Data
28 luglio 1914 - 11 novembre 1918
Luogo
Europa, Africa, Medio Oriente, isole del Pacifico, Oceano Atlantico
e Indiano
Casus belli
Attentato di Sarajevo
Esito
Vittoria degli stati Alleati
Modifiche territoriali
Crollo degli imperi tedesco, austro-ungarico, ottomano e russo
• Nascita di diversi stati in
Europa e Medio Oriente conseguente alla spartizione
dell'Austria-Ungheria e dell'Impero ottomano
• Spartizione delle colonie
tedesche e delle regioni ottomane tra le potenze vincitrici
• Creazione della Società
delle Nazioni.
Schieramenti
Nazioni Alleate:
Regno di Serbia
Impero russo (fino al 1917)
Terza Repubblica francese
Belgio
Regno Unito di Gran Bretagna
e Irlanda
Regno del Montenegro (fino al 1916)
Impero giapponese
Regno d'Italia (dal 1915)
Portogallo (dal 1916)
Regno di
Romania (dal 1916)
Stati Uniti (dal 1917)
Regno di Grecia
(dal 1917) ed altri
Imperi centrali:
Impero austro-ungarico
Impero tedesco
bandiera
Impero Ottomano
Emirato di Jebel Shammar
Regno di Bulgaria (dal
1915)
Azerbaigian (dal 1918)
La prima guerra mondiale è il nome dato al grande conflitto
che coinvolse quasi tutte le grandi potenze mondiali, e molte di
quelle minori, tra l'estate del 1914 e la fine del 1918. Chiamata
inizialmente dai contemporanei "guerra europea", con il
coinvolgimento successivo delle nazioni del Commonwealth, degli
Stati Uniti d'America e di altre nazioni extraeuropee, prese presto
il nome di "guerra mondiale" o "grande guerra", per via delle
caratteristiche di guerra totale che essa assunse: fu infatti il più
grande conflitto armato mai combattuto fino al 1939 cioè fino allo
scoppio della seconda guerra mondiale1.
La prima guerra mondiale cominciò il 28 luglio 1914 con la
dichiarazione di guerra dell'Austria alla Serbia in seguito
all'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando il 28 giugno 1914
per concludersi oltre quattro anni dopo, l'11 novembre 1918. Il
conflitto coinvolse le maggiori potenze mondiali di allora, divise
in due blocchi contrapposti; gli Imperi centrali (Germania,
Austria-Ungheria, Impero ottomano e Bulgaria) contro le potenze
Alleate rappresentate principalmente da Francia, Gran Bretagna,
Impero russo e Italia. Oltre 70 milioni di uomini furono mobilitati
in tutto il mondo (60 milioni solo in Europa), in quello che divenne
in breve tempo il più vasto conflitto della storia, che causò oltre
9 milioni di vittime tra i soldati e circa 7 milioni di vittime
civili dovute non solo agli effetti diretti delle operazioni di
guerra, ma anche alla carestia e alle malattie concomitanti2.
Militarmente il conflitto si aprì con l'invasione austro-ungarica
della Serbia, e parallelamente, con una rapida avanzata
dell'esercito tedesco in Belgio, Lussemburgo e nel nord della
Francia, dove giunse a 40 chilometri da Parigi. In poche settimane
il gioco di alleanze formatosi negli ultimi decenni dell'Ottocento
tra gli stati comportò l'entrata nel conflitto delle maggiori
potenze europee e delle rispettive colonie. In pochi anni la guerra
raggiunse una scala mondiale, con la partecipazione di molte altre
nazioni, fra cui l'Impero ottomano, l'Italia, la Romania, gli Stati
Uniti e la Grecia, aprendo così altri fronti di combattimento.
Con la sconfitta tedesca sulla Marna nel settembre 1914 le speranze
degli invasori di una guerra breve e vittoriosa svanirono a favore
di una logorante guerra di trincea, che si replicò su tutti i fronti
del conflitto dove nessuno dei contendenti riuscì a soggiogare le
armate nemiche. Determinante per l'esito finale del conflitto
mondiale fu l'ingresso degli Stati Uniti d'America e di diverse
altre nazioni che, pur non entrando militarmente a pieno regime nel
conflitto, grazie agli aiuti economici dispensati agli Alleati, si
schierarono contro gli Imperi Centrali facendo pendere
definitivamente l'ago della bilancia.
La guerra si concluse definitivamente l'11 novembre 1918, quando la
Germania, ultima degli Imperi centrali a deporre le armi, firmò
l'armistizio con le forze nemiche. Alla fine del conflitto, i
maggiori imperi esistenti al mondo - Impero tedesco,
austro-ungarico, ottomano e russo - cessarono di esistere, e da
questi nacquero diversi stati che ridisegnarono completamente la
geografia dell'Europa.
Origini della guerra
Lo scoppio della prima guerra mondiale nel 1914 segnò la fine di un
lungo periodo di pace nella storia europea, iniziato nel 1815 con la
sconfitta definitiva della Francia napoleonica. La pace europea
dell'inizio del XX secolo tuttavia non aveva basi solide: nel corso
dei decenni del XIX secolo in Europa vi furono diversi conflitti a
carattere limitato34, che minarono e inasprirono i rapporti
diplomatici tra le potenze europee e i relativi giochi di alleanze.
Per individuare però le cause fondamentali del conflitto bisogna
risalire innanzitutto al ruolo preponderante della Prussia nella
creazione del Reich, alle concezioni politiche di Otto von Bismarck,
alle tendenze filosofiche prevalenti in Germania e alla sua
situazione economica; un insieme di fattori eterogenei che
concorsero a trasformare il desiderio della Germania di assicurarsi
sbocchi commerciali nel mondo.
Dovremmo quindi analizzare i problemi etnici interni
all'Austria-Ungheria e alle ambizioni indipendentiste dei popoli di
cui si formava, il timore che la Russia generava oltre frontiera
soprattutto nei tedeschi, la paura che tormentava la Francia fin dal
1870 di una nuova aggressione che aveva lasciato un'eredità di
animosità tra la Francia e la Germania5, e infine dovremmo tener
conto dell'evoluzione diplomatica della Gran Bretagna da una
politica di isolamento ad una politica di attiva presenza in
Europa6.
Sotto la guida politica del suo primo cancelliere Bismarck, la
Germania assicurò una forte presenza in Europa tramite l'alleanza
con l'Impero austro-ungarico e l'Italia e un'intesa diplomatica con
la Russia. L'ascesa al trono nel 1888 dell'imperatore Guglielmo II,
portò sul trono tedesco un giovane governante determinato a dirigere
da sé la politica, nonostante i suoi dirompenti giudizi diplomatici.
Dopo le elezioni del 1890, nelle quali i partiti del centro e della
sinistra ottennero un grosso successo, a causa della disaffezione
nei confronti del Cancelliere che aveva guidato il Reich per gran
parte della sua carriera, Guglielmo II fece in modo di ottenere le
dimissioni di Bismarck7. Gran parte del lavoro dell'ex cancelliere
venne disfatto negli anni seguenti, quando Guglielmo II mancò di
rinnovare il trattato di controassicurazione con la Russia,
permettendo invece alla Francia repubblicana l'opportunità di
concludere nel 1894 un'alleanza con la Russia8.
Altro passaggio fondamentale nel percorso verso la guerra mondiale
fu la corsa al riarmo navale. Il Kaiser riteneva che solo la
creazione di una importante marina militare avrebbe reso la Germania
una potenza mondiale. Nel 1897 fu nominato alla guida della marina
imperiale l'ammiraglio Alfred von Tirpitz, e la Germania iniziò una
politica di riarmo che risultò una vera e propria sfida aperta al
secolare predominio navale britannico9, che favorì l'accordo
anglo-francese, l'Entente cordiale del 1904 e l'accordo anglo-russo,
che chiudeva un secolo di rivalità fra le due potenze nello
scacchiere asiatico. La Gran Bretagna tentò inoltre di rafforzare la
propria posizione in altre direzioni, alleandosi con il Giappone nel
1902, e nonostante la proposta di Joseph Chamberlain di un trattato
fra Gran Bretagna, Germania e Giappone per avvantaggiarsi
congiuntamente nel Pacifico, la Germania continuò nella sua politica
bellicosa attirandosi motivi di attrito con le potenze europee10. Da
quel momento in poi le grandi potenze europee furono di fatto, anche
se non ufficialmente, divise in due gruppi rivali. Negli anni
seguenti la Germania, la cui politica aggressiva e poco diplomatica
aveva dato il via a una coalizione avversaria, intensificò i
rapporti con l'Austria-Ungheria e l'Italia11.
La nuova divisione in blocchi dell'Europa non era una riedizione del
vecchio equilibrio di potenza, ma una semplice barriera tra potenze,
una barriera satura di esplosivo. I diversi paesi si affrettarono ad
aumentare i loro armamenti, che, nel timore di una deflagrazione
improvvisa, vennero messi a completa disposizione dei militari12. Il
Regno Unito aveva dato il via libera alle pretese della Francia sul
Marocco, in cambio del riconoscimento dei propri diritti
sull'Egitto, tuttavia questo accordo fra le due principali potenze
coloniali violava la precedente convenzione di Madrid del 1880,
firmata anche dalla Germania. Ne derivò la crisi di Tangeri del 1905
dove il Kaiser ribadì il ruolo fondamentale della Germania nella
politica extra-europea13.
Ma la prima vera scintilla scoccò nei Balcani nel 1908. Della
rivoluzione in Turchia approfittarono la Bulgaria per liberarsi
dalla sovranità turca e l'Austria per annettersi le provincie della
Bosnia e dell'Erzegovina che già amministrava dal 1879. L'Austria e
la Russia si accordarono a cambio dell'apertura alla Russia dei
Dardanelli, ma l'Italia considerò tale azione un affronto e la
Serbia una minaccia. In Russia poi la perentoria richiesta tedesca
di riconoscere la legittimità dell'annessione sotto pena di un
attacco austro-tedesco facilitò la mossa austriaca ma creò non pochi
dissapori tra la Russia e le potenze centrali14.
Altro motivo di attrito fu la crisi di Agadir, dove per indurre la
Francia a fare concessioni in Africa, nel giugno 1911 i tedeschi
inviarono una cannoniera nel porto di Agadir. Il Cancelliere dello
Scacchiere David Lloyd George ammonì la Germania ad astenersi da
simili minacce alla pace, e dichiarò la Gran Bretagna pronta a
supportare la Francia. Ciò spense la scintilla, ma acuì il
risentimento dell'opinione pubblica tedesca che favorì un ulteriore
ampliamento della marina da guerra. Ciò nonostante, il successivo
accordo sul Marocco allentò i motivi di frizione, ma proprio in quel
momento sulla scena europea venne gettata un'altra manciata di
polvere da sparo, anche stavolta nei Balcani15. La debolezza della
Turchia, palesata dall'occupazione italiana di Tripoli, incoraggiò
Bulgaria, Serbia e Grecia a rivendicare l'egemonia della Macedonia
come primo passo verso l'estromissione della Turchia dall'Europa. I
turchi furono rapidamente sconfitti. La quota di bottino assegnata
alla Serbia fu l'Albania settentrionale, ma l'Austria, che già
temeva ambizioni serbe, mobilitò le sue truppe, e la sua minaccia
alla Serbia trovò la naturale risposta in analoghe misure della
Russia. Fortunatamente la Germania si schierò con Gran Bretagna e
Francia per scongiurare pericolosi sviluppi. Quando la crisi cessò,
la Serbia fu il paese che ne uscì meglio e la Bulgaria fu il paese
uscito più malconcio; questo non piacque all'Austria che nell'estate
del 1913 propose di attaccare immediatamente la Serbia. La Germania
esercitò un freno ai propositi austriaci, ma allo stesso tempo
estese il proprio controllo nell'esercito turco, facendo svanire nei
russi la speranza di mettere le mani nei Dardanelli16.
Negli ultimi anni in tutti i paesi europei si moltiplicarono gli
incitamenti alla guerra, discorsi e articoli bellicosi, dicerie,
incidenti di frontiera, e la Francia promulgò una legge (detta "dei
tre anni") che, per sopperire all'inferiorità numerica rispetto
all'esercito tedesco, allungava di un anno la ferma militare, fino
ad allora della durata di due anni: ciò aggravò i rapporti con la
Germania. La scintilla fatale fu l'Attentato di Sarajevo, il 28
giugno 1914, la cui vittima, Francesco Ferdinando erede al trono
d'Austria-Ungheria, fu forse l'unico austriaco autorevole che fosse
amico dei nazionalisti serbi, perché sognava un impero unito da un
legame federativo e non dall'oppressione17.
La crisi di luglio
Per approfondire, vedi attentato di Sarajevo e crisi di luglio.
Il 28 giugno 1914, giorno di solenni celebrazioni e festa nazionale
serba, l'Arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia, recatisi a
Sarajevo in visita ufficiale, furono colpiti a morte da alcuni colpi
di pistola sparati dal nazionalista diciannovenne serbo Gavrilo
Princip. Da questo avvenimento scaturì una drammatica crisi
diplomatica che precedette e segnò l'inizio della guerra in
Europa18.
Nei giorni che seguirono, la Germania, convinta di poter localizzare
il conflitto, pressò l'alleato austro-ungarico affinché aggredisse
al più presto la Serbia. Solo la Gran Bretagna avanzò una proposta
di conferenza internazionale che non ebbe seguito, mentre le altre
nazioni europee si preparavano lentamente al conflitto. Quasi un
mese dopo l'assassinio di Francesco Ferdinando, l'Austria-Ungheria
inviò un duro ultimatum alla Serbia, il quale venne rifiutato. Di
conseguenza, il 28 luglio 1914, l'Austria-Ungheria dichiarò guerra
al Regno di Serbia determinando l'irrimediabile acuirsi della crisi
e la progressiva mobilitazione delle potenze europee per il gioco
delle alleanze tra i vari stati.
L'Italia, il Portogallo, la Grecia, la Bulgaria, la Romania e
l'Impero Ottomano inizialmente rimasero neutrali, ai bordi del campo
di battaglia, ma pronti a entrarvi appena avessero intravisto
qualche vantaggio. Alla mezzanotte del 4 agosto erano cinque gli
imperi che ormai erano entrati in guerra (Austria-Ungheria,
Germania, Russia, Gran Bretagna e Francia)19, ogni potenza era
convinta di aver ragione degli avversari in pochi mesi. Molti
ritenevano che la guerra sarebbe finita a Natale del 1914, o
tuttalpiù a Pasqua del 191520. Il conflitto che si era aperto con la
crisi di luglio sarebbe terminato invece nel novembre del 1918, dopo
aver provocato sedici milioni di morti tra militari e civili21.
La guerra
«Tornerete nelle vostre case prima che siano cadute le foglie dagli
alberi»
(Frase rivolta da Guglielmo II alle truppe tedesche in partenza per
il fronte nella prima settimana di agosto 191422)
«Vasilij Fëdorovič (Guglielmo II) ha commesso un sbaglio; non ce la
farà assolutamente»
(Affermazione del ministro della Giustizia russo allo scoppio della
guerra23)
Le prime fasi della guerra (1914)
Per approfondire, vedi piano Schlieffen e piano XVII.
Dopo la rottura delle relazioni diplomatiche fra
Austria-Ungheria e Regno di Serbia, il governo tedesco, in
conseguenza della mobilitazione generale russa, il 31 luglio
dichiarò guerra alla Russia e alla Francia, e mobilitò le proprie
truppe in oriente ed occidente. Se la Francia avesse riunito tutto
il suo potenziale bellico e dichiarato guerra proprio mentre le
armate tedesche avanzavano ad oriente, la Germania avrebbe corso il
rischio di trovarsi in serie difficoltà. In ottemperanza al piano
Schlieffen, la strategia tedesca mirava a sconfiggere con una
"guerra lampo" la Francia e, confidando nella lenta e pesante
macchina bellica russa, rivolgere poi tutte le proprie forze ad
oriente24.
Il piano, ideato dal generale Alfred von Schlieffen e completato nel
1905, prevedeva che la Francia fosse attaccata da nord attraverso il
Belgio e i Paesi Bassi, così da evitare la lunga linea fortificata
alla frontiera francese e consentire all'esercito tedesco di calare
su Parigi con un'unica grande offensiva. Schlieffen anche dopo
essersi ritirato dall'esercito continuò a lavorare al piano, che
aveva sottoposto ad un'ultima revisione nel dicembre 1912, poco
prima di morire. Il generale von Moltke, suo successore come capo di
Stato maggiore dell'esercito, poco prima dello scoppio del conflitto
accorciò il tratto di fronte su cui effettuare l'offensiva
escludendone i Paesi Bassi. Secondo il piano, Parigi sarebbe stata
occupata, e la Francia soggiogata nel giro di sei settimane, mentre
dieci divisioni avrebbero tenuto in scacco i russi ad oriente
confidando nella lentezza della mobilitazione delle armate dello
zar25, fino al momento in cui la Germania avrebbe potuto rivolgere
tutte le proprie forze contro la Russia26.
L'invasione di Belgio e Francia
Per approfondire, vedi fronte
occidentale (prima guerra mondiale).
A nord il Lussemburgo fu occupato dai tedeschi senza opposizione il
2 agosto, e più a nord, alla frontiera con il Belgio, i tedeschi
avanzavano a gran velocità dando corpo all'invasione. La Gran
Bretagna non aveva truppe sul continente europeo, e il suo corpo di
spedizione al comando di Sir John French, doveva ancora essere
radunato, armato e inviato al fronte al di là della Manica. In
ottemperanza al piano XVII, il 14 agosto le truppe francesi
sconfinarono in Alsazia e Lorena convinte di riscattare le
umiliazioni del passato27.
Quel giorno le forze tedesche iniziarono la battaglia di Liegi
andando all'assalto del primo vero ostacolo sul loro cammino: il
campo fortificato di Liegi con la sua guarnigione di 35.000 soldati.
L'attacco durò più del previsto e solo il 7 agosto la fortezza
centrale capitolò28. Il 12 agosto l'Austria-Ungheria invase la
Serbia, mentre sul fronte occidentale continuavano furiosi i
combattimenti sul confine franco-tedesco e soprattutto in Belgio.
Dopo la caduta di Liegi la maggioranza dell'esercito belga si mise
in ritirata verso ovest, mentre il 25 più a nord i tedeschi
bombardarono Anversa con uno Zeppelin, durante le fasi preliminari
dell'assedio della città che durò fino al 28 settembre e comportò
enormi devastazioni29. Lo stesso 12 agosto le avanguardie del corpo
di spedizione britannico attraversarono la Manica scortate da 19
navi da guerra. In dieci giorni furono sbarcati 120.000 uomini senza
che una sola vita o una sola nave andassero perdute, non avendo la
Kaiserliche Marine mai ostacolato le operazioni30.
Fanteria francese mentre si appresta a combattere il nemico in
avanzata sulla Marna.
Il 20 agosto le truppe tedesche entrarono a Bruxelles.
All'estremità meridionale del fronte i francesi, penetrati in
Alsazia e vicini alla città di Mulhouse, giunsero a sedici
chilometri dal Reno, ma non sarebbero mai andati oltre. Più a nord i
francesi penetrati in Lorena furono sconfitti a Morhange e
iniziarono a ritirarsi verso Nancy. La città, nonostante la
pressione tedesca, resse l'urto grazie ai sacrifici della 2ª armata
francese guidata da Édouard de Castelnau31.
Il 22 agosto iniziò l'avanzata tedesca lungo tutto il fronte; la 5ª
armata francese fu cacciata da Charleroi, e cominciò furiosa la
battaglia di Mons, battesimo del fuoco per il corpo di spedizione
britannico, che resistette con inaspettata tenacia32. I tedeschi
riuscirono comunque a rompere la resistenza delle forze di French e
il 23 iniziarono ad avanzare; quello stesso giorno sia i francesi da
Charleroi che i belgi da Namur cedettero alla pressione nemica e
iniziarono a ripiegare. Il 2 settembre il governo francese si
rifugiò a Bordeaux33 e le truppe anglo-francesi, avendo appreso che
i tedeschi non avrebbero attaccato Parigi puntando verso sud, ma si
sarebbero diretti verso sud-ovest contro i britannici, si
attestarono sulla Marna, facendone saltare tutti i ponti34. Il
giorno dopo l'esercito tedesco era a soli 40 km da Parigi35. In
questa situazione di panico generale – un milione di parigini aveva
abbandonato la città36 - il generale Gallieni, governatore militare
di Parigi approntava le difese, avendo a disposizione una nuova
armata appena costituita da schierare nel sistema di trincee e
fortificazioni che attorniavano la capitale37. Tuttavia il 12
settembre, i francesi, con l'aiuto della British Expeditionary
Force, bloccarono l'avanzata nemica ad est di Parigi durante la
prima battaglia della Marna. Gli ultimi giorni di questa battaglia
decisiva segnarono la fine della guerra di movimento ad occidente a
favore di una logorante guerra di trincea lungo solide postazioni38.
Il fronte orientale
Per approfondire, vedi fronte
orientale (prima guerra mondiale).
Gli scontri iniziali a est erano stati contrassegnati più da
rapidi mutamenti di fortuna che da vantaggi decisivi per una delle
due parti. Il comando austriaco aveva impiegato parte delle sue
forze nel vano tentativo di mettere fuori combattimento le forze
serbe, e inoltre il suo piano per un'offensiva iniziale diretta a
tagliar alla radice la "striscia" polacca era stato paralizzato dal
cattivo funzionamento della parte tedesca della tenaglia. Anzi era
la Germania, che schierava la sola 8ª armata con il compito di
difendere la Prussia Orientale, a rischiare di essere sopraffatta
dalle truppe di Nicola II che mobilitò anzitempo la 1ª e la 2ª
armata contro la Prussia, nel tentativo di allentare la pressione
tedesca in Francia nei primissimi mesi del conflitto39. Dopo una
prima serie di sconfitte, il comandante tedesco Maximilian von
Prittwitz venne sostituito dal generale in pensione Paul von
Hindenburg che nominò suo capo di stato maggiore Erich Ludendorff. I
due annientarono a Tannenberg i Russi, che a loro volta non si
fecero sorprendere dalle armate austro-ungariche in Polonia, a cui
dovettero correre in soccorso i tedeschi che con la neonata 9ª
armata iniziarono il contrattacco in direzione Varsavia40.
Il granduca Nicola costituì un'enorme potenziale composto da sette
armate, che impegnarono duramente gli Imperi centrali, i quali
sfruttando il migliore sistema ferroviario a loro disposizione
riuscirono ad arrestare il "rullo compressore" russo e a
contrattaccare sulla Vistola, dove due armate russe furono separate
dalla penetrazione di Ludendorff, che riuscì a far ripiegare la 1ª
armata russa a Varsavia, mentre la 2ª fu quasi accerchiata come
capitò a Samsonov a Tannenberg41. Nuove forze provenienti da
occidente permisero, il 15 dicembre 1914, a Ludendorff di respingere
i russi fino alla linea dei fiumi Bzura e Ravka davanti a Varsavia,
ma la diminuzione delle provviste e delle munizioni indussero Nicola
a ritirare ulteriormente le truppe sulle linee trincerate lungo i
fiumi Nida e Dunajec, lasciando al nemico l'estremità della striscia
polacca. Anche a est come a ovest le ostilità erano giunte ad un
punto morto, con le forze contrapposte attestate su solide linee
trincerate; ma da questa parte l'inadeguatezza delle industrie russe
non permetteva loro di sopperire alla guerra allo stesso modo di
quelle delle forze alleate occidentali42.
Le invasioni della Serbia
Per approfondire, vedi campagna di
Serbia.
Benché fosse tecnicamente il luogo dove la guerra aveva preso avvio,
il fronte serbo fu relegato ben presto a teatro secondario di un
conflitto divenuto ormai mondiale. Con il grosso delle sue forze
concentrato in Galizia contro i russi, l'Austria-Ungheria diede
avvio all'invasione del territorio serbo il 12 agosto 1914: guidate
dal generale Radomir Putnik e supportate anche dalle forze del Regno
del Montenegro, le truppe serbe opposero una ostinata resistenza,
infliggendo agli austroungarici una sconfitta nella battaglia del
Cer (16-19 agosto) ed obbligandoli a ritirarsi oltre frontiera43.
Dopo una controffensiva serba al confine con la Bosnia, sfociata
nell'inconcludente battaglia della Drina (6 settembre - 4 ottobre
1914), gli austroungarici del generale Oskar Potiorek lanciarono una
nuova invasione il 5 novembre, riuscendo ad occupare la capitale
Belgrado: Putnik fece arretrare lentamente le sue forze fino al
fiume Kolubara, dove inflisse una disastrosa sconfitta alle truppe
di Potiorek obbligandole ancora una volta alla ritirata; il 15
dicembre 1914 i serbi ripresero Belgrado, riportando la linea del
fronte ai confini prebellici44.
Le offensive austroungariche erano costate all'Impero la perdita di
227.000 uomini tra morti, feriti e dispersi, oltre ad un ampio
bottino di armi e munizioni di vitale importanza per il mal
equipaggiato esercito serbo; nonostante la vittoria la Serbia ebbe
170.000 caduti durante la campagna, perdite enormi per il suo
piccolo esercito ulteriormente aggravate dallo scoppio di una
violenta epidemia di tifo (che fece 150.000 vittime tra i civili) e
dalla grave carenza di generi alimentari45.
L'impero ottomano
Per approfondire, vedi teatro
del Medio Oriente della prima guerra mondiale.
Nel 1914 l'Impero ottomano era ormai in solidi rapporti con la
Germania, che da tempo investiva capitali nello sviluppo economico
dell'Impero e curava l'addestramento delle sue forze armate46.
L'influente ministro della guerra Ismail Enver era un filo-tedesco,
ma il governo ottomano era ancora diviso sulla scelta di unirsi agli
Imperi centrali, nonostante la firma il 1º agosto 1914 di un
trattato segreto di natura militare ed economica con la Germania; il
sequestro, all'inizio della guerra, da parte dei britannici di due
navi da battaglia ottomane in costruzione nei cantieri inglesi
provocò forte indignazione a Istanbul, ed i tedeschi ne
approfittarono cedendo agli ottomani i due incrociatori Goeben e
Breslau sfuggiti alla caccia nemica nel Mediterraneo47. Il 29
ottobre 1914 le due navi, ora battenti bandiera turca, bombardarono
e posarono mine davanti ai porti russi sul Mar Nero, e gli Alleati
replicarono con una dichiarazione di guerra: il 1º novembre navi
britanniche attaccarono un posamine turco nel porto di Smirne e il
giorno seguente un incrociatore leggero bombardò il porto di Aqaba
sul Mar Rosso, mentre il 3 novembre vennero presi di mira i forti
sui Dardanelli48.
L'entrata in guerra dell'Impero ottomano aprì nuovi scenari di
conflitto in teatri molto distanti l'uno dall'altro: nel Caucaso la
Russia si ritrovò a sostenere un difficile secondo fronte di
conflitto in un territorio impervio, mentre la presenza ottomana in
Mesopotamia e Palestina minacciava due cardini dell'impero coloniale
britannico, la raffineria petrolifera persiana di Abadan (vitale per
i rifornimenti di carburante della Royal Navy) ed il canale di Suez;
fin dall'inizio però le attenzioni britanniche si rivolsero verso il
forzamento dello stretto dei Dardanelli, al fine di portare la
guerra direttamente nella capitale ottomana49.
Il forzamento dei Dardanelli
Per approfondire, vedi campagna
dei Dardanelli.
Sul fronte orientale, nel 1915 le armate russe erano in grossa
difficoltà, sospinte dalle forze ottomane al di là dei confini che
la Russia aveva tracciato a spese dei turchi nel 1878. Il granduca
Nicola si appellò allora alla Gran Bretagna perché compisse
un'azione di disturbo contro la Turchia, costringendola a richiamare
a est parte delle sue truppe. I britannici su suggerimento di lord
Kitchener e con il fortissimo appoggio di Churchill allora Primo
Lord dell'Ammiragliato, proposero di attaccare dal mare i forti
turchi nei Dardanelli50. L'attacco doveva essere la spallata
decisiva all'Impero Ottomano, la cui marina non poteva contrastare
in alcun modo quella Alleata, e l'opinione inglese dominante era
quella di una campagna breve e violenta che avrebbe portato le
truppe di terra a Istanbul. Aprire lo stretto avrebbe portato
probabilmente alla resa turca e sicuramente alla possibilità da
parte russa di esportare il suo grano. L'unico vero rischio,
peraltro ampiamente sottovalutato dagli Alleati, erano i campi
minati turchi, dei quali sottovalutavano la estensione e la capacità
avversaria di metterne rapidamente in opera di nuovi. Anche gli
armamenti dei forti, sebbene antiquati, si sarebbero dimostrati
pericolosi per gli attaccanti. Quella che doveva essere una campagna
lampo si trasformò in una guerra di posizione con elevatissime
perdite umane e che fece emergere in campo turco un importante
leader come Mustafà Kemal, all'epoca generale dell'esercito.
Il fronte del Caucaso
Per approfondire, vedi campagna
del Caucaso.
Le operazioni sul fronte del Caucaso iniziarono fin dai primi giorni
di guerra, a dispetto del terreno impervio e del rigido clima
invernale: dopo aver facilmente respinto un'offensiva russa in
direzione di Köprüköy tra il 2 ed il 16 novembre 1914, le forze
della 3ª armata ottomana, guidate dallo stesso ministro della guerra
Ismail Enver, lanciarono un massiccio attacco oltre il confine russo
in direzione di Kars; la sconfitta patita ad opera dei russi nella
seguente battaglia di Sarıkamış (22 dicembre 1914 - 17 gennaio 1915)
si trasformò in una disfatta per gli ottomani quando la 3ª Armata
cercò di ritirarsi attraverso le montagne innevate, perdendo 90.000
uomini su un totale di 130.00051.
Alle prese con l'impegnativa situazione del fronte orientale, i
russi non furono immediatamente in grado di sfruttare la vittoria e
fino a marzo il fronte caucasico rimase stazionario, con solo poche
schermaglie tra le due parti; alla ricerca di un capro espiatorio
per la disfatta invernale, gli ottomani accusarono la minoranza
armena che viveva nelle regioni di confine di connivenza con i
russi, ed a partire dal febbraio del 1915 furono avviate
deportazioni e massacri ai suoi danni52. Gli attacchi degli ottomani
provocarono ben presto un'aperta rivolta, ed il 19 aprile 1915 i
"fedayyin" armeni si impossessarono dell'importante città di Van,
resistendo poi all'assedio da parte delle forze ottomane;
approfittando dell'occasione i russi lanciarono una massiccia
offensiva nel settore orientale del fronte, liberando Van
dall'assedio il 17 maggio ma venendo infine bloccati agli ottomani
nel corso della battaglia di Malazgirt (10-26 luglio 1915). La
controffensiva ottomana portò alla rioccupazione di Van (evacuata
dal grosso della popolazione armena) e degli altri territori perduti
entro la fine di agosto, e la linea del fronte tornò alla situazione
di partenza per la fine dell'anno, con entrambe le forze impegnate a
riorganizzarsi53.
All'inizio del gennaio 1916 i russi lanciarono una massiccia
offensiva nel settore occidentale del fronte, cogliendo
completamente di sorpresa la 3ª armata ottomana che non si aspettava
un attacco in pieno inverno: la vittoria russa nella battaglia di
Köprüköy (10-19 gennaio 1916) obbligò gli ottomani ad abbandonare la
strategica fortezza di Erzurum ed a ritirarsi verso ovest dopo aver
subito pesanti perdite54. Appoggiate anche da sbarchi di truppe
lungo la costa del Mar Nero, le truppe russe dilagarono
nell'Anatolia orientale prendendo l'importante porto di Trebisonda
il 15 aprile e spingendosi nell'interno fino alle città di Muş ed
Erzincan, dove ottennero una nuova vittoria sugli ottomani tra il 2
ed il 25 luglio 1916; lo sfondamento fu contenuto solo con l'arrivo
al fronte della 2ª armata ottomana del generale Mustafa Kemal,
composta da truppe richiamate dal settore di Gallipoli, che il 25
agosto riuscì ad infliggere ai russi una sconfitta nella battaglia
di Bitlis55.
Il grosso dei combattimenti cessò alla fine di settembre del 1916,
con entrambe le parti alle prese con i disagi causati da un inverno
particolarmente duro; la situazione non subì grandi mutamenti nel
corso del 1917, con i russi immobilizzati dai disordini in corso in
patria e gli ottomani concentrati sul fronte del Medio Oriente
contro i britannici56; l'armistizio di Erzincan del 5 dicembre 1917
ed il ritiro della Russia dal conflitto posero infine termine alle
operazioni nel Caucaso.
La guerra in Medio Oriente
Per approfondire, vedi teatro del Medio
Oriente della prima guerra mondiale.
Il 6 novembre 1914 truppe anglo-indiane sbarcarono nella penisola di
Al-Faw, oggi in Iraq, dando avvio alla campagna della Mesopotamia;
la spedizione era stata voluta per allontanare qualsiasi minaccia
ottomana ai possedimenti britannici nella regione del Golfo Persico,
e ben presto ottenne diversi risultati: il 21 novembre le forze
britanniche presero l'importante porto di Bàssora, spingendosi ai
primi di dicembre fino a Al-Qurna, il luogo dove il Tigri e
l'Eufrate confluivano in un unico fiume, dove sconfissero una forza
ottomana57. L'occupazione di una solida testa di ponte a Bassora
rendeva praticamente inutile continuare la campagna: la minaccia
turca al Golfo Persico era sventata, e la Mesopotamia era troppo
lontana dalle regioni chiave dell'Impero perché fosse vantaggiosa
una sua completa occupazione; tuttavia la debole resistenza offerta
dagli ottomani, ulteriormente confermata dal completo fallimento di
una loro controffensiva in direzione di Bassora a metà aprile 1915,
spinse l'alto comando britannico a continuare l'azione, convinto di
poter ottenere altri facili successi58.
Truppe cammellate ottomane a Be'er Sheva, nel sud della Palestina,
nel 1915
Nel settembre del 1915 un contingente anglo-indiano sotto il
generale Charles Vere Ferrers Townshend risalì il Tigri fino a
prendere l'importante città di al-Kut; benché le linee di
rifornimento fossero molto estese, l'alto comando spinse Townshend a
proseguire l'avanzata verso la vicina Baghdad, un obiettivo molto
più ambito, ma tra il 22 ed il 25 novembre le unità britanniche
subirono un arresto nella battaglia di Ctesifonte ad opera delle
rafforzate truppe ottomane59. Townshend si ritirò sulla base di Kut,
dove ben presto rimase tagliato fuori ed assediato; quattro distinti
tentativi di soccorrere la guarnigione fallirono miseramente, e dopo
cinque mesi di assedio le forze anglo-indiane, ormai alla fame,
capitolarono il 29 aprile 1916, lasciando 12.000 prigionieri nelle
mani dei turchi60.
Più a ovest un nuovo fronte fu aperto nel sud della Palestina:
l'Egitto era ufficialmente un vassallo ottomano, sebbene ormai fosse
politicamente controllato dal Regno Unito fin dal 1880, ed allo
scoppio delle ostilità era stato rapidamente occupato da una forza
di spedizione britannica, australiana e neozelandese; il canale di
Suez rappresentava un punto vitale per gli Alleati, ed i tedeschi
fecero pressione sugli ottomani perché progettassero una sua
occupazione61. L'offensiva di Suez iniziò il 28 gennaio 1915 ma dopo
una settimana di scontri le forze ottomane furono respinte, anche
per via della difficoltà a mantenere i collegamenti logistici
attraverso l'inospitale Penisola del Sinai62; le forze Alleate si
mantennero rigorosamente sulla difensiva fin verso la metà del 1916,
quando le continue incursioni ottomane su piccola scala contro il
canale convinsero il comandante britannico Archibald Murray a
passare all'offensiva: avanzando metodicamente e costruendo strada
facendo una ferrovia ed un acquedotto, le forze britanniche si
spinsero attraverso la costa settentrionale del Sinai e sconfissero
gli ottomani nella battaglia di Romani (3–5 agosto 1916),
respingendoli definitivamente oltre la frontiera con la Palestina.
La guerra in Africa
Per approfondire, vedi teatro africano
della prima guerra mondiale.
Giunta piuttosto in ritardo alla corsa per la spartizione
dell'Africa, nel 1914 la Germania disponeva di un numero limitato di
possedimenti nel continente: isolati dalla madrepatria dal blocco
navale degli Alleati e circondati dai territori dei più ampi imperi
coloniali britannico e francese, il loro destino era praticamente
segnato fin dall'inizio delle ostilità63. La piccola colonia del
Togoland (l'odierno Togo) fu rapidamente occupata dalle forze
anglo-francesi già entro la fine dell'agosto del 1914, mentre più
impegnativa fu la lotta nel vicino Camerun Tedesco: la capitale Buéa
fu occupata da truppe coloniali francesi e belghe il 27 settembre
1914, ma favorite dal terreno impervio e dalle piogge tropicali le
ultime guarnigioni tedesche non furono costrette a capitolare prima
del febbraio del 1916. La guarnigione dell'Africa Tedesca del
Sud-Ovest (l'odierna Namibia) dovette sostenere un'invasione da
parte delle truppe sudafricane e, benché appoggiata
dall'insurrezione di alcuni ribelli boeri contro le autorità
britanniche, fu infine costretta alla resa nel luglio del 191564.
Molto più lunga fu la lotta nell'Africa Orientale Tedesca (l'odierna
Tanzania): al comando di un miscuglio di coloni tedeschi e truppe
arruolate tra gli indigeni locali (Schutztruppe), il colonnello Paul
Emil von Lettow-Vorbeck intraprese una serie di azioni di guerriglia
ed attacchi mordi-e-fuggi ai danni delle colonie confinanti (il
Kenya britannico, il Congo Belga e il Mozambico portoghese),
infliggendo agli Alleati diverse sconfitte65. Fu necessario mettere
in campo una vasta forza (arrivata a contare, tra soldati e
personale ausiliario, quasi 400.000 uomini) per avere ragione delle
elusive truppe di Vorbeck ed occupare la colonia: gli ultimi
guerriglieri tedeschi, ancora capitanati dal loro comandante, si
arresero solo il 26 novembre 1918, dopo essere stati informati
dell'avvenuta capitolazione della Germania 15 giorni prima66.
L'entrata in guerra dell'Impero ottomano provocò insurrezioni da
parte delle popolazioni musulmane del Nordafrica contro le autorità
coloniali europee: i francesi dovettero sostenere una lunga guerra
contro le tribù berbere degli Zayani del Marocco, come pure una
rivolta tra i Tuareg del nord del Niger; nella Libia orientale i
guerriglieri della confraternita dei Senussi misero in seria
difficoltà le guarnigioni italiane, confinandole in pratica al
controllo dei soli centri costieri principali, e conducendo anche
una serie di attacchi contro le postazioni britanniche in Egitto ma
venendo infine respinti67.
Il dominio dei mari
Il 29 luglio 1914 la flotta britannica, senza dichiarare la
mobilitazione, salpò dalla base di Portland verso la base di guerra
a Scapa Flow nelle isole Orcadi che controllavano il passaggio tra
la parte settentrionale della Gran Bretagna e la Norvegia.
All'inizio delle ostilità la Germania, consapevole dell'inferiorità
nei confronti della Grand Fleet britannica, mantenne un
atteggiamento attendista, decidendo di evitare uno scontro diretto
finché i loro posamine e i loro sommergibili non avessero indebolito
la marina da guerra britannica e diminuito i commerci con le
colonie68. La geografia della costa nord della Germania favoriva
questo tipo di strategia, le coste frastagliate, gli estuari e la
protezione assicurata dalle isole - quali Helgoland - costituivano
uno scudo molto potente per le basi di Wilhelmshaven, Bremerhaven e
Cuxhaven e allo stesso tempo offriva una eccellente base per rapide
incursioni nel mare del Nord69. Durante il primo anno di guerra la
Gran Bretagna si preoccupò quindi di pattugliare il mare del Nord e
permettere il trasferimento della forza di spedizione attraverso la
Manica; l'unica azione di rilievo fu l'incursione nella baia di
Helgoland dove l'ammiraglio Beatty affondò parecchi incrociatori
leggeri tedeschi, confermando ai tedeschi la necessità di continuare
una tattica difensiva ma allo stesso tempo accelerando l'attività
dei sommergibili e dei posamine70.
La guerra nel Mar Mediterraneo si aprì con un errore destinato ad
avere forti conseguenze politiche da parte delle forze Alleate. In
quelle acque navigavano due delle navi da guerra più veloci della
Kaiserliche Marine, l'incrociatore da battaglia Goeben e
l'incrociatore leggero Breslau; ricevuto l'ordine da Berlino di
puntare verso Costantinopoli, furono inseguite dalla Royal Navy che
però si fece sfuggire l'occasione. Il ministro della Guerra turco,
consapevole che acconsentire il passaggio nei Dardanelli alle navi
tedesche avrebbe rappresentato un atto ostile nei confronti della
Gran Bretagna e avrebbe sospinto la Turchia nell'orbita della
Germania, diede il suo assenso all'entrata nello stretto alle due
navi tedesche. Per non pregiudicare la neutralità della Turchia, le
due navi vennero cedute con un finto atto di vendita alla Turchia,
ma a ciò non seguirono atti ostili e le due navi furono ancorate al
porto di Costantinopoli71.
Negli oceani invece la caccia alle unità tedesche fu l'obiettivo
principale per le flotte Alleate. La Germania non ebbe il tempo per
far uscire le proprie navi da guerra per ostacolare il traffico
commerciale degli Alleati, così allo scoppio della guerra i pochi
incrociatori all'estero costituirono la spina nel fianco della
marina britannica; non era facile conciliare l'esigenza di
concentrare le forze nel mare del Nord in vista di un attacco a
sorpresa della Germania con la necessità di pattugliare e difendere
le rotte marittime dall'India e dai Dominions72. Con la distruzione
dell'Emden avvenuta il 9 novembre, l'oceano Indiano fu libero dalla
minaccia, ma questo successo fu neutralizzato da una grave sconfitta
nel Pacifico, nella battaglia di Coronel, dove la divisione
incrociatori dell'ammiraglio Cradock fu battuta dagli incrociatori
corazzati dell'ammiraglio Maximilian von Spee, lo Scharnhorst e lo
Gneisenau73. Questo scacco fu prontamente riscattato dall'ammiraglio
Doveton Sturdee che alla guida degli incrociatori Inflexible,
Invincible e Australia, scendendo dalle isole Fiji, l'8 dicembre
1914 prese alle spalle von Spee nei pressi delle Isole Falkland e ne
affondò l'intera divisione tranne il Dresden, distruggendo l'ultimo
strumento della potenza navale tedesca negli oceani74.
Da quel momento in poi la Gran Bretagna e i suoi alleati poterono
contare sulla sicurezza delle vie di comunicazione oceaniche per i
loro traffici di rifornimenti e truppe, ma poiché le rotte oceaniche
devono per forza avere un capolinea sulla terra ferma, la logica
mossa tedesca fu quella di incrementare lo sviluppo dell'arma
sottomarina che rese gradualmente meno effettiva questa sicurezza75.
Il Giappone ed il teatro del
Pacifico
Per approfondire, vedi teatro dell'Asia e
del Pacifico della prima guerra mondiale.
Da tempo alleato del Regno Unito, il 23 agosto 1914 il Giappone
dichiarò guerra alla Germania, segnando il destino degli
sparpagliati possedimenti tedeschi situati nell'area del Pacifico:
ai primi di ottobre una squadra navale giapponese salpò alla volta
della Micronesia, dove i tedeschi disponevano di una serie di
piccole basi, occupando entro la fine del mese le isole Caroline, le
Marshall e le Marianne praticamente senza combattere; il 31 ottobre
una forza di spedizione nipponica, rinforzata poi anche da un
contingente britannico proveniente da Tientsin, pose l'assedio al
porto fortificato di Tsingtao, possedimento tedesco in Cina fin dal
1898, obbligando la guarnigione a capitolare il 7 novembre 191476.
Il resto delle colonie tedesche fu occupato dai dominion australi
del Regno Unito: il 30 agosto 1914 una forza neozelandese occupò
senza spargimenti di sangue le Samoa, mentre la Nuova Guinea Tedesca
fu occupata dagli australiani nel settembre seguente dopo una breve
campagna contro la piccola guarnigione del possedimento; l'ultimo
avamposto tedesco, Nauru, cadde in mano australiana il 14 novembre
1914.
La neutralizzazione delle colonie tedesche non esaurì la
partecipazione giapponese al conflitto: nel 1917, su richiesta degli
Alleati, la Marina imperiale giapponese inviò una squadra di
cacciatorpediniere nel Mar Mediterraneo per contribuire alla lotta
contro gli attacchi dei sommergibili tedeschi diretti contro il
traffico mercantile77. Il Giappone non fu la sola nazione asiatica a
partecipare al conflitto: dopo un fallito tentativo di colpo di
Stato sostenuto dalla Germania, la Cina dichiarò guerra agli Imperi
centrali nel luglio del 1917, anche se ciò non comportò alcun
coinvolgimento militare; il Siam dichiarò guerra alla Germania il 22
luglio 1917 ed inviò un piccolo contingente ad aggregarsi alle
truppe britanniche in Francia nel 1918, ottenendo così alcune
concessioni dalle potenze europee durante le trattative di pace
finali78.
Il conflitto si allarga (1915)
I fronti dove si combatteva e quelli dove ci si aspettava di farlo
erano ormai numerosi. Tutti i belligeranti iniziarono a impiegare
ogni risorsa a disposizione, e allo stesso tempo affiorarono le
prime voci di opposizione alla guerra in Gran Bretagna, in Germania
dove il 1º aprile ebbe luogo una manifestazione organizzata da Rosa
Luxemburg, in Francia e Russia79. L'Italia, pur restando neutrale,
ricercava le migliori garanzie territoriali in cambio del proprio
intervento. L'8 aprile 1915 offrirono di allearsi con le potenze
centrali in cambio del Trentino, le isole della Dalmazia, Gorizia,
Gradisca e il "primato" sull'Albania. Una settimana dopo
l'Austria-Ungheria rifiutò le condizioni, e l'Italia fece richieste
ancora più gravose con le potenze dell'Intesa, che si dissero
disposte ad intavolare delle trattative80.
Intanto sul fronte del Caucaso, l'avanzata russa provocò il
risentimento dei turchi contro la popolazione armena, rea di aver
favorito le truppe dello zar. L'8 aprile iniziarono i rastrellamenti
e le fucilazioni; iniziò così una vera e propria pulizia etnica.
Massacri e deportazioni divennero sistematici, gli appelli ad
intervenire alle potenze Alleate come al governo di Berlino furono
inutili81.
Lo stallo e la ricerca di una via
d'uscita
In seguito all'arretramento tedesco successivo alla Marna, le forze
contrapposte tentarono di aggirarsi reciprocamente sul fianco nella
cosiddetta "corsa al mare", e in breve estesero il proprio sistema
trincerato dal canale della Manica alla frontiera con la Svizzera. I
tedeschi puntarono decisi verso le coste e i relativi porti del
Belgio e della Francia, i britannici mandarono rinforzi della Royal
Naval Division a Ostenda mentre il 3 ottobre i tedeschi, proseguendo
la loro avanzata verso il mare del Nord, occuparono Ypres e l'11
iniziarono l'assedio di Lilla82. Falliti tutti i tentativi di
aggiramento i due schieramenti iniziarono a rafforzare e fortificare
le proprie posizioni scavando trincee, camminamenti, rifugi e
casematte. Dal mare del Nord alle Alpi, fra uno schieramento e
l'altro, si estendeva la terra di nessuno, una fascia di terreno
martoriata dalle granate e continuamente contesa da entrambi gli
schieramenti rappresenterà fino agli ultimi attacchi Alleati del
1918 la prerogativa del conflitto83.
Il primo dei numerosi tentativi che gli eserciti contrapposti
provarono per uscire da questo stallo, avvenne il 22 aprile 1915,
quanto i tedeschi utilizzarono per la prima volta e su vasta scala
le armi chimiche, durante il secondo attacco al saliente di Ypres,
sperando in tal modo di riprendere quella guerra manovrata che erano
stati addestrati a combattere84. Iniziò così anche la "guerra dei
gas" che costò 78.198 vittime fra gli Alleati mettendone fuori
combattimento per un periodo più o meno lungo almeno 908.645,
mentre, le stesse forze Alleate, nonostante avessero impiegato nel
corso della guerra la stessa quantità di gas dei tedeschi,
inflissero ai nemici circa 12.000 perdite e 288.000 intossicati, a
dimostrazione della maggiore efficacia nelle tattiche d'impiego
tedesche85.
Tra i mesi di gennaio e febbraio la Germania intensificò la guerra
sottomarina dichiarando legittimo attaccare tutte le navi, incluse
quelle neutrali, adibite al trasporto di viveri o rifornimenti alle
potenze dell'Intesa, giustificando il fatto sostenendo che si
trattava di una "rappresaglia" contro il blocco britannico (ossia la
massiccia posa di mine nel mare del Nord a novembre 1914) che
affamava il suo popolo86. Nel frattempo tutti gli eserciti si
adoperavano per aumentare le proprie capacità aeree. In Polonia i
russi bombardavano ininterrottamente le stazioni ferroviarie
tedesche, senza però riuscire a rallentarne l'avanzata. Il 12
febbraio il Kaiser ordinò di condurre una guerra aerea contro
l'Inghilterra con l'uso degli Zeppelin, e nello stesso periodo
iniziò una pratica che caratterizzò la guerra di trincea per tutto
il conflitto sia sul fronte occidentale che in seguito sul fronte
italiano; la guerra di mine. Il 17 febbraio i britannici arruolarono
alcuni minatori che iniziarono gli studi e le modalità per creare le
condizioni per portare la guerra sotto le postazioni nemiche87.
L'Italia entra in guerra
Per approfondire, vedi fronte
italiano (prima guerra mondiale).
Dopo l'attentato di Sarajevo, Austria-Ungheria e Germania decisero
di tenere all'oscuro delle loro decisioni l'Italia. Ciò in
considerazione del fatto che l'articolo 7 della Triplice alleanza
avrebbe previsto, in caso di attacco dell'Austria-Ungheria alla
Serbia, compensi per l'Italia88. Il 24 luglio, Antonino di San
Giuliano, ministro degli esteri italiano, prese visione dei
particolari dell'ultimatum e protestò con l'ambasciatore tedesco a
Roma, dichiarando che se fosse scoppiata la guerra austro-serba
sarebbe derivata da un premeditato atto aggressivo di Vienna89. La
decisione ufficiale e definitiva della neutralità italiana fu presa
nel Consiglio dei ministri del 2 agosto 1914 e fu diramata il 3
mattina90.
La neutralità ottenne inizialmente consenso unanime; tuttavia il
brusco arresto dell'offensiva tedesca sulla Marna instillò i primi
dubbi sulla invincibilità tedesca. Macule interventiste andarono
formandosi nell'autunno 1914 fino a raggiungere una consistenza non
trascurabile appena un anno dopo. Gli interventisti additavano la
diminuzione della statura politica incombente sull'Italia se fosse
rimasta spettatrice passiva. I vincitori non avrebbero dimenticato
né perdonato, e se i vincitori fossero stati gli Imperi centrali, si
sarebbero anche vendicati della nazione che accusavano traditrice di
un'alleanza trentennale91. Alla fine del 1914 il ministro degli
Esteri Sidney Sonnino iniziò le trattative con entrambe le parti per
scucire i maggiori compensi possibili, e il 26 aprile 1915 concluse
le trattative segrete con l'Intesa mediante la firma del patto di
Londra con il quale l'Italia si impegnava ad entrare in guerra entro
un mese92. Il 3 maggio successivo fu rotta la Triplice Alleanza e fu
avviata la mobilitazione, e il 23 maggio fu dichiarata guerra
all'Austria-Ungheria, ma non alla Germania, con cui Antonio Salandra
sperava di non guastare del tutto i rapporti93.
Il piano strategico dell'esercito italiano, sotto il comando del
generale Luigi Cadorna, Capo di Stato Maggiore italiano, prevedeva
di intraprendere un'azione offensiva/difensiva per contenere gli
austro-ungarici nel loro saliente incentrato sulla città di Trento e
sul fiume Adige, che si incunea nell'Italia settentrionale lungo il
lago di Garda, nella regione tra Brescia e Verona; concentrando
invece lo sforzo offensivo verso est, dove gli italiani potevano
contare a loro volta su un saliente che si proiettava verso
l'Austria-Ungheria, poco a ovest del fiume Isonzo94. L'obiettivo a
breve termine dell'Alto Comando italiano era costituito dalla
conquista della città di Gorizia, situata poco più a nord di
Trieste, mentre quello a lungo termine, ben più ambizioso e di
difficile attuazione, se non addirittura visionario, prevedeva di
avanzare verso Vienna passando per Trieste95. Sul fronte italiano
furono ammassati circa mezzo milione di uomini, a cui in un primo
tempo gli austriaci seppero contrapporre soltanto 80.000 soldati, in
parte inquadrati in milizie territoriali male armate e poco
addestrate.
Il crollo della Serbia
Il fronte serbo rimase sostanzialmente stazionario per gran parte
del 1915, finché gli eventi non piegarono improvvisamente a favore
degli Imperi centrali. Il 6 settembre 1915 lo zar Ferdinando I di
Bulgaria portò il suo paese nel campo degli Imperi centrali
sottoscrivendo un trattato di alleanza con la Germania: i bulgari
avevano da tempo mire espansionistiche sui territori della Macedonia
occupati da serbi e greci, ed erano desiderosi di vendicare le
sconfitte subite ad opera di questi durante la precedente seconda
guerra balcanica96. Dopo gli insuccessi del 1914 le forze
austroungariche sul fronte serbo erano ora passate sotto il comando
del generale tedesco August von Mackensen, e l'11ª Armata tedesca fu
ritirata dal fronte orientale per appoggiare il nuovo tentativo di
invasione; la situazione della Serbia era aggravata anche dal fatto
che gli Alleati non riuscivano a fornirle adeguati aiuti: nel
tentativo di stabilire un collegamento diretto, il 5 ottobre 1915
truppe anglo-francesi sbarcarono a Salonicco in Grecia, paese
formalmente neutrale ma lacerato dai dissidi tra la fazione
pro-Germania (rappresentata dal re Costantino I) e quella
pro-Alleati (capitanata dal primo ministro Eleftherios Venizelos)97.
Il 6 ottobre 1915 von Mackensen diede avvio all'invasione e le forze
austro-tedesche attraversarono la Sava penetrando nel nord della
Serbia, mentre l'11 ottobre successivo le truppe bulgare si misero
in moto attaccando da est: i serbi opposero una dura resistenza
nelle regioni montuose dell'interno ma si ritrovarono in forte
inferiorità numerica e vennero progressivamente respinti verso
sud-ovest; il 22 ottobre i bulgari presero il nodo ferroviario di
Kumanovo, tagliando la via di ritirata serba verso sud e bloccando
le truppe francesi che risalivano da Salonicco verso nord, poi
sconfitte ed obbligate alla ritirata nella successiva battaglia di
Krivolak (17 ottobre - 21 novembre)98. Le truppe serbe cercarono di
arrestare l'avanzata degli Imperi centrali nella regione del Kosovo
ma furono nuovamente battute, ed il 25 novembre 1915 il generale
Putnik diede ordine alle sue truppe di ripiegare oltre in confine
con l'Albania, nella speranza di evacuare ciò che rimaneva
dell'esercito serbo dai porti sul mare Adriatico: dopo aver perso
migliaia di uomini a causa degli stenti e degli attacchi degli
irregolari albanesi, i 150.000 superstiti dell'esercito serbo
raggiunsero il mare e furono evacuati da navi Alleate a Corfù da
dove, dopo essere stati riorganizzati e riequipaggiati, furono poi
destinati al nuovo fronte davanti Salonicco99.
Si combatte su tutti i fronti
(1916)
Da un punto di vista strategico, durante il 1915, le armate tedesche
erano rimaste sulla difensiva in occidente. Anche se i battaglioni,
i reggimenti e talora anche le divisioni si impegnavano in attacchi
con obiettivi limitati, in una più vasta concezione delle cose la
Germania si accontentava di tenere il terreno conquistato in Francia
e Belgio mentre concentrava le proprie attenzioni ad oriente dove
inviò il grosso delle truppe. Questa strategia si sarebbe capovolta
nel 1916 quando le potenze centrali avrebbero mantenuto la difensiva
ad oriente e cercato di far uscire la Francia dalla guerra100.
Lo stesso giorno in cui venne sferrato l'attacco al Montenegro, da
Gallipoli le ultime truppe britanniche lasciarono capo Helles101.
Sollevati dalla pressione nemica a Gallipoli i turchi trasferirono
in Mesopotamia 36.000 uomini dove la pressione russa del generale
Judenič, costrinse i turchi ad arretrare fino ad Erzurum a metà
febbraio. Le truppe zariste fecero 5000 prigionieri turchi entrando
nella città, e continuarono ad incalzare i turchi verso ovest. Erano
vittorie in terre remote, ma almeno per il momento riuscirono a
sollevare il morale delle truppe russe102.
A febbraio 1916 erano allo studio due piani, uno tedesco ed uno
anglo-francese che miravano entrambi alla vittoria sul fronte
occidentale: quello tedesco, già in fase di progettazione, mirava
alla vittoria di logoramento tramite un attacco massiccio e intenso
di logoramento alla piazzaforte di Verdun, e quello anglo-francese
atto a sfondare in estate le linee nemiche sulla Somme pianificato
per distruggere le difese tedesche con una vera e propria "guerra
d'attrito"103. I britannici avrebbero tentando di vincere la
resistenza tedesca con il peso della propria industria bellica sotto
forma di un incessante tiro di artiglieria seguito da un massiccio
attacco di fanteria che creasse le condizioni e aprisse ampi varchi
per una rapida avanzata in profondità della cavalleria e, forse, per
la vittoria definitiva104.
Da Verdun alla Somme
Per approfondire, vedi battaglia
di Verdun e battaglia
della Somme.
I tedeschi andarono all'assalto di Verdun il 21 febbraio 1916 con un
bombardamento violento e preciso che martellò per nove ore le linee
francesi, distruggendo trinceramenti e linee telefoniche, e
impedendo l'arrivo di qualsiasi rinforzo. Cessato l'intenso fuoco
d'artiglieria, 140.000 soldati tedeschi attaccarono verso le difese
francesi105, occupando il numero più alto possibile di posizioni
nemiche, in vista del massiccio attacco del giorno successivo. In
alcuni casi le pattuglie riuscirono perfino a fare prigionieri
mentre i ricognitori aerei riportarono di una distruzione di vaste
proporzioni nelle linee nemiche106. L'attacco tedesco non sortì gli
effetti sperati, nonostante ciò il 25 febbraio cadde uno dei simboli
di Verdun, fort Douaumont, e Joffre acconsentì alla scelta del suo
secondo, il generale Édouard de Castelnau, di inviare immediatamente
a Verdun la 2ª armata comandata da Philippe Pétain. De Castelnau
ordinò a Pétain di difendere fino alla morte le due rive della Mosa,
accettando in pieno la sfida di Falkenhayn che in questo modo poté
eseguire in pieno il suo piano di "dissanguamento graduale"
dell'esercito francese107.
Malgrado l'iniziale impeto, l'attacco tedesco tra la fine di
febbraio e l'inizio di marzo rallentò per via del riassetto che
Pétain dette alle linee del fronte. Venne deciso di condurre una
vasta azione anche sulla riva sinistra della Mosa per alleggerire la
riva destra. E proprio sulla riva sinistra, vi era un'altura che
aveva una notevole visuale in ogni direzione, il Mort-Homme, la sua
conquista avrebbe consentito di dominare anche la successiva altura
verso Verdun, il Bois Bourrus108.
Nei successivi tre mesi le avanzate da entrambe le parti furono
minime al costo di perdite gravissime; in maggio i tedeschi si
prepararono ad un nuovo assalto che comprendeva l'attacco alle
future basi di partenza per l'assalto finale a Verdun, ossia la
piazzaforte di Thiaumont, l'altura di Fleury, il forte di Souville e
il forte di Vaux, ossia l'estremità nord-est della linea
francese109. Il 7 giugno cadde fort Vaux, ma quest'ultimo tentativo
tedesco di conquistare Verdun fallì con perdite elevate, e da lì a
pochi giorni Erich von Falkenhayn dovette fronteggiare l'imponente
offensiva anglo-francese sulla Somme110.
Alle 7:30 del 1º luglio, dopo una settimana di bombardamento
preliminare, le truppe anglo-francesi uscirono dalle trincee sulla
Somme attaccando su un fronte di 40 chilometri. Il 12 luglio, per
conseguenza dei combattimenti in Francia e dell'offensiva Brusilov
ad oriente, Falkenhayn interruppe le operazioni offensive a Verdun e
trasferì da quel settore alla Somme due divisioni e sessanta pezzi
d'artiglieria pesante. Sebbene i combattimenti vi sarebbero
continuati sino a dicembre, sarebbero stati i francesi a dettare il
corso della battaglia sulle rive della Mosa e lo stato maggiore
tedesco avrebbe perso ogni velleità sul fronte di Verdun111.
Nelle prime due settimane di luglio la battaglia della Somme fu
condotta con una serie di azioni su scala ridotta preparatorie per
una spallata di maggiore rilievo, ma per l'inizio di agosto, Haig
accettò l'idea che la possibilità di effettuare uno sfondamento era
del tutto tramontata; i tedeschi «avevano posto rimedio in grande
misura alla disorganizzazione» di luglio. Il 29 agosto il capo di
stato maggiore tedesco, Erich von Falkenhayn, fu sostituito da Paul
von Hindenburg ed Erich Ludendorff, che immediatamente introdussero
una nuova dottrina difensiva. Il 23 settembre i tedeschi iniziarono
la costruzione della linea Hindenburg. Impegnati in due teatri di
scontro, i tedeschi oramai risentivano pesantemente della tattica
logorante e caparbia dei britannici sulla Somme e dei contrattacchi
di Robert Georges Nivelle a Verdun112.
Fra il 15 luglio e il 14 settembre, l'inizio della battaglia
successiva, la 4ª armata britannica sulla Somme condusse circa 90
attacchi della forza da un battaglione in su, di cui solo quattro
per tutti i nove chilometri del proprio fronte. Perdette 82.000
uomini, per un'avanzata di meno di un chilometro: un risultato anche
peggiore di quello del 1º luglio113. Il 15 settembre i britannici si
lanciarono nella battaglia di Flers-Courcelette, dove ci fu il
debutto operativo del carro armato114. Douglas Haig continuava
intanto a sollecitare una pressione «senza soste», e grazie ad una
serie di altri piccoli successi alleati nella prima settimana di
ottobre i tedeschi ripiegarono su nuove linee difensive più
arretrate. Ma i tedeschi avevano dimostrato una forte resistenza, e
i limitati successi portati dagli alleati non erano tali da
alimentare speranze di uno sfondamento115. Il 18 novembre con un
ultimo attacco alle trincee verso Grandcourt, che si risolse con un
successo limitato, Haig avrebbe «rafforzato la posizione dei
rappresentanti britannici» nell'imminente conferenza militare
alleata di Chantilly, e l'offensiva della Somme poté così essere
sospesa116.
Nel complesso il guadagno territoriale alleato fu di circa 110
chilometri quadrati e 51 villaggi riconquistati; i tedeschi erano
arretrati di circa 7/8 chilometri con notevolissime perdite di
uomini e materiali. Da un punto di vista puramente tattico si trattò
quindi di una sconfitta tedesca, ma il guadagno alleato fu molto
esiguo di fronte all'enorme dispendio di uomini e materiali117. Il
mediocre risultato tattico e strategico conseguito sulla Somme costò
il siluramento del generale Joseph Joffre, sostituito dal
"vincitore" di Verdun Robert Nivelle. Le stragi di Verdun e della
Somme comunque non cambiarono le strategie inconcludenti dello stato
maggiore francese, che avrebbe ripetuto i medesimi errori l'anno
seguente portando il proprio esercito a ribellarsi contro i propri
superiori in quella serie di ammutinamenti di massa che
caratterizzarono il 1917 dell'esercito francese118.
Combattimenti sull'Isonzo
Per approfondire, vedi Strafexpedition e Fronte italiano (prima guerra
mondiale)
Il 15 maggio ebbe inizio la Strafexpedition ("spedizione punitiva"),
durante la quale l'esercito italiano venne attaccato tra la valle
dell'Adige e la Valsugana. Nei venti giorni successivi, gli
austroungarici conquistarono una posizione dopo l'altra, minacciando
di tagliare fuori le truppe italiane sull'Isonzo. Utilizzando le
divisioni di riserva, il generale Cadorna riuscì a fermare gli
austriaci e riprendere alcune delle posizioni perse, rischiando però
che un'ulteriore offensiva nemica sull'Isonzo potesse far perdere ai
suoi uomini le poche conquiste ottenute finora sul fronte
friulano119.
Non riuscendo a muovere gli austriaci dal Trentino, Cadorna decise
di concentrarsi nuovamente sull'Isonzo. Il 6 agosto le truppe
italiane passano all'offensiva, dal Sabotino al mare, raggiungendo e
superando l'Isonzo, conquistando Gorizia e costringendo parte della
5ª armata austro-ungarica a ripiegare di alcuni chilometri sul
Carso. I nemici però avevano ceduto terreno per posizionarsi su una
nuova linea difensiva già pronta, contro la quale si infransero i
nuovi assalti italiani.120 A settembre e ottobre, ebbero inizio
altre due battaglie, la settima (14-16 settembre) e l'ottava (10-12
ottobre) battaglia dell'Isonzo, che causarono un ingente numero di
vittime e portarono a scarse conquiste territoriali. Errori,
condizioni meteo avverse e scarsità di materiali impedirono agli
italiani di sfondare le linee e raggiungere Trieste121. Il comando
italiano, già dopo l'ottava offensiva, voleva dare il via ad un
nuovo attacco prima che tutto il fronte fosse bloccato dalla cattiva
stagione in arrivo. L'attacco ebbe inizio solo il 31 ottobre; la
linea da attaccare in questa operazione era quella passante per
Colle Grande-Pecinca-bosco Malo, e possibilmente la linea Dosso
Faiti-Castagnevizza-Sella delle Trincee. Il 2 novembre Cadorna
decise di sospendere l'attacco per mancanza di rifornimenti anche se
gli scontri ripresero comunque il giorno seguente. Nel complesso si
avanzò solo di qualche chilometro e le perdite sofferte ammontarono
a 39 000 soldati per gli italiani e 33 000 per gli
austroungarici.122
L'offensiva
Brusilov
Dopo che a maggio gli austriaci sferrarono una massiccia
offensiva contro le posizioni italiane in Trentino, anche l'Italia
si appellò allo zar per diminuire la pressione sul proprio settore.
I comandi russi sapevano che non era possibile sferrare nuovi
attacchi per assistere gli italiani, data la situazione di truppe e
materiali, che andavano radunati e preparati per una prossima
decisiva offensiva da compiersi durante la stagione estiva123.
Solamente il generale Brusilov reagì positivamente alla richiesta, e
poiché stava organizzando di attaccare in luglio anticipò l'azione a
giugno per cercare di allentare la pressione sull'Italia,
costringendo gli austriaci a trasferire truppe da ovest ad est. Il 4
giugno l'offensiva iniziò con un potente tiro d'artiglieria,
condotto da 1938 pezzi su un fronte di circa 350 km, dalle
paludi di Pryp'jat' fino alla Bucovina124. In pochi giorni i russi
sfondarono in vari punti, in otto giorni vennero catturati 2992
ufficiali austriaci e 190.000 soldati, 216 cannoni pesanti, 645
mitragliatrici e 196 obici. Un terzo delle truppe austriache che
avevano contrastato l'avanzata erano state fatte prigioniere. Cinque
giorni dopo i russi erano a Czernowitz, la città più orientale
dell'Austria-Ungheria125.
Alla fine di luglio la città di Brody, alla frontiera galiziana,
cadde in mano ai russi, che nelle due settimane precedenti avevano
catturato altri 40.000 austriaci; ma anche le perdite russe furono
pesanti, e nell'ultima settimana di luglio Hindenburg e Ludendorff
assunsero la difesa dell'ampio settore austriaco126. Ai primi di
settembre Brusilov raggiunse le pendici dei Carpazi, ma lì si
arrestò per le evidenti difficoltà geografiche, e soprattutto
l'arrivo di nuove truppe tedesche da Verdun arrestò la ritirata
austriaca e inflisse gravi perdite ai russi. L'offensiva volse al
termine, e anche se non fece uscire di scena gli austro-ungarici,
questa raggiuse l'obiettivo principale di distogliere importanti
forze tedesche dal settore di Verdun e soprattutto di costringere
gli austro-ungarici a levare truppe dal settore italiano. Il
potenziale russo calò vistosamente, mentre i problemi interni e le
carenze di materiali stavano falcidiando le forze russe che dalla
fine dell'offensiva di Brusilov non furono più capaci di sferrare
offensive contro gli Imperi centrali127.
La campagna di Romania
L'opportunità di scendere in campo con gli Alleati, l'amicizia che
legava Nicolae Filipescu e Take Ionescu alle potenze occidentali e
il desiderio di liberare i fratelli della Transilvania oppressi
dalla dominazione austro-ungarica, ben più dura di quella che
dovettero subire i francesi in Alsazia e Lorena, convinsero
l'opinione pubblica romena che l'entrata in guerra avrebbe portato
notevoli vantaggi. Tutto ciò unito ai successi dell'avanzata di
Brusilov incoraggiarono la Romania a compiere il passo decisivo, che
l'avrebbe portata nell'abisso. Qualche possibilità in più la Romania
l'avrebbe avuta se fosse scesa in campo prima, quando la Serbia era
ancora una forza attiva e la Russia una potenza degna di questo
nome. I due anni in più di preparazione avevano raddoppiato il
numero di soldati, ma in realtà ne diminuirono l'efficienza; mentre
i suoi avversari avevano sviluppato potenza di fuoco ed
equipaggiamento, l'isolamento della Romania e l'incapacità dei suoi
vertici militari avevano impedito la trasformazione di un esercito
composto da uomini armati di baionetta in una forza moderna128.
L'avanzata romena si risolse con una enorme sconfitta; la lentezza
delle divisioni che attraversarono i Carpazi consentì a Falkenhayn
(da poco sostituito al comando supremo da Hindenburg e Ludendorff)
di ingrossare le file austro-ungariche con l'invio di divisioni
tedesche e bulgare. Questo permise a Ludendorff di arginare i romeni
sui Carpazi mentre Mackensen li attaccava da sud-ovest, e il 23
novembre li aggirava superando il Danubio. Nonostante la reazione
romena, la forza congiunta di Falkenhayn e Mackensen si dimostrò
insostenibile per un esercito obsoleto e mal guidato. Il 6 dicembre
gli austro-tedeschi entrarono a Bucarest continuando l'inseguimento
di un esercito ormai in rotta129. La maggior parte della Romania,
con i suoi sterminati campi di grano e i giacimenti petroliferi, era
ormai in mano nemica, l'esercito romeno ridotto all'impotenza e gli
alleati occidentali subirono un rovescio ben più grande di tutti i
vantaggi che avevano sperato di acquisire con l'entrata in guerra
della Romania130.
Stallo nei Balcani
Eliminata la Serbia le forze austroungariche invasero il Montenegro
ai primi di gennaio del 1916, e nonostante la sconfitta patita nella
battaglia di Mojkovac (6-7 gennaio 1916) obbligarono la piccola
nazione a capitolare entro la fine del mese131. Lanciate
all'inseguimento dell'armata serba in ritirata, le forze degli
Imperi centrali penetrarono anche in Albania, paese in preda
all'anarchia dopo che una rivolta popolare nel settembre del 1914
aveva portato alla dissoluzione del governo centrale132: le truppe
austro-bulgare occuparono il nord ed il centro del paese entro la
fine dell'aprile 1916, ma un corpo di spedizione italiano fu in
grado di prendere il controllo delle regioni meridionali, nel
tentativo di mantenere il possesso dello strategico porto di
Valona133. Davanti Salonicco la situazione si era ormai stabilizzata
in una lunga guerra di posizione: dopo il fallimento patito nella
prima battaglia di Doiran (9-18 agosto 1916), l'armata alleata
(comprendente truppe francesi, britanniche, serbe, italiane e russe)
dovette subire un'offensiva bulgaro-tedesca lungo il fiume Strimone
tra il 17 ed il 27 agosto, riuscendo a contenerla; passate al
contrattacco a metà settembre, le forze alleate presero Monastir,
nel sud della Serbia, il 19 novembre seguente, guadagnando un po' di
terreno ma senza riuscire a spezzare il fronte bulgaro134.
Gli eventi del 1917
Il 1917 iniziò per gli Imperi centrali in modo molto favorevole. In
ottobre gli austriaci sfondarono sul fronte italiano arrivando alle
porte di Venezia e i tedeschi si apprestavano a trasferire 42
divisioni, più di mezzo milione di uomini, dal fronte orientale a
quello occidentale, dato che i russi avevano deposto le armi il 1º
dicembre, quando una commissione bolscevica lasciò Pietrogrado per
attraversare le linee tedesche a Dvinsk diretta verso la fortezza di
Brest-Litovsk dove una delegazione di tedeschi, austriaci, bulgari e
turchi li attendeva per intavolare le trattative di pace135.
Sul fronte occidentale la battaglia della Somme terminò con uno
smacco per la Gran Bretagna, e dopo le tre fallimentari offensive
Alleate di aprile ad Arras, sul crinale di Vimy e sull'Aisne, in
Francia iniziò un periodo di problemi interni alle file
dell'esercito con ammutinamenti di massa e frequenti episodi di
diserzione. Ad occidente, nonostante i tedeschi cedettero terreno
attestandosi sulla Linea Hindenburg, nella primavera del 1917 iniziò
a serpeggiare un forte risentimento verso la guerra in seno a molti
eserciti, soprattutto quello francese, reduce da oltre due anni di
una guerra sanguinosa, che vedeva moltiplicarsi il numero dei
disertori. I disordini furono di tale portata che fecero capire
all'alto comando francese che i soldati non erano più disposti a
sopportare i tormenti di una nuova offensiva: avrebbero tenuto la
posizione, ma non sarebbero usciti dalle trincee. Tutto il peso
dell'offensiva ricadeva quindi sulle spalle delle forze britanniche,
che si sarebbero di lì a poco trovate a sostenere il peso della
ripresa dei combattimenti in Francia e nelle Fiandre136.
La Russia in subbuglio
Per approfondire, vedi rivoluzione
d'ottobre.
Le enormi perdite della Russia, dovute ai difetti del suo apparato
bellico, che pur tuttavia aveva evitato molti sacrifici agli
Alleati, avevano minato alle fondamenta la resistenza morale e
fisica del suo esercito, e al fronte molti ufficiali russi non
riuscivano più a mantenere la disciplina137. Su tutto il fronte i
bolscevichi incitavano gli uomini a rifiutarsi di combattere e a
partecipare ai comitati dei soldati per sostenere e diffondere le
idee rivoluzionarie. Dal fronte le agitazioni si trasmisero alle
città e alla capitale. A Pietrogrado il 3 marzo 1917 scoppiò un
violento sciopero negli stabilimenti Putilov, la principale fabbrica
di armamenti e munizioni per l'esercito. L'8 marzo gli operai in
sciopero erano circa 90.000, il 10 marzo a Pietrogrado fu proclamata
la legge marziale, e lo stesso giorno il potere della Duma fu messo
in discussione dal Soviet cittadino del principe menscevico
Cereteli. Il 12, a Pietrogrado 17.000 soldati si unirono alla folla
che protestava contro lo zar, alle 11 del mattino fu dato alle
fiamme il tribunale sulla prospettiva Litejnyj e le stazioni di
polizia: era cominciata la prima rivoluzione russa138.
Le offensive britanniche
Per tutto maggio i britannici continuarono gli attacchi: in sei
settimane di combattimenti i tedeschi arretrarono dai tre agli otto
chilometri su un fronte lungo trentacinque. A metà maggio le truppe
al comando di Haig avevano compiuto un'avanzata più consistente di
quando, due anni e mezzo prima, era cominciata la guerra di trincea:
in poco più di un mese avevano conquistato un centinaio di
chilometri quadrati di terreno, catturando oltre 20.000 prigionieri
e 252 cannoni pesanti. Il carro armato era ormai diventato parte
integrante degli attacchi della fanteria britannica. Il 14 maggio, a
Magonza, anche i tedeschi sperimentarono il carro armato, due giorni
prima che terminasse la battaglia di Arras139.
Il governo britannico desiderava un successo spettacolare per
neutralizzare lo scoramento a seguito del fallimento di Nivelle e
dello sfacelo in Russia. In Mesopotamia le operazioni si erano
praticamente fermate dopo la resa di Kut, con i britannici intenti a
migliorare la loro situazione logistica e gli ottomani troppo deboli
per scacciarli dalla regione; il nuovo comandante britannico,
generale Frederick Stanley Maude, iniziò la sua offensiva il 13
dicembre 1916, risalendo il corso del Tigri con il supporto di una
flottiglia di cannoniere fluviali140. Il 23 febbraio 1917 i
britannici sconfissero gli ottomani nella seconda battaglia di Kut,
obbligandoli alla ritirata: incoraggiato dal successo l'alto comando
britannico autorizzò Maude a continuare l'avanzata, e l'11 marzo
seguente i britannici presero Baghdad, sgombrata dagli ottomani141.
L'azione britannica proseguì poi verso nord in direzione di Samarra
(caduta il 23 aprile), concludendosi alla fine di settembre nei
pressi di Ramadi dove gli ottomani subirono una nuova sconfitta; il
fronte entrò poi in un lungo periodo di stasi, con entrambi i
contendenti concentrati sulla campagna di Palestina142.
La vittoria britannica nella battaglia di Rafa il 9 gennaio 1917
aveva definitivamente allontanato la minaccia ottomana alla penisola
del Sinai, e i comandanti Alleati iniziarono quindi a progettare
l'invasione della Palestina. Dopo una lunga preparazione logistica
le forze del generale Archibald Murray iniziarono l'offensiva ai
primi di marzo del 1917, subendo però una sconfitta nella prima
battaglia di Gaza (26 marzo); un secondo tentativo di sfondare la
linea difensiva ottomana davanti alla città, anche con il contributo
di gas tossici e qualche carro armato, fallì nuovamente il 19 aprile
seguente con gravi perdite per i britannici143. Nel giugno del 1917
Murray fu rimpiazzato dal generale Edmund Allenby, mentre sul fronte
opposto Erich von Falkenhayn giunse nel teatro con un piccolo
contingente di specialisti tedeschi per rinforzare lo schieramento
ottomano. Dopo lunghi preparativi, l'offensiva britannica iniziò
alla fine di ottobre del 1917: una prima vittoria nella battaglia di
Beersheba (31 ottobre) consentì ai britannici di aggirare la linea
difensiva ottomana, poi crollata dopo la sconfitta nella terza
battaglia di Gaza (31 ottobre - 7 novembre)144; nonostante il clima
invernale ed i contrattacchi ottomani, Allenby proseguì l'avanzata
ed il 9 dicembre i reparti britannici occuparono Gerusalemme, un
importante obiettivo simbolico, prima di arrestarsi per il
peggiorare delle condizioni meteo145.
La Russia esce dal conflitto
Per approfondire, vedi trattato
di Brest-Litovsk.
Lo zar fu costretto ad abdicare il 15 marzo 1917 e il governo
provvisorio di tendenze moderate si mise alla guida del paese, ma
senza successo. A maggio gli succedette un altro governo di tendenze
più socialiste capeggiato da Kerensky che nonostante le sempre
maggiori richieste di pace non ritirò le truppe dal fronte. Dopo la
partenza di Hindenburg e Ludendorff, il comando del fronte orientale
passò a Hoffmann, che, unendo strategia militare e politica,
paralizzò le forze russe, rendendo disponibili truppe tedesche sul
fronte occidentale e in minima parte sul fronte italiano146.
La scintilla scoppiò il 7 novembre quando dopo poco le 22
l'incrociatore Aurora, alla fonda nella Neva annunciò che avrebbe
fatto fuoco sul palazzo d'Inverno, e sparò alcuni colpi a salve per
dimostrare che non scherzava. All'una di notte il palazzo era
occupato dai bolscevichi, Lenin fu eletto presidente del consiglio
dei commissari del popolo e governava la capitale russa147. Il
loquace governo di Kerensky fu spazzato via, i bolscevichi imposero
al popolo russo un regime comunista e in dicembre conclusero
l'armistizio con la Germania148. Le trattative di pace furono
complicate, a Lenin serviva tranquillità lungo il fronte per
fronteggiare le minacce interne, e allo stesso tempo gli Imperi
centrali reclamavano condizioni di resa durissime. I tedeschi si
rendevano conto che l'integrità territoriale della Russia si stava
velocemente disgregando, così si permisero di richiedere condizioni
ancor più dure dopo che il 21 febbraio i bolscevichi accettarono le
prime richieste. Il 24 febbraio dopo una tempestosa discussione il
comitato centrale accettò senza condizioni le richieste dei
tedeschi149.
La guerra sottomarina
indiscriminata
Sebbene nel dicembre 1916 gli imperi centrali fossero riusciti ad
impadronirsi di un importante canale di approvvigionamento con
l'occupazione della Romania e l'acquisizione del controllo della
regione danubiana, il nulla di fatto con cui si era conclusa la
battaglia dello Jutland aveva lasciato agli inglesi il dominio dei
mari, permettendo loro di mantenere il blocco navale ai danni della
Germania. Il gioco del blocco marittimo britannico era ormai
diventato un problema ineludibile, ma d'altro canto i vertici
militari erano confidenti che, una volta annientato il blocco,
avrebbero potuto risolvere la partita sul fronte occidentale nel
giro di pochi mesi; i vertici tedeschi si risolsero per estendere la
guerra sottomarina, anche se ciò comportava inevitabilmente la
prospettiva del coinvolgimento americano. Il primo febbraio 1917 la
Germania formalizzò la cosiddetta guerra sottomarina indiscriminata:
da quel momento in avanti ogni nave diretta ai porti dell'Intesa
sarebbe stata considerata un bersaglio legittimo; pochi giorni dopo
gli Stati Uniti ruppero le relazioni diplomatiche con la
Germania150.
Gli Stati Uniti entrano in guerra
Nonostante le provocazioni susseguitesi incessantemente per due
anni, a partire dall'incidente del Lusitania, il presidente Woodrow
Wilson si attenne alla sua politica di neutralità. La decisione
tedesca della campagna sottomarina indiscriminata fornì una prova
sufficiente dell'infondatezza delle speranze di pace di Wilson, e
quando a ciò seguì il deliberato affondamento di navi statunitensi e
il tentativo di istigare il Messico ad attaccare gli Stati Uniti151,
il presidente Wilson ruppe gli indugi152. Il 4 aprile 1917
presidente Wilson presentò al Congresso la proposta di entrare in
guerra; il 6 aprile gli Stati Uniti dichiararono guerra alla
Germania. Nessuno dubitava che l'impatto delle truppe statunitensi
in Europa fosse potenzialmente enorme; gli Stati Uniti avrebbero
addestrato circa un milione di soldati, che a poco a poco sarebbero
saliti a tre milioni. Ma l'operazione avrebbe richiesto tempo; ci
sarebbe voluto almeno un anno, o forse più, prima che l'immensa
macchina del reclutamento, dell'addestramento, del trasporto al di
là dell'Atlantico e del rifornimento in Francia potesse funzionare a
pieno regime153.
In quell'aprile le prospettive per gli Imperi centrali si fecero
buie: gli Stati Uniti si apprestavano a diventare belligeranti
attivi, la Russia nonostante i disordini interni all'esercito non si
era ancora ritirata dalla guerra, le potenze Alleate erano ormai
superiori per numero di soldati e risorse. Germania e
Austria-Ungheria potevano contare sul solo vantaggio - che comunque
nessuno avrebbe potuto privargli - delle numerose linee di
comunicazione interne; armate, città, fabbriche, reti ferroviarie,
stradali e fluviali si diramavano in modo complesso all'interno dei
due paesi e risultavano inattaccabili per gli Alleati, mentre le
linee di comunicazioni tra Gran Bretagna e Francia con gli Stati
Uniti erano continuamente minacciate dagli U-Boot154.
Disfatta italiana nella battaglia
di Caporetto
Per approfondire, vedi battaglia
di Caporetto.
Con la linea di fronte austro-ungarica intorno a Gorizia a
rischio di collasso a seguito dell'undicesima battaglia dell'Isonzo,
i tedeschi decisero di intervenire in aiuto dei loro alleati in modo
da alleggerire la pressione italiana. Hindenburg e Ludendorff,
comandanti supremi dell'esercito tedesco, si accordarono con Arthur
Arz von Straussenburg per l'organizzazione dell'offensiva
combinata155. Alle 2:00 in punto del 24 ottobre 1917 le artiglierie
austro-germaniche iniziarono a colpire le posizioni italiane dal
monte Rombon all'alta Bainsizza alternando lanci di gas a granate
convenzionali, colpendo in particolare tra Plezzo e l'Isonzo156.
Subito dopo la fanteria austro-tedesca sfondò le linee italiane sia
sulle montagne sia nella valle dell'Isonzo, dove una divisione
germanica raggiunse fin dal pomeriggio del 24 ottobre la città di
Caporetto; quindi gli austro-tedeschi avanzarono per 150 km in
direzione sud-ovest raggiungendo Udine in soli quattro giorni,
mentre l'esercito italiano ripiegava disordinatamente con fenomeni
di disgregazione e collasso tra le truppe. Cadorna, venuto a sapere
della caduta di Cornino il 2 novembre e di Codroipo il 4, ordinò
all'intero esercito di ripiegare sul fiume Piave, sul quale nel
frattempo si erano fatti significativi passi avanti
nell'impostazione di una linea difensiva grazie agli episodi di
resistenza sul Tagliamento. La disfatta di Caporetto provocò il
crollo del fronte italiano sull'Isonzo con la conseguente ritirata
delle armate schierate dall'Adriatico fino alla Valsugana, oltre
alle perdite umane e di materiale; in due settimane andarono perduti
350.000 soldati fra morti, feriti, dispersi e prigionieri, ed altri
400.000 si sbandarono verso l'interno del paese157.
La svolta (1918)
Nonostante fossero sempre state superiori in termini numerici alle
potenze centrali, le forze dell'Intesa, a causa dello spreco di
forze e del collasso della Russia, all'inizio del 1918 videro
ribaltarsi la situazione: avrebbero dovuto passare parecchi mesi
prima che le forze statunitensi facessero pendere nuovamente l'ago
della bilancia a loro favore. Alla conferenza di Rapallo di
novembre, fu decisa la costituzione di un consiglio supremo di
guerra dove i maggiori esponenti dei governi alleati sarebbero stati
affiancati da rappresentanti militari158. Di fatto questi ultimi non
avevano però il potere esecutivo in quanto i capi di stato maggiore
erano subordinati al potere politico e agli interessi economici. Nel
frattempo i tedeschi iniziarono a trasferire decine di divisioni da
oriente ad occidente, e alla fine di gennaio le divisioni tedesche
divennero 177, con altre 30 in arrivo, mentre il potenziale alleato
indebolito dalle enormi perdite nel pantano di Passchendaele, scese
a 172 divisioni, formate ognuna da nove, invece che dai soliti
dodici, battaglioni159.
Erich Ludendorff cogliendo il momento favorevole e cercando di
anticipare l'arrivo in forze delle truppe statunitensi, ripose le
speranze di vittoria in una nuova fulminea e imponente offensiva ad
occidente. Per poter utilizzare tutte le truppe disponibili riuscì
ad estorcere una pace definitiva con il governo bolscevico e analoga
pace impose alla Romania; inoltre per assicurare per quanto
possibile una base economica alla sua offensiva fece occupare gli
immensi campi di grano dell'Ucraina, incontrando solo una misera
resistenze da truppe cecoslovacche prigioniere dei russi160.
L'ultimo grande assalto tedesco
Per approfondire, vedi offensiva
di primavera.
Dal gennaio 1918 truppe statunitensi sbarcavano settimanalmente in
Francia: dopo quarantadue mesi e mezzo dall'inizio della guerra la
presenza delle truppe di Pershing sul campo di battaglia era un dato
di fatto. Il 23 febbraio per la prima volta le truppe statunitensi
presero parte ad un'azione a Chevregny insieme ai francesi, con due
ufficiali e 24 soldati. Mentre le truppe tedesche dilagavano ad
oriente il 21 marzo Ludendorff lanciò una grande offensiva che, in
caso di successo, avrebbe consentito alla Germania di vincere la
guerra161.
Le conquiste fatte dai tedeschi durante l'offensiva furono
impressionanti per gli standard del fronte occidentale: 90.000
prigionieri catturati, 1.300 cannoni presi, 212.000 soldati nemici
morti o feriti e l'intera quinta armata britannica messa fuori
combattimento. Le perdite tra i tedeschi furono comunque alte
(239.000 tra ufficiali e soldati); alcune divisioni furono ridotte
alla metà dei loro effettivi, molte compagnie poterono contare solo
40 o 50 uomini162. Ad inizio agosto lo slancio tedesco su tutto il
fronte cessò, mentre quasi un milione di soldati americani erano
giunti in Francia a dar manforte agli Alleati. Le truppe tedesche
erano ad un soffio dalla vittoria, ma esauste e dissanguate dalle
enormi perdite smisero di avanzare, anzi, cominciarono lentamente a
indietreggiare, in una lenta ritirata che terminò solo l'11 novembre
1918163.
L'offensiva austro-ungarica
Per approfondire, vedi battaglia
del solstizio.
Gli austro-tedeschi chiusero il 1917 sul fronte italiano con le
offensive sul Piave, sull'Altipiano di Asiago e sul monte Grappa; la
ritirata sul fronte del Grappa-Piave però consentì all'esercito
italiano, ora in mano ad Armando Diaz, di concentrare le sue forze
su di un fronte più breve e soprattutto, con un mutato atteggiamento
tattico, più orgoglioso e determinato. Gli austro-ungarici fermarono
gli attacchi in attesa della primavera del 1918, preparando
un'offensiva che li avrebbe dovuti portare a penetrare nella pianura
veneta. La fine della guerra contro la Russia fece sì che la maggior
parte dell'esercito impiegato sul fronte orientale potesse spostarsi
a ovest.
L'offensiva austro-ungarica arrivò il 15 giugno: l'esercito
dell'Impero attaccò con 66 divisioni nella cosiddetta battaglia del
solstizio, che vide gli italiani resistere all'assalto e infliggere
al nemico pesantissime perdite. Gli austro-ungarici, per i quali la
battaglia del solstizio era l'ultima possibilità per dare una svolta
al conflitto e ribaltarne le sorti, persero le loro speranze164.
Le controffensive Alleate
Per approfondire, vedi offensiva
dei cento giorni e battaglia
di Vittorio Veneto.
In luglio il comandante supremo Alleato Ferdinand Foch diede inizio
alla prevista controffensiva sulla Marna prodottasi in seguito agli
attacchi tedeschi. In agosto il saliente era stato sgomberato, e
grazie allo slancio e alla presenza ormai massiccia delle truppe
fresche di Pershing gli Alleati continuarono le controffensive. L'8
agosto partì la seconda offensiva, lanciata due giorni dopo la
precedente. L'attacco interessò truppe franco-britanniche, e vide
l'impiego di 600 carri e 800 aerei; ebbe successo, tanto che
Ludendorff definì l'8 agosto come "il giorno nero dell'esercito
tedesco"165. L'assalto fu il primo di quelli che Foch chiamava
"attacchi di liberazione" contro la nuova linea tedesca, che
proseguirono il 15 agosto con un nuovo contrattacco sulla Somme,
mentre a Parigi si riuniva il neocostituito Consiglio Interalleato
per gli approvvigionamenti, che gettò i piani per la continuazione
della guerra almeno fino al 1919166. Su tutto il fronte gli Alleati
continuavano ad avanzare cacciando i tedeschi da Compiègne,
Antheuil-Portes, Lassigny, sulla Somme conquistarono Thiepval e
bosco Mametz mentre il 27 le truppe tedesche iniziarono ad evacuare
le Fiandre abbandonando i territori conquistati quattro mesi prima.
Ludendorff aveva optato per una strategia difensiva cercando in
tutti i modi di tenere la Linea Hindenburg, ma ormai il morale delle
truppe tedesche era a terra. A fine agosto i tedeschi lasciarono
l'Aisne sotto i colpi del generale Mangin, ad inizio settembre i
canadesi iniziarono i primi assalti alla Hindenburg e il 3 settembre
Foch diede l'ordine perentorio di attaccare senza sosta per tutta la
lunghezza del fronte occidentale. L'11 agosto gli statunitensi
attaccarono Saint-Mihiel che venne conquistata il 13, liberando un
saliente in mano nemica da quattro anni167. Il 25 settembre iniziò
poi l'offensiva della Mosa-Argonne a cui parteciparono dieci
divisioni americane; le due operazioni insieme valsero la conquista
di oltre 500 chilometri quadrati di territorio168.
Sul fronte italiano l'impero asburgico era ormai a un passo dal
baratro, assillato dall'impossibilità di continuare a sostenere lo
sforzo bellico sul piano economico e soprattutto su quello morale,
data l'incapacità della monarchia di farsi garante dell'integrità
dello stato multinazionale asburgico, e con i popoli dell'impero
asburgico sull'orlo della rivoluzione. L'Italia anticipò ad ottobre
l'offensiva prevista per il 1919, impedendo la prosecuzione
dell'offensiva169. Da Vittorio Veneto il 23 ottobre partì l'omonima
offensiva in condizioni climatiche pessime. Gli italiani avanzarono
rapidamente in Veneto, Friuli e Cadore e il 29 ottobre
l'Austria-Ungheria si arrese. Il 3 novembre, a Villa Giusti, presso
Padova l'esercito dell'Impero firmò l'armistizio; i soldati italiani
entrarono a Trento mentre i bersaglieri sbarcarono a Trieste,
chiamati dal locale comitato di salute pubblica, che però aveva
richiesto lo sbarco di truppe dell'Intesa170.
Il collasso degli Imperi centrali
Il collasso degli imperi centrali si concluse con il 4 novembre
1918, quando l'impero austro-ungarico, la Germania, la Bulgaria e la
Turchia offrirono l'armistizio a Wilson assieme alle loro note
diplomatiche171.
La Bulgaria fuori dal conflitto
Nei Balcani il 1917 si era chiuso con un'ulteriore situazione di
stallo: un'offensiva lanciata tra aprile e maggio dal comandante
dell'armata alleata di Salonicco, il francese Maurice Paul Emmanuel
Sarrail, si era conclusa con due sconfitte nella seconda battaglia
di Doiran e nella battaglia del Crna, obbligando il generale a
sospendere le operazioni lungo tutto il fronte; gli Alleati
ottennero invece un successo sul piano diplomatico quando il 29
giugno 1917 la Grecia dichiarò guerra agli Imperi centrali, dopo che
il filo-tedesco re Costantino I era stato costretto ad abdicare172.
Entrambe le parti avevano poco interesse a portare avanti grosse
operazioni su questo teatro: l'attenzione degli Alleati era diretta
principalmente al fronte occidentale, e la Bulgaria era riluttante a
continuare la guerra, avendo già occupato tutti i territori cui era
interessata e dovendo sopportare una profonda crisi economica ed
agricola interna che lasciò intere regioni praticamente alla
fame173.
A metà del 1918 il nuovo comandante delle forze alleate, il francese
Louis Franchet d'Espèrey, preparò i piani per una risolutiva
offensiva lungo tutto il fronte macedone, convinto che la Bulgaria
fosse ormai al collasso174. Dopo lunghi preparativi l'offensiva
scattò il 14 settembre 1918: mentre i reparti britannici e greci
attaccavano verso est ottenendo un successo nella terza battaglia di
Doiran (18-19 settembre), le truppe francesi, serbe e italiane
sfondarono il fronte bulgaro ad ovest dopo la decisiva vittoria
nella battaglia di Dobro Pole (15 settembre)175. La ritirata provocò
il collasso dell'esercito bulgaro, mentre il paese era scosso da
tumulti e manifestazioni contro la guerra: il 29 settembre, mentre
le forze francesi entravano a Skopje, la Bulgaria accettò l'offerta
di un armistizio avanzata dagli Alleati, uscendo ufficialmente dal
conflitto il 30 settembre seguente; mentre le forze britanniche
proseguivano la marcia verso est in Tracia alla volta di Istanbul, i
franco-serbi mossero verso nord raggiungendo il Danubio il 19
ottobre e liberando Belgrado dall'occupazione austroungarica il 1º
novembre, giusto due giorni prima che anche l'Austria-Ungheria si
arrendesse176.
La resa dell'Impero ottomano
Nel teatro del Medio Oriente le forze dell'Impero ottomano stavano
ormai cedendo su tutti i fronti. Nella penisola araba, le litigiose
tribù locali avevano infine trovato una certa guida unitaria sotto
lo sharif Al-Husayn ibn Ali, insorgendo contro la dominazione
ottomana; rifornite di armi e munizioni dagli Alleati, e raggiunte
da una missione di addestratori britannici capitanati dal colonnello
Thomas Edward Lawrence (poi passato alla storia come "Lawrence
d'Arabia"), le forze arabe iniziarono una massiccia campagna di
guerriglia contro gli ottomani, prima interrompendo la ferrovia
dell'Hegiaz e poi catturando l'importante porto di Aqaba sul Mar
Rosso177. Gli irregolari arabi di Lawrence si spinsero poi verso
nord per appoggiare gli sforzi finali dei britannici in Palestina.
La situazione sul fronte palestinese era rimasta sostanzialmente
statica per gran parte del 1918, con l'attenzione degli Alleati
concentrata sul fronte occidentale; l'offensiva finale poté iniziare
solo il 19 settembre 1918: mentre gli irregolari arabi mettevano in
atto azioni diversive ad est per attirare l'attenzione degli
ottomani, le forze britanniche del generale Allenby attaccarono da
ovest lungo la zona costiera, potendo contare su una netta
superiorità numerica, una migliore situazione logistica ed un
assoluto dominio del cielo178. Le forze Alleate ottennero una
decisiva vittoria nella battaglia di Megiddo (19 settembre – 31
ottobre 1918) con una perfetta azione combinata179: la fanteria
sfondò il fronte ed aprì un varco per la cavalleria che, appoggiata
da unità di autoblindo ed attacchi dei bombardieri, inseguì con
decisione il nemico impedendogli di attestarsi su nuove posizioni;
la ritirata ottomana si trasformò in rotta e le forze Alleate
dilagarono verso nord, penetrando in Siria ed occupando Damasco (2
ottobre) ed Aleppo (25 ottobre).
In Mesopotamia, ormai un fronte secondario, le preponderanti forze
britanniche iniziarono la loro offensiva sul finire di settembre,
dilagando nella zona di Mossul - Kirkuk ed ottenendo infine una
vittoria decisiva nella battaglia di Sharqat (23 – 30 ottobre
1918)180. Ormai in ritirata su tutti i fronti e con il proprio
esercito ridotto ad un sesto della forza originaria, all'Impero
ottomano non restò altro che trattare la propria resa: il 30 ottobre
1918 i rappresentati dell'Impero siglarono l'armistizio di Mudros,
ed il 13 novembre seguente una forza d'occupazione Alleata si
installò ad Istanbul.
Il collasso dell'Austria-Ungheria
Il 28 ottobre l'Austria-Ungheria chiese agli Alleati l'armistizio:
l'impero che aveva aperto le ostilità contro la Serbia nel 1914 era
giunto alla fine del suo percorso politico e militare. Quello stesso
giorno gli italiani catturarono 3000 austriaci sul Piave. In serata
l'esercito asburgico ricevette l'ordine di ritirarsi181. L'impero
era al collasso, oramai i diversi movimenti indipendentisti stavano
facendo di tutto per sfruttare la situazione. A Praga la richiesta
di armistizio provocò una decisa reazione dei cechi; il Consiglio
nazionale cecoslovacco si riunì a palazzo Gregor, dove si era
costituito tre mesi prima, e assunse le funzioni di un vero e
proprio governo, impartendo agli ufficiali austriaci nel castello di
Hradčany l'ordine di trasferire i poteri, assumendo il controllo
della città e proclamando l'indipendenza dello stato ceco. Quella
sera le truppe austriache nel castello deposero le armi; senza
confini, senza riconoscimento internazionale e senza l'approvazione
di Vienna era nata un'entità nazionale ceca182. Sempre quello stesso
giorno, il Parlamento croato dichiarò che da quel momento, Croazia e
Dalmazia avrebbero fatto parte di uno "Stato nazionale sovrano di
sloveni, croati e serbi". Analoghe dichiarazioni pronunciate a
Laibach (Lubiana) e Sarajevo, legavano queste regioni all'emergente
Stato slavo meridionale della Jugoslavia183.
Il 30 ottobre vennero fatti prigionieri più di 33.000 soldati
austriaci, mentre a Vienna, il governo austro-ungarico continuava ad
adoperarsi per giungere all'armistizio con gli Alleati184. Il 1º
novembre Sarajevo si dichiarò parte dello "Stato sovrano degli slavi
meridionali". A Vienna e a Budapest era ormai scoppiata la
rivoluzione; il giorno precedente il conte Tisza fu ucciso dalle
guardie rosse nella capitale ungherese185. Il 3 novembre l'Austria
firmò l'armistizio che sarebbe entrato in vigore il giorno
successivo, mentre a Vienna continuava la rivoluzione rossa. Lo
stesso giorno gli italiani entrarono a Trento e la Regia Marina
sbarcò a Trieste, mentre sul fronte occidentale gli Alleati
accolsero la richiesta formale di armistizio sul fronte francese
avanzata dal governo tedesco186.
La fine ad occidente
Per approfondire, vedi armistizio
di Compiègne.
«La guerra è finita, certo in modo completamente diverso da quanto
avevamo pensato»
(Affermazione fatta da Guglielmo II al suo seguito negli ultimi
giorni della guerra187)
La Germania aveva visto il proprio potenziale umano gravemente
compromesso da quattro anni di guerra, trovandosi d'altronde in
gravi difficoltà dal punto di vista economico e sociale. Il 1º
ottobre i britannici si apprestavano a superare la Hindenburg lungo
il canale di St. Quentin e gli statunitensi a sfondare nelle
Argonne; Ludendorff si recò direttamente dal Kaiser per chiedergli
di avanzare immediatamente una proposta di pace, dando grossa parte
della colpa alle «idee spartachiste e socialiste che avvelenavano
l'esercito tedesco»188. Le battaglie infuriavano ancora quando il 2
ottobre la prima rivoluzione tedesca scoppiò. Il 4 ottobre il
principe Maximilian di Baden telegrafò a Washington per richiedere
l'armistizio189. La Germania pur essendo nello scompiglio non era
precipitata nell'anarchia né aveva deciso di arrendersi: l'8 ottobre
Wilson respinse la proposta, e l'11 i tedeschi iniziarono a
ritirarsi su tutto il fronte senza però rinunciare a combattere190.
Ludendorff confidava nel continuare la lotta nella speranza che
un'efficace difesa della frontiera tedesca potesse alla lunga
smorzare la determinazione degli Alleati. Ma la situazione era
oramai sfuggita di mano; il 3 novembre l'alleato austriaco capitolò
rendendo vulnerabile il fronte sud-orientale della Germania, la
rivoluzione dilagava, alimentata dalla riluttanza del Kaiser ad
abdicare. La sola via d'uscita poteva essere raggiunta con un
accordo con i rivoluzionari, così il 9 novembre il principe Max
lasciò il posto a Ebert, rispondendo implicitamente alle richieste
del popolo ed esplicitamente a Woodrow Wilson, di far cadere i capi
che avevano portato la Germania alla rovina a favore della
Repubblica191.
L'offensiva dei cento giorni diede il colpo finale, e dopo questa
serie di sconfitte le truppe tedesche iniziarono ad arrendersi in
numero sempre crescente. Quando finalmente gli Alleati ruppero il
fronte tedesco, la monarchia imperiale tedesca giunse al collasso, e
i due comandanti dell'esercito, Hindenburg e Ludendorff, dopo aver
tentato invano di convincere il Kaiser a combattere ad oltranza, si
fecero da parte192. Di fronte alla rivoluzione interna e alla
minaccia delle forze Alleate ormai in vista del confine tedesco, i
delegati tedeschi che si recarono a Compiègne già il 7 novembre, non
ebbero altra scelta che quella di accettare le drastiche condizioni
armistiziali imposte dagli Alleati. L'armistizio entrò in vigore
alle ore 11:00 dell'11 novembre 1918, la guerra era finalmente
finita193.
Conseguenze
Per approfondire, vedi conseguenze
della prima guerra mondiale.
Con la fine del conflitto, non solo le nazioni sconfitte, ma anche
quelle vincitrici si trovarono davanti una situazione disastrosa. I
quattro imperi vinti si dissolsero in nuovi Stati e il presidente
degli Stati Uniti Wilson si prese la responsabilità di organizzare
un nuovo sistema globale, fondato sulla risoluzione delle
controversie per vie pacifiche e sull'autodeterminazione dei popoli.
In un discorso che tenne davanti al Senato degli Stati Uniti l'8
gennaio 1919 riassunse i suoi propositi in quattordici punti, sui
quali vigeva il pensiero che dovesse esserci una «pace senza
vincitori», poiché a suo parere una pace imposta avrebbe contenuto
il germe di un nuovo conflitto194.
Il 18 gennaio 1919 iniziò la conferenza di Parigi che vide i quattro
paesi vincitori impegnati nel delineare il nuovo "profilo europeo".
In base al principio di autodeterminazione dei popoli sorsero
direttamente dalle ceneri degli antichi imperi nuovi Stati
indipendenti (quali la Cecoslovacchia e il Regno dei Serbi, Croati e
Sloveni), che si trascinarono dietro nuove tensioni a causa dei loro
confini e dell'eterogeneità della loro popolazione. In realtà il
trattato di Versailles ebbe anche numerose ripercussioni negative.
La Germania, costretta ad ammettere la propria colpevolezza,
cominciò a convincersi che la loro disfatta fosse stata dovuta a dei
contrasti interni. I nazionalisti puntarono il dito contro i fautori
della Repubblica di Weimar, i comunisti e la comunità ebraica,
accusandoli di non aver creduto o almeno sostenuto il governo
precedente. Ma lo scontento non si diffuse solo tra i vinti, ma
anche tra i vincitori, come il Belgio, che si ritrovò negati i
possedimenti in Africa, o l'Italia, che invece vide sfumare le
possibilità accordate durante il Patto di Londra195.
L'Unione Sovietica, non più in guerra dal 1917, ebbe delle
difficoltà nel far aderire gli stati confinanti (l'unico che
riuscirono ad annettere fu l'Ungheria, che aveva comunque resistito
sino all'agosto del 1919). Inoltre minacciava la sicurezza interna
la Polonia, tornata indipendente, che voleva mantenere i propri
confini. Sempre nel 1919 scoppiò la guerra sovietico-polacca che
terminò con la pace di Riga. In seguito al trattato di Rapallo del
1922, l'Unione Sovietica venne ufficialmente riconosciuta.
Durante gli anni successivi alla guerra si presentò anche la prima
crisi del colonialismo europeo. Alcuni stati, sotto il giogo delle
grandi potenze da lungo tempo, cominciarono a rivendicare la propria
indipendenza, causando non pochi problemi, specialmente riguardo al
commercio di materie prime, agli stati europei. Ancora una volta
Wilson assunse il ruolo di mediatore e inaugurò una missione di
civilizzazione volta a migliorare le nazioni più arretrate, in modo
da concedere loro l'indipendenza, non prima di averle affidate alla
guida di potenze quali la Francia o la Gran Bretagna. Questi
movimenti nazionalistici riguardarono in particolar modo paesi
dell'Oriente e del Medio Oriente (come la Cina, l'India, l'Iraq e il
Libano), ma anche africani (quali l'Egitto o la Cirenaica)196. La
guerra ebbe effetti anche sul piano socio-economico di tutti i
paesi. In particolare, i paesi europei mancarono di spirito
collaborativo e preferirono reggersi unicamente sulle loro forze e
possibilità. Però questa decisione individualista facilitò la
diffusione della crisi economica seguente alla caduta della borsa di
Wall Street (1929) in Europa, facendo aumentare il livello di
disoccupazione e povertà197. La vita sociale, in particolar modo,
aveva subito enormi danni: basti pensare che erano stati inviati al
fronte 66 milioni di uomini, dei quali i superstiti, al loro
ritorno, trovarono condizioni disastrose198.
Crimini di guerra
Il diritto internazionale umanitario e la convenzione dell'Aia del
1907 furono ripetutamente violate durante il conflitto, e solo la
ridotta estensione delle regioni occupate da una potenza avversaria
pose un freno alle stragi222. I dettami di Carl von Clausewitz, che
consigliava una certa pressione sulle popolazioni invase affinché il
governo nemico fosse portato ad arrendersi, vennero applicati
dall'esercito tedesco quando questo irruppe nel Belgio e nella
Francia settentrionale nel primo anno di guerra. Il 22 agosto 1914
il generale Karl von Bülow ammonì gli abitanti di Liegi di non
ribellarsi per evitare di subire la stessa sorte dei 110 rivoltosi
fucilati ad Andenne, che venne anche data alle fiamme.
Casi simili con parecchie centinaia di civili uccisi, presto
identificati dalla propaganda franco-belga come lo "stupro del
Belgio", si verificarono in altre località belghe come Sambreville,
Seilles, Dinant e Lovanio, oltre che nei distretti francesi
nord-orientali. I soldati tedeschi, terrorizzati dai franchi
tiratori che già li avevano infastiditi durante la guerra
franco-prussiana del 1870, e animati da presunte storie di loro
commilitoni accoltellati alle spalle o torturati mentre erano feriti
e inermi, si ostinarono a combattere con ferocia ogni atto da loro
giudicato "illegale". In quasi un mese, vale a dire il tempo che
durò l'avanzata in Belgio, i soldati del Reich fecero oltre
cinquemila vittime tra i civili. A differenza della seconda guerra
mondiale in cui le stragi vennero commesse da appositi reparti, in
questo caso i massacri vennero compiuti da unità qualsiasi
sparpagliate in tutto l'esercito imperiale223.
Alle città invase venne spiegato che la Germania non era in grado di
fornire adeguate scorte alimentari per via del blocco navale attuato
dall'Intesa, e le popolazioni vennero salvate solo dai cibi
statunitensi distribuiti dalla Commissione di soccorso guidata dal
futuro presidente Herbert Hoover, che si occupò anche dell'oltre
mezzo milione di uomini rimasti disoccupati dopo lo spostamento
delle fabbriche belghe in Germania, dove vennero inviati anche oltre
60.000 lavoratori coatti e alcune decine di migliaia di loro
colleghi volontari. Altri uomini, donne e ragazzi vennero obbligati
ai lavori agricoli nelle vicinanze del luogo di coscrizione.224 Per
dividere ulteriormente la popolazione, i tedeschi fecero leva sugli
antichi dissapori tra i fiamminghi ed i valloni, arrivando fino a
riconoscere il Governo provvisorio delle Fiandre guidato dal
fiammingo August Borms225.
Crimini di guerra vennero compiuti anche dalla marina tedesca.
Rispetto alla seconda guerra mondiale, nell'ambito della quale il
processo di Norimberga verificò un solo caso di violazione delle
leggi umanitarie da parte di un U-Boot, nei mari dove venne
combattuta la prima guerra mondiale vi furono frequenti
mitragliamenti di naufraghi e siluramenti di navi ospedale226.
Genocidio armeno
Genocidi etnici
La prima guerra mondiale ebbe anche dei suoi genocidi. Il più
noto è quello armeno, perpetrato dai turchi nel biennio 1915-1916.
Essendo l'esercito turco impegnato nel Caucaso contro i russi, le
autorità turche decisero di deportare le poco fedeli popolazioni
armene che vivevano alle sue spalle in Mesopotamia e Siria, ma
centinaia di migliaia di armeni morirono durante le marce per fame,
malattia o sfinimento. Dopo la cessazione delle ostilità da parte
dell'Impero ottomano, Mustafa Kemal sterminò altre decine di
migliaia di armeni per rendere più compatto il ceppo razziale
turco227.
Benché vi fossero meno occasioni per infierire sulle popolazioni
nemiche, crimini di guerra furono compiuti anche dalle potenze
dell'Intesa. Gli abitanti che abitavano le terre lungo l'Isonzo
occupate dagli italiani nel 1915 manifestarono in più di
un'occasione i loro sentimenti ostili all'Italia. A Dresenza venne
compiuto un attentato, peraltro fallito, contro il generale Donato
Etna, e per rappresaglia gli italiani uccisero alcuni abitanti. A
Villesse, dopo un attacco della popolazione contro i bersaglieri,
vennero fucilati più di cento civili. Da queste terre furono
deportati nell'Italia meridionale circa 70.000 abitanti, e lo stesso
fece l'Austria-Ungheria con i civili di sentimenti italiani, rumeni
o serbi. La Russia invece obbligò le popolazioni tedesche del Volga
a trasferirsi in Siberia228.
Impero ottomano
Tra il 1914 e il 1920 fu intrapresa dall'Impero ottomano un'azione
di sterminio di massa nei confronti dei cristiani della Chiesa
assira d'Oriente, della Chiesa ortodossa siriaca, della Chiesa
cattolica sira e della Chiesa cattolica caldea durante il governo
dei Giovani Turchi: questa operazione passerà alla storia come
"genocidio assiro". Sulla vetta di una montagna, il Ras-el Hadjar,
centinaia di ragazzi tra i sei e quindici anni vennero sgozzati
brutalmente e poi buttati dal precipizio. Questo fu solo uno dei
tanti episodi che seguirono e che continuarono a prendere di mira i
cristiani assiro-caldeo-siriaci. Nell'aprile del 1915 la stessa
sorte toccò agli abitanti del villaggio di Tel Mozilt e di altri 30
paesi in particolare della provincia di Van. Nel marzo 1918 fu
infine assassinato il patriarca Mar Shimun XXI Benyami, che era
allora la somma autorità religiosa in Assiria. Si valuta che i morti
non siano stati meno di 275.000. Nonostante i numeri enormi questo
genocidio non ha mai fatto tantissimo scalpore e infatti se ne è
discusso per la prima volta al Parlamento europeo solo il 26 marzo
2007229.
Ben più noto è il cosiddetto genocidio greco che, iniziato nel 1914,
si è prolungato sino al 1924. La persecuzione è stata subita da una
popolazione greca originaria del Ponto, perciò detta, i greci del
Ponto. La ragione anche in questo caso è religiosa, infatti, essendo
una delle poche minoranze cristiane in Medio Oriente, soffrirono un
terribile massacro da parte degli ottomani che passerà alla storia
come genocidio greco. In realtà il termine è stato oggetto di
controversie tra la Turchia e la Grecia. Alla Grecia, che ha
dichiarato nel 1994 il 19 maggio giornata commemorativa, si sono
associati, nel riconoscerlo come genocidio, vari stati americani. Le
vittime, non solo di morte violenta, ma anche per le conseguenze,
dunque malattia e fame, nel giro di sette anni arrivarono a circa
350.000230.
Impero Russo
Circa 200.000 tedeschi che vivevano in Volinia e circa 600.000
ebrei furono deportati dalle autorità russe231. Nel 1916, fu inoltre
emesso un ordine di espulsione per circa 650.000 tedeschi del Volga
a est, ma la rivoluzione russa ne impedì l'attuazione232. Molti
pogrom accompagnarono la rivoluzione del 1917 e la conseguente
guerra civile russa: tra i 60.000 e i 200.000 civili ebrei vennero
uccisi atrocemente in tutto l'Impero russo233.
L'esperienza dei soldati
Guerra e ammutinamento
Nel 1917, dopo quasi tre anni di scontri sanguinosi con risultati
modesti, iniziò a serpeggiare nelle file di molti eserciti un deciso
malcontento, esploso tra gli uomini dell'esercito francese il 27
maggio 1917, quando 30 000 soldati francesi ammutinarono,
lasciando la prima linea lungo lo Chemin des Dames e portandosi
nelle retrovie, rifiutandosi di obbedire agli ordini. Questo
ammutinamento non fu un evento raro: il fenomeno si estese a circa
metà dell'esercito francese, circa 50 divisioni234. Il 1º giugno a
Missy-aux-Bois un reggimento di fanteria francese si impadronì della
città e nominò un "governo pacifista"; per una settimana regnò il
caos in tutto il settore francese del fronte mentre gli ammutinati
si rifiutavano di tornare a combattere. Le autorità militari agirono
tempestivamente, e sotto il pugno di ferro di Pétain cominciarono
gli arresti di massa e si insediarono le corti marziali. I tribunali
francesi giudicarono colpevoli di ammutinamento 23.395 soldati, di
questi, più di 400 furono condannati a morte, 50 fucilati e gli
altri inviati ai lavori forzati nelle colonie penali.
Contemporaneamente Pétain introdusse miglioramenti, concedendo alle
truppe periodi di riposo più lunghi, congedi più frequenti e rancio
migliore; dopo sei settimane gli ammutinamenti erano cessati235.
Sui campi di battaglia viveva uno stridente contrasto: sul fronte
occidentale come su quello orientale, alla ferocia dei combattimenti
si contrapponevano diserzioni di massa, ammutinamenti e
fraternizzazione. A Pietrogrado il governo provvisorio faceva da
contrappeso alla volontà dei Soviet favorevoli all'immediata
cessazione di ogni ostilità. Ai primi di aprile del 1917 truppe
russe fraternizzarono con i tedeschi, ma un'unità di artiglieria
fedele al governo sparò sui ribelli, il cui leader, il tenente
Haust, arrestò due ufficiali che avevano dato l'ordine di aprire il
fuoco. Il 24 aprile i marinai di Kronštadt si schierarono con i
bolscevichi, proclamando che non avrebbero rispettato gli ordini del
governo; a questo si associarono gli scioperi nell'industria che
ridussero la produzione di carbone di un quarto rispetto al 1916236.
Il comandante in capo russo Michail Vasil'evič Alekseev riferì al
ministro della guerra che «l'esercito si sta sistematicamente
sgretolando»; ai primi di maggio il numero dei disertori in seno
all'esercito russo sfiorava i due milioni; nello stesso mese
l'intera 120ª divisione russa si rifiutò di raggiungere le trincee,
disertando in massa237.
Per tutta l'estate nelle file russe gli episodi di diserzione
andavano aumentando, i primi di settembre ci furono anche degli
scontri tra soldati britannici e la polizia militare del campo di
Étaples, dove i convalescenti soldati britannici era costretti a
marce forzate e un duro riaddestramento alla guerra coi gas. Ciò
causò malcontento, ma dopo alcuni scontri, il 12 settembre il breve
ammutinamento britannico fu risolto. Pochi giorni dopo, a La
Courtine - sud di Parigi - una brigata russa schierata ad occidente
issò la bandiera bolscevica e si rifiutò di andare in trincea238. Di
lì a poco tempo, le sempre più numerose diserzioni tra le file russe
riflettevano l'avanzata della rivoluzione; il 3 novembre le truppe
russe del fronte baltico gettarono le armi e fraternizzarono col
nemico tedesco, il 7 novembre 18 bolscevichi circondarono il palazzo
d'Inverno e in poco tempo il governo provvisorio fu spazzato via a
favore di un governo bolscevico che come primo atto avviò le
trattative di pace con gli Imperi centrali239.
Prigionia
I prigionieri di guerra vissero generalmente in condizioni pietose.
Nell'agosto 1915 i comandi austro-ungarici vennero raggiunti da un
ordine che li obbligava a trattare i prigionieri italiani,
appartenenti ad una nazione traditrice, più duramente dei
prigionieri russi o serbi, considerati avversari "leali". Dei
600.000 italiani finiti in mano austro-ungarica, ne morirono durante
la prigionia almeno 120.000, di cui circa il 65% per tubercolosi,
cachessia o inedia. Sovente i prigionieri italiani vennero mandati
al fronte a scavare trincee240.
L'Impero tedesco occupò i prigionieri "occidentali" nell'industria
di guerra, elargendo piccole paghe e un trattamento discreto. Russi
e rumeni continuarono invece a soffrire la fame nei campi di
prigionia, e forse non più della metà di essi sopravvissero alla
guerra241. All'inizio del 1916 la Russia aveva sotto controllo
100.000 prigionieri tedeschi e 900.000 austro-ungarici. Questi non
furono sottoposti a particolari vessazioni, ma il freddo e
privazioni varie ne avevano già uccisi, alla fine dell'anno,
70.000242.
Corrispondenza dal fronte
Tra i documenti che ci sono giunti a ricordo della prima
guerra mondiale, abbiamo una buona serie di missive che testimoniano
la terribile situazione sofferta non solo dai militari, ma anche dai
civili dell'epoca. I mittenti sono il più delle volte soldati
semplici che tentano in ogni modo di tenersi in contatto con la
famiglia. Quindi il momento della consegna della posta era sempre
atteso con ansia e gioia ed era forse uno dei pochi pensieri che
sollevava il morale dei soldati. La scrittura utilizzata è spesso di
difficile comprensione, poiché in dialetto o di scrittura incerta
(spesso dovuta alle condizioni improbe): gli errori di punteggiatura
e ortografia erano inevitabili243.
Inviare e ricevere lettere era sempre difficile per varie ragioni.
Innanzitutto bisogna tenere da conto la difficoltà di procurarsi
carta, penna, inchiostro e francobollo. A causa della scarsità di
mezzi di cui disponevano, molti soldati non avevano la possibilità
di dare notizie ai propri cari. Ma non era l'unico problema:
l'ostacolo più grande era sicuramente rappresentato dalla censura.
Spesso inconsapevolmente, i soldati erano a conoscenza
d'informazioni che minacciavano la sicurezza nazionale, e la
censura, per evitare la loro divulgazione, interveniva aprendo i
documenti, controllando il contenuto e, se ritenuto innocuo,
richiudendo le buste con le cosiddette "fascette di censura", che
recavano la scritta "Verificato per censura". Spesso le lettere
venivano fatte passare ma con delle modifiche, come cancellazioni
con l'inchiostro di china. Vietato era inviare cartoline
rappresentanti paesaggi (che potevano rivelare la propria posizione)
o utilizzare sistemi criptati di comunicazione quali la stenografia
o il codice Morse. Sottostava ad ancora più rigidi controlli la
posta dei prigionieri di guerra, che veniva controllata più volte
sia dalla censura nemica, che da quella del proprio stato244.
Supporto e opposizione alla guerra
Il ruolo degli intellettuali e della stampa
A partire dal 10 agosto 1914, con Louis Gillet, futuro occupante di
un seggio della Académie française, che "invocava che la Francia
diradasse una volta per sempre le nebbie di germanesimo che
l'avevano avvolta e che insozzavano il mondo con una patina di
volgarità"249, il mondo intellettuale francese che visse durante la
prima guerra mondiale fu pressoché unanime (solo lo scrittore Romain
Rolland si discostò dai suoi illustri colleghi) nell'incitare alla
guerra contro il nemico e a combattere per la civiltà e la vittoria
finale, contro un nemico inferiore di razza (Edmond Perrier, al
tempo direttore del Museo nazionale di storia naturale di Francia,
affermò che «Il cranio del principe di Bismarck richiama quelli
degli uomini fossili di La Chapelle-aux-Saints»250) che andava
contrastato accorrendo ad arruolarsi (così come invitavano a fare i
Nobel per la letteratura Maurice Maeterlinck e Anatole France). Gli
scienziati e le scoperte tedesche vennero screditate dal fisico
Pierre Duhem, dallo zoologo Louis-Félix Henneguy e dal matematico
Émile Picard251. Henri Bergson affermò che la guerra alla Germania
equivaleva a combattere la barbarie; Frédéric Masson, uno studioso
di Napoleone, propose di abolire la musica di Richard Wagner per
evitare la contaminazione della cultura francese, mentre Action
française auspicò la rimozione del tedesco dalle lingue studiate
nelle scuole; più di tutti spiccò la figura di Maurice Barrès,
acceso nazionalista che arringò il popolo francese scrivendo che
Guglielmo II praticava il culto di Odino e depositando presso il
Parlamento un progetto di legge che istituiva una festa nazionale
dedicata a Giovanna d'Arco. Vi fu anche chi asserì che la lettera
"K" dovesse essere cancellata dai dizionari perché troppo tedesca e
Beethoven non venne più suonato252.
Anche i tedeschi, almeno fino al 1915, usarono toni simili. Wilhelm
Wundt sostenne che la guerra della Germania contro la Russia era una
guerra di civiltà. Nell'ottobre 1914 novantatré tra umanisti,
scienziati ed intellettuali tedeschi difesero l'operato dello stato
maggiore dell'esercito pubblicando un appello rivolto «alle nazioni
civili»253. Un mese dopo Thomas Mann scrisse un articolo in cui
identificava il militarismo tedesco nella "Kultur", ossia
l'organizzazione spirituale del mondo, sostenendo che la pace era un
elemento che corrompeva la civiltà, a meno che non fosse stata
raggiunta dopo la vittoria della Germania in Europa. Ernst Haeckel
invocò sia la sconfitta della Russia che della Gran Bretagna, ed
Ernst Lissauer fu premiato per aver composto una "Canzone di odio
contro l'Inghilterra" ("Hassgesang gegen England"). Ancora, il Nobel
per la chimica Wilhelm Ostwald si disse convinto che la Germania
avesse tutte le qualità per meritarsi il predominio in Europa254.
Dal 1915 i chierici tedeschi, visti i lutti di guerra e influenzati
dal gran numero di intellettuali ebrei presenti tra le loro fila, si
accostarono ad una maggiore pacatezza, mentre in Francia il
nazionalismo intellettuale continuò per tutta la durata della
guerra255. Questo è verificabile anche guardando alla stampa dei due
paesi: in Germania i giornali pubblicarono i comunicati dell'agenzia
Havas nonché i bollettini di guerra francesi, che venivano
pubblicati anche ne "La Gazette des Ardennes", unico giornale
autorizzato di lingua francese nella zona occupata dai tedeschi. Il
clima, poi, era in generale più rispettoso: le opere di Molière non
vennero mai vietate e il Frankfurter Zeitung, ad esempio, rese gli
onori al compositore francese Claude Debussy, morto nel marzo 1918,
dedicandogli due colonne di giornale. La stampa francese era invece
colma di roboanti quanto esagerati racconti di prima linea,
pubblicava solo i comunicati tedeschi favorevoli alla Francia e,
soprattutto, era limitata da una forte censura che calò d'intensità
solo con la nomina di Clemenceau alla presidenza del consiglio
(novembre 1917)256. Più libera era invece la stampa britannica, che
tuttavia non ebbe il permesso di uscire fuori dalla nazione257.
La propaganda e la censura
Uno degli aspetti rilevanti della Grande Guerra fu il sistematico
impiego della propaganda (e della censura) da parte di tutte le
autorità civili, militari e perfino religiose di ogni nazione
belligerante, al fine di giustificare di fronte all'opinione
pubblica e rendere accettabili ai combattenti scelte di ordine
politico, economico, sociale e militare eticamente discutibili.
Propaganda e censura furono istituzionalizzate quasi ovunque,
creando appositi uffici che si occupassero di controllare le
informazioni circolanti e di crearne di nuove secondo gli schemi
prefissati dai Governi e dagli Stati Maggiori.
In Italia l'attività di propaganda a favore dell'intervento, prima,
e della guerra dopo il 24 maggio 1915 si diffuse pervasivamente
attraverso la costituzione sistematica - presto controllata
attraverso decreti ministeriali (dei ministeri degli Interni e della
Guerra) e circolari Prefettizie - di innumerevoli Comitati nazionali
e locali; questi ultimi, promossi dai maggiorenti del posto o dallo
stesso Sindaco, presero vita praticamente in ogni Comune,
raccogliendo l'adesione delle Pro-loco, delle Associazioni, delle
Società Cooperative, dei Circoli, delle Congregazioni ed
orientandone l'attività verso iniziative diverse, come
l'organizzazione di iniziative e manifestazioni per la raccolta di
fondi destinati alle famiglie dei richiamati, l'intrattenimento dei
soldati in licenza, la produzione o la raccolta di generi alimentari
e di abbigliamento (specialmente indumenti di lana) destinati ai
combattenti, l'assistenza ai convalescenti, l'onoranza ai caduti -
le cui salme iniziavano a tornare dalle zone di guerra, e molte
altre.
Soprattutto nei primi mesi fu fervida in ogni luogo l'organizzazione
di intrattenimenti come concerti, recite, giochi di società, feste e
altro, con il corredo di cortei, palchi, discorsi pubblici, ecc.;
spesso gli intrattenimenti facevano uso di materiali omologati,
generalmente banali e di qualità artistica relativa, presi sia dal
repertorio più o meno classico (monologhi, romanze, commedie, arie
classiche, inni, cori) variamente arrangiato ad uso popolare in
marcette, farse, scenette comiche e canzonette, sia da un repertorio
che si andava via via formando raccogliendo nuova iconografia e
nuovi stereotipi legati all'avvenimento in corso: esempi ne furono
l'Inno Interventista di Italo Compagni o il Soldato Belga morente di
Palmabella258.
Erano queste iniziative che, se da un lato erano tese al nobile fine
di alleviare le sofferenze dei combattenti e delle rispettive
famiglie, dall'altro acceleravano il progressivo distacco tra chi la
guerra la vedeva da lontano e chi la viveva sulla propria pelle.
Quando costoro tornavano a casa, in licenza o in convalescenza per
qualche malattia o ferita più o meno grave, vedendo questi
spettacoli non potevano che trovarli insopportabili.
La pace e la memoria
In tutta Europa, su ogni campo di battaglia, in ogni città e
paese in lutto, sorsero monumenti; alcuni piccoli, alcuni grandi e
altri - pochi - come a Vimy, sulla Somme e a Douaumont, immensi259.
Parallelamente si alternavano in tutti i campi di battaglia
cerimonie e commemorazioni; nell'autunno del 1920 il capo della
Commissione imperiale per le tombe di guerra britannica scelse
cinque spoglie tra i caduti senza nome sul fronte occidentale, di
questi cinque venne affidato al tenente colonnello Henry Williams il
compito di sceglierne uno da inumare a Londra per consentire a
centinaia di migliaia di parenti e amici di avere un luogo dove
ricordare e pregare per i propri cari dispersi in battaglia. La
salma fu scortata per tutto il nord della Francia, poi il feretro
salpò per la Gran Bretagna a bordo del cacciatorpediniere Verdun, e
l'11 novembre 1920 ebbe luogo a Londra la solenne cerimonia funebre
del Milite Ignoto260.
Una dopo l'altra le tombe del Milite Ignoto vennero inaugurate in
tutti i paesi partecipanti al conflitto appena concluso. I tedeschi
ne eressero uno a Tannenberg nel 1927 e uno al Neue Wache di Berlino
nel 1931, a Parigi venne posizionata la tomba del Milite Ignoto alla
base dell'Arco di Trionfo261, in Italia venne affidata a Maria
Bergamas, la madre del volontario irredento Antonio Bergamas
disperso in combattimento, la scelta di una salma tra undici bare di
soldati non identificati caduti in vari fronti di battaglia. La bara
prescelta fu deposta in un carro ferroviario che sfilò in tutta
Italia fino a Roma dove il 4 novembre 1921 fu prima deposta nella
Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, per poi essere
traslata negli anni trenta al Vittoriano262.
Su tutti i campi di battaglia nacquero cimiteri di guerra gestiti
dalle commissioni di guerra dei diversi paesi, che diventarono meta
di pellegrinaggio per chi era alla ricerca di un proprio caro o per
commemorare un camerata. Non passò anno senza che si celebrasse
qualche toccante cerimonia o si inaugurasse un monumento263 Queste
cerimonie ebbero uno stop durante il secondo conflitto mondiale,
quando molti dei campi di battaglia della prima guerra mondiale
vennero occupati dai tedeschi, ma dopo la fine del conflitto
ripresero e ogni anno si ripetono in tutti i paesi coinvolti nel
conflitto.
Bibliografia
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austro-ungarici della Grande Guerra sul fronte italiano, Madrid, Del
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Congresso di Berlino all'attentato di Sarajevo", vol. II: "La crisi
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generale dell'Austria-Ungheria.", vol. III: "L'epilogo della crisi
del luglio 1914. Le dichiarazioni di guerra e di neutralità."),
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Sturmtruppen - origini e tattiche, 2005, Gorizia, Libreria Editrice
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• David Stevenson, La grande
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• Sergio Valzania, Jutland,
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• Mario Vianelli; Giovanni
Cenacchi, Teatri di guerra sulle Dolomiti, 1915-1917: guida ai campi
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• J. M. Winter (a cura di), Il
mondo in guerra - Prima guerra mondiale, Selezione dal Reader's
Digest, 1996.
Voci correlate
• Cronologia della prima guerra
mondiale
• Schieramenti e armamenti
nella prima guerra mondiale
• Personalità della prima
guerra mondiale
• Film sulla prima guerra
mondiale
Altri progetti
• Wikisource contiene
testi relativi alla Prima guerra mondiale
• Wikiquote contiene
citazioni sulla Prima guerra mondiale
• Commons contiene
immagini o altri file sulla Prima guerra mondiale
Collegamenti esterni
• Lagrandeguerra.it
• Associazione Storica
Cimeetrincee.it
• (FR) La stampa
durante la prima guerra mondiale
• (EN) firtsworldwar.com
• (EN)
art-ww1.com, l'arte nella prima guerra mondiale, raccolta curata
dall'UNESCO di opere artistiche riguardanti la prima guerra
mondiale.
• (EN) World War I
document archive, imponente raccolta di fonti primarie sulla prima
guerra mondiale.
• (EN)
britishpathe.com ampia raccolta di filmati della prima guerra
mondiale.
Attentato
di Sarajevo
Per attentato di Sarajevo si intende l'assassinio dell'arciduca
Francesco Ferdinando, erede al trono d'Austria-Ungheria, e sua
moglie Sofia durante una visita ufficiale nella attuale capitale
bosniaca per mano dello studente serbo Gavrilo Princip, membro della
Mlada Bosna (Giovane Bosnia), un gruppo politico che mirava
all'unificazione di tutti gli "jugoslavi" (Slavi del sud)1.
Il 28 giugno 1914, nel giorno di San Vito noto anche come
Vidovdan, giorno di solenni celebrazioni e festa nazionale serba2,
l'Arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia, furono colpiti a
morte da alcuni colpi di pistola sparati dal diciannovenne Gavrilo
Princip.
Il gesto fu utilizzato dal governo di Vienna come il casus belli che
diede formalmente inizio alla prima guerra mondiale. Dopo appena un
mese dall'uccisione dei due, il 28 luglio l'Austria-Ungheria
dichiarò guerra alla Serbia3, il conflitto che era alle porte
sarebbe stato senza precedenti nella storia e avrebbe richiesto la
mobilitazione di oltre 70 milioni di uomini e la morte di oltre 9
milioni di soldati e almeno 5 milioni di civili4; la prima guerra
mondiale era formalmente iniziata.
Antefatti
In base a Trattato di Berlino del 1878, l'Austria-Ungheria
ricevette il mandato di amministrare le province ottomane della
Bosnia ed Erzegovina, mentre l'Impero Ottomano ne manteneva la
sovranità ufficiale. Questo accordo portò a una serie di dispute
territoriali e politiche che nel corso di diversi decenni
coinvolsero Russia, Austria, Bosnia e Serbia, finché, nel 1908,
l'Impero Austro-Ungarico procedette alla definitiva annessione della
Bosnia Erzegovina. Le rivendicazioni panserbe spinsero un gruppo
politico estremista, la Mano Nera, a progettare ed eseguire
l'assassinio dell'arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono
d'Asburgo.
Alla fine di giugno del 1914, Ferdinando visitò la Bosnia per
poter osservare delle manovre militari e partecipare
all'inaugurazione di un museo a Sarajevo. Il 28 giugno era il
quattordicesimo anniversario del giuramento morganatico con cui
Francesco Ferdinando ottenne dall'imperatore Francesco Giuseppe il
permesso di sposare la sua amata, Sofia Chotek (slava di nascita e
di rango molto inferiore all'arciduca), in cambio del giuramento che
i figli nati da questa unione non sarebbero mai saliti al trono.
Sofia Chotek era lieta di accompagnare il marito in Bosnia e di
celebrare l'anniversario lontano dalla corte di Vienna, dove veniva
trattata con sufficienza.
Francesco Ferdinando era considerato un sostenitore del trialismo,
in base al quale l'Austria-Ungheria sarebbe stata riorganizzata
riunendo le terre slave dell'Impero Austro-Ungarico sotto una terza
corona. Un regno slavo avrebbe potuto fungere da baluardo contro
l'irredentismo serbo e Francesco Ferdinando venne quindi percepito
come una minaccia da questi stessi irredentisti. Princip dichiarò
alla corte che impedire le progettate riforme di Francesco
Ferdinando fu una delle sue motivazioni.
Il 28 giugno, giorno dell'uccisione, corrisponde al 15 giugno del
calendario giuliano, festa di San Vito. In Serbia, viene chiamato
Vidovdan e vi si commemora la battaglia della Piana dei merli del
1389 contro gli ottomani, durante la quale il sultano venne
assassinato nella sua tenda da un serbo; è un'occasione per le
cerimonie patriottiche serbe.
L'assassinio
I sette giovani cospiratori erano inesperti con le armi, e fu
solo grazie a una straordinaria sequenza di eventi che ebbero
successo. Attorno alle 10:00 Francesco Ferdinando, sua moglie e i
loro accompagnatori, partirono dal campo militare di Filipovic, dove
avevano effettuato una rapida rivista delle truppe. La colonna era
composta da sette automobili:
1. Nella prima:
l'ispettore capo di Sarajevo e tre altri agenti di polizia.
2. Nella
seconda: Il sindaco di Sarajevo, Fehim Efendi Curcic; il commissario
di polizia di Sarajevo, dottor Edmund Gerde.
3. Nella terza:
Francesco Ferdinando; sua moglie Sofia; il governatore generale di
Bosnia Oskar Potiorek; la guardia del corpo di Francesco Ferdinando,
il tenente colonnello conte Franz von Harrach.
4. Nella quarta:
il capo della cancelleria militare di Francesco Ferdinando, barone
Carl von Rumerskirch; la damigella di Sofia, contessa Wilma Lanyus
von Wellenberg; l'aiutante capo di Potiorek, tenente colonnello
Erich Edler von Merizzi; il tenente colonnello conte Alexander
Boos-Waldeck.
5. Nella quinta:
Adolf Egger, direttore dello stabilimento Fiat di Vienna; il
maggiore Paul Höger; il colonnello Karl Bardolff; e il dottor
Ferdinand Fischer.
6. Nella sesta:
il barone Andreas von Morsey; il capitano Pilz; altri membri dello
staff di Francesco Ferdinando e ufficiali bosniaci.
7. Nella
settima: il maggiore Erich Ritter von Hüttenbrenner; il conte Josef
zu Erbach-Fürstenau; il tenente Robert Grein.
Alle 10:15 il corteo passò davanti al primo membro del gruppo,
Mehmed Mehmedbašić. Costui si era piazzato a una finestra di un
piano alto, ma in seguito sostenne che non riuscì ad avere il
bersaglio libero e decise di non sparare per non mandare all'aria la
missione allertando le autorità. Il secondo membro, Nedeljko
Čabrinović, lanciò una bomba (o un candelotto di dinamite, secondo
alcuni resoconti) contro l'auto di Francesco Ferdinando, ma la
mancò.
L'esplosione distrusse l'auto che stava immediatamente dietro,
ferendo gravemente i suoi occupanti, un poliziotto e diverse persone
che stavano nella folla. Čabrinović inghiottì la sua pillola di
cianuro e si gettò nelle basse acque del fiume Miljacka. Il corteo
accelerò in direzione del municipio, e sulla scena scoppiò il caos.
La polizia trascinò Čabrinović fuori dal fiume, ed egli venne
picchiato duramente dalla folla prima di venire preso in custodia.
La sua pillola di cianuro era vecchia o con un dosaggio troppo
debole e non funzionò. Il fiume era profondo solo 10 centimetri e
non riuscì ad affogarvisi. Alcuni degli altri assassini, o perché
presunsero che Francesco Ferdinando era stato ucciso, o perché
persero i nervi, abbandonarono la scena.
Arrivando al municipio per un ricevimento programmato, Francesco
Ferdinando mostrò comprensibili segni di stress, interrompendo un
discorso di benvenuto preparato dal sindaco Curcic per protestare:
"Veniamo qui e la gente ci tira addosso delle bombe". L'arciduca si
calmò e il resto del ricevimento fu teso ma senza incidenti.
Funzionari e membri del seguito dell'arciduca discussero su come
guardarsi da un altro tentativo di uccisione senza giungere a una
conclusione coerente.
Un suggerimento perché le truppe di stanza fuori dalla città
venissero schierate lungo le strade, sembra venne respinto perché i
soldati non si erano portati le loro uniformi da parata alle
manovre. La sicurezza venne quindi lasciata alla piccola forza di
polizia di Sarajevo. L'unica ovvia misura presa fu che uno degli
aiutanti militari di Francesco Ferdinando prendesse una posizione
protettiva sulla predella sinistra della sua autovettura. Ciò è
confermato dalle fotografie della scena fuori dal municipio.
I cospiratori restanti erano stati ostruiti dalla folla densa, e
sembrò che il piano per l'assassinio fosse fallito. Comunque, dopo
il ricevimento al municipio, Francesco Ferdinando decise di recarsi
all'ospedale per visitare i feriti dalla bomba di Čabrinović.
Nel frattempo, Gavrilo Princip era andato in un vicino negozio di
alimentari, o perché aveva rinunciato o perché riteneva che
l'attacco con la bomba avesse avuto successo. Uscendo vide l'auto
aperta di Francesco Ferdinando tornare indietro dopo aver sbagliato
a svoltare, nei pressi del Ponte Latino.
L'autista, Franz Urban, non era stato avvisato del cambio di
programma e aveva proseguito lungo il percorso che avrebbe portato
l'arciduca e il suo seguito direttamente fuori dalla città.
Avanzando verso il lato destro della vettura, Princip esplose due
colpi della sua pistola semiautomatica, una Browning FN Modello 1910
calibro 7,65×17 mm di fabbricazione belga. Il primo proiettile
trapassò la fiancata del veicolo e colpì Sofia all'addome, mentre il
secondo colpì Francesco Ferdinando al collo, dove non era protetto
dal giubbetto antiproiettile che indossava. Princip sostenne in
seguito che la sua intenzione era di uccidere il governatore
generale Potiorek, e non Sofia.
Entrambe le vittime rimasero sedute dritte sull'auto, ma morirono
mentre venivano portate alla residenza del governatore per i
soccorsi. Le ultime parole di Francesco Ferdinando dopo essere stato
colpito vennero riportate da von Harrach come le seguenti "Sofia
cara, non morire! Resta in vita per i nostri figli!" ("Sopherl!
Sopherl! Sterbe nicht! Bleibe am Leben für unsere Kinder!")
Princip cercò di togliersi la vita, prima ingerendo cianuro, e
quindi con la sua pistola, ma vomitò il veleno apparentemente
inefficace, e la pistola gli venne strappata di mano dai passanti
prima che avesse la possibilità di esplodere un altro colpo.
Delle rivolte anti-serbe scoppiarono a Sarajevo nelle ore successive
all'assassinio, fino a quando non venne ristabilito militarmente
l'ordine.
Conseguenze
L'assassinio dell'erede al trono dell'Impero Austro-Ungarico e della
moglie produsse un grande shock in tutta Europa, e inizialmente ci
fu molta simpatia per la posizione austriaca. Il governo di Vienna
vide in ciò la possibilità di sistemare una volta e per tutte la
percepita minaccia proveniente dalla Serbia.
Dopo aver condotto un'indagine sul crimine, verificato che la
Germania avrebbe onorato la sua alleanza militare, e persuaso lo
scettico conte ungherese Tiza, l'Austria-Ungheria inviò una lettera
formale al governo serbo. La lettera ricordava alla Serbia il suo
impegno a rispettare la decisione delle grandi potenze circa la
Bosnia-Erzegovina, e a mantenere rapporti di buon vicinato con
l'Austria-Ungheria. La lettera conteneva anche richieste specifiche
che miravano a distruggere il finanziamento e il funzionamento delle
organizzazioni terroristiche che presumibilmente avevano portato
all'oltraggio di Sarajevo.
La Gräf & Stift Bois De Boulogne double phaeton del 1911 sulla
quale viaggiava l'arciduca Francesco Ferdinando. Il foro lasciato
dal proiettile che uccise Sofia è visibile sopra la ruota
posteriore.
Questa lettera divenne nota come Ultimatum di luglio (v. Crisi di
luglio), e l'Austria-Ungheria dichiarò che se la Serbia non avesse
accettato tutte le richieste entro 48 ore, avrebbe ritirato il suo
ambasciatore a Belgrado. Dopo aver ricevuto un telegramma di
sostegno dalla Russia, la Serbia mobilitò il suo esercito e rispose
alla lettera accettando i punti 8 e 10 nella loro interezza, e
accettando parzialmente, rispondendo diplomaticamente o
disingenuamente, o rigettando educatamente, parti del preambolo, i
punti dall'1 al 7 e il punto 9. I difetti della risposta serba
vennero pubblicati dall'Austria-Ungheria e possono essere visti a
pagina 364 de "Origins of the War", Vol. 2 di Albertini, con le
lamentele austriache poste a fianco delle risposte serbe.
L'Austria-Ungheria rispose rompendo le relazioni diplomatiche.
Dei riservisti serbi che venivano trasportati lungo il Danubio su
dei vaporetti, in modo apparentemente accidentale finirono nella
parte Austro-Ungarica del fiume a Temes-Kubin, e i soldati
Austro-Ungarici spararono in aria come avvertimento. Questo
incidente venne gonfiato a dismisura e l'Austria-Ungheria dichiarò
quindi guerra e mobilitò il suo esercito il 28 luglio 1914. In base
al Trattato Segreto del 1892, Russia e Francia erano obbligate a
mobilitare i propri eserciti se qualsiasi nazione della Triplice
Alleanza si fosse mobilizzata e ben presto tutte le grandi potenze,
con l'eccezione dell'Italia, avevano scelto la propria parte ed
erano entrate in guerra.
I cospiratori che erano sotto i venti anni di età al momento
dell'assassinio vennero condannati alla prigione, invece che alla
pena capitale. Tre di essi (Danilo Ilić, Mihaijlo Jovanović e Veljko
Čubrilović) vennero impiccati. Čabrinović e Princip morirono di
tubercolosi in carcere. Alcune figure minori vennero prosciolte.
È possibile sostenere che questo episodio mise in moto gran parte
dei principali eventi del XX secolo, con dei riverberi che si
addentrano nel XXI. Il Trattato di Versailles alla fine della prima
guerra mondiale, viene generalmente collegato alla salita al potere
di Adolf Hitler e alla seconda guerra mondiale. Esso portò anche al
successo della Rivoluzione russa che porterà poi alla Guerra Fredda.
Questa a sua volta, diede origine a molti importanti sviluppi
politici del XX secolo, come la caduta degli imperi coloniali e
l'ascesa degli USA e dell'URSS allo status di superpotenze.
A ogni modo, se l'assassinio non fosse avvenuto, è probabile che una
guerra generale europea si sarebbe comunque avuta, innescata da un
altro evento in un momento diverso. Le alleanze delineate in
precedenza e l'esistenza di vasti e complessi piani di mobilitazione
che era quasi impossibile fermare una volta avviati, resero la
guerra su vasta scala sempre più probabile fin dagli inizi del XX
secolo.
All'indomani dell'attentato il giornalista Edouard Helsey andò a
intervistare l'ambasciatore francese a Vienna, Crozier. «Deploro
questo sanguinoso avvenimento - affermò il diplomatico, - ma so che
il fatto assicurerà la pace in Europa per più di mezzo secolo».
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• Vladimir Dedijer, The Road
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storia della prima guerra mondiale, 2009, Milano, Oscar storia,
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Crisi
di luglio
Data
28 giugno - 4 agosto 1914
Luogo
Europa
• 28 giugno: nell'attentato di
Sarajevo muore l'erede al trono d'Austria-Ungheria Francesco
Ferdinando.
• 6 luglio: l'Austria-Ungheria
ottiene dalla Germania l'assenso ad attaccare la Serbia.
• 14 luglio: il generale
austro-ungarico Conrad dichiara che l'Austria-Ungheria non è pronta
ad attaccare immediatamente la Serbia.
• 23 luglio:
l'Austria-Ungheria consegna l'ultimatum alla Serbia.
• 25 luglio: la Serbia rifiuta
alcune clausole dell'ultimatum e mobilita (ore 15.00) l'esercito.
• 25 luglio: ore 21.23,
l'Austria-Ungheria mobilita parte dell'esercito contro la Serbia
• 28 luglio:
l'Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia.
• 29 luglio: la Russia
mobilita parte dell'esercito contro l'Austria-Ungheria.
• 30 luglio: ore 17.00, la
Russia mobilita completamente l'esercito.
• 31 luglio: ore 13.00,
l'Austria-Ungheria mobilita l'esercito. La Germania consegna
l'ultimatum alla Francia e alla Russia. Il Belgio mobilita alle ore
19.00.
• 1º agosto: la Francia
mobilita l'esercito a partire dalla ore 16.00. La Germania mobilita
alle ore 17.00 e dichiara guerra alla Russia.
• 3 agosto: la Germania
dichiara guerra alla Francia. L'Italia proclama la sua neutralità.
• 4 agosto: dopo l'invasione
tedesca del Belgio, la Gran Bretagna dichiara guerra alla Germania.
La crisi di luglio fu la grave crisi politica e diplomatica
che precedette e segnò l'inizio della prima guerra mondiale. Scaturì
dall'assassinio dell'erede al trono d'Austria-Ungheria Francesco
Ferdinando avvenuto il 28 giugno del 1914. Dell'attentato il governo
di Vienna ritenne responsabili alcuni militari e funzionari della
Serbia.
Nei giorni che seguirono, la Germania, convinta di poter localizzare
il conflitto, pressò l'alleato austro-ungarico affinché aggredisse
al più presto la Serbia. Solo la Gran Bretagna avanzò una proposta
di conferenza internazionale che non ebbe seguito, mentre le altre
nazioni europee si preparavano lentamente al conflitto. Quasi un
mese dopo l'assassinio di Francesco Ferdinando, l'Austria-Ungheria
inviò un duro ultimatum alla Serbia che venne rifiutato. Di
conseguenza, il 28 luglio 1914, l'Austria-Ungheria dichiarò guerra
al Regno di Serbia determinando l'irrimediabile acuirsi della crisi
e la progressiva mobilitazione delle potenze europee per il gioco
delle alleanze tra i vari stati.
La Russia, in nome dell'amicizia etnica con la Serbia, iniziò la
mobilitazione del proprio esercito. Allarmata dalla mobilitazione
della Russia, la Germania le dichiarò guerra il 1º agosto 1914 e,
seguendo lo schema strategico-operativo del piano Schlieffen, due
giorni dopo dichiarò guerra anche alla Francia. La crisi terminò con
la dichiarazione di guerra della Gran Bretagna alla Germania che
aveva invaso il Belgio (4 agosto) e con la consapevolezza che la
diplomazia aveva ormai lasciato il posto alle armi.
Antefatti e contesto storico
Nel 1878, dopo molti secoli di dominazione, i turchi erano stati
cacciati dalla Bosnia e l'Austria ne aveva assunto l'amministrazione
grazie al trattato di Berlino. Nel 1908, a seguito di un cambio di
rotta della sua politica estera, l'Austria ne proclamò anche
l'annessione mortificando le ambizioni nazionaliste serbe3. Tale
annessione provocò la cosiddetta "crisi bosniaca" durante la quale
Austria e Germania da un lato e Russia e Serbia dall'altro si
fronteggiarono pericolosamente sulla validità o meno dell'azione di
Vienna. La grave tensione, dopo la minaccia tedesca di arrivare alla
guerra, si sciolse con il riconoscimento russo dell'annessione
austriaca, e con l'impegno della Serbia a tenere un atteggiamento
amichevole con l'Austria.
A seguito della crisi bosniaca e delle alleanze precedentemente
stipulate, nel 1914 l'Europa era divisa in due blocchi politici. Il
primo, al centro del continente, era costituito dalla Germania e
dall'Austria strettamente alleate tra loro e unite all'Italia dal
debole legame della Triplice alleanza. Il secondo era invece formato
dalla Russia, che era legata sia alla Serbia da un rapporto di
amicizia basato sulla comune etnia slava, sia alla Francia dalla
Duplice intesa stipulata nel 1894. La Gran Bretagna, ufficialmente
libera da vincoli di alleanza, a seguito del riarmo tedesco aveva
eliminato ogni motivo di attrito con la Russia (Accordo per l'Asia
del 1907) e con la Francia (Entente cordiale del 1904) e poteva,
quindi, considerarsi appartenente al secondo blocco. Di conseguenza,
gli imperi di Austria e Germania erano quasi interamente circondati
da nazioni potenzialmente ostili: la Serbia a sud-est, la Russia a
est, la Francia a ovest e la Gran Bretagna a nord-ovest.
Giovane Bosnia e Mano Nera
Effetto dell'annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina del 1908
fu la nascita e il consolidamento di alcuni movimenti politici slavi
rivoluzionari fra cui la "Giovane Bosnia", un'organizzazione serba
formata principalmente da intellettuali fra i quali militava Gavrilo
Princip, nato in Bosnia. Quando questi, diciannovenne, nel marzo del
1914, seppe che l'erede al trono d'Austria-Ungheria Francesco
Ferdinando si sarebbe recato in visita in Bosnia, concepì l'idea di
assassinarlo. Princip coinvolse nel complotto alcuni amici ed
ottenne un importante aiuto da parte del maggiore dell'esercito
serbo Voijslav Tankošić personaggio di spicco dell'organizzazione
"Mano Nera". Questo movimento, nato nel 1911, rispondeva al nome
ufficiale di "Unione o Morte" (in serbo Ujedinjenje ili smrte) e
aveva come scopo la fusione fra la Serbia e la Bosnia4.
La Mano Nera era presente in modo considerevole nelle forze armate
serbe e la sua figura dominante, Dragutin Dimitrijević, nel 1903
aveva fatto assassinare il re Alessandro I accusato di una politica
troppo filo-austriaca. Dimitrijević era impegnato in un aspro
conflitto con il Primo ministro Nikola Pašić nazionalista come lui,
ma più prudente. Pašić, con molta probabilità, venne a sapere che
dei rivoluzionari armati in Serbia avevano passato il confine con la
Bosnia. Egli, tuttavia, negò sempre di avere avuto conoscenza del
reale obiettivo dell'azione5.
L'attentato di Sarajevo - 28 giugno
Domenica 28 giugno 1914, il bosniaco Gavrilo Princip riuscì ad
assassinare a Sarajevo l'erede al trono d'Austria-Ungheria,
l'arciduca Francesco Ferdinando e la sua consorte Sofia di
Hohenberg, venendo immediatamente arrestato.
Le reazioni in Europa furono abbastanza tiepide nella maggior parte
dei casi. Il presidente francese Raymond Poincaré, raggiunto dalla
notizia, non rinunciò alle corse di cavalli alle quali stava
assistendo. In Austria, a causa delle idee anti-ungheresi
dell'arciduca, la notizia provocò addirittura sollievo in alcuni
ambienti. A Londra, i mercati azionari aprirono al ribasso per poi
recuperare alla constatazione che le altre borse europee tenevano
bene. L'ambasciatore britannico a Roma riferì che la stampa italiana
aveva ufficialmente condannato il crimine ma «la gente ha
considerato quasi provvidenziale l'eliminazione del compianto
arciduca»6. Tuttavia l'indignazione per l'accaduto e i timori di una
cospirazione serba ispirarono violente manifestazioni anti-serbe a
Vienna e Brno. Da Budapest il console generale britannico riferì:
« Un'ondata di odio cieco contro la Serbia e tutto ciò che è
serbo si è abbattuta sul paese7. »
Nei giorni successivi la tensione andò aumentando: il ministro degli
esteri austriaco Leopold Berchtold e il capo di stato maggiore
Conrad von Hötzendorf videro nell'attentato l'occasione per
ridimensionare il potere della Serbia. Non avevano ancora ben chiaro
se annetterla tutta o in parte, oppure sconfiggerla con le armi ed
esigere, anziché territori, un forte indennizzo8. Francesco Giuseppe
era invece titubante: temeva che l'attacco austriaco avrebbe
coinvolto altre potenze, in particolare la Russia, la quale si
sarebbe sentita costretta, in nome del panslavismo, ad accorrere in
aiuto della Serbia9. Altrettanto esitante era il Primo ministro
ungherese István Tisza sul quale, Il 1º luglio, Conrad annotò:
« Tisza è contrario alla guerra con la Serbia; è preoccupato,
teme che la Russia ci attacchi e la Germania ci pianti in
asso10 »
Invece l'imperatore di Germania Guglielmo II, amico dell'arciduca,
ebbe una reazione inizialmente bellicosa. Egli aveva infatti
immaginato di guidare alla morte dell'anziano Francesco Giuseppe le
sorti dell'Europa con l'erede di quest'ultimo, Francesco
Ferdinando11. Il Kaiser che era ritornato a Berlino da Kiel, dove
aveva ricevuto la notizia dell'assassinio mentre era impegnato in
una regata velica, scrisse a margine di un telegramma inviatogli il
30 giugno:
« Bisogna sistemare una volta per tutte i serbi, e
subito!12 »
L'"assegno in bianco" della Germania - 5/6 luglio
Le relazioni tra Vienna e Belgrado erano molto tese da anni, specie
dopo le guerre balcaniche. Inoltre, l'errata convinzione che Francia
e Russia avrebbero esitato ad entrare in guerra per la Serbia,
condusse parte dei vertici di Germania e Austria-Ungheria a
considerare seriamente, ai primi di luglio, la possibilità di punire
e umiliare subito Belgrado.
Il 5 luglio 1914, l'inviato del ministro degli esteri austriaco
Leopold Berchtold, conte Alexander Hoyos, incontrò a Berlino il
sottosegretario agli esteri tedesco Arthur Zimmermann. In questa
occasione Hoyos parlò espressamente di guerra, di eliminare la
Serbia dalla carta geografica e di dividerne le spoglie fra i paesi
confinanti. Le sue tesi furono accolte con molta attenzione13.
Nel frattempo, a Potsdam, l'ambasciatore austriaco a Berlino,
Ladislaus von Szögyény-Marich consegnò a Guglielmo II dei documenti
ricevuti da Hoyos. Si trattava di due atti: un memoriale del Primo
ministro d'Ungheria István Tisza, scritto prima del 28 giugno dal
contenuto moderato, ma al quale Berchtold aveva aggiunto un
poscritto molto aggressivo nei confronti della Serbia; e una dura
lettera autografa di Francesco Giuseppe che, rivolgendosi
direttamente a Guglielmo II, auspicava l'eliminazione della Serbia
«come fattore politico dai Balcani»14.
Durante la fase iniziale di quest'ultimo incontro, Guglielmo non si
sbilanciò, ma dopo colazione, su insistenza dell'ambasciatore
austriaco a prendere posizione, dichiarò che non si doveva differire
un'azione contro la Serbia, che la Russia sarebbe stata ostile e
che, anche se si fosse arrivati ad una guerra fra Austria e Russia,
la Germania si sarebbe schierata al fianco dell'alleato. Aggiunse,
tuttavia, che la Russia non era pronta ad una guerra ed avrebbe
esitato molto prima di ricorrere alle armi. Per questo bisognava
agire subito15.
Il giorno dopo, il 6 luglio, questa di Guglielmo risultò anche la
versione ufficiale della Germania: l'Austria doveva battere
rapidamente la Serbia in modo da mettere l'Europa di fronte al fatto
compiuto16. Fu il cosiddetto "assegno in bianco" che la Germania
staccò all'Austria.
Le resistenze di Tisza a Vienna
Ottenuto il consenso e anzi l'incitamento della Germania ad
attaccare la Serbia, il 7 luglio si riunirono gli otto membri del
gabinetto di guerra austro-ungarico per esaminare l'offerta di aiuto
avanzata dal Kaiser Guglielmo II. Berchtold, che presiedeva la
riunione, propose di attaccare immediatamente la Serbia, senza
neppure dichiarare guerra17.
Fra i componenti dell'esecutivo, l'orientamento prevalente era
favorevole ad un intervento militare ed a un ridimensionamento
territoriale della Serbia, che sarebbe stata posta sotto controllo
dell'Austria. L'unico a protestare fu István Tisza che il giorno
successivo inviò una lettera all'imperatore precisando che un
intervento contro la Serbia avrebbe provocato una guerra mondiale e
che avrebbe spinto non solo la Russia, ma anche la Romania a
schierarsi contro l'Austria18. Secondo Tisza, Vienna avrebbe dovuto
invece preparare un elenco di richieste accettabili che, se non
fossero state soddisfatte dalla Serbia, avrebbero portato ad un
ultimatum. Tisza aveva potere di veto e si mantenne sulla sua
posizione per una settimana. Poi, nel timore che la Germania avrebbe
potuto abbandonare l'Austria, accettò l'idea intermedia di un
ultimatum subito19.
Sfuma l'effetto sorpresa: l'ottimismo britannico - 9/23 luglio
Mentre questi erano gli avvenimenti che si consumavano a Vienna, a
Londra Sir Arthur Nicolson, consigliere del ministro degli esteri
Edward Grey, il 9 luglio inviò una comunicazione all'ambasciatore
britannico a Vienna Maurice de Bunsen (1852-1932) nella quale
dubitava di un eventuale intervento austriaco. Fuori
dall'Austria-Ungheria, poiché alla Serbia non era stato consegnato
ancora un ultimatum, la sensazione dell'imminenza di una crisi si
stava infatti attenuando. Invece, il desiderio dell'Austria di
infliggere una punizione alla Serbia era ancora forte ed era
sorretto dalla fiducia che la Germania avrebbe appoggiato un'azione
di rappresaglia21.
L'Austria-Ungheria, tuttavia, continuò a non poter agire, nonostante
il ministro István Tisza non fosse quasi più un ostacolo e le
gerarchie militari tedesche fossero pronte alla guerra22. Il capo di
Stato Maggiore austriaco Franz Conrad von Hötzendorf il 14 luglio si
dichiarò infatti contrario ad un'azione militare prima del 25 (data
di scadenza di un congedo generale che era stato concesso per
provvedere al raccolto agricolo). Né un annullamento del congedo
risultava fattibile, dato che avrebbe smascherato le intenzioni di
Vienna23. Era comunque ormai troppo tardi per lanciare un attacco
austriaco a sorpresa e la diplomazia tedesca si mosse affinché si
potesse localizzare il futuro conflitto. Il 19 luglio, il ministro
degli esteri di Berlino, Gottlieb von Jagow, fece pubblicare sul
giornale Norddeutsche Allgemeine Zeitung una sua nota in cui
ammoniva che
« La composizione della disparità di vedute che potrebbero
sorgere fra Austria-Ungheria e Serbia deve restare una faccenda di
carattere locale. »
Tre giorni dopo, dichiarazioni ufficiali sulla posizione della
Germania in merito furono inviate a Russia, Gran Bretagna e
Francia24. Le condizioni dell'ultimatum vennero definite a Vienna lo
stesso 19 luglio; tutti i presenti alla seduta del Consiglio dei
ministri austriaco, compreso il generale Conrad, erano consapevoli
che la Serbia avrebbe respinto le condizioni e che il passo
successivo sarebbe stato un attacco militare. Conrad era il più
convinto assertore della guerra, da cui si aspettava conquiste
territoriali alla frontiera con la Bosnia25.
In Francia, intanto, il Presidente della Repubblica Poincaré e il
suo Presidente del Consiglio René Viviani erano partiti per un
viaggio in Russia. I capi delle due potenze alleate si sarebbero
trovati quindi insieme il 21 e agevolati nel concertare una risposta
alle eventuali mosse dell'Austria. Per non fornire questo vantaggio,
ottenute le informazioni sul ritorno a Parigi della delegazione
francese, Berchtold programmò di presentare l'ultimatum alla Serbia
il 23 luglio, con scadenza il 25 luglio2627.
Il 21 luglio Francesco Giuseppe diede il proprio assenso alle
condizioni dell'ultimatum, e il giorno seguente il ministro degli
esteri russo, Sergej Dmitrievič Sazonov, cominciò a mettere in
guardia l'Austria dal prendere misure drastiche, anche se il monito
non accennava a ritorsioni militari28.
Più ottimista, il 23 luglio, David Lloyd George che annunciò alla
Camera dei Comuni che non ci sarebbero stati problemi tra le nazioni
a regolare le difficoltà attraverso «qualche sana e ben congegnata
forma di arbitrato». Le relazioni con la Germania erano le migliori
degli ultimi anni, osservò29.
L'ultimatum austriaco alla Serbia - 23 luglio
Ottenuto anche il consenso di Francesco Giuseppe, nel pomeriggio del
23 luglio 1914, l'ambasciatore austriaco a Belgrado, il barone
Wladimir Giesl Freiherr von Gieslingen, consegnò al governo serbo
l'ultimatum dell'Austria e rimase in attesa della risposta che
doveva arrivare non oltre le 18:00 del 25 luglio.
Il testo
Dopo una lunga premessa nella quale l'Austria accusò la Serbia
di aver disatteso la dichiarazione d'intenti rivolta alle grandi
potenze alla fine della crisi bosniaca, il governo di Vienna intimò
a quello di Belgrado di far pubblicare sulla "Rivista ufficiale"
serba del 26 luglio una nuova dichiarazione, di cui riportava il
testo. Essa impegnava la Serbia a condannare la propaganda
anti-austriaca, riconosceva la complicità di funzionari e ufficiali
serbi nell'attentato di Sarajevo e impegnava Belgrado a perseguire
per il futuro con il massimo rigore tali macchinazioni.
Il governo serbo si doveva impegnare inoltre:
« 1. A sopprimere qualsiasi pubblicazione che inciti all'odio e
al disprezzo nei confronti della monarchia austro-ungarica […];
2.
A sciogliere immediatamente la società denominata Narodna Odbrana e
confiscarne tutti i mezzi di propaganda, nonché a procedere in ugual
modo contro altre società e loro branche in Serbia coinvolte in
attività di propaganda contro la monarchia austro-ungarica [...];
3. A eliminare senza ulteriore indugio dalla pubblica istruzione del
proprio paese [...] qualunque cosa induca o potrebbe indurre a
fomentare la propaganda contro l'Austria-Ungheria;
4. A espellere
dall'apparato militare e dalla pubblica amministrazione tutti gli
ufficiali e i funzionari colpevoli di propaganda contro la monarchia
austro-ungarica i cui nomi e le cui azioni il governo
austro-ungarico si riserva il diritto di comunicare al Regio governo
[serbo];
5. Ad accettare la collaborazione in Serbia di
rappresentanti del governo austro-ungarico per la soppressione del
movimento sovversivo diretto contro l'integrità territoriale della
monarchia [austro-ungarica];
6. Ad adottare misure giudiziarie
contro i complici del complotto del 28 giugno che si trovano sul
territorio serbo; delegati del governo austro-ungarico prenderanno
parte all'indagine a ciò attinente;
7. A provvedere con la massima
urgenza all'arresto del maggiore Voijslav Tankošić e di un
funzionario serbo a nome Milan Ciganović, che i risultati delle
indagini dimostrano coinvolti nella cospirazione;
8. A prevenire
con misure efficaci la cooperazione delle autorità serbe al traffico
illecito di armi ed esplosivi oltre frontiera, a licenziare e punire
severamente i funzionari dell'ufficio doganale di Schabatz e
Loznica, rei di avere assistito i preparatori del crimine di
Sarajevo agevolandone il passaggio oltre frontiera;
9. A fornire
all'Imperial regio governo [austro-ungarico] spiegazioni in merito
alle ingiustificate espressioni di alti ufficiali serbi […] i quali
[...] non hanno esitato sin dal crimine del 28 giugno a esprimersi
pubblicamente in termini ostili nei confronti del governo
austro-ungarico; e infine;
10. A notificare senza indugio
all'Imperial regio governo [austro-ungarico] l'adozione delle misure
previste nei precedenti punti30. »
Il governo austriaco attendeva la risposta del governo serbo entro
le ore 6 pomeridiane di sabato 25 luglio. Il testo lasciava, come si
vede, ampio margine d'azione all'Austria-Ungheria, benché tutto
facesse pensare, in caso di inadempienza serba, alle estreme
conseguenze.
Le reazioni all'ultimatum austriaco - 23/27 luglio
Quando il testo dell'ultimatum si diffuse, fra i governi d'Europa si
ebbero varie reazioni. A Londra il ministro degli esteri Edward Grey
dopo aver letto l'ultimatum austriaco lo definì
« il documento più duro che uno Stato abbia mai indirizzato ad
un altro Stato31. »
e ingenuamente chiese il sostegno tedesco per un rinvio dei
termini proponendo che Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia
facessero da mediatori della crisi. Azione analoga fu intrapresa dal
ministro degli esteri russo Sergej Dmitrievič Sazonov il cui
ambasciatore a Vienna ricevette, il 24 luglio, l'assicurazione da
Berchtold che l'Austria-Ungheria non si proponeva «alcuna
acquisizione territoriale»32.
Come i governi di Vienna e Berlino avevano calcolato, la Francia non
poté reagire adeguatamente all'ultimatum. Il presidente Poincaré e
il Primo ministro nonché ministro degli esteri René Viviani erano
infatti ancora in navigazione nel viaggio di ritorno da San
Pietroburgo33.
Il reggente di Serbia Alessandro Karađorđević (figlio di re Pietro I
di Serbia che aveva abbandonato il potere per motivi di salute) si
presentò a tarda sera del 23 luglio all'ambasciata russa a Belgrado
«ad esprimere la sua disperazione per l'ultimatum, al quale egli non
vede possibilità di aderire interamente per uno Stato che abbia un
minimo di dignità»34.
Il ministro Sazonov, d'accordo affinché la Serbia non cedesse in
tutto ma non ancora pronto alla guerra, la mattina del 24 dopo la
riunione del Consiglio dei ministri, telegrafò al suo ambasciatore a
Belgrado:
« [...] Varrà forse meglio che, in caso di un'invasione
austriaca, i serbi non tentino di opporre resistenza, ma ripieghino,
lasciando che il nemico occupi il suo territorio, e rivolgano un
appello alle potenze [...]35. »
Berchtold richiamato dalla Germania
In previsione del precipitare degli eventi, Berchtold fece
comunicare la sera del 24 luglio al ministro degli esteri britannico
Edward Grey che la nota austriaca non costituiva un ultimatum vero e
proprio e che in caso di insoddisfazione dell'Austria-Ungheria alla
risposta serba, non ci sarebbe stata che la rottura delle relazioni
diplomatiche e l'inizio dei preparativi militari36.
Lo stesso giorno fu preparato anche un messaggio per San Pietroburgo
(inviato il 25 luglio con un corriere) in cui il governo austriaco
spiegava come non fosse spinto da motivi egoistici:
« [...] Se la lotta con la Serbia ci è imposta, non sarà per
noi una lotta in vista di annessioni territoriali, ma esclusivamente
un mezzo di legittima difesa e di conservazione37. »
Venuta a conoscenza delle intenzioni dilatorie di Berchtold,
la Germania si mosse e richiamò l'ambasciatore austriaco
Szögyény-Marich a Berlino. Questi, tornato a Vienna, il 25 riferì a
Berchtold che ad un rifiuto dell'ultimatum della Serbia la Germania
si aspettava l'immediata dichiarazione di guerra dell'Austria e
l'inizio delle operazioni militari, poiché ad ogni ritardo
dell'inizio delle ostilità si ravvisava il grave pericolo di
ingerenza di altre potenze38.
La risposta serba
La pagina della risposta ufficiale serba in cui il governo di
Belgrado trattava i punti 2), 3) e 4) dell'ultimatum austriaco.
Il Primo ministro serbo Nikola Pašić e i suoi colleghi lavorarono
giorno e notte, indecisi tra l'accettazione passiva dell'ultimatum e
la tentazione di aggiungere condizioni o riserve che potessero
consentire di sfuggire alle richieste di Vienna. Il documento
finale, che a causa di un guasto alla macchina da scrivere fu
ricopiato a mano, sembrò più simile ad una brutta copia che ad una
risposta diplomatica ufficiale39.
Nessuna riserva fu fatta da Belgrado ai punti 8) e 10); i punti 1),
2) e 3) vennero parzialmente accettati; ma le risposte date ai punti
4), 5) e 9) erano concepite di modo da eludere le domande
dell'ultimatum. Quanto al punto 7) i serbi risposero che non era
stato possibile procedere all'arresto di Milan Ciganović, che invece
era stato fatto allontanare proprio dalle autorità serbe. Negativa,
infine, la risposta al punto 6), la partecipazione cioè del governo
austro-ungarico alle investigazioni sull'attentato del 28 giugno.
Tale richiesta, oltre ad essere lesiva della sovranità della Serbia,
presentava il pericolo che si facesse piena luce sull'attività della
Mano Nera e dei suoi temuti dirigenti40.
Alle ore 15 del 25 luglio la Serbia mobilitò l'esercito e tre ore
dopo41, alle 18 meno due minuti (quindi a due minuti dalla scadenza
dell'ultimatum), il Primo ministro Pašić consegnò la risposta serba
all'ambasciatore austriaco, von Gieslingen, dicendo:
« Abbiamo accettato parte delle domande... Per il resto ci
rimettiamo alla lealtà ed alla cavalleria del generale
austriaco42. »
Gieslingen era infatti un generale che, come tale, obbediva
alle istruzioni ricevute. Egli lesse da solo e in fretta il
documento e, constatato che non rispondeva alle esigenze fissate da
Berchtold, firmò la nota già preparata per l'evenienza e la fece
recapitare a Pašić. Nella nota si diceva che, essendo spirato il
termine delle richieste consegnate al governo serbo e non avendo
ricevuto una risposta soddisfacente, egli abbandonava Belgrado
quella sera stessa con tutto il personale della legazione43.
Quello stesso 25 luglio, al diffondersi della notizia della rottura
delle trattative fra Austria e Serbia, a San Pietroburgo lo Stato
Maggiore russo avviò il "periodo di preparazione alla guerra" (primo
passo per la mobilitazione) e a Parigi il governo francese richiamò
segretamente in servizio i propri generali. Più distesa l'atmosfera
a Londra44.
L'Austria non era quindi ancora in guerra con la Serbia e, secondo
il capo di stato maggiore Conrad, non sarebbe stata in grado di
procedere ad una vera e propria invasione prima di qualche
settimana. La Russia era ancora più indietro nei preparativi e il 27
luglio lo zar Nicola II, se da un lato sottolineò che il paese non
poteva restare indifferente al destino della Serbia, dall'altra
propose di aprire negoziati con Vienna, ma gli austriaci respinsero
la proposta45.
La proposta britannica di una conferenza
Nonostante la crisi internazionale, domenica 26 luglio, il
ministro degli esteri britannico Edward Grey trascorreva il week-end
in campagna. A Londra, il sottosegretario Sir Arthur Nicolson
telegrafò al ministro per suggerirgli di proporre alle potenze una
conferenza durante la quale Austria, Serbia e Russia non avrebbero
dovuto intraprendere operazioni militari46.
Grey si affrettò a telegrafare la sua adesione all'idea di Nicolson
alla quale fu data esecuzione alle 15 dello stesso 26 luglio con un
telegramma diretto agli ambasciatori inglesi presso le grandi
potenze e la Serbia. Nel telegramma si proponeva una conferenza a
Londra tra i rappresentanti di Parigi, Roma e Berlino, con Grey per
la Gran Bretagna, allo scopo di «trovare il modo di impedire
complicazioni»47. Il giorno dopo, tuttavia, il Ministero della
Guerra britannico diede istruzioni al generale Smith-Dorrien di
presidiare «tutti i punti vulnerabili» nel sud del paese48.
Le risposte alla proposta inglese furono piuttosto fredde: il
Cancelliere tedesco Theobald von Bethmann-Hollweg temendo una
sconfitta diplomatica non volle aderire. La Germania non sarebbe
riuscita ad ottenere quello che desiderava, e cioè l'assenso ad un
attacco alla Serbia che riabilitasse il prestigio austriaco.
L'Italia aderì invece alla proposta, mentre la Francia tentennò fra
il compiacere l'ambasciatore tedesco e l'agire direttamente sulla
Russia una volta stabilita l'intenzione dell'Austria-Ungheria a non
effettuare annessioni. San Pietroburgo prese tempo, date le speranze
di Sazonov di venire direttamente con l'Austria ad un'intesa
amichevole. In buona sostanza la proposta di Grey fallì ma allarmò
la Germania per la piega moderata che poteva prendere la crisi49.
La Germania preme per la guerra
Dopo la rottura delle relazioni diplomatiche fra
Austria-Ungheria e Regno di Serbia, il governo tedesco,
coerentemente con quanto stabilito il giorno prima, il 26 luglio
reclamò d'urgenza all'Austria «la dichiarazione di guerra e l'inizio
delle operazioni militari»50. Ciò allo scopo di scongiurare
pressioni in senso contrario: bisognava cioè evitare che la crisi
venisse risolta prima che le forze austriache fossero riuscite a
occupare Belgrado51.
Il timore del ministro degli esteri tedesco Jagow era che, con
lusinghe o con minacce, le altre potenze sarebbero potute
intervenire e imporre una soluzione pacifica a Vienna. Ancora
sollecitato, il ministro austriaco Berchtold fece pressione sul capo
di stato maggiore Conrad che sostenne di non essere pronto, e alla
domanda su quando avrebbe potuto dichiarare guerra alla Serbia,
Conrad rispose: «Solo quando avremo fatto abbastanza progressi da
poter iniziare le operazioni immediatamente: all'incirca il 12
agosto». Berchtold rispose che la situazione diplomatica non avrebbe
retto tanto a lungo, e Conrad replicò che sarebbe stato necessario
aspettare almeno fino al 4 o al 5 agosto. «Ciò è impossibile!»
esclamò il ministro52.
L'Austria dichiara guerra alla Serbia - 28 luglio
Nonostante il parere negativo del capo di stato maggiore
Conrad, il governo austriaco il 28 luglio ordinò la mobilitazione
parziale, esclusivamente diretta contro la Serbia; mentre
l'imperatore di Germania Guglielmo II, in contrasto con quanto
stabilito dal suo governo, si dichiarò disposto a fare da mediatore
fra Austria e Serbia dichiarando che non c'era più alcun motivo,
dopo la risposta di Belgrado all'ultimatum di Vienna, di far
scoppiare una guerra. Guglielmo II aveva infatti definito la replica
serba una «capitolazione oltremodo umiliante». Secondo il Kaiser,
occorreva però, per costringere la Serbia a rispettare le promesse
contenute nella risposta all'ultimatum, che l'Austria occupasse
temporaneamente Belgrado (al di là del confine) e nulla più. Tali
istruzioni del Kaiser al suo ministro degli esteri Jagow non
influirono però sulla condotta dei diplomatici tedeschi a Vienna53.
Risoluto ormai ad entrare in guerra al più presto, il governo
austriaco si trovò nella necessità di chiedere l'autorizzazione a
Francesco Giuseppe. In un'istanza di Leopold Berchtold
all'imperatore del 27 luglio, si osservò che la risposta serba, per
quanto inutile nella sostanza, era stata redatta in modo conciliante
e poteva suggerire all'Europa tentativi di soluzione pacifica se non
si creava subito una situazione netta. Nel documento si fingeva
anche la circostanza che truppe serbe da piroscafi sul Danubio
avevano sparato su truppe austro-ungariche, ed occorreva dare
all'esercito quella libertà d'azione che avrebbe avuto solo in caso
di guerra5455.
Francesco Giuseppe accolse l'istanza di Berchtold e alle ore 12 del
28 luglio un telegramma con la dichiarazione di guerra partì per
Belgrado, l'Austria dichiarò ufficialmente guerra alla Serbia,
confidando nell'appoggio tedesco nel caso in cui il conflitto si
fosse esteso. Era iniziata la prima guerra mondiale, ma non molti se
ne resero conto56.
Lo Zar mobilita: si innesca la reazione a catena - 29/30 luglio
Il ministro degli esteri russo Sazonov sostenne la necessità della
mobilitazione generale.
Appresa la sera del 28 luglio la dichiarazione di guerra
dell'Austria-Ungheria alla Serbia, il ministro degli esteri russo
Sergej Dmitrievič Sazonov comunicò alla sua ambasciata a Berlino che
il giorno dopo il governo dello Zar avrebbe ordinato la
mobilitazione nei distretti di Odessa, Kiev, Mosca e Kazan', cioè
contro l'Austria57.
Così, mentre l'artiglieria austriaca teneva sotto tiro le
fortificazioni serbe lungo la frontiera pronta ad aprire il fuoco in
qualsiasi momento, la mattina del 29 luglio, la Russia chiamò alle
armi una parte della sua enorme riserva di uomini: lo zar Nicola II
non dichiarò guerra all'Austria, ma si limitò a ordinare una
mobilitazione parziale di quasi sei milioni di uomini58.
Lo stesso giorno l'ambasciatore tedesco a San Pietroburgo, Friedrich
Pourtalès, richiamò "molto seriamente" l'attenzione di Sazonov sul
fatto che la continuazione delle misure di mobilitazione russa
avrebbe obbligato la Germania alla mobilitazione e che in questo
caso sarebbe stato quasi impossibile impedire la guerra europea59.
Contemporaneamente, a Potsdam, si teneva una riunione fra Guglielmo
II e alcuni suoi alti ufficiali e funzionari. Ancora ignari della
mobilitazione parziale russa, essi discussero sulla situazione e il
Kaiser rifiutò una proposta del Cancelliere Bethmann di offrire
forti limitazioni della flotta tedesca in cambio della promessa di
neutralità della Gran Bretagna. Rientrato nel suo ufficio, piuttosto
avvilito, Bethmann trovò anche la notizia della mobilitazione
russa60.
Ad aggravare la posizione del Cancelliere, la stessa sera del 29,
giunse a Berlino un telegramma dell'ambasciatore tedesco a Londra,
Karl Max von Lichnowsky. Costui informava che il ministro Edward
Grey aveva affermato che se la Francia fosse stata coinvolta nella
guerra, la Gran Bretagna non sarebbe rimasta neutrale61.
A questo punto il Cancelliere si rese conto che il gioco stava
diventando troppo pericoloso e, coerentemente con il volere di
Guglielmo II, telegrafò al suo ambasciatore in Austria nella notte
fra il 29 e il 30 ordinandogli, praticamente, un dietro front:
« Noi siamo pronti ad adempiere ai nostri obblighi di alleanza,
ma dobbiamo rifiutare di lasciarci trascinare da Vienna, con
leggerezza e senza che i nostri consigli siano ascoltati, in una
conflagrazione generale62. »
L'indecisione di Nicola II
Lo zar Nicola II di Russia, convinto dai suoi generali, diede
l'ordine di mobilitazione generale il 30 luglio.
La mobilitazione generale russa, il cui ordine lo zar Nicola II
aveva firmato assieme a quello della mobilitazione parziale il 29
luglio, non era ancora operativa, ma si attivò allorquando si
diffuse la notizia a San Pietroburgo del bombardamento austriaco di
Belgrado effettuato lo stesso giorno dai pontoni sul Danubio.
L'opinione pubblica russa era furente contro l'Austria; lo Zar
spaventato da un conflitto con la Germania, si appellò direttamente
al Kaiser telegrafandogli: «[...] ti prego in nome della nostra
antica amicizia, di fare il possibile per impedire ai vostri alleati
[austriaci] di oltrepassare il limite». Il telegramma si incrociò
con un altro telegramma inviato dal Kaiser allo Zar: «[...] sto
esercitando tutta la mia influenza per indurre gli austriaci a
trattare immediatamente per arrivare ad un'intesa soddisfacente con
voi»63.
Nel tardo pomeriggio del 29 luglio, confortato dal telegramma del
Kaiser, Nicola II inviò ai capi di stato maggiore l'ordine di
evitare la mobilitazione generale e di dare corso soltanto a quella
parziale. Successivamente lo Zar ricevette un altro telegramma di
Guglielmo II che invitava la Russia a restare "spettatrice del
conflitto austro-serbo" e nel quale si offriva come mediatore fra
Russia e Austria64.
Ciò convinse lo Zar che alle 21:30 diede ordine di sospendere la
mobilitazione parziale65, ma il capo di stato maggiore Januškevič lo
avvertì che ormai era troppo tardi per fare marcia indietro; il
meccanismo era già in moto in tutto l'impero66.
Dal canto suo Guglielmo II non riuscì a dissuadere il proprio stato
maggiore dal rispondere alla mobilitazione parziale della Russia con
misura analoga e grazie ad un avvicinamento delle posizioni di
militari e civili avvenuto tra il pomeriggio e la sera del 30 verso
i mezzi estremi, la Germania si avviava a proclamare lo "stato di
pericolo di guerra"6768.
Il 30, a San Pietroburgo, allorché giunse voce che la Germania era
in pre-mobilitazione, lo Zar ricevette pesanti pressioni dal
ministro della Guerra Vladimir Aleksandrovič Suchomlinov e dal
ministro Sazonov affinché firmasse l'ordine di mobilitazione
generale69. Nicola II esitò, fin quando, convintosi della minaccia
di un imminente attacco tedesco si decise e ordinò al ministro degli
esteri:
« Voi avete ragione. Non ci resta altro da fare che prepararci
contro un'aggressione. Trasmettete al capo di Stato Maggiore
generale i miei ordini di mobilitazione. »
Alle ore 16 del 30 luglio lo Zar firmò l'ordine di
mobilitazione generale, da attivarsi per il giorno dopo, 31
luglio70.
L'opinione pubblica russa era favorevole alla totale solidarietà
verso gli slavi della Serbia, e le speranze russe - ammesso che ve
ne fossero ancora - di servirsi della mobilitazione non per muovere
guerra, ma come deterrente si dimostrarono illusorie71.
La mobilitazione generale austriaca - 30/31 luglio
La mattina del 30 luglio Guglielmo II ebbe la notizia della
mobilitazione parziale russa. Risentito con lo Zar, al quale nei
giorni precedenti aveva inviato messaggi di collaborazione, annotò:
«Allora devo mobilitare anch'io!». Tale atteggiamento bellicoso
influì sul capo di stato maggiore tedesco Helmuth Johann Ludwig von
Moltke72 che travalicò le intenzioni del Kaiser e quelle del
Cancelliere.
Moltke, infatti, in assoluto contrasto con il messaggio di Bethmann
della notte tra il 29 e il 30, inviò, fra il pomeriggio e la notte
del 30 al suo omologo austriaco Conrad due telegrammi, il secondo
dei quali riassumeva il primo: «Tener fermo contro la mobilitazione
russa. L'Austria-Ungheria deve essere preservata. Quindi mobilitare
subito contro la Russia. La Germania mobiliterà. Costringere con
compensi l'Italia al suo dovere di alleata»73.
Quando la mattina del 31 luglio Berchtold lesse i due telegrammi di
Moltke, confrontandoli con quello del giorno prima di Bethmann,
esclamò:
« Questa è bella! Chi comanda: von Moltke o Bethmann? »
E rivolto agli altri ministri riuniti per decidere sulla
minaccia della mobilitazione russa:
« Vi avevo pregato di venir qui perché avevo l'impressione che
la Germania retrocedesse. Ma ora dalla fonte militare più competente
ho una dichiarazione assolutamente tranquillizzante74. »
Agli occhi del ministro austriaco, dunque, Moltke contava ora più di
chiunque altro in Germania e si poteva quindi procedere per la
mobilitazione generale, per la quale fu deciso di sottoporre subito
l'ordine a Francesco Giuseppe. Questi firmò l'atto che pervenne al
Ministero della Guerra alle 12:23 del 31 luglio 191475.
La Germania in guerra
Il cancelliere Bethmann-Hollweg si schierò a favore della guerra
europea solo di fronte alla mobilitazione generale russa.
Il piano Schlieffen portò la Germania alla guerra prevedendo, in
caso di mobilitazione contro la Russia, un attacco alla Francia.
La notizia della mobilitazione generale russa fece il gioco del capo
di stato maggiore tedesco Moltke e vinse ogni possibile esitazione
di Bethmann-Hollweg e di Guglielmo II. La sequenza degli eventi che
si sarebbero succeduti era prestabilita dai piani tedeschi:
proclamazione dello "stato di pericolo di guerra"; ultimatum alla
Russia che sarebbe stato quasi sicuramente respinto; mobilitazione e
guerra76.
Bethmann comunicò il 31 luglio a Londra, San Pietroburgo, Parigi e
Roma che in Germania era stato proclamato lo "stato di pericolo di
guerra" e aggiunse che la mobilitazione tedesca sarebbe seguita solo
se la Russia non avesse revocato la sua. Ma all'ambasciatore a
Vienna Heinrich von Tschirschky telegrafò:
« Dopo la mobilitazione generale russa noi abbiamo proclamato
lo "stato di pericolo di guerra"; probabilmente la mobilitazione
[tedesca] seguirà entro quarantott'ore. Essa significherà
inevitabilmente la guerra. Noi attendiamo dall'Austria una
partecipazione attiva immediata alla guerra contro la
Russia77. »
A Berlino, lo stesso 31 luglio, uno dei maggiori industriali
tedeschi, Walther Rathenau pubblicò un articolo sul "Berliner
Tageblatt" protestando contro la cieca lealtà della Germania verso
l'Austria:
« senza lo scudo di una simile lealtà, l'Austria non si sarebbe
azzardata a compiere i passi che ha compiuto78. »
A questo punto la situazione comportava per i tedeschi una guerra
sia con la Russia che con la Francia. La Germania, infatti, doveva
tenere conto dell'alleanza franco-russa stipulata nel 1894. Se in
virtù di questa alleanza la Francia avesse riunito tutto il suo
potenziale bellico e avesse dichiarato guerra alla Germania mentre
le armate tedesche avanzavano in Russia, la Germania avrebbe corso
il rischio di trovarsi in difficoltà, se non addirittura sconfitta
ad ovest. Per scongiurare questa eventualità nel 1904 l'allora capo
di stato maggiore tedesco Alfred von Schlieffen ideò il piano
omonimo atto a sconfiggere la Francia con una rapida guerra
attraverso il Belgio per poi rivolgere tutte le forze contro la
Russia, nel frattempo impegnata nella lenta e macchinosa
mobilitazione. La Germania avrebbe così evitato una logorante e
pericolosa guerra su due fronti79.
L'ultimatum tedesco alla Russia
Il telegramma per l'ambasciatore tedesco a San Pietroburgo,
Pourtalès, contenente l'ultimatum alla Russia partì da Berlino alle
15:30 del 31 luglio. Esso, redatto da Bethmann in persona, era così
concepito:
« Malgrado i negoziati ancora in corso e sebbene [...] non
avessimo presa alcuna misura di mobilitazione, la Russia ha
mobilitato tutto il suo esercito e la sua flotta; ha dunque
mobilitato anche contro di noi. Queste misure russe ci hanno
costretti, per garantire la sicurezza dell'Impero [tedesco], a
dichiarare lo "stato di pericolo di guerra", che non significa
ancora la mobilitazione. Ma la mobilitazione deve seguire se entro
dodici ore la Russia non sospende ogni misura di guerra contro di
noi e contro l'Austria-Ungheria, e non ci fa una dichiarazione
precisa in questo senso. La prego di comunicare ciò immediatamente a
Sazonof e di telegrafare l'ora della comunicazione. So che Sverbejef
ha telegrafato ieri a [San] Pietroburgo che noi avevamo già
mobilitato, ma non è vero, nemmeno all'ora attuale80. »
Il telegramma di Bethmann arrivò a San Pietroburgo solo alle 21:30
e, intorno alla mezzanotte, l'ambasciatore tedesco Pourtalès si recò
dal ministro Sazonov per consegnargli l'ultimatum della Germania.
Sazonov replicò dicendo che ragioni tecniche impedivano di revocare
la mobilitazione ma, aggiunse, che ciò non implicava la guerra e i
negoziati potevano continuare. Chiese poi a Pourtalès se la
mobilitazione tedesca avrebbe, invece, portato inevitabilmente alla
guerra, al che l'ambasciatore rispose: «ci troveremmo a due dita
dalla guerra»81.
Questa affermazione, che lasciava anche un minimo di speranza di
pace dopo l'ordine di mobilitazione tedesca, illuse Sazonov di avere
ancora un piccolo margine di manovra; ciò non era vero, dato che le
procedure della mobilitazione tedesca prevedevano, una volta
avviate, necessariamente la guerra. Probabilmente neanche Pourtalès
si rese conto che il documento che aveva appena consegnato a Sazonov
era un ultimatum vero e proprio82.
Il motivo per cui Bethmann non chiarì nell'ultimatum alla Russia che
la mobilitazione tedesca avrebbe portato alla guerra è spiegabile
con il desiderio dello stato maggiore tedesco di non allarmare
troppo i russi, dal momento che ciò avrebbe accelerato i loro
preparativi militari83.
L'ultimatum tedesco alla Francia
Contemporaneamente al telegramma per San Pietroburgo, da Berlino
partì anche quello per l'ambasciatore tedesco a Parigi Wilhelm von
Schoen. Il testo era pressoché simile a quello per l'ambasciatore in
Russia ma si rivelava più incisivo e chiaro quando precisava:
« [...] La mobilitazione significa inevitabilmente la guerra.
La prego di chiedere al governo francese se in una guerra tra la
Germania e la Russia esso rimarrà neutrale. [...] La risposta a
quest'ultima domanda ci deve essere nota qui domani alle 4
pomeridiane84. »
L'ambasciatore tedesco Schoen si presentò al Ministero degli esteri
francese verso le 19 dello stesso 31 luglio e, consegnato
l'ultimatum con cui la Francia doveva stabilire la sua eventuale,
improbabilissima, neutralità, ne rendeva conto a Berlino in un
telegramma che partì la sera. Schoen riferì che il Presidente del
consiglio René Viviani gli aveva detto di
« non avere notizia alcuna di una mobilitazione russa »
e, sulla questione della neutralità, di poter rispondere
all'invito tedesco per le 13 del giorno dopo85.
La Germania dichiara guerra alla Russia - 1º agosto
Alle 12:52 del 1º agosto, e cioè dopo 52 minuti dalla scadenza
dell'ultimatum alla Russia, fu telegrafato da Berlino
all'ambasciatore a San Pietroburgo Pourtalès il testo della
dichiarazione di guerra. Il documento doveva essere consegnato, in
caso di risposta non soddisfacente, alle 17 ora dell'Europa
centrale86.
Alle 16, a Berlino, visto il silenzio del governo russo, il ministro
della Guerra Erich von Falkenhayn sollecitò il cancelliere Bethmann
a recarsi con lui dall'Imperatore per la firma dell'ordine di
mobilitazione generale. Alle 17 il Kaiser firmò l'ordine, dopo di
che Falkenhayn esclamò: «Dio benedica Vostra Maestà e le sue armi.
Dio protegga la nostra Patria»87.
Alle 19 di quello stesso 1º agosto, a San Pietroburgo,
l'ambasciatore tedesco Pourtalès si recò dal ministro Sergej
Dmitrievič Sazonov per avere notizie. Recava con sé la dichiarazione
di guerra che gli era pervenuta solo alle 17:45 e che aveva dovuto
anche decifrare. Incontrato Sazonov, gli domandò se il governo russo
fosse pronto a dare una risposta soddisfacente all'ultimatum. Il
ministro degli esteri rispose negativamente. Pourtalès allora gli
ripeté la domanda rilevando le gravi conseguenze che sarebbero
derivate dal non tener conto dell'ingiunzione tedesca. Sazonov
rispose come prima. Allora, l'ambasciatore, traendo di tasca un
foglio piegato, ripeté per la terza volta con voce tremante la
domanda. Sazonov disse che non aveva nulla da aggiungere.
Profondamente sconvolto Pourtalès disse con visibile sforzo:
« In questo caso sono incaricato dal mio governo di rimettervi
la nota seguente »
e con mano esitante tese la dichiarazione di guerra al
ministro russo.
Dopo di che l'ambasciatore perse ogni dominio di sé e, avvicinandosi
ad una finestra, scoppiò in lacrime. Ricorda Sazonov nelle sue
memorie:
« Malgrado la mia emozione, che riuscii a padroneggiare, mi
sentii preso da una profonda pietà per lui, e ci abbracciammo prima
che egli con passo malfermo abbandonasse il mio ufficio88. »
Equivoci sulla neutralità inglese e francese
Il kaiser Guglielmo II di Germania ebbe durante la crisi un
comportamento contraddittorio.
A Parigi, lo stesso 1º agosto, l'ambasciatore tedesco Schoen si recò
da Viviani per conoscere la decisione riguardo all'ultimatum tedesco
sull'eventuale neutralità francese, consegnato la sera prima.
Disorientando il diplomatico tedesco, Viviani rispose: «La Francia
si ispirerà ai suoi interessi» né il presidente del Consiglio
francese si esprimerà più chiaramente dopo.
Nel pomeriggio, su pressante richiesta del capo di stato maggiore
francese Joseph Joffre e su disposizione del Consiglio dei ministri,
alle 15:55, i telegrammi predisposti per l'occasione vennero
consegnati e spediti in tutta la Francia. Essi recavano l'ordine:
«Il primo giorno di mobilitazione è domenica 2 agosto»89.
A Berlino, ancora il 1º agosto, appena emanato l'ordine di
mobilitazione generale tedesca, un messaggio da Londra (giunto poco
più di un'ora prima) dell'ambasciatore tedesco Karl Max von
Lichnowsky illuse la Germania che, se non avesse attaccato la
Francia, questa non si sarebbe mossa a difendere la Russia. Né la
Gran Bretagna sarebbe entrata in guerra. Guglielmo e i suoi
collaboratori erano euforici, la Germania avrebbe combattuto solo
contro la Russia. Moltke, invece, si trovò in difficoltà,
perché i piani militari tedeschi prevedevano solo una guerra con
entrambe le potenze. Anzi, il Piano Schlieffen, come abbiamo visto,
prevedeva innanzi tutto un attacco alla Francia9091.
Quando arrivò la smentita da re Giorgio V del Regno Unito, che
nessuno assicurava la neutralità inglese, né tanto meno quella
francese, Moltke, sentito Guglielmo II, dette l'ordine di invadere
il Lussemburgo92.
Il 2 agosto l'intera marina britannica venne mobilitata e la Gran
Bretagna fornì anche rassicurazioni segrete alla Francia: se la
flotta tedesca fosse entrata nel Mare del Nord o nella Manica per
attaccare navi francesi, la flotta inglese avrebbe fornito «tutto
l'appoggio possibile»93.
Ma i piani bellici tedeschi non puntavano ad una vittoria navale nel
Mare del Nord o nella Manica, bensì ad una rapida marcia attraverso
il Belgio. E per raggiungere questo obiettivo alle 19 del 2 agosto
la Germania inviò un ultimatum al governo di Bruxelles,
concedendogli dodici ore di tempo per acconsentire al transito alle
truppe tedesche. I belgi rifiutarono: «se il governo belga
accettasse le richieste che gli sono state consegnate» fecero sapere
a Berlino da Bruxelles «sacrificherebbe l'onore della nazione e
tradirebbe i propri impegni in Europa»94.
Il riferimento del comunicato belga era al trattato dei XVIII
articoli del 26 giugno 1831 che imponeva al Belgio la "perpetua
neutralità" garantita dalle grandi potenze. L'impegno alla
neutralità belga fu poi confermato il 14 ottobre con il trattato dei
XXIV articoli che fu ratificato il 19 aprile 1839. Il 2 agosto 1914
quel trattato era ancora in vigore95.
La Germania dichiara guerra alla Francia - 3 agosto
Nonostante gli Stati Maggiori di Germania e Francia non
desiderassero sconfinamenti o incidenti alla frontiera comune, è
accertato che l'ordine di astenersi da ogni atto ostile sia stato
rispettato, fra il 1º e il 3 agosto, più nelle linee francesi che in
quelle opposte e che i tedeschi, desiderosi di considerarsi
aggrediti dalla Francia, si spesero in proteste più esagerate e
infondate di quelle francesi. Tanto che per due anni il popolo
tedesco credette che, in quei giorni, aerei francesi avessero
lanciato bombe su Norimberga. Moltke propose e ottenne che a questo
episodio (poi ampiamente smentito) si accennasse nella dichiarazione
di guerra96.
Una volta in guerra con la Russia, i tempi richiesti dal piano
Schlieffen erano strettissimi. Tuttavia non si tralasciarono le
formalità e, per non invogliare la Gran Bretagna a scendere in campo
a fianco della Francia, la Germania, trascorso il termine in cui la
Francia poteva dichiarare la sua neutralità, procedette con una
regolare dichiarazione di guerra in cui si denunciavano presunti
sconfinamenti francesi in territorio tedesco97.
Di fronte alla mobilitazione francese del giorno prima, il 3 agosto
l'ambasciatore di Berlino a Parigi, Schoen, a cui era stato ordinato
di consegnare la dichiarazione di guerra per le 18, si mosse in
automobile verso le 18:15. Prima uno, poi un secondo esagitato si
lanciarono sulla vettura apostrofando il diplomatico tedesco
violentemente. Tre agenti francesi accorsero in aiuto di Schoen che,
così, arrivò illeso al Quai d'Orsay, il palazzo del Ministero degli
esteri francese98.
L'incontro fra Schoen e Viviani
L'ambasciatore tedesco Schoen, tratta di tasca la dichiarazione
preparata in forma di lettera, ne diede lettura al Presidente del
consiglio e ministro degli esteri, René Viviani. Essa diceva:
« Le autorità [...] tedesche hanno constatato un certo numero
di atti di vera ostilità compiuti da aviatori militari francesi in
territorio tedesco. Parecchi di essi hanno manifestatamente violato
la sovranità del Belgio sorvolando il territorio di questo paese.
Uno ha tentato di colpire costruzioni presso Wesel [...] un altro ha
lanciato bombe sulle linee ferroviarie presso Karlsruhe e
Norimberga. Sono incaricato ed ho l'onore di far sapere a Vostra
Eccellenza che, di fronte a queste aggressioni99, l'Impero tedesco
si considera in stato di guerra con la Francia per colpa di questa
potenza. [...] Vogliate gradire, signor Presidente del consiglio,
l'espressione della mia altissima considerazione100. »
Viviani, ascoltata in silenzio la lettura e ritirata la
dichiarazione di guerra, protestò sostenendo che, mentre la Francia
aveva tenuto le sue truppe a dieci chilometri dal confine
(disposizione però revocata nel pomeriggio del 2 agosto), pattuglie
tedesche erano entrate in Francia ad uccidere soldati francesi.
Schoen rispose di non saperne nulla. Non avendo i due uomini altro
da dirsi, Viviani accompagnò fino all'automobile l'ambasciatore che,
fatto un saluto profondo, partì101102.
La Gran Bretagna in guerra
Il 1º agosto, a Londra, autorizzato dal suo governo, il ministro
degli esteri Edward Grey ammonì l'ambasciatore tedesco Lichnowsky
che una violazione della neutralità del Belgio avrebbe portato,
molto probabilmente, la Gran Bretagna ad intervenire nel
conflitto103. Ciononostante, il giorno dopo, il 2 agosto, il Belgio
ricevette l'ultimatum da parte della Germania la quale, per
l'attuazione del piano Schlieffen, necessitava di attraversare il
territorio belga per attaccare la Francia.
Appreso il rifiuto del Belgio a rimanere neutrale di fronte
all'avanzata tedesca, Grey alle 14 del 4 agosto inviò al suo
ambasciatore a Berlino Edward Goschen (1827-1924) un telegramma da
inoltrare alla Germania. Era un ultimatum: constatato il rifiuto
belga all'ultimatum tedesco nonché lo sconfinamento di truppe
tedesche a Gemmenich (frazione del comune di Plombières), la
Germania doveva far pervenire entro la mezzanotte (23 ora di Londra)
l'assicurazione al rispetto della neutralità del Belgio. Proseguiva
Grey rivolto al suo ambasciatore:
« Ciò non avvenendo, Voi chiederete i vostri passaporti, e
direte che il governo di Sua Maestà [britannica] si sente costretto
a prendere tutte le misure in suo potere per sostenere la neutralità
del Belgio e l'osservanza di un trattato di cui la Germania è parte
non meno di quanto lo siamo noi104. »
La Germania tuttavia non aveva scelta: il suo piano globale di
guerra era già in atto. Il 3 agosto durante una seduta del gabinetto
prussiano a Berlino, Bethmann-Hollweg anticipò ai colleghi che
l'entrata in guerra della Gran Bretagna era inevitabile. Ma la
fiducia che l'alto comando tedesco riponeva nel proprio esercito era
assoluta, tanto che lo stesso giorno, prima ancora che la Germania
invadesse il Belgio, le truppe tedesche superarono la frontiera e
occuparono tre città della Polonia russa105.
Un "pezzo di carta"
Quando verso le 19 dello stesso 4 agosto, l'ambasciatore inglese
Goschen si recò dal ministro degli esteri tedesco Jagow per
presentargli l'ultimatum, questi gli disse di non poter rispondere
se non come ad un loro precedente colloquio sullo stesso tema: «no».
Ma che a prescindere dalla risposta, le truppe tedesche erano già in
Belgio. L'ambasciatore chiese allora i passaporti e passò a prendere
congedo dal Cancelliere Bethmann-Hollweg106.
Questi gli tenne un infervorato discorso e, riferito al trattato che
assicurava la neutralità del Belgio dal 1839, gli disse che la Gran
Bretagna aveva preso una decisione terribile solo per la parola
"neutralità", solo per un "pezzo di carta" per il quale si accingeva
ad attaccare una nazione consanguinea che desiderava esserle amica.
Bethmann disse a Goschen che era come colpire alle spalle chi
lottava per la sua vita contro due aggressori e che rigettava
sull'Inghilterra la responsabilità dei terribili eventi cui si
poteva andare incontro107.
Goschen difese la validità della scelta britannica ma poi ebbe un
crollo psicologico e scoppiò in lacrime. Prima di congedarsi
completamente da Bethmann, gli chiese il permesso di trattenersi
qualche minuto nella sua anticamera per non farsi vedere in quello
stato dal personale della Cancelleria108.
La dichiarazione di guerra alla Germania - 4 agosto
Come abbiamo visto, sette ore prima della scadenza dell'ultimatum
inglese, le truppe tedesche avevano già oltrepassato la frontiera
belga109. Alle ore 23:05 dello stesso 4 agosto, trascorsi i termini
dell'ultimatum, un giovane funzionario del Foreign Office consegnò
all'ambasciatore tedesco a Londra, Lichnowsky, che era già andato a
letto, la stesura definitiva della dichiarazione di guerra della
Gran Bretagna alla Germania, a firma di Grey:
« [...] Ho l'onore di informare l'Eccellenza Vostra che, in
conformità ai termini di notificazione fatta oggi al governo
tedesco, il governo di Sua Maestà [britannica] considera che dalle
11 p.m. di oggi esiste stato di guerra fra i due paesi. Ho l'onore
di accludere i passaporti per Vostra Eccellenza, per la sua famiglia
e per il personale110. »
Diffusasi la notizia, davanti all'ambasciata britannica a
Berlino si radunò immediatamente una gran folla, che cominciò a
tirare sassi contro i vetri dell'edificio e lanciare insulti. La
mattina seguente un emissario del Kaiser, che era venuto a porgere
le scuse per gli incidenti, non seppe resistere alla tentazione di
far osservare all'ambasciatore inglese Goschen che le proteste erano
la spia «di quanto sia il risentimento che l'Inghilterra ha
suscitato tra la popolazione schierandosi contro la Germania,
dimenticando che noi abbiamo combattuto fianco a fianco a Waterloo».
Goschen e i suoi collaboratori si prepararono a lasciare Berlino111.
Sir Edward Grey, che aveva tentato di evitare che l'Austria-Ungheria
invadesse la Serbia ma, insieme al suo governo, si era rifiutato di
dare garanzie formali alla Francia, si schierò ora a favore della
guerra contro la Germania rifacendosi a considerazioni molto più
ampie che non la semplice violazione della neutralità belga.
All'ambasciatore statunitense a Londra disse:
« Il nocciolo della questione è che la Germania, se vincerà,
egemonizzerà la Francia, e l'indipendenza del Belgio, dell'Olanda,
della Danimarca, e forse della Norvegia e della Svezia, sarà ridotta
ad un'ombra. La loro esistenza come nazioni sovrane diventerà pura
finzione, tutti i loro porti saranno a disposizione della Germania,
la quale dominerà l'Europa occidentale. [...] In una situazione del
genere avremmo finito di esistere come grande potenza112. »
L'Italia durante la crisi
Dopo l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914, Austria-Ungheria e
Germania decisero di tenere all'oscuro delle loro decisioni
l'Italia. Ciò in considerazione del fatto che l'articolo 7 della
Triplice alleanza avrebbe previsto, in caso di attacco
dell'Austria-Ungheria alla Serbia, compensi per l'Italia.
Il 3 luglio, Berchtold, infatti, stabilì che si dovesse tacere al
marchese Antonino di San Giuliano, ministro degli esteri italiano,
circa le bellicose intenzioni dell'Austria-Ungheria. San Giuliano,
infatti, avrebbe immediatamente sollevato la questione dei compensi
per l'Italia113114.
Il ministro degli esteri tedesco Jagow, d'altronde, riconobbe in una
lettera al suo ambasciatore a Vienna Tschirschky, del 15 luglio, che
l'Italia aveva diritto sia a rimanere neutrale di fronte ad una
guerra austro-serba, sia ad essere ricompensata qualora
l'Austria-Ungheria avesse acquisito territori nei Balcani anche solo
temporaneamente115.
Berchtold, invece, guardava con sufficienza all'Italia, che per lui
era in una situazione militare e politica così precaria, a causa
degli strascichi della guerra di Libia, da non essere pronta per un
intervento attivo. Tuttavia, il ministro austriaco considerò
eccessivo tenere completamente all'oscuro l'alleata e il 22 luglio,
il giorno prima della consegna dell'ultimatum alla Serbia, Berchtold
fece in modo che il suo ambasciatore a Roma, Kajetan Mérey,
incontrasse San Giuliano. Quest'ultimo fu così informato che una
guerra austro-serba era imminente, ma non gli furono comunicate le
pesanti condizioni poste a Belgrado. San Giuliano rispose che
l'unica preoccupazione dell'Italia concerneva le questioni
territoriali e che nel caso l'Austria-Ungheria avesse turbato
l'equilibrio in Adriatico, avrebbe dovuto compensare l'Italia116.
Qualche giorno dopo il suo atteggiamento cambiò. Il 24 luglio,
infatti, San Giuliano prese visione dei particolari dell'ultimatum e
protestò violentemente con l'ambasciatore tedesco a Roma, Hans von
Flotow, presente anche il presidente del Consiglio Antonio Salandra,
dichiarando che se fosse scoppiata la guerra austro-serba sarebbe
derivata da un premeditato atto aggressivo di Vienna. L'Italia
pertanto secondo il ministro non aveva l'obbligo, dato il carattere
difensivo della Triplice alleanza, di aiutare l'Austria, anche nel
caso in cui la Serbia fosse stata soccorsa dalla Russia. Dopo la
sfuriata di San Giuliano, però, Flotow fece capire che, qualora
l'Italia avesse assunto un atteggiamento benevolo verso Vienna,
dalla vicenda avrebbe potuto ottenere compensi territoriali117.
In difesa della pace
Il ministro degli esteri tedesco Gottlieb von Jagow riconobbe il
diritto dell'Italia alla neutralità.
A tale riguardo il momento dovette apparire favorevole se Jagow,
intorno al 26 luglio, comunicò all'ambasciatore italiano a Berlino
Riccardo Bollati il Trentino come compenso118. San Giuliano, però,
ritenne che una promessa della Germania su compensi austriaci non
valeva molto, soprattutto persistendo l'atteggiamento di chiusura
dell'Austria-Ungheria. Egli si persuase quasi subito che l'Italia
non avrebbe potuto ricavare il tornaconto sperato e, poiché temeva
per il suo paese una guerra continentale, si adoperò per fermare la
catastrofe119.
Le manovre attuate dalla diplomazia italiana e da San Giuliano
furono molteplici e di vario tipo. Nella prima metà di luglio
l'Italia consigliò alla Serbia di sciogliere le associazioni
panserbe e di prepararsi ad accettare le condizioni di un eventuale
ultimatum dell'Austria. Il presidente del Consiglio serbo, Pašić,
rispose il 20 che non avrebbe sciolto le associazioni panserbe.
Sempre nella prima metà del mese, San Giuliano, informato dal suo
ambasciatore a San Pietroburgo che la Russia non avrebbe consentito
una sconfitta della Serbia, ne diffuse la notizia a Berlino e Vienna
dove però Berchtold rispose, intorno al 20 luglio, che non credeva
alle voci di una Russia pronta ad intervenire e che se anche lo
fosse stata, l'Austria-Ungheria era pronta a fronteggiarla120.
Negli stessi giorni l'Italia aderì alla proposta di conferenza di
pace di Grey, benché solo in via di principio, per non fare cosa
sgradita alla Germania; ancora il 27 luglio San Giuliano fece un
estremo tentativo con l'ambasciatore russo a Roma affinché
sensibilizzasse la Serbia ad accettare le richieste austriache per
poi non eseguire ciò che avrebbe accettato121.
Quello stesso 27 luglio, Jagow, nuovamente preoccupato per le sorti
della Triplice alleanza, scrisse ancora al suo ambasciatore a
Vienna, Tschirschky, che si imponeva urgentemente una discussione
fra Berchtold e l'ambasciatore italiano a Vienna, Giuseppe Avarna,
circa l'articolo 7 e i compensi per l'Italia. Stava infatti svanendo
in Germania l'illusione che la Russia non sarebbe intervenuta
nell'imminente conflitto austro-serbo122.
La dichiarazione di neutralità
Con la dichiarazione di guerra dell'Austria-Ungheria alla
Serbia del 28 luglio 1914, per l'Italia si pose il problema di
decidere o meno sulla neutralità contemplata dal trattato della
Triplice, il quale all'articolo 4 prevedeva che in caso una delle
potenze firmatarie avesse attaccato un paese terzo, le altre due
alleate avevano il diritto di rimanere neutrali.
Il 27 luglio, il ministro della Guerra Domenico Grandi fece sapere a
Salandra che l'esercito italiano era del tutto impreparato ad una
guerra su vasta scala, mentre due giorni dopo San Giuliano dava già
per scontato l'intervento della Gran Bretagna a fianco della
Francia. Gli indizi che determinarono in lui questa convinzione,
primo fra tutti i risultati del colloquio con l'ambasciatore
britannico James Rennell Rodd del 28 luglio, portarono il ministro
degli esteri alla determinazione di non far scendere l'Italia in
guerra a fianco dell'Austria e della Germania. Per San Giuliano,
infatti, la potenza navale anglo-francese avrebbe posto le città
costiere della penisola in serio pericolo e tagliato le
comunicazioni con le colonie, che così sarebbero state perdute123.
L'occasione per cominciare a diffondere all'estero la decisione
della neutralità si presentò a San Giuliano il 31 luglio 1914,
quando ne fece partecipe il Consiglio dei ministri. In questa
occasione il ministro degli esteri spiegò che la Triplice alleanza
non andava sconfessata, ma che bisognava rimanere neutrali in
considerazione sia dell'avversione del popolo per una guerra a
fianco dell'Austria, sia del quasi certo intervento della Gran
Bretagna a favore dell'alleanza franco-russa, sia delle precarie
condizioni dell'esercito124.
Solo a questo punto Berchtold, il 1º agosto, dichiarò di accettare
l'interpretazione data dall'Italia e dalla Germania all'articolo 7
del trattato della Triplice, ma ancora senza parlare chiaramente di
compensi125.
Sorpresi dalla decisione della neutralità, l'ambasciatore a Berlino
Bollati e quello a Vienna Avarna protestarono chiedendo di far
entrare in guerra l'Italia al fianco degli alleati. San Giuliano
rispose loro il 2 agosto con le argomentazioni di cui sopra, ma
anche con la considerazione che l'Italia non avrebbe avuto alcun
vero vantaggio in caso di vittoria, in quanto l'ambasciatore
austriaco Mérey aveva sempre escluso che eventuali compensi
avrebbero potuto comprendere «le province italiane dell'Austria»126.
La decisione ufficiale e definitiva della neutralità italiana fu
presa nel Consiglio dei ministri del 2 agosto 1914 e fu diramata il
3 mattina. Diceva:
« Trovandosi alcune potenze d'Europa in istato di guerra ed
essendo l'Italia in istato di pace con tutte le parti belligeranti,
il governo del Re, i cittadini e le autorità del Regno hanno
l'obbligo di osservare i doveri della neutralità secondo le leggi
vigenti e secondo i princìpi del diritto internazionale.
[...]127 »
La situazione in Europa
Il giorno della dichiarazione di guerra dell'Austria-Ungheria
alla Serbia, il 28 luglio, l'Impero ottomano offrì un accordo
segreto di alleanza alla Germania. Lo stesso giorno, il Cancelliere
Bethmann rispose con una proposta che garantiva alla Turchia i suoi
confini contro la Russia e che, durante la guerra, lasciava il
comando delle forze armate ottomane ai tedeschi. L'alleanza,
inoltre, prevedeva l'intervento turco al fianco della Germania se la
Russia fosse intervenuta nel conflitto. La Turchia indugiò ma, dopo
un'accelerata delle trattative, in vista di utilizzare l'Impero
ottomano come base destabilizzante per quello britannico, il 2
agosto fu conclusa l'alleanza e gli incrociatori tedeschi Goeben e
Breslau salparono per il Bosforo128.
L'Italia, il Portogallo, la Grecia, la Bulgaria, la Romania e la
Turchia inizialmente rimasero neutrali, ai bordi del campo di
battaglia, ma pronti a entrarvi appena avessero intravisto qualche
vantaggio. Altre nazioni d'Europa si tennero fermamente e
stabilmente fuori dal conflitto. L'Olanda, la Svizzera, la Spagna,
la Danimarca, la Norvegia e la Svezia non ebbero parte alcuna nello
scoppio del conflitto, né vi si fecero trascinare come belligeranti,
anche se per alcune di esse la guerra sarebbe diventata una fonte
lucrosa di traffici e di profitti129. Alla mezzanotte del 4 agosto
erano cinque gli imperi che ormai erano entrati in guerra
(Austria-Ungheria, Germania, Russia, Gran Bretagna e Francia)130,
ogni potenza era convinta di aver ragione degli avversari in pochi
mesi. Molti ritenevano che la guerra sarebbe finita a Natale del
1914, o tuttalpiù a Pasqua del 1915131. Il conflitto che si era
aperto con la crisi di luglio terminò invece nel novembre del 1918,
dopo aver provocato sedici milioni di morti tra militari e
civili132.
Bibliografia
In italiano:
• Luigi Albertini, Le origini
della guerra del 1914 (3 volumi - vol. I: "Le relazioni europee dal
Congresso di Berlino all'attentato di Sarajevo", vol. II: "La crisi
del luglio 1914. Dall'attentato di Sarajevo alla mobilitazione
generale dell'Austria-Ungheria.", vol. III: "L'epilogo della crisi
del luglio 1914. Le dichiarazioni di guerra e di neutralità."),
Milano, Fratelli Bocca, 1942-1943. (ISBN non esistente)
• Giampaolo Ferraioli, Politica
e diplomazia in Italia tra XIX e XX secolo. Vita di Antonino di San
Giuliano (1852-1914), Catanzaro, Rubettino, 2007. ISBN 88-498-1697-6
• Fritz Fischer, Assalto al
potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Torino, Einaudi
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• David Fromkin, L'ultima
estate dell'Europa, Milano, Garzanti [2004], 2005. ISBN
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storia della prima guerra mondiale, Milano, Mondadori [1994], 2009.
ISBN 88-04-48470-7
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Seraievo. Origini e responsabilità della guerra europea, Milano,
1929. (ISBN non esistente)
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In inglese:
• Michael Balfour: The Kaiser
and His Times, W. W. Norton & Company, UK 1986, ISBN
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• Theobald von
Bethmann-Hollweg: Reflections on the World War, Thornton Butterworth
Ltd., London, 1920 (ISBN non esistente)
• Francis Anthony Boyle:
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Relations (1898-1922), Duke University Press, USA, 1999, ISBN
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• Vladimir Dedijer: The Road to
Sarajevo, Simon and Schuster, New York, 1966 (ISBN non esistente)
Approfondimenti
Piano Schlieffen
Il Piano Schlieffen prese il nome dal suo autore, capo di
Stato Maggiore Alfred Graf von Schlieffen; era il piano strategico
dello Stato Maggiore tedesco concepito nel 1905 in previsione di una
guerra su due fronti (ad est contro la Russia e ad ovest contro la
Francia e la Gran Bretagna), guerra che la Germania temeva di dover
prima o poi affrontare in seguito all'alleanza tra Francia e Russia
ed all'accordo stipulato con la Entente Cordiale tra Francia e Gran
Bretagna.
Le premesse
Le grandi manovre dell'esercito tedesco del 1900: in primo piano
l'arciduca d'Austria Francesco Ferdinando e il Kaiser Guglielmo II,
in secondo piano all'estrema destra il capo di stato maggiore,
generale Alfred von Schlieffen.
Il piano iniziale (poi modificato nel 1911) prevedeva una
rapida mobilitazione dell'esercito tedesco, che, senza tenere conto
della neutralità di Olanda e Belgio, doveva di sorpresa dilagare
attraverso di essi con la sua potente ala destra in direzione
sud-ovest attraverso le Fiandre verso Parigi, colpendo la Francia in
un settore completamente sguarnito. Contemporaneamente l'esercito
tedesco avrebbe mantenuto un atteggiamento difensivo con il centro e
l'ala sinistra nei settori di confine tra Francia e Germania, in
Lorena, nei Vosgi e nella Mosella; ciò allo scopo di attirare
all'attacco l'esercito francese, la cui dottrina operativa prevedeva
l'offensiva contro il secolare nemico tedesco.
Dopo aver ottenuto
la rapida sconfitta della Francia (erano previsti per questo fine
soli 39 giorni di operazioni), Schlieffen prevedeva di spostare
velocemente le truppe, tramite le proprie efficienti linee
ferroviarie, sul fronte orientale, fidando sui lunghi tempi di
mobilitazione dell'arretrato esercito russo.
L'obiettivo strategico ultimo del Piano non era la capitale
francese, né la conquista territoriale, bensì l'aggiramento e
l'intrappolamento in un'immensa sacca della grande maggioranza
dell'esercito francese schierato a ridosso della frontiera
franco-tedesca; in pratica un ripetersi, sia pure su un fronte
diverso e più esteso, degli avvenimenti che avevano portato alla
sconfitta della Francia nella guerra franco-prussiana del 1870.
Le modifiche del 1911
Dopo il ritiro di Schlieffen nel 1906, divenne capo di Stato
Maggiore Helmuth von Moltke. Costui considerava troppo rischiosi
alcuni aspetti del piano del suo predecessore, anche in
considerazione del fatto che l'esercito russo avrebbe comunque
potuto mobilitare una parte delle sue truppe in tempi brevi e,
soprattutto, che l'impostazione dell'esercito francese negli ultimi
anni si era fatta sempre più offensiva con l'adozione nel 1911 del
Piano XVII; ciò avrebbe comportato la rischiosa possibilità che un
attacco francese riuscisse a dilagare in Germania in assenza di
sufficienti forze difensive tedesche sul confine.
Von Moltke decise pertanto nello stesso anno di porre alcune
modifiche al Piano. Stabilì così di sottrarre alcune divisioni
all'ala destra, quella attaccante, per utilizzarle nel rafforzamento
della difesa in Alsazia-Lorena e del presidio sul confine russo.
Tuttavia, essendosi ridotto il numero di divisioni per l'attacco,
dal piano venne eliminata l'invasione dell'Olanda, e rimase solo
l'invasione del Belgio; ciò aveva diverse conseguenze negative:
l'effetto di accorciare il braccio della tenaglia che doveva
stringere l'esercito francese da nord, il creare un "collo di
bottiglia" attraverso il Belgio, il non poter sfruttare anche le
ferrovie olandesi per le esigenze di rifornimento.
Ciononostante, all'attacco principale erano state dedicate ben
cinque delle sei armate tedesche dislocate sul fronte occidentale.
Il Piano in azione, e il suo fallimento
Alcuni dei difetti che portarono al fallimento del Piano non sono a
posteriori addebitabili al solo von Moltke, bensì erano connaturati
al piano stesso, che sottovalutava in generale gli avversari, dal
piccolo Belgio alla grande Russia. Sono stati indicati quattro
motivi principali di fallimento:
• la resistenza belga -
Sebbene l'esercito belga fosse solo un decimo di quello tedesco,
riuscì a ritardarne l'avanzata fino alla seconda metà di agosto.
Anche dopo la distruzione del loro esercito, i civili belgi
continuarono a rallentare il nemico con azioni di sabotaggio, fuoco
di cecchini, e non collaborando con l'invasore. I tedeschi
adottarono una dura politica repressiva, fucilando dieci civili per
ogni soldato tedesco ucciso da non militari.
• la presenza e l'efficienza
del Corpo di spedizione britannico - Dopo la guerra si apprese che
molti generali e politici tedeschi non credevano che la Gran
Bretagna sarebbe entrata in guerra a fianco della Francia; le truppe
britanniche furono in grado, seppure presenti sul teatro solo dalla
fine di agosto 1914, di resistere alla 1ª Armata tedesca di von
Kluck abbastanza a lungo da indurre il generale tedesco a deviare
verso sudest su Compiègne invece che puntare oltre Parigi; la 1ª
Armata tedesca scoprì il suo fianco alla 6ª Armata francese da poco
costituita a Parigi come presidio della capitale, e si rese
possibile il "Miracolo della Marna".
• la velocità di mobilitazione
russa - I russi attaccarono ad oriente prima del previsto, senza
avere del tutto ultimato la mobilitazione. Non costituirono con ciò
un grande pericolo per la Germania, tuttavia costrinsero a
distogliere altre truppe dal fronte occidentale, là dove ogni
indebolimento dell'importantissima ala destra era problematico ai
fini del Piano.
• il sistema ferroviario
francese - Grazie alla resistenza belga e agli aiuti britannici, i
francesi ebbero più tempo a disposizione per trasferire truppe verso
il fronte, in particolare in Lorena e in difesa di Parigi. I
tedeschi sottostimarono grandemente le capacità francesi di svolgere
operazioni di riposizionamento dei propri soldati in tempo utile.
Il Piano Schlieffen trovò la sua fatale conclusione alla Prima
battaglia della Marna nel settembre 1914, cui seguirono gli inizi
della guerra di trincea a scapito della guerra di movimento, e ciò
che più i tedeschi temevano: una guerra su due fronti.
Giudizi storici
Più di uno storico sostiene che il Piano fosse di sapore
ottocentesco, ormai improponibile per l'epoca, per i recenti
progressi degli armamenti e dei trasporti della "guerra
industriale"; Basil Liddell Hart lo definì «di audacia napoleonica»,
ma affermò che «Il Piano sarà nuovamente fattibile solo nella
generazione successiva, quando l'arma aerea potrà paralizzare i
difensori sulle loro posizioni, e le forze meccanizzate saranno
sufficientemente veloci e con ampia autonomia. Ma al tempo in cui fu
concepito, il Piano Schlieffen aveva pochissime probabilità di
riuscita.»
Inoltre alcuni storici, tra cui David Fromkin, hanno recentemente
argomentato che quello che è noto come Piano Schlieffen potrebbe non
essere stato un vero e proprio piano strategico, ma solo un
ipotetico memorandum steso nel 1905 e brevemente integrato nel 1906.
Schlieffen potrebbe non averlo concepito per la messa in pratica ma
come mero esercizio dottrinario. L'ipotesi di Fromkin si basa sul
fatto che, fra le carte di Schlieffen recuperate dopo la guerra, non
si trova traccia che il memorandum sia mai stato perfezionato in un
programma operativo, ad esempio con l'indicazione di quali unità
destinare ad una determinata area di offensiva. Lo studioso arriva
ad attribuire molta parte della genesi del piano a Moltke stesso,
che avrebbe visto il memorandum e lo avrebbe ritenuto un piano
operativo ed avrebbe provveduto a renderlo veramente tale.
Influenza del piano durante la seconda guerra mondiale
Durante il secondo conflitto mondiale, nel 1940, i generali dell'OKW
tedesco, dopo aver inizialmente pianificato una riedizione meno
ambiziosa del Piano Schlieffen, adottarono in seguito, grazie anche
alle proposte presentate dal generale Erich von Manstein, un piano
(Fall Gelb) che in pratica rovesciava completamente l'originaria
manovra della Prima guerra mondiale: questa volta l'attacco
principale sarebbe stato sferrato nelle Ardenne e si sarebbe diretto
verso le coste della Manica, tagliando fuori le forze alleate
penetrate in Belgio. Il piano ebbe pieno successo e le forze
tedesche penetrarono nei confini francesi aggirando le
fortificazioni lungo il confine del Reno (la famosa Linea Maginot) e
accerchiarono nelle Fiandre gran parte delle forze anglo-francesi.
Con il successivo Fall Rot arrivarono a Parigi il 14 giugno,
ottenendo così una vittoria totale contro quello che era fino ad
allora ritenuto il più potente esercito di terra del continente e
assicurandosi il controllo del paese per 4 anni.
Con la riapertura del fronte occidentale nel 1944 grazie allo sbarco
in Normandia, gli alti comandi americani decisero ugualmente, dopo
la liberazione di Parigi, di attaccare il Reich passando per le
Fiandre invece che per l'Alsazia, onde evitare le fortificazioni
della Linea Sigfrido. Tuttavia, nei primi mesi del 1945 lanciarono
un attacco anche contro queste postazioni, riuscendo a sfondare
soprattutto a causa dello sfinimento bellico patito dalla Germania
negli ultimi mesi del conflitto.
Bibliografia
• Gian Enrico Rusconi Rischio
1914 - come si decide una guerra - Il Mulino, 2004 ISBN
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Schlieffen plan, Critique of a Myth, foreword by Basil H. Liddell
Hart, London, O. Wolff, 1958
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Schlieffen's Military Writings London: Frank Cass, 2003
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• Gunther E. Rothenberg
"Moltke, Schlieffen, and the Doctrine of Strategic Envelopment." in
Makers of Modern Strategy Ed. Peter Paret. Princeton, Princeton UP,
1986
• David Fromkin Europe's Last
Summer: Who Started the Great War in 1914? New York: Vintage Books,
2004 ISBN 0-375-72575-X
• Annika Mombauer Helmuth von
Moltke and the Origins of the First World War, Cambridge: Cambridge
University Press, 2005
• Nicola Zotti I piani
militari tedeschi 1871-1891, su Warfare.it
Voci correlate
• Prima guerra mondiale
• Prima battaglia della Marna
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Collegamenti esterni
• Il piano Schlieffen su
Warfare - arte militare, storia e cultura strategica
Piano
XVII
Piano XVII era la denominazione convenzionale non ufficiale del
piano strategico di operazioni adottato dallo Stato maggiore
francese nel 1913, da attuarsi in caso di una guerra tra Francia e
Germania, che venne messo parzialmente in pratica all'inizio della
Prima guerra mondiale.
Il Piano XVII sottovalutava le possibilità operative dell'esercito
tedesco e non corrispondeva alle necessità strategiche concrete che
si presentarono nell'agosto 1914; in pochi giorni dovette essere
abbandonato e l'esercito francese, duramente sconfitto nella
battaglia delle frontiere dovette iniziare una lunga ritirata verso
Parigi e la Marna.
Evoluzione della pianificazione strategica dello stato maggiore
francese
In seguito alla sconfitta subita durante la guerra
franco-prussiana del 1870-71, la classe politica e militare francese
dovette riconoscere il profondo cambiamento prodottosi
nell'equilibrio europeo con la perdita del predominio continentale
della Francia e l'inquietante crescita della nuova potenza
predominante costituita dalla Germania imperiale. Inoltre con la
perdita dell'Alsazia-Lorena la situazione strategica francese sul
confine franco-tedesco era divenuta chiaramente sfavorevole.
Elemento centrale della politica militare dell'esercito francese
divenne dal 1891 la stretta alleanza (Duplice Intesa) con l'Impero
russo che avrebbe potuto controbilanciare la superiorità numerica
tedesca e minacciare la Germania con un possibile attacco su due
fronti da est e da ovest1.
La pianificazione operativa studiata e adottata dall'esercito
francese fino ai primi anni del Novecento rimase nonostante
l'alleanza con il potente Impero russo, sostanzialmente
difensiva; nel 1898, lo Stato Maggiore francese adottò il
cosiddetto Piano XIV che prevedeva lo schieramento sul confine
franco-tedesco di cinque armate concentrate tra Saint-Dizier e
Epinal in una formazione a diamante (bataillon carré) di tipo
napoleonico, adatta a condurre, secondo le teorie del generale Henri
Bonnal, una guerra di tipo difensivo-controffensivo2.
Nel 1903 il vice-presidente del Conseil supérieur de la guerre e
comandante in capo designato, generale Joseph Brugère fece approvare
il Piano XV sempre di carattere difensivo3. Concentrando tutta la
loro attenzione sul confine alsaziano-lorense, tatticamente
facilmente difendibile grazie alle sue munite fortificazioni, gli
strateghi francesi erano apparentemente convinti che la Germania non
avrebbe osato progettare un invasione del Belgio per entrare in
Francia attraverso le pianure del nord per timore di un
coinvolgimento nel conflitto della Gran Bretagna, che col trattato
di Londra del 1839 si era impegnata a garantire la neutralità del
piccolo Stato4. Anche il Piano XV quindi prevedeva di schierare
cinque armate tra Verdun e Epinal; una armata sarebbe stata
posizionata in avanti a Nancy mentre le altre, schierate sui due
fianchi sarebbero intervenute in modo flessibile sulla base dei
movimenti dei tedeschi5.
In realtà fin dal 1904 il Deuxième Bureau, il servizio segreto
dell'esercito, era venuto a conoscenza delle linee fondamentali del
piano di guerra adottato dallo stato maggiore nemico, grazie alle
sensazionali rivelazioni della spia tedesca Le Vengeur, un ufficiale
dell'esercito germanico di cui non si è mai riusciti a scoprire
l'identità che durante una serie di rocamboleschi incontri con
emissari francesi, presentò, dietro il pagamento di una forte somma
di denaro, un'importante documentazione che svelava la prima
versione del cosiddetto Piano Schlieffen6. In questo modo clamoroso
i generali quindi appresero che i tedeschi progettavano di violare
la neutralità del Belgio e che intendevano organizzare una
gigantesca manovra avvolgente per marciare direttamente su Parigi,
aggirando sul fianco sinistro l'intero esercito francese7.
Sembra che le rivelazioni di Le Vengeur non furono ritenute
completamente attendibili nè dal generale Jean Marie Pendezec, capo
di stato maggiore dell'esercito, nè dal generale Brugère che
tuttavia alla fine del 1905 fece studiare una variante al Piano XV
che prevedeva la costituzione di una armata da riserva da
trasportare a nord in caso di effettiva violazione tedesca della
neutralità belga8. Un ulteriore variante del Piano XV (Piano XV bis)
venne studiata nel maggio 1907 che prevedeva, oltre ad un
raggruppamento principale di tre armate in Lorena, un'armata
schierata in copertura a nord-est di Saint-Dizier con due corpi
d'armata e due divisioni di cavalleria9. Tuttavia negli anni
seguenti i documenti di Le Vengeur vennero trascurati; il generale
Jean Jules Brun, successore del generale Pendezec, non escluse un
impostura anche se le rivelazioni della spia tedesca sembravano
confermate dallo sviluppo delle costruzioni di linee ferroviarie
strategiche intorno ad Aquisgrana che avrebbero potuto essere
essenziali per concentrare le forze tedesche sul confine belga10.
Sulla base di queste valutazioni e considerando anche che le
teorie strategiche preferite storicamente dai generali tedeschi si
basavano su vaste manovre aggiranti, nel 1909 il generale Henri de
Lacroix, in quel momento comandante in capo designato dell'esercito
francese, aveva progettato e fatto approvare dal Conseil supérieur
de la guerre il cosiddetto Piano XVI. Il generale Lacroix riteneva
che i tedeschi avrebbero evitato di attaccare frontalmente il
sistema fortificato della Lorena e avrebbero invece diretto le loro
offensive principali attraverso le Ardenne per sbucare con due masse
separate a Verdun e a Sedan. Il comandante in capo stabiliva quindi
nel Piano XVI che la massa principale dell'esercito sarebbe stata
schierata tra Verdun e l'Alsazia, e che notevoli forze di riserva
sarebbero state tenute indietro, a Châlons-sur-Marne, da dove
sarebbero potuto intervenire, dopo aver riconosciuto l'effettiva
direzione dell'attacco principale tedesco, sia a Verdun che a Epinal
o a Sedan11.
Nel 1911 il successore del generale de Lacroix nell'incarico di
vice-presidente del Conseil supérieur e comandante in capo
designato, il generale Victor Constant Michel, propose un
piano di schieramento radicalmente nuovo, basato su valutazioni
strategiche corrette e fondato su modifiche strutturali
dell'organizzazione dell'esercito francese12. Il generale Michel
temeva un'offensiva tedesca attraverso il Belgio con forze imponenti
che avrebbe potuto mettere in pericolo il nord-est francese. Egli
quindi proponeva di estendere lo schieramento francese verso
ovest fino alla costa della Manica e di manovrare offensivamente
verso Anversa, Bruxelles e Namur in caso di invasione tedesca del
Belgio. Per disporre delle forze necessarie a mettere in atto un
piano così ambizioso, il generale proponeva di modificare la
struttura dell'esercito inserendo in prima linea anche le truppe di
riserva aggregando ad ogni reggimento regolare un reggimento di
riserva13. Questo piano, presentato dal generale Michel al Conseil
supérieur de la guerre nel luglio 1911 venne però nettamente
respinto; il Ministro della Guerra Adolphe Messimy lo definì "una
follia", il generale Michel venne criticato per il suo pessimismo,
la sua indecisione e la sua presunta mancanza di spirito offensivo.
Durante la riunione del Consiglio nessuno dei presenti, tra cui i
generali Joseph Gallieni, Paul Marie Pau e Auguste Dubail,
appoggiarono le proposte del generale Michel; ci fu chi definì il
generale, "pazzo". Il generale Michel venne destituito14.
Il Ministro della Guerra Messimy aveva ridicolizzato le concezioni
strategiche del generale Michel ed inoltre aveva progettato una
riorganizzazione generale dell'alto comando concentrando in una
stessa persona l'incarico di capo di stato maggiore dell'esercito e
quello di vice-presidente del Conseil e comandante in capo designato
in caso di guerra. Messimy aveva inizialmente pensato di affidare
questo nuovo comando al generale Gallieni o al generale Pau; alla
fine invece assegnò l'incarico al generale Joseph Joffre, ufficiale
di solida fedeltà alla Terza Repubblica, proveniente dal genio,
taciturno e riservato, ma tenace e risoluto che avrebbe preso con
grande determinazione le redini del comando a partire dalla sua
nomina il 28 luglio 1914 e avrebbe rapidamente modificato in modo
sostanziale la pianificazione strategica francese15.
Contenuti del piano XVII
La nuova strategia francese di cui si fece promotore il generale
Joffre si fondava sull'offensiva e derivava direttamente delle nuove
teorie belliche proposte dai giovani ufficiali della scuola di
guerra di cui uno degli esponenti principali era il generale
Ferdinand Foch. La cosiddetta strategia dell'offensiva ad oltranza
considerava fondamentale prendere l'iniziativa in guerra e sfruttare
le caratteristiche positive del soldato francese che, naturalmente
portato all'attacco e dotato di slancio (elan) e coraggio (cran)
superiore ai soldati degli eventuali nemici, avrebbe avuto la meglio
in grandi battaglie offensive in campo aperto. Il generale Foch e i
suoi seguaci esaltavano anche l'importanza della "forza di volontà"
(mistique della volontà) in guerra e della determinazione a vincere.
Secondo il generale Foch, che tuttavia prendeva in cosiderazione
anche la suretè, la sicurezza, e il discernimento tattico, solo
l'offensiva avrebbe potuto garantire la vittoria; l'esercito
francese doveva attaccare e marciare su Berlino passando per
Magonza16.
Il generale Joseph Joffre aderiva alle concezioni aggressive
del generale Foch e dei cosiddetti "giovani turchi" della scuola di
guerra ed egli quindi decise, con la stretta collaborazione del suo
sostituto, generale Édouard de Castelnau, ufficiale molto capace ed
esperto del lavoro di stato maggiore, di studiare un nuovo piano di
operazioni più audace e aggressivo17. Il nuovo comandante in capo
designato riteneva necessario riconsiderare globalmente le scelte
politico-strategiche della Francia in previsione di una guerra ed
elaborare un nuovo piano di schieramento; egli criticava le proposte
del generale Michel in primo luogo perche a suo parere distendevano
su una linea troppo estesa l'esercito e rischiavano di indebolire
pericolosamente il centro e l'ala destra. Il generale Joffre
prendeva in considerazione la possibilità di una ampia manovra
aggirante tedesca attraverso il Belgio, apparentemente confermata
dalle notizie raccolte, da valutazioni strategiche e dalle
caratteristiche della rete ferroviaria della Germania occidentale,
ma egli non escludeva la possibilità che si trattasse di una manovra
di inganno del nemico diretta a provocare il trasferimento di una
parte dell'esercito francese verso ovest con il conseguente
indebolimento delle truppe francesi schierate ad est da dove passava
la via più diretta e più breve per un invasione della Francia18.
In realtà il generale Joffre, non escludendo una manovra
tedesca attraverso il Belgio, considerava l'eventualità che le
truppe francesi entrassero a loro volta nel paese confinante e
chiese chiarimenti ai politici responsabili sulla possibilità di
superare il confine franco-belga per contrastare l'avanzata nemica.
Il governo affermò subito che ogni iniziativa francese in Belgio
sarebbe dovuta essere presa solo dopo la violazione del territorio
neutrale da parte della Germania. Il 9 gennaio e il 21 febbraio 1912
si tennero due importanti riunioni a Parigi con la presenza del
generale Joffre; il comandante in capo venne autorizzato ad entrare
in Belgio dopo l'eventuale violazione tedesca della neutralità.
L'affermazione del generale Henry Hughes Wilson, vice-capo di stato
maggiore britannico, il 27 novembre 1912, che la Gran Bretagna
considerava negativamente la violazione preventiva della neutralità
belga da parte francese, contribuirono a convincere il generale
Joffre che era necessario rinunciare "ad ogni idea di manovra a
priori attraverso il Belgio"19.
Il 18 aprile 1913 il generale Joffre propose finalmente il suo nuovo
piano che venne approvato dal Consiglio Superiore della guerra il 2
maggio. Ulteriori elaborazioni dello stato maggiore continuarono
anche nei mesi seguenti fino al 28 marzo 1914, mentre i dettagli
tecnici vennero definitivamente completati il 15 aprile 1914.
Denominato ufficialmente Plan de renseignements, il cosiddetto Piano
XVII non indicava con assoluta precisione i movimenti strategici
previsti ma si limitava a delineare le aree di schieramento delle
armate in caso di guerra contro la Germania20. Il generale Joffre
preferì non divulgare apertamente tutti i dettagli strategici dei
suoi piani reali e nè i politici nè i comandanti designati delle
armate vennero compiutamente informati sulle operazioni offensive
previste21. In particolare il generale mantenne il riserbo sulle sue
intenzioni riguardo l'eventuale entrata in Belgio22.
Il generale Joffre intendeva prendere l'iniziativa e non attendere i
movimenti dell'avversario; cinque armate sarebbero state messe in
campo mentre in un documento segreto allegato al piano XVII erano
illustrati i dettagli del previsto intervento di un corpo di
spedizione britannico sul fianco sinistro dell'esercito francese, a
ovest di Mézières. In linea generale il progetto del generale Joffre
prevedeva che la 1ª e la 2ª Armata, concentrate sull'ala destra
dello schieramento, avrebbero attaccato in Lorena verso Sarrebourg e
Saarbrücken; più a nord la 3ª Armata sarebbe passata all'offensiva
verso Metz e Thionville. All'ala sinistra il piano prevedeva il
raggruppamemto della 5ª Armata che avrebbe potuto penetrare in
Lussemburgo oppure, "alla prima notizia della violazione del
territorio belga da parte della Germania", sarebbe entrata in
Belgio23.
Questo piano di schieramento e operazioni era basato su una grave
sottovalutazione della forza e del numero delle formazioni che la
Germania sarebbe stata in grado di mettere in campo; apparentemente
il generale Joffre, pur considerando fortemente probabile una
violazione tedesca della neutralità belga, non comprese le
proporzioni gigantesche di questo movimento aggirante del nemico.
Non ritenendo possibile che lo stato maggiore tedesco avrebbe corso
il rischio di impiegare in prima linea fin dall'inizio della guerra
le sue unità di seconda linea formate da riservisti, l'alto comando
francese ipotizzava che avrebbe avuto di fronte circa venti corpi
d'armata tedeschi, di cui solo 12-15 sarebbero stati impiegati in
Belgio e Lussemburgo. In realtà nell'agosto 1914 l'alto comando
tedesco avrebbe concentrato 36 corpi d'armata sul fronte occidentale
e avrebbe effettuato la grande avanzata attraverso il Belgio con 27
corpi d'armata24.
Il generale Joffre aveva piena fiducia nei suoi piani; egli continuò
mantenere il segreto riguardo i dettagli delle operazioni anche dopo
l'inizio della guerra europea. il governo non venne informato dello
sviluppo dei combattimenti e ancora il 3 agosto 1914, durante una
riunione finale con i suoi generali comandanti di armata, si
mantenne estremamente riservato e espresse la sua convinzione che
per vincere più dei piani fossero importanti la fiducia e la
determinazione dei capi e delle truppe. Il 4 agosto 1914 il
comandante in capo trasferì il Gran Quartier Gènèral a
Vitry-le-François da dove intendeva dirigere l'esecuzione del Piano
XVII25.
Fallimento del piano XVII
Durante i primi giorni d'agosto 1914 il generale Joffre concentrò la
sua attenzione e la sua attività soprattutto nelle operazioni di
mobilitazione e concentramento dell'esercito e nell'analisi delle
informazioni disponibili per interpretare le intenzioni dei tedeschi
e comprendere il loro piano d'operazioni. Egli ritenne prematuro
fino all'8 agosto svelare i suoi piani; quel giorno il generale
Joffre, ritenendo di aver compreso, dopo le notizie giunte
sull'invasione tedesca del Belgio e i primi attacchi a Liegi, la
manovra messa in atto dal nemico, decise di diramare la
"Istruzione Generale n. 1" in cui finalmente, partendo dalle
posizioni stabilite nel Piano XVII, venivano assegnati precisi
incarichi operativi ad ogni armata26. Il piano d'operazioni
definitivo che il generale Joffre avrebbe cercato di mettere in atto
nel mese di agosto prevedeva che i francesi sferrassero due grandi
attacchi: in Lorena, la 1ª Armata del generale Auguste Dubail e la
2ª Armata del generale Édouard de Castelnau sarebbero avanzate verso
Sarrebourg, Saarbrucken, Strasburgo, riconquistando i territori
annessi nel 1870 e agganciando grandi forze tedesche; il secondo
colpo, ancora più importante, sarebbe stato portato attraverso le
Ardenne belghe a nord della linea Metz-Thionville dalla 3ª Armata
del generale Pierre Ruffey e della 4ª Armata del generale Fernand de
Langle de Cary. La riserva sarebbe stata costituita dalla 5ª Armata
del generale Charles Lanrezac che sarebbe stata raggruppata a Rethel
e Mézières in attesa di conoscere gli sviluppi della manovra tedesca
attraverso il Belgio centrale27.
Il generale Joffre era pienamente fiducioso; egli riteneva che i
suoi piani fossero corretti e che le disposizioni previste avrebbero
consentito di schierare opportunamente le sue armate ottenendo la
superiorità numerica e tattica nei punti decisivi e raggiungendo al
vittoria e la "distruzione" dell'esercito tedesco. Il comandate in
capo e il vice-capo di stato maggiore, generale Henri Berthelot, non
furono affatto impressionati dalle notizie sulla potenza dell'ala
destra tedesca in avanzata in Belgio né dai timori espressi dal
comandante della 5ª Armata, generale Lanrezac. Al contrario essi
ritennero che i tedeschi, avendo rafforzato la loro ala destra,
fossero molto più deboli al centro nelle Ardenne dove contavano di
sferrare l'attacco decisivo, spezzando in due tronconi il fronte
nemico28.
Nonostante le ottimistiche valutazioni del generale Joffre e
dei suoi principali collaboratori, il Piano XVII nella sua
applicazione concreta sul campo rivelò entro la terza settimana di
agosto le sue gravi carenze e si concluse cun un completo fallimento
nella cosiddetta battaglia delle frontiere. Le truppe tedesche
penetrate in Belgio a nord e a sud della Mosa erano molto più
numerose del previsto e la loro minacciosa avanzata costrinse il
generale Joffre a far intervenire sulla Sambre la 5ª Armata del
generale Lanrezac e il Corpo di spedizione britannico che tuttavia
non furono in grado di fermare la marcia tedesca e, sconfitti nella
battaglia di Charleroi e nella battaglia di Mons, dovettero
ripiegare verso sud. Inoltre, a differenza di quel che riteneva il
generale Joffre, le truppe tedesche schierate al centro non erano
affatto deboli e al contrario furono in grado di affrontare e
battere duramente le armate dei generali Ruffey e Langle de Cary che
in teoria avrebbero dovuto sferrare l'attacco decisivo nelle
Ardenne. Il 24 agosto sia nelle Ardenne che in Belgio le armate
francesi e il corpo di spedizione britannico erano in piena ritirata
dopo aver subito una serie di sanguinose sconfitte. Fin dal 20
agosto era fallita anche l'altra offensiva francese in Lorena; dopo
alcuni successi iniziali i generali Castelnau e Dubail erano stati
contrattaccati e sconfitti, i francesi dovettero ritirarsi
oltre il confine29.
Il 25 agosto il generale Joffre dovette riconoscere il fallimento
dei suoi piani e la necessità di organizzare una ritirata generale,
modificare lo schieramento delle armate e studiare un nuovo progetto
di operazioni per fermare l'invasione. Egli tuttavia non ammise
l'errata concezione del Piano XVII né il fallimento delle tattiche
eccessivamente offensive delle truppe francesi che erano costate
perdite rovinose di fronte alla potenza di fuoco dei tedeschi30.
Egli invece continuò a ritenere che i suoi piani erano adeguati e
che avevano permesso di schierare le armate in posizioni favorevoli;
egli accusò del fallimento soprattutto la scarsa energia di alcuni
dei generali in comando e anche l'insufficiente elan offensivo
dimostrato da una parte delle truppe che in realtà invece erano
state sconfitte in parte proprio per la loro incauta aggressività.
Il generale Joffre procedette, mentre dirigeva la ritirata, a
sostituire numerosi generali, tra cui i generali comandanti d'armata
Ruffey e Lanrezac, da lui ritenuti poco determinati e ottimisti e
diramò nuove disposizioni tattiche per migliorare la collaborazione
tra artiglieria e fanteria31.
Nonostante il fallimento del Piano XVII e la necessità di
improvvisare un nuovo progetto operativo, il generale Joffre,
dimostrando tenacia, ottimismo e determinazione, sarebbe riuscito in
settembre 1914 a fermare l'invasione e vincere la decisiva prima
battaglia della Marna, grazie anche agli errori strategici e tattici
degli alti comandi tedeschi che non sarebbero stati in grado di
concludere vittoriosamente la loro brillante offensiva secondo le
indicazioni del Piano Schlieffen.
Fronte occidentale
(1914-1918)
Data
4 agosto 1914 - 11 novembre 1918
Luogo
Belgio, Francia nordorientale e confine franco-tedesco.
Esito
Vittoria degli Stati dell'Intesa, collasso dell'Impero tedesco e
proclamazione della Repubblica di Weimar in Germania. Spartizione
dei territori dell'Impero in base alla conferenza di pace di Parigi
Modifiche territoriali
Cambiamenti nel confine franco-tedesco e riannessione dell'Alsazia e
Lorena alla Francia.
Il fronte occidentale fu il teatro, nel 1914, dell'inizio delle
operazioni della prima guerra mondiale, quando l'esercito tedesco
invase dapprima il Lussemburgo ed il Belgio, occupando poco dopo
importanti zone minerarie ed industriali della Francia
nordorientale. L'invasione tedesca, inizialmente rapida ed
apparentemente inarrestabile, venne fermata con la prima battaglia
della Marna; le due parti in conflitto si attestarono allora lungo
un'irregolare linea fortificata che si stendeva senza interruzioni
dalle spiagge del mare del Nord sino alla frontiera svizzera, linea
che rimase essenzialmente invariata per la maggior parte della lunga
guerra di posizione che ne derivò.
Fra il 1915 e il 1918 su questo fronte ebbe luogo una serie di
importanti offensive e controffensive, intendendo ambedue le parti
rompere lo stallo e sfondare le linee nemiche, ricominciando così la
guerra di movimento. Tuttavia, la preponderanza dei mezzi di difesa
quali trinceramenti, nidi di mitragliatrici e filo spinato, rispetto
alle obsolete tattiche offensive, causò invariabilmente gravi
perdite alla parte attaccante. In quest'ottica, il fronte
occidentale vide nel corso del conflitto l'introduzione di nuove
tecnologie militari, tra cui le armi chimiche ed i carri armati, ma
fu solo con l'adozione di tattiche di combattimento più moderne che
verso la fine del conflitto si instaurò un certo grado di mobilità.
Nonostante la sua natura statica, questo teatro di guerra si
dimostrò decisivo per l'andamento generale del conflitto, dato
l'enorme logorio di uomini e mezzi a cui furono costrette le due
parti in lotta. L'avanzata finale delle armate alleate nel 1918,
dopo un estremo tentativo tedesco di sfondamento, persuase il
governo di Guglielmo II di Germania dell'ineluttabile sconfitta, e
lo costrinse all'armistizio.
Premesse
I motivi dell'attacco tedesco hanno radici profonde, da ricercare
nella riorganizzazione politica e militare di Francia e Germania, a
seguito della guerra franco-prussiana del 1870, e della Gran
Bretagna.
La situazione in Francia
La Francia uscì pesantemente sconfitta dalla guerra contro la
Prussia. Nonostante nel luglio del 1870, durante la prima fase della
guerra, le forze di Napoleone III avessero subito alcune sconfitte
apparentemente non decisive, da quel momento in poi l'esercito
francese iniziò a ritirarsi e non riuscì più a riprendersi: errori
strategici, disorganizzazione e demoralizzazione portarono i
francesi ad asserragliarsi prima a Metz, dove metà dell'esercito
comandato dal generale François Bazaine venne circondato, e dove si
arrese dopo due mesi di inerzia, e poi a Sedan, in cui l'altra metà
dell'esercito, comandato da Patrice de Mac-Mahon, venne intrappolata
e costretta alla resa definitiva. Fu una vera e propria catastrofe
per l'esercito francese. Quattro mesi dopo il re di Prussia si
proclamò Kaiser nella Galleria degli Specchi della Reggia di
Versailles, nel palazzo su cui si fregiava la scritta Á toutes les
Gloires de la France davanti ad un dipinto raffigurante i francesi
in atto di umiliare i tedeschi9.
La Francia si ritrovò con un esercito in sfacelo ed una nazione
demoralizzata e finanziariamente in serie difficoltà, mentre il
Paese era dilaniato da una sanguinosa guerra civile. L'Alsazia e la
Lorena, centri industriali nevralgici per l'Europa e per la Francia,
vennero ceduti al Reich tedesco, che impose il pagamento di 200
milioni di sterline per danni di guerra. Nel settembre 1873 gli
ultimi soldati prussiani lasciavano il suolo della Francia, ma
l'orgoglio nazionale francese e una nuova ventata di fiducia
nell'esercito davano slancio ad una nazione ansiosa di rivincita
verso il secolare nemico tedesco: fu il cosiddetto "sentimento di
revanscismo", destinato ad orientare in senso aggressivo la politica
francese dell'ultimo scorcio di secolo10.
Calca di persone pronte alla mobilitazione generale all'esterno
della stazione parigina di Gare de l'Est, 2 agosto 1914.
I nuovi confini interponevano tra la Germania e Parigi appena
300 km, senza più alcuna vera barriera naturale come - in
precedenza - il Reno e i Vosgi; perciò la Francia, dopo essersi
ripresa economicamente e militarmente, iniziò la costruzione lungo
la propria frontiera orientale di un forte sistema difensivo. Per
non ricadere nella trappola di Metz, invece di fortificare le città
si decise la costruzione di due linee continue di forti: venne
realizzato così il sistema Séré de Rivières, ideato dall'omonimo
generale Raymond Séré de Rivières, che consisteva in una lunga linea
fortificata che aveva il "nodo principale" nelle fortezze attorno a
Verdun.
Quindici anni dopo Sedan, l'esercito francese aveva riguadagnato la
propria potenza difensiva e offensiva, e nel giro di pochi anni la
perdita dell'Alsazia e della Lorena venne in parte dimenticata in
virtù delle numerose conquiste coloniali. La Francia visse a cavallo
tra il XIX e il XX secolo un periodo di prosperità economica e di
fervore culturale che fece affievolire i bellicosi sentimenti
revanscisti11. Ma con l'Affaire Dreyfus, che per un decennio
polarizzò le passioni dell'intero Paese, sui vertici dell'esercito
cadde la disistima dell'intera nazione. All'interno dell'esercito si
crearono pregiudizi anticlericali per via della posizione
antidreyfusarda degli ambienti conservatori e cattolici, e i
militari dichiaratamente cattolici si trovarono in svantaggio nella
carriera12. All'Affaire Dreyfus seguirono quindi provvedimenti
politici indirizzati ad una netta suddivisione tra Stato e Chiesa,
cui seguì la più intensa campagna antimilitarista che la Francia
avesse conosciuto dal 1870; la fiducia della nazione nell'esercito
toccò il suo punto più basso13.
Dopo la crisi di Agadir del 1911, in Francia e Germania ripresero
forza le correnti nazionalistiche e aggressive: nel 1913 venne
ripristinata la ferma di tre anni abolita dopo il caso Dreyfus, e un
convinto revanscista originario della Lorena, già Primo Ministro e
ministro degli esteri, Raymond Poincaré, fu eletto presidente della
Repubblica francese.
Nel Paese crebbe il desiderio di rivincita, e nell'esercito il
morale non fu mai così alto, la guerra era ormai alle porte e tutto
il popolo francese sembrava apprestarvisi1415. L'esercito ritrovò
vigore e sostegno nella nazione, il sistema Séré de Rivières venne
completato, ma con l'ardore nazionalistico si rovesciarono anche le
concezioni strategiche che avevano portato alla costruzione di un
apparato difensivo16: il timore di essere costretti, in caso di
conflitto ad una nuova disastrosa ritirata, la tradizionale
estraneità dell'esercito francese fin dal periodo rivoluzionario e
napoleonico alle tattiche difensive, e la ritrovata autostima,
fecero crescere nelle file degli ufficiali francesi l'aggressiva
teoria dell'"offensiva ad oltranza", ben illustrata dall'allora
tenente colonnello Louis de Grandmaison, sostenitore del fermo
principio secondo cui:
« se il nemico osava prendere l'iniziativa anche per un solo
istante, ogni pollice di terreno doveva essere difeso fino alla
morte e, se perduto, riconquistato con un contrattacco immediato
anche se inopportuno17. »
Così vennero fissate le tattiche militari francesi impiegate
ostinatamente durante tutta la Grande Guerra, tattiche che costarono
alla Francia un prezzo enorme di vite umane. Nonostante i continui
fallimenti del biennio 1914-1915, i comandanti francesi, da Foch a
Joffre, fecero affidamento su questa teoria, ritenendo inizialmente
superflue anche armi di cui l'esercito tedesco dell'epoca faceva già
ampio uso, come il supporto dell'artiglieria pesante alla fanteria,
e l'uso manovrato delle mitragliatrici. Viceversa, in nome della
"volontà di conquista" teorizzata da de Grandmaison, la Francia
tentava di assicurarsi la vittoria coll'impiego di truppe motivate
lanciate in impetuosi attacchi alla baionetta, "svolti col massimo
ardore possibile"18.
Tale filosofia, basata sull'aggressione incurante della difesa, e
soprattutto incurante delle intenzioni del nemico, fu instillata
negli ufficiali e nei soldati in modo massiccio, tanto che allo
scoppio della guerra l'esercito francese possedeva solo un numero
limitato di armi campali di grosso calibro, in quanto ritenute
adatte solo ad operazioni di difesa e quindi inutili nelle teorie di
de Grandmaison19.
La situazione in Germania
«Una generazione che ha preso una bastonatura è sempre seguita da
una che la dà20 »
(Otto von Bismarck)
La Germania continuava a guardare con una certa preoccupazione
alle iniziative e ai movimenti militari dei francesi, il cui
desiderio di rivincita non fu mai definitivamente sopito, e lo
stesso cancelliere tedesco Bismarck più di una volta pensò ad una
guerra preventiva. Nel frattempo anche la Germania viveva un periodo
di splendore economico e sociale: un incremento demografico
superiore a quello francese e l'annessione di due importanti regioni
industriali come l'Alsazia e la Lorena, l'avevano resa in pochi anni
una potenza industriale in grande espansione21.
Alla fine del secolo due nuovi fattori imposero una completa
revisione della strategia militare dello Stato maggiore generale
tedesco: la costruzione del sistema di fortificazioni "Séré de
Rivières", in grado di ostacolare un attacco portato lungo le
tradizionali direttrici d'invasione, e il costituirsi di un'alleanza
tra Francia e Russia (1891-1894), che avrebbe costretto la Germania
ad una guerra su due fronti. Questi fattori aguzzarono l'ingegno di
una delle più grandi menti militari tedesche, il capo di Stato
maggiore Alfred von Schlieffen, il quale, con l'omonimo piano,
progettò di sconfiggere la Francia con una "guerra lampo", da
scatenare e concludere mentre nel vasto ed arretrato Impero russo
erano ancora in corso le operazioni di mobilitazione22.
Nonostante l'esercito tedesco del 1914 fosse notevolmente cresciuto
in mezzi ed effettivi rispetto al 187023, non aveva granché
modernizzato la propria organizzazione interna, specie riguardo alla
selezione degli ufficiali: se in Francia erano la politica e la
religione a determinare le promozioni, il sistema classista vigente
in Germania poteva ostacolare le carriere di validi ufficiali di
origine borghese come Erich Ludendorff, a favore di personalità meno
brillanti come von Moltke il giovane. All'inizio del 1879 Bismarck
decise di stipulare un'alleanza difensiva e conservatrice con
l'Impero austro-ungarico. Ma l'attività diplomatica di Bismarck non
si limitò a questo; cercò innanzitutto un riavvicinamento politico
con la Francia in modo tale da emarginare la Gran Bretagna: la
relativa libertà di azione così acquisita permise in pochissimi anni
alla Germania di formare un proprio consistente impero coloniale in
Africa24.
Nel 1890, però, Guglielmo II di Germania strappò le redini del
governo a Bismarck, redasse un proprio programma di riforme sociali
e cominciò a ingerirsi negli affari del Marocco, pur con idee poco
chiare. Dopo la crisi di Agadir la Germania accelerò le operazioni
di riarmo, già intraprese dal cancelliere Bismarck a fine Ottocento,
riarmo che permise all'esercito tedesco di presentarsi nel 1914 con
una dotazione materiale decisamente migliore rispetto al nemico
francese, ma guidato da generali non sempre in grado di comandare
oltre un milione e mezzo di uomini25.
La situazione in Gran Bretagna
Il primo decennio del Novecento vide il proliferare di antagonismi e
risentimenti fra nazioni, e in Gran Bretagna scrittori e
giornalisti, ammiragli e deputati, manifestavano il timore che la
Germania acquisisse la superiorità sui mari, un timore che crebbe
alla notizia dell'imminente ampliamento del canale di Kiel,
attraverso il quale le navi tedesche avrebbero potuto spostarsi in
modo più rapido e sicuro nel mar Baltico e nel mare del Nord. La
stampa popolare alimentò l'ostilità verso la Germania con ripetuti
appelli al governo perché introducesse la leva obbligatoria, onde
scongiurare il pericolo che il Paese, in caso di guerra, potesse
contare solo su un piccolo esercito di professionisti26.
Nel 1904 Francia e Gran Bretagna stipularono la Entente Cordiale
(Cordiale Intesa) per comporre le dispute su Egitto e Marocco, e dal
1906 diedero vita a consultazioni bilaterali su questioni militari.
Questo sistema di accordi era sfociato nella cosiddetta "Triplice
Intesa", che comprendeva anche la Russia alleata con la Francia fin
dal 1892, e che fece nascere negli Imperi centrali la paura
dell'accerchiamento2728.
Nel 1907 la Gran Bretagna firmò un accordo
con la Russia che proponeva di dirimere tra i due Paesi le antiche
dispute per i territori della Persia e dell'Afghanistan; il trattato
parve alla Germania come un'ulteriore prova di un disegno di
accerchiamento. Nel 1911 Gran Bretagna e Francia si mossero di
concerto per impedire alla Germania di insediarsi nel porto di
Agadir, con i britannici che minacciarono di aprire le ostilità se
le navi tedesche non avessero preso il largo; la mossa funzionò ma
il rancore che sedimentò nell'animo dei tedeschi fu enorme29.
Tuttavia tra Gran Bretagna e Germania il vero grande motivo di
frizione era il desiderio del Kaiser di rivaleggiare con gli inglesi
sul piano della potenza navale: i tedeschi aumentarono il numero di
marinai e di navi tanto che l'allora ministro della Marina
britannico Winston Churchill propose che i due Paesi si accordassero
per una tregua nel riarmo navale, offerta prontamente rifiutata dal
Kaiser; conseguenza immediata fu il rafforzarsi della flotta russa
nel Baltico, che poteva contare su stanziamenti britannici30.
Nonostante il gelo anglo-tedesco, la guerra sembrava ancora lontana,
tanto che il 13 agosto 1913 Gran Bretagna e Germania si accordarono
segretamente sulla creazione di sfere di influenza nei possedimenti
portoghesi in Africa e sullo sfruttamento della ferrovia di Baghdad
in modo da condividerne i vantaggi31.
Ma nell'estate del 1914 la situazione diplomatica precipitò
inaspettatamente. Nel giugno 1914, durante la "settimana velica di
Kiel", una kermesse per festeggiare l'apertura del canale a cui
partecipò una squadra di navi da guerra britanniche, il Kaiser, che
a bordo del suo yacht Meteora V indossava per l'occasione l'uniforme
da ammiraglio della flotta inglese, fu informato dell'assassinio
dell'arciduca Francesco Ferdinando e abbandonò in tutta fretta i
festeggiamenti per tornare a Potsdam. Poco più di un mese e mezzo
dopo i tedeschi invasero il neutrale Belgio, atto che spinse la Gran
Bretagna ad entrare in guerra, e in poco tempo due Paesi legati da
parentele dinastiche e da diversi trattati economici impegnarono la
quasi totalità delle proprie energie con l'obiettivo di distruggersi
a vicenda32.
Si aprono le ostilità
Dopo la rottura delle relazioni diplomatiche fra Austria-Ungheria e
Regno di Serbia, il governo tedesco, in conseguenza alla
mobilitazione generale russa, il 31 luglio dichiarò guerra alla
Russia e alla Francia, e mobilitò le proprie truppe in oriente ed
occidente. Se la Francia avesse riunito tutto il suo potenziale
bellico e dichiarato guerra proprio mentre le armate tedesche
avanzavano ad oriente, la Germania avrebbe corso il rischio di
trovarsi in serie difficoltà. In ottemperanza al piano Schlieffen,
la strategia tedesca mirava a sconfiggere con una "guerra lampo" la
Francia e, confidando nella lenta e pesante macchina bellica russa,
rivolgere poi tutte le proprie forze ad oriente33.
Il piano, ideato dal generale Alfred von Schlieffen e completato nel
1905, prevedeva che la Francia fosse attaccata da nord attraverso il
Belgio e i Paesi Bassi, così da evitare la lunga linea fortificata
alla frontiera francese e consentire all'esercito tedesco di calare
su Parigi con un'unica grande offensiva. Schlieffen anche dopo
essersi ritirato dall'esercito continuò a lavorare al piano, che
aveva sottoposto ad un'ultima revisione nel dicembre 1912, poco
prima di morire. Il generale von Moltke, suo successore come capo di
Stato maggiore dell'esercito, poco prima dello scoppio del conflitto
accorciò il tratto di fronte su cui effettuare l'offensiva
escludendone i Paesi Bassi. Secondo il piano, Parigi sarebbe stata
occupata, e la Francia soggiogata, nel giro di sei settimane; la
Germania avrebbe potuto allora rivolgere tutte le proprie forze
contro la Russia34.
La Gran Bretagna non era vincolata alla Francia da nessun trattato
di alleanza ma solo dall'Entente cordiale35; con il Belgio invece
esisteva, ratificato nel 1839 da varie potenze europee, il trattato
dei XXIV articoli che ne garantiva la neutralità e la protezione in
caso di attacco36, e in virtù di questo il 31 luglio 1914 il governo
di Londra chiese a Francia e Germania di rispettare la neutralità
del piccolo Stato. La Francia si impegnò a farlo, la Germania
tacque37.
Il 2 agosto, per la prima volta dal 1871, alcune pattuglie tedesche
attraversarono la frontiera francese dando luogo a sporadici
scontri. A Joncherey, vicino al confine svizzero-tedesco, venne
ucciso il caporale Andrè Peugeot: la prima vittima di una guerra che
sarebbe costata alla Francia oltre un milione di morti. Seguendo i
piani, alle 19 del 2 agosto la Germania inviò un ultimatum al
Belgio, concedendo dodici ore di tempo per acconsentire al passaggio
delle truppe tedesche; i belgi rifiutarono. Il giorno seguente la
Germania dichiarò guerra alla Francia, e in ottemperanza al piano
Schlieffen le truppe tedesche si apprestarono a varcare il confine
belga38.
La Gran Bretagna, in base al trattato del 1839, inviò un ultimatum
alla Germania, destinato a scadere alle 23 del 4 agosto. La Germania
non aveva scelta: il piano globale di guerra su due fronti era già
in atto, e sette ore prima della scadenza dell'ultimatum britannico
le truppe tedesche oltrepassarono la frontiera belga; di conseguenza
alle 23 la Gran Bretagna dichiarò guerra alla Germania39.
L'invasione del Belgio e della Francia
La mattina del 4 agosto alcuni milioni di soldati, che
costituivano le avanguardie dei rispettivi eserciti, si radunarono
nelle caserme oppure si misero in marcia. A est le truppe russe
inviate al confine con la Prussia Orientale avanzarono in direzione
di Berlino; alla frontiera con l'Alsazia-Lorena le truppe francesi,
seguendo il piano XVII40, sconfinarono in Germania convinte di
riscattare le umiliazioni del passato; il Lussemburgo fu occupato
senza opposizione il 2 agosto, e più a nord, alla frontiera con il
Belgio, i tedeschi avanzavano a gran velocità dando corpo
all'invasione. La Gran Bretagna non aveva truppe sul continente
europeo, e il suo corpo di spedizione al comando di Sir John French,
doveva ancora essere radunato, armato e inviato al fronte al di là
della Manica41.
Quel giorno le forze tedesche iniziarono la battaglia di Liegi
andando all'assalto del primo vero ostacolo sul loro cammino: il
campo fortificato di Liegi con la sua guarnigione di 35.000 soldati.
L'attacco durò più del previsto e solo il 7 agosto la fortezza
centrale capitolò, ma non così gli altri dodici forti: alcuni
resistettero per molti giorni prima che i tedeschi potessero
proseguire l'avanzata secondo i piani42.
Il 12 agosto l'Austria-Ungheria invase la Serbia, mentre sul
fronte occidentale continuavano furiosi i combattimenti sul confine
franco-tedesco e soprattutto in Belgio. Dopo la caduta di Liegi la
maggioranza dell'esercito belga si mise in ritirata verso ovest,
mentre il 25 più a nord i tedeschi bombardarono Anversa con uno
Zeppelin, durante le fasi preliminari dell'assedio della città che
durò fino al 28 settembre e comportò enormi devastazioni43.
L'esercito tedesco oltrepassò Anversa, ma la piazzaforte rimase una
spina nel fianco fino alla fine di settembre. Più a sud intanto,
dopo Liegi, dal 17 al 23 agosto seguì un altro assedio diretto alla
fortezza di Namur, seconda in grandezza solo a Liegi, che cadde in
mano tedesca il 24 agosto44. Lo stesso 12 agosto le avanguardie del
corpo di spedizione britannico attraversarono la Manica scortate da
19 navi da guerra. In dieci giorni furono sbarcati 120.000 uomini
senza che una sola vita o una sola nave andassero perdute, non
avendo la Kaiserliche Marine mai ostacolato le operazioni45.
Il 20 agosto, mentre i forti di Namur subivano l'assedio, le truppe
tedesche entrarono a Bruxelles. All'estremità meridionale del fronte
i francesi, penetrati in Alsazia e vicini alla città di Mulhouse,
giunsero a sedici chilometri dal Reno, ma non sarebbero mai andati
oltre. Più a nord i francesi penetrati in Lorena furono sconfitti a
Morhange e iniziarono a ritirarsi verso Nancy. La città, nonostante
la pressione tedesca, resse l'urto grazie ai sacrifici della 2ª
armata francese guidata da Édouard de Castelnau46.
All'alba del 22 agosto su un'ampia fascia centrale del territorio
belga, due armate tedesche, una al comando di Alexander von Kluck e
l'altra al comando di Karl von Bülow, erano stabilmente schierate, e
a metà del percorso che le divideva dai porti di Ostenda e
Dunkerque. A questa avanzata si opponevano tre eserciti: i belgi
attestati a Namur, i francesi a Charleroi, e i britannici a Mons
(questi ultimi arrivati nello stesso momento in cui la 1ª armata di
von Kluck puntava a sud verso la frontiera francese).
Lo stesso giorno iniziò l'avanzata tedesca lungo tutto il
fronte; la 5ª armata francese fu cacciata da Charleroi, e cominciò
furiosa la battaglia di Mons, battesimo del fuoco per il corpo di
spedizione britannico, che resistette con inaspettata tenacia47. I
tedeschi riuscirono comunque a rompere la resistenza delle forze di
French e il 23 iniziarono ad avanzare; quello stesso giorno sia i
francesi da Charleroi che i belgi da Namur cedettero alla pressione
nemica e iniziarono a ripiegare. L'avanzata tedesca era
irresistibile; il 30 agosto le forze anglo-francesi erano state
respinte oltre l'Aisne e continuavano a ritirarsi verso la Marna. Il
2 settembre il governo francese si rifugiò a Bordeaux e le truppe
anglo-francesi, avendo appreso che i tedeschi non avrebbero
attaccato Parigi puntando verso sud, ma si sarebbero diretti verso
sud-ovest contro i britannici48, si attestarono sulla Marna,
facendone saltare tutti i ponti49.
Il "miracolo della Marna"
Il 3 settembre l'esercito tedesco giunse a 40 chilometri da
Parigi50, ma inseguendo gli anglo-francesi in ritirata, gli invasori
persero l'occasione di espugnare la capitale, e si lasciarono
trascinare a est di Parigi e a sud della Marna dove gli Alleati si
preparavano ad ingaggiare battaglia. La battaglia della Marna iniziò
il 5 settembre e i tedeschi ormai esausti e indeboliti furono
sopraffatti dai contrattacchi anglo-francesi e il 13 respinti oltre
l'Aisne, ritirandosi di quasi 100 chilometri dall'inizio della
battaglia51.
Le ferrovie che servivano i territori conquistati non erano
all'altezza del compito di trasportare le ingenti quantità di
rifornimenti indispensabili all'avanzata delle armate tedesche; né
potevano sollevare il soldato dalla fatica di marciare 50 o
60 km al giorno. I rifornimenti che raggiungevano i posti di
smistamento ferroviario tendevano a rimanervi bloccati, e nonostante
l'apertura di nuove strade i veicoli a disposizione non riuscivano a
soddisfare le esigenze di cinque armate. Dal punto di vista
operativo, ogni giorno che passava portava il fronte sempre più
vicino a Parigi: quest'area ospitava invece una fitta rete di
ferrovie che dava ai francesi la possibilità di muovere le proprie
truppe molto rapidamente. Durante la battaglia, la comparsa di
truppe anglo-francesi in punti imprevisti costrinse lo stato
maggiore tedesco ad autorizzare una ritirata generale52. La
battaglia della Marna, durata quattro giorni, decretò la fine del
piano Schlieffen e cancellò per sempre la possibilità di una rapida
vittoria tedesca sul fronte occidentale. I contendenti cercarono
allora di riprendere la guerra di manovra, ma uno spostamento del
fronte verso sud era sconsigliato (la neutralità della Svizzera lo
impediva): l'unico spazio disponibile era quindi a nord53.
Durante le fasi finali della "corsa al mare" gli Alleati ricorsero
ad allagamenti di ampi territori per impedire l'avanzata delle
truppe tedesche. In questa foto, territori allagati nei pressi di
Ramskappelle.
La "corsa al mare"
In seguito all'arretramento tedesco le forze contrapposte tentarono
di aggirarsi reciprocamente sul fianco nella cosiddetta corsa al
mare, e in breve estesero il proprio sistema trincerato dal canale
della Manica alla frontiera con la Svizzera54. La corsa al mare
costituì la seconda fase decisiva della guerra ad occidente, in
quanto dopo la caduta definitiva di Anversa, i tedeschi puntarono
decisi verso le coste e i relativi porti del Belgio e della Francia.
I britannici mandarono rinforzi della Royal Naval Division a Ostenda
mentre il 3 ottobre i tedeschi, proseguendo la loro avanzata verso
il mare del Nord, occuparono Ypres e l'11 iniziarono l'assedio di
Lilla55.
Nella corsa al mare furono però gli anglo-francesi ad avvicinarsi
per primi alla meta; il 14 i britannici occuparono Bailleul
cacciando i tedeschi, il 15 questi occuparono il porto di Ostenda e
il 18 i britannici riconquistarono Armentiéres e Ypres costringendo
i tedeschi ad arretrare fino a Menin56. Da quel momento i due
eserciti fecero continui tentativi di aggiramento che portarono il
fronte fino a Nieuwpoort, sul mare del Nord. Dopo due cruente
battaglie, a Ypres e a Nieuwpoort, con cui i tedeschi tentarono
senza successo di aprirsi la strada verso il mare, la guerra di
manovra finì definitivamente e iniziò quella guerra di trincea che
avrebbe caratterizzato tutto il conflitto fino alla sua conclusione
nel 191857.
Inizia la guerra di trincea
I due schieramenti iniziarono a rafforzare e fortificare le
proprie posizioni scavando trincee, camminamenti, rifugi e
casematte. Dal mare del Nord alle Alpi, fra uno schieramento e
l'altro, si estendeva la terra di nessuno, martoriata dalle granate
e continuamente contesa58. I soldati combattevano in trincee
distanti tra loro dai 200 ai 1000 m in un terreno martoriato
dalle esplosioni, costellato di cadaveri insepolti e reso un pantano
dalle piogge, dalla neve e dal continuo lavorio delle granate. I
combattimenti continuarono anche dopo la conclusione della battaglia
di Ypres senza che nessuno dei due contendenti si avvantaggiasse, e
con l'inverno la situazione peggiorò; le trincee si riempirono, a
causa delle piogge torrenziali, di acqua gelida, e la vita dei
combattenti divenne - se possibile - ancora più infernale, in un
susseguirsi di incursioni e piccoli attacchi lungo tutto il
fronte59.
Solo in occasione del primo Natale di guerra sui campi di battaglia
si intravvide un ricordo della vita "normale", e alla vigilia, dopo
cinque mesi di aspri combattimenti, le armi tacquero lungo tutto il
fronte, quando i combattenti dei due schieramenti concordarono -
senza l'assenso degli alti comandi - una tregua di tre giorni in cui
seppellire i morti e festeggiare insieme il Natale: fu la cosiddetta
"tregua di Natale", uno spiraglio di umanità che non si poté più
ripetere durante tutta la guerra60.
La situazione di stallo a occidente non impediva né le incursioni
aeree britanniche nella terra di nessuno né i continui scambi di
colpi delle artiglierie. Il 10 marzo, come parte di un'offensiva
maggiore nella regione dell'Artois, l'esercito britannico attaccò a
Neuve Chapelle nel tentativo di prendere il crinale di Aubers.
L'assalto fu condotto da quattro divisioni lungo un fronte di tre
chilometri, preceduto da un bombardamento concentrato durato 35
minuti. Inizialmente i progressi furono rapidi, e il villaggio fu
catturato in quattro ore, tuttavia l'attacco rallentò per problemi
logistici e di comunicazione, mentre i tedeschi riuscirono ad
inviare delle riserve e contrattaccarono vanificando il tentativo.
Poiché i britannici avevano utilizzato un terzo delle proprie scorte
totali di proiettili d'artiglieria, sir John French attribuì il
fallimento alla mancanza di munizioni6162.
La guerra dei gas
Mitraglieri britannici fanno fuoco con una mitragliatrice Vickers
muniti di maschera antigas. Somme, luglio 1916.
Nella terza settimana dell'aprile 1915 cominciò una nuova fase, che,
secondo i tedeschi, avrebbe dovuto farli uscire dallo stallo e
condurli alla vittoria: il 22 aprile per la prima volta dall'inizio
della guerra impiegarono su vasta scala le armi chimiche, nel
secondo attacco al saliente di Ypres, sperando in tal modo di
riprendere quella guerra manovrata che erano stati addestrati a
combattere63.
I tedeschi aprirono dalle 4000 alle 5700 bombole, contenenti in
tutto 168 tonnellate di cloro, contro le truppe coloniali francesi
stanziate sulla cima Pilckem6465. La nube giallo-verde asfissiò i
difensori della prima linea, e nelle retrovie causò il panico
provocando una breccia nella linea Alleata. Tuttavia i tedeschi non
erano preparati ad un tale successo, e non avevano approntato
riserve sufficienti per approfittarne. Questo primo attacco fu di
natura sperimentale, non tattica; giacché inizialmente i tedeschi
non avevano preso nemmeno in considerazione di entrare a Ypres,
ebbero grosse difficoltà a coordinare l'avanzata delle truppe e il
lancio dei gas: se il vento non era a favore, avanzare era rischioso
per la possibilità che i soldati si trovassero nella stessa nube
destinata al nemico66. Dopo che con lanci di gas avevano fatto
arretrare i britannici fino alle porte di Ypres, il 1º maggio i
tedeschi erano sicuri di poter vincere ad occidente. Nonostante i
ripetuti bombardamenti e attacchi, i tedeschi non riuscirono però a
superare lo stallo e il 25 le operazioni cessarono67.
Dopo questo attacco anche gli Alleati cominciarono a sviluppare la
nuova arma senza tuttavia riuscire ad eguagliare i nemici nello
sviluppo degli aggressivi né nelle tecniche d'impiego, che,
inizialmente piuttosto approssimative, vennero nel corso del tempo
perfezionate con l'introduzione delle granate caricate a gas, che
consentivano di colpire con maggiore precisione una determinata zona
di fronte. Per tutto il conflitto i tedeschi riuscirono comunque a
mantenere una netta superiorità tattica nell'uso di tale arma. Lo
schema di bombardamento chimico tedesco nel 1917 vedeva l'impiego
iniziale di agenti starnutatori o irritanti, che rendevano difficile
ai difensori indossare e mantenere la maschera antigas; seguiva poi
una salva di granate al fosgene, con effetti asfissianti e
inabilitatori, quindi veniva sparato un terzo tipo di granate
cariche di gas mostarda, raramente letale, ma che grazie alla sua
persistenza sul terreno rendeva difficile ai difensori il
contrattacco e anche la sola permanenza nelle proprie trincee. Oltre
a ciò si alternavano proiettili convenzionali con proiettili a gas,
per ingannare i difensori circa la natura dell'attacco, e si poteva
scegliere il mix di gas in relazione all'impiego, difensivo od
offensivo che fosse68.
Al termine del conflitto si stimò che il gas tossico avesse mietuto
in totale 78.198 vittime fra gli Alleati mettendone fuori
combattimento per un periodo più o meno lungo almeno 908.645, mentre
gli Alleati, nonostante avessero impiegato nel corso della guerra la
stessa quantità di gas dei tedeschi69, inflissero ai tedeschi 12.000
perdite e 288.000 intossicati, a dimostrazione della maggiore
efficacia nelle tattiche d'impiego tedesche nei confronti dei
nemici70.
Le prime offensive alleate
Il 9 maggio sul fronte occidentale le truppe francesi
attaccarono le posizioni tedesche sul crinale di Vimy; fu il primo
tentativo congiunto anglo-francese di fare breccia nelle
fortificatissime trincee nemiche. Dopo un bombardamento di cinque
ore i francesi uscirono dalle trincee e dopo aver percorso un
migliaio di metri si trovarono davanti ai reticolati tedeschi ancora
intatti; sotto il fuoco delle mitragliatrici tentarono di aprirsi un
varco con le cesoie e i pochi superstiti si trovarono davanti ad un
nuovo reticolato; alla fine raggiunsero le trincee abbandonate dai
tedeschi che erano arretrati sulle seconde linee, trovandosi quindi
sotto il fuoco delle proprie artiglierie71. Quello stesso giorno i
britannici attaccarono per conquistare il crinale di Aubers, che non
erano riusciti a conquistare due mesi prima con l'offensiva di
Neuve-Chapelle; dopo un abbozzato bombardamento di preparazione,
indiani e inglesi uscirono dalle trincee solo per essere massacrati
dalle mitragliatrici tedesche rimaste intatte. Mentre iniziavano a
sbarcare sul continente i volontari del generale Horatio Kitchener,
ad Aubers le truppe di Douglas Haig venivano sterminate dalle
mitragliatrici tedesche in una serie di attacchi frontali che
causarono solo nel primo giorno 458 morti tra gli ufficiali e 11.161
tra i soldati72.
Il fallito fuoco di sbarramento d'artiglieria ad Aubers e
l'impossibilità di lanciare altri attacchi per mancanza di munizioni
suscitarono le ire di French, il quale lamentava la penuria di
rifornimenti; l'offensiva cessò e dopo il fallimento dei tedeschi a
Ypres, lo stallo al fronte diventò totale. Per tutto il maggio 1915
migliaia di francesi morirono nell'Artois cercando di aprirsi un
varco nelle trincee tedesche; al 18 giugno il bilancio era di circa
18.000 soldati francesi morti o feriti e la battaglia venne
interrotta. La guerra ad occidente era costituita ormai soltanto da
colpi di mano nelle trincee nemiche, da bombardamenti intermittenti
e da assalti occasionali73.
Sul fronte occidentale passarono quattro mesi e mezzo tra la
battaglia di Aubers e le nuove offensive alleate, che nelle
intenzioni avrebbero dovuto ridurre le difficoltà militari della
Russia a oriente; quattro mesi di "tregua" in cui però non mancarono
mai i bombardamenti e i tiri dei cecchini74. Nel settembre 1915 gli
Alleati lanciarono alcune grandi offensive: i francesi nella regione
della Champagne e i britannici a Loos. I francesi avevano impiegato
l'estate nei preparativi per quest'azione, mentre i britannici
assumevano il controllo di porzioni maggiori del fronte per liberare
truppe francesi. Il bombardamento preliminare d'artiglieria,
accuratamente diretto per mezzo di fotografie aeree, iniziò il 22
settembre, mentre l'assalto principale avvenne il 25 settembre e,
almeno inizialmente, fece buoni progressi nonostante le artiglierie
non avessero eliminato del tutto gli sbarramenti di filo spinato e
nidi di mitragliatrici75.
Sempre il 25 settembre i britannici diedero inizio alla loro
offensiva a Loos, che aveva lo scopo di supportare l'iniziativa
maggiore in atto nella Champagne. L'attacco fu preceduto da un
bombardamento di quattro giorni con 250.000 granate e, per la prima
volta da parte degli inglesi, dal lancio di 5.243 cilindri di gas al
cloro, che provocarono la morte immediata di 600 tedeschi. L'attacco
interessò due corpi d'armata nel suo teatro principale, ed altri due
che effettuarono attacchi diversivi a Ypres. I britannici ebbero
gravi perdite durante l'attacco, specialmente a causa dei continui
attacchi frontali che cozzavano contro il fuoco delle mitragliatrici
tedesche76 conseguendo solo limitati guadagni di terreno al costo di
centinaia di vite77.
Per i francesi l'offensiva della Champagne fu un successo: quando si
concluse, Joseph Joffre annunciò che erano stati catturati 25.000
soldati nemici e 150 cannoni pesanti. Per i britannici Loos fu
invece una sconfitta che provocò grande scoramento; dei quasi 10.000
attaccanti, 385 ufficiali e 7861 soldati erano stati uccisi o
feriti. Il 19 dicembre il generale Sir Douglas Haig fu nominato
comandante supremo delle forze britanniche in Francia sostituendo
John French. Il 1915 si avviava al termine e le condizioni sul
fronte occidentale diventavano sempre più atroci; per tutto il mese
di novembre continuò a piovere con tale intensità che l'acqua
arrivava in molte trincee fino alle ginocchia, i casi di "piede da
trincea" si moltiplicavano fino a diventare un vero e proprio
flagello che durante l'inverno fece più feriti che le pallottole. La
"tregua" avvenuta spontaneamente nel Natale 1914 non si ripeté nel
1915; tra le file alleate vennero diramati ordini molto severi
affinché non si ripetessero i casi di "fraternizzazione", e per
tutto il giorno di Natale furono sparate migliaia di granate verso
le postazioni tedesche per impedire ai soldati di uscire e ripetere
quanto accaduto l'anno prima78. La vigilia di Natale, nei pressi di
Wulvergem i tedeschi innalzarono sul parapetto della prima linea un
albero illuminato dalle candeline.
«Per qualche istante le fiammelle ondeggiarono incerte
nell'oscurità, finché un ufficiale inglese non ordinò di sparare a
volontà e l'albero fu distrutto.79 »
Duelli d'artiglieria e guerra d'attrito
Da un punto di vista strategico, durante il 1915, le armate
tedesche erano rimaste sulla difensiva in occidente. Anche se i
battaglioni, i reggimenti e talora anche le divisioni si
impegnassero in attacchi con obiettivi limitati, in una più vasta
concezione delle cose la Germania si accontentava di tenere il
terreno conquistato in Francia e Belgio mentre concentrava le
proprie attenzioni ad oriente dove inviò il grosso delle truppe.
Questa strategia si sarebbe capovolta nel 1916 quando le potenze
centrali avrebbero mantenuto la difensiva ad oriente e cercato di
far uscire la Francia dalla guerra80.
Contrariamente ai generali anglo-francesi, che utilizzavano
l'artiglieria per aprirsi un varco tra le linee nemiche e quindi
riprendere le manovre a livello operativo, il capo di Stato maggiore
tedesco Erich von Falkenhayn81, intendeva usare l'artiglieria come
arma strategica che lo avrebbe liberato dal bisogno di condurre la
guerra a livello operativo. I suoi cannoni avrebbero dovuto colpire
ciò che egli riteneva il punto debole dell'alleanza anglo-francese:
la riluttanza dei soldati francesi a morire per quelli che
Falkenhayn e la propaganda tedesca considerava gli interessi della
Gran Bretagna. Egli intendeva usare l'artiglieria per uccidere
quanti più soldati francesi possibile, spingendo così la Francia a
rinunciare all'alleanza con la Gran Bretagna e a cercare una pace
separata82. Per fare ciò Falkenhayn aveva bisogno della
"collaborazione" dei francesi, e doveva trovare un luogo al quale la
fanteria francese non avrebbe rinunciato facilmente, una calamita
che avrebbe attirato i francesi nel raggio d'azione della sua
artiglieria83. Il luogo prescelto fu la fortezza di Verdun,
considerata inattaccabile dai comandi francesi, che videro le
fortezze intorno alla città resistere efficacemente all'assedio
dell'armata del Kronprinz durante l'attacco sulla Marna di due anni
prima. In quella occasione Verdun si ammantò di una veste ancor più
"eroica" di quella che già possedeva84.
A febbraio 1916 negli uffici degli Stati maggiori erano allo studio
due piani: quello tedesco, di logoramento contro Verdun, e quello
anglo-francese atto a sfondare in estate le linee nemiche sulla
Somme pianificato per distruggere le difese tedesche con una vera e
propria "guerra d'attrito". I britannici avrebbero tentando di
vincere la resistenza tedesca con il peso della propria industria
bellica sotto forma di un incessante tiro di artiglieria seguito da
un massiccio attacco di fanteria che creasse le condizioni e aprisse
ampi varchi per una rapida avanzata in profondità della cavalleria
e, forse, per la vittoria definitiva8586.
Da Verdun alla Somme
Per Falkenhayn la scelta dell'obiettivo da attaccare era tra Belfort
e Verdun; la decisione cadde infine sulla seconda opzione,
soprattutto perché l'armata che avrebbe condotto l'attacco sarebbe
stata la 5ª armata comandata dal figlio del Kaiser, il Kronprinz
Guglielmo, ed una sua eventuale vittoria avrebbe avuto utili
risvolti propagandistici soprattutto per il fronte interno87.
Il massimo sforzo dei tedeschi fu assorbito dall'artiglieria: tutto
il loro piano infatti si basava sull'utilizzo massiccio di
quest'arma. In linea di massima, il piano strategico prevedeva
l'utilizzo dei cannoni pesanti che avrebbero avuto il compito di
scavare un profondo vuoto nelle linee francesi che la fanteria
tedesca avrebbe poi gradualmente occupato; sarebbero poi stati
distrutti anche i flussi di rifornimento francesi grazie ad un
costante e violento fuoco di sbarramento verso le retrovie, così da
impedire eventuali contrattacchi organizzati. Questo eccezionale
assembramento fu tale che su un fronte di appena 14 km, vennero
dispiegati circa 1.220 pezzi d'artiglieria, ossia uno ogni 12 metri
circa88.
Il 21 febbraio i tedeschi iniziarono l'assalto dopo un massiccio
bombardamento durato otto ore, dopodiché i comandi non si
attendevano molta resistenza avanzando verso Verdun e i suoi
forti89. Il primo giorno di battaglia non sortì per i tedeschi
l'effetto sperato. I francesi resistettero stoicamente e pur cedendo
in vari punti non erano stati "spazzati via" come invece le prime
ricognizioni aeree tedesche erroneamente riportarono. Neanche la
comparsa dei lanciafiamme sul campo di battaglia servì per stanare i
fanti francesi dalle loro posizioni90. Nonostante la conquista di
Fort Douaumont il 25 febbraio, e malgrado l'iniziale impeto,
l'attacco tedesco tra la fine di febbraio e l'inizio di marzo
lentamente si impantanò, anche per via del riassetto che Philippe
Pétain91 dette alle linee del fronte, dove affluirono numerosi pezzi
d'artiglieria e migliaia di uomini, mentre i tedeschi si trovarono a
dover avanzare su un terreno fangoso e sconvolto dai loro stessi
bombardamenti, che non consentiva di far avanzare i pesanti cannoni
come la tattica prevedeva92.
I tedeschi rivolsero quindi i propri sforzi a nord sulla Mort-Homme,
una bassa collina dietro cui i francesi avevano piazzato un
efficiente apparato di artiglieria. Dopo alcuni dei più intensi
combattimenti della campagna, la collina venne presa dai tedeschi
alla fine di maggio. Col passaggio del comando francese di Verdun,
da Philippe Pétain, orientato sulla difensiva, a Robert Georges
Nivelle, più portato per l'attacco, i francesi tentarono di
riprendere Fort Douaumont il 22 maggio ma furono facilmente
respinti. I tedeschi intanto catturarono Fort Vaux il 7 giugno e,
con l'aiuto del gas fosgene, a luglio tentarono l'assalto all'ultimo
caposaldo di Verdun, Fort Souville.
In primavera i comandanti alleati erano preoccupati circa la
capacità della Francia; a causa dell'ingente quantità di uomini
perduti a Verdun, i francesi videro via via scemare la propria
capacità di sostenere un ruolo anche sulla Somme: i piani originali
dell'attacco sulla Somme vennero perciò modificati per lasciare ai
britannici l'impegno maggiore. Questo avrebbe alleviato la pressione
sui francesi impegnati a Verdun93. Il 1º luglio, dopo una settimana
di incessanti bombardamenti contro le linee tedesche, quindici
divisioni britanniche e sei divisioni francesi uscirono a passo
d'uomo dalle trincee dirette sulle linee tedesche, che i generali
inglesi credevano distrutte dal bombardamento preliminare e
sguarnite degli occupanti. Così non fu; i tedeschi invece, ben
protetti in rifugi sotterranei (Stollen), al termine del
bombardamento uscirono dalle loro postazioni e si trovarono davanti
file compatte di fanti britannici, appesantiti da zaini di oltre
30 kg, che vennero spazzati via dalle mitragliatrici nemiche94.
Quel 1º luglio fu probabilmente il giorno più sanguinoso di tutta la
prima guerra mondiale e la più grande disfatta dell'esercito
britannico della storia; in quel solo giorno si contarono circa
51.470 perdite tra le forze del generale Haig, tra i quali 21.382
tra morti e dispersi. Uno degli obiettivi fissati per il primo
giorno da Haig, Beaumont-Hamel, cadde solo il 13 novembre, dopo
cinque mesi di incessanti combattimenti95.
Per tutto luglio e agosto i britannici conseguirono una serie di
limitate avanzate, ma le armate anglo-francesi conducevano una
guerra di logoramento più che di movimento; era una guerra di
boschi, macchie, vallate, gole e villaggi presi e perduti, ripresi e
di nuovo perduti96. La battaglia vide per la prima volta l'uso dei
carri armati sul campo di battaglia per uscire dall'impasse del
fronte sulla Somme; gli Alleati prepararono per il 15 settembre un
attacco con 13 divisioni britanniche e quattro corpi d'armata
francesi supportati da quarantanove carri armati. L'azione fece
inizialmente grandi progressi, con un'avanzata di circa quattro
chilometri, ma i carri ebbero un ruolo limitato per l'inaffidabilità
meccanica: al loro esordio valse soprattutto l'effetto psicologico
sulla fanteria nemica impaurita da questi mostri metallici97.
La fase finale della battaglia ebbe luogo in ottobre e inizio
novembre, nuovamente con guadagni limitati in cambio di pesanti
perdite. Alla fine dei conti, la battaglia della Somme consentì una
penetrazione nel fronte nemico di circa dieci chilometri, e
riconsegnò cinquantuno villaggi ai legittimi proprietari. Da un
punto di vista puramente tattico, nonostante la sconfitta tedesca,
per gli Alleati il guadagno in termini di territorio fu quindi molto
esiguo rispetto al prezzo pagato; furono circa 620.000 le perdite
complessive alleate e 450.000 quelle tra i tedeschi9899.
Sul piano strategico la battaglia fu invece un successo per gli
Alleati, in quanto Falkenhayn fu costretto a spostare truppe da
Verdun: tra luglio e agosto i tedeschi impiegarono trentacinque
nuove divisioni contro i britannici sulla Somme, consentendo ai
francesi guidati da Robert Nivelle di riprendere l'iniziativa sulle
rive della Mosa e quindi obbligare i tedeschi a porre fine
all'offensiva di Verdun100. Il 14 luglio infatti giunse l'ordine per
i tedeschi di fermare qualunque offensiva a Verdun; la "limitata
offensiva" di Falkenhayn era già costata quasi 250.000 uomini
all'esercito tedesco, ossia il doppio degli effettivi delle nove
divisioni concesse al Kronprinz nell'offensiva iniziale di febbraio.
Il 28 agosto Falkenhayn fu sostituito come comandante dell'esercito
dal duo Hindenburg - Ludendorff, che ordinò immediatamente la
cessazione di ogni attacco, in attesa delle inevitabili
controffensive francesi.
A Verdun il 3 novembre i francesi ripresero Fort Vaux, e il 18 sulla
Somme le linee britanniche, avanzate di circa dieci chilometri in
cinque mesi, ne distavano ancora cinque da Bapaume, che era
l'obiettivo iniziale. Il numero complessivo delle perdite in
entrambi gli schieramenti raggiunse la spaventosa cifra di circa
960.459 soldati morti; questo significa che mediamente morivano ogni
giorno oltre 6.600 soldati, oltre 277 l'ora, quasi 5 al minuto101.
La guerra aerea
Dall'offensiva della Somme dell'estate del 1916, a quella
tedesca del 1918, la Germania si mantenne sulla difensiva lungo il
fronte occidentale. Di pari passo con la strategia terrestre,
l'aviazione tedesca (Luftstreitkräfte) pose in atto tattiche di
combattimento aereo anch'esse difensive, atte ad interdire al nemico
lo spazio aereo dietro le proprie linee. Poiché nello spazio aereo
del fronte occidentale le forze alleate vantavano una superiorità
numerica nel rapporto di 2:1, l'aviazione tedesca ovviò
all'inconveniente concentrando i propri mezzi in unità più numerose.
Nel 1916 le formazioni aeree furono riorganizzate in squadriglie di
10-12 velivoli. Lo scopo era quello di concentrare i mezzi in un
particolare settore, in modo tale da conseguire una superiorità
aerea locale102. L'esperimento si rivelò un successo e nel giugno
1917 l'aviazione creò il Primo Gruppo Caccia (Jagdgeschwader 1)
formato dalla 4ª, 6ª, 10ª e 11ª squadriglia sotto il comando del
"Barone Rosso" Manfred von Richthofen103.
La mobilità dei gruppi caccia consentiva all'aviazione tedesca di
dislocarsi e concentrarsi in corrispondenza di ogni nuova minaccia;
nell'aprile 1917 fu quindi in grado di affrontare i piloti alleati
in appoggio all'offensiva di Arras; in quel mese i tedeschi
abbatterono 151 velivoli perdendone 66; nel marzo 1918, nell'azione
di appoggio all'offensiva di Ludendorff, l'aviazione tedesca riuscì
a conquistare la superiorità numerica nello spazio aereo sovrastante
il fronte, concentrando in tutta segretezza 730 aeroplani da opporre
ai 579 britannici104. Nonostante le potenze Alleate avessero
prodotto 138.685 aerei di fronte ai 53.222 degli Imperi centrali, la
superiorità tattica d'impiego e le migliori tecnologie fecero sì che
l'aviazione tedesca costituisse un avversario temibile fino alla
conclusione del conflitto. Sin dal 1917 i tedeschi progettarono
aerei destinati ad attacchi a obiettivi terrestri105, mentre gli
Alleati non progettarono mai velivoli specifici per tali compiti,
continuando invece a usare i caccia106.
Nel 1918 l'aviazione imperiale tedesca aveva raggiunto forza ed
efficienza tali da poter essere impiegata con successo in missioni
di supporto tattico alle operazioni di terra, missioni che compì con
notevole efficacia fino alla conclusione del conflitto; gli Alleati,
con un'elevata capacità industriale, potevano però godere di una
superiorità di mezzi che si traduceva in un più intenso impiego
operativo107.
L'Impero britannico prende l'iniziativa
Mentre la battaglia della Somme si avviava al termine, sui due
fronti si tracciavano già i piani per una nuova offensiva nel 1917.
A partire dal 1º febbraio 1917, il Kaiser Guglielmo II ordinò la
guerra sottomarina indiscriminata per convincere la Gran Bretagna a
sedersi nel tavolo delle trattative e cercare una pace, mentre sul
fronte occidentale i mesi di dicembre e gennaio assunsero l'aspetto
di una lotta incessante con tre protagonisti assoluti: le granate, i
cecchini e il fango. Intanto i rapporti diplomatici tra Germania e
Stati Uniti d'America andavano deteriorandosi velocemente a causa
del naviglio statunitense e di Paesi neutrali affondato dagli
U-Boot. Il 3 febbraio, mentre l'entrata in guerra degli Stati Uniti
si faceva sempre più probabile, il primo contingente portoghese
sbarcò in Francia e venne inviato direttamente in prima linea108.
Il giorno dopo il Kaiser ordinò alle truppe dislocate sul fronte
occidentale il ritiro sulla Linea Hindenburg, recentemente
fortificata, allo scopo di ridurre la lunghezza del fronte di una
quarantina di chilometri e liberare così tredici divisioni, che si
andarono ad aggiungere a quelle di riserva. Prima di ritirarsi i
tedeschi fecero terra bruciata: demolirono le case, incendiarono le
fattorie, distrussero i frutteti, minarono i pochi edifici rimasti
in piedi e cancellarono le strade, non lasciandosi alle spalle altro
che rovine. La Germania si preparava ad affrontare la potenza
statunitense; il timore di un'entrata in guerra degli Stati Uniti
perseguitava l'alto comando tedesco, ma ad est i tumulti della
rivoluzione e la possibile uscita dal conflitto della Russia
lasciavano ancora buone speranze alla Germania109. Il 6 aprile gli
Stati Uniti dichiararono guerra alla Germania; l'impatto delle
truppe statunitensi sarebbe stato potenzialmente enorme: gli Stati
Uniti avrebbero addestrato almeno un milione di uomini che sarebbero
saliti a tre milioni. Ma l'operazione avrebbe richiesto molto tempo:
ci sarebbe voluto almeno un anno perché l'enorme macchina potesse
funzionare a pieno regime110.
Le offensive di Arras e dell'Aisne
Il 9 aprile, lunedì di Pasqua, le forze anglo-canadesi sferrarono
simultaneamente le offensive di Arras e del crinale di Vimy. Gli
attacchi furono preceduti da cinque giorni di scontri aerei, nel
corso dei quali l'aviazione britannica cercò di ottenere il
controllo dei cieli per poter svolgere al meglio l'opera di
osservazione. Le prime fasi della battaglia furono favorevoli agli
Alleati, che sfondarono la Linea Hindenburg anche grazie alla nuova
tattica d'artiglieria, la cosiddetta "barriera di fuoco", in base
alla quale l'artiglieria spostava gli obiettivi sistematicamente in
avanti mentre la fanteria interveniva subito dopo il tiro, quando i
difensori erano ancora frastornati dai bombardamenti111. Nonostante
questo la terza linea tedesca, assai meglio munita di quelle più
avanzate, resistette a tutti gli attacchi; i carri armati britannici
che avrebbero dovuto precedere la fanteria rimasero indietro
bloccati dalle avarie e intrappolati nel fango, mentre i cannoni
trainati dai cavalli non riuscivano a procedere nel terreno
sconvolto. Nonostante la speranza di una facile vittoria, al quarto
giorno di combattimenti gli attaccanti erano allo stremo. I canadesi
riuscirono a conquistare il crinale, ma il 15 aprile, in seguito
alle crescenti perdite, Haig sospese l'attacco; col metro in uso sul
fronte occidentale poteva considerarsi una vittoria: gli
anglo-canadesi avevano infatti aperto una breccia larga sei
chilometri nella prima linea tedesca che ne misurava sedici112.
Nell'inverno 1916-17 la tattica aerea tedesca venne migliorata, fu
aperta una scuola per piloti da caccia a Valenciennes, e vennero
introdotti aerei migliori con mitragliatrici binate113. Il risultato
furono perdite quasi disastrose per la forza aerea alleata,
particolarmente per i britannici, che soffrivano per aerei
antiquati, scarso addestramento e tattiche rudimentali. Durante
l'attacco ad Arras i britannici persero 316 equipaggi, contro 114
dei tedeschi, in quello che per i Royal Flying Corps fu l'"aprile di
sangue"114.
Il 16 aprile i francesi, con venti divisioni dispiegate su un
fronte di quaranta chilometri, attaccarono a loro volta i tedeschi
attestati sul fiume Aisne. L'offensiva, ideata dal generale Nivelle
da cui prese il nome, fu un disastro, benché per la prima volta i
francesi impiegassero i carri armati. Nivelle aveva previsto
un'avanzata di dieci chilometri; dovette fermarsi dopo 600 metri.
Aveva previsto circa 15.000 morti, furono quasi 100.000. Dei 128
carri armati entrati in azione, 32 furono messi fuori uso il primo
giorno, dei 200 aerei che avrebbero dovuto alzarsi in volo, ne
furono disponibili all'inizio dell'attacco solo 131, che ebbero la
peggio contro i caccia tedeschi. Non un solo dettaglio andò come
previsto: l'attacco al forte di Nogent-L'Abbesse, uno dei forti
intorno a Reims dal quale i tedeschi bombardavano sistematicamente
la città, fallì miseramente, e due villaggi che si trovavano nella
zona dei combattimenti, Nauroy e Moronvillers, furono rasi al suolo.
I combattimenti continuarono, il generale Charles Mangin aprì una
breccia di sei chilometri nelle linee tedesche, ma il 20 aprile la
battaglia venne interrotta, ammettendo lo stesso Nivelle che era
impossibile sfondare le linee nemiche. I tedeschi detenevano la
supremazia aerea, e il 21 aprile il barone Manfred von Richthofen
celebrò la sua ottantesima vittoria115.
Per tutto maggio i britannici continuarono gli attacchi: in sei
settimane di combattimenti i tedeschi arretrarono dai tre agli otto
chilometri su un fronte lungo trentacinque, sparando oltre sei
milioni di granate. A metà maggio le truppe al comando di Haig
avevano compiuto un'avanzata più consistente di quando, due anni e
mezzo prima, era cominciata la guerra di trincea: in poco più di un
mese avevano conquistato un centinaio di chilometri quadrati di
terreno, catturando oltre 20.000 prigionieri e 252 cannoni pesanti.
Il carro armato era ormai diventato parte integrante degli attacchi
della fanteria britannica. Il 14 maggio, a Magonza, anche i tedeschi
sperimentarono il carro armato, due giorni prima che terminasse la
battaglia di Arras116.
Il morale della Francia
Nella primavera del 1917 iniziò a serpeggiare un forte risentimento
verso la guerra in seno a molti eserciti, soprattutto quello
francese, reduce da oltre due anni di una guerra sanguinosa, che
vedeva moltiplicarsi il numero dei disertori. Il 26 maggio
arrivarono sul territorio francese i primi 1308 soldati
statunitensi, ma l'arrivo delle prime truppe d'oltre oceano coincise
col momento più drammatico nel settore francese: le diserzioni
sempre più numerose si erano trasformate il 27 maggio in un vero e
proprio ammutinamento. Ben 30.000 soldati di prima linea avevano
abbandonato le trincee e gli accantonamenti sullo Chemin des Dames,
portandosi nelle retrovie. I disordini proseguirono: il 1º giugno a
Missy-aux-Bois un reggimento di fanteria francese si impadronì della
città e nominò un "governo" pacifista; per una settimana regnò il
caos in tutto il settore francese del fronte mentre gli ammutinati
si rifiutavano di tornare a combattere. Le autorità militari agirono
tempestivamente, e sotto il pugno di ferro di Pétain cominciarono
gli arresti di massa e si insediarono le corti marziali. I tribunali
francesi giudicarono colpevoli di ammutinamento 23.395 soldati, di
questi, più di 400 furono condannati a morte, 50 fucilati e gli
altri inviati ai lavori forzati nelle colonie penali.
Contemporaneamente Pétain introdusse miglioramenti, concedendo alle
truppe periodi di riposo più lunghi, congedi più frequenti e rancio
migliore; dopo sei settimane gli ammutinamenti erano cessati117.
I disordini furono di tale portata che fecero capire all'alto
comando francese che i soldati non erano più disposti a sopportare i
tormenti di una nuova offensiva: avrebbero tenuto la posizione, ma
non sarebbero usciti dalle trincee. Tutto il peso dell'offensiva
ricadeva quindi sulle spalle delle forze britanniche, che si
sarebbero di lì a poco trovate a sostenere il peso della ripresa dei
combattimenti in Francia e nelle Fiandre118.
Le offensive britanniche
«La forza e la resistenza del popolo tedesco sono ormai logore da
indurre a ritenerne possibile il crollo entro quest'anno»
(Sir Douglas Haig, 5 giugno 1917119)
Il 7 giugno i britannici lanciarono la loro seconda offensiva
in due mesi lungo il crinale di Messines-Wytschaete. L'attacco fu
preceduto nelle prime ore del mattino da una spaventosa esplosione,
percepita fino alla città di Lille occupata dai tedeschi a
venticinque chilometri di distanza120; le squadre di minatori
britannici avevano scavato sotto le linee nemiche diciannove mine
dal potenziale esplosivo di 500 tonnellate. A Messines l'effetto
delle esplosioni fu devastante, si ritiene che furono uccisi
all'istante oltre 10.000 tedeschi, migliaia rimasero storditi e 7354
furono presi prigionieri. Alle esplosioni seguì un massiccio
bombardamento con 2266 pezzi d'artiglieria, per riprendere il
terreno perso nella prima battaglia di Ypres del 1914, che tuttavia
non furono sufficienti per scacciare i tedeschi; l'offensiva si
arrestò per il terreno fangoso, ed entrambe le parti soffrirono
perdite consistenti121.
Ad una settimana di distanza dallo scoppio delle mine e dalla
ritirata dei tedeschi attestatisi poco più a est, il fronte ripiombò
nello stallo, ma la volontà di continuare a combattere non venne
meno nonostante gli orrori della guerra di trincea122, nonostante il
caos in Russia, nonostante gli ammutinamenti francesi123.
Intanto l'8 giugno il generale John Pershing, comandante delle
truppe statunitensi in Europa sbarcò a Liverpool con il suo Stato
maggiore, il 26 giugno arrivò in Francia il primo grosso contingente
statunitense forte di 140.000 uomini, ma il loro arrivo non modificò
la situazione nei piani di battaglia: quei soldati dovevano ancora
essere addestrati e attendere quindi i rinforzi che avrebbero
cominciato ad arrivare solo tre mesi dopo124.
Un'offensiva sul fronte occidentale fu fortemente caldeggiata da
Haig, e nonostante l'impiego delle truppe statunitensi fosse ancora
lontano, il 31 luglio i britannici avrebbero nuovamente attaccato
sul saliente di Ypres e come primo obiettivo venne prefissato il
villaggio di Passchendaele. Le truppe britanniche inizialmente
avanzarono con successo nonostante le ingenti perdite, e nei primi
tre giorni di battaglia furono catturati oltre 5000 tedeschi per
un'avanzata che variava dai due ai quattro chilometri. Nel frattempo
sul fronte orientale le forze russe sconvolte dalle avvisaglie della
rivoluzione, si ritiravano inesorabilmente sotto i colpi delle
truppe tedesche e austro-ungariche125.
I veterani canadesi di Vimy e di quota 70 si unirono alle provate
truppe dell'ANZAC e alle forze britanniche e presero il villaggio di
Passchendaele il giorno 30 nonostante la pioggia battente che aveva
trasformato il terreno in una palude. L'offensiva venne ripresa con
vigore il 10 agosto, ma dopo quattro giorni i violenti acquazzoni
bloccarono le operazioni. Gli attacchi continuarono per tutto agosto
e tutto settembre ma i tedeschi iniziarono una serie di
contrattacchi ad inizio di ottobre che consentirono loro di prendere
oltre 20.000 prigionieri126. Haig preparò un'ennesima offensiva per
il 9 ottobre che però fu nuovamente interrotta dalle piogge, i campi
si trasformarono in pantani, e il 13 Haig sospese l'attacco che
avrebbe dovuto portare le truppe britanniche a Passchendaele. Dopo
la terza battaglia di Ypres, gli Alleati erano tuttavia più
ottimisti che dopo la Somme, avendo conquistato una maggiore
porzione di territorio con minori perdite127, mentre per i tedeschi
l'offensiva fu un duro colpo; perdite assai elevate e morale a
terra, morti e feriti furono circa 400.000, quasi il doppio dei
britannici, in quello che il generale Hermann von Kuhl definì:
« [...] il più grande martirio della prima guerra mondiale [in
cui] nessuna divisione riusciva a resistere più di una settimana in
quell'inferno128. »
Cambrai
Il 23 ottobre sull'Aisne i francesi lanciarono un attacco
circoscritto alle posizioni tedesche sullo Chemin des Dames;
l'assalto venne preceduto da sei giorni di bombardamento a cui seguì
l'attacco di otto divisioni e ottanta carri armati francesi che
riuscirono ad avanzare per tre chilometri e mezzo facendo 10.000
prigionieri e strappando ai tedeschi un importante punto di
osservazione a Laffaux. I tedeschi si ritirarono quasi senza
combattere attestandosi tre chilometri e mezzo più in basso; il loro
impegno in quel momento era soprattutto rivolto sul fronte italiano,
dove le forze austro-tedesche stavano sfondando a Caporetto129. Il
26 ottobre Haig tentò ancora di sfondare a Passchendaele, il 30 i
canadesi entrarono finalmente nel villaggio nonostante gravissime
perdite, ma ne furono ricacciati subito dopo. Intanto sul fronte
orientale la guerra cedeva rapidamente il passo alla rivoluzione: ad
inizio novembre il potenziale bellico della Russia, che fino a quel
momento era stata il braccio orientale dell'Intesa, non esisteva
più. Con la Russia immobilizzata, gli Alleati si prodigarono per
mantenere la spinta offensiva sugli altri fronti mentre sul fronte
italiano stava dilagando il panico130.
Il 10 novembre la battaglia di Passchendaele terminò; dal 31 luglio
gli Alleati erano avanzati di sette chilometri pagando il prezzo di
62.000 morti e 164.000 feriti, mentre tra le file tedesche i morti
furono 83.000 e i feriti 250.000 con 26.000 prigionieri. Dal momento
che le forze russe non esistevano più e gli italiani erano stati
ricacciati sul Piave, il peso delle offensive passò del tutto sulle
spalle anglo-francesi.
L'inaffidabilità dei cingoli fu uno dei maggiori problemi che
afflissero i carri armati britannici durante l'offensiva di Cambrai.
Il 20 novembre, per la prima volta nella storia militare, il
peso principale dell'attacco ricadde sui carri armati lanciati verso
la città di Cambrai e i territori alle sue spalle. Durante la
battaglia di Cambrai (la terza grande offensiva del 1917), i
britannici attaccarono con 324 carri, di cui un terzo tenuto come
riserva, e dodici divisioni, contro due divisioni tedesche. I carri
demolirono i reticolati e nel giro di qualche ora sfondarono le
linee nemiche su tutta la lunghezza del fronte131. Nonostante
l'impeto iniziale, i carri che furono fermati dall'artiglieria
tedesca e dai guasti meccanici nei salienti di Flesquières e
Mesnières, a neppure metà strada da Cambrai, raggiunsero il numero
di trentanove132. Il 23 gli Alleati furono bloccati al bosco
Bourlon: l'effetto sorpresa dei carri stava svanendo e le perdite
iniziavano a salire, a fine novembre iniziò a cadere la prima neve e
alla guerra coi carri subentrò la guerra all'arma bianca fino al 27
novembre quando i britannici furono costretti a sospendere
l'attacco. Cambrai sarebbe rimasta distante e irraggiungibile. Il 30
novembre i tedeschi contrattaccarono avanzando per circa cinque
chilometri, con un attacco congiunto di armi chimiche e aerei nel
ruolo di supporto ravvicinato alle truppe di terra. La battaglia di
Cambrai, che inizialmente sembrò volgere favorevolmente agli
Alleati, si risolse in due settimane con un fallimento. Le potenze
alleate erano in difficoltà su tutti i fronti, la Russia iniziò i
contatti per un trattato di pace e 44 divisioni tedesche furono
spostate da oriente ad occidente, in Italia gli austriaci erano nei
pressi di Venezia e sul fronte occidentale l'offensiva di Cambrai
non mutò la situazione, vigendo ancora una situazione di stallo133.
Il 1917 si avviava verso la conclusione e le prospettive di pace in
Europa apparivano molto lontane; il cessate il fuoco sul fronte
orientale non fu altro che il preludio per la Russia di una
sanguinosa guerra civile. A Costantinopoli nel 1917 morirono di
stenti circa 10.000 persone, nell'Impero austro-ungarico la fame
provocò tumulti a Vienna e Budapest, in Germania in quello stesso
anno più di 250.000 civili morirono di fame in conseguenza del
blocco britannico.134.
Le offensive finali
Erich Ludendorff, che insieme a Paul von Hindenburg era il
comandante supremo dell'esercito tedesco dopo la cacciata di
Falkenhayn seguente il fallimento di Verdun, concluse che la sola
opportunità di vittoria per la Germania consistesse in un attacco
decisivo sul fronte occidentale in primavera, ossia prima che il
potenziale americano diventasse significativo. Il 3 marzo 1918 fu
firmato il trattato di Brest-Litovsk, e la Russia si ritirò dalla
guerra. Questo rese disponibili 44 divisioni tedesche del fronte
orientale per uno spostamento ad ovest, portando il vantaggio
tedesco a 192 divisioni contro 173 alleate. Le forze tedesche erano
poi addestrate alle nuove tattiche d'assalto già impiegate con
successo sul fronte orientale135. Ludendorff decise un attacco
contro le forze britanniche, considerate tatticamente inferiori alle
francesi e sfavorite nel rapporto di forze; anche la conformazione
del territorio era favorevole ai tedeschi, che contavano di
aggirarle ai fianchi e tagliarne la ritirata, trasformando una
vittoria tattica (lo sfondamento e l'accerchiamento) in una vittoria
strategica (la distruzione delle forze britanniche). L'idea di
Ludendorff si basava su una massiccia offensiva finalizzata a
separare i francesi dai britannici, per sospingere questi ultimi in
direzione dei porti sulla Manica. L'attacco avrebbe combinato le
nuove tattiche delle truppe d'assalto con l'uso di aerei da attacco
al suolo, e uno sbarramento d'artiglieria accuratamente pianificato
comprendente pure l'uso di gas136.
L'offensiva tedesca di primavera
Dal gennaio 1918 truppe statunitensi sbarcavano
settimanalmente in Francia, dopo quarantadue mesi e mezzo
dall'inizio della guerra la presenza delle truppe di Pershing sul
campo di battaglia era un dato di fatto. Il 23 febbraio per la prima
volta le truppe statunitensi presero parte ad un'azione a Chevregny
insieme ai francesi, con due ufficiali e 24 soldati.
Mentre le truppe tedesche dilagavano ad oriente il 21 marzo
Ludendorff lanciò una grande offensiva che, in caso di successo,
avrebbe consentito alla Germania di vincere la guerra137.
L'"operazione Michael"138 fu la prima delle offensive tedesche;
quasi riuscì a separare i due eserciti alleati, con un'avanzata di
circa 65 chilometri nei primi otto giorni, portando le linee del
fronte verso ovest di più di 100 chilometri, con Parigi entro il
raggio dell'artiglieria per la prima volta dal 1914. Le conquiste
fatte dai tedeschi durante l'offensiva furono impressionanti per gli
standard del fronte occidentale: 90.000 prigionieri catturati, 1.300
cannoni presi, 212.000 soldati nemici morti o feriti e un'intera
armata britannica (la quinta) messa fuori combattimento. Le perdite
tra i tedeschi furono comunque alte (239.000 tra ufficiali e
soldati); alcune divisioni furono ridotte alla metà dei loro
effettivi, molte compagnie poterono contare solo 40 o 50 uomini139.
L'offensiva riuscì a sfondare il sistema difensivo inglese, ma
furono necessari tre giorni invece che uno, e ciò permise ai
britannici di far affluire le riserve e vanificare ogni
significativo sfruttamento. La fiducia di Ludendorff non si spense,
e all'operazione Michael seguirono altri tre attacchi. Il 27 maggio
alle prime luci dell'alba, 4.000 pezzi d'artiglieria tedesca
aprirono il fuoco sul fronte dell'Aisne, cominciò così la terza
battaglia dell'Aisne; il 29 i tedeschi entrarono a Soissons e il 30
maggio arrivarono sulla Marna a 60 km da Parigi. Il 3 giugno
attraversarono la Marna pronte ad attaccare Chateau-Thierry difesa
dalle truppe statunitensi140. Il 7 giugno i tedeschi attaccarono fra
Montdidier e Compiègne con un bombardamento di potenza inaudita:
furono sparati 750.000 proiettili all'iprite, al fosgene e alla
difenilcloroarsina, per un totale di 15.000 tonnellate di gas; alle
4.30 del mattino entrò in azione la fanteria che avanzò per più di 8
chilometri facendo 8.000 prigionieri141. L'ultima offensiva tedesca
scattò il 14 luglio, ma ad inizio agosto lo slancio tedesco su tutto
il fronte cessò, mentre quasi un milione di soldati americani erano
giunti in Francia a dar manforte agli Alleati. Le truppe tedesche
erano ad un soffio dalla vittoria, ma esauste e dissanguate dalle
enormi perdite smisero di avanzare, anzi, cominciarono lentamente a
indietreggiare, in una lenta ritirata che terminò solo l'11 novembre
1918142.
I raid navali britannici
Verso la fine della guerra la Royal Navy si pose il problema di
interdire le azioni delle unità leggere e degli U-Boot della
Kaiserliche Marine che partivano dai porti del Belgio occupato.
Benché i successi contro gli U-Boot della marina britannica si
moltiplicassero, questi venivano prodotti ad una velocità pari a
quella con cui venivano distrutti e colpivano le rotte di
rifornimento britanniche attraverso la Manica rappresentando una
continua minaccia alle vie di rifornimento della British
Expeditionary Force impegnata sul continente. Per l'estate era poi
previsto l'arrivo di numerose truppe americane con i relativi
rifornimenti per cui occorreva chiudere "uno dei covi da cui i
sommergibili nemici minacciavano le comunicazioni con gli
Alleati"143.
Gli attacchi vennero sferrati nella tarda primavera del 1918. Il
primo raid di Ostenda (parte dell'operazione ZO) venne compiuto
dalla Royal Navy con l'obiettivo di bloccare l'accesso al porto
omonimo, che veniva largamente utilizzato dalla Kaiserliche Marine
come base per gli U-Boot e il naviglio leggero. Il vicino porto di
Bruges fu oggetto di un contemporaneo attacco.
Il 23 aprile tre vecchi incrociatori britannici accompagnati da una
consistente forza navale d'appoggio, furono affondati nel braccio di
mare antistante la base dei sottomarini. Il molo fortificato che
proteggeva il porto venne cannoneggiato e molte delle sue strutture
demolite; il viadotto che lo collegava alla ferrovia fu fatto
saltare. Una delle navi, la HMS Thetis, affondò prima del necessario
dopo l'urto contro un'ostruzione lasciando alle altre due il compito
di bloccare il canale; la Iphigenia e la Intrepid affondarono come
previsto nel punto più stretto, ma il blocco durò solo pochi giorni
in quanto i tedeschi rimossero due moletti collocati su un lato del
canale, liberando così un varco per gli U-Boot con l'alta marea; in
tre settimane i tedeschi riuscirono ad approntare una deviazione e i
sottomarini ripresero indisturbati a pattugliare il mare del Nord e
dintorni. L'incursione fu un fallimento e costò ai britannici 200
morti e 400 feriti. L'opinione pubblica britannica si entusiasmò per
il raid a Zeebrugge, viceversa si interessò meno all'attacco al
canale di Ostenda, che pure conduceva alla base dei sottomarini di
Bruges144.
Tre settimane dopo il fallimento, venne lanciato un secondo attacco
che ebbe maggior successo, con l'affondamento di una nave
all'imbocco del canale, senza riuscire però a chiudere completamente
il passaggio. A ideare l'operazione era stato il vice-ammiraglio
Roger Keyes; sebbene presentata da John Jellicoe nel 1917, non venne
appoggiata dall'Ammiragliato britannico fino alla presentazione di
un progetto dettagliato. Nuovi piani per attaccare la zona durante
l'estate del 1918 non vennero messi in atto e le basi tedesche in
zona rimasero una minaccia costante fino alla fine del conflitto,
quando la città venne liberata dalle forze di terra francesi e
britanniche145.
Il contrattacco alleato
Già in luglio Ferdinand Foch diede inizio alla prevista
controffensiva sulla Marna prodottasi in seguito agli attacchi
tedeschi. In agosto il saliente era stato sgomberato, e grazie allo
slancio e alla presenza ormai massiccia delle truppe fresche di
Pershing gli Alleati continuarono le controffensive. L'8 agosto
partì la seconda offensiva, lanciata due giorni dopo la precedente.
L'attacco interessò truppe franco-britanniche, e vide l'impiego di
600 carri e 800 aerei; ebbe successo, tanto che Ludendorff definì
l'8 agosto come "il giorno nero dell'esercito tedesco"146. L'assalto
fu il primo di quelli che Foch chiamava "attacchi di liberazione"
contro la nuova linea tedesca, che proseguirono il 15 agosto con un
nuovo contrattacco sulla Somme, mentre a Parigi si riuniva il
neocostituito Consiglio Interalleato per gli approvvigionamenti, che
gettò i piani per la continuazione della guerra almeno fino al
1919147. Su tutto il fronte gli Alleati continuavano ad avanzare
cacciando i tedeschi da Compiègne, Antheuil-Portes, Lassigny, sulla
Somme conquistarono Thiepval e bosco Mametz mentre il 27 le truppe
tedesche iniziarono ad evacuare le Fiandre abbandonando i territori
conquistati quattro mesi prima. Ludendorff aveva optato per una
strategia difensiva cercando in tutti i modi di tenere la Linea
Hindenburg, ma ormai il morale delle truppe tedesche era a terra. A
fine agosto i tedeschi lasciarono l'Aisne sotto i colpi del generale
Mangin, ad inizio settembre i canadesi iniziarono i primi assalti
alla Hindenburg e il 3 settembre Foch diede l'ordine perentorio di
attaccare senza sosta per tutta la lunghezza del fronte occidentale.
L'11 agosto gli statunitensi attaccarono Saint-Mihiel che venne
conquistata il 13, liberando un saliente in mano nemica da quattro
anni148. Il 25 settembre iniziò poi la battaglia della Mosa-Argonne
a cui parteciparono dieci divisioni americane; le due operazioni
insieme valsero la conquista di oltre 500 chilometri quadrati di
territorio149.
La Germania aveva visto il proprio potenziale umano gravemente
compromesso da quattro anni di guerra trovandosi poi in gravi
difficoltà dal punto di vista economico e sociale. Il 1º ottobre i
britannici si apprestavano a superare la Hindenburg lungo il canale
di St. Quentin e gli statunitensi a sfondare nelle Argonne;
Ludendorff si recò direttamente dal Kaiser per chiedergli di
avanzare immediatamente una proposta di pace, dando grossa parte
della colpa alle «idee spartachiste e socialiste che avvelenavano
l'esercito tedesco»150. Le battaglie infuriavano ancora quando il 2
ottobre la prima rivoluzione tedesca scoppiò. Il 4 ottobre il
principe Max von Baden telegrafò a Washington per richiedere
l'armistizio151. La Germania pur essendo nello scompiglio non era
precipitata nell'anarchia né aveva deciso di arrendersi: l'8 ottobre
Wilson respinse la proposta, e l'11 i tedeschi iniziarono a
ritirarsi su tutto il fronte senza però rinunciare a combattere152.
L'offensiva dei cento giorni diede il colpo finale, e dopo questa
serie di sconfitte le truppe tedesche iniziarono ad arrendersi in
numero sempre crescente. Quando finalmente gli Alleati ruppero il
fronte tedesco, la monarchia imperiale tedesca giunse al collasso, e
i due comandanti dell'esercito, Hindenburg e Ludendorff, dopo aver
tentato invano di convincere il Kaiser a combattere ad oltranza, si
fecero da parte153.
La resa delle forze tedesche
Il 30 ottobre l'Impero ottomano firmò l'armistizio di Mudros
con gli Alleati, il 3 novembre l'Austria-Ungheria firmò l'armistizio
di Villa Giusti con l'Italia; solo sul fronte occidentale si
continuava a combattere. Gli Alleati avanzavano inesorabilmente
raggiungendo il confine belga mentre il Kaiser lasciò Berlino per
Spa, dove si stava discutendo una sua eventuale abdicazione a favore
del giovane figlio; la maggioranza dei partiti politici del
Reichstag era favorevole all'ipotesi: il Kaiser avrebbe dovuto farsi
da parte per la sopravvivenza della dinastia. L'imperatore si
indignò, e con il pieno appoggio di Hindenburg si rifiutò di
lasciare il trono154. Gli statunitensi il 6 novembre raggiunsero i
dintorni di Sedan e i canadesi entrarono in Belgio, mentre Groener,
tornato da Spa dopo quattro giorni passati al fronte, comunicò
personalmente al Kaiser la necessità di firmare l'armistizio entro
il 9 novembre: la flotta tedesca si era ammutinata, la rivoluzione
appariva imminente mentre le truppe si rifiutavano di sparare sui
rivoluzionari. La mattina del 7 novembre i delegati tedeschi si
riunirono a Spa e furono condotti oltre le linee del fronte verso la
foresta di Compiègne in territorio francese. Intanto a Berlino la
maggioranza socialista del parlamento chiese l'abdicazione del
Kaiser; al rifiuto di questi, i deputati si dimisero in blocco e
indissero uno sciopero generale in tutto il paese; neppure la
richiesta telefonica di von Baden fece cambiare idea
all'imperatore155. La sera dell'8 novembre l'ammiraglio Paul von
Hintze comunicò al Kaiser che la sua Marina non avrebbe più obbedito
ai suoi ordini. La mattina del giorno dopo i delegati arrivarono a
Compiègne. La Germania era al collasso: i rivoluzionari avevano in
mano i principali nodi ferroviari e la città di Aquisgrana, molti
soldati avevano abbracciato la rivoluzione, e la superiorità
militare alleata stava schiacciando le truppe al fronte. Il 10
novembre, mentre i canadesi entravano a Mons156, il governo tedesco
accettò le condizioni di resa, alle 5.30 del mattino dell'11
novembre venne firmato l'armistizio che sarebbe entrato in vigore
alle ore 11157. I combattimenti continuarono per tutta la mattina
dell'11 novembre fino a che le lancette degli orologi non segnarono
le ore 11:
« Ci fu un attimo di silenzio e di attesa, poi si udì uno
strano mormorio, che gli osservatori in posizione molto arretrata
rispetto al fronte paragonarono al soffio di una leggera brezza.
Erano gli uomini che esultavano dal Vosgi fino al mare158. »
La guerra era finita, un tripudio di festeggiamenti coinvolse
le capitali delle potenze vincitrici, ma in Francia Pershing era
irritato perché il suo consiglio di costringere i tedeschi alla resa
sul campo non era stato ascoltato:
« Suppongo che la nostra campagna sia conclusa, ma quale enorme
differenza avrebbe fatto qualche giorno ancora di guerra. [...] la
mia paura è che la Germania non abbia capito di averle prese. Se ci
avessero dato un'altra settimana, glielo avremmo fatto
capire. »
I tedeschi, con le truppe ancora in armi, le trincee piene di
uomini, le artiglierie in posizione, il suolo francese e belga
occupato, si sentirono traditi da coloro che avevano firmato
l'armistizio consegnando la vittoria agli Alleati sul tavolo dei
negoziati. Quel giorno il generale Karl von Einem, comandante della
3ª armata, disse alle sue truppe:
«Il fuoco è cessato. Non sconfitti...voi concludete la guerra in
territorio nemico159.»
Conseguenze
La disfatta aveva portato in Germania il crollo delle
istituzioni imperiali, la proclamazione della repubblica e la
costituzione di un governo la cui autorità non era riconosciuta
nemmeno nelle strade di Berlino. Anche l'esercito cadde nello
sconforto, le unità delle retrovie avevano contribuito al
rovesciamento della monarchia, mentre le armate impiegate al fronte
venivano condotte in patria e smobilitate160. Tra il 1º e il 4
dicembre le truppe britanniche, statunitensi e francesi varcarono la
frontiera tedesca e oltrepassarono il Reno occupando rispettivamente
Colonia, Coblenza e Magonza, città che mal si assoggettavano alla
presenza degli occupanti, i quali secondo una convinzione sempre più
diffusa, non avevano sconfitto la Germania sul campo, ma si erano
assicurati l'armistizio per l'incapacità dei governanti tedeschi di
scongiurare la rivoluzione e il repubblicanesimo161. Fin dai primi
giorni di pace l'infamante marchio della sconfitta e la gravità
della situazione economica costituirono uno stimolo per le forze
della rivoluzione e del fanatismo in Germania, Austria e Ungheria.
« Mai invero nella storia del mondo [...] un popolo ha dovuto
confrontarsi con condizioni di armistizio tanto terribili e ha
dovuto prendere atto della sua totale sconfitta, benché nessuno dei
suoi avversari abbia ancora messo piede sul suo suolo [...] l'uomo
della strada non riesce a capire che cosa sia accaduto così
all'improvviso, e si sente completamente disorientato. »
Queste le parole con cui Arthur Ruppin, sionista tedesco,
scriveva sul suo diario il 7 dicembre 1918162. Intanto, mentre i
prigionieri di entrambi gli schieramenti tornavano nei rispettivi
Paesi e a Berlino Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg venivano uccisi
da forze paramilitari di estrema destra, il 18 gennaio si aprì la
conferenza di pace di Parigi, in una data che suonava offensiva ai
tedeschi, poiché si trattava dello stesso giorno in cui era stato
solennemente proclamato l'impero quarantanove anni prima.
« La Germania accetta la responsabilità propria e dei suoi
alleati di aver provocato tutte le perdite e i danni che gli
Alleati, i governi associati e le loro nazioni hanno dovuto subire a
causa di una guerra che è stata loro imposta dall'aggressione della
Germania e dei suoi alleati. »
Questa fu una delle clausole del trattato. Mai una frase
avrebbe avuto ripercussioni così negative e violente. Proprio la
clausola della "colpevolezza" per come fu percepita dalla Germania
ed enfatizzata dai suoi politici, sarebbe divenuta il bersaglio
dell'ex caporale Adolf Hitler. Nella popolazione nacque il mito
secondo cui l'esercito non fosse stato sconfitto, ma abbandonato dal
governo e tradito dai nemici interni, la Dolchstoßlegende; ciò in
seguito sarebbe stato sfruttato dalla propaganda nazista per
giustificare almeno in parte l'abbattimento della Repubblica di
Weimar163.
Al discorso di apertura della conferenza di Versailles, il capo
della delegazione tedesca, conte Ulrich von Brockdorff-Rantzau si
rifiutò di firmare la clausola dell'ammissione di colpevolezza,
puntando il dito sul blocco navale ancora in vigore che stava
mietendo migliaia di vittime nella popolazione. Gli Alleati
risposero che il blocco sarebbe continuato fino a che non fosse
stato ratificato il trattato. La bozza finale fu ricevuta dalla
delegazione tedesca il 7 maggio 1919, il 29 la stessa delegazione
presentò un memorandum di protesta contro le proposte avanzate dagli
Alleati, in cui accettarono di disarmare in anticipo ma a patto che
la riduzione degli armamenti fosse di dimensioni analoghe a quella
degli Alleati; accettarono di rinunciare alla sovranità in Alsazia e
Lorena, ma proponevano si tenesse un plebiscito; accettarono entro
certi limiti di pagare i danni di guerra ma rifiutarono di
assumersene la colpa. La risposta degli Alleati fu perentoria, la
guerra era un ricordo ancora troppo vivo: «non possono ora sfuggire
alle conseguenze delle loro azioni» fu la risposta di Lloyd George.
Il 22 giugno a Versailles i delegati acconsentirono alla firma del
trattato, tranne che per la clausola della dichiarazione di
"colpevolezza", e mentre i rappresentanti alleati si stavano
preparando a discutere questo nuovo gesto di sfida, arrivò la
notizia dell'autoaffondamento della flotta tedesca a Scapa Flow164.
Fu immediatamente deciso non solo di rifiutare qualsiasi modifica al
trattato, ma di concedere ai tedeschi solo ventiquattr'ore di tempo
per sottoscriverlo165. Per non diventare oggetto di riprovazione
generale il governo tedesco si dimise, ma Friedrich Ebert rifiutò le
dimissioni e chiese a Hindenburg se la Germania avrebbe potuto
difendersi nel caso di una recrudescenza delle ostilità; per tutta
risposta Hindenburg uscì dalla stanza, e solo quattro ore prima
della scadenza il governo autorizzò la firma del trattato. Il 28
giugno il trattato fu siglato: i termini della pace dettati dalle
potenze vincitrici erano umilianti e avrebbero cancellato la
Germania come potenza militare ed economica. Il trattato di
Versailles riportò alla Francia la provincia di confine
dell'Alsazia-Lorena, importante per i giacimenti di carbone nella
Ruhr, limitò severamente il numero di effettivi dell'esercito a
100.000 unità e vietò la ricostituzione di una forza aerea e di una
marina militare. La riva occidentale del Reno sarebbe stata
demilitarizzata, e il canale di Kiel aperto al traffico
internazionale.
Quattro imperi erano caduti nel 1918, e con essi, i loro sovrani. Il
Kaiser andò in esilio nei Paesi Bassi, ma in Germania la violenza
non diminuì. La nazione sconfitta divenne vittima di coloro che
cercavano una soluzione militarista ai suoi problemi; la Repubblica
di Weimar sopravvisse per un certo periodo ai diversi attentati alla
sua esistenza: Kapp a Berlino nel marzo 1920, Hitler a Monaco nel
1923. Nelle file degli anonimi sostenitori di Hitler, nel giorno del
tentato putsch, fu notata l'imbarazzante presenza di un famoso eroe
di guerra, il generale Ludendorff. La Repubblica riaffermò la
propria autorità, come peraltro riuscì a fare in tutto il decennio
successivo, il governo di Weimar riuscì a trattare una riduzione
delle riparazioni di guerra, e nel 1925 a Locarno la Germania fu
ammessa a far parte del sistema di sicurezza europeo. Ma nel 1933
l'ascesa di Hitler spazzò via per molto tempo quella stabilità che
poteva segnare il definitivo ritorno della Germania nel consesso
delle nazioni europee166.
Bibliografia
In italiano:
• Luigi Albertini, Le origini
della guerra del 1914 (3 volumi - vol. I: "Le relazioni europee dal
Congresso di Berlino all'attentato di Sarajevo", vol. II: "La crisi
del luglio 1914. Dall'attentato di Sarajevo alla mobilitazione
generale dell'Austria-Ungheria.", vol. III: "L'epilogo della crisi
del luglio 1914. Le dichiarazioni di guerra e di neutralità."),
Milano, Fratelli Bocca, 1942-1943. (ISBN non esistente)
• James Corum, Le origini del
Blitzkrieg, Hans von Seeckt e la riforma militare tedesca 1919-1933,
Gorizia, Libreria editrice goriziana, 2004. ISBN 88-86928-62-9
• Martin Gilbert, La grande
storia della prima guerra mondiale, 2009, Milano, Arnoldo Mondandori
[1994]. ISBN 978-88-04-48470-7
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battaglia della Somme - l'artiglieria conquista la fanteria occupa,
2010, Parma, Mattioli 1885. ISBN 978-88-6261-153-4
• Bruce I. Gundmundsson,
Sturmtruppen - origini e tattiche, 2005 (in italiano), Gorizia,
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• Alistair Horne, Il prezzo
della Gloria, Verdun 1916, 2003, Milano, BUR [1962], pp. 376. ISBN
978-88-17-10759-4
• Michael Jürgs, La piccola
pace nella Grande Guerra, 2003, Milano, Il Saggiatore. ISBN
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In inglese:
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• Stephen Snelling, The Naval
VC's, Sutton Publishing, 2002. ISBN 0-7509-1395-9
Nella letteratura
• Ernst Jünger, In
Stahlgewittern - Nelle tempeste d'acciaio, 1995, Parma, Guanda
[1920].
• Ernst Jünger, Das Wäldchen
125 - Boschetto 125, una cronaca delle battaglie in trincea nel
1918, 1999, Parma, Guanda [1925].
• Erich Maria Remarque, Im
Western nichts Neues - Niente di nuovo sul fronte occidentale, 2009,
Milano, Oscar Mondadori [1929]. ISBN 978-88-04-49296-2
Filmografia
Sugli avvenimenti che caratterizzarono il fronte occidentale è
stata prodotta una corposa filmografia. In seguito sono elencati in
ordine cronologico alcuni film significativi:
• Cuori del mondo (Hearts of
the World), film di David Wark Griffith del 1918.
• All'ovest niente di nuovo,
film del 1930 diretto da Lewis Milestone tratto dal libro di
Remarque.
• La grande illusione (La
Grande illusion), un film del 1937 diretto da Jean Renoir.
• Orizzonti di gloria (Paths of
Glory), film del 1957 diretto da Stanley Kubrick.
• Per il re e per la patria
(King and Country), film del 1964 diretto da Joseph Losey.
• Niente di nuovo sul fronte
occidentale, film del 1979 diretto da Delbert Mann anch'esso tratto
dall'omonimo romanzo.
• Il battaglione perduto (The
lost battalion), film del 2001 diretto da Russell Mulcahy ispirato
alle vicende del 77º battaglione statunitense impegnato nella
battaglia della Mosa-Argonne.
• Joyeux Noël - Una verità
dimenticata dalla storia, film del 2005 diretto da Christian Carion
ispirato agli avvenimenti sul fronte occidentale conosciuti come la
"Tregua di Natale".
Fronte orientale
(1914-1918)
Data
17 agosto 1914 - 3 marzo 1918
Luogo
Europa centrale e orientale
Esito
Vittoria degli Imperi centrali
• Collasso dell'Impero russo
• Rivoluzione d'ottobre
• Trattato di Brest-Litovsk
• Trattato di Bucarest
Il fronte orientale, aperto nell'agosto 1914 con l'invasione russa
della Prussia orientale, fu uno dei principali teatri di guerra
della prima guerra mondiale. Su questo fronte si scontrarono
Germania e Austria-Ungheria da una parte, a cui si affiancò la
Bulgaria nel 1916, e l'Impero russo dall'altra, a cui si unì per
poco tempo la Romania.
Contrariamente a quanto accadde sul fronte occidentale, a oriente la
guerra di manovra non finì mai completamente, la guerra di posizione
si alternava alle manovre a livello operativo. Questo fu dovuto
anche dalla conformazione geografica del territorio di
combattimento: le foreste della Lituania e le vaste pianure e
acquitrini della Polonia, Ucraina e Russia, si rivelarono troppo
ampie per poter essere saturate di uomini e armi1. Nell'inverno
1916-17 le divisioni tedesche tenevano settori larghi 20-30
chilometri, mentre nelle Fiandre, la stessa porzione di territorio
poteva essere riempita con ben otto divisioni. Ambedue i comandanti
degli schieramenti si resero conto di non avere le risorse
necessarie a difendere i loro settori nello stesso modo dei loro
omologhi ad occidente, per cui la tattica dell'ordine aperto e lo
sfruttamento degli ampi territori permisero ad entrambe le parti
operazioni manovrate molto distanti dalle limitate avanzate ad
occidente2.
Nonostante la superiorità nelle tattiche e negli armamenti delle
potenze centrali, la Russia, avvantaggiata dal suo enorme potenziale
umano, non fu mai completamente sconfitta sul campo. La sconfitta
della Russia avvenne solamente a seguito delle rivolte interne
scaturite dal malcontento generalizzato della popolazione, che
scaturirono in una rivoluzione che destituì lo zar Nicola II e mise
al potere un governo provvisorio, sostituito a seguito della
rivoluzione d'ottobre, da una repubblica socialista sovietica, che
il 3 marzo 1918 firmò il trattato di Brest-Litovsk con le potenze
centrali e di fatto fece uscire la Russia dal conflitto.
Premesse
Se ad occidente le scintille che avrebbero scatenato la guerra
risiedevano nella volontà tedesca di competere con la Gran Bretagna
sul mare e nelle colonie, e dal rancore reciproco tra Germania e
Francia, ad oriente le cause scatenanti erano legate alle ambizioni
di Austria-Ungheria e Russia di estendere i propri territori nei
Balcani e nelle ambizioni tedesche nel Medio Oriente. La Russia
dello zar Nicola II coltivava forti ambizioni nella penisola
balcanica, e si ergeva paladina di uno Stato slavo, la Serbia, che
lottava incessantemente per ampliare i propri confini verso il mare.
D'altra parte non perdeva d'occhio nemmeno le minoranze slave,
ucraine, rutene e polacche sotto il dominio austriaco, che vedevano
la Russia come la propria protettrice. L'impero di Francesco
Giuseppe dal canto suo cercava di mantenere intatta la sua
mastodontica struttura, cercando di appoggiare le esigenze delle
svariate minoranze etniche al suo interno. Nel 1867, per soddisfare
le richieste di tedeschi e magiari, Francesco Giuseppe era stato
proclamato imperatore d'Austria e re d'Ungheria. Nella parte
austriaca della monarchia duale, era stato ideato un sistema
parlamentare che venisse incontro alle diverse minoranze, con la
presenza di rappresentanti in sede legislativa. Tuttavia, benché non
desiderassero turbare lo status quo, anche gli Asburgo aspiravano a
domare l'unico elemento disturbatore a sud, la Serbia, la cui
espansione sembrava inarrestabile3.
I sistemi di alleanze europee venutisi a creare nel tardo Ottocento,
erano specchio dei timori dei singoli stati. I due Imperi centrali,
Germania e Austria-Ungheria, erano legati da vincoli formali
analoghi a quelli che intercorrevano tra Russia e Francia fin dal
1892, le due nazioni con cui la Gran Bretagna aveva stretto
un'alleanza per dirimere i contrasti, e che fece nascere negli
Imperi centrali la paura di un accerchiamento4.
I rapporti con la Germania
Dopo la guerra franco-prussiana del 1870 Bismarck tentò in
ogni modo di isolare la Francia nello scacchiere europeo. Il suo
primo sforzo fu quello di mettere d'accordo Austria e Russia
attraverso un legame comune con la Germania, cercando allo stesso
tempo di assicurare un assetto pacifico nei Balcani per evitare
tensioni5. Le implicazioni della guerra russo-turca del 1877 lo
indussero a stipulare un'alleanza difensiva con l'Austria-Ungheria
nel 1879, e nonostante le implicazione negative che ciò avrebbe
potuto avere con la Russia, nel 1881 Bismarck riuscì in un exploit
diplomatico a creare l'"alleanza dei tre imperatori" unendo
formalmente Russia, Germania e Austria, che si impegnava ad agire di
comune accordo nei Balcani. Nel 1882 l'alleanza tra Austria e
Germania fu ampliata con l'ingresso dell'Italia, mossa fatta per
evitare una "pugnalata alle spalle" nel caso di guerra
austro-russa6.
Ma l'ascesa al trono di Guglielmo II minò immediatamente questo
delicato sistema di alleanze creato da Bismarck. Il trattato di
controassicurazione russo-tedesco del 1887 fu annullato e lo zar nel
1891 concluse un accordo con la Francia. Ma la mossa più
provocatoria di Guglielmo fu l'intento del kaiser di assicurarsi il
ruolo di "santo patrono" della Turchia, cosa che incrinò
definitivamente i rapporti con la Russia che aveva su Costantinopoli
grandi ambizioni7. Quest'ultima non fece altro che assicurarsi
rapporti d'amicizia con i nemici della Germania, accrescendo la
paura di accerchiamento dell'impero di Guglielmo II, che tentò in
ogni modo un riavvicinamento con lo zar, che non avvenne. La nuova
divisione in blocchi dell'Europa, non era un equilibrio stabile,
bensì una semplice barriera satura di esplosivo. La paura di un
conflitto indusse tutti i paesi a dare sempre maggior potere ai
vertici militari che potevano utilizzare a loro discrezione gli
armamenti che le stesse nazioni si affrettavano ad accrescere8. La
prime scintille scoccarono nei Balcani nel 1908 e nel 1913 e
coinvolsero indirettamente Russia, Austria e Germania, ognuna con
pretese sui paesi balcanici.
La crisi bosniaca
Regolate tutte le questioni della guerra russo-turca con il
congresso di Berlino, nel 1908 la Bosnia ed Erzegovina fu ceduta
all’amministrazione dell’Austria-Ungheria che, occupando la
provincia ottomana, veniva così ripagata per non aver contrastato
l’offensiva militare russa. Formalmente però la Bosnia-Erzegovina
rimaneva dell’Impero Ottomano e la Serbia poteva ancora sperare di
unire il suo territorio a quello bosniaco. Per i serbi, infatti, la
Bosnia-Erzegovina rappresentava una provincia nazionale9. Ma la
Serbia, che da decenni aveva conquistato l'indipendenza, lottava per
uno sbocco al mare Adriatico, precluso però dall'Austria proprio con
l'annessione della Bosnia-Erzegovina, annessione che peraltro
avrebbe garantito all'Austria una base di partenza per attaccare la
Serbia10. Serbia, Montenegro e Turchia erano fortemente contrari
all'annessione ma, se Costantinopoli fu convinta con concessioni a
riconoscela, la Serbia non mollava la presa spalleggiata dalla
Russia ansiosa di creare disordine nell'impero asburgico11.
Solo la minaccia di un intervento tedesco contro la Russia fece
desistere la Russia che il 24 marzo 1909 riconobbe la legittimità
dell'annessione austriaca della Bosnia-Erzegovina12. Il 31 marzo
sotto la minaccia di una mobilitazione austriaca, anche la Serbia si
impegnò a mutare il corso della sua politica verso l’Austria13, Il 7
aprile raggiunto anche l’accordo col Montenegro (che grazie a Italia
e Gran Bretagna ottenne alcuni vantaggi di sovranità sulla costa),
il ministro degli esteri austriaco von Aehrenthal chiese alle
potenze di riconoscere formalmente la soppressione dell’articolo 25
del trattato di Berlino, che appunto stabiliva la sola e semplice
amministrazione austriaca della Bosnia. Riconoscimento che ottenne
fra il 7 ed il 19 aprile14.
Ma la miccia non si era spenta. A San Pietroburgo, Aleksei
Stepanovič Čomjakov, il presidente della Duma, assicurò
l’ambasciatore serbo che in quel momento non era possibile
intervenire, ma che in futuro la Russia avrebbe considerato ogni
violenza fatta alla Serbia come l’inizio di un incendio europeo15.
In una lettera a von Bülow del 22 giugno 1909, l’ambasciatore
tedesco a Belgrado scrisse riferendosi al popolo serbo: «Il piccolo
gruppo delle persone veramente colte o semicolte [...] non vuole
rassegnarsi, per la sua boria nazionale offesa, ad accettare il
fatto dell’annessione. Si starà, perciò, come il cacciatore alla
posta, per cogliere l’istante giusto per sparare un colpo a segno».
L’ambasciatore non sospettava, certo, di quale colpo molto concreto
si sarebbe trattato il 28 giugno 191416.
La questione balcanica
La vittoria serba sulla Turchia nel 1912 rappresentò uno
smacco per la Germania. Il successo militare del piccolo Stato slavo
metteva in repentaglio non solo il predominio austriaco nei Balcani,
ma anche l'ambizione della Germania di potenza egemone in Turchia,
mentre la cessione di territori ottomani alla Serbia fu vista con
soddisfazione dalla Russia17. A conclusione della seconda guerra
balcanica, la difesa delle esigenze tedesche nei confronti degli
slavi fu inizialmente assunta non tanto dalla Germania, ma
dall'alleata Austria-Ungheria. Fu a seguito di pressioni austriache
che la Turchia concesse la creazione dell'Albania in modo tale da
privare alla Serbia altri possibili territori per arrivare al mare.
Cosa che nel contempo fece la Grecia, che negò l'accesso al mar Egeo
annettendo la Tracia a spese della Turchia18.
Ma la sete di territori coinvolgeva molti stati europei: l'Italia
nel 1912 occupò la Libia a seguito di un conflitto armato e la
Bulgaria conquistò uno sbocco nell'Egeo, entrambe a spese della
Turchia. La Serbia durante la seconda guerra balcanica occupò
l'Albania conquistando temporaneamente il suo accesso al mare
Adriatico; per questo il 18 ottobre 1913 l'Austria inviò un
ultimatum a Belgrado intimando l'evacuazione dell'Albania entro otto
giorni: i Serbi chinarono il capo. Ma il seme della guerra era ormai
ben piantato, la Germania non fece nulla per impedire all'Austria
un'azione di forza, come nulla fece la Russia per impedire la
possibilità di un conflitto19.
La Germania esercitò sempre un'azione di freno consigliando
moderazione tra Austria e Russia, ma nello stesso tempo ampliando la
sua egemonia in Turchia. Questo non piacque affatto alla Russia, che
vide svanire il suo sogno di mettere mano nei Dardanelli, sogno che
i suoi ministri credevano ora solo possibile con un conflitto
generalizzato. Obiettivo russo era ora quello di estendere la sua
influenza nei Balcani, scossa da recenti avvenimenti20. Tentò quindi
di conquistarsi le simpatie della Romania, cosa che preoccupò
l'Austria ove le diverse etnie interne provocavano già pericolose
tensioni. I governanti austriaci erano convinti che scatenare una
guerra oltre i confini fosse la migliore soluzione per reprimere il
malcontento dei serbi e croati nei territori annessi e dei romeni in
Transilvania. Intendeva quindi usare duramente la forza contro quel
serbatoio di tutte le forze di opposizione interne, la Serbia amica
della Russia21.
La scintilla che incendiò irrimediabilmente la miccia fu l'attentato
di Sarajevo. Domenica 28 giugno 1914, il bosniaco Gavrilo Princip
riuscì ad assassinare a Sarajevo l'erede al trono
d'Austria-Ungheria, l'arciduca Francesco Ferdinando e la sua
consorte Sofia di Hohenberg, venendo immediatamente arrestato. Ne
derivò una crisi diplomatica che nel giro di un mese, a causa del
delicato sistema di alleanze europee, portò allo scoppio della prima
guerra mondiale.
Il 28 luglio 1914 l'Austria-Ungheria fece la prima mossa del
combattimento, dichiarando guerra alla Serbia. Così, mentre
l'artiglieria austriaca teneva sotto tiro le fortificazioni serbe
lungo la frontiera pronta ad aprire il fuoco in qualsiasi momento,
la mattina del 29 luglio la Russia chiamò alle armi una parte della
sua enorme riserva di uomini: lo zar Nicola II non dichiarò guerra
all'Austria, ma si limitò a ordinare una mobilitazione parziale di
quasi sei milioni di uomini22. Anche la Germania, il 1º agosto,
dichiarò guerra alla Russia in conseguenza della mobilitazione
generale di quest'ultima. Il 4 agosto le truppe russe iniziarono a
marciare verso la frontiera tedesca, ma per alcuni giorni il fronte
non fu oggetto di grossi movimenti e scontri.
Uno scontro tra imperi
Il 20 agosto, concedendo udienza al leader ceco Karel Kramár, lo zar
affermò che la Russia, dopo aver sconfitto l'Austria, avrebbe visto
con favore:
« la corona di San Venceslao risplendere libera e indipendente
nel fulgore della corona dei Romanov"23. »
In lotta non erano soltanto due eserciti, ma anche due sistemi
imperiali. A Vienna la prospettiva di una vittoria contro la Russia
suscitava mire espansionistiche, tanto che il 12 agosto, giorno in
cui la Gran Bretagna dichiarò guerra all'Austria, il governo
austriaco discusse la possibilità di annettere all'impero le
provincie russe della Polonia inclusa Varsavia. A tale scopo il 16
agosto le autorità austriache autorizzarono il leader polacco Józef
Piłsudski a fondare a Cracovia, in territorio austriaco, un comitato
supremo nazionale in attesa del giorno in cui polacchi e austriaci
avrebbero marciato fianco a fianco per le vie di Varsavia. Il primo
contributo di Piłsudski all'Austria fu la formazione di una legione
polacca composta da 10.000 uomini contro le armate russe24.
Questi soldati polacchi speravano che la vittoria austriaca sulla
Russia avrebbe favorito la rinascita di una Polonia indipendente. Lo
stesso fecero i russi verso la popolazione polacca sotto i suoi
domini, e venne costituita anche in questo caso una legione polacca,
la Pulawy, che avrebbe combattuto come un'entità distinta
all'interno delle'esercito zarista. Paradossalmente i polacchi
combatterono contro altri polacchi con le stesse motivazioni, ma in
schieramenti diversi25. Il 19 agosto la Russia pubblicò due
manifesti: con il primo prometteva a guerra conclusa, una Polonia
libera per religione, lingua e governo; con il secondo incitava
tutti i popoli soggetti all'Austria-Ungheria a sollevarsi e
proclamarsi indipendenti26.
Piani contrapposti
Sul fronte russo i piani operativi all'inizio del conflitto
erano molto meno elaborati e più fluidi di quanto pianificato sul
fronte occidentale, anche se poi, l'alternarsi degli avvenimenti
sottopose a grossi cambiamenti anche il fronte orientale. La
condizione più prevedibile del fronte fu la conformazione
geografica, mentre la meno prevedibile fu l'inaspettato ritmo di
concentrazione e mobilitazione delle forze zariste27. La Polonia
russa era una lunga striscia di terra che partendo dalla Russia si
proiettava ad ovest fiancheggiata su tre lati da territori tedeschi
e austriaci: sul lato settentrionale la Prussia orientale affacciata
sul mar Baltico; sul lato meridionale la provincia austriaca della
Galizia, con a su i Carpazi che sbarravano l'accesso alla pianura
ungherese; a ovest infine, il territorio tedesco della Slesia28.
Poiché le provincie austriache e tedesche al confine con la Russia
erano dotate di una fitta rete ferroviaria, mentre la Polonia e la
stessa Russia avevano un sistema di comunicazioni piuttosto scarso,
in quanto a capacità di concentrazione e movimento, le armate
austro-tedesche avrebbero potuto fronteggiare i russi in una
situazione di notevole vantaggio. Ma a parti invertite, un'offensiva
degli Imperi centrali in Polonia e Russia avrebbe fatto perdere
questo vantaggio agli attaccanti. La strategia più vantaggiosa era
dunque quella di attirare i russi in una regione che si prestasse
per sferrare un potente colpo d'incontro anziché quella di assumere
direttamente l'offensiva. Unico inconveniente di questa strategia è
che in questo modo veniva concesso alla Russia il tempo di mettere
in moto la sua immensa macchina da guerra29.
Ad ambedue i paesi conveniva che il problema era tenere sotto scacco
i russi fino a quando i tedeschi non avessero distrutto le forze
francesi ad occidente; ultimata questa parte della campagna, i
tedeschi avrebbero potuto spostare le proprie forze a est e
affiancarle a quelle austro-ungariche per sferrare il colpo decisivo
contro i russi. Ma verteva una divergenza sui metodi. I tedeschi
preoccupati di concludere rapidamente le operazioni in Francia,
desideravano lasciare a est appena il minimo indispensabile di
forze, mentre gli austriaci, influenzati dal capo di stato maggiore
Conrad von Hötzendorf, erano impazienti di scardinare la macchina
bellica russa con una violenta offensiva. Poiché tale strategia
consentiva comunque di tenere impegnati i russi in attesa della fine
delle operazioni in Francia, von Moltke finì con l'accettarla30.
Il piano di Conrad prevedeva un'offensiva a nord-est contro la
Polonia sferrata da due armate, protette da altre due sulla destra,
ancora più a est. Secondo il piano, simultaneamente all'offensiva
austriaca i tedeschi avrebbero dovuto attaccare dalla Prussia
orientale verso sud-est. Convergendo, i due eserciti avrebbero
isolato le forze russe avanzate nella striscia polacca, ma Conrad
non riuscì a convincere von Moltke ad assegnare per questo sforzo
offensivo forze sufficienti31. Anche i russi furono influenzati
dalla volontà degli Alleati; per motivi sia militari che etnici, il
comando russo desiderava concentrare le proprie forze inizialmente
contro l'Austria-Ungheria, approfittando del momento di cui la
Germania impegnata a occidente non avrebbe potuto aiutare in modo
deciso l'alleato.
Quindi dopo aver sconfitto l'Austria e mobilitato tutti i potenziali
effettivi, la Russia si sarebbe rivolta contro la stessa Germania.
La Francia però, ansiosa di contenere la pressione tedesca ad ovest,
sollecitò i russi di sferrare anche un'offensiva simultanea contro
la Germania, spingendoli così in una offensiva a cui non erano
preparati né numericamente né sotto l'aspetto organizzativo32. La
Russia preparò quindi la propria strategia che prevedeva un attacco
con due armate a sud, contro l'Austria-Ungheria, mentre a nord,
altre due armate avrebbero invaso la Prussia orientale aggredendo le
esigue forze tedesche. La Russia, la cui proverbiale lentezza
organizzativa avrebbe consigliato una strategia cauta, stava per
rompere gli indugi lanciandosi in un'operazione che sarebbe stata
congeniale ad un esercito dotato di grande mobilità e con
un'efficiente organizzazione, il quale non era l'esercito russo33.
Operazioni navali
Uscita pesantemente decimata dagli eventi della guerra russo
giapponese del 1904-05, la marina imperiale russa si trovava ancora
in fase di ricostruzione al momento dell'entrata in guerra, con
molte delle unità di più recente concezione (come le prime corazzate
tipo dreadnought russe, le quattro della classe Gangut) ancora in
fase di costruzione; in aggiunta le navi russe risultavano suddivise
tra due teatri principali senza possibilità di supportarsi a
vicenda: nel mar Baltico la squadra navale russa era ampiamente
surclassata, sia quantitativamente che qualitativamente, dalla
Hochseeflotte tedesca, mentre la Flotta del Mar Nero di base a
Sebastopoli poteva affrontare un confronto più equilibrato contro la
marina ottomana.
Mar Baltico
Nel Baltico entrambi i contendenti decisero di adottare una
strategia prevalentemente difensiva34: la Germania puntava ad
impiegare il grosso della sua flotta nella lotta contro il Regno
Unito nel Mare del Nord, e poteva dislocare solo un numero ridotto
di unità nel bacino; i russi invece decisero di attenersi alla
strategia della flotta in potenza, chiudendosi a difesa delle
proprie basi navali, ed in particolare dei golfi di Riga e di
Finlandia, tramite ampi sbarramenti di mine e postazioni di
artiglieria costiera. La prima fase del conflitto fu caratterizzata,
da entrambe le parti, solo da rapide incursioni di squadre di
incrociatori contro le coste nemiche: durante una di queste azioni,
il 26 agosto 1914 i russi misero a segno un importante successo
strategico, impossessandosi dei libri codice contenenti le chiavi di
cifratura delle comunicazioni radio della flotta tedesca, rinvenuti
sul relitto dell'incrociatore SMS Magdeburg finito arenato
sulle coste estoni35.
Dopo altre azioni minori, il primo confronto diretto tra le due
flotte si ebbe tra l'8 ed il 19 agosto 1915: una squadra da
battaglia tedesca fu inviata ad appoggiare una flottiglia di
dragamine intenti ad aprire varchi nelle difese del Golfo di Riga,
finendo per scontrarsi con le batterie costiere russe sostenute
dalla corazzata Slava; le navi tedesche si ritirarono dopo due
falliti tentivi di aprirsi un varco nelle difese nemiche, riportando
però pochi danni36. La situazione rimase statica per molti mesi, con
le corazzate russe frequentemente impegnate in appoggio ai propri
reparti terrestri davanti Riga; il Baltico fu teatro anche di una
limitata campagna sottomarina da parte delle forze alleate: se i
pochi battelli russi potevano operare solo sotto forti restrizioni
per evitare di provocare la Svezia (neutrale ma decisamente
filo-tedesca), una flottiglia di sommergibili britannici riuscì ad
eludere la sorveglianza nemica dello Skagerrak e ad operare da basi
russe, infliggendo danni al commercio navale tedesco nel bacino37.
Lo scoppio della rivoluzione di febbraio del 1917 portò gravi danni
al morale ed alla coesione degli equipaggi russi38; approfittando
dell'occasione, nell'ottobre seguente la flotta tedesca lanciò una
massiccia operazione navale per forzare le difese russe del Golfo di
Riga: mentre contingenti da sbarco prendevano possesso delle isole
di Saaremaa ed Hiiumaa (operazione Albion), dragamine tedeschi
aprirono rotte sicure per le proprie corazzate, che nella successiva
battaglia dello stretto di Muhu furono in grado di espellere dal
golfo le restanti unità russe. Con la caduta di Riga tutte le forze
navali russe furono ritirate nel Golfo di Finlandia, cessando in
pratica di operare fino alla conclusione delle ostilità39.
Mar Nero
Il confronto di forze era più equilibrato nel Mar Nero: se la
squadra russa era superiore in numero alla flotta ottomana, dotata
di poche unità veramente efficienti, gli Imperi Centrali avevano il
loro punto di forza nell'incrociatore da battaglia tedesco
SMS Goeben, singolarmente più forte di qualsiasi altra unità
navale nemica presente nel bacino40. Le operazioni iniziarono la
mattina del 29 ottobre 1914, quando le unità turco-tedesche
attaccarono le principali basi navali russe nel bacino: nonostante
la sorpresa, tuttavia, i danni inflitti furono modesti e già quello
stesso pomeriggio la squadra delle corazzate russe compì una
crociera dimostrativa davanti al Bosforo. I primi mesi di guerra
furono spesi da entrambe le parti per stendere campi minati e
portare attacchi ai rispettivi porti principali; il 18 novembre
1914, mentre rientrava da una missione di bombardamento, la squadra
di corazzate russe incappò nella Goeben al largo di Capo Sayrch, e
dopo un confuso scambio di colpi nella nebbia l'incrociatore ruppe
il contatto e si ritirò. Lo scontro spinse tedeschi ed ottomani ad
impiegare con parsimonia l'unità, il loro unico punto di forza
sull'avversario, e ciò finì inevitabilmente per concedere
l'iniziativa ai russi41.
Tra la fine di marzo ed i primi di aprile del 1915 le corazzate
russe compirono frequenti azioni davanti al Bosforo, bombardando la
capitale Istanbul anche come forma di appoggio alla campagna dei
Dardanelli intrapresa in contemporanea dai franco-britannici; le
navi russe furono inoltre molto attive nel supportare le proprie
truppe impiegate sul fronte del Caucaso, sia attaccando le rotte di
rifornimento ottomane sia compiendo bombardamenti delle trincee
nemiche42. Ai primi di marzo del 1916 la flotta russa condusse una
serie di operazioni anfibie lungo la costa settentrionale
dell'Anatolia, dando un notevole contributo alle vittorie riportate
nell'offensiva di Erzurum e nella battaglia di Trebisonda43; queste
azioni furono scarsamente disturbate dalle navi degli Imperi
Centrali, ormai in condizione di netta inferiorità dopo l'entrata in
servizio delle nuove dreadnought russe della classe Imperatritsa
Mariya: la Goeben e gli altri incrociatori turco-tedeschi compirono
ancora uscite in mare, ma ogni volta che incappavano nelle corazzate
russe rompevano il contatto e si ritiravano.
Lo scoppio della rivoluzione di febbraio nel 1917 trovò la flotta
russa praticamente padrona del bacino: come nel Baltico, anche nel
Mar Nero gli eventi della rivoluzione provocarono un crollo del
morale e della disciplina degli equipaggi, compromettendone le
capacità belliche44. La firma del trattato di Brest-Litovsk pose
fine alle ostilità: la base di Sebastopoli fu occupata dalle forze
tedesche che riuscirono ad impossessarsi di una parte della flotta
russa, anche se il pessimo stato di conservazione delle navi non
permise loro di impiegarle operativamente; nei mesi successivi le
vicende delle superstiti unità della Flotta del Mar Nero si fusero
poi con quelli della più ampia guerra civile russa.
Si aprono le ostilità
Il 14 agosto le forze tedesche erano già ad 80 chilometri da
Varsavia all'inseguimento dei russi in ritirata, ma lo zar Nicola
credeva ancora di poter vincere la guerra, e di vincerla
rapidamente; le truppe zariste furono fatte avanzare a tutta
velocità direttamente su Vienna e Berlino45. Il 17 due armate russe,
una comandata dal generale Rennenkampf e l'altra dal generale
Samsonov, cominciarono ad avanzare nella Prussia orientale. A
contrastarle trovarono il 1º corpo d'armata tedesco comandanto dal
generale François, che si scontrò a Stallupönen con Samsonov,
facendo 3000 prigionieri prima di ritirarsi su posizioni meglio
difendibili46. In ossequio ai piani e alle richieste degli Alleati,
le armate zariste attaccarono improvvisamente sia in Prussia
orientale che in direzione Vienna, cercando di sorprendere gli
imperi nemici nell'intento di raggiungere una rapida vittoria.
L'invasione della Prussia
Il 19 agosto Rennenkampf si scontrò a Gumbinnen col grosso dell'8
armata di Prittwitz, due giorni dopo lo stesso comandante tedesco fu
informato che la 2 armata russa agli ordini di Samsonov aveva
attraversato, alle sue spalle, la frontiera meridionale della
Prussia orientale, ed era fronteggiata da sole tre divisioni47. Il
comandante in capo delle forze tedesche in Prussia orientale,
generale Maximilian von Prittwitz, preso dal panico comunicò a
François della necessità di ritirarsi fino alla Vistola, lasciando
così sguarnita l'intera Prussia orientale, dubitando anche di poter
resistere sulla linea della Vistola48. Per scongiurare la
possibilità di essere incalzati durante la ritirata, il colonnello
Max Hoffmann sottolineò che era necessario sferrare un'offensiva
vittoriosa prima di poter ripiegare senza essere continuamente
minacciati dalle preponderanti forze russe.
Hoffmann voleva che Prittwitz impiegasse le sue truppe contro una
delle due armate russe, ma al comandante tedesco era ormai venuta
meno la volontà di combattere e il 22 agosto fu destituito, e fu
allora che von Moltke richiamò il sessantasettenne generale Paul von
Hindenburg, ormai in pensione, e gli affidò le armate orientali,
assegnandogli come stato maggiore il vincitore di Liegi, generale
Erich Ludendorff49. Questa fu la prova che i tedeschi sbagliarono i
loro calcoli: la macchina bellica russa fu tutt'altro che lenta e
bisognava combattere con la massima intensità anche a oriente prima
di poter riportare una decisiva vittoria tattica ad occidente.
Giunto ad oriente Ludendorff capì che Hoffmann aveva già impostato
le basi per una vittoria, ma le due armate russe erano ormai
penetrate in profondità nella provincia, minacciandone la capitale
Königsberg50.
Il contrattacco tedesco
Il 26 agosto le truppe zariste entrarono a Rastenburg e il
giorno seguente iniziarono i combattimenti intorno ai laghi Masuri,
nei pressi dei villaggi di Frögenau e di Tannenberg. Ludendorff ebbe
un cedimento, tanto che propose di far ritirare François e di
sospendere i piani di accerchiamento delle truppe di Samsonov ideati
da Hoffmann51. Hindenburg decise comunque di continuare il piano
avviato dal colonnello Hoffmann e i combattimenti continuarono.
La mattina del 28 agosto Ludendorff ordinò a François di arrestare
l'avanzata e inviare le sue truppe a rinforzo in un settore
indebolito del fronte, ma questi disobbedì agli ordini continuando
ad incalzare i russi. Fu proprio per questa disobbedienza che
consentì a Ludendorff di ottenere nei giorni seguenti una vittoria
schiacciante. Il 30 l'armata di Samsonov era ormai sconfitta, decine
di migliaia di soldati russi erano in rotta; dopo 28 giorni di
grandi sconvolgimenti la Prussia orientale tornava interamente nelle
mani della Germania52. I russi lasciarono oltre 30.000 morti sul
campo, tra di loro lo stesso generale Samsonov; dopo aver lasciato
Neidenburg per seguire da vicino le operazioni, Samsonov finì per
essere travolto dal caos della ritirata: incapace di fare qualsiasi
cosa, il 28, a cavallo, si diresse verso sud smarrendosi nelle
foreste; scesa l'oscurità si ritirò in disparte e senza che nessuno
degli uomini si accorse della sua mancanza, piuttosto che
sopravvivere al disastro si uccise con un colpo alla testa53.
Nel frattempo i tedeschi catturarono circa 125.000 prigionieri, 500
cannoni e diverse migliaia di cavalli. Ludendorff, su suggerimento
di Hoffmann, vergò il dispaccio al Kaiser datandolo invece che da
Frögenau, da Tannenberg, il luogo dove cinque secoli prima i
cavalieri teutonici erano stati massacrati da soverchianti forze
slave e lituane54. Ma l'effetto Tannenberg fu sminuito dal
fatto che sul fronte meridionale, in Galizia, la bilancia cominciava
a pendere a sfavore delle potenze centrali. La battaglia, che
passò alla storia con il nome di battaglia di Tannenberg, fu
definita dal generale e storico Edmund Ironside come:
« La più grave delle sconfitte subite da tutti i contendenti
durante la guerra55. »
La battaglia di Tannenberg non fu una seconda Canne ben
pianificata, come molti hanno sostenuto. L'obiettivo iniziale della
battaglia era quello di arrestare l'invasione e non circondare
l'esercito russo. L'idea di un duplice accerchiamento fu concepita
solo in un secondo tempo e fu realizzabile dalla persistente
passività di Rennenkampf56.
L'attacco alla Galizia
Nei settori a sud-est del fronte, gli austriaci non ebbero
altrettanto successo, anche perché furono costretti ad affrontare
forze preponderanti. L'offensiva della 1ª e della 4ª armata
austriache in Polonia aveva in un primo tempo realizzato qualche
progresso, ma questo esiguo vantaggio fu ben presto completamente
annullato dalla 3ª e dall'8ª armata russe che attaccarono il fianco
destro austriaco coperto dalle deboli 2ª e 3ª armata57. Il 18 agosto
quando penetrò nella Galizia austriaca, il generale russo Aleksej
Brusilov aveva al comando trentacinque divisioni di fanteria, che
impegnarono subito molto duramente le truppe di Francesco Giuseppe,
già peraltro duramente impegnate in Serbia58. Mentre i tedeschi
venivano fermati dai francesi sulla Marna abbandonando così ogni
velleità di una rapida vittoria, gli austriaci si battevano per non
essere ricacciati dai russi oltre la frontiera della Galizia. Il 10,
mentre i francesi iniziarono ad inseguire i tedeschi che ripiegavano
dalla Marna, a Kraśnik, nella Polonia russa, a un passo dal confine,
i russi sconfissero gli austriaci penetrati in forze nel loro
territorio. Più a sud, un'altra offensiva russa nella Galizia
austriaca, Conrad fu costretto a far ritirare le proprie truppe
quasi fino alle porte di Cracovia, allora in territorio
austro-ungarico59. Così scrisse il 13 settembre il filosofo Ludwig
Wittgenstein, volontario inquadrato nelle file austro-ungariche
spedite sul fronte orientale:
«Oggi, alle prime ore del mattino, abbiamo abbandonato la nave con
tutto il carico [...] i russi ci stanno alle calcagna. Ho assistito
a scene atroci. Non chiudo occhio da trenta ore, sono debolissimo e
non c'è da sperare in nessun aiuto esterno»
(dal diario di Ludwig Wittgenstein60.)
Mentre gli austriaci erano in grosse difficoltà, i tedeschi dopo
Tannenberg continuarono lentamente ad avanzare nelle provincie
polacche annesse alla Russia dal 1700, grazie al contributo
strategico di Hoffmann e dall'azione coordinata di Hindenburg e
Ludendorff. Mano a mano che i tedeschi penetravano in Polonia, i
russi schiacciavano gli austriaci in Galizia. In Polonia la
popolazione locale iniziò a perseguitare e infierire contro i
residenti ebrei che pure vivevano in quelle zone da secoli:
botteghe, case, sinagoghe vennero saccheggiate, e quasi ogni giorno
venivano impiccati o linciati ebrei accusati di patteggiare per i
tedeschi; che 250.000 ebrei prestassero servizio per l'esercito
russo non bastava a vincere i pregiudizi. Migliaia di ebrei furono
costretti ad abbandonare le proprie case e rifugiarsi all'interno
del territorio russo, lontano dal fanatismo che imperiava nelle zone
di guerra61.
Quanto stava accadendo costrinse i tedeschi ad accorrere in aiuto
dell'alleato; il grosso delle forze dislocate in Prussia orientale
fu raggruppato in una nuova 9ª armata e spedito nell'angolo
sud-occidentale della Polonia, da dove, in collegamento con una
nuova offensiva austriaca, cominciò ad avanzare verso Varsavia. Ma i
russi stavano ormai mobilitando il loro enorme potenziale umano, e
raggruppando le loro forze sferrarono un violento contrattacco che
respinse il tentativo austro-tedesco, accingendosi ad invadere la
Slesia in forze62.
Rapidi capovolgimenti di fronte
L'attacco della 9ª armata russa al fianco destro delle forze russe,
in quella che verrà ricordata come la battaglia di Łódź.
Il granduca Nicola costituì un'enorme falange di sette armate
- tre schierate nel mezzo e due per parte a proteggere i fianchi.
Un'altra armata, la 10ª, aveva invaso l'estremità più a est della
Prussia orientale e stava impegnando le deboli forze tedesche
schierate in quel settore. Gli Alleati speravano che il "rullo
compressore" russo iniziasse la sua poderosa avanzata. In Prussia
Hindenburg, Ludendorff e Hoffmann misero a punto un piano basato sul
sistema di linee ferroviarie che avrebbero consentito alle forze
tedesche di spostarsi rapidamente lungo il fronte. Ritirandosi
davanti ai russi, la 9ª armata riuscì inoltre a rallentare
l'avanzata nemica distruggendo sistematicamente le già scarse linee
di comunicazione esistenti in Polonia63.
Raggiunta la propria frontiera con largo anticipo sui russi, l'11
novembre, con il fianco sinistro protetto dalla Vistola la 9ª armata
sferrò un poderoso attacco verso sud-est contro il punto di
congiunzione tra la 1ª e la 2ª armata russa che proteggevano il
fianco destro delle forze russe. Dopo aver separato le due armate,
Ludendorff spinse il cuneo a fondo costringendo la prima armata a
ripiegare su Varsavia e riuscendo quasi ad infliggere una seconda
Tannenberg alla 2ª armata. Essa venne praticamente circondata nei
pressi di Łódź64 prima che la 5ª armata giunse a suo soccorso, e i
tedeschi rischiarono di subire la stessa sorte che avrebbe dovuto
infliggere ai russi, ma riuscirono ad aprirsi un varco e
ricongiungersi col grosso delle forze tedesche65.
Nel giro di una settimana altri quattro corpi d'armata tedeschi
arrivarono da occidente, dove l'attacco di Ypres si concluse con un
fallimento; anche se aveva ormai perso l'occasione per sfruttare il
successo, Ludendorff riuscì ad utilizzare le nuove forze per
ricacciare ancora più indietro i russi, i quali furono costretti a
ripiegare sulla linea dei fiumi Bzura e Ravka, davanti a Varsavia.
Gli insuccessi subiti e la mancanza di rifornimenti e scorte
indussero lo zar Nicola a sospendere i combattimenti ancora in corso
nei pressi di Cracovia, e a ripiegare su linee trincerate invernali
predisposte lungo i fiumi Nida e Dunajec, lasciando in mano nemica
la "striscia" polacca. Entrambi gli schieramenti ad est giunsero ad
un punto morto, con le forze attestate in solide linee trincerate66.
Sul fronte meridionale i russi penetrarono in breve tempo nella
Slesia austriaca e per la seconda volta in Ungheria.
Il 26 novembre Conrad propose di istituire la legge marziale in
Boemia, Moravia e Slesia, alle minoranze etniche dell'impero, per
prevenire insurrezioni che approfittassero della debolezza
dell'impero austriaco, ma la proposta fu respinta da Francesco
Giuseppe67. Con un contrattacco a Limanowa gli austriaci
ricacciarono indietro i russi dai Carpazi e dalla città di Bartfeld,
in Ungheria, allontanando le minacce che volevano la Polonia
austriaca sull'orlo di cedere. Con l'inverno alle porte e le
temperatura in rapida discesa il fronte si immobilizzò sulle queste
posizioni. Il 1º dicembre in Russia vennero mobilitati gli studenti,
che se da una parte ingrossavano le file dell'esercito, dall'altra
spalancava le porte dell'esercito agli agitatori bolscevichi che si
annidavano tra gli stessi studenti68.
Il secondo anno di guerra
A oriente come ad occidente il problema principale fu quello
di trovare una soluzione allo stallo del fronte, e i tedeschi furono
i primi a cercare di escogitare una soluzione. Il 31 gennaio i
tedeschi sperimentarono a Bolimów il gas lacrimogeno, ma l'effetto
andò a vuoto per l'effetto neutralizzante del freddo69. Sul
fronte orientale i combattimenti continuavano con dimensioni
gigantesche. Il 22 febbraio quando i tedeschi espugnarono Przasnysz
fecero prigionieri 10.000 russi, per poi lasciarne oltre 5.000
appena tre giorni dopo quando la città fu riconquistata dai russi70.
Il 22 aprile sferrarono ad Ypres una nuova offensiva ad occidente
con l'impiego della nuova arma chimica. Questo primo attacco fu di
natura sperimentale, non tattica; giacché inizialmente i tedeschi
non avevano preso nemmeno in considerazione di entrare a Ypres, le
riserve di granate a gas erano troppo limitate per sfruttare il
successo71. Gli Alleati, di tutta risposta contrattaccarono
frettolosamente; i francesi tra Lens e Arras e i britannici sul
crinale di Aubers. Le controffensive alleate si infransero
penosamente contro le difese tedesche e ciò convinse Falkenhayn che
il fronte avrebbe potuto tranquillamente reggere mentre ad ovest
venivano messi in opera i piani di attacco contro la Polonia
russa72.
Le offensive tedesche
Lo scopo di Falkenhayn era quello di alleggerire la pressione
sul fronte austriaco e allo stesso tempo ridurre le capacità
offensive della Russia. Per fare questo, Conrad propose, e
Falkenhayn accettò, un piano per sfondare al centro dello
schieramento russo nel settore del fiume Dunajec, tra l'alto corso
della Vistola e i Carpazi, punto in cui erano presenti pochi
ostacoli naturali. L'operazione fu affidata ad August von Mackensen,
il cui capo di stato maggiore e "cervello guida" era Hans von
Seeckt, l'uomo che dopo la guerra avrebbe ricostruito l'esercito
tedesco73. Al comando dell'11ª armata tedesca e alla 4ª armata
austro-ungarica, il duo Mackensen-Seeckt preparò il piano di
sfondamento contro i russi a Gorlice, in Galizia, che si risolse
nella più grande vittoria tedesca della guerra74.
Lungo un fronte di 40 chilometri presidiato da sei divisioni russe,
i tedeschi concentrarono in gran segreto quattordici divisioni e
1.500 pezzi d'artiglieria; dopo un breve ma intenso
cannoneggiamento, il 2 maggio 1915 l'11ª armata aprì una breccia
nella linea russa. Anziché piegare di lato e avvolgere sui fianchi i
russi, l'armata continuò ad avanzare in profondità nelle retrovie
nemiche. In dodici giorni le truppe attaccanti si spinsero avanti di
quasi 130 chilometri, sfondando la nuova linea difensiva sul fiume
San. Non più tardi del 22 giugno la Russia aveva perduto l'intera
Galizia e 400.000 uomini finiti in gran parte prigionieri75, mentre
i tedeschi avanzarono fino a Przemysl e Lemberg riuscendo a spezzare
il fronte russo in due tronconi76. Ma le enormi risorse umane
disponibili in Russia permisero in breve tempo di rimpiazzare le
400.000 perdite, per cui Falkenhayn cedette alle richieste di von
Seeckt di continuare l'offensiva, seppur con obiettivi limitati, ma
impose un cambiamento di rotta.
Invece di continuare verso est, von Mackensen dovette dirigere le
sue truppe verso nord risalendo l'ampio territorio tra il Bug e la
Vistola ove era schierato il grosso delle truppe russe.
Congiuntamente a questa manovra, Hindenburg ricevette l'ordine di
attaccare dalla Prussia orientale verso sud-est, oltre il Narew, in
direzione del Bug circondando Varsavia77. Ludendorff respinse il
piano perché temeva che la manovra avrebbe sì schiacciato le ali
dell'esercito russo, ma non avrebbe chiuso la direttrice di ritirata
delle forze russe; propose quindi una manovra a tenaglia di più
larghe vedute, in direzione Vilna e Minsk per intrappolare,
aggirando, l'esercito russo. Falkenhayn la respinse temendo che
richiedesse una maggior quantità di truppe e un maggior impegno. I
risultati dettero ragione a Ludendorff; il granduca riuscì a
districare le sue truppe dal saliente di Varsavia prima che la
tenaglia tedesca potesse chiudersi78.
La Bulgaria in guerra
Il 5 agosto i germanici erano entrati a Varsavia, sottratta
alla Russia per la prima volta dal 1815. Fu un grande successo per
gli Imperi centrali che ora puntavano alla Finlandia. Cominciò
quindi, in modo clandestino, il reclutamento di circa 2000 finnici
da schierare contro le truppe russe, e nonostante il pressante
controllo delle forze di polizia russe, nove mesi dopo i finlandesi
entrarono in azione sul fronte orientale.79. Il 17 agosto cadde
Kovno; in quel momento i prigionieri di guerra russi nei campi
tedeschi erano 726.694: altri 699.254 erano in mano austriaca, per
un totale di 1 milione, 425 mila e 848 prigionieri.
Le condizioni all'interno dei campi erano spesso estremamente
penose, nella primavera e nell'estate 1915 il tifo flagellava i
campi di Gardelegen e di Wittenberg. Ma i disagi si moltiplicavano
anche nella popolazione che iniziò un lento esodo che mise in
difficoltà ai mezzi diretti al fronte, costretti a fermarsi e
compiere azioni di retroguardia solo per frapporre un pò di spazio
tra loro e quella massa di uomini80. A metà agosto i tedeschi
avevano fatto 750.000 prigionieri e occupato l'intera Polonia, così
Falkenhayn decise di sospendere le operazioni su vasta scala sul
fronte orientale.
Concordata l'entrata in guerra della Bulgaria, il comandante supremo
dell'esercito tedesco decise che era ora di appoggiare l'attacco
congiunto austro-bulgaro contro la Serbia e allo stesso tempo
trasferire nuove truppe ad occidente per contenere la prevista
offensiva francese di settembre nello Champagne, giustificata anche
dalle continue disfatte dei russi, cui si aggiunse il 20 agosto la
resa di 90.000 uomini della fortezza di Novogeorgievsk81. Mackensen
fu inviato in Serbia e Ludendorff ebbe il consenso ad attuare
l'operazione verso Vilna, ma senza ulteriori appoggi che non siano
state le truppe già a sua disposizione82.
La grande ritirata dell'esercito russo
Ludendorff iniziò la sua offensiva il 9 settembre, quando i
due grandi cunei formati dall'armata dall'8ª armata di Otto von
Below (subentrato a François) e della 10ª armata di Hermann von
Eichhorn, si aprirono un varco nelle linee russe, l'una a est verso
Dvinsk e l'altra a sud-est verso Vilna. I russi furono ricacciati
indietro fino ai pressi di Minsk, ma l'esiguità delle forze tedesche
contrapposta al sempre maggiore concentramento russo, imposero a
Ludendorff di sospendere l'offensiva. Il successo dell'operazione
dimostrò la grossa possibilità di vittoria di un attacco sferrato in
forze alla Russia, annientandone la potenza militare con un minore
impiego di truppe. Ma la cauta strategia di Falkenhayn si sarebbe
dimostrata azzardata, ritardando di due anni l'uscita di scena della
Russia, che al contrario si sarebbe potuta liquidare con un maggior
impegno consentendo quindi di concentrare le truppe ad occidente ben
prima di quando effettivamente avvenne83.
Alla fine di settembre, dopo una lunga serie di attacchi tedeschi
atti ad accerchiare ed isolare i russi in ritirata, questa ritirata
di arrestò definitivamente lungo una linea dritta che correva da
Riga sul Baltico, a Czernowitz sulla frontiera con la Romania. Le
forze russe aveva pagato un prezzo rovinoso, mentre gli Alleati
fecero ben poco per ripagare il sacrificio che la Russia fece nel
1914 durante le prime fasi della guerra84. Parallelamente alla
ritirata dei soldati, anche la popolazione civile scappava dalle
zone di guerra il che moltiplicava il caos e le difficoltà nelle
retrovie. Migliaia e migliaia di rifugiati si dirigevano ad est per
necessità e paura visto che la tattica della terra bruciata messa in
atto dalle truppe russe in ritirata, oltre che danneggiare i
tedeschi, colpiva anche la popolazione russa e polacca85.
La situazione interna alla Russia
A seguito della lunga ritirata, in Russia lo scontento
dell'esercito assumeva le forme più svariate. Il 24 settembre 500
riservisti attaccarono la polizia alla stazione ferroviaria di
Pietrogrado per protesta contro la sospensione dell'attività della
Duma. Altre manifestazioni avvennero in luoghi molto distanti dal
fronte; a Rostov sul Don, e ad Astraham si furono le prime
manifestazioni contro la guerra. Cinque giorni dopo a Orša ci fu una
sollevazione di 2500 soldati convalescenti, persino i feriti si
levavano contro la guerra, alla quale, una volta guariti sarebbero
stati spediti86. A Helsinki marinai russi della corazzata Gangut e
dell'incrociatore Rurik protestarono contro la pessima qualità del
cibo e la severità degli ufficiali; ne vennero arrestati 50.
Il ministro delle finanze russo Petr Bark si precipitò in Francia
alla ricerca di crediti per sostenere il conflitto e per paura di
un'uscita russa dal conflitto a causa dei problemi economici,
Raymond Poincaré accettò cospicui prestiti. La Russia continuò così
a combattere e i suoi debiti ad aumentare87. Ma la Russia
necessitava anche di materie prime e prodotti finiti, così fece
richieste a Giappone, Gran Bretagna e Stati Uniti. Molti dei
materiali in arrivo per la Russia sbarcavano ad Arcangelo nel Mar
Bianco e le difficoltà in questo caso consistevano nel far arrivare
i rifornimenti da quella remota località, fino a Pietrogrado. Altro
porto in cui affluivano i rifornimenti Alleati era Murmansk, anche
in questo caso le difficoltà di collegare il porto a Pietrogrado
furono moltissime, e gli operai impegnati ad ampliare i collegamenti
ferroviari disertavano sempre più spesso. Si decise quindi di
impiegare i prigionieri di guerra tedeschi e austriaci; 15.000
furono inviati ai lavori nella ferrovia, ma ci volle oltre un anno
per completare la linea, che alla fine dei conti migliorò di poco i
collegamenti88.
Il 18 settembre in tedeschi entrarono a Vilnius nella Lituania
russa, facendo 22.000 prigionieri, due settimane dopo il quartier
generale tedesco si spostò a Kovno da dove nel 1812 Napoleone
osservò le proprie truppe attraversare il Niemen dirette verso
Mosca. Il trasferimento di Ludendorff a Kovno fu dettato anche dal
rancore contro la Russia, la quale aveva escluso la Germania dai
paesi baltici. Il suo progetto prevedeva che alla fine del conflitto
la Lituania e la Curlandia fossero governate da un principato
tedesco e vi insediassero coloni tedeschi. La germanizzazione dei
territori conquistati venne avviata subito; polacchi, lettoni e
lituani furono sottoposti alla legge marziale mentre i cittadini di
oregine tedesca furono nettamente favoriti. Fu vietata l'attività
politica e i comizi, i giornali furono censurati, i tribunali
presieduti da giudici tedeschi e gli organi amministrativi furono
messi sotto controllo dell'esercito89.
Il terzo anno di guerra
«La distruzione della macchina bellica russa è fuori questione»
(Conrad von Hötzendorf90)
Come nell'anno precedente l'inverno bloccò le operazione nel fronte
orientale, limitate a piccole azioni di pattugliamento e scontri
occasionali. Gli Imperi centrali controllavano il territorio
conquistavano ma i problemi nacquero, più che al fronte, all'interno
degli stessi paesi occupanti. L'Austria-Ungheria assunse nei
confronti delle minoranze al suo interno un atteggiamento
autoritario; a gennaio il tedesco fu proclamata lingua ufficiale
della Boemia. Nelle strade di Praga la polizia metteva mano al
manganello ogni qual volta sentiva parlare ceco. Ma a Vienna i
militari erano ben consapevoli dei grossi problemi che la guerra
creava, soprattutto perché l'esercito russo nonostante i rovesci
subiti, continuava a battersi con tenacia nei Carpazi91.
Sollevati dalla conclusione delle operazioni degli Alleati a
Gallipoli, i turchi trasferirono contro i britannici in Mesopotamia
36.000 soldati. Ma sul fronte del Caucaso il comandante russo
Nikolaj Nikolaevič Judenič, nonostante il freddo intenso che provocò
sintomi di assideramento a circa 2000 uomini, costrinse i turchi ad
arretrare fino a Erzurum. Le truppe zariste fecero 5000 prigionieri,
continuando ad incalzare i turchi verso ovest. Erano vittorie in
terre remote, ma servirono ai russi a risollevare il morale92. Alla
fine di febbraio del 1916, ad occidente, Falkenhayn iniziò la sua
offensiva a Verdun con l'intenzione di dissanguare l'esercito
francese, egli intendeva usare l'artiglieria per uccidere quanti più
soldati francesi possibile, spingendo così la Francia a rinunciare
all'alleanza con la Gran Bretagna e a cercare una pace separata93.
Subito i comandi francesi fecero pressioni alla Russia di sferrare
un attacco di alleggerimento per dirottare forze tedesche a
est. I russi quindi attaccarono presso il lago Naroch ma
dovettero ritirarsi perdendo all'incirca 12.000 uomini congelati. Il
14 aprile terminò la battaglia e il generale Brusilov presentò il
piano di una grande offensiva da sferrare in maggio: cominciò a
studiare i dettagli mentre i britannici si preparavano per la
campagna di luglio sulla Somme94. Se le truppe fossero davvero in
grado di lanciare una nuova grande offensiva è una questione ancora
aperta; il 10 aprile, giorno della Pasqua ortodossa, sul fronte
austriaco si erano verificati episodi di tregua spontanea e in quel
giorno di solenni celebrazioni i soldati di quattro reggimenti russi
avevano attraversato le linee austriache per fraternizzare con il
nemico. Gli austriaci ne fecero prigionieri oltre un centinaio, e il
18 aprile Brusilov si vide costretto a emettere ordini durissimi
contro le fraternizzazioni95.
L'offensiva di Brusilov
A maggio gli austriaci sferrarono una massiccia offensiva
contro le posizioni italiane in Trentino, e anche l'Italia si
appellò allo zar per diminuire la pressione sul proprio settore. I
comandi russi sapevano che non era possibile sferrare nuovi attacchi
per assistere gli italiani, data la situazione di truppe e
materiali, che andavano radunati e preparati per una prossima
decisiva offensiva da compiersi durante la stagione estiva96.
Solamente il generale Brusilov reagì positivamente alla richiesta,
Brusilov stava organizzando di attaccare in luglio, ma poiché sul
fronte italiano si combatteva aspramente, anticipò l'azione a giugno
per cercare di allentare la pressione sull'Italia, costringendo agli
austriaci di trasferire truppe da ovest ad est. Il generale Aleksej
Evert, comandante del gruppo d'armate ovest, era invece favorevole
ad una strategia difensiva, in opposizione alla strategia di
Brusilov, ma lo zar appoggiò i piani del nuovo arrivato, e vennero
delineati gli obbiettivi dell'offensiva, le città di Leopoli e
Kovel' perse l'anno precedente97.
L'offensiva iniziò con un potente tiro d'artiglieria, condotto da
1938 pezzi su un fronte di circa 350 km, dalle paludi di
Pripjat' fino alla Bucovina; poche ore di bombardamento bastarono
per mandare in nel caos le difese austriache98. Il 12 giugno
Brusilov annuciò che in otto giorni aveva catturato 2992 ufficiali
austriaci e 190.000 soldati, 216 cannoni pesanti, 645 mitragliatrici
e 196 obici. Un terzo delle truppe austriache che avevano
contrastato l'avanzata erano state fatte prigioniere. Cinque giorni
dopo i russi erano a Czernowitz, la città più orientale
dell'Austria-Ungheria99. La veloce avanzata russa però allungò le
linee di rifornimento, costringendo il rallentamento delle truppe in
avanzata, e solo l'intervento dello zar costrinse gli altri generali
ad inviare rinforzi a Brusilov. Ma il sistema ferroviario russo, in
pessime condizioni, rallentò i rinforzi e la possibilità di
impiegare notevoli forze d'artiglieria e nuove truppe. Alla fine di
luglio la città di Brody, alla frontiera della Galizia, cadde in
mano dei russi, che nelle due settimane precedenti avevano catturato
altri 40.000 austriaci. Ma anche le perdite russe non erano lievi, e
nell'ultima settimana di luglio Hindenburg e Ludendorff assunsero la
difesa dell'ampio settore austriaco.
Vennero formati battaglioni misti austro-tedeschi e vennero
richiesti rinforzi perfino ai turchi100. Ai primi di settembre
Brusilov raggiunse le pendici dei Carpazi, ma lì si arrestò per le
evidenti difficoltà geografiche, e soprattutto l'arrivo di nuove
truppe tedesche da Verdun arrestò la ritirata austriaca e inflisse
gravi perdite ai russi. L'offensiva volgeva al termine, questa
raggiuse l'obiettivo principale di distogliere importanti forze
tedesche dal settore di Verdun e soprattutto di costringere gli
austro-ungarici a levare truppe dal settore italiano, ma il
potenziale russo calò vistosamente. Problemi interni e carenze di
materiali stavano falcidiando le forze russe che dalla fine
dell'offensiva di Brusilov, non furono più capaci di sferrare
offensive contro gli Imperi centrali101.
La Romania entra in guerra
La Romania entrò in guerra il 27 agosto 1916, e la caduta di
Bucarest il 6 dicembre dello stesso anno segnò virtualmente la fine
del suo sforzo bellico e dell'ingiustificato ottimismo che aveva
salutato la sua entrata in guerra a fianco delle forze Alleate102.
L'opportunità di scendere in campo con gli Alleati, l'amicizia che
Nicolae Filipescu e Take Ionescu alle potenze occidentali e il
desiderio di liberare i fratelli della Transilvania oppressi dalla
dominazione austro-ungarica, ben più dura di quella che dovettero
subire i francesi in Alsazia e Lorena, convinsero l'opinione
pubblica romena che l'entrata in guerra avrebbe portato notevoli
vantaggi.
Tutto ciò unito ai successi dell'avanzata di Brusilov incoraggiarono
la Romania a compiere il passo decisivo, che l'avrebbe portata
nell'abisso. Qualche possibilità in più la Romania l'avrebbe avuto
se fosse scesa in campo prima, quando la Serbia era ancora una forza
attiva e la Russia una potenza degna di questo nome. I due anni in
più di preparazione avevano raddoppiato il numero di soldati, ma in
realtà ne diminuirono l'efficienza; mentre i suoi avversari avevano
sviluppato potenza di fuoco ed equipaggiamento, l'isolamento della
Romania e l'incapacità dei suoi vertici militari avevano impedito la
trasformazione di un esercito composto da uomini armati di baionetta
in una forza moderna103. Le forze romene allo scoppio delle ostilità
avanzarono ad ovest, che in teoria, avrebbe consentito una stretta
collaborazione con le forze russe avanzate in Bucovina.
La lentezza delle operazioni però precluse ogni possibilità di
vittoria o quanto meno di disfatta; l'avanzata romena ebbe inizio
nella notte tra il 27 e il 28 agosto, quando dodici divisioni si
misero in marcia verso i passi dei Carpazi, con l'intenzione di fare
perno sulla sinistra e poi, conquistata la pianura ungherese, far
convergere l'ala destra dello schieramento ad ovest104. Ma
l'avanzata romena si risolse con una enorme sconfitta; le lente
divisioni che attraversarono i Carpazi, consentirono a Falkenhayn
(da poco sostituito al comando supremo da Hindenburg e Ludendorff)
di ingrossare le file austro-ungariche con l'invio di divisioni
tedesche e bulgare. Questo permise a Ludendorff di arginare i romeni
sui Carpazi mentre Mackensen li attaccava da sud-ovest, e il 23
novembre li aggirava superando il Danubio. Nonostante la reazione
romena, la forza congiunta di Falkenhayn e Mackensen si dimostrò
insostenibile per un esercito obsoleto e mal guidato. Il 6 dicembre
gli austro-tedeschi entrarono a Bucarest continuando l'inseguimento
di un esercito ormai in rotta105. La maggior parte della Romania,
con i suoi sterminati campi di grano e i giacimenti petroliferi, era
ormai in mano nemica, l'esercito romeno ridotto all'impotenza e gli
alleati occidentali subirono un rovescio ben più grande di tutti i
vantaggi che avevano sperato di acquisire con l'entrata in guerra
della Romania106.
Il ruolo della marina
La piccola marina militare rumena era organizzata su una flottiglia
navale ed una fluviale: la prima allineava il piccolo incrociatore
protetto Elisabeta, quattro vecchie cannoniere, tre torpediniere ed
un pugno di mercantili armati, ma svolse prevalentemente compiti di
difesa costiera senza essere coinvolta in scontri particolari107.
Molto più attiva fu la seconda, potendo schierare sul corso del
Danubio quattro moderni monitori fluviali ed otto torpediniere: le
navi rumene furono attive nel supportare le unità terrestri nei loro
scontri contro le forze degli Imperi Centrali, distinguendosi nella
difesa di Tutrakan e mettendo in sicurezza il fianco delle truppe
russo-rumene schierate in Dobrugia. In ogni caso il supporto navale
ebbe un'influenza minima sull'andamento delle operazioni
belliche108.
Stravolgimenti a oriente
A partire dal 1º febbraio 1917, il kaiser Guglielmo II ordinò la
guerra sottomarina indiscriminata per convincere la Gran Bretagna a
sedersi nel tavolo delle trattative e cercare una pace. Intanto i
rapporti diplomatici tra Germania e Stati Uniti d'America andavano
deteriorandosi velocemente a causa del naviglio statunitense e di
Paesi neutrali affondato dagli U-Boot, e il 6 aprile il presidente
Woodrow Wilson dichiarò guerra alla Germania109.
L'esercito francese era in subbuglio, diserzioni di massa,
ammutinamenti e frequenti proteste contro i comandi, rei di una
strategia che non teneva conto delle enormi perdite, fecero
vacillare l'assetto dell'esercito al fronte. Joseph Joffre,
tuttavia, dichiarò che l'esercito francese era ancora in grado di
sopportare ancora una grande battaglia, ma che in seguito il suo
sforzo sarebbe diminuito progressivamente a causa della mancanza di
uomini110. Il peso della guerra cadde quindi sulle spalle dei
britannici, i quali avrebbero dovuto aspettare almeno un anno per
usufruire concretamente dell'appoggio statunitense. Ma i problemi
per l'Intesa non finirono qui; la temporanea panne della macchina
bellica francese fu accompagnato anche dal crollo prima parziale e
poi totale della Russia, che neppure l'entrata in guerra degli Stati
Uniti poté compensare per molti mesi, e dallo sfondamento
austro-tedesco in Italia, che quasi fece uscire di scena l'esercito
di Luigi Cadorna111.
Rivoluzione in Russia
Le enormi perdite della Russia, dovute ai difetti del suo
apparato bellico ma che comunque avevano evitato molti sacrifici
agli Alleati, aveva minato alle fondamenta la resistenza morale e
fisica del suo esercito112. Al fronte molti ufficiali russi non
riuscivano più a mantenere la disciplina. Il 17 febbraio diversi
squadroni di cavalleria di prima linea ricevettero munizioni e
l'ordine di portarsi nelle retrovie senza ricevere ragguagli
sull'obiettivo. Uno dei cavalleggeri, Georgij Žukov ricordò:
«Ben presto tutto fu chiaro. Da dietro l'angolo di una via sbucarono
i manifestanti con le bandiere rosse. [...] Un "cavalleggero alto"
tenne un discorso agli uomini in cui affermò che il popolo russo
vuole farla finita con la carneficina di questa guerra imperialista;
vuole la pace, la terra e la libertà. [...] Non ci fu bisogno di
ordini, i soldati gridarono e applaudirono mischiandosi ai
dimostranti»
(Georgij Žukov113)
Su tutto il fronte i bolscevichi incitavano gli uomini a rifiutarsi
di combattere e a partecipare ai comitati dei soldati per sostenere
e diffondere le idee rivoluzionarie. Dal fronte le agitazioni si
trasmisero alle città e alla capitale. A Pietrogrado il 3 marzo
scoppiò un violento sciopero negli stabilimenti Putilov, la
principale fabbrica di armamenti e munizioni per l'esercito. L'8
marzo gli operai in sciopero erano circa 90.000, il 10 marzo a
Pietrogrado fu proclamata la legge marziale, e lo stesso giorno il
potere della Duma fu messo in discussione dal Soviet cittadino del
principe menscevico Cereteli. Il 12, a Pietrogrado 17.000 soldati si
unirono alla folla che protestava contro lo zar, alle 11 del mattino
fu dato alle fiamme il tribunale sulla prospettiva Litejnyj e le
stazioni di polizia, era cominciata la prima rivoluzione russa114.
Lo zar fu costretto ad abdicare il 15 marzo 1917 e il governo
provvisorio di tendenze moderate si mise alla guida del paese, ma
senza successo. A maggio gli succedette un altro governo di tendenze
più socialiste capeggiato da Kerensky che nonostante le sempre
maggiori richieste di pace non ritirò le truppe dal fronte, anzi,
con Brusilov succeduto a Alexeiev quale comandante supremo, le forze
russe conseguirono successi iniziali contro gli austriaci a
Stanislau ma dovettero arrestarsi non appena la resistenza nemica si
irrigidì e crollarono subito sotto i contrattacchi nemici115.
All'inizio di agosto i russi furono cacciati dalla Galizia e dalla
Bucovina, e soltanto considerazioni politiche impedirono agli
austro-tedeschi di penetrare in Russia. Dopo la partenza di
Hindenburg e Ludendorff, il comando del fronte orientale passò a
Hoffmann, che, contemperando strategia militare e politica,
paralizzò le forze russe rendendo disponibili truppe tedesche sul
fronte occidentale e in minima parte sul fronte italiano. In
settembre i tedeschi colsero un'occasione propizia per sperimentare
nuovi metodi di bombardamento d'artiglieria; con un attacco a
sorpresa guidato da Oskar von Hutier, i tedeschi conquistarono Riga
senza quasi incontrare resistenza116.
Il 3 novembre arrivò a Pietrogrado la notizia che le truppe russe
sul Baltico avevano gettato le armi e fraternizzato con i tedeschi;
i soldati non obbedivano più al governo di Kerensky. La scintilla
scoppiò il 7 novembre quando poco dopo le 22 l'incrociatore Aurora,
alla fonda nella Neva annunciò che avrebbe fatto fuoco sul palazzo
d'Inverno, e sparò alcuni colpi a salve per dimostrare che non
scherzava. All'una di notte il palazzo era occupato dai bolscevichi,
Lenin fu eletto presidente del consiglio dei commissari del popolo e
governava la capitale russa117. Il loquace governo di Kerensky fu
spazzato via, i bolscevichi imposero al popolo russo un regime
comunista e in dicembre conclusero un armistizio con la Germania118.
La pace di Brest-Litovsk
Gli Imperi centrali erano euforici. In Italia gli austriaci si
trovavano nelle vicinanze di Venezia e i tedeschi si apprestavano a
trasferire 42 divisioni, più di mezzo milione di uomini, dal fronte
orientale a quello occidentale. I russi avevano deposto le armi e il
1º dicembre una commissione bolscevica lasciò Pietrogrado per
attraversare le linee tedesche a Dvinsk diretta verso la fortezza di
Brest-Litovsk dove una delegazione di tedeschi, austriaci, bulgari e
turchi li attendeva per intavolare le trattative di pace119.
Il 15 dicembre i negoziatori di Brest-Litovsk annunciarono la fine
dei combattimenti su tutto il fronte orientale, la Russia non era
più una potenza belligerante. Il 22 iniziarono quindi i negoziati
per un trattato di pace, ma le truppe russe non avevano finito di
combattere, ora si dovevano scontrare con le forze indipendentiste
dei vari paesi sotto il dominio russo e contro le forze lealiste, i
cosiddetti "Bianchi", era iniziata la guerra civile120. Le
trattative di pace furono complicate, a Lenin serviva tranquillità
lungo il fronte per fronteggiare le minacce interne, e allo stesso
tempo gli Imperi centrali reclamavano condizioni di resa durissime.
I tedeschi si rendevano conto che l'integrità territoriale della
Russia si stava velocemente disgregando, così si permisero di
richiedere condizioni ancor più dure dopo che il 21 febbraio i
bolscevichi accettarono le prime richieste. Il 24 febbraio dopo una
tempestosa discussione il comitato centrale accettò senza condizioni
le richieste dei tedeschi121.
La Russia esce dal conflitto
Nel frattempo che il trattato si delineava, le truppe tedesche
iniziarono ad avanzare ad est occupando Borisov, Dorpat e Narva sul
Baltico, il 2 marzo l'esercito tedesco entrò a Kiev, mentre più a
nord parevano decisi ad entrare a Pietrogrado. In due settimane,
senza quasi incontrare resistenza, i tedeschi catturarono 63.000
soldati russi, 2600 pezzi d'artiglieria e 5000 mitragliatrici, armi
molto utili per la campagna ad occidente122. Il trattato di pace
venne firmato alle 17 del 3 marzo, i russi rinunciarono a tutte le
pretese sulle provincie baltiche, sulla Polonia, la Russia Bianca,
la Finlandia, la Bessarabia, l'Ucraina e il Caucaso. Persero così un
terzo della popolazione dell'anteguerra, un terzo delle terre
arabili e nove decimi delle miniere di carbone. Inoltre cedettero
tutte le basi del Baltico eccetto Kronštadt, le navi da guerra del
Mar Nero di stanza a Odessa e a Nikolajev dovevano essere disarmate,
e 630.000 prigionieri austriaci furono liberati123.
La guerra ad oriente era finita, la Russia non era più in guerra; il
conflitto su due fronti, fin dal 1914 incubo per la Germania e
l'Austria-Ungheria, non esisteva più. La Germania trasferì così
tutto il potenziale a occidente, compreso tutto l'armamentario
conquistato durante l'avanzata in Russia precedente la firma del
trattato, avanzata con lo scopo di mettere pressione al governo
bolscevico e indurlo a firmare. Il 21 marzo Ludendorff sferrò una
grande offensiva ad occidente che, in caso di successo, avrebbe
consentito alla Germania di vincere la guerra124. Ludendorff sferrò
una serie di tre offensive per cercare di spezzare la resistenza
Alleata. L'ultima offensiva tedesca scattò il 14 luglio, ma ad
inizio agosto lo slancio tedesco su tutto il fronte cessò, mentre
quasi un milione di soldati statunitensi erano giunti in Francia a
dar manforte agli Alleati. Le truppe tedesche erano ad un soffio
dalla vittoria, ma esauste e dissanguate dalle enormi perdite
smisero di avanzare, anzi, cominciarono lentamente a indietreggiare,
in una lenta ritirata che terminò solo l'11 novembre 1918125
Conseguenze
A oriente gli Imperi centrali raccoglievano i frutti delle
loro vittorie. Il 7 maggio i romeni firmarono il trattato di
Bucarest che assicurava alla Germania il controllo militare della
foce del Danubio e dava alla Bulgaria i territori costieri che gli
furono tolti nella guerra balcanica del 1913. Cinque giorni dopo
Guglielmo II e Carlo I si accordarono per lo sfruttamento economico
dei territori dell'attuale Ucraina; la Germania ora controllava due
delle regioni più ricche della Russia prebellica, l'Ucraina e gli
stati baltici, aveva aiutato i finlandesi a cacciare i bolscevichi e
costituì il proprio protettorato nella neonata Repubblica georgiana
indipendente126. La Russia, devastata e sconvolta dalla guerra e
dalla rivoluzione, si stava nuovamente trasformando in un campo di
battaglia.
La Germania si ergeva quale bastione per il contenimento delle forze
bolsceviche in Europa, mentre nei porti di Vladivostok, Murmansk,
Pečenga e Arcangelo gli Alleati iniziarono a sbarcare truppe per
proteggere i depositi di materiale bellico inviato all'esercito
russo, per paura cadessero in mano ai bolscevichi, e nello stesso
tempo addestrare, armare e appoggiare le forze
controrivoluzionarie127. Nel maggio 1918 i tedeschi occuparono
Tbilisi, il 29 giugno la legione ceca arruolata nelle file degli
Alleati128 occupò il porto russo di Vladivostok, rovesciando il
locale governo bolscevico, che divenne protettorato Alleato. Anche i
giapponesi diedero manforte agli Alleati inviando 12.000 uomini a
Vladivostok. Se la Germania dominava la parte occidentale della
Russia ora gli Alleati si stavano facendo largo a est della Russia e
in Siberia129. I cechi dilagarono, il 25 luglio superarono il Volga
ed entrarono a Ekaterinburg, dove il 16 luglio fu giustiziata la
famiglia reale russa. Il 5 agosto 6500 francesi sbarcarono a
Vladivostok mentre i cechi conquistarono Kazan' e i tedeschi erano
ormai i padroni delle coste russe sul Mar Nero e sul mar Caspio, in
mezzo i bolscevichi a combattere per conservare il loro potere. In
quel mese le lotte per il potere raggiunsero l'apice, a Mosca, Lenin
fu ferito e alcuni suoi collaboratori uccisi da alcuni socialisti
che intendevano riprendere la guerra contro la Germania130.
Il 16 agosto anche gli statunitensi sbarcarono a Vladivostok, mentre
i britannici sbarcarono a Baku, in Persia, in un aperto atto di
sfida ai tedeschi e ai bolscevichi del Caucaso. Se volevano riavere
Baku, i bolscevichi dovevano inviare in Germania un terzo di tutta
la produzione petrolifera, in cambio la Germania avrebbe impedito un
attacco da parte della Finlandia. Ad inizio settembre fu siglato
l'accordo e il 22 agosto fu firmato un supplemento alla pace di
Brest-Litovsk in cui la Germania si impegnava a combattere gli
Alleati in Russia settentrionale in cambio del controllo di tutto il
naviglio della Marina rossa e le infrastrutture portuali del Mar
Nero131. A settembre però ci fu una svolta: a occidente i tedeschi
non erano più in grado di reggere l'urto degli Alleati, ora
spalleggiati fortemente dalle truppe statunitensi; gli
austro-ungarici, fallita l'ultima offensiva in Italia, iniziarono i
primi contatti per una pace separata mentre la Bulgaria stava ora
cedendo nei Balcani e il 30 settembre fu il primo degli Imperi
centrali a cedere definitivamente132.
Tra settembre e ottobre anche i tedeschi iniziarono a cedere
inesorabilmente ad occidente e nel fronte interno. Il 2 ottobre ci
fu la prima rivoluzione in Germania, il 7 la Polonia si proclamò
indipendente così come il 14 ottobre fece la Cecoslovacchia;
l'Impero asburgico si stava disgregando, e il 28 ottobre chiese un
armistizio agli Alleati. Intanto il 29 settembre la Bulgaria usciva
dal conflitto firmando l'armistizio di Salonicco, il 30 ottobre
l'Impero ottomano firmò l'armistizio di Mudros con gli Alleati e il
3 novembre l'Austria-Ungheria firmò l'armistizio di Villa Giusti con
l'Italia: ormai i nemici dell'ex Impero russo erano tutte fuori
combattimento e il neonato governo di Lenin iniziò una lenta
riconquista dei territori persi durante la guerra133. Intanto
l'intervento multinazionale contro la Russia bolscevica continuava;
vennero forniti uomini, munizioni, fucili, ma una delle ultime
decisioni della conferenza di Pace di Parigi fu quella di non
continuare la campagna in Russia, così il 18 novembre 1919 le ultime
unità statunitensi lasciarono Vladivostok134.
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• Benigno Roberto Mauriello, La
Marina russa durante la Grande Guerra, Genova, Italian University
Press, 2009. ISBN 978-88-8258-103-9
• Basil H. Liddell Hart, La
prima guerra mondiale, 2006, Milano, BUR [1968]. ISBN 88-17-12550-4
Campagna
di Serbia
La Campagna di Serbia fu l'insieme di operazioni austro-tedesche,
iniziate a fine luglio 1914 quando l'Austria-Ungheria invase la
nazione balcanica nei primi giorni della prima guerra mondiale. la
campagna durò fino alla fine del 1915, quando gli alleati, accorsero
in aiuto dell'alleato serbo affrontando il nemico su un fronte che
andava dal Danubio fino al sud della Macedonia, e risaliva verso
nord, coinvolgendo le forze di quasi tutte le nazioni partecipanti
alla guerra.
L'esercito serbo durante questa campagna perse la
maggior parte dei suoi effettivi, come pure forti, furono le perdite
tra la popolazione civile, che ammontarono a circa 1.100.000 perdite
sia tra le file dell'esercito che tra la popolazione.
Questa cifra
rappresentava oltre il 27% della popolazione complessiva, secondo il
governo jugoslavo in una indagine del 1924, la Serbia perse 265.164
soldati, ossia il 25%, di tutti gli uomini mobilitati, a confronto
della Francia che seppur con ben altre cifre, perse il 16,8%, oppure
della Germania che perse il 15,4% degli uomini mobilitati. Al
termine i resti dell'esercito serbo fu sgomberato da navi
dell'Intesa attraverso i porti del Montenegro prima a Corfù e da qui
in Libia.
Battaglie principali
• Battaglia di Kolubara,
• Battaglia della Cer,
• Battaglia del Kosovo (1915)
Teatro del
Medio Oriente della prima guerra mondiale
Data
2 novembre 1914 – 29 ottobre 1918
Luogo
Territori ottomani nel Caucaso ed in Medio Oriente, l'Anatolia, la
Persia ed i territori russi nel Caucaso
Il teatro di guerra del Medio Oriente durante la prima guerra
mondiale (2 novembre 1914 - 29 ottobre 1918) rappresenta l'insieme
delle campagne militari combattute dall'Impero Ottomano alleato alle
Potenze Centrali contro l'Impero Russo e l'Impero Britannico.
Accanto a queste tre potenze principali ebbero un ruolo importante
in questo teatro gli irregolari arabi che parteciparono alla Rivolta
Araba e le truppe volontarie armene, che inizialmente diedero vita
alla Resistenza armena contro gli ottomani e poi divennero le forze
armate della nuova Repubblica Democratica di Armenia. In questo
teatro di guerra, il più esteso geograficamente fra tutti i teatri
della prima guerra mondiale, vengono distinte cinque campagne
militari principali:
• Campagna del Sinai e della
Palestina
• Campagna della Mesopotamia
• Campagna del Caucaso
• Campagna di Persia
• Campagna dei Dardanelli
Sono state combattute altre tre campagne considerate minori:
• Campagna della Rivolta araba
• Campagna del Nord Africa
• Campagna di Yemen e del Sud
Arabia
Fanno parte di questo teatro di operazioni anche la Campagna di
Arabia e la Campagna di Aden. Caratteristica ricorrente nelle varie
campagne della regione del Medio Oriente fu la asimmetria fra le
diverse forze in conflitto. Non esiste una data unica che indica la
fine delle operazioni nel teatro: fra russi ed ottomani la guerra
terminò con l'Armistizio di Erzincan (5 dicembre 1917) a cui fece
seguito il Trattato di Brest-Litovsk (3 marzo 1918); la Conferenza
di pace di Trebisonda (14 marzo - 5 aprile 1918) ed il Trattato di
Batumi (4 giugno 1918) conclusero il conflitto fra ottomani ed
armeni; mentre la fine della guerra con gli Alleati Occidentali fu
l'Armistizio di Mudros (30 ottobre 1918), a cui fece seguito il
Trattato di Sèvres (10 agosto 1920).
Obiettivi
Impero ottomano
L'Impero Ottomano si unì alle Potenze Centrali nell'ottobre -
novembre 1914 dopo la firma del trattato segreto con la Germania1
firmato il 2 agosto 1914, trattato che metteva in pericolo i
territori del Caucaso russo e le comunicazioni attraverso il canale
di Suez fra la Gran Bretagna, i domini imperiali in India e gli
altri territori nel lontano oriente dell'Impero Britannico. Sul
fronte del Caucaso il principale obiettivo dell'Impero Ottomano era
la riconquista dei territori dell'Anatolia Orientale persi durante
la guerra russo-turca del 1877-78, pertanto obiettivi militari
immediati erano Artvin, Ardahan, la città fortificata di Kars ed il
porto di Batumi in GeorgiaWikipedia:Uso delle fonti
Un significativo successo delle operazioni militari degli ottomani
nella regione del Caucaso avrebbe obbligato i russi a difendere
questo "fronte secondario" con unità militari già dispiegate sul
fronte europeo2, pertanto una efficace campagna turca sul Caucaso
era vista con gran favore dai consiglieri miliari tedeschi. Altro
fattore economico-strategico di grande importanza, soprattutto per i
tedeschi, era la possibilità di avere libero accesso alle enormi
risorse di idrocarburi nell'area del mar Caspio3. I tedeschi avevano
costituito allo scoppio della guerra la Nachrichtenstelle für den
Orient, un ufficio di intelligence per l'oriente che aveva come
compito lo spionaggio e missioni di sabotaggio in Persia ed
Afghanistan, allo scopo di indebolire l'intesa fra russi e
britannici del 1907, un obiettivo che interessava anche
l'Impero Ottomano.
Il ministro della guerra ottomano Enver Pascià prevedeva che, se ai
russi fosse stato impedito di occupare le città chiave della Persia,
per gli ottomani ci sarebbe stata via libera verso l'Azerbaijan,
l'Asia Centrale e l'India. Una volta che tutte queste nazioni
fossero state rimosse dalla sfera di influenza occidentale, il
cosiddetto progetto pan-Turaniano di Enver prevedeva che si sarebbe
creata un'area di cooperazione fra questi nuovi stati nazionalistici
e l'impero ottomano.
Il progetto di Enver, a suo modo un anti-imperialista, entrava in
contrasto diretto con le complesse dinamiche dell'imperialismo
occidentale in Asia, che non si erano ancora assestate dopo anni di
conflitto. Enver riteneva che le potenze coloniali non avrebbero
avuto le risorse per portare avanti una lunga guerra mondiale ed
allo stesso tempo mantenere il controllo diretto su vasti territori
lontani dalla madrepatria. La visione di Enver si dimostrò in larga
parte esatta, anche se i risultati reali ottenuti dai diversi
movimenti di indipendenza nazionali durante la prima guerra mondiale
e nel primo dopoguerra non furono pari alle attese.Wikipedia:Uso
delle fonti Anche dopo la fine della guerra e la spartizione
dell'Impero Ottomano Enver continuò a perseguire i suoi obiettivi e
morì in combattimento il 4 agosto del 1922 lontano dalla Turchia,
presso Baldzhuan nel Turkestan, durante uno scontro contro un
battaglione armeno dell'Armata Rossa bolscevica comandato da Hagop
Melkumian.
Impero britannico
La britannica Anglo-Iranian Oil Company aveva acquisito in
esclusiva i diritti di sfruttamento dei giacimenti petroliferi
nell'Impero persiano4. Questi giacimenti erano considerati di
fondamentale importanza strategica, visto che nel 1914, prima dello
scoppio del conflitto mondiale, il governo britannico aveva
raggiunto un accordo con la Anglo-Iranian Oil Company per la
fornitura di carburante alla Royal Navy, pertanto era necessario
impedire agli ottomani di occupare i campi petroliferi5
Impero russo
Per la Russia il fronte del Caucaso rappresentava un fronte
secondario rispetto all'importanza del fronte orientale. La Russia
aveva conquistato nel 1877 la città fortezza di Kars durante la
guerra russo-turca e temeva una campagna degli ottomani sul Caucaso
che puntasse alla riconquista di Kars e del porto di Batumi. Nel
marzo 1915, durante un incontro con l'ambasciatore britannico George
Buchanan e con l'ambasciatore francese Maurice Paléologue, il
ministro degli esteri russo Sergej Sazonov, dichiarò che un durevole
accordo per il dopo-guerra avrebbe dovuto contemplare il passaggio
ai russi di Costantinopoli, dello stretto del Bosforo e dei
Dardanelli, del mar di Marmara, della Tracia meridionale fino alla
linea Enos-Midia e di parte della regione costiera turca sul mar
Nero fra il Bosforo, il fiume Sakarya ed un punto da determinarsi
vicino alla Baia di Izmit6. Il piano del governo zarista prevedeva
inoltre la sostituzione della popolazione musulmana dell'Anatolia
settentrionale e di Istanbul con i più affidabili coloni cosacchi7.
Armenia
Allo scoppio della prima guerra mondiale all'interno dell'Impero
Ottomano viveva una grande comunità armena, diffusa su gran parte
del territorio, ma concentrata soprattutto nella regione di confine
con la Russia. Fra i numerosi popoli che abitavano la regione del
Caucaso, il popolo armeno fu quello che ebbe certamente il ruolo più
attivo durante la Grande Guerra.
Il movimento di liberazione nazionale dell'Armenia aveva come
obiettivo finale la costituzione di una repubblica in Armenia. Il
principale partito politico degli armeni, la Federazione
Rivoluzionaria Armena (nota anche con il nome di Dashnak), raggiunse
questo obiettivo quando venne riconosciuta a livello internazionale
la Repubblica Democratica di Armenia nel maggio 1918, dopo il
collasso dell'Impero Russo e i caotici eventi seguiti alla
rivoluzione.
Inoltre, fin già dal 1915, fu costituita dai russi l'Amministrazione
dell'Armenia occidentale, che divenne poi la Repubblica dell'Armenia
Montanara; anche la Dittatura Centrocaspiana fu costituita nel 1918
con un contributo degli armeni.
Schieramenti militari
Impero Ottomano e Potenze Centrali
Dopo la Rivoluzione dei Giovani Turchi e l'avvio della Seconda era
costituzionale (in lingua turca İkinci Meşrûtiyet Devri) il 3 luglio
1908, prese il via anche una grande riforma militare. I quartier
generali dell'esercito furono modernizzati. L'impero ottomano fu
impegnato nella guerra italo-turca (1911-12) e nelle guerre
balcaniche (1912-13), che obbligarono altre azioni di
riorganizzazione dell'esercito, appena pochi anni prima dello
scoppio della guerra mondiale. Ogni quartier generale di armata
prevedeva un capo di stato maggiore, una sezione operativa, una
sezione di intelligence, una sezione logistica ed una sezione
dedicata al personale. Inoltre, seguendo una consolidata tradizione
dell'esercito ottomano, anche i dipartimenti di supporto per i
rifornimenti, la sanità ed i servizi veterinari erano inclusi
nell'organizzazione delle armate.
Nel 1914, prima che l'impero entrasse in guerra, le quattro armate
ottomane erano suddivise in corpi e divisioni, essendo ciascuna
divisione composta da reggimenti di fanteria ed un reggimento di
artiglieria. Prima della guerra le maggiori unità militari erano:
• la Prima Armata con 15
divisioni
• la Seconda Armata con 4
divisioni, una divisione indipendente di fanteria, con 3 reggimenti
ed una brigata di artiglieria
• la Terza Armata con 9
divisioni, 4 reggimenti indipendenti di fanteria e 4 reggimenti
indipendenti di cavalleria (unità tribali)
• la Quarta Armata con 4
divisioni
Nell'agosto 1914, delle 36 divisioni di fanteria in organico, ben 14
erano di nuova formazione; in breve tempo 8 delle nuove divisioni
furono ridispiegate. Durante la guerra mondiale, furono organizzate
altre armate: nel 1915 la Quinta e la Sesta Armata, nel 1917 la
Settima e l'Ottava Armata, nel 1918 la Kuva-i İnzibatiye (Forze
dell'Ordine) e l'Esercito islamico del Caucaso, costituito da un
solo corpo.
Dopo quattro anni di guerra, nel 1918, le armate ottomane erano
talmente logorate che lo Stato Maggiore fu costretto ad utilizzare
la definizione Gruppo d'armate per indicare una nuova organizzazione
delle unità: furono formati così il Gruppo di Armate Orientale e il
Gruppo di Armate Yıldırım (Gruppo di Armate "Folgore"). Comunque,
sebbene il numero di armate fosse aumentato nei quattro anni di
guerra, il flusso di risorse in termini di uomini e mezzi costituì
un continuo e grave problema, pertanto gli effettivi di un gruppo
d'armate del 1918 non erano in numero maggiore a quelli delle armate
del 1914.
Nell'ultimo anno di guerra l'esercito ottomano era ancora
sufficientemente organizzato ed in grado di condurre operazioni
militari in modo efficace.
Gran parte del materiale bellico degli ottomani fu fornito dai
tedeschi e dagli austro-ungarici, che si occupavano anche della
manutenzione. La Germania fornì anche un gran numero di consiglieri
militari. Una forza formata da truppe specializzate - l'Asia Korps -
fu inviata nell'impero nel 1917; l'anno seguente l'Asia Korps fu
rinforzato e comprendeva 2 reggimenti. La Germania organizzò
all'inizio del 1918 anche una seconda formazione militare, la forza
di spedizione tedesca in Caucaso, la cui zona di operazioni era l'ex
Transcaucasia russa. Primi obiettivi della forza di spedizione erano
mettere in sicurezza le forniture di petrolio per la Germania e
mantenere nella sfera di influenza tedesca la nuova Repubblica
Democratica di Georgia. Tali azioni portarono Impero Ottomano e
Germania vicine al conflitto, con scambi di accuse durante gli
ultimi mesi di guerra.
Potenze dell'Intesa
Impero russo
Al momento dello scoppio della guerra, sul confine del Caucaso la
Russia aveva schierato l'Armata del Caucaso, tuttavia circa metà
degli effettivi furono quasi subito ridispiegati sul fronte
orientale dopo le disfatte subite contro i tedeschi nelle battaglie
di Tannenberg e dei Laghi Masuri, lasciando così una forza di circa
60.000 uomini nel teatro meridionale.
Armenia
Nell'estate del 1914 furono organizzate delle unità di volontari
armeni per affiancare in combattimento le unità regolari
dell'esercito russo, in questo modo furono subito disponibili nella
guerra contro gli ottomani circa 20.000 volontari, arruolati anche
nelle città ottomane occupate dai russi8. I volontari armeni
aumentarono durante il corso della guerra, tanto che Boghos Nubar
dichiarò alla conferenza di pace di Parigi che tra le loro file si
contavano 150.000 uomini9.
Impero britannico
Fin dal 1914 alcune unità militari della British Indian Army erano
dislocate nella zona d'influenza britannica della Persia
meridionale. Queste unità avevano acquisito una notevole esperienza
nel confrontarsi con le forze tribali che si opponevano agli
occupanti stranieri. Successivamente i britannici costituirono la
Mediterranean Expeditionary Force (MEF), la British Dardanelles
Army, la Egyptian Expeditionary Force (AEF), ed infine nel 1917 la
Dunsterforce sotto il comando di Lionel Dunsterville, una unità che
raggruppava circa 1.000 australiani, britannici, canadesi e
neozelandesi supportati da autoblindo, che avevano il compito di
opporsi alle forze ottomane sul Caucaso.
Nel 1916 una Rivolta Araba cominciò nella regione di Hijaz. Circa
5.000 soldati regolari (in gran parte ex prigionieri di guerra di
origine araba) si unirono alle forze dei ribelli. Parteciparono
anche unità tribali irregolari guidate dall'emiro Faysal e da
consiglieri militari britannici, il più noto dei quali fu T. E.
Lawrence.
Francia
La Francia inviò in questo teatro la legione franco-armena, unità
aggregata alla Legione straniera. Il ministro degli esteri Aristide
Briand si era impegnato a mandare truppe secondo le clausole
dell'accordo Sykes-Picot, ancora mantenuto segreto10. Boghos Nubar,
leader dell'Assemblea Nazionale Armena, ebbe un incontro con Sir
Mark Sykes e Georges Picot dopo la firma dell'Accordo Franco-Armeno
del 1916. In seguito il generale britannico Edmund Allenby,
comandante dell'Egyptian Expeditionary Force, ampliò l'accordo
originale.Wikipedia:Uso delle fonti
La legione armena combatté in Palestina ed in Siria. A molti dei
volontari arruolati nella Legione straniera che riuscirono a
sopravvivere ai primi anni di guerra fu consentito di passare nei
ranghi dei rispettivi eserciti nazionali.Wikipedia:Uso delle fonti
Durante tutto il periodo di conflitto il Movimento di liberazione
nazionale dell'Armenia ebbe il controllo sui fedayyin armeni (in
lingua armena Ֆէտայի), noti anche come milizia armena. Nel 1917 il
Dashnak organizzò il Corpo Armeno sotto il comando del generale
Tovmas Nazarbekian. Questa unità militare in seguito alla
proclamazione nel 1918 della Repubblica Democratica di Armenia,
divenne la forza armata del nuovo Stato armeno, mentre Nazarbekian
divenne il primo comandante in capo dell'esercito.
Reclutamento ottomano
Il 12 maggio 1914 entrò in vigore una nuova legge per il
reclutamento nelle forze armate dell'impero ottomano, legge che
abbassava il limite di età per il reclutamento da 20 a 18 anni ed
aboliva il sistema della riserva o redif. La durata del servizio
militare era fissata a due anni per la fanteria, 3 anni per altre
specialità dell'esercito e 5 anni per la marina militare.
Durante la guerra il disposto della legge rimase largamente sulla
carta: tradizionalmente l'arruolamento nelle forze armate ottomane
si basava sui volontari provenienti dalla popolazione musulmana dei
territori dell'impero. Inoltre anche numerosi gruppi di persone
provenienti da altri settori della società ottomana si arruolarono
come volontari durante la guerra.
Furono formate anche unità militari composte da turchi del Caucaso e
della Rumelia, che presero parte alle campagne in Mesopotamia e
Palestina. I volontari non erano solo turchi: si arruolarono anche
volontari arabi e beduini che parteciparono alle campagne contro i
britannici in Mesopotamia e per la conquista del Canale di Suez.
Queste forze di volontari non fornirono un contributo sostanziale
alla guerra, inoltre erano ritenute inaffidabili rispetto alle forze
dell'esercito regolare, in quanto non erano truppe addestrate bene
al combattimento ed erano motivate solo dalla speranza di guadagno.
Nel momento in cui la guerra divenne ancor più dura il sistema dei
volontari cessò sostanzialmente di esistere.
Reclutamento armeno
Prima della guerra la Russia aveva organizzato un sistema di
arruolamento di volontari che sarebbe stato impiegato per la
Campagna del Caucaso. Nell'estate del 1914 le unità di volontari
armeni erano state reclutate ed inquadrate all'interno delle forze
armate russe; dato che i cittadini armeni di nazionalità russa erano
stati mobilitati ed inviati sul fronte orientale europeo, queste
unità di volontari erano formate esclusivamente da armeni di
cittadinanza non russa oppure non soggetti al servizio militare
obbligatorio.
Ai distaccamenti armeni viene attribuito un ruolo importante nei
successi militari ottenuti dai russi sul Caucaso nei primi due anni
di guerra: gli armeni conoscevano le regioni dove si combatteva, le
strade ed i passi montani, erano abituati alle condizioni climatiche
e soprattutto avevano grandi motivazioni e speranze che li
spingevano al combattimento11.
Le unità di volontari armeni erano piccole, molto rapide sul terreno
e perfettamente adeguate alle tattiche di guerriglia messe in
pratica contro gli ottomani12, furono di grande aiuto nel ruolo di
avanguardia e avanscoperta per le unità regolari russe e presero
parte a numerosi combattimenti13.
Forze asimmetriche
Nel vastissimo teatro militare del Medio Oriente parteciparono alle
diverse campagne non solo le unità degli eserciti regolari, ma anche
truppe irregolari, unità tribali, guerriglieri ed insorti: per
questa ragione il conflitto appartiene anche alla categoria nota
adesso come guerra asimmetrica.
Contrariamente a ciò che si ritiene, l'idea di una insurrezione
delle diverse popolazioni arabe all'interno dell'Impero Ottomano non
fu di T. E. Lawrence o dell'esercito britannico, ma provenne
dall'Arab Bureau del Foreign Office britannico. Questa idea si
concretizzò nella insurrezione nota col nome di Rivolta Araba.
L'Arab Bureau del Cairo riteneva che dal punto di vista strategico
sarebbe stata di grande efficacia una campagna di supporto alle
tribù e alle popolazioni separatiste all'interno dell'Impero
Ottomano. La campagna, condotta e finanziata dalle potenze
straniere, avrebbe obbligato il governo ottomano a destinare
notevoli risorse allo scopo di sedare le ribellioni. Le previsioni
dell'Arab Bureau si rivelarono corrette: per le iniziative di
contrasto alle ribellioni gli ottomani furono costretti a destinare
una quantità ingente di risorse, quantità ben superiore a ciò che
spesero gli alleati in supporto ai ribelli.
Sul fronte avversario la Germania aveva creato il Nachrichtenstelle
für den Orient (Ufficio di Intelligence per l'Oriente) fin
dall'inizio della guerra. Questa organizzazione aveva il compito di
promuovere e sostenere i movimenti nazionalisti, sovversivi e le
insurrezioni all'interno dell'India britannica (il Raj britannico),
in Persia ed in Egitto. Le operazioni di intelligence tedesco in
Persia, che avevano lo scopo di creare disordini e ribellioni
nell'area del golfo Persico, furono guidate da Wilhelm Wassmuss14,
un diplomatico tedesco noto anche come il "Lawrence d'Arabia
tedesco" o "Wassmuss di Persia".
La zona delle operazioni
La Campagna di Persia fu combattuta nell'Azerbaigian persiano e
nella Persia occidentale (le province dell'Azerbaigian orientale,
dell'Azerbaigian occidentale e di Ardabil), comprese le città di
Tabriz, Urmia, Ardabil, Maragheh, Marand, Mahabad e Khoy. La
Campagna di Gallipoli si svolse interamente nel territorio della
penisola di Gallipoli. La Campagna di Mesopotamia coinvolse le terre
bagnate dai fiumi Eufrate e Tigri, incluse le città di Bassora, Kut
e Baghdad. Il problema principale di quest'area di operazioni fu lo
spostamento di uomini e rifornimenti attraverso le paludi della
Mesopotamia ed i deserti che circondano la zona del conflitto.
La Campagna del Sinai e della Palestina ebbe luogo nella Penisola
del Sinai, in Palestina, ed in Siria, dal canale di Suez fino al
confine meridionale dell'odierna Turchia.
Le forze dell'Impero Ottomano furono impegnate soprattutto nella
difesa dei territori dell'impero, tuttavia circa 90.000 uomini
furono inviati sul fronte orientale nel 1916, per partecipare alle
operazioni in Romania durante la campagna dei Balcani.
Le Potenze Centrali avevano richiesto agli ottomani di inviare delle
truppe in supporto alle operazioni militari contro l'esercito russo
sul fronte orientale. In seguito si ritenne che questa decisione
fosse stata un errore, dato che queste forze sarebbero state
maggiormente utili nella protezione del territorio ottomano quando
era in corso la massiccia offensiva di Erzurum. La decisione di
inviare un contingente ottomano sul fronte orientale fu presa da
Enver. Inizialmente Erich von Falkenhayn, capo di stato maggiore
tedesco, aveva rifiutato questo aiuto, mentre il suo successore,
Paul von Hindenburg, accettò l'offerta anche se non pienamente
convinto.Wikipedia:Uso delle fonti
La decisione di mandare dei rinforzi ottomani fu presa dopo
l'offensiva Brusilov, quando le Potenze Centrali si ritrovarono a
corto di uomini sul fronte orientale. All'inizio del 1916 Enver
inviò il XV Corpo in Galizia, il VI Corpo in Romania, ed il XX Corpo
ed il 177º reggimento di fanteria in Macedonia. Fonti turche
riportano che per queste operazioni furono inviati rispettivamente
117.000 e 130.000 uomini, dei quali circa 8.000 morirono in
combattimento, mentre altri 22.000 furono feriti.Wikipedia:Uso delle
fonti
Zone di supporto
Gli ottomani speravano di riuscire a ridurre l'impegno dei
britannici nel teatro del Medio oriente attraverso la campagna del
Nord Africa del vicino teatro africano. Essi avevano mantenuto una
presenza militare in Nord Africa sin dai tempi della guerra
italo-turca del 1911-12. Enver supportava le azioni di resistenza in
Libia al regime coloniale italiano anche per le affinità religiose
fra turchi e popolazione libica.
La nascita del nuovo nazionalismo libico fu alimentato da questa
resistenza agli italiani. L'influenza dei Senussi era maggiore in
Cirenaica, dove questi erano riusciti a liberare la regione dalle
agitazioni e dall'anarchia concedendo alle locali popolazioni
tribali unità di intenti.Wikipedia:Uso delle fonti All'inizio del
1915 l'Italia ed Impero Ottomano non erano in guerra.
Sul teatro libico combatterono in supporto dei senussi circa 500
militari ottomani fra soldati ed ufficiali, mentre la milizia dei
senussi schierava fra 15.000 e 30.000 uomini, secondo fonti turche
ed italiane. Allo scoppio della guerra la milizia senussi era una
forza ben addestrata sotto la guida di ufficiali ottomani del
servizio segreto Teşkilat-ı Mahsusa. Quando l'Italia dichiarò guerra
alle Potenze Centrali il 24 maggio 1915, la guerra fra italiani e
senussi divenne parte del conflitto mondiale e lo Stato Maggiore
ottomano mandò consiglieri ed armi ad Ahmad al-Sharif, l'uomo che
guidava la ribellione dei senussi col titolo di
Amir-al-Muminin.Wikipedia:Uso delle fonti
Gli agenti tedeschi e ottomani inoltre incoraggiavano le ribellioni
contro gli alleati in Libia e Marocco (che era stato annesso alla
Francia nel 1912), e queste regioni non erano in pieno controllo
alleato quando la guerra cominciò in Europa. Armi leggere furono
consegnate agli insorti utilizzando gli U-Boot partiti dalle coste
della Germania o dell'Austria-Ungheria, oppure attraverso paesi
neutrali come la Spagna. I senussi ottennero un certo successo nel
Sahara, respingendo gli italiani da Fezzan e bloccando britannici e
francesi nelle regioni di frontiera di Egitto e Algeria. Al termine
della prima guerra mondiale la Libia era ufficialmente fuori dal
controllo ottomano, tuttavia militari ottomani rimasero nella
regione fino ai primi mesi del 1919. Le rivolte dei berberi in
Marocco e Libia proseguirono anche dopo la fine della guerra, fino a
quando furono definitivamente sedate (in Libia) alla fine degli anni
venti da Rodolfo Graziani, che era al comando delle forze italiane
incaricate di pacificare i senussi. Durante questa "pacificazione"
morirono decine di migliaia di prigionieri libici.
Cronologia
Preludio
Nel luglio 1914 la situazione politico-diplomatica ottomana
cambiò in modo drastico a seguito degli eventi in Europa. L'impero
ottomano concluse un accordo segreto con la Germania il 2 agosto
1914, accordo al quale fece seguito un altro trattato con la
Bulgaria.
Il ministero della guerra ottomano sviluppò due principali piani
militari. Bronsart von Schellendorf, membro della missione militare
tedesca presso l'impero, che era stato nominato assistente capo
dello stato maggiore ottomano, il 6 settembre 1914 mise a punto un
piano strategico che prevedeva un attacco verso l'Egitto da parte
della Quarta Armata ed in Anatolia Orientale un attacco contro i
russi da parte della Terza Armata. Nell'alta gerarchia militare
ottomana c'era opposizione al piano di Schellendorf. L'opinione più
diffusa era che Schellendorf pianificava una condotta militare che
avrebbe portato benefici alla Germania, piuttosto che tenere conto
delle effettive condizioni dell'Impero Ottomano. Hafız Hakkı Pascià
presentò un piano alternativo che era più aggressivo e concentrato
sulla Russia. Il piano era basato sullo spostamento di forze via
mare verso la costa orientale del mar Nero, dove queste avrebbero
condotto un'offensiva contro i russi. Il piano di Hakkı fu
accantonato dato che l'esercito ottomano mancava di risorse,
pertanto fu adottato lo schema di Schellendorf, con il risultato che
le operazioni militari ottomane furono combattute in territorio
ottomano, portando con sé le inevitabili conseguenze sulle
popolazioni civili ottomane. Anche il piano di Schellendorf mancava
delle risorse necessarie per condurlo in modo efficace, ma il
generale tedesco organizzò in modo adeguato la struttura di comando
e controllo dell'esercito e schierò le armate secondo lo schema del
piano. L'azione di Schellendorf produsse anche un migliore piano di
mobilizzazione per il reclutamento delle truppe e la loro
preparazione per la guerra.
Lo studio dei documenti storici conservati presso l'archivio del
ministero della guerra ottomano ha permesso di recuperare i piani di
guerra abbozzati da Schellendorf e datati 7 ottobre 1914. Questi
abbozzi includevano un supporto ottomano all'esercito bulgaro, una
operazione segreta contro la Romania, delle operazioni di sbarco di
truppe ottomane a Odessa ed in Crimea con il supporto della Marina
Tedesca.
Uno degli aspetti dell'influenza tedesca sulle operazioni
militari ottomane fu che durante la campagna di Palestina, la
maggior parte dei ruoli di comando nello stato maggiore del gruppo
di armate Yıldırım fu assegnata a ufficiali tedeschi. Anche la
corrispondenza fra i quartier generali era condotta in tedesco.
Questa situazione terminò con la disfatta finale in Palestina e
l'incarico assegnato a Mustafa Kemal di comandare ciò che restava
del gruppo di armate Yıldırım.
Durante il luglio 1914 ci furono negoziati fra il Comitato per
l'Unione ed il Progresss (CUP), un'organizzazione politica turca, e
gli esponenti armeni riuniti al Congresso armeno di Erzurum. La
conclusione pubblica del congresso fu "di portare avanti in modo
pacifico le richieste armene mediante mezzi legittimi"15. Il CUP
invece ritenne che questo congresso avesse deciso per l'insurrezione
degli armeni con l'aiuto dei russi1617.
Il 29 ottobre 1914 ci fu il primo scontro militare fra ottomani ed
alleati, quando due navi da guerra tedesche, l'incrociatore da
battaglia Goeben e l'incrociatore leggero Breslau, che erano stati
inseguite dalla Mediterranean Fleet e si erano rifugiate in acque
territoriali ottomane, passarono sotto controllo degli ottomani e
bombardarono Odessa, porto russo sul mar Nero.
1914
Novembre
In novembre il Primo Lord dell'Ammiragliato Winston Churchill
propose un suo piano per un attacco navale alla capitale dell'impero
ottomano, piano basato in parte su un poco preciso rapporto
preparato dal tenente T. E. Lawrence contenente informazioni
relative allo stato delle forze ottomane. L'idea era che la Royal
Navy aveva a disposizione un gran numero di navi da guerra obsolete
che avrebbero però potuto dimostrarsi utili in questo attacco, se
supportate da un minimo numero di forze terrestri destinate ai
compiti di occupazione. Le navi da guerra avrebbero dovuto essere
pronte per il febbraio 1916.
Nel frattempo all'interno della Quarta Armata Ottomana si stava
organizzando una forza di 20.000 uomini agli ordini del ministro
della marina Djemal Pascià con l'obiettivo di conquistare il canale
di Suez. L'attacco verso Suez era stato suggerito dal ministro della
guerra Enver Pascià per venite incontro alle richieste dell'alleato
tedesco. Il capo di stato maggiore della Quarta Armata era il
colonnello bavarese Kress von Kressenstein che pianificò l'attacco e
organizzò i rifornimenti attraverso il deserto per le unità che
avrebbero condotto l'attacco.
Il primo novembre, in anticipo di un giorno rispetto alla
dichiarazione di guerra dei russi18, ebbe inizio l'offensiva
Bergmann, il primo evento bellico della Campagna del Caucaso. Le
unità russe attraversarono la frontiera con l'obiettivo di
conquistare Doğubeyazıt e Köprüköy19. Sul settore destro il I Corpo
russo mosse da Sarıkamış in direzione di Köprüköy. Sul settore
sinistro il IV Corpo russo mosse da Erevan verso l'altopiano
Pasinler.
L'offensiva dei russi si concluse senza risultati significativi. Sul
fronte opposto il comandante della Terza Armata Ottomana Hasan Izzet
non era favorevole a una offensiva da condursi durante il terribile
inverno della regione del Caucaso. La sua linea d'azione - di
rimanere sulla difensiva e passare al contrattacco solo quando si
fosse presentata la giusta occasione - fu messa da parte dal
ministro della guerra Enver.
Intanto sul fronte mesopotamico il 6 novembre 1914 una forza navale
britannica aprì il fuoco sul vecchio forte di Al Faw. Al
bombardamento seguì lo sbarco di Faw della Forza di Spedizione
Indiana D (IEF D), che comprendeva la sesta divisione indiana
(Poona) guidata dal tenente generale Arthur Arnold Barrett, con Sir
Percy Cox come ufficiale politico. La difesa di Al Faw era affidata
a un piccolo contingente di soldati ottomani, formato da 350 uomini
con 4 cannoni. Il 22 novembre i britannici conquistarono la città di
Bassora dopo aver sconfitto una forza composta da 2.900 coscritti di
nazionalità araba, una forza che faceva parte del Comando di Area
dell'Irak agli ordini di Suphi Pasha. Suphi Pasha ed altri 1.200
uomini furono presi prigionieri. Il quartier generale dell'armata
principale ottomana in questo teatro, sotto il comando di Khalil
Pasha, era a circa 440 km di distanza nei pressi di Baghdad.
Dopo la sconfitta gli ottomani non provarono a riconquistare
Bassora.
Il 7 novembre cominciò la controffensiva della Terza Armata sul
Caucaso, che impegnò l'XI Corpo e divisioni di cavalleria supportate
dal reggimento tribale curdo. Entro il 12 novembre il IX Corpo di
Ahmet Fevzi Pascià rinforzato dall'XI Corpo sul fianco sinistro e
supportato dalla cavalleria costrinse i russi a cedere terreno. I
russi ebbero successo sul settore meridionale dell'offensiva, dove i
volontari armeni si dimostrarono efficaci e conquistarono Karaköse e
Doğubeyazıt20. Alla fine di novembre i russi controllavano un
saliente di 25 km in territorio ottomano sull'asse
Erzurum-Sarıkamış.
Dicembre
Dicembre 1914: Il primo battaglione armeno, sotto il comando di
Andranik, in marcia fra i distretti di Salmast e Urmia in Persia21
In dicembre, nel momento più critico della battaglia di
Sarikamis, il generale Myšlaevskij ordinò il ripiegamento delle
forze russe impegnate nella campagna di Persia per essere impiegate
a contrastare l'offensiva di Enver. Solo una brigata russa sotto il
comando del generale armeno Nazarbekov ed un battaglione di
volontari armeni rimase in posizione fra Salmast ed Urmia.
Mentre gli ottomani preparavano le operazioni militari in Persia, un
piccolo contingente di truppe russe attraversava la frontiera
persiana. Un'azione russa fra Van e le montagne sul confine persiano
fu respinta dalla divisione della gendarmeria di Van, una piccola
formazione paramilitare comandata dal maggiore Ferid, che respinse
il nemico verso la Persia. Il 14 dicembre la gendarmeria di Van
occupava la città di Kotur, mentre in seguito l'unità mosse verso
Hoy, allo scopo di aprire la strada alla V Forza di Spedizione di
Kazım Bey ed alla I Forza di Spedizione di Halil Bey, che erano in
procinto di avanzare su Tabriz dal punto di partenza stabilito a
Kotur. Tuttavia gli effetti della battaglia di Sarikamıs ridussero
in modo drastico gli effettivi degli ottomani e queste due forze di
spedizione divennero indispensabili altrove.
Il 22 dicembre la Terza Armata Ottomana ricevette l'ordine di
avanzare sulla città di Kars, capitale del Caucaso russo. Enver
prese direttamente il comando della Terza Armata e mise in
esecuzione il piano militare da lui preparato in collaborazione con
lo Stato Maggiore della missione militare tedesca, un piano
ambizioso che avrebbe invece portato alla disastrosa battaglia di
Sarikamis. Temendo i possibili effetti catastrofici sul fronte russo
della veloce e imponente avanzata della Terza Armata, il governatore
del Caucaso Voroncov decise la ritirata dell'armata del Caucaso
verso Kars. Il comandante dell'armata, il generale Judenic, preferì
ignorare gli ordini del governatore.
1915
Gennaio - Marzo
Il 2 gennaio Süleyman Askeri Bey assunse il comando ottomano
dell'area dell'attuale Iraq. Enver Pascià aveva compreso che era un
errore sottovalutare l'importanza della campagna di Mesopotamia,
tuttavia l'esercito ottomano non aveva risorse disponibili da
trasferire in questa regione, nell'imminenza dell'attacco alleato su
Gallipoli. Süleyman Askeri Bey inviò dei messaggi ai notabili arabi
della Mesopotamia per convincerli a dare il loro supporto nella
guerra contro i britannici. Il 3 gennaio le forze ottomane
occuparono Kurna per provare a riconquistare la città di Bàssora.
Tuttavia la situazione a Kurna si fece insostenibile per gli
ottomani, sottoposti al fuoco dei vascelli della Royal Navy sul
fiume Eufrate mentre truppe britanniche muovevano per attraversare
il Tigri, minacciando di tagliare la linea fra Kut e Qurna. Avendo
valutato di non essere in grado di superare l'imponente sistema
difensivo britannico attorno Bàssora, gli ottomani abbandonarono le
posizioni a Kurna, dove furono anche presi prigionieri dai
britannici un migliaio di soldati.
Sul Caucaso il 6 gennaio il quartier generale della Terza Armata si
trovò sotto il fuoco nemico. Hafız Hakkı Pasha ordinò la ritirata
generale dopo la disfatta nella battaglia di Sarikamis, tuttavia
solo il 10% degli effettivi dell'armata fu in grado di ritornare
sulle posizioni iniziali. Il ministro Enver lasciò il comando
dell'armata. Durante tutto il periodo dell'offensiva invernale
ottomana, reparti armeni svolsero azioni di disturbo contro le
operazioni degli ottomani, cosicché "il ritardo conseguente [delle
truppe ottomane] consentì all'Armata del Caucaso di concentrare
forze sufficienti attorno a Sarıkamış"22.
I britannici ed i francesi chiesero alla Russia un impegno maggiore
per allentare la pressione tedesca sul fronte occidentale, ma alla
Russia occorreva tempo per organizzare le sue forze sul fronte
orientale. L'arrivo di nuove e più moderne unità navali russe stava
cambiando il rapporto di forze per il predominio sul mar Nero;
mentre la battaglia di Gallipoli allontanava un gran numero di forze
ottomane dal fronte russo e dagli altri fronti23, anche se nel marzo
1915 due divisioni della Prima e della Seconda Armata Ottomana
venivano inviate come rinforzo alla Terza.
In febbraio il generale Judenič fu posto al comando dell'Armata del
Caucaso, in sostituzione del generale Myšlaevskij. Il 12 febbraio il
nuovo comandante della Terza Armata Ottomana, Hafız Hakkı, moriva di
tifo e veniva sostituito dal Brigadier generale Mahmut Kamil Pascià.
Kamil si impegnò a rimettere in efficienza la Terza Armata, dopo la
disfatta di Sarıkamış. Sul settore meridionale intanto l'impero
ottomano puntava alla conquista del canale di Suez attraverso la
prima offensiva di Suez, ed al tempo stesso dava il suo supporto al
recentemente deposto Abbas II d'Egitto, ma i britannici bloccarono
entrambi i tentativi.
La campagna di Gallipoli
All'inizio del 1915 si apriva per l'impero ottomano un nuovo fronte
di guerra. Il 19 febbraio una flotta anglo-francese, che includeva
la moderna nave da battaglia HMS Queen Elizabeth, iniziava il
bombardamento delle postazioni fortificate ottomane sullo stretto
dei Dardanelli. L'ammiraglio Sackville Carden inviò il 4 marzo un
dispaccio al primo lord del mare Winston Churchill che annunciava
l'arrivo della flotta alleata a Costantinopoli entro due
settimane24.
Il 18 marzo fu lanciato il primo grande attacco che aveva come
obiettivo il forzamento degli stretti turchi. La flotta alleata, che
comprendeva 18 navi da battaglia ed un gran numero di incrociatori e
cacciatorpediniere, aprì il fuoco sul punto più stretto dei
Dardanelli, dove lo stretto è largo appena un miglio. La nave da
battaglia pre-dreadnought francese Bouvet esplose dopo aver urtato
una mina, e, dopo essersi capovolta, si inabissò con tutto
l'equipaggio. I dragamine, i cui equipaggi erano formati da civili,
erano sotto il costante fuoco delle batterie ottomane e furono
costretti a ritirarsi, lasciando non bonificata dalle mine
quell'area di mare. La nave da battaglia HMS Irresistible e
l'incrociatore da battaglia HMS Inflexible furono pesantemente
danneggiati dalle mine, benché nella confusione della battaglia si
pensò anche a un siluramento. La nave da battaglia HMS Ocean,
inviata in soccorso della Irresistible, fu anch'essa danneggiata
dalle mine ed alla fine entrambe le navi affondarono. Anche le navi
da battaglia francesi Suffren e Gaulois furono pesantemente
danneggiate. Queste perdite convinsero gli alleati a rinunciare al
tentativo di forzare gli stretti attraverso l'impiego esclusivo
della potenza navale.
Aprile - Giugno
A seguito dei successi inattesi in Mesopotamia, il comando
britannico riconsiderò il suo piano in favore di un atteggiamento
più aggressivo. Nell'aprile 1915 fu inviato il generale John Nixon
come nuovo comandante. Egli ordinò al maggiore generale Charles
Townshend di avanzare verso Kut o anche verso Baghdad se fosse stato
possibile.
Campagna
dei Dardanelli
La campagna dei Dardanelli (19 febbraio 1915 - 9 gennaio 1916),
detta anche campagna o battaglia di Gallipoli, fu il primo esempio
di invasione dal mare dei tempi moderni, e può essere considerata
uno dei più clamorosi insuccessi della Triplice Intesa durante la
prima guerra mondiale. Fortemente voluta e caldeggiata dal giovane
Primo Lord dell'Ammiragliato dell'epoca, Winston Churchill, presentò
subito una lunga serie di difficoltà logistiche e organizzative, e
venne condotta con eccessiva superficialità. Le oltre 150.000
perdite in vite umane, tra anglo-francesi, australiani, neozelandesi
e turchi, vennero sacrificate per quello che militarmente fu un
"nulla di fatto". Va inserita nel contesto iniziale della prima
guerra mondiale, quando ancora le tattiche e la psicologia dei
vertici restavano legati alla classica guerra di movimento e alla
"politica delle cannoniere", mentre invece i nuovi armamenti la
rendevano una guerra di posizione, insostenibile quindi per un
invasore dal mare.
Necessità di agire e richieste della Russia
Le incredibilmente pesanti sconfitte subite dall'impero russo ad
opera dei tedeschi in Prussia Orientale, a Tannenberg e sui Laghi
Masuri, unita all'offensiva turca sul fronte del Caucaso e alla
cronica penuria di munizionamento per le forze armate, avevano reso
piuttosto critica per l'Intesa la situazione del fronte orientale
alla fine del 1914.
Il granduca Nicola, comandante in capo dell'esercito russo, fece
all'inizio dell'anno dei passi presso l'ambasciatore britannico
perché venisse effettuata una "dimostrazione" di forza contro
l'Impero ottomano. Il consiglio di guerra britannico, riunitosi il
13 gennaio, diede ordine all'Ammiragliato di organizzare uno sbarco
in forze sulla penisola di Gallipoli, che dominava lo stretto dei
Dardanelli, da attuarsi nel mese successivo. Lo Stretto
costituiva – attraverso il Mar di Marmara e il Mar Nero – lo sbocco
dei russi nel Mediterraneo: di lì passava la metà del traffico
commerciale, e i nove decimi delle esportazioni russe di grano.
Il controllo dei Dardanelli era dunque il rubinetto per i
rifornimenti dell'alleato russo. Inoltre, la Turchia aveva due sole
fabbriche di munizioni, sulla costa presso Costantinopoli, che
sarebbero state a tiro dei cannoni di una flotta che avesse forzato
lo stretto.
Il piano messo a punto prevedeva degli sbarchi lungo lo stretto per
l'occupazione dei forti turchi, dopo però che importanti forze
navali avessero forzato lo stretto stesso e messo sotto tiro
Costantinopoli con i grossi calibri. A quel punto sarebbero
intervenute altre unità francesi, britanniche e russe destinate a
occupare la città e il Bosforo. Questo piano, messo a punto in
mancanza di forze sufficienti per una vera e propria invasione in
massa (si stimava fossero necessari almeno 100.000 uomini) era
viziato dalla estrema difficoltà di un forzamento navale dei
Dardanelli.
Per quanto la Turchia non disponesse di una apprezzabile forza
navale, lo stretto era abbastanza angusto da rendere pericolosissimi
i pochi campi minati che gli ottomani avevano posato, senza contare
i forti a guardia degli stretti che erano in una posizione di
vantaggio, benché dotati di armamenti antiquati.
Sul campo quindi si presentava una situazione analoga a quella a cui
si erano trovati i contendenti della passata guerra russo-giapponese
del 1905: in quel caso le mine marine avevano affondato molte navi
di entrambi i contendenti, le artiglierie navali erano state del
tutto insufficienti ai giapponesi per vincere, mentre l'artiglieria
fissa russa aveva causato enormi perdite. Un ulteriore fattore di
debolezza per gli alleati era dato dalla lungaggine dei preparativi
da parte delle forze dell'Intesa, neppure troppo segreti: fatto che
mise in allarme gli Ottomani.
Contromisure turche
Sulla base delle informazioni trapelate e dai movimenti
alleati sull'isola di Lemnos, i comandi turchi poterono prendere
qualche contromisura. Vennero spostati sul versante europeo, a
rinforzare la 7ª e la 9ª Divisione sei battaglioni di gendarmeria.
Altre divisioni vennero mobilitate per essere ritirate dal fronte
russo. Vennero inoltre posati nove nuovi campi minati, esaurendo
praticamente la disponibilità di ordigni; infine vennero schierate
su entrambe le sponde dello stretto delle nuove batterie mobili.
Cominciano le operazioni
Il 19 febbraio dodici corazzate pre-Dreadnought (9 britanniche
e 3 francesi) al comando del vice ammiraglio Carden attaccarono le
postazioni fortificate turche con un pesante bombardamento, durato
otto ore. Il 25 dello stesso mese le navi da guerra alleate
tornarono all'attacco e danneggiarono alcune fortificazioni,
riducendo al silenzio alcune batterie fisse. Le batterie mobili
turche invece furono abilmente gestite e riuscirono a intralciare
seriamente i tentativi di sbarco e il dragaggio degli sbarramenti
minati all'imboccatura dello stretto. Il 18 marzo dieci corazzate
(sei britanniche e quattro francesi) forzarono lo stretto
raggiungendo il mar di Marmara, ma incapparono in uno sbarramento
minato e si dovettero ritirare con perdite pesanti (affondarono due
corazzate britanniche e una francese). A questo punto apparve chiaro
che il forzamento dello stretto con le sole navi da guerra era
pressoché impossibile; venne pertanto deciso lo sbarco nell'area
della penisola di Gallipoli.
Frettolosa preparazione e sbarco
Il corpo di spedizione fu affidato al comando del generale Sir Ian
Hamilton, uno scozzese di 62 anni che aveva prestato servizio in
India e nella guerra boera. Complessivamente vennero messe ai suoi
ordini cinque divisioni, di cui una francese, e due del Corpo
d'armata ANZAC (Australian New Zeland Army Corps), per un totale di
circa 78.000 uomini inquadrati nella Mediterranean Expeditionary
Force.
Lo sbarco denunciò subito le incapacità organizzative: confusione
logistica, indecisioni operative, collegamenti inefficaci e scarsa
segretezza nei preparativi. Halmiton scelse sei punti per lo sbarco
dei suoi uomini, più due azioni diversive.
I turchi dal canto loro affidarono al generale Otto Liman von
Sanders, il sessantenne ufficiale tedesco che aveva il comando a
Gallipoli, il comando delle forze disposte a difesa. Il generale von
Sanders organizzò le sue truppe in tre grandi scaglioni, per
prevenire gli sbarchi da ogni lato della penisola. Ormai aveva a
disposizione una intera armata, la Quinta, con le divisioni 5ª e 65ª
schierate sull'istmo di Bulair, sulla costa asiatica la 35ª e la
115ª, al centro della penisola la 195ª e infine la 95ª all'estremo
sud della stessa.
Lo sbarco cominciò fra la notte del 24 e le prime ore del 25 aprile,
con oltre duecento navi alleate in mare. I soldati australiani e
neozelandesi dell'Australian & New Zealand Army Corps (Anzac)
scoprirono immediatamente che l'area dell'Ari Burnu non aveva
spiagge di facile accesso ma solo scogliere e burroni impraticabili.
Oggi è chiaro che l'intera operazione fu decisa proprio lì: il genio
militare di Mustafa Kemal comprese che il possesso di Monte Chunuk
Bair e del crinale Sari Bair era determinante per il controllo
dell'intera penisola. Ignorando gli ordini superiori, Mustafa Kemal
portò tutte le truppe possibili sul Chunuk Bair e sul crinale e
tenne le posizioni: gli inglesi, nonostante i loro sforzi, non
sarebbero mai più riusciti ad avanzare.
Entro il pomeriggio del 25 aprile, nonostante gli errori commessi,
circa 20.000 uomini della divisione australiana e di una brigata
neozelandese erano sbarcati in un settore abbastanza ampio, e
disponevano già dell'artiglieria divisionale. Il 26 mattina, gli
inglesi erano riusciti a portare a terra circa 30 000 uomini.
Queste forze subirono un contrattacco violento da parte di un
reggimento della 95ª Divisione turca, comandato personalmente da
Mustafa Kemal, e di altri reparti. Il combattimento durissimo
costrinse gli invasori a ripiegare, trincerandosi a difesa della
testa di ponte. Il 29 aprile le parti concordarono una tregua
umanitaria per raccogliere le migliaia di morti e feriti giacenti
sul terreno. La 295ª Divisione britannica sbarcò su cinque spiagge
in maniera piuttosto caotica, favorendo la reazione dei difensori.
Presso capo Helles oltre la metà dei soldati che dovevano sbarcare
furono uccisi o feriti da un micidiale fuoco di mitragliatrici che
investì il trasporto River Clyde. Anche le truppe sbarcate
dall'incrociatore corazzato Euryalus subirono perdite pesantissime,
nonostante il violento fuoco di preparazione dell'incrociatore
stesso. Alcuni barconi riuscirono a sbarcare soldati per la forza di
circa una compagnia, che riuscirono ad arrampicarsi sugli scogli e
neutralizzarono le mitragliatrici turche, permettendo ai superstiti
di sbarcare.
Su altre spiagge, in codice chiamate X, Y e S, gli sbarchi avvennero
con meno difficoltà, protetti sulla "X" dal fuoco dell'incrociatore
da battaglia Inflexible . Dalla "Y" i Royal Marines sbarcati
subirono nella notte un così forte contrattacco che furono costretti
al reimbarco. Sulla costa asiatica un reggimento francese si
impadronì dei resti del forte di Kum Kalè, distrutto dai cannoni
delle corazzate in febbraio. Il 26 aprile, esaurito il compito
diversivo, si reimbarcò senza danni.
Le operazioni terrestri
Le truppe dell'ANZAC si mossero per conquistare l'altura di Chunuk
Bair, dominante lo stretto. Fino al 4 maggio i violenti
combattimenti costarono ai turchi perdite molto pesanti, ma gli
alleati non ottennero alcun risultato e furono costretti ancora una
volta a trincerarsi a difesa. Il 28 aprile, dopo un pesante
bombardamento navale, le truppe sbarcate a sud avanzarono verso
l'altura di Achi Baba, altra posizione dominante a circa 10 km
da capo Helles. Le prime difese turche vennero sopraffatte, ma
l'intervento dell'11ª Divisione ottomana al completo costrinse gli
alleati a ritirarsi sulle posizioni di partenza. Ulteriori tentativi
di sfondare ottennero scarso successo nei giorni successivi. Con il
rinforzo di tre nuove divisioni affluite sulle teste di ponte il
generale Hamilton sferrò un nuovo attacco. Dal 6 all'8 maggio, con
la preparazione di artiglieria effettuata dalle navi da battaglia, i
francesi attaccarono l'ala sinistra dello schieramento ottomano, ma
senza risultati apprezzabili (anzi, i turchi riconquistarono alcune
posizioni perdute). Il 19 maggio scattò una poderosa controffensiva
ottomana, comandata personalmente dal generale von Sanders e diretta
a ricacciare in mare le truppe dell'ANZAC. Le difese ben predisposte
da australiani e neozelandesi fiaccarono il tentativo. Il 24 maggio
vi fu una nuova tregua per lo sgombero delle migliaia di morti e
feriti. Nel corso del mese di maggio le forze navali alleate
subirono perdite che consentirono all'artiglieria turca di battere
l'ala destra alleata direttamente dalla costa asiatica. Il 4 giugno,
muovendo dalle postazioni di Capo Helles, 30 000 inglesi
tentarono (terza battaglia nel settore) l'assalto a Krithia, difesa
da 28 000 turchi. Assalto lanciato in pieno giorno, contro le
trincee: nuovo fallimento, a parte la conquista di alcuni
trinceramenti turchi le forze alleate non riuscirono a fare
progressi verso l'interno, al prezzo di 4.000 morti. Devastanti
anche le perdite turche. Agli insuccessi alleati si venne a
sommare l'ormai precaria condizione di salute e di spirito delle
forze sbarcate in aprile. Hamilton chiese quindi nuovi rinforzi, che
entro fine luglio furono completati in cinque nuove divisioni in
aggiunta alle sette già presenti sulle teste di ponte. Anche le
forze ottomane si rinforzarono di conseguenza, fino a schierare
nello stesso periodo ben 15 divisioni.
Per il resto è una sequela di assalti tentati con scarso successo:
due volte a Krithia, per tentare di impossessarsi dell'altopiano di
Achi Baba, dove l'8 maggio gli inglesi avevano conquistato poco più
di 600 metri, a prezzo di 6.500 morti. I turchi contrattaccarono,
insistentemente, nella zona di Anzac, con coraggio e determinazione.
Il 19 maggio, per esempio, 30 000 uomini assaltarono
ripetutamente il centro delle postazioni australiane. I turchi
persero 10 000 uomini, contro i 100 morti e i 500 feriti
dell'Anzac. Gli australiani – scanzonati, indisciplinati ma testardi
e coraggiosi – costruirono lì la loro fama di grandi soldati. E,
mano a mano che passavano i giorni, cominciarono a riconoscere nel
soldato turco un avversario degno di loro: fino a dichiarare
pubblicamente che "Johnny Turk" o "Abdul" non era un selvaggio
primitivo, come diceva la propaganda alleata, ma "un bravo e
corretto combattente".
Giugno e luglio passarono in trincea, mentre la dissenteria
aggiungeva le sue vittime a quelle dei cecchini e degli assalti
locali, ostinati ed inutili. Tra sete, caldo, odore di morte – un
po' ovunque c'erano cadaveri in putrefazione – e tormento delle
mosche, le truppe conservano intatto un alto morale: da entrambe le
parti, questa snervante battaglia cominciava ad assumere i toni
dell'epopea.
Le operazioni navali
L'ammiraglio Sackville Carden, che dall'inizio del conflitto
comandava una divisione di incrociatori da battaglia e relativa
scorta nel Mediterraneo orientale, venne incaricato di studiare una
grande operazione per forzare gli stretti che collegano il
Mediterraneo al Mar Nero. L'idea di costringere la Sublime Porta
alla resa, semplicemente con la minaccia di distruggere la capitale
a cannonate, era un'idea allettante se rafforzata oltretutto dalla
inconsistenza della marina avversaria. Il tentativo dell'ammiraglio
tedesco Wilhelm Souchon di "raddrizzare" la miserevole flotta
ottomana era ben lontano dal poter pensare di contrastare, anche
indirettamente, la potenza navale britannica. L'ammiraglio Carden,
per conto suo, stimò fattibile l'impresa con l'impiego in forze di
navi da battaglia, in grado di colpire le postazioni difensive
turche (in parte antichi forti) senza il rischio di essere colpiti.
Il problema maggiore era costituito dallo stretto braccio di mare
(40 miglia marine circa) che introduceva al mar di Marmara; per
quanto gli alleati fossero bene informati sugli sbarramenti minati
posati dai turchi il rischio esisteva sempre. Ma si trattava, a
giudizio del comandante britannico, di un rischio calcolato a patto
di utilizzare «forze adeguate». La Gran Bretagna, che disponeva
della prima flotta da guerra al mondo, aveva a disposizione un gran
numero di vecchie unità destinate col tempo ad essere disarmate e
ormai di seconda linea, in gran parte corazzate pre-Dreadnought.
L'Ammiragliato concentrò nel Mediterraneo orientale un gran numero
di queste navi, giudicate più che adeguate all'operazione, e
relativamente "spendibili". Su richiesta di Carden venne schierata
anche, sotto mille vincoli di sicurezza, una delle più potenti unità
della Royal Navy, la super corazzata Queen Elizabeth. A questa si
aggiungeva anche l'incrociatore da battaglia Inflexible. Anche la
Marine Nationale, che lasciò agli inglesi il comando delle
operazioni, imitò l'esempio britannico mettendo a disposizione navi
che ormai erano di seconda linea.
• 19 febbraio: otto navi da
battaglia britanniche (oltre alla Queen Elizabeth e alla Inflexible,
le sei vecchie corazzate Albion, Vengeance, Cornwallis,
Irresistible, Triumph e Agamemnon) e quattro francesi (le vecchie
Suffren, Bouvet, Charlemagne e Gaulois) intrapresero senza danno un
violento bombardamento "di ammorbidimento" sulle postazioni
difensive turche all'imboccatura degli stretti.
• 25 febbraio: bombardamenti
per coprire gli sbarchi di alcune compagnie, volti a eliminare i
cannoni costieri. In questo frangente gli alleati constatarono
l'abbandono da parte dei turchi dei forti all'imboccatura dello
stretto, ormai troppo danneggiati. La reazione ottomana arrivò a
colpire la corazzata Agamemnon, che tuttavia non riportò gravi
danni.
• 18 marzo: scattò una
operazione in grande stile per completare il dragaggio dello stretto
fino al mare di Marmara, colpendo le installazioni turche rilevate.
Il comando passò da Carden, ufficialmente indisponibile per
malattia, al suo secondo ammiraglio John de Robeck. La prima fase
vide le navi da battaglia britanniche più moderne aprire il fuoco da
grande distanza, seguite da due pre-Dreadnought e rilevate poi dai
vascelli francesi. Dopo il loro intervento sarebbe stata la volta
del grosso delle navi britanniche. Nella manovra di accostata la
Bouvet (già colpita diverse volte dai cannoni turchi) urtò una mina
e si capovolse affondando in 58 secondi. Anche l'incrociatore da
battaglia Inflexible venne gravemente danneggiato da una mina, così
come la Irresistible, che affondò in seguito ai danni riportati,
seguita dalla Ocean, vittima anch'essa di una mina mentre le
prestava soccorso. A queste unità si doveva aggiungere anche la
francese Gaulois, fatta incagliare a Tenedo per evitarne
l'affondamento.
•
Le perdite subite, dolorose ma non certo in grado di intaccare la
potenza navale alleata e la possibilità di intervenire ancora in
maniera massiccia, suscitarono invece una reazione di eccesso di
prudenza da parte del comandante in mare, che "passò la palla" alle
forze di terra. Ciò nondimeno Churchill in persona fece pressioni
per trasferire altre vecchie navi di linea in Egeo. La prudenza
della Royal Navy aumentò a dismisura col ritiro delle unità
più moderne e con la perdita, in due settimane, di altre tre navi di
linea in maggio (Majestic e Triumph, colate a picco dall'U-21 del
comandante Otto Hersing, e la Goliath affondata dai siluri del
cacciatorpediniere turco Muvenet, anch'esso al comando di un
ufficiale tedesco). Da quel momento le forze navali si limitarono ad
appoggiare gli ulteriori sbarchi di truppe (Suvla, 8 agosto)
impiegando principalmente piccole cannoniere e siluranti, meno
esposte al tiro nemico.
Ultimo colpo di coda e fallimento definitivo
All'inizio di agosto, gli inglesi decisero di riprendere
l'iniziativa. Dopo aver rinforzato gli effettivi, il 6 agosto
attaccarono contemporaneamente sul fronte di Capo Helles e nella
zona Anzac, per la conquista di Sari Bair. Lo scopo era quello di
coprire un nuovo sbarco, nella baia di Suvla. A Sari Bair e sul
Monte Chunuk, gli australiani furono ad un passo dallo sfondamento:
ma il 9 agosto, Kemal lanciò una controffensiva, perse 5.000 uomini
e riprese le posizioni. Tra il 6 e il 10 agosto, l'Anzac aveva perso
12 000 uomini. A Suvla, intanto, 1.500 turchi al comando del
maggiore bavarese Wilmer erano riusciti a bloccare sulla spiaggia
25 000 uomini del generale Sir Frederick Stopford, più contento
di essere sceso a riva che determinato a spingersi oltre.
Sempre tra il 6 e il 10 agosto, von Sanders riuscì a rinforzare
Wilmer, mentre Stopford si preoccupava di fortificare le spiagge.
Risultato: le colline che dominavano la baia di Suvla rimasero
saldamente in mano turca e i generali inglesi, indecisi e distratti,
avevano perso la loro ultima occasione. Si tornò alla terribile vita
di trincea. Con le truppe fresche appena giunte, Hamilton decise di
sferrare un nuovo risolutivo attacco, corroborato da un nuovo sbarco
nella baia di Suvla diretto a tagliare in due la penisola e impedire
l'intervento in forze dei difensori, oltre all'occupazione delle
alture. L'operazione prevedeva anche un attacco diversivo da sud
(capo Helles) per distrarre gli eventuali rinforzi turchi.
Ritirata
La situazione divenne estremamente drammatica in autunno, con
l'inizio di un maltempo persistente. In ottobre, il comandante in
capo Hamilton chiese altre forze per condurre una battaglia che
finora aveva distrutto uomini e risorse senza alcun vantaggio. Il
governo britannico decise per lo sganciamento da una campagna ormai
chiaramente fallita, e sostituì Hamilton con il generale Charles
Monro, il quale organizzò abilmente, dopo una rapida ricognizione
della situazione, le operazioni di sganciamento e reimbarco.
La ritirata fu la sola cosa che i britannici fecero con vero
successo. Tra il 18 e il 19 settembre, a scaglioni e con accorta
copertura, 80 000 uomini e tutto il materiale furono evacuati
dalla zona Anzac e dalla baia di Suvla, al prezzo di due soli
feriti. Il 9 gennaio 1916, i 19 000 soldati dalla Zona di capo
Helles – sempre di notte, sempre in silenzio, sempre con il massimo
ordine – abbandonarono Gallipoli senza alcuna perdita. Entro il
20 dicembre la maggior parte dell'equipaggiamento pesante e delle
truppe fu evacuato. Gli ultimi 35.000 uomini vennero reimbarcati fra
l'8 e il 9 gennaio 1916.
Conclusioni
Gli alleati lasciarono sul terreno 25.000 britannici, 10.000
francesi, 7.300 australiani, 2.400 neozelandesi e 1.700 indiani. Tra
morti e feriti, le perdite complessive assommarono a 250.000 uomini:
la metà del mezzo milione di soldati inviato a Gallipoli. I turchi
ebbero quasi 100.000 morti e oltre 150.000 feriti. Il comando
inglese fu debole, quasi distratto – Hamilton non si presentò
mai al fronte, comandava da una nave al largo – oltre che
incerto sugli obiettivi tattici e impreparato alle necessità
logistiche. L'esercito turco fu ben guidato da von Sanders e da
Mustafa Kemal Atatürk, sempre in trincea e spesso esposti in prima
persona ai pericoli della battaglia.
La defezione della marina britannica dalla prima grande operazione
anfibia dell'era moderna costò alla Gran Bretagna un numero
spropositato di uomini, fatto ancora più grave data la penuria, in
quel momento, di truppe terrestri. In effetti la Royal Army arrivò a
impegnare sulle teste di ponte degli stretti quasi un quarto dei
suoi effettivi, comprendenti per la prima volta anche truppe dei
Paesi coloniali (Canadesi, Australiani, Sudafricani e altri). Le
forze francesi agirono in sintonia con gli alleati ma dopo le
perdite di marzo non si esposero più di tanto, considerando fra
l'altro quello turco un settore di assoluto secondo piano rispetto
alla mortale battaglia che l'Armée combatteva in casa. Da questo
vero e proprio disastro, dovuto anche alla resistenza a oltranza
delle forze ottomane, una volta tanto ben organizzate e ben guidate,
il prestigio che la Royal Navy voleva difendere a ogni costo
evitando perdite sopportabili (in quel momento erano in servizio ben
25 pre-Dreadnought più altre 9 di riserva) venne macchiato dal
sacrificio delle truppe a terra. La disfatta costò quasi la carriera
all'allora Primo Lord dell'Ammiragliato (ministro della Marina
Militare) Winston Churchill, fra i sostenitori del piano. Dall'altra
parte, fu anche l'occasione che mise in gran risalto le capacità di
Mustafa Kemal: il trentaquattrenne ufficiale si guadagnò ampiamente
il titolo di "Salvatore di Gallipoli".
La Grande Guerra era già abbastanza moderna per pensare a strategie
mondiali, utilizzare strumenti tecnici sofisticati, coinvolgere
masse di uomini. Ma non ancora abbastanza scientifica per
abbandonare la logica degli assalti frontali, con fiumane di fanti
mandati inutilmente allo sbaraglio, ondata dopo ondata, contro
trincee fortificate. Soprattutto gli alleati erano comandati da alti
ufficiali indecisi, incerti, senza fantasia ed ostinati all'assalto
alla baionetta. Il numero fa potenza, si pensava ancora. Gallipoli
dimostrò il contrario, ma sul momento furono davvero in pochi a
capirlo.
Fu, anche, una inutile e devastante carneficina, raccontata nel film
"Gli anni spezzati" del regista australiano Peter Weir.
Campagna
del Caucaso
La campagna del Caucaso comprende l'insieme degli eventi accaduti
sul fronte del Caucaso durante la prima guerra mondiale, eventi che
coinvolsero in primo luogo dapprima l'Impero Ottomano e l'Impero
Russo, e poi, dopo la dissoluzione dell'impero russo nel 1917, anche
la Repubblica Democratica di Armenia, la Dittatura centrocaspiana e
l'Impero britannico. La campagna del Caucaso può essere considerata
sia come una parte del teatro di guerra del Medio Oriente sia, in
alternativa, come parte del fronte del Caucaso. Lo svolgimento della
campagna interessò un'area molto vasta che si estendeva dalla catena
del Caucaso all'Anatolia Orientale, un'area che comprendeva anche
Trebisonda, Bitlis, Muş e Van. Accanto al conflitto principale,
combattuto su terra, vi furono anche attacchi della Marina Russa
nella regione del Mar Nero dell'Impero Ottomano.
Durante il 1915 ed il 1916 i russi avanzarono in profondità nel
territorio ottomano, ma le offensive russe sul Caucaso terminarono a
causa degli eventi legati alla Rivoluzione russa, cominciata il 3
febbraio 1917, visto che i reparti dell'Armata Russa del Caucaso
abbandonarono le posizioni sul fronte. Le truppe ottomane,
pesantemente logorate da oltre due anni di guerra, inizialmente non
furono in grado di approfittare del vuoto lasciato dai russi.
La fine dell'Impero Russo portò con sé la nascita di nuove entità
politiche indipendenti nei territori della ex Transcaucasia Russa,
dapprima il Comitato Speciale per la Transcaucasia e poi la
Repubblica Federale Democratica Transcaucasica, che ebbe breve vita
e si divise in tre repubbliche democratiche indipendenti (Armenia,
Georgia e Azerbaigian).
Il conflitto con gli ottomani non era tuttavia terminato, pertanto,
al fine di contrastare la probabile controffensiva del nemico,
furono create dalle unità militari appartenenti agli stati di nuova
formazione, unità che comprendevano anche gli irregolari ed i
volontari armeni, veterani della campagna del Caucaso. Durante il
1918 dal caos politico-militare che stava sconvolgendo la Russia
sorsero anche altri stati indipendenti, fra cui la Dittatura
centrocaspiana e la Repubblica dell'Armenia montanara.
Inoltre cambiarono le alleanze sul campo di battaglia e giunsero
nella regione forze militari schierate dalle grandi potenze i cui
interessi strategici passavano per il Caucaso, per esempio la
Dunsterforce britannica.
Non esiste una data unica per la fine della campagna: il conflitto
fra l'Impero Ottomano e l'Impero Russo, si concluse con il trattato
di Brest-Litovsk del 3 marzo 1918, mentre lo scontro fra l'Impero
Ottomano e la Repubblica Democratica di Armenia terminò con il
trattato di Batumi del 4 giugno 1918. Anche le altre repubbliche
indipendenti firmarono dei trattati di pace con gli ottomani.
Le forze turche rimasero impegnate nella guerra contro la Dittatura
centrocaspiana, la Repubblica dell'Armenia montanara e la
Dunsterforce britannica fino alla firma dell'armistizio di Mudros
del 30 ottobre 1918.
Contesto politico-economico
Impero Ottomano e Germania
L'Impero Ottomano si unì alle Potenze Centrali nell'ottobre -
novembre 1914 dopo la firma del trattato segreto con la Germania3.
Sul fronte del Caucaso il principale obiettivo dell'Impero Ottomano
era la riconquista dei territori dell'Anatolia Orientale persi
durante la guerra russo-turca del 1877-78, pertanto obiettivi
militari immediati erano Artvin, Ardahan, la città fortificata di
Kars ed il porto di Batumi in GeorgiaWikipedia:Uso delle fonti.
Ismail Enver, uno dei Tre Pascià e ministro della guerra dell'Impero
Ottomano
Un successo degli ottomani avrebbe comportato lo spostamento
in questa regione di un numero significativo di forze russe operanti
sul fronte polacco e galiziano4, pertanto una efficace campagna
turca sul Caucaso era vista con gran favore dai consiglieri militari
tedeschi. A tale scopo, fin dallo scoppio delle ostilità, i tedeschi
fornirono le risorse necessarie per rinforzare la Terza Armata
Ottomana, schierata sul fronte del Caucaso, in modo tale che si
potesse mettere in pratica questa "strategia di distrazione"5. Il
ministro della guerra Enver Pascià sperava inoltre che un immediato
successo degli ottomani avrebbe dapprima aperto la strada verso
Tbilisi e poi sarebbe stato da innesco per la rivolta dei popoli
musulmani del Caucaso6. Altro fattore strategico di grande
importanza, soprattutto per i tedeschi, era la possibilità di avere
libero accesso alle enormi risorse di idrocarburi nell'area del mar
Caspio7
Impero Russo
La Russia aveva conquistato nel 1877 la città fortezza8 di
Kars durante la guerra russo-turca e temeva una campagna degli
ottomani sul Caucaso che puntasse alla riconquista di Kars e del
porto di Batumi. Il 4 marzo 1915, durante un incontro con
l'ambasciatore britannico George Buchanan e con l'ambasciatore
francese Maurice Paléologue, il ministro degli esteri russo Sergej
Sazonov, dichiarò che un durevole accordo per il dopo-guerra avrebbe
dovuto contemplare il passaggio ai russi di Costantinopoli, dello
stretto del Bosforo e dei Dardanelli, del mar di Marmara, della
Tracia meridionale fino alla linea Enos-Midia e di parte della
regione costiera turca sul mar Nero fra il Bosforo, il fiume Sakarya
ed un punto da determinarsi vicino alla Baia di Izmit9. Il piano del
governo zarista prevedeva inoltre la sostituzione della popolazione
musulmana dell'Anatolia settentrionale e di Istanbul con i più
affidabili coloni cosacchi10
Armenia
Allo scoppio della prima guerra mondiale all'interno
dell'Impero Ottomano viveva una grande comunità armena, diffusa su
gran parte del territorio, ma concentrata soprattutto nella regione
di confine con la Russia. Fra i numerosi popoli che abitavano la
regione del Caucaso, il popolo armeno fu quello che ebbe certamente
il ruolo più attivo durante la grande guerra. Fin già dal 1915, nei
territori ottomani conquistati dai russi e abitati da una
popolazione in maggioranza armena, come forma di governo provvisorio
fu costituita l'Amministrazione dell'Armenia occidentale.
Il movimento di liberazione nazionale dell'Armenia aveva come
obiettivo finale la costituzione di una repubblica in Armenia. La
Federazione Rivoluzionaria Armena, storico partito politico armeno,
raggiunse l'obiettivo quando venne riconosciuta a livello
internazionale la nuova Repubblica Democratica di Armenia nel maggio
1918, dopo il collasso dell'Impero Russo e i caotici eventi seguiti
alla rivoluzione.
Fra gli altri stati formatisi nella regione alla fine del conflitto
vi furono la Dittatura Centrocaspiana, costituita nel 1918 anche con
la partecipazione degli armeni, e la Repubblica dell'Armenia
montanara (giugno-ottobre 1918), guidata dal generale Andranik Toros
Ozanian.
Impero Britannico
Alla fine della guerra i britannici si trovarono a cooperare con i
rivoluzionari russi per impedire il piano di Enver per una
Transcaucasia indipendente. Per quanto riguarda il fattore
economico, la sfera di attività esclusiva della Anglo-Persian Oil
Company si trovava sulla direttrice delle ambizioni ottomane, dato
che la compagnia possedeva il diritto esclusivo di sfruttamento dei
giacimenti petroliferi dell'Impero Persiano, tranne le province
dell'Azerbaigian, di Ghilan, di Mazendaran, di Asdrabad e di
Khorasan11. Nel 1914, prima dell'inizio della guerra, il governo
britannico aveva firmato un contratto con la compagnia per il
rifornimento di carburante delle navi della Royal Navy12.
Gli schieramenti militari
All'inizio della guerra gli ottomani avevano una sola armata, la
Terza, schierata nella regione del Caucaso, pertanto il numero di
truppe effettivamente disponibili al combattimento in quest'area può
essere stimato fra 100.000 e 190.000, anche se il livello di
equipaggiamento era in larga parte poco adatto. Nel 1916 lo stato
maggiore ottomano decise il ridispiegamento di un'altra armata, la
Seconda, sul fronte del Caucaso. L'efficienza della struttura di
comando e controllo delle forze armate ottomane era notevolmente
inferiore rispetto allo standard degli alleati13
Fin da prima dello scoppio della guerra la Russia schierava sul
confine con l'impero ottomano l'Armata del Caucaso, forte di circa
100.000 uomini sotto il comando del governatore generale e viceré
del Caucaso Illarion Voroncov-Daškov e del generale Nikolaj Judenič,
capo di stato maggiore. Tuttavia, subito dopo l'inizio della
campagna del Caucaso, i russi furono costretti a spostare circa la
metà delle forze sul fronte prussiano, a causa delle pesanti
sconfitte subite contro i tedeschi nella battaglia di Tannenberg e
nella battaglia dei laghi Masuri, lasciando così un solo Corpo
d'armata (circa 60.000 uomini) a fronteggiare gli ottomani. L'Armata
russa del Caucaso si dissolse nel 1917, quando tutti i reggimenti
regolari russi disertarono e abbandonarono il fronte a seguito
dell'inizio della rivoluzione russa.
Fin dall'estate del 1914 erano state create delle unità di volontari
armeni a supporto delle forze regolari russe. Visto che i coscritti
russi di nazionalità armena erano già stati arruolati e mandati sul
fronte europeo, queste nuove unità furono formate esclusivamente da
armeni non di cittadinanza russa o non obbligati a servire
nell'esercito. Inizialmente queste unità comprendevano circa 20.000
soldati, tuttavia nel corso della guerra il loro numero aumentò; i
volontari erano organizzati in diverse unità che affiancavano
l'armata del Caucaso come distaccamenti. Nel 1916 il generale
Judenič decise di inquadrare queste unità all'interno dell'armata,
oppure, quando ciò non era possibile, di scioglierle.Wikipedia:Uso
delle fonti
Un'altra organizzazione militari che partecipò al conflitto furono i
fedayyin armeni (in lingua armena Ֆէտայի), controllati dal Movimento
di liberazione nazionale armeno. I fedayyin erano forze composte da
civili e coordinate da famosi leader quali Murad di Sebastia (in
armeno Սեբաստացի Մուրատ); il termine utilizzato per distinguere
queste forze era milizia armena, irregolari armeni, oppure
distaccamenti di guerriglia partigiana. Boghos Nubar, il presidente
dell'Assemblea Nazionale Armena dichiarò alla Conferenza di Parigi
del 1919 che queste forze avevano affiancato le principali unità
regolari armene. Sulla linea Van-Erzincan (in territorio ottomano)
la resistenza armena si basava su queste forze.Wikipedia:Uso delle
fonti
Dopo la dissoluzione dell'Impero Russo, nel dicembre 1917, il
Dashnak, uno dei partiti appartenenti al Movimento di liberazione
nazionale armeno che aveva aderito anche al Congresso degli armeni
orientali, organizzò una nuova forza militare sotto il comando del
generale Tovmas Nazarbekian, già appartenente all'armata russa, e la
supervisione del commissario civile Drastamat Kanayan. Sul campo di
battaglia, il territorio fra Van ed Erzincan, furono schierate tre
divisioni poste sotto il comando di Movses Silikyan, Adrianic e
Mikhail Areshian; al colonnello Korganian fu assegnata un'altra
unità regolare. Dopo la proclamazione della Repubblica Democratica
di Armenia (28 maggio 1918) Nazarbekian divenne il comandante in
capo dello stato armeno.
Anche milizie curde parteciparono alla campagna del Caucaso, alcune
a fianco degli ottomani, altre invece combatterono per i russi.
Per quanto riguarda la partecipazione militare sul teatro del
Caucaso di truppe dell'impero britannico, a Lionel Dunsterville fu
assegnato nel 1917 il comando di una forza di spedizione alleata
formata da circa 1000 veterani (australiani, britannici, canadesi e
neozelandesi) supportati da autoblindo.
La campagna
Preludio
Nel corso del mese di luglio del 1914, vi furono negoziati fra
il Comitato per l'Unione ed il Progresso (CUP) e i rappresentanti
degli armeni durante il Congresso Armeno di Erzurum. La conclusione
pubblica del congresso fu di "portare avanti in modo pacifico e con
mezzi legittimi le aspirazioni degli armeni"14. Il CUP considerò il
risultato del congresso come un via libera alla insurrezione. Lo
storico Erikson ritiene che dopo questo incontro il CUP si convinse
di un forte legame fra armeni e russi con piani dettagliati
finalizzati alla secessione del territorio armeno dall'impero
ottomano.
1914
Inizio delle ostilità
Il primo giorno di novembre cominciò l'offensiva Bergmann, mentre la
dichiarazione di guerra ufficiale dei russi giunse il 2
novembreWikipedia:Uso delle fonti. I russi attraversarono il confine
con l'obiettivo di conquistare Doğubeyazıt e Köprüköy15. L'insieme
di forze assegnate all'operazione era composto da 25 battaglioni di
fanteria, 37 unità di cavalleria e 120 pezzi di artiglieria ed era
diviso in due ali. Sull'ala destra il I Corpo Russo mosse da
Sarıkamış in direzione di Köprüköy, che fu raggiunta il 4 novembre.
Sull'ala sinistra il IV Corpo Russo mosse da Erevan verso
l'altopiano Pasinler.Wikipedia:Uso delle fonti
Il 7 novembre la Terza Armata Ottomana cominciò la controffensiva,
alla quale parteciparono il IX Corpo e tutte le unità di cavalleria
supportate dai reggimenti tribali curdi. La cavalleria non riuscì ad
eseguire l'aggiramento, mentre i curdi si dimostrarono poco
affidabili. Dopo il ripiegamento della 18ª e della 30ª divisione i
russi guadagnarono territorio. Gli Ottomani furono in grado di
mantenere le loro posizioni a Köprüköy. Il 12 novembre, il IX Corpo,
che era sotto il comando di Ahmet Fevzi Pascià, si mosse in supporto
del XI Corpo sul suo fianco sinistro, e la Terza Armata iniziò a
respingere i russi. Dopo l'offensiva Azap (17-20 novembre) il 3º
reggimento riuscì ad entrare a Köprüköy.Wikipedia:Uso delle fonti
L'unica area di successo per i russi fu sul settore meridionale
dell'offensiva, dove i volontari armeni si dimostrarono una forza
efficace e conquistarono Karaköse e Doğubeyazıt16. Doğubeyazıt si
trovava nella parte settentrionale della provincia di Van. Alla fine
di novembre il fronte si stabilizzò con i russi che controllavano un
saliente di 25 km nel territorio turco lungo l'asse
Erzurum-Sarıkamış. Le perdite ottomane furono elevate : 9.000 morti,
3.000 prigionieri e 2.800 disertori.
L'offensiva invernale di Enver
Il 22 dicembre gli ottomani presero l'iniziativa per una
grande offensiva su tutto il fronte, offensiva che si sarebbe
conclusa con la battaglia di Sarıkamış. Secondo il piano ideato dal
ministro della guerra Enver Pascià, la manovra aggirante condotta
sul lato nord da due corpi (il IX ed il X) avrebbe consentito di
tagliare le linee delle unità russe impegnate dall'attacco del XI
Corpo. In seguito all'iniziale successo dell'operazione nemica il
governatore Voroncov era favorevole ad un ripiegamento dell'Armata
del Caucaso verso Kars, tuttavia il generale Judenič ignorò questa
richiesta e si adoperò per organizzare la difesa di
Sarıkamış.Wikipedia:Uso delle fonti Il 1 gennaio 1915 la Stanke Bey,
uno dei reparti della Terza Armata entrò ad Ardahan.
Il parere degli ufficiali tedeschi appartenenti alla Missione
Militare era contrario ad una operazione offensiva di queste
proporzioni durante il periodo invernale17, dato che l'esercito
tedesco avrebbe potuto fornire un supporto più efficace durante la
primavera e l'estate.
Enver Pascià prese direttamente il comando della Terza Armata e
guidò le truppe durante la campagna contro i russi. Il risultato
finale fu una terribile disfatta per le truppe ottomane: solo il 10%
degli uomini che parteciparono all'offensiva ritornarono sulle
posizioni iniziali, ed anche Enver rinunciò per il resto della
guerra al comando diretto sul campo di battaglia.
Le unità di volontari armeni svolsero un ruolo non secondario nella
vittoria ottenuta dai russi, dato che condussero numerose e
continuate azioni di disturbo dei movimenti nemici, e "il ritardo
[delle truppe ottomane] permise all'Armata del Caucaso di
concentrare un numero sufficiente di forze attorno Sarıkamış"18.
Enver, dopo essere ritornato a Costantinopoli, addossò la colpa
della disfatta agli armeni-ottomani che vivevano nella regione in
quanto attivamente impegnati in azioni a favore della Russia19.
La Stanke Bey
Il 25 dicembre 1914, al termine della battaglia di Ardahan, la
divisione Stanke Bey del tenente colonnello tedesco August Stange
conquistò la città di Ardahan mettendo in pericolo la linea
Sarıkamış-Kars vitale per le forze russe; a causa degli sviluppi sul
settore principale dell'offensiva Enver modificò il piano originale
in modo che la Stanke Bey desse maggiore supporto alle unità
impegnate nell'attacco a Sarıkamış20.
La Stanke Bey lasciò le sue posizioni il 18 gennaio 1915 e il primo
marzo ritornò sulle posizioni iniziali, dopo essere riuscita a
resistere alle forze russe per due mesi, nonostante l'inferiorità
numerica.
1915
Dopo Sarıkamış
In febbraio il generale Judenič fu encomiato per la vittoria e
promosso comandante di tutte le truppe russe nel
CaucasoWikipedia:Uso delle fonti. Il 12 febbraio Hafız Hakkı,
comandante della Terza Armata morì di tifo e fu sostituito dal
brigadier generale Mahmut Kamil Pascià. Compito di Kamil era
rimettere l'armata in condizioni di combattere. Lo stato maggiore
ottomano temeva la possibilità di una grande avanzata russa in
territorio turco dopo la disastrosa battaglia di Sarıkamış. Gli
Alleati (britannici e francesi) avevano richiesto alla Russia di
contribuire a ridurre la pressione tedesca sul fronte occidentale.
Dal canto suo la Russia richiese gli Alleati di preparare un attacco
navale in modo da alleggerire la pressione sul Caucaso.Wikipedia:Uso
delle fonti Le operazioni navali nel mar Nero diedero l'opportunità
di rinforzare le forze russe. Inoltre la Campagna dei Dardanelli,
che aveva come obiettivo la conquista di Istanbul, servì come
manovra diversiva in supporto ai russi impegnati nel fronte del
Caucaso21.
Nel marzo 1915 la Terza Armata, quasi completamente annientata
dall'offensiva invernale, ricevette rinforzi dalla Prima e dalla
Seconda Armata, anche se questi ammontavano in totale all'incirca ad
una divisione, infatti lo sforzo per la battaglia di Gallipoli
richiedeva quasi tutte le risorse ottomane. Sul fronte del Caucaso
nel mese di marzo la situazione strategica rimaneva stabile: i russi
occupavano le città turche di Eleşkirt, Ağrı e Doğubeyazıt nella
parte sud; ci furono solo piccoli scontri e gli ottomani non avevano
abbastanza forze per mettere al riparo la regione dell'Anatolia
orientale da un eventuale attacco russo.
Marzo 1915, la resistenza di Van: truppe armene occupano una linea
di difesa nella città fortificata di Van
La resistenza di Van
Il 20 aprile cominciò la resistenza di Van, dove in quel
periodo si trovavano 30.000 residenti e 15.000 rifugiati. I
difensori armeni della città di Van erano circa 1.500 uomini,
scarsamente armati, dato che disponevano solo di 300 fucili, 1.000
pistole ed altre armi antiche. Il conflitto con gli ottomani
proseguì fino a che il generale Judenič decise di andare in
soccorso. L'offensiva di Judenič cominciò il 6 maggio secondo due
direzioni principali: un'ala dell'attacco prese la direzione del
lago di Van, mentre una brigata di cosacchi della regione
Trans-Baikal comandata dal generale Trukhin, affiancata da unità di
volontari armeni puntò su Van22.
Il 21 maggio il generale Judenič arrivò a Van, ricevette le chiavi
della città e della cittadella, confermò in carica il governo
provvisorio armeno, con Aram Manougian come governatore. Le unità di
irregolari armeni (i fedayyin) lasciarono il controllo militare
della città ai russi. Una volta che Van era stata messa in
sicurezza, i combattimenti per il resto dell'estate si spostarono
più ad ovest23.
Il leader della resistenza armena Murad di Sebastia
Il 27 maggio 1915, durante l'offensiva russa, il parlamento ottomano
approvò la legge Tehcir ed il ministro degli interni Talat Pascià
oedinò la deportazione forzata di tutti gli armeni dalla regione di
Van verso il sud (la Siria e la regione di Mossul). Talat Pascià,
attraverso la circolare del 24 aprile 1915 (data ricordata dagli
armeni come la domenica rossa), affermava che gli armeni della
regione del Caucaso si erano organizzati sotto il comando dei russi
e si erano ribellati contro il legittimo governo ottomano, come
dimostrato dal loro comportamento a Van. La circolare dava il via
libera ad una serie di arresti contro 270 leader della comunità
armena a Costantinopoli, mentre i ribelli armeni della regione di
Van venivano risparmiati in quanto si trovavano al di là delle linee
russe.
L'offensiva estiva dei russi
Il 6 maggio, essendo le condizioni meteo diventate più miti, i russi
cominciarono l'avanzata nel settore nord attraverso la valle di
Tortum in direzione di Erzurum. Due divisioni ottomane, la 29ª e la
30ª provarono a respingere questa manovra. Il X corpo intanto andava
al contrattacco delle forze russe.Wikipedia:Uso delle fonti Nel
settore meridionale del fronte le forze turche invece non ottennero
lo stesso successo. Malazgirt fu conquistata l'11 maggio, il 17
maggio i russi occuparono Van e continuarono a spingere indietro le
unità turche. Le linee di rifornimento dei turchi erano
continuamente a rischio, visto che le rivolte degli armeni causavano
numerosi problemi dietro la linea del fronte. La regione montagnosa
a sud del lago di Van poteva essere occupata dai russi senza
difficoltà: i turchi dovevano difendere una linea di oltre
600 km con solo 50.000 uomini e 130 pezzi di artiglieria,
mentre i numeri del nemico erano di gran lunga superiori.
Sul piano militare il 13 giugno i russi si trovavano di nuovo sulla
loro linea di partenza. Ritenendo che gli ottomani fossero sempre in
condizioni di inferiorità, Judenič decise per una nuova offensiva,
assegnata al IV Corpo del Caucaso, che era stato appena formato24.
L'offensiva estiva si iniziò il 19 giugno, questa volta nella
regione a nord-est del lago di Van, dove i russi, comandati da
Oganovski, attaccarono sulle alture ad ovest di Malazgirt. I russi
avevano sottostimato le forze militari turche nella zona, in grado
di lanciare una massiccia controffensiva.
Le unità russe mossero da Malazgirt verso Muş, però non erano a
conoscenza del fatto che anche il IX Corpo turco, affiancato dalla
17ª e dalla 18ª divisione stava muovendo verso il settore di Muş.
Sebbene dovessero affrontare condizioni estremamente difficili, i
turchi stavano portando a termine una operazione di riorganizzazione
molto efficiente: furono create due Forze di Spedizione, la 1ª e la
5ª, che furono schierate a sud delle posizioni degli attaccanti
russi, inoltre fu organizzato il "Gruppo dell'Ala Destra" posto
sotto il comando del brigadier generale Abdülkerim Pascià. Questo
Gruppo era indipendente dalla Terza Armata e Abdülkerim Pascià
riportava direttamente ad Ismail Enver. Il nuovo schieramento dei
turchi consentiva loro di affrontare gli attacchi dei russi e
reagire con maggiore prontezza.
Il granduca Nikolaj
Il 24 settembre il granduca Nikolaj Romanov assunse il ruolo
di comandante in capo di tutte le forze russe nel Caucaso in
sostituzione del generale Voroncov-Daškov; in realtà il granduca era
stato appena rimosso dall'incarico di comandante supremo di tutte le
forze armate russe e assegnato a questo "fronte secondario". Sul
campo il ruolo di comandante dell'Armata Russa del Caucaso rimaneva
sempre al generale Judenič. Il fronte rimase tranquillo da ottobre
fino alla fine dell'anno. Judenič impiegò questo tempo per
rioganizzare le forze russe: all'inizio del 1916 l'Armata del
Caucaso contava circa 200.000 effettivi e 380 pezzi di artiglieria.
Nel campo avversario la situazione era molto differente, dato che lo
Stato Maggiore ottomano non era riuscito a compensare le perdite
subite nel corso dell'anno, mentre la campagna di Gallipoli
assorbiva gran parte delle risorse e dei rinforzi. I tre corpi della
Terza Armata Ottomana, il IX, il X e l'XI, non ricevettero rinforzi,
mentre le due forze di spedizione, la 1ª e la 5ª, furono
ridispiegate sul fronte della Mesopotamia. Il ministro Enver, dopo
non essere riuscito l'anno precedente ad ottenere i risultati
sperati con l'offensiva invernale, considerando più a rischio gli
altri fronti aveva deciso che il Caucaso era un settore di
importanza secondaria.
All'inizio del 1916 gli ottomani potevano contare su 126.000 uomini,
ma i combattenti effettivi erano solo 50.000; gli armamenti
ammontavano a 74.057 fucili, 77 mitragliatrici e 180 pezzi di
artiglieria. Pertanto la forza ottomana era grande solo sulla carta
non sul terreno e l'alto comando dava erroneamente per scontato che
i russi non avrebbero attaccato ancora.
1916
La grande offensiva invernale
All'inizio di gennaio del nuovo anno le truppe comandate dal
generale Judenič lasciarono a sorpresa i loro quartieri invernali
per muovere verso la fortezza ottomana di Erzurum. Furono assegnati
all'offensiva il I Corpo del Caucaso ed il II Corpo del Turkistan,
che si sarebbero mossi sull'asse Kars-Erzurum, proprio dove le
difese ottomane dovevano essere più forti25. La Terza Armata
ottomana era sempre composta da tre Corpi (il IX, il X e l'XI) a
ranghi ridotti, pertanto era in forte svantaggio numerico rispetto
ai russi26.
L'inverno non è la stagione adatta per una campagna militare nella
regione del Caucaso: l'anno precedente le temperature, le condizioni
atmosferiche e lo stato delle vie di comunicazione contribuirono al
disastro che annientò la Terza Armata guidata da Ismail Enver.
Lanciando a sua volta una offensiva invernale, Judenič riteneva di
poter cogliere impreparate le difese ottomane. L'effetto sorpresa
consentì infatti ai russi durante la battaglia di Koprukoy (10-18
gennaio 1916) di distruggere una divisione ottomana che si trovava
nei suoi quartieri invernali. Inoltre le perdite complessive subite
dagli ottomani avevano ridotto gli effettivi della Terza Armata in
quel settore del fronte a soli 50.000 uomini27.
Dopo una settimana di combattimenti gli ottomani si ritirarono verso
la fortezza di Erzurum, ritenuta inespugnabile, la seconda fortezza
in ordine di importanza nell'impero ottomano dopo quella di
Adrianopoli28. Sulla base anche di questo erroneo convincimento
l'alto comando ottomano non mandò i rinforzi attesi in supporto
della Terza Armata, già decimata dalla battaglia di Koprukoy. L'11
febbraio i russi attaccarono le linee ottomane a difesa di Erzurum,
impiegando 250 pezzi di artiglieria per costringere alla resa la
fortezza2930.
Il 16 febbraio Mahmut Kamil diede ordine ai reparti della Terza
Armata di ritirarsi da Erzurum, visto il vantaggio numerico (3 a 1)
che le forze di Judenič avevano rispetto agli ottomani. L'assalto ad
Erzurum, che era stata sede del quartier generale della terza
Armata, era costato agli ottomani la perdita di 25.000 soldati, 327
pezzi di artiglieria e rifornimenti in gran quantità31.
Kemal sul Caucaso
Vista la situazione sul campo quasi totalmente compromessa, l'alto
comando ottomano cominciò a rendersi conto del pericolo di una
sconfitta totale nel settore del Caucaso e decise pertanto a marzo
di schierare la Seconda Armata sul fianco destro - ossia a sud -
della Terza Armata. A capo della nuova armata era posto Ahmet İzzet
Pascià32. La Seconda Armata era formata da 4 corpi: il II Corpo, il
III Corpo, il IV Corpo ed il XVI Corpo, quest'ultimo sotto il
comando del brillante generale Mustafa Kemal.
Ad aprile l'Armata del Caucaso proseguiva l'offensiva, puntando da
Erzurum in due direzioni: più a nord sul settore del mar Nero, i
russi conquistavano la città di Trebisonda il 16 aprile, mentre
altre unità avanzavano a sud verso Muş e Bitlis. L'antica
Trebisonda, Trabzon per i turchi, era l'unico grande porto a
disposizione degli ottomani, che si ritrovavano pertanto in
condizioni di grave svantaggio, non potendo contare su una rete
efficiente di comunicazioni stradali e ferroviarie33. L'unica buona
notizia per la Terza Armata era l'arrivo come rinforzo del V Corpo,
formato da reparti di veterani che avevano combattuto nella
vittoriosa campagna dei Dardanelli34 contro gli alleati occidentali.
L'offensiva russa a sud costrinse la Seconda Armata a ripiegare
verso l'interno dell'Anatolia, mentre i russi conquistavano dopo due
battaglie sia Muş sia Bitlis (2 marzo - 24 agosto). Bitlis era
l'ultima piazzaforte ottomana che potesse impedire ai russi di
invadere l'Anatolia centrale e la Mesopotamia.
Nel settore nord Judenič, in risposta ai tentativi ottomani di
riconquistare Trebisonda, supportato dai volontari armeni di Murad
di Sebastia, ingaggiò il nemico nella battaglia di Erzincan (2-25
luglio), che portò alla conquista russa di quell'importante centro
di comunicazione. Ad agosto il XVI Corpo di Kemal riconquistò Muş e
Bitlis. Ismail Enver assegnò alla Seconda Armata e ad al XVI Corpo
di Mustafa Kemal il compito di organizzare le operazioni ottomane
nella zona di Muş e Bitlis, appena conquistate dai russi. Ahmet
İzzet Pascià lanciò la controffensiva sul settore meridionale il 2
agosto, e i combattimenti attorno al lago di Van proseguirono per il
resto dell'estate. Kemal riuscì a riconquistare Muş e Bitlis il 15
agosto. Essendo la Terza Armata a nord non più in grado di creare
problemi, Judenič poté spostare uomini e risorse per contrastare la
controffensiva di Ahmet İzzet35.
La Seconda Armata, oltre a dover affrontare sul campo parte
dell'Armata del Caucaso, comandata dal generale Tovmas Nazarbekian,
ed i volontari armeni controllati da Andranik Toros Ozanian, doveva
confrontarsi anche con la ribellione della popolazione armena. Il
successo iniziale di Kemal non portò ad una vittoria decisiva; la
Seconda Armata ebbe grandi difficoltà dal punto di vista logistico e
per i rifornimenti. Il 26 settembre l'offensiva di Ahmet İzzet era
conclusa, Muş e Bitli erano state riconquistate dai russi e gli
ottomani avevano perso circa 30.000 soldati fra morti e feriti, a
fronte di un'avanzata ridotta sul campo36. L'offensiva della Seconda
Armata non aveva ottenuto i risultati attesi: i russi avevano preso
le opportune contromisure rafforzando le proprie linee, ed entro la
metà di agosto erano in grado di rispondere con una controffensiva.
Dal punto di vista strategico la marina russa continuava a dominare
sul mar Nero. Gli ottomani impiegarono il resto dell'anno 1916 per
portare a termine le necessarie modificha alla struttura operativa
ed organizzativa sul fronte del Caucaso, mentre, per loro fortuna, i
russi rimasero inattivi per tutto il periodo. L'inverno 1916-17 fu
molto duro, fatto che rese i combattimenti impossibili.
1917
Cambiamenti in Russia
La situazione militare non cambiò durante la primavera del
1917, ma i piani russi per una nuova offensiva non furono messi in
pratica. La Russia infatti si trovava coinvolta in una grave
agitazione politica e sociale che influenzava anche i ranghi
dell'esercito. In seguito alla rivoluzione del febbraio 1917, si
fermarono le operazioni militari russe e le unità militari
iniziarono a ritirarsi dalle posizioni sul fronte.
Il malcontento provocato dalla guerra era diffuso sia nel popolo
russo sia fra i soldati; l'esercito russo iniziò lentamente a
disintegrarsi fino al punto che alla fine del 1917 non c'era più
alcuna forza militare russa nel Caucaso. Gli ottomani non erano in
grado di approfittare della situazione, vista il pessimo stato delle
loro unità. Enver spostò 5 divisioni da questo settore verso la
Palestina e la Mesopotamia per contrastare la pressione dei
britannici.
Il 9 marzo 1917, secondo le direttive del Governo Provvisorio,
l'amministrazione civile russa del Caucaso venne trasformata con la
fondazione del Comitato Speciale per la Transcaucasia, presieduto
dal membro della Duma di Stato V. A. Kharlamov che sostituiva il
viceré nominato dallo zar, il granduca Nikolaj il giovane. Il nuovo
governo inoltre decise il trasferimento nell'Asia Centrale del
generale Judenič, che un mese dopo rassegnò le dimissioni
dall'esercito.
Sviluppi in Transcaucasia
Durante l'estate l'Amministrazione per l'Armenia occidentale
riteneva indispensabile una conferenza che decidesse misure di
emergenza e adottasse un piano per formare entro il mese di dicembre
una milizia di 25.000 uomini sotto il comando di Andranik. La
divisione armena di Andranik era formata da 3 brigate: la I era
formata dai reggimenti di Erzincan e di Erzurum, la II era composta
dai reggimenti di Khnus e di Alashkert, la III brigata comprendeva
il reggimento di Van ed il reggimento a cavallo di Zeytoun. Il
commissario civile Hakob Zavriev promosse Adrianik a maggiore
generale.
Nel novembre 1917 fu creato a Tbilisi il primo governo della
Transcaucasia indipendente, quando il Commissariato della
Transcaucasia o Sejm37 della Transcaucasia prima affiancò e poi
sostituì il Comitato per la Transcaucasia, in seguito alla presa del
potere dei bolscevichi a San Pietroburgo. Il Commissariato era
guidato dal menscevico georgiano Nikolaj Chkheidze.
Nello stesso periodo ad Erevan i leader dell'Armenia Orientale
costituivano il Corpo dell'esercito armeno, al cui comando veniva
posto il generale Nazarbekov. Il Corpo armeno era suddiviso in due
divisioni:
• la prima divisione,
comandata dal generale Christophor Araratov e formata da:
• I reggimento (Erzurum ed
Erzincan)
• II reggimento (Khnus)
• III reggimento (Erevan)
• IV reggimento (Erzincan ed
Erevan)
•
• la seconda divisione,
comandata dal colonnello Movses Silikyan e formata da:
• V reggimento (Van)
• VI reggimento (Erevan)
• VII reggimento
(Alexandropol)
• VIII reggimento
(Alexandropol)
•
Il capo di stato maggiore del Corpo armeno era il generale
Vickinski; ognuna delle due divisioni era suddivisa in quattro
reggimenti, oltre ai reggimenti di truppe regolari vi era un
reggimento di deposito. La forza totale del Corpo armeno era di
32.000 uomini. A parte le truppe regolari, erano stati armati anche
i civili in grado di combattere: fu formata una milizia di civili
che comprendeva fra 40.000 e 50.000 uomini. L'armamento delle truppe
proveniva dall'arsenale russo; un certo numero di ausiliari, addetti
ai servizi medici e di supporto e le unità di guarnigione
completavano la struttura di questa nuova forza armata.
Il 5 dicembre 1917 ottomani e russi firmarono l'armistizio di
Erzincan (l'accordo di cessate il fuoco di Erzincan), che segnò la
fine del conflitto fra la Russia e l'Impero ottomano38.
Tra la data dell'armistizio ed il 7 febbraio 1918 i reggimenti del
Corpo armeno furono rapidamente ridispiegati sul fronte.
Questa mobilitazione creò una sorta di grande stupore fra i soldati
russi che abbandonavano la prima linea per fare ritorno a casa,
visto che i loro ex compagni d'arme invece si stavano muovendo verso
la linea del fronte.
1918
La riconquista ottomana
Il 1º gennaio 1918 gli unionisti turchi Ittihad si mossero per
ottenere l'amicizia dei bolscevichi. Nel momento in cui l'armata
russa era scomparsa, i vasti territori del sud della Russia erano
rimasti senza protezione militare. Le divisioni di Nazarbekian entro
la fine di gennaio erano andate ad occupare i principali nodi
strategici fra Erevan, Van ed Erzincan.
Vehib Pascià si confrontava con il Congresso degli Armeni Orientali.
In febbraio Tovmas Nazarbekian era il comandante del fronte del
Caucaso mentre Andranik Toros Ozanian prese il comando delle forze
armene all'interno dell'Impero Ottomano.
Nonostante la mobilitazione, le forze armene nel Caucaso ammontavano
a poche migliaia di uomini e circa 200 ufficiali. L'offensiva della
Terza Armata cominciò il 5 febbraio 1918, le forze ottomane
avanzarono verso est attraverso il fronte fra Tirebolu e Bitlis. I
territori persi contro i russi furono ripresi agli armeni. Numerose
città furono liberate in pochi giorni: Kelkit (7 febbraio), Erzincan
(13 febbraio), Bayburt (19 febbraio) e Tercan (22 febbraio). Il
fondamentale snodo strategico di Trebisonda sul mar Nero fu ripreso
il 25 febbraio, consentendo così di far arrivare rapidamente altri
rinforzi via mare. Gli armeni provarono a resistere per tenere la
città di Erzurum, ma il I Corpo Turco del Caucaso la conquistò il 12
marzo. Malazgirt, Hınıs, Oltu, Köprüköy e Tortum caddero nelle mani
dei turchi entro le due settimane seguenti.
Il trattato di Brest-Litovsk
Il 3 marzo il gran visir Talat Pascià firmò con la nuova
repubblica sovietica russa il trattato di Brest-Litovsk, con il
quale la Russia bolscevica cedeva agli ottomani anche ex territori
russi comprendenti le città di Batumi, Kars e Ardahan, vale a dire i
territori che erano stati annessi alla Russia dopo la guerra
russo-turca del 1877-78. Il trattato inoltre prevedeva l'istituzione
dello stato indipendente della Transcaucasia e, come clausola
segreta, l'obbligo per i russi di smobilitare le forze militari
armene39. Il 14 marzo 1918 cominciò la conferenza di pace di
Trebisonda, alla quale parteciparono inviati dell'Impero Ottomano ed
una delegazione della dieta della Transcaucasia (Sejm della
Transcaucasia). Enver Pascià offrì la rinuncia ottomana a tutte le
pretese nel Caucaso in cambio del riconoscimento della
riacquisizione delle province dell'Anatolia Orientale, come previsto
dal Trattato di Brest-Litovsk40.
Il 5 aprile 1918 il capo della delegazione della Transcaucasia Akaki
Chkhenkeli accettò il trattato di Brest-Litovsk come base per i
negoziati ed informò le autorità governative sulla necessità di
accettare tale posizione41. Il sentimento prevalente a Tbilisi era
ben diverso, visto che i georgiani si consideravano in stato di
guerra con l'Impero Ottomano42. L'11 maggio si iniziò una nuova
conferenza di pace a Batumi43; durante la conferenza gli ottomani
allargarono le loro richieste, che includevano adesso anche Tbilisi,
Alessandropoli ed Echmiadzin, in previsione della costruzione di una
linea ferroviaria fra Kars e Julfa verso Baku. I membri georgiani ed
armeni della delegazione della Transcaucasia iniziarono a
temporeggiare, ma il 21 maggio l'armata ottomana si rimise in
movimento. Il conflitto riprese e furono combattute tre nuove
battaglie: la battaglia di Sardarapat (21-29 maggio), la battaglia
di Kara Killisse (24-28 maggio) e la battaglia di Bash Abaran (21-24
maggio).
La conferenza di pace fra ottomani e i governi della Transcaucasia
con la mediazione tedesca si chiudeva senza risultati il 24 maggio.
Sebbene gli armeni fossero riusciti a sconfiggere il nemico nella
battaglia di Sardarapat, gli ottomani vinsero nella seguente
battaglia e dispersero l'armata armena.
Il 26 maggio la Georgia abbandonava la federazione della
Transcaucasia e proclamava una repubblica indipendente, secondo le
direttive della missione tedesca guidata da Friedrich Freiherr Kress
von Kressenstein e Friedrich Werner von der Schulenburg. Alla
proclamazione della Repubblica Democratica di Georgia seguì la firma
del trattato di Poti il 28 maggio. Dichiararono la propria
indipendenza anche la Repubblica Democratica dell'Azerbaigian e la
Repubblica Democratica di Armenia, costretta a firmare il trattato
di Batumi il 4 giugno.
Il generale Andranik riuscì a far fuggire la popolazione armena di
Van dall'Impero Ottomano verso l'Armenia Orientale. Le sue truppe
combatterono fra le montagne del Karabakh e Zangezur, dove era stata
fondata la Repubblica dell'Armenia montanara.
Nonostante la firma del trattato di Batumi non tutti gli armeni si
rassegnarono alle annessioni dei turchi: nella regione del Karabakh
gli armeni comandati da Andranik Toros Ozanian resistettero alla
Terza Armata durante l'estate del 1918 e fondarono la Repubblica
dell'Armenia montanara44.
Lo scontro con i tedeschi
A giugno l'arrivo di truppe tedesche in Georgia diede il via ad una
crescente rivalità fra ottomani e tedeschi per la corsa alle risorse
della regione, in modo particolare i pozzi di petrolio di Baku45.
Fin dall'inizio di giugno, l'armata ottomana comandata da Vehip
Pasha aveva rinnovato la sua offensiva lungo la strada principale
per Tbilisi, confrontandosi con una forza congiunta
tedesco-georgiana. Il 10 giugno la Terza Armata aveva attaccato e
preso molti prigionieri, provocando l'immediata reazione del governo
tedesco che aveva minacciato di ritirare le proprie truppe ed il
proprio supporto agli ottomani. Il governo ottomano fu costretto a
cedere alle pressioni dei tedeschi e decise di sospendere l'avanzata
in Georgia, riorientando la propria offensiva militare verso
l'Azerbaigian e l'Iran46.
La missione militare tedesca partì per Constanţa, portando con sé
una delegazione georgiana composta da Chkhenkeli, Zurab Avalishvili
e Niko Nikoladze, che erano stati incaricati dal governo della
Georgia di portare avanti i negoziati per in trattato conclusivo da
firmarsi a Berlino. La disfatta militare subita dai tedeschi nel
novembre 1918 rese comunque inutili questi negoziati.
La visione strategica di Enver Pascià si fece molto più ambiziosa e
l'obiettivo non era la semplice riconquista dei territori persi 40
anni prima. A marzo Enver aveva ordinato la creazione di una nuova
forza militare, chiamata l'Armata dell'Islam. In realtà questa forza
non aveva neanche la dimensione di un Corpo, comprendendo fra 14.000
e 25.000 uomini, tutti musulmani e di lingua turca.
La fine della campagna
Nel mese di luglio Enver ordinò all'Armata dell'Islam di
muovere verso le regioni controllate dalla Dittatura Centrocaspiana,
con l'obiettivo di prendere Baku sul mar Caspio. Questa nuova
offensiva era contrastata dai tedeschi, in quanto tutta la Russia
meridionale era considerata dalla Germania zona di conquista
esclusiva. L'Armata dell'Islam marciò verso la Repubblica
Democratica dell'Azerbaigian e quindi su Baku. Nel settembre del
1918, dopo una vittoriosa battaglia l'Armata obbligò la Dunsterforce
britannica ad abbandonare la città.
In ottobre il nuovo obiettivo delle truppe ottomane era il generale
armeno Andranik, che aveva stabilito la sua area di resistenza fra
le montagne del Karabakh e Zangzeur. Un distaccamento di 5000
soldati della Terza Armata ingaggiò in combattimento le milizie di
Andranik a Shishi47.
Lo scontro fu duro, però non risultò decisivo. La milizia armena di
Andranik riuscì a decimare una unità ottomana che stava provando ad
avanzare verso il fiume Varanda. Il conflitto fra armeni e ottomani
proseguì fino all'armistizio di Mudros del 30 ottobre 1918, la fine
ufficiale della campagna del Caucaso. Dopo l'armistizio le forze
ottomane iniziarono a ripiegare mentre gli armeni di Andranik misero
sotto controllo la regione del Nagorno-Karabakh48. L'armistizio
inoltre diede al generale Andranik la possibilità di stabilire una
base per una successiva espansione verso oriente e di creare un
corridoio in direzione di Nakhichevan49.
L'impero ottomano arrivava alla fine della prima guerra mondiale
dopo aver perso la campagna di Persia, la campagna del Sinai e della
Palestina e la campagna di Mesopotamia, tuttavia sul Caucaso aveva
ottenuto un grande successo, riconquistando dalla Russia tutti i
territori che aveva perso nell'Anatolia Orientale.
Conseguenze
L'Impero Ottomano era stato sconfitto dagli alleati, però i nuovi
confini sul Caucaso non erano stati stabiliti. Due anni dopo
l'armistizio, il 10 agosto 1920 fu firmato a Sèvres il trattato di
pace fra Alleati, Potenze Associate ed Impero Ottomano.
Dispute territoriali
L'armistizio non portò una immediata pace nel Caucaso: subito
dopo la fine del conflitto principale cominciò la guerra
georgiano-armena del 1918, un'altra guerra coinvolse Armenia e
Azerbaigian, mentre sull'altro fronte era in corso la guerra
d'indipendenza turca, condotta dal Movimento Nazionale Turco guidato
da Mustafa Kemal.
I confini politici della nuova Armenia previsti dal trattato di
Sèvres del 1920
Al termine della guerra con gli armeni (24 settembre - 2
dicembre 1920), il trattato di Alessandropoli consentì ai turchi di
acquisire gran parte dei territori armeni a cui avevano rinunciato
col trattato di Sèvres.
Sovietizzazione del Caucaso
Il 27 aprile 1920 il governo della Repubblica Democratica
dell'Azerbaigian fu informato che forze sovietiche, dopo aver
sconfitto le truppe bianche di Anton Denikin, stavano per
attraversare il confine settentrionale ed invadere il paese. Ad
ovest gli armeni stavano ancora occupando ampie zone
dell'Azerbaigian, mentre ad est i comunisti azeri erano in rivolta
contro il governo.
La Repubblica Azera si arrese ai sovietici, però molti ufficiali e
truppe della milizia azera provarono a resistere all'avanzata delle
forze sovietiche, e ci volle tempo prima che i sovietici
stabilizzassero la nuova Repubblica Socialista Sovietica Azera.
Il governo della Repubblica Democratica di Armenia si arrese ai
sovietici il 4 dicembre 1920. Il 5 dicembre il Comitato
Rivoluzionario Armeno (Revkom), formato in larga parte di armeni
provenienti dalla repubblica sovietica azera, entrò nella capitale
Erevan. Il 6 dicembre anche la polizia segreta di Feliks
Dzeržinskij, la Ceka, si installò in città chiudendo ufficialmente
la storia della Repubblica Democratica di Armenia50. Fu proclamata
Repubblica Socialista Sovietica Armena, guidata da Aleksandr
Miasnikyan.
Il 25 febbraio 1921, a pochi giorni dall'inizio dell'invasione del
paese, le truppe sovietiche entravano a Tbilisi, capitale della
Georgia. Il 23 ottobre, con la firma del trattato di Kars che faceva
seguito al precedente trattato di Mosca del marzo 192151, cessavano
le ostilità. Il trattato di Kars, ratificato a Erevan l'11 settembre
192252, era un trattato fra la Grande Assemblea Nazionale della
Turchia - che avrebbe proclamato la repubblica di Turchia nel 1923 -
ed i rappresentanti della Russia bolscevica, dell'Armenia sovietica,
dell'Azerbaigian sovietico e della Georgia sovietica. Tutte le 4
repubbliche sovietiche erano entrate a far parte dell'Unione
Sovietica con la firma del trattato di unione del 21 dicembre
19215354.
Teatro africano
della prima guerra mondiale
Data
3 agosto 1914 - 23 novembre 1918
Luogo
Camerun, Togo, Namibia, Tanzania, Zambia, Mozambico
Il teatro africano della prima guerra mondiale è costituito da una
serie di campagne, geograficamente separate, che avevano l’obiettivo
di conquistare le colonie dell’Impero tedesco. In particolare, le
azioni militari riguardarono Togo (ex Togoland), Camerun (Kamerun),
la moderna Namibia (Africa Tedesca del Sud-Ovest) e la vasta regione
dell’Africa Orientale Tedesca (corrispondente alle attuali Tanzania,
Burundi e Ruanda). Le colonie tedesche vennero occupate dalle
potenze dell’intesa entro i primi due anni di guerra, con
l’eccezione dell’Africa Orientale, che resistette fino al novembre
1918.
Altre limitate azioni ebbero luogo in Africa Settentrionale
(in Egitto, contro l’Impero Ottomano, ed in Libia e Marocco contro i
Senussi).
Situazione
Il Regno Unito, con la sua potenza navale, aveva il potere e le
risorse per intraprendere una conquista delle colonie tedesche in
Africa. La Germania, infatti, era l’ultima arrivata nella “corsa
all’Africa”, e molte delle colonie erano di recente acquisizione e
non ben difese. Inoltre, queste erano praticamente circondate dai
possedimenti coloniali delle altre potenze, ovvero Francia, Impero
Britannico, Belgio e, successivamente, Portogallo. Le colonie
tedesche, inoltre, erano praticamente impossibilitate a ricevere
rifornimenti dalla madrepatria.
Africa Occidentale
In Africa Occidentale, la Germania aveva le due colonie del
Togoland e del Kamerun.
Il Togoland era scarsamente difeso, e la
sua guarnigione era composta principalmente da una forza di polizia
locale. La conquista fu effettuata da inglesi e francesi, e richiese
una ventina di giorni (dal 6 al 25 agosto 1914). L’operazione,
tuttavia, permise la navigazione in sicurezza del basso fiume Volta,
e consentì alle potenze dell’intesa di appropriarsi della più
potente stazione di comunicazione radio dell’epoca, a Kamina1.
La
completa conquista della colonia del Kamerun richiese invece un paio
d’anni. La guarnigione tedesca, composta da 4.000 soldati (1.000
nazionali e 3.000 di colore), dovette affrontare una forza di
invasione di 13.000 uomini, costituita da inglesi, francesi e belgi.
Le operazioni iniziarono il 5 settembre, ed alla metà del 1915 tutte
le principali città erano state conquistate. Alcuni soldati
riuscirono a fuggire nella Guinea Spagnola. La guarnigione a difesa
dell’ultimo forte tedesco sul territorio del Kamerun si arrese nel
febbraio 19162.
Con la vittoriosa conclusione di queste due
operazioni, le potenze dell’Intesa riuscirono ad impadronirsi di ben
quattro potenti stazioni radio (tra cui quella già citata di Kamina)
e di attrezzate installazioni portuali.
Africa del Sud-Ovest
La colonia dell’Africa del Sud-Ovest Tedesca era un arido
territorio vasto ed arido, in massima parte costituito dal deserto
della Namibia. La maggioranza della popolazione tedesca risiedeva
presso la capitale Windhuk, situata a circa 320 chilometri dalla
costa. I tedeschi, complessivamente, potevano contare su circa 3.000
soldati regolari e 7.000 coloni adulti. Inoltre, la Germania aveva
relazioni molto amichevoli con i Boeri in Sud Africa, che avevano
combattuto una guerra contro l’Impero Britannico dodici anni prima.
Gli inglesi inizialmente, per questa operazione, iniziarono a
formare ed equipaggiare delle unità costituite, appunto, da Boeri.
Tuttavia, tale iniziativa trasformò in una vera e propria rivolta di
questi ultimi verso l’Impero: ben 12.000 boeri, infatti, diedero
vita alla cosiddetta Ribellione Maritz, che fu repressa nel sangue
entro la fine del 1914.
Le operazioni militari contro le forze
tedesche iniziarono nel settembre 1914, ma un primo tentativo di
invasione, da sud, venne bloccato nella battaglia di Sandfontein.
Gli anglo-boeri ripresero l’iniziativa nel marzo 1915, quando ben
67.000 uomini divisi in quattro colonne varcarono la frontiera ed
invasero la colonia tedesca. La capitale cadde il 12 maggio, ed il 9
luglio le ultime forze germaniche si arresero.
Africa Orientale
Nell’Africa Orientale Tedesca gli inglesi non furono in grado
di sottomettere completamente i difensori della colonia, nonostante
quattro anni di combattimenti e decine di migliaia di caduti (il 99%
dei quali a causa di malattie). Il comandante tedesco, colonnello
(poi maggior generale) Paul Emil von Lettow-Vorbeck, combatté una
campagna di guerriglia che durò, in pratica, tutta la guerra, anche
se il suo impatto complessivo sugli eventi bellici fu minimo.
La resa di Lettow-Vorbeck, in un dipinto di artista anonimo africano
La tattica tedesca consistette principalmente in attacchi
improvvisi e rapide imboscate, anche se non mancarono le battaglie
di una certa intensità (come quelle di Tanga e Jassin, le cui alte
perdite indussero il comandante tedesco a puntare sulla guerriglia).
Nonostante tutti gli sforzi, gli inglesi non riuscirono mai a
catturare Lettow-Vorbeck ed i suoi uomini, che si muovevano di
continuo e catturavano i rifornimenti militari inglesi e
portoghesi.
Nel 1916, il compito di annientare Lettow-Vorbeck ed i
suoi uomini venne affidato all’esperto comandante boero Jan Smuts,
ai cui ordini fu posta una consistente forza armata. Smuts ottenne
buoni successi, in particolare catturando la linea ferroviaria e
parecchi territori a nord della stessa, mentre le truppe belghe,
provenienti dal Congo, occuparono la parte orientale della colonia,
incluso il Ruanda-Urundi e la capitale Tabora. Tuttavia, non si
riuscì a sconfiggere l’armata tedesca, che rimase attiva. Nel
novembre 1917, i tedeschi sconfinarono nell’Africa Orientale
Portoghese, rientrarono poi in Africa Orientale Tedesca e si
rifugiarono infine nella Rhodesia Settentrionale. Qui, il 14
novembre 1918, Lettow-Vorbeck, dopo aver ricevuto un telegramma che
comunicava la fine delle ostilità, accettò un cessate il fuoco e si
arrese formalmente il 23 dello stesso mese.
La sua armata non venne
mai sconfitta in battaglia, ed al suo ritorno in patria venne
trattato come un eroe.
Africa settentrionale
Le operazioni militari in Nordafrica furono piuttosto
limitate. Infatti, nel 1915, le truppe ottomane, con l’aiuto di
istruttori militari tedeschi e dell’appena deposto Chedivè Abbas
Hilmi II, tentarono di impadronirsi del canale di Suez. Tuttavia,
gli inglesi riuscirono a respingere le truppe turche, ed a penetrare
successivamente in Medio Oriente.
Un’altra operazione, sempre
condotta dagli ottomani, riguardò l’infiltrazione di agenti in Libia
ed in Marocco, in modo da fomentare le ribellioni contro i
rispettivi colonizzatori (nello specifico, si trattava di Italia e
Francia). In particolare, i Senussi ottennero buoni successi nel
Sahara, riuscendo a cacciare gli italiani dal Fezzan e tenendo
impegnate in Africa truppe inglesi e francesi.
Le rivolte berbere
proseguirono anche dopo la fine delle ostilità, e furono domate solo
negli anni venti-trenta. Da citare inoltre l'effimera partecipazione
del Regno del Darfur come alleato dell'Impero Ottomano; il paese fu
immediatamente occupato dai britannici del Sudan.
Il dopoguerra
La Grande Guerra segnò la fine del colonialismo tedesco. I suoi
possedimenti, infatti, vennero divisi tra Gran Bretagna e Francia.
In particolare:
• Kamerun e Togoland: divisi
tra Gran Bretagna e Francia;
• Africa Orientale Tedesca:
Tanganika alla Gran Bretagna, con il Ruanda-Urundi al Belgio;
• Africa del Sud-Ovest
Tedesca: mandato al Sudafrica.
Quasi tutte le ex colonie tedesche diventarono indipendenti a
partire dal 1960, con l’eccezione dell’Africa del Sud-Ovest (oggi
Namibia), nel 1990.
Bibliografia
• Hew Strachan, The First
World War: To Arms. Oxford University Press, 2001, ISBN
0-19-926191-1 ( Versione on-line su Google Books)
Teatro
dell'Asia e del Pacifico della prima guerra mondiale
Data
3 agosto 1914 - 1917
Luogo
Cina, Arcipelago di Bismarck, Isole Caroline, Sporadi equatoriali,
Nuova Guinea Tedesca, Samoa Tedesche, Guam, Isole Marianne, Isole
Marshall, Tahiti
Il Teatro dell'Asia e del Pacifico della prima guerra mondiale fu la
relativamente poco sanguinosa conquista dei possedimenti coloniali
dell'Impero Tedesco nell'Oceano Pacifico ed in Cina. L'azione
militare sicuramente più significativa fu la conquista, effettuata
principalmente dalle truppe dell'Impero Giapponese, della
piazzaforte tedesca di Tsingtao (oggi in Cina). Tuttavia, ulteriori
piccole azioni di combattimento ebbero luogo a Bita Paka e Toma, in
Nuova Guinea. Tutti gli altri possedimenti austroungarici e tedeschi
in Asia e nel Pacifico caddero senza spargimento di sangue.
Assedio di Tsingtao
Tsingtao era la più significativa base tedesca della zona. Le sue
difese consistevano in circa 3.600 uomini, inclusi marine, truppe
coloniali cinesi e marinai austroungarici. In appoggio ai difensori,
vi erano un piccolo numero di navi da guerra della Kaiserliche
Marine e della k.u.k. Kriegsmarine. I giapponesi inviarono una
potente flotta, con un esercito di circa 23.000 soldati. Ulteriori
1.500 furono inviati dall'Impero Britannico.
Il bombardamento alla fortezza iniziò il 31 ottobre 1914, e
l'assalto delle fanterie ebbe luogo la notte del 6 novembre. La
guarnigione si arrese il giorno successivo. Gli austro-tedeschi
ebbero 199 morti e 504 feriti, mentre le perdite degli attaccanti
furono di 248 morti e 1.335 feriti (oltre ad ulteriori 271
giapponesi, che persero la vita nell'affondamento dell'incrociatore
Takachiho ad opera della torpediniera tedesca S-90).
Le colonie del Pacifico
I possedimenti coloniali tedeschi nell'area del pacifico erano
costituiti da una miriade di piccole isole, distanti tra loro e
scarsamente presidiate. La difesa di questi possedimenti era in
pratica affidata alle navi dello Squadrone tedesco dell'Asia
Orientale, ma allo scoppio della guerra il suo comandante,
ammiraglio Maximilian von Spee, decise di riportare in patria le sue
navi, lasciando così le colonie tedesche senza protezione.
Il 30 agosto 1914 1.400 soldati neozelandesi, scortati da
incrociatori australiani e francesi, sbarcarono nella colonia
tedesca delle Samoa, occupandola senza spargimenti di sangue. L'11
settembre 1914 500 soldati australiani sbarcarono sull'isola di Neu
Pommern (oggi Nuova Britannia), parte della colonia della Nuova
Guinea Tedesca, scontrandosi con circa 300 tra poliziotti e soldati
nativi arruolati dai tedeschi presso la località di Bita Paka. Il 17
settembre le rimanenti forze tedesche si arresero, e l'intera
colonia venne occupata dagli australiani.
In ottobre, la I Squadra giapponese dei Mari del Sud salpò alla
volta della Micronesia, dove i tedeschi possedevano numerose isole e
atolli. Il 7 ottobre i giapponesi conquistarono Yap ed entro la fine
del mese si assicurarono, praticamente senza combattere, anche il
resto dell'arcipelago delle isole Caroline, oltre alle isole
Marshall e alle isole Marianne. L'ultima colonia tedesca del
pacifico, l'isola di Nauru, si arrese agli australiani il 14
novembre 1914.
Il tenente Hermann Detzner fu l'ultimo militare dell'Impero tedesco
ad arrendersi al termine della prima guerra mondiale. Detzner era a
capo di una spedizione scientifica inviata all'inizio del 1914 nelle
giungle inesplorate dell'interno della Nuova Guinea, per verificare
la corrispondenza dei confini della colonia tedesca; privo di
contatti radio, rimase all'oscuro dello scoppio della guerra fino a
che, ritornato sulla costa, non scoprì che la colonia era stata
invasa dagli australiani. Rifiutandosi di arrendersi, Detzner si
rifugiò nell'interno dell'isola con un piccolo gruppo di soldati
nativi, compiendo nei successivi quattro anni qualche scorreria ai
danni dei villaggi più interni e sfuggendo alle pattuglie
australiane anche grazie all'aiuto di un gruppo di missionari
tedeschi. Fu proprio da questi missionari che Detzner venne a
conoscenza dell'armistizio firmato dalla Germania l'11 novembre
1918; il 9 dicembre 1918, a 28 giorni dalla fine delle ostilità,
Detzner si arrese agli australiani.
Altre azioni
Una nave corsara tedesca, la SMS Cormoran, era ancorata a Guam
quando gli Stati Uniti dichiararono guerra. L'unità venne affondata
e l'equipaggio catturato (con l'eccezione di nove uomini, che
perirono nell'affondamento). Questi divennero tra i primi
prigionieri di guerra tedeschi catturati dagli statunitensi nel
conflitto, insieme agli equipaggi della SS Kronprinz Wilhelm e della
SS Prinz Eitel Friedrich.
Intorno al 1917, i giapponesi inviarono alcuni incrociatori leggeri
e cacciatorpediniere nel Mar Mediterraneo, in appoggio alle flotte
alleate contro l'Impero Ottomano e l'Austria-Ungheria. Nel mese di
giugno, un cacciatorpediniere nipponico fu seriamente danneggiato
dal siluro lanciato dal sommergibile austriaco U-27.
L'SMS Emden fu lasciato dall'ammiraglio Maximilian von Spee, ed
iniziò una guerra contro il traffico mercantile nemico. Riuscì a
distruggere ben 30 mercantili, prima di essere a sua volta affondata
dalla HMAS Sydney nella Battaglia di Cocos. Un gruppo di marinai,
sotto il comando di Hellmuth von Mücke, riuscì a fuggire attraverso
la penisola arabica (allora parte dell'Impero Ottomano, alleato
tedesco).
L'SMS Seeadler, windjammer e nave corsara, sotto il comando di Felix
von Luckner, condusse una serie di attacchi di successo a navi
mercantili alleate nell'Atlantico e nel Pacifico, prima di fare
naufragio nella Polinesia Francese, nel 1917.
Il governo tedesco venne inoltre accusato di essere dietro il colpo
di Stato in Cina, che aveva lo scopo di eliminare la fazione
favorevole agli Alleati. Dopo il fallimento del colpo di Stato, nel
luglio 1917, Duan Qirui sfruttò l'incidente per dichiarare guerra
all'Impero Tedesco. Un'ipotesi molto più grave, in questo ambito, fu
il presunto finanziamento del Movimento di Protezione
Costituzionale, che geograficamente divise la Cina in due parti,
dando vita al periodo dei signori della guerra.
L'intervento thailandese
Il governo thailandese inviò 1.284 soldati presso il fronte
europeo nel 1918, in modo da assistere gli alleati nelle ultime fasi
della guerra. Combattendo insieme ad unità britanniche e
statunitensi, ebbero 19 morti. Inoltre, 95 thailandesi furono
accettati presso le scuole di aviazione francesi, e presero anche
parte ad alcuni degli ultimi combattimenti della guerra.
La partecipazione alla prima guerra mondiale potrebbe aver aiutato
la Thailandia ad essere accettata come membro fondatore della
Società delle Nazioni nel 1920. Un'altra motivazione per la guerra
in Thailandia fu il sistema dei diritti di extraterritorialità
accordati a tedeschi, americani, britannici e francesi nel Paese.
Questi privilegi, imposti durante il periodo coloniale, furono
gradualmente revocati nel dopoguerra. In particolare, gli Stati
Uniti vi rinunciarono nel 1920, seguiti da Regno Unito e Francia nel
19251
Bibliografia
• Falls, Cyril The Great War
(1960) pgs. 98–99.
• Keegan, John World War One
(1998) pgs. 205–206.
Fronte italiano
(1915-1918)
Data
24 maggio 1915 - 4 novembre 1918
Luogo
Alpi e Prealpi orientali, pianura veneta
Fronte italiano (in tedesco Italienfront o Gebirgskrieg, "guerra di
montagna") è il nome dato all'insieme delle operazioni belliche
combattute tra il Regio Esercito italiano e i suoi Alleati contro le
armate di Austria-Ungheria e Germania durante la prima guerra
mondiale.
Queste operazioni si svolsero nell'Italia nord orientale, lungo le
frontiere alpine, e lungo il fronte del fiume Isonzo a partire dal
23 maggio 1915, giorno di dichiarazione di guerra italiana
all'Austria-Ungheria. Questo conflitto, conosciuto in Italia anche
con il nome di "guerra italo-austriaca"1, o "quarta guerra di
indipendenza"2, vide l'Italia impegnata a fianco alle forze della
Triplice Intesa contro gli Imperi Centrali e in particolare contro
l'Austria-Ungheria, dalla quale avrebbe potuto acquisire il
Welschtirol (l'attuale Trentino), Trieste e altri territori quali il
Sud Tirolo, l'Istria e la Dalmazia.
Nonostante l'Italia intendesse sfruttare l'effetto sorpresa per
condurre una veloce offensiva, volta ad occupare le principali città
austriache, il conflitto si trasformò ben presto in una sanguinosa
guerra di posizione, simile a quella che si stava combattendo sul
fronte occidentale.
Premesse
Le cause che portarono ai combattimenti sul fronte italiano sono da
ricercare nel secolo precedente, a partire dalla definitiva
sconfitta di Napoleone nel 1815, e dagli sconvolgimenti territoriali
che questa comportò. Con il congresso di Vienna gran parte
dell'Italia nord orientale cadde sotto il dominio e l'influenza
austriaca, e nonostante le sommosse del 1848, le forze fedeli
all'imperatore d'Austria mantennero il controllo sui territori
italiani3.
Con la fine della guerra di Crimea combattuta vittoriosamente
dall'Impero ottomano, Francia, Gran Bretagna e Regno di Sardegna
contro l'Impero russo, si riunì nella capitale francese il congresso
di Parigi nel quale il Presidente del consiglio del Regno di
Sardegna Cavour ottenne che per la prima volta in una sede
internazionale si ponesse la questione italiana. All'unità d'Italia
Napoleone III fu sentimentalmente favorevole, come le era - senza
sentimento - anche la Gran Bretagna, poiché un'Italia unita avrebbe
potuto contrastare la potenza francese. In un tumultuoso precipitare
degli eventi, nel 1861 nacque il Regno d'Italia, proprio mentre
nasceva la Germania unita sotto l'Impero degli Hohenzollern, ed
emergevano nuove potenze quali Stati Uniti d'America e Giappone. Il
predominio mondiale della triade anglo-franco-russa nel 1870 poteva
dirsi concluso, ma non erano concluse le pretese delle potenze
europee in Africa4.
Gran Bretagna, Francia e più timidamente anche la Germania, si
assicurano ampie conquiste in Africa, mentre l'Italia in modo
incauto cerca anch'essa il suo "spazio vitale" nel corno d'Africa
anziché cercare in casa propria dove lo troverebbe nel centro-sud
miserabile e arretrato5. Partì così la campagna d'Eritrea in un
clima di ottimismo che venne stroncato durante la battaglia di Adua
dove all'alba del 1º marzo 1896 i 15.000 soldati del generale Oreste
Baratieri, vennero travolti dagli oltre 100.000 guerrieri di Menelik
II6. Le politiche aggressive degli stati europei si sfogano in vari
conflitti localizzati riguardanti le colonie, ma andava comunque
crescendo l'inquietudine di un conflitto generalizzato che avrebbe
coinvolto le maggiori potenze in uno scontro all'ultimo sangue.
Inizia così la corsa alle alleanze; nel 1882 Otto von Bismarck
allarga l'alleanza fra Germania e gli Asburgo, all'Italia, nel
tentativo di spegnere nei francesi ogni velleità di rivincita per la
sconfitta patita nel 1870. L'alleanza fu pensata anche in senso anti
russo, sbarrando allo zar ogni possibilità di aprirsi nel
Mediterraneo. Ciò comportò un'alleanza tra Francia e Russia nel 1893
alla quale si aggiunse dodici anni dopo la Gran Bretagna7. Una nuova
tornata di conflitti locali fu innescata nel 1911 dall'Italia con
l'impresa libica che porterà l'Impero Ottomano a lasciare la presa
in Libia e nelle terre balcaniche, scoprendo così l'Impero
austro-ungarico nei Balcani, regione in cui stava sempre più
delineando l'irredentismo slavo appoggiato dalla Russia con
ambizioni di destabilizzare l'Impero asburgico. Scoppiarono quindi
le guerre balcaniche del 1912 e 1913 faticosamente placate
dall'intervento austriaco8. Fu proprio questo fervore nazionalistico
che il 28 giugno 1914 sfociò nell'attentato di Sarajevo, e alla
successiva crisi diplomaticache portò allo scoppio del conflitto che
insanguinò l'Europa per i quattro anni successivi9.
La situazione del Regio Esercito
Nel periodo tra l'estate del 1910 e l'agosto del 1914,
l'ordinamento Spingardi, che prevedeva l'ampliamento dei reggimenti
alpini, delle unità di artiglieria e cavalleria, non ebbe però i
risultati di rilievo sperati a causa delle spese della guerra di
Libia e degli avvenimenti del 1914. Allo scoppio del conflitto
rimanevano da costituire ancora una quindicina di reggimenti di
fanteria, cinque reggimenti di artiglieria dei trentasei previsti, e
due reggimenti di artiglieria pesante. E se queste carenze non erano
particolarmente gravi, la situazione si faceva preoccupante
esaminando la disponibilità di uomini e mezzi in prospettiva di una
guerra europea. Gli uomini disponibili nel biennio 1914-1915 erano
circa 275.000 con 14.000 ufficiali, e a questa carenza seguirono
delle misure per risolvere il problema quantitativo, andando
necessariamente a scapito della qualità10.
Altra fonte di preoccupazione era la consistenza delle dotazioni di
armi e materiali, intaccate in maniera considerevole per far fronte
alle esigenze in Libia. Se i fucili e i moschetti
Carcano-Mannlincher mod. 1891 erano sufficienti per armare
l'esercito regolare, lasciando i vecchi Vetterli-Vitali Mod. 1870/87
alla Milizia Territoriale, più critica era la situazione delle
artiglierie, in particolare di quelle di medio e grosso calibro, in
relazione non solo al numero di bocche da fuoco, ma anche delle
scorte di munizioni e ai quadrupedi necessari alle batterie. Infine
si era ben lontani dal numero di mitragliatrici richiesto per poter
assegnare una sezione di due armi a ciascun battaglione di fanteria
di linea, di granatieri, di bersaglieri e di alpini11.
Con una circolare del 14 dicembre 1914, il Comando del Corpo di
Stato Maggiore ordinò la creazione di 51 reggimenti di fanteria, ma
se per quanto riguarda gli uomini sarebbe stato possibile
raggiungere in tempi relativamente brevi gli organici previsti, ben
più difficile sarebbe stato rimediare alla mancanza di
mitragliatrici. Con le 618 armi tipo Maxim-Vickers mod. 1911
disponibili al momento dell'entrata in guerra, fu possibile
allestire solo 309 sezioni delle 612 previste, e solo nel 1916 con
l'acquisto di mitragliatrici dalla Francia e con la produzione su
larga scala della Fiat-Revelli mod. 1914, la fanteria ebbe in
dotazione armi automatiche a sufficienza12.
Parallelamente anche la critica situazione delle artiglierie, in
attesa che la mobilitazione industriale desse i suoi frutti, sarebbe
stata migliorata con l'utilizzo temporaneo di tutti i materiali
disponibili anche se antiquati e con provvedimenti atti a requisire
i pezzi dalle batterie costiere e dalle opere fortificate lontane
dalla zona delle operazioni13. A fine agosto 1914, l'evoluzione
politica suggerì di anticipare i tempi, avvicinando le truppe ai
confini mettendo in movimento unità di fanteria ancora in fase di
approntamento. Il 4 maggio 1915 furono completati i provvedimenti
necessari per portare l'esercito in ordine di battaglia a quattro
armate, quattordici corpi d'armata e trentacinque divisioni,
portando la forza in armi a 1.339.000 uomini14.
Il piano strategico italiano
Il piano strategico dell'esercito italiano, sotto il comando
del generale Luigi Cadorna, Capo di Stato Maggiore italiano,
prevedeva di intraprendere un'azione offensiva/difensiva per
contenere gli austro-ungarici nel loro saliente incentrato sulla
città di Trento e sul fiume Adige, che si incuneava nell'Italia
settentrionale lungo il lago di Garda, nella regione di Brescia e
Verona; concentrando invece lo sforzo offensivo verso est, dove gli
italiani potevano contare a loro volta su un saliente che si
proiettava verso l'Austria-Ungheria, poco a ovest del fiume Isonzo.
L'obiettivo a breve termine dell'Alto Comando italiano era
costituito dalla conquista della città di Gorizia, situata poco più
a nord di Trieste, mentre quello a lungo termine, ben più ambizioso
e di difficile attuazione, se non addirittura "visionario" prevedeva
di avanzare verso Vienna passando per Trieste15.
Nei disegni del generale Cadorna, la guerra contro un nemico già
indebolito dalle carneficine del fronte orientale si sarebbe dovuta
concludere in breve con l'esercito italiano vittorioso in marcia su
Vienna. Sul fronte italiano furono ammassati circa mezzo milione di
uomini, a cui in un primo tempo gli austriaci seppero contrapporre
soltanto 80.000 soldati, in parte inquadrati in milizie territoriali
male armate e poco addestrate16. Il fiume Isonzo avrebbe costituito
quindi il fronte principale, quello che una volta sfondato avrebbe
dovuto condurre a Trieste prima e a Vienna poi. Cadorna sognava
manovre colossali di tipo napoleonico, con enormi attacchi lungo
tutta la linea per dare letteralmente delle "spallate" al sistema
nemico e arretrarlo portandolo al crollo17.
Mentre sul fronte dolomitico gli italiani, fortemente carenti di
artiglierie e mitragliatrici destinate soprattutto ad est, avrebbero
dovuto attaccare lungo due principali direttrici strategiche; fra le
Dolomiti di Sesto e attraverso il col di Lana. Queste azioni
avrebbero portato ad uno sfondamento in profondità sufficiente per
raggiungere la val Pusteria con la sua importante ferrovia e il
fondovalle che portava da un lato verso il Brennero e dall'altro nel
cuore dell'Austria. Nella parte meridionale del fronte dolomitico,
invece, la priorità era l'occupazione della val di Fassa, da dove si
sarebbero potute raggiungere Bolzano attraverso il passo Costalunga,
oppure addirittura Trento seguendo la valle dell'Avisio. Oltre a
questi settori dove si puntava a penetrazioni strategiche, gli
italiani attaccarono anche nel cuore del massiccio dolomitico, su
creste, lungo canaloni e persino sulle cime, spesso in condizioni
svantaggiose dato che gli austriaci occupavano quasi sempre
postazioni più elevate, in azioni che ebbero notevoli effetti sul
morale delle truppe ma che non mutarono in alcun modo l'andamento
bellico del conflitto18.
La situazione dell'esercito austro-ungarico
La situazione dell'imperiale e regio esercito austro-ungarico
allo scoppio del conflitto con l'Italia era molto complicata. La
struttura stessa dell'esercito e il mosaico di istituzioni e diverse
nazionalità che lo componevano rendevano le forze armate asburgiche
una struttura molto complicata. Il nucleo centrale dell'esercito era
costituito dall'imperial e regio esercito, ovvero il kaiserlicht und
königliche Armee (k.u.k), c'erano poi i due eserciti nazionali,
previsti dal compromesso risalente al lontano 1867, l'esercito
ungherese Honvéd e quello austriaco Landwehr, il primo era sotto il
controllo di Budapest, capitale del regno d'Ungheria, l'altro sotto
diretto controllo di Vienna. Vi erano poi una moltitudine di milizie
territoriali e altri corpi derivati da antiche istituzioni locali,
composti principalmente da uomini provenienti dagli stessi territori
e dalla stessa lingua madre1920.
Quando nel maggio 1915, con tutte le annate abili al servizio già
sul fronte orientale, fu ordinata una mobilitazione generale che
consentì di radunare quarantasette battaglioni di ragazzi tra i 15 e
i 19 anni, che il governo richiamava periodicamente per le
esercitazioni premilitari, e uomini di età compresa tra i 45 e i 70
anni, subito inviati di rincalzo alle poche truppe regolari21. La
maggior parte delle truppe regolari venne schierata sul fronte
dell'Isonzo dove gli italiani avrebbero attaccato in forze, ma
questa forza poté contare a non più di tre divisioni per un totale
di ventiquattro battaglioni ed un centinaio di cannoni, dato che
Falkenhayn si rifiutò in un primo tempo di inviare le sette
divisioni richieste da Conrad22, mentre il fronte tirolese venne
presidiato prevalentemente dalla gendarmeria tirolese e dagli
Standschützen, milizie ausiliari organizzate da secoli nei
tradizionali circoli di tiro al bersaglio.
Queste truppe avrebbero dovuto fungere da rincalzo, ma per la
carenza di truppe regolari, gli Standschützen furono spesso
incaricati di presidiare punti pericolosi del fronte, dove rimasero
coinvolti in violenti combattimenti23. Sempre sul fronte alpino
vennero schierati anche i Landesschützen e i Kaiserjäger, corpi
formati da personale tirolese e in seguito anche austriaco e boemo,
che però allo scoppio delle ostilità erano prevalentemente schierati
sul fronte orientale. In questo settore del fronte accorsero in
aiuto i tedeschi che il 26 maggio 1915 inviarono un nutrito
contingente del Deutsche Alpenkorps che diede un grosso aiuto agli
austro-ungarici su tutto il fronte alpino fino al 15 ottobre, data
in cui vennero ritirati dal fronte italiano24. Il comando supremo
delle forze asburgiche schierate contro gli italiani era nelle mani
dell'arciduca Eugenio, mentre a est il settore dell'Isonzo ricadeva
sotto la responsabilità del generale Svetozar Boroevic von Bojna,
che aveva ai suoi ordini una forza di circa 100.000 uomini25.
Forte Corno in un'immagine del 1915 circa.
Le contromisure austriache
Gli austriaci predisposero fin da fine Ottocento diverse
postazioni difensive al confine con l'Italia nell'eventualità di una
guerra. Il fronte del Tirolo era suddiviso in cinque sezioni dette
"Rayon", due delle quali comprendevano le Dolomiti, ma fin
dall'inizio delle ostilità, la linea del fronte non corrispose a
quella del confine politico, giudicato indifendibile dal comando
supremo austriaco con le scarse forze disponibili in quel momento26.
Per contenere l'avanzata italiana, che si riteneva sarebbe stata
rapida e decisiva, fu necessario accorciare il fronte eliminandone
per quanto possibile la sinuosità, attestandosi in difesa di zone
più favorevoli e attorno alle fortificazioni già esistenti nei
passaggi obbligati. Questo significava lasciare agli avversari ampie
porzioni di territorio. Gli italiani conquistarono così, senza
combattimenti, la conca d'Ampezzo, il comune di colle Santa Lucia e
il basso Livinallongo, terre ladine i cui uomini erano arruolati
nell'esercito imperiale austro-ungarico. Gli austriaci iniziarono la
guerra sulla difensiva e vi rimasero per tutta la durata del
conflitto; le uniche azioni offensive non ebbero lo scopo di
sfondamento, ma la conquista di posizioni più favorevoli27.
L'Italia entra in guerra
Dopo l’attentato di Sarajevo, Austria-Ungheria e Germania
decisero di tenere all'oscuro delle loro decisioni l'Italia. Ciò in
considerazione del fatto che l'articolo 7 della Triplice alleanza
avrebbe previsto, in caso di attacco dell'Austria-Ungheria alla
Serbia, compensi per l'Italia28. Il 24 luglio, Antonino di San
Giuliano, ministro degli esteri italiano, prese visione dei
particolari dell'ultimatum e protestò violentemente con
l'ambasciatore tedesco a Roma, dichiarando che se fosse scoppiata la
guerra austro-serba sarebbe derivata da un premeditato atto
aggressivo di Vienna. L'Italia pertanto secondo il ministro non
aveva l'obbligo, dato il carattere difensivo della Triplice
alleanza, di aiutare l'Austria, anche nel caso in cui la Serbia
fosse stata soccorsa dalla Russia29.
La decisione ufficiale e definitiva della neutralità italiana fu
presa nel Consiglio dei ministri del 2 agosto 1914 e fu diramata il
3 mattina. Diceva:
« Trovandosi alcune potenze d'Europa in istato di guerra ed
essendo l'Italia in istato di pace con tutte le parti belligeranti,
il governo del Re, i cittadini e le autorità del Regno hanno
l'obbligo di osservare i doveri della neutralità secondo le leggi
vigenti e secondo i princìpi del diritto internazionale.
[...]30 »
La neutralità ottenne inizialmente consenso unanime, tuttavia, il
brusco arresto dell'offensiva tedesca sulla Marna inserì i primi
dubbi sulla invincibilità tedesca. Macule interventiste andarono
formandosi nell'autunno 1914 fino a raggiungere una consistenza non
trascurabile appena un anno dopo. Gli interventisti additavano la
diminuzione della statura politica incombente sull'Italia se fosse
rimasta spettatrice passiva. I vincitori non avrebbero dimenticato
né perdonato, e se i vincitori fossero stati gli Imperi Centrali, si
sarebbero anche vendicati della nazione che accusavano traditrice di
un'alleanza trentennale31.
Secondo gli interventisti, questa guerra avrebbe vendicato tutte le
sconfitte e le umiliazioni del passato, da Adua, da Custoza e Lissa
fino a Federico Barbarossa, Alarico e Brenno; e avrebbe permesso di
completare l'unità d'Italia con l'annessione delle terre irredente;
terre che tra l'altro, l'Intesa avrebbe assicurato all'Italia se si
fosse schierata al suo fianco32. Alla fine del 1914 il ministro
degli Esteri Sidney Sonnino iniziò le trattative con entrambe le
parti per scucire i maggiori compensi possibili, e il 26 aprile 1915
concluse le trattative segrete con l'Intesa mediante la firma del
patto di Londra con il quale l'Italia si impegnava ad entrare in
guerra entro un mese33. Il 3 maggio successivo fu denunciata la
Triplice Alleanza e fu avviata la mobilitazione, e il 23 maggio fu
dichiarata guerra all'Austria-Ungheria, ma non alla Germania con cui
Salandra sperava di non guastarsi del tutto34.
Tradita l'alleanza con gli Imperi Centrali, la reazione
dell'Imperatore Francesco Giuseppe non si fece attendere:
« Il Re d'Italia mi ha dichiarato guerra.
[...] Dopo
un'alleanza durata più di trent'anni, durante i quali l'Italia poté
incrementare l'espansione verso nuovi territori e veder diventare
floride le sue condizioni, siamo stati da essa abbandonati in
quest'ora di pericolo ad affrontare da soli i nostri nemici. [...]
Le importanti memorie di Novara, Mortaro e Lissa, che costituirono
l'orgoglio della mia giovinezza, lo spirito di Radetzky,
dell'Arciduca Albrecht e di Tegetthoff che è vivo tra le mie forze
di terra e di mare, garantiranno la nostra vittoria anche a sud;
difenderemo i confini della Monarchia.
Saluto le mie esperte
truppe, avezze alla vittoria. Faccio affidamento su di esse e sulle
loro guide. Faccio affidamento sul mio popolo il cui incomparabile
spirito di sacrificio merita il mio plauso. Prego l'Onnipotente di
benedire la nostra bandiera e farci omaggio della Sua graziosa
protezione nella nostra giusta causa. »
(Documento datato 23 maggio 1915 con il quale l'Imperatore rispose
alla dichiarazione di guerra italiana35)
Il fronte isontino
Durante i primi anni di guerra fu sul fronte dell’Isonzo che
si combatterono le battaglie più dure e cruente. Questo fronte, ben
meno esteso di quello alpino, assunse fin dall'inizio grande
importanza strategica nei piani italiani. Questi riversarono sulle
rive del fiume Isonzo la maggior parte delle risorse nel tentativo
di sfondare le difese austro-ungariche, cercando di aprirsi la
strada verso il cuore dell'Austria grazie all'urto della 2ª armata
del generale Pietro Frugoni e della 3ª armata del duca d'Aosta.
Dalla conca di Plezzo al monte Sabotino, che domina le basse colline
davanti a Gorizia, l’Isonzo scorre tra due ripidi versanti montani,
costituendo un ostacolo quasi invalicabile. Così, le linee
trincerate dei due eserciti dovettero adattarsi all’orografia e alle
caratteristiche del campo di battaglia36.
Gli austro-ungarici, abbandonata la vallata di Caporetto,
fronteggiano i reparti italiani su una linea quasi ovunque dominante
che andava dal monte Rombon, passava per il campo trincerato di
Tolmino per poi collegare il ripido versante destro del fiume con
quello sinistro, in corrispondenza con le trincee del monte
Sabotino. Dal Sabotino le trincee austro-ungariche difendevano la
città di Gorizia, fino ad oltrepassare nuovamente l’Isonzo per
innestarsi alle quattro cime del massiccio del San Michele e
proseguire infine fino al mare lungo il primo ciglione carsico,
passando per località rese famose dalla guerra; San Martino del
Carso, monte Sei Busi, Doberdò, monti Debeli e Cosich37.
Invasa già all’inizio del conflitto l’ampia area pedecarsica e
occupate Gradisca e Monfalcone, le truppe italiane si attestarono a
poca distanza dalle posizioni austro-ungariche. Da una parte e
dall’altra del fronte, l’ampio e complesso sistema logistico dei due
eserciti occupava molto in profondità il territorio, sequestrando
vie di comunicazione, campi e boschi, città e paesi, impiantando
comandi, presidi militari, magazzini, depositi, ospedali e cannoni.
Da tutte e due le parti del fronte, venne evacuata la maggioranza
dei civili dalle città e dai paesi a ridosso della linea del fronte.
Dalla parte austriaca, l’esodo riguardò in particolare Gorizia,
l’Istria e le aree del Carso e del Collio, i cui abitanti vennero
sfollati all’interno dell’Impero, in grandi campi profughi. Nei
territori occupati dall’esercito italiano vennero internati per
precauzione molti parroci e autorità austriache, mentre le
popolazioni dei paesi prossimi alla zona delle operazioni vennero
trasferite in varie località del Regno e in varie città e sperduti
paesi dell’Italia meridionale38.
Il fronte alpino
Il fronte di montagna impegnerà per quasi tutta la durata del
conflitto i soldati in una "guerra verticale" combattuta tra le cime
delle montagne. In questa foto alcuni alpini in cordata.
Le truppe austro-ungariche si trovarono per tutto il periodo dei
combattimenti in montagna in una posizione sopraelevata e di
vantaggio nei confronti del nemico. In questa foto fanti austriaci
armati con una Schwarzlose sul fronte alpino.
Nel maggio 1915 la frontiera tra Italia e l'impero
austro-ungarico correva lungo la linea stabilita nel 1866, al
termine della guerra che permise all'Italia, seppur sconfitta
militarmente, di annettere il Veneto. Era un confine prevalentemente
montuoso, che nella sua parte occidentale corrispondeva quasi
ovunque con l'attuale limite amministrativo della regione
Trentino-Alto Adige. Il punto più basso, appena 65 m.s.l.m., era in
corrispondenza del Lago di Garda presso Riva. A ovest di questa
linea si sfioravano i 4000 m di quota nel massiccio
dell'Ortles, mentre a est le quote erano più basse; la Marmolada
raggiunge la ragguardevole quota di 3342 m, ma - oltre la zona
degli altopiani e la lunga catena del Lagorai - la particolare
morfologia delle Dolomiti priva di lunghe creste continue, imponeva
al confine un andamento assai irregolare e con forti e frequenti
dislivelli39
Proseguendo verso est, il confine correva lungo la catena delle Alpi
Carniche per poi incontrare le Dolomiti al Passo di Monte Croce di
Comelico, e quindi innalzarsi subito in grandi montagne: Croda Rossa
di Sesto, Cima Undici, monte Popera, Croda dei Toni fino a toccare
le Tre Cime di Lavaredo, dove il confine si abbassava, attraversava
la val Rimbon e con un giro contorto lasciava in territorio italiano
gran parte di Monte Piana. Sceso a Carbonin, il confine risaliva
fino alla cima di Monte Cristallo per poi ridiscendere nella valle
dell'Ansiei, lasciando il Passo Tre Croci all'Austria, e attraverso
le creste del Sorapis raggiungeva il fondovalle di Ampezzo, a sud di
Cortina40.
Attraverso il Becco di Mezdì e la Croda del Lago, il confine,
attraverso il passo Giau, puntava decisamente verso sud fino ad
arrivare ai piedi della Marmolada per poi proseguire verso il passo
San Pellegrino e lungo la catena del Lagorai - ormai fuori
dall'ambiente dolomitico - fino ad arrivare alla sopracitata valle
dell'Adige passando per il monte Ortigara, l'altopiano dei Sette
Comuni e il Pasubio. Il confine quindi toccava la punta nord del
lago di Garda da cui riprendeva la sua corsa verso nord lungo
l'odierno confine amministrativo, toccando il monte Adamello, il
passo del Tonale e proseguendo fino al massiccio
dell'Ortles-Cevedale al confine con la Svizzera41.
Il terreno roccioso e verticale, le avversità climatiche e le quote,
determinarono decisamente il modo di condurre le azioni e di
programmare le strategie in entrambi gli eserciti. Fin dall'inizio
del conflitto i contendenti furono impegnati in una sfida per
occupare le posizioni sopraelevate, in una sorta di "gioco" che in
breve li portò fino alle cime delle montagne. Camminamenti oggi
impegnativi col bel tempo ed equipaggiamento leggero erano
normalmente percorsi di notte, con carichi pesantissimi e in ogni
condizione climatica. Venti fortissimi, temporali che infuriavano in
quota, fulmini, le bassissime temperature invernali, le scariche di
pietre e le valanghe, mietevano centinaia di vittime tra i soldati,
spesso ignorati e non conteggiati tra i caduti in guerra42.
Migliaia di soldati dovettero abituarsi a condizioni molto rigide e
ad un ambiente difficile. In inverno la neve alta impediva i
movimenti lasciando interi presidi completamente isolati, lasciando
i soldati nella morsa del freddo e della fame, che li portava ad
uscire dalle baracche per raggiungere la base più vicina,
traversando ripidi pendii dove spesso trovavano la morte. In base ad
alcune stime, si valuta che sul fronte alpino, per entrambi gli
schieramenti, circa due terzi dei morti furono vittime degli
elementi, e solo un terzo vittime di azioni militari dirette43. Tra
le opere belliche di rilievo che servivano come via sicura per il
raggiungimento delle vette, è da citare la Strada delle 52 gallerie
sul Pasubio.
Si aprono le ostilità
All'alba del 24 maggio 1915 le prime avanguardie del Regio Esercito
avanzarono verso il confine, varcando quasi ovunque il confine con
l’ex alleato e occupando le prime postazioni al fronte. All’inizio,
la mobilitazione italiana avvenne con lentezza, a causa della
difficoltà di muovere contemporaneamente più di mezzo milione di
uomini con armi e servizi44. Vennero sparate le prime salve di
cannone contro le postazioni austro-ungariche asserragliate a
Cervignano del Friuli che, poche ore più tardi, divenne la prima
città conquistata. All'alba dello stesso giorno la flotta
austro-ungarica bombardò la stazione ferroviaria di Manfredonia, la
città di Ancona, Senigallia, Potenza Picena e Rimini senza causare
in nessuna occasione gravi danni, mentre la flotta italiana ebbe
successo solo nel bombardamento di Porto Bruno e nell'occupazione di
Pelagosa45.
Lo stesso 24 maggio cadde il primo soldato italiano, Riccardo di
Giusto. Nei primi giorni di guerra Cadorna progettò un attacco su
tutta la linea del fronte, attestando il Regio Esercito sulla riva
destra dell’Isonzo. Altri obiettivi importanti oltre l’Isonzo, come
Tolmino e il Monte Nero, non furono raggiunti per la mancanza della
necessaria copertura di artiglieria46.
Le prime operazioni di terra
La prima mossa dell'Italia fu un'offensiva mirata a
conquistare la città di Gorizia, di là del fiume Isonzo. A partire
dalla fine di giugno del 1915, sul Carso si susseguirono violenti
combattimenti in cui la prima linea austro-ungarica cedette sotto i
colpi dell'artiglieria italiana nei pressi di quota 89 di Redipuglia
e sopra Sagrado durante la prima battaglia dell’Isonzo. Nel corso
della seconda offensiva estiva, gli attacchi italiani costrinsero
gli austro-ungarici ad arretrare le loro trincee di alcune centinaia
di metri sull'altipiano di Doberdò e davanti al villaggio di San
Martino del Carso, mentre nel settore del San Michele cadde un
importante costone trincerato (quote 140 e 170) dal quale i reparti
italiani erano in grado di minacciare da vicino le cime del monte.
Davanti a Gorizia, tra Podgora e il monte Sabotino, gli attacchi
italiani non ebbero alcun esito, e anche lungo il medio e alto
Isonzo, la linea difensiva austriaca rimase pressoché inalterata47.
Ancora una volta il Comando Supremo insistette con gli attacchi
frontali e la scarsa coordinazione dell'artiglieria con i piani di
attacco della fanteria. Da sottolineare che alle batterie italiane
iniziavano a scarseggiare le munizioni e questo indusse Cadorna a
sospendere gli attacchi48.
L'autunno successivo Cadorna ordinò nuovi attacchi alle postazioni
nemiche, che dal canto loro, sfruttarono il momento di stasi
operativa per fortificare e consolidare le postazioni. Nonostante
gli sforzi della 2ª e 3ª armata, impiegate in forze sul Carso
davanti a Gorizia e sul Monte Nero, le due nuove "spallate"
pianificate dal generale Cadorna non sortirono gli effetti sperati.
Gli italiani riuscirono a conquistare e successivamente perdere il
villaggio distrutto di Oslavia, a portare avanti seppur di poco la
linea delle trincee davanti a Doberdò, a occupare la posizione
austriaca "delle frasche" davanti a San Martino e a spingersi a
ridosso delle cime del San Michele, ancora saldamente in mano ai
reparti ungheresi; ma le linee nemiche resistevano ancora bene e
queste due offensive autunnali non riuscirono a sfondare la linea
del fronte.
Alla fine del 1915 lungo l’Isonzo l’esercito italiano registrò circa
235 000 perdite (tra morti, feriti e ammalati, prigionieri e
dispersi), mentre gli austriaci, pur difendendosi quasi
esclusivamente, subirono oltre 150 000 perdite49. Gli
austro-ungarici iniziavano a preoccuparsi dell'assotigliamento degli
effettivi ma il sistema difensivo reggeva bene l'urto dei fanti
italiani che ancora una volta vedevano vanificati i loro sforzi.
Nessuno degli obiettivi del comando supremo era stato raggiunto ed
ormai la stagione avanzata consigliava la sospensione delle
operazioni in grande stile anche perché, considerate le perdite,
entrambi gli schieramenti non potevano permettersi di continuare una
lotta all'ultimo uomo50.
Le operazioni alpine
Parallelamente alle offensive portate nei primi mesi di guerra
dalla 2ª e 3ª armata sul fronte isontino, tenente generale Luigi
Nava, al comando della 4ª armata italiana, il 3 maggio diede
l'ordine di avanzata generale lungo tutto il fronte. Quest'ordine
diede il via ad una serie di piccole offensive in vari punti del
fronte dolomitico svoltesi tra fine maggio ed inizio giugno. L'8
giugno gli italiani attaccarono nell'alto Cadore, sul Col di Lana,
nel tentativo di tagliare una delle principali vie di rifornimento
austriache al settore Trentino attraverso la Val Pusteria. Questo
teatro di operazioni fu secondario rispetto alla spinta ad est,
tuttavia ebbe il merito di bloccare, in seguito, contingenti
austro-ungarici: la zona di operazioni si avvicinava infatti più di
ogni altro settore del fronte a vie di comunicazione strategiche per
l'approvvigionamento del fronte tirolese e trentino51.
Tra il 15 e il 16 giugno partì la prima offensiva verso il Lagazuoi
e le zone limitrofe, in un attacco teso a catturare il Sasso di
Stria, sulla cui cima era stato installato un osservatorio di
artiglieria austriaco52. Poco più a nord, tra giugno e luglio, gli
italiani lanciarono i primi attacchi sulle Tofane e verso la val
Travenazes dove di fronte ad una avanzata iniziale, il 22 luglio
furono ricacciati su posizioni sfavorevoli dopo il contrattacco
austriaco53. Dopo aver occupato Cortina e passo Tre Croci il 28
maggio, gli italiani si trovarono dinnanzi a tre ostacoli che gli
impedivano di entrare a Dobbiaco e in val Pusteria; il Son Pauses,
il Monte Cristallo e il Monte Piana. Gli italiani in giugno
attaccarono tutti e tre i capisaldi, ma senza ottenere il alcun caso
risultati di rilievo. Entrambi gli schieramenti furono invece
costretti a trincerarsi su posizioni che, in pratica, non sarebbero
mai cambiate fino al 1917.
Più a est, altri settori furono testimoni dei primi scontri tra
italiani e austro-ungarici, il 25 maggio viene bombardato dagli
italiani il rifugio Tre Cime alla base delle Tre Cime di Lavaredo54,
anche se il primo vero attacco italiano si avrà solo in agosto; l'8
giugno la a 96ª compagnia del Pieve di Cadore e la 268ª compagnia
del Val Piave occupano il passo Fiscalino55, mentre tra luglio e
agosto gli italiani occupano la cima di monte Popera, la cresta
Zsigmondy, e Cima Undici in quanto non erano presidiate dagli
austriaci56, mentre più a est per tutta l'estate si susseguirono i
tentativi italiani di sfondamento del passo Monte Croce di Comelico
che ben presto però si trasformarono in una guerra di posizione che
durò fino al 1917.
Ad ovest del settore alpino dalla fine di maggio del 1915 all’inizio
di novembre del 1917, il possesso del massiccio della Marmolada
costituì un elemento strategico particolarmente importante perché
controllava la strada alla val di Fassa e alla val Badia, e quindi
al Tirolo che divenne subito uno dei punti più caldi del fronte
alpino occidentale57.
Postazione austriaca a Torre Toblin- Toblinger Knoten, estate
1916/17
Altro settore considerato molto importante dagli italiano era
il passo del Tonale, su cui già prima della guerra furono costruiti
alcuni settori fortificati in previsione di una guerra tipicamente
difensiva. Le disposizioni del Comando Supremo stabilivano infatti
che sul fronte Trentino fossero effettuate, ove necessario, solo
piccole azioni offensive al fine di occupare posizioni più
facilmente difendibili, che consentissero alle truppe italiane di
attestarsi in luoghi più facilmente accessibili e rifornibili58.
Allo scoppio delle ostilità, i comandi militari italiani si resero
conto che la presenza degli austriaci sulle creste dei Monticelli e
del Castellaccio-Lagoscuro, rappresentava una seria minaccia per la
prima linea sul Tonale. Venne così decisa un’azione per scacciarli
da tali posizioni. La prima operazione di guerra sui ghiacciai fu
affidata al battaglione alpini "Morbegno", ed ebbe luogo il 9 giugno
1915 per concludersi con una tremenda sconfitta: gli alpini, nel
tentativo di occupare la Conca Presena e cogliere gli austriaci di
sorpresa, effettuarono una vera e propria impresa alpinistica
risalendo la Val Narcanello, il ghiacciaio del Pisgana e
attraversando la parte alta di Conca Mandrone. Giunti al Passo
Maroccaro e iniziata la discesa in Conca Presena, furono avvistati
dagli osservatori austriaci e sottoposti, sul candore del
ghiacciaio, al preciso tiro della fanteria imperiale che, pur
essendo in numero assai inferiore, seppe contrastare l’attacco in
modo assai abile e li costrinse alla ritirata, lasciando sul campo
52 morti59.
Un mese dopo, il 5 luglio, gli austriaci attaccarono a loro volta il
presidio italiano attaccando sulle rive del Lago di Campo in alta
Val Daone. L’agguato, perfettamente riuscito, evidenziò
l'impreparazione tattica italiana, e stimolati dal successo
ottenuto, il 15 luglio, gli austriaci tentano un improvviso attacco
al Rifugio Garibaldi attraverso la Vedretta del Mandrone. Il piano
fallì per l’abilità dei difensori, ma mise nuovamente in risalto la
vulnerabilità del sistema difensivo italiano, che per questo motivo
venne rafforzato. Per quanto riguarda l'ala destra del fronte del
Tonale, le azioni italiane più significative del 1915 si svolsero in
agosto con diverse direttrici ma portarono solo alla conquista del
Torrione d’Albiolo60.
Tutte queste offensive però non portarono a nessuno sfondamento,
tanto che, come sull'Isonzo, anche la guerra di montagna divenne una
guerra di trincea simile a quella che si stava svolgendo sul fronte
occidentale: l'unica differenza consisteva nel fatto che, mentre sul
fronte occidentale le trincee erano scavate nel fango, sul fronte
italiano erano scavate nelle rocce e nei ghiacciai delle Alpi, fino
ed oltre i 3.000 metri di altitudine.
La cooperazione con la Regia Marina
La iniziale neutralità italiana influì non tanto sulla Regia
Marina ma soprattutto sui piani difensivi dei suoi alleati. Con la
flotta tedesca impegnata nel Mare del Nord, la flotta austriaca si
trovò improvvisamente sola contro le forze navali dell'Intesa,
rispetto alle quali, considerando anche solo la flotta francese, era
decisamente inferiore. Così l'Austria decise di richiudersi
all'interno dei suoi porti, cercando di mantenere il quanto più
possibile intatta la flotta e tenerla pronta contro un possibile
scontro con l'Italia. Il fronte marittimo si contrasse così entro la
fascia costiera orientale dell'Adriatico fino allo sbocco del canale
d'Otranto61.
Il primo provvedimento a livello operativo allo scoppio del
conflitto fu la ridislocazione della flotta nel porto di Taranto ove
assunse la denominazione di "Armata Navale" che il 26 agosto 1914,
fu posta al comando di S.A.R. il Duca degli Abruzzi, a cui seguirono
i primi studi per eventuali operazioni contro l'Austria. Altra
decisione fu quella, in caso di conflitto, di occupare
territorialmente una parte della costa nemica per assicurare il
sostegno del fianco destro della 3ª armata, di creare un blocco
all'imbocco del canale d'Otranto per impedire alle navi austriache
di uscire dall'Adriatico, di minare le principali linee di
comunicazione nemiche e cercare di assicurare il dominio nell'Alto
Adriatico anche per sostenere le operazioni del Regio Esercito
sull'Isonzo62. In quest'ottica, il 24 maggio, siluranti e
sommergibili vennero utilizzati per tener sgombro il golfo di
Trieste e proteggere l'avanzata della 3ª armata, che con cavalleria
e bersaglieri aveva subito conquistato Aquileia e Belvedere ed era
entrata nella città di Grado lasciata abbandonata dalle truppe
austro-ungariche. La difesa della zona fu affidata alla Regia Marina
che inviò il pontone armato Robusto armato con tre cannoni da
120 mm63.
Fu subito evidente la necessità di uno stretto coordinamento tra
esercito e marina e il sottocapo di stato maggiore, C. Amm. Lorenzo
Cusani fu inviato presso il comando supremo dell'esercito per
mantenere i contatti tra le due forze armate. Alle forze navali fu
richiesto di supportare l'ala destra della 3ª armata, e nell'ambito
di questa richiesta, il 29 maggio, una squadriglia di sette
cacciatorpediniere della classe Soldato bombardò lo stabilimento
chimico Adria-Werke di Monfalcone dove si producevano gas
asfissianti. Il 5 giugno, mentre l'esercito si apprestava a passare
l'Isonzo, la marina ne assicurò la copertura dell'avanzata con
cinque caccia e alcune torpediniere posizionate vicino la foce del
fiume, mentre tre caccia e alcuni sommergibili pattugliavano il
golfo64.
Un'ulteriore richiesta di supporto a sostegno delle operazioni a
terra avvenne durante la conquista di Monfalcone prevista per il
giorno 9 giugno, a cui parteciparono tre pontoni armati con cannoni
da 152. Conquistata la città, la difesa del porto fu affidata alla
marina, che inviò le prime batterie galleggianti che dal 16
iniziarono a battere la zona del Carso. Nei mesi successivi le
artiglierie della marina furono più volte chiamate a svolgere
operazioni coordinate. La batteria Amalfi e quelle del basso Isonzo,
sia su pontoni che fisse, effettuarono diverse azioni di fuoco
contro l'ala sinistra dell'armata austro-ungarica, battendo le
postazioni del Carso, quelle di Monte San Michele, Duino, Medeazza e
Flondar. La marina collaborò costantemente durante le operazioni di
terra che si susseguirono fino al 2 dicembre 1915, data in cui si
concluse la quarta battaglia dell'Isonzo e l'avanzata italiana si
arrestò65.
Il secondo anno di guerra
Il 1916 sorge per l'Intesa sotto auspici non favorevoli,
eccetto il progressivo potenziamento dell'esercito britannico, che a
metà dell'anno supera i due milioni di uomini, tutti ancora
volontari66. La durata della guerra sembrava allungarsi oltre ogni
previsione, e parallelamente anche l'esercito italiano iniziò
un'opera di riordinamento e potenziamento sulla base di un programma
concordato tra il Governo e il capo di stato maggiore, presentato in
maggio da Cadorna67. In novembre vennero approntate 12 nuove brigate
di fanteria e la formazione di una nuova quarta compagnia per i
battaglioni che ne avevano soltanto tre, inoltre in ogni battaglione
venne inquadrato un reparto zappatori di 88 uomini tratti dalle
compagnie. Le stesse misure vennero adottate per i bersaglieri,
mentre per quanto riguarda gli alpini, venne completato il processo
di formazione dei 26 battaglioni di Milizia Mobile portando il
totale del corpo a 78 battaglioni con 213 compagnie. Altre 4 brigate
di fanteria vennero formate tra aprile e maggio attingendo da quanto
rimaneva della classe 1896 e gli esonerati sottoposti a nuova visita
dal 1892 al 1894, e ancora tra marzo e giugno riunendo alcuni
battaglioni provenienti dalla Libia68.
Dal punto di vista delle operazioni in Italia, l'anno 1916 fu
segnato dall'offensiva austro-ungarica di maggio in Trentino, dalla
sesta battaglia dell'Isonzo in agosto, con la conquista di Gorizia,
e dalle tre cosiddette "spallate" carsiche in autunno69. Il 21
febbraio i tedeschi attaccarono la piazzaforte di Verdun mentre il
capo di stato maggiore austro-ungarico, Conrad von Hötzendorf invece
alleggerì i contingenti schieranti lungo il fronte russo, dove non
sospetta sorprese, per concentrare una grossa forza d'urto nelle
montagne del Trentino volte verso la pianura vicentina. L'enorme
difficoltà di accumulare e manovrare mezzi adeguati in regione tanto
aspra è controbilanciata dalla posta in gioco: lo sbocco delle
divisioni austriache nella pianura veneta e l'accerchiamento
dell'esercito italiano schierato nel Friuli70.
La Strafexpedition
Il 15 maggio, appena il tempo lo permise, scattò la
Strafexpedition, "spedizione punitiva". La 11ª armata
austro-ungarica passò all'attacco fra la val d'Adige e la Valsugana,
spalleggiata dalla 3ª armata, destinata allo sfruttamento del
successo. Se l'offensiva non fu una sorpresa per Cadorna, lo fu per
l'opinione pubblica; improvvisamente l'Italia scoprì, dopo un anno
di sole offensive e senza che nessuno l'avesse messa in guardia, di
trovarsi in grave pericolo. Per i successivi venti giorni
formidabili posizioni montane caddero una dopo l'altra, mentre il
governo Salandra sentì ventilare dal generalissimo Cadorna la
possibilità che l'esercito dell'Isonzo avrebbe dovuto ripiegare di
tutta fretta, abbandonando il Veneto per non cadere nella completa
distruzione71.
L’intera massa di uomini dislocati a difesa del fronte, nonostante
una strenua resistenza, dovette necessariamente iniziare la
ritirata; Cadorna iniziò quindi a richiamare le divisioni di riserva
costituendo una 5ª armata che riuscì a frenare, e quindi arrestare
concretamente, l’offensiva sugli Altopiani. Per costituire questa
nuova arma d’offesa, Cadorna corse un notevole rischio: dovette
infatti alleggerire le truppe dislocate sull’Isonzo, rischiando che
un’offensiva nemica contingente gli strappasse di mano anche le
poche e sudatissime conquiste di quel fronte. L’Austria-Ungheria si
rese subito conto della minaccia e, dopo un ultimo tentativo di
offesa ai danni delle difese del Lemerle e del Magnaboschi, cessò
l’offensiva, con relativo importante arretramento delle linee
raggiunte72.
Si concluse così la prima grande battaglia difensiva dell’Italia,
definitivamente "maturata" per la "guerra di materiali", che
l’avrebbe vista impegnare ingenti quantitativi di uomini, mezzi e
risorse fino al termine del conflitto. Purtroppo durante questa
sanguinosa e frenetica battaglia, il fatto di aver perduto terreno
(la massima penetrazione austriaca si misurò su più di 20 chilometri
in profondità verso la pianura vicentina), fatto peraltro intrinseco
delle battaglie di materiali, fece scarsamente apprezzare la reale
vittoria difensiva italiana73.
Solo il 3 giugno il bollettino italiano poté annunciare quella che
era solo una mezza verità:
« L'incessante azione offensiva nel Trentino è stata dalle
nostre truppe nettamente arrestata lungo tutta la fronte
d'attacco74 »
Il contraccolpo del rischio a malapena sventato fu la caduta
di Salandra e l'istituzione di un governo di "unione nazionale"
presieduto dall'ottuagenario Paolo Boselli75.
Le successive battaglie dell'Isonzo
Nella seconda metà del 1916 gli anglo-franco-italiani ripresero le
loro logoranti offensive dalle quali li aveva distratti l'iniziativa
nemica. Da luglio a novembre divamparono furiosi i combattimenti
sulla Somme, mentre a fine agosto Erich von Falkenhayn viene
liquidato e spedito sul fronte orientale a riscattarsi, sostituito a
occidente dal duo Ludendorff - Hindenburg. In Italia Cadorna,
respinta la Strafexpedition, tenta invano di recuperare il terreno
perduto in Trentino. Dopo una breve ritirata gli austro-ungarici si
trincerarono su posizioni formidabili, da cui gli attacchi italiani,
nonostante sanguinose perdite, non riesco a sloggiarli.
Il comandante dell'esercito italiano decise quindi di dirigere i
suoi sforzi verso una nuova offensiva lungo l'Isonzo. Il 6 agosto le
truppe italiane passano all'offensiva dal Sabotino al mare,
raggiungono e superano l'Isonzo, conquistano Gorizia deserta e
costringono l'ala meridionale della 5ª armata austro-ungarica,
comandata dal feldmaresciallo Boroević, a ripiegare di alcuni
chilometri sul Carso. Ma non è una travolgente vittoria, non
l'agognato sfondamento; i nemici hanno ceduto terreno per arroccarsi
su una nuova linea già preparata contro la quale si infrangono, fra
metà agosto e inizio dicembre, i nuovi assalti italiani76.
Da settembre iniziò quindi una nuova serie di tre "spallate" sempre
sul fronte dell'Isonzo per aumentare la superficie conquistata
nell’area tra Gorizia e il mare. Le prime due battaglie hanno breve
durata, la settima battaglia dell'Isonzo (14-16 settembre) le
conquiste italiane sono praticamente nulle ma costarono comunque un
gran numero di vittime, mentre l'ottava battaglia (10-12 ottobre) si
esaurì il terzo giorno al costo di 24.500 perdite per gli italiani e
40.500 per gli austriaci. Le truppe imperiali dovettero però operare
un arretramento di diverse centinaia di metri per rendere la nuova
linea più corta quindi meglio difendibile, tale linea andava dal
Monte Santo verso il mare passando per le colline dell'Hermada, che
diverrà tristemente nota per i sanguinosissimi scontri che vedranno
il colle terreno di lotta in quanto ultimo baluardo a difesa di
Trieste. Purtroppo per gli italiani però, errori, condizioni meteo
avverse, scarsità di materiali, furono fattori impedirono lo
sfondamento nel settore che sembrava a portata di mano77.
L’autunno particolarmente cattivo sul piano meteorologico lasciava
pochi dubbi su come sarebbe stato l’inverno, e i comandi italiani
già dopo l’ottava offensiva volevano scatenare un nuovo attacco
contro le difese carsiche prima che tutto fosse bloccato dalla
cattiva stagione. L'attacco ebbe inizio solo il 31 ottobre, la linea
da attaccare in questa operazione era quella passante per Colle
Grande-Pecinca-Bosco Malo, e possibilmente la linea Dosso
Faiti-Castagnevizza-Sella delle Trincee.
Verso Castagnevizza l'esercito riuscì a ottenere qualche
risultato di rilievo, ma a sud l’Hermada si confermava un osso duro,
riuscendo a resistere a tutti gli attacchi. Il 2 Cadorna decise di
sospendere l’attacco per mancanza di rifornimenti anche se gli
scontri ripresero comunque il 3, mentre il 4, in conseguenza ad un
arretramento degli austriaci che assunsero posizioni meglio
difendibili, le truppe italiane presero le trincee del monte Faiti.
Nel complesso si avanzò solo di qualche chilometro, le perdite
sofferte ammontarono a 39.000 soldati tra morti, feriti e dispersi
per gli italiani e 33.000 per gli imperiali78.
Intanto, mentre sul fronte si contavano le perdite di uomini e
materiali e ci si preparava ad affrontare l'inverno, a Vienna il 21
novembre morì il vecchio Imperatore Francesco Giuseppe a cui
successe il nipote Carlo I, che oltre ad un trono in disfacimento,
ereditò una guerra che non ebbe voluto. Fa proposte di pace a
Francia e Gran Bretagna che cadono nel vuoto, fornendo però il
pretesto per declinare a queste ultime le responsabilità sul
protrarsi della guerra79. Nell'inverno 1916-1917 e la primavera
successiva, in un periodo in cui le illusioni di una guerra breve
erano ormai svanite. Per tutto l'inverno, sul fronte dell'Isonzo tra
il Carso e Monfalcone la situazione rimase stazionaria, mentre sulle
Alpi, il settore del III corpo d'armata comprendente la zona tra lo
Stelvio e il lago di Garda, fu caratterizzato da piccole offensive
atte a conquistare alcune vette strategicamente importanti, tra cui
quella di monte Cavento che fu attaccato ad inizio inverno. La
Strefexpedition però causò la stasi nelle operazioni per la
conquista del monte, che ripresero a maggio 1917 con la "battaglia
dei Ghiacci" che consentì alla 242ª compagnia del battaglione alpino
"Val Baltea" la conquista della vetta80.
La guerra di mine
In alta montagna i soldati di entrambi gli schieramenti erano
spesso impegnati in piccoli scontri tra pattuglie nel tentativo di
conquistare trincee lungo le creste e le cime delle montagne. La
scarsità di uomini, i limitati terreni di scontro e le limitazioni
climatiche, che consentivano attacchi solo in determinati periodi,
fecero sì che la guerra sul fronte alpino trovasse diverse
applicazioni e nuovi metodi strategici. Nella fattispecie, si
escogitò uno speciale utilizzo delle mine: genieri, minatori e
soldati scavavano gallerie sotterranee nella roccia per raggiungere
le linee nemiche al di sotto delle quali veniva creato un grande
pozzo riempito di esplosivo. Quando la mina veniva fatta brillare la
postazione nemica saltava in aria insieme alla cima della montagna
consentendo, almeno in teoria, agli attaccanti di occupare
facilmente la posizione81.
Tra i fronti dove si praticò questo tipo di guerra si contano il Col
di Lana, il monte Cimone, il Pasubio e il Lagazuoi, benché tentativi
in questo senso furono fatti anche su altri fronti come al Monte
Piana o sul Castelletto. Nel 1916, proprio il Cimone fu teatro di
questo tipo di strategia. Il monte, dopo la Strafexpedition, era
caduto in mano austriaca, ma il suo ruolo strategico richiedeva una
reazione italiana; nell’ultima settimana di luglio fu protratto per
18 ore un pesantissimo bombardamento su vetta e contrafforti del
Cimone, al termine del quale furono mandati all’attacco i migliori
reparti di alpini e finanzieri. Sebbene inizialmente fermati, dopo
un cruentissimo scontro gli italiani ripresero la cima82.
Cominciarono quindi, senza risultati significativi, i contrattacchi
austriaci. I comandi austro-ungarici decidono allora di costruire un
tunnel sotterraneo per piazzare una mina e far saltare in aria le
postazioni italiane. Gli italiani scavano pertanto una contromina da
diversi punti di partenza e nella notte tra 17 e 18 settembre la
fanno brillare provocando il crollo dei cunicoli austriaci. Tuttavia
il lavoro degli austriaci ricomincia ancor più determinato83. Il 23
settembre due mesi dopo la conquista italiana della vetta, la mina
austriaca di 8.700 chili di Dinamon, 4.500 di dinamite e 1.000 di
polvere nera era pronta. Alle 5.45 la carica venne fatta brillare:
l’esplosione fu devastante, due gigantesche colonne di fumo si
alzarono dalla vetta proiettando in aria tonnellate di detriti e
centinaia di uomini. La postazione italiana scomparve84. Altra
guerra di mine si svolse sul Pasubio nel Dente Italiano e Dente
Austriaco.
Il terzo anno di guerra
L'inizio del 1917 a differenza dell'anno prima, si presentava
oscuro per gli Imperi Centrali. Le loro risorse si assottigliavano
mentre la Russia si era ricomposta e gli eserciti britannico e
italiano erano ancora in lenta ma inesorabile crescita. La Germania,
nel tentativo di tagliare i rifornimenti all'Intesa, che succhiava
risorse da tutto il mondo, non poté far altro che dichiarare la
guerra sottomarina indiscriminata di fronte alla sempre crescente
capacità bellica, anche a costo della rottura con gli Stati Uniti.
Ma ecco che mentre gli Alleati si preparavano ad un attacco
concentrico da scatenare nella primavera del 1917, il 15 marzo lo
zar abdicò gettando la Russia in una crisi politica dalle enormi
conseguenze, e il 6 aprile gli Stati Uniti dichiararono guerra alla
Germania. Il 1917 fu quindi caratterizzato da una crisi politica di
carattere mondiale. Nonostante il fronte orientale fosse immobile,
gli Imperi Centrali spostarono le loro forze dal fronte (140
divisioni in totale) solo con il trattato di Brest-Litovsk firmato
il 5 dicembre.
Con la Russia fuori gioco, gli Imperi centrali poterono schierare ad
occidente il grosso delle loro forze.85. Gli anglo-franco-italiani
proseguirono tuttavia il loro piano; l'8 aprile i britannici
attaccarono ad Arras, il 17 i francesi attaccarono sullo
Chemin-des-Dames, mentre il 12 maggio Cadorna scatenò la decima
battaglia dell'Isonzo, che consentirà al generale Luigi Capello di
affermarsi sull'orlo occidentale dell'altipiano della Bainsizza86.
Dalla decima all'undicesima battaglia dell'Isonzo
In seguito ai modesti guadagni ottenuti nella decima battaglia
dell'Isonzo, gli italiani diressero due attacchi contro le linee
austriache a nord e a est di Gorizia. L'avanzata a est venne
bloccata senza troppa difficoltà, ma le forze italiane sotto il
comando di Capello riuscirono a rompere le linee nemiche e a
penetrare nell'altopiano di Bainsizza. L’avanzamento,
strategicamente inutile, è pagato con un immane tributo di sangue
sia dagli attaccanti che dai difensori. Eppure l’attacco mette in
crisi l’esercito imperiale, un altro piccolo sforzo e il collasso
sarebbe stato inevitabile, l’esercito italiano però dissanguato
dall’offensiva, non riuscì a spingersi oltre.
Dopo l'undicesima battaglia dell'Isonzo, gli austriaci, stremati,
ricevettero l'ausilio delle divisioni tedesche arrivate dal fronte
russo in seguito al fallimento dell'offensiva del generale russo
Aleksandr Kerenskij. I tedeschi introdussero l'utilizzo di tattiche
di infiltrazione oltre le linee nemiche e aiutarono gli austriaci a
preparare una nuova offensiva. Nel frattempo, le truppe italiane
erano decimate dalle diserzioni e il morale era basso: i soldati
erano costretti a vivere in condizioni disumane e a ingaggiare
sanguinosi combattimenti che portavano ben pochi risultati87.
La battaglia dell'Ortigara
L'offensiva austriaca sferrata in Trentino aveva permesso
all'esercito avversario di attestarsi su una linea che infletteva
sensibilmente verso il centro dell'Altopiano dei Sette Comuni. La
controffensiva italiana del 16 giugno aveva però costretto gli
austriaci a un parziale ripiegamento, ma questi si erano stabiliti
su una linea che dal margine della Valsugana per l'Ortigara, monte
Campigoletti, monte Chiesa, monte Corno correva verso sud sino alla
Val d'Assa, assicurandosi tutti gli sbocchi più diretti alla pianura
vicentina e garantendo una enorme testa di ponte verso l'altopiano
minacciando alle spalle le armate italiane del Cadore della Carnia e
dell'Isonzo88.
Dopo la conquista di Gorizia, l'alto comando emanò le direttive per
un'offensiva denominata "azione K", che, impiegando il XVIII, XX e
XXII corpo d'armata, avrebbero dovuto concentrare il massimo sforzo
sul monte Ortigara e monte Campigoletti, staccare l'avversario
dall'orlo settentrionale dell'altopiano e arrivare alla linea cima
Portule-bocchetta di Portule. L'attacco principale sull'Ortigara
sarebbe stato svolto dai battaglioni alpini della 52ª divisione al
comando del generale Luca Montuori. Il 10 giugno l'azione ebbe
inizio con una preparazione di artiglieria dalle 5:15 del mattino
fino alle 15:00, ma già dalle 11:00 la nebbia iniziò a circondare il
monte, rendendo il tiro poco efficace. Alle 15 il tiro si allungò e
la fanteria iniziò ad avanzare; le mitragliatrici aprirono
immediatamente il fuoco e le artiglierie iniziarono a battere le
pendici dell'Ortigara senza bisogno di aggiustare il tiro in quanto
il tiro di sbarramento era già stato predisposto89. Uno dopo l'altro
18 battaglioni alpini furono mandati all'attacco, ma il tiro di
sbarramento fece sì che le truppe si trovarono ammassate, risultando
un ostacolo per le ondate successive.
Al calar della sera, la notte e la pioggia, unita al costante fuoco
nemico, fermarono lo slancio degli alpini, che non potevano essere
riforniti dai portatori in quanto anch'essi erano costantemente
fermati dal fuoco nemico. Il giorno successivo nonostante il
maltempo e lo scoramento, gli alpini furono nuovamente lanciati
all'attacco, ma stavolta non della cima, ma di numerose postazioni
tutt'attorno in modo da ampliare il terreno occupato. Fu la scelta
peggiore, gli alpini cozzarono nuovamente contro le mitragliatrici
piazzate e contro i reticolati intatti. Il 12 l'offensiva venne
temporaneamente sospesa per poi ricominciare alle 6 del 19 giugno;
otto battaglioni partirono all'attacco dell'Ortigara e in meno di
un'ora la cima venne conquistata dal battaglione alpino "Monte
Stelvio". Al successo degli alpini non corrispose però un successo
per le altre divisioni impegante sull'Altopiano, e ciò non consentì
di rinforzare le posizioni che furono facilmente travolte dalla
controffensiva austriaca del 25 giugno. Non cogliendo la tragicità
della situazione e lo scompiglio tra le linee, i comandi ordinarono
un contrattacco invece di un ripiegamento, in una serie di ordini e
contrordini che causarono il caos nelle linee italiane90. In questa
tragica battaglia gli alpini diedero un altissimo tributo di sangue,
furono 16.305 le perdite tra gli alpini durante l'assalto
all'Ortigara, che divenne in seguito una delle montagne simbolo per
lo spirito e il sacrificio di questi soldati91.
La disfatta di Caporetto
Con la linea di fronte austro-ungarica intorno a Gorizia a
rischio di collasso a seguito dell'undicesima battaglia dell'Isonzo,
i tedeschi decisero di intervenire in aiuto dei loro alleati in modo
da alleggerire la pressione italiana. Paul von Hindenburg ed Erich
Ludendorff, comandanti supremi dell'esercito tedesco, si accordarono
con Arthur Arz von Straussenburg per l'organizzazione dell'offensiva
combinata. Cadorna aveva ricevuto rapporti dalla ricognizione aerea
che indicavano movimento di truppe tedesche dirette in zona alto
Isonzo. Anziché continuare con le offensive egli decise di passare
ad una linea difensiva nell'attesa degli eventi92. Il generale
tedesco Konrad Krafft von Dellmensingen fu inviato al fronte per un
sopralluogo, che durò dal 2 al 6 settembre 1917. Terminate le varie
verifiche e dopo aver vagliato le probabilità di vittoria,
Dellmensingen tornò in Germania per approvare l'invio degli aiuti,
sicuro anche che la Francia, dopo il fallimento della seconda
battaglia dell'Aisne ad aprile, non avrebbe attaccato93.
Visti gli esiti dell'ultima offensiva italiana, austro-ungarici e
tedeschi decisero di contrattaccare. Alle 2:00 in punto del 24
ottobre 1917 le artiglierie austro-germaniche iniziarono a colpire
le posizioni italiane dal monte Rombon all'alta Bainsizza alternando
lanci di gas a granate convenzionali, colpendo in particolare tra
Plezzo e l'Isonzo94. Quello stesso giorno gli austro-ungarici e i
tedeschi sfondarono il fronte dell'Isonzo a nord convergendo su
Caporetto e accerchiarono la 2ª armata italiana, in particolare il
IV ed il XXVII corpo d'armata, comandato dal generale Pietro
Badoglio. Durante il primo giorno di battaglia gli italiani persero
all'incirca, tra morti e feriti, 40.000 soldati e altrettanti si
ritrovarono intrappolati sul monte Nero, mentre i loro avversari dai
6/7.00095.
Da lì gli austriaci avanzarono per 150 km in direzione
sud-ovest raggiungendo Udine in soli quattro giorni, con l'esercito
italiano in preda ad una ritirata caotica, caratterizzata da
diserzioni e fughe. Cadorna, venuto a sapere della caduta di Cornino
il 2 novembre e di Codroipo il 4, ordinò all'intero esercito di
ripiegare sul fiume Piave, sul quale nel frattempo si erano fatti
significativi passi avanti nell'impostazione di una linea difensiva
grazie agli episodi di resistenza sul Tagliamento. A questo punto
von Below aveva fretta, sia per il timore di ritornare ad una guerra
di posizione, sia perché era cosciente che i francesi e gli inglesi
avrebbero inviato aiuti militari. I suoi generali sfruttarono tutte
le occasioni possibili per accerchiare le truppe italiane in
ritirata: a Longarone il 9 novembre furono catturati 10.000 uomini e
94 cannoni appartenenti alla 4ª Armata del generale Mario Nicolis di
Robilant, e in un'altra occasione la 33ª e 63ª Divisione italiana
consegnarono, dopo aver tentato di uscire dall'accerchiamento,
20.000 uomini. In pianura però gli austro-tedeschi non ebbero
analogo successo e molte unità italiane si riorganizzarono per
raggiungere il Piave, l'ultima delle quali vi si posizionò il 12
novembre. Dall'inizio delle operazioni il 24 ottobre all'8 novembre
i bollettini di guerra tedeschi avevano contato un bottino di
250.000 prigionieri e 2.300 cannoni96.
La disfatta di Caporetto provocò il crollo del fronte italiano
sull'Isonzo con la conseguente ritirata delle armate schierate
dall'Adriatico fino alla Valsugana, oltre alle perdite umane e di
materiale; in due settimane andarono perduti 350.000 soldati fra
morti, feriti, dispersi e prigionieri, ed altri 400.000 si
sbandarono verso l'interno del paese97.
Armando Diaz, nuovo capo di Stato Maggiore del Regio Esercito a
partire dall'8 novembre 1917
Cadorna viene sostituito, l'esercito si riorganizza
Dopo che la ritirata si stabilizzò definitivamente sulla linea
del monte Grappa e del Piave, il 9 novembre il generale Cadorna
lasciò il comando dell'esercito nelle mani di Armando Diaz, per
volere del nuovo presidente del consiglio Vittorio Emanuele Orlando,
che per addolcire la pillola, nominò Cadorna rappresentante italiano
presso il neocostituito Consiglio militare interalleato a
Versailles. Il generale inizialmente rifiutò la carica, e solo
l'insistenza di Orlando e del generale Alfieri, gli fecero accettare
l'ufficio a Versailles98.
Le divisioni francesi inviate in aiuto aumentarono a sei e quelle
inglesi a cinque entro l'8 dicembre 1917 e, sebbene non entrarono
subito in azione, funsero da riserva permettendo al Regio Esercito
di distogliere le proprie truppe da questo compito. I tedeschi,
assolto il proprio obiettivo di aiutare gli austriaci, trasferirono
metà dei propri cannoni e tre divisioni nuovamente ad occidente nei
primi di dicembre, mentre la ritirata sul fronte del Grappa-Piave
consentì all'esercito italiano, ora in mano a Diaz, di concentrare
le sue forze su un fronte più breve e soprattutto, con un mutato
atteggiamento tattico, più orgoglioso e determinato. Il primo segno
di riscossa avvenne per merito della 4ª armata del generale Mario
Nicolis di Robilant, che, stanziata sul Cadore, si era ritirata il
31 ottobre con l'ordine di organizzare la difesa del monte Grappa e
di realizzare la saldatura tra le truppe dell'Altopiano di Asiago e
quelle schierate lungo il fiume Piave.
La nuova posizione da difendere a tutti i costi era di vitale
importanza per l'intero esercito, dato che una sua caduta avrebbe
trascinato con sé l'intero fronte, e gli uomini di Robilant
riuscirono a mantenere la posizione99. Gli austro-ungarici fermarono
gli attacchi in attesa della primavera successiva dove avrebbero
preparato un'offensiva che li avrebbe dovuti portare a penetrare
nella pianura veneta, anche se piccole schermaglie si protrassero
fino al 23 dicembre. La fine della guerra contro la Russia, consentì
poi alla maggior parte dell'esercito impiegato sul fronte orientale
di spostarsi sul fronte italiano100.
L'ampliamento della forza aerea
Quando allo scoppio del conflitto l'Italia si dichiarò
neutrale, ebbe subito inizio un intenso programma di addestramento e
riorganizzazione dei reparti aerei, che vennero inquadrati nel Corpo
Aeronautico Militare (CAM), anche se, proprio a causa della sua
tardiva entrata in guerra, l'aeronautica non poté beneficiare fin
dall'inizio dei progressi tecnici in campo aviatorio che invece
avevano interessato gli altri paesi. Le 15 squadriglie divise in tre
gruppi che componevano la CAM vennero distribuite tra la 2ª e la 3ª
armata e a difesa della città di Pordenone, mentre la sezione
idrovolanti in seno alla marina, fu schierata lungo la costa
adriatica. Alla data della terza battaglia dell'Isonzo però, la
forza aerea subì dei grossi cambiamenti. La crescente necessità di
velivoli per ricognizione e bombardamento portò un incremento della
forza complessiva del CAM, che arrivò a contare 35 squadriglie
dotate dei più moderni aerei di progettazione italiana e
francese101.
Più o meno verso la fine del 1917 il CAM subì un'ulteriore
riorganizzazione dotandosi di una struttura di comando semplificata,
che rifletteva le accresciute dimensioni e l'importanza assunte dal
servizio aereo. Adesso ciascuna delle armate italiane possedeva un
proprio reparto di volo, mentre il comando supremo disponeva di una
unità aerea autonoma incaricata di effettuare missioni di
ricognizione a lungo raggio e di bombardamento dalla regione di
Udine a supporto delle operazioni di terra sul fronte dell'Isonzo.
In termini generali, il CAM, nei primi mesi del 1917, giunse a
schierare 62 squadriglie, dodici delle quali erano ora incaricate di
compiti da caccia ed equipaggiate con monoposto Nieuport costruiti
su licenza dalla Macchi. La forza aerea intervenne in appoggio alle
operazioni sull'Isonzo e la Bainsizza, mentre i bombardieri
Caproni,attaccarono più volte l'arsenale di Pola in agosto e la base
navale di Cattaro in ottobre.
Al momento della battaglia di Caporetto erano stati organizzate
altre 15 squadriglie caccia, che, nonostante la disfatta che
costrinse i reparti dell'aviazione a ripiegare e abbandonare molti
mezzi e materiali, crebbero ancora di numero nel corso del
conflitto, tanto che al momento dell'armistizio la forza caccia
italiana era di 75 squadriglie in tutto (delle quali facevano parte
tre squadriglie francesi e quattro britanniche)102103. Al termine
del conflitto, la forza aerea del CAM era in costante aumento, i
reparti aerei in prima linea potevano contare su 1.758 velivoli, e
mentre nel 1915 l'industria bellica italiana sfornò solo 382 aerei e
606 motori aeronautici, nel 1918 i velivoli prodotti furono 6.488
mentre i motori ben 14.840104.
L'ultimo anno di guerra
Nel novembre 1917, le truppe francesi e britanniche
cominciarono ad affluire sul fronte italiano in maniera consistente.
Nella primavera del 1918, la Germania ritirò le proprie truppe per
utilizzarle nell'imminente offensiva di primavera sul fronte
occidentale. I comandi austriaci cominciarono allora a cercare un
modo per porre fine alla guerra in Italia. Con l’avvicinarsi
dell’estate del 1918, la situazione degli imperi centrali, sul piano
dei rifornimenti, sia alimentari che di materie prime, si faceva
sempre più complicata. I rifornimenti americani, almeno sul fronte
occidentale, iniziavano ad avere un peso effettivo sul bilancio
della guerra, urgeva eliminare un fronte al più presto105.
L'attacco austro-ungarico
L'esercito italiano sentì istantaneamente il mutamento delle
condizioni di combattimento, della riorganizzazione e del morale
elevato derivante dalla caparbia resistenza sul Piave. Passò
l'inverno, venne la primavera, e il 15 giugno partì l'offensiva
austro-ungarica con circa 678 battaglioni e 6800 pezzi
d'artiglieria, a cui gli italiani si opposero con 725 battaglioni e
7500 pezzi d'artiglieria106. Il generale Conrad voleva che l’attacco
principale si sviluppasse sul Grappa, Boroevic, comandante delle
armate del Piave, riteneva che l’attacco principale doveva avere
come direttrice principale le Grave di Papadopoli. L'Arciduca
Giuseppe Augusto d'Asburgo-Lorena decise di accontentare entrambi
conducendo un attacco su due direttive e quindi diluendo le forze
lungo tutto il fronte107.
L'offensiva iniziò con un attacco diversivo presso il passo del
Tonale, che fu facilmente respinto dagli italiani. Gli obiettivi
dell'offensiva erano stati rivelati agli italiani da alcuni
disertori austriaci, permettendo ai difensori di spostare due armate
direttamente nelle zone prestabilite dal nemico. Gli attacchi
sull'altra direttiva, condotti dal generale croato von Bojna,
ottennero qualche successo nelle prime fasi finché le linee di
rifornimento austriache non furono bombardate e non arrivarono i
rinforzi austriaci108.
Dall'Astico al mare la battaglia divampò furiosamente tra il 15 e il
25 giugno 1918. Bloccata fin dal primo giorno sugli Altipiani e sul
Grappa, la spinta austro-ungarica fu contenuta anche sul Piave, la
massa umana degli attaccanti fu però talmente enorme che questi
riuscirono a sbarcare in più punti oltre il Piave, conquistando
numerosi capisaldi sul Grappa, dove però, i contrattacchi immediati
e violentissimi ben presto eliminarono. Già alla fine del primo
giorno i comandi austriaci si resero conto che l'attacco era fallito
e nonostante sulle varie teste di ponte si continuasse a insistere
nella speranza di un cedimento della linea italiana, questo non
avverrà mai. Gli ultimi strascichi della battaglia si trascineranno
inutilmente fino al 26 con un nulla di fatto per gli imperi centrali
che date le enormi perdite subite, perdono definitivamente
l’iniziativa109.
Dopo sei mesi di rinforzo e riorganizzazione, l'esercito italiano fu
capace di resistere all'attacco, ma Diaz non sfruttò l'occasione di
contrattaccare. Il generale, temendo che la controffensiva non
avrebbe avuto l'effetto sperato, volle aspettare i rinforzi
statunitensi, che però Pershing gli negò. L'esercito italiano rimase
quindi sulla difensiva. Anche perché le perdite italiane, come
quelle austro-ungariche, furono elevatissime; 87.000 uomini, di cui
43.000 prigionieri, furono le perdite per le forze italiane, mentre
117.000, di cui 24.000 prigionieri, le perdite tra le file
nemiche110. Determinante per le forze italiane fu l'apporto
dell'aviazione soprattutto nelle azioni d'appoggio tattico, di
bombardamento e d'interdizione. Nel corso delle operazioni, il 19
giugno fu abbattuto sul Montello l'asso della caccia italiana
Francesco Baracca che aveva raccolto ben 34 vittorie. La conquista
della supremazia aerea da parte italiana venne confermata dalla
pacifica incursione di 7 biplani monomotori SVA sulla capitale
austriaca il 9 agosto 1918, dove la formazione italiana guidata dal
Gabriele D'Annunzio, lanciò migliaia di manifesti tricolori111.
L'offensiva dell'esercito italiano
Il fronte italiano nel 1918 e la battaglia di Vittorio Veneto.
Superato l'urto di giugno, il comando supremo cominciò a
pianificare l'offensiva "qualsiasi" sotto le incalzanti richieste di
Orlando e Sonnino oltre che degli comandi alleati. Alle 10 del
mattino del 19 ottobre il generale Gaetano Giardino ricevette
l'ordine di attaccare ad oltranza a partire dal 24 ottobre.
Preparazione, mutamento dello schieramenrto delle artiglierie,
arrivo di nuove batterie, aggiustamento dei tiri; tutto doveva
essere compresso in quei cinque giorni. Alla 4ª armata di Giardino
venne affidato l'importante compito di dividere la massa austriaca
del Trentino da quella del Piave, mentre l'8ª la 10ª e la 12ª armata
avrebbero attaccato lungo il fiume112.
Armando Diaz progettò l'offensiva seguendo le innovazioni introdotte
dai generali tedeschi ad occidente e che nell'ottobre 1917 rischiò
di eliminare l'Italia stessa dal conflitto. Diaz elaborò un piano di
attacco massiccio su un unico punto invece che su tutta la linea,
nel tentativo di sfondare le linee e tagliare le vie di collegamento
con le retrovie. La scelta ricadde sulla cittadina di Vittorio
Veneto, considerata un probabile punto di rottura, la cui fragilità
era costituita dal fatto che in questa città si trovava la
congiunzione tra la 5ª e la 6ª armata austro-ungarica113. L’azione
diversiva che avrebbe impegnato la 6ª armata austro-ungarica nella
zona degli altipiani, fu scatenata alle prime ore del mattino del 14
dalla 4ª armata di Giardino, precedendo di parecchie ore l'attacco
principale in modo da spostare quante più truppe nemiche ad ovest.
Non appena le notizie avessero confermato lo spostamento di truppe
avversarie, avrebbe avuto inizio la manovra centrale dell'8ª armata
verso Vittorio Veneto, mentre la 10ª e la 12ª armata sarebbero
avanzate per proteggerne i fianchi e impedire eventuali tentativi
nemici di tagliare il saliente114.
L'offensiva durante il primo giorno, come per i tre giorni
successivi, non ebbe successo. In alcuni punti le minime avanzate
italiane subirono il contrattacco nemico che riuscì a riconquistare
le posizioni perse. Il 28 ottobre il comando supremo italiano
prescrisse la prosecuzione degli attacchi a tempo indeterminato,
finché l'attacco sul Piave non fosse uscito dalla fase di stallo.
L'Austria-Ungheria era ormai ridotta ad una scorza dentro la quale
tutto marciva, ma questa scorza era durissima; la resistenza del suo
esercito sul Grappa e sul Piave continuava infatti inflessibile. Poi
l'esercito austro-ungarico iniziò ad abbandonare le posizioni, si
dissolse, sparì. Iniziò quindi un'accanito inseguimento da parte
delle forze italiane. La crisi interna dell'impero si era ormai
ripercossa sul fronte, anche se l'esercito resistette fino
all'ultimo. La battaglia di Vittorio Veneto non fu un capolavoro
tattico o strategico, ma il dissolvimento dell'impero contribuì
fortemente al concludersi definitivo della guerra su tutti i fronti.
La Germania non avrebbe potuto resistere da sola ad oltranza115.
Il collasso dell'impero
Il 28 ottobre l'Austria-Ungheria chiese agli Alleati
l'armistizio. L'impero che con tanta baldanza aveva aperto le
ostilità contro la Serbia nel 1914 era giunto alla fine del suo
percorso politico e militare. Quello stesso giorno gli italiani
catturarono 3000 austriaci sul Piave. In serata l'esercito asburgico
ricevette l'ordine di ritirarsi116. L'impero era al collasso, oramai
i diversi movimenti indipendentisti stavano facendo di tutto per
sfruttare la situazione. A Praga la richiesta di armistizio provocò
una decisa reazione dei cechi; il Consiglio nazionale cecoslovacco
si riunì a palazzo Gregor, dove si era costituito tre mesi prima, e
assunse le funzioni di un vero e proprio governo, impartendo
l'ordine agli ufficiali austriaci nel castello di Hradčany l'ordine
di trasferire i poteri, assumendo il controllo della città e
proclamando l'indipendenza dello stato ceco.
Quella sera le truppe austriache nel castello deposero le armi;
senza confini, senza riconoscimento internazionale e senza
l'approvazione di Vienna, era nata un'entità nazionale ceca117.
Sempre quello stesso giorno, il Parlamento croato dichiarò che da
quel momento, Croazia e Dalmazia avrebbero fatto parte di uno "Stato
nazionale sovrano di sloveni, croati e serbi". Analoghe
dichiarazioni pronunciate a Laibach e Sarajevo, legavano queste
regioni all'emergente Stato slavo meridionale della Jugoslavia118.
Il 29 ottobre le truppe autriache si ritirarono dal Piave al
Tagliamento; le lunghe colonne di uomini, rifornimenti e artiglierie
in ritirata, furono bersagliate da oltre 600 aerei italiani,
francesi e britannici. Fu un bombardamento feroce, e gli uomini in
ritirata non avevano modo di difendersi.
« Lungo la strada c'erano rottami di veicoli, cavalli morti,
cadaveri di uomini sulla strada e nei campi dove erano fuggiti per
sfuggire alle mitragliatrici e alle bombe degli aerei [...] »
(Bernard Garside, 19enne ufficiale inglese119)
Quello stesso giorno il Consiglio nazionale slovacco si
associò in una nuova entità, insistendo sul diritto della regione
slovacca alla "libera autodeterminazione". Il 30 ottobre vennero
fatti prigionieri più di 33.000 soldati austriaci, mentre a Vienna,
il governo austro-ungarico continuava ad adoperarsi per giungere
all'armistizio con gli Alleati120. Nel frattempo il porto austriaco
di Fiume, che due giorni prima era stato dichiarato parte dello
stato slavo meridionale, proclamò la propria indipendenza chiedendo
di unirsi all'Italia. A Budapest il conte Károlyi formò il governo
ungherese, e su consenso di Carlo I, rescisse i legami che fin dal
1867 avevano tenuto insieme l'Austria e l'Ungheria e intavolò
trattative tra l'Ungheria e le forze francesi in Serbia. Quello
stesso 30 ottobre Carlo consegnò la flotta austriaca agli slavi
meridionali e la flottiglia del Danubio all'Ungheria. Quella sera
una delegazione austriaca per l'armistizio arrivò in Italia, a Villa
Giusti nei pressi di Padova121. Il 1º novembre Sarajevo si dichiarò
parte dello "Stato sovrano degli slavi meridionali". A Vienna e a
Budapest era ormai scoppiata la rivoluzione; il giorno precedente il
conte Tisza fu ucciso dalle guardie rosse nella capitale
ungherese122.
L'armistizio
Il 3 novembre l'Austria firmò l'armistizio che sarebbe entrato in
vigore il giorno successivo, mentre a Vienna continuava la
rivoluzione rossa. Lo stesso giorno gli italiani entrarono a Trento
e la Regia Marina sbarcò a Trieste, mentre sul fronte occidentale
gli Alleati accolsero la richiesta formale di armistizio sul fronte
francese avanzata dal governo tedesco123. Alle ore 15:00 del 4
novembre sul fronte italiano le armi cessarono di sparare; quella
notte, ricordò l'ufficiale d'artiglieria inglese Hugh Dalton:
« [...] il cielo era illuminato dalla luce dei falò e dagli
spari di razzi colorati. [...] Dietro di noi, in direzione di
Treviso, si sentiva un lontano ritocco di campane, e canti ed
esplosioni di gioia ovunque. Era un momento di perfezione e
compimento124. »
Era il 4 novembre 1918 e il comandante in capo dell’esercito
d’Italia, Maresciallo Armando Diaz, dava notizia all'intero paese
della conclusione del conflitto, firmando l'ultimo bollettino di
guerra che sarebbe passato alla storia come il "bollettino della
Vittoria", che concludeva con queste parole:
« [...] i resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti
del mondo, risalgono in disordine e senza speranza le valli che
avevano disceso con orgogliosa sicurezza »
Il giorno seguente venivano occupate Rovigno, Parenzo, Zara,
Lissa e Fiume, quest'ultima, pur non prevista tra i territori nei
quali sarebbero state inviate forze italiane come previsto da alcune
clausole dell'armistizio, venne occupata in seguito agli eventi del
30 ottobre, quando il Consiglio nazionale, insediatosi nel municipio
dopo la fuga degli ungheresi, aveva proclamato l'unione della città
all'Italia. L'esercito italiano forzò la linea del patto di Londra
dirigendosi verso Lubiana, ma fu fermato poco oltre Postumia dalle
truppe serbe.
Conseguenze
All'indomani dell'armistizio, i problemi militari erano
numerosi e andavano dal consolidamento di una nuova linea di confine
alla riorganizzazione dei servizi territoriali e delle unità
combattenti, all'assistenza alle popolazioni delle terre liberate e
occupate, alla raccolta del bottino di guerra, al riordino degli ex
prigionieri che affluivano dai disciolti campi austriaci. Accanto a
tutto ciò andava condotta la smobilitazione reclamata a gran voce
dal paese125. Il problema maggiore nell'immediato dopoguerra per
l'esercito fu comunque la riorganizzazione dell'apparato militare,
che necessitava di un ammodernamento. Se Caporetto fu essenzialmente
una sconfitta dovuta all'imprevidenza e alle sottovalutazioni
dell'alto comando, numerosi furono gli episodi che rivelarono
inadeguatezze nella conduzione delle operazioni e scarsa
adattabilità alle esigenze moderne. L'Ortigara aveva offerto in
questo senso un chiaro esempio di ostinato rifiuto nell'azione in
profondità e l'insistenza sull'offensiva ad ampio fronte. Si poneva
quindi la necessità di snellimento dei reparti in vista di una
maggiore autonomia, manovrabilità e potere decisionale, così come
avevano fatto le forze austriache e tedesche vittoriose a
Caporetto126.
Alla conferenza di pace di Parigi, l'Italia richiese che venisse
applicato alla lettera il patto di Londra, aumentando le richieste
con la concessione anche della città di Fiume in virtù della
prevalenza numerica dell'etnia italiana nel capoluogo quarnerino, e
dei fatti di fine ottobre. La città però, in base al patto, veniva
espressamente assegnata quale principale sbocco marittimo di un
eventuale futuro stato croato o ungherese. Gli Alleati negarono fin
dall'inizio questa possibilità, e l'Italia dal canto suo fu divisa
sul da farsi. Mentre Vittorio Emanuele Orlando abbandonò per
protesta la conferenza di pace di Parigi, il nuovo presidente del
consiglio italiano Francesco Saverio Nitti ribadì nuovamente le
richieste italiane, ma nel contempo iniziò delle trattative dirette
col nuovo Regno dei Serbi, Croati e Sloveni.
Il 10 settembre 1919, Nitti, sottoscrisse il trattato di
Saint-Germain, che definiva i confini italo-austriaci, ma non quelli
orientali. L'Austria cedette all'Italia il Trentino/Alto Adige,
l'Istria, l'intera Venezia Giulia fino alle Alpi Giulie col confine
includente la cittadina di Volosca e le isole del Carnaro, la
Dalmazia settentrionale nei suoi confini amministrativi fino al
porto di Sebenico incluso, con tutte le isole prospicienti, il porto
di Valona in Albania, l'isolotto di Saseno di fronte alle coste
albanesi, e diritto di chiedere aggiustamenti dei confini coloniali
con i possedimenti francesi e britannici in Africa127.
La Jugoslavia reclamava i territori assegnati dal patto all'Italia,
che a sua volta mirava anche ad occupare Fiume. L'irrendentismo
nazionalista, rafforzatosi nel corso della guerra, andò su posizioni
di aperta e radicale contestazione dell'ordine costituito. Dopo
l'abbandono della conferenza da parte dei delegati italiani, il mito
della "vittoria mutilata" e le mire espansionistiche nell'Adriatico
divennero i punti di forza del movimento che raccolse le tensioni di
una fascia sociale eterogenea, della quale fecero parte gli Arditi,
gli unici capaci di dare una svolta coraggiosa all'atteggiamento del
governo128. In molti ambienti si diffuse la convinzione, alimentata
dai giornali e da alcuni intellettuali, che gli oltre seicentomila
morti della guerra erano stati "traditi", mandati inutilmente al
macello, e tre anni di sofferenze erano servite solo a distruggere
l'Impero asburgico ai confini d'Italia per costruirne uno nuovo e
ancora più ostile ad essa.
Il 12 settembre 1919, una forza volontaria irregolare di
nazionalisti ed ex-combattenti italiani, guidata dal poeta
D'Annunzio, occupò militarmente la città di Fiume chiedendone
l'annessione all'Italia. Solo la caduta del governo Nitti per il
secondo governo Giolitti, riesce a sbloccare la situazione; Giolitti
raggiunse un accordo con gli jugoslavi, dove Fiume veniva
riconosciuta città indipendente, anche se D'Annunzio e le formazioni
irregolari vennero costretti ad abbandonare la città solo dopo un
intervento di forza129.
Bibliografia
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austro-ungarici della Grande Guerra sul fronte italiano, Madrid, Del
Prado (trad. Osprey Publishing), 2001. ISBN 84-8372-502-9
• Antonella Astorri; Patrizia
Salvadori, Storia illustrata della prima guerra mondiale, Firenze,
Giunti, 2006. ISBN 88-0921-701-2
• Luigi Albertini, Le origini
della guerra del 1914 (3 volumi - vol. I: "Le relazioni europee dal
Congresso di Berlino all'attentato di Sarajevo", vol. II: "La crisi
del luglio 1914. Dall'attentato di Sarajevo alla mobilitazione
generale dell'Austria-Ungheria.", vol. III: "L'epilogo della crisi
del luglio 1914. Le dichiarazioni di guerra e di neutralità."),
Milano, Fratelli Bocca, 1942-1943. (ISBN non esistente)
• Filippo Cappellano; Basilio
Di Martino, Un esercito forgiato nelle trincee - L'evoluzione
tattica dell'esercito italiano nella Grande Guerra, Udine, Gaspari,
2008. ISBN 88-7541-083-6
• Giampaolo Ferraioli, Politica
e diplomazia in Italia tra XIX e XX secolo. Vita di Antonino di San
Giuliano (1852-1914), Catanzaro, Rubettino, 2007. ISBN 88-498-1697-6
• Franco Favre, La Marina nella
Grande Guerra, 2008, Udine, Gaspari. ISBN 978-88-7541-135-0
• Martin Gilbert, La grande
storia della prima guerra mondiale, 2009, Milano, Arnoldo Mondandori
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• Giovanni Morandi, Alpini,
dalle Alpi all'Afghanistan, Bologna, Poligrafici editoriali, 2003.
(ISBN non esistente)
• Gianni Oliva, Storia degli
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• Mario Vianelli; Giovanni
Cenacchi, Teatri di guerra sulle Dolomiti, 1915-1917: guida ai campi
di battaglia, 2006, Milano, Oscar storia. ISBN 978-88-045556-50
• Mario Silvestri, Caporetto,
una battaglia e un enigma, Bergamo, Bur, 2006. ISBN 88-1710-711-5
• Mario Silvestri, Isonzo 1917,
Bergamo, Bur, 2007. ISBN 88-1712-719-6
Nella letteratura
Le opere letterarie riguardanti il fronte
italiano sono moltissime, qui di seguito sono elencati in ordine
alfabetico alcuni tra gli scritti più famosi:
• Addio alle armi (A Farewell
to Arms), è un romanzo ambientato in vari luoghi del fronte veneto e
del nord-Italia e basato sulla trasposizione delle esperienze
personali dello scrittore Ernest Hemingway, che nel 1918 prestò
servizio volontario come autista di ambulanze della Croce Rossa
americana (A.R.C.) nelle retrovie del Pasubio (Schio - Val Leogra) e
degli Altipiani, prima di trasferirsi sul Piave, dove venne ferito
mentre prestava soccorso in prima linea.
• Un anno sull'Altipiano, è un
libro di memorie di Emilio Lussu che racconta la sua esperienza
sull'Altopiano di Asiago nel 1917.
• Cola, o ritratto di un
italiano, di Mario Puccini, è un romanzo che racconta il dramma
della guerra dal punto di vista di un fante contadino.
• La guerra di Joseph, è un
libro scritto da Enrico Camanni, che racconta le vicende militari
sul fronte delle Tofane dagli occhi di due combattenti, Ugo
Vallepiana e Joseph Gaspard.
• La rivolta dei santi
maledetti, di Curzio Malaparte, è un saggio che racconta le vicende
e gli errori degli alti comandi italiani durante la rotta di
Caporetto.
• Le scarpe al sole. Cronache
di gaie e tristi avventure di alpini, di muli e di vino
ricostruzione dell'allora capitano Paolo Monelli della vita degli
Alpini al fronte.
• Trincee. Confidenze di un
fante, la storia autobiografica di Carlo Salsa, fante impegnato sul
Carso.
• Uragano, romanzo di Gino
Rocca che parla dell'esperienza dello stesso autore in guerra
Filmografia
Qui di seguito in ordine cronologico, alcuni dei titoli più
significativi:
• Montagne in fiamme (Berge in
Flammen) (1931), diretto da Luis Trenker e Karl Hartl, narra la
storia del Kaiserjäger Florian Dimai, guida alpina sudtirolese
impegnata contro le truppe italiane.
• Addio alle armi (1932),
diretto da Frank Borzage, tratto dal romanzo omonimo di Hemingway, a
cui seguirà nel 1957 un omonimo film diretto da John Huston e
Charles Vidor.
• La grande guerra (1959),
diretto da Mario Monicelli e interpretato da Alberto Sordi e
Vittorio Gassman; è considerato uno dei capolavori della storia del
cinema.
• Uomini contro (1970), diretto
da Francesco Rosi e liberamente ispirato al romanzo di Emilio Lussu
"Un anno sull'Altipiano".
Patto
di Londra
Il Patto di Londra (o Trattato di Londra) del 26 aprile 1915
fu un trattato segreto stipulato dal governo italiano con i
rappresentanti della Triplice Intesa in cui l'Italia si impegnò a
scendere in guerra contro gli Imperi Centrali nella prima guerra
mondiale in cambio di cospicui compensi territoriali.
Il Trattato segreto
Il patto restò segreto sino alla sua inattesa pubblicazione, alla
fine del 1917, da parte dei bolscevichi, appena giunti al potere in
seguito alla Rivoluzione russa. Il governo rivoluzionario, infatti,
diede immediata e massima pubblicità ai patti diplomatici segreti
rinvenuti negli archivi zaristi, e tra essi il "Patto di Londra". La
pubblicazione ebbe vasta risonanza internazionale e causò grave
imbarazzo alle potenze firmatarie, suscitando inquietudine presso
l'opinione pubblica mondiale e ponendo in scacco il metodo della
"diplomazia segreta", seguito da decenni dalle potenze europee.
L'emergere del Patto di Londra diede il via ad una modifica degli
orientamenti politici internazionali che influì notevolmente sulla
sua non completa implementazione a guerra finita. La risoluta
opposizione alla diplomazia segreta, e la sua denuncia quale metodo
inaccettabile nelle relazioni internazionali, fu uno dei principali
motivi ispiratori della stesura, da parte del presidente degli Stati
Uniti, Woodrow Wilson, dei suoi celebri Quattordici punti e, non a
caso, il presidente statunitense si oppose risolutamente alla
completa realizzazione delle rivendicazioni territoriali italiane
basate sul Patto di Londra - per altro mai firmato dagli Stati Uniti
- non riconoscendo ad esso, come ad accordi similari con altri
paesi, alcuna validità1.
La non completa realizzazione del Patto causò grave malcontento ed
agitazione in Italia, facendo sorgere il mito della "Vittoria
mutilata", strumento politico che contribuì in modo decisivo alla
crisi del governo liberale e alla nascita ed avvento del fascismo.
Essendo il Patto segreto un atto deciso da governo, re e gerarchie
militari all'insaputa del parlamento, alcuni storici hanno ritenuto
questo evento come l´atto finale del periodo di governo liberale e
l´inizio di fatto di un'epoca di governi autoritari illiberali
culminata con l'ascesa al potere di Benito Mussolini. Questa tesi
non è tuttavia condivisa dalla maggioranza degli storici italiani e,
in particolare, dai più autorevoli fra loro.
Premesse
Allo scoppio del primo conflitto mondiale l'Italia era legata
alla Germania e all'Austria-Ungheria dalla Triplice Alleanza: un
patto militare difensivo stretto nel 1882 e via via rinnovato, che
si contrapponeva al sistema di alleanze anglo-franco-russo della
Triplice Intesa.
Nonostante i legami diplomatici, molte rimanevano le differenze tra
l'Italia e gli imperi centrali: mentre questi ultimi erano nazioni
militarmente e politicamente influenti, avanzate dal punto di vista
economico, l'Italia era uno stato sostanzialmente non ancora
unificato, in gran parte povero e arretrato, che faticava a trovare
l'anelato riconoscimento tra le principali potenze europee.
Nei confronti dell'Austria-Ungheria vi era poi un contenzioso
latente, relativo all'irredentismo di molti settori dell'opinione
pubblica e anche di parte del Parlamento: espressioni che, spinte da
un numero sempre maggiore di patrioti e interventisti, il governo
faticava a controllare.
Fu così che, quando l'Austria e la Germania dichiararono guerra alla
Serbia innescando la prima guerra mondiale, l'Italia rimase al di
fuori del conflitto basandosi sulla natura difensiva della Triplice
Alleanza che non impegnava gli stati membri nel caso di una
iniziativa aggressiva. Nei successivi mesi della neutralità
italiana, stante il sostanziale equilibrio delle forze schierate in
campo, divenne chiaro che l'Italia poteva giocare un ruolo
importante se non decisivo sull'esito del conflitto e perciò il
governo intavolò una serie di trattative con i partner della
Triplice Alleanza, nonché segretamente con i membri dell'Intesa, per
stabilire i compensi per l'intervento italiano nella guerra o per il
mantenimento del suo stato di non belligeranza.
Fu subito chiaro che l'Intesa poteva promettere all'Italia ben più
di quello che volevano offrire gli Imperi Centrali, dato che gli
incrementi territoriali ai quali l'Italia era interessata
riguardavano soprattutto l'Austria-Ungheria, e che questo impero era
restio a fare concessioni a proprie spese.
La firma del trattato
Il trattato di Londra fu stipulato nella capitale britannica
il 26 aprile 1915 e firmato dal marchese Guglielmo Imperiali,
ambasciatore a Londra in rappresentanza del governo italiano, Sir
Edward Grey per il Regno Unito, Jules Cambon per la Francia e dal
conte Alexander Benckendorff per l'Impero russo.
Il trattato fu firmato in tutta segretezza per incarico del governo
Salandra senza che il Parlamento, in maggioranza neutralista, ne
fosse informato, e tale rimase finché i bolscevichi, giunti al
potere in Russia dopo la Rivoluzione d'Ottobre, lo pubblicarono sul
quotidiano Izvestija insieme ad altri documenti diplomatici segreti
allo scopo di denunciare le trame della politica estera zarista.
Le condizioni
Il patto prevedeva che l'Italia entrasse in guerra al fianco
dell'Intesa entro un mese, ed in cambio avrebbe ottenuto, in caso di
vittoria, il Trentino, il Tirolo meridionale, la Venezia Giulia,
l'intera penisola istriana con l'esclusione di Fiume, una parte
della Dalmazia, numerose isole dell'Adriatico, Valona e Saseno in
Albania e il bacino carbonifero di Adalia in Turchia, oltre alla
conferma della sovranità su Libia e Dodecaneso.
Gli artt. 1-3: le clausole militari
I primi tre articoli del Patto di Londra ne evidenziano la
natura di patto militare. Venne infatti stabilito che gli Stati
Maggiori Generali di Francia, Regno Unito, Italia e Russia avrebbero
concluso "immediatamente" una convenzione militare per fissare da un
lato il minimo delle forze armate che la Russia avrebbe dovuto
impiegare sul fronte austriaco (per alleggerire il fronte italiano)
e regolare in futuro la questione degli armistizi.
Dal canto suo l'Italia si obbligava, all'art. 2, "ad impiegare la
totalità delle sue risorse a condurre la guerra in comune con la
Francia, la Gran Bretagna e la Russia contro tutti i loro nemici" -
ossia a dichiarare guerra all'Austria-Ungheria. L'articolo
successivo garantiva il "concorso attivo e permanente" all'Italia da
parte delle marine militari francese e inglese fino alla fine della
guerra o alla distruzione totale della marina austro-ungarica,
rimandando l'ulteriore definizione ad una convenzione navale a tre
che le potenze avrebbero dovuto siglare in seguito.
Il confine italo-austriaco nel 1914
Nelle disposizioni finali del trattato (art. 16), con
specifico riferimento ai primi tre articoli, l'Italia si impegnava
infine ad entrare in guerra al più tardi entro un mese dalla firma
dello stesso.
L'articolo 4: il confine in Trentino e Venezia Giulia
Il Trattato di Londra, all'art. 4, affrontando il tema dei
compensi territoriali italiani, stabiliva che l'Italia avrebbe
ottenuto nel trattato di pace "il Trentino, il Tirolo cisalpino con
la sua frontiera geografica e naturale, il Brennero,2 la città di
Trieste e i suoi dintorni, la contea di Gorizia e Gradisca, l'intera
Istria fino al Quarnero, compresa Volosca, e le isole istriane di
Cherso e Lussin, nonché le piccole isole di Plauno, Unie, Canidole,
Palazzuoli, San Pietro dei Nembi, Asinello e Gruica coi loro vicini
isolotti."
La frontiera (precisata peraltro in modo poco chiaro) avrebbe
seguito la linea di displuvio alpina dal passo dello Stelvio fino
alle Alpi Giulie. Qui in particolare avrebbe seguito lo spartiacque
per il passo del Predil, il Monte Mangart, il Tricorno e i colli
Podberdò, Podlansco e Idria. Da qui la linea di confine sarebbe
stata tracciata verso sudest verso il Monte Nevoso fino ad includere
Castua, Mattuglie e Volosca nel territorio italiano.
In questo modo l'Italia si sarebbe assicurata, entro un confine
naturale facilmente difendibile, tutto l'attuale Trentino-Alto Adige
(inclusi gli attuali comuni di Cortina d'Ampezzo, Colle Santa Lucia
e Livinallongo), la Venezia Giulia (ossia l'intero Litorale
Austriaco con parti della Carniola) e l'Istria; per quanto riguarda
le città si trattava di Trento, Bolzano, Gorizia, Trieste e Pola.
Salvo lievissime deroghe al principio del confine lungo lo
spartiacque alpino (a favore dell'Italia nella conca di Dobbiaco e
nella Val Canale, a suo sfavore per il paese di Castua in Istria e
presso il lago di Circonio) l'art. 4 del Trattato di Londra fu
rispettato integralmente al momento della firma dei trattati di
pace.
Non era invece inclusa la città di Fiume, "corpus separatum" della
Corona Ungherese, e tale esclusione fu fonte di aspre critiche
nell'immediato dopoguerra. La rinuncia a questa città - che pure era
per maggioranza italiana - si basava sull'assunzione che, in seguito
al conflitto, l'Austria-Ungheria avrebbe continuato la propria
esistenza e che pertanto era necessario lasciarle uno sbocco sul
mare per evitare che tentasse di riprendersi Trieste e Pola.
L'articolo 5: il confine in Dalmazia
L’art. 5 del Patto di Londra stabiliva che l’Italia avrebbe ricevuto
la Dalmazia nei confini amministrativi austro-ungarici, a partire
dal confine settentrionale presso Lissarizza e Tribagno (non
includendo quindi Carlopago) fino ad un limite meridionale
costituito da una linea che, partendo da Capo San Niccolò (o Punta
Planca, poco a sud di Rogosnizza) e seguendo lo spartiacque verso
est, avrebbe lasciato in territorio italiano "tutte le valli e i
corsi d’acqua discendenti verso Sebenico, come la Cicola, la Cherca,
la Butisnica e i loro affluenti". Si trattava in sostanza della
Dalmazia settentrionale con le città di Zara, Sebenico e Tenin.
L’Italia avrebbe anche ricevuto "tutte le isole situate al nord e
all’ovest della Dalmazia da Premuda, Selve, Ulbo, Scherda, Maon,
Pago e Puntadura al nord fino a Meleda al sud, comprendendovi le
isole di Sant'Andrea, Busi, Lissa, Lesina, Torcola, Curzola, Cazza e
Lagosta, così come gli scogli ed isolotti circostanti e Pelagosa, ad
eccezione solamente delle isole di Zirona Grande e Piccola, Bua,
Solta e Brazza". Si trattava in buona sostanza delle isole dalmate
settentrionali (escluse Veglia e Arbe) e delle isole curzolane;
queste ultime in particolare si trovavano di fronte alla costa della
Dalmazia non destinata all'Italia.
Lo stesso articolo aggiungeva anche delle disposizioni riguardo alla
neutralizzazione della costa: in primo luogo la striscia
immediatamente a sud del nuovo confine italiano in Dalmazia, da Capo
San Niccolò fino alla parte meridionale della penisola (a metà
strada verso Traù); in secondo luogo, tutte le isole non attribuite
all’Italia; e infine tutto il tratto costiero meridionale della
Dalmazia da Ragusavecchia esclusa fino al fiume Voiussa in Albania.
Quest’ultima disposizione faceva salvi i diritti del Montenegro
lungo le proprie coste attuali, ma allo stesso tempo ribadiva le
restrizioni concernenti il porto di Antivari, che lo stesso regno
balcanico aveva accettato nel 1909. Rimaneva quindi fortificabile la
costa croata settentrionale, con la base navale di Buccari e la
città di Fiume.
Il Patto di Londra osservato dal punto di vista delle rivendicazioni
serbe
Nell’alto Adriatico il tratto di costa dalla baia di Volosca
fino alla frontiera settentrionale della Dalmazia (quindi incluse le
città di Fiume, Novi e Carlopago con le prospicienti isole di
Veglia, Pervicchio, Gregorio, Goli ed Arbe) avrebbe costituito il
residuo sbocco a mare dello stato austroungarico, dati a una Croazia
semindipendente ancora soggetta all'Ungheria oppure direttamente
soggetta all'Impero. Mentre nel basso Adriatico tutta la costa da
Punta Planca fino al fiume Drin (comprendente le città di Spalato,
Ragusa e le isole non appartenenti all’Italia sarebbe stata
assegnata alla Serbia. In ogni caso il porto di Durazzo sarebbe
stato assegnato ad uno stato albanese indipendente (ma, come si
vedrà, sotto protettorato italiano).
Gli artt. 6-7: il riassetto dell'Albania
A seguire, negli artt. 6 e 7, veniva stabilito il destino dei
territori albanesi, nonostante si trattasse formalmente di uno stato
sovrano nato tre anni prima su parte dei territori persi dall'Impero
ottomano a seguito delle guerre balcaniche.
L'Italia avrebbe ricevuto la piena sovranità su Valona, sull'isola
di Saseno e su "un territorio sufficientemente esteso per assicurare
la difesa di questi punti" (dalla Voiussa a nord e all'est,
approssimativamente, fino alla frontiera settentrionale del
distretto di Chimara al sud). La parte centrale dell'Albania sarebbe
invece stata riservata per la costituzione di un piccolo Stato
autonomo neutralizzato e sotto protettorato italiano.
Per il resto l'Italia si impegnò ad accettare una futura spartizione
dell'Albania settentrionale e meridionale fra il Montenegro, la
Serbia e la Grecia secondo il disegno delle altre potenze (Francia,
Gran Bretagna e Russia), così come una frontiera comune greco-serba
nella porzione orientale dell'Albania, ad ovest del lago di Ocrida.
La costa a sud del territorio italiano di Valona fino a capo Stilos
sarebbe stata infine neutralizzata.
Gli artt. 8-10 e 12: la spartizione dell'Impero Ottomano
Se le disposizioni sull'Albania già presupponevano un drastico
ridimensionamento dei territori ottomani in Europa, le clausole
successive davano quasi per scontato uno smembramento dell'impero
turco alla fine del conflitto: negli artt. 8 e 10, rispettivamente,
veniva innanzitutto stabilita la sovranità italiana sulle isole del
Dodecaneso e sulla Libia, occupate dal 1912, mentre per quanto
riguardava i paesi arabi l'Italia aderiva alla dichiarazione delle
Potenze volta a stabilire un "potere musulmano indipendente" per
l'Arabia e i luoghi santi dell'Islam (art. 12).
Per il resto, le clausole erano estremamente vaghe e sostanzialmente
non vincolanti: all'Italia veniva riconosciuto "in via generale"
l'interesse al mantenimento dell'equilibrio nel Mediterraneo e
promessa, in caso di divisione totale o parziale della Turchia
asiatica, una "equa parte nella regione mediterranea vicina alla
provincia di Adalia", in cui l'Italia aveva già acquisito diritti ed
interessi tramite una convenzione italo-britannica. Per la zona che
"eventualmente" sarebbe stata attribuita all'Italia, il Patto di
Londra specificava che sarebbe stata "delimitata, al momento
opportuno, tenendo conto degli interessi esistenti della Francia e
della Gran Bretagna".
Anche nel caso in cui l'integrità territoriale dell'Impero Ottomano
fosse stata mantenuta, il patto faceva comunque salvi i diritti di
occupazione dell'Italia nella regione mediterranea vicina alla
provincia di Adalia qualora le rimanenti Potenze avessero occupato
il resto della Turchia asiatica durante la guerra.
L'articolo 13: le ricompense coloniali
A chiudere le concessioni a favore dell'Italia del Patto di Londra,
l'art. 13 proclamava che per il caso in cui la Francia e la Gran
Bretagna avessero aumentato i loro domini coloniali d'Africa a spese
della Germania, le stesse riconoscevano "in linea di principio" che
l'Italia avrebbe potuto reclamare "alcune eque compensazioni, in
particolare nella sistemazione a suo favore delle questioni
concernenti le frontiere delle colonie italiane dell'Eritrea, della
Somalia e della Libia e delle colonie vicine della Francia e della
Gran Bretagna".
Si trattava in ultima analisi di una norma che lasciava subito poco
spazio alle ambizioni coloniali italiane: i cospicui possedimenti
tedeschi in Africa sarebbero stati spartiti esclusivamente tra
francesi e inglesi, mentre l'Italia si sarebbe dovuta accontentare
di lievi correzioni di confine o di graziose concessioni di parti di
colonie vicine, il tutto a discrezionalità delle Potenze
dell'Intesa. Ai trattati di pace la norma fu applicata nella maniera
più restrittiva e difatti l'Italia non ottenne nessuna ricompensa
coloniale sino al compromesso dell'Oltregiuba nel 1924 e del
Triangolo settentrionale del Sudan Britannico a sud della Libia
Italiana ceduto nel 1926 oltre ad alcune piccole correzioni di
confine tra l'Egitto britannico e la Libia italiana.
Conseguenze istituzionali
L'azione del governo all'insaputa del Parlamento andava contro la
consolidata prassi parlamentare che si era affermata fin dai tempi
di Cavour.
Per evitare la crisi istituzionale, considerando anche la posizione
favorevole alla guerra del Re Vittorio Emanuele III, la Camera
approvò, col voto contrario dei soli socialisti, la concessione dei
pieni poteri al governo, che la sera del 23 maggio dichiarava guerra
all'Impero Austro-Ungarico. Tuttavia, l'esistenza stessa del
trattato non fu comunicata, e questo rimase segreto fino alla sua
pubblicazione da parte del governo bolscevico.
Il presidente statunitense Woodrow Wilson fu uno strenuo oppositore
del Trattato di Londra
Il giorno seguente alla concessione dei pieni poteri al
governo da parte del Parlamento italiano, ebbero inizio le
operazioni militari.
L'epilogo
Con la fine della I guerra mondiale ed essendo l'Italia risultata
vittoriosa nel conflitto, alla conferenza di pace di Parigi richiese
che venisse applicato alla lettera il patto (memorandum) di Londra,
aumentando le richieste con la concessione anche della città di
Fiume a motivo della prevalenza numerica dell'etnia italiana nel
capoluogo quarnerino. Così non fu a causa del parere contrario del
presidente Wilson, che non avendo sottoscritto il patto non si
considerava ad esso obbligato. La Francia inoltre non vedeva di buon
occhio una Dalmazia italiana poiché avrebbe consentito all'Italia di
controllare i traffici provenienti dal Danubio. Il risultato fu che
le potenze dell'Intesa alleate dell'Italia opposero un rifiuto e
ritrattarono parte di quanto promesso nel 1915. L'Italia dal canto
suo fu divisa sul da farsi, e Vittorio Emanuele Orlando abbandonò
per protesta la conferenza di pace di Parigi. Le potenze vincitrici
furono così libere di proseguire la conferenza di pace senza la
presenza italiana. Il nuovo presidente del consiglio italiano
Francesco Saverio Nitti ribadì nuovamente le richieste italiane, ma
nel contempo iniziò delle trattative dirette col nuovo Regno dei
Serbi, Croati e Sloveni, che sfociarono nel Trattato di Rapallo del
12 novembre 19203: della parte della Dalmazia promessa col patto di
Londra, all'Italia andarono la città di Zara, l'isola di Làgosta e
l'arcipelago di Pelagosa (più vicino alla penisola italiana che alla
costa dalmata). Il resto della regione fu assegnata al Regno dei
Serbi, Croati e Sloveni.
Campagna dei
Balcani (prima guerra mondiale)
Data
3 agosto 1914 - agosto 1918
Luogo
Serbia, Bulgaria, Romania
La campagna balcanica della prima guerra mondiale fu combattuta tra
gli Imperi Centrali (Bulgaria, Austria-Ungheria, Impero Tedesco ed
Impero ottomano) e gli Alleati (Regno di Serbia, Francia, Impero
Russo, Gran Bretagna, Regno di Montenegro, Regno di Grecia, Regno di
Romania e Regno d’Italia) tra l’agosto 1914 e l’agosto 1918. Può
essere considerata l’insieme di più campagne.
Campagna di Serbia
A fine luglio 1914 l'Austria-Ungheria invase con scarso
successo il regno di Serbia ma nel corso dei mesi successivi la
resistenza serba fu vinta grazie anche all'aiuto di truppe tedesche
e bulgare1. Le ultime operazioni terminarono nel novembre del 1915.
Campagna di Romania
In seguito all'entrata in guerra della Romania a fianco delle
potenze dell'Intesa il 18 agosto 19162 le forze rumene avanzarono
nella Transilvania ungherese3, venendo però entro breve arrestate
dalle truppe austro-ungariche, le quali iniziarono una
controffensiva. Contemporaneamente soldati bulgari, tedeschi e
turchi penetrano nel territorio rumeno da sud. Le forze rumene,
sostenute dall'esercito zarista, furono costrette a evacuare il sud
e l'ovest del paese, per riorganizzarsi in Moldavia. In seguito
l'esercito rumeno partecipò alla grande offensiva Kerenskij che
risoltasi in un insuccesso indebolì ulteriormente il governo rumeno,
il quale, mancato il sostegno russo con la rivoluzione d'ottobre, fu
costretto ad arrendersi. La Romania firmò con le potenze centrali il
trattato di Bucarest il 7 maggio 19184, per poi dichiarare
nuovamente guerra a queste il 10 novembre, un giorno prima della
fine della guerra.
Campagna di Bulgaria
La promessa tedesca di ristabilire i confini della pace di
Santo Stefano convinsero la Bulgaria a dichiarare guerra alla Serbia
il 15 ottobre 1915. Regno Unito, Francia e Italia dichiararono in
risposta guerra alla Bulgaria. Inizialmente la Bulgaria, con
l'appoggio di Germania, Austria-Ungheria e dell'Impero Ottomano,
conseguì alcune vittorie contro Serbia e Romania, occupando la
maggior parte della Serbia meridionale, avanzando nella Macedonia
greca, e strappando la Dobrugia ai romeni. Però nel settembre 1918
serbi, inglesi, francesi, italiani e greci spezzarono il fronte
macedone5e lo zar Ferdinando fu costretto a chiedere la pace6.
Fronte macedone
Cercando di portare aiuto alla Serbia truppe inglesi,
francesi, russe e italiane sbarcarono in Grecia7, dove stabilirono
una linea del fronte che andava dalla costa adriatica albanese fino
al fiume Strimone. Il fronte macedone rimase abbastanza stabile,
nonostante alcune azioni locali, fino alla grande offensiva
dell'Intesa nel settembre del 1918, cui seguì la capitolazione della
Bulgaria e la liberazione della Serbia.
Battaglia
di Verdun
Data
21 febbraio – 19 dicembre 1916
Luogo
Verdun-sur-Meuse, Francia
La battaglia di Verdun (in francese Bataille de Verdun, IPA: [ba'taj
də vɛʁ'dœ̃]; in tedesco Schlacht um Verdun, IPA: ['ʃlaxt ˀʊm
vɛɐ'dœŋ]) o operazione Gericht (giudizio) fu l'unica, grande
offensiva tedesca avvenuta tra la prima battaglia della Marna del
1914 e l'ultima offensiva del generale Ludendorff nella primavera
del 1918.9
Fu una delle più violente e sanguinose battaglie di tutto il fronte
occidentale della prima guerra mondiale;10 ebbe inizio il 21
febbraio 1916 e terminò nel dicembre dello stesso anno, vedendo
contrapposti l'esercito tedesco, guidato dal capo di Stato Maggiore,
generale Erich von Falkenhayn,11 e l'esercito francese, guidato dal
comandante supremo Joseph Joffre12 sostituito al termine del 1916
con il generale Robert Nivelle.
Verdun costituì un punto di svolta cruciale della guerra in quanto
segnò il momento in cui il peso principale delle operazioni nel
fronte occidentale passarono dalla Francia all'Impero britannico,
fece svanire le ancora concrete possibilità della Germania di
vincere la guerra e influenzò in parte l'entrata in guerra degli
Stati Uniti nel conflitto.13
Questa spaventosa battaglia divenne una sacra leggenda nazionale in
Francia, sinonimo di forza, eroismo e sofferenza, i cui effetti e
ricordi perdurano ancora oggi; fu la più lunga battaglia di ogni
tempo, coinvolse quasi i tre quarti delle armate francesi, e benché
nella storia, e nella stessa prima guerra mondiale, ci siano state
battaglie anche più cruente, Verdun detiene, forse, il non
invidiabile primato di campo di battaglia con la maggior densità di
morti per metro quadro.14
Il fatto d'armi che più si avvicina a Verdun avvenne durante la
seconda guerra mondiale e fu la battaglia di Stalingrado, spesso
considerata una "Verdun russa",15 ma mentre a Stalingrado l'esercito
tedesco tentò la conquista di una città strategicamente importante,
a Verdun lo scopo dell'offensiva di Falkenhayn fu quello di
"dissanguare goccia a goccia" l'esercito francese.16 Nei piani del
capo di Stato Maggiore tedesco, l'importanza morale e
propagandistica di un attacco a Verdun avrebbe fatto in modo che
tutto lo sforzo francese si riversasse nella difesa di un caposaldo
ritenuto di primaria importanza per la Francia. Lo scopo era quello
di convogliare il maggior numero di truppe nemiche in un solo
settore, per poi colpirlo con la massima potenza possibile con il
violento impiego di artiglieria, in modo da dissanguarlo lentamente
infliggendogli il maggior numero di perdite possibile.
Premesse
Le cause dell'attacco tedesco ad una delle più formidabili
fortezze d'Europa, e della successiva strenua resistenza francese,
hanno però delle radici più profonde, da ricercare nei fatti
accaduti durante la seconda metà del secolo precedente, dalla guerra
franco-prussiana del 1870 alla riorganizzazione politica e militare
di Francia e Germania.
Nel luglio 1870 le forze di Napoleone III subirono alcune sconfitte
iniziali non decisive, ma da quel momento in poi l'esercito francese
iniziò a ritirarsi e non riuscì più a riprendersi.17 I tedeschi non
dettero tregua all'esercito francese che venne costretto a ripiegare
prima a Metz, dove una sua metà comandata dal generale François
Bazaine venne circondata e si arrese dopo due mesi di inerzia, e poi
a Sedan, in cui l'altra metà dell'esercito, comandata da Patrice de
Mac-Mahon, venne intrappolata e costretta alla resa definitiva. Fu
una vera e propria catastrofe per l'esercito francese che da secoli
si considerava la sola vera razza di guerrieri d'Europa.18 Quattro
mesi dopo il re di Prussia si proclamò Kaiser nella galleria degli
Specchi della reggia di Versailles, nel palazzo su cui campeggiava
la scritta À toutes les Gloires de la France davanti ad un dipinto
che raffigura i francesi in atto di umiliare i tedeschi.19
La Francia si ritrovò con un esercito in sfacelo e una nazione
demoralizzata e finanziariamente in serie difficoltà; l'Alsazia e la
Lorena, centri industriali tra i più importanti dell'Europa e della
Francia, vennero ceduti al Reich tedesco, ma l'orgoglio francese
diede presto nuovo slancio al paese, ansioso di revanscismo verso
l'odiato nemico tedesco.
Quindici anni dopo Sedan, l'esercito francese aveva riguadagnato la
sua potenza difensiva e offensiva e la Francia, dopo essersi ripresa
economicamente e militarmente, iniziò la costruzione lungo la
frontiera est di un forte sistema difensivo. Per non ricadere nella
trappola di Metz, invece di fortificare le città venne decisa la
costruzione di due linee continue di forti. Venne realizzato così il
famoso sistema Séré de Rivières, ideato dall'omonimo generale, che
consisteva in una lunga linea fortificata che aveva il "nodo
principale" proprio nelle fortezze di Verdun.20
Benché l'esercito tedesco del 1914 fosse molto più potente a
confronto di quello del 1870,21 il sistema di fortificazioni "Séré
de Rivières" avrebbe provocato lunghi e duri combattimenti in caso
di attacco lungo le tradizionali vie di invasione, e l'alleanza tra
Francia e Russia rendeva inevitabile per la Germania il rischio di
affrontare una guerra su due fronti;22 entrambi furono fattori che
influenzarono il conte Alfred von Schlieffen nell'ideare l'omonimo
piano che prevedeva di schiacciare la Francia con una "guerra lampo"
mentre in Russia erano ancora in corso le operazioni di
mobilitazione.
La paura francese di rimanere, in caso di nuovo conflitto,
impantanati in una nuova disastrosa ritirata, fece crescere nelle
file degli ufficiali francesi la stima nella teoria dell'"attacco ad
oltranza", elaborata dal colonnello Louis de Grandmaison, in base
alla quale:
« se il nemico osava prendere l'iniziativa anche per un solo
istante, ogni pollice di terreno doveva essere difeso fino alla
morte e, se perduto riconquistato con un contrattacco immediato
anche se inopportuno.23 »
I comandi francesi da Foch a Joffre fecero pieno affidamento su
questa teoria, ritenendo inizialmente inutili e superflue anche le
armi di cui l'esercito tedesco dell'epoca faceva già ampio uso, come
l'artiglieria pesante a supporto della fanteria e l'uso manovrato
delle mitragliatrici.24
Dal canto suo il generale Erich von Falkenhayn, conoscendo
l'importanza vitale di Verdun per la nazione francese e appunto le
tecniche offensive dell'esercito nemico, prevedendo che la
piazzaforte sarebbe stata difesa tenacemente fino all'ultimo,
elaborò un piano basato sul dissanguamento graduale, tramite il
massiccio impiego di artiglieria, dell'esercito francese, che
sarebbe stato decimato giorno dopo giorno per la difesa della
"mistica Verdun". Tutto ciò accadde e fu applicato sanguinosamente
per quasi dieci mesi, in cui la piazzaforte divenne il teatro di una
gigantesca battaglia di logoramento che coinvolse entrambi i
contendenti.25
Quando i tedeschi iniziarono l'assalto il 21 febbraio, erano passati
solo due mesi dal giorno in cui il generale Falkenhayn era riuscito
a convincere il Kaiser Guglielmo II che lo Stato Maggiore francese,
essendo determinato a difendere ad ogni costo la storica cittadella
posta sulla strada che da est conduceva a Parigi, "si sarebbe visto
costretto a impiegare in quell'azione fino all'ultimo uomo"
piuttosto che rinunciare alla fortezza e attestarsi su un'altra
linea difensiva.26
La piazzaforte di Verdun
La città di Verdun, nota già ai tempi di Roma con il nome di
Virodunum, era un importante campo fortificato organizzato per
sbarrare il passo alle popolazioni germaniche. Nell'843 il trattato
di Verdun divise l'Europa in tre parti e segnò la nascita della
Germania come nazione; per i teutonici prima e per i tedeschi poi,
Verdun rappresentò un simbolo quasi mistico e benché la cittadina in
base al trattato fosse in territorio francese, nel 923 cadde sotto
il dominio teutonico fino alla liberazione per mano di Enrico II nel
1552.27 Cento anni dopo, fu trasformata da Sébastien de Vauban in
una imponente fortezza destinata ad essere regolarmente assediata
nei secoli successivi. La città fu duramente attaccata durante la
guerra dei Trent'anni, poi bombardata dai cannoni prussiani nel
1792, e successivamente nel 1870 quando fu l'ultima delle fortezze
francesi a cadere durante la guerra franco-prussiana.28
Nel 1916 Verdun era una cittadina tranquilla, considerata
inattaccabile dai comandi francesi, che videro le fortezze intorno
alla città resistere efficacemente all'assedio dell'armata del
Kronprinz durante l'attacco sulla Marna del 1914. In quella
occasione Verdun si ammantò di una veste ancor più "eroica" e
importante di quello che già era. Da ogni lato Verdun era circondata
da ripide colline lambite dalla Mosa, presidiate da numerosi forti29
che avrebbero impedito, grazie ad un efficace tiro incrociato,
qualunque avanzata nemica.
Inoltre, dalla fine dei primi scontri nel settore, Verdun fu munita
di una serie di profonde trincee protettive, lunghe dai 4 ai
5 km; tecnicamente la città era il punto più forte dell'intero
fronte francese,30 ma in pratica si sarebbe rivelato uno dei più
deboli. Questo perché la piazzaforte fu privata quasi completamente
dei suoi pezzi d'artiglieria, che furono tolti per essere adoperati
al fronte, in quanto dopo aver verificato la grave carenza di bocche
da fuoco nelle offensive del 1915, i francesi decisero di attingere
anche alle artiglierie collocate nei forti di Verdun.31 Questa
decisione fu peraltro assecondata dalla teoria di Louis de
Grandmaison, il quale disse che "il posto del soldato francese è in
campo aperto e, se assolutamente necessario, in trincea, ma non
certamente nascosto sotto un blocco di cemento".32
In questo modo il sistema difensivo più potente venne privato delle
sue armi, ma successivamente anche dei suoi uomini. Questi furono
mandati su altri fronti, lasciando praticamente sguarnito il
caposaldo di Verdun, dove conseguentemente non fu possibile eseguire
il giusto completamento del sistema trincerato a difesa del settore
che, al momento dell'attacco tedesco, era privo di trincee di
collegamento, reticolati e collegamenti telefonici sotterranei.
Tutte necessità vitali per reggere ad un attacco nemico.
« Tremo ogni giorno. Non potrei resistere a un attacco; l'ho
detto al Grand Quartier Général, ma non mi hanno nemmeno
ascoltato »
Queste le parole del generale Herr davanti al disinteresse
dell'alto comando francese guidato dal generale Joffre, che di
fronte all'evidente minaccia tedesca e nonostante i palesi movimenti
nemici dall'altra parte del fronte, continuò a non preoccuparsi del
pericolo imminente. Nonostante le ricognizioni del Service
Aéronautique francese che attestavano il concentramento di
artiglierie dietro le linee nemiche.3334
Questa era la condizione critica in cui si presentava il settore
francese alla vigilia dell'attacco che i tedeschi avrebbero attuato
a fine febbraio, mirando a conquistare uno dei simboli più
importanti della Francia.
Operazione Gericht
« La Francia è stata indebolita fin quasi all'estremo limite
della sopportazione [...] le armate russe non sono state
completamente distrutte, ma la loro capacità offensiva è stata così
duramente fiaccata che la Russia non potrà mai risollevarsi fino
alla sua antica potenza[...]35 »
(Erich von Falkenhayn)
Pochi giorni prima del Natale 1915, Falkenhayn si recò dal Kaiser
per proporgli un'offensiva rivolta contro la Francia. Il capo di
Stato maggiore dell'esercito tedesco convinse l'imperatore ad
attaccare il nemico per "finirlo" costringendolo ad arrendersi e in
questo modo rivolgere tutta l'attenzione verso la Gran Bretagna. Un
attacco alla Francia, spiegò Falkenhayn, «permetterebbe al nostro
esercito, con mezzi limitati, di impegnare duramente l'esercito
francese nella difesa di Verdun costringendolo a impiegare nella
difesa fino all'ultimo uomo disponibile. In questo modo le forze
francesi si dissangueranno, non potendosi più ritirare anche se
volessero, e senza tener conto delle nostre eventuali avanzate, il
nostro impegno in un fronte ristretto sarebbe minimo».36
Per Falkenhayn la scelta dell'obiettivo da attaccare era tra Belfort
e Verdun; la scelta cadde sulla seconda opzione, soprattutto perché
l'armata che avrebbe condotto l'attacco sarebbe stata la 5ª
comandata dal figlio del Kaiser, il Kronprinz Guglielmo, ed una sua
eventuale vittoria avrebbe avuto degli utili risvolti
propagandistici soprattutto nel fronte interno.
« Il giorno dopo il ritorno di Falkenhayn, vigilia di Natale,
cominciò a giungere una valanga di telegrammi, mascherati sotto il
nome convenzionale di Gericht, che significa tribunale o giudizio,
oppure, più raramente, luogo di esecuzione.37 »
Le fasi preparatorie
Il primo dei corpi d'armata predisposti per l'attacco a Verdun fu
trasportato da Valenciennes, in grande segretezza, il 27 dicembre;
esattamente un mese dopo, il 27 gennaio (data scelta per ragioni di
buon auspicio in quanto compleanno del Kaiser), furono emanati gli
ultimi ordini e fu stabilita la data dell'attacco (il 12
febbraio).38
Vennero costruite in breve tempo dieci nuove linee ferroviarie a
scartamento ridotto e circa 24 nuove stazioni per portare tonnellate
di rifornimenti di ogni genere,39 oltre a sette linee di raccordo
per portare nella foresta di Spincourt il munizionamento dei cannoni
pesanti in essa nascosti.
Il massimo sforzo dei tedeschi era però assorbito
dall'artiglieria: tutto il loro piano infatti si basava su un
utilizzo massiccio di quest'arma. In linea di massima, il piano
strategico prevedeva l'utilizzo dei cannoni pesanti che avrebbero
avuto il compito di scavare un profondo vuoto nelle linee francesi
che la fanteria tedesca avrebbe poi gradualmente occupato; sarebbero
poi stati distrutti anche i flussi di rifornimento francesi grazie
ad un costante e violento fuoco di sbarramento verso le retrovie,
così da impedire eventuali contrattacchi organizzati. I settori
francesi sarebbero stati martellati continuamente da 306 pezzi
d'artiglieria campale, 542 pezzi d'artiglieria pesante, 152
lanciamine40 e vari altri pezzi di piccolo e medio calibro sistemati
sui fianchi. Questo assembramento eccezionale fu tale che su un
fronte di appena 14 km, vennero dispiegati circa 1.220 pezzi
d'artiglieria, ossia uno ogni 12 metri circa.
Era la più grande concentrazione di artiglieria mai vista fino ad
allora. I pezzi affluivano da ogni parte e ad ogni ora; tra questi
vi erano inoltre ben 13 mortai da 420 mm, le famose "grandi
Berta" (o "Gamma") capaci di sparare un proiettile da oltre una
tonnellata, 2 cannoni da marina a canna lunga da 380 mm, di
lunghissima portata e al sicuro dall'eventuale reazione francese, 17
mortai austriaci da 305 mm (o "cannoni Beta") e un'enormità di
pezzi da 210 mm e 150 mm a tiro rapido che divennero la
quotidianità con cui si confrontarono per quasi un anno i difensori
francesi. In ordine potenza poi vennero impiegati pezzi da
130 mm, cannoni da campagna da 77 mm che erogavano un
efficace fuoco di sbarramento sugli attaccanti, e una nuova e
micidiale arma, il lanciafiamme, che venne impiegato per la prima
volta proprio a Verdun.
La meticolosità tedesca non si fermò qui. Ogni cannone era stato
accuratamente posizionato con un compito assegnato ben preciso; le
colline adiacenti di Romagne e Morimont garantivano un nascondiglio
ideale per i grandi pezzi "Gamma" e "Beta" che avrebbero martellato
la città e i suoi forti. I pezzi navali da 380 mm dovevano
devastare la città di Verdun sparandovi ognuno 40 colpi al giorno e
interrompendo le vie di comunicazione a grande distanza grazie alla
loro portata.41 I 210 mm42 dovevano danneggiare gravemente la
prima linea francese e quando questa fosse stata conquistata,
avrebbero dovuto allungare il tiro per creare uno sbarramento nelle
zone intermedie, supportando così gli attaccanti per un tempo
sufficiente a rinforzare le posizioni e attestarsi saldamente nelle
trincee conquistate.
A questo punto le artiglierie più piccole sarebbero avanzate sulla
nuova linea, protette dai cannoni pesanti, e da lì avrebbero
continuato la loro opera distruttrice verso le linee francesi non
ancora conquistate, mentre i pezzi da 150 mm a lunga gittata
avrebbero continuato a battere d'infilata le vie d'accesso che
conducevano al fronte per impedire qualsiasi contrattacco immediato.
« Nessuna zona deve essere risparmiata dai bombardamenti [...]
nessuna tregua alle zone di rifornimento; il nemico non deve
sentirsi al riparo in nessun luogo!43 »
Questi erano gli ordini dati agli artiglieri tedeschi,44 e per
rendere possibile l'attuazione di questi ordini, per sei giorni
furono stipate munizioni per un totale di 2 500 000
proiettili, per il cui trasporto erano occorsi 1 300 treni e un
enorme sforzo logistico.45
Il 1º febbraio Falkenhayn venne informato che tutti gli oltre
1 220 cannoni erano finalmente in posizione e vennero scavate
le piazzole per ospitare gli obici pesanti nella prima linea tedesca
in previsione della conquista delle prime linee francesi. Inoltre
"truppe speciali" erano pronte per collegare telefonicamente le
posizioni avanzate e segnalare con grossi palloni rossi la posizione
della fanteria per indirizzare in tempo reale il tiro di sbarramento
tedesco.46
La "segretezza" di Falkenhayn
Oltre alla consueta meticolosità, i tedeschi diedero grande
importanza alla segretezza, incarnata nel migliore dei modi dal
feldmaresciallo Erich von Falkenhayn che, durante i preparativi per
l'assedio di Verdun, assunse un ruolo fondamentale. Il resto
dell'esercito venne praticamente tenuto all'oscuro dell'operazione
Gericht fino all'ultimo; lo stesso colonnello Max Bauer consulente
di Falkenhayn nella preparazione dell'artiglieria, ricevette i piani
definitivi molto più tardi del previsto, in modo tale che non
potesse più modificarli. All'estremo sud del fronte, il generale
Hans Emil Alexander Gaede continuò inconsapevole i preparativi per
un attacco a Belfort, che Falkenhayn in realtà non ebbe mai
intenzione di effettuare, ma che avrebbe dovuto ingannare gli
anglo-francesi sul vero obiettivo del comando tedesco.47
Decine di bombardamenti diversivi furono programmati in vari punti
del fronte, e persino alle infermiere che arrivavano per allestire i
nuovi ospedali da campo nelle retrovie di Verdun, venne detto che
erano lì per curare "malattie interne". Questa "segretezza" ebbe
però il suo rovescio della medaglia, lo stesso Kronprinz Guglielmo e
persino l'alleato austriaco vennero lasciati quasi all'oscuro delle
reali intenzioni di Falkenhayn, solo lui e il Kaiser sapevano che
l'offensiva di Verdun non era diretta all'occupazione della città
bensì al brutale piano di "dissanguamento" dell'esercito francese
che secondo le previsioni avrebbe avuto effetti tattici e
psicologici decisivi. Il comandante dell'esercito tedesco in pratica
ingannò il Kronprinz assicurandogli i rinforzi che gli sarebbero
serviti per una conquista di Verdun, ma che in realtà tenne a debita
distanza dal fronte. Questo atteggiamento fu un errore che ebbe
serie ripercussioni in occasione dell'attacco a Fort Douaumont,
condotto con un numero di soldati insufficienti, che precluse il
possibile sfondamento del fronte francese da parte dell'Armata del
Kronprinz che al momento decisivo si trovò a corto di uomini.
Persino Konstantin von Knobelsdorf, asserì più tardi, che se avesse
saputo le reali intenzioni di Falkenhayn non lo avrebbe mai
appoggiato; ma intanto i preparativi continuarono, ormai la macchina
era in moto.48
Per i preparativi vennero poi chiamati pittori a colorare teli
mimetici per nascondere gli enormi pezzi di artiglieria dalle
ricognizioni aeree francesi, vennero scavate buche per nascondere le
munizioni, e venne ordinato che prima dell'attacco solo i pezzi già
individuati dagli aerei francesi avrebbero potuto rispondere ad
eventuali tiri nemici. Ma l'arma in più dei tedeschi non fu né un
pezzo d'artiglieria né una nuova tattica, bensì un complesso sistema
di tunnel sotterranei scavati lungo tutta la zona dell'attacco
chiamati "Stollen", che permisero alle truppe tedesche di sfruttare
al meglio l'effetto sorpresa.49 Nelle offensive alleate del 1915, il
massiccio assembramento di truppe nelle trincee di prima linea
veniva individuato facilmente dal nemico, che reagiva con
l'artiglieria causando pesanti perdite ancor prima che il nemico
uscisse dalle trincee, in questo senso i tedeschi elaborarono questo
nuovo sistema di strutture di "prima linea" proprio per ovviare a
questo problema.
I tedeschi realizzarono un complesso di centinaia di profonde
gallerie collegate tra loro scavate nel terreno, invulnerabili ai
colpi d'artiglieria, da cui, al momento dell'attacco, sarebbero
sbucati fuori migliaia di soldati senza che il nemico, fino
all'ultimo, ne cogliesse la presenza. A Verdun inoltre, per la prima
volta venne impiegata massicciamente dai tedeschi anche la nuova
arma aerea: la Luftstreitkräfte radunò 168 aeroplani, 14 palloni
frenati e 4 Zeppelin, una notevole forza per il tempo, che avrebbe
dovuto difendere i palloni di segnalazione per l'artiglieria
dall'attacco degli aerei francesi nonché impedire a questi di
individuare i preparativi. Si sarebbe dovuto creare un vero e
proprio "sbarramento aereo" sui cieli sopra Verdun.50
La situazione francese
Nel campo francese invece la situazione era molto pericolosa;
Verdun era praticamente sguarnita di artiglierie51 e nonostante le
lamentele dei comandanti di zona il Gran Quartier General (GQG) di
Joseph Joffre rimase per lungo tempo cieco davanti al pericolo. Il
tenente colonnello Émile Driant, ex deputato e comandante di due
battaglioni di chasseurs à pied nel bosco di Caures,52 sembrò invece
rendersi conto insieme al generale Herr, dell'imminente minaccia,
infatti scrisse a proposito al suo amico Paul Deschanel presidente
della Camera:
« Stiamo facendo il possibile giorno e notte per rendere il
nostro fronte inviolabile, ma vi è una cosa sulla quale non possiamo
fare niente, la mancanza di braccia!. Ed è su questo che io la prego
di richiamare l'attenzione del ministro (della Guerra N.d.T). Se la
nostra prima linea venisse sfondata, la nostra seconda linea sarebbe
inadeguata perché non riusciamo a rinforzarla per mancanza di
operai, e aggiungo io, di filo spinato!53 »
In seguito Deschanel passò un riassunto dei suoi punti al ministro
della guerra Galliéni che a sua volta scrisse a Joffre esprimendo la
sua preoccupazione per aver sentito parlare di difetti in vari punti
del fronte francese, tra cui Verdun. Joffre rassicurò genericamente
Galliéni sullo stato delle difese francesi ma andò su tutte le furie
solo pensando che qualche ufficiale avesse scavalcato le gerarchie
militari ignorando il suo stato maggiore e rivolgendosi direttamente
ai politici.54
Nonostante ciò, Joffre fino all'ultimo sembrò ignorare il pericolo,
forse ingannato dal servizio di spionaggio francese che fu di scarso
aiuto in quanto efficacemente contrastato dal controspionaggio
tedesco. Nonostante l'aiuto degli inglesi (peraltro poco efficace)
anche dal settore di Verdun le informazioni uscivano lentamente,
venivano utilizzate poche pattuglie e i posti di ascolto erano poco
efficienti. Inoltre, il brutto tempo persistente non permise
ricognizioni aeree fino al 17 gennaio, ma anche successivamente, pur
disponendo di documentazione fotografica, solo il 22 gennaio venne
inviato un esperto in grado di decifrare le poche fotografie
scattate, che riuscì solamente a rilevare la direttrice principale
dell'attacco, ma non le postazioni principali delle artiglierie.
Nonostante gli sforzi francesi, al momento dell'attacco furono
individuate solo 70 piazzole di artiglieria, per cui i francesi non
si resero conto fino all'ultimo della consistenza del raggruppamento
nemico, anche questo fu uno dei motivi che convinsero Joffre e il
suo GQG che un attacco tedesco non era imminente.55
Lo spionaggio francese dal canto suo, cominciò a segnalare con
sempre maggiore insistenza movimenti nemici; il 12 gennaio venne
riferito che l'artiglieria tedesca aveva iniziato a prendere
posizione, il 14 arrivarono notizie su nuovi ospedali da campo e il
15 vennero riferiti importanti movimenti di truppe nelle retrovie.
Nonostante tutto ciò il GQG era sempre convinto che la Germania56
fosse decisa ad attaccare massicciamente la Russia, e che al massimo
un attacco alla Francia si sarebbe avuto nell'Artois o nello
Champagne; solo il 12 febbraio arrivarono due divisioni di rinforzo
a Verdun, il giorno stesso in cui i cannoni del Kronprinz avrebbero
dovuto cominciare la loro opera distruttrice.57
Lo scontro di Verdun
L'attesa
«Ma il Dio delle stagioni d'un tratto si mise in testa di
sconvolgere tutti i nostri piani»
(Kronprinz Guglielmo58)
Queste le parole del Kronprinz nelle sue memorie di guerra, che
rappresentano in modo semplice e diretto la causa principale del
perché l'attacco previsto per il 12 febbraio, fu rinviato a data da
destinarsi. Le condizioni atmosferiche avverse condizionarono
pesantemente i preparativi tedeschi; all'alba del giorno
prestabilito, la neve cadde molto fitta e rese impossibile agli
artiglieri avere una visuale ottimale, così il comandante della 5ª
Armata tedesca decise di rinviare l'attacco di 24 ore, la battaglia
non poteva essere iniziata se i cannoni non potevano svolgere i loro
compiti con una visuale ottimale. Ma ventiquattr'ore dopo il tempo
non migliorò, e neppure nei giorni a seguire, e mentre i tedeschi da
una parte lottavano contro l'acqua gelida che riempiva i loro
Stollen, i francesi attendevano ansiosi l'attacco nemico.59
L'attesa durò oltre una settimana, in cui i nervi di entrambe le
parti dettero evidenti segni di cedimento,60 ma il giorno 20, gli
uomini di entrambi gli schieramenti si svegliarono e videro per la
prima volta una bella giornata di sole. Approfittando di questo, per
alzare il morale alle proprie stanche truppe, l'artiglieria francese
fece un'ora di fuoco senza nessuna velleità, solamente per farsi
sentire. La notte del 20 febbraio però i movimenti tedeschi si
intensificarono, la prima linea francese poté sentire gli ultimi
treni carichi di munizioni scaricare la loro merce nei pressi del
bosco di Spincourt, e aldilà della terra di nessuno poterono sentire
il canto dei soldati tedeschi.61
Le prime fasi dell'offensiva tedesca
La mattina del 21 febbraio alle 8:12, in un bosco vicino a Loison, i
serventi di uno dei cannoni da marina Krupp, per la prima volta dopo
tanti giorni ricevettero l'atteso ordine del principe ereditario
Guglielmo62: un primo proiettile da 380 mm venne sparato verso
la città di Verdun, demolendo parte del palazzo vescovile. Altri
colpi da 380 iniziarono a colpire inesorabili, centrando la stazione
ferroviaria e i ponti fuori città: l'operazione Gericht era
cominciata.63
Un bombardamento violento e preciso martellò per ore le linee
francesi, distruggendo trinceramenti e linee telefoniche, e
impedendo l'arrivo di qualsiasi rinforzo. Nel primo pomeriggio il
bombardamento tedesco raggiunse la massima intensità,64 alte colonne
di fumo si alzarono dalle linee francesi, appena un'ora dopo partì
l'attacco terrestre da parte della fanteria tedesca. Gli uomini
della 5ª armata tedesca, comandata dal Kronprinz Guglielmo di
Prussia, avanzarono a gruppi sparsi nell'intento di aprire le prime
brecce tra le trincee francesi, occupando il numero più alto
possibile di posizioni nemiche, in vista del massiccio attacco del
giorno successivo. In alcuni casi le pattuglie riuscirono perfino a
fare prigionieri mentre i ricognitori aerei riportarono di una
distruzione di vaste proporzioni nelle linee nemiche.65
Il primo giorno di battaglia non sortì per i tedeschi l'effetto
sperato. I francesi resistettero stoicamente, anche se cedettero in
vari punti non erano stati "spazzati via" come invece le prime
ricognizioni tedesche erroneamente riportarono. Neanche la comparsa
dei lanciafiamme sul campo di battaglia servì per stanare i fanti
francesi dalle loro posizioni. Per il 22 febbraio lo Stato maggiore
di Knobelsdorf non pose limiti all'avanzata tedesca che si sarebbe
svolta con le stesse modalità del giorno precedente, bombardamento
al mattino e attaccando la fanteria nel pomeriggio.66
Intorno alle 16:00 i tedeschi, appoggiati dall'artiglieria,
conquistarono Haumont-près-Samogneux, creando il primo cuneo dentro
le difese nemiche, ma il vero successo fu la conquista del Bois de
Caures (bosco di Caures) dove incontrarono solo due battaglioni
decimati di chasseurs a pied francesi comandanti da Émile Driant. I
tedeschi avevano trovato il tallone d'Achille delle forze francesi,
e nonostante gli uomini di Driant resistettero con caparbietà per
alcune ore, la disparità di forze era troppo grande e vennero
sopraffatti. Nella strenua difesa del settore Driant perse la
vita.67
I vuoti dell'artiglieria francese risultarono evidenti e la
controparte tedesca continuò a martellarle sistematicamente, intanto
l'allarme nelle retrovie francesi crebbe di ora in ora. I tedeschi
dopo aver conquistato Haumont e il Bois des Caures, ora pressavano
con più insistenza cercando di aggirare da nord Verdun, passando per
Samogneux. I tedeschi, come da tattica, impedirono con un violento
sbarramento di fuoco l'arrivo di rinforzi a Samogneux, ma a
facilitare le cose ci pensarono gli stessi francesi. Una precipitosa
notizia che dava per occupata già alla sera del 22 la cittadina,
mise in allarme il generale francese Herr che ordinò un intenso tiro
d'artiglieria verso Samogneux per riconquistarne le posizioni, che
sfortunatamente erano ancora saldamente in mano ai soldati francesi,
che in questo modo vennero decimati dalla propria artiglieria.68 I
tedeschi approfittando dell'errore e alle 3:00 del mattino
occuparono la cittadina.69
I tedeschi con questa conquista rafforzarono il cuneo creato nelle
difese francesi, la diga era stata infranta, la 37ª divisione
africana messa a tamponare la falla fu decisamente poco efficace,70
e i tedeschi riuscirono ancora ad avanzare in direzione di Fort
Douaumont.71
La situazione tra le linee francesi era pessima, il freddo
imperversava e i ricoveri e le trincee erano state spazzate vie, le
truppe erano demoralizzate e decimate, le linee di comunicazione
distrutte,72 le strade interrotte e le ferrovie divelte mentre il
servizio ambulanze impiegava in media 10 ore per percorrere
30 km. La situazione era quindi favorevole ai tedeschi, che
però non si accorsero subito della situazione e non colsero
l'opportunità di un possibile e decisivo sfondamento, anche se di lì
a poco avrebbero effettuato una delle più fortunate conquiste
dell'intera campagna.73
« Verdun dev'essere tenuta a qualsiasi prezzo, "Ils ne
passeront pas!" (non passeranno!) è la parola d'ordine, Verdun
diventa il simbolo della Francia, del suo onore e della follia della
guerra.74 »
Fort Douaumont
Uno dei simboli di Verdun era rappresentato da Fort Douaumont che
con il suo gemello Fort Vaux era parte integrante di un sistema
difensivo costituito da 19 forti e innumerevoli posizioni
fortificate di dimensioni più contenute dislocate sulla sponda
orientale della Mosa. I forti erano disposti in cerchi concentrici
che marcavano la successione delle linee di difesa il cui centro,
nonché ultimo baluardo difensivo, era Verdun stessa. Ideato
all'indomani della guerra franco-prussiana, questo sistema difensivo
fu progressivamente riammodernato per adeguarlo alle esigenze della
guerra moderna.75
Il forte era uno dei più potenti del mondo e il più famoso baluardo
di Verdun, si ergeva imponente sulla cima più alta degli Hauts de
Meuse protetto in ogni sua parte dal tiro dei suoi cannoni,76
costruito a pianta poligonale era un vero e proprio baluardo di
cemento e filo spinato circondato da un fossato profondo
7 metri.77
Tuttavia agli occhi dei generali francesi la guerra moderna aveva
dimostrato come il concetto di fortezza fosse diventato ormai
obsoleto, lo avevano reso evidente i tedeschi con la conquista dei
forti belgi di Liegi e Namur. Si decise quindi che gli uomini e le
armi alloggiati a Douaumont avrebbero avuto un utilizzo più proficuo
in servizio attivo e si procedette dunque alla smobilitazione di
parte dei pezzi di artiglieria del forte e di praticamente tutta la
guarnigione che allo scoppio della guerra contava 500 uomini ma che
al momento della battaglia ne avrebbe contati solo 56. I vertici
militari francesi non avevano però tenuto conto del fatto che Liegi
fu conquistata a caro prezzo dai tedeschi e che Douaumont era
rimasto praticamente intatto dopo i tentativi di conquista avvenuti
nel 1914.78
Le difese del forte risultarono quindi notevolmente indebolite dalla
nuova politica difensiva dei generali francesi; le condizioni di
debolezza del forte e la consapevolezza di dover fare qualcosa al
riguardo si persero nel passaggio del comando dal 30º al 20º corpo.
Fu una disattenzione inevitabile per generali che erano ancora
abituati a considerare i forti come completamente autonomi e che
quindi lasciarono i pochi uomini all'interno del forte senza
rinforzi, rifornimenti, informazioni né ordini.79
Il 25 febbraio, dopo soli quattro giorni di battaglia, Fort
Douaumont venne preso di mira dal 24º reggimento del Brandeburgo e
dal 12º reggimento granatieri. Il consueto bombardamento di
annientamento iniziò alle 9:00 del mattino del 25 febbraio, e quando
partì l'attacco della fanteria, in meno di 25 minuti il 2º
battaglione del 24º reggimento raggiunse l'obiettivo avanzando di
1200 m facendo 200 prigionieri e sbaragliando le poche truppe
nemiche rimaste in zona. Uno dei simboli francesi, cadde nel giro di
un pomeriggio.80
Come detto il forte era presidiato da soli 56 uomini comandati dal
sergente maggiore Chenot che per la maggior parte si erano rifugiati
nei sotterranei per sfuggire alla furia dei bombardamenti mentre
solo Chenot e pochi altri erano rimasti nella torretta del cannone
da 155 mm a sparare qualche colpo.81 Quando le avanguardie
tedesche raggiunsero il forte, furono sorprese dal totale silenzio
delle armi dei difensori e si avventurarono nella struttura più per
curiosità che per un ordine diretto.82 I primi ad arrivare furono
gli artieri del sergente Kunze che, superato il fossato, riuscirono
ad entrare da una finestrella; esplorando i corridoi interni
riuscirono a mettersi in contatto con le squadre del tenente Radtke,
del capitano Haupt e del tenente von Brandis8384 che nel frattempo
avevano seguito Kunze all'interno, così facendo riuscirono a
circondare i francesi che sorpresi si arresero senza sparare un
colpo.85
« Il successo maggiore che lo sforzo tedesco avesse raggiunto
sul fronte occidentale »
Così scrisse un corrispondente di guerra sul fronte di Verdun,
dove il più considerevole sfondamento dopo la Marna fu propagandato
e acclamato in tutta Germania. Persino il Kaiser espresse il suo
compiacimento per l'impresa al quartier generale del Kronprinz. Con
la conquista del forte i tedeschi poterono ora contare su una
posizione favorevole che gli permise di dominare il campo di
battaglia nella sua interezza nonché di un rifugio dove organizzare
postazioni per i feriti, ammassare le truppe e immagazzinare
provviste armi e munizioni.86
Dall'altra parte, il governo francese cercò in ogni modo di far
accettare la sconfitta all'opinione pubblica, drammatizzando le
perdite tedesche fino quasi all'assurdo, e dichiarando che ai
tedeschi era stato concesso di occupare una rovina ormai inutile
dopo decine di attacchi falliti. Ma la realtà era ben diversa. I
francesi per la loro inadeguatezza non furono in grado di
riconquistare il forte, i velleitari e sprezzanti assalti alla "de
Grandmaison" non ebbero alcun effetto, i rifornimenti erano assenti
e il morale a livelli bassissimi. Ciò aiutò la diffusione di panico
ed a episodi di diserzioni sempre più frequenti, molto spesso
repressi con la forza. Gli abitanti di Verdun si riversarono per le
strade per fuggire e cominciarono a imperversare i saccheggi, e al
fronte le cose andavano di male in peggio.87
Pétain prende il comando
Le notizie della perdita di Fort Douaumont arrivarono
velocemente anche al quartier generale francese, e come prima cosa
Joffre acconsentì alla scelta del suo secondo, il generale Edouard
De Castelnau, di inviare immediatamente a Verdun la 2ª armata fino
ad allora lasciata in riserva, comandata da Philippe Pétain. Inoltre
il Capo di Stato Maggiore De Castelnau, ottenne i pieni poteri per
la piazza di Verdun e vi si recò immediatamente per controllare di
persona la situazione ormai disperata.88
De Castelnau ordinò subito a Pétain di difendere fino alla morte le
due rive della Mosa, accettando in pieno la sfida di Falkenhayn che
in questo modo poté eseguire in pieno il suo piano di
"dissanguamento graduale" dell'esercito francese, ormai deciso a
resistere ad ogni costo per difendere la mistica Verdun.8990
Pétain fu un generale in un certo senso più "umano" e capace dei
vari Joseph Joffre e Douglas Haig, mentre i due sembravano rimanere
impassibili di fronte alle smisurate perdite umane, Pétain al
contrario aveva molto a cuore la sorte dei suoi soldati91 e riteneva
inutili quelle immediate controffensive tanto esaltate dalla
dottrina di De Grandmaison. Philippe Pétain pensava invece che un
attacco si sarebbe dovuto svolgere gradualmente, con obiettivi
limitati e con la sicurezza di iniziare con una forza d'attacco
superiore a quella del nemico, che avrebbe garantito il successo
dell'attacco; al contrario, fino ad allora, e anche per il resto
della guerra, gli alleati continuarono a concepire la vittoria come
un enorme, unico sfondamento congiunto su tutto il fronte,92
sacrificando in questo modo centinaia di migliaia di soldati.
« se Pétain ordina un attacco ci dev'essere qualche possibilità
di riuscita, e non vi sarebbe stato un insensato sacrificio di vite
umane secondo le abitudini di quegli ambiziosissimi generali,
intenti solo ad ottenere ricompense dalla conquista a qualsiasi
prezzo di alcuni metri di trincee nemiche93 »
Pétain giunto a Verdun si accorse subito che la situazione non era
così disperata. Come prima cosa cancellò l'ordine di riconquista
immediata di Douaumont, che in fondo era solo una fortezza di forte
valore simbolico più che tattico, altri rinforzi erano inoltre in
arrivo, così venne deciso di organizzare successivamente un
contrattacco con mezzi migliori e più possibilità di riuscita. Il
futuro maresciallo di Francia diede inoltre un grandissimo impulso
nell'affrontare il problema delle comunicazioni e dei rifornimenti:
in questo frangente nacque il mito della Voie Sacrée, unica arteria
che conduceva a Verdun che sarebbe diventata la vitale via di
rifornimento durante tutta la battaglia e uno dei simboli della
stessa94, dove a giugno, durante la punta massima della battaglia,
vennero impiegati 12.000 veicoli al giorno con il ritmo di uno ogni
14 secondi95
Il Mort-Homme
Malgrado l'iniziale impeto, l'attacco tedesco tra la fine di
febbraio e l'inizio di marzo si era lentamente impantanato anche per
via del riassetto che Pétain dette alle linee del fronte, dove
vennero portati numerosi pezzi d'artiglieria e migliaia di uomini,
mentre i tedeschi si trovarono a dover avanzare in un terreno
fangoso e sconvolto dai loro bombardamenti, che non consentiva di
far avanzare i pesanti cannoni come la loro tattica prevedeva. Ora
l'intensità del fuoco tedesco era minore, e i francesi riuscirono a
resistere con grande efficacia, causando ingenti perdite agli
attaccanti, che non riuscirono più a sfruttare il vantaggio di
potenza di fuoco che avevano all'inizio. Falkenhayn fin dall'inizio
dell'offensiva negò gli immediati rinforzi al Kronprinz, nonostante
in quel momento le forze francesi fossero vicine al collasso
decisivo. L'indecisione cronica del capo di Stato Maggiore precluse
al comandante della 5ª armata altre forze utili allo sfondamento;
l'erede al trono tergiversò aspettando i rinforzi perdendo così la
più grande occasione di sfondare le linee francesi, in quel momento
nel caos più totale. Sfruttando l'indecisione nemica, le linee
francesi si rinforzarono rendendo la battaglia in tutto e per tutto
simile alle sanguinose offensive di logoramento che caratterizzarono
il fronte occidentale.96
Ora, in occasione del rinnovato attacco deciso da Falkenhayn, i
tedeschi portarono a Verdun ingenti forze, ben lontane dalle
"limitate risorse" con cui Falkenhayn intendeva condurre
inizialmente l'azione, e ben superiori a quelle che a febbraio
sarebbero servite per uno sfondamento decisivo. Venne deciso di
condurre una vasta azione anche sulla riva sinistra della Mosa per
alleggerire la riva destra ormai teatro di violenti scontri. E
proprio sulla riva sinistra, vi era un'altura allungata e scoperta,
perpendicolare al fiume che aveva una notevole visuale in ogni
direzione, il Mort-Homme. La sua conquista avrebbe eliminato le
batterie francesi riparate dietro di questo, e consentito di
dominare anche la successiva altura verso Verdun, il Bois Bourrus.97
Nonostante i febbrili preparativi francesi per affrontare l'attacco,
questo ebbe inizialmente facili successi, la 77. brigata tedesca
superò la Mosa, fino a conquistare i villaggi di
Regnéville-sur-Meuse, Forges-sur-Meuse e l'altura "Quota 265" sulla
Cote de l'Oie. D'altro canto il primo attacco al Mort-Homme fu
fermato praticamente alla partenza da un intenso sbarramento di
artiglieria francese, e una prima conquista da parte tedesca del
Bois de Corbeaux (un bosco sul lato di nord-est del Mort-Homme da
cui avrebbero portato i successivi attacchi) venne annullata dal
contrattacco francese che si rimpossessò del bosco. Il 14 marzo un
primo attacco venne condotto dai tedeschi verso il Mort-Homme, la
battaglia durò per alcuni giorni, ma sistematicamente come per i
successivi due mesi ondate di fanti tedeschi avanzarono in un
terreno dilaniato dai loro bombardamenti preliminari per poi essere
massacrati dalla risposta dell'artiglieria francese. Le perdite
crebbero vertiginosamente da ambo le parti, alla fine di marzo il
totale delle perdite tedesche era di 81 607 uomini contro le
89 000 francesi.98
Il villaggio di Maucourt-sur-Orne dopo l'azione tedesca del 5
aprile.
Più i combattimenti infuriarono, più i tedeschi si trovarono in
svantaggio. I boschi dove nascondere l'artiglieria e dove utilizzare
la tattica dell'infiltrazione stavano scomparendo a causa dei
massicci bombardamenti che subivano e i lanciafiamme non sortivano
più l'effetto pauroso degli inizi. Anzi, i serventi dei
Flammenwerfer divennero ambiti bersagli, in quanto una pallottola
poteva far esplodere i serbatoi di petrolio che alimentavano le armi
e in questo modo uccidere oltre che il servente anche tutti i
soldati che stavano nelle vicinanze. Per di più su un'altura gemella
a destra del Mort-Homme, "Quota 304", i francesi sistemarono
artiglieria e mitragliatrici, in modo tale da prendere sul fianco le
avanzate tedesche e riuscendo ad immobilizzare qualunque avanzata
nemica. I tedeschi decisero quindi di smettere i tentativi verso la
Mort-Homme finché non si fossero impossessati di Quota 304. Il 20
marzo l'attacco dell'11ª divisione bavarese ebbe un insperato
successo conquistando alcune posizioni ai piedi delle due alture con
limitate perdite, e catturando 2 825 francesi della 29ª
divisione.99
I tedeschi continuarono ad avanzare, il 31 marzo cadde Malancourt,
il 5 aprile Maucourt-sur-Orne e l'8 Béthincourt, mentre il 9 venne
decisa una grossa offensiva lungo l'intero fronte di Verdun, su
ambedue le rive della Mosa, "facendo cioè quello che avrebbero
dovuto fare il 21 febbraio". Fu lo sforzo maggiore dal primo giorno
dell'offensiva a febbraio, vennero impiegati 17 treni carichi di
munizioni e decine di migliaia di uomini. Ma tutto ciò non fu
sufficiente, seppur con piccoli cedimenti il fronte francese
resistette, da quel giorno però fu un continuo susseguirsi di
sanguinosi attacchi e contrattacchi, che resero la collina un vero e
proprio tappeto di cadaveri. Il 3 maggio i tedeschi prepararono un
nuovo e forse decisivo attacco, vennero posizionati oltre 500 pezzi
d'artiglieria su un fronte di meno di 2 km che martellarono le
linee francesi per oltre due giorni, causando tra le file francesi
terribili perdite. Dopo tre giorni di combattimenti i tedeschi
occuparono Quota 304. Da lì, alla fine di maggio conquistarono tutto
il Mort-Homme e il villaggio di Cumières-le-Mort-Homme, ora il
margine di ritirata dei francesi era esiguo e tutte le forze
tedesche in occidente potevano essere lanciate contro gli uomini di
Pétain sulla riva destra della Mosa.100
L'onore francese
Nonostante le avanzate tedesche sulla riva sinistra, sulla riva
destra della Mosa le cose non andavano altrettanto bene per
l'esercito del Kaiser. Nei successivi tre mesi le avanzate da
entrambe le parti furono minime al costo di perdite gravissime.
Nella riva destra appunto, i combattimenti si svolsero per tutto il
periodo in una piccola zona, chiamata il "quadrilatero della morte"
a sud di Fort Douaumont, dove i soldati cadevano a migliaia per un
tira e molla da entrambe le parti che non superò mai i 1.000 m
di avanzata. Nonostante i primi segni di tensione tra i comandi
tedeschi, l'offensiva non venne fermata sulla base di considerazioni
che facevano credere di poter sopportare altre grandi offensive, che
al contrario i francesi a corto di uomini, non avrebbero potuto
reggere.101
Ma le cose erano ben diverse, l'esperimento del "dissanguamento
totale" funzionava, ma coinvolgeva anche le truppe tedesche. Al
primo maggio infatti le perdite erano rispettivamente di 126.000
uomini per i tedeschi contro i 133.000 francesi. Tra le file dei
primi serpeggiava però il timore di un'offensiva inglese di
"alleggerimento", così Falkenhayn decise per una energica offensiva
della 5ª Armata verso il Forte di Souville che sarebbe dovuta
proseguire con attacchi sulla riva destra, nonostante questa
decisione incontrasse i pareri negativi del generale Bruno von Mudra
che non considerava utile un'altra offensiva. Anche il Kronprinz
sosteneva che oramai l'operazione Gericht era fallita,102 come
concordava anche buona parte dello Stato Maggiore della 5ª Armata,
ma non il capo di Stato Maggiore, generale von Knobelsdorf che mise
al posto di von Mudra al comando del III Corpo d'armata il generale
Ewald von Lochow, il quale sostenne insieme a Falkenhayn la
continuazione dell'azione sulla destra del fronte per tentare un
ennesimo sfondamento in direzione Verdun.103
Dopo tre mesi e mezzo di violenta battaglia, Verdun aveva ormai
assunto un valore simbolico per entrambe le parti. Una cittadina
oramai praticamente disabitata e semi distrutta dai bombardamenti
era divenuta una questione d'onore più che strategica per la
Francia. L' Honneur de la France appunto, obbligava le forze
francesi a mantenere a qualunque costo la cittadella e allo stesso
tempo impegnava ogni sforzo tedesco nella conquista di quell'angolo
di Francia che ormai rappresentava un vero e proprio crocevia per il
destino di entrambe le nazioni coinvolte.
« Come in una tenzone individuale e leggendaria a Verdun era la
virilità di due popoli ad essere in gioco, nessuno dei due
contendenti voleva né poteva cedere, spinti da un impeto
incontrollato che andava al di là della volontà umana e che
continuava implacabilmente a richiedere un enorme prezzo di vite
umane.104 »
Nonostante tutto proseguirono i preparativi per il nuovo attacco
tedesco, i francesi dal canto loro erano però in una situazione
critica: fortemente indeboliti sulla riva destra e sopraffatti a
sinistra, dove venivano martellati dall'artiglieria piazzata sulla
Mort-Homme e su Quota 304.105
La "Coppa di Maggio"
I preparativi per un nuovo assalto, che portava il nome
convenzionale di "coppa di maggio", proseguirono con grande
rapidità, il peso dell'attacco fu simile a quello del 21 febbraio,
ma su un fronte di 5 km, che comprendeva l'attacco alle future
basi di partenza per l'assalto finale a Verdun, ossia la piazzaforte
di Thiaumont, l'altura di Fleury il Forte di Souville, ma
soprattutto il Forte di Vaux, ossia il bastione a cui era ancorata
l'estremità nord-est della linea francese.106
Malgrado gli sforzi di Pétain, i tedeschi conservavano ancora una
sensibile superiorità di artiglieria, con 2200 pezzi contro 1777, e
la stampa tedesca ancora una volta si pronunciava:
« Ci stiamo proponendo seriamente di prendere
Verdun...107 »
Fort Vaux
Il forte di Vaux era già stato precedentemente preso d'assalto
dai tedeschi, ma il loro impegno si profuse invece verso la
conquista di Fort Moulainville (gemello di Fort Douaumont), che
venne assediato dalle "grandi Berta" che vi causarono enormi danni
ed enormi perdite. Per non subire grosse perdite, le guarnigioni
francesi avevano imparato a ripararsi nelle trincee al di fuori del
forte durante il giorno, per poi ritornare nelle posizioni la notte.
Inoltre anche i tedeschi avevano i loro problemi: l'utilizzo
costante dell'artiglieria aveva danneggiato le canne degli enormi
pezzi da 420mm che erano diventati molto imprecisi, e a volte erano
esplosi durante gli spari. In vista dell'attacco quindi, i tedeschi
poterono impiegare "solo" 4 Berta invece delle 13 impiegate a
febbraio, che vennero concentrate sui due forti di Souville e
Vaux.108
Il 1º giugno partì l'attacco alle trincee difensive del forte di
Vaux, che furono sopraffatte interamente il giorno dopo, mentre un
terribile fuoco di sbarramento tedesco pioveva sul forte. All'alba
del 2 giugno il fuoco di sbarramento cessò di colpo, e la 50ª
Divisione comandata dal maggiore generale Weber Pasha109 iniziò
immediatamente l'attacco verso il forte. Appena i soldati tedeschi
arrivarono nel fossato del forte, una pioggia di proiettili si
riversò su di loro, nonostante questo, alle 5:00 del mattino uno dei
più importanti capisaldi del forte cadde in mano tedesca, e dopo ore
di duri combattimenti nel pomeriggio ormai le strutture esterne del
forte erano in mano tedesca. I combattimenti si spostarono quindi
all'interno, tra le buie gallerie del forte, dove i francesi si
erano barricati e dove entrambi gli schieramenti combattevano tra
angusti corridoi, in una battaglia illuminata solamente dalle
granate che a causa degli spazi ristretti, causavano ferite
orribili.110
Il 4 giugno, Robert Nivelle ordinò un immediato contrattacco contro
gli occupanti di Fort Vaux, ma senza esito; intanto i genieri
tedeschi portarono all'interno del forte sei lanciafiamme, ma la
strenua resistenza francese non cessò nonostante l'utilizzo di
queste terribili armi e nonostante la mancanza d'acqua nei serbatoi
del forte. In aiuto dei francesi intervenne però la batteria da
155 mm del forte di Souville, che colpì duramente i tedeschi, i
quali, dopo il quarto giorno di assedio iniziarono a perdere le
speranze, anche in nome delle pesanti perdite subite dall'inizio
dell'attacco. Ma il 7 giugno i francesi, oramai senz'acqua e
praticamente lasciati isolati dal resto dell'esercito, non
riuscirono più a resistere e consegnarono la chiave di bronzo del
forte al tenente Werner Müller, capo dei mitraglieri tedeschi.111
Falkenhayn viene sostituito
Per i tedeschi, non rimaneva altro che conquistare l'ultimo
caposaldo, il forte di Souville, per spalancare la strada verso
Verdun e quindi penetrare con decisione in direzione di Parigi. Il
capo di Stato Maggiore Konstantin von Knobelsdorf riuscì a
raccogliere oltre 30.000 uomini per l'attacco conclusivo che avrebbe
permesso di entrare nella cittadina entro la fine di giugno. A
questo attaccò partecipò anche il Corpo d'armata alpino del generale
Konrad Krafft von Dellmensingen, di cui facevano parte il tenente
Franz von Epp e l'oberleutnant Friedrich Paulus.
L'attacco iniziale fu micidiale, i tedeschi per l'occasione
utilizzarono un nuovo gas che le maschere francesi non riuscivano a
filtrare, il fosgene, che intossicò all'istante quasi 1600 soldati e
permise ai tedeschi di avanzare per quasi 2 chilometri prima di
essere fermati dalla reazione francese. L'effetto dei gas durò meno
del previsto, e le batterie francesi riuscirono presto a tornare in
funzione, inoltre le batterie ai lati del fronte non furono
intaccate dal lancio di gas per cui non subirono alcun danno,
permettendo alle truppe francesi di fermare l'avanzata tedesca.
L'ultimo tentativo tedesco di conquistare Verdun fallì con perdite
elevate e da lì a pochi giorni Erich von Falkenhayn dovette
fronteggiare l'imponente offensiva anglo-francese sulla Somme.
Il 10 luglio i tedeschi tentarono un nuovo attacco con tre divisioni
su un fronte di pochi chilometri, con l'utilizzo del fosgene, ma la
pioggia si mise a cadere lo stesso giorno, rendendo il terreno un
vero e proprio pantano aiutando i francesi a fermare anche
quest'ultimo attacco nemico, e addirittura a ricacciare i tedeschi
sulla linea di partenza.
La "limitata offensiva" di Falkenhayn era già costata quasi 250.000
uomini all'esercito tedesco, ossia il doppio degli effettivi delle
nove divisioni concesse al Kronprinz nell'offensiva iniziale di
febbraio. Nonostante poi il 14 luglio fu dato l'ordine di fermare
qualunque offensiva tedesca a Verdun, la carneficina non si fermò in
quanto i francesi non erano sicuri che quella sarebbe stata l'ultima
offensiva tedesca, e i tedeschi erano ormai inchiodati nella difesa
di posizioni avanzate, che se abbandonate avrebbero avuto un peso
psicologico enorme tra le truppe del Kaiser.
Il Kronprinz a questo punto si recò dal padre Guglielmo II per
convincerlo a sostituire il suo capo di Stato maggiore von
Knobelsdorf, che ancora considerava la possibilità di un ennesimo
assalto teso a sfondare il settore, e il comandante in capo
Falkenhayn. Il primo fu mandato sul fronte orientale, mentre
Falkenhayn fu sostituito da comandante dell'esercito il 28 agosto
dal duo Paul von Hindenburg ed Erich Ludendorff, che ordinarono
immediatamente la cessazione di ogni attacco, in attesa delle
inevitabili controffensive francesi.
Le controffensive francesi
Tra aprile e settembre le truppe francesi avevano tentato
diverse volte di respingere i tedeschi ma praticamente ogni
tentativo era stato vanificato dalla disorganizzazione degli
attacchi che vennero effettuati da un numero insufficiente di uomini
e senza un appoggio adeguato dell'artiglieria. Il generale Charles
Mangin, che aveva fama di non farsi scrupolo delle perdite subite
dalle sue divisioni,112 ordinò diversi attacchi a Fort Douaumont che
si risolsero in un bagno di sangue per i francesi. L'artiglieria,
specialmente i mortai da 370 mm che tanto piacevano a Mangin,
si era difatti rivelata del tutto inadeguata a penetrare le mura di
calcestruzzo del forte113 così come la coordinazione tra i vari
reparti che parteciparono agli attacchi; nonostante ciò durante
questi attacchi alcuni gruppi di soldati riuscirono a raggiungere il
tetto del forte ma furono di fatto tutti uccisi o fatti
prigionieri.114115
Ad ottobre l'andamento della battaglia sarebbe però drasticamente
cambiato. I francesi cominciarono a preparare una serie di offensive
su larga scala che poterono contare sullo sforzo dei tre grandi
protagonisti della battaglia, il trio composto da Robert Nivelle,
Philippe Pétain e dal già citato Charles Mangin, che per la prima
volta da febbraio avrebbero organizzato un'offensiva degna di tale
nome, aspettando prima di tutto di avere la superiorità
nell'artiglieria e negli uomini. L'attacco principale avrebbe avuto
come primo obiettivo la riconquista di Fort Douaumont, con in tutto
otto divisioni,116 e oltre 650 cannoni pesanti, con a disposizione
circa 15 000 tonnellate di proiettili. Il 19 ottobre partì
quindi un poderoso bombardamento preliminare francese che per tre
giorni sconvolse le linee tedesche, avvalendosi fino a mezzogiorno
del 23 di giganteschi pezzi da 400 mm della Schneider-Creusot
che martellarono Douaumont fino ad allora "lasciato in pace",
devastandone le casematte e le strutture, portando i tedeschi ad
evacuare il forte riuscendo là dove i mortai da 370 mm avevano
fallito.117
Intanto con un ingegnoso trucco messo in atto da Nivelle118 le
batterie tedesche subirono moltissimi danni; al mattino del 24
ottobre, si stima che le artiglierie francesi avessero sparato quasi
250.000 colpi.119
Il mattino del 24 ottobre sotto una pesante nebbia incominciò
l'attacco francese accompagnato dallo squillo acuto delle trombe
reggimentali, proprio per questa nebbia le poche batterie tedesche
rimaste non poterono aprire il fuoco, Fleury e l'Ouvrage de
Thiaumont caddero in pochi minuti, e avanzarono con una tale
rapidità da cogliere le truppe nemiche del tutto impreparate.
Douaumont fu riconquistato in giornata, e i soldati francesi furono
impressionati dalle devastazioni che lo stesso forte subì dai loro
cannoni da 400 mm, e verso mezzogiorno iniziò la lunga fila di
prigionieri diretti al Forte di Souville. Il 2 novembre cadde anche
il forte di Vaux, sotto l'attacco della 2ª Armata francese, e il 15
dicembre partì il secondo e sanguinoso ultimo attacco francese che
il Kronprinz descrisse con queste semplici parole:
« questo giorno nero. »
L'esercito francese avanzò di circa 3 km oltre un Douaumont
devastato, riconquistarono anche parecchie delle posizioni perdute
in febbraio120 ottenendo senza ombra di dubbio la "più brillante
vittoria dopo la Marna", impiegando pochi giorni per conquistare le
posizioni che il Kronprinz catturò in quasi quattro mesi e mezzo.121
Fondamentale fu l'utilizzo dello "sbarramento mobile" ad ondate
successive messo in atto da Nivelle, che si dimostrò un autentico
successo, e causò per la prima volta durante la battaglia di Verdun,
più perdite tra i tedeschi122 che tra i francesi. La Francia celebrò
la sua El Alamein della prima guerra mondiale,123 e celebrò il suo
eroe, il generale Nivelle, mentre colui che aveva preparato la
resistenza francese durante i momenti più difficili, Pétain, fu
eclissato, e stessa sorte toccò all'ormai dimenticato Joseph
Joffre.124
Le cause della mancata vittoria tedesca
L'esperimento di "dissanguamento totale" messo in atto da
Falkenhayn, che per essere raggiunto costò la possibilità di
vittoria alla 5ª Armata del Kronprinz in febbraio, fu costellato da
diversi errori tattici soprattutto attribuibili alla cronica
indecisione del comandante in capo dell'esercito. Il mancato assalto
simultaneo ad entrambe le rive della Mosa e la mancata concessione
di truppe di riserva nel momento cruciale dell'attacco, tra febbraio
e marzo, impedirono alle preponderanti forze tedesche di sfondare le
linee francesi. Queste resistettero e riuscirono a rinforzarsi,
rendendo il fronte di Verdun una logorante tenzone tra due eserciti
determinati a svolgere il loro compito. L'indecisione e l'indole
verso la "segretezza", caratteristiche di Falkenhayn, misero in
difficoltà i vari comandanti tedeschi impegnati nei combattimenti a
Verdun, ma anche i comandanti alleati; infatti altro grave errore,
spesso sottovalutato, fu quello di non informare l'alleato
austriaco, il feldmaresciallo Conrad von Hötzendorf, dell'intenzione
di attaccare Verdun.125126
Una delle cause concomitanti nella sconfitta degli Imperi centrali
durante la Grande Guerra, fu appunto la mancanza di coordinazione e
comunicazione tra gli eserciti alleati, decisamente più scarsa del
seppur difficile rapporto che per esempio avevano dall'altro lato
prima Joffre e poi Foch con l'esercito inglese. Gli Imperi centrali
non seppero sfruttare al meglio il loro unico grande vantaggio, la
rete ferroviaria e stradale che collegava capillarmente i due
imperi, che se opportunamente sfruttata avrebbe consentito
comunicazioni rapide e celeri movimenti di truppe verso tutti i
fronti di battaglia. Le continue richieste di aiuto austriache sul
fronte orientale distolsero parecchie truppe tedesche ad occidente,
e ciò non fece altro che incrinare i rapporti tra i due imperi, i
cui comandanti in capo già citati vedevano lo svolgimento della
guerra in due modi completamente opposti.127128
Questa concomitanza di fattori, e la reciproca "antipatia" tra
Falkenhayn e von Hötzendorf, si rifletté fortemente anche durante i
combattimenti di Verdun, a causa delle avventate mosse tattiche che
l'alleato austriaco compì in Italia all'insaputa dei tedeschi.129
Brusilov
Quando von Hötzendorf venne a sapere dell'offensiva tedesca a
febbraio, con una segretezza degna dello stesso Falkenhayn, cominciò
a preparare un'offensiva contro gli italiani senza avvisare
l'alleato tedesco e impiegando cinque delle migliori sue divisioni
prelevate da oriente.130 Gli italiani subirono gravi perdite ad
Asiago, ma in un mese riuscirono a fermare l'avanzata nemica, mentre
proprio ad oriente uno dei peggiori disastri dell'intera guerra
stava per colpire gli austriaci.131
In risposta alla disperata richiesta di Poincaré di un'offensiva di
alleggerimento, lo zar Nicola II ordinò al generale Brusilov di
attaccare le linee austriache in Galizia, proprio nella zona da cui
von Hötzendorf ritirò le divisioni destinate all'attacco in
Italia.132 Il 4 giugno il generale Brusilov attaccò con 40 divisioni
e il fronte austro-ungarico crollò di schianto, gettato nel caos
dalle numerosissime cariche dei cosacchi. Ben 400.000 uomini furono
presi prigionieri dai russi.133
L'8 giugno, il giorno in cui venne sferrata a Verdun la nuova
offensiva tedesca, von Hötzendorf si recò a Berlino da Falkenhayn,
per chiedere l'aiuto tedesco.134 Falkenhayn, intuendo il fallimento
del suo piano strategico, fu costretto a togliere frettolosamente
tre divisioni dal fronte francese da inviare in Galizia a supporto
dell'alleato austriaco in difficoltà per via dell'offensiva russa.
Per questo motivo al principe ereditario fu ordinato di fermare
temporaneamente l'offensiva a Verdun, anche in vista
dell'approssimarsi dell'offensiva inglese ad occidente. Ma il
pericolo ad oriente cominciò presto ad apparire meno minaccioso, e
le batterie britanniche non avevano ancora cominciato il loro fuoco,
così Falkenhayn e Knobelsdorf fissarono per il giorno 23 giugno la
ripresa dello sforzo verso il forte di Souville. Sfortunatamente per
i tedeschi, la tempestiva offensiva russa permise ai francesi di
prendere tempo per ricomporsi, permettendo a Nivelle e Pétain di
rinforzare le difese sul fronte di Verdun e difendersi così dal
nuovo attacco, che non ebbe successo.135
La Somme
« l'esercito francese avrebbe potuto cessare di
esistere! »
Queste furono le parole con cui Douglas Haig ricordò il
commento agitato di Joffre quando il 26 maggio questi si recò da lui
per fargli pressione affinché accelerasse i preparativi di attacco
che l'esercito alleato avrebbe dovuto iniziare nella seconda metà
dell'agosto 1916, quando una imponente offensiva forte di 65
divisioni, si sarebbe dovuta sferrare sulla Somme.136
Il comandante supremo francese era ormai preoccupato sulla capacità
di resistenza del suo esercito sotto l'incessante martellamento
dell'artiglieria tedesca che non dava pace ai francesi di stanza a
Verdun. Le sue perplessità preoccuparono seriamente anche l'alleato
inglese, che decise così di anticipare l'offensiva.137 Il 24 giugno
il massiccio bombardamento di preparazione inglese iniziò il suo
lavoro di demolizione delle trincee tedesche, terminando addirittura
sette giorni dopo nel momento in cui migliaia di soldati inglesi
uscirono dalle trincee a passo di marcia, sotto 30 kg di zaino,
per essere sistematicamente falciati dalle mitragliatrici tedesche
sorprendentemente rimaste intatte.138
Nonostante l'insuccesso alleato sulla Somme, questo poderoso attacco
distolse un notevole numero di truppe sia tedesche che francesi dal
fronte di Verdun, contribuendo così ad alleggerire notevolmente la
pressione sul fronte aperto da Falkenhayn, e permettendo ai francesi
di attestarsi saldamente riorganizzando uomini e rifornimenti a
Verdun, e consentendogli di fermare l'attacco tedesco del 23 giugno
verso Souville, partito proprio alla fine del precedente attacco di
alleggerimento russo in Galizia.139 Queste concause avverse
all'esercito tedesco, frutto di incapacità dell'alto comando e
mancata coordinazione con l'alleato austro-ungarico, permisero agli
alleati una serie di offensive di alleggerimento del fronte di
Verdun, che in questo modo resse all'incessante pressione tedesca,
precludendo in questo modo l'ultima possibilità di vittoria in
occidente all'Impero tedesco.
Le conseguenze di Verdun
La battaglia di Verdun verso la fine di dicembre 1916, era
tecnicamente terminata. Anche se questo campo di battaglia porterà
ancora sporadiche perdite fino alla fine della guerra, l'effetto più
immediato fu la caduta del potentissimo Joseph Joffre, che già da
giugno non godè più della fiducia del parlamento a causa
dell'ecatombe che Verdun costò alla Francia.
Con il pesante insuccesso della Somme, il 27 dicembre Joffre fu
liquidato con la nomina di maresciallo di Francia, titolo che portò
l'oscuramento quasi totale del generale. Al suo posto al GQG fu
nominato Robert Nivelle, grande adulatore dei politici, molto più
estroverso di Pétain, e ideatore delle vittoriose controffensive
francesi di ottobre, che l'altro possibile aspirante comandante
supremo, Ferdinand Foch, non aveva ottenuto sulla Somme.140
Il nuovo capo Nivelle iniziò subito i preparativi per una "decisiva"
offensiva a primavera, sullo Chemin des Dames, che nonostante i
preparativi e il grande dispiegamento di energie umane e materiali,
si trasformò in un ennesimo disastro per la Francia. La seconda
battaglia dell'Aisne preparata da Nivelle, in pochi giorni fece
registrare circa 120 000 perdite tra le file anglo-francesi,
causando un significativo ed ennesimo impoverimento nelle risorse
umane nell'esercito francese e facendo cadere nell'oblio il
sopravvalutato generale. Il fallimento dell'Aisne fu poi la miccia
che fece esplodere il periodo di ammutinamenti che sconvolse
l'armata francese nel 1917, dove in pochi giorni, le divisioni
destinate all'offensiva di Nivelle fecero registre oltre 20.000
diserzioni immediate, che arrivarono durante l'anno al numero di 54
divisioni "ammutinate". Dal giorno della catastrofica offensiva di
Nivelle141 e dai successivi ammutinamenti, si capì che la guerra non
si sarebbe potuta vincere senza l'aiuto americano, con tutte le
conseguenze che ne derivarono. Nuovamente i politici francesi si
rivolsero all'unico uomo capace di ristabilire l'ordine, Philippe
Pétain. Questi fece diminuire decisamente le contromisure repressive
dei comandanti francesi e si dedicò a migliorare drasticamente le
condizioni dell'esercito, partendo anche dai bisogni più semplici
che fino a quel momento furono trascurati dai comandi francesi.142
Il segno che la battaglia di Verdun lasciò sull'esercito fu
indelebile, i sette-decimi degli effettivi dell'esercito francese
passarono per il fronte di Verdun;143 la Francia zoppicò per tutto
il 1917, portando a termine solo piccole e limitate offensive (tra
cui la riconquista del Mort-Homme) e passando simbolicamente il peso
dell'attacco sul fronte occidentale agli inglesi prima e agli
americani poi, mettendo il proprio sulla difensiva.144
D'altra parte le incapacità dell'esercito francese non furono poche,
la sconfitta del 1870 bruciava ancora nei ricordi dei comandi, e ciò
si tramutò nella totale indisposizione nel perdere neppure un metro
di terreno per ragioni tattiche. La Francia invece avrebbe potuto
limitare notevolmente le proprie perdite abbandonando quelle
fortezze fino ad allora tanto trascurate da Joffre, per attestarsi
su posizioni più favorevoli e lasciando ai tedeschi la città di
Verdun. Ma il senso dell'onore e la paura delle conseguenze
nell'opinione pubblica prevalse. Allo stesso tempo nulla fu fatto
per trovare alternative tattiche e strategiche adeguate, la Francia
accettò in pieno la sanguinosa sfida lanciata dai tedeschi e
l'intervento di Pétain riuscì solo ad alleviare le condizioni
dell'esercito.145
Parallelamente i comandi tedeschi in più occasioni ebbero tra le
mani la possibilità di prendere definitivamente Verdun. A maggio la
conquista della città si sarebbe potuta ottenere, si sarebbe potuto
avere un collasso di tutto il paese con un attacco deciso e
coordinato che avrebbe finalmente terminato le sofferenze di
entrambi gli eserciti, senza prolungare l'inferno in cui dovettero
combattere. Ma anche i comandi tedeschi, dall'indeciso Falkenhayn,
al temerario Knobelsdorf, all'inascoltato Kronprinz, non seppero
programmare una tattica comune decisa ad uno sfondamento risolutivo.
Considerando poi che le perdite tedesche furono così gravi che in
nessun modo si sarebbero potute trovare le riserve necessarie per un
colpo finale negli mesi seguenti, specialmente considerando
l'attacco alleato sulla Somme che assorbì notevoli forze tedesche
per molti mesi.146 I critici militari tedeschi sono più o meno
unanimi nel considerare Falkenhayn come la causa principale
dell'insuccesso, a causa della sua incapacità di concentrare
l'attacco in un solo punto, preferendo "attacchi limitati"
assecondando fino all'ultimo la sua tecnica del "logorio dovuto
all'attrito", oltre per la sua perenne indeterminatezza nelle
decisioni fondamentali dopo aver deciso comunque di buttarsi
nell'operazione Verdun.147 Anche se alcuni storici tedeschi
difensori di Falkenhayn sostengono che l'atteggiamento di Joffre
andò a favore della Germania, in quanto l'impegno a Verdun tolse
ventisei divisioni francesi dal fronte della Somme, semplificando
non di poco l'impegno tedesco.148
Nessuna delle due parti "vinse" a Verdun, fu una battaglia non
decisiva di una guerra che alla fin dei conti non ebbe un chiaro
vincitore sul campo.149 Alla sua conclusione ciò che i tedeschi
avevano conquistato dopo dieci mesi di scontri e un terzo di milione
di perdite, non era altro che un'estensione di territorio un po' più
larga dei parchi reali di Londra. Verdun lasciò un segno
incancellabile anche nell'esercito tedesco, la fiducia nei capi fu
scossa alle fondamenta, il morale non si ristabilì mai del tutto, e
anche in patria si manifestò un'evidente stanchezza nei confronti
della guerra.150
Da Verdun alla Maginot
Le conseguenze di questa sanguinosa battaglia non si
esaurirono con la fine della stessa. Verdun più di qualsiasi altro
evento, contribuì fortemente nelle tattiche militari francesi
durante la caduta della Francia nel 1940. Se da una parte Verdun fu
teatro per una evoluzione dell'arte della guerra, con l'introduzione
dei lanciafiamme e del fosgene, con l'utilizzo delle nuove
concezioni di "forza aerea", "tecnica di infiltrazione"151 e
"sbarramento mobile ad ondate successive",152 fu anche l'occasione
in cui studiosi militari, soprattutto francesi, analizzarono la
resistenza offerta dalle fortificazioni moderne nei confronti dei
nuovi enormi calibri. E fu il maresciallo di Francia Pétain (che ora
godeva di maggior prestigio nel suo paese), che già dal 1922
richiese la creazione di una linea difensiva che proteggesse
permanentemente la Francia non più sullo stile del sistema Séré de
Rivières, ma su una nuova concezione di linea continua formata da
centinaia di cupole retrattili armate di cannoni e collegate tra di
loro con passaggi sotterranei ad una tale profondità da essere
immuni a qualsiasi tipo di proiettile.153
Non fu una coincidenza che l'uomo politico che alla fine appoggiò e
dette il suo nome alla linea fu un ex-sergente che fu ferito
seriamente a Verdun, il ministro André Maginot,154 e che il Capo di
Stato Maggiore francese sotto il quale venne realizzata la Linea
Maginot, fu un certo Marie-Eugène Debeney, anch'egli combattente
sulla Mort-Homme. Molti dei personaggi politici francesi che
dovettero prepararsi alla seconda guerra mondiale, furono testimoni
e partecipi dell'immane massacro di Verdun; il presidente francese
Albert Lebrun maggiore di artiglieria, il presidente René Coty,
soldato di prima classe, il presidente Charles De Gaulle, capitano
di fanteria, l'ammiraglio François Darlan e i marescialli Pétain e
de Lattre furono tutti chiamati alla difesa di Verdun. Questi furono
anche gli uomini politici che dovettero guidare la Francia prima,
durante e dopo il secondo conflitto mondiale e che tentarono in ogni
modo di non ripetere gli errori e i sacrifici che i giovani francesi
erano stati chiamati a compiere a Verdun.155
Mentre i francesi si prodigavano a difendere il confine nazionale,
anche i tedeschi dovettero fare i conti con le conseguenze di
Verdun. Seppur la sanguinosa battaglia non segnò così profondamente
i tedeschi come accadde per i francesi,156 ebbe comunque una grande
influenza sui futuri capi della Wehrmacht, molti dei quali avevano
preso parte ai logoranti combattimenti di Verdun. Generali come von
Manstein, Paulus, Guderian, von Brauchitsch e Keitel,157 ben memori
degli immani massacri per la conquista di fortificazioni fisse,
impararono più di ogni altro esercito la lezione che Verdun aveva
impartito, e per non ricadere più in un'altra guerra d'attrito,
misero in pratica ciò che avevano imparato e che il generale Hans
von Seeckt teorizzò.158
La Reichskriegsflagge sventola su Verdun, giugno 1940.
L'esercito tedesco fu il primo a sviluppare una tattica
completamente svincolata dall'eventuale sfondamento di posizioni
fisse e fortemente protette, puntando invece sulla velocità di
avanzata e lo sfondamento in settori ben precisi, con lo scopo di
aggirare e quindi accerchiare il nemico per costringerlo alla resa.
Questa tattica fu applicata con successo in Polonia e in Francia
poco più di vent'anni dopo, dove la Blitzkrieg mise in ginocchio il
vecchio nemico francese in pochi giorni159. Questo derivò anche dal
fatto che gli stessi tedeschi analizzarono le fortificazioni di
Douaumont e Vaux da un altro punto di vista, non come capisaldi
indistruttibili su cui imperniare le proprie difese, ma come
"calamite" per le artiglierie da cui far fuggire i propri soldati.
Ventiquattro anni dopo misero in pratica le soluzioni trovate per
aggirare l'imponente linea difensiva francese. Le divisioni
corazzate di Guderian e Manstein nel 1940 aggirarono le linee della
Maginot e in poco tempo si trovarono nuovamente di fronte alla
Mort-Homme e a Quota 304, questa volta però non furono di nuovo
luoghi di enormi massacri, ma rappresentarono due colline dalle
quali i panzer di un comandante di battaglione partirono alla
conquista dei vecchi baluardi Douaumont e Vaux, che caddero nel giro
di un'ora.160
In meno di un mese la svastica sventolava su Verdun, e costò ai
tedeschi meno di 200 morti, ancora una volta Pétain fu chiamato in
causa, ma in questo caso come "curatore fallimentare" di una
sconfitta imminente, poco dopo infatti, il 22 giugno, fu siglato un
immediato armistizio con l'invasore tedesco, che come in una
"rivincita" aspettata più di vent'anni, entrò in parata sotto l'Arco
di Trionfo a Parigi.161
Il ricordo
A causa della durata della battaglia, e quindi dei numerosi
avvicendamenti di truppe, è difficile stabilire quanti soldati
abbiano combattuto a Verdun,162 ma più preciso è il conto delle
perdite in entrambi gli schieramenti; si stima che circa tra il 21
febbraio e il 15 luglio i francesi persero oltre 275.000 soldati e
6.563 ufficiali, circa 70.000 erano morti e 65.400 furono i
prigionieri (120.000 perdite si ebbero solo negli ultimi due mesi),
mentre per i tedeschi, la "limitata offensiva" costò circa 250.000
uomini.163
Successivamente, quando Hinbemburg e Ludendorff presero il comando e
ordinarono la cessazione di ogni attacco, le perdite tedesche
ammontarono a 281.333 uomini e quelle francesi a 315.000 circa.164
Le cifre francesi indicano invece che le perdite sul campo di
battaglia di Verdun per entrambi gli schieramenti furono di circa
420.000 morti e 800.000 avvelenati dai gas o feriti. A sostenere
queste cifre furono i circa 150.000 cadaveri, o parti di essi, non
identificati e deposti nell'ossario di Douaumont. Ancora oggi
vengono scoperti resti di soldati caduti, e se le cifre fossero
veramente queste, per un confronto vale la pena di ricordare che le
perdite totali dell'Impero britannico durante tutta la seconda
guerra mondiale furono 1.246.025, di cui 353.652 morti e 90.844
dispersi.165
Approssimativamente si è calcolato che l'artiglieria tedesca abbia
sparato all'incirca 22.000.000 di colpi, mentre quella francese
circa 15.000.000,166 mentre su un totale di 96 divisioni sul fronte
occidentale, i francesi ne inviarono ben 70 a Verdun, mentre i
tedeschi 46 e mezzo.167
Centinaia di migliaia furono i giovani che patirono sofferenze
indicibili nelle trincee di Verdun, migliaia di veterani sia
francesi sia tedeschi si recarono per molti anni a commemorare i
loro compagni nei luoghi in cui un tempo combatterono in condizioni
terribili, tra feriti senza cure che agonizzavano, portaordini che
non tornavano, soccorsi e razioni che non arrivavano e cadaveri
seppelliti e disseppelliti dall'incessante bombardamento
dell'artiglieria.168 Fu appunto l'artiglieria, con i suoi infiniti
bombardamenti, che caratterizzò la battaglia sul fronte di Verdun
per quasi un anno, instaurando nei combattenti una specie di
"perdita di volontà", una insensibilità alla sofferenza e alla
morte, che se da una parte gli corrose l'animo, dall'altro lato gli
permise di sopportare indicibili sofferenze.169
Moltissimi dei veterani, che ventitré anni dopo vissero e furono
partecipi anche al secondo conflitto mondiale, rimasero così
profondamente scossi dalla battaglia di Verdun, da portarsi dietro
quel ricordo per tutta la vita. Caso emblematico fu quello del
generale Karl-Heinrich von Stülpnagel, governatore militare tedesco
a Parigi e tra i maggiori cospiratori nell'attentato del 20 luglio
1944 contro Hitler. Questi mentre rientrava in Germania per il
processo a suo carico, chiese di potersi fermare a Verdun nei pressi
della tristemente famosa Mort-Homme, dove nel 1916 aveva comandato
un battaglione, e dove nel 1944 tentò il suicidio. Proprio nel luogo
dove migliaia di suoi commilitoni persero la vita durante i
terribili assalti volti alla conquista di quella collina distrutta
dal furore della guerra, il generale rivolse la sua pistola
d'ordinanza alla testa. Sfortunatamente il generale riuscì solo ad
accecarsi, e condotto comunque in Germania venne poi strangolato
dalla Gestapo.170
I pellegrinaggi e le commemorazioni legate a Verdun proseguirono per
tutto il primo dopoguerra, l'ossario di Douaumont e la Voie Sacrée
divennero quasi dei luoghi di culto per giovani e meno giovani, ma
tutto il campo di battaglia rimase per lungo tempo pieno dei segni
della battaglia. I pesanti reticolati dei forti furono usati nelle
fattorie, gli elmetti tedeschi furono messi in testa agli
spaventapasseri, i numerosi villaggi devastati rimasero abbandonati
o addirittura sparirono dalle cartine geografiche. I boschi della
riva destra furono nuovamente ricoperti di alberi, che crebbero di
qualità scadente, nel 1930 le pendici del Mort-Homme furono
ricoperte di alberi piantati dopo che ogni tentativo di coltivazione
era fallito.171
Voragini innaturali più o meno profonde sono ancora individuabili
lungo tutto il campo di battaglia e quella che prima veniva chiamata
Quota 304 oggi è segnata sulle cartine geografiche con l'altezza di
297 m, dato che i violenti bombardamenti che accompagnavano i
tentativi di conquista, "limarono" di ben 7 metri l'altezza
della collina.172 Ancora oggi, vagando per i campi, con un po' di
fortuna si possono trovare gli avanzi della battaglia: elmetti,
borracce, fucili rotti e schegge di ogni tipo, a testimonianza della
violenza della battaglia e del sacrificio di migliaia di soldati.173
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Battaglia
della Somme
Data
1º luglio - 18 novembre 1916
Luogo
Somme, Piccardia, Francia
La battaglia della Somme (in francese Bataille de la Somme, in
inglese Battle of the Somme, in tedesco Schlacht an der Somme) fu
un'imponente serie di offensive lanciate dagli anglo-francesi sul
fronte occidentale della prima guerra mondiale a partire dal 1º
luglio 1916, nel tentativo di sfondare le linee tedesche nel settore
lungo circa sessanta chilometri tra Lassigny a nord ed Hébuterne a
sud, settore tagliato in due dal fiume Somme, nella Francia
settentrionale.
L'offensiva si svolse con un massiccio attacco di fanteria che
avrebbe dovuto creare, secondo i piani alleati, le condizioni
favorevoli per una rapida avanzata della cavalleria e, forse, per la
vittoria definitiva3. La battaglia, voluta fortemente dalla Francia
per alleggerire l'enorme e insostenibile pressione tedesca a Verdun,
dimostrò allo stesso tempo la caparbietà e l'impreparazione tattica
e strategica con cui lo Stato Maggiore britannico affrontò la prima
grande offensiva delle forze alleate4.
Solo nel primo giorno di avanzata, la British Expeditionary Force
(BEF) subì oltre cinquantanovemila perdite e ventimila caduti56:
nonostante una settimana di bombardamento di preparazione e lo
scoppio di dieci enormi mine poco prima dell'inizio dell'avanzata
anglo-francese, i tedeschi ressero molto bene l'attacco protetti nei
loro rifugi sotterranei ("stollen"), e quando ne uscirono si
trovarono davanti un'enorme massa di uomini che avanzavano
lentamente nella terra di nessuno a passo di marcia, prestandosi
quindi ad essere un facile bersaglio78.
Con l'autunno la pioggia trasformò il campo di battaglia e le
trincee in un immenso pantano che rese impossibile ogni ulteriore
velleità bellica; il 19 novembre si spense l'ultima fase della
battaglia, e nemmeno l'apparizione sul campo di battaglia dei primi
esemplari di carro armato, nel settembre 1916, provocò una svolta a
favore degli anglo-francesi. Da un punto strettamente tattico si
poté parlare di limitato successo alleato - l'esercito del Kaiser
Guglielmo dovette arretrare di alcuni chilometri - ma il guadagno
territoriale irrilevante e l'elevatissimo numero di perdite
decretarono il fallimento strategico complessivo dell'operazione:
con 620 000 perdite tra gli Alleati e circa 450 000 tra le
file tedesche, la Somme si dimostrò una delle più grandi e
sanguinose battaglie della prima guerra mondiale9.
Premesse
Nel 1915 gli alleati anglo-francesi dovettero registrare sconfitte
sia nella campagna di Gallipoli che nell'avanzata in Mesopotamia, e
ciò provocò grande amarezza soprattutto nel Regno Unito: alla
conferenza di Chantilly, apertasi il 4 dicembre 1915, il governo
Asquith decise di non intraprendere più campagne in regioni remote -
almeno fino a quando la rivolta araba non rappresentò parte della
strategia bellica alleata in medio oriente - e di ritirare le truppe
dai Balcani, ma la pressione di Italia, Russia e Serbia convinse
però i britannici a rivedere quest'ultima decisione, e il 5 dicembre
gli alleati si riunirono nuovamente per tracciare i piani che
avrebbero dovuto condurre alla vittoria sul fronte occidentale nel
191610.
Il capo di stato maggiore dell'esercito francese, il generalissimo
Joseph Joffre, convinse i britannici a lanciare nell'estate
successiva un'offensiva congiunta anglo-francese a nord e a sud del
fiume Somme, lungo un fronte di circa 60 chilometri: in questo modo
si sarebbero superati e ripetuti quelli che Joffre definì i
«brillanti successi» del 1915 nell'Artois e nello Champagne11.
Opinione degli esperti militari alleati fu quella che i tedeschi
stavano ormai esaurendo le riserve; schierando le "armate di
Kitchener" sul fronte, impiegando un numero di bocche da fuoco tali
da effettuare un bombardamento preliminare di dimensioni inaudite
fino ad allora e con abbondanza di munizioni per sostenere
un'avanzata, la battaglia, secondo Joffre, sarebbe stata quella
decisiva12.
Il 19 dicembre Sir Douglas Haig fu nominato comandante in capo delle
forze britanniche in Francia al posto di Sir John French13; mentre
gli anglo-francesi mettevano a punto il piano per l'attacco sulla
Somme, i tedeschi il 21 febbraio iniziarono l'assalto a Verdun, che
concentrò per quasi un anno le maggiori risorse francesi e tedesche
sul fronte occidentale.
Joffre mirava ad un'offensiva combinata, praticamente contemporanea
ad un'offensiva russa a est, che coinvolgesse i francesi su un
fronte di 40 chilometri compreso tra Lassigny e la Somme mentre i
britannici avrebbero dovuto attaccare con circa 25 divisioni su un
fronte di 22 chilometri tra la Somme e Hébuterne14. Nonostante
l'unanimità sul piano, Joffre e Haig divergevano sulla necessità di
un attacco diversivo: Joffre insisteva per un attacco britannico a
nord della Somme congiuntamente ad un attacco franco-belga tra Ypres
e il mare, allo scopo di distogliere le forze di riserva del nemico
agevolando la massiccia offensiva sulla Somme; il generale Haig al
contrario avrebbe preferito un unico, grande colpo sferrato con
tutte le forze disponibili15. Queste indecisioni consentirono ai
tedeschi di continuare l'attacco a Verdun, che con il passare dei
mesi finì col minare in modo grave le risorse umane e di materiali
dell'esercito francese, riducendone fortemente il ruolo che avrebbe
dovuto avere sulla Somme16; l'incompletezza delle forze britanniche
e la sempre più dispendiosa difesa francese di Verdun obbligò i
comandanti alleati a cambiare le priorità: il fronte d'attacco
francese finì col ridursi da 40 a 13 chilometri e le loro forze da
40 a 16 divisioni, delle quali solo 5 avrebbero attaccato il 1º
luglio, mentre i britannici furono costretti a impiegare più truppe
e maggiori quantità di materiali17.
L'esercito di Kitchener
Nel 1914 la British Expeditionary Force (BEF), al comando di John
French, si oppose tenacemente all'avanzata tedesca attraverso il
Belgio e la Francia; questa forza era costituita unicamente da
militari di carriera, molti di loro veterani delle guerre coloniali
in Sudan e delle guerre boere, ma ben presto il costante attrito
della campagna francese ed il numero crescente di perdite impedì
alla BEF di continuare un conflitto divenuto ormai di proporzioni
mondiali.
Uno dei veterani dell'esercito professionista britannico, Sir
Horatio Kitchener, occupava allora la carica di ministro della
Guerra in patria18, e grazie alla sua influenza riuscì ben presto a
far partire una imponente campagna di arruolamento che nelle prime
sei settimane dallo scoppio del conflitto portò ad ingrossare le
file dell'esercito di 478.893 giovani, tutti volontari. Molti di
questi volontari furono inquadrati in Pals Battalions ("battaglioni
di amici"), costituiti interamente da individui provenienti dalla
stessa città o che svolgevano un mestiere analogo19; in un solo mese
furono creati oltre 50 battaglioni di quella che verrà denominata
l'"armata di Kitchener", che lentamente iniziò a prepararsi per la
guerra20.
L'attacco che si scatenò il 1º luglio richiese il massimo sforzo
britannico di quell'anno sul fronte occidentale, oltre alle
rimanenti energie francesi logorate a Verdun. Quel giorno fu anche
il banco di prova delle armate di Lord Kitchener21, il quale per
ironia della sorte non poté assistere al battesimo del fuoco dei
suoi Pals Battalions: la nave che lo trasportava in Russia
dall'alleato zar Nicola II era stata affondata nel maggio dello
stesso anno22. Questo banco di prova comunque non sortì gli effetti
sperati, la notevole impreparazione e la mancanza di esperienza
bellica provocò enormi perdite e sconfitte tattiche, ma la macchina
dell'offensiva britannica era ormai in moto, e milioni di giovani
volontari britannici, che a fine guerra divennero oltre 3 milioni,
si stavano preparando alla battaglia23.
Gli obiettivi
Con la carneficina di Verdun ancora in atto, i britannici capirono
quindi che avrebbero dovuto assumersi quasi tutto l'onere della
campagna ad occidente, e Haig fu in parte costretto a porre
obiettivi limitati, e non illimitati come per l'offensiva a Loos e
dello Champagne; il generale preparò un piano alternativo di
sfondamento a nord di Ypres se sulla Somme fosse stato un
insuccesso, ma non considerò l'opzione di un più probabile successo
parziale24.
L'esercito britannico sperava di sfondare tra Maricourt e Serre,
quindi assicurarsi il controllo delle alture tra Bapaume e Ginchy,
mentre i francesi si sarebbero impadroniti di quelle intorno a
Sailly e Rancourt; infine piegare a sinistra e aggirare il fianco
tedesco fino ad Arras, in modo da allargare la breccia ed iniziare
l'avanzata verso Cambrai e Douai25. L'attacco tra Maricourt e Serre
venne affidato alle 18 divisioni della Quarta armata del generale
Henry Rawlinson, mentre due divisioni al comando del generale Edmund
Allenby avrebbero dovuto effettuare un attacco collaterale a
Gommecourt; a sud i francesi, con solo 5 divisioni, avrebbero
attaccato in direzione di Peronne: l'asse di avanzata era
concentrata sulla strada romana che da Albert raggiungeva Bapaume,
19 chilometri a nord-est. Oltre a queste forze, nella zona della
battaglia fu dislocato un corpo d'armata forte di tre divisioni e il
comando di un'armata di riserva - agli ordini di Hubert Gough - a
diretta disposizione del comandante in capo26.
La preparazione all'attacco
Oltre all'enorme massa di fanti, i comandi alleati allestirono una
grande concentrazione di artiglieria, la maggiore mai vista fino ad
allora27: oltre 3.000 cannoni e obici, uno ogni 20 metri di fronte,
spararono circa 1 milione 732.873 granate, anche se buona parte di
queste non fece altro che martoriare un terreno già devastato di
crateri, danneggiando meno del previsto i rifugi scavati in
profondità. Molte di queste granate erano difettose28 e rimasero
inesplose, ma anche così, e benché molti dei proiettili sparati
fossero colpi di piccolo calibro, spesso shrapnel da otto
chilogrammi del tutto inefficaci contro le difese nemiche29,
l'effetto che il bombardamento ebbe sul morale dei difensori fu
notevole30. Il piano d'attacco britannico prevedeva anche lo scavo
sotto le linee tedesche di dieci gallerie di mina che nei mesi
precedenti furono imbottite di Ammonal, un potente esplosivo; le tre
gallerie più grandi contenevano circa 20 tonnellate ognuna di
esplosivo, e sarebbero state fatte brillare contemporaneamente pochi
minuti prima dell'attacco. Questi ingenti preparativi d'altra parte
fecero svanire del tutto l'effetto sorpresa: i tedeschi non
tardarono a capire che un possente attacco li avrebbe presto
colpiti, e dunque si adoperarono a rafforzare le postazioni, che
inoltre erano costruite lungo crinali e colline che assicurarono
loro il vantaggio di essere quasi sempre in posizione sovrastante
rispetto al nemico; altro vantaggio a favore dei tedeschi fu la rete
ferroviaria francese catturata durante l'avanzata iniziale che
permetteva rapidi e continui spostamenti di truppe e materiali,
mentre gli anglo-francesi dovettero ripiegare su cavalli, muli e
uomini31.
A favore degli alleati ci fu però una momentanea supremazia aerea
acquisita sui campi della Somme: il Royal Flying Corps aveva
guadagnato tale primato schierando 10 squadroni e circa 180 aerei
contro una forza tedesca di 129 aerei. I britannici misero in atto
una vigorosa politica offensiva che permise di effettuare
osservazioni di artiglieria con aerei e palloni frenati, impedendo
nel contempo ai tedeschi di fare lo stesso; tuttavia le ricognizioni
britanniche che sottolinearono l'inefficacia del bombardamento
preparatorio furono del tutto ignorate dal comando supremo32.
Le già poche possibilità di passare inosservati di fronte a un
nemico in posizione sopraelevata furono ulteriormente ridotte dal
fatto che l'arte di dissimulare i preparativi e mimetizzare gli
appostamenti non era ancora stata assimilata dai comandi alleati: la
costruzione di baraccamenti e lo spostamento di uomini e materiali
fornirono ai tedeschi i primi indizi dell'imminente assalto, al
punto che Erich von Falkenhayn, l'allora comandante supremo
dell'esercito tedesco, pensò di prendere in contropiede l'offensiva
britannica attaccando per primo, sebbene poi la mancanza di uomini
lo fece desistere; ciononostante lo stesso comando tedesco si
convinse che i preparativi nemici erano troppo vistosi per essere
veri, e continuò a pensare che quella fosse solo una mossa
preliminare e che il vero attacco si sarebbe svolto più a nord.
Sulla base di questa convinzione, solo il 5 luglio i comandi si
convinsero che quello della Somme sarebbe stato il vero campo di
battaglia scelto da Haig33.
A Verdun i francesi impegnarono la maggior parte delle loro risorse,
e dopo oltre quattro mesi di sanguinosi scontri, il 24 giugno il
primo ministro francese in persona, Aristide Briand, si recò da Haig
chiedendogli di anticipare l'attacco sulla Somme in modo da
obbligare i nemici a spostare parte delle forze da Verdun34. Haig
rispose che i piani non potevano essere modificati, ma che
l'artiglieria sarebbe potuta entrare subito in azione, continuando
il fuoco per cinque giorni, fino all'attacco previsto per il 29
giugno. Fu così che ebbe inizio il più lungo bombardamento di
artiglieria di tutta la storia della guerra moderna35.
Inizia lo scontro sulla Somme
La data dell'attacco fu rinviata al 1º luglio a causa di un
momentaneo peggioramento delle condizioni atmosferiche; questo
rinvio, richiesto dai francesi, comportò non soltanto la dispersione
delle munizioni per un periodo più lungo e quindi una perdita di
intensità, ma anche un grande sforzo per gli attaccanti, che, dopo
essere stati "caricati" per l'imminente azione, dovettero aspettare
per 48 ore in anguste trincee allagate, tormentati dal fragore della
loro stessa artiglieria36.
Ordine di battaglia
Alle ore 7:00 del 1º luglio il bombardamento giunse al culmine, in
poco più di un'ora sulle postazioni tedesche piovvero circa
250 000 granate, 3 500 al minuto. Il bombardamento fu così
intenso che se ne sentì l'eco fino a Hampstead Heath, a nord di
Londra. Alle 7:20, fu fatta esplodere la mina sotto il caposaldo del
crinale Hawthorn, alle 7:28, furono fatte detonare le rimanenti
mine37.
Alle 7:30 le truppe anglo-francesi uscirono dalle trincee attaccando
su un fronte di 40 chilometri. I fanti britannici erano gravati da
un equipaggiamento molto pesante; fiduciosi di trovarsi dinnanzi a
un nemico decimato dai bombardamenti, i capi britannici caricarono
gli uomini con l'equipaggiamento necessario per consolidare le
posizioni che avrebbero facilmente conquistato, risvoltando le
trincee, piazzando filo spinato e stabilendo le vie di
comunicazione. In tutto, comprendendo lo zaino e l'equipaggiamento
ordinario, ogni fante si dovette sobbarcare circa 30 chilogrammi di
peso38. Tutto ciò unito al fatto che la fanteria britannica fu
addestrata a marciare compatta e parallela verso il nemico ad ondate
distanti un centinaio di metri l'una dall'altra, provocò la vera e
propria mattanza che caratterizzò il primo giorno di battaglia sulla
Somme, dove l'attacco invece di avanzare, in alcuni punti finì col
rifluire indietro394041.
Il primo giorno
All'ora zero i fischietti dei comandanti suonarono all'unisono e le
fanterie britanniche lasciarono trincee, ridotte, ripari e linee
avanzate, iniziando l'avanzata sulla terra di nessuno. L'artiglieria
spostò il proprio tiro verso le linee avversarie più in profondità,
secondo le tabelle prestabilite42.
« La mano del tempo si arrestò sul segno della mezz'ora, e da
tutta la vecchia linea inglese vennero grida e colpi di fischietto.
Gli uomini della prima ondata montarono sui parapetti, nel tumulto,
nel buio, e in presenza della morte; e avendo a che fare con tutte
queste piacevoli cose, avanzarono attraverso la terra di nessuno per
dare inizio alla battaglia della Somme. »
(John Masefield43.)
Usciti dalle trincee gli uomini caddero a migliaia, disseminando di
cadaveri la terra di nessuno prima ancora di raggiungere le trincee
di prima linea tedesche. I loro nemici erano soldati esperti e
abili; mentre le granate britanniche spazzavano via le trincee in
superficie, essi trovarono riparo nei ricoveri sotterranei, e quando
il bombardamento cessò trovarono facili ripari proprio nei crateri
che le granate avevano creato. In pochi minuti i tedeschi si
trovarono di fronte a formazioni compatte, con uomini che
procedevano spalla a spalla avanzando in linea retta, diventando un
facile bersaglio per le mitragliatrici tedesche, che riversarono una
grandinata di piombo sulle fitte ondate degli attaccanti44. Molti
battaglioni furono ridotti a un centinaio di uomini, e solo quando
le ondate furono infrante dal fuoco nemico, l'avanzata divenne
possibile. Solo allora infatti, i pochi superstiti non ancora
sopraffatti dalla paura si riunirono in piccoli gruppi spontanei che
riuscirono a guadagnare terreno con assalti e strisciando da una
buca all'altra, cogliendo di sorpresa le mitragliatrici nemiche e
spingendosi in profondità senza subire gravi perdite. Ma in molti
luoghi si lasciarono alle spalle nidi di mitragliatrici che imposero
un pesante pedaggio alle truppe che sopraggiunsero di rinforzo45.
Soldati del dominion di Terranova caduti durante il 1º luglio 1916
in una foto successiva agli scontri.
Bombardamento britannico delle trincee tedesche nei pressi di
Beaumont Hamel poco prima dell'attacco del 1º luglio.
Tra Maricourt e Fricourt, sebbene con grosse perdite, il XIII corpo
britannico (30ª e 18ª divisione) raggiunse i suoi obiettivi
occupando Montauban. Sulla sua sinistra il XV corpo riuscì
parzialmente a svolgere il proprio compito, isolando il bastione
formato dal villaggio e dal bosco di Fricourt. Su di un fianco la 7ª
divisione occupò Mametz, e sull'altro la 21ª penetrò per quasi un
chilometro nelle linee tedesche conquistando definitivamente
Fricourt il giorno dopo. A nord della strada Albert-Bapaume
l'avanzata fu un fallimento quasi completo, la 21ª divisione segnò
il limite dell'avanzata britannica, il resto del fronte che si
estendeva a nord naufragò completamente e i britannici subirono
perdite gravissime, più alte che in qualsiasi altro giorno di
guerra46. In pochi punti gli attaccanti penetrarono nelle prime
linee tedesche, o anche più in profondità, ma invariabilmente il
loro numero era troppo ridotto per fronteggiare i contrattacchi
tedeschi. Quando il fuoco d'infilata tedesco si abbatteva sulla
terra di nessuno, fu impossibile per i rinforzi portarsi avanti, e
per gli elementi avanzati ritirarsi. La 36ª divisione "Ulster", per
esempio, nell'attacco a Thiepval, raggiunse addirittura Grandcourt,
ma le truppe d'appoggio non riuscirono ad andare avanti e il
contingente avanzato si ritrovò isolato. Al sopraggiungere della
sera solo pochi tratti di trincee si trovarono ancora in mano
britannica, la marea di attaccanti finì in molti casi per rifluire
indietro47.
Le comunicazioni erano del tutto inadeguate e i comandanti
completamente ignari degli sviluppi della battaglia. Alcune
pattuglie della 29ª divisione britannica riuscirono nel proprio
compito e raggiunsero Beaumont-Hamel e Serre, e ciò fece sì che la
brigata di riserva fosse fatta avanzare in supporto. Il Royal
Newfoundland Regiment non fu in grado di raggiungere le trincee
avanzate, così si mosse dalla seconda linea: venne in gran parte
spazzato via prima di passare la prima linea, ed ebbe il 92% delle
perdite48.
I progressi britannici lungo la strada Albert-Bapaume furono nel
complesso un fallimento: nonostante l'esplosione di due mine, una a
Ovillers-la-Boisselle, tutti i battaglioni della 34ª divisione, che
partirono da più di un chilometro dalla prima linea tedesca, in
piena vista delle mitragliatrici nemiche, furono del tutto spazzati
via prima ancora di raggiungere la propria trincea avanzata; un
pugno di mitragliatrici tedesche lasciarono sul campo circa 6.000
uomini49. In più la manovra a tenaglia di Allenby nell'attacco di
Gommencourt fallì completamente: la mancanza di protezione al fianco
destro (che Haig precluse ad Allenby nonostante le richieste
insistenti) lasciarono la 46ª divisione "North Midlands" e la 56ª
"London" completamente allo scoperto dopo una difficoltosa e
sanguinosa avanzata iniziale; i tedeschi non dovettero nemmeno
prendere la mira, a fine giornata la 56ª perse 4.314 uomini e la 46ª
2.45550.
Nel settore meridionale della strada, le divisioni britanniche e
francesi ebbero maggior successo. Qui la difesa tedesca era
relativamente debole, e l'artiglieria francese superiore in numero
ed esperienza a quella britannica fu molto efficace. Dalla città di
Montauban al fiume Somme, tutti gli obiettivi del primo giorno
furono raggiunti. A sud della Somme le divisioni francesi
raggiunsero tutti i loro obiettivi fissati subendo solo lievi
perdite: il loro successo fu dovuto all'impiego di tattiche più
flessibili e alla maggiore concentrazione di artiglieria, oltre al
fatto che in quella zona d'attacco fu una sorpresa tattica per i
tedeschi, i quali avevano previsto un'offensiva solo nel settore
britannico51.
Nel complesso, tuttavia, il primo giorno di battaglia fu un
fallimento. I britannici patirono 19.240 morti, 35.493 feriti, 2.152
dispersi e 585 prigionieri per un totale di 57.470 perdite. Le
perdite iniziali furono specialmente elevate tra gli ufficiali, che
ancora vestivano in maniera differente dalla truppa, e le cui
uniformi i tedeschi erano stati addestrati ad individuare. Un
conteggio preciso delle perdite tedesche per il 1º luglio è
difficile da effettuare, poiché le unità tedesche ne facevano
rapporto solo ogni dieci giorni. Si presume che i tedeschi ebbero
8.000 perdite nel settore britannico, di cui 2.200 prigionieri. Il
divario fra le perdite delle due parti fu massimo a Ovillers, dove
l'8ª divisione britannica ebbe 5.121 perdite, mentre i difensori
tedeschi del 180º reggimento solo 280, un rapporto di 18 a 152.
L'effetto sulle forze tedesche
Sotto un aspetto significativo i primi giorni sulla Somme furono un
successo strategico per gli alleati: il 12 luglio, per conseguenza
dei combattimenti sulla Somme e dell'offensiva di Brusilov ad
oriente, Falkenhayn interruppe l'attacco a Verdun e trasferì da quel
settore alla Somme due divisioni e sessanta pezzi d'artiglieria
pesante; sebbene i combattimenti vi sarebbero continuati sino a
dicembre, sarebbero stati i francesi a dettare il corso della
battaglia sulle rive della Mosa e lo stato maggiore tedesco avrebbe
perso ogni velleità sul fronte di Verdun. Sulla Somme, la 2ª armata
di Fritz von Below non sarebbe riuscita da sola ad opporsi alla
pressione continuata di francesi e britannici: ogni divisione
tedesca del settore si trovava sotto l'attacco di tre-quattro
divisioni alleate53. Il 2 luglio sette divisioni tedesche erano in
marcia verso la Somme come rinforzi, e altre sette si aggiunsero nel
corso della settimana; fra luglio e agosto i tedeschi riversarono 35
nuove divisioni sul settore britannico e altre sette sul settore
francese. La pressione combinata a Verdun e sulla Somme fece sì che
l'Alto Comando tedesco in agosto disponesse solamente di una
divisione in riserva54.
I britannici avevano sperato di impedire questo afflusso di rinforzi
tedeschi sulla Somme da altri settori del fronte. Per fare ciò venne
intrapresa su tutto il fronte una serie di attacchi dimostrativi col
fine di immobilizzare le divisioni tedesche; la maggiore e più
tristemente famosa di queste azioni fu la battaglia di Fromelles,
19-20 luglio, di fronte alla cresta d'Aubers nell'Artois: al prezzo
di 7.080 perdite fra gli australiani e i britannici, non fu
catturata nessuna porzione di terreno né si riuscì a fermare lo
spostamento delle divisioni tedesche dall'Artois alla Somme55.
Da parte francese il bilancio si può dire decisamente più positivo:
in dieci giorni la 6ª armata francese, su un fronte di circa venti
chilometri, era avanzata con una profondità che raggiungeva in certi
punti quasi dieci chilometri; era completamente in possesso
dell'altopiano di Flaucourt, principale obiettivo e principale
difesa di Péronne; aveva fatto 12.000 prigionieri, quasi senza
perdite, catturato 85 cannoni, 100 mitragliatrici, 26 lanciamine e
grandi quantità di materiali56.
La battaglia prosegue
Nella serata del 1º luglio, il comandante della 4ª armata
britannica, il generale Rawlinson, emise ordini intesi a riprendere
l'attacco il prima possibile. La confusione e le comunicazioni
difficoltose lungo l'estesa catena di comando fecero sì che ci
volessero alcuni giorni prima che i comandanti britannici si
rendessero conto della gravità del disastro. Haig diede l'incarico
al tenente generale Hubert Gough di prendere il settore nord con le
sue divisioni di riserva, mentre la 4ª armata si sarebbe occupata
del settore sud. Gough si rese conto del fallimento nel suo settore
e impedì l'immediata ripresa dell'offensiva; le operazioni non
sarebbero ripartite prima del 3 luglio57.
Nelle prime due settimane di luglio la battaglia della Somme fu
condotta con una serie di azioni su scala ridotta, scoordinate fra
loro, chiaramente preparatorie per una spallata di maggiore rilievo.
Fra il 3 e il 13 di quel mese, la 4ª armata di Rawlinson condusse 46
azioni che portarono alla perdita di 25.000 uomini e nessun
progresso significativo; questo dimostrò una differenza fra Haig e
la sua controparte francese e questo divenne motivo di attrito. Il
proposito di Haig era quello di mantenere una continua pressione sul
nemico, mentre Joffre e Foch preferivano conservare le proprie forze
in preparazione di una singola, pesante offensiva58. I britannici
non erano poi consapevoli delle opportunità esistenti a sud della
strada Albert-Bapaume, dove erano stati conseguiti successi
parziali. Il 3 luglio una pattuglia di ricognizione della 18ª
divisione penetrò per più di tre chilometri in territorio tedesco
senza incontrare alcuna posizione difensiva stabile59. Le posizioni
tedesche vacillarono nel settore meridionale di Montauban-La
Boisselle, ma gli attacchi erano deboli e discontinui, l'opportunità
si perse e i tedeschi godettero di tempo a sufficienza per
riorganizzarsi. Le postazioni dominanti di Pozières e Ginchy, sulle
quali correva la seconda linea, furono riorganizzate e gli attacchi
britannici divennero inefficaci60.
L'attacco a Bazentin
Prigionieri tedeschi aiutano alcuni feriti britannici a dirigersi
verso le retrovie dopo l'assalto a Bazentin, 19 luglio 1916.
D'altra parte se i britannici avessero aspettato di portarsi
abbastanza a ridosso della seconda linea tedesca per sferrare un
attacco decisivo, probabilmente si sarebbero ritrovati dinnanzi una
barriera di fuoco come quella affrontata il 1º luglio61.
Rawlinson elaborò un piano per sfondare le linee tedesche su un
fronte di sei chilometri fra il bosco di Delville sulla destra e
quello di Bazentin-le-Petit sulla sinistra: le truppe britanniche
avrebbero attaccato all'alba, avvicinandosi alle linee nemiche col
favore della notte, precedute da un violentissimo bombardamento di
pochi minuti. Dopo diverse diatribe con l'alto comando che preferiva
un attacco più limitato, venne concesso a Rawlinson di effettuare
l'attacco il 14 luglio con il XIII sulla destra e il XV corpo sulla
sinistra, mentre i tedeschi disponevano di soli sei battaglioni
oltre alla 7ª divisione di riserva a Bapaume62. L'attacco,
conosciuto come battaglia di Bazentin, fu diretto a catturare la
seconda linea tedesca che correva lungo la cresta delle colline da
Pozières, sulla strada Albert-Bapaume, in direzione sudest, verso i
villaggi di Guillemont e Ginchy. Obiettivi erano i villaggi di
Bazentin-le-Petit, Bazentin-le-Grand e Longueval, adiacente al Bosco
d'Elville. Oltre questa linea, sull'opposto versante, si trovava
Bosco Alto (High Wood)63.
Esiste un considerevole contrasto fra la preparazione e l'esecuzione
di questo attacco e di quello del 1º luglio. L'attacco al crinale di
Bazentin venne condotto da quattro divisioni su un fronte di meno di
sei chilometri; le truppe uscirono prima dell'alba, alle 3.25, dopo
un bombardamento d'artiglieria di soli cinque minuti; l'artiglieria
effettuò un fuoco di sbarramento mobile, e le ondate d'assalto
avanzarono poco dietro di esso64. A mezza mattinata, la prima fase
dell'attacco aveva avuto successo, con quasi tutti gli obiettivi
raggiunti e, come il 1º luglio, si creò una breccia nello
schieramento tedesco. Tuttavia, proprio come il 1º luglio, i
britannici non furono in grado di sfruttarla: il loro tentativo in
tal senso diede luogo alla più famosa azione di cavalleria della
battaglia della Somme, quando il 7º Dragoni della Guardia e il 2º
cavalleria del Deccan tentarono di catturare Bosco Alto; la
cavalleria tenne il bosco per tutta la notte, ma dovette ritirarsi
il giorno successivo65.
I britannici si aggrapparono a Bosco Alto ed avrebbero continuato a
combattere per esso, come per il Bosco d'Elville, vicino a
Longueval, per molti giorni. Comunque, nonostante il favorevole
avvio dell'attacco del 14 luglio, non cambiarono il proprio modo di
condurre le battaglie di trincea: nella notte fra il 22 e il 23
luglio, Rawlinson lanciò un attacco con sei divisioni sul fronte
della 4ª armata, attacco che fallì completamente. I tedeschi invece
avevano imparato: cominciarono ad abbandonare il sistema difensivo
basato sulle trincee continue per affidarsi ad un sistema flessibile
di difesa in profondità, con un complesso di capisaldi difficile da
annientare da parte dell'artiglieria66.
Il 19 luglio, le forze tedesche furono riorganizzate con von Below
al comando della 1ª armata, responsabile del settore nord, e il
generale Max von Gallwitz al comando della 2ª armata che presidiava
il settore meridionale; inoltre von Gallwitz fu nominato comandante
di gruppo d'armate, responsabile di entrambe le armate tedesche
sulla Somme. Per gli alleati, dopo i modesti successi del 14 luglio,
seguirono diverse scaramucce e i britannici decisero di spostare
tutti gli sforzi verso il crinale di Pozières, mentre i francesi
martellavano costantemente Péronne67.
Pozières e fattoria Mouquet
Nelle prime settimane di luglio non ci furono progressi
significativi nel settore nord. Ovillers, appena a nord della strada
Albert-Bapaume, non fu occupata fino al 16 luglio. La sua conquista,
e il caposaldo che i britannici avevano stabilito nella seconda
linea tedesca il 14 luglio, significavano la possibilità di prendere
di fianco le difese tedesche settentrionali: la chiave per farlo era
il villaggio di Pozières che si trovava sulla cresta della strada
che da Albert conduceva a Bapaume; dietro il villaggio, verso est,
correvano le trincee della seconda linea tedesca. La 4ª Armata fece
tre tentativi di impadronirsi del villaggio fra il 14 e il 17 luglio
prima che Haig togliesse all'armata comandata da Rawlinson la
responsabilità del fianco nord. La cattura di Pozières divenne
compito dell'armata di riserva di Gough, con l'impiego di tre
divisioni australiane del I corpo d'armata dell'ANZAC6869.
Gough voleva che la 1ª divisione australiana attaccasse
immediatamente, ma il comandante della divisione, il britannico
maggior generale Harold Walker, rifiutò di mandare i suoi uomini
all'attacco senza un'adeguata pianificazione. L'attacco fu quindi
programmato per la notte del 23 luglio, in coincidenza con quello
della 4ª armata. Lanciato poco dopo la mezzanotte, l'attacco su
Pozières fu un successo, in grande misura grazie all'insistenza di
Walker sulla pianificazione e a uno schiacciante bombardamento di
supporto. I tedeschi, riconoscendo la grande importanza del
villaggio nel proprio sistema difensivo, lanciarono tre infruttuosi
contrattacchi prima di iniziare un prolungato e metodico
bombardamento della località. L'ultimo tentativo tedesco di
riprendere Pozières avvenne prima dell'alba del 7 agosto, seguendo
un bombardamento particolarmente pesante: i tedeschi sopraffecero le
difese avanzate australiane e ne nacque una mischia furibonda, da
cui però emersero vittoriosi gli australiani70.
Gough progettò di dirigersi a nord lungo il crinale verso la
fattoria Mouquet, il che permetteva di insidiare il bastione tedesco
di Thiepval alle spalle; tuttavia più gli australiani avanzavano,
più si approfondiva il saliente così creato, cosicché l'artiglieria
tedesca poteva concentrare su di essi il proprio fuoco da tre lati.
L'8 agosto gli australiani iniziarono a spingersi a nord lungo il
crinale col II corpo d'armata britannico avanzando da Ovillers sulla
sinistra. Per il 10 agosto venne stabilita una linea poco a sud
della fattoria, che i tedeschi avevano trasformato in una fortezza,
con profonde buche e gallerie di collegamento con ridotte distanti.
Gli australiani tentarono più volte di prendere la fattoria fra il
12 agosto e il 3 settembre, avvicinandosi sempre più alla meta, ma
il presidio tedesco tenne duro. Gli australiani furono rilevati dal
Corpo d'armata canadese, che occupò per breve periodo la fattoria il
16 settembre, il giorno successivo all'offensiva principale
britannica; finalmente il 27 settembre il presidio tedesco si
arrese. Nei combattimenti di Pozières e della fattoria Mouquet, le
tre divisioni australiane persero oltre 23.000 uomini; se si
includono le perdite durante l'attacco diversivo a Fromelles del 19
luglio, l'Australia in sei settimane perse in Francia più uomini che
negli otto mesi della campagna dei Dardanelli71.
Battaglia d'attrito: agosto e settembre
Per l'inizio di agosto, Haig accettò l'idea che la possibilità di
effettuare uno sfondamento era del tutto tramontata: i tedeschi
«avevano posto rimedio in grande misura alla disorganizzazione» di
luglio. Per le successive sei settimane, i britannici avrebbero
intrapreso una serie di azioni su scala ridotta in preparazione
della spallata principale. Il 29 agosto il capo di stato maggiore
tedesco, Erich von Falkenhayn, fu sostituito dal generale Paul von
Hindenburg, col generale Erich Ludendorff come vice, ma di fatto col
ruolo di vero comandante delle operazioni. L'effetto immediato di
questo cambiamento fu l'introduzione di una nuova dottrina
difensiva: il 23 settembre i tedeschi iniziarono la costruzione
della "Siegfried Stellung", chiamata Linea Hindenburg dai
britannici. Impegnati in due teatri di scontro, i tedeschi oramai
risentivano pesantemente della tattica logorante e caparbia dei
britannici sulla Somme e dei contrattacchi di Robert Nivelle a
Verdun72. Il punto di contatto tra francesi e britannici si trovava
a sudovest del Bosco d'Elville, oltre i villaggi di Guillemont e
Ginchy. Il primo tentativo britannico di prendere Guillemont l'8
agosto fu un fiasco; il 18 agosto iniziò un tentativo più in grande
stile, con l'impiego di tre corpi d'armata britannici e altrettanti
francesi, ma solo il 3 settembre Guillemont cadde. L'attenzione
quindi si spostò su Ginchy, catturata dalla 16ª divisione irlandese
il 9 settembre. Anche i francesi fecero progressi, e quando cadde
Ginchy i due eserciti si unirono vicino Combles73.
Una trincea ed un rifugio tedesco distrutti, vicino Guillemont.
I britannici avevano ora un fronte quasi rettilineo, dalla fattoria
Mouquet a nordovest all'abitato di Combles a sudest dominato dal
bosco di Leuze in mano britannica, che costituiva una comoda
posizione di partenza per un altro attacco su vasta scala. Qui i due
eserciti alleati si congiungevano, ma i francesi avevano appena
esteso verso meridione il fronte, travolgendo cinque chilometri
della prima linea tedesca nei pressi di Chaulnes e catturando 7.000
prigionieri74. Questa fase interlocutoria della battaglia era stata
costosa per la 4ª armata, pur senza offensive di rilievo. Fra il 15
luglio e il 14 settembre, l'inizio della battaglia successiva, la 4ª
armata condusse circa 90 attacchi della forza di un battaglione in
su, di cui solo quattro per tutti i nove chilometri del proprio
fronte; perdette 82.000 uomini, per un'avanzata di meno di un
chilometro: un risultato anche peggiore di quello del 1º luglio75.
La fase finale
Nonostante la sua professata fede per la guerra d'attrito, Haig era
ormai ridotto a puntare tutto su uno sfondamento decisivo. L'attacco
doveva fare perno a sinistra, nel settore dell'armata di Gough:
l'obiettivo primario del colpo principale, sferrato da Rawlinson,
doveva essere lo sfondamento di quella che in origine era stata
l'ultima linea tedesca tra Morval e Le Sars, in concomitanza con un
attacco francese verso sud tra Combles e la Somme, isolando in tal
modo Combles. Se l'offensiva si fosse sviluppata in modo così
positivo da giustificare un altro attacco, i britannici avrebbero
poi dovuto estendere il loro assalto verso nord in modo da espugnare
Courcelette e Martinpuich76. L'attacco aveva una caratteristica
molto particolare: per la prima volta nella storia sarebbero stati
impiegati i carri armati, veicoli corazzati capaci di muoversi
attraverso i campi progettati come antidoto alle mitragliatrici
nemiche e ai reticolati. Il comando britannico decise di impiegare i
carri disponibili per rinverdire le ormai scarne speranze di
successo, sebbene solo 60 dei 150 carri costruiti erano in Francia
in quel momento e soltanto 49 vennero impiegati; gli insufficienti e
affrettati preparativi, nonché i difetti meccanici di quel primo
modello ridussero ulteriormente il numero totale dei mezzi
corazzati, cosicché solo 32 giunsero in linea pronti per
l'attacco77.
L'attacco fu lanciato all'alba del 15 settembre sfociando nella
battaglia di Flers-Courcelette, dove i britannici si mossero
nuovamente verso Bosco Alto, la fattoria Moquet, Courcelette e
Flers78. Al centro il XV corpo realizzò rapidi e notevoli progressi,
tanto che alle 10 la sua divisione di sinistra era già al di là di
Flers, ma sulla sua destra il XIV corpo subì ingenti perdite e fu
fermato molto prima di poter raggiungere Morval e Lesboeufs; neppure
il III corpo sulla sinistra raggiunse gli obiettivi prestabiliti,
anche se la sua 47ª divisione riuscì finalmente ad impadronirsi del
contesissimo Bosco Alto. Fu anche la prima azione importante sul
fronte occidentale per la divisione neozelandese, al tempo parte del
XV corpo d'armata britannico, la quale catturò parte della linea di
collegamento ad ovest di Flers. Sul fianco sinistro, la 2ª divisione
canadese catturò il villaggio di Courcelette dopo un furioso
combattimento, anche con un certo aiuto dai carri.
Il piano per prendere il bosco prevedeva di utilizzare i carri a
supporto della fanteria della 47ª divisione britannica, ma il bosco
era un paesaggio intransitabile di tronchi spezzati e buche di
granata, e un solo carro riuscì a percorrere un certo tratto; i
difensori tedeschi furono costretti ad abbandonare la posizione
quando i britannici, progredendo sui fianchi, minacciarono di
accerchiarli79. All'estrema sinistra la progettata estensione
dell'attacco venne attuata secondo previsioni, e Martinpuich e
Courcelette caddero in mano alleata. La giornata si concluse - salvo
che sul settore destro - con la conquista del crinale dominante che
aveva favorito per molto tempo i tedeschi; al mancato settore destro
si pose riparo il 25 settembre, quando un altro grande attacco
anglo-francese costrinse i tedeschi ad evacuare Combles80, mentre
Guedencourt, Lesboeufs e Morval furono conquistate. In
quell'occasione i carri rimasero in riserva81. Il giorno dopo, con
l'appoggio di 13 carri armati82 anche Thiepval cadde nelle mani di
Gough83.
La battaglia viene principalmente ricordata oggi per il debutto
operativo del carro armato. I britannici nutrivano grosse speranze
sul fatto che quest'arma avrebbe superato il punto morto dato dalle
trincee. I primi carri non erano certo armi per la guerra di
movimento, visto che con una velocità fuori strada di poco più di
3 km/h erano facilmente superati dalla fanteria in marcia, ma
erano stati concepiti per la guerra di trincea: non temevano gli
ostacoli di filo spinato ed erano impenetrabili (almeno nei primi
tempi) al fuoco dei fucili e delle mitragliatrici, sebbene fossero
assai vulnerabili al fuoco d'artiglieria. Erano anche notoriamente
inaffidabili: dei 49 carri disponibili il 15 settembre, solo 32
furono schierati, e di questi solo 21 ce la fecero ad entrare in
azione. I guasti meccanici erano comuni, e molti rimasero
impantanati o incastrati nelle buche di granata e nelle trincee del
tormentato campo di battaglia84.
Gli ultimi attacchi
Douglas Haig continuava intanto a sollecitare una pressione
«senza soste», e grazie ad una serie di altri piccoli successi
alleati nella prima settimana di ottobre85 i tedeschi ripiegarono
sull'ultima linea difensiva da loro allestita, che partendo da
Sally-Saillisel, sulla destra, toccava Le Transloy e passava infine
dinnanzi a Bapaume; i tedeschi stavano preparando nuove linee
difensive più arretrate, ma nessuna fu portata a termine. D'altra
parte i tedeschi avevano dimostrato una forte resistenza, e i
limitati successi portati dagli alleati non erano tali da alimentare
speranze di uno sfondamento86.
«La pioggia fu torrenziale e il campo di battaglia si trasformò in
un mare di fango. Alcuni uomini morirono per la fatica nel portare i
messaggi da un punto all'altro»
(Generale Edmonds87)
Il prematuro arrivo delle piogge autunnali contribuì a rendere il
terreno un pantano in cui uomini e mezzi faticavano a muoversi; in
queste condizioni gli attacchi erano destinati a fallire, e anche
quando una trincea nemica veniva conquistata, il lavoro di
consolidamento era talmente difficile da annullare il successo
conseguito88. Il 12 ottobre a Guédencourt entrarono in azione i
soldati di un battaglione del reggimento di Terranova. I britannici
sperimentarono la cosiddetta "barriera di fuoco" o "barràge": gli
uomini avanzavano preceduti da un fuoco di artiglieria che aveva lo
scopo di eliminare i reticolati e stordire i difensori. Fra gli
attaccanti, uno su dieci - se non di più - morì perché avanzò troppo
presto o perché il tiro risulto troppo corto89.
Foto notturna del campo di battaglia di Thiepval con i bengala che
illuminano il settore.
Il cuneo lentamente scavato tra l'est dell'Ancre e la Somme aveva
trasformato la linea difensiva tedesca originaria a nord dell'Ancre
in un saliente assai pronuciato. Da qualche tempo Gough si preparava
ad attaccarlo, e infine il 13 novembre, grazie ad un temporaneo
miglioramento atmosferico, sette divisioni attaccarono
Beaumont-Hamel e Beaucourt-sur-Ancre90. Le mosse iniziali furono
quasi una copia del 1º luglio, anche per la detonazione di una mina
sotto la ridotta della cresta Hawthorn, ad ovest di Beaumont-Hamel.
La 31ª divisione aveva attaccato il 1º luglio le posizioni sul fiume
Serre, e quattro mesi e mezzo dopo era nuovamente chiamata allo
stesso compito; i risultati furono simili. A sud del Serre i
britannici, con l'esperienza acquisita a caro prezzo, riuscirono a
catturare la maggioranza dei propri obiettivi: la 51ª divisione
delle Highland prese Beaumont-Hamel mentre alla destra la 63ª
divisione Royal Naval catturò Beaucourt91. Haig era soddisfatto del
risultato, ma Gough premeva per uno sforzo finale, che fu effettuato
il 18 novembre con un attacco alle trincee "Monaco" e "Francoforte",
e una puntata verso Grandcourt: novanta uomini del 16º battaglione
Highland Light Infantry rimasero isolati nella trincea Francoforte
dove resistettero fino al 21 novembre quando i 45 sopravvissuti, 30
dei quali feriti, si arresero92. Quel successo per Haig avrebbe
«rafforzato la posizione dei rappresentanti britannici»
nell'imminente conferenza militare alleata di Chantilly. L'offensiva
della Somme poté così essere sospesa93.
Conclusione
Intanto sui due fronti si progettavano già le offensive per il 1917
e si resero pubblici i bilanci della campagna appena conclusa. Il 1º
novembre gli anglo-francesi annunciarono che dal 1º luglio avevano
catturato 72.901 tedeschi, 303 pezzi d'artiglieria, 215 mortai e
quasi un migliaio di mitragliatrici. Su l'uno e sull'altro fronte si
calcolarono anche le perdite, che raggiunsero cifre mai raggiunte in
precedenza: i morti britannici sulla Somme nei quattro mesi
trascorsi dal 1º luglio furono 95.675, quelli francesi 50.729 per un
totale di 146.404 uomini. Le perdite tedesche furono ancora più
numerose: 164.055 con oltre 70.000 prigionieri94.
La battaglia si chiuse in un'atmosfera di delusione e disappunto,
dopo aver comportato per le forze britanniche perdite così ingenti
da far passare in secondo piano le conquiste territoriali e le
perdite nemiche; queste ultime furono in larga misura dovute
all'atteggiamento rigido e intransigente dei comandanti tedeschi,
specialmente di von Below, il comandante della 1ª armata, il quale
emise ordini in cui affermava che ogni ufficiale colpevole di aver
ceduto anche un solo centimetro di terreno sarebbe stato deferito
alla corte marziale, e che ogni metro perso avrebbe dovuto essere
riconquistato con un contrattacco. Questo provocò cedimenti del
morale dei tedeschi, finché il 30 agosto von Below fu costretto a
revocare i suoi stessi ordini, conformandosi a quelli del duo
Ludendorff-Hindenburg95.
Nonostante le perdite della Somme e di Verdun, sul fronte
occidentale erano ancora schierate 127 divisioni tedesche a cui si
contrapponevano 106 divisioni francesi, 56 britanniche, 6 belghe e
una russa, per un totale di 169 divisioni. La British Expeditionary
Force che ad agosto 1914 contava circa 160.000 uomini in tutto, alla
fine del 1916 ne contava 1 milione 591.745, inclusi 125.517 uomini
dell'ANZAC e 104.538 canadesi96.
Effetti tattici e strategici
« Somme. L'intera storia del mondo non può contenere una parola
più spaventosa97. »
(Friedrich Steinbrecher)
Non è facile identificare il reale vincitore della battaglia della
Somme; le conquiste territoriali degli attaccanti non andarono al di
là di otto chilometri nel loro punto di massima penetrazione, ma
questo dato contrapposto alle circa 620.000 perdite anglo-francesi
annulla di fatto una vittoria tattica sulla Somme. In una visione a
lungo termine però, dello scontro beneficiò più l'Intesa che
l'esercito tedesco: la miscela di guerra di materiali di cui erano
capaci le forze alleate e la resistenza ad oltranza di stampo
teutonico avrebbe indebolito la Germania, le cui perdite divennero
non solo pesanti, ma insostituibili98.
A sfavore della Germania inoltre, a partire dalla Somme il Regno
Unito iniziò a guadagnare influenza nella coalizione, e riconoscendo
la crescente minaccia britannica il 31 gennaio 1917 la Germania
adottò la politica della guerra sottomarina indiscriminata, nel
tentativo di privare di rifornimenti la nazione insulare, un atto
che avrebbe come conseguenza ultima trascinato in guerra gli Stati
Uniti99; e mentre gli alleati avrebbero potuto contare sulle truppe
statunitensi, la Germania dopo le carneficine di Verdun e della
Somme non fu più in grado di rimpinguare le proprie fila, riducendo
la propria strategia alla sola difesa. I comandanti Hindenburg e
Ludendorff ritennero che l'esercito non potesse sopportare continue
battaglie d'attrito come la Somme: il 24 febbraio 1917 l'esercito
tedesco effettuò una ritirata strategica dalla Somme alle
fortificazioni della linea Hindenburg, accorciando la linea del
fronte100.
Sul piano tecnico la battaglia scatenata dagli anglo-francesi
costituì un successo strategico per gli alleati. In seguito
all'offensiva Falkenhayn fu costretto a spostare due divisioni e 60
pezzi d'artiglieria pesante da Verdun alla Somme; la nuova pressione
su questo fronte costrinse ogni divisione tedesca ad affrontare tre
o quattro divisioni alleate. Tra luglio e agosto lo stato maggiore
tedesco dovette impiegare 35 nuove divisioni contro l'ala inglese e
altre sette contro quella francese, potendo contare su una sola
divisione di riserva101. Nel complesso il guadagno territoriale
alleato fu di circa 110 chilometri quadrati e 51 villaggi
riconquistati; i tedeschi erano arretrati di circa 7-8 chilometri
con notevolissime perdite di uomini e materiali. Da un punto di
vista puramente tattico si trattò quindi di una sconfitta tedesca,
ma il guadagno alleato fu molto esiguo di fronte all'enorme
dispendio di uomini e materiali102.
All'inizio del 1916 l'esercito britannico era una massa di volontari
senza esperienza bellica, e la Somme fu il primo vero test di questa
"armata di Kitchener": è brutale ma realistico affermare che molti
dei soldati britannici uccisi sulla Somme mancavano di esperienza, e
quindi la loro perdita aveva poco valore dal punto di vista
militare; tuttavia essi erano stati i primi ad offrirsi volontari,
mentre per la Germania, che era in guerra da quasi due anni, ogni
perdita minava l'esperienza e l'efficienza dell'esercito. La Somme
condusse direttamente a nuovi importanti sviluppi
nell'organizzazione e nelle tattiche della fanteria alleata:
esaminando le ragioni dietro sconfitte e successi del primo giorno
di battaglia, i britannici e i contingenti del Commonwealth
introdussero il concetto di plotone, seguendo i passi degli eserciti
francese e tedesco, che già si stavano indirizzando verso l'impiego
di unità tattiche più piccole. Al tempo della Somme i comandanti
superiori britannici insistevano che la compagnia (120 uomini)
dovesse essere la più piccola unità di manovra; meno di un anno dopo
lo sarebbe stata la sezione, di 10 uomini103.
Per quanto riguarda la Francia, il mediocre risultato tattico e
strategico conseguito sulla Somme costò il siluramento del generale
Joseph Joffre, sostituito dal "vincitore" di Verdun Robert Nivelle.
Le stragi di Verdun e della Somme comunque non cambiarono le
strategie inconcludenti dello stato maggiore francese, che avrebbe
ripetuto i medesimi errori l'anno seguente portando il proprio
esercito a ribellarsi contro i propri superiori in quella serie di
ammutinamenti di massa che caratterizzarono il 1917 dell'esercito
francese104.
Perdite
La stima originale alleata delle perdite sulla Somme, stesa alla
conferenza di Chantilly del 15 novembre, era di 485.000 per
britannici e francesi, contro 630.000 tedeschi105: queste cifre
vennero usate per sostenere che la Somme era stata una battaglia di
attrito favorevole agli alleati. Tuttavia a quel tempo ci fu un
notevole scetticismo riguardo alla precisione dei conteggi: quando
dopo la guerra fu compilato un resoconto finale, si raggiunse la
cifra di 419.654 britannici e 204.253 francesi fra morti, feriti e
prigionieri; un totale di 623.907 uomini, di cui 146.431 erano morti
o dispersi106.
Il curatore della storia ufficiale da parte britannica, Sir James
Edmonds, quantificò le perdite tedesche in 680.000, ma questa cifra
è stata successivamente smentita. Un rapporto statistico
dell'Ufficio della guerra britannico concluse che le perdite
tedesche sul settore britannico potessero essere più basse di circa
180.000 unità durante la battaglia. Oggigiorno viene accettata per
il totale delle perdite tedesche sulla Somme una cifra tra 465.000 e
600.000. Nel compilare la biografia del generale Rawlinson, il
maggior generale Sir Frederick Maurice fu supportato dal
Reichsarchiv con un totale di 164.055 tedeschi morti o dispersi107.
Le perdite per divisione (unità forte di circa 10.000 soldati) sul
settore britannico fino al 19 novembre furono in media 8.026: 6.329
per le quattro divisioni canadesi, 7.408 per la neozelandese, 8.133
per le 43 divisioni britanniche e 8.960 per le tre divisioni
australiane. Ogni giorno i britannici persero 2.943 uomini, più che
durante la terza battaglia di Ypres ma numero non così elevato come
nei due mesi della battaglia di Arras del 1917 (4.076 al
giorno) o come durante l'offensiva dei cento giorni nel 1918 (3.685
al giorno). Con un semplice calcolo si capisce meglio l'entità della
tragedia: dividendo il numero di vittime per il numero di centimetri
conquistati si ottiene circa 1,5, ovvero 150 soldati per conquistare
un metro di terreno; in pratica per conquistare meno di un
centimetro di terreno era necessaria la morte di un soldato.
Bibliografia
In italiano:
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storia della prima guerra mondiale, 2009, Milano, Arnoldo Mondandori
[1994]. ISBN 978-88-04-48470-7
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battaglia della Somme - l'artiglieria conquista la fanteria occupa,
2010, Parma, Mattioli 1885. ISBN 978-88-6261-153-4
• Basil H. Liddell Hart, La
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• John Keegan, Il volto della
battaglia - Azincourt, Waterloo, la Somme, 2010, Milano, Il
Saggiatore Tascabili [1976]. ISBN 978-88-565-0165-0
In inglese:
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1983, Londra, Penguin Books. ISBN 0-14-017867-8
• Robin Neillands, The Great
War Generals on the Western Front 1914–1918, Magpie Books, 2004.
ISBN 1-84119-863-3
• Gary Sheffield, The Somme,
2007, Cassell. ISBN 0-304-36649-8
Offensiva
Brusilov
Data
4 giugno - 20 settembre 1916
Luogo
Galizia, Volinia
L'Offensiva Brusilov (in russo: Брусиловский прорыв) fu la più
grande offensiva condotta dall'Impero russo durante la prima guerra
mondiale e considerata la più grande vittoria della Triplice Intesa1
durante tutta la guerra.
Lo scontro iniziò il 4 giugno quando lo Zar
Nicola II ordinò al generale Aleksej Brusilov di attaccare le forze
degli Imperi Centrali su un fronte di oltre 500 km che andava
dalle paludi Pripet, sulla frontiera polacca, all'estremità dello
schieramento austriaco2
Contesto storico
Allo scoppio della prima guerra mondiale, il 4 agosto 1914,
gli alti comandi tedeschi confidarono che l'estrema lentezza nella
mobilitazione dell'esercito russo, che sarebbe durata settimane, se
non mesi, avrebbe permesso loro di conquistare Parigi e poi
rivolgere tutte le forze contro la Russia in tempo utile per non
impantanarsi in una guerra su due fronti3. Ma, sorprendentemente,
l'esercito russo sferrò la sua prima offensiva verso la Prussia
orientale appena due settimane dopo l'inizio del conflitto.
L'attacco mise in difficoltà il generale Maximilian von Prittwitz,
comandante tedesco della zona, ma la scarsa organizzazione
dell'offensiva ne impedì il pieno successo. Von Prittwitz venne
subito sostituito dai generali Paul von Hindenburg ed Erich
Ludendorff, che organizzarono un immediato contrattacco; con il
risultato del doppio accerchiamento dei russi a Tannenberg che costò
ai russi 125.000 tra morti, feriti e prigionieri4. Dopo altre due
settimane i russi furono nuovamente disastrosamente battuti nella
Battaglia dei Laghi Masuri, e verso la fine di agosto la Russia
dovette vedersela anche contro l'alleata della Germania,
l'Austria-Ungheria che sferrò un attacco in Galizia (la parte
occidentale dell'odierna Ucraina)5. Ma gli austriaci dopo alcuni
iniziali successi vennero ricacciati indietro e salvati solo
dall'intervento della Germania, che pur operando in inferiorità di
uomini e materiali, condusse un'incisiva campagna contro la Russia
per tutta la durata della guerra.
La Germania seppe sfruttare al meglio le linee ferroviarie in suo
possesso per spostare efficacemente le truppe lungo tutto il fronte,
riuscendo alla fine del 1914 a conquistare gran parte della Polonia
russa6. I russi riuscirono a ottenere delle vittorie contro gli
austriaci, ma i tedeschi nella primavera del nuovo anno sferrarono
ulteriori offensive che permisero loro di occupare alcune zone degli
Stati baltici e di conqusitare l'intera Polonia. Alla fine
dell'agosto 1915 lo Zar Nicola II assunse direttamente il comando
delle forze russe, e quell'anno si concluse con le forze avversarie
attestate su una linea che andava da Riga, sul mar Baltico, fino ai
Carpazi, sulla frontiera tra Russia e Romania7.
Premesse
Alla fine di febbraio del 1916, sul fronte occidentale, il
comandante dello Stato Maggiore tedesco, Erich von Falkenhayn iniziò
la sua offensiva a Verdun con l'intenzione di dissanguare l'esercito
francese, e subito i comandi francesi fecero pressioni alla Russia
di sferrare un attacco di "alleggerimento" per dirottare forze
tedesche. I russi attaccarono presso il lago Naroch ma ottennero
solamente il risultato di subire 100.000 perdite tra le proprie
fila, senza intaccare sensibilmente le forze avversarie. A maggio,
poi, gli austriaci sferrarono una massiccia offensiva contro le
posizioni italiane in Trentino, e anche l'Italia si appellò allo Zar
per diminuire la pressione sul proprio fronte8.
I comandi russi sapevano che non era possibile sferrare nuovi
attacchi per assistere gli italiani, data la situazione di truppe e
materiali, che andavano radunati e preparati per una prossima
decisiva offensiva da compiersi durante la stagione estiva9.
Solamente il nuovo incaricato del fronte sud-occidentale, il
generale Aleksej Brusilov, reagì positivamente alla richiesta.
Brusilov decise di attaccare in luglio, ma poiché sul fronte
italiano si combatteva aspramente, anticipò l'azione a giugno per
cercare di allentare la pressione sull'Italia, costringendo gli
austriaci a trasferire truppe da ovest ad est10. Il generale Aleksej
Evert, comandante del gruppo d'armate ovest, era invece favorevole
ad una strategia difensiva, in opposizione alla strategia di
Brusilov, ma lo Zar appoggiò i piani del nuovo arrivato, e vennero
delineati gli obbiettivi dell'offensiva, le città di Leopoli e
Kovel', perse l'anno precedente.
La battaglia
L'offensiva iniziò con un potente tiro d'artiglieria,
condotto da 1938 pezzi su un fronte di circa 350 km, dalle paludi di
Pripjat' fino alla Bucovina; questa carenza di artiglieria fu dovuta
al risentimento degli altri generali russi che mal vedevano
l'offensiva di Brusilov e che non inviarono rinforzi e materiali. Ma
questa carenza di pezzi d'artiglieria, in un'analisi a posteriori,
si rivelò un vantaggio, dato che come succedeva in occidente, i
massicci tiri di medi e grossi calibri non facevano altro che creare
un terreno pieno di buche che rallentavano gli attaccanti, e
favorivano i difensori.
Questo a Brusilov accadde in maniera minore, e qualche ora di
violento bombardamento bastò a mandare nel caos le prime linee
austro-ungariche, che non si aspettavano un attacco,11 e aprire
oltre 50 varchi tra i reticolati. Con un'avanzata velocissima,
coperta dall'intenso fumo prodotto dalle granate su tutto il campo
di battaglia, i russi catturarono il primo giorno quasi 26.000
austriaci, e il secondo giorno, occuparono la città di Luc'k,
rimasta praticamente sguarnita dalla fuga dei 200.000 difensori.
Truppe russe
In appena due giorni, l'attacco russo ebbe un grande successo, la IV
e la VII Armata austriaca cedettero, e le forze russe sfondarono su
un fronte di un centinaio di km a sud di Pripjat e avanzarono di
circa 40 km. A nord delle paludi invece la resistenza degli
austriaci fu tenace, ma vennero lo stesso respinti fino al Dnjestr,
e le forze russe arrivarono a minacciare Czernowitz, capoluogo della
Bukovina.
Il successo delle operazioni, oltre che dal limitato uso delle
artiglierie che non aveva permesso agli austriaci di ritirare le
truppe e organizzarsi, fu dovuto all'uso di reparti specializzati
d'attacco, che, suddivisi in piccoli e numerosi gruppi, si
infiltravano tra le linee nemiche e colpivano diversi obbiettivi
agendo in modo molto più efficace delle ondate di fanteria. Ma
questo grande successo non favorì l'offensiva, i generali russi a
Nord delle paludi, forse per gelosia,12 non attaccarono sul resto
del fronte, consentendo alle forze tedesche di spostare ingenti
truppe a Sud per dar manforte agli austriaci. La veloce avanzata
russa però allungò le linee di rifornimento, costringendo il
rallentamento delle truppe in avanzata, e solo l'intervento dello
Zar costrinse gli altri generali ad inviare rinforzi a Brusilov. Ma
il sistema viario russo, in pessime condizioni, rallentò anche i
rinforzi, e la possibilità di impiegare notevoli forze d'artiglieria
e nuove truppe, portò Brusilov a ritornare alle vecchie tattiche.
Alla fine di luglio, la città di Brody, città di frontiera della
Galizia, cadde in mano dei russi, che nelle due settimane precedenti
catturarono altri 40.000 austriaci. Ma anche le perdite russe non
erano lievi, e nell'ultima settimana di luglio, Hindenburg e
Ludendorff assunsero la difesa dell'ampio settore austriaco, vennero
formati battaglioni misti austro-tedeschi e vennero richiesti
rinforzi perfino ai turchi13.
Le tecniche di infiltrazione, ben presto furono nuovamente
sostituite dalle classiche azioni di bombardamento, e dalle ondate
di uomini, facendo ritornare la guerra nella stasi del trinceramento
e al conseguente spreco di vite. Ai primi di settembre Brusilov
raggiunse comunque le pendici dei Carpazi, ma lì si arrestò per le
evidenti difficoltà geografiche, e soprattutto l'arrivo di nuove
truppe tedesche da Verdun arrestò la ritirata austriaca e inflisse
gravi perdite ai russi.
Il 22 agosto Brusilov e la sua armata vennero attaccati lungo
un settore di 20km da due divisioni turche che l'anno precedente
avevano combattuto a Gallipoli, ma la ritirata austriaca non si
fermò14.
Esito
Il 20 settembre l'attacco di Brusilov si estinse. Questi
raggiunse l'obiettivo principale di distogliere importanti forze
tedesche dal settore di Verdun e soprattutto di costringere gli
austro-ungarici a levare truppe dal settore del Trentino nel pieno
dell'offensivia della Battaglia degli Altipiani (meglio nota in
Italia come Strafexpedition). Inoltre gravi perdite furono inflitte
agli austro-ungarici con quasi 1.500.000 di soldati austriaci messi
fuori combattimento, tra cui oltre 400.000 prigionieri. L'offensiva
convinse la Romania ad entrare in guerra a fianco dell'Intesa. Ma le
perdite furono notevoli per entrambi gli schieramenti, oltre
500.00015 in quella che si potrebbe considerare una delle battaglie
più sanguinose della storia16.
Conseguenze
L'offensiva di Brusilov fu l'ultimo e il più alto momento dello
sforzo russo nel primo conflitto mondiale. Da lì in poi l'esercito
russo non riuscì più ad essere altrettanto efficace, ed anzi la sua
forza combattiva declinò celermente, spinta dai problemi interni e
dalle diserzioni sempre più massicce a causa del vento
rivoluzionario che già si annidava tra le file dell'esercito. Quando
Brusilov decise di attaccare, la Russia aveva perso dal 1914 ben 5
milioni di uomini, l'esercito aveva ormai perso fiducia e la rivolta
serpeggiava nelle trincee. La rivoluzione russa scoppiò nell'ottobre
1917, e anche se l'Offensiva Brusilov non ne fu direttamente
responsabile, le sue vittime furono la goccia che fece traboccare il
vaso.
L'operazione fu caratterizzata da un notevole miglioramento nelle
tecniche di attacco russe in un primo frangente, ma l'arrivo delle
artiglierie fece tornare Brusilov alle vecchie idee di bombardamenti
a tappeto antecedenti a grossi attacchi di fanteria.
Per ironia
della sorte, furono i tedeschi ad apprendere e sviluppare questa
tecnica detta di infiltrazione con squadre d'assalto, usandola su
tutti i fronti, con risultati sempre migliori. Nel 1918 i tedeschi,
seppur dissanguati, demotivati e affamati dal blocco navale, con
l'aiuto di queste nuove tecniche (che al contrario gli altri
eserciti tardavano colpevolmente ad applicare) durante le Offensive
di primavera furono molto vicini a vincere la guerra.
D'altro canto l'entrata in guerra della Romania sul fronte
orientale, non diede alcun aiuto all'Intesa; anzi, una serie di
insensati attacchi indebolirono un esercito già antiquato e
poveramente dotato e diedero l'opportunità alla forze bulgare di
attaccare da sud, travolgendolo all'inizio del 1917, tanto che
l'intero paese fu occupato, eccetto una piccola striscia a ridosso
del confine russo, mantenuta solo grazie all'aiuto russo.
Bibliografia
• Paul K.Davis, Le 100
battaglie che hanno cambiato la storia, Newton Compton Editore,
Roma, 2006
• Martin Gilbert, La grande
storia della Prima guerra mondiale, Oscar storia, Milano, 2009
• (RU) B. P. Utkin
Brusilovskij proryv, 2001
• (EN) B.H. Liddell
Hart, The Real War: 1914-18 (1930), pp. 224-227.
Campagna di Romania (1916-1918)
Data
agosto 1916 - dicembre 1917, novembre 1918
Luogo
Romania
La campagna di Romania è stata una campagna del fronte dei Balcani
durante la prima guerra mondiale, che vide a confronto il Regno di
Romania e l'Impero Russo da un lato, e le Potenze centrali
dall'altro.
Premesse
Il Regno di Romania era dominato dai sovrani della dinastia
Hohenzollern fin dal 1866. Il re di Romania, Carlo I di
Hohenzollern, aveva siglato un trattato segreto con la Triplice
Alleanza nel 1883 che prevedeva che la Romania entrasse in guerra
solo nel caso in cui l'Impero austro-ungarico fosse stato attaccato.
Sebbene Carlo volesse entrare nel primo conflitto mondiale come
alleato delle Potenze centrali, l'opinione pubblica ed i partiti
politici romeni erano a favore dell'alleanza con la Triplice Intesa.
La Romania rimase neutrale allo scoppio delle ostilità, sostenendo
che l'Austria-Ungheria avesse iniziato il conflitto, e che di
conseguenza la Romania non avesse alcun obbligo formale ad
intervenire.
Allo scopo di entrare in guerra a fianco degli Alleati, il regno di
Romania chiese il riconoscimento dei propri diritti sul territorio
della Transilvania, dominato dall'Austria-Ungheria fin dal XVII
secolo, sebbene i romeni fossero la maggioranza della popolazione.
Il problema principale incontrato durante i negoziati fu evitare di
trovarsi a combattere su due fronti: uno in Dobrugia contro il regno
di Bulgaria ed uno in Transilvania, e di ottenere il riconoscimento
scritto delle conquiste territoriali effettuate durante il
conflitto. A questo scopo, era necessario ottenere le seguenti
garanzie: una clausola che evitasse la possibilità di pace separata,
status uguale agli altri alleati alla conferenza di pace, assistenza
da parte russa contro la Bulgaria, un'offensiva Alleata contro
quest'ultima, e l'invio regolare di rifornimenti da parte Alleata.
Il patto militare sottoscritto statuì che la Francia ed il Regno
Unito avrebbero iniziato un'offensiva contro la Bulgaria e l'Impero
ottomano entro agosto, che la Russia avrebbe inviato truppe in
Dobrugia e che l'esercito romeno non sarebbe stato subordinato a
quello russo. Gli Alleati avrebbero infine inviato 300 tonnellate di
rifornimenti al giorno. Durante la guerra, la maggior parte di
queste clausole non furono rispettate.6
Gli Alleati accettarono i termini dell'accordo alla fine dell'estate
del 1916 con il trattato di Bucarest; secondo alcune fonti, se la
Romania fosse entrata in guerra prima dell'offensiva Brusilov, la
Russia non sarebbe stata sconfitta.7 Secondo alcuni storici militari
americani, la Russia differì l'approvazione delle richieste romene
perché preoccupata dalla possibile rivendicazione della Bessarabia,
territorio a maggioranza romena e sotto il controllo russo.8
Nel 1915 il tenente colonnello Christopher Thomson, un ufficiale
fluente in francese, fu inviato a Bucarest in qualità di addetto
militare inglese, con il compito di assistere Horatio Herbert
Kitchener nel tentativo di portare la Romania in guerra. Tuttavia,
una volta sul posto, Thomson maturò rapidamente il convincimento che
una Romania male armata ed impegnata su due fronti contro
Austria-Ungheria e Bulgaria sarebbe stata un impedimento, più che un
vantaggio per gli Alleati. Tale opinione fu tuttavia accantonata da
parte di Whitehall, e quindi egli firmò un accordo militare con la
Romania il 13 agosto 1916. Entro la fine del 1916 egli dovette
alleviare le conseguenze delle disfatte romene, e si occupò della
distruzione dei pozzi petroliferi romeni, in modo che non potessero
essere sfruttati dai tedeschi.9
L'entrata in guerra
Il governo romeno firmò un trattato con gli Alleati il 17 agosto
1916 e dichiarò guerra alle Potenze Centrali dieci giorni dopo.
L'esercito romeno era costituito da un numero piuttosto elevato di
effettivi, oltre 500.000 uomini distribuiti in 23 Divisioni.
Tuttavia, gli ufficiali avevano un insufficiente addestramento e le
truppe erano scarsamente equipaggiate; più della metà degli
effettivi avevano seguito solo un addestramento basico. Nel
frattempo, il capo di Stato Maggiore tedesco, generale Erich von
Falkenhayn aveva correttamente assunto che la Romania avrebbe preso
le parti degli Alleati ed aveva approntato dei piani per
affrontarla. Grazie alla rapida conquista del Regno di Serbia, alle
inefficaci operazioni Alleate nei confronti del Regno di Grecia, ed
avendo interessi territoriali in Dobrugia, l'esercito bulgaro e
quello ottomano avevano tutto l'interesse ad affrontare i romeni.
L'alto comando tedesco era seriamente preoccupato riguardo alla
probabile entrata della Romania nel conflitto. Paul von Hindenburg
scrisse:
« È certo che ad uno stato piccolo come la Romania non è stato
mai dato prima un ruolo così importante, e così decisivo per le
sorti del mondo in un momento così favorevole. Due grandi potenze
come Germania ed Austria non sono mai state tanto dipendenti dalle
risorse militari di un paese che ha appena un ventesimo della
popolazione di uno dei due. A giudicare dalla situazione militare,
ci si doveva aspettare che la Romania dovesse solo farsi avanti per
decidere la guerra in favore di quelle potenze che per anni hanno
cercato di sopraffarci. Così tutto sembrava dovesse dipendere dal
fatto che la Romania fosse pronta a far uso del proprio vantaggio
momentaneo.10 »
Le azioni di guerra
L'invasione dell'Austria-Ungheria da parte della Romania, Agosto
1916
La notte del 27 agosto, tre armate romene (Prima, Seconda ed Armata
del Nord), si dispiegarono secondo i piani (l'ipotesi "Z"),
attraversarono i Carpazi ed entrarono in Transilvania. Inizialmente
gli attaccanti incontrarono la sola opposizione della 1ª Armata
austro-ungarica, la quale fu spinta all'indietro verso l'Ungheria.
In un periodo di tempo relativamente breve, le città di Braşov,
Făgăraş e Miercurea Ciuc furono catturate e venne raggiunta la
periferia di Sibiu. Nelle aree abitate da romeni, le truppe
attaccanti furono caldamente accolte dalla popolazione, che fornì
loro aiuti considerevoli sotto forma di rifornimenti, rifugio e
orientamento. Comunque, la rapida avanzata romena allarmò le Potenze
Centrali, e cospicue forze tedesche cominciarono a giungere sul
posto. Gli austro-ungarici inviarono a loro volta quattro divisioni
a rinforzo delle proprie linee, ed entro la metà di settembre
l'offensiva fu arrestata. I russi inviarono tre proprie divisioni in
appoggio alle operazioni nella Romania settentrionale, ma scarsi
rifornimenti.
Mentre l'esercito romeno avanzava in Transilvania, il generale
August von Mackensen lanciò il primo contrattacco, guidando una
forza multinazionale composta dalla 3ª Armata bulgara, una brigata
tedesca e due divisioni del VI Corpo d'armata ottomano, che giunsero
in Dobrugia dopo l'inizio dei primi scontri.11 Questa forza attaccò
a nord della Bulgaria a partire dal 1º settembre, mantenendosi sul
lato sud del Danubio e dirigendosi verso Costanza. La guarnigione
romena di Turtucaia, accerchiata da truppe bulgare e da una colonna
di truppe tedesche, si arrese il 6 settembre (vedi: Battaglia di
Turtucaia). La 3ª Armata romena eseguì ulteriori tentativi di
resistere all'avanzata nemica a Silistra, Bazargic, Amzacea e
Topraisar, ma dovette ritirarsi sotto la pressione di superiori
forze nemiche. Il successo di Mackensen fu favorito dal fatto che
gli Alleati non poterono assolvere agli obblighi assunti con la
convenzione militare, in virtù della quale avrebbero dovuto
allestire un'offensiva sul fronte macedone, e che i russi
schierarono un numero insufficiente di truppe sul fronte romeno
meridionale.
Il 15 settembre, il Consiglio di Guerra romeno decise di sospendere
l'offensiva in Transilvania e di dedicarsi invece alla distruzione
dell'armata di Mackensen. Il piano (la cosiddetta offensiva
Flămânda) era di attaccare le retrovie delle Potenze Centrali
attraversando il Danubio a Flămânda, mentre le forze romene e russe
poste sul fronte avrebbero dovuto lanciare un'offensiva in direzione
sud verso Cobadin e Kurtbunar. Il 1º ottobre, due divisioni romene
attraversarono il Danubio a Flămânda e crearono una testa di ponte
larga 14 chilometri e profonda 4. Lo stesso giorno, le divisioni
romene e russe attaccarono sul fronte della Dobrugia, ma con poco
successo. Tale fallimento, insieme ad una forte tempesta nella notte
tra il 1 ed il 2 ottobre, la quale danneggiò fortemente il ponte di
barche, persuase il generale Alexandru Averescu a cancellare
l'intera operazione. Questa decisione avrebbe avuto serie
conseguenza sul prosieguo della campagna.
I rinforzi russi, comandati dal generale Andrej Zajončkovskij
riuscirono a fermare l'armata di Mackensen prima che questa potesse
tagliare la linea ferroviaria che collegava Costanza con Bucarest. I
combattimenti furono furiosi, e videro attacchi e contrattacchi da
ambo le parti fino al 23 settembre.
La controffensiva delle Potenze Centrali (settembre–dicembre 1916)
Il comando generale passò a Falkenhayn (recentemente rimosso
dall'incarico di capo di Stato Maggiore tedesco) che iniziò il
proprio contrattacco il 18 settembre. Il primo attacco fu portato
contro la 1ª Armata romena nei pressi della città di Haţeg, e fermò
l'avanzata dell'intero schieramento avversario. Otto giorni dopo,
due divisioni di truppe da montagna riuscirono quasi a tagliare
fuori una colonna romena che avanzava nei pressi di Nagyszeben
(l'odierna Sibiu). Sconfitti i romeni si ritirarono sulle montagne e
le truppe tedesche catturarono il passo di Turnu Roşu. Il 4 ottobre,
la 2ª Armata romena attaccò gli austro-ungarici a Brassó (l'odierna
Braşov) ma fu respinta e costretta alla ritirata dal successivo
contrattacco avversario. La 4ª Armata romena, operante nel nord del
paese, si ritirò senza subire pressioni eccessive da parte degli
austro-ungarici, e di conseguenza tutte le truppe romene rientrarono
nei propri confini entro il 25 ottobre.
Il contrattacco delle Potenze Centrali, settembre-ottobre 1916
Tornato sulla costa, il generale Mackensen lanciò una nuova
offensiva il 20 ottobre, dopo un mese di accurati preparativi, e le
sue truppe sconfissero lo schieramento russo-romeno comandato da
Zajončkovskij. Romeni e russi furono costretti a ritirarsi nei
pressi di Costanza (occupata dalle Potenze Centrali il 22 ottobre).
Dopo la caduta di Cernavodă, la difesa della parte di Dobrugia
ancora non occupata fu demandata ai soli russi, che furono
gradualmente respinti verso le paludi del delta del Danubio.
L'esercito russo era demoralizzato e quasi privo di rifornimenti.
Mackensen si sentì libero di ritirare in segreto metà delle sue
forze verso la città bulgara di Svištov la quale gli consentiva di
mantenere d'occhio il guado del Danubio.
Le forze di Erich von Falkenhayn effettuarono diversi attacchi di
prova contro i passi di montagna tenuti dall'esercito rumeno per
verificare se vi fossero punti deboli nelle difese avversarie. Dopo
diverse settimane, egli concentrò le sue truppe migliori (i reparti
d'élite Alpen Korps) a sud per effettuare un attacco contro il passo
Vulcan, cosa che avvenne il 10 novembre. All'attacco partecipò anche
il futuro Maresciallo di Campo Erwin Rommel, allora un giovane
tenente. L'11 novembre, Rommel guidò una compagnia da montagna del
Württemberg alla conquista del Monte Lescului. L'offensiva spinse
all'indietro i difensori romeni, che lasciarono le montagne e si
ritirarono in pianura entro il 26 novembre. Le montagne erano già
coperte di neve, e presto le operazioni sarebbero state rese
impossibili dall'arrivo dell'inverno. Ulteriori avanzate in altri
settori montagnosi, effettuate da parti della 9ª Armata di
Falkenhayn ridussero allo stremo l'esercito rumeno, la cui
situazione in termini di rifornimenti stava diventando critica.
Il 23 novembre, le truppe migliori di Mackensen attraversarono il
Danubio in due punti nei pressi di Svishtov. Questo attacco colse i
romeni di sorpresa, e le forze di Mackensen poterono avanzare
rapidamente verso Bucarest, incontrando debole resistenza. L'attacco
di Mackensen minacciava di tagliare fuori metà dell'esercito romeno
per cui il comandante supremo, generale Prezan) tentò un disperato
contrattacco ai danni delle truppe di Mackensen. Il piano era
ardito, prevedendo l'uso di tutte le riserve dell'esercito romeno,
ma aveva bisogno della cooperazione delle divisioni russe per
contenere l'offensiva di Mackensen mentre le riserve romene si
incuneavano nella breccia tra Mackensen e Falkenhayn. Comunque,
l'esercito russo non aderì al piano e non supportò l'attacco.
Il 1º dicembre, l'esercito romeno lanciò la propria offensiva.
Mackensen fu abile nel manovrare le proprie forze per affrontare
l'improvviso attacco, e le truppe di Falkenhayn contrattaccarono
punto su punto. Entro tre giorni, l'attacco romeno era stato
vanificato, causando una ritirata generale. La corte ed il governo
romeno ripararono a Iaşi. Bucarest fu conquistata il 6 dicembre
dalla cavalleria di Falkenhayn. Solo le piogge insistenti e le
strade impraticabili salvarono i resti dell'esercito romeno; più di
150.000 soldati furono catturati dai tedeschi.
I russi furono costretti ad inviare diverse divisioni sul confine
per prevenire l'invasione della Russia meridionale. L'esercito
austro-ungarico, dopo diversi scontri, si attestò sulle proprie
posizioni entro la metà di gennaio 1917. L'esercito romeno
combatteva ancora, ma metà della Romania era sotto l'occupazione
tedesca.
Le perdite romene assommarono a circa 250.000 (prigionieri inclusi),
mentre quelle tedesche, austriache, bulgare ed ottomane si
aggirarono intorno ai 60.000 uomini.
La campagna del 1917
I combattimenti continuarono nel 1917, quando la Romania
nordorientale rimase indipendente a causa della cosiddetta strategia
a triangolo, secondo la quale la 4ª Armata (sfuggita alla
distruzione grazie alle condizioni meteo di cui sopra), rimase sulle
montagne della Moldavia a protezione di Iaşi nei confronti delle
ripetute offensive tedesche. Furono effettuati numerosi tentativi
per ricostruire l'esercito romeno fortemente indebolito. Ferdinando
I di Romania ed il governo romeno insisterono per effettuarli in
Moldavia e non in Ucraina, come suggerito dai russi. Francia e Regno
Unito offrirono un supporto significativo: 150.000 fucili, 2.000
mitragliatrici, 1.300.000 granate e 355 pezzi di artiglieria
arrivarono da occidente, ed una missione militare francese, forte di
1.600 uomini e comandata dal generale Henri Mathias Berthelot,
soprannominato "taica Bertălău"12 dai romeni, supervisionò il
processo ed aiutò a riaddestrare le truppe romene. Entro la tarda
primavera, gli effettivi dell'esercito romeno salirono a 400.000
uomini, organizzati in 15 divisioni di fanteria e 2 di cavalleria, a
loro volta suddivise in due armate e 5 corpi d'armata. L'aviazione
romena fu organizzata in 12 squadriglie. La presenza russa sul
fronte romeno ammontava a 1.000.000 di uomini.13
Nel maggio 1917, le forze russo-romene passarono all'attacco per
supportare l'offensiva Kerenskij. La performance dell'esercito
romeno migliorò fortemente in questo periodo. Dopo essere riusciti a
spezzare il fronte austro-ungarico durante la Battaglia di Mărăşti,
russi e romeni dovettero arrestare la propria avanzata a causa
dell'esito disastroso dell'offensiva Kerenskij. Mackensen a questo
punto lanciò un contrattacco a Mărăşeşti, e nello stesso tempo le
forze tedesche furono sconfitte ad Oituz. Tutte insieme, queste
operazioni rappresentarono un importante successo per la Romania,
dato che i territori non occupati rimasero liberi.
Quando i bolscevichi conquistarono il potere in Russia e firmarono
il trattato di Brest-Litovsk, la Romania rimase isolata e circondata
dalle Potenze Centrali e non ebbe altra scelta che negoziare un
armistizio, che fu firmato il 9 dicembre 1917 a Focşani.
Conseguenze
Trattato di Bucarest
Il 7 maggio 1918, ed alla luce della corrente situazione
politico-militare, la Romania fu costretta a concludere il Trattato
di Bucarest con le Potenze Centrali.
I tedeschi riuscirono a riparare i giacimenti petroliferi intorno a
Ploieşti ed entro la fine della guerra estrassero un milione di
tonnellate di petrolio. Inoltre, requisirono due milioni di
tonnellate di grano ai contadini romeni. Queste risorse furono
vitali nel mantenere la Germania in guerra fino alla fine del
1918.14
La Romania rientra in guerra, novembre 1918
Dopo la vittoriosa offensiva sul fronte di Salonicco, che mise la
Bulgaria fuori dal conflitto, la Romania rientrò in guerra il 10
novembre 1918, il giorno prima della cessazione delle ostilità sul
fronte occidentale.
Il 28 novembre 1918, i rappresentanti romeni della Bukovina votarono
l'annessione al regno di Romania, atto seguito dalla proclamazione
dell'unione della Transilvania alla Romania, avvenuta il 1º dicembre
1918 ad Alba Iulia. I rappresentanti dei Sassoni della Transilvania
approvarono l'atto il 15 dicembre durante un'assemblea tenutasi a
Mediaş.
Il trattato di Versailles riconobbe la validità di queste
proclamazioni nell'ambito del diritto all'autodeterminazione dei
popoli (vedi i quattordici punti di Woodrow Wilson). L'articolo 259
del medesimo trattato prevedeva tra l'altro che la Germania
rinunciasse a tutti i benefici acquisiti attraverso il trattato di
Bucarest del 1918.15
Il controllo romeno della Transilvania, dove abitavano circa
1.662.000 ungheresi, fu molto mal digerito dalla neonata Ungheria
indipendente. Per questo motivo, nel 1919 fu combattuta la guerra
Ungaro-Romena tra la Repubblica sovietica ungherese ed il Regno di
Romania. Quest'ultimo fu appoggiato dagli eserciti serbo e
cecoslovacco, la qual cosa consentì l'assalto all'Ungheria da tutti
i lati, e terminò con una parziale occupazione del suo territorio.
L'ammiraglio Horthy fu successivamente nominato reggente d'Ungheria
dai romeni.
Analisi militare della campagna
La controffensiva del 1916 fu un'impresa di rilievo da parte
dell'esercito tedesco e dei generali Falkenhayn e Mackensen.16
Sebbene l'esercito romeno abbia conseguito diverse vittorie tattiche
durante quell'anno, esse non furono sufficienti ad arrestare
l'avanzata delle Potenze Centrali. Le truppe tedesche, in
particolare, erano meglio addestrate ed equipaggiate, il che diede
loro un vantaggio decisivo in combattimento. Nonostante ciò i
tedeschi rappresentarono solo il 22% delle forze delle Potenze
Centrali, mentre quelle austro-ungariche erano il 46% e quelle
bulgaro-ottomane il 32%.17
Alcune fonti sostengono che, la Romania entrò in guerra al momento
sbagliato, dato che un'eventuale entrata a fianco degli Alleati nel
1914 o 1915 avrebbe scongiurato la conquista della Serbia. Le stesse
fonti sostengono che un'entrata nel 1916 avrebbe permesso il
successo dell'offensiva Brusilov, ed individuano nella mutua
sfiducia tra Russia e Romania, nonché nella scarsa performance delle
truppe russe in Dobrugia le cause della sconfitta.
Vincent Esposito sostiene che l'alto comando romeno fece una serie
di gravi errori strategici ed operativi:
Militarmente, la strategia romena non avrebbe potuto essere
peggiore. Scegliendo la Transilvania come obiettivo iniziale, si
trascurò la presenza dell'esercito bulgaro alle proprie spalle.
Quando l'avanzata sulle montagne fallì, l'alto comando rifiutò di
economizzare le forze su quel fronte per creare una riserva mobile
da opporre alle successive offensive di Falkenhayn. Infine, i romeni
non concentrarono in alcun luogo le proprie forze, perdendo in
potenza di combattimento.18
Il fallimento sul fronte romeno da parte dell'Intesa fu anche il
risultato di numerosi fattori al di là del controllo romeno. Il
fallimento dell'offensiva di Salonicco non consentì alla Romania di
raggiungere gli obiettivi di "sicurezza garantita" nei confronti
della Bulgaria.19 Questo risultò essere un decisivo punto debole nei
confronti della capacità romena di portare un'efficace offensiva in
Transilvania, dato che si rese necessario dirottare una parte delle
truppe sul fronte della Dobrugia.20 Inoltre, i 200.000 soldati russi
inizialmente previsti come rinforzi non si materializzarono mai.21
Rivoluzione
d'ottobre
Data
7-8 novembre 1917
Luogo
Repubblica russa
Con rivoluzione d'ottobre si intende la sollevazione rivoluzionaria
per opera dei bolscevichi contro il governo provvisorio della
Repubblica Russa guidato dal menscevico Kerenskij.
Dopo il tentativo controrivoluzionario di Kornilov, sventato
dall'azione degli operai di PietrogradoWikipedia:Uso delle fonti e
dalle unità militari della guarnigione della città, i bolscevichi si
convincono che bisogna stringere i tempi per realizzare il passaggio
del potere dal governo provvisorio, nato dalle giornate di febbraio
ed emanazione della proprietà terriera e della borghesia
industrialeWikipedia:Uso delle fonti, ai soviet, rappresentanti le
masse operaie e contadineWikipedia:Uso delle fonti. Nel settembre
1917 la diffusione dei soviet nella Russia è disomogenea e comunque
le due componenti, operaia e contadinaWikipedia:Uso delle fonti,
rimangono ancora separate. Nei soviet degli operai e soldati (che
provengono per la stragrande maggioranza dalle campagne) che si
vanno formando nelle città i bolscevichi vedono aumentare
costantemente la loro influenza mentre i soviet contadini sono
saldamente nelle mani dei socialrivoluzionari.
Il 15 settembre 1917 Lenin, ancora nascosto a Helsinki in Finlandia
dopo il fallito tentativo rivoluzionario di luglio, scrive al
Comitato Centrale del partito affinché venga iniziata la
preparazione del passaggio dei poteri ai soviet. Lenin rientra in
segreto a Pietrogrado il 10 ottobre, grazie all'intervento dei
servizi segreti dell'Impero tedesco che lo appoggiano in previsione
di una uscita della Russia dalla guerra, e vince le ultime
resistenze interne al proprio partito sull'insurrezione. Solo
Zinov'ev e Kamenev ritengono azzardata la mossa e consigliano di
aspettare l'apertura dell'Assemblea Costituente, apertura che il
governo di Kerenskij ha fissato, dopo numerosi rinvii, al 28
novembre. Lenin è convinto che il momento sia propizio non solo per
la Russia ma anche per le altre nazioni europee che, sempre secondo
il dirigente bolscevico, la guerra sta spingendo in una fase
pre-rivoluzionaria. Il 12 ottobre viene creato il Comitato militare
rivoluzionario con sede nell'Istituto Smol'nyj, che ha il compito di
dirigere l'insurrezione; a presiederlo viene chiamato Trotsky. Il
Comitato può contare, a Pietrogrado, su circa dodicimila Guardie
Rosse, trentamila soldati della guarnigione e sugli equipaggi delle
navi della flotta del BalticoWikipedia:Uso delle fonti. Il governo
provvisorio dispone, in città, di settecento allievi ufficiali e di
un battaglione femminile.Wikipedia:Uso delle fonti
La rivoluzione d'Ottobre
L'insurrezione prende il via la sera del 6 novembre (24
ottobre del calendario giuliano in uso al tempo nell'impero russo):
la sera vengono occupate prima tutte le tipografie; la notte del
giorno dopo 7 novembre (25 ottobre) i punti più importanti di
Pietrogrado: poste, telegrafi, stazioni ferroviarie, banche,
ministeri. Il governo provvisorio praticamente cessa di esistere
senza alcuna resistenza. Kerenskij fugge verso il fronte e gli altri
ministri si rinchiudono nel Palazzo d'Inverno, che verrà attaccato
alle 21.45 e definitivamente conquistato alle 2 del mattino dopo (8
novembre/26 ottobre).
La sera del 7 novembre (25 ottobre del calendario giuliano) si
riunisce il Secondo Congresso dei Soviet, ed è a questo organo che i
bolscevichi consegnano il potere appena conquistatoWikipedia:Uso
delle fonti. Quella notte la discussione prosegue senza sosta ed
alle due del mattino dell'8 novembre, mentre si arrendono le ultime
sacche di resistenza nel Palazzo d'Inverno, viene decretato il
passaggio del potere ai soviet. Come primo atto il congresso rivolge
a operai soldati e contadini un proclama in cui afferma che il
governo sovietico, in via di creazione, avrebbe offerto ai tedeschi
la pace immediata ed avrebbe consegnato la terra ai contadini
Nei giorni che seguono, mentre la rivoluzione si diffonde e si
scontra con i primi tentativi di resistenzaWikipedia:Uso delle
fonti, viene organizzato il primo governo sovietico che prende il
nome di Soviet dei commissari del popoloWikipedia:Uso delle fonti, o
Sovnarkom. Alla presidenza va Lenin, Trotsky agli Esteri, gli altri
incarichi vanno ad altri membri del partito bolscevico, tra cui
Stalin al quale viene affidata la commissione per le questioni delle
nazionalità. Il 15 novembre (2 novembre del calendario giuliano) il
governo sovietico subisce un rimpasto in seguito all'ingresso dei
socialrivoluzionari di sinistra, con Kolegaev che diviene
commissario del popolo per l'Agricoltura.
Una delle più dettagliate e avvincenti cronache dei giorni della
Rivoluzione d'Ottobre è contenuta nell'opera I dieci giorni che
sconvolsero il mondo, opera del giornalista americano John Reed.
Il resto della Russia
A Mosca la rivoluzione inizia il 26 ottobre (calendario giuliano: 8
novembre del calendario gregoriano) e gli scontri si concludono solo
il 2 novembre con la resa del Cremlino.Wikipedia:Uso delle fonti Nel
frattempo Kerensky ha raggiunto il comando dell'esercito, la Stavka,
e da lì cerca di organizzare una controffensiva. Tutto quello che
riesce a riunire sono circa ventimila cosacchi che affida al
generale Krasnov.Wikipedia:Uso delle fonti Una parte di questi si
sbanda o si unisce alle truppe del governo sovieticoWikipedia:Uso
delle fonti; il resto viene sconfitto a Pulkovo dalle Guardie
RosseWikipedia:Uso delle fonti. Kerensky, a questo punto, fugge in
Inghilterra.Wikipedia:Uso delle fonti Nel resto della Russia la
rivoluzione si diffonde in modo non uniforme ma a seconda dei
rapporti di forza locali.Wikipedia:Uso delle fonti I bolscevichi non
hanno potuto definire un piano concertato per la rivoluzione in
tutto il resto del paese e si affidano, almeno in parte, allo
spontaneismo, convinti che l'esempio di Pietrogrado, e poi di Mosca,
faccia da motore.
Bibliografia
• Ettore Cinnella, La
Tragedia della Rivoluzione Russa (Storia Universale, Corriere della
Sera).
• David Mandel, The
Petrograd workers and the Fall of the Old Regime, London, 1990.
• John Reed, I dieci giorni che
sconvolsero il mondo, Edizioni Clandestine, 2011 [1919].
• Lev Trotsky, Dalla
Rivoluzione d'Ottobre al trattato di pace di Brest-Litowsk, Milano,
Avanti!, 1919.
Trattato
di Brest-Litovsk
Trattato di Brest-Litovsk
Il trattato di Brest-Litovsk fu un trattato di pace stipulato
tra la Russia e gli Imperi centrali il 3 marzo 1918 in Bielorussia,
presso la città di Brėst (un tempo conosciuta come "Brest-Litovsk").
Esso sancì la vittoria degli Imperi centrali sul Fronte orientale, e
l'uscita della Russia dalla Prima guerra mondiale. Anche se la fine
della guerra portò a esiti diversi rispetto a quanto previsto dal
trattato, esso fu, seppur non intenzionalmente, di fondamentale
importanza nel determinare l'indipendenza di Finlandia, Estonia,
Lettonia, Lituania e Polonia.
La pace "giusta e democratica"
Uno dei primi atti del nuovo governo nato nelle giornate della
rivoluzione d'ottobre fu la proposta rivolta a tutti i belligeranti
di un immediato armistizio generale per giungere entro breve tempo
ad una conferenza per una pace "giusta e democratica".
Tutte le
iniziative che il governo bolscevico prende riguardo alla guerra
subito dopo la rivoluzione per essere comprese devono essere
inquadrate nella convinzione, di Lenin e di quasi tutti gli altri
dirigenti, che la rivoluzione mondiale (o almeno europea) è ormai
imminente.
Comunque nessuno degli altri belligeranti, tranne la Germania, dà
segno di aver ricevuto la proposta russa e quindi il nuovo governo
procede in modo autonomo e nel dicembre del 1917 concorda con la
Germania un armistizio e l'apertura di trattative di pace. La
Germania da parte sua ha tutto l'interesse a trarre dalla situazione
russa tutti i vantaggi possibili. Le richieste che sono avanzate
durante le trattative sono sempre a svantaggio della Russia anche
utilizzando il concetto di "autodeterminazione dei popoli" che fa
parte dei primi pronunciamenti del governo dei Commissari del
Popolo.
La situazione al fronte
Per comprendere appieno i fatti che seguono è necessario avere
almeno una visione complessiva dello stato dell'esercito russo nel
1917. Al momento della rivoluzione d'ottobre la Russia ha sotto le
armi quasi dieci milioni di uomini, nella stragrande maggioranza di
provenienza contadina, di cui circa sei milioni distribuiti sui vari
fronti. Si tratta di un esercito in via di dissoluzione dove le
diserzioni sono un fenomeno quotidiano. I soldati, insieme agli
operai dell'industria bellica, sono uno dei pilastri della
rivoluzione che hanno appoggiato proprio in nome della pace e della
speranza di poter ricevere, al ritorno a casa, quella terra che è
sempre stato il sogno dei contadini russi.
L'importanza del fronte orientale è andata diminuendo per tutto il
1917 permettendo agli Imperi Centrali di distoglierne truppe da
inviare in rinforzo ad altri fronti di maggior rilevanza
(l'offensiva austriaca sul fronte italiano dell'autunno 1917 è una
diretta conseguenza di ciò). Una delle prime decisioni del nuovo
governo russo riguardo all'esercito è l'abolizione di tutti i gradi
e l'elezione dei comandanti da parte dei soldati in modo da togliere
potere alla "casta" degli ufficiali, tutti di estrazione nobile o
borghese e quindi potenzialmente nemici della rivoluzione
proletaria.
Le condizioni per la pace
Le condizioni che la Germania pone per la pace sono molto
pesanti e per nulla "democratiche", con grosse perdite territoriali,
sia per cessione diretta alla Germania sia per concessione
dell'indipendenza, come nel caso dell'Ucraina, dove la Rada
(controllata dai latifondisti) aveva stipulato un accordo di pace
separato. Da parte russa le trattative sono condotte inizialmente da
Trotzky che sfrutta tutta la sua capacità di eloquenza nel tentativo
di non cedere alle richieste della Germania.
La crisi arriva il 27 gennaio 1918 (calendario giuliano) quando la
Germania pone il diktat sulla firma della pace. Tra i bolscevichi le
posizioni sono diverse e contrastanti: la sinistra, appoggiata anche
dai socialisti-rivoluzionari di sinistra propone di non accettare e
di portare ad oltranza la guerra rivoluzionaria facendo appello alle
masse dei paesi occidentali affinché aderendo anch'esse alla
rivoluzione pongano fine all'aggressione imperialista; questa tesi
ha in Nikolai Bucharin il maggior sostenitore.
Anche Lev Trotsky è contrario alla pace alle condizioni del diktat
ma vede una via d'uscita nel rifiuto unilaterale di combattere da
parte della Russia. Secondo questa visione i generali tedeschi
sarebbero stati impossibilitati a continuare la guerra a causa
dell'opposizione interna. Solo Lenin ritiene che la pace vada
firmata ad ogni costo.
Le condizioni per la Russia sono durissime: oltre a dover pagare una
cospicua indennità di guerra (circa sei milioni di marchi), perde la
Polonia Orientale, la Lituania, la Curlandia, la Livonia, l'Estonia,
la Finlandia, l'Ucraina e la Transcaucasia; complessivamente la pace
di Brest-Litovsk strappa alla Russia 56 milioni di abitanti (pari al
32% della sua popolazione) e la priva di un terzo delle sue strade
ferrate, del 73% dei minerali ferrosi, dell'89% della produzione di
carbone1 e di 5.000 fabbriche.
La pace di Brest-Litovsk
Il 28 gennaio (10 febbraio) è proprio Trotsky ad annunciare la
decisione russa di non combattere più e di smobilitare l'esercito.
In risposta a ciò il 18 febbraio (calendario gregoriano - dal
1º febbraio giuliano la Russia adotta il calendario gregoriano)
l'esercito tedesco riprende l'avanzata sfondando le sguarnite linee
russe.
Malgrado eroici tentativi di difesa da parte di reparti di volontari
appena costituiti la situazione è disperata e Lenin ottiene, dietro
minaccia di dimissioni, l'autorizzazione dal Comitato Centrale del
Partito Bolscevico a firmare la pace, nonostante le nuove condizioni
siano ancora più gravose delle precedenti: cessione di Estonia e
Lettonia oltre a tutti i territori occupati dalle truppe tedesche,
riparazioni economiche e cessioni all'Impero Ottomano nella
Transcaucasia, la pace viene firmata a Brest-Litovsk nel marzo 1918.
Conseguenze della pace
La storiografia sovietica ha definito quella firmata a
Brest-Litovsk una "pace imperialista", poiché nega uno dei principi
enunciati coi decreti dell'ottobre, quello sull'autodeterminazione
dei popoli. In effetti, ferme restando le ingerenze tedesche a
livello locale, è una pace che vede la fine dell'impero russo e
delle spinte imperialistiche che i soviet avevano ereditato. Con il
trattato ha inizio il processo di affrancamento dei vari popoli
oppressi dall'imperialismo russo.Wikipedia:Uso delle fonti
L'Ucraina è occupata dall'esercito tedesco che installa un governo
fantoccio con la funzione di coprire il prelievo di materie prime e
grano necessari per lo sforzo bellico tedesco ad occidente. In
Finlandia, che aveva ottenuto l'indipendenza dall'ottobre 1917 i
tedeschi inviano truppe in appoggio ad una controrivoluzione che
rovescia il governo socialdemocratico. Anche in Lituania ed Estonia
ai governi dei soviet ne vengono sostituiti altri appoggiati
direttamente dall'esercito tedesco. La Bessarabia viene annessa alla
Romania mentre l'Impero Ottomano occupa porzioni di territorio nella
regione transcaucasica (Ardahan, Kars, Batumi).
In ogni caso, il trattato di Versailles cancellerà Brest-Litovsk, e
richiamerà in patria le truppe tedesche che si trovano nei nuovi
stati nati dalla fine dell'impero russo, lasciando queste nazioni
nel caos della guerra civile russa.
Bibliografia
• Ennio Di Nolfo,
Storia delle Relazioni Internazionali, Bari, Laterza, 2000. ISBN
88-420-6001-1
Battaglia
di Caporetto
Data
24 ottobre - 12 novembre 1917
Luogo
Valle del fiume Isonzo nei pressi di Caporetto, oggi in Slovenia
La battaglia di Caporetto, o dodicesima battaglia dell'Isonzo,
(in tedesco Schlacht von Karfreit, o zwölfte Isonzoschlacht) venne
combattuta durante la prima guerra mondiale tra il Regio Esercito
italiano e le forze austro-ungariche e tedesche.
Lo scontro, che iniziò alle ore 2:00 del 24 ottobre 1917,
rappresenta la più grave disfatta nella storia dell'esercito
italiano7, tanto che, non solo nella lingua italiana, ancora oggi il
termine Caporetto viene utilizzato come sinonimo di sconfitta
disastrosa.
Con la crisi della Russia dovuta alla rivoluzione, Austria-Ungheria
e Germania poterono trasferire consistenti truppe dal fronte
orientale a quelli occidentale e italiano. Forti di questi rinforzi,
gli austro-ungarici, con l'apporto di reparti d'élite tedeschi,
sfondarono le linee tenute dalle truppe italiane che, impreparate ad
una guerra difensiva e duramente provate dalle precedenti undici
battaglie dell'Isonzo, non ressero all'urto e dovettero ritirarsi
fino al fiume Piave.
La sconfitta portò alla sostituzione del generale Luigi Cadorna, che
aveva imputato l'esito infausto della battaglia alla viltà dei suoi
soldati, con Armando Diaz. Le unità italiane si riorganizzarono
abbastanza velocemente e fermarono le truppe austro-ungariche e
tedesche nella successiva prima battaglia del Piave riuscendo a
difendere ad oltranza la nuova linea difensiva.
Situazione generale
Le prime quattro offensive scatenate da Luigi Cadorna,
comandante supremo del Regio Esercito italiano, sull'Isonzo durante
la seconda metà del 1915, non portarono nessun cambiamento
sostanziale del fronte, ma solo la morte di numerosi soldati di
entrambi gli schieramenti, con gli italiani respinti ad ogni
tentativo di sfondare le linee nemiche. Così come sul fronte
occidentale, quindi, anche in Italia si riconfermò la caratteristica
fondamentale della prima guerra mondiale: la guerra di trincea.
Nel 1916 il capo di Stato Maggiore austro-ungarico Franz Conrad von
Hötzendorf ritirò parte dei suoi uomini dal fronte orientale,
ritenuto solido e relativamente tranquillo, per impiegarli il 15
maggio nella cosiddetta Strafexpedition (spedizione punitiva) contro
gli italiani, ma l'attacco non riuscì completamente e quindi vi fu
il ritorno ad una situazione di stallo. Cadorna era deciso però a
riprendersi i territori del Trentino e così, nella seconda metà del
1916, il Regio Esercito tentò di nuovo di sloggiare i nemici dalle
zone interessate, ma gli insuccessi portano il comandante italiano a
volgere nuovamente la sua attenzione all'Isonzo, dove i suoi uomini
riuscirono a prendere Gorizia costringendo gli austro-ungarici a
ripiegare nelle linee di difesa arretrate, da dove respinsero tutti
i successivi assalti degli avversari.
Nel maggio 1917 Cadorna riprese l'iniziativa ordinando il via della
decima battaglia dell'Isonzo, ma ancora una volta i risultati
ottenuti furono minimi in confronto alle vite umane perse per
conseguirli. Alla fine di luglio venne convocata a Parigi una
conferenza Alleata dove fu richiesto all'Italia di eseguire altre
due nuove offensive, il prima possibile, per alleggerire la
pressione sul fronte occidentale, ma Cadorna ne garantì solo una8
(undicesima battaglia dell'Isonzo), che finì in un nulla di fatto.
Tutte queste battaglie, come già detto, costarono ad entrambi gli
avversari ingenti perdite umane, ma per gli austro-ungarici la
situazione era più grave, essendo i loro effettivi circa il 40% in
meno di quelli italiani. Per loro fu quindi necessario chiedere la
collaborazione dei tedeschi, che risposero inviando al fronte alcune
unità di eccellenza e degli ottimi comandanti come il generale Otto
von Below ed il suo capo di Stato Maggiore Konrad Krafft von
Dellmensingen.
Terreno
I luoghi più significativi dove venne combattuta la battaglia di
Caporetto furono l'omonima conca, le valli del Natisone e il
massiccio del monte Colovrat.
La posizione di Caporetto (Kobarid in sloveno) è particolarmente
strategica dato che si trova all'incrocio tra il corso dell'Isonzo e
la valle che porta verso la pianura friulana. Durante la Grande
Guerra quindi la città funzionò da collegamento tra l'interno del
paese e la complessa organizzazione del IV Corpo d'armata, la grande
unità del Regio Esercito dispiegata tra la vallata e le montagne
sovrastanti. I paesi centrali rispetto ai settori in cui era divisa
l'ampia zona di combattimento del corpo d'armata ospitavano i
comandi di divisione (Dresenza Picco, Smasti, Saga) con tutti i
servizi aggregati dell'artiglieria, del genio militare e della
sanità, mentre quelli a pochi chilometri dalla prima linea
alloggiavano i comandi di brigata, le riserve e le truppe a riposo9.
Collocate nella parte più orientale della regione Friuli-Venezia
Giulia, le valli del Natisone collegano Cividale del Friuli alla
valle dell'Isonzo in Slovenia. Sono costituite dalla valle del
Natisone propriamente detta e da quelle percorse dai suoi affluenti,
l'Alberone, il Cosizza e l'Erbezzo. A nord sono dominate dal monte
Matajur, o monte Re, alto 1.641 m10.
La catena del Colovrat (Kolovrat in sloveno) è una lunga catena
montuosa caratterizzata da una serie di alture costituite dal monte
Podclabuz (Na Gradu-Klabuk) (1.114 m), dal monte Piatto (1.138 m) e
dal monte Nagnoj a quota 1.192, coincidente con la linea di confine
attuale fra Italia e Slovenia. Tale sistema di monti si eleva sopra
la valle tra Caporetto e Tolmino (Tolmin in sloveno) e nel maggio
1915 costituì uno dei punti di partenza delle truppe italiane verso
i territori dell'Impero austro-ungarico11.
Forze in campo
L'andamento del conflitto per l'Impero tedesco spinse Erich
Ludendorff, abile generale del Deutsches Heer, consigliato anche dal
colonnello Fritz von Loßberg, a rivalutare le tattiche difensive e
offensive da insegnare ai soldati impiegati al fronte. Riguardo alle
seconde, che più interessano lo scenario della disfatta di
Caporetto, vennero istituite ed addestrate le cosiddette
Sturmpatrouilen, squadre d'assalto formate da 11 uomini (sette
fucilieri, due portamunizioni e due addetti alle mitragliatrici) che
dovevano muoversi con missione di contrattacco12; così facendo si
affidava l'iniziativa al livello di comando più basso, accollando
alte responsabilità ai sottufficiali.
Già i francesi nel 1915 avevano sviluppato un concetto simile
prevedendo di impiegare groupes de tirailleurs, armati di bombe a
mano, mortai e fucili mitragliatori, contro postazioni di
mitragliatrici nemiche, avanzando in formazione allargata e
sfruttando ogni elemento del terreno a proprio vantaggio, ma non ci
furono prove pratiche e così i tedeschi, venuti a conoscenza di
queste idee, svilupparono le loro dottrine descritte sopra e le
introdussero nel 1917.
I vertici militari tedeschi capirono inoltre che la vita in trincea
era fisicamente e psicologicamente distruttiva per il soldato, così
si adoperarono per ridurre al minimo la permanenza in prima linea
delle truppe: un battaglione stava in linea mediamente 2 giorni su
1213.
Di tutti questi studi e innovazioni la Germania tenne sempre al
corrente l'Impero austro-ungarico, che non tardò a metterli
efficacemente in pratica nella battaglia di Flondar, nella battaglia
del Monte Ortigara e nell'undicesima battaglia dell'Isonzo,
avvalendosi soprattutto della "difesa elastica", altra novità dei
loro alleati mutuata da un'idea, rimasta tale, francese, consistente
in tre linee di difesa: la prima era occupata da poche forze, la
seconda era invece ben presidiata e fortificata, mentre la terza era
destinata alle riserve e alle truppe da lanciare in un eventuale
rapido contrattacco14.
L'impreparazione del Regio Esercito
Sotto il comando di Cadorna, dal maggio 1915 all'ottobre 1917,
il Regio Esercito si era notevolmente potenziato passando da un
milione a due milioni di uomini. Allo stesso tempo, era più che
triplicata l'artiglieria, il numero delle mitragliatrici era
aumentato e anche l'aviazione aveva beneficiato di un significativo
incremento15. Tutto questo però non fu seguito da un valido
addestramento o dall'elaborazione di nuove dottrine militari.
Alle innovazioni tedesche, l'Italia contrapponeva il classico schema
offensivo basato su una potente azione delle artiglierie seguita
dall'attacco dei fanti. Riguardo alla difesa invece, il Comando
Supremo aveva emanato poche direttive nel corso della guerra,
riguardanti più che altro l'uso dell'artiglieria. Anche il Regio
Esercito era disposto su tre linee di difesa ma, a differenza dei
loro nemici, i soldati erano ammassati in prima linea, mentre le
altre due erano scarsamente presidiate, dato che si riponevano le
speranze di spezzare l'attacco dell'avversario nell'artiglieria.
La differenza con la "difesa elastica" tedesca sta nel fatto che
questi accettavano il ripiegamento di qualche chilometro per
preparare meglio il contrattacco da lanciare nel momento in cui, non
più protetti dalle bocche da fuoco, i reparti nemici entravano in
crisi sotto il tiro avverso. Un altro elemento caratteristico
dell'esercito italiano era la sua eccessiva burocratizzazione:
mentre gli ordini tedeschi passavano solo attraverso i comandi di
divisione e di battaglione, in Italia si doveva passare per il corpo
d'armata, la divisione, la brigata, il reggimento e, infine, per il
battaglione.
Qualcosa comunque, anche se tardi e in misura limitata, venne fatta.
Il 29 luglio 1917 infatti furono creati a Manzano gli Arditi per
ordine del generale Capello, che pose il reparto alle dipendenze del
colonnello Giovanni Bassi. Questo provvedimento incise comunque in
misura minima nella battaglia di Caporetto, sia per il ridotto
numero di Arditi, sia perché il reparto era vocato prevalentemente
all'azione offensiva, con poca esperienza, come del resto l'intero
esercito, in ambito difensivo.
Ordini di battaglia
Germania e Impero austro-ungarico
Per quanto riguarda la 14ª Armata e le divisioni tedesche che vi
militavano, tre (la 1ª, la 50ª e la 55ª) già si trovavano nella zona
delle operazioni, mentre la 3ª Edelweiss e la 22ª Schützen vennero
fatte arrivare dal Trentino; queste unità, assieme all'Alpenkorps,
erano già avvezze alla guerra in montagna in quanto avevano
combattuto nei Vosgi, in Macedonia e nei Carpazi. La 12ª slesiana e
la 26ª dovettero invece essere addestrate a combattere nel nuovo
tipo di terreno, mentre la 4ª, la 5ª, la 13ª, la 33ª, la 117ª e la
200ª provenivano dal fronte orientale16.
A guardare solo gli elementi che entrarono in azione il 24 ottobre
(escluse le riserve e la divisione Jäger, che per molti giorni non
partecipò ai combattimenti), la forza complessiva degli
austro-ungarici-tedeschi era di 353.000 uomini, 2.147 cannoni e 371
bombarde17.
Italia
Sul fronte dell'Isonzo Cadorna aveva a sud (destra) la 3ª Armata
comandata dal duca d'Aosta costituita da quattro corpi d'armata, e a
nord (sinistra) la 2ª Armata, comandata dal generale Luigi Capello e
costituita da ben otto corpi d'armata. Lo sfondamento avvenne sul
fianco sinistro della 2ª Armata tra Tolmino e Plezzo. Tale parte di
fronte era presidiata a sud tra Tolmino e l'alta valle dello Judrio,
dalla 19ª Divisione del maggior generale Giovanni Villani18, dalla
brigata Puglie e dal X Gruppo alpini del XXVII Corpo d'armata di
Pietro Badoglio19, mentre a nord da Gabria fino a Plezzo dal IV
Corpo d'armata del tenente generale Alberto Cavaciocchi20. Incuneato
tra i due corpi d'armata ed in posizione più arretrata era stato
disposto molto frettolosamente anche il debole VII Corpo d'armata
comandato dal maggior generale Luigi Bongiovanni21.
Se si prendono in considerazione i soli reparti interessati
dall'offensiva di von Below e di Kosak, si trattava di 257.400
uomini appoggiati da 997 cannoni e 345 bombarde22.
Svolgimento della battaglia
Le fasi preparatorie
Quando gli austro-ungarici chiesero aiuto, il capo di Stato Maggiore
tedesco, Paul von Hindenburg, e il suo vice Erich Ludendorff,
acconsentirono ad inviare al fronte italiano il generale Konrad
Krafft von Dellmensingen per un sopralluogo, che durò dal 2 al 6
settembre 1917. Terminate le varie verifiche e dopo aver vagliato le
probabilità di vittoria, Dellmensingen tornò in Germania per
approvare l'invio degli aiuti, sicuro anche che la Francia, dopo il
fallimento della seconda battaglia dell'Aisne ad aprile, non avrebbe
attaccato23.
Mappa dell'avanzata austro-ungarico-tedesca in seguito alla ritirata
italiana
Già l'11 settembre Otto von Below fu posto a capo della nuova 14ª
Armata e fu nominato suo capo di Stato Maggiore lo stesso
Dellmensingen. Venne chiarita con l'alleato austriaco la strategia
da adottare: un primo sfondamento sarebbe dovuto avvenire a Plezzo,
con direzione Saga e Caporetto, per conquistare monte Stol e puntare
verso l'alto Tagliamento; contemporaneamente da Tolmino si sarebbe
dovuto risalire l'Isonzo fino a Caporetto, per imboccare la valle
del Natisone fino a Cividale del Friuli; un altro attacco frontale
sarebbe partito invece contro il massiccio dello Iessa per
impossessarsi successivamente di tutta la catena del Colovrat, da
cui era possibile dominare la valle dello Judrio, accerchiando
l'altopiano della Bainsizza e spingendosi fino al monte Corada24.
Gli spostamenti di truppa dovevano essere effettuati con la massima
segretezza e l'inizio delle operazioni era previsto per il 22
ottobre, ma alcuni ritardi di approvvigionamento posticiparono la
data alle 2:00 del 24.
Nel frattempo, il 18 settembre, Cadorna venne a sapere che il
generale russo Kornilov aveva fallito nel suo intento di ribaltare
il governo Kerenskij, favorevole ad un'uscita del suo paese dalla
guerra, e quindi, prevedendo uno spostamento di forze austriache e
tedesche verso altri fronti, ordinò tassativamente alla 2ª e alla 3ª
Armata di stabilire posizioni difensive. Il giorno dopo il duca
d'Aosta (capo della 3ª Armata) inoltrò l'ordine ai suoi uomini, ma
specificò di prepararsi al contrattacco se questo si fosse reso
necessario per prevenire le mosse del nemico, imitato in questo da
Capello (al vertice della 2ª Armata) il quale però, a differenza di
lui, non fece arretrare in misura ragionevole le artiglierie. Nel
frattempo la salute di quest'ultimo, precaria già da tempo,
peggiorò, e così il 4 ottobre il generale si ritirò in convalescenza
a Padova, lasciando al suo posto Luca Montuori, senza emanare alcuna
istruzione25. Cadorna si rese conto dell'errore di Capello solamente
il 18 ottobre, e il giorno seguente lo ricevette a Udine
ribadendogli di eseguire il suo ordine con più decisione e velocità,
mentre nel frattempo inviò due ufficiali presso Cavaciocchi e
Badoglio per un aggiornamento della situazione e per verificare la
necessità di inviare rinforzi, ma entrambi i comandanti risposero
che non ve ne era bisogno, data la loro fiducia di mantenere le
posizioni.
L'Ufficio I (il servizio di intelligence italiana del periodo)
intanto monitorava l'accrescersi degli eserciti avversari, e ne
teneva informato costantemente Cadorna, anche se non riuscì a
stabilire con certezza il luogo dell'offensiva, ipotizzando però che
sarebbe partita tra Plezzo e Tolmino, e così effettivamente fu. Il
20 ottobre un tenente boemo si presentò al comando del IV Corpo
d'armata con informazioni dettagliate sul piano d'attacco di von
Below, che per lui sarebbe iniziato, forse, sei giorni dopo. Il 21
ottobre due disertori rumeni informarono gli italiani che i loro ex
camerati avrebbero attaccato presto prima a Caporetto e poi a
Cividale del Friuli, specificando anche la preparazione di
artiglieria che avrebbe preceduto l'attacco26, ma i comandi italiani
non gli credettero. Il giorno successivo Cavaciocchi emanò
disposizioni per demolire i ponti sull'Isonzo facendo inoltre
spostare il comando a Bergogna; venne bombardato il comando della 2ª
Armata a Cormons, che si trasferì, dovendo ricollegare da zero tutte
le linee telefoniche, a Cividale del Friuli, e lo stesso fece
Badoglio stabilendosi a Cosi, da dove iniziò a trasmettere ordini
alle sue divisioni. Non è a conoscenza però che i tedeschi hanno di
nuovo individuato la sua posizione grazie alle intercettazioni
telefoniche, e hanno puntato, senza sparare, i cannoni sulle nuove
coordinate.
Il 23 ottobre Capello riprese il controllo della 2ª Armata mentre
continuarono ad essere avvistate truppe nemiche in lontananza. Alle
13:00 venne intercettata una comunicazione tedesca in cui si fissava
l'avvio dell'offensiva per le ore 2:00 del giorno dopo, così alle
14:00 Cadorna, Capello, Badoglio, Bongiovanni, Cavaciocchi e
Caviglia (XXIV Corpo d'armata) si riunirono per chiarire la
situazione, ma l'atmosfera fu positiva in quanto il brutto tempo
fece sperare in un rinvio dell'attacco nemico.
Lo sfondamento delle linee italiane
Alle 2:00 in punto del 24 ottobre 1917 le artiglierie
austro-germaniche iniziarono a colpire le posizioni italiane dal
monte Rombon all'alta Bainsizza alternando lanci di gas a granate
convenzionali, colpendo in particolare tra Plezzo e l'Isonzo con un
gas sconosciuto che decimò i soldati dell'87º Reggimento lì
dislocati27. Alle 6:00 il tiro cessò dopo aver causato danni
modesti, e riprese mezz'ora dopo stavolta contrastato dai cannoni
del IV Corpo d'armata, mentre quelli del XXVII, a causa
dell'interruzione dei collegamenti dovuta allo spezzarsi dei cavi
elettrici sotto il tiro delle granate (nessuna linea telefonica era
stata interrata o protetta in alcun modo, e alcune posizioni non
erano neanche collegate28) risultò caotico, impreciso e
frammentario. Nel frattempo i fanti di von Below, protetti dalla
nebbia, si avvicinarono notevolmente alle posizioni italiane, e alle
8:00, senza neanche aspettare la fine dei bombardamenti, andarono
all'assalto delle trincee italiane, salvo sul Passo della Moistrocca
e sul monte Vrata dove, a causa della bufera di neve che vi
imperversava, l'attacco venne rimandato di un'ora e mezza.
Metà della 3ª Edelweiss si scontrò con gli alpini del gruppo Rombon
che la respinsero, mentre l'altra metà, assieme alla 22ª Schützen,
riuscì a superare gli ostacoli nel punto dove era stato lanciato il
gas sconosciuto, ma vennero fermate dopo circa 5 km dall'estrema
linea difensiva italiana posta a protezione di Saga, dove stazionava
la 50ª Divisione del generale Giovanni Arrighi. Alle 18:00 questi,
per non vedersi tagliata la via della ritirata, evacuò Saga
ripiegando sulla linea monte Guarda - monte Prvi Hum - monte Stol,
lasciando sguarnito anche il ponte di Tarnova da dove avrebbero
potuto ritirarsi le truppe che verranno accerchiate sul monte Nero.
Di tutto questo Arrighi informerà Cavaciocchi solo alle 22:00. Nella
mattina intanto non ebbero successo la 55ª e la 50ª Divisione
austro-ungarica, arrestate fra l'Isonzo e il monte Sleme.
Non
riuscirono invece a tenere le posizioni la 46ª Divisione italiana e
la brigata Alessandria poste all'immediata sinistra della 50ª
Divisione austro-ungarica, e ne approfittò un battaglione bosniaco
che subito diresse per Gabria.
L'avanzatata decisiva che provocò il crollo delle difese italiane fu
effettuata dalla 12ª divisione slesiana del generale Arnold Lequis
che progredì in poche ore lungo la valle dell'Isonzo praticamente
senza essere vista dalle posizione italiane in quota sulle montagne,
sbaragliando durante la marcia lungo le due sponde del fiume una
serie di reparti italiani colti completamente di sorpresa.
L'avanzata dei tedeschi ebbe inizio a San Daniele del Carso, dove
cinque battaglioni della 12ª slesiana ebbero facilmente la meglio
sui reparti italiani scossi dal bombardamento, e subito iniziò la
loro progressione in profondità: alle 10:30 si trovavano a Idresca
d'Isonzo dove incontrarono un'inaspettata ma debole resistenza,
cinque ore dopo fu raggiunta Caporetto, alle 18:00 Staro Selo e alle
22:30 Robič e Creda29.
Nel frattempo, più a sud, l'Alpenkorps diventò padrone alle 17:30
del monte Podclabuz/Na Gradu-Klabuk30, mentre del massiccio dello
Jeza si occupò la 200ª Divisione, che conquistò la vetta alle 18:00
dopo aspri scontri con gli italiani, terminati del tutto solo a
mezzanotte. I tre battaglioni del X Gruppo alpini, aiutati anche dal
tiro efficace dell'artiglieria italiana, resistettero fino alle
16:00 agli undici battaglioni della 1ª Divisione austro-ungarica, ma
alla fine dovettero arrendersi e cedere il monte Krad Vhr. Nell'alta
Bainsizza, dove fu combattuta una guerra con i metodi "antiquati"
(cioè non applicando le novità tattiche introdotte dai tedeschi), il
Gruppo Kosak non ottenne alcun risultato, e la situazione andò quasi
subito in stallo.
Durante il primo giorno di battaglia gli italiani persero
all'incirca, tra morti e feriti, 40.000 soldati e altrettanti si
ritrovarono intrappolati sul monte Nero, mentre i loro avversari
6.000 o 7.00031. Nella mattina del 25 ottobre Alfred Krauß lanciò
l'attacco contro la 50ª Divisione ritiratasi il giorno precedente
attorno al monte Stol. Esauste e con poche munizioni, le truppe
italiane iniziarono a cedere alle 12:30 asserragliandosi sullo Stol,
e qui il generale Arrighi ordinò loro di ritirarsi, ma
improvvisamente giunse la notizia dalla 34ª Divisione di Luigi Basso
che il comando del IV Corpo d'armata aveva vietato ogni forma di
ripiegamento da lui non espressamente autorizzato.
I fanti della 50ª ritornarono quindi sui loro passi ma nel frattempo
la 22ª Schützen aveva preso possesso della cima dello Stol, da dove
respinsero ogni attacco dei fanti italiani, che ricevettero l'ordine
definitivo di ritirata da Cavaciocchi alle ore 21:00. Tra Caporetto
e Tolmino nel frattempo la brigata "Arno", arrivata in zona tre
giorni prima, stava difendendo il monte Colovrat e le creste
circostanti quando contro di loro mosse il battaglione da montagna
del Württemberg, assegnato di rinforzo all'Alpenkorps; il tenente
Erwin Rommel guidava uno dei tre distaccamenti in cui era stato
diviso il suo battaglione. Insieme a 500 uomini, il futuro
feldmaresciallo iniziò a scalare le pendici del Colovrat catturando
in silenzio centinaia di italiani presi alla sprovvista, mentre per
errore la Arno, anziché contro il monte Piatto, venne lanciata verso
il Na Gradu-Klabuk, già dal giorno prima saldamente in mano
all'Alpenkorps che dovette sostenere gli assalti italiani fino a
sera. Tornando a Rommel, i suoi uomini conquistarono senza troppe
fatiche il monte Nagnoj, dove presero posizione i cannoni tedeschi
che inizieranno a prendere di mira il monte Cucco di Luico, aggirato
da Rommel per non perdere tempo e preso nel pomeriggio da truppe
dell'Alpenkorps congiunte ad elementi della 26ª Divisione tedesca32.
Prigionieri italiani a Cividale
Una volta distrutta la brigata Arno, Rommel puntò contro il Matajur
dove stazionava la brigata "Salerno" del generale Zoppi, inquadrata
nella 62ª Divisione del generale Giuseppe Viora, rimasto ferito e
quindi sostituito proprio da Zoppi, che lasciò il suo posto al
colonnello Antonicelli. All'alba del 26 ottobre ad Antonicelli
giunse l'ordine da un tenente di abbandonare la posizione entro la
mattina del 27. Sorpreso per una ritirata ordinata ben un giorno
prima, il nuovo capo della Salerno chiese informazioni al
portaordini il quale disse che probabilmente si trattava di un
errore del comando di divisione, ma Antonicelli volle essere sicuro
e obbligò il tenente a ritornare con l'ordine corretto, ma quando
questo arrivò a destinazione Rommel nel frattempo aveva circondato
il Matajur33. Dopo duri scontri, la Salerno si arrese e Rommel
chiuse la giornata dopo aver avuto solo sei morti e trenta feriti a
fronte dei 9.150 soldati e 81 cannoni italiani catturati34.
Dall'Isonzo al Tagliamento
A questo punto Otto von Below, anziché arrestare la sua
offensiva, la prolungò in direzione del fiume Torre, Cividale del
Friuli, Udine e la Carnia. Contrariamente alle previsioni del
generale tedesco però, l'esercito italiano, anche se in preda al
caos, non era in completo sfacelo, e oppose in alcuni punti una
valida resistenza; inoltre la situazione delle artiglierie si era
parzialmente livellata tra i due schieramenti, in quanto gli
italiani le avevano perse nei primi giorni dell'offensiva, e gli
austro-tedeschi non riuscirono a farle stare al passo della rapida
avanzata delle loro fanterie. A detta del Generale Caviglia, alla
guida del XXIV Corpo d'armata, il successo di quel disordinato ma
cruciale ripiegamento oltre l'Isonzo era nelle mani di alcune unità
chiamate dalla riserva ad arginare la caduta. Così nelle sue memorie
del 26 e del 27 ottobre:
« La situazione più pericolosa è quella della destra del XXIV
Corpo (Brigata Venezia) a cavallo dell'Isonzo: dalla sua resistenza
dipende la sicurezza di tutti i Corpi d'armata, più a Sud. La sera
del 27, ritirai dalla sinistra dell'Isonzo sul Planina, tutta la
Brigata Venezia, perché già il II corpo, che essa proteggeva, era
tutto passato sulla destra dell'Isonzo. In presenza dei due
reggimenti abbracciai il loro Comandante Raffaello Reghini
[…]36 »
Cadorna, sin dalla mattina del 25 ottobre, passò al vaglio l'idea di
ordinare una ritirata generale, e ne discusse nel pomeriggio stesso
con Montuori, succeduto definitivamente a Capello a causa dei
continui malori di quest'ultimo. Avendo constatato l'impossibilità
di riprendere l'iniziativa, i due alti ufficiali diramarono l'ordine
di ritirata nella serata, ma dopo poco tempo Cadorna ebbe un
ripensamento e propose a Montuori di tentare una resistenza sulla
linea monte Kuk - monte Vodice - Sella di Dol - monte Santo -
Salcano. Il nuovo capo della 2ª Armata fu in totale disaccordo con
il suo superiore ma Cadorna pochi minuti dopo la mezzanotte fece
sapere alle truppe di disporsi sulla difensiva nelle posizioni da
lui indicate. La maggioranza delle postazioni comunque non tennero e
già il 27 ottobre il comandante supremo del Regio Esercito diede
disposizioni alla 2ª e 3ª Armata di riparare dietro il Tagliamento,
mentre alla 4ª Armata, in linea sul Cadore, disse di spostarsi sulla
linea di difesa ad oltranza del Piave. Senza troppi ostacoli
davanti, i tedeschi occuparono Cividale del Friuli il 27 ottobre e
Udine il giorno dopo (abbandonata in favore di Treviso da Cadorna)
marciando su un ponte che non era stato fatto saltare dai genieri
italiani37, e misero in serio pericolo da nord-ovest la 3ª Armata,
che era rimasta troppo a Oriente. I tedeschi comunque si accorsero
qualche ora troppo tardi della possibilità di accerchiamento, e
così, grazie anche all'inaspettata resistenza di alcune unità
italiane, il duca d'Aosta e le sue truppe riuscirono a mettersi in
salvo.
In generale la ritirata avvenne in una situazione caotica,
caratterizzata da diserzioni e fughe che sfoceranno in alcune
fucilazioni, mista ad episodi di valore e disciplina durante i quali
molti ufficiali inferiori, rimasti isolati dai comandi, acquisirono
notevole esperienza di un nuovo modo di fare la guerra, ora più
rapida. Un episodio tragico per i soldati italiani si verificò nei
ponti vicino a Casarsa della Delizia il 30 ottobre, quando soldati
tedeschi della 200ª Divisione piombarono sulle colonne di mezzi e
uomini che intasavano le strade facendo 60.000 prigionieri e
catturando 300 cannoni38. Più difficile fu invece infrangere le
posizioni italiane, sempre il 30 ottobre, a Mortegliano, Pozzuolo
del Friuli, Basiliano e alla frazione di Galleriano (in quest'ultima
località per l'inaspettata resistenza durata un giorno e mezzo della
Brigata Venezia del colonnello Raffaello Reghini3940), che
consentirono il ripiegamento in corso.
L'ultimo episodio di resistenza italiana sul Tagliamento iniziò,
anch'esso, il 30 ottobre presso il comune di Ragogna: gli
austro-ungarici, temporaneamente bloccati dal fuoco avversario, non
riuscirono ad impadronirsi dell'importante ponte di Pinzano al
Tagliamento, ma si riscattarono il 3 novembre quando attraversarono
il ponte di Cornino (una frazione di Forgaria nel Friuli) poco più a
nord, rimasto solamente danneggiato, e non distrutto del tutto,
dalle cariche esplosive dei genieri italiani.
La situazione politica italiana
Vittorio Emanuele Orlando, nominato Presidente del consiglio dei
ministri in seguito agli avvenimento di Caporetto
Mentre avveniva tutto questo, a Roma il 30 ottobre si formò il
Governo Orlando (dal nome del nuovo Presidente del consiglio dei
ministri, nonché Ministro dell'interno, Vittorio Emanuele Orlando)
per ordine del re Vittorio Emanuele III. Lasciato al suo posto
Sidney Sonnino (Ministro degli Esteri), Orlando sostituì invece il
Ministro della Guerra Gaetano Giardino con Vittorio Alfieri. La sera
stessa il nuovo Primo ministro telegrafò a Cadorna per esprimergli
il suo appoggio, ma in realtà, fin dal 28 ottobre, egli aveva
discusso con il Re e con Giardino di una sua possibile rimozione
dall'incarico a favore di Armando Diaz, allora capo del XXIII Corpo
d'armata della 3ª Armata41.
All'oscuro di tutto questo, Cadorna nella mattina del 30 ottobre
ricevette a Treviso il generale francese Ferdinand Foch per metterlo
al corrente degli avvenimenti, e lo stesso fece il giorno seguente
con il capo di Stato Maggiore Imperiale inglese William Robertson. I
due generali Alleati partirono qualche giorno dopo per partecipare
alla conferenza di Rapallo insieme al premier inglese David Lloyd
George, il Primo ministro francese Paul Painlevé, Sonnino, Orlando e
il sottocapo di Stato Maggiore italiano Carlo Porro (al posto di
Cadorna). L'argomento di discussione era l'invio di consistenti
aiuti al Regio Esercito per far fronte alla minaccia austro-tedesca,
ma i capi Alleati furono prudenti e concessero solo sei divisioni42.
Il 6 novembre si tenne una nuova riunione durante la quale venne
chiesto al generale Porro quante divisioni avessero impiegato i
tedeschi nelle operazioni, e questo rispose, attenendosi a quanto
impartito da Cadorna, indicando in circa una ventina il loro
numero43. Vista l'incredula reazione dei capi Alleati (i cui servizi
d'informazione stimavano correttamente che i tedeschi avevano
impiegato solo sette divisioni44), e sfruttando la decisione di
riunirsi nuovamente a Versailles, Orlando capì che era venuto il
momento di sostituire Cadorna, e lo fece in maniera
"diplomaticamente" abile: mentre Diaz lo avrebbe sostituito, lui
sarebbe dovuto andare a presiedere tale conferenza, cosicché non
sarebbe uscito del tutto dalla scena politico-militare del suo
Paese45.
La ritirata del Regio Esercito fino al fiume Piave
Una delle prime trincee scavate nell'argine destro del Piave
nell'ottobre - novembre 1917
Cadorna, venuto a sapere della caduta di Cornino il 2 novembre e di
Codroipo il 4, ordinò all'intero esercito di ripiegare sul fiume
Piave, sul quale nel frattempo si erano fatti significativi passi
avanti nell'impostazione di una linea difensiva proprio grazie agli
episodi di resistenza sul Tagliamento.
A questo punto von Below aveva fretta, sia per il timore di
ritornare ad una guerra di posizione, sia perché era cosciente che i
francesi e gli inglesi avrebbero inviato aiuti militari. I suoi
generali sfruttarono tutte le occasioni possibili per accerchiare le
truppe italiane in ritirata: a Longarone il 9 novembre furono
catturati 10.000 uomini e 94 cannoni appartenenti alla 4ª Armata del
generale Mario Nicolis di Robilant, e in un'altra occasione la 33ª e
63ª Divisione italiana consegnarono, dopo aver tentato di uscire
dall'accerchiamento, 20.000 uomini.
In pianura però gli austro-tedeschi non ebbero analogo successo e
molte unità italiane si riorganizzarono per raggiungere il Piave,
l'ultima delle quali vi si posizionò il 12 novembre. Dall'inizio
delle operazioni il 24 ottobre all'8 novembre i bollettini di guerra
tedeschi avevano contato un bottino di 250.000 prigionieri e 2.300
cannoni46.
Le cause della sconfitta italiana
Le cause della disfatta italiana a Caporetto sono già
desumibili dal testo, ma in questo paragrafo si fa un breve
riassunto, integrato da un altrettanto sommario accenno ai fatti,
con l'intento di focalizzare l'attenzione sui due motivi principali
che portarono il Regio Esercito a ritirarsi fino al Piave:
l'inettitudine dei vertici militari e il mancato uso
dell'artiglieria.
Gli errori degli alti ufficiali
Al di là delle responsabilità di singole piccole e medie unità, le
colpe maggiori di ordine strategico e tattico non possono che essere
attribuite in ordine al comando supremo (Cadorna), al comando
d'armata interessato (Capello), ed ai tre comandanti dei corpi
d'armata coinvolti (Cavaciocchi, Badoglio e Bongiovanni).
Sul piano generale, Cadorna ha la colpa di non aver sviluppato una
dottrina militare meglio aderente alle necessità della guerra di
posizione, con una propensione all'evitare le riunioni congiunte con
i comandi d'armata47. Sul piano riguardante la battaglia di
Caporetto invece, egli aveva disposto con un ordine del 18
settembre, a seguito di informazioni più o meno attendibili sulle
intenzioni nemiche e sul fallito colpo di stato in Russia di
Kornilov, che le sue armate sull'Isonzo si apprestassero in una
disposizione difensiva nelle migliori condizioni possibili.
Luigi Capello, avendo una visione più offensiva, credeva che in caso
d'attacco occorresse lanciare subito un'energica controffensiva, non
solo a fini tattici, come raccomandava Cadorna, ma anche a fini
strategici. Eseguì quindi solo parzialmente ed in ritardo gli
arretramenti del grosso delle truppe e delle artiglierie pesanti
sulla destra dell'Isonzo, richiesti dal suo superiore48. Bisogna
però osservare che tutte le disposizioni date da Capello furono
trasmesse, per conoscenza, anche al comando supremo e che Cadorna
non ebbe nulla da obiettare. A questo si aggiunge il fatto che
Capello, già costretto a letto da una nefrite agli inizi di ottobre,
nei giorni antecedenti l'attacco nemico dovette ricoverarsi in
ospedale, lasciando il comando interinale della 2ª Armata al
generale Luca Montuori, riprendendolo solo alle 22:30 del 22
ottobre. Il cambio al comando generò confusione in particolare lungo
la linea di congiunzione tra il XXVII ed il IV Corpo d'armata, i cui
reparti furono continuamente spostati. Lo stesso Cadorna si
allontanò per 15 giorni, poco convinto che il nemico avrebbe
effettivamente sviluppato un'offensiva di vasta portata, rientrando
al comando generale di Udine solo il 19 ottobre, dove si trovava
ancora nella sera del 24, convinto che l'azione nemica a Tolmino
fosse solo un diversivo per sviare l'attenzione dalla vera offensiva
che sarebbe partita più a sud, complice anche il caos e la mancanza
di collegamenti che regnava al fronte49.
Cavaciocchi, comandante del IV Corpo d'armata, non godeva della
stima di Cadorna per le sue scarse qualità di comandante, e non era
molto presente tra i suoi uomini; giudicò le sue linee forti e
migliorate, ma sarebbero state sfondate in tre ore, complice anche
il fatto che durante la notte i soldati di von Below strisciarono
vicino alle sue posizioni senza essere visti50. Egli ammassò le sue
truppe attorno al monte Nero anche a battaglia in corso, trovandosi
all'improvviso senza riserve. Cavaciocchi cadde in questo errore
anche "grazie" ai comandanti delle sue divisioni: Farisoglio (43ª
Divisione) credette di essere attaccato da un numero di forze
enormemente superiore a quello reale51; Amadei (a capo della 46ª
Divisione), nonostante disponesse di truppe sufficienti, alle 10:00
chiese rinforzi che intasarono i ponti di Caporetto e Idresca
d'Isonzo, per poi ordinare la ritirata quattro ore dopo; anche il
generale al comando della 50ª Divisione, Arrighi, fece richiesta per
ricevere rinforzi, ma poco dopo fece "dietrofront" giudicando di
riuscire a gestire la situazione con le truppe disponibili. In
seguito, raggiunto da voci riguardanti uno sfondamento austriaco
vicino alle sue posizioni, per evitare di essere accerchiato fece
ritirare i suoi uomini dietro la stretta di Saga, perdendo gran
parte delle artiglierie e abbandonando anche Tarnova.
Colonna di rifornimenti tedesca a Santa Lucia d'Isonzo
Il XXVII Corpo d'armata era invece guidato da Badoglio, anche lui
sicurissimo della preparazione delle sue truppe. Fu proprio da lui
che partì l'errore tattico più sconcertante compiuto sul suo fianco
sinistro, ovvero sulla riva destra dell'Isonzo, tra la testa di
ponte austriaca davanti a Tolmino e Caporetto: questa linea, lunga
pochi chilometri, costituiva il confine tra la zona di competenza
del suo reparto e quello di Cavaciocchi (riva sinistra) e,
nonostante tutte le informazioni indicassero proprio in questa linea
la direttrice dell'attacco nemico, la riva destra fu lasciata
praticamente sguarnita con piccoli reparti a presidiarla mentre il
grosso della 19ª Divisione e della brigata "Napoli" era arroccato
sui monti sovrastanti. Probabilmente in una giornata di tempo sereno
(con buona visibilità) la posizione in quota avrebbe consentito alla
19ª Divisione di dominare tutta la riva destra rendendo il corridoio
impercorribile ma, al contrario, il 24 in presenza di nebbia fitta e
pioggia, le truppe italiane non si accorsero minimamente del
passaggio dei tedeschi a fondovalle che catturarono senza combattere
le scarsissime unità italiane lì presenti52. In quota comunque, la
19ª Divisione resistette tenacemente per un giorno bloccando varie
volte gli attacchi delle truppe nemiche, ma alla fine fu costretta
ad arrendersi, e il suo comandante, generale Villani, si suicidò53.
Bongiovanni, capo del VII Corpo d'armata posto alle spalle del IV e
del XXVII e anche lui fiducioso di tener testa al nemico, avrebbe
dovuto sorreggere le difese avanzate, presidiare in seconda linea il
Colovrat e il Matajur, e condurre controffensive al momento più
opportuno54. Nei fatti però lo sfondamento a nord del IV Corpo
d'armata, e l'arrivo da sud dei tedeschi a Caporetto, rese nulla la
sua efficacia.
Uso improprio dell'artiglieria
L'artiglieria italiana, sebbene numerosa e ben rifornita55, non
aveva ricevuto un addestramento sufficiente, e nessuna differenza si
faceva sul suo uso offensivo e difensivo, infatti si chiedeva
semplicemente di disporre i cannoni il più avanti possibile per
aumentarne la gittata utile. Cadorna comunque, quando il 18
settembre 1917 ordinò ai suoi generali di predisporre le linee di
difesa, disse anche di arretrare in posizioni sicure le artiglierie,
ma il 10 ottobre cambiò idea e ordinò a Capello di lasciare i
piccoli calibri nelle trincee e i medi sulla Bainsizza, alterando di
fatto in misura irrilevante lo schieramento complessivo. È da
aggiungere anche che molti artiglieri non erano provvisti di fucili,
e non si era pensato a delle fanterie da porre a protezione delle
batterie di cannoni56.
L'attacco delle formazioni nemiche cominciò intorno alle ore 8:00
con uno sfondamento immediato sull'ala sinistra del XXVII Corpo
d'armata, occupato dalla 19ª Divisione, e sull'ala destra del IV
Corpo d'armata tra Tolmino e Caporetto. Le artiglierie italiane del
XXVII Corpo d'armata non risposero, per ordine esplicito, al tiro di
preparazione nemico. Poi, alle 6:00, quando iniziò il tiro di
distruzione, la risposta fu del tutto inefficace. La debole e
intempestiva risposta delle artiglierie italiane sul fronte del
XXVII Corpo d'armata è una delle ragioni accertate dello
sfondamento, ma il motivo per cui ciò avvenne è tutt'oggi fonte di
disquisizioni. Tra le cause ipotizzate, vi sono:
• Ignoranza dei comandi
italiani sull'uso difensivo delle artiglierie, in particolare nella
fase di risposta al fuoco nemico. L'avere ordinato più o meno
esplicitamente di non rispondere al tiro avversario (ore 2:00 - 6:00
del 24 ottobre) fu un grave errore anche se a parziale discapito dei
protagonisti è utile osservare che fino ad allora questa era la
regola di utilizzo delle artiglierie nell'esercito italiano. Secondo
le direttive di Cadorna le artiglierie medie e pesanti avrebbero
dovuto effettuare un tiro efficace sulle batterie nemiche e sui
punti di raccolta delle fanterie dall'inizio del bombardamento
nemico. Capello interpretò, in sintonia o meno con il volere di
Cadorna, per "inizio del tiro nemico" l'inizio del tiro di
distruzione, quello cioè che iniziò alle ore 6:00;
• Le condizioni meteo avverse
(nebbia, pioggia battente al mattino del 24 a valle e nevicate in
quota) impedirono alle prime ed alle seconde linee italiane di
scorgere in tempo l'avanzata delle fanterie nemiche e di conseguenza
di ordinare il tiro controffensivo con i piccoli e medi calibri,
mortai e bombarde divisionali. Bisogna osservare che i tedeschi
agirono esplicitamente con l'intento di fare meno rumore possibile
ed in effetti la maggior parte dei soldati italiani di prima linea
vennero catturati senza sparare. Le testimonianze dei comandanti di
batteria divisionali riportano che il tiro automatico di sbarramento
(senza ordine esplicito) non fu effettuato in quanto non si udirono
scariche di fucilerie o mitraglia dalle prime linee, che in effetti
cedettero immediatamente quasi senza combattere;
• Il tiro di preparazione, ma
più ancora quello di distruzione (ore 6:00) nemico fece saltare i
collegamenti telefonici tra i reparti combattenti ed i comandi. Lo
stesso Badoglio riferì che fino a quell'ora erano ancora in funzione
alcune linee telefoniche, mentre alle 8:00 era completamente isolato
nel suo comando. Nel contempo le pessime condizioni meteo impedirono
l'uso dei segnali ottici ed acustici per la comunicazione. Fu
necessario ricorrere in extremis alle staffette, con tutti i ritardi
implicati. Per risolvere questi problemi, il nemico comunicò più
efficacemente mediante razzi luminosi57. Badoglio aveva disposto
alle sue artiglierie che l'inizio del tiro controffensivo sarebbe
dovuto iniziare solo dietro suo ordine esplicito, ma al momento
giusto, causa mancanza totale di comunicazioni, non fu in grado di
darlo58. Tra l'altro Badoglio, individuato dalle artiglierie
nemiche, spostò varie volte il suo comando trasmettendo ogni volta
la sua nuova posizione, e così gli operatori tedeschi addetti alle
intercettazioni telefoniche furono in grado di passare sempre le
giuste coordinate da colpire all'artiglieria, che impedì così al
capo del XXVII Corpo d'armata italiano di prendere stabilmente
contatto con i suoi uomini59.
Conseguenze
Una tragedia nella tragedia fu quella dei profughi civili, la
cui vicenda è stata di recente studiata (anche se solo con fonte di
parte italiana60). Durante la ritirata, oltre un milione di persone
delle provincie di Udine, Treviso, Belluno, Venezia e Vicenza furono
costrette ad abbandonare le loro case riversandosi nelle strade che
conducevano alla pianura padana61, spaventati dalla propaganda
ufficiale che gridava ai "turchi alle porte". Nonostante ciò il
trasferimento di questa gente non fu programmato e aiutato62 (anzi,
i comandi militari imposero di dare priorità alle truppe e ai mezzi
militari, con requisizioni di mezzi civili e divieto di uso delle
strade principali). Molti perirono durante la fuga, ad esempio a
causa della piena dei fiumi che si trovarono ad attraversare lungo
strade secondarie, e solo 270.000 riuscirono a porsi in salvo63; gli
altri ne furono impediti o dalla distruzione dei ponti o dal fatto
che vennero semplicemente intercettati dagli austro-tedeschi.
Ci furono atti di vandalismo e la devastazione aumentò anche a causa
dei saccheggi perpetrati dai soldati di von Below, ma qualche civile
seppe reagire e si organizzò in bande armate con lo scopo di
sabotare e disturbare le truppe d'occupazione, dando vita così alle
prime formazioni partigiane italiane64. I profughi vennero sistemati
un po' in tutta Italia in maniera inadatta, causando loro notevoli
disagi. Essendo sussidiati venivano accusati di essere un peso e di
rubare il lavoro ai locali. Particolarmente difficile fu la
situazione di chi venne inviato al sud65. Ci furono molti casi di
tensione per la mancata assegnazione di case a questi profughi,
costretti a vivere in condizioni sanitarie e ambientali estreme.
L'arrivo degli aiuti Alleati e la riorganizzazione del Regio
Esercito
Una volta assorbito lo shock conseguente alla ritirata da Caporetto,
gli ambienti politici e militari italiani si adoperarono per
riprendere in mano e stabilizzare la situazione, aiutati anche dagli
anglo-francesi. Il generale Alfredo Dallolio, Ministro delle Armi e
Munizioni, comunicò di essere in grado di rimpiazzare tutte le
munizioni perse entro il 14 novembre, e per dicembre sarebbero stati
pronti anche 500 cannoni, a cui se ne aggiungeranno 800 Alleati66.
Il cambiamento più importante avvenne al vertice del Regio Esercito:
Cadorna infatti ricevette l'avviso di esonero l'8 novembre, e il suo
posto fu preso da Armando Diaz, assistito da Gaetano Giardino e
Badoglio (le cui colpe di Caporetto non erano ancora state notate)
in qualità di sottocapi di Stato Maggiore.
Le divisioni francesi inviate in aiuto aumentarono a sei e quelle
inglesi a cinque entro l'8 dicembre 1917 e, sebbene non siano
entrate subito in azione, funsero da riserva permettendo al Regio
Esercito di distogliere le proprie truppe da questo compito.
I tedeschi, assolto il proprio obiettivo di aiutare gli austriaci,
trasferirono metà dei propri cannoni, la 5ª, 12ª e 26ª Divisione al
fronte occidentale nei primi di dicembre, mentre gli italiani si
rinforzavano giorno dopo giorno.
Il primo segno di riscossa avvenne per merito della 4ª Armata del
generale Mario Nicolis di Robilant, che, stanziata sul Cadore, si
era ritirata il 31 ottobre con l'ordine di organizzare la difesa del
monte Grappa e di realizzare la saldatura tra le truppe
dell'Altopiano di Asiago e quelle schierate lungo il fiume Piave. La
nuova posizione da difendere a tutti i costi era di vitale
importanza per l'intero esercito, dato che una sua caduta avrebbe
trascinato con sé l'intero fronte67, e gli uomini di Robilant
riuscirono a mantenere la posizione.
Bibliografia
Testi di riferimento
La bibliografia sull'argomento è vastissima, i titoli che
seguono sono quindi solo una piccola incompleta parte della
bibliografia.
• Roberto Bencivenga, La
sorpresa strategica di Caporetto, Udine, Gaspari Editore, 1997. ISBN
978-88-86338-20-2
• Luigi Capello,
Caporetto, perché?, Torino, Giulio Einaudi, 1967. (ISBN non
esistente)
• Alberto Cavaciocchi, Un anno
al comando del IV Corpo d'armata, Udine, Gaspari Editore, 2006. ISBN
978-88-7541-051-3
• Pier Paolo Cervone, Enrico
Caviglia, l'anti Badoglio, Mursia, 1992. (ISBN non esistente)
• Daniele Ceschin, Gli esuli
di Caporetto, Laterza, 2006. ISBN 978-88-420-7859-3
• Giuseppe Del Bianco, La
Guerra e il Friuli (4 voll.), Udine, Tipografia D. Del Bianco e
Figlio, 1937. (ISBN non esistente)
• Francesco Fadini, Caporetto
dalla parte del vincitore, Mursia, 1992. (ISBN non esistente)
• Angelo Gatti, Caporetto, Il
Mulino, 2007. ISBN 978-88-15-11857-8
• Attilio Izzo, Guerra chimica
e difesa antigas, Milano, Hoepli, 1935. (ISBN non esistente)
• Marco Mantini, Da Tolmino a
Caporetto lungo i percorsi della Grande Guerra tra Italia e
Slovenia, Udine, Gaspari Editore, 2006. ISBN 978-88-7541-062-9
• Marco Mantini, Paolo Gaspari
e Paolo Pozzato, Generali nella nebbia, Udine, Gaspari Editore,
2007. ISBN 978-88-7541-103-9
• Daniele, Marco Mantini e
Silvio Stok, I tracciati delle trincee sul fronte dell'Isonzo. Vol.
II: Le valli del Natisone e dello Judrio, Udine, Gaspari Editore,
2007. ISBN 978-88-420-7859-3
• Ministero della Difesa-Stato
Maggiore dell'Esercito, Ufficio Storico, L'esercito Italiano nella
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• Camillo Pavan, In fuga dai
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• Piero Pieri e Giorgio Rochat,
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• Mario Silvestri, Caporetto,
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• Fritz Weber, Dal Monte Nero a
Caporetto, Mursia, 2006. ISBN 978-88-425-3684-0
Testi letterari
La battaglia di Caporetto è anche protagonista di diversi
testi letterari, a carattere narrativo o più spesso memoriale:
• Addio alle armi: tra i
romanzi più celebri di Ernest Hemingway, parzialmente basato sulle
esperienze dello scrittore come volontario della Croce Rossa, è
stato creduto a lungo che fosse basato, almeno in parte, sulla
ritirata di Caporetto, anche se in realtà lo scrittore statunitense
arrivò in Italia solo nel 1918, e apprese della battaglia dai
racconti dei superstiti;
• La ritirata del Friuli:
scritto nel 1920 da Ardengo Soffici, ai tempi ufficiale di
collegamento, descrive lo sbando delle truppe italiane;
• Taccuini 1916-1922: resoconto
drammatico sviluppato da Filippo Tommaso Marinetti;
• Giornale di guerra e di
prigionia: raccolta dei diari (tra cui il Diario di Caporetto) che
Carlo Emilio Gadda, volontario degli alpini durante il primo
conflitto mondiale, tenne tra il 24 agosto 1915 e il 31 dicembre
1919.
• La rivolta dei santi
maledetti: di Curzio Malaparte, questo libro del 1921 prende spunto
proprio dalla rotta di Caporetto.
• Questa storia: romanzo di
Alessandro Baricco che racconta la storia di un certo Ultimo Parri,
appassionato di automobili vissuto a cavallo della prima guerra
mondiale, che tra le altre avventure prende parte anche alla
battaglia di Caporetto.
Offensiva
di primavera
Data
21 marzo - 5 agosto 1918
Luogo
Nord della Francia, Fiandre, Belgio
Nella storiografia della prima guerra mondiale l'offensiva di
primavera, conosciuta anche come Kaiserschlacht (in italiano
"battaglia per l'Imperatore"), furono una serie di attacchi
predisposti dall'esercito tedesco svoltisi durante la primavera del
1918, gli ultimi da parte delle forze militari tedesche sul fronte
occidentale.
Per le potenze dell'Intesa si trattò di una completa sorpresa, dal
momento che i comandi alleati erano convinti che le forze tedesche
fossero ormai prossime al crollo. Se inizialmente la rinnovata
iniziativa dell'esercito tedesco provocò il panico negli alti
comandi alleati, dopo tre mesi le avanzate tedesche giunsero ad
esaurimento pregiudicando una possibile vittoria tedesca e
permettendo agli alleati di organizzarsi per la successiva, decisiva
controffensiva.
Il comando supremo tedesco, guidato dal feldmaresciallo Paul von
Hindenburg e dal suo principale collaboratore, generale Erich
Ludendorff, esaurì quindi con questa serie di costose offensive, le
residue forze dell'esercito, pregiudicando ogni possibilità di
vittoria e intaccando anche la capacità di resistenza sul fronte
occidentale. Entro pochi mesi la Germania sarebbe stata costretta ad
ammettere la sconfitta, sancita dall'armistizio di Compiègne dell'11
novembre 1918.
Premesse e obiettivi strategici
Tre anni di guerra avevano reso molto precaria la posizione
dell'Impero Germanico. Se a est la Rivoluzione d'ottobre aveva
provocato l'uscita dalla guerra della Russia, a ovest non si vedeva
la fine della guerra di trincea. Nei primi anni di guerra la
strategia tedesca era orientata alla guerra d'attrito: poiché, nelle
condizioni della guerra di trincea non pareva possibile un'azione
risolutiva, il capo di stato maggiore Falkenhayn tentò di ottenere
la vittoria attaccando le posizioni più esposte del nemico, per
costringerlo in questo modo ad un tale impiego di uomini e materiali
da ridurne e annullarne, in prospettiva, la capacità bellica.
L'esempio più eclatante di questa strategia fu la battaglia di
Verdun.
Il limite di questa strategia era che essa era basata maggiormente
sull'incapacità di comprendere le novità introdotte dalla tecnica
nella guerra moderna che su una precisa percezione dei rapporti di
forza: gli Imperi centrali erano inferiori, per popolazione e
capacità industriale, rispetto alle potenze dell'Intesa (e il blocco
navale britannico rendeva ancora più acuta questa inferiorità). Per
questo, in una competizione basata sulle risorse umane ed
industriali, la Germania avrebbe inevitabilmente avuto la peggio.
Falkenhayn venne destituito nel 1916, senza che però si producesse
una sostanziale mutazione del paradigma strategico. I successivi due
anni trascorsero vedendo sul fronte occidentale la Germania in
difesa, con occasionali riprese offensive. Contemporaneamente la
marina imperiale, dando il via alla guerra sottomarina
indiscriminata, tentò di tagliare i rifornimenti di Francia e
Inghilterra da parte del loro principale fornitore di armamenti, gli
Stati Uniti.Wikipedia:Uso delle fonti
Ma fu proprio la guerra sottomarina a spingere gli Stati Uniti ad
unirsi alla lotta contro gli Imperi Centrali, nell'aprile 1917. Da
quel momento, anche per lo Stato maggiore tedesco, era chiaro che,
quando gli Stati Uniti avessero spiegato tutto il loro potenziale
bellico, la Germania era condannata alla sconfitta. Nel novembre
1917 si cominciarono a sviluppare i piani per un'offensiva finale
delle forze tedesche sul fronte occidentale. Obiettivo
dell'offensiva era la conquista di Parigi e delle coste della
Manica, per tagliar fuori da ogni rifornimento le forze
anglo-francesi impegnate sul continente. In seguito, sulla base di
una situazione strategica così favorevole, sarebbe stato possibile
cominciare trattative di pace da una posizione di grande vantaggio.
Si trattava di un piano per nulla irrealistico, nonostante la
Germania si trovasse in una situazione di grave carenza di uomini e
materiali: la Russia, con il trattato di Brest-Litovsk si era
ritirata dalla guerra: gran parte dei contingenti impegnati sul
fronte orientale potevano ora essere trasferiti in occidente. Ma per
gli stati maggiori tedeschi era anche chiaro che queste offensive
erano l'ultima possibilità per la Germania di ottenere un esito non
catastrofico del conflitto cominciato nel 1914.
Innovazioni tattiche
Nello stesso tempo lo stato maggiore tedesco portò a
compimento un mutamento del paradigma tattico, abbandonando la
tattica sino ad allora seguita, basata su di un lungo bombardamento
preparatorio, seguito da un massiccio attacco della fanteria su di
un fronte molto lungo. Facendo tesoro delle esperienze fatte nella
Battaglia di Riga e in quella di Cambrai, già prima che il
bombardamento avesse inizio, piccole unità d'élite (Sturm- o
Stosstruppen) dovevano penetrare il fronte delle trincee. Il
bombardamento stesso doveva essere di minore durata, ma di maggiore
intensità, e concentrato su di un ristretto segmento del fronte.
Dopo il bombardamento, la fanteria doveva intervenire per sgomberare
le residue resistenze, e, immediatamente, proseguire in profondità
nelle linee nemiche. Eventuali focolai di resistenza che non si
lasciassero rapidamente sopraffare venivano semplicemente aggirati.
La coordinazione dei movimenti delle truppe era decisa dal fronte
più che dagli ordini dello stato maggiore. In questo quadro la
capacità di sfruttare il fattore sorpresa e l'iniziativa dei singoli
comandanti a livello di compagnia avevano un'importanza decisiva. Si
trattava in effetti di innovazioni tattiche che anticipavano la
Blitzkrieg della seconda guerra mondiale.
Svolgimento
Nell'inverno 1917-'18 era stato ristabilito l'equilibrio delle
forze sul fronte occidentale, dove, dall'autunno 1914, le forze
anglo-francesi avevano goduto di un vantaggio numerico. Con il
trasferimento delle truppe non più impegnate sul fronte orientale,
ora, sul fronte occidentale, un milione di tedeschi fronteggiava
900.000 tra francesi ed inglesi. Per lo stato maggiore tedesco era
il momento di dare il via alla fase offensiva.
Operazione Michael
La prima delle cinque offensive previste fu chiamata
Operazione Michael. Ebbe inizio il 21 marzo 1918, e vi presero parte
tre armate tedesche, per un totale di 42 divisioni. L'obiettivo era
lo sfondamento del fronte nel punto di congiunzione tra le forze
francesi (a sud) e quelle inglesi (a nord), nel tratto di fronte tra
Bapaume e Saint Simon, al fine di creare un cuneo tra i due
contingenti, sospingendo poi i britannici verso il mare. Già il
primo giorno furono sfondate tutte le linee difensive alleate, e le
truppe tedesche riuscirono complessivamente ad avanzare di 65
chilometri lungo un fronte di circa 80. L'attacco iniziò con un
bombardamento d'artiglieria abbastanza breve ma estremamente
violento. Prima che i difensori britannici, storditi, riuscissero a
reagire, gruppi speciali d'assalto tedeschi uscirono dalla nebbia e
dal fumo per attaccare o accerchiare i punti strategici delle linee
di combattimento. Presi di sorpresa, schiacciati e sommersi, i
difensori arretrarono su tutto il fronte, più di 160.000 britannici
furono messi fuori combattimento.
Nella loro travolgente avanzata le truppe tedesche incontrarono
maggiori resistenze nel settore inglese che in quello francese.
Ma
lo sfondamento non riuscì, perché Erich Ludendorff, che non subiva
troppa opposizione sulla sua sinistra, continuò a concentrare le sue
riserve davanti ad Arras, dove la resistenza britannica divenne
sempre più forte ed efficace. Malgrado gli appelli disperati di
Haig, Foch rifiutò d'impegnare le sue riserve limitate. Haig dovette
far affluire d'urgenza rinforzi dal Regno Unito e il Quartier
generale britannico dovette ritirare divisioni da altri teatri
d'operazione.
Nonostante i successi iniziali, dopo pochi giorni l'impeto offensivo
tedesco si era esaurito, e a partire dal 27 marzo, quando i francesi
cominciarono ad impegnare la loro riserva strategica nei pressi di
Amiens, non vi furono più, per i tedeschi, sostanziali guadagni
territoriali. Fu solo il 28 marzo che Ludendorff capì
improvvisamente quali fossero le possibilità che si presentavano
sulla Somme per effettuare un'avanzata rapida e decisiva in
direzione di Parigi; ma era allora troppo tardi.
Due giorni prima gli Alleati s'erano accordati per affidare al
generale Foch il comando unico sul fronte occidentale. Uno dei suoi
primi atti di comando fu d'impiegare una parte delle sue magre
riserve per chiudere la pericolosa breccia sulla Somme. All'inizio
d'aprile, l'Offensiva Michael era bloccata nella regione di
Montdidier. L'avanzata tedesca non aveva, in definitiva, raggiunto
alcun risultato strategicamente determinante, e anzi, aveva
allungato il fronte e creato un saliente esposto alle controffensive
alleate.
Battaglia del Lys
Già l'offensiva successiva (Operazione Georgette) (9-29
aprile), nel settore del fronte nei pressi di Ypres, che aveva come
obiettivo l'avanzata nel settore della Manica, si dimostrò molto
meno efficace, soprattutto perché i britannici si ritirarono
prontamente. L'afflusso di rinforzi francesi contribuì a bloccare
l'avanzata tedesca una volta raggiunto il fiume Lys e ad evitare la
perdita di Ypres, anche se vanificò tutti i vantaggi territoriali
conseguiti, a carissimo prezzo, nella Terza battaglia di Ypres. Dal
27 maggio al 4 giugno, in contemporanea con l'offensiva sulla Marna,
ebbe luogo una seconda offensiva (operazione Hagen), che però venne
subito sospesa senza ottenere risultati di rilievo.
Offensiva sull'Aisne
La terza offensiva (Operazione Blücher-Yorck, 27 maggio - 4 giugno),
rivolta contro le forze francesi schierate a sud del saliente che
era venuto a formasi con l'offensiva di marzo, si svolse nel settore
dell'Aisne, ed conseguì importanti risultati, per motivi opposti a
quelli del fallimento di Ypres: il comandante francese della 6.
armata, Jacques Charles René Duchesne, aveva concentrato le proprie
riserve nelle vicinanze del fronte, esponendole al rischio
dell'aggiramento da parte delle avanguardie tedesche in rapida
avanzata, secondo i nuovi dettami tattici.
Ludendorff concentrò 42 divisioni sotto il comando di von Boehn,
comandante della 7ª Armata tedesca, che teneva il fronte fra
Pontoise e Berry-au-Bac. L'ala sinistra della 7ª Armata si
prolungava con quattro divisioni della 1ª Armata tedesca (von Below)
che occupavano il settore di Berry-au-Bac fino a Reims. Tutte esse
presero parte all'attacco.
Il 27 maggio, l'offensiva tedesca si sviluppò presso l'Aisne, a
partire dallo Chemin des Dames, in cui l'anno prima i francesi erano
stati respinti in un attacco mortale. La preparazione d'artiglieria
cominciò con tiri di proiettili caricati a iprite, poi divenne misto
(esplosivo-gas), ma con più del 50% di proiettili tossici. Dopo il 5
giugno, i tedeschi schierarono altre cinque divisioni, portando il
totale a 47 divisioni, corrispondenti a circa 60 divisioni francesi.
L'offensiva si fermò peraltro dieci giorni dopo per sfinimento degli
attaccanti che però erano avanzati per 45 chilometri, avevano preso
Château-Thierry ed erano ormai a 70 chilometri da Parigi. Era
assolutamente necessario però cercare di rettificare le proprie
linee, conquistando terreno fra i due importanti salienti presso
Arras e Reims, e un altro più piccolo lungo la Lys. I soldati
tedeschi finalizzarono innanzi tutto i loro sforzi sulle due zone
che circondavano Compiègne, attaccando i due fianchi il 9 giugno. Ma
la loro offensiva era abbastanza mal organizzata e dovettero essi
stessi subire attacchi al gas mostarda, in modo che le truppe
francesi, ben assecondati dalla 2ª Divisione di fanteria
statunitense a Bois-Belleau ed a Vaux, poterono resistere.
Nel corso di questa offensiva i tedeschi impiegarono il
Parisgeschütz (cannone di Parigi) per bombardare la capitale
francese. Non ottennero risultati significativi dal punto di vista
militare, ma i bombardamenti diffusero il panico nella popolazione
civile. Morirono 256 civili e 620 vennero feriti.
Battaglia di Montdidier-Noyon
Il generale Ludendorff cercò poi di ampliare l'Operazione
Blücher-Yorck con l'Operazione Gneisenau, con l'intenzione di
accerchiare gli alleati sfondando ai lati della città di Compiegne,
cercando allo stesso tempo di distrarre le truppe Alleate dal
saliente di Amiens. I francesi grazie ad informazioni provenienti da
prigionieri tedeschi riuscirono ad affrontare nel migliore dei modi
la tattica d'attacco con truppe speciali, che riuscivano grazie
all'estensione geografica del loro attacco a ampliare il tiro delle
artiglierie nemiche rendendolo meno efficace; e la loro tattica di
difesa elastica che attenuava i tiri preparatori nemici.
Tuttavia, l'avanzata tedesca (comprendente 21 divisioni) lungo il
fiume Matz è impressionante, nonostante la feroce resistenza
francese e americana. Nei dintorni di Compiègne, però l'11 giugno un
improvviso contrattacco francese con 4 divisioni e 150 carri armati
comandati dal generale Charles Mangin colse di sorpresa i tedeschi e
fermò la loro avanzata. L'Operazione Gneisenau fu sospesa il giorno
successivo, con perdite pesantissime circa 35.000 soldati fuori
combattimento per gli Alleati e 30.000 per i tedeschi.
Friedensturm, l'ultimo attacco tedesco
Spinti dalla volontà di dare la spallata definitiva e
attirati, come nel 1914, da Parigi, che essi minacciano tanto dalla
vallata dell'Oise a nord, dalle valli dell'Ourcq e della Marna a
est, i tedeschi decisero una nuova offensiva, ancor più formidabile.
Fu il Friedensturm, ossia la "Battaglia per la pace".
Il generale Ludendorff progettò, con un attacco frontale, di
separare gli eserciti alleati del nord da quelli dell'est, aggirando
da una parte, Verdun attraverso Sainte-Menehould e la valle
dell'Aisne superiore, e d'altra parte Reims e la Montagna di Reims
attraverso la valle della Marna. La battaglia ebbe inizio il 15
luglio, con l'attacco di 30 divisioni tedesche alla prima, alla
terza ed alla sesta armata francese, nei pressi della città di
Reims. Ad est l'attacco venne fermato già il primo giorno, mentre ad
ovest l'esercito germanico riuscì ad avanzare di una dozzina di
chilometri prima di essere bloccato da quello francese, con il
supporto di truppe americane, britanniche ed italiane.
Durante tutta la giornata del 15 luglio, malgrado le spesse cortine
di fumogeni che li nascondevano, gli aeroplani alleati individuarono
i ponti gettati sulla Marna e li bombardarono da bassa quota,
distruggendone numerosi e precipitando truppe e convogli nel fiume.
Quindi attaccarono con le mitragliatrici i soldati che avevano
raggiunto la sponda sud. Trenta passerelle meno vulnerabili furono
gettate ma, malgrado un leggero vantaggio tattico acquisito a SE di
Reims e sulla Marna, l'offensiva di Ludendorff fallì completamente
nella regione della Champagne. Rinunciando ad aggirare Reims da est,
il comandante tedesco cercò di oltrepassare la montagna di Reims de
sud. Gli serviva a tutti costi un successo.
La contro-offensiva alleata del 18 luglio
Al momento stesso in cui le divisioni tedesche si ammassarono
sul fianco est della sacca, l'equivalente di ventuno divisioni
alleate, fra cui alcune italiane, si affrettarono in direzione del
fianco ovest, a partire dalla foresta di Villers-Cotterêts.
In due giorni il numero dei prigionieri presi oltrepassò 17.000
uomini e 360 cannoni. Sorpresi, i tedeschi impegnarono quattro
divisioni di rinforzo al centro. Verso le ore 18, ripresero Vierzy,
ma senza riuscire a tenerla. Gli Alleati giunsero a meno di quindici
chilometri dalla stazione di Fère-en-Tardenois: l'unica ferrovia era
sotto il fuoco dell'artiglieria. Il 20, i tedeschi prelevarono
divisioni dalle armate vicine e impegnarono la 5ª Divisione della
Guardia contro l'armata di Degoutte, due divisioni ed elementi
ritirati dalla Marna, contro l'armata di Mangin. Malgrado questi
sforzi il 28 la stazione fu presa dagli Alleati e il 7 agosto tutto
il terreno fu riconquistato. I carri armati dimostrarono tutta la
loro efficacia in questa occasione.
Il generale tedesco, tentò una manovra pericolosa, dettata tanto
dalla temerarietà quanto dall'ignoranza delle risorse francesi che
egli credeva esaurite: si accanì in direzione di Epernay. Ludendorff
gettò avanti le sue masse di soldati senza riflettere, tentando di
raggiungere il proprio scopo con la sola forza bruta. Per cinque
volte, in cinque posti differenti, attaccò massicciamente, ma
nell'insieme fu respinto; nella valle dell'Ardre dovette egli stesso
difendersi da contro-offensive nemiche.
Ma già il 18 luglio un contrattacco di 24 divisioni francesi
appoggiate da 8 divisioni americane e 350 carri armati riportò le
linee tedesche sulle posizioni di partenza, eliminando il saliente
che si era creato.
I motivi del mancato successo tedesco
Errori strategici
La decisione di Ludendorff di rafforzare i contingenti che
incontravano la resistenza più decisa causò un impiego non ottimale
delle forze disponibili. L'esperienza della seconda guerra mondiale
ha mostrato che per ottenere il massimo effetto offensivo devono
essere rafforzate le formazioni che hanno ottenuto il successo
maggiore (nel senso di maggior penetrazione entro le linee nemiche).
Vi furono inoltre errori nella gestione delle riserve, in quanto
ricevettero rinforzi solo le truppe di prima linea, e, nel corso
dell'offensiva, non vi fu ricambio né rotazione delle unità
impiegate. Ciò condusse ad un progressivo e rapido esaurimento delle
forze impegnate.
Si riconobbe l'efficacia tattica delle truppe d'élite, ma non si
riuscì a sfruttare i risvolti strategici di questa novità. Vi era un
errore concettuale nella pianificazione dell'offensiva, sbilanciata
sul problema dello sfondamento del fronte. Il comando supremo
germanico aveva sì progettato le azioni con grande metodicità, ma
solo fino a ciò che riteneva essere il proprio obiettivo, ovvero lo
sfondamento del fronte alleato. Non vennero elaborati piani
particolareggiati per sfruttare le brecce aperte, e tanto meno per
una manovra d'accerchiamento, Il risultato fu che alle notevolissime
conquiste territoriali, ottenute a carissimo prezzo in termini di
uomini e di risorse, non corrispondevano vantaggi strategici
decisivi. Ed anzi, si erano venuti a creare due grandi salienti
difficili da difendere, e la linea del fronte si era notevolmente
allungata: nuovi problemi per l'esercito tedesco, che lottava contro
la carenza di uomini e mezzi.
Indecisioni tattiche
Il cannone di Parigi
Se vi fu una rivoluzione nell'impiego della fanteria, questa fu
accompagnata solo in parte da un'analoga rivoluzione nell'impiego
dell'artiglieria. Il bombardamento preparatorio divenne più breve,
ma la procedura d'ingaggio era la stessa dell'inizio della guerra.
Mentre nella fanteria anche i più piccoli movimenti di truppa erano
seguiti da ufficiali sulla linea del fuoco, i cannoni dell'esercito
entravano in azione secondo un piano rigidamente predeterminato. Per
questo poteva accadere che il fuoco di copertura si allontasse
troppo dalla fanteria che doveva proteggere, se quest'ultima
avanzava con troppa lentezza. Per questo l'efficacia degli attacchi
venne ridotta proprio nei punti dove già essa procedeva con minore
rapidità.
Problemi logistici
L'esercito tedesco soffrì, nell'ultimo anno di guerra, enormi
problemi di rifornimento. I soldati erano denutriti, l'armamento
scadente. La propaganda diffusa dall'alto comando sosteneva che le
forze dell'Intesa soffrissero delle stesse mancanze, in conseguenza
della guerra sottomarina indiscriminata. Quando le unità tedesche in
avanzata si accorsero del contrario, preferirono darsi al saccheggio
dei rifornitissimi magazzini del nemico che al combattimento,
diminuendo ulteriormente lo slancio offensivo, come ben documentato
nel libro Niente di nuovo sul fronte occidentale.
Conseguenze
Il fallimento delle offensive di primavera rese evidente a tutti la
sconfitta della Germania. Il morale delle truppe tedesche crollò,
anche se non vi furono conseguenze nella disciplina delle truppe.
L'entità delle perdite subite sottrasse al comando supremo tedesco
la possibilità di riprendere l'iniziativa. Ebbe luogo allora il
tentativo, da parte dei militari germanici, di addossare ai civili
le responsabilità della sconfitta. Ludendorff intimò alle autorità
politiche dell'impero germanico di trattare un armistizio con le
potenze dell'Intesa.
Le offensive di primavera costarono agli Alleati circa 420.000 tra
morti, feriti, dispersi e prigionieri, mentre le perdite tedesche
ammontarono a circa 500.000 uomini. La Germania aveva impiegato, in
un ultimo tentativo di battere gli alleati, le sue ultime riserve di
uomini e materiali, e da questo momento l'iniziativa rimase alle
forze alleate sino alla resa della Germania. L'esercito tedesco era
battuto ma non vinto, e condusse un'efficace campagna difensiva per
i restanti mesi della guerra, riuscendo a evitare il crollo del
fronte, nonostante l'offensiva dei cento giorni, sino all'11
novembre 1918, quando entrò in vigore l'armistizio di Compiègne.
Sul versante alleato, lo shock provocato dall'operazione Michael
aveva condotto all'istituzione di un comando unificato sotto la
guida del maresciallo Foch, con effetti molto positivi sul
coordinamento delle iniziative belliche. Una conseguenza a lungo
termine fu che le offensive di primavera contribuirono enormemente
al sorgere della leggenda della pugnalata alla schiena, secondo la
quale l'esercito tedesco non era stato battuto sul campo, e che le
responsabilità della sconfitta tedesca andassero ricercate nelle
colpe dei politici, dei disfattisti e delle forze ostili alla
Germania (tra le quali gli ebrei). Questa visione distorta degli
avvenimenti dell'ultimo anno di guerra contribuì non poco a creare
in Germania un terreno favorevole all'avvento del nazismo.
Parallelamente, durante la seconda guerra mondiale la posizione
alleata di non accettare altro che una resa incondizionata da parte
del terzo Reich si spiega proprio alla luce dell'esperienza degli
ultimi mesi della prima guerra mondiale: questa volta, la disfatta
delle armate tedesche doveva essere assolutamente evidente.
Bibliografia
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• (EN) Greenwood, Paul
The Second Battle of the Marne 1918 Shrewsbury: Airlife 1998
Collegamenti esterni
• (FR) Guida
Michelin 1919 al campo di battaglia
Battaglia del solstizio
Data
15 - 22 giugno 1918
Luogo
Regione alpina orientale
La Battaglia del solstizio fu combattuta nel giugno 1918 dal Regio
Esercito Italiano da una parte e dall'Imperial Regio esercito
dall'altra. Fu l'ultima grande offensiva sferrata dagli austriaci
nel corso della prima guerra mondiale e si spense davanti alla
valorosa resistenza dei soldati italiani. Il nome "battaglia del
solstizio" fu ideato dal poeta Gabriele D'Annunzio, lo stesso che
poco dopo, il 9 agosto 1918, con 11 aeroplani Ansaldo sorvolerà
Vienna gettando dal cielo migliaia di manifestini, inneggianti alla
vittoria italiana.
La tentata offensiva austro-ungarica
Nel 1918 gli austriaci pianificarono una massiccia offensiva sul
fronte italiano, da sferrare all'inizio dell'estate, in giugno.
A causa delle loro gravi difficoltà di approvvigionamento, volevano
infatti raggiungere la fertile pianura padana, sino al Po, e
soprattutto, in un momento di grave difficoltà interna dell'Impero
per il protrarsi della guerra, gli Austro-ungarici intendevano dare
al conflitto una svolta decisiva, che permettesse un completo
sfondamento del fronte italiano, come era già avvenuto con
l'offensiva di Caporetto, e consentisse quindi di liberare forze da
concentrare in un secondo momento sul fronte franco-tedesco.
L'offensiva fu preparata quindi con grande cura e larghezza di mezzi
dagli austriaci che vi impegnarono ben 66 divisioni, ed erano
talmente sicuri del successo, che avevano persino preparato in
anticipo i timbri ad inchiostro da usare nelle zone italiane da
occupare.
La risposta italiana
Gli italiani conoscevano in anticipo i piani del nemico, comprese la
data e l'ora dell'attacco, tanto che nella zona del Monte Grappa e
dell'Altopiano dei Sette Comuni i colpi di cannone delle artiglierie
italiane anticiparono l'attacco degli austriaci, lasciandoli
disorientati. Le artiglierie del Regio Esercito, appena dopo la
mezzanotte, per quasi cinque ore spararono decine di migliaia di
proiettili di grosso calibro, tanto che gli alpini che salivano a
piedi sul Monte Grappa videro l'intero fronte illuminato a giorno
sino al mare Adriatico. Ai primi contrattacchi italiani sul Monte
Grappa, molti soldati austriaci abbandonarono i fucili e scapparono,
tanto che i gendarmi riuscirono a bloccare i fuggitivi solamente
nella piana di Villach.
La battaglia
La mattina del 15 giugno 1918, gli austriaci arrivando da Pieve di
Soligo-Falzè di Piave, riuscirono a conquistare il Montello e il
paese di Nervesa. La loro avanzata continuò successivamente sino a
Bavaria (sulla direttiva per Arcade), ma furono fermati dalla
possente controffensiva italiana, supportata dall'artiglieria
francese, mentre le truppe francesi erano stazionate ad Arcade,
pronte ad intervenire, in caso di bisogno. Il Servizio Aeronautico
italiano mitragliava il nemico volando a bassa quota per rallentare
l'avanzata. Colpito da un cecchino austriaco moriva il magg.
Francesco Baracca, asso dell'aviazione italiana.In realtà la morte
del pilota avvenne per mano di un aviatore austriaco, ma a causa
dell'inesperienza e delle nuvole presenti in zona l'aviatore che
volava su un altro aereo in pattuglia con Baracca il fatto rimase
pressoché sconosciuto (o forse fu volutamente nascosto) agli
italiani per decine di anni hanno così creduto all'abbattimento per
vile fucilata, addirittura circolò la voce che costretto
all'atterraggio preferì suicidarsi , solo recentemente sono stati
resi pubblici i registri dell'aviazione asburgica che proverebbero
l'abbattimento.
Le passerelle gettate sul Piave dagli austriaci il 15 giugno 1918
vennero bombardate incessantemente dall'alto e ciò comportò un
rallentamento nelle forniture di armi e viveri. Ciò costrinse gli
austriaci sulla difensiva e dopo una settimana di combattimenti, in
cui gli italiani cominciavano ad avere il sopravvento, i nemici
decisero di ritirarsi oltre il Piave, da dove erano inizialmente
partiti. Centinaia di soldati morirono affogati di notte, nel
tentativo di riattraversare il fiume in piena. Nelle ore
successive alla ritirata austriaca, il re Vittorio Emanuele III
visitava Nervesa liberata e completamente distrutta dai colpi di
artiglieria. Ingenti i danni alle antiche ville sul Montello e al
patrimonio artistico della zona. Stessa cosa per Spresiano:
completamente distrutta. Gli austro-ungarici nella loro avanzata
arrivarono sino al cimitero di Spresiano, ma l'artiglieria italiana
che sparava da Visnadello e i contrattacchi della fanteria italiana
riuscirono a bloccarli.
Le truppe austro-ungariche attraversarono il Piave anche in altre
zone. Conquistarono pure le Grave di Papadopoli ma si dovettero
successivamente ritirare. A Ponte di Piave percorsero la direttrice
ferroviaria Portogruaro-Treviso, dopo alcune settimane di lotta,
nella zona di Fagarè, vennero ricacciate dagli arditi italiani.
Passarono il Piave anche a Candelù, da Salgareda raggiunsero Zenson
e Fossalta, ma la loro offensiva si spense in pochi giorni.
Il 19 giugno 1918 nella frazione di San Pietro Novello presso
Monastier di Treviso il VII Lancieri di Milano comandato dal
generale conte Gino Augusti, contiene e respinge l'avanzata delle
truppe austro-ungariche infiltrate oltre le linee del Piave
infliggendo loro una sconfitta decisiva nell'economia della
Battaglia del Solstizio. L'operazione militare passerà alla storia
come la "Carica di San Pietro Novello": il reggimento di Cavalleria
pur in inferiorità di uomini e mezzi riuscì nell'impresa,
combattendo anche appiedato in un corpo a corpo alla baionetta. 1
La mattina dell'attacco, sino dalle ore 4.00, dal suo posto di
osservazione posto in cima ad un campanile di Oderzo, il comandante
delle truppe austriache, il feldmaresciallo Boroevic, osservava
l'effetto dei proiettili oltre Piave. Le prime granate lacrimogene
ed asfissianti ottenevano pochi risultati, grazie alle maschere a
gas "inglesi" usate dagli italiani. Durante la Battaglia del
Solstizio gli Austriaci spararono 200mila granate lacrimogene ed
asfissianti. Sul fronte del Piave, quasi 6.000 cannoni austriaci
sparavano sino a S.Biagio di Callalta e Lancenigo. Diversi
proiettili da 750 kg di peso, sparati da un cannone su rotaia,
nascosto a Gorgo al Monticano, arrivarono fino a 30 km di distanza,
colpendo Treviso. Dall'altra parte del fronte, i contadini portavano
secchi d'acqua agli artiglieri italiani per raffreddare le bocche da
fuoco dei cannoni, che martellavano incessantemente le avanguardie
del nemico e le passerelle poste sul fiume, per traghettare
materiali e truppe. Il bombardamento delle passerelle fu
determinante, in quanto agli austriaci vennero a mancare i
rifornimenti, tanto da rendere difficile la loro permanenza oltre
Piave.
Nel frattempo gli italiani, alla foce del fiume, avevano allagato il
territorio di Caposile, per impedire agli austriaci ogni tentativo
di avanzata. Dal fiume Sile i cannoni di grosso calibro della Marina
Italiana, caricati su chiatte, che si spostavano in continuazione
per non essere individuati, tenevano occupato il nemico da San Donà
di Piave a Cavazuccherina (Jesolo).
Il punto di massima avanzata degli austriaci, convinti di arrivare
presto a Treviso, fu a Fagarè, sulla provinciale
Oderzo-Treviso. Gli Arditi o truppe d'assalto, forti della
fama che li accompagnava, ricacciarono gli austriaci sulla riva del
Piave da cui erano venuti. Non facevano prigionieri e andavano
all'attacco con il pugnale tra i denti, tanto che la loro presenza
terrorizzava il nemico. La testa di ponte di Fagarè sulla direttiva
Ponte di Piave-Treviso fu l'ultimo lembo sulla destra del Piave a
cadere in mano italiana.
Conseguenze della vittoria italiana
La tentata offensiva austriaca si tramutò quindi in una pesantissima
disfatta: tra morti, feriti e prigionieri gli austro-ungarici
persero quasi 150.000 uomini. La battaglia fu tuttavia violentissima
e anche le perdite italiane ammontarono a circa 90.000 uomini.
Il generale croato Borojevic, comandante delle truppe austriache del
settore e fautore dell'offensiva, capì che ormai l'Italia aveva
superato la disfatta di Caporetto. Infatti, non solo si esauriva la
spinta militare dell'Austria, ma apparivano anche i primi segnali di
scontento tra la popolazione civile austriaca, per la scarsità di
cibo. Gli "Alleati dell'Intesa" avevano isolato per mare gli Imperi
Centrali e la penuria di risorse si faceva sentire.
In tale situazione la battaglia del Solstizio era l'ultima
possibilità per gli austriaci di volgere a proprio favore le sorti
della guerra, ma il suo fallimento, con un bilancio così pesante e
nelle disastrose condizioni socio-economiche in cui versava
l'Impero, significò in pratica l'inizio della fine. Dalla battaglia
del Solstizio, infatti, trascorsero solo quattro mesi prima della
vittoria finale dell'Italia a Vittorio Veneto.
Bibliografia
• Pierluigi Romeo di Colloredo,
La Battaglia del Solstizio - Giugno 1918, Associazione Italia, 2008
Offensiva dei cento
giorni
Data
8 agosto - 11 novembre 1918
Luogo
da Amiens, Francia, verso Mons Belgio
L'offensiva dei cento giorni fu l'offensiva finale della prima
guerra mondiale condotta dagli Alleati contro le forze degli Imperi
Centrali stanziate lungo il fronte occidentale. In francese viene
talvolta chiamata Les cent jours du Canada ("i cento giorni del
Canada"), per sottolineare l'importante ruolo che ebbero le forze
canadesi sotto il comando della 1a Armata britannica.
Condotta dall'8 agosto 1918 all'11 novembre 1918, l'offensiva ebbe
un ruolo determinante nell'accelerare la demoralizzazione delle
forze tedesche che portò alla fine della Guerra.
Antefatti
L'operazione Friedensturm (luglio 1918) fu l'ultima delle offensive
di primavera con le quale lo Stato Maggiore tedesco sperava di
ottenere una vittoria decisiva sull'Intesa. I tedeschi avevano
ottenuto qualche vantaggio territoriale sulla Marna, ma non erano
riusciti a sfondare. Quando l'offensiva si arrestò, il maresciallo
di Francia Ferdinand Foch ordinò una controffensiva (a volte
chiamata seconda battaglia della Marna), in seguito alla quale i
tedeschi furono costretti ad abbandonare posizioni per loro
indifendibili e a ritornare sulle posizioni di partenza. Le
offensive di primavera avevano lasciato l'esercito tedesco
estremamente indebolito sia in termini di uomini che di materiali.
Agli inizi di agosto la gran parte delle divisioni schierate sul
fronte occidentale era solo parzialmente idonea al combattimento.
Foch era del parere che fosse giunta l'ora che gli alleati
riprendessero l'iniziativa. Il contingente statunitense erano
finalmente presente in forze in Francia, rafforzando l'esercito
francese5. Il comandante in capo dell'AEF, John Pershing intendeva
ritagliare per le proprie forze un ruolo indipendente. Nello stesso
tempo il contingente britannico era stato rafforzato dall'arrivo di
truppe reduci dalle campagne del Medio Oriente e dal fronte
italiano6.
Foch approvò pertanto il piano di Douglas Haig, comandante delle
forze britanniche, che prevedeva un attacco sulla Somme, ad est di
Amiens7. Si trattava di una scelta azzeccata per diverse ragioni: la
Piccardia era un territorio idoneo all'impiego di carri armati, ed
inoltre la zona era presidiata da truppe tedesche inesperte.
Battaglie
Amiens
La battaglia di Amiens ebbe inizio l'8 agosto 1918, con un
attacco di 10 divisioni alleate (francesi, britanniche, canadesi e
australiane) e l'impiego di oltre 500 carri armati8. I preparativi
dell'offensiva erano stati tenuti nascosti, e per questo i tedeschi
vennero colti completamente di sorpresa910. Il corpo di spedizione
australiano e quello canadese riuscirono a sfondare le linee
tedesche, mentre i carri armati attaccavano le posizioni tedesche,
seminando panico e confusione. Alla fine della giornata si era
creato un varco di 24 chilometri nelle linee tedesche a sud della
Somme11. Gli alleati avevano catturato 17000 prigionieri e 330
cannoni. Il totale delle perdite tedesche assommò a 30000 uomini
(tra morti, feriti e prigionieri), a fronte di 6500 perdite alleate.
Erich Ludendorff, di fronte alle dimensioni della sconfitta, parlò
del giorno più nero per l'esercito tedesco12.
L'avanzata proseguì per tre giorni, ma senza i risultati
spettacolari13 durante questi tre giorni, gli alleati avanzarono di
19 km, molti dei quali il primo giorno, come risultato di un
parziale rafforzamento tedesco dell'8 agosto14. Il 10 agosto i
tedeschi cominciarono a ritirarsi dal saliente che avevano occupato
durante l'operazione Michael, per trincerarsi dietro la linea
Hindenburg15.
Somme
Il 15 agosto Foch aveva chiesto a Haig di proseguire l'offensiva di
Amiens. Ma nel frattempo i tedeschi avevano spostato riserve nella
zona, e i progressi delle truppe alleate diventavano sempre più
difficoltosi. Haig quindi rifiutò, e decise di lanciare una nuova
offensiva nel settore della Somme, offensiva che iniziò il 21
agosto16.
1º settembre 1918, Péronne. Truppe australiane con mitragliatrice
durante i combattimenti in città.
L'offensiva, portata avanti dalla terza armata britannica, fu un
successo, e spinse indietro i tedeschi di più di 55 chilometri. La
città di Albert cadde il 22 agosto17, e il 29 agosto18 i britannici
ripresero l'offensiva avanzando di altri 12 chilometri, e
conquistando Bapaume il 29 agosto. Quando l'artiglieria pesante
venne riportata a ridosso delle nuove linee, la quarta armata
britannica lanciò un nuovo attacco, e nella notte del 31 agosto
truppe australiane traversarono la Somme, sfondando le linee
tedesche a Mont St. Quentin e Péronne. Il 2 settembre, anche in
questo settore del fronte, i tedeschi erano tornati sulle posizioni
dalle quali avevano lanciato le loro offensive primaverili.
Sfondamento della linea Hindenburg
Foch ora pensava ad una grande offensiva, una serie di
attacchi alle linee tedesche, su diversi assi d'avanzata convergenti
su Liegi.
La difesa tedesca era imperniata sulla linea Hindenburg19, una linea
fortificata che si estendeva da Cerny sull'Aisne sino ad Arras.
Prima affrontarla, vennero ridotti i due salienti ad est e ovest di
essa: quello di St. Mihiel - con un'offensiva iniziata il 12
settembre, e quello di Épehy, attaccato il 18 dello stesso mese.
Il primo attacco della grande offensiva venne lanciata dal corpo di
spedizione americano, nella zona della Mosa-Argonne. Due giorni più
tardi ebbe inizio una seconda offensiva a nord, nei pressi di Ypres.
Ambedue procedettero speditamente nei primi giorni, ma vennero poi
rallentate per motivi logistici, in particolare nel settore affidato
agli americani20.
Negli stessi giorni truppe canadesi in forze al corpo di spedizione
britannico avevano intaccato la linea Hindenburg nelle vicinanze di
Cambrai. Quindi il 30 settembre Haig lanciò l'attacco principale
alla linea Hindenburg, guidato dalle divisioni 27 e 30 del corpo di
spedizione americano, aggregate al corpo di spedizione australiano.
Gli americani conquistarono il canale sotterraneo lungo 7 chilometri
nei pressi di Bellincourt, ma subirono poi intensi contrattacchi, e
dovettero essere soccorse dagli australiani21.
Due giorni più tardi una divisione britannica effettuò con successo
un attacco anfibio lungo il canale all'estremità meridionale del
canale, per ampliare la breccia. Il 5 ottobre la quarta armata
britannica era riuscita a sfondare la linea Hindenburg in tutta la
sua profondità
Il collasso delle difese tedesche costrinse l'alto comando ad
ammettere che la guerra era perduta. L'evidente crollo del morale
tedesco convinse diversi comandanti e leader politici alleati che
era possibile terminare la guerra nel 1918, mentre in precedenza
tutti gli sforzi erano rivolti a raccogliere le forze per un attacco
decisivo previsto per i primi mesi del 1919.
Ritirata tedesca
In ottobre le forze tedesche furono costrette a cedere parte
dei territori occupati nel 1914, ma la ritirata non si trasformò in
rotta. Le perdite alleate rimasero molto elevate, e i combattimenti
perdurarono sino alle 11 e 11 dell'11 novembre, quando, dopo 51 mesi
di combattimenti, finalmente le armi tacquero. In quel momento
l'esercito tedesco occupava ancora parte della Champagne e gran
parte del Belgio22.
Bibliografia
• Norm Christie, For King &
Empire, The Canadians at Amiens, August 1918. CEF Books, 1999, ISBN
978-1-896979-20-5
• Norm Christie, For King
& Empire, The Canadians at Arras, August — September 1918. CEF
Books, 1997, ISBN 978-1-896979-43-4
• Norm Christie, For King &
Empire, The Canadians at Cambrai and the Canal du Nord, September —
October 1918, CEF Books, 1997, ISBN 978-1-896979-18-2
• Daniel G. Dancocks, Spearhead
to Victory – Canada and the Great War. Hurtig Publishers, 1987, ISBN
978-0-88830-310-3
• John Frederick Bligh Livesay,
1875–1944. Canada's hundred days: with the Canadian corps from
Amiens to Mons, Aug. 8 – Nov. 11, 1918, 1919, ISBN 978-0-665-73263-8
• Orgill Douglas, Armoured
onslaught: 8th August 1918. 1972 ISBN 978-0-345-02608-8
• Shane B. Schreiber,
Shock Army of the British Empire – The Canadian Corps in the Last
100 Days of the Great War, Vanwell Publishing, 2004, ISBN
978-1-55125-096-0
• Bean, C.E.W. Official
Histories – First World War, Volume VI – The Australian Imperial
Force in France during the Allied Offensive. Angus and Robertson Ltd
(1942)
Battaglia di Vittorio
Veneto
Data
24 ottobre-4 novembre 1918
Luogo
Fiume Piave e Massiccio del Grappa,
La battaglia di Vittorio Veneto fu l'ultimo scontro armato tra
Italia e Impero austro-ungarico nel corso della Prima guerra
mondiale; si combatté tra il 24 ottobre e il 4 novembre 1918 nella
zona tra il fiume Piave, il Massiccio del Grappa, il Trentino e il
Friuli e seguì di pochi mesi la fallita offensiva austriaca del
giugno 1918 che non era riuscita ad infrangere la resistenza
italiana sul Piave e sul Grappa e si era conclusa con un grave
indebolimento della forze e della capacità di combattimento
dell'Esercito imperiale e regio.
L'attacco decisivo italiano, fortemente sollecitato dagli alleati
che erano già passati all'offensiva generale sul fronte occidentale,
ebbe inizio solo il 24 ottobre 1918 mentre l'Impero austro-ungarico
dava già segno di disfacimento a causa delle crescenti tensioni
politico-sociali tra le numerose nazionalità presenti nello stato
asburgico, e mentre erano in corso tentativi di negoziati per una
sospensione delle ostilità.
La battaglia di Vittorio Veneto fu caratterizzata da una fase
iniziale duramente combattuta durante la quale l'esercito
austro-ungarico fu ancora in grado di opporre valida resistenza sia
sul Piave che nel settore del Monte Grappa, a cui seguì un
improvviso e irreversibile crollo della difesa, con la progressiva
disgregazione dei reparti e defezioni tra le minoranze nazionali,
che favorirono la rapida avanzata finale dell'esercito italiano fino
a Trento e Trieste.
Il 4 novembre 1918 venne concluso l'armistizio di Villa Giusti che
sanzionò la fine dell'Impero austro-ungarico e la vittoria
dell'Italia nella Grande Guerra.
Il Fronte italiano
Ideazione e pianificazione dell'offensiva italiana
Il 24 giugno 1918 la battaglia del Solstizio si era conclusa con un
significativo successo dell'esercito italiano che era riuscito a
respingere l'ultima grande offensiva generale dell'esercito
austro-ungarico (operazioni "Lawine", "Radetzky" e "Albrecht") sia
nel settore del Piave che nel settore del Monte Grappa; nelle
settimane successive con una serie di contrattacchi locali erano
state riconquistate anche le piccole teste di ponte costituite sul
fiume dal nemico. La grande battaglia aveva segnato una svolta
decisiva della guerra sul fronte italiano; l'esercito
austro-ungarico aveva subito pesanti perdite, 118.000 morti, feriti
e dispersi, superiori a quelle italiane, 85.600 morti, feriti e
dispersi, senza raggiungere risultati decisivi ed al contrario
subendo una grave indebolimento della sua forza materiale e della
sua coesione morale8.
Nonostante l'importante vittoria difensiva, il generale Armando
Diaz, capo di Stato maggiore del Regio Esercito dal 9 novembre 1917
dopo la destituzione del generale Luigi Cadorna in conseguenza del
disastro di Caporetto, rimaneva prudente e non molto ottimista sulla
possibilità di sferrare in tempi brevi una grande controffensiva.
Sollecitato il 12 giugno e il 27 giugno dal generale Ferdinand Foch,
comandante supremo alleato, a passare risolutamente all'attacco, il
generale Diaz aveva evidenziato nella lettere del 21 giugno e del 6
luglio come l'esercito austro-ungarico, pur battuto, aveva ancora
mostrato disciplina e capacità combattiva; egli inoltre lamentava
carenze di materiali e di complementi che rendevano consigliabile
evitare attacchi prematuri; il generale infine richiedeva il
concorso delle truppe statunitensi, in fase di massiccio afflusso in
Europa, anche sul fronte italiano9.
Il 24 luglio il generale Foch stilò un memorandum generale in cui
proponeva di passare finalmente all'offensiva generale sul fronte
occidentale sfruttando l'indebolimento dell'esercito tedesco e il
continuo arrivo, al ritmo di 250.000 soldati al mese, dei
contingenti degli Stati Uniti; pochi giorni dopo il generale John
Pershing, comandante in capo dell'American Expeditionary Force,
manifestò la sua contrarietà a disperdere le sue truppe su altri
fronti e si oppose alle richieste italiane di concorso di truppe
americane sul fronte del Piave. Mentre iniziavano le continue
offensive anglo-franco-americane, l'inattività dell'esercito
italiano sollevò le perplessità e le critiche degli alleati, e il
generale Diaz alla fine di agosto si recò in Francia per incontrare
il generale Foch, esporre la situazione sul fronte italiano e
richiedere nuovamente la partecipazione di reparti statunitensi10.
Durante la permanenza del generale Diaz in Francia, il generale Foch
ribadì la sua opposizione ad inviare in quel momento grandi
contingenti statunitensi in Italia; egli si dimostrò ottimista e
affermò di ritenere possibile entro la fine dell'anno ricacciare i
tedeschi oltre il Reno. Il comandante in capo alleato promise invece
l'invio nella primavera del 1919 di 400.000 soldati americani sul
fronte italiano. In realtà la situazione globale della guerra alla
metà di settembre ed i segni di cedimento degli Imperi Centrali sul
fronte occidentale e sul fronte balcanico sembravano prospettare la
possibilità di un crollo dei nemici già entro il 1918; di
conseguenza si correva il rischio per l'Italia che il conflitto
finisse con la vittoriosa avanzata alleata sugli altri fronti, prima
ancora che l'esercito italiano fosse finalmente passato all'attacco,
e con gli austro-ungarici ancora in possesso del Friuli e del
Veneto11.
Queste considerazione spinsero quindi lo stato maggiore
italiano ad elaborare i primi progetti offensivi; Il 25 settembre il
colonnello Ugo Cavallero, capo ufficio operazioni del Comando
Supremo, diramò uno "Studio di una operazione offensiva attraverso
il Piave" che illustrava una serie di possibili piani ed escludeva
attacchi nell'inadatto territorio dell'altopiano dei Sette Comuni.
Il documento prevedeva la possibilità di dover sferrare in breve
tempo un'offensiva di fronte all'imminente crollo del nemico; in
questo caso l'attacco avrebbe dovuto essere rapidamente allestito,
immediatamente efficace e cogliere di sorpresa gli austro-ungarici.
Il colonnello Cavallero proponeva un'offensiva in pianura, nel
settore del Piave, con direttrice strategica verso Vittorio Veneto.
Il fronte d'attacco sarebbe stato esteso su circa venti chilometri e
si prevedeva di impegnare ventiquattro divisioni e mezza oltre a tre
divisioni britanniche12.
Il 26 settembre il generale Enrico Caviglia comandante dell'8ª
Armata, venne convocato al quartier generale e messo a conoscenza
della memoria operativa redatta dal colonnello Cavallero; il
generale rilevò che mentre il colonnello Cavallero e il generale
Pietro Badoglio, sottocapo di Stato maggiore generale, apparivano
chiaramente favorevoli a passare all'offensiva, il generale Diaz era
molto meno deciso e manteneva dubbi e incertezze. Il generale
Caviglia espresse critiche al progetto e consigliò di apportare
alcune modifiche operative: egli proponeva di ampliare il fronte
d'attacco verso nord fino a Vidor e di organizzare, alcuni giorni
prima dell'inizio dell'offensiva principale, anche un assalto
diversivo nel settore del Monte Grappa. Le idee del generale
Caviglia vennero discusse e approvate in un colloquio con il
colonnello Cavallero e i generali Badoglio e Scipione Scipioni;
quindi il piano venne presentato al generale Diaz che sembrò
d'accordo13.
Nel frattempo la situazione generale del conflitto mondiale stava
evolvendo sempre più rapidamente a favore degli Alleati; il 26
settembre sul fronte occidentale era ripresa l'avanzata
anglo-franco-americana e il 4 ottobre gli Imperi Centrali
presentarono le prime richieste di armistizio14. Il Presidente del
Consiglio Vittorio Emanuele Orlando era seriamente preoccupato che
la guerra finisse improvvisamente senza una chiara vittoria
italiana; si temevano profonde ripercussioni diplomatiche e la
rimessa in discussione delle clausole del Patto di Londra del
191515. Il 3 ottobre Orlando si era recato a Parigi ed aveva
assicurato il generale Foch che in tempi brevi l'esercito italiano
sarebbe passato all'attacco, ma il comandante supremo alleato sembrò
poco interessato alla notizia e fiducioso di poter raggiungere la
vittoria sugli Imperi Centrali senza il concorso italiano16. Orlando
era sempre più impaziente; il 15 ottobre inviò al generale Diaz un
esasperato telegramma in cui affermava di "preferire all'inazione la
sconfitta"17; si ventilò la possibilità della sostituzione del capo
di Stato maggiore generale con il generale Gaetano Giardino18. In
precedenza, il 1º ottobre, si era già verificato un burrascoso
scontro tra Orlando e il generale Diaz sulla necessità di attaccare
al più presto anche per ragioni politiche19.
Il 13 ottobre finalmente il generale Diaz convocò al quartier
generale di Abano Terme i comandanti delle armate per illustrare il
piano di operazioni dell'offensiva preparato il giorno precedente
che riprendeva in gran parte il progetto del colonnello Cavallero
integrato con alcune delle proposte del generale Caviglia. Secondo
questo piano l'attacco decisivo sarebbe stato effettuato sul Piave
tra il Montello e le Grave di Papadopoli dall'8ª Armata del generale
Caviglia, supportata sui fianchi da due nuove armate molto più
piccole: la 10ª Armata affidata al generale britannico Frederick
Cavan, e la 12ª Armata comandata dal generale francese Jean César
Graziani. Dopo aver superato il fiume, le forze del generale
Caviglia avrebbero puntato su Vittorio Veneto, bloccando le vie di
comunicazione delle armate austriache schierate sul basso Piave,
mentre la 12ª Armata sarebbe avanzata a nord di Valdobbiadene e
verso Feltre. La 4ª Armata del generale Giardino doveva tenersi
pronta ad attaccare nel settore del Monte Grappa in direzione di
Primolano e Arten; infine la 6ª Armata del generale Luca Montuori
avrebbe protetto l'altopiano dei Sette Comuni20.
La decisione del comando supremo di costituire le due nuove armate,
formate da cinque divisioni italiane, due britanniche e una
francese, e di affidarne il comando a due generali stranieri, fu
critica da alcuni alti ufficiali tra cui i generali Giardino e
Caviglia, e sembra che sia stata motivata soprattutto da ragioni di
opportunità politico-diplomatica per riguardo nei confronti degli
alleati occidentali. In realtà dal punto di vista strategico la
costituzione delle due piccole armate era inutile mentre
l'assegnazione dei comandi ai due generali stranieri si dimostrò un
errore che avrebbe favorito l'enfatizzazione propagandistica da
parte anglo-francese di un presunto ruolo decisivo degli alleati
anche nella battaglia di Vittorio Veneto21.
Negli ultimi giorni prima dell'offensiva il piano di operazioni
venne ancora modificato dal comando supremo; il 18 ottobre il
generale Diaz comunicò ai generali Giardino, Caviglia, Montuori e
Graziani che era necessario, in attesa che le condizioni del Piave
permettessero l'attacco principale nel settore del fiume,
organizzare e sferrare al piu presto un attacco nell'area del
Massiccio del Grappa in direzione Primolano-Feltre per agganciare il
nemico e distogliere parte delle sue forze dagli altri settori. A
questo scopo il generale Giardino, che avrebbe diretto l'attacco con
la 4ª e la 12ª Armata, venne sollecitato a completare i preparativi
entro il 23 ottobre; si temeva che un armistizio generale fosse
imminente e quindi era assolutamente necessario attaccare subito.
Dopo un incontro tra i generali Giardino e Diaz il 21 ottobre, venne
stabilito che l'offensiva avrebbe avuto inizio il 24 ottobre con
l'attacco nel settore del Monte Grappa a cui sarebbe seguito entro
dodici ore l'assalto principale sul Piave22.
L'ordine d'operazioni definitivo venne comunicato il 21 ottobre e
confermava che l'offensiva sarebbe iniziata con un'azione della 4ª e
12ª Armata nel settore Brenta-Piave per impegnare le forze
austriache schierate nel Trentino, mentre l'attacco più importante
sul medio Piave sarebbe stato sferrato "entro le prime ore notturne
del medesimo giorno" dalla 8ª Armata, 10ª Armata e una parte della
12ª Armata; la 6ª Armata avrebbe collaborato con una manovra verso
Cismon. I generali Caviglia e Giardino mossero alcune critiche al
piano finale; il primo ritenne che fosse necessaria una maggiore
distanza di tempo tra i due attacchi per poter attirare le riserve
austriache nel settore del Brenta, mentre il generale Giardino nelle
sue memorie ha lamentato l'insufficiente tempo concessogli per i
preparativi e ha messo in dubbio l'efficacia tattica dell'assalto
nel settore del Monte Grappa; di fatto il piano di operazioni
avrebbe costretto la 4ª Armata a sferrare costosi attacchi frontali,
simili alle inutili battaglie dell'Isonzo, subendo pesanti
perdite23.
La situazione dell'esercito austro-ungarico
La sconfitta dell'Austria-Ungheria nella battaglia del
Solstizio ebbe importanza sull'esito complessivo della guerra
mondiale; nelle sue memorie di guerra il generale tedesco Erich
Ludendorff ha affermato che la Germania risentì fortemente del
fallimento dell'offensiva sul Piave. Egli scrisse che "per la prima
volta avemmo la sensazione della nostra sconfitta" e che la disfatta
dell'alleato sul fronte italiano che preludeva al crollo dell'Impero
asburgico, influì sul morale e sulla determinazione anche
dell'esercito tedesco impegnato ad organizzare gli ultimi tentativi
di offensiva sul fronte occidentale24. Nell'Impero austro-ungarico
la sconfitta provocò un irreversibile caduta della fiducia delle
truppe e i primi segni di allentamento delle coesione
politico-militare; lo stesso imperatore Carlo I, recatosi il 21
giugno a Bolzano ad esaminare la situazione con il generale Franz
Conrad, poté rilevare le deplorevoli condizioni morali e materiali
dei suoi soldati, delusi e scoraggiati dopo il fallimento e
scarsamente riforniti di vettovagliamento ed equipaggiamento25.
La situazione degli Imperi Centrali stava diventando critica su
tutti i fronti; alla fine del mese di giugno l'Alto comando tedesco
promise di fornire 2.000 vagoni di farina per il vettovagliamento
delle truppe imperiali in Italia ma richiese l'invio di sei
divisioni austro-ungariche sul fronte occidentale. Il 27 giugno il
generale Arthur Arz von Straussenburg, capo di Stato maggiore
generale, diede il suo consenso e le prime due divisioni partirono
per la Francia; egli in questa circostanza apparve ancora fiducioso
e scrisse di una nuova offensiva sul fronte italiano nel mese di
settembre possibilmente con il concorso di truppe tedesche. In
realtà le condizioni politico-militari dell'Impero si stavano
deteriorando; segni di scarsa coesione si manifestarono durante
lunghi dibattiti polemici nel parlamento ungherese e in quello
austriaco; forti critiche vennero rivolte ai vertici militari e il
13 luglio il generale Conrad, ritenuto tra i responsabili del
fallimento dell'ultima offensiva in Italia, venne rimosso dal
comando del "gruppo d'armate del Tirolo" e sostituito dall'arciduca
Giuseppe26.
Durante i mesi estivi tra gli alti ufficiali dei quartier generali
austro-ungarici si alternarono timori di prossime offensive italiane
con la pianificazione di una serie di progetti di attacchi a
carattere locale. Il Comando Supremo riteneva possibile un attacco
nemico in agosto e allertò il generale Svetozar Boroevic, comandante
del gruppo d'armate sul Piave, di potenziare le sue linee difensive;
contemporaneamente venne studiata anche un'offensiva tra il Brenta e
il Montello; venne costituito un "gruppo Belluno", al comando del
generale Ferdinand von Goglia, per organizzare le forze assegnate a
questo attacco previsto entro la fine del 1918. Il generale Boroevic
era molto meno ottimista; egli lamentava le grandi difficoltà di
vettovagliamento, lo scadimento del morale e della disciplina delle
truppe e riteneva prioritario potenziare le difese per respingere
un'offensiva nemica sulla direttrice Vittorio Veneto-Belluno.
All'inizio di settembre il generale Arz von Straussenburg condivise
queste valutazioni e quindi i progetti di attacco vennero
accantonati e l'attività venne concentrata soprattutto sul
consolidamento delle posizioni difensive27.
Il 14 settembre ebbe inizio l'offensiva alleata sul fronte
macedone che entro i primi giorni di ottobre avrebbe costretto alla
capitolazione la Bulgaria; il 27 settembre l'imperatore Carlo riunì
a Vienna un Consiglio della Corona, con la presenza del generale Arz
von Straussenburg, in cui vennero discusse le conseguenze
dell'imminente crollo bulgaro e in cui il capo di Stato maggiore
generale disse esplicitamente che era assolutamente necessario
finire la guerra entro l'anno 191828. Il ministro degli Esteri
Stephan Burián fu incaricato di fare pressioni sulla Germania; in
realtà anche l'alleato tedesco era in grave difficoltà. Il generale
Ludendorff aveva già sollecitato l'invio di una richiesta di
armistizio agli alleati e il 4 ottobre Guglielmo II, dopo aver
ottenuto il consenso dell'Austria-Ungheria e dell'Impero ottomano,
inviò la richiesta di armistizio al presidente statunitense Woodrow
Wilson. Il generale Arz von Strauessenburg, sulla base di queste
decisioni politiche, cercò di conservare la coesione dell'esercito
nonostante la diffusione di voci sulla pace imminente, ma
contemporaneamente iniziò a pianificare l'evacuazione del Veneto e
installò a Trento una commissione d'armistizio guidata dal generale
Viktor Weber von Webenau29.
Mentre cresceva la protesta nazionalistica e l'aspirazione
all'indipendenza delle popolazioni ceche, slovacche, polacche, slave
e ucraine dell'Impero, e si accresceva anche il dissidio tra
l'Austria e l'Ungheria, il 14 ottobre al Comando Supremo di Baden
venne nuovamente discussa l'opportunità di iniziare lo sgombero del
Veneto30. Alcuni alti ufficiali espressero il timore di un crollo
dell'esercito durante la ritirata sotto la pressione degli italiani,
e si paventò la possibilità di defezioni in massa delle truppe che
avrebbero potuto diventare preda di spinte rivoluzionarie
estremistiche. Si studiarono tuttavia progetti per iniziare
l'evacuazione dei depositi e dei materiali ammassati dietro il
fronte e il 17 ottobre vennero messi in movimento i primi trasporti,
suscitando turbolenza tra i reparti di retrovia. Le voci di ritirata
provocarono grande tensione tra gli ufficiali e i soldati e
favorirono la disgregazione di alcune unità non di lingua tedesca31.
Le ultime settimane prima dell'inizio dell'offensiva italiana furono
drammatiche per l'Impero austro-ungarico: il proclama di Carlo I del
16 ottobre che prevedeva la ristrutturazione dello stato in senso
federale venne accolto con scetticismo e sfiducia dai politici e
dalle popolazioni dell'Impero; il presidente Wilson la sera del 20
ottobre comunicò espressamente che la pace avrebbe dovuto fondarsi
sull'autodeterminazione dei popoli dell'Austria-Ungheria. Nel
Consiglio della Corona del 21 ottobre il generale Arz von
Straussenburg riferì che la situazione militare era pessima e che
era assolutamente necessario concludere la pace "ad ogni costo"32.
Le forze contrapposte
Il Regio Esercito
Il 24 ottobre 1918, giorno dell'inizio dell'offensiva finale
dell'esercito italiano nella Grande Guerra, il generale Diaz
schierava dal Passo dello Stelvio al mare un complesso di forze
costituito da 57 divisioni di fanteria e 4 divisioni di cavalleria,
assegnate al comando di otto armate di prima linea ed una armata di
riserva33.
Sul fianco sinistro, tra il passo dello Stelvio e la riva
occidentale del Lago di Garda, si trovava la 7ª Armata del generale
Giulio Tassoni formata da due corpi d'armata, seguivano la 1ª Armata
del generale Guglielmo Pecori Giraldi, schierata dalla sponda
occidentale del Lago di Garda alla Val d'Astico con tre corpi
d'armata, e la 6ª Armata del generale Luca Montuori che occupava
l'altopiano dei Sette Comuni fino alla riva sinistra del Brenta con
altri tre corpi d'armata. Il settore del Massiccio del Grappa fino
alla cima Palon, era affidato alla 4ª Armata del generale Gaetano
Giardino che disponeva di tre corpi d'armata, rafforzati da quattro
gruppi d'assalto e un reggimento di cavalleria; dal Monte Tomba fino
ai ponti di Vidor sul Piave si trovava la 12ª Armata guidata dal
generale francese Jean César Graziani; questa formazione era
costituita da un corpo d'armata italiano e dal 12º corpo d'armata
francese con una divisione e due reggimenti francesi34.
Lungo il corso del Piave, dal ponte di Vidor a Ponte della Priula,
si trovava l'8ª Armata del generale Enrico Caviglia che, costituita
da quattro corpi d'armata e dal corpo d'assalto del generale
Francesco Saverio Grazioli, era la formazione più numerosa e potente
dell'esercito; sulla sua destra era schierata sul fiume, da Ponte
della Priula fino a Ponte di Piave, la 10ª Armata, guidata dal
generale britannico Frederick Cavan, formata da un corpo d'armata
italiano e dalle due divisioni inglesi del 14º corpo d'armata
britannico del generale James Babington. Infine l'ultimo tratto del
fronte, da Ponte di Piave fino al mare, era affidato alla 3ª Armata
del Duca d'Aosta con due corpi d'armata rinforzati da due reparti
d'assalto e tre reggimenti di cavalleria; a questa armata era stato
assegnato anche il 332º reggimento fanteria statunitense. Il
generale Diaz aveva inoltre a disposizione in riserva la 9ª Armata
del generale Paolo Morrone con altri due corpi d'armata e il corpo
di cavalleria; in questa armata era inquadrata anche la 6ª Divisione
cecoslovacca35, reclutata tra ex prigionieri dell'esercito
austro-ungarico di origine ceca36.
L'esercito schierato per l'ultima battaglia era formato in totale da
circa 700 battaglioni di fanteria, tra cui otto battaglioni di
ciclisti e 31 reparti d'assalto, mentre la cavalleria era costituita
da quattro divisioni, nove reggimenti, altri gruppi di squadroni e
formazioni di autoblindo37. L'artiglieria italiana aveva subito
perdite enormi nel corso della battaglia di Caporetto, ma a distanza
di un anno, grazie agli sforzi dell'industria bellica, aveva
ricostituito e modernizzato le sue forze raggiungendo una notevole
efficienza38. L'artiglieria venne soprattutto concentrata nelle
armate destinate a sferrare l'offensiva; quindi la 7ª e la 1ª
Armata, che avrebbero dovuto svolgere solo compiti minori,
disponevano di un numero molto ridotto di batterie, mentre la 6ª
Armata che avrebbe dovuto sostenere sul fianco le forze d'attacco
principale ricevette 1.057 cannoni e 215 bombarde.
Nelle sue memorie il generale Giardino afferma polemicamente
che la sua armata venne solo all'ultimo momento incaricata di
passare all'attacco sul Monte Grappa e che fino al 19 ottobre era
ancora in fase di riorganizzazione, le erano appena state assegnate
nuove batterie che erano in corso di schieramento. In totale
disponeva di 1.385 cannoni, compresi i pezzi del I corpo d'armata
della 12ª Armata sulla destra, ma l'organizzazione del fuoco non era
soddisfacente e l'artiglieria austro-ungarica in questo settore era
meglio preparata e disponeva di ottimi campi di tiro sulle direzioni
d'attacco39. La massa principale dell'artiglieria italiana era stata
raggruppata tra Pederobba e le Grave di Papadopoli, la 8ª e 10ª
Armata e l'ala destra della 12ª Armata disponevano in totale di
3.570 cannoni, tra cui 1.300 pezzi di medio e grosso calibro
nell'area del Montello, e circa 600 bombarde; a ovest di Nervesa si
trovavano alcuni cannoni da 381 mm di cui era previsto l'impiego
contro il posto di comando austriaco di Vittorio Veneto. Nel
complesso erano disponibili 7.750 cannoni, di cui 250 britannici e
200 francesi40; altre fonti riportano cifre più elevate, fino a
quasi 10.000 cannoni41.
L'alto comando italiano era quindi riuscito a concentrare nel
settore del Piave tra Vidor e le Grave di Papadopoli, una grande
forza offensiva in grado di raggiungere gli obiettivi strategici
previsti e molto superiore alle forze austro-ungariche presenti nel
settore. La 8ª, 10ª e 12ª Armata raggruppavano infatti oltre venti
divisioni e 4.100 cannoni e bombarde, mentre la 6ª Armata austriaca
che difendeva il fiume, disponeva di sole nove divisioni e 835
cannoni42. La situazione era molto diversa nel settore del Monte
Grappa dove il generale Giardino schierava undici divisioni e 1.385
cannoni contro le undici divisioni e 1.460 cannoni del "Gruppo
Belluno" austriaco. In queste condizioni l'attacco della 4ª Armata
contro forze numerose e tenaci in un terreno impervio si presentava
molto difficile; il generale Giardino deplorò ripetutamente il
sacrificio richiesto ai suoi soldati costretti ad un attacco
frontale43.
Alla vigilia dell'offensiva finale le condizioni dell'esercito
italiane apparivano buone; il morale delle truppe era elevato e si
era diffusa la convinzione di una prossima vittoria. La situazione
materiale era soddisfacente e i soldati disponevano finalmente di
vettovagliamento ed equipaggiamento abbondante e di ottima qualità.
Dal punto di vista tattico l'addestramento era migliorato e i
reparti avevano iniziato da alcuni mesi esercitazioni per sviluppare
le tattiche della guerra di movimento; secondo il generale Caviglia,
particolarmente efficienti erano i reparti d'assalto; grande cura
era stata inoltre dedicata ai reparti di pontieri, indispensabili
per effettuare con successo il difficile passagio del Piave44.
L'Esercito Imperiale e Regio
L'esercito austro-ungarico schierato sul fronte italiano era
minato dalla sfiducia, dalle sofferenze materiali e dalla discordia
nazionalistica ma rimaneva ancora un complesso di forze numeroso,
tenace e solidamente inquadrato; suddiviso nei due raggruppammenti
del Tirolo e del Piave, allineava quattro armate e il cosiddetto
"Gruppo Belluno".
Il "Gruppo d'armate del Tirolo" era comandato dall'arciduca Giuseppe
dopo la destituzione del generale Conrad e schierava dal Passo dello
Stelvio fino al fiume Astico la 10ª Armata del generale Alexander
von Krobatin con quattro corpi d'armata, varie forze di riserva e
1.230 cannoni, mentre la 11ª Armata del generale Viktor von
Scheuchenstuel disponeva, dall'Astico al fiume Brenta, di tre corpi
d'armata, tre divisioni di riserva e 1.120 cannoni; il gruppo
d'armate teneva inoltre in seconda linea la 3ª Divisione da montagna
Edelweiss e la 74ª Divisione fanteria45. Il cosiddetto "Gruppo
d'armate Boroevic" era guidato dal capace ed esperto generale
Svetozar Boroevic e difendeva il settore del fronte austro-ungarico
compreso tra la riva sinistra del Brenta e il mare e quindi copriva
tutta la linea del Piave. Il "Gruppo Belluno" del generale Ferdinand
von Goglia era schierato dal Brenta a Fener con tre corpi d'armata e
1.460 cannoni e disponeva anche di una riserva costituita da altre
tre divisioni; la 6ª Armata del generale Alois von
Schönburg-Hartenstein era schierata nel settore piu critico da est
di Fener alla Grave di Papadopoli con due corpi d'armata, tre
divisioni di riserva e 835 cannoni. Infine dalle Grave di Papadopoli
fino al mare il fronte era assegnato alla 5ª Armata (denomina