Pierre Milza, Serge Berstein
Il Fascismo
Storia Universale
RCS, Milano 2004
CAPITOLO TREDICESIMO
IL FASCISMO E LA CHIESA CATTOLICA
Il problema delle relazioni fra lo Stato fascista e la Chiesa
cattolica si pone a due livelli.
Prima di tutto a livello cronologico. Alla Chiesa cattolica, almeno
in teoria, appartengono il 99% degli italiani. È una potenza che
dispone di quadri in tutto il Paese: membri del clero, dirigenti
dell'Azione cattolica e inizialmente anche dirigenti politici del
PPI. A questo titolo, non poteva lasciare indifferente un dittatore
che aspirava a raccogliere e controllare tutte le energie italiane.
Ma, a partire dal 1870, si era aperto un contenzioso fra la Chiesa e
lo Stato, e la gerarchia cattolica sperava di ottenerne la
liquidazione con un atteggiamento conciliante.
A livello spirituale fra fascismo e Chiesa c'era una
contrapposizione fondamentale. Il fascismo, come dottrina
totalitaria, pretendeva di ispirare tutti gli aspetti della vita
dell'uomo ivi compreso quello della vita morale. Il cattolicesimo
aspirava anch'esso alla direzione spirituale degli uomini. Ciò
costituiva una incompatibilità che già agli esordi del regime si
manifestò con discrezione, ma per lungo tempo venne dissimulata
dalla reciproca volontà di liquidare il conflitto di ordine
temporale. Dopo la sua sistemazione, invece, la tensione ideologica
si aggravò soprattutto intorno alla questione dei giovani, e in
particolare quando, a partire dal 1936, il fascismo si allineò
sulle posizioni della Germania nazista.
1. La situazione nel 1922
Cinquant'anni dopo l'integrazione nel regno d'Italia degli ultimi
territori pontifici la questione romana restava l'elemento
fondamentale del contenzioso che opponeva Chiesa e Stato. Pio IX,
dopo la perdita delle prime province, aveva reso giuridicamente
difficile l'ulteriore regolamentazione della questione dichiarando
che gli Stati della Chiesa non gli appartenevano, e che quindi non
avrebbe potuto, nemmeno volendolo, riconoscerne la perdita e che
nemmeno i suoi successori lo avrebbero potuto. Essi, pur desiderosi
di normalizzare le relazioni con lo Stato italiano, non mutarono
tale posizione giuridica, che poneva i due protagonisti in una
situazione falsa, visto che il papato rifiutava di riconoscere Roma
capitale d'Italia e di farsi rappresentare presso lo Stato
italiano.
L'altro elemento del contenzioso risiedeva nella situazione della
Chiesa romana all'interno dello Stato italiano, quale era definita
dalla legislazione del 1865. Essa prevedeva l'instaurazione del
matrimonio civile - mentre quello religioso perdeva valore legale -
la soppressione di molte istituzioni religiose, dei cappellani
militari, dell'esenzione dal servizio militare dei preti ecc.
Rifiutava di riconoscere personalità morale alle istituzioni e
associazioni religiose, il che significava la messa sotto sequestro
di molti loro beni; nella pratica, inoltre, l'insegnamento tendeva
a laicizzarsi. Nella maggior parte delle scuole non c'era più il
crocifisso, e nemmeno nei tribunali. I diplomi potevano essere
rilasciati solo dalle scuole pubbliche. I cattolici, tenuti in
sospetto dalle autorità, vennero allontanati a tutti i livelli dai
posti di responsabilità.
Di questa situazione la Chiesa ritenne responsabile il liberalismo.
Tutti i papi che si succedettero dopo Pio IX approvarono la
condanna formale dei principi liberali proclamata dall'enciclica
Quanta cura e dal Sillabo. E Pio XI, come i suoi predecessori,
guardava con ostilità tutto ciò che richiamava lo Stato liberale,
nemico naturale della Chiesa.
Tuttavia ben prima del 1922 si possono registrare molti segni di
attenuazione di questa contrapposizione fra Chiesa e Stato
liberale. Da parte del papa, si autorizzarono i cattolici italiani
a partecipare alla vita politica e nel corso della guerra si
moltiplicarono i contatti ufficiali con il governo del regno. Nel
1920, Benedetto XV permise che i capi di Stato stranieri invitati
ufficialmente dal governo italiano potessero venire in visita
speciale a Roma. Pio XI, in occasione della sua elezione al seggio
pontificio, nel 1922, diede la benedizione alla folla radunata in
piazza San Pietro - per la prima volta dal 1870 - e accettò gli
onori resi dalle truppe reali. La sua prima enciclica pur restando
ferma nei principi manifestò speranza nella normalizzazione. Da
parte sua il governo italiano, dove i popolari giocavano un ruolo
importante, si dimostrò disposto all'accomodamento. Se Giolitti
restava attaccato alla formula delle «due parallele che avanzano
separatamente senza incontrarsi mai», Bonomi compì invece passi
decisivi. Nel 1922 inviò un ministro popolare a chiedere notizie di
Benedetto XV morente e quando questi scomparve indirizzò le proprie
condoglianze al Vaticano e fece prendere il lutto al governo
italiano.
Possiamo dire che nel 1922 era iniziato un processo che testimoniava
un clima nuovo. Già nel 1919 il papa aveva dimostrato di avere
fretta di regolarizzare la situazione inviando un prelato a Parigi,
a discutere con Orlando, dopo che un vescovo americano, monsignor
Kelly, ebbe tracciato con lui le basi di una soluzione del
conflitto. Ma Orlando, come Nitti e Giolitti, si dimostrò poco
interessato a superare lo status quo, ritenuto soddisfacente.
Invece Mussolini si impadronì del processo già intrapreso e lo
condusse a buon fine a vantaggio del fascismo.
2. Mussolini e i cattolici
Il capo del fascismo era personalmente ateo come gli uomini a lui
più vicini che avevano costituito il primo fascismo.
Anarco-sindacalisti atei e futuristi, furiosamente anticlericali,
non potevano che rafforzare le tendenze. Nella lista presentata dai
fascisti a Milano nel 1919 figuravano il direttore dell'«Asino», un
foglio violentemente anticlericale, e il poeta Marinetti che a gran
voce chiedeva la «svaticanizzazione» dell'Italia. D'altra parte, il
programma del primo fascismo prevedeva la confisca di tutti i beni
delle congregazioni religiose e l'abolizione di tutte le rendite
episcopali.
Ma questo programma della prima ora non resistette alla prova dei
fatti. Ben presto, il fascismo si pose dalla parte della destra
conservatrice ed è caratteristico che il primo discorso pronunciato
alla Camera da Mussolini contenesse avances nei riguardi del
Vaticano:
«La tradizione latina e imperiale è rappresentata oggi dal
cattolicesimo... La sola idea di universalità che oggi ancora
esiste è quella che irradia dal Vaticano. Se esso rinuncerà
definitivamente ai suoi sogni di potere temporale, l'Italia profana
e laica dovrebbe fornire al Vaticano un aiuto materiale, dargli
facilitazioni per erigere scuole, chiese, ospedali... Perché lo
sviluppo del cattolicesimo nel mondo, l'aumento dei 400 milioni di
uomini che, da tutte le parti della terra, volgono i loro sguardi
verso Roma, tutto ciò ci deve interessare, renderci fieri, noi
italiani».
In altri termini, Mussolini vorrebbe intendersi con la Chiesa per
sfruttarne l'influenza presso le masse e per fare del cattolicesimo
romano il veicolo delle tendenze imperialistiche italiane. Arrivato
al potere si sforzò di realizzare tale obiettivo e moltiplicò a tal
fine, già dal 1922, i gesti che avrebbero dovuto attirargli le
simpatie della Chiesa. Il 12 marzo 1923 il nuovo commissario reale
per la città di Roma, Cremonesi, rese visita al cardinale vicario
Pompili che esercitava le funzioni del papa nel vescovato di Roma.
Tale gesto tendeva a ratificare l'esistenza di rapporti ufficiali
fra lo Stato fascista e il Vaticano. Seguì tutta una serie di
misure miranti a migliorare la situazione della Chiesa:
aggravamento delle sanzioni giudiziarie per offese alla religione
cattolica e al clero, reintroduzione del cappellano nell'esercito,
del crocifìsso nelle scuole e nei tribunali ecc. Nello stesso tempo
il governo concesse somme rilevanti per la ricostruzione delle
chiese distrutte durante la guerra. Nell'aprile 1923, la riforma
della scuola promossa da Gentile introdusse l'esame di Stato per le
scuole secondarie, il che automaticamente poneva su un piano di
eguaglianza gli allievi della scuola pubblica e quelli degli
istituti privati e affermò il principio dell'autonomia delle
università rendendo possibile la creazione di una università
cattolica, l'Università del Sacro Cuore di Milano.
Ma, parallelamente, i fascisti perseguirono sistematicamente la
distruzione di tutto ciò che ai loro occhi rappresentava il potere
temporale del papa. Dopo la soppressione del PPI, nel 1926,
rivolsero i loro attacchi contro le organizzazioni dell'Azione
cattolica. Nell'ottobre 1926 l'attentato Zamboni fu seguito da una
recrudescenza della repressione contro tutto ciò che non era
fascista. I militanti del sindacato bianco furono i primi a farne le
spese. Ma a venir prese di mira furono soprattutto le organizzazioni
giovanili cattoliche, lo scoutismo in primo luogo; nel gennaio 1927
Mussolini proibì nei comuni di meno di 20.000 abitanti tutte le
organizzazioni giovanili non fasciste, costringendo le superstiti
ad adottare le insegne fasciste. L'anno successivo tutte le
organizzazioni giovanili di carattere paramilitare che non
dipendessero dai balilla vennero sciolte. Anche la Federazione delle
Associazioni Sportive Cattoliche Italiane (FASCI) venne sciolta
nell'aprile 1927, perché impossibilitata a continuare a funzionare
parallelamente all'organizzazione sportiva fascista, il CONI.
Infine, per premunirsi contro reazioni troppo vive da parte della
Chiesa cattolica, lo Stato non esitò a esercitare un vero e proprio
ricatto. Per esempio, nella primavera del 1928, per costringere il
papato al silenzio in occasione della liquidazione dello scoutismo
il ministro della Pubblica Istruzione minacciò di richiamare alla
cattedra di storia del cristianesimo dell'università di Roma il
prete scomunicato Ernesto Bonaiuti, che i fascisti avevano sospeso
per compiacere la Santa Sede. Come reagì la Chiesa a questa
pratica, tipicamente mussoliniana, del bastone e della carota?
3. Pio XI e il fascismo
Comprendere la politica del Vaticano nei confronti dello Stato
fascista impone di analizzare prima di tutto i sentimenti di Pio XI
nei confronti dei problemi politici del suo tempo.
Come tutti i pontefici che lo avevano preceduto Pio XI era prima di
tutto decisamente ostile allo Stato liberale. Il liberalismo ai suoi
occhi rappresentava la lotta larvata contro la Chiesa,
l'anticlericalismo dissimulato, sotto un manto di neutralità, la
teoria delle «due parallele» che di fatto instaura la separazione.
Quando divenne papa nel 1922 la conquista legale dello Stato
liberale da parte del PPI era fallita e il suo fallimento tutto
sommato era stato per lui ragione di soddisfazione. Mussolini,
naturalmente, sfruttò tale atteggiamento e nel maggio 1925 scrisse
a Pio XI una lettera nella quale affermava:
«Il regime fascista superando, in questo campo come in altri, i
pregiudizi del liberalismo ha ripudiato sia il principio
dell'agnosticismo religioso dello Stato sia quello della separazione
fra Chiesa e Stato... Con una fede profonda nella missione religiosa
e cattolica del popolo italiano il governo fascista ha proceduto
metodicamente alla restituzione allo Stato italiano e alla nazione
italiana del loro carattere di Stato cattolico e di nazione
cattolica che la politica liberale si era sforzata per lunghi anni
di sopprimere». D'altra parte, quando era ancora il cardinale
Ratti, Pio XI era stato nunzio a Varsavia negli anni della
rivoluzione russa e della guerra russo-polacca. Ne aveva ricavato
l'idea che il pericolo principale fosse il bolscevismo. Ciò spiega
sia la sua politica sociale rivolta a contendere le masse operaie al
comunismo sia il suo atteggiamento verso il fascismo considerato
come un efficace baluardo contro il contagio rivoluzionario. Come
arcivescovo di Milano, prima della sua elezione al pontificato, non
si era dimostrato ostile ai fascisti e diventato papa ritenne che
Mussolini potesse essere l'uomo che in Italia avrebbe sbarrato la
strada al pericolo socialista normalizzando contemporaneamente le
relazioni fra Stato e Chiesa. Fra il 1922 e il 1927 egli adottò
quindi un atteggiamento sistematicamente favorevole al Duce,
attribuendo alla responsabilità dei dirigenti locali del fascismo e
della sua base le aggressioni di cui erano vittime gli uomini e le
organizzazioni del mondo cattolico. Numerosissimi sono i testi nei
quali il papa o gli alti responsabili della Chiesa indicano in
Mussolini l'uomo della Provvidenza, dall'esistenza del quale
dipendono le sorti d'Italia. Nel 1925, dopo l'attentato Zamboni,
egli condannò «tale criminale attentato il cui solo pensiero ci
rattrista... e ci fa rendere grazie a Dio del suo fallimento».
L'anno successivo, dopo l'attentato di Zamboni, egli esaltò «l'uomo
che dirige le sorti del Paese con tanta energia», e si rallegrò che
fosse sfuggito al pericolo che rischiava di «farlo perire, e il
Paese con lui». Ma tali omaggi resi alla persona e all'azione di
Mussolini non devono far dimenticare gli attacchi contro i
cattolici, soprattutto dopo l'attentato Zamboni. L'allocuzione
pontificale che lo seguì (detta «allocuzione delle due tempeste»),
del dicembre 1926, evoca prima di tutto la prima tempesta, che
colpiva le organizzazioni cattoliche, la «sorda minaccia che sembra
pesare sulle opere e le organizzazioni dell'Azione cattolica mentre
una minaccia grava sull'educazione e la formazione cristiana della
gioventù».
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Ma la spiega immediatamente con l'altra tempesta, dell'indignazione
che ha afferrato l'Italia alla notizia dell'attentato contro l'uomo
della Provvidenza. Il che limita fortemente la portata delle
iniziali rimostranze. Addirittura, il papa protesta contro le
violenze fasciste solo nella misura in cui esse colpiscono i
cattolici. Nei confronti delle altre vittime dello squadrismo il
silenzio è completo. Il testo pontificale potè addirittura sembrare
giustificativo di certe violenze. «In un furore cieco» esso dichiara
«si sono assimilati, sembra, ai nemici dell'ordine i buoni
cattolici la cui fede e la cui religione ne fanno i migliori amici e
difensori dell'ordine stesso.»
Il papa protesta dunque contro gli atti arbitrari di cui possono
essere vittime i cattolici, senza però mettere in discussione i
metodi e i principi fondamentali dello Stato fascista. Ciò che egli
cerca di ottenere è, all'interno del quadro fascista, un
trattamento privilegiato per la Chiesa. Caratteristico
l'atteggiamento verso gli scout cattolici. Quando vennero prese le
prime misure contro di essi nel gennaio 1927, Pio XI deplorò che il
governo si fosse rivolto contro un'opera cattolica e affermò il
diritto della Chiesa a inquadrare la gioventù e a provvedere alla
sua educazione morale e spirituale. Ma non volendo creare difficoltà
al governo, né metterne in discussione il prestigio, decise lo
scioglimento di tutte le organizzazioni cattoliche in tutte le
città di meno di 20.000 abitanti. In occasione della soppressione
definitiva del movimento il giornale del Vaticano deplorò la
«statolatria» di cui lo Stato fascista dava prova, ma il pontefice
si limitò a questo e lo scioglimento potè avere luogo senza alcuna
resistenza.
Approvando sostanzialmente gli obiettivi politici del fascismo, e
sperando di ottenerne la normalizzazione dei rapporti con lo Stato,
il pontefice passava dunque sopra a ciò che considerava secondario.
Questo al fine di poter negoziare col governo la liquidazione di un
contenzioso di 60 anni.
4. Il Patto del Laterano
Nel gennaio 1925 lo Stato fascista aveva designato una Commissione
per la riforma della legislazione ecclesiastica. Fra i commissari si
trovavano tre preti romani che, pur non essendo ufficialmente
rappresentanti della Santa Sede, erano stati nominati col suo
consenso. La Commissione sfociò nella preparazione di un progetto di
legge sullo statuto civile delle organizzazioni religiose, sulla
nomina delle cariche ecclesiastiche ecc., cioè essenzialmente sulla
legalizzazione di pratiche già affermate nel costume. Ma prima che
il progetto venisse presentato al Parlamento, Pio XI in una lettera
al segretario di Stato, cardinale Gasparri, fece sapere che la
Santa Sede non aveva partecipato alla sua elaborazione e che il
papa non poteva ammettere che altri legiferassero in materia
ecclesiastica senza aver preventivamente preso accordi col papato.
Il ministro guardasigilli Rocco annunciò allora al Parlamento che la
lettera del papa cambiava i termini del problema. Rinunciò a
proseguire nella elaborazione della legislazione e dichiarò che il
progetto sarebbe stato ripreso al momento opportuno «su basi più
ampie» (maggio 1925).
Il negoziato iniziò nell'agosto 1926 dopo accenni già fatti da
Mussolini e con infinite precauzioni da parte della Santa Sede.
Proseguì fino alla firma degli accordi del febbraio 1929 attraverso
numerose crisi (attentato Zamboni, scioglimento degli scout
cattolici ecc.) Tali negoziati spiegano in parte la moderazione e
l'arrendevolezza di cui diede prova Pio XI, perché l'accordo che
andava maturando era per lui essenziale mentre per Mussolini la
sparizione delle organizzazioni cattoliche era più importante della
regolarizzazione del contenzioso con la Santa Sede. I negoziatori
erano per lo Stato fascista il consigliere di Stato Barone e per la
Santa Sede Francesco Pacelli, avvocato e fratello del futuro papa
Pio XII. Quando Barone morì, nel gennaio 1929, Mussolini condusse
personalmente, con l'aiuto di Rocco, l'ultima fase della trattativa.
In essa il re venne strettamente coinvolto e il Duce lo tenne al
corrente con note esaurienti dell'evolversi della discussione,
sollecitando il suo accordo e tenendo conto delle sue eventuali
osservazioni. Alla fine, l'I 1 febbraio, si giunse a un accordo che
venne firmato al Laterano da Mussolini e dal cardinal Gasparri.
Il «patto del Laterano» comprende due serie di testi. Un trattato
diplomatico che liquida la questione romana e al quale venne annessa
una convenzione finanziaria. I due articoli essenziali erano quelli
in cui il governo italiano riconosceva alla Santa Sede la piena
proprietà e il potere sovrano sulla città del Vaticano, mentre il
papa rinunciava a ogni rivendicazione temporale. Queste due
fondamentali rivendicazioni vennero precedute dalla riaffermazione
di quelle contenute nell'articolo primo dello Statuto albertino
secondo il quale la religione cattolica, apostolica e romana era la
sola religione di Stato, mentre le altre erano solo tollerate. In
conseguenza dell'accordo, il governo abrogava la «legge delle
guarentigie» tranne nelle disposizioni concernenti l'inviolabilità
e sacralità della persona del papa. Gli altri articoli precisavano
la delimitazione del territorio pontificio (città del Vaticano,
piazza San Pietro aperta al pubblico italiano, residenza estiva di
Castelgandolfo e alcune basiliche a Roma e in periferia), le
condizioni della cittadinanza, della giurisdizione penale ecc.
L'Italia assimilava gli attentati e le offese al pontefice a quelli
rivolti contro il sovrano. Attribuiva ai cardinali gli onori dovuti
ai principi della famiglia reale, dichiarava di lasciare libertà di
circolazione ai visitatori esteri di San Pietro e garantiva ogni
libertà a concili e conclavi.
Sul piano internazionale, lo Stato del Vaticano si dichiarava
estraneo a tutti i conflitti temporali fra Stati e si interdiva
dall'intervenirvi se non nel caso in cui venisse sollecitato da
comune accordo il suo arbitrato. Si può affermare che a questo
proposito Mussolini riuscì, al prezzo di una concessione in tema di
sovranità, dove tutti gli uomini dello Stato liberale avevano
fallito a partire dal 1871. La Santa Sede riconosceva la perdita del
potere temporale e accettava i limiti di fatto impostile da quando
Roma era diventata capitale d'Italia. La convenzione finanziaria
non era affatto arrendevole con la Santa Sede che nel negoziato
dovette tenere conto delle difficoltà finanziarie dell'Italia. Essa
prevedeva il versamento da parte dello Stato italiano di una
indennità di 750 milioni di lire e di titoli di rendita
corrispondenti a un capitale di un miliardo di lire con un
interesse del 5%. Ma se il trattato diplomatico rappresentava un
successo per lo Stato esso veniva largamente compensato dai
vantaggi che la Chiesa traeva dal Concordato. Esso riconosceva la
totale indipendenza della Chiesa in materia di nomine
ecclesiastiche. La Santa Sede nominava direttamente vescovi e
arcivescovi e si impegnava a informarsi presso il governo su
eventuali obiezioni politiche alla nomina, senza peraltro essere
tenuta ad adeguarsi ai pareri dati (i vescovi però, prima di
insediarsi, dovevano prestare giuramento di fedeltà allo Stato). Lo
Stato accordava la sua protezione agli ecclesiastici nell'esercizio
del loro potere spirituale. Riconosceva la personalità giuridica a
tutte le associazioni religiose che non la possedevano e accettava
di estenderla alle case generalizie e alle procure delle
associazioni religiose straniere, permettendo così a queste di
acquistare terre e beni. Accettava di concedere privilegi alle
persone e agli istituti ecclesiastici. I preti erano esentati dal
servizio militare e dalle funzioni di giurato. Le autorità civili
non potevano pretendere che comunicassero loro informazioni di cui
fossero venuti a conoscenza nel corso del loro ministero. Gli
edifici di culto venivano esentati da requisizione e occupazione e
non potevano essere demoliti senza autorizzazione dell'autorità
ecclesiastica. Infine, il Concordato regolava due questioni che
stavano particolarmente a cuore alla Chiesa. Lo Stato dichiarava
con l'articolo 34 di riconoscere al matrimonio religioso lo stesso
valore del matrimonio civile. Il sacerdote, dopo aver celebrato il
matrimonio, assumeva la funzione di ufficiale di stato civile e
redigeva un atto di cui trasmetteva copia ai municipi. Il matrimonio
civile diventava quindi obbligatorio solo per i non cattolici. Per
ciò che concerne la scuola, l'insegnamento religioso veniva
considerato il coronamento dell'insegnamento, il che presupponeva
l'introduzione nelle scuole medie di insegnanti e libri approvati
dalla Chiesa. Ma lo Stato non accolse in questo campo tutte le
pretese della Chiesa, in particolare quelle che avrebbero fatto
degli insegnanti dei veri e propri predicatori di catechismo.
Complessivamente, l'insieme delle disposizioni concordatarie
rappresentava, per la Chiesa, anche con le riserve in campo
scolastico, un vero e proprio trionfo. Rompendo con 60 anni di
tradizione liberale di laicità dello Stato, Mussolini accettava una
vera e propria confessionalizzazione dell'Italia che faceva della
Chiesa cattolica un corpo privilegiato e di coloro che non erano
cattolici dei cittadini di serie B.
5. Pro o contro gli accordi
Poiché i negoziati erano stati tenuti segreti, l'annuncio della
conclusione del trattato suscitò grande impressione in Italia e nel
mondo. Nel Paese, la maggior parte dell'opinione pubblica accolse i
Patti con soddisfazione. I cattolici si rallegrarono, per il
superamento della tensione con lo Stato e una parte di essi colsero
tale occasione per avvicinarsi pubblicamente al regime. A tale
decisione erano stati peraltro spinti dallo stesso papa che, due
giorni dopo la firma, dichiarò ai professori e agli studenti
dell'Università cattolica del Sacro Cuore: «Siamo stati nobilmente
aiutati dall'altra parte. Forse ci voleva un uomo come quello che la
Provvidenza ci ha fatto incontrare: un uomo al quale fossero
estranee le preoccupazioni della scuola di pensiero liberale».
Da parte fascista la soddisfazione non fu minore. La base
sottolineava il fatto che Mussolini era riuscito in una impresa
nella quale Cavour e i maggiori uomini di Stato italiani avevano
fallito e i dirigenti si felicitavano del peso che, in Italia come
all'estero, il Duce acquisiva nei negoziati internazionali, grazie
al suo ruolo di restauratore dell'ordine religioso e morale.
Di fronte alla generale soddisfazione, i critici costituirono
gruppi piccoli e isolati. Prima di tutto, fra i cattolici, c'erano
persone che consideravano che ci fosse incompatibilità fra il
regime fascista e i principi cristiani. Erano i democratici
cristiani, ma anche cattolici non impegnati politicamente e che non
concepivano che si potesse stipulare un'alleanza fra un regime che
passava cinicamente sopra tutti i valori morali e il vicario di
Cristo. Erano ostili ai Patti lateranensi anche molti giuristi
liberali tradizionali, che consideravano che lo Stato avesse
abdicato, a favore della Chiesa, da prerogative cui non doveva
rinunciare e il cui abbandono attentava al principio
dell'eguaglianza di tutti di fronte alla legge. Era questa
l'opinione del professor Scia-loia, senatore che aveva aderito al
fascismo, e soprattutto dello storico B. Croce che, con L.
Albertini, al Senato si batté contro gli accordi. Infine gli
antifascisti deploravano un accordo che costituiva una grande
vittoria morale per il regime e rimproveravano al papa di averlo
legittimato affossando così la democrazia.
L'idillio sarà però di breve durata. Qualche settimana dopo la
conclusione degli accordi del Laterano, emersero le prime divergenze
sulla interpretazione, che porteranno, se non a una lotta aperta,
almeno a una tensione latente nei rapporti fra Chiesa e Stato.
6. Divergenze di interpretazione
Forte del prestigio conferitogli dal ruolo di restauratore degli
altari, Mussolini fu però irritato da alcune critiche: quelle
provenienti dagli intellettuali, delle quali si era fatto portavoce
B. Croce, ma anche quelle dei fascisti della prima ora, ex
anarco-sindacalisti anticlericali, futuristi, atei, spiriti forti
delle squadre di combattimento, i Rossoni, i Farinacci e i
Marinetti preoccupati per l'evoluzione del regime che andava
accentuando, col suo atteggiamento clericale, gli aspetti
reazionari o conservatori che gli avevano impresso un Federzoni e
ancor di più un Rocco. Forse Mussolini impostò una certa
interpretazione degli accordi del Laterano proprio per rispondere a
tali critiche, non sempre esplicitamente formulate.
Decise prima di tutto di sottoporli alla ratifica del Parlamento e,
in special modo, alla nuova Camera eletta in marzo. Il discorso che
pronunciò in questa occasione il 13 maggio di fronte ai deputati
gli permise di precisare il suo pensiero sulla funzione della
Chiesa nello Stato fascista. Prima di tutto affermò che nello Stato
non solo la Chiesa non era sovrana, ma non era nemmeno libera e che
non poteva esserlo perché la religione cristiana, nata in
Palestina, non sarebbe mai diventata qualcosa di diverso dalle
tante sette che fiorivano in Oriente se non fosse venuta a Roma e
non fosse diventata cattolica. Dell'universalismo cattolico egli
faceva dunque una semplice conseguenza della conquista romana,
subordinando esplicitamente il fatto religioso a quello politico.
Su queste basi, fece la storia del potere temporale dei papi
dimostrando che era esistito perché gli Stati lo avevano voluto.
Concluse il suo discorso con queste parole: «Noi non abbiamo
risuscitato il potere temporale dei papi, l'abbiamo seppellito».
Nella stessa occasione Mussolini riprese vari punti del Concordato,
limitandone la portata. Sottolineò, per esempio, che lo Stato si era
rifiutato di introdurre l'insegnamento religioso nelle scuole
superiori perché, in questo campo, «lo Stato fascista rivendica
totalmente il diritto di fissare le regole morali. È cattolico ma è
fascista, prima di tutto, esclusivamente, essenzialmente,
fascista».
Questo discorso le cui implicazioni superarono probabilmente le
vere intenzioni del Duce, era in completa contraddizione con ciò
che la Chiesa considerava essere lo spirito dell'accordo. Mussolini
concepiva le clausole del Concordato non come diritti acquisiti, ma
come concessioni revocabili fatte dallo Stato. Pio XI reagì
vigorosamente. Il 14 maggio, ricevendo gli allievi del collegio di
Mondragone, affermò che la missione di educare apparteneva in primo
luogo alla Chiesa e alla famiglia e non esitò a biasimare il regime
che si proponeva di educare «futuri conquistatori». Il 30 maggio, in
una lettera al cardinal Gasparri, rispose poi, punto per punto, al
discorso di Mussolini. Denunciò il carattere quasi eretico delle
espressioni concernenti le origini del cristianesimo, respinse la
subordinazione della Chiesa allo Stato, affermò la libertà di
quest'ultima e ricordò che il cattolicesimo era la religione dello
Stato, il che escludeva, in campo religioso, sia la piena libertà
di discussione sia la libertà assoluta delle coscienze. Infine, egli
riaffermò che la nomina dei vescovi richiedeva da parte dello Stato
un parere, non una autorizzazione. Risposte tradizionali a un
problema che riproponeva lo storico conflitto fra il papato e
l'impero. Comunque quando il 7 giugno gli accordi vennero
ratificati, le interpretazioni avanzate da entrambe le parti
permisero di dissimulare le ambiguità che il trattato conteneva e
che le crisi degli anni successivi avrebbero messo in evidenza.
7. La crisi del 1931
L'indomani della definitiva firma degli accordi, mentre si
succedevano in Vaticano le visite ufficiali che siglavano la
riconciliazione, iniziò una campagna rivolta contro le
organizzazioni dell'Azione cattolica, soprattutto quelle
giovanili. Qualche settimana dopo apparve un opuscolo a firma
«Ignotus», pubblicato dalle edizioni del PNF, che si presentava
come un virulento libello contro le pretese della Chiesa di
monopolizzare l'educazione della gioventù. Il 31 dicembre 1929, a
una enciclica pontificia che precisava la dottrina cristiana in
materia, Mussolini rispose rivendicando allo Stato totalitario il
compito di formare i giovani.
Tale polemica nascondeva in realtà la volontà del regime di far
sparire tutte le organizzazioni suscettibili di far concorrenza al
partito. D'altra parte gli atti di violenza ripresero ben presto
contro le organizzazioni cattoliche, mentre si intrapresero campagne
di stampa che mettevano in discussione l'azione sociale di tali
organizzazioni e la purezza dei loro costumi. Nel marzo 1931, «Il
Lavoro fascista», organo del sindacalismo e del corporativismo
ufficiali, denunciò lo spirito di fronda dei cattolici e accusò
l'istituto cattolico di praticare attività sociali che tendevano a
invadere il campo d'azione del corporativismo. Qualche giorno più
tardi, la Federazione romana della Gioventù cattolica decise la
creazione di un segretariato operaio che avrebbe dovuto occuparsi
della formazione tecnica dei suoi membri operai ed assisterli sul
piano sociale. Il «Lavoro fascista» denunciò il «lavoro sotterraneo»
svolto dai cattolici, mentre il quotidiano fascista «La Tribuna»
accusò l'Azione cattolica di voler resuscitare il defunto PPI e
denunciò la sua esistenza come pericolosa per il regime.
In termini pressappoco simili, nell'aprile 1931, si espresse il
segretario dei PNF Giuriati in un discorso pronunciato a Milano. Il
papa, che temeva la liquidazione totale di tutte le organizzazioni
cattoliche, reagì vivamente. Il 26 aprile, in una lettera
all'arcivescovo di Milano, il cardinale Schuster, dichiarò che
l'Azione cattolica era parte integrante della missione della
Chiesa, e che non poteva quindi tenersi ai margini del campo
operaio e sociale, riaffermando nel contempo il diritto della
Chiesa a educare i giovani. Alludendo al carattere totalitario
dello Stato, egli stabilì una sottile distinzione fra totalitarismo
soggettivo (in rapporto a se stesso) che costringerebbe tutti i
cittadini a obbedire integralmente allo Stato fascista, nel campo
politico e amministrativo, e il totalitarismo oggettivo che si
estenderebbe al campo morale, familiare, spirituale e che non va
riconosciuto allo Stato nella misura in cui «il fascismo si
dichiara e si vuole cattolico». Applicando tale distinzione al
campo sociale, il papa dichiarava che la forma corporativa
dell'organizzazione sociale si giustificava col totalitarismo
soggettivo applicato alla società civile, ma che l'Azione cattolica
poteva sopravvivere perché la sua funzione era di carattere
spirituale.
Tali sottigliezze giuridiche non fermarono le violenze, che
aumentarono a partire dal maggio 1931. Vennero attaccati edifici e
militanti dell'AC, si profanarono crocifissi e immagini pie, mentre
i fascisti lanciavano maledizioni e cantavano canzoni oscene e
invasero persino il palazzo della Cancelleria pontificale. Il 30
maggio, nonostante le proteste della Santa Sede, venne decretato lo
scioglimento di tutte le organizzazioni giovanili che non facevano
parte dell'ONB.
Il conflitto raggiunse il culmine il 5 luglio 1931 con la
pubblicazione dell'enciclica Non abbiamo bisogno. Essa denunciò la
campagna orchestrata dal regime contro le organizzazioni
cattoliche, le calunnie lanciate dalla stampa del partito, il
discorso pronunciato a Milano da Giuriati. Il papa accusava il
regime di voler monopolizzare l'educazione della gioventù per
condurla verso un'ideologia pagana fondata sulla statolatria,
violando così i diritti naturali della famiglia e della Chiesa, e
dichiarava che tale concezione era in contraddizione formale con la
dottrina cattolica. Egli condannava la formula del giuramento
prestato dai giovani fascisti, giuramento di odio e di violenza;
tenuto conto del periodo storico e della necessità di appartenere
alle organizzazioni fasciste per guadagnarsi il pane, autorizzò i
giovani a prestarlo, ma con la riserva mentale «salve le leggi di
Dio e della Chiesa». Questa violenta condanna era però attenuata
dalla affermazione finale che il discorso papale intendeva solo
mettere il regime in guardia contro atteggiamenti incompatibili col
cattolicesimo. In altri termini, il papa intendeva bloccare le
minacce che pesavano sull'AC, ma non voleva la rottura, come del
resto non la voleva Mussolini. Il conflitto si concluse quindi con
un compromesso. Il papa riorganizzò l'AC eliminando i dirigenti
sospetti di essere ostili al fascismo, la sottopose direttamente
all'autorità dei vescovi e le vietò l'azione sindacale. I circoli
giovanili poterono sopravvivere a condizioni di avere come sola
bandiera quella nazionale e di non praticare attività sportive. Da
parte sua Mussolini eliminò Giuriati, troppo compromesso nella
vicenda, e accettò la sopravvivenza dell'AC nella misura in cui
essa limitava le sue attività al campo strettamente religioso.
La crisi del 1931 rivelò quindi l'incompatibilità di principio fra
fascismo e cristianesimo. Ma dimostrò anche che il papa e Mussolini
traevano entrambi troppi vantaggi dalla reciproca intesa per
romperla. Per qualche anno la situazione si mantenne calma, finché
l'evoluzione del regime provocò una nuova tensione dovuta a
questioni dottrinarie.
8. Verso la rottura?
Dopo il 1931 le ragioni di conflitto furono messe a tacere mentre
la massa dei cattolici aderiva al regime. Se il papa o
1'«Osservatore romano» qualche volta esprimevano riserve sulla
teoria dello spazio vitale, per esempio, ai tempi della guerra
d'Etiopia, la maggioranza dei membri del clero l'approvava. I
giornali cattolici consideravano le truppe fasciste come missionarie
della fede in terra africana. La guerra di Spagna non suscitò
maggiori opposizioni. Il papa deplorò certamente la guerra civile,
ma la massa dei fedeli e del clero approvavano Mussolini nel suo
sostegno a Franco. In questo periodo le poche riserve provenivano
essenzialmente dal pontefice, e non riguardavano specificamente il
fascismo italiano. Esse si trasformeranno però con l'evoluzione di
quest'ultimo.
L'irrigidimento del regime fascista, il suo allineamento sul nazismo
e la situazione che la Chiesa subiva nel III Reich indussero il papa
a pronunciare nel 1936 parole severe nei confronti del razzismo e
del totalitarismo nazista. Tale condanna sfociò il 14 marzo 1937
nell'enciclica Mit Brennender Sorge che stigmatizzò la profonda
incompatibilità fra cristianesimo e pratiche naziste. Quando nel
maggio 1938 Hitler venne a Roma, l'atteggiamento di Pio XI fu
nettamente ostile. L'«Osservatore romano» non parlò della visita,
il Vaticano restò chiuso e il papa partì per Castelgandolfo. Il suo
solo commento fu che gli rincresceva aver visto a Roma una croce
diversa da quella di Cristo; il suo atteggiamento era già una
riprovazione della politica di avvicinamento fra Italia e Germania.
Ma nell'autunno del 1938 il fascismo italiano cominciò a mettersi
alla scuola del nazismo adottando una legislazione razziale e
antisemita, che, secondo l'espressione di Bottai, tendeva non a
umiliare gli ebrei ma a separarli dagli altri italiani. Il papa
reagì immediatamente e, in una serie di discorsi pronunciati in
luglio, agosto e settembre, criticò il nazionalismo esasperato
verso il quale tendeva ormai il fascismo, la legislazione antisemita
e il concetto stesso di ineguaglianza razziale. Mussolini, irritato,
minacciò di rimettere in discussione l'accordo del 1931 ritenendo
che era ancora possibile impedire al pontefice di pronunciare una
condanna dottrinale minacciando le organizzazioni cattoliche.
Fra l'ottobre e il novembre 1938 il Gran Consiglio aggravò le
disposizioni della legislazione antisemita. Fra l'altro proibì i
matrimoni fra «ariani» e «non ariani» anche se la Chiesa li aveva
celebrati. Il papa protestò senza che Mussolini si degnasse di
rispondere. Con i primi mesi del 1939 la tensione si aggravò. Era
chiaro che il papa, dopo aver tergiversato, si era reso conto che
l'evoluzione del regime non poteva che portare alla rottura. Da
parte sua il Duce era stanco delle provocazioni pontificie e solo
l'azione di Ciano gli impedì di passare all'attacco aperto alla
Santa Sede. Nel febbraio 1939, la celebrazione del decimo
anniversario degli accordi del Laterano sembrò dover ratificare la
rottura. Pio XI convocò per l'occasione tutti i vescovi italiani e
diede loro lettura di un discorso che aveva preparato per
l'occasione. Ma morì il 10 febbraio, alla vigilia del giorno in cui
avrebbe dovuto pronunciarlo. Il manoscritto, ritrovato e reso
pubblico da Giovanni XXIII, dimostra che il testo pontificale, molto
severo col fascismo, era però ben lontano dal costituire una
condanna senza appello. Si trattava piuttosto del tentativo di dare
un colpo di freno, paragonabile a quello del 1931.
La condanna solenne temuta da Ciano non ebbe dunque luogo. Il
cardinale Eugenio Pacelli, eletto trionfalmente nel conclave del 2
marzo e che prese il nome di Pio XII, parve più conciliante del
predecessore nei riguardi del fascismo e dell'alleanza con la
Germania nazista. Il suo avvento segnò dunque una reale distensione
nei rapporti fra Stato e Chiesa, ma il regime non avrà il tempo di
trarre reale vantaggio da questo accostamento.