando del generale Grazioli, riuscì finalmente ad attraversare il fiume sul ponte costruito a Nervesa; una parte delle truppe, brigate Tevere e Aquila, marciò fino a Santa Maria di Feletto, mentre la brigata Lucca avanzò sulla direttrice Susegana-Manzana-Vittorio Veneto. Sul ponte della Priula attraversò l'intera 2ª Divisione d'assalto che raggiunse e liberò Susegana. Contemporaneamente il XVIII corpo d'armata avanzava rapidamente verso nord; a Ramera e Sarano le brigate della 33ª Divisione furono duramente contrastate da reparti austro-ungarici del XXIV corpo d'armata schierati per proteggere Conegliano ma le brigate Sassari e Bisagno riuscirono gradualmente ad avanzare, mentre le brigate Como e Ravenna dopo aver superato le difese nemiche marciarono verso il fiume Monticano96.
La posizione della 6ª Armata austro-ungarica diveniva sempre più precaria; questa armata era ormai separata dalla 5ª Armata a causa del profondo cuneo inserito dalle forze nemiche a nord del Piave; le unità austriache del XXIV corpo inoltre rischiavano di essere tagliate fuori dall'avanzata del XVIII corpo e dalla contemporanea marcia dei reparti britannici del generale Cavan che erano già a nord del fiume Monticano97. La 10ª Armata anglo-italiana riuscì infatti a superare la resistenza di due divisioni austro-ungariche; alcune formazioni arrivarono al fiume e, sostenute da violenti attacchi di aerei italiani e inglesi che scossero le difese, superarono alle ore 10.00 il Monticano e costituirono una testa di ponte. Alcuni reparti austriaci si disgregarono, e fuggirono in disordine, altri rifiutarono di contrattaccare; una parte delle truppe britanniche alle ore 12.00 occuparono Cimetta mentre altri reparti avanzavano verso nord-ovest e minacciavano le retrovie del XVI corpo austriaco98.
Artiglieria pesante campale italiana da 149 mm in azione.
 La 6ª Armata austriaca rischiava quindi di essere isolata e distrutta; mentre il XXIV corpo si batteva per coprire Conegliano, le truppe incaricate di frenare l'avanzata del XXII corpo d'armata italiano stavano arretrando a loro volta nel crescente disordine; il generale Wurm, comandante della 5ª Armata, avvertì del successo britannico a nord del Monticano. Alle ore 16.30 venne ordinata la ritirata generale della 6ª Armata dietro la Livenza; questa manovra tuttavia provocò la perdita del contatto sul fianco destro con il "Gruppo Belluno" del generale von Goglia che a sua volta nel pomeriggio ordinò i primi ripiegamenti per coprire le Prealpi Bellunesi. Alle ore 23.00 le brigate Sassari e Bisagno occuparono Conegliano, mentre il XXIV corpo austro-ungarico si ritirava verso Sacile. Anche il generale Wurm aveva deciso la ritirata; la 5ª Armata durante la notte iniziò ad evacuare la linea del basso Piave99.
Le truppe italiane quindi rientrarono nelle prime città e villaggi del Veneto occupati per quasi un anno dal nemico e liberarono le popolazioni che avevano duramente sofferto il dominio austro-ungarico. Le devastazioni e i saccheggi operati specialmente dai soldati tedeschi e ungheresi erano state notevoli; i soldati italiani furono accolti con grande sollievo e ricevettero entusiastiche acclamazioni dalla popolazione liberata100.
Il generale Bororevic riteneva ormai la situazione disperata; si moltiplicavano le defezioni e gli ammutinamenti tra i reparti, era impossibile continuare la resistenza. Egli considerava soprattutto importante salvaguardare una parte dell'esercito e organizzare la ritirata fino ai confini dell'impero. Alle ore 12.00 diede indicazioni in questo senso al quartier generale austro-ungarico e alle ore 19.30 il geenrale Arz von Straussenburg ordinò l'evacuazione "in modo ordinato" del Veneto, ma il comando del Gruppo d'armate del Tirolo comunicò che a causa delle condizioni delle truppe questa manovra di ritirata era inattuabile e consigliò un armistizio immediato senza condizioni. Nella mattinata si era avuto il primo contatto tra le due parti in lotta; alle ore 9.20 il capitano Kamillo von Ruggera, incaricato dal generale Weber, aveva superato le linee italiane a Serravalle all'Adige per presentare una missiva della commissione d'armistizio austriaca trasferitasi a Rovereto101.
Ricevuto al comando della 26ª Divisione fanteria italiana, l'ufficiale austriaco consegnò la lettera del generale Weber che chiedeva di aprire le trattative per stabilire le condizioni di armistizio; la lettera venne trasmessa al Comando Supremo italiano che contestò la validità giuridica dei documenti presentati e affermò che non si intendeva intavolare alcuna trattativa che avrebbe potuto interrompere le operazioni belliche; si era invece pronti a ricevere delegati con pieni poteri per comunicare loro le condizioni per la resa concordate dall'alto comando italiano con gli alleati102.

30 ottobre
Inizio della ritirata austro-ungarica
 
I generali Diaz e Badoglio erano ormai consapevoli che l'esercito avversario stava crollando e intendevano sfruttare al massimo la situazione senza concedere tregua al nemico e cercando di trasformare la sua ritirata in rotta irreversibile. Vennero quindi diramati ordini alla 3ª Armata del Duca d'Aosta di passare subito il basso Piave; quattro divisioni di cavalleria vennero attivate e spinte avanti con l'ordine di superare le colonne nemiche in fuga e bloccare i punti di attraversamento del Tagliamento da Pinzano al mare, la cavalleria doveva avanzare soprattutto a nord della ferrovia Conegliano-Codroipo103.
Il generale Giardino venne avvertito al mattino del 30 ottobre di limitarsi momentaneamente ad azioni minori ma di prepararsi ad avanzare risolutamente con la 4ª Armata in caso di sviluppi risolutivi della situazione. Nel corso della giornata quindi nel settore del massiccio del Grappa le truppe italiane non sferrarono altri attacchi, mentre l'aviazione iniziò ad individuare colonne nemiche in marcia nelle retrovie verso nord. In effetti il generale von Goglia, comandante del "Gruppo Belluno" nel pomeriggio comunicò al XXVI e al I corpo d'armata la necessità di abbandonare le posizioni e ripiegare; in seconda linea le unità di rinforzo avevano quasi completamente defezionato104. Dopo una serie di discussioni, alle ore 24.00, appreso dei successi della 12ª Armata italo-francese sul fianco sinistro, il generale von Goglia ordinò finalmente la ritirata e 70.000 soldati austro-ungarici abbandonarono le posizioni tenacemente difese per giorni e iniziarono una difficile ritirata, lasciando sul posto gran parte dell'artiglieria105. Effettivamente la 12ª Armata del generale Graziani stava avanzando verso Feltre per aggirare il massiccio del Grappa; la brigata Taranto liberò Alano di Piave, mentre la brigata Trapani si avvicinò a Quero; a est del Piave, le truppe francesi avanzarono dopo aver occupato Segusino, mentre i reparti alpini salirono sulle Prealpi Bellunesi, occupando completamente Monte Cesen106.

Liberazione di Vittorio Veneto
 
Nel corso della notte del 29-30 ottobre la 6ª Armata austriaca aveva continuato la sua confusa e difficile ritirata dopo aver rinunciato a contrastare la testa di ponte nemica sul Piave. Il XXIV corpo riuscì ad evitare di essere isolato a sud del Monticano e raggiunse Sacile e Brugnera, mentre il II corpo attraversò in disordine Vittorio Veneto; la città venne saccheggiata nella notte dalle colonne in rotta e nella mattinata gli austro-ungarici si ritirarono verso Polcenigo per cercare riparo dietro la Livenza. Il comando della 6ª Armata sperava di poter trattenere temporaneamente il nemico su quel fiume, prima di rafforzare le difese sulla linea Aviano-Vivaro-Arzene. La situazione delle truppe austro-ungariche era disastrosa e anche la volontà combattiva era compromessa; una serie di attacchi aerei italiani aumentarono il disordine e la demoralizzazione tra i reparti107.

 In queste condizioni il generale Caviglia poté accelerare l'avanzata delle sue truppe, la cavalleria venne portata avanti per l'inseguimento e l'8ª Armata avanzò su tutto il fronte. Alle ore 15.00 reparti del XX reparto d'assalto, preceduti fin dal mattino da unità di ciclisti e dalla cavalleria dei lancieri "Firenze", entrarono a Vittorio Veneto accolti festosamente dalla popolazione; giunsero anche reparti di fanteria dell'VIII e del XXII corpo d'armata e vennero catturati i soldati austriaci superstiti108. Dopo la liberazione di Vittorio Veneto, l'8ª Armata proseguì l'avanzata fino alla sera verso la stretta di Serravalle pressando da vicino le truppe austriache in rotta; altre reparti raggiunsero Follina, Tovena e Revine; le brigate Bisagno e Sassari marciarono verso il Cansiglio e le sorgenti della Livenza, le brigate Como e Ravenna avanzarono su Cordignano e Villa di Villa109. Nel settore della 10ª Armata del generale Cavan le truppe britanniche avanzarono verso Sacile dove incontrarono ancora dura resistenza; venne raggiunta la Livenza a Francenigo, mentre anche la 37ª Divisione italiana marciò verso il fiume e occupò Fontanellette; infine la 23ª Divisione italiana deviò la sua avanzata verso destra per favorire il passaggio del basso Piave della 3ª Armata, liberò Oderzo e si avvicinò a Ponte di Piave110.
L'attraversamento del Piave da parte dell'armata del Duca d'Aosta iniziò alle ore 06.00, preceduto da due ore di fuoco d'artiglieria, e si sviluppò piuttosto lentamente; le teste di ponte furono consolidate solo nel pomeriggio dopo lunghi combattimenti sul terreno paludoso, grazie anche alla minaccia da nord delle truppe italiane della 10ª Armata. I ponti furono costruiti a Salgaredo, dove attraversò dopo alcune difficoltà la brigata Ionio, a Romanziol, dove passò la brigata Ferrara; a San Donà di Piave dove le brigate Cosenza e Sesia attraversarono su passerelle a valle del ponte ferroviario e liberarono la cittadina. La brigata Granatieri di Sardegna e il reggimento della Marina attraversarono il fiume a Chiesanuova e a Revedoli. Nel pomeriggio gli austriaci iniziarono la ritirata resa difficile dal terreno fangoso ma favorita in parte dalla scarsa pressione degli italiani che avanzarono con prudenza verso la Livenza111.
La situazione politico-militare dell'esercito e dell'Impero austro-ungarico stava divenendo sempre più confusa; nella mattinata del 30 ottobre si riunirono a Udine i generali Boroevic, Schönburg-Hartenstein e Wurm; si discussero le proposte provenienti dal Comando Supremo di Baden di cessazione del fuoco e di trattative separate di ogni singola armata. Queste ipotesi furono criticate e il generale Boroevic decise di rinviare la capitolazione, egli era ancora convinto che la disgregazione dell'Impero fosse evitabile e che l'esercito sarebbe stato essenziale per evitare sviluppi rivoluzionari. Venne anche respinta la proposta del generale Zeidler Daublebsky, della cancelleria dell'imperatore, di consultare le truppe sulle decisioni da prendere. I soldati, stanchi e demoralizzati, si ritiravano disordinatamente mentre correvano voci di rivolte e scontri a Praga, Zagabria, Vienna e Fiume112.
Nel frattempo proseguiva con difficoltà il tentivo della commissione d'armistizio austriaca di entrare in trattative; dopo il tentativo del capitano von Ruggera, alle ore 17.00 il generale Weber in persona, accompagnato dal colonnello Karl Schneller e dal tenente colonnello Viktor von Seiller, attraversò le linee per presentare la documentazione richiesta dagli italiani e iniziare colloqui diretti. Alle ore 20.00, il Comando Supremo italiano dispose che i tre ufficiali austriaci fossero per il momento trattenuti ad Avio e che i documenti fossero inoltrati al quartier generale di Abano113.

31 ottobre

 I segni del crollo dell'esercito austro-ungarico erano ormai sempre più evidenti; le notizie di trattative, di rivolte e di radicali cambiamenti politici nelle regioni dell'Impero stavano raggiungendo le truppe accentuando la confusione, la delusione, la volontà di cessare i combattimenti. Mentre alcuni reparti continuarono a battersi con valore, la massa dell'esercito in ritirata incominciò a frantumarsi in gruppi separati interessati solo a raggiungere le rispettive regioni nazionali; si verificarono saccheggi, rifiuti di obbedienza, conflitti di comando, contrasti tra soldati di etnia diversa, assalti a treni e mezzi di trasporto per accelerare la fuga114.

 Il generale Diaz e il capo di stato maggiore Badoglio diramarono la prima direttiva generale per l'inseguimento finale del nemico indicando obiettivi dettagliati alle varie armate che avrebbero dovuto avanzare su tutto il fronte per guadagnare più terreno possibile nel poco tempo rimasto prima della conclusione della guerra. Nel documento n. 14619 il Comando Supremo, dopo aver sottolineato che "il nemico accenna a ripiegare su tutto il fronte", indicava le direttrici previste per bloccare la ritirata e per occupare il saliente del Trentino con la 7ª, 1ª e 4ª Armata, mentre nella pianura veneta la 8ª, 10ª e 3ª Armata avrebbero sfruttato la vittoria in direzione del Tagliamento e dell'Isonzo115.
Le armate austro-ungariche del "Gruppo Belluno" stavano ripiegando e le truppe della 6ª Armata italiana si misero in movimento e raggiunsero Cismon prima delle divisioni della 4ª Armata che il generale Giardino aveva fatto avanzare in massa dalle ore 08.45. I soldati dela 4ª Armata poterono finalmente conquistare le posizioni accanitamente difese per giorni dal nemico; il VI e il IX corpo occuparono il Col della Berretta e il Monte Prassolan, mentre il XXX corpo del generale Montanari raggiunse le altre quote più importanti. Il generale Giardino aveva prescritto al XXX corpo di anticipare l'avanzata dei francesi del generale Graziani sulla direttrice Feltre-Fonzaso e gli alpini della 80ª Divisione marciarono su Feltre che venne raggiunta e liberata alle ore 17.30 precedendo le truppe francesi che arrivarono in forze solo il 2 novembre116. La 12ª Armata italo-francese la sera del 31 ottobre raggiunse con la 23ª Divisione francese il villaggio di Caorera, mentre la 52ª Divisione italiana occupò Busche e Lentiai.
Il generale Viktor Weber von Webenau, capo della comissione d'armistizio austro-ungarica.
 La ritirata del "Gruppo Belluno" era minacciata anche dall'avanzata dell'ala sinistra dell'8ª Armata del generale Caviglia in direzione della alta valle Piave; nonostante l'aspra difesa da parte austriaca di Fadalto, gli italiani aggirarono la posizone attraverso il Cansiglio e alcuni reparti penetrarono in Valle Belluna. Le divisioni di cavalleria lanciate in avanti dal generale Caviglia poterono iniziare l'inseguimento delle truppe rimaste della 6ª Armata austro-ungarica che alle ore 15.45 ricevettero l'ordine di ripiegare dietro il Tagliamento; i cavalieri della 1ª e 3ª Divisione superarono la Livenza a Vigonovo e Fiaschetti e liberarono Polcenigo. Il corso della Livenza venne raggiunto in forze anche dalla 10ª Armata anglo-italiana del generale Cavan e furono le truppe britanniche del 14º corpo che conquistarono dopo duri scontri Sacile. Infine più a sud, mentre anche la 5ª Armata austro-ungarica si ritirava verso il Tagliamento, i reparti di fanteria della 3ª Armata avanzarono verso la Livenza rallentati dal terreno parzialmente allagato; nel pomeriggio la cavalleria dell'armata del Duca d'Aosta raggiunse il fiume a Motta, seguita più a valle dalla 23ª Divisione fanteria117.
Nel frattempo avevano avuto inizio con molta difficoltà i colloqui per la cessazione delle ostilità; alle ore 07.00 il Comando Supremo italiano comunicò al generale Weber che le condizioni d'armistizio sarebbero state comunicate a Villa Giusti, una residenza nei pressi della sede del quartier generale di Abano. Il generale Weber quindi richiamò a Avio gli altri membri della commissione rimasti a Rovereto e alle ore 16.00 tutti i rappresentanti austriaci furono trasferiti su automezzi a Villa Giusti che venne raggiunta alle ore 20.00. Durante la notte il Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando, che si trovava a Parigi, avvertì telegraficamente il generale Diaz che a breve sarebbe stato trasmesso il testo in francese del lungo documento di armistizio concordato dagli Alleati che avrebbe dovuto essere comunicato ai rappresentanti austriaci senza ammettere discussioni sulle sue clausole118.

1 novembre

 Nel settore dell'altopiano dei Sette Comuni il 1 novembre la 6ª Armata del generale Montuori si mise in movimento su tutta la linea incontrando ancora resistenza fino al termine della giornata quando il Gruppo d'armate del Tirolo diede ordine anche alla 10ª e 11ª  Armata austro-ungarica di dare inizio alla ritirata prima sull'altopiano di Folgaria e poi su Trento. Fu soprattutto la 48ª  Divisione britannica del generale Walker che ebbe difficoltà su Monte Rasta e Monte Interrotto, mentre anche la 20ª Divisione italiana fu contrastata nella val d'Assa. Buoni risultati ottenne la 24ª  Divisione francese del generale Odry che conquistò il Monte Ongara, facilitando anche l'avanzata dei reparti italiani delle brigate Murge, Lecce, Bergamo e Ancona che più a est occuparono gran parte delle montagne più importanti tra Asiago e le Melette. Nel frattempo la 4ª Armata del generale Giardino continuava la sua faticosa marcia per aggirare da nord-est l'altopiano; nel pomeriggio le truppe del IX corpo d'armata liberarono Primolano e quindi raggiunsero Grigno dove dovettero battersi aspramente contro le retroguardie nemiche; altre tre divisioni occuparono Arsiè, Fonzaso, Ponte della Serra, mentre la conca di Feltre venne completamente liberata dalle forze del XXX corpo d'armata. Contemporaneamente, provenienti dalla stretta di Quero, si avvicinavano a Feltre da est anche i reparti francesi e italiani della 12ª Armata119.
I soldati italiani sfilano per le vie di Trento il 3 novembre 1918.
 Dal 1 novembre le operazioni dell'8ª Armata assunsero il carattere di un inseguimento dell'esercito austro-ungarico in rotta verso i confini dell'impero; il generale Caviglia ha scritto nelle sue memorie che a partire dal quel giorno le sue truppe dovettero affrontare solo scontri sporadici con le retroguardie nemiche e che il suo compito si limitò all'assegnazione delle direttrici di avanzata e alla delimitazione delle zone di marcia assegnate ai vari corpi della sua armata. Durante l'avanzata le avanguardie mobili di ciclisti e autoblindo italiane raggiunsero alcuni brillanti successi; alle ore 12.00 a Ponte nelle Alpi sopresero un gran numero di truppe austro-ungariche disordinate e demoralizzate; vennero catturati molti prigionieri e solo piccoli nuclei riuscirono a fuggire verso Longarone. A San Quirino venne attaccata e sbaragliata dalle unità celeri italiane una divisione ungherese. Le divisioni del XXVII corpo del generale Antonino Di Giorgio parteciparono all'inseguimento e avanzarono oltre la Livenza verso Spilimbergo, mentre le brigate Campania, Mantova e Piemonte, appartenenti al XVIII corpo d'armata, liberarono Mel, Trichiana, Farra, Limana; un reggimento della brigata Porto Maurizio raggiunse e occupò Belluno120.
In serata il comando della 6ª Armata austriaca dovette ordinare, di fronte allo sfacelo delle sue divisioni e all'arrivo delle avanguardie italiane a Meduna di Livenza e Prata di Pordenone, la ritirata verso la Carinzia. Sul fiume Meduna l'aviazione italiana effettuò numerose missioni di attacco a bassa quota, infliggendo gravi perdite e pesanti danni alle colonne in fuga e accentuando la disorganizzazione e la demoralizzazione degli austro-ungarici. Le altre armate italiane avevano ormai raggiunto in forze la Livenza; i britannici e la brigata Caserta, appartenenti alla 10ª Armata, superarono il fiume e raggiunsero Maron e Villanova, mentre, nel settore della 3ª Armata del Duca d'Aosta, la brigata Cosenza attraversò a San Stino121.
A Villa Giusti il generale Weber si incontrò alle ore 10.00 con il generale Badoglio, il colonnello Pietro Gazzera e l'interprete, capitano Trenner. Nelle notte era arrivato il testo in italiano delle condizioni di armistizio concordate con gli alleati che tuttavia presentava lacune e errori. Nell'attesa dell'arrivo del documento ufficiale in francese, il testo venne presentato dal generale Badoglio ai rappresentanti austriaci. Le clausole prevedevano l'evacuazione dei territori italiani ancora occupati, la consegna dei territori previsti dal patto di Londra, la restituzione dei prigionieri, la requisizioni delle armi e il libero passaggio attraverso il territorio austriaco per continuare la guerra contro la Germania. Di fronte al freddo e distaccato generale Badoglio, il generale Weber si mostrò sorpreso per queste clausole, chiese chiarimenti e inviò due ufficiali oltre le linee per comunicare le condizioni a Vienna. Il generale Weber, che pur aveva espresso l'esigenza di interrompere al più presto i combattimenti, consigliò a Vienna di respingere le condizioni d'armistizio, ritenute troppo umilianti122.

2 novembre

 Mentre la situazione dell'esercito austro-ungarico diveniva sempre più drammatica e a Villa Giusti proseguivano con difficoltà i colloqui, il Comando Supremo italiano mise in movimento anche le truppe della 1ª Armata del generale Pecori Giraldi. Fin dalla notte il X corpo d'armata aveva attaccato in Val d'Astico incontrando poca resistenza; di conseguenza il generale Pecori Giraldi decise di accelerare le operazioni e le sue truppe avanzarono subito nell'altipiano di Tonezza e nell'altopiano di Luserna. Nel primo pomeriggio venne iniziata la marcia della 32ª Divisione in Val Lagarina; un reparto di arditi, al comando del maggiore Gastone Gambara e tre battaglioni alpini avanzarono nella valle e alle ore 21.00 occuparono Rovereto123124.
Colonne di truppe austro-ungariche in rotta durante i giorni finali della guerra.
 L'avanzata dell'esercito italiano era ormai generale; sulla riva destra dell'Adige le brigate Piceno e Liguria marciarono in Vallarsa, sul Pasubio, in Val Posina; le truppe della 6ª Armata completarono l'occupazione dell'altopiano dei Sette Comuni; la 4ª Armata progredì rapidamente sulle due sponde del Brenta e le brigate Forlì e Siena raggiunsero Grigno e Tezze, mentre altri reparti operavano in collaborazione con le truppe della 12ª Armata in Val Cismon e nella stretta di Ponte della Serra125. Le armate in pianura continuarono l'inseguimento incontrando ancora sporadica resistenza sulla strada di Longarone e di Spilimbergo, mentre la cavalleria della 8ª Armata raggiunse le rive del Tagliamento senza varcarlo. Anche la 10ª Armata arrivò al fiume con reparti della brigata Caserta e del 332º reggimento statunitense, mentre più a sud la 3ª Armata si spinse fino a Villotta e Portogruaro126.
Il generale Guglielmo Pecori Giraldi, comandante della 1ª Armata italiana.
 Il Gruppo d'armate del Tirolo aveva cercato di ripiegare ordinatamente fino ad una linea a sud di Trento, ma, mentre alcuni reparti mantennero l'ordine e la disciplina, si verificarono crescenti ammutinamenti e un'intera divisione ungherese rifiutò di entrare in combattimento. La situazione dell'esercito austro-ungarico divenne ancor più confusa dopo la ricezione di un comunicato del nuovo ministro della guerra ungherese, Bèla Linder, che ordinava alle truppe magiare di cessare i combattimenti e deporre le armi. Il generale Krobatin, comandante del gruppo del Tirolo, protestò con il generale Arz von Straussenburg e la disposizione venne bloccata, ma tra le truppe crebbe il disordine. Nella valle dell'Adige la disgregazione e il collasso dei reparti divenne catastrofico; si abbandonarono materiali e automezzi, i treni diretti a nord furono presi d'assalto dai soldati, il panico e l'indisciplina si diffusero. Il "Gruppo Belluno" riuscì ad organizzare meglio la ritirata nonostante la mancanza di rifornimenti e vettovaglie, mentre il generale Boroevic respinse bruscamente le disposizioni del ministro Linder e ordinò il trasferimento dei posti di comando della 5ª e 6ª Armata a Gorizia e Villach; il grosso della 6ª Armata, passata al comando del generale Hafdy, già nella notte raggiunse il Tagliamento127.
Mentre il generale Weber era a Villa Giusti, il colonnello Schneller, ritornato a Trento, si mise in contatto alle ore 10.15 con il Comando Supremo di Baden dove illustrò la disastrosa situazione al generale Johann Freiherr von Waldstätten, sollecitando la rapida e completa accettazione delle condizioni stabilite dagli italiani. Il generale assicurò che la decisione sarebbe stata presa al più presto; alle ore 21.30 il generale von Waldstätten comunicò al colonnello Schneller che la risposta definitiva dell'autorità suprema sarebbe giunta nella notte128. Nel frattempo alle ore 13.30 era finalmente arrivato ad Abano il testo ufficiale in francese delle clausole dell'armistizio, di cui copia venne consegnata al generale Weber alle ore 16.45. Alle ore 21.00 iniziò a Villa Giusti la nuova riunione tra la commissione austriaca del generale Weber e quella italiana, diretta dal generale Badoglio e formata dal generale Scipione Scipioni e dai colonnelli Pietro Gazzera, Tullio Marchetti, Alberto Pariani e Pietro Maravigna. Le discussioni continuarono fino alle ore 03.00 di notte, ci furono soprattutto forti contrasti per la volontà italiana di far trascorrere 24 ore tra il momento della firma dell'armistizio e la cessazione effettiva sul campo delle operazioni militari129.
Nel corso della giornata l'imperatore Carlo fece gli ultimi tentativi per evitare la catastrofe definitiva della monarchia; dopo essere stato sollecitato dal generale Arz von Straussenburg a concludere subito l'armistizio, egli prima indisse una riunione a Schönbrunn con i suoi consiglieri militari e politici più fedeli, quindi cercò di coinvolgere nelle responsabilità delle decisioni i nuovi rappresentanti politici democratici dell'Austria. Alla ore 21.15 iniziò un Consiglio della Corona e finalmente l'imperatore, invitato ad accettare e allarmato dalle notizie di disgregazione totale dell'esercito, approvò alle ore 23.30 un documento di accettazione delle clausole di armistizio da inviare al generale Weber130. A mezzanotte il generale Arz von Straussenburg comunicò telefonicamente al generale von Waldstätten a Baden che le condizioni del nemico erano state accettate e che "tutte le operazioni devono essere sospese"131.

Ultimi combattimenti e armistizio di Villa Giusti

 Le ultime ore della battaglia e della guerra sul fronte italiano furono molto confuse: alle ore 01.20 del 3 novembre il colonnello Schneller ricevette la comunicazione dal Comando Supremo di Baden riguardo l'accettazione dell'armistizio con l'ordine di recarsi a Villa Giusti; contemporaneamente il quartier generale austro-ungarico diramò di propria iniziativa alle armate alle ore 01.30 e di nuovo alle 03.30 l'ordine di cessare immediatamente i combattimenti e deporre le armi132. Le truppe sul campo accolsero con sollievo questi ordini e quindi ritennero finita la guerra; si crearono inevitabilmente equivoci e recriminazioni con il nemico che al contrario continuava le operazioni di guerra. Alle ore 15.00 si tenne a Villa Giusti la riunione finale; la delegazione austriaca guidata dal generale Weber comunicò di accettare l'armistizio e riferì anche che l'esercito aveva ricevuto ordine nella notte di arrestare i combattimenti e deporre le armi. Il generale Badoglio rifiutò di accogliere queste disposizioni del nemico; come stabilito in precedenza, le operazioni sarebbero terminate solo alle ore 15.00 del 4 novembre, 24 ore dopo la conclusione dell'armistizio. Di fronte alle proteste dei delegati austro-ungarici, il generale italiano mostrò grande nervosismo e minacciò di rompere le trattative; infine alle ore 18.20 del 3 novembre venne firmato il documento di armistizio che confermava che i combattimenti sarebbero ufficialmente cessati alle ore 15.00 del 4 novembre133.
 Nel frattempo sul campo di battaglia le truppe austro-ungariche, completamente esauste, confuse dall'ordine della notte del 3 novembre di cessare i combattimenti e quindi convinte della fine della guerra, praticamente non opposero più resistenza; gruppi di soldati fuggirono nel panico e nella demoralizzazione, molti altri si arresero, il caos divenne generale, mentre alcuni comandanti, ritenendo finita la guerra, protestarono per le azioni aggressive italiane. L'alto comando italiano diede precise disposizioni alle armate: la guerra sarebbe continuata fino alle ore 15.00 del 4 novembre e quindi le truppe dovevano avanzare senza sosta per raggiungere nelle poche ore di guerra rimaste il massimo degli obiettivi e catturare il maggior numero di prigionieri, di armi e materiali del nemico134.
La 7ª Armata del generale Tassoni aveva dato inizio dal giorno precedente alla sua campagna di alta montagna: il III gruppo alpini superò il Passo dello Stelvio e discese su Trafoi, mentre altri reparti alpini valicavano il Passo di Gavia e il Passo del Tonale e raggiungevano Peio e Fucine; dall'Adamello le truppe italiane marciarono su Pinzolo; obiettivi finali di queste operazioni erano Merano e Bolzano. Lungo la valle del Sarca, la 4ª Divisione raggiunse Tione e proseguì verso Trento; senza incontrare molta resistenza, la brigata Pavia spinse le sue avanguardie fino ad Arco, a monte di Riva del Garda135. Nel pomeriggio del 3 novembre le truppe della 1ª Armata raggiunsero Trento; i primi reparti ad entrare nella città furono alle ore 15.15 i cavalleggeri del reggimento cavalleria "Alessandria", gli arditi del XXIV reparto d'assalto, gli alpini del IV gruppo; più tardi arrivarono anche le truppe della brigata Pistoia. L'avanzata finale non aveva incontrato opposizione; la 10ª Armata austriaca era in rotta, mentre il generale Martini von Malastòw, comandante di un corpo d'armata dell'11ª Armata austriaca, cercò inutilmente di intavolare trattative; i soldati italiani ricevettero un'accoglienza entusiasta da parte della popolazione136.
Alle ore 22.00 arrivò a Trento un reparto del reggimento cavalleria "Padova" della 4ª Armata del generale Giardino; altri reparti del VI corpo raggiunsero entro le 14 del 4 novembre Canal San Bovo e Fiera di Primiero; alle ore 15.00 il generale Pecori Giraldi, comandante della 1ª Armata, entrò a Trento. Anche la 6ª Armata del generale Montuori nel frattempo stava avanzando senza ostacoli; furono i britannici della 48ª Divisione che raggiunsero per primi Levico dopo aver catturato molti prigionieri nell'altopiano di Vèzzena; i reparti italiani del XX corpo risalirono invece la Val Sugana lungo la riva destra del Brenta137. Le altre armate italiane proseguirono il 3 novembre l'avanzata ostacolata soprattutto dalle difficoltà logistiche lungo le insufficienti strade disponibili; l'8ª Armata del generale Caviglia marciò lungo le valli del bellunese e i reparti ciclisti raggiunsero Longarone e Pieve di Cadore; il XVIII corpo era nel frattempo arrivato al Tagliamento, mentre le unità di cavalleria avanzarono fino a Udine. Sul fiume Tagliamento giunsero alla fine della giornata anche le truppe della 10ª e della 3ª Armata138.

Le truppe italiane sbarcano a Trieste il 3 novembre 1918.
 
Fin dal 30 ottobre era insorta la città di Trieste, la popolazione aveva proclamato il suo legame con l'Italia ed era stato costituito un comitato di salute pubblica che aveva dichiarato "la decadenza dell'Austria dal possesso delle terre italiane adriatiche". Alle ore 19.30 l'Impero austro-ungarico aveva riconosciuto le decisioni del comitato e il giorno seguente i rappresentanti asburgici e i 3.000 soldati di guarnigione avevano abbandonato la città. Le truppe italiane che giunsero in città il 3 novembre non incontrarono quindi alcuna resistenza nemica; al comando del generale Carlo Petitti di Roreto, i reparti della brigata Arezzo e della II brigata bersaglieri, trasportati su navi scortate da sette cacciatorpedinieri, sbarcarono alle ore 16.20 dopo l'attracco al molo San Carlo accolte festosamente dalla popolazione italiana139.
Il 4 novembre, ultimo giorno della battaglia e della guerra, fu caratterizzato dalla definitiva disgregazione dell'armate austro-ungariche: mentre due corpi d'armata si erano arresi a Trento, altri tre corpi dell'11ª Armata in ritirata non opposero resistenza alle colonne italiane e furono in gran parte catturati; nel Tirolo occidentale alpini e cavalleria italiana raggiunsero Cles e Dimaro e intercettarono la ritirata del nemico; il comando del Gruppo d'armate del Tirolo comunicò che tra le truppe vi era "completa anarchia e mancanza di viveri"; anche gran parte della 10ª Armata austriaca cadde prigioniera140. Le truppe del Gruppo Belluno invece conservarono in maggioranza la disciplina e la coesione e riuscirono a ripiegare verso Cortina d'Ampezzo, Corvara e Arabba, disordini e saccheggi di soldati ammutinati si verificarono a Brunico e San Candido141. Il corpo di cavalleria italiano al comando di Vittorio Emanuele di Savoia-Aosta sfruttò la situazione e spinse avanti le sue divisioni: la 1ª Divisione raggiunse Tolmezzo e bloccò la ritirata di forti unità austriache della 6ª Armata; la 3ª Divisione raggiunse successivamente Udine, Cividale e Robic nella valle del Natisone; la 4ª Divisione arrivò fino a Cormons; infine la 2ª Divisione cavalleria giunse a Palmanova e San Giorgio di Nogaro. Dopo aver catturato un'intera divisione nemica, i cavalleggeri arrivarono ad Aquileia142. Dietro queste avanguardie celeri marciavano le divisioni di fanteria delle armate italiane che continuarono le operazioni fino alla fine, occupando più terreno possibile e catturando altri prigionieri prima dell'entrata in vigore dell'armistizio e della conclusione ufficiale della guerra alle ore 15.00 del 4 novembre.

Bilancio e conseguenze
 
Durante i dieci giorni della battaglia finale di Vittorio Veneto l'esercito italiano subì la perdita di 37.461 uomini tra morti, feriti e dispersi, altre fonti riportano la cifra di 36.498 perdite143; la 4ª Armata del generale Giardino, impegnata per giorni in costosi e cruenti attacchi frontali sul Grappa con pochi risultati, ebbe le perdite nettamente più alte, con oltre 25.000 uomini, tra cui 5.000 morti. Le altre armate, impegnate soprattutto, dopo il passaggio del Piave, nell'inseguimento del nemico in rotta, subirono perdite molto più limitate: 4.898 uomini la 10ª Armata del generale britannico Cavan, 4.416 l'8ª Armata del generale Caviglia, 3.498 la 12ª Armata del generale Graziani144.
Artiglierie e mezzi militari austro-ungarici catturati dall'esercito italiano nella battaglia di Vittorio Veneto.
 L'esercito austro-ungarico, in conseguenza anche della disgregazione delle strutture politico-militari dell'impero, uscì distrutto dalla battaglia, perdendo circa 30.000 morti e feriti ma lasciando in mano italiana un numero elevatissimo di prigionieri saliti da 50.000 soldati la sera del 30 ottobre a 428.000 al termine delle operazioni, tra cui 24 generali145. Furono catturate anche 4.000 mitragliatrici e 5.600 cannoni e bombarde146. Altre fonti riportano cifre delle perdite notevolmente più elevate (90.000 morti e feriti)147 e riferiscono di oltre 6.800 pezzi d'artiglieria catturati148. Il maggior numero di prigionieri fu preso nel settore di montagna: la 6ª Armata catturò 116.000 prigionieri, la 1ª Armata 100.000, la 7ª Armata 75.000; le armate austriache impegnate in pianura riuscirono invece in parte a sfuggire: l'8ª Armata catturò 19.500 prigionieri, la 3ª Armata 18.000, la 10ª Armata 35.000149.
Il Bollettino della Vittoria, diramato dal generale Diaz il 4 novembre descrisse in termini trionfalistici lo svolgimento della battaglia ed esaltò con alcune esagerazioni e con accenti enfatici i risultati dei combattimenti, traendo un sintetico bilancio finale della guerra. Alcuni autori peraltro hanno sminuito il ruolo e la capacità del generale Diaz che avrebbe mostrato durante la battaglia limitate qualità di comando150. Piero Pieri ha assegnato il merito principale della preparazione e della conduzione della battaglia di Vittorio Veneto al generale Badoglio, sottocapo di Stato maggiore generale, considerato il principale direttore delle operazioni e il responsabile della condotta dell'ultima campagna151.
Sull'importanza storica della battaglia di Vittorio Veneto e sulla sua influenza sull'esito della Grande Guerra le valutazioni sono variate ampiamente nel corso del tempo; mentre nella fase trionfale dopo la battaglia e nel periodo del Fascismo, anche su impulso della propaganda di Benito Mussolini, in Italia il valore dell'ultima battaglia fu esaltato fino a parlare di vittoria principalmente italiana della guerra mondiale, all'estero le rivendicazioni dell'Italia vennero subito sminuite. In Francia e Gran Bretagna si ridicolizzò la parte italiana e si enfatizzò il presunto ruolo decisivo delle truppe francesi e soprattutto britanniche nella battaglia di Vittorio Veneto152. La storiografia anglosassone ignora quasi completamente l'ultima campagna in Italia e le assegna solo un ruolo del tutto minore sull'esito finale della guerra; Alan J.P. Taylor, Martin Gilbert e Basil Liddell Hart le dedicano poche righe, citando soprattutto le operazioni della 10ª Armata del generale britannico Cavan153154155. Tra gli autori italiani Indro Montanelli ha scritto che Vittorio Veneto non fu una vera battaglia vinta ma "una ritirata che abbiamo disordinato e confuso", mentre Giuseppe Prezzolini ha evidenziato che l'esercito austriaco a novembre cadde "per ragioni morali" e parla di "battaglia ideale" in cui "è mancato il nemico"156. Giulio Primicerj invece ha scritto che la battaglia di Vittorio Veneto, pur non potendo essere considerata "una delle classiche battaglie di annientamento", non fu solo "una ritirata che gli italiani contribuirono a disordinare e confondere"157.
Nelle sue memorie il generale Erich Ludendorff ha rimarcato la notevole importanza storica della battaglia; a suo dire la catastrofe austro-ungarica ebbe una grande influenza sull'ultima parte del conflitto; egli afferma che senza il crollo di Vienna, la Germania avrebbe potuto continuare la guerra almeno fino alla primavera 1919 ed avrebbe potuto evitare un resa umiliante158. Effettivamente le notizie della catastrofe dell'Impero asburgico accelerarono gli sviluppi della situazione nel Reich ed entro pochi giorni i tedeschi dovettero richiedere la cessazione delle ostilità e firmare l'Armistizio di Compiègne. In conclusione la battaglia di Vittorio Veneto, se certamente non decise l'esito della grande guerra che nell'ottobre 1918 in pratica era già vinta dagli alleati, ne abbreviò probabilmente il corso finale e favori una conclusione immediata con la resa della Germania159.

Bibliografia
    •    AA. VV., Storia d'Italia, Novara, De Agostini, 1979, Vol. 8. (ISBN non esistente)
    •    Pier Paolo Cervone, Vittorio Veneto, l'ultima battaglia, Milano, Mursia, 1993. ISBN 978-88-425-2787-8
    •    Martin Gilbert, La grande storia della Prima guerra mondiale, Milano, Mondadori (edizione per "il Giornale"), 1998. (ISBN non esistente)
    •    Luigi Gratton, Armando Diaz, Foggia, Bastogi, 2001. ISBN 88-8185-296-9
    •    Basil H. Liddell Hart, La Prima guerra mondiale, Milano, BUR RIzzoli, 1999. ISBN 88-17-25826-1
    •    Indro Montanelli; Mario Cervi, Due secoli di guerre, Novara, Editoriale Nuova, 1981, VII. (ISBN non esistente)
    •    Gianni Pieropan, Storia della Grande Guerra sul fronte italiano. 1914-1918, Milano, Mursia, 2009. ISBN 88-425-2830-7
    •    Piero Pieri; Giorgio Rochat, Pietro Badoglio, Milano, Mondadori, 2002. ISBN 88-04-50520-6
    •    Giulio Primicerj, 1918 cronaca di una disfatta, Milano, Mursia, 1988. (ISBN non esistente)


Armistizio di Compiègne

Data
11 novembre 1918
Luogo
Compiègne, in Piccardia

 L'armistizio di Compiègne (in francese Armistice de Rethondes) - indica l'armistizio sottoscritto l'11 novembre 1918 tra l'Impero Germanico e l'Intesa in un vagone ferroviario nei boschi vicino a Compiègne in Piccardia. I firmatari di questo armistizio vennero chiamati "traditori di novembre", in quanto hanno firmato una resa non necessaria. Hitler otterrà una vendetta nei confronti del revanscismo francese quando, il 22 giugno 1940, avviene la firma dell'armistizio con la Francia, nello stesso vagone.
I presupposti politici
Il fallimento delle offensive di primavera aveva reso evidente all'Alto Comando Tedesco che la vittoria sugli alleati non era possibile. Il crollo della Bulgaria e la situazione insostenibile sul fronte occidentale, divenuta ancora più grave con l'arrivo in massa del corpo di spedizione americano, costrinse i vertici militari tedeschi a cercare una soluzione non militare.
Alla fine di settembre ciò che l'Alto Comando temeva maggiormente era il crollo del fronte occidentale, e l'avanzata nemica entro i confini del Reich. Il 29 settembre 1918 l'Alto Comando si rivolse ai politici (che sino ad allora avevano avuto un ruolo marginale) intimando di dare il via a trattative volte ad un armistizio. Si trattò del tentativo - dopo due anni di dittatura militare di fatto - di addossare ai civili la responsabilità della sconfitta.

Svolgimento delle trattative

Si giunse a stabilire una data per un incontro solamente dopo trattative durate settimane ed uno scambio di note diplomatiche con il Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson. Dopo un'attesa durata più di un mese, l'8 novembre, una delegazione di civili tedeschi, guidati dal segretario di Stato Matthias Erzberger ottenne il permesso di recarsi in Francia. Nel frattempo la situazione era precipitata: l'Impero Austroungarico si era dissolto, e la stessa Germania era in preda alla rivoluzione: il 9 novembre venne proclamata la repubblica, e il giorno seguente il Kaiser riparò in Olanda.
I francesi decisero che le trattative dovessero svolgersi in un vagone ferroviario, in un bosco nei pressi di Compiègne. I margini di trattativa erano comunque molto ristretti. Ai tedeschi furono concesse 72 ore per decidere, e i colloqui avvennero solo con ufficiali di rango inferiore.
Le condizioni poste dall'Intesa erano estremamente dure e ponevano i tedeschi di fronte al fatto compiuto (comprensibilmente, visto la disperata situazione tedesca). Erzberger, ritenendo il documento troppo duro, volle consultarsi con Berlino, ma poté mettersi in contatto solo con il capo di stato maggiore dell'esercito, Hindenburg, che si trovava presso il suo quartier generale a Spa. L'indicazione di Hindenburg fu di sottoscrivere l'armistizio a qualsiasi condizione, vista la situazione in Germania.

Punti principali dell'armistizio
    •     Cessazione delle ostilità entro sei ore dalla firma dell'armistizio
    •     Ritiro entro 15 giorni delle truppe tedesche da tutti i territori occupati in Francia, Lussemburgo, Belgio, nonché dall'Alsazia-Lorena
    •     Entro i successivi 17 giorni abbandono di tutti i territori sulla riva sinistra del Reno, e consegna delle guarnigioni di Magonza, Coblenza e Colonia alle truppe d'occupazione francesi
    •     Consegna alle forze alleate di 5.000 cannoni, 25.000 mitragliatrici, 3.000 mortai e 1.400 aeroplani
    •     Consegna di tutte le navi da guerra moderne
    •     Consegna a titolo di riparazione di 5.000 locomotive e 150.000 vagoni ferroviari
    •     Annullamento del trattato di Brest-Litovsk
Si trattava di condizioni volte ad impedire che il Reich potesse riprendere le ostilità, e vennero di fatto confermate con il Trattato di Versailles.
Il ritiro delle circa 190 divisioni tedesche terminò il 17 gennaio 1919.


Conseguenze della prima guerra mondiale

Con la cessazione dei combattimenti e l'entrata in vigore dell'armistizio di Compiègne alle ore 11:00 dell'11 novembre 1918, l'Austria-Ungheria era ormai disgregata in due entità differenti, sia Austria che Germania erano senza imperatore, ma i problemi che le nazioni sconfitte avrebbero dovuto affrontare erano enormi: combattere le forze rivoluzionarie di sinistra e il militarismo di estrema destra e rivitalizzare l'economia distrutta. Ma anche per le nazioni vincitrici gli impegni della pace rappresentavano un peso gravoso: mantenere la promessa di una vita migliore fatta ai soldati che tornavano dai campi di battaglia e gestire le controversie territoriali dei nuovi stati sorti dalla caduta degli Imperi centrali non fu impresa affatto semplice, considerando poi le conseguenze che ogni decisione avrebbe potuto avere.1

Fine dei grandi imperi e nuove identità nazionali
 
Dalle rovine dei quattro imperi sconfitti emersero diversi nuovi stati. Il 1º dicembre 1918, tre settimane dopo la fine delle ostilità, a Belgrado venne proclamato il Regno dei Serbi, Croati e Sloveni che racchiudeva molte minoranze etniche tra cui tedeschi, bulgari, italiani e ungheresi. In teoria, secondo il piano di Wilson e secondo quanto previsto dalla neocostituita Società delle Nazioni, ciascuna di queste minoranze sarebbe stata meglio protetta di quanto non lo fosse stata sotto l'impero prima della guerra.2 Il 13 dicembre il presidente Wilson arrivò in Europa; ora la sua visione di una nuova Europa sarebbe stata messa alla prova al tavolo della conferenza di pace di Parigi, ed esaltato o offuscata dai suoi trattati.3

I quattordici punti di Wilson

Nel 1914, mentre l'Europa era vicina alla prima guerra mondiale, il presidente degli Stati Uniti d'America Thomas Woodrow Wilson disse che «l'America apparirà in piena luce quando tutti sapranno che essa pone i diritti umani sopra ogni altro diritto e che la sua bandiera non è solo dell'America ma dell'Umanità».4 In tal modo Wilson recepiva le convinzioni e le idee dei movimenti pacifista, progressista e internazionalista statunitense e, sebbene nei casi pratici non esitò a favorire l'uso della forza, come durante la rivoluzione messicana, lontano dai confini statunitensi e in Europa si presentava come un "paladino della pace, delle soluzioni arbitrali per ogni conflitto, dell'opposizione alla diplomazia segreta, della predicazione per la nascita di una grande organizzazione internazionale capace di dare valore di norme di diritto internazionale ai principi dell'internazionalismo".5 Nel gennaio 1917, quando ormai la guerra era scoppiata da anni, Wilson ribadì il suo pensiero di fronte al Senato, dichiarando che la pace doveva essere "basata sull'uguaglianza delle nazioni, sull'autogoverno dei popoli, sulla libertà dei mari, su una riduzione generalizzata degli armamenti" e senza vincitori, poiché una pace imposta ai vinti avrebbe comportato un'altra guerra.6
Queste parole non si sarebbero mai tradotte in fatti concreti se gli Stati Uniti non fossero già stati la prima potenza economica mondiale e se non fossero entrati in guerra.7 Quando questo avvenne, tra il 6 e il 7 aprile 1917, la proposta wilsoniana dovette poi misurarsi, oltre che con le potenze impegnate nei combattimenti, anche con Lenin e la Rivoluzione d'ottobre, che predicavano sì un nuovo ordine internazionale, ma fondato sull'alleanza dei lavoratori invece che su intese fra governi. L'8 novembre il Congresso dei Soviet licenziò il «decreto per la pace» nel quale chiedeva ai popoli di tutti i paesi in guerra e ai rispettivi governi «l'immediata apertura di negoziati per una pace giusta e duratura», dal carattere essenzialmente eversivo dal momento che si rivolgeva prima di tutto ai popoli, come premessa per la rivoluzione proletaria.8 Esattamente due mesi dopo, l'8 gennaio 1918, Wilson rispose con quattordici punti dove riunì gli obiettivi di guerra statunitensi: fine della diplomazia segreta, libertà di navigazione e libero commercio, limitazione agli armamenti, avendo l'accortezza di far precedere questi quattordici punti con un preambolo in cui era scritto che gli Stati Uniti non entravano in guerra per interessi propri, quanto piuttosto per rendere più sicuro il mondo e le nazioni.9
Wilson pretese dagli Alleati che la resa della Germania fosse basata sui quattordici punti. Stessa cosa per il punto di partenza dei negoziati di pace.10

La conferenza di Parigi e i trattati di pace

La conferenza di pace iniziò a Parigi il 18 gennaio 1919. Erano presenti i delegati di trentadue tra nazioni e gruppi nazionali che chiedevano l'indipendenza dei loro paesi, ma i veri protagonisti dei negoziati per la stesura dei trattati di pace furono i rappresentanti di Francia, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti, rispettivamente Georges Clemenceau, Lloyd George, Vittorio Emanuele Orlando e Woodrow Wilson. Le potenze sconfitte non vennero ammesse ai lavori.11 In primo luogo Wilson ottenne la discussione del patto istitutivo della Società delle Nazioni, un'organizzazione internazionale il cui compito sarebbe stato quello di prevenire o risolvere pacificamente i conflitti avvalendosi di sanzioni economiche o militari. Grazie all'accordo tra Stati Uniti e Regno Unito avvenuto prima della conferenza per facilitare le discussioni, fu inserita nello statuto della Società delle Nazioni la formula del "mandato", cioè dell'amministrazione delle ex colonie tedesche e di parti dell'Impero ottomano, con cui poterono essere soddisfatte le esigenze coloniali francesi, giapponesi, belghe e britanniche (comprese quelle dei Dominion).12 Questa prima contraddizione del "wilsonismo" venne alla luce anche nelle altre questioni più importanti discusse alla conferenza di pace, vale a dire la questione tedesca (confini, disarmo e riparazioni), del lascito dell'Impero austro-ungarico e di quello ottomano, nonché nel riconoscimento giuridico dell'occupazione giapponese di Tsingtao,13 mentre venne applicato per la questione dei confini orientali italiani (Orlando in aprile lasciò per un certo periodo la conferenza per protestare contro Wilson e contro il rifiuto di accettare le richieste italiane in relazione alla città di Fiume e alla Dalmazia).14 In definitiva, prevalsero i rapporti di forza del "vecchio" ordine internazionale, come dimostrarono i vari trattati di pace con le potenze sconfitte.15
Il trattato di Versailles del 28 giugno 1919 regolava, tra le altre cose, le modifiche territoriali imposte alla Germania: restituzione alla Francia dell'Alsazia e della Lorena, apposizione della Saar sotto controllo internazionale fino ad un plebiscito da tenere nel 1935 con cessione della proprietà delle miniere di carbone alla Francia, smilitarizzazione e occupazione della Renania per un arco di tempo variabile dai cinque ai quindici anni, cessione dei distretti di Eupen e Malmedy al Belgio, convocazione di un plebiscito nello Schleswig per deciderne le sorti (la parte settentrionale preferì stare sotto la Danimarca, quella meridionale optò invece per la Germania), assegnazione della Slesia settentrionale alla neonata Polonia, sottrazione della città di Danzica (diventata una "città libera" amministrata dalla Società delle Nazioni) e separazione della Pomerania dalla Prussia orientale mediante la creazione di un "corridoio" da cedere alla Polonia, che così guadagnava uno sbocco sul mar Baltico. Inoltre, la Germania perse tutte le colonie (affidate con la formula del "mandato" alle potenze vincitrici), venne abolita la coscrizione obbligatoria, fu posto un limite di 100.000 unità all'esercito (privato inoltre dell'artiglieria pesante e dell'aeronautica)16 mentre la flotta, che non poteva più possedere sommergibili,17 era già stata internata nel porto scozzese di Scapa Flow dove si era autoaffondata il 21 giugno. La condizione più gravosa fu comunque il pagamento delle riparazioni di guerra, fissate in seguito all'enorme cifra di 132 miliardi di marchi oro, il cui principio era in contrasto con le idee wilsoniane e il cui ammontare complessivo fu la causa di numerose dispute durate fino agli anni trenta, nonché origine del rifiuto del popolo tedesco, anche quello più disponibile a rendersi conto della sconfitta, di accettare un trattato ingiusto ed eccessivamente oneroso, tanto più che la delegazione tedesca non poté partecipare alla sua stesura, ottenendo solamente di poter mettere nero su bianco le sue obiezioni.18 In Germania il trattato di Versailles fu subito osteggiato da una forte spinta revisionistica.19
Il trattato di Saint-Germain-en-Laye del settembre 1919 riguardava l'Impero austro-ungarico, sostituito a novembre dalla Repubblica dell'Austria tedesca, lo stesso mese in cui la Repubblica di Weimar prendeva ufficialmente il posto dell'Impero tedesco. L'Austria perse gran parte dei suoi territori e rimase circoscritta al solo territorio abitato da popolazioni di lingua tedesca, che nel complesso occupavano circa un quarto del vecchio impero. Il Trentino-Alto Adige, Gorizia, Trieste e l'Istria andarono all'Italia,20 la Boemia, la Moravia e la Slovacchia vennero fuse a formare la Cecoslovacchia, la Bucovina passò alla Romania, parte della Carinzia fu divisa fra l'Austria e il nuovo Regno dei Serbi, Croati e Sloveni da un plebiscito, e anche il Burgenland fu spartito con l'Ungheria, divenuta indipendente, sempre dietro ad un plebiscito. L'esercito venne ridotto a 30.000 soldati e un articolo del trattato, rafforzato da un altro articolo del trattato di Versailles che esplicitava la stessa cosa, vietava l'annessione alla Germania (Anschluss).21
Il trattato di pace con la Bulgaria, ovvero il trattato di Neuilly, venne firmato il 27 novembre 1919. Esso prevedeva la perdita della Tracia occidentale, ceduta al Regno di Grecia, con il relativo sbocco sul mar Egeo, la cessione di alcune province minori al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni e la restituzione della Dobrugia Meridionale alla Romania. Dopo la fine della breve Repubblica sovietica ungherese di Béla Kun, sconfitta dai romeni e dai cecoslovacchi,22 le sorti dell'Ungheria vennero stabilite dal trattato del Trianon (4 giugno 1920) che prevedeva la cessione del Banato alla Romania (che ottenne anche parte della Transilvania) e al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (a cui andò anche la Croazia e la Slavonia). Una forte minoranza ungherese rimase nei confini cecoslovacchi, nella Rutenia subcarpatica,23 mentre un altrettanto forte minoranza tedesca abitava nei Sudeti.24

I cambiamenti territoriali avvenuti in Europa dopo la prima guerra mondiale

Uno dei trattati più complessi e severi fu quello di Sèvres firmato il 10 agosto 1920. Con esso l'Impero ottomano perdeva tutti i territori esterni all'Anatolia settentrionale e alla zona di Istanbul: Siria, Palestina, Transgiordania e Iraq vennero affidati a Francia e Gran Bretagna che ne fecero dei "mandati" affermando il loro potere con la forza (guerra franco-siriana);25 Smirne, dal 1917 affidata all'Italia, passava ora per cinque anni sotto l'amministrazione provvisoria della Grecia (in attesa di un plebiscito), che acquistò anche la Tracia e quasi tutte le Isole egee; l'Armenia diventò indipendente e il Kurdistan ottenne un'ampia autonomia; i Dardanelli rimanevano sotto l'autorità nominale del sultano Mehmet VI, ma la navigazione venne posta sotto il controllo di una commissione internazionale, che per garantire la libertà di navigazione aveva sotto controllo anche delle strisce di territorio sia sulla costa europea che su quella asiatica. L'intento della commissione era di chiudere gli stretti ad ogni aiuto destinato ai rivoluzionari russi e aprirli alle forze controrivoluzionarie.26 Ancora, Gran Bretagna, Francia e Italia presero in gestione le finanze imperiali. È da dire comunque che il trattato di Sèvres fu il primo ad essere completamente messo in discussione. Prima ancora che fosse firmato infatti, un gruppo di militari guidato da Mustafa Kemal dichiarò di non voler accettare una sconfitta che non aveva subito, ed iniziò una duplice guerra contro il sultano e gli eserciti occidentali stanziati in Turchia, che rinunciarono a combattere e si ritirarono. Nell'aprile 1920 venne indetta un'assemblea nazionale ad Ankara che fece da preludio, dopo aver sconfitto la Grecia, alla nascita della Repubblica nel 1923, che nelle intenzioni di Kemal doveva essere laica e confinata nella penisola anatolica, dove era dominata dalla popolazione turca.27 Il nuovo Stato venne riconosciuto dalle potenze dell'Intesa il 24 luglio 1923 con il trattato di Losanna, che ridava alla Turchia la piena indipendenza e il controllo delle coste attorno i Dardanelli, dove la navigazione era regolata da una convenzione. Kemal era già uscito dall'isolamento internazionale il 16 marzo 1921 firmando il primo trattato anticoloniale del dopoguerra, con i rivoluzionari russi, che acquistarono parte dell'Armenia istituendovi poi una repubblica socialista, ma nel 1923 la Turchia non aveva più interesse a favorire l'Armata Rossa, preferendo invece normalizzare i rapporti con le potenze occidentali che avrebbero dominato il Mediterraneo orientale.28

Il fallimento della politica di sicurezza
 
Le clausole con la Germania stipulate nella conferenza di Versailles imponevano alla nazione sconfitta l'ammissione della propria "colpevolezza"; ciò ebbe ripercussioni molto negative nella percezione che la popolazione ebbe nei confronti di chi gli aveva imposto il trattato e vi consolidò l'idea che la fine della guerra fosse stata decisa dallo sfacelo e dalla rivoluzione sul fronte interno. I nazionalisti e gli ex capi militari cercarono di addossare la colpa ad altri, e presto i capri espiatori vennero identificati nei politici della Repubblica di Weimar, nei comunisti e nell'"internazionale ebraica", colpevoli sia di aver criticato la causa del nazionalismo tedesco, sia, semplicemente, di non essersi mostrati sostenitori abbastanza entusiasti di quest'ultimo.
Ma non solo gli sconfitti rimasero delusi dalle conclusioni della Conferenza, anche alcuni dei paesi vincitori videro negarsi possedimenti territoriali e alcune clausole istituite con gli Alleati per convincere le altre nazioni ad entrare in guerra a loro fianco. Il Belgio vide negarsi i possedimenti in Africa e l'Italia invece entrò in forte contrasto con Wilson e le altre potenze Alleate che non gli consentirono di applicare quanto il patto di Londra concordava.29

Il problema della sicurezza europea

 La Società delle Nazioni, l'organo con sede a Ginevra che avrebbe dovuto riorganizzare le relazioni internazionali e risolvere i conflitti tra gli stati in modo da evitare la guerra, in realtà poggiava le gambe su uno statuto suggestivo ma astratto, contraddetto dallo spirito punitivo di Versailles e i cui principi non troveranno una concreta volontà politica disposta ad applicarli.30 L'organizzazione, pensata da un presidente statunitense, venne abbandonata prematuramente proprio dagli Stati Uniti per volere del Congresso e del nuovo presidente repubblicano Warren G. Harding, che preferirono portare avanti una politica isolazionista concentrandosi solo nell'area dell'oceano Pacifico e dell'America meridionale.31 L'assenza degli stati sconfitti, degli Stati Uniti e dell'Unione Sovietica ridussero la Società delle Nazioni in uno strumento in mano a Gran Bretagna e Francia.32 Presente in Europa solo economicamente, l'assenza politica degli Stati Uniti causò la mancanza in Europa di un forte garante esterno capace di risolvere le controversie.33
L'insuccesso dei tentativi francesi alla conferenza di Parigi di ingabbiare la Germania in restrizioni tali da impedirle di nuocere alla Francia per un ragionevole lasso di tempo condizionò fortemente la politica francese del dopoguerra. I primi paesi a cui si avvicinò la Francia furono gli stati con interessi antirevisionistici: Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, Romania, Cecoslovacchia (tutti e tre a formare la Piccola Intesa tra il 1920 e il 1921) e Polonia. In realtà, più che portare un contributo effettivo alla sicurezza francese, erano questi paesi che necessitavano dell'aiuto francese per non rimanere isolati e alla mercé di attacchi sia esterni che interni. Quando nel gennaio 1922 il governo francese passò alla destra nazionalistica, il primo ministro Raymond Poincaré decise di usare la forza, e l'11 gennaio 1923 ordinò all'esercito di occupare la Ruhr e le sue risorse minerarie per compensare le riparazioni di guerra che la Germania non era riuscita a pagare. L'azione fu fortemente criticata dalla Gran Bretagna, e Berlino adottò la linea della "resistenza passiva" impedendo ai lavoratori di recarsi nelle fabbriche della Ruhr.34
Presto si giunse ad uno stallo completo che terminò solo con l'arrivo al cancellierato tedesco, in agosto, di Gustav Stresemann. Convinto che la situazione della Germania si sarebbe dovuta normalizzare non grazie a colpi di mano, ma conquistando la fiducia dei paesi vincitori, a settembre Stresemann revocò la resistenza passiva. Un anno dopo Édouard Herriot divenne il nuovo primo ministro francese, e si impegnò, assieme all'omologo britannico, il laburista Ramsay MacDonald, a rafforzare la Società delle Nazioni con il protocollo di Ginevra, che tuttavia venne abbandonato dopo le dimissioni di MacDonald nel novembre 1924 e l'elezione del conservatore Stanley Baldwin. La Società delle Nazioni continuò ad essere priva di effettivo potere. Il varo del piano Dawes avvenuto in quello stesso 1924, che trovò una soluzione alle riparazioni di guerra tedesche e favorì un clima più sereno, permise a Stresemann, nel febbraio 1925, di rendersi disposto a riconoscere il confine renano e a restituire l'Alsazia-Lorena alla Francia, a patto che le truppe di occupazione franco-belghe si fossero ritirate dalla Ruhr, cosa che avvenne entro agosto. Il discorso di Stresemann fu accettato col patto di Locarno del 16 ottobre, firmato tra Germania, Francia, Gran Bretagna, Belgio e Italia che, di fatto, capovolse il trattato di Versailles: da un'imposizione si passò all'accettazione dello stato delle cose.35 La Francia si assicurò quindi la sicurezza dell'area renana e i buoni rapporti con la Germania (almeno finché Stresemann e Aristide Briand rimasero in vita),36 ma non la sicurezza globale in Europa. Il patto di Locarno infatti lasciò aperta la questione dei confini orientali tedeschi, per cui la Francia dovette stipulare un trattato di alleanza e mutua assistenza con la Polonia e la Cecoslovacchia, mentre affidò all'Italia l'indipendenza austriaca, per cui si era parlato di una possibile unione alla Germania (Anschluss) già nel 1919.37
La Rivoluzione d'ottobre riuscì ad attecchire, fuori dalla Russia, solo in Ungheria, dove il regime di Béla Kun resistette fino all'agosto 1919. Negli altri stati europei la rivoluzione proletaria venne scongiurata o dalle risposte riformistiche e parlamentari, o dalle dittature, e per i primi anni venti l'Unione Sovietica era vista solamente come un problema internazionale, concentrato soprattutto sui confini occidentali dell'URSS e dai suoi rapporti con il Giappone e la Cina, ma non come una minaccia per l'Europa, debilitata com'era dagli strascichi del trattato di Brest-Litovsk (sconfessato alla conferenza di Parigi) che l'avevano privata della Finlandia, degli Stati baltici e dei territori in Polonia, tutti Stati tornati indipendenti. L'isolamento sovietico continuò fino al trattato di Rapallo del 1922 siglato con la Germania, a cui seguì un rapido riconoscimento dell'URSS da parte di tutti i paesi occidentali.38
Fra i problemi legati alla sicurezza, il più complesso era quello della Polonia, tornata indipendente inglobando Galizia, Slesia e parti di Pomerania, Bielorussia e Ucraina con tutti i vari gruppi etnici che abitavano queste regioni. La Polonia indipendente era il simbolo del nuovo ordine internazionale europeo, ma i suoi confini erano carichi di potenziali tensioni. Nel 1921 parte della Slesia tornò alla Germania in seguito ad un plebiscito, ma i confini orientali vennero normalizzati solo dopo una guerra contro la Russia, esplosa dopo che il leader polacco Józef Piłsudski aveva stretto dei rapporti di amicizia con il presidente ucraino Simon Petljura. L'Armata Rossa sembrò avere la meglio, giungendo fino quasi a Varsavia, ma gli aiuti francesi elargiti ai polacchi permisero a questi di passare alla controffensiva e di sconfiggere la Russia. La pace di Riga del marzo 1921 diede nuovi territori della Bielorussia alla Polonia, che diventò così una "Grande Polonia", fortemente nazionalista ma geopoliticamente sovradimensionata, che poteva essere un solido spartiacque tra Germania e URSS o la preda di quest'ultimi.39

La prima crisi del colonialismo europeo
 
L'egemonia globale europea subì il più grande colpo in ambito coloniale.40 Dalla fine del XIX secolo l'imperialismo fu oggetto delle critiche del marxismo, mentre Lenin definì il colonialismo come la «fase suprema» del capitalismo, indicando nella lotta per l'indipendenza dei popoli il mezzo per eliminare il sistema economico dominante.41
L'imperialismo europeo di fine XIX secolo era non solo il frutto di fenomeni culturali, ma rispondeva alla precisa necessità di sostenere lo sviluppo dell'industrializzazione, bisognosa di materie prime scarse o costose in Europa ma abbondanti in determinate aree geografiche del mondo, raggiungibili e conquistabili con una potente flotta e sfruttabili con un'adeguata marina mercantile. Dopo non molti anni il contento tra le popolazioni colonizzate gettò i semi della rivolta, già prima della Grande Guerra: agitazioni nazionaliste in Cina, India e Turchia e delle popolazioni bianche sotto il regime coloniale della Gran Bretagna (che nel 1907 concedette ai suoi Dominion un'indipendenza quasi totale, riformando nel 1931 lo statuto del Commonwealth delle nazioni).42
Gli accordi segreti stipulati durante la guerra per decidere il futuro delle colonie tedesche o dei vasti possedimenti dell'Impero ottomano si scontrarono con le idee del presidente statunitense Wilson, che riuscì ad inserire nel patto istitutivo della Società delle Nazioni un articolo, il numero 22, che introduceva la formula dei "mandati" (divisi in tre tipi – A, B, C – ognuno con una diversa misura d'intervento della potenza mandataria) intesi come «una missione sacra di civiltà»;43 inoltre alle comunità del Medio Oriente (mandati di tipo A) venne riconosciuto uno sviluppo tale da permetterne l'indipendenza, raggiungibile con l'aiuto della potenza mandataria che, per autorizzarla, avrebbe dovuto tenere conto prima di tutto dei voti di tali comunità. La Francia si aggiudicò gli attuali Siria e Libano, mentre la Gran Bretagna ottenne la Palestina e l'Iraq. I primi attuarono un forte e profondo colonialismo, che lasciò tracce profonde che rimandarono l'indipendenza praticamente al 1946, mentre i secondi demandarono il governo dei territori alla dinastia hashemita che li aveva appoggiati durante la guerra.44
Anche in Africa settentrionale si fecero sentire i movimenti nazionalisti. La Gran Bretagna fu costretta a rinunciare al protettorato egiziano concedendo piena indipendenza al paese, seppur con molte riserve circa i poteri del sovrano Fu'ad; in Libia le forze italiane inviate per recuperare il controllo della Cirenaica, della Tripolitania e del Fezzan furono duramente impegnate dalle tribù locali, mentre in Algeria (Francia) e Marocco (Spagna) i ribelli di Abd el-Krim posero per la prima volta il problema della convivenza tra popolazione indigena e metropolitana. In India il Congresso Nazionale Indiano (guidato da Gandhi e Nehru) e la Lega musulmana di Ali Jinnah unirono le forze per combattere la potenza dominante, cioè la Gran Bretagna.45

La Grande depressione e il suo impatto internazionale

 Invece di sviluppare le proposte dei paneuropeisti ed esaminare i cambiamenti che gli USA e il Giappone avevano introdotto nel mercato globale e sul sistema coloniale, gli Stati europei si chiusero al proprio interno, ciascuno cercando di risolvere i problemi con provvedimenti economici e azioni politiche diverse. Questa mancanza di coordinazione risultò evidente quando la crisi finanziaria statunitense del 1929 espatriò in Europa.46
Berlino, luglio 1931: dopo aver appreso il fallimento della Darmstädter und Nationalbank una folla corre agli sportelli di una banca per ritirare i propri risparmi
Nell'ottobre di quell'anno la borsa di Wall Street registrò un'enorme caduta del prezzo dei titoli azionari (precedentemente gonfiati all'eccesso dalle speculazioni), che continuò sino a tutto novembre e oltre, risalendo ai livelli precedenti della crisi solo nel 1936. La crisi, oltre a ripercuotersi sul sistema finanziario, toccò anche l'ambito produttivo e le persone occupate nel settore, che innalzarono notevolmente il livello della disoccupazione (ad esempio, negli USA del 1932 i disoccupati erano dodici milioni).47 Dato che dal 1923 la finanza statunitense aveva importanti attività in Europa, aumentate con il piano Dawes per il risanamento della Germania che aprì le porte al capitale statunitense ai mercati europei, specialmente a quello tedesco, la crisi del 1929 contagiò anche il Vecchio Continente. La Germania subì un'impennata inflazionistica e una crisi produttiva per fronteggiare le quali il cancelliere Brüning dovette avviare una politica di restrizioni finanziarie, spingendo però i socialisti all'opposizione e radicalizzando il panorama politico, da cui irruppe il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori di Adolf Hitler. Brüning cercò di alleviare la crisi tentando un'unione doganale con la Prima repubblica austriaca (Angleichung, assimilazione), anch'essa in difficoltà, ma l'operazione venne interpretata come un tentativo di Anschluss, vietato dai trattati di Versailles e Saint-Germain-en-Laye, ed incontrò l'opposizione franco-italiana che bloccò ogni ulteriore sviluppo.48
Il fallimento dell'Angleichung si ripercosse pesantemente sulla situazione economica austriaca, già provata dalla riduzione del vecchio mercato preferenziale austro-ungarico e con una disoccupazione endemica. Nel 1931 la Creditanstalt, la maggiore banca austriaca che controllava anche una serie di banche minori, dovette fornire un bilancio delle sue finanze per ottenere un credito da banche di vari paesi, ma risultò che le passività erano superiori alle attività e venne dichiarato il fallimento. Il credito venne allora concesso dalla Società delle Nazioni, che da agosto cominciò a versare scellini nelle casse austriache ponendo di fatto l'Austria sotto uno stretto controllo italo-francese. Nel frattempo, tutti quelli che ne ebbero la possibilità ritirarono i loro capitali dal paese, generando un panico tale da innalzare la Grande depressione a fenomeno globale.49
Nell'estate 1931 tutto il sistema di pagamento dei debiti interalleati e delle riparazioni di guerra venne sospeso; numerose banche furono costrette a chiudere.50 Il 21 settembre il primo ministro britannico MacDonald, visto il livello pericolosamente basso delle riserve in oro e valuta della Banca d'Inghilterra, decretò l'abbandono del sistema aureo (Gold standard). La sterlina si svalutò e molti possessori di dollari furono spinti a chiederne il cambio in oro, mettendo alla prova la Federal Reserve. Il Regno Unito cercò sollievo con lo statuto di Westminster che riformò il Commonwealth, mentre gli usa avevano adottato già dal 1930, con lo Smoot-Hawley Tariff Act, la strada del protezionismo che, in ogni caso, non riuscì ad isolare completamente il paese dagli effetti internazionali della crisi.51 I gravi problemi generati da questa crisi vennero discussi nel giugno 1933 a Londra da esponenti dei governi britannico, francese e statunitense, ma non venne raggiunto nessun accordo su come superare le difficoltà, volendo preferire ognuno l'interesse nazionale a quello di altri Stati. Nello stesso anno il presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt pronunciò un discorso alla Società delle Nazioni in cui, in pratica, dichiarava la fine dell'interesse statunitense per l'economia europea, in attesa che l'Europa rimettesse ordine al suo interno.

Effetti socio-economici

 La prima guerra mondiale fu condotta in modo totalmente diverso rispetto ai conflitti precedenti e produsse cambiamenti socio-economici di lunga durata.52 Si calcola che complessivamente furono 66 milioni gli uomini arruolati e spediti al fronte, che lasciarono a casa famiglie e imprese con ripercussioni sulla vita della società. La "guerra di massa" stravolse e accelerò lo sviluppo delle comunicazioni e l'industria, introdusse l'uso del mezzo aereo sia come macchina da guerra che come mezzo di trasporto per persone e merci. L'ingente uso di manodopera nelle catene di montaggio avvicinò i lavoratori alle ideologie più estremizzate che favorirono sia il clima rivoluzionario sia il timore delle classi più abbienti di veder intaccati i propri guadagni, che li spinsero verso scelte conservatrici o autoritarie: la guerra foraggiava sia il "socialismo rivoluzionario", visto come speranza di rinnovamento sociale, sia il "nazionalismo estremistico", sinonimo di avanzamento nazionale.53
Le conferenze del disarmo
 Tra gli articoli inseriti nello statuto della Società delle Nazioni ve ne era anche uno, l'articolo 8, che affermava che tutte le nazioni avrebbero dovuto ridurre i loro armamenti, compatibilmente con la sicurezza nazionale, al livello più basso possibile. Di fatto, quindi, il disarmo imposto alla Germania veniva generalizzato.54
Il trattato navale tra USA, Gran Bretagna, Giappone, Italia e Francia scaturito dalla conferenza di Washington si preoccupò di regolare gli armamenti in campo navale. Gran Bretagna e USA acconsentirono ad avere delle flotte di uguali proporzioni così come stabilirono Francia e Italia, superate però dal Giappone che riuscì ad ottenere un tonnellaggio navale maggiore.55 Nel 1927 il presidente statunitense Calvin Coolidge riunì le parti per discutere della riduzione del naviglio militare di stazza intermedia. Sul punto si scontrarono gli interessi italiani e francesi, con il nuovo governo di Mussolini che non volle accettare una parità di armamenti con la Francia che, a sua volta, non era disposta a disarmare ulteriormente la flotta, adducendo come motivazioni la nuova politica balcanica del Duce e la necessità di mantenere operative due flotte (una per l'Atlantico e una per il Mediterraneo). Queste posizioni esclusero i due paesi dall'accordo raggiunto a Londra nel 1930 tra USA, Gran Bretagna e Giappone (aumento del naviglia giapponese, parità angloamericana anche in materia di incrociatori, cacciatorpediniere e sommergibili). La situazione italo-francese si sbloccò nel 1931 con il raggiungimento di un complicato compromesso.56
Quanto al disarmo generale, venne istituita un'apposita commissione che lavorò dal 1926 al 1930, che al termine degli studi convocò una conferenza a Ginevra, da tenersi il 2 febbraio 1932. Il governo francese di Pierre Laval propose la subordinazione degli armamenti alla nascita di un sistema di garanzie collettive facenti capo alla Società delle Nazioni, ma il progetto si infranse contro l'opposizione del ministro degli esteri italiano Dino Grandi, che avrebbe accettato una riduzione degli armamenti a livelli identici per tutte le nazioni solamente se fosse stata ristabilita la "cooperazione e la giustizia internazionale", con riferimento al revisionismo balcanico che, tuttavia, la Francia non era disposta ad appoggiare.57 Alla conferenza prese parola anche il cancelliere tedesco Heinrich Brüning: dal momento che nessuno Stato aveva tenuto fede al disarmo dichiarato nella Carta della Società delle Nazioni, egli chiese la fine dei vincoli di Versailles sugli armamenti tedeschi, fornendo in cambio garanzie unilaterali quali la rinuncia ad avanzare, per un certo numero d'anni, rivendicazioni territoriali. La conferenza tergiversò a lungo, con le potenze occidentali divise, e diede una risposta affermativa quando Hitler era già diventato cancelliere (gennaio 1933). Il Führer non ritirò subito la delegazione tedesca, chiedendo invece a maggio una messa in pratica immediata del principio di parità dei diritti tedeschi in materia di armamenti (Gleichberechtigung). Era una mossa puramente provocatoria, impossibile da accogliere, e Hitler la sfruttò il 14 ottobre per legittimare il ritiro della delegazione e l'uscita della Germania dalla Società delle Nazioni.58

L'influenza spagnola

 La prima guerra mondiale non fu l'origine dell'influenza spagnola, che non è ben chiara, ma la vita a stretto contatto dei soldati al fronte contribuì ad accelerare la sua diffusione e ad accrescerne la mortalità.59 Infettando circa cinquecento milioni di individui, principalmente soggetti adulti in salute, quest'influenza pandemica si diffuse in tutto il mondo provocando, dal gennaio 1918 al dicembre 1920, dai venti ai cinquanta milioni di morti (circa il 3% della popolazione mondiale), diventando uno dei più micidiali disastri naturali della storia umana.6061626364 Alcuni tessuti recuperati dai corpi congelati delle vittime hanno permesso di riprodurre il virus per eseguire degli studi che hanno potuto chiarire il modo di uccidere del virus, vale a dire provocando una tempesta di citochine che generava a sua volta una risposta esagerata del sistema immunitario, più debole nei bambini e nelle persone di età media ma perfettamente funzionante in quelle adulte.65

Bibliografia
    •    Antonella Astorri; Patrizia Salvadori (maggio 1999).   1919: La pace perduta. Storia e Dossier (Firenze: Giunti Editore) (Anno XIV numero 138): pp. 12-19.
    •    John M. Barry, The Great Influenza: The Epic Story of the Greatest Plague in History (in inglese), Viking Penguin, 2004. ISBN 0-670-89473-7
    •    Ennio Di Nolfo, Dagli imperi militari agli imperi tecnologici – La politica internazionale dal XX secolo ad oggi, 5ª edizione, Roma-Bari, Laterza, 2011. ISBN 978-88-420-8495-2
    •    Paul Ewald, Evolution of infectious disease (in inglese), New York, Oxford University Press, 1994. ISBN 019506058X
    •    Martin Gilbert, La grande storia della prima guerra mondiale, 2009, Milano, Arnoldo Mondadori [1994]. ISBN 978-88-04-48470-7
    •    Mario Silvestri, La decadenza dell'Europa occidentale, Milano, BUR, 2002, Vol. I: 1890-1933 – Dalla Belle Époque all'avvento del nazismo. ISBN 88-17-11751-X
    •    George Brown Tindall; David Emory Shi, America: A Narrative History, 7ª edizione (in inglese), W.W Norton & Company, Inc., 2007. ISBN 0393929477